La questione scolastica è stata autorevolmente posta dal presidente del consiglio con abile parola, nella sua relazione al re per lo scioglimento della camera: «Nuovo indirizzo, egli ha detto, dovrà darsi al più alto coefficiente di civiltà, di grandezza morale, di prosperità per un popolo: alla scuola. Inve¬terate abitudini, inveterati pregiudizi, interessi particolari han¬no impedito finora qualsiasi seria riforma, quantunque la opi¬nione pubblica e gli insegnanti più competenti ne abbiano proclamato l’urgenza in tutti gli ordini di scuole, ma specialmente nelle scuole medie, in stridente contrasto con i bisogni della vita moderna. Per singolare fenomeno, uomini che in ogni altro campo invocano la libertà, nella scuola la combattono. Lo stato deve avere l’alta direzione dell’insegnamento e controllarlo con l’esame di stato, ma non deve sopprimere ogni legittima attività che nell’insegnamento apporti sicuri elementi di progresso. Il problema della scuola non fu mai seriamente affrontato dal parlamento. Auguriamo che il corpo elettorale ne imponga il serio studio alla nuova rappresentanza nazionale». La battaglia data dal partito popolare italiano sull’esame di stato resterà a ricordo dei nostri fasti, e fu battaglia santa. Qualcuno non comprende tanto il nostro fervore per una riforma soltanto tecnica e a portata limitata, quale è l’esame di stato. Per noi è l’inizio di una ben più alta rivendicazione, la libertà di insegnamento. L’Italia in questa materia è alla coda delle nazioni civili; ha negato le sue stesse origini per il vieto pregiu¬dizio anticlericale; per questo asservì la scuola di stato alle influenze massoniche e ne volle creare un monopolio. Sottopose la scienza ufficiale all’influenza protestantica della Germania. Tollerò nelle scuole secondarie che fosse falsata la storia per deprimere l’istituto del romano pontificato, e credette accorgimento politico creare la scuola neutra e bandire dalle scuole elementari l’insegnamento del catechismo con formalismi ostruzionistici. È storia dolorosa di un traviamento spirituale, sostenuto in nome della patria, ai cui danni invece preparò il terreno atto alle teorie materialistiche ed al pervertimento comunistico del nostro popolo. Noi vogliamo la scuola libera per lasciare il diritto alla famiglia di salvaguardare la fede, la coscienza, l’educazione delle tenere generazioni italiane, non solo nel culto del bello, nel sentimento verso la patria, ma anche nella virtù e nella bontà quali le concepiamo noi, nella libertà della nostra coscienza, nella tradizione delle nostre famiglie, nella storia della nostra Italia, che è tradizione e storia viva del cattolicismo. Ma pensiamo che la scuola di stato debba anch’essa modificarsi e migliorare, e pensiamo che la libertà interna della scuola, il contatto maggiore con le famiglie, il decentramento scolastico, l’autonomia delle scuole superiori e dei programmi gioveranno a ridarle il contatto con la realtà, per essere vivificata come il gigante Anteo che risorgeva in forze appena toccava la terra. Anche il monopolio della scuola deve essere spezzato; e noi che siamo contro il monopolio in materia economica, in materia organizzativa, lo siamo ancora di più in materia scolastica. La vecchia struttura dello stato era o doveva essere basata sulla libertà; però cominciò con opprimere la scuola creando il monopolio delle scuole di stato, asservito alle correnti delle sètte segrete, che fecero il loro nido presso la Minerva; quindi procedette a opprimere le organizzazioni libere, sottoponendole al monopolio socialista, annidatosi presso i ministeri economici; infine è arrivato col monopolio economico a combattere l’economia libera, sottoposta alla burocrazia statale; triplice catena che noi dobbiamo spezzare per il risanamento morale, organico ed economico del popolo italiano.
