Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandona

Numero di risultati: 93 in 2 pagine

  • Pagina 1 di 2

Della scultura e della pittura in Italia dall'epoca di Canova ai tempi nostri

251521
Poggi, Emilio 1 occorrenze
  • 1865
  • Tipografia toscana
  • Firenze
  • critica d'arte
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E ogni qual volta corredato Egli di quei precetti, ci rappresenterà alcune scene domestiche e costumi popolari, dovrà far sì che l'intelligente e l'amatore ritrovino in esse la semplice naturalezza ed espressione che sono in indispensabili in tali pitture, è che giammai si rinvengono in quelle trattate da alcun giovani odierni, i quali, affatto privi dei buoni fondamenti e degli studj necessarj per riprodurre senza stento e con intelligenza le scene che la natura pone loro davanti, si fanno simili allo inesperto nocchiero che abbandona il naviglio al capriccioso elemento, nè sa quale spiaggia lo accoglierà, o se uno scoglio ne squarcerà il fianco e lo avvolgerà nell'oblio.

Pagina 60

La pittura moderna in Italia ed in Francia

252790
Villari, Pasquale 2 occorrenze
  • 1869
  • Stabilimento di Gius. Pellas
  • Firenze
  • critica d'arte
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Qualche cosa di simile voi trovate nell’arte, che sa essere graziosa, pittoresca, intelligente; che conosce tutti i misteri di quello che chiamano effetto; ma essa non si abbandona mai, elle ne s’oublie jamais. Eppure quale infinita ricchezza non ci presenta quest’arte? Qui è una scena fantastica di Arabi nel deserto, che volano sui loro destrieri; più oltre pacifici contadini della Bretagna, che mietono al cader del sole; qui gli Highlands della Scozia che si difendono coi loro armenti contro l’infuriare della tempesta; più avanti è un’odalisca voluttuosamente sdraiata, e accanto una battaglia sanguinosa, e dopo una madre che piange sulla tomba del figlio, una grisette che aspetta l’amante, un’orgia del bal Mabille. Un artista ha una intonazione splendida, ed uno l’ha grigia e tranquilla; uno mira al colore, l’altro all’effetto, l’altro al disegno; l’uno abbozza e l’altro vuol raggiungere il finito della miniatura. Eppure, in tanta varietà v’è come una grandissima uniformità. L’arte e la vita si sono divise nei loro infiniti elementi, e ogni artista si direbbe che miri a trattarne uno solo, e dimentichi spesso che la difficoltà principale e la principale grandezza dell’arte, sta nel trovare e far vedere in ciascun soggetto tutto l’uomo, tutta l’unità e l’infinita ricchezza della vita. Questi artisti, è vero, variano all’infinito i soggetti, e anche la maniera; ma la loro lira sembra avere una corda sola, onde in così grande varietà v’è pure una monotonia che stanca.

Pagina 20

Abbandona i soggetti greci e romani, per volgersi al medio-evo, che era il mondo in cui anche la letteratura cercava una via che l’allontanasse dalle convenzioni classiche, e da ima realtà che opprimeva e sgomentava. Ma, se in questo modo l’arte s’era messa dietro al risorgimento letterario; onde contribuire anch’essa alla restaurazione dello spirito nazionale, l'Hayez non ebbe l’audace coraggio del Manzoni. Egli non si gettò nello studio del vero e della natura umana con quella stessa franchezza, non ebbe la medesima fede che ivi poteva trovare la sorgente inesausta d’un nuovo ideale; onde qualche volta lo vediamo cadere in un sentimentalismo romantico, contentarsi d’una esecuzione gentile, elegante, ma non abbastanza energica ed originale. Egli resta un capo-scuola che fa risorgere l’arte italiana, inizia la pittura moderna, la scuola storica fra noi; ma i suoi seguaci cercano la cifra della sua arte, e cadono nello chic che è un po’ il difetto della pittura milanese. L’Induno si dette ai quadri di genere, e anch’esso cercò il vero. La sua varia e gentile fantasia, il suo facile pennello sembrano ispirarsi ancora più direttamente alle scene del Manzoni; ne vogliono riprodurre la ingenua, nobile e vera espressione, descrivendo affetti ogni giorno veduti e sentiti nella vita domestica. Ogni ricordanza dell’Accademia è perduta nell’Induno. Ma la pittura di genere, appunto perchè esprime facili pensieri ed affetti notissimi, ha bisogno di colpirli in tutte le loro più fuggevoli gradazioni, nelle più istantanee espressioni. Ed ha bisogno per ciò di far prova d’una forza d’esecuzione straordinaria, altrimenti perde uno de’ suoi pregi principali. Ora l’Induno ha, senza dubbio al mondo, una immaginazione varia e felice, una facilità, d’esecuzione grandissima, una grazia in tutto ciò che dipinge; ma egli si ripete troppo, e la sua maniera a lungo andare stanca, perchè diviene monotona. La sua pittura manca di energia e di rilievo; essa introdusse un nuovo ed importante elemento nell’arte italiana; ma fece sorgere imitatori che vi cercarono e trovarono una cifra convenzionale, la quale riprodussero senza il merito e l’originalità del loro maestro. Così l’arte milanese non aveva trovato uno di quei geni che bastano a sollevare lo spirito di una nazione; ma l’Hayez fu pure il nobile veterano della nostra pittura moderna, colui che primo le accennava ed apriva una nuova strada.

Pagina 42

La storia dell'arte

252965
Pinelli, Antonio 1 occorrenze

La composizione a chiasmo, che ha nel Doriforo il suo più canonico paradigma, si basa su un complesso gioco di equilibri e bilanciamenti nella rappresentazione del corpo umano, che abbandona la rigida e inanimata frontalità delle statue arcaiche per articolarsi nello spazio, obbedendo però ad un rigoroso controllo di ogni sua misura e dimensione, in base all’assioma che la bellezza è espressione di rigorosi parametri aritmetici e proporzionali. Il chiasmo cui obbedisce il Doriforo si fonda su un gioco incrociato di contrapposizioni: alla gamba flessa e arretrata corrisponde, in alto, il braccio opposto disteso in tutta la sua lunghezza, mentre al braccio sinistro piegato si contrappone, in basso, la gamba destra portante. Contemporaneamente, all’inclinazione delle spalle corrisponde, in senso inverso, quella delle anche. Il canone policleteo conferiva alla statua un’apparenza di moto, che la rendeva simile ad un corpo vivente, testimoniando un procedimento artistico il conferimento dell’apparenza di movimento ad una statua di cui possiamo seguire l’evoluzione, a partire dalla rigidità quasi egizia dei kouroi arcaici (fig. 13), dove un primo accenno di moto e di precisazione anatomica si sviluppa semplicemente con l’avanzamento di una gamba rispetto all’altra e con la definizione più accurata della struttura del ginocchio, per giungere fino all’arditezza di pose come quella del Discobolo di Mirone, oppure, un secolo dopo Policleto, all’animata scioltezza delle sculture di Lisippo (fig. 14), che Fig. 12. Policleto, Doriforo, 450 a.C. ca., copia romana in marmo da originale in bronzo, Napoli, Museo Nazionale. Fig. 13. Kouros funerario di Kroisos, 530 a.C. ca., Atene, Museo Archeologico Nazionale. 14. Lisippo, Apoxyómenos, 320 a.C.ca., copia romana in mano da originale in bronzo, Città del Vaticano, Musei Vaticani. hanno programmaticamente forzato il sorvegliato equilibrio chiastico del canone policleteo.

Pagina 28

Le tre vie della pittura

255674
Caroli, Flavio 1 occorrenze

Giovanni Bellini, in un dipinto ben preciso, la Pala di Pesaro (fig. 5), eseguito tra il 1471 e il 1474, improvvisamente abbandona le sue origini di acribia disegnativa così profondamente legate a Mantegna, cambia completamente le carte in tavola, e inventa la pittura tonale. Infatti, è sufficiente osservare lo squarcio di entroterra veneto (fig. 6), i castelli che si stagliano contro il cielo classico, assoluto, composto, eppure splendente di luce e bellissimo, per comprendere che è avvenuto l’incrocio fra la grande tradizione del Nord Europa e la tradizione della pittura italiana. Per inciso, vuole la cronaca dei tempi che Antonello da Messina, che lavora in questi anni vicino a Giovanni Bellini, abbia importato dal Nord Europa la tecnica della pittura a olio, fornendo così al veneziano lo strumento risolutivo per far scintillare i colori come non poteva fare la pittura a tempera.

Pagina 13

Leggere un'opera d'arte

256558
Chelli, Maurizio 3 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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Nel primo, Ganimede è rappresentato come un giovane fanciullo che si abbandona alla presa dell’aquila, poggiando le braccia sulle sue ali; nel secondo è invece raffigurato come un bambino atterrito e piangente, sollevato con violenza dall’aquila che affonda gli artigli nella sua camiciola.

Pagina 152

A partire dal III secolo si abbandona del tutto l’uso di copiare i greci e nella ritrattistica si delineano nuove forme, tendenti ad accentuare taluni tratti potentemente espressivi, nell’ambito di una rielaborazione semplificata e quasi schematica del volto, come possiamo apprendere dal Ritratto virile o dal Ritratto di poeta tragico (figura 99), entrambi conservati nei Musei Capitolini, a Roma.

Pagina 166

Il nipote di Aertsen, Joachim Beuckelaer, abbandona il carattere moraleggiante a favore di una visione tutta profana, in cui i prodotti alimentari esibiti sembrano, per la loro abbondanza ed invadenza, sommergere la figura umana, come possiamo vedere nella Venditrice con frutta, verdure e pollame, conservata nello Staatliche Kunstsammlungen di Kassel (figura 129).

Pagina 196

L'arte contemporanea tra mercato e nuovi linguaggi

257059
Vettese, Angela 2 occorrenze

Si può addirittura parlare, come ha fatto Sarat Maharaj, di «etica della differenza», ovvero di un confronto continuo con l’altro che abbandona ogni senso di superiorità colonialista.

Pagina 117

In un rapporto d’amore fondato sulla libera scelta, in un tempo in cui il matrimonio non è più un contratto inscindibile ma una scelta reversibile, due persone si sorreggono a vicenda e sono vitali l'una per l’altra; ma se uno dei due perde il controllo o abbandona il gioco, il legame può rivelarsi mortale.

Pagina 28

Manifesti, scritti, interviste

257994
Fontana, Lucio 1 occorrenze

Queste opere che escono dalle categorie usuali e sono realizzate con materiali e mezzi offerti dalle scoperte della stessa civiltà attuale, propongono un’arte che nella variazione è continuamente immersa nel presente, un’arte che rifiuta la pretesa e usurata assolutezza dell'immagine per evidenziarne la relatività, che abbandona l’evocazione per la concretezza, che distrugge la forma e la ritrova nel movimento organico.

Pagina 66

Pop art

261450
Boatto, Alberto 1 occorrenze

Sempre più palesemente Dine introduce nella sua opera lo spessore dei suoi personalissimi umori, si abbandona a fare dei commenti attorno allo stato paradossale in cui gli oggetti e le immagini vengono a trovarsi sulla tela, come attorno alla grande libertà, ma anche debolezza, che possiede l’arte nei confronti dell’universo reale.

Pagina 87

Saggi di critica d'arte

261831
Cantalamessa, Giulio 1 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Il Francia ha avuto la fortuna di nascere a tempo; è stato come una pianta il cui sviluppo è particolarmente favorito dalle condizioni del terreno e del clima, nei cui succhi vitali circola una recondita virtù, e che, non aduggiata dalla vicinanza di vegetazioni anormali, si abbandona libera alla sua naturale espansione, producendo senza sforzo i suoi frutti. Non c’è stento sapiente che valga la spontaneità, non artificio che prenda appieno le parvenze della freschezza, non elaborato rigore di sillogismi che paghi l’efficacia d’una verità che prorompa schietta dall'animo, nella bellezza della sua semplicità, fulgente, per dir così, di lume suo proprio, non rischiarata da riverberi esteriori; come non c’è frutto di serra che raggiunga la fragranza, il sapore, il pregio del frutto maturato nella sua stagione e nel suo paese.

Pagina 13

Scritti giovanili 1912-1922

262395
Longhi, Roberto 1 occorrenze

Neppure bastavano gli sforzi di Masolino che se abbandona talora il suo colorismo superficiale che non procede oltre i suoi precursori del Trecento è solo per volgersi verso intenti di plasticità nel senso del chiaroscuro tradizionale Giotto-Masaccio.

Pagina 62

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266081
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Abbraccia con fervore una cosa, l’accarezza, l’ama più coi sensi che col fondo del cuore, ne gode fino all’ultimo, se ne sazia e la abbandona senza rammarico, senza rimembranza. Amante caldissimo, sinché ha Ottenuto i favori della sua bella, poi, come Don Giovanni, le volta le spalle, e s’invaghisce di un’altra.

Pagina 197

Taluni scritti di architettura pratica

266920
Pietrocola, Nicola Maria 1 occorrenze
  • 1869
  • Stamperia del Fibreno
  • Napoli
  • arte
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Due lati son poggiati su muri, ed il terzo, dal quale è pendola la campana grande, abbandona l’angolo della Chiesa per quanto è grande il vano in cui la campana dondola. Si conserva il rozzo disegno ch’egli di sua mano delineò per norma di colui che soprantendeva all’opera, alla quale egli per la stagione rigida non potè assistere. Il calcolo degli urti e delle resistenze non farà giudicare il trovato del Pietrocola simile all’uovo di Cristoforo Colombo.

Pagina 10

Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267859
Dorfles, Gillo 2 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
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La completezza di visione abbandona l’anima tre volte in sé divisa e le sue malinconie; la nuvola si è distesa sul mosaico del mare. E tu non puoi interpretare il sogno della tela, perché questo sogno è lassù, — alla fine della ricerca sulla Montagna Celeste, dove nulla rimane se non la fenice impigliata nel mezzo del dolcissimo azzurro... [1957] [Da The New American Painting La nuova pittura americana (Galleria Civica d’Arte Moderna, Milano, 1-30 giugno 1958), Silvana Editoriale d'Arte, Milano, 1960, p. 24.]

Pagina 199

Gestuale, ho detto, piuttosto che segnica: infatti — a differenza di Tobey, il grande maestro degli alfabeti bianchi, a differenza di Mathieu in cui il gesto s’accompagna quasi sempre alla nascita d’un segno caratteristico; a differenza ancor più di Kline, che pure nel violento tracciato dei suoi grandi segni neri non abbandona mai una certa compostezza — Pollock non giunge alla costituzione di un suo segno che riesca ad emblematizzarsi ed a perdurare costante. È invece tutto quanto il dipinto, con la sua rete folta e aggrovigliata di macchie e di ghirigori a costituire l’impronta della sua personalità. Ma, oltre ad aver abbandonato il normale metodo di dipingere, Pollock sentì anche l’urgenza di abbandonare spesso il medium normale del colore ad olio, facendo ricorso a materiali diversi, sino allora poco o mai adoperati, come il duco (smalto opaco) e la vernice all'alluminio. L'efficacia di questi mezzi, in certo senso grossolani, ma dalle insolite qualità timbriche, doveva tosto essere avvertita dal pubblico; e presto furono legione gli imitatori sia dei metodi di sgocciolamento che dell'uso di smalti e di vernici alternate a polveri e inchiostri.

Pagina 59

Come posso mangiar bene?

271337
Ferraris Tamburini, Giulia 1 occorrenze

Il piacere del mangiar bene è la sensazione piacevole, che per ultima ci abbandona.

Pagina 011

Il cuoco sapiente

282386
1 occorrenze
  • 1871
  • Enrico Moro Editore
  • Firenze
  • cucina
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Appena questa comincia, il cavolo abbandona la sua acqua vegetale, verde e fetida, la quale viene a sornuotare sulla massa: quest'acqua vuol esser tolta via ogni due o tre giorni, ed in suo luogo devesi versare sul cavolo nuova salamoia (acqua quasi satura di sale), e ciò continuare finchè il liquido ne esca ben chiaro; il che suol accadere dopo 15 o 20 giorni.

Pagina 040

Squisitissime vivande preparate dalla cuciniera viennese italiana e francese

333599
1 occorrenze

Conviene però che il fuoco sia assai moderato, affinchè nel bollire non si mescolino i due liquidi, e allora con un calore mediocre, comunicato dalla soluzione stessa del sale allo spirito, questo abbandona la flemma e l'empireuma, e si distilla più puro.

Pagina 244

IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

656369
Boito, Camillo 1 occorrenze

"Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara idea, per la quale avrei saputo morire!". Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio, precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi. Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al Caffè della Gloria A un tavolino quattro sensali giuoca- vano alle carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò: "Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere del tribu- nale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno, maestro". Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale conti- nuò: "Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne rammento". Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando: "Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon galan- tuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove dia- volo li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?". "Le donnette, le donnette" vociavano i sensali, sganasciandosi dalle risa. "E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!". Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa: sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale. Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era tro- vato in piedi sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due muratori, che passavano in un battello, l'alza- rono su e lo condussero all'ospedale, ove fu posto nella sale d'os- servazione. Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia pas- sione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli face- vano preparare, arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli dava- no un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; e ne- gli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c'era uo- mo più felice di lui.

Madamine

656760
Borghi 1 occorrenze

Ma il sogno del lusso non le abbandona che all'ultimo: l'hanno troppo rasentato , sono entrate ne' suoi penetrali, l'hanno toccato con le loro mani! E sogni e desiderî, guizzan loro dagli occhi, quando, a sera, sotto la luce torbida del gas, a una, a due, a frotte tornano dalla scuola ai loro poveri quartieri. I carri scarichi salgono lentamente verso le porte : i manovali tornano, fischiando e cantacchiando, ai sobborghi; gli omnibus si strascinano coi cavalli zoppicanti, che hanno nel passo rassegnato la speranza dell'ultimo viaggio; la macellaia ben pasciuta fa somme, il fornaio chiacchiera seduto placidamente sui sacchi, le cortine rosse trasparenti dei mercanti di vino parlano di delizie. E dinanzi alle vetrine passano, in una fantasmagoria avvicendata di luce e d'ombra, schiere di cappellini, di veli, di scialli, di ciocche svolazzanti, tra una folla di gingilloni che le attendono al varco e ne raccolgono mille impressioni diverse - dallo sguardo timido, di sott'insù, delle fanciulle sole, alle occhiate lunghe, provocanti delle giovinette, all'indifferenza affettata delle adulte, all'avido muover d'occhi delle veterane. E la lunga processione s'assottiglia a poco a poco, si sbriciola, dilegua, e le regine scompaiono dentro quelle porte buie, dove qualche uomo ben vestito aspetta quasi sempre nell'ombra dei lunghi androni, su per quelle grommose scale, dove c' è sempre qualche bisbiglio negli angoli dei pianerottoli oscuri.