Evitò con la commissione paritetica la soluzione tragica dell’occupazione delle fabbriche; col decreto Micheli cercò di fare argine all’occupazione delle terre; ed ebbe abile diversivo allo stato incombente di incertezze e di torbidi con le elezioni amministrative, nelle quali la borghesia si fece coraggio e tentò riprendere con i blocchi la sua posizione nelle grandi città. È il terzo elemento che entra in azione. La occupazione delle fabbriche aveva avuto episodi tragici e felini; la bestia umana riprende i suoi perversi istinti, quando cessano improvvisamente di operare i freni inibitori della società. Le bombe di Bologna e di Ferrara dànno il segnale ad una energica azione di resistenza sul terreno difficile e scabroso dell’esercizio del coraggio collettivo, di fronte alla violenza armata. Non era la lotta sul campo economico tra la borghesia e il proletariato, che aveva avuto bagliori di sangue, ma l’impostazione era data da un movimento di liberazione da un dominio, il dominio rosso, che dal semplice campo economico era trasportato a quello sociale e politico, e doveva preparare il crollo dell’attuale regime, auspice la Russia. Il fascismo può essere giudicato sotto diversi punti di vista: quello morale, quello economico e quello politico; non è e non può essere un partito, nel senso che possa avere una sottostruttura programmatica, che attinga ad una vita propria autonoma. È invece un fenomeno di difesa e di reazione, che attinge la forza nello spirito di conservazione delle condizioni e delle ragioni dell’ordinamento avito nazionale, contro coloro che ne¬gano la patria per l’internazionale, che negano il diritto degli altri per il monopolio di una classe. In questo spirito avrebbero consenzienti nelle provincie tutti coloro che non sono socialisti; ma quando arrivano a creare una organizzazione, a darsi un programma, ad assegnarsi una tattica, mancando il terreno positivo, restano alla superficie del fenomeno, non pervadono le fibre sociali, e si appoggiano in ogni regione d’Italia a tutte le frazioni democratiche e liberali che da anni sono gli esponenti della vita pubblica italiana. La balda giovinezza, che e stata attratta dal movimento con ardore e impeto e anche con le esagerazioni che sono naturali in simile azione, non si deve confondere con tutti quelli che fanno uso della violenza, e che al turbamento della nostra vita politica hanno aggiunto le dolorose esperienze della lotta fratricida e i tristi bagliori dell’incendio. Molti si sono domandati se, data la mancanza di senso di autorità da parte dello stato verso il prepotere socialista e comunista, era possibile ai cittadini riavere la loro libertà, il loro diritto di vivere, la loro posizione legale, in alcune provincie italiane, senza questo spirito di reazione coraggiosa e violenta insieme. La domanda non può avere una risposta adeguata, perché, mentre non è teoria morale quella del fine che giustifica i mezzi, non è teoria sociale quella che inverte i poteri pubblici, e passa ai semplici cittadini ciò che spetta agli organi punitivi e repressivi dello stato; né può confondersi lo stato anarcoide di alcune provincie con lo spirito e l’organismo della vita nazionale. La debolezza degli organi statali, specialmente nelle provincie rosse, faceva parte di un quadro di politica interna che non è solo colpa di un uomo, ma che è la risultante di cause molteplici e complesse. I partiti costituzionali che non seppero nel marzo 1920 unirsi con i popolari quando, dopo gli scioperi rossi, uscirono dal ministero Nitti e segnarono come primo dei nove punti famosi: «politica interna di rispetto alla libertà individuale e collettiva e di salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine sociale», debbono confessare di non avere aiutato sufficientemente i poteri pubblici, né creato una pubblica opinione e una coscienza antirivoluzionaria, non quando disertarono le urne, né quando resero inerte il parlamento ad affrontare e risolvere i problemi economici più impellenti, primo quello agrario, che avrebbe impedito tante dolorose agitazioni e tristi esperienze nel campo economico e sociale. La reazione non può essere un semplice fenomeno di forza bruta, né solo un esercizio di coraggio, né può tramutarsi in guerra civile. Per questo le elezioni generali oggi sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. E il punto di partenza, come epilogo delle tormentose ore della XXV legislatura, è e deve essere questo: il ripristino della legalità, il ritorno all’autorità civile e politica dello stato, la eguaglianza di tutti i citta¬dini e la libertà per tutti. Questo deve essere riconosciuto nell’esperimento delle presenti elezioni generali, perché la XXVI legislatura non venga fuori originalmente viziata; la XXV legislatura fu figlia della paura e del disinteresse di una parte della borghesia assenteista, e diede quindi buon gioco ai socialisti a credersi essi i dominatori e a preparare il loro avvento anche violento; non deve la XXVI legislatura essere la figlia della violenza, sì che il responso delle urne prepari una reazione torbida e cieca nel cozzo di passioni più che nel legittimo contrasto di idee e di interessi. Per potere ottenere ciò, non basta il buon volere dei capi dei partiti, non sempre né dappertutto responsabili dell’andamento della lotta; né è sufficiente, benché sia notevole, l’ambientazione data dalla propaganda di coloro, che a masse eccitate in momenti passionali ricordino il celebre motto: sunt certi denique fines; vi è un limite! Le passioni elettorali tanto più soverchiano, quanto meno vivo è il senso della legge, quanto meno sensibili sono i freni morali e legali alle azioni umane, quanto più forte spingono gli interessi al prevalere e al prepotere delle fazioni. Occorre quindi l’autorità del governo e un ambiente {{176}}civile che la imponga; si deve arrivare a rettificare lo spirito pubblico e a orientarlo verso il senso civile della lotta e verso termini programmatici e sostanziali ai quali ispirare l’azione dei partiti. E noi popolari dobbiamo non solo augurare che sia così, ma cooperare a che la impostazione della nostra battaglia venga fatta su questo terreno, con metodi, con intendimenti, con azione essenzialmente civili.
Ciò in grazia del robusto ed abile ordinamento burocratico dello Stato germanico. Ma di regola i governi sono disadatti all'esercizio diretto di una industria che immobilizza capitali enormi in imprese di un reddito irregolarissimo e aleatorio, a meno che non si tratti di miniere antiche, ricche, commercialmente bene assodate.
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In tali casi, se l'atto nostro è pur sempre dall'interno, e preceduto da rappresentazioni che lo fanno consapevole del suo termine, e taluni effetti di esso possono esserci imputati a merito o a colpa, sta pure nel fatto che la nostra persona morale, quasi indifferente ed assente, non agisce con deliberazione e quindi con una piena libertà; e noi siamo in qualche modo uno specchio od un'eco delle cose esteriori, viviamo in funzione di esse, trascinati senza resistenza dal abile corso degli eventi, vissuti quasi da questi, più che ricchi di una nostra vita interiore. Questo stato di infanzia, di sonno dell'anima, di servile dipendenza dalle cose esteriori è purtroppo, per la massima parte degli uomini, la condizione di tutta la vita; vita poco umana, ancora, e poco civile.
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La questione scolastica è stata autorevolmente posta dal presidente del consiglio con abile parola, nella sua relazione al re per lo scioglimento della camera: «Nuovo indirizzo, egli ha detto, dovrà darsi al più alto coefficiente di civiltà, di grandezza morale, di prosperità per un popolo: alla scuola. Inve¬terate abitudini, inveterati pregiudizi, interessi particolari han¬no impedito finora qualsiasi seria riforma, quantunque la opi¬nione pubblica e gli insegnanti più competenti ne abbiano proclamato l’urgenza in tutti gli ordini di scuole, ma specialmente nelle scuole medie, in stridente contrasto con i bisogni della vita moderna. Per singolare fenomeno, uomini che in ogni altro campo invocano la libertà, nella scuola la combattono. Lo stato deve avere l’alta direzione dell’insegnamento e controllarlo con l’esame di stato, ma non deve sopprimere ogni legittima attività che nell’insegnamento apporti sicuri elementi di progresso. Il problema della scuola non fu mai seriamente affrontato dal parlamento. Auguriamo che il corpo elettorale ne imponga il serio studio alla nuova rappresentanza nazionale». La battaglia data dal partito popolare italiano sull’esame di stato resterà a ricordo dei nostri fasti, e fu battaglia santa. Qualcuno non comprende tanto il nostro fervore per una riforma soltanto tecnica e a portata limitata, quale è l’esame di stato. Per noi è l’inizio di una ben più alta rivendicazione, la libertà di insegnamento. L’Italia in questa materia è alla coda delle nazioni civili; ha negato le sue stesse origini per il vieto pregiu¬dizio anticlericale; per questo asservì la scuola di stato alle influenze massoniche e ne volle creare un monopolio. Sottopose la scienza ufficiale all’influenza protestantica della Germania. Tollerò nelle scuole secondarie che fosse falsata la storia per deprimere l’istituto del romano pontificato, e credette accorgimento politico creare la scuola neutra e bandire dalle scuole elementari l’insegnamento del catechismo con formalismi ostruzionistici. È storia dolorosa di un traviamento spirituale, sostenuto in nome della patria, ai cui danni invece preparò il terreno atto alle teorie materialistiche ed al pervertimento comunistico del nostro popolo. Noi vogliamo la scuola libera per lasciare il diritto alla famiglia di salvaguardare la fede, la coscienza, l’educazione delle tenere generazioni italiane, non solo nel culto del bello, nel sentimento verso la patria, ma anche nella virtù e nella bontà quali le concepiamo noi, nella libertà della nostra coscienza, nella tradizione delle nostre famiglie, nella storia della nostra Italia, che è tradizione e storia viva del cattolicismo. Ma pensiamo che la scuola di stato debba anch’essa modificarsi e migliorare, e pensiamo che la libertà interna della scuola, il contatto maggiore con le famiglie, il decentramento scolastico, l’autonomia delle scuole superiori e dei programmi gioveranno a ridarle il contatto con la realtà, per essere vivificata come il gigante Anteo che risorgeva