Il Marchese di Roccaverdina

662623
Capuana, Luigi 2 occorrenze

«Ci abbandona così, nelle peste! Dovreste persuaderlo voi», egli disse, rivolgendosi alla marchesa e giungendo le mani in atto di preghiera. «Le donne fanno miracoli, se vogliono.» «Lo avete sentito: "Quando ho detto di no, è no!". E poi ... Lo conoscete meglio di me.» «Pur troppo, è un Roccaverdina ... Preso un dirizzone, non c'è verso di stornarnelo. Bisogna lasciarlo stancare. Ora è tutto oli e vini; non gli si può ragionare d'altro. Probabilmente, tra un anno o due, butterà per aria macchine, botti, coppi! Con quella donna - ve ne parlo perché è cosa già passata da un pezzo - ha fatto pure così. Sembrava che, dopo dieci anni, dovesse commettere la corbelleria di sposarla ... e un bel giorno la dà in moglie a Rocco Criscione. Gliel'ha data lui, gliel'ha imposta quasi ... Rocco non poteva dirgli di no; si sarebbe fatto squartare pel suo padrone ... Era sua moglie e non era sua moglie, dicevano le male lingue ... E quando Rocco fu ammazzato, tutti credevano: ora la Solmo ritorna al padrone. Che! ... Ve l'ho nominata per questo; non potete essere gelosa. Se mai, ora, delle macchine e della Società Agricola ... In quanto a donne, egli è uscito di razza. Tutti i Roccaverdina sono stati famosi donnaioli: il marchese grande , il padre del cugino, anche vecchio ... È vero che, dopo, aveva la scusa della paralisi della moglie ... Povera zia! Bocconi amari ne ha inghiottiti parecchi ... Ed era bellissima ... L'avete conosciuta? No, non potete averla conosciuta. E per le elezioni comunali? Un altro dirizzone; ma si è stancato subito ... Fate il miracolo, cugina! Dobbiamo abbandonare il Comune in mano a certa gentaccia? Che penseranno? Che il marchese di Roccaverdina ha avuto paura! Non è vero; ma così penseranno e lo diranno! ... Mi mordo le mani! ... Bella figura facciamo col Sottoprefetto! Egli lo ha proposto, sicuro che il marchese avrebbe accettato la nomina. Abbiamo lavorato tanto! Fate il miracolo! ... » Ah, ella avrebbe voluto fare ben altro miracolo! Ma si sentiva impotente. E lo diceva quello stesso giorno alla sua mamma che insisteva presso di lei: «Che hai dunque? Che ti accade?». «Forse ho sbagliato, mamma!» «Perché?» «Mi sento sola sola, mamma!» «Che intendi dire?» «Ci siamo illusi, egli ed io. Il suo cuore è chiuso per me. Ha preso me come avrebbe preso qualunque altra ... Può darsi che il torto sia mio ... Non avrei dovuto entrare in questa casa ... C'è ancora il fantasma dell' altra. Lo sento, lo veggo ... » «Ma che cosa senti? Che cosa vedi?» «Niente! Non so ... Eppure sono certa di non ingannarmi.» «Vergine benedetta! Che gusto tormentarsi così!» «Ah, mamma! Non avrei voluto parlartene per non angustiarti. Ma il cuore mi si schianterebbe se non potessi sfogarmi. Lasciami sfogare ... Mi ero rassegnata, da anni. Tu non hai saputo mai nulla fino a pochi mesi fa. Avevi dolori assai più grandi del mio; perché avrei dovuto confidartelo? E quando, tutt'a un tratto, quel che sembrava stoltezza sperare mi si presentò dinanzi come possibile, te ne rammenti? io esitai, a lungo esitai, temendo quel che, pur troppo, è avvenuto! Sì, mamma. Tra me e lui sta sempre quell' altra - ricordo vivo ... ! Non m'inganno. Sono forse una persona, sono un cuore qui? ... Sono un mobile.» «Che aberrazione, figlia mia! C'è un malinteso tra voi; dovreste spiegarvi. Marito e moglie debbono fare così, altrimenti le cose s'ingrandiscono. Ognuno immagina che sotto ci sia qualche cosa di grave ... E non c'è nulla!» «E se c'è peggio di quel che uno sospetta?» «Non può essere. Dopo sei soli mesi! Il marchese ha cento cose per la testa. Gli affari assorbono, danno tanti pensieri. Tu rimani a fantasticare, a roderti il fegato ... Che vuoi che ne sappia lui? Come pretendi che indovini?» «Gliel'ho detto: "Antonio, non mi sento amata da voi!". Gliel'ho detto singhiozzando ... » «Ebbene?» «Si è messo a ridere, mi ha risposto scherzando, ma rideva male, scherzava a stento.» «Ti è sembrato. Ha ragione. Gli uomini non possono intendere certe cose di noi donne, che non hanno importanza per loro. E intanto tu ti logori la salute; tu non ti accorgi che deperisci di giorno in giorno. Sei pallida ... Non sei mai stata così. Che credevi, sposando? Di non dover avere nessuna croce? È un carattere strano; sopportalo come è. Ho sopportato peggio io! Ho fatto la volontà del Signore, mi sono rassegnata sempre; lo hai visto! Di che sei gelosa?» «Del suo silenzio, mamma!» «Il marchese non è espansivo; è fatto così. Vorresti rifarlo?» «Che so? Certe volte rimane assorto, col viso scuro scuro; e allora, quando si riscote, mi guarda con occhi smarriti, quasi avesse paura che io indovinassi. E se gli domando: "Che pensate?", risponde, sfuggendomi: "Niente! Niente!".» «E sarà niente davvero. Vuoi che gliene parli io? Che gliene faccia parlare dalla baronessa?» «No. Può darsi che io abbia torto.» «Hai torto certamente.» «Sì, sì, mamma, ho torto; lo comprendo. Non affliggerti per me!» Andando via, il marchese le aveva detto: «Tornerò presto questa sera». Ma era già un'ora di notte, e la marchesa, affacciata al terrazzino a pian terreno allato al portoncino d'entrata, cominciava a impensierirsi del ritardo. Si atterrì vedendo arrivare soltanto Titta a cavallo d'una mula. «Il marchese?» «Non è niente, eccellenza.» Titta, saltato giù da cavallo, legata la mula a uno degli anelli di ferro confitti a posta nel muro ai due lati del portoncino, si affrettava ad entrare. Ella gli corse incontro nell'anticamera. «Stia tranquilla, voscenza . È accaduto ... » «Il marchese sta male?» «No, eccellenza. Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Si è impiccato uno a Margitello: compare Santi Dimauro.» «Oh, Dio! ... Perché? Come?» «È venuto a impiccarsi nel suo fondo venduto al marchese due anni fa. L'aveva detto tante volte: "Verrò a morirvi un giorno o l'altro!". E finalmente il disgraziato ha mantenuto la parola. Si era pentito di aver venduto quel fondo ... Di tanto in tanto lo trovavano là, nella carraia, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. "Che fate qui, compare Santi?" "Guardo la mia terra, che non è più mia!" "Avete preso un sacco di quattrini!" "Sì, ma io vorrei la mia terra!"» «Perché l'ha venduta?» «Oh! Egli soleva raccontare una storia lunga. Pel processo di Rocco Criscione ... L'aveva col marchese, che non c'entrava ... Il giudice istruttore ... sa, voscenza ; quando si fa un processo si raccolgono tutte le voci ... E siccome il giudice istruttore ... Una storia lunga! ... Ma era venuto lui stesso a dire al marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? Se lo prenda". Era proprio nel cuore di Margitello, e di tratto in tratto il vecchio alterava il limite ... I contadini quando possono rubare un palmo di terreno, non hanno scrupoli. Compare Rocco, buon'anima, non era omo da lasciarlo fare, nell'interesse del padrone. "E il marchese non ne troverà un altro eguale, eccellenza!" Il vecchio si era dunque presentato dal marchese: " Voscenza vuole quel pezzo di terra? E se lo prenda!". Poi il vecchio si era pentito. Veniva a piangere là, quasi ci avesse un morto ... Che colpa n'aveva il padrone? E ora, per fargli dispetto, si è impiccato a un albero ... Chi se n'era accorto? Spenzolava davanti la casetta ... Le mule della carrozza - gli animali hanno il fiuto meglio di noi cristiani - non volevano andare né avanti né indietro. Io guardo attorno per veder di che cosa s'impaurissero le povere bestie ... Ah, Madonna santa! Salto giù di cassetta, scende di carrozza anche il marchese, tutti e due più pallidi del morto. Non lo dimenticherò finché campo! ... Pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori ... Lo tocco; era freddo! ... Allora siamo tornati a Margitello ... Il marchese, sturbato, non poteva parlare ... Ha dovuto buttarsi sul letto. Ora sta meglio ... E mi ha mandato per avvertire voscenza . Devo andare dal pretore e dai carabinieri ... Il morto è là, che spenzola ancora ... Ha voluto dannarsi!» La marchesa era stata ad ascoltare senza interromperlo, corsa da brividi per tutta la persona, quasi avesse davanti il corpo del vecchio contadino col viso pavonazzo, con gli occhi e la lingua di fuori, che dondolava dal ramo dell'albero a cui disperatamente era andato a impiccarsi. «Il Signore lo avrà perdonato!», ella disse commossa. «Ma il marchese però non è tornato? Ditemi la verità, Titta: sta male?» «Eccellenza, no! Aspetta la giustizia coi carabinieri e i manovali che dovranno portar via il morto ... Mi ha mandato a posta ... E se voscenza permette ... » La marchesa quella notte ebbe paura di dormire sola in camera sua. Disse a mamma Grazia: «Recitiamo un rosario in suffragio del disgraziato». A metà del rosario, mamma Grazia era già addormentata su la poltrona dove la marchesa l'aveva fatta sedere; ed ella si buttò sul letto vestita, certa di non chiudere occhio, con nel cuore un'inesplicabile angoscia, un invincibile presentimento di tristissimi casi che sarebbero sopravvenuti, presto o tardi, per cattiva influenza di quel morto.

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Racconti 2

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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"Abbandona costei alla sua sorte!" "No!" Era geloso che altri potesse possederla. E, un giorno, mi condusse a casa sua. Non ho mai assistito a spettacolo piú spaventevole e piú triste. La bella creatura era già ridotta di nuovo forma vaporosa, evanescente. Tutte le supreme angosce dell'agonia ne scomponevano il bellissimo viso; gli occhi smorti nuotavano già nell'ultimo sonno, sotto l'influsso di un potere omicida altrettanto forte quanto quello che l'aveva evocata alla vita. Enrico Strizzi - entrato in un convento di frati trappisti - vi medita ancora, nel silenzio, la vanità della scienza e attende, espiando, la morte!

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

Come si può crescere buoni e affezionati alla Società, se vostro padre, se la vostra madre stessa vi rifiuta e vi abbandona non appena avete schiuso gli occhi al dolore? Eccovi soli, con un cognome convenzionale, non corrispondente a quello di nessuna persona che v'ami, e che vi fu dato capricciosamente da un impiegato, il quale non si è preoccupato d'altro se non di questo che il vostro cognome incominci per la stessa lettera del nome che da una suora vi è stato imposto al fonte, ove foste fatti cattolici non uomini. Imperocchè la Società, la Società civile, la Società progredita e progressiva, la Società magnanima vi stampa in fronte il qualificativo di bastardo, che vi fa vivere spregiati e tuttavia poco curanti di questo ingiusto disprezzo, ma inquieti tra il desiderio e la tema di conoscere gli autori dei vostri giorni. Potrebbero infatti essere ricchi o poveri, onesti o vituperevoli, potrebbero essere una benedizione o una maledizione per voi, Ma che monta? Non pochi di coloro che creano siffatti sventurati compongono la cosi detta buona società e se conoscono gli allevatori dei loro bambini si recano da essi con istrani infingimenti per portar ai figli abbandonati qualche dolciume: ma la loro riputazione non dev'essere offuscata, ma la loro tranquillità domestica non dev'essere turbata ... guai se il padre, la madre, lo zio, la zia risapessero questo errore, sarebbero capaci di diseredare chi l'ha commesso, e allora! Epperò voi, poveri bambini, soffrite, crescete incolpevolmente spregiati e quando la negligenza sociale e la snaturatezza dei vostri genitori vi hanno indirizzati e quasi dannati al male, allora soltanto la società vi teme, lo statista vi scerne fra la turba multiforme dei delinquenti e nota: "Pur troppo anche in questo anno dei condannati per delitti comuni il maggiore contingente è fornito dai trovatelli. È questa una piaga alla quale conviene che la società ponga un rimedio provvidenziale ed efficace." Ma intanto chi soffre e lo statista volta la pagina per fare altri calcoli. La sua voce est tamquam vox clamantis in deserto. Qualche volta il gettatello si vendica dei suoi snaturati genitori a misura di carbone. Allorchè dopo aver composte le cose loro secondo le ipocrite norme delle convenienze sociali, il padre o la madre, ricordandosi di aver fatto consegnare il proprio figlio al Brefotrofio ne fanno ricerca, il figlio al vedere i proprii genitori, vinto dalla gratitudine per chi l'ha allevato, rifiuta e il nuovo nome e la nuova condizione che gli viene offerta, protestando che giacchè è rimasto per anni molti senza che da' suoi sia stato riconosciuto, oggi si crede in diritto di non voler egli riconoscere i suoi. Atroce eppure nobile vendetta che priva il padre e la madre dell'affetto de' proprii figliuoli. Ma non è qui il luogo di far degli sfoghi siano pure ragionevoli contro una Società generalmente corrotta e senza cuore. Ripigliamo in quella vece la nostra archeologia statistica, la quale ci può insegnare ancora oggi qualche cosa. Nel giorno del censimento del 1871 i bambini illegittimi nati vivi furono 1105, dei quali 224 videro la luce nel Brefotrofio provinciale, istituto che nel solo 1874 accolse 2375 infanti. Questa numerosa famiglia darà più tardi i 350 giovanetti da ricoverarsi nel Riformatorio di Parabiago, i 150 adulti da rifugiare nell'ospizio del Patronato, e la maggior parte di coloro che popoleranno le 762 segrete del carcere cellulare. Sono dati vecchi, ai quali gioverà contrapporre i recentissimi pubblicati al pari di quelli dal dottor Romolo Griffini, direttore del Brefotrofio di Milano. "Nell'anno 1881, scrive il Griffini in una sua accurata relazione, si raccolsero nel Brefotrofio 1408 infanti di primo ingresso, contro 1389 entrati nel 1880. Ne risultò pel 1881 un aumento di 19 infanti. Quanto al sesso, i nuovi entrati si distinguono in 728 maschi e 680 femmine. Prevale, come generalmente suole, il sesso forte, e quest'anno in ambe le categorie dei legittimi, e degli illegittimi, poichè sopra 354 legittimi si hanno 185 maschi e 169 femmine, e sopra 1051 illegittimi, 543 maschi e 511 femmine." E volete sapere quanti erano nel 1881 i disgraziati componenti la famiglia a cui l'Ospizio provinciale di Milano ha dovuto provvedere? 8439. Quanti dolori! C'è da inorridire. E siamo sull'aumentare. Come si provveda poi a questi infelici è bello tacere. Nessuno ne ha colpa, poichè la istituzione del Brefotrofio è organizzata, retta da norme non facilmente mutabili e da consuetudini che tengono veci di leggi. E poi la burocrazia non è la Provvidenza. Gli esposti vengono quasi tutti affidati ad allevatori abitanti in campagna. Si conta un po' sulla moralità e sul buon cuore dei campagnuoli. E anche per vero dire molti di questi hanno meno pregiudizii dei cittadini. Nel bambino quelli non vedono il bastardo, vedono il disgraziato e se lo tengono caro. È una specie di buon augurio per la famiglia che lo ricetta e lo nutre. Il compenso che paga l'Ospizio non è sempre allettamento sufficiente per indurre una famiglia ad assumersi la cura di allevare un figliuolo che sul fiore dell' età può essere richiesto e portato via da chi l'ha messo al mondo. Vi sono pure dei bambini che per la loro bellezza attraggono gli allevatori, ma ve ne sono di quelli che sono male aggraziati, o brutti, o infermicci, o colle membra contorte e rattrappite e, poveretti, non sono voluti da nessuno. Fino a pochi anni or sono per una vecchia consuetudine si provvedeva al loro collocamento in questo deplorevole modo. Quando la Direzione dell'Ospizio da sicure informazioni era fatta certa che in un determinato circondario di campagna v'erano parecchie famiglie, che avrebbero assunto l'allevamento di alcuni trovatelli ne caricava qualche dozzina sopra un carretto e li inviava al comune indicato. All'arrivo dell'infelice convoglio si dava nella nota campana esattoriale; i terrieri convenivano sulla piazza e incominciava la scelta dei bambini. Tolti i più belli o i meno brutti restavano coloro, ai quali insieme colle altre sventure toccava pure l'umiliazione d'essere rifiutati. Chi ha appena un po' di cuore pensi quali sentimenti in quel punto dovevano germinare negli animi di quei disgraziati fanciulli. Allora l'agente dell'Ospizio, che voleva ritornarsene col carro vuoto, andava sollecitando or l'uno or l'altro dei contadini presenti a prendersi o questo o quel bambino quantunque storpio o deforme, chè l'Ospizio provvedeva per essi al pagamento di una ragguardevole ricompensa all'allevatore. E così a stento e a fatica tutti i bambini venivano accolti nelle case dei contadini e quindi dopo un secondo rifiuto s'affacciavano alla vita di famiglia paurosi, sapendo di esservi appena tollerati. Altro che notare nelle statistiche penali che il numero maggiore dei delinquenti è fornito dagli Esposti! Non è loro colpa se questi bambini crescono male. L'illustre prof. Dott. Edoardo Porro nel suo lavoro che risguarda ??il biennio 1869-70 alla maternità di Milano a pagina 266, parla della sorte che attende gl'infelici che hanno culla nell'Ospizio, " i quali sovente hanno per sopraggiunta la sventura di perdere nascendo la propria madre. La quale nell'istante di dare alla luce il suo bambino è tormentata da gravi dolori non solo fisici, ma anche morali; pensando, come dice il Porro, che la sua creatura troverassi isolata e reietta dalla società, dannata ad un Brefotrofio e ad un allevamento poco dissimile da quello dei bruti. Chi ha pratica delle maternità, ed in ispecie di quella di Milano, non troverà esagerate queste parole. " Oggi le condizioni dei ricoverati da quest'Istituto debbono essere un cotal poco mutate, grazie alla benefica influenza delle persone che ora lo dirigono. Un forte sentimento di pietà si ridesta in ogni animo bennato alla vista di un povero gettatello. E il Giusti, descrivendo scherzosamente un suo viaggio a Montecatini, osservando uno di questi sventurati bambini, sente dentro il suo cuore vibrare a un tratto la corda del dolore e però esce in un volo lirico, degno d'essere riletto. Accanto a me dal lato delle brenne, Una povera donna montanina, Lieta recava al petto un trovatello. Preso là nel buglione, ove s'insacca Dal matrimonio e dallo stupro a gara O legittima o no l'umana carne. Oh benedetta, miseri innocenti, La pubblica pietà che vi ricovra Nudi, piangenti, abbandonati! A voi il casto grembo della cara madre. E del tetto paterno il santo asilo, Che dà l'essere intero, e dolcemente L'animo leva a dignità di vita, Error, vergogna delitto e miseria Chiuse per sempre! Crescerete soli, Soli all'affetto e mal securi in terra; Al disonor di genitori ignoti, Come la pianta che non ha radice, Maledicendo ....... Poveretti, quant'era meglio per essi il non nascere!