in forze appena toccava la terra. Anche il monopolio della scuola deve essere spezzato; e noi che siamo contro il monopolio in materia economica, in materia organizzativa, lo siamo ancora di più in materia scolastica. La vecchia struttura dello stato era o doveva essere basata sulla libertà; però cominciò con opprimere la scuola creando il monopolio delle scuole di stato, asservito alle correnti delle sètte segrete, che fecero il loro nido presso la Minerva; quindi procedette a opprimere le organizzazioni libere, sottoponendole al monopolio socialista, annidatosi presso i ministeri economici; infine è arrivato col monopolio economico a combattere l’economia libera, sottoposta alla burocrazia statale; triplice catena che noi dobbiamo spezzare per il risanamento morale, organico ed economico del popolo italiano.
Evitò con la commissione paritetica la soluzione tragica dell’occupazione delle fabbriche; col decreto Micheli cercò di fare argine all’occupazione delle terre; ed ebbe abile diversivo allo stato incombente di incertezze e di torbidi con le elezioni amministrative, nelle quali la borghesia si fece coraggio e tentò riprendere con i blocchi la sua posizione nelle grandi città. È il terzo elemento che entra in azione. La occupazione delle fabbriche aveva avuto episodi tragici e felini; la bestia umana riprende i suoi perversi istinti, quando cessano improvvisamente di operare i freni inibitori della società. Le bombe di Bologna e di Ferrara dànno il segnale ad una energica azione di resistenza sul terreno difficile e scabroso dell’esercizio del coraggio collettivo, di fronte alla violenza armata. Non era la lotta sul campo economico tra la borghesia e il proletariato, che aveva avuto bagliori di sangue, ma l’impostazione era data da un movimento di liberazione da un dominio, il dominio rosso, che dal semplice campo economico era trasportato a quello sociale e politico, e doveva preparare il crollo dell’attuale regime, auspice la Russia. Il fascismo può essere giudicato sotto diversi punti di vista: quello morale, quello economico e quello politico; non è e non può essere un partito, nel senso che possa avere una sottostruttura programmatica, che attinga ad una vita propria autonoma. È invece un fenomeno di difesa e di reazione, che attinge la forza nello spirito di conservazione delle condizioni e delle ragioni dell’ordinamento avito nazionale, contro coloro che ne¬gano la patria per l’internazionale, che negano il diritto degli altri per il monopolio di una classe. In questo spirito avrebbero consenzienti nelle provincie tutti coloro che non sono socialisti; ma quando arrivano a creare una organizzazione, a darsi un programma, ad assegnarsi una tattica, mancando il terreno positivo, restano alla superficie del fenomeno, non pervadono le fibre sociali, e si appoggiano in ogni regione d’Italia a tutte le frazioni democratiche e liberali che da anni sono gli esponenti della vita pubblica italiana. La balda giovinezza, che e stata attratta dal movimento con ardore e impeto e anche con le esagerazioni che sono naturali in simile azione, non si deve confondere con tutti quelli che fanno uso della violenza, e che al turbamento della nostra vita politica hanno aggiunto le dolorose esperienze della lotta fratricida e i tristi bagliori dell’incendio. Molti si sono domandati se, data la mancanza di senso di autorità da parte dello stato verso il prepotere socialista e comunista, era possibile ai cittadini riavere la loro libertà, il loro diritto di vivere, la loro posizione legale, in alcune provincie italiane, senza questo spirito di reazione coraggiosa e violenta insieme. La domanda non può avere una risposta adeguata, perché, mentre non è teoria morale quella del fine che giustifica i mezzi, non è teoria sociale quella che inverte i poteri pubblici, e passa ai semplici cittadini ciò che spetta agli organi punitivi e repressivi dello stato; né può confondersi lo stato anarcoide di alcune provincie con lo spirito e l’organismo della vita nazionale. La debolezza degli organi statali, specialmente nelle provincie rosse, faceva parte di un quadro di politica interna che non è solo colpa di un uomo, ma che è la risultante di cause molteplici e complesse. I partiti costituzionali che non seppero nel marzo 1920 unirsi con i popolari quando, dopo gli scioperi rossi, uscirono dal ministero Nitti e segnarono come primo dei nove punti famosi: «politica interna di rispetto alla libertà individuale e collettiva e di salda resistenza agli elementi di disgregazione anarchica della compagine sociale», debbono confessare di non avere aiutato sufficientemente i poteri pubblici, né creato una pubblica opinione e una coscienza antirivoluzionaria, non quando disertarono le urne, né quando resero inerte il parlamento ad affrontare e risolvere i problemi economici più impellenti, primo quello agrario, che avrebbe impedito tante dolorose agitazioni e tristi esperienze nel campo economico e sociale. La reazione non può essere un semplice fenomeno di forza bruta, né solo un esercizio di coraggio, né può tramutarsi in guerra civile. Per questo le elezioni generali oggi sono un punto di partenza e non un punto di arrivo. E il punto di partenza, come epilogo delle tormentose ore della XXV legislatura, è e deve essere questo: il ripristino della legalità, il ritorno all’autorità civile e politica dello stato, la eguaglianza di tutti i citta¬dini e la libertà per tutti. Questo deve essere riconosciuto nell’esperimento delle presenti elezioni generali, perché la XXVI legislatura non venga fuori originalmente viziata; la XXV legislatura fu figlia della paura e del disinteresse di una parte della borghesia assenteista, e diede quindi buon gioco ai socialisti a credersi essi i dominatori e a preparare il loro avvento anche violento; non deve la XXVI legislatura essere la figlia della violenza, sì che il responso delle urne prepari una reazione torbida e cieca nel cozzo di passioni più che nel legittimo contrasto di idee e di interessi. Per potere ottenere ciò, non basta il buon volere dei capi dei partiti, non sempre né dappertutto responsabili dell’andamento della lotta; né è sufficiente, benché sia notevole, l’ambientazione data dalla propaganda di coloro, che a masse eccitate in momenti passionali ricordino il celebre motto: sunt certi denique fines; vi è un limite! Le passioni elettorali tanto più soverchiano, quanto meno vivo è il senso della legge, quanto meno sensibili sono i freni morali e legali alle azioni umane, quanto più forte spingono gli interessi al prevalere e al prepotere delle fazioni. Occorre quindi l’autorità del governo e un ambiente {{176}}civile che la imponga; si deve arrivare a rettificare lo spirito pubblico e a orientarlo verso il senso civile della lotta e verso termini programmatici e sostanziali ai quali ispirare l’azione dei partiti. E noi popolari dobbiamo non solo augurare che sia così, ma cooperare a che la impostazione della nostra battaglia venga fatta su questo terreno, con metodi, con intendimenti, con azione essenzialmente civili.
E così, mentre ieri il più abile giornalista era colui che metteva più foga e più abilità nel promuovere una propaganda sua, oggi il più abile giornalista è colui che, privo di idee e di passioni proprie, ha l'orecchio vigile ad udire e l'occhio acuto a discernere ogni movimento che sale dall'anima profonda della folla e di incosciente fa quel sentimento cosciente, sì che il popolo ritrova sé medesimo in quello, e lo dilucida e lotta per esso e lo fa prevalere.
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Esso sorse da questa curiosa situazione: l'inettitudine della maggioranza a dare un ministero serio abile vitale; inettitudine che risultò evidente alla presentazione dal secondo ministero Fortis, e che si impose siffattamente alla Camera da provocare l'immediata caduta di quel ministero, indice lacrimevole, certo e spontaneo, dei peggiori difetti che hanno caratterizzato l'azione di governo dopo le elezioni generali del novembre 1904. Non poteva, la maggioranza che si era così tenacemente raccolta intorno all'on. Fortis, e che era giunta pochi mesi innanzi a riconfermargli la fiducia mentre ne respingeva una proposta per la quale la Camera era stata convocata di urgenza in piena estate, raccogliere ancora una volta il potere così miseramente cadutole di mano; e questo passò, per legittimo diritto di conquista, al capo dell'opposizione costituzionale, on. Sonnino.