Pagina 28

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull'altare della virtù, cento egoismi vigliacchi e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi pare che anche l'inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest'oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito, senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull'orlo del sepolcro. Più malata di me non si può essere e la morte dev'essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo qui a Milano in casa..." La mano fu arrestata nella ricerca d'un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua? La Colomba, rotta dalla fatica, s'era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso era l'unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d'un vento primaverile faceva stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de' suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino all'orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l'oblio. E poiché tutti i dolori si conoscono tra loro, il suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino. Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un'altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi mortali di un aborto: finché sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del signor Tognino... Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno. "Ho sete..." ripeté ancora la voce di poco prima, La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò, pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s'era un poco levato sul cuscino per togliersi il sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere se stesso. Arabella versò dell'acqua nella tazza e l'accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino al fondo. "Come si sente?" Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile: "È proprio lei?" balbettò. "Vuol bere ancora?" "No, no..." disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione. "Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?" "No, no..." e allungò la mano per prendere quella del suo fantasma. Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell'infermo arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime. "Perché è qui?" interrogò sommessamente. "Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia." Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno. Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l'avemaria, e ad ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finché una pennellata di carminio venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l'armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sé la dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal suono della campana, saltava in piedi tutta agitata. "Hai dormito?" "Sì." "Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch'io un pezzo." Ferruccio si persuase ch'egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente: "O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..." A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni, Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto gridare di più. Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero. La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose, la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate... Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata dal freddo della febbre e della notte. "Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi, ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore, perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa, mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a patire..." La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

E non si abbandona mica una povera madre vecchia a morire di stenti e di dolore colla scusa che un fringuello ci ha rubata l'amorosa. I tuoi crediti non pagano i tuoi debiti. Queste massime le sai meglio di me, perché se non mi sbaglio, devi averle stampate con altre parole in qualche sito: ebbene, ecco arrivato il momento di metterle in pratica. Il miglior modo per fare della filosofia, è quello di viver da uomini onesti e coraggiosi. Ad agitare dell'inchiostro ogni fedel minchione è filosofo: e se la va a parole, non c'è un prete che non meriti d'essere messo sugli altari, caro Giacomo, - soggiunse, stringendo tra le due mani massiccie lo stomaco e la schiena del nipote che, rannicchiato nel seggiolone, pareva diventato ancor piú poco - ma vedi invece quanti pochi sappiano essere quel che si dovrebbe essere. Coraggio e pazienza! Prima di morire ne avrai a vedere molte ancora delle corbellerie, e non c'è nulla di piú inutile quanto il meravigliarsi; l'ha detto anche Salomone qualche buon secolo primache si inventasse d'attaccare il picciuolo alle ciliege. Ci vuol pazienza! Lascia operare il tempo, e vedrai che tutto passa e ripassa. Per una foglia che cade ne spuntano mille. - E siccome Giacomo non sapeva che cosa rispondere, don Angelo si offrí di prender lui l'iniziativa: - Vuoi dare carta bianca a me e a tua madre per accomodare questa faccenda? Tu non ci dovrai entrare. Cosí potrai dire di non essere venuto a patti con nessuno. Lascia fare a quelli che hanno stracciate molte paia di scarpe, e ti troverai contento di non aver impedita la pace. Che cosa poteva opporre Giacomo a queste ignude argomentazioni di un senso comune cosí attaccato alla realtà delle cose? Il nostro idealista non poteva impedire che le ragioni della filosofia pratica e dell'esperienza, contro cui venivano a battere le sue illusioni, non fossero, dure, immutabili, inamovibili. Chinò la testa, chiuse gli occhi, e pregò che lo lasciassero riflettere.

VECCHIE STORIE

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Si abbandona su un divano. Sicuro, Nicolò: se non concludi qualche cosa quest'oggi, tu morirai nel tuo letto in odore di verginità. No, no: è tempo che tu la pigli questa moglie benedetta! Vedi? va a guardarsi in uno specchio. Tu sei arrivato a quell'età in cui, se il frutto non si coglie, casca in terra a marcire. Non sei un brutto mostro: che, che? carezzandosi i baffi. Puoi passare ancora per un giovanotto in gambe, ma.... qua e là comincia a spuntare qualche capello meno nero degli altri. Certe mattine hai la ciera d'un uomo che ha dormito male parlando alla sua immagine. Sicuro, signor Nicolò: quel vivere di qua, di là, sulle trattorie, sui caffè, sui clubs , in compagnia di scapoloni pari suoi non è più una vita fatta per lei.... Lei digerisce male, lei dorme male, diventa sempre più brontolone, bisbetico, incontentabile e a lungo andare finirà col fare uno sproposito. Chi non si marita a tempo, sposa la morte prima del tempo; tranne il caso in cui si sposa la serva torna a sedere. - Mia sorella Giacomina, che da un pezzo mi ha sul cuore, la settimana scorsa mi disse: Nicolò, c'è una ragazza che va bene per te: anzi ce ne sono due: le sorelle Bellini, due care creaturine sui ventitrè l'una, sui ventiquattro l'altra, non troppo giovani e nemmeno troppo stagionate, un po' disgraziate nella famiglia, ma buone, belle, con qualche po' di sostanza. Tu non hai che a scegliere. Esse vivono a Incirano con una zia che fa loro da madre, perchè le poverine hanno perduto i parenti e non hanno si può dire nessuno al mondo. Sotto questo aspetto tu fai quasi un'opera di carità. Va a mio nome, cerca della zia, mettiti nelle sue mani e lascia fare alla provvidenza. Eccomi qui. Ora le vedrò e dovrò scegliere tra le due.... vede sul tavolino alcuni ritratti in piccole cornici. Forse questo è il loro ritratto. Carina questa col suo profilo greco, con que' capelli pettinati alla Niobe. Forse questa è il ventitrè. Ma anche questo ventiquattro non c'è male. Forse questa è bionda, e questa è bruna. Chi mi consiglia? Il biondo è più romantico, più... simbolico... troppo Svezia e Norvegia. Il bruno è quasi sempre segno di un carattere ardente, geloso... troppo Spagna e Portogallo. Che ti dice il cuore, Nicolò? ventitrè o ventiquattro?... pesa nelle mani i due ritratti. Sentiremo il consiglio della zia, che nella sua esperienza saprà guidare un povero uomo sempre incerto nel cammino della vita. indicando un altro ritratto grande. Certo questa vecchia cuffia è la zia dei buoni consigli. Lei conosce le due ragazze e saprà dirmi quale delle due ha più disposizioni al settimo sacramento. Per me capisco, che se dovessi scegliere, farei la fine dell'asino che, messo tra due fasci di fieno, si è lasciato morire di fame. Zitto, qualcun si avanza! Si alza, fa una rapida toilette allo specchio. Forse è la vecchia zia. Animo, su, coraggio. Sei stato a Custoza, corpo d'una baionetta, e devi aver paura d'una vecchia cuffia? TERESITA una vedovella ancor giovane, simpatica, vestita con finissima semplicità e con molto buon gusto. Fa un inchino a Nicolò, che resta un istante imbarazzato. Signore.... NICOLÒ.. Signora.... TERESITA Lei ha bisogno di parlarmi. NICOLÒ.. Sissignora... cioè... veramente mia sorella Giacomina mi ha detto di chiedere della zia delle signorine, la vecchia zia, sissignora.... TERESITA Sono io la zia delle signorine.... NICOLÒ. sorpreso. Ah, lei fa da madre alle due orfanelle.... Avvicinandosi riconosce una antica amicizia. Oh, ma scusi, noi ci conosciamo. Ah, chi l'avrebbe detto dopo tanti anni? Lei, lei è la signora Teresita.... TERESITA fingendo di cader dalle nuvole. E lei è il signor Nicolò.... Guarda che combinazione! ma si è fatto così grasso.... NICOLÒ. ridendo con un po' di confusione. Credevo che volesse dire: così vecchio! TERESITA amabile. Si è viaggiato insieme sulla strada della vita. Guarda che combinazione! NICOLÒ. Guarda che combinazione! Segue un brevissimo imbarazzo d'ambo le parti. Io credevo che la zia fosse una signora in età, colla cuffia. TERESITA La cuffia verrà... è in viaggio. Ma prego si accomodi, signor Nicolò..... Indica la sedia e siede lei per la prima. NICOLÒ. ripetendo materialmente. Guarda che combinazione.... Prende la sedia, vi si appoggia, ma non vi siede. Ma da quanto tempo non ci vediamo più? TERESITA Oh è un gran pezzo! A che cosa devo attribuire l'onore della sua visita? NICOLÒ. giocando colla sedia che fa girare sotto la mano. Mia sorella Giacomina mi ha detto: Va a Incirano, cerca della zia delle sorelle Bellini ed esponi il tuo caso. TERESITA E qual è il suo caso? NICOLÒ. Il mio è un caso, dirò così, di coscienza: ma ora non so se devo parlarne. TERESITA Perchè non deve parlarne? NICOLÒ. facendo girare più forte la sedia sotto la mano. Perchè... io... dà in una risata allegra perchè io credevo che la zia fosse una cuffia.... TERESITA ride anch'essa mentre si abbandona nella poltrona. Dunque è alla cuffia che lei desidera parlare. NICOLÒ. No, stia buona, ora le dirò il mio caso. Ma è certo che, se avessi potuto immaginare di trovar qui lei al posto della... cuffia... ride non sarei venuto. TERESITA un po' offesa. Non merito dunque la sua confidenza? NICOLÒ. Lei merita tutto, ma il mio caso è di quelli che hanno bisogno di molta indulgenza. TERESITA Ma sieda.... NICOLÒ. mettendosi a sedere sull'angolo della sedia. Intanto mi dica: come si trova qui a far da madre a queste due bambine? TERESITA Una serie di dolorose circostanze.... Oh sapesse quante disgrazie! Morti i parenti di queste due povere figliuole, ho pensato ch'io potevo essere utile in questa casa. NICOLÒ. esitando. Ma scusi. Lei non aveva sposato quel marchese? TERESITA molto riservata. Sì. NICOLÒ. c. s. s.E.... suo marito? TERESITA È morto. NICOLÒ. con una certa sorpresa. Ah! è morto anche lui.... TERESITA In duello a Parigi. NICOLÒ. In duello a Parigi.... Guarda, guarda. TERESITA dopo un breve pensiero. Ma non parliamo dei morti. Quel che è passato, è passato. NICOLÒ. astratto in una sua idea. O bello, o bello... TERESITA Che cosa? NICOLÒ. si corregge, si fa serio, si alza. Mi rincresce di aver risvegliato delle dolorose memorie. Mi scusi.... in atto di congedarsi mi perdoni.... TERESITA restando seduta. Ma che cosa fa? lei non mi ha ancora detto lo scopo della sua visita. NICOLÒ. È vero, ma io non so nemmeno se la mia visita abbia uno scopo. Giacomina doveva avvertirmi di queste circostanze. TERESITA con tono quasi materno. Bene, si accomodi. Giacomina mi ha scritto tutto. Lei è venuto a Incirano per uno scopo molto lodevole e molto onesto. Vuol prender moglie. NICOLÒ. affettando una certa sicurezza. Sì, voglio prender moglie. TERESITA ridendo con gaiezza simpatica. O bello, o bello... NICOLÒ. un po' mortificato. Che cosa c'è di bello? TERESITA Bello che il signor Nicolò voglia finalmente prender moglie. ride. NICOLÒ. serio. Non rida o mi scoraggia. TERESITA Ci ha pensato un pezzo il signor Nicolò NICOLÒ. in tono di rimprovero. E di chi la colpa? TERESITA Di chi? NICOLÒ. Ah Teresita! non si dovrebbero ricordare certe cose.... picchia nervosamente il bastoncino sul cappello. TERESITA gravemente. Proprio! NICOLÒ. E tanto meno si dovrebbe ridere. TERESITA sospirando. Si ride quando si è finito di piangere. NICOLÒ. con una punta d'ironia. Beata lei che ha finito! Le donne son così facili a dimenticare.... TERESITA Si dimentica... per non odiare. NICOLÒ. Io non ho meritato il suo odio. Con un leggero tono di sarcasmo. A ogni modo la donna che sposava il marchese di San Luca deve aver trovato nel fasto del suo blasone qualche conforto a' suoi dolori. TERESITA offesa. Nicolò, non dite queste parole che offendono una donna che fu già troppo infelice nella sua vita. Voi sapete come sono andate le cose. Il mio matrimonio fu per me una di quelle necessità che il solo cuore d'una donna sa comprendere e sa compatire. Voi sapete che mio padre era un uomo rovinato, che sulla nostra casa stava il disonore e il fallimento, che soltanto un matrimonio di convenienza poteva salvare una vecchia esistenza dalla disperazione. Allora voi eravate un giovine ufficiale senza fortuna, nell'impossibilità di mettere una casa. Poi venne la guerra e voi partiste per il campo.... NICOLÒ. con amarezza. E quando tornai dai pericoli della guerra, seppi che Teresita Morando era diventata la marchesa di San Luca. TERESITA con un moto di ribellione. Già, e non pensaste nemmeno ch'io avessi potuto fare quel passo per un sentimento di abnegazione e di dovere. Voi pensaste solamente e semplicemente che Teresita Morando, ragazza vana, leggera, smaniosa di brillare, inebriata all'idea di portare una corona sul suo biglietto di visita, avesse dimenticato volontieri il povero tenente per darsi nelle braccia di un vecchio nobile... sciupato dai piaceri. Questo solo voi avete pensato: e non sareste stato un uomo se aveste pensato altrimenti. L'egoista non è obbligato a compatire e meno a comprendere... e tanto meno a perdonare. NICOLÒ. si alza, resta un istante come combattuto, e mormora: Se sapeste invece quanto ha sofferto questo egoista! TERESITA alzandosi anch'essa. E quest'ambiziosa oh! non ha forse sofferto! no. Rapita dai bagliori de' suoi diamanti questa vittima incoronata non ha versata mai una lagrima.... Nei tre anni del suo matrimonio con quell'infelice boulevardier essa passò di trionfo in trionfo... invidiata da tutte le miserabili che non hanno una corona sulla carrozza... e un supplizio nel cuore. Abbandonandosi alla sua passione. Voi non vi siete più occupato di me; ma per qualche motivo avete stentato a riconoscermi. Voi avete trovato facilmente dei dolci compensi... Arrestata improvvisamente da una specie di rimorso, cangia tono, e con affettata naturalezza ripiglia. Ma di che cosa si parla? oh buon Dio! questo non è lo scopo della vostra visita. A che pro' disseppellire cose morte e finite? Sediamo: animo, sedetevi.... Veniamo all'argomento. Come smarrita. Giacomina mi ha scritto.... Che cosa mi ha scritto la buona amica? che voi volete accasarvi, che è tempo anche per voi di mettere giudizio. È giusto. Sa che le povere mie nipoti son buone e brave ragazze e anch'io sarei contenta di vederle collocate. Ma sedetevi dunque, parlate. NICOLÒ. con espressione patetica. No, no, non ho più nulla a dire. Scusate, Teresita, io non son più degno di accostarmi a una donna.... Si ritira qualche passo per andar via. TERESITA Non andate in collera per quello che vi ho detto. Vi domando scusa se vi ho offeso. Sedetevi, ragioniamo. Accettate almeno un bicchierino di vermouth.... Toglie da uno stipo una bottiglia di cristallo e offre un bicchierino a Nicolò. NICOLÒ. sforzandosi a rifiutare. No, no, lasciatemi andare. Non merito più nulla. La mia vita è finita da un pezzo. TERESITA Devo proprio mettermi una vecchia cuffia in testa per persuadervi a ragionare? Nicolò accetta il bicchierino. Se vi ho offeso perdonatemi. Voi avete per errore messa una punta di ferro sopra una cicatrice e io ho gridato di dolore. Ma ora è passato. Qua.... Lo fa sedere e siede anche lei. Posso aiutarvi, voglio consigliarvi, perchè in fondo ho molta stima di voi. NICOLÒ. Io invece non ho nessuna stima di me. Io ho sempre creduto che non valesse la pena di voler bene a una donna. Ho atrocemente sofferto, ma non per pietà della vittima inghirlandata. Ho sofferto solamente per il mio orgoglio ferito. Avete detto bene poco fa. Il mio nome è Egoista. Quando un uomo non è capace di comprendere, di compatire, di perdonare, non merita più che una donna gli voglia bene.... Volta via la faccia alquanto commosso, tracanna d'un fiato il bicchierino, va a collocarlo sullo stipo, e si prepara a congedarsi. TERESITA si alza, un po' soprapensiero. Permetta che le presenti almeno le bambine. Per quanto senza cuffia so esercitare i doveri dell'ospitalità. Dal giardino risona un campanello. Ecco, son le ragazze che tornano colla governante. NICOLÒ. cercando di sfuggire. No, no, non voglio veder nessuno; non voglio lasciarmi vedere. TERESITA Mettiamoci qui, dietro a questo paravento. Da qui possiamo vederle senza essere veduti. Conduce Nicolò per mano fin presso la porta dietro un paravento e indica le ragazze che passano in giardino. Guardi la prima, la bionda, ha ventidue anni, è un angiolino di bontà, piena di sentimento. L'altra, la bruna, Annetta, è un carattere più serio, ha molto ingegno, conosce molto bene la musica.... Nicolò, stringendo la mano di Teresita, trascinato dalla forza dell'antica passione, posa un bacio sui capelli di lei e resta come fulminato dalla sua stessa audacia. Teresita, sfuggendogli, dice con accento di profondo rimprovero, ma senza ira: Che cosa fa, Nicolò.... va a sedersi e nasconde la faccia nelle mani. NICOLÒ. dopo essere rimasto un gran pezzo come trasognato, si accosta pianino a Teresita e con voce sommessa piena di note tenere e appassionate, dice, quasi curvo su di lei: Io non ho conosciuto che una donna nella mia vita e basta! la bionda, la bruna, la sentimentale e la donna assennata, tutte le bontà e tutte le bellezze di una creatura di donna son già passate nel mio cuore il giorno che vi siete passata voi, Teresita. Voi vi avete lasciato un modello così sublime, che, al confronto, tutte le altre mi sembrano immagini sbiadite. Chi ama bene una volta ha amato per sempre. Il destino non ha voluto che voi foste mia, e amen ! È bene che io non guasti il mio ideale. Se Giacomina non mi avesse cacciato qui, io non sarei venuto mai a questa ricerca di commesso viaggiatore. È peccato sciupare l'amore vivo con degli amori artificiali; non barattiamo l'oro colla carta.... Addio. TERESITA non contenta. Che dovrò scrivere dunque a Giacomina? Che abbiamo fatto fiasco? NICOLÒ. Le scriverò io, se permettete. Siccome non tornerò a casa sua prima della fin del mese e forse più tardi, è bene che le mandi due righe. Se mi favorite carta e penna. TERESITA preparando le cose su un altro tavolino. Intendete viaggiare? NICOLÒ siede al tavolino e prende la penna. Sì, ho bisogno di cambiar aria. Son mezzo malato, mi sento vecchio e malinconico. Andrò a Parigi anch'io in cerca di distrazione. scrive: Cara Giacomina.... TERESITA seduta in disparte ha preso in mano un lavoruccio. Parigi non è una città troppo indicata per della gente ammalata. Voi avete bisogno d'una buona infermiera. NICOLÒ. Cara Giacomina.... Aiutatemi a scrivere questa lettera.... TERESITA con energia, dopo aver buttato via il lavoro. Sì, scrivete sotto dettatura: - Cara Giacomina, siccome io sono... un uomo di poca fede.... NICOLÒ. scrive sotto dettatura: qui s'interrompe. TERESITA comandando. Scrivete, animo! "Son destinato a soffrir sempre per non conchiudere mai nulla." Avete scritto? Si alza e passeggia un po' nervosa. NICOLÒ scrive. Mai nulla .... Ho scritto. TERESITA Punto e a capo. "Io non credo nella virtù della donna.... NICOLÒ. Scusate.... TERESITA lasciandosi sempre più trasportare dalla passione. No, no. Dovete scrivere la vostra condanna. "Non credo... che una donna... possa aver conservato puro il suo ideale... mentre.... parlando direttamente a Nicolò che lascia cadere la penna. mentre intorno a lei si commerciavano gli affetti e si commettevano le più ignobili vigliaccherie. Non credo che una donna possa sopravvivere al suo stesso dolore e alle sue umiliazioni: non credo che possa ancora conservare intatto il tesoro de' suoi affetti e possa compensare un uomo di averla amata bene una volta.... NICOLÒ afferra le mani di Teresita, le porta alla bocca, inginocchiato davanti a lei. Dunque tu mi ami ancora? TERESITA svegliandosi da una specie di sogno. Che fate? io non parlavo di me. Scrivete. NICOLÒ. Donna di poca fede, perchè ingannarci ancora? TERESITA Io parlavo di queste povere ragazze orfane. NICOLÒ. Esse hanno bisogno di un padre. Scrivete voi, detterò io.... La fa sedere al suo posto. TERESITA resistendo. Nicolò, che cosa ho detto? io provo un rimorso.... Voi non siete venuto per me. NICOLÒ. Scrivete " Cara Giacomina .... Teresita si sforza a scrivere. Nicolò detta: Ni...co...lò mi a...ma; - punto e virgola. - Io a...mo Nicolò. Dunque t... o... to. E Teresita non dice di no. E la cara zietta, senza la cuffietta, si lascierà finalmente baciare la bocca da un vecchio ragazzo che l'ama da dieci anni. TERESITA Odiandola.... NICOLÒ. Sì. L'amore perchè resista al tempo bisogna come l'oro mescolarlo in una piccola lega d'odio e di gelosia. Sì, io ti ho odiata, ti odio... perchè ti amo. TERESITA Zitto, le ragazze.... Si alza un po' spaurita e con voce supplichevole soggiunge: E andrete proprio via? NICOLÒ. Sicuro, bisogna che io corra ad avvertire Giacomina di queste novità. Ve la manderò qui. TERESITA Qui no: ci son troppe ragazze. Andrò io da lei. Mio Dio! e che diranno queste povere figliuole? io che dovrei pensare al loro destino, e invece.... Bella zia che sono! ma non sono invecchiata, Nicolò? Va a guardarsi nello specchio. Non sono magra e distrutta dal dolore? Non merito proprio una cuffia? Che cosa dirà il mondo? NICOLÒ. ridendo mentre passa il braccio nel braccio di lei. Il mondo dirà che amor vecchio non invecchia: e che il miglior modo per prender moglie è ... di parlarne alla zia.

UNA SERENATA AI MORTI

663958
Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Un'altra nota della letteratura parigina, ambulante, spicciola, giornaliera, sia essa parlata o sia scritta, si è la disinvoltura nelle inesattezze, a cui il parigino si abbandona per semplice estro di frivolezza e di burla o per scopo di tirar gente. Non fu raro il caso, che sull'imperiale dell'omnibus un parigino, conoscendo il nostro sindaco per forestiero, lo abbia toccato nel gomito con un gesto di carità fraterna e gli abbia indicato il maresciallo Mac- Mahon, che passava. Anzi Geromino assicura che gli additarono sette Mac?Mahon di fisionomia affatto diversa, ed invano il segretario volle spiegare l'arcano al suo superiore, dicendogli che una volta sarà stato l'eroe di Magenta, un'altra volta il Mac?Mahon delle batoste del 1870, a cui il popolazzo parigino in quei giorni perigliosi voleva imporre le orecchie d'asino; una terza volta il debellatore della Comune, una quarta l'uomo del 16 maggio, una quinta il presidente dal dilemma cornuto di Gambetta: dimettersi o sottomettersi; una sesta il presidente in voce di pigliarsi ambedue le corna, oltre la intimazione di Gambetta, cioè in voce di dimettersi, dopo di essersi sottomesso; una settima il possibile presidente destituito dalle vicine elezioni senatoriali. Nello stesso modo facile, con cui i parigini danno ad intendere personalmente a Geromino un uomo per un altro, e una via per l'altra, essi non hanno, come disse con un arcaismo il povero sindaco, essi non hanno alcun respitto nel litografare e nel vendere un album delle facciate delle Nazioni all'Esposizione, facciate, fors'anche migliori, ma affatto diverse da quelle che esistono in realtà. Alcuni grandi magazzini o semplici negozi regalano ai loro avventori e anche a chi non compra niente, una pianta di Parigi e dell'Esposizione. Or bene Geromino verificò, che in una pianta dell'Esposizione il Campo di Marte era capovolto rimpetto al Trocadero, e ciò per poter collocare meglio negli angoli del disegno la raccomandazione dell'Acqua di Melissa o della broda Boudier o della sartoria Voltaire, che per 21 lira dà un vestiario completo, oltre al ritratto dell'autore dell'Enriade. Nella pianta di Parigi poi isoleggia, fuori di ogni squadro, il magazzino, che l'ha fatta stampare; cosicché ad un forestiere meno ingenuo di Geromino parrebbe che il negozio, di cui si tratta, fosse cosa più notevole e più grande del Louvre, delle Tuileries, del Lussemburgo, della Maddalena, del Pantheon e degli Invalidi riuniti insieme. A un certo punto la nostra brigata, passando davanti a un padiglione illuminato a vetri colorati, fu tutta intagliata dalla proiezione degli annunzi. La signora Giacomina aveva sulle spalle la raccomandazione di un romanzo; il sindaco aveva nella faccia il disegno di un cappello; il segretario era attraversato da un Gran Ristorante; e la signora Clitennestra portava sul naso la strombazzata della Compagnia Nazionale del lucido da scarpe francese. Eglino erano diventati tante caricature di Cham, e come se ciò non bastasse, di sopra li percotevano alcuni paroloni di gaz illuminante da disgradarne Ottino, che predicavano le extra ultime mantiglie al primo piano; l'asfalto si spingeva, sotto i loro piedi, a cantare in lettere bianche le pantofole più morbide dell'universo, e i tavolini da caffè loro sorridevano mosaici di avvisi benevoli e stuzzicanti. Da quella ridda di reclami, i nostri quattro viaggiatori si involarono, riparandosi nella loro umile casetta di rue du Bac, mobile come un vecchio armadio in riparazione davanti la bottega di un falegname. Goldi disse a Geromino: - Ho fatto incetta qui di parecchi giornali scostumati; ma prima di leggerli rinserriamo le nostre consorti nei loro appartamenti. Certi giornali non potrebbe leggerli neppure... mia moglie. Quando fu ben sicuro, che il gentil sesso era rientrato nelle sue tende, il segretario, con il più buffo secretume da Consiglio dei Dieci, offerse un fascio di giornali alla lettura del suo sindaco. Questi, dopo averli esaminati, stette un po' pensieroso e poi ragionò: - Una volta la letteratura francese commetteva qualsiasi bricconata con buon gusto; tanto è vero che il maledico Heine poteva scrivere di Victor Hugo, che questi godeva appunto di una fama singolare, perché egli era l'unico che sconfinasse dal buon gusto fra i suoi connazionali. Ora invece la bricconata letteraria francese viene fuori con la frase più tecnica e più brutale. In questo giornaletto c'è una lettera di uno zio padrino alla nipote Giovannina cucitrice di nero a Montmartre, per i casi occorsile, onde ebbe origine un trovatello, ed è una lettera di cui si potrebbe tradurre il senso ma non la parola cinica. E questa poesia? La vita di un Gaudente, Ninna Nanna. "Quattro anni per dire mamma e papà, amare gli zuccherini, le immagini, e farcela addosso, è la gran bella età! - Dieci anni! per andare in collegio, intraprendere un tirocinio, è la gran bella età! - Diciotto, vent'anni! - Per fare all'amore, per diteggiare i vaghi corsetti, i giocondi visini, le gambe fatte al tornio, ecc.". Per un tratto non si può più continuare nella traduzione in prosa... "Cinquant'anni! Per essere scornato e ricevere un calcio nel sedere dall'uomo che vi disonora. È la gran bella età! - Sessant'anni. - Per crepare di quattrini, divenire un personaggio immondo, gesuita, putrido, classe dirigente, è la gran bella età! - Ottant'anni! Per essere completamente imbecille, avere la testa che dondola, e farsela nuovamente addosso, è la gran bella età...". - A me quello che piace di più è il seguente avviso - interruppe Goldi prendendo il giornale di mano al sindaco. - La comparsa del libro di Paolo Makalin, LE LEGGIADRE ATTRICI DI PARIGI, ha testè suggerito ad uno dei nostri più avveduti uomini di finanza il proposito di fondare una società in accomandita per l'estrazione del mercurio dai corpi di ballo e simili... - Questo è niente - rispose Geromino: - è il n. 11, anno I, di un giornale che morrà presto, come un fungo... il grido di disperazione corbellatrice degli ingegni abortiti o disgraziati e delle vocazioni spostate, che si incollano confondendosi in questo oceano di glutine parigino, dove nella calca mostruosa l'individuo è isolato, e il parroco smesso può fare senza rossore il vetturino, e l'avvocato e l'ingegnere, in mancanza di meglio, possono adattarsi tranquillamente a fare il cameriere d'albergo. Direi che c'è qualche cosa di nobile e di positivo, di forte, o per parlare più difficile, c'è qualche sentore d'aurora, d'ideale e di avvenire in questo orribile muoversi dei diseredati e dei calpestati, che mordono le calcagna a coloro che passano di sopra... Ma io trovo molto più lercio e più rivoltante il linguaggio di alcuni fra gli ingegni riusciti costituiti e dominanti. Prendiamo questo giornale illustrato, che ha sedici anni di vita fiorente, è l'organo della gente ammodo, è pieno di brio, di arguzia e di utilità pratica, e in una pagina sola di disegni ci fornisce un mondo di storia vera, istruttiva e divertente, la storia di una famiglia nobile dalle Crociate alla Esposizione dei formaggi. Orbene vediamo in quale prosa casca questo ammirabile giornale. Ecco qui a pag. 462: Consigli pratici ai forestieri. Ci descrive i quartieri delle disgraziate creature che pigliano addirittura il nome dal mondo intiero, loro clientela; ed esse non sono più le allegre Lisette di Béranger, le matte studentesse, le peccatrici dal cuore leggiero, le grisettes dall'anima di cardellino; ma sono le avide, le truculente, le mascherate cocottes, entomati, vibrioni, mangiatrici di denaro. Ci descrive il Quartier de l'Europe e poi le Quartier des Martyrs e dice: "Le castellane di questo quartiere si compiacciono estremamente del respirare aria fresca; e perciò fanno in accappatoio bianco delle lunghe pose alle finestre dei loro alloggi. Sarebbe perfettamente inutile l'accingersi ad una serenata per commuoverle... Non vi getterebbero di certo la scala di seta. Il meglio si è rivolgersi al portinaio. D'ordinario si trova la chiave sotto l'uscio; se non c'è, è meglio non insistere: - Chiuso per causa di occupazione...". - E questo birbone di giornalista, seguita in un modo, che ho rossore di seguitare a tradurre io... Ci descrive la sacerdotessa nella sacristia del suo abbigliatoio, e poi meglio ancora, quando la porta si apre, la tenda si solleva; e la sacerdotessa compare nel tempio fresca, fragorosa e olezzante; la soave capigliatura sparsa; e la grande persona drappeggiata in un vago velo di China, celeste o rosa, allacciato da capo a fondo da piccoli nodi di setino. Qui quel briccone di giornalista, che si potrebbe chiamare dantescamente galeotto, ci dà persino il manuale di conversazione con la solita traduzione inglese per i viaggiatori che sono stimati più danarosi: "Quelle étoffe soyeuse! - Ce peignoir s'agrafe jusqu'en haut. Ce sont des noeuds. Est?ce qu'ils peuvent se défaire? - ...Cette jarretière ne vous serre pas trop. En êtes?vous sûre? - Vos petits pieds sortant de ces pantoufles ont l'air de sortir d'un nid". E concede persino degli scherni placidi alla morale e alla filosofia: "Le moraliste s'en etonne. Le philosophe s'en afflige. Mais qu'y faire? (The moralist is astonished - The philosopher is sorrow. Can you help it?)". A questo punto il sindaco si rizzò in piedi, fregandosi il pugno negli occhi, quindi proruppe: - Ma se vi sono dei giornali che si intitolano dai Grandi Matrimoni, se vi è Le Trait d'union. Organo dei celibatarii e delle famiglie; domando io, perché questa prosa non potrà entrare in un Giornale Ufficiale delle Mondane, delle generose Morelliane...? Poi l'adirato Geromino si sedette nascondendo la faccia nelle mani. Pensò al suo villaggio, alla sua famiglia, alla sua sposa; pensò, che lo scrittore di quelle righe forse aveva anche lui una famiglia illibata in una città di provincia o in un castello, dentro la strombatura di una montagna. - Sì! Ed avrà una nonna bianca, veneranda, che sprofondata in un seggiolone a bracciuoli, con gli occhiali verdi sul naso, leggerà al chiarore casalingo dell'olio d'uliva i giornali dell'ultima posta cercandovi la notizia dei successi teatrali del figlio drammaturgo... Ed il figliuolo venuto qui, dove la foga della grande città annichila nella vita pubblica esterna i morali e santi ripostigli della divina famiglia, venuto qui, vittima inconscia del putridume, che lo ingoia, serve da letterario mezzano... Il sindaco fu di nuovo in piedi e agguantò pei bottoni il segretario vociandogli con una efferatezza di voce soffocata: - Ma vi sono dunque due leggi morali, e due razze d'uomini...? E una mia figlia potrà appartenere al sesso di quella sciagurata!... Una delle due: o noi siamo minchioni, o quelli non sono uomini, sono compagni di Sant'Antonio. Geromino era ricaduto sulla seggiola spossato; e si sarebbe detto che piangesse tacitamente. Pino Goldi si appigliò al solito partito da lui praticato, quando vede alcuno a piangere; accende il sigaro, perché, dice lui, non si vedano le sue lacrime di richiamo. Ma il sindaco non piangeva; onde Pino Goldi gli disse: - Caro mio, impara a conoscere il mondo, e piglialo come viene. E per istruirci di più, domani sera dobbiamo andare tutti al Mabille.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Io so perché sono arido, io so perché Dio mi abbandona. Sempre quando Dio mi abbandona, quando tutte le sorgenti vive dell'anima mia inaridiscono e i germi vivi si disseccano e il mio cuore diventa un mare morto, io so perché. Perché ho udita una musica soave alle mie spalle e mi sono voltato, oppure perché il vento mi recò fragranze dai prati in fiore a lato della mia via e mi arrestai, oppure perché la nebbia mi è salita di fronte e ho temuto, oppure perché uno spino mi offese il piede e ne ho concepita ira. Istanti, baleni, ma intanto l'uscio si apre, un soffio maligno entra. È sempre così, basta uno sguardo raccolto, una lode gustata, una immagine trattenuta, una offesa rimeditata, il soffio maligno entra. E adesso è tutto questo insieme! È scesa la notte sul mio cammino, ho messo il piede nell'erba molle, la ho sentita, ho ritratto il piede ma non subito. Perché adopero figure? Scrivi scrivi, mano mia vile, la nuda Verità! Scrivi che questa casa è un nido di mollezza e che se ho gustato il letto soffice, la biancheria fine, l'odore di lavanda, ho molto più gustato la conversazione del signor Giovanni e le letture assorbenti nel diletto della mente, l'aura di due giovani donne pure, intellettuali, piene di grazia, la loro ammirazione segreta, il profumo di un sentimento che una di esse mi è parsa chiudere in sé, la visione di una Vita nascosta in questo nido fra queste persone, lontana da tutto ch'è volgare, ch'è basso, ch'è immondo, ch'è schifoso. Ho sentito il male del mondo con il ribrezzo che se ne ritrae e non con il focoso dolore che lo affronta per strappargli le anime. Istanti, baleni; mi rifugiai come un tempo nell'abbraccio della Croce ma la Croce, poco a poco, altrimenti da un tempo, mi diventò nelle braccia legno insensibile e morto. Mi sono detto: spiriti di nequizia, male volontà sapienti e forti che sono nell'aria, congiurano contro di me, contro la mia missione. Mi sono risposto: superbia, giù! E poi la prima idea mi riprese, ondeggiai cieco in questa vicenda trista, ogni giorno, tutto il giorno. E poiché niente ne ho lasciato trasparire, poiché capivo che il signor Giovanni e le Signore non dubitavano che io non fossi nell'interno così sereno, così puro come il mio esterno pareva, mi disprezzai, certi momenti, come un ipocrita, per dirmi, il momento dopo, che invece il mio esterno puro e sereno mi aiutava a vivere, parlo della Vita spirituale; che il parer forte mi obbligava a esser forte. Mi paragonai a un albero che ha il midollo divorato dai vermi, il legno consunto dalla putrefazione e vive per la corteccia, può dare foglie e fiori per lei, può dare ombra benefica. E poi mi dissi che questo era buono per gli uomini; ma davanti a Dio, davanti a Dio? E poi mi dissi ancora che Dio mi potrebbe sanare perché l'albero divorato nel midollo non è sanabile ma l'uomo sì; e allora mi torturai per la impotenza di fare quello che Dio avrebbe chiesto a me come cooperazione della mia volontà alla Sua: fuggire, fuggire. Dio è nella voce dell' Aniene che dalla sera della mia partenza da Jenne mi dice: "Roma, Roma, Roma"; e Dio è pure nella forza dei vermi invisibili che mi hanno rosô le virtù vitali del corpo. E allora e allora e allora? Signore, ascolta il mio gemito che Ti domanda giustizia. Ho detto tante volte che certamente partirò appena ne avrò la forza e qui mi vorrebbero trattenere e come potrò io dir loro: amici miei, voi mi siete nemici? Ecco, viltà mia! Perché non potrei dirlo? Perché non lo dirò? Ho letto un giorno nello sguardo della giovine protestante: - Se Lei parte che sarà dell'anima mia? Non deve Lei desiderare di condurmi alla fede Sua? Io non mi lascio condurre ancora. - No, non posso, non debbo scrivere tutto. E come scrivere l'espressione di uno sguardo, l'intonazione di una parola per sé indifferente? Non sono sguardi come quello per il quale San Girolamo s'immerse nell'acqua gelata o almeno la commozione mia non somiglia alla sua. Non vale acqua gelata contro uno sguardo puro nella sua dolcezza. Solo il fuoco vi arriva, il fuoco dell'Amore supremo. Oh chi mi libera dal mio cuore mortale che non si move di un solo picciol moto senza movere tutte le fibre del corpo, chi mi libera il cuore immortale che gli è interno come il germe al frutto e si prepara un corpo celeste? Non posso, non debbo scrivere tutto, ma questo sì lo voglio scrivere: il Signore mi tende insidie e lacci! Caduto, mi deriderà! Perché è avvenuto che io scrivessi il passo latino sulla gente che vive in penitenza fra il Mar Morto e il deserto, "sine pecunia, sine ulla femina, omni venere abdicata, socia palmarum" su quel pezzo di carta che recava sull'altra faccia parole di J. D., calde ancora del mio peccato antico e del suo, delle memorie più terribili? Perché una persona così timida ha osato impormi una comunicazione segreta? Il vento mi ha spalancata la finestra. Oh Aniene Aniene, come non ti stanchi di ruggirmi il tuo comando! Che io parta sul momento? Impossibile, le porte sono chiuse. E poi sarebbe indegno di partire così. Disonorerei Dio, farei dire: che qualità di servi ingrati e pazzi ha il Signore? Vieni, spirito del mio Maestro, vieni, vieni, parla, io ti ascolto. Che mi dici? Che mi dici? Ah tu sorridi delle mie tempeste, tu mi dici di partire, sì, ma di partire nobilmente, di annunciare che il Signore me lo comanda. Tu mi dici di obbedire alla voce di Dio nell' Aniene. Ecco che il vento si allontana, pare chetarsi, contento. Sì, sì, sì, con lagrime. Domani, domattina. Lo annuncierò. E so a chi andrò in Roma. Oh luce, oh pace, oh sorgenti redivive dell'anima mia, oh mare morto che ti gonfii in una calda ondata! Sì, sì, sì, con lagrime. Grazie, grazie. Gloria a Te, Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome Tuo, venga il regno Tuo, sia fatta la Tua volontà! _______________________

Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

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Doveri dell'uomo

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Mazzini, Giuseppe 1 occorrenze

Ed anche quella cessa e abbandona quelle frazioni collettive dell'Umanità, quand'esse non la dirigono al bene, all'adempimento del disegno previdenziale Non esiste dunque Sovranità di diritto in alcuno; esiste una sovranità dello scopo e degli atti che vi si accostano. Gli atti e lo scopo verso cui camminiamo devono essere sottomessi al giudizio di tutti. Non v'è dunque né può esservi sovranità permanente. Quella istituzione che si chiama Governo non è se non una Direzione: una missione affidata ad alcuni per raggiungere più sollecitamente lo scopo della Nazione; e se quella missione è tradita, il potere di direzione fidato a quei pochi deve cessare. Ogni uomo chiamato al Governo è un amministratore del pensiero comune: deve essere eletto, e sottomesso a revoca ogni qualvolta ei lo fraintenda o deliberatamente lo combatta. Non può esistere dunque, ripeto, casta o famiglia che ottenga il Potere per diritto proprio, senza violazione della vostra libertà. Come potreste chiamarvi liberi davanti ad uomini ai quali spettasse facoltà di comando senza vostro consenso? la Repubblica è l'unica forma legittima e logica di Governo. Voi non avrete padrone fuorché Dio nel cielo e il Popolo sulla terra. Quando avete scoperto una linea della Legge, dei voleri di Dio, dovete, benedicendo, eseguirla. Quando il Popolo, l'unione collettiva dei vostri fratelli, dichiara che tale è la sua credenza, dovete piegar la testa e astenervi da ogni atto di ribellione. Ma vi son cose che costituiscono il vostro individuo e sono essenziali alla vita umana. E su queste neppure il popolo ha signoria. Nessuna maggioranza, nessuna forza collettiva può rapirvi ciò che vi fa essere uomini. Nessuna maggioranza può decretar la tirannide e spegnere o alienare la propria libertà. Contro il popolo suicida che ciò facesse, voi non potete usar la forza, ma vive e vivrà eterno in ciascun di voi il diritto di protesta nei modi che le circostanze vi suggeriranno. Voi dovete avere libertà in tutto ciò ch'è indispensabile ad alimentare, moralmente e materialmente, la vita. Libertà personale: libertà di locomozione: libertà di credenza religiosa: libertà d'opinione su tutte le cose: libertà d'esprimere colla stampa o in ogni altro modo pacifico il vostro pensiero: libertà di associazione per poterlo fecondare col contatto nel pensiero altrui: libertà di traffico pei suoi prodotti son tutte cose che nessuno può togliervi, salvo alcune rare eccezioni, ch'or non importa il dire, senza grave ingiustizia, senza che sorga in voi il dovere di protestare. Nessuno ha diritto, in nome della Società, d'imprigionarvi e di sottomettervi a restrizioni personali o invigilamento, senza dirvi il perché, senza dirvelo col minore indugio possibile, senza condurvi sollecitamente davanti al potere giudiziario del paese. Nessuno ha diritto d'inceppare con restrizioni di passaporti od altro il vostro trasferirvi di parte in parte della terra che è vostra Patria. Nessuno ha diritto di persecuzione, d'intolleranza, di legislazione esclusiva sulle vostre opinioni religiose: nessuno, fuorché la grande pacifica voce dell'umanità, ha diritto di frapporsi fra Dio e la vostra coscienza. Dio vi ha dato il Pensiero: nessuno ha diritto di vincolarlo o sopprimerne l'espressione, ch'è la comunione dell'anima vostra coi vostri fratelli e l'unica via di progresso che abbiamo. La stampa dev'essere illimitatamente libera: i diritti dell'intelletto sono inviolabili, ed ogni censura preventiva è tirannide: la Società può, come tutte le altre colpe, punire soltanto le colpe di stampa: la predicazione del delitto, l'insegnamento dichiaratamente immorale: la punizione in virtù d'un giudizio solenne è conseguenza della responsabilità umana, mentre ogni intervenuto anteriore è negazione della libertà. L' associazione pacifica è santa come il pensiero: Dio ne poneva in voi la tendenza come avviamento perenne al progresso e pegno dell'Unità che la famiglia umana deve un giorno raggiungere: nessun potere ha diritto d'impedirla o di limitarla. Ciascun di voi ha dover d'usar della vita che Dio gli diede, di serbarla, di svilupparla; a ciascun di voi corre quindi debito di lavoro, solo mezzo di sostenerla materialmente: il lavoro è sacro: nessun ha diritto di vietarlo, d'incepparlo o di renderlo con regolamenti arbitrari impossibile: nessuno ha diritto di restringere il libero traffico de' suoi prodotti: la terra che v'è Patria è il vostro mercato, e nessuno può limitarlo. Ma quando avrete ottenute che queste libertà siano sacre, quando avrete finalmente costituito lo Stato sul voto di tutti e in modo che l' individuo abbia schiuse davanti a lui tutte le vie che possono condurre allo sviluppo delle sue facoltà - allora, ricordatevi che al di sopra di ciascun di voi sta lo scopo che è vostro dovere raggiungere: perfezionamento morale vostro e d'altrui, comunione più sempre intima e vasta fra tutti i membri della famiglia umana, sì che un giorno essa non riconosca che una sola Legge. ?Voi dovete formare la famiglia universale, edificare la Città di Dio, tradurre in fatto progressivamente, con un continuo lavoro, l'opera sua nell'umanità. Quando, amandovi gli uni cogli altri come fratelli, voi vi tratterete reciprocamente sì come tali, e ciascuno, cercando il proprio bene nel bene di tutti, i propri interessi negl'interessi di tutti, pronto sempre a sacrificarsi per tutti i membri della comune famiglia, egualmente pronti a sacrificarsi per lui, i più tra i mali che pesano in oggi sulla razza umana spariranno, come i vapori addensati all'orizzonte spariscono al levarsi del sole: e ciò che Dio vuole si compirà: però che è suo decreto che l'amore, unendo a poco più sempre strettamente gli elementi dispersi dell'umanità, e ordinandoli in un sol corpo, essa sia una com'egli è uno?.(11)

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 1 occorrenze

Nel tuo occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona la triste spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t'affidi senza timore ben più forte saprò navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro mare. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte a chi libero la sfidò». - Carsia, 2 settembre 1910

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 1 occorrenze

lo crederanno pure un devoto e qualche beatella piangerà lagrime di commozione e loderà Dio che lui, un uomo, si trova nel tempio, ascolta la Messa e crede; prega e crede in questo secolo ventesimo, dove la fede e la preghiera sembravano diventate un privilegio delle donne, che il sesso forte abbandona loro incontrastato. Avessero saputo quelle beate ciò che egli stringeva al suo petto; che cosa sarebbe volato di lì a qualche istante nella chiesa. Sorrise con scherno. I credenti asseriscono che Gesù è Dio e Figlio da Dio, onnisciente ed onnipotente, e che diventa presente nell'Ostia. Ma se davvero è là presente, come va, che non ignori ciò che egli porta sul petto e se lo sa. perche non lo impedisce? Col far scoppiare la bomba in chiesa egli prova che Dio non esiste, oppure, se esiste, nulla sa e nulla può; neppure difendere i suoi fedeli, i suoi ministri, la sua chiesa, se stesso. Questo pensiero dura un solo istante, che poi la sua mente torna ad occuparsi dei suoi sogni. Cerca di distrarsi di nuovo. Come mai gli sono venuti quei sogni? V'è chi sostiene che il sogno è causato da qualche grande sensazione del giorno innanzi, oppure dallo stato fisico dell'individuo; ma egli non aveva mai pensato alle benemerenze della Chiesa, nelle quali non credeva, ed era da anni, che non pensava ne a Cartagine ne a Nerone o a Napoleone, a Filippo II, alla storia d'Italia, e tisicamente si sentiva così bene; digeriva bene; mangiava bene; beveva bene; non sentiva nessun malessere. Donde dunque quei sogni? Ma più, assai più dell'origine dei sogni, lo interessava il loro contenuto; cercava di smentirlo; di convincersi, che quelle erano le pazze fantasie di una mente esaltata: ma non riusciva. Non volle occuparsi più a lungo di quei sogni; ne temeva l'influenza.. Chiuse la corrente elettrica; la stanza venne inondata di luce; balzò dal letto abbenchè facesse freddo, perché non aveva la stufa ed il fuoco del caminetto, la sua specialità, era spento da ore, e si gettò nei suoi panni. Ma mentre si vestiva lo perseguitava il ricordo dei suoi sogni. Voleva smentirli. Diceva a sé stesso: Non sono veri! La Chiesa è stata sempre la maggior nemica dell'Italia ed anzi del genere umano. Ma una voce interna rispondeva: - Tu menti, sapendo di mentire. Non è vero! non è vero! Per fugare quei pensieri tuffò la testa nell'acqua diaccia della bacinella, ma neppure il freddo li cacciò. Passò all'armadio, lo aprì e guardò le quattro bombe di bronzo lucido, bei giallo come l'oro caldo. Provò da principio un immenso piacere alla vista di quei terribili gingilli. Li aveva fatti lui; erano sue fatture; opera sua; egli li aveva saldati, li aveva costruiti con tanta pazienza, li aveva ???Incidati con amore; non dovevano essere soltanto micidiali ma anche belli; li aveva riempiti colla dinamite.... Fu, per un istante, fiero di questi lavori. Ed a dire che essi contenevano la morte di decine di persone; che sarebbero stati la grande voce dell'anarchia; un monito severissimo alla Chiesa, alla borghesia, al putridume strozzinesco, i quali avviliscono l'umanità. Allungò il braccio, quasi per accarezzare quelle bombe micidiali, e specialmente una, la più elegante, a forma d'ovo, che egli aveva destinata per se stesso, che avrebbe lanciata in chiesa, avanti all'altare, per punire... Chi?.... per vendicare..Chi'? Ed i suoi sogni gli si affacciavano imperiosi e gli dicevano: - Mentitore! Inganni tè stesso sapendo di essere nell'inganno. La Chiesa non è stata mai la nemica del popolo nÚ d'Italia, ma anzi tutelò sempre i diritti del popolo ed insorse a difendere l'Italia; s'interpose tra lei ed i barbari; e se l'Italia è tuttora faro di civiltà, lo si deve a lei! ? No, non è vero! ? gridò angoscioso. ? Tutto il male venne al mondo dall'altare, il maggior puntello del trono, che lo sostiene da canto suo. Tutto il male viene dalla Chiesa e perciò... Non potè continuare. Aveva fatto da ragazzo il proponimento di' non fare mai contro la luce. Non voleva respingere mai una verità riconosciuta, ne abbracciare mai un evidente errore. E nel momento stesso, nel quale la dottrina più cara;, l'assioma più gradito, la teoria più desiderata gli sarebbe apparso errore l'avrebbe tosto abbandonato, perché per lui la verità era superiore a tutto. Quando poi era andato a militare nelle file dell'anarchia, aveva detto a tutti i suoi aderenti d'i questo suo proposito; lo sapevano tutti, che egli era passato alle file anarchiche per persuasione; erano fieri di averlo compagno e lo additavano agli altri partiti, come una grande prova della bontà del loro sistema. - Se non fosse convinto, che l'anarchia è il miglior sistema e contiene la verità, non militerebbe nelle nostre file ? dicevano. Ed ora una voce lo rimproverava: ? Tu fai contro la luce. - Pah! Per un sogno! per un sogno sciocco! Chiuse l'armadio e consultò l'orologio. Le sette erano passate di poco. L'amico Narciso sarebbe venuto attorno le otto. Aveva tempo di prendere un caffè. Passò alla finestra e aprì le invetriate, per poter spalancare le persiane. Una raffica di vento freddo entrò nella stanza. Di fuori il buio era ancora perfetto; il cielo gravido di nubi; il lastrico coperto di un alto strato di neve candida, le vie deserte. Per il momento non nevicava. Chiuse rapidamente la finestra, cacciò una berretta di pelle in capo, tirò su il collare del pastrano, cacciò nelle tasche le mani inguantate, usci dal suo piccolo appartamento, scese le scale e passò sulla via. Il pensiero: tu scendi per l'ultima volta queste scale, gli sembrò cosi strano; lo fece trasalire. Pensò: Non potrei lanciare ora, la bomba e approfittare della confusione, che avverrà, per svignarmela? Era per lo meno probabile che avrebbe messo al sicuro la propria vita. Ma poi cacciò questo pensiero. Non voleva sembrare vile; non voleva che si fosse detto l'indomani: la bomba venne lanciata da uno dei nostri soliti avversari, gente vale, capace di commettere il delitto, ma incapace di sopportarne le consegunze. Giunse sulla via e attraverso. Era deserta. Chi mai esce a quell'ora il giorno di Natale? Il freddo era cane; la neve, dura. scricchiolava sotto i suoi piedi, che imprimevano in quella orme profonde. Giunse alla piccola piazza, dove c'era un caffè. Era aperto. Attraverso le lastre, appannate dall'alito di chi si trovava entro, trapelava uno scialbo bagliore. Pose la mano sul saliscendi, apri l'uscio ed entrò. Il caffè era deserto; non v'era allora anima vivente. Chi mai va alla mattina di Natale, alle sette, al caffè? A quell'ora i più dormono ancora; e chi non dorme è in chiesa oppur prende il caffè a casa sua. I pochi frequentatori assidui del caffè nelle prime ore del mattino, operai ed impiegati, non ci vanno il giorno di Natale. Nessuno lavorava in questo giorno ed essi potevano custodire perciò un po' più a lungo le piume. I camerieri sbadigliavano annoiati. Uno gli si fa incontro. ? Buon Natale Egli non risponde. Gli viene il prurito di protestare contro il saluto, contro il Natale, contro i gonzi, che ancora lo festeggiano, ma comprende, che ciò non avrebbe giovato. Ci voleva la rivoluzione ed il trionfo dell'anarchia, per cancellare ogni traccia di superstizione. Si fece portare il suo solito caffè ed i giornali. Fu di malumore al rilevare, che i giornali del mattino non erano usciti, in omaggio alla festa. ? Maledetto Natale! ? mormorò tra sé e se. Il cameriere del suo tavolo gli domandò colla confidenza che concede una lunga conoscenza: ? Ha passato bene la notte di Natale? ? Ho dormito ? fu la brusca risposta. ? Non è stato invitato a cena da nessuno; non ha atteso la mezzanotte? Egli proruppe in una breve risata di scherno. ? Sono superiore a queste scioccaggini! Per me il Natale è un giorno come tutti gli altri, e la notte di Natale ho dormito e sognato, come in tutte le altre notri ? rispose. Il cameriere sorrise. Sorrideva sempre: Osservò: ? C'è chi ci tiene moltissimo ai sogni d'ella notte di Natale. Giovanni Giunti non rispose ma si occupò del suo caffè. II cameriere comprese e si allontanò. Vuotò in fretta la tazza.Non si sentiva ad agio in quell'ambiente pubblico, allora vuoto, sotto gli occhi curiosi dei camerieri sfaccendati, i quali lo osservavano come una rara avis, una bestia strana. Non voleva pascere, colla sua persona, l'altrui curiosità. Fece un breve giro per la città silenziosa, alla luce grigia di un' alba,contrastata delle dense nubi, che velavano il cielo, e poi ritornò a casa per attendere Narciso Rossi. Erano le sette e tre quarti. Che cosa aveva da fare; come ammazzare il tempo fino alle dieci, quando sarebbe andato alla cattedrale, per gettare la bomba tra i fedeli? Girò irrequieto su e giù nella stanza da studio, tormentato dai suoi antichi sogni, il cui ricordo, strana cosa, non lo abbandonava. Apri due volte lo stipo e lo rinchiuse. La vista delle bombe non gli faceva più piacere. Una voce interna lo rimproverava: - Tu fai contro la luce. Ed egli sentiva, che la voce non aveva tutti i torti. L'anarchia? L'unica tavola di salvezza. Gettare la bomba? Era necessario - In chiesa? Voleva attendere Narciso Rossi. Il tempo passava, lentamente, molto lentamente, ma pur passava. Passano anche le ore delle maggiori angosce???, che sembrano interminabili, e quanto più interminabile sembrò uno spazio di tempo prima d'incominciarlo o mentre ci si era dentro, perché tempo di sofferenze di dolori, d'ignominia, tanto più breve esso sembra di' poi, quando è terminato, osservare alla serena luce di giorni lontani. Vennero le otto e un quarto, la mezza, i tre quarti. Incominciò a diventare impaziente. Avevano pur deciso di lanciare la bomba quella mattina I Quanto più attenete, tanto più si concretizza in lui un pensiero, e questo, sa è: Attendere. Attendiamo, che la calma ritorni nel mio spirito. Non era detto, che si dovevano lanciare le bombe proprio quella mattina. Non era neppur detto che dovevano venir lanciate. La direziono del partito, forte a parole e vile a fatti, aveva anzi deciso, che non dovevano venir lanciate, che il loro getto avrebbe danneggiato la causa piuttosto idi favorirla. Voleva dire a Narciso Rossi: - Ti tengo legato alla tua promessa, ma oggi non è ancora venuto il giorno opportuno. E' meglio attendere alquanto e fare i preparativi con maggior calma. Le lanceremo più tardi, in un giorno di maggior concorso, di gran folla, dopo di aver combinato le cose in modo da poter fuggire. L'amico avrebbe accettato con voluttà la proposta, ed intanto egli avrebbe potuto riflettere; sciogliere le potenti obiezioni, causate dai terribili sogni; cercare prove per dimostrare, che la Chiesa è il maggior nemico dell'umanità. Avrebbe continuato a vivere, per qualche giorno ancora. La vita non è spiacevole neppur per un anarchico. L'attuale società è la peggiore che immaginar si possa eppure non la si abbandona volentieri. Ma un evento venne a turbare i suoi calcoli. Erano le nove, quando bussarono. ? Chi può essere? ? esclamò. La visita gli veniva importuna. Non poteva essere Marcelle. Questi sapeva che c'era il campanello elettrico; non la domestica la quale aveva le chiavi dell'abitazione, per poter venire quando le sarebbe parso bene. Una visitarla mattina di Natale; in quella mattina cosi brutta, così piena di vento, di neve, alle nove? Andò all'uscio e lo aperse. Gli si presentò la faccia rossa di un fattorino, dal grosso naso a peperone, che brillava di una luce rossastra, intensa, e dall'alito, che puzza va di alcool. Il fattorino aveva fatto già il sacrifizio mattutino a Dio Bacco. Tra le dita, coperte da un paio di guanti di lana, una volta grigi, ed ora coperti di sudiciume, egli teneva una lettera. ?E' tei il signor Giunti? ? domandò. ? Chi manda? - E' lei o non è lei? - insistè il fattorino? Date qui. - E' lei o non è lei? - ripetè il fattorino, il quale aveva fatto delle libazioni durante tutta la notte e non sembrava disposto,a cedere la tetterà senza aver prima risposta a quella domanda. - Sì - rispose l'anarchico, che si era accorto dello stato anormale del fattorino. - Prenda - rispose questi soddisfatto, dandogli la lettera. - Chi manda? - insistè Giunti da canto suo. Il fattorino rise. _ Un uomo in calzoni. ? rispose. ? Matta idea la Mi diede la lettera qua, sulla strada. Buona idea la mia di appostarmi il giorno di Natale. Cioè. Non mi era appostato. Ero stato a Messa Diamine. Ci vado a Natale ed a Pasqua. Non sono mica un cane io. Eppoi ero andato a bere un bicchierino. Tempo cane. signori. Loro signori non sentono l'inverno. Hanno una bella abitazione, mangiano bene, bevono meglio, sono ben vestiti. Ma verrà il giorno, sa! Non sono anarchico io! il ciel mi guardi! Ma verrà il giorno; deve venire il giorno..! ? esclamò il fattorino, «e i suoi piccoli occhi lustri, brillavano di una luce strana, tra il minaccioso e l'allegro. Egli assaporava già ora le gioie di quel dì, vicino o lontano, ma che doveva certo venire, nel quale sarebbero state livellate le condizioni sociali ed egli avrebbe potuto passarsela come i signori, liberi questi da fare i fattorini se credevano, e magari di mendicare. Giunti non dimenticò di essere anarchico. Volle fare un po' di propaganda alte sue persuasioni, e disse perciò: ? Il giorno è vicino! Stupore del vecchio. ? Lo dice anche lei? ? domandò. ?Sì. - Allora si farà tutto a parte? - Tutto sarà di tutti. - Ella, un signore, lo dice? - Ne sono convinto ed anelo, ed anelo il momento. Il fattorino rise. Il suo riso era ironico. Il popolo ha un'ironia sublime. _ Se il signore vuole può affrettare quel momento. Si decida. Io sono disposto di accertare tutto. Mettiamo in comune la sua abitazione. Sono pronto di entrare subito - disse. Una leggera nube velò il volto di Giunti. E' questa la solita obiezione che i non anarchici fanno a chi professa queste dottrine. ? Voi siete anche comunardi. Ebbene: Procedete coll'esempio. - Lo farò, quando lo faranno tutti. Per guarire la società è necessario che il capitale sparisca, che spariscano i superiori, le autorità, le leggi, e che tuffo diventi proprietà di tutti ? osservò. I] fattorino rise. - Così lo dicono furti. E mentre l'uno attende che incomincino gli altri, non si muore di fame e di freddo ? osservò. Giunti sentì nausea di quell'uomo. ? Se spendeste un po' meglio il vostro danaro; se invece di ricorrere al bicchierino ed ai liquori vi compraste pane, non avreste da lamentarvi ? disseti fattorino rise. - Non ho bisogno di lezioni - osservò. Giunti prese la lettera e diede al fattorino una lira di mancia. Questi neppure ringraziò. La lira gli sembrava troppo poca cosa per un uomo, il quale si vantava comunardo e predicava venuto il tempo della divisione, nel quale tutto doveva diventare proprietà di tutti. Giunti rientrò nella sua stanza calda, ben illuminata. ? Manda Marcelle. Cosa scrive? ? disse, osservando la soprascritta. Gli venne un sospetto. - Che sia davvero vile? - domandò a se stesso. Stracciò la busta e lesse le poche righe. _ Vile i ? esclamò. ? Davvero vile! Il biglietto, scritto colla mano tremante, diceva: ? Non posso! Tanti innocenti..? ? Tanti, tanti innocenti! - motteggiò. Innocenti? No, non erano innocenti. Erano correi; correi magari senza volerlo, senza saperlo; correi per l'istruzione sbagliata, ricevuta dai genitori, dagli avi; correi, perché non avevano saputo sollevarsi in alto, a più spirabil aere; eppoi tutta la società era folle, era fiacca; aveva bisogno di una lezione. Innocenti? Non lo erano; perché frequentavano la chiesa, i passeggi, perché facevano sfoggio del loro lusso, perché erano borghesi, perché volevano che sopravvivesse una società avariata, perché volevano conservate le disuguaglianze sociali? Ma anche se fossero stati innocenti, il mondo è fatto così. La natura non bada ne, agli innocenti ne ai rei; sacrifica quanti occorrono venir sacrificati, per il raggiungimento dei propri fini; il falcone e l'aquila fanno allo sfesso modo scempio della pacifica gallina e del superbo tacchino, il falcone divora egualmente il passero, così dannoso, e un usignolo canoro, e gli uragani schiantano l'inutile pioppo e la quercia, il melo, il pero, il susino ed altri alberi, così utili alla vita. Innocenti? La sua era opera necessaria e purificatrice; si trattava di ricostruire una società nuova sulle rovine dell'antica; e questa non volendo crollare da sé andava atterrata. Non era per colpa sua se nel suo crolloessa avrebbe schiacciato e seppellito sotto le macerie anche qualche innocente. Egli non voleva che il bene altrui; non era per colpa sua, se, per ottenere il bene, doveva schiantare coloro che vi si opponevano. Narciso Rossi si rifiutava. Vile! Vile! Già; il Natale; la pazza poesia della sacra notte. Egli l'aveva passata coi congiunti, alla luce di qualche albero, scioccamente ornato di fiori e di lumi; aveva udito il canto di inni e canzoni natalizie, e si era commosso. Vile, vile! Non pensò, che qualche minuto prima aveva deciso di non gettare la bomba; di rinunziare, per il momento, a quell'atto d'i vendetta sociale; di dire a Narciso, che avrebbe atteso tempi migliori. Non senti che rabbia e sdegno per l'antico amico ed un'avversione grande contro di lui... Che aveva da fare? Rimanere fedele alla decisione presa poc'anzi e procastinare il getto delle bombe?,, Ma che ne avrebbe detto Narciso Rossi? Lo avrebbe giudicato egualmente vile; oppure avrebbe pensato che non si poteva fare senza di lui; che egli, Narciso, era indispensabile? Avrebbe potuto rimproverargli la sua colpa? No. L'altro gli avrebbe potuto dire: Perché rimproveri a me quanto dovresti rimproverare prima a tè stesso? sei forse un bambino, che non osi agire da solo; che dipendi da me nel tuo operato? sic io sono un vile, che mi sono rifiutato di gettare la bomba, lo sei tu pure. Era proprio necessario che due scoppiassero allo stesso tempo? Non bastava una sola, la tua? Potenza dell'orgoglio umano, di un falso amor proprio, della tema di venir giudicato male! Egli mutò rapidamente pensiero. Aveva deciso di soprassedere a quel getto; di attendere un istante più opportuno. La sua prudenza gli aveva suggerito questo. Aveva preso questa decisione dopo un esame maturo e prudente, ed ora bastò quello scritto, bastò la tema di venir creduto vile, per fargli mutare pensiero. - Non avrà il gusto di rimproverarmi la sua viltà! - disse, e prese la rapida decisione di attuare il suo progetto e di diventare, quella mattina ancora, assassino e omicida. La ragione gli diceva: Attendi, attendi! Ma egli ne faceva tacere con violenza la voce., La coscienza gli diceva: Bada che fai contro la luce; ed i suoi sogni si ergevano maestosi, terribili, avanti a lui e gridavano: Tu agisci male; tu inganni la tua coscienza; la Chiesa non ha mai avversato la vera libertà, non è nemica d'Italia. Il suo falso amor proprio fece tacere anche questa voce. Non gli riuscì di riduria al silenzio; pure la soffocò dicendo a se stesso: Non essere vile! Prese posto al tavolo e scrisse a Narciso Rossi. Gli scrisse parole molto amare, di grande rimprovero per la sua viltà senza nome. Vile, che non sai mantenere una promessa Vile, che non sai sacrificarti per un ideale! Vile, che paventi le conseguenze di un'azione, che riconosci doverosa e giusta! Vile, vile! Ora e sempre vile! Sii maledetto, da chi va a morire per il suo ideale; va a morire solo, perche ti rifiuti; va a morire colla certezza, che il suo sacrifizio non porterà lo isperato frutto, perche tu gli neghi la tua cooperazione! Vile! Disonore del partito; sii maledetto! Chiuse la lettera in una busta, vergò la soprascritta e l'abbandonò sul tavolo. Dopo la sua morte l'avrebbero trovata e pubblicata. Ne era lieto. Avrebbe procurato così a Narciso Rossi la maggior onta. I veri anarchici avrebbero disprezzato il traditore, e gli altri, i partiti dell'ordine, i borghesi, avrebbero lodato il giovane onesto, che s'i era rifiutato di commettere un delitto di lanciare una bomba, di macchiarsi di tanta colpa; e le lodi, l'approvazione delle autorità e dei circoli borghesi, gli avrebbero recato un'onta ancora maggiore del biasimo dei suoi antichi consenzienti. Narciso Rossi era spacciato. Non gli rimaneva che il suicidio. Sogghignò a questo pensiero. Consultò l'orologio. Erano le nove e mezzo. Doveva spicciarsi se voleva arrivare nella cattedrale a tempo. Aprì l'armadio, levò la bomba sua, l'accarezzò, la baciò e la celò sul petto, sopra il cuore. Indossò il mantello di uscita, tirò alto il collare, cacciò la beretta fin sugli occhi e uscì di stanza. Chiuse l'uscio della propria abitazione. L'abbandonava per sempre. Chi ci sarebbe andato ad abitare? Che se ne curava? Di chi sarebbero stati i suoi mobili? Che gl'importava? Aveva lasciato erede universale Gianni Carpi, il solo onesto fra gli anarchici; il solo veramente povero ed audace tra di loro, coll'incarico di usare dell'anse ereditario soltanto per scopi.di partito, per diffondere l'anarchia. Gianni Carpi avrebbe fatto un buon uso di quel danaro e del ricavato dei mobili; non avrebbe tenuto nulla per se. Egli non dubitava della di lui onestà... Giunse sulla via. Nevicava di nuovo, ed il vento impetuoso gli sbatteva la neve sul volto accecandolo quasi. Doveva procedere con grande cautela iper non scivolare. Una caduta sarebbe stata disastrosissima; avrebbe causato Lo scoppio della bomba, ed era questo che egli voleva impedire. Sacrificare la vota, sì, ma con costrutto. Abbenchè il tempo fosse brutto c'era della gente sulla via. Vide delle faccio allegre. La grande festa del Natale aveva riempito gli animi di letizia. Gente andava a fare certi piccoli acquisti nelle pasticcerie, i soli ambienti aperti nella sacra giornata; andavano a fare delle visite, andavano in chiesa.. Quei volti allegri gli davano sui nervi. Sentiva di odiare gli uomini; provava una grande nausea. Eterni malcontenti, protestavano continuamente contro la Chiesa, contro l'autorità, contro ogni sorta di tirannide; e bastava che la Chiesa, ricordando antiche favole, offrisse loro un giorno un po' diverso dagli altri, per far loro dimenticare il passato e renderli scioccamente, stupidamente felici. Valeva la pena sacrificarsi per simile gente: valeva la pena morire per loro? Portò la mano al petto, alla bomba. Che avrebbe giovato il suo getto? Avrebbe esso scosso le coscienze e destato le masse; quello sarebbe stato il primo segno di una grande rivoluzione sociale, oppure?... Già; il suo eroico attentato sarebbe passato forse inosservato. Le masse non erano ancora mature. Doveva attendere? Oh, se non fosse stata quella infame lettera di Narciso Rossi. Ma ora non poteva assolutamente desistere. Nessuno doveva neppur lontanamente sospettare che egli fosse vile. Giunse alla cattedrale. Le campane suonavano allegramente. Il Vescovo faceva il suo ingresso nella chiesa illuminata a festa e piena, zeppa di una folla festante. Il vescovo! Uno degli oppressori delle masse.Quanto l'odiava! Non lo aveva veduto ancora mai; ora lo vedeva per la prima volta: un povero vecchio, dal volto di asceta, con un sorriso buono, paterno, sulle labbra, che procedeva ricurvo, schiacciato da! peso degli anni e dalle cure, dalle brighe, dalle fatiche del suo ministero; un vecchio buono, tanto diverso dall'immagine che egli si era formata di lui. Si cacciò tra la folla. L'organo cominciò a suonare e la Messa ebbe principio. Vide i volti atteggiati a grande letizia. Comprese che quella giornata rappresentava per l'umanità un grande punto di riposo: era quello un giorno, nel quale il povero dimenticava per un istante le proprie miserie; l'operaio riposava dal lavoro snervante; il ricco scendeva al povero e ne comprendeva, per un istante, le miserie; un giorno di pace, di letizia per tutti. Doveva egli turbare la serenità di quel giorno? Doveva portare la desolazione, la morte, in quel luogo di pace? Oh, i suoi sogni! La Chiesa ha fatto sempre quanto stava nelle sue forze per il bene dell'umanità. Non era lei responsabile dei danni che le classi povere ed umili risentivano, ne dell'abuso di libertà nelle classi dirigenti, o dello squilibrio sociale. Certo. La religione aveva fatto il suo tempo. Ma perche non lasciarla morire in pace; perche voler punire nella Chiesa gli altrui delitti? Cercò di allontanare il ricordo dei suoi sogni. La Chiesa è stata sempre il puntello dei troni; essa ha benedetto la guerra e sanzionato ogni sorta di ingiustizie sociali. Eppoi non poteva tollerare la faccia di vile. La Messa ha incominciato. Il venerando veglio è salito all'altare e lo avvolge in profumi che escono dal ricolmo incensiere. Chi ha da colpire? Dove ha da lanciare la bomba? Nel presbitero? Ha da colpire il vescovo, i canonici, oppure la ha da lanciare in mezzo alla folla che ora? Il vescovo è ritornato al suo trono. Gloria in excelsis Deo! ià! Dio! Dio! Non si pensa che al nume trascendentale e crudele, che risiede in ciclo e non si cura ne si è mai curato dei propri figli, chiede da loro gloria e non da loro in cambio nulla. Il coro canta giulivo: Gloria, gloria in excelsis Deo ono voci di fanciulli che scendono dall'alto della cantoria nella chiesa, accompagnate dal suono grave dell'organo e da alcuni violini, sapientemente toccati. Le voci erano così dolci, così soavi, così carezzevoli. Sembrava udire il canto degli angeli nella notte di Natale. Fuori imperversa la bufera; il vento scuote le gigantesche invetriate multicolori, attraverso le quali giunge scarsa la luce scialba di quella mattina, nel suo cuore imperversavano pure le bufere, ed intanto i fanciulli cantavano il loro Gloria in excelsis Deo! ubentra un coro di uomini forte, solenne. Et in terra pax.... gli ride ironicamente. Pace! Quale menzogna! Dal giorno della nascita del bambino ebreo ad oggi si ripere la bugiarda promessa. In terra pax! Ma quando mai venne pace alla terra? Il coro continua: Hominibus bonae voluntatìs. ueste parole sono una rivelazione. Pace agli uomini di buon volere! Ed il mondo non vuole la pace! A chi si deve ascrivere la mancanza di pace? Non ode altro. Non è per la colpa della Chiesa e del Nume, se pu re esso esiste, che la pace non regna sul mondo, ma, per la mala volontà degli uomini. Gli angeli annunziarono la pace. Non.crede che furono gli angeli, ma l'annunzio fu dato. Si promise la pace ma si chiese in cambio buon volere Qual meraviglia, se gli uomini non avendo offerto la loro buona volontà non.abbiano avuto la sospirata pace? La pace? Poteva egli portare al mondo la vera pace, fondata su di una forte, ben sentita e ben radicata anarchia, se gli uomini non erano di buon volere? A che cosa avrebbe giovato il gettito della bomba se gli uomini, ed i più bisognosi, i più reietti in modo speciale, facevano brutto viso all'anarchia e si rifiutavano di occuparsi della loro misera sorte e di cercare i remedi opportuni al loro male ed a quello della società? Doveva gettare la bomba? Non in chiesa. Dunque sulla via; in qualche ritrovo di ricchi, di gaudenti, al caffè, in teatro? Con qual profitto? Urgeva qualche cosa di ben più importante. Bisognava organizzare le file anarchiche e fare la propaganda al vangelo dell' anarchia. Un libro anarchico, diffuso in migliaia di esemplari, avrebbe giovato assai di più di cento bombe. Non doveva dunque lanciarla? Narciso Rossi che cosa avrebbe detto? Lo avrebbe schernito, avrebbe raccontato a tutti la sua viltà, perche egli, l'idealista, si era rifiutato di aiutarlo, per disciplina di partito, per sfare agli ordini dei superiori, mentre l'altro, il ribelle, l'audace, non aveva trovato il coraggio necessario. Da vero bambino aveva bisogno di un compagno, e da solo non sapeva, non poteva fare nulla... Senti uno sdegno infinito contro Narciso Rossi e la brama di punirlo. Voleva affrontarlo, giungere a lui, costringerlo ad uscire in sua compagnia, menarlo in qualche ritrovo e allora lanciare la bomba, per compromettere lui pure, per unirlo alle altre vittime e per fargli subire la morte del traditore. Non ne poteva più in chiesa. Si fece largo tra la folla, giunse all'uscio e passò sulla via. Il vento soffiava più forte che mai; la neve scendeva fitta; i passanti procedevano frettolosi; nessuno si curava dell'uomo, che portava sul petto la morte. Un grido, un urlo. Una fanciulla è scivolata; fa degli sforzi immensi per tenersi in piedi ed urla dalla paura, dallo spavento di dover stramazzare al suolo, a rischio di rompersi le gambe e le braccia. Egli le è vicino; ad un passo di distanza. Corre da' lei per aiutarla. Essa getta disperata le braccia al suo collo, per sostenersi a lui: una fanciulla modesta, poveramente vestita. Dal collo le pende una medaglina della Madonna. Povera fanciulla; la sua esile persona cozza, col suo maschio petto sul quale riposa la bomba. Un rombo terribile, spaventoso, e sul suolo candido di neve giacciono due cadaveri insanguinati, sfracellati, orrendamente mutilati, sui quali scende fitta, fitta la neve, coprendo tutti e due, l'assassino e l'assassinata, di un candido mantello. Candido per l'umile vergine, che era stata quella mattina alla Comunione ed ora si recava con un incarico della madre inferma dalla zia. Candido anche per lui, l'assassino, che era colpevole al cospetto degli uomini. Lo era anche al cospetto di Dio? La grazia aveva picchiato al suo cuore più volte, e specialmente quella notte nel sonno; ed egli le aveva fatto il sordo. Ma quante volte disprezziamo la grazia, perché non la conosciamo, perché ci hanno insegnato a non farne conto, perché ci hanno educato male? Quante volte tutta la colpa non l'abbiamo noi, ma essa è di coloro che ci hanno educato, dell'ambiente, di quel libro, che fu galeotto come chi lo scrisse? Dio solo conosce tutto: l'ambiente nel quale ci troviamo e le cause del nostro traviamento. Non dobbiamo perciò disperare della salvezza spirituale di nessuno e pregare per tutti. Perché, se è grande la giustizia di Dio, ben maggiore ne è la misericordia. Quando noi abbiamo da agire riflettiamo alla sua giustizia; quando abbiamo da giudicare pensiamo agli abissi della sua misericordia infinita.

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Le donne milanesi

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Neera 1 occorrenze

La piccola portatrice di scatole abbandona le scene, si rinchiude, fa il bozzolo. È un po' malata; è troppo alta per gironzolare tutto il giorno; molte volte il vestito le è diventato corto e in attesa di poterne fare uno nuovo sta in casa a sbucciare le patate alla mamma. Durante le divagazioni mentali permesse da questa innocente occupazione, ella si accorge che le sue dita sono piccole, affusolate; pensa che la blonda e i nastri sono più dolci al tatto della scorza terrosa delle patate e scopre definitivamente la sua vocazione. Eccola a buttar via il bozzolo, eccola farfalla, eccola madamina! Vispa, spigliata, elegante, provocante, col velo nero appuntato molto indietro sui capelli ; coll' abito a cuore, cogli stivaletti di brunello a tacchi alti e punta di velluto cammina, vola, sembra che sfiori il marciapiede. È smortina, sottile, col nasino impertinente e gli occhi assassini. Porta uno scialletto di poche lire, un fiocco, un pizzo, un cenciolino qualunque, ma come sa adattarseli ! Succinta succinta, colla vita stretta, ella trova modo di mettere in mostra tutto quello che possiede e qualche volta, dicono i maligni, anche quello che non possiede. Alla mattina fra le otto e le nove le madamine passano a frotte come le rondini. Ripassano verso sera, un po' stanche, un po' abbattute, chiacchierine tuttavia e senza avere perduto nulla della solita eleganza. Tornano a casa a due, a tre, rare volte sole, e se è sola la madamina ci ha il suo bravo perchè, nascosto sotto il pastrano di un giovane di studio, ritto sulla cantonata. Si sorridono da lontano, scambiano poche parole, si danno un appuntamento. I passanti si voltano a guardarli e se sono vecchi sospirano. Età dell'oro! Dopo i trent' anni la madamina non c'è più ; o muore o si marita, e allora cessa di essere madamina. Una volta ne incontravo sempre una, bellissima, bionda, troppo bella e troppo bionda, una rarità della specie. Aveva in qualsiasi giorno e con qualsiasi tempo un vestito di lana nera e di lana blù, alternate in modo capriccioso. Abitava sola una camera verso giardino; sul davanzale della finestra la ci aveva un vaso di maggiorana e una gabbia di canarini, e quand' ella compariva nel vano di quella finestra io desideravo una cosa sola: essere pittore. C'è qualcuno che si ricorda ancora di te, povera madamina, fra coloro che ti hanno accompagnata al sepolcro ?.... Si calunniano un po' le madamine. Molte di esse sono brave ragazze, in fondo ; si maritano presto, hanno i loro figlioli che spesso allattano, diventano grasse e non portano più vestiti a cuore. È la loro età dell'argento.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Perché mi abbandona ora che sono vecchia; perché mi fai piangere così? - E seduto sulla porta della capanna, Fragolina udiva Moreccino, che gemeva anch'egli dicendo: - Sorellina, da quando tu sei scom- parsa nel bosco, io non ho avuto più pace. Il sole s'è fatto scuro agli occhi miei, i fiori hanno perduto il loro soave profumo, il bo- sco mi pare una solitudine spaventosa. Tor- na, Fragolina, torna fra noi che ti vogliamo tanto bene, che siamo tanto infelici senza di te! - Fragolina non vedeva più il popolo esultante, non vedeva più nulla, tranne i suoi cari nella piccola capanna, e non sen- tiva altro che i loro gemiti. Il primo ministro si permise di toc- care con la penna d'oro la mano della Regina per rammentarle che ella doveva firmare, ma Fragolina fece un gesto di ne- gazione. - Firmate, Maestà! - La Regina ebbe vergogna delle pro- messe che le chiedevano, ebbe orrore della rinunzia che volevano da lei. Ella prese la penna e la gettò per terra; prese la corona e la buttò fra la folla; si strappò il vezzo di perle, e, calpestando tutto quel popolo minuscolo, scese dal trono e corse via per le sale e fuori del palazzo. Grida irate del popolo le giunsero agli orecchi. Ella sen- tiva dietro a sé il brusìo di tante piccole gambe che la inseguivano, ma non si la- sciò sgomentare. Udì i campanellini d'argento che suo- navano a raccolta, le trombettine che squil- lavano incessantemente, ma ella correva sempre. Giunta che fu all'imboccatura della scala, dalla quale era discesa nel mondo sotterraneo, vide un esercito di formiche af- faticate a otturarne il passaggio. Fragolina le prese a manate e le lanciò lungi da sè. Le formiche, per vendicarsi, le corsero sul collo, sulle braccia, le invasero tutto il corpo e si diedero a pungerla furiosamente; ma Fragolina resisteva al dolore, e saliva a quattro a quattro i piccoli gradini sca- vati nelle viscere della terra. Essa incontrava sempre nuovi eserciti di formiche affaticati a distruggere l'opera loro, a rompere le comunicazioni tra il mondo sotterraneo e quello dove splende il sole, dove si soffre, ma si ama tanto; e Fragolina le calpestava, le distruggeva, nè si lasciava atterrare dai loro attacchi. Quando arrivò su, nel bosco dove cre- scevano le fragole, ella faceva sangue da tutto il corpo e il suo visino era spaventoso a vedersi. In terra ella trovò il fastello delle le- gna per la nonna, il panierino delle fra- gole gittate via la mattina, e, raccolto l'uno e l'altro, si diede a correre. Ma da più parti le guardie del corpo, capitanate dal maggiordomo, l'avevano raggiunta, e ora si sentiva tirar per un braccio, ora per una gamba, e udiva maledizioni e grida contro di lei. Fragolina correva sempre, senza voltar- si, e non si fermò altro che sulla porta della capanna dalla quale partivano ancora i ge- miti della nonna e le grida di Moreccino. - Eccomi, son qua, sono Fragolina, soccorretemi! - La vecchia fu inchiodata dalla gioia vicina al focolare; Moreccino corse dalla sorella, le lavò il viso con l'acqua della fontana, le fece mille carezze e riuscì fi- nalmente a calmarla. Fragolina, contenta di aver ritrovato la sua nonna e di lavorare per lei, non rim- pianse mai le ricchezze perdute. Quando coglieva le fragole nel bosco, sentiva tante volte delle vocine che le di- cevano: - Vuoi essere regina? Avrai un po- polo ubbidiente, avrai ricchezze a profu- sione; vieni giù nella profondità della terra dove sono nascosti i tesori! - Ma Fragolina si metteva le mani agli orecchi, pensava alla nonna e non si la- sciava tentare da quelle promesse. Un giorno, mentre era intenta alle solite sue occupazioni, le comparve dinanzi l'omìno, seguito da una turba di cavallette recanti sulla groppa dei canestrini pieni di brillanti, di diamanti, di perle, di rubini, di topazî. - Buon giorno, Fragolina. - Buon giorno, omìno; che cosa vuoi da me? - Queste ricchezze, le vedi? - Sì. Ebbene? - Esse son tue, se.... - No, riportale pure a chi te l'ha date. Son poverella e poverella resterò.... non voglio abbandonar la nonna mia nè Moreccino. - Conducili con te.... - Qui vi fu un momento di sosta.... La tentazione era molto forte.... Ma ad un tratto Fragolina rialzò il capo e disse fieramente: - Va', non mi tentar più. Con le ric- chezze non si compera la felicità. - E l'omìno se n’andò sotto terra mogio mogio e, come si dice, colle pive nel sacco.

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Penombre

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Chi, contemplando i mistici destini, ama gli astri del ciel nei fiorellini; chi sente, al mar dei secoli curvato, l'avvenir ricongiungersi al passato; chi abbandona, oltre il mondo, il crocefisso, non entra in chiesa, ma ti guarda fisso, e l'ignoto Signor nel tuo lo vede occhio pieno di morte, e pien di fede. Elemosina a lei, la poverella che un dì fu bionda, giovinetta e bella.

L'altrui mestiere

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Levi, Primo 1 occorrenze

La lega col portentoso filo dai mille usi, e la tiene in prigionia, nutrendola avaramente (perché non si rinforzi troppo) e difendendola contro gli eventuali aggressori, finché è sessualmente matura: allora la feconda e l' abbandona. Quando ha raggiunto il pieno delle forze, la femmina non ha difficoltà a sciogliersi dai legami. Siamo all' incerto confine fra la cronaca nera e l' opera buffa. È difficile sottrarsi al ricordo del rapporto ambiguo e stereotipo fra tutore e pupilla, fra l' intrigante e carcerario Don Bartolo, gonfio delle sue tardive libidini, e la Rosina tenerella, chiusa fra quattro mura ma futura "vipera": "tutti e due son da legar". Molti animali, dalle strutture più diverse, ostentano colori vivaci e hanno carni di sapore disgustoso, oppure sono velenosi: ad esempio i pesci dorati e le coccinelle, o rispettivamente le vespe e certi serpenti. I colori vistosi servono come segnale e avviso, affinché i predatori li riconoscano da lontano e, ammaestrati da precedenti esperienze, si astengano dall' assalirli. Esiste un parallelo comportamento umano? In generale, l' uomo nocivo tende piuttosto a confondersi entro la maggioranza, per sottrarsi all' identificazione; ma non fa così quando è o si sente superiore alla legge. Bisognerebbe pensare un po' meglio all' apparenza dei bravi, quali li descrive il Manzoni; all' uso (generale fino al 1900) di divise militari dai colori aggressivi; e a certi modi caratteristici di vestire e di esprimersi che rendono facile l' identificazione degli appartenenti a determinati strati della malavita (l' "apache", il mafioso). Anche a parte questi esempi, mi piacerebbe inventare e descrivere un personaggio-coccinella, riconoscibile forse in certe pagine di Gogol' : ipocondriaco, malcontento di sé, del suo prossimo e del mondo, increscioso e lamentoso, che inalbera una livrea riconoscibile da lontano (o un intercalare, o un difetto di pronuncia) affinché il suo prossimo, che egli detesta, si accorga in tempo della sua presenza e non gli venga fra i piedi.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Dio ha donato all' uomo denti più corruttibili di ogni sua altra parte affinché egli non dimentichi di essere polvere, ed affinché prosperi la nostra corporazione: vedi dunque che il cavadenti che abbandona il suo ufficio è in abominio a Dio, in quanto si spoglia di un privilegio da Lui donato. I denti sono fatti d' osso, di carne e di nervo; essi si distinguono in molari, incisivi e canini; un nervo congiunge i denti canini agli occhi; nei molari più riposti, che sono i denti del giudizio, spesso si annida un vermiciattolo. Queste ed altre qualità dei denti le potrai trovare descritte sui libri profani, e non occorre che io vi insista qui. Della musica. Che Orfeo con la sua lira ammansisse le fiere e i demoni dell' abisso, e placasse le onde del mare in tempesta, ti sarà stato insegnato dai tuoi maestri. La musica è necessaria all' esercizio del nostro ufficio: un buon cavadenti si deve portare dietro almeno due trombettieri e due tamburini, o meglio due suonatori di grancassa, ed è bene che tutti costoro vestano splendide livree. Tanto più vigorosa e piena si spande la fanfara sulla piazza ove tu opererai, tanto più tu verrai rispettato, e di altrettanto si attenuerà il dolore del tuo paziente. Lo avrai notato tu stesso, assistendo bambino al mio lavoro quotidiano: le grida del paziente non si sentono più, il pubblico ti ammira con reverenza, ed i clienti che aspettano la loro volta si spogliano dei loro segreti timori. Un cavadenti che lavori senza fanfara è indecoroso e vulnerabile come un corpo umano ignudo. Ora ascolta quanto ti annuncio nella mia preveggenza di morente: verrà un giorno in cui questa mirabile virtù della musica sarà riscoperta dal ceto sciocco e superbo dei medici, ed essi sillogizzeranno sottili argomenti per spiegarne la ragion fisicale. Guardati dai medici: nella loro alterigia essi disdegnano i frutti della nostra esperienza, e si arroccano come in una fortezza per entro gli sterili dettati del loro Aristotele. Fuggili, così come essi fuggono noi. Degli errori. Non dimenticare, figlio, che errare è umano, ma ammettere il proprio errore è diabolico; ricorda, d' altra parte, che il nostro mestiere, per sua intrinseca natura, è propenso agli errori. Cercherai dunque di evitarli, ma in nessun caso confesserai di avere estratto un dente sano; anzi, trarrai profitto dal frastuono dell' orchestra, dallo stordimento del paziente, dallo stesso suo dolore, dalle sue grida e dal suo agitarsi convulso, per estrarre subito dopo il dente malato. Ricorda che un colpo rapido e franco sull' occipite acquieta il paziente più riottoso senza soffocarne gli spiriti vitali e senza essere percepito dal pubblico. Ricorda altresì che, per queste necessità o per altre simili, un buon cavadenti ha cura di avere il carro sempre pronto, non discosto dal palco, e con i cavalli attaccati. Del dolore. Dio ti guardi dal diventare insensibile al dolore. Solo i pessimi fra noi si induriscono al punto di ridere dei loro pazienti quando soffrono sotto la nostra mano. L' esperienza insegnerà anche a te che il dolore, anche se forse non è l' unico dato dei sensi di cui sia lecito dubitare, è certo il meno dubbio. È probabile che quel sapiente francese di cui mi sfugge il nome, e che affermava di essere certo di esistere in quanto era sicuro di pensare, non abbia sofferto molto in vita sua, poiché altrimenti avrebbe costruito il suo edificio di certezze su una base diversa. Infatti, spesso chi pensa non è sicuro di pensare, il suo pensiero ondeggia fra l' accorgersi e il sognare, gli sfugge di tra le mani, rifiuta di lasciarsi afferrare e configgere sulla carta in forma di parole. Ma invece chi soffre sì, chi soffre non ha dubbi mai, chi soffre è ahimè sicuro sempre, sicuro di soffrire ed ergo di esistere. È mio augurio che tu divenga un maestro nell' arte nostra, e che tu non abbia mai ad esserne l' oggetto passivo; ma se mai questo ti dovesse accadere, come a me è accaduto, il dolore della tua carne ti fornirà la brutale certezza di essere vivo, senza che tu debba attingerla alle sorgenti della filosofia. Abbi dunque in istima quest' arte: essa farà di te un ministro del dolore, ti farà arbitro di porre termine ad un lungo dolore passato per mezzo di un breve dolore presente, e di prevenire un lungo dolore di domani grazie alla trafittura spietata inferta oggi. I nostri avversari ci scherniscono dicendo che noi siamo buoni a trasformare il dolore in denaro: stolti! È questo il miglior elogio del nostro magistero. Del discorso suadente. Il discorso suadente, detto anche imbonimento, conduce alla decisione i clienti che esitano fra il dolore attuale ed il timore delle tenaglie. È di somma importanza: anche il più inetto fra i cavadenti si industria bene o male a cavare un dente; l' eccellenza nell' arte si manifesta piena invece nel discorso suadente. Esso va profferito con voce alta e ferma e con viso lieto e sereno, come di chi è sicuro, e spande sicurezza intorno a sé; ma, al di fuori di questa, non si dànno altre regole certe. A seconda degli umori che fiuterai fra gli astanti, potrà esso essere giocoso o austero, nobile o scurrile, prolisso o conciso, sottile o crasso. È bene in ogni caso che esso sia oscuro, perché l' uomo teme la chiarezza, memore forse della dolce oscurità del grembo e del letto in cui è stato concepito. Ricorda che i tuoi ascoltatori, quanto meno ti capiranno, tanto maggior fiducia avranno nella tua sapienza e tanta più musica sentiranno nelle tue parole: così è fatto il volgo, e al mondo non è se non volgo. Perciò intesserai nel tuo sermone voci di Francia e di Spagna, tedesche e turchesche, latine e greche, non importa se proprie ed attinenti; se pronte non ne avrai, abituati a coniarne sul momento di nuove, mai prima udite; e non temere che te ne venga sollecitata una spiegazione, perché ciò non avviene mai, non troverà il coraggio di interrogarti neppure quello che salirà il tuo palco con piede sicuro per farsi cavare un molare. E mai, nel tuo discorso, chiamerai le cose col loro nome. Non denti dirai, ma protuberanze mandibolari, o qual altra stranezza ti venga in capo; non dolore, ma parossismo od eretismo. Non chiamerai soldi i soldi, e ancor meno chiamerai tenaglie le tenaglie, anzi non le nominerai affatto, neppure per allusione, ed al pubblico e massimamente al paziente non le lascerai vedere, tenendole nascoste nella manica fino all' ultimo istante. Del mentire. Da quanto hai letto or ora, potrai dedurre che la menzogna è peccato per gli altri, per noi è virtù. Il mendacio è tutt' uno col nostro mestiere: a noi conviene mentire con la favella, con gli occhi, col sorriso, con l' abito. Non solamente per illudere i pazienti; tu lo sai, noi miriamo più in alto, e la menzogna è la nostra vera forza, non quella dei nostri polsi. Con la menzogna, pazientemente appresa e piamente esercitata, se Dio ci assiste arriveremo a reggere questo paese, e forse il mondo: ma questo avverrà solo se avremo saputo mentire meglio e più a lungo dei nostri avversari. Tu forse la vedrai, non io: sarà una nuova età dell' oro, in cui noi soltanto in necessità estreme ci indurremo ancora a cavar denti, mentre per il governo dello Stato e per l' amministrazione della cosa pubblica ci basterà con larghezza la menzogna pia, da noi condotta a perfezione. Se ci dimostreremo capaci di questo, l' impero dei cavadenti si estenderà dall' oriente all' occidente fino alle isole più remote, e non avrà mai fine.

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I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il vecchio Widdeak non abbandona il "Danebrog". - Allora ubbidisci. Alle manovre, ragazzi! Domani avremo tanto grasso da affondare il "Danebrog" fino al bastingaggio. Un istante dopo il "Danebrog" virava di bordo mettendo la prua verso la direzione indicata. I marinai, quantunque avessero pur essi compreso che stavano per giuocare una carta pericolosa, che poteva anche costare loro la vita, si erano subito messi alacremente al lavoro, incoraggiati dai due fiocineri. Tutti ci tenevano assai alla scommessa, gelosi dell'onore dei balenieri danesi; per di più, in quel branco di balene, intravvedevano dei grossi guadagni. Le baleniere furono in brevissimo tempo armate e sospese alle gru pronte ad essere calate in mare al comando del capitano. I remi, le fiocine, le lancie, le lenze, furono ben disposte nelle imbarcazioni. In capo ad un'ora il "Danebrog" era lontano otto miglia dalla costa americana e solamente sette dalle balene che filavano superbamente verso nord fra una doppia fila di banchi di ghiaccio. Quale spettacolo offrivano quei giganti dell'oceano artico! Erano nove, seguiti da due o tre balenottere e anche queste di dimensioni non comuni. Avanzavano lentamente, gettando in aria, dai loro sfiatatoi, colonne di bianco vapore che tosto si scioglievano. Il sole, battendo sulla loro pelle oleosa, li faceva sembrare immensi cilindri d'acciaio. Ogni qual tratto uno di essi si tuffava formando alla superficie del mare un vero vortice e poco dopo riappariva a grande distanza sollevando colla possente coda grandi ondate, che facevano oscillare vivamente i ghiacci galleggianti. I marinai del "Danebrog", entusiasmati a quella vista, non stavano più fermi, quantunque il comandante avesse raccomandato a tutti calma e silenzio. Salivano sulle griselle, sulle coffe e più su, fino alle crocette, per meglio vederli e mandavano grida di gioia. Koninson, col suo terribile rampone in pugno correva da prua a poppa animando tutti, seguito da Harwey che era pure desideroso di venire a una lotta con quei mostri, malgrado il loro numero che poteva riuscire fatale all'equipaggio del "Danebrog". Persino mastro Widdeak aveva dimenticato l'altro pericolo che minacciava la nave baleniera e nei suoi occhi brillava un'ardente bramosia. Il solo tenente, calmo sempre, seguiva con sguardo perfettamente tranquillo lo sfilare di quel branco. Già il "Danebrog", spinto da un freschissimo vento di sud-sud-ovest non distava che cinque o sei nodi dalle balene, quando queste ad un tratto, e tutte insieme, si tuffarono. Quando tornarono a galla diedero segni di una viva inquietudine. Si volgevano spesso verso sud, battevano la coda precipitosamente, si drizzavano slanciandosi più che mezze fuori dell'acqua e gettavano con maggior frequenza colonne di vapore. - Cosa succede laggiù? - si chiese il capitano aggrottando la fronte. - Che abbiano paura di noi? - Non lo credo! - disse il tenente che gli stava appresso. - Scommetterei che sono state assalite. - Assalite! E da chi? - Voi sapete, capitano, che hanno numerosi nemici. Ah! Guardate là, verso est, quei corpi nerastri che si avanzano rapidamente. - Sì, sì, li scorgo. In quell'istante si udì Koninson, che si era arrampicato sulla coffa di trinchetto, gridare: - Abbiamo una truppa di delfini gladiatori! Quasi nello stesso tempo le balene si davano a precipitosa fuga verso nord. Avevano scorto i delfini, che sono loro acerrimi nemici. Il capitano fece un gesto di rabbia. - Dannazione! - gridò. - Chissà quanto dovremo filare! - Ma guadagneremo qualche balena senza adoperare il rampone! - disse Koninson che aveva lasciato la coffa. - I delfini raggiungeranno senza dubbio le balene e qualcuna, nella lotta, ci lascerà la vita. - Ma saremo costretti a salire ancora verso nord, e la stagione invernale si avanza a rapidi passi. - Bah! Poi ci trarremo d'impaccio come potremo. Ah! Se potessi affrontare quel branco! Che colpi di rampone! Le balene intanto, che temono assai i delfini gladiatori per la loro forza, per i loro aguzzi denti e per la loro ferocia, fuggivano sempre più rapidamente dirigendosi verso le rigidissime regioni del polo. Attorno ad esse il mare, percorso da quelle dodici code, pareva in burrasca. A destra e a sinistra correvano grandi ondate le quali facevano capovolgere con grande fracasso i numerosi ghiacci galleggianti. Di tratto in tratto si tuffavano come se temessero di venire assalite per di sotto, indi riapparivano cacciando con grande furia nubi di vapore ed emettendo delle note acute che si udivano distintamente dall'equipaggio del "Danebrog". Ben presto però, grazie alla loro prodigiosa andatura, scomparvero dietro ghiacci che coprivano l'orizzonte. I delfini gladiatori, che dovevano essere almeno due dozzine, le seguirono nuotando pur essi con grande velocità. Il "Danebrog" però non si arrestò. Il capitano Weimar, e come lui quasi tutto l'equipaggio, avevano giurato di raggiungerle e, ancorchè i pericoli diventassero sempre più numerosi essendo il mare coperto ovunque di ghiacci d'ogni dimensione, ordinò al timoniere di seguire le grandi macchie oleose lasciate dalle balene. Favorito dal vento, che tendeva sempre a crescere, il "Danebrog" navigò tutta la notte verso nord, notte per modo di dire, poichè il sole non rimaneva nascosto che poche ore, ed anche in quelle poche ore all'orizzonte rimaneva tanta luce da distinguere le traccie oleose. Il mattino del 25 settembre, la nave si trovava già a un centinaio di miglia dalla costa americana, ma le balene, senza dubbio vigorosamente inseguite dai loro accaniti nemici, non erano state ancora scoperte. La sera dello stesso giorno però, presso uno "stream", fu raccolto un delfino gladiatore colla testa sfracellata, probabilmente da un colpo di coda di qualche balena. Il mostro era lungo sette metri e gli uccelli marini gli avevano già lacerato la pelle del dorso. Fu issato a bordo, fatto a pezzi e il grasso rinchiuso nelle botti. Il 26 l'equipaggio del "Danebrog" notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull'orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria. Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il "blink" che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell'animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il "Danebrog" non cambiò rotta. All'indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord. - È un banco solo o sono due divisi dal canale? - si domandò il capitano. - Sono due senza dubbio - disse Koninson che l'aveva udito. - E le macchie oleose continuano nel canale. - E cosa vuoi concludere, fiociniere? - Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall'altro lato. - Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale! Il "Danebrog", che avanzava con una velocità di otto nodi all'ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un "iceberg" immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi. Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il "blink" rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi. Il "Danebrog" guidato dall'esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli "streams" e "hummoks" che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero. Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò: - Capitano! Il canale è chiuso! Weimar salì sull'alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un'imprecazione uscì dalle sue labbra. Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all'estremità di quel braccio di mare. - Bisogna tornare indietro - disse il tenente. - Ma le balene dove sono fuggite? - chiese il capitano con i denti stretti. - Probabilmente sono uscite prima dell'arrivo del banco. - Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi - aggiunse Koninson. - Che fare ora? - chiese il capitano. - Capitano, - disse il tenente - badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito. - E la scommessa? - Ci prenderemo la rivincita l'anno venturo. Il capitano, sceso in coperta diede l'ordine di tornare indietro. Il "Danebrog" virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua. Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all'imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L'"iceberg", visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!

. - Bisogna proprio dire che la Provvidenza non ci abbandona. - Speriamo che ci conduca a salvamento, signor Hostrup. - Ne sono certo. - Ed ora cosa facciamo? - Usciremo di qui e prenderemo la via del sud. Vedo che la pianura è perfettamente liscia e sento un buon vento venire dalle montagne. Spiegheremo la vela. Rimisero sulla slitta tutte le casse e i barili; indi, dato mano alle scuri, si scavarono una via attraverso i rottami del ghiaccione, girando attorno alla gran rupe che aveva causato l'urto. Dopo un'ora uscivano finalmente nella pianura che pareva si prestasse assai ad un rapido viaggio, essendo coperta di un solido strato di neve, liscio come la superficie d'un lago tranquillo. La vela fu subito issata, il timone messo a posto e i due balenieri "s'imbarcarono", come diceva Koninson, dirigendosi verso sud con una rapidità superiore ai quindici nodi all'ora. A mezzogiorno, dopo un viaggio che non poteva essere nè migliore nè più tranquillo, e dopo aver percorso un tratto di circa centoventi chilometri, fecero una fermata presso un gruppo di alti pioppi, le cui cime s'incurvavano graziosamente. Koninson, felice di aver trovato finalmente della legna, a colpi di scure fece cadere il più piccolo ed accese un fuoco capace di arrostire un bue intero. - Ah, se ci fosse un bel pezzo di carne fresca, quale festa! - esclamò egli levando un pò di "pemmican" ed alcuni biscotti da una cassa. - Ne avremo, Koninson. - Quando? - Appena saremo giunti al Porcupine. Là i pesci abbondano e le trote vi sono grossissime. - Allora ... . ah! - Cos'hai? - Non avete udito un gemito, voi? - Un gemito? Diventi pazzo, ragazzo mio? - Con questo freddo? Udite! Udite! Il tenente, con sua grande meraviglia, questa volta udì un gemito che pareva emesso da gola umana, ed a brevissima distanza. - Che vi sia qualche eschimese ferito? - chiese Koninson. - Ma dove? - In mezzo agli alberi. - No, io credo invece che stia per venire l'arrosto che tu desideri. Guarda lassù, su quel grande pioppo. Koninson guardò nella direzione indicata e vide svolazzare un grande uccello le cui ali superavano, prese insieme, un metro e mezzo di estensione. - Un'aquila? - esclamò. - Ma che aquila! È una stupenda "nyceta nivea". - E credete che sia stato quell'uccello a mandare quei gemiti umani? - Proprio lui. - Si mangia? - È carne non disprezzabile. Koninson balzò sul fucile e lo puntò, ma il tenente gli abbassò l'arma. - Non aver fretta! - gli disse. - Vedrai che si avvicinerà a noi. - Ma come mai quell'uccello, che somiglia ad un gufo, si trova qui, in questa regione così fredda? - Le "nycete" frequentano i luoghi caldi e i freddi. S'incontrano presso le rive dell'oceano artico e anche sulle rive del golfo del Messico. - E di che cosa vivono, in questi deserti di neve? - Di uccelli finchè ce ne sono e, quando questi sono emigrati, danno la caccia ai piccoli animali. Si nascondono sovente nelle vicinanze delle tane delle lepri, degli ermellini e persino delle volpi e, quando le vittime escono, piombano loro addosso con rapidità fulminea, dilaniandole a colpi di becco e d'artiglio. - Sono uccelli coraggiosi. - Sì, e tanto da affrontare i cani e qualche volta da avventarsi contro i cacciatori. - Signor tenente, vedo che l'uccello non viene da noi; andiamo noi da lui. - Andiamo, Koninson. Raccolsero i fucili e si diressero verso il pioppo sulla cui cima la "nyceta" continuava a svolazzare gettando di quando in quando un forte "rik-rik" che poteva, fino ad un certo punto, sembrare un gemito umano. Quando giunsero a breve distanza, l'uccello si abbassò, poi partì con grande rapidità producendo, colle larghe ali, un forte rumore e si precipitò al suolo come se fosse stato ucciso o ferito. - Olà! - esclamò Koninson. - Cosa vuol dire ciò? Si precipitò verso la "nyceta" che sembrava morta, ma quando le fu vicino, essa si alzò nuovamente, spiccò un'altra volata e ricadde trecento metri più innanzi. - Che sia ferita? - chiese il fiociniere, la cui sorpresa cresceva. - No! - disse il tenente - Noi abbiamo da fare con una femmina, la quale ricorre a questa astuzia per allontanarci dal suo nido, - Allora mangeremo anche delle uova. Che pasto, signor Hostrup Questa volta non si lasciò più ingannare dal povero uccello. Appena fu per riprendere il volo, il fiociniere puntò il fucile e, con una palla ben aggiustata, lo fece cadere, ma per sempre. - Il bell'arrosto! - esclamò. Ed infatti era un bell'arrosto. Quell'uccello, dalle penne bianche solcate da un certo numero di macchie brune trasversali e longitudinali, dal becco robusto e ricurvo, era lungo quasi due piedi e non pesava meno di dieci chilogrammi. Era il vitto assicurato per un paio di giorni, per i poveri naufraghi; ma Koninson chiedeva qualche cosa di più. Impadronitosi dell'uccello, si affrettò a raggiungere la macchia di pioppi e, dopo aver cercato qua e là, scoprì il nido, una specie di cavo tappezzato di pochi fili d'erba acquatica e di penne candide e lunghe che la femmina si era coraggiosamente strappate dal petto, e contenente otto grosse uova. - Che giornata fortunata! - esclamò allegramente il bravo fiociniere. - Presto, signor Hostrup, ritorniamo presso il fuoco e mettiamoci al lavoro. Le mie mandibole sono impazienti. Due ore dopo, seduti dinanzi al fuoco, divoravano ferocemente più di mezzo uccello, dopo aver trangugiato le uova a mò d'antipasto. Il tenente, per compiere l'opera, diede la stura ad una bottiglia di "gin", l'ultima che ancora possedevano e che avevano religiosamente conservata per le grandi occasioni. Verso le 4 pomeridiane, approfittando d'un fresco vento che veniva da nord-nord- ovest, spiegavano