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Poi, forse, sacerdoti, per qualche tempo, fuori del seminario, hanno iniziato insieme con il ministero il laborioso esercizio di «manutenzione» — la parola felice è di Quiquondam — di quel loro voto e della vita sacerdotalmente celibe: sacramenti quotidiani e settimanali, recita del breviario e di altre molte orazioni, sorveglianza assidua dei superiori, vita in canonica, esercizi spirituali frequenti, abile giuoco di lusinghe e di minacce — poiché, accanto al voto di castità, c'è quello di obbedienza al vescovo, che può darvi o un ricco beneficio in città o una miserabile coadiutoria in montagna, e via dicendo.
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La camera presente è fra le peggiori che si siero avute, per indolenza, per inettudine grandi discussioni, per servilità verso un uomo politico mediocre, ma abile parlamentare ed abile manipolatore di clientele politiche, come l'on. Giolitti. Ora ciò è precisamente dovuto all'intervento dei clericali.
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Dopo il grande sforzo fatto per abolire il potere temporale dei papi, 1'Italia moderna, sistemati in maniera abbastanza abile i suoi rapporti col pontificato e con la Chiesa, non aspira certamente a nuovi passi in avanti: molto più che, se nella sua precedente politica ebbe consenzienti molte coscienze religiose, questa volta le avrebbe tutte contro. Inoltre l'anticlericalismo di governo condurrebbe a una lotta immediata con la Santa Sede; il prestigio e l'influenza di questa nella vita internazionale, se vanno rapidamente diminuendo, sono forse ancora tali da poter creare seri imbarazzi all'Italia, qualora fosse fra i due lotta decisa e aperta. Si può dire dunque che, da questa parte, i cattolici che vanno in parlamento sfondano una porta aperta; c'è pericolo, anzi, che la loro presenza nuoccia piuttosto chegiovare, poiché quella che nei nostri governi fu sinora considerata come abilità politica e buon senso italiano, rischierebbe d'essere considerata come condiscendenza a un partito clericale, e può quindi provocare più forti e immediate reazioni anticlericali. Per questo, forse, il Vaticano ha mostrato di comprendere, prima e dopo l'abolizione del nonexpedit,cheun partito cattolico in parlamento potrebbe essere d'impaccio e non di vantaggio, e lo teme anche oggi, mentre non può oramai più impedire che esso si costituisca.
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La guerra mossa alla Chiesa si impiccoliva, ai loro occhi, in una congiura settaria di pochi; e le parole di qualche Ministro abile facevano presto a rassicurarli. Tutto, nella tradizione del loro ufficio e nelle conversazioni dei cattolici che frequentavano, li induceva a credere che la lotta religiosa fosse un affare politico, da risolvere con mezzi politici. Ma poi i mezzi politici che essi mettevano in uso erano radicalmente viziati del sospetto che investiva la Chiesa ed i suoi rappresentanti, di tendenze e di amori anticostituzionali. Essi si fecero eco, presso il Vaticano, delle animosità, dei rancori, delle passioni che si accompagnavano alla ricerca degli onori e degli alti ufficii, tentazione così forte per ogni cuore francese; contribuirono così a rassodare l'autorità gelosa e sospettosa dei capi, a spargere il sospetto intorno ai migliori, a diminuire a questi — se alcuno riescì ad occupare alti posti, fu piuttosto per effetto dell'ingerenza governativa — il terreno di azione.
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O una poco abile manovra? che ad una Italia e ad una monarchia forti fosse più facile venire ad accordi col papato, e definire amichevolmente la questione del possesso della città setticolle. Così la Santa Sede mantiene il non expedit: ma vedremo innanzi in qual modo e con quale scopo.
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E il suo lavoro di propaganda è anche tutto in quella idea nella quale egli ebbe tanta fede e pochissimi altri ebbero fede: poiché egli non fu un organizzatore, un suscitatore di volontà, un abile inventore di risorse e di espedienti; e non lascia ricordi spirituali. Il suo sogno finisce con lui.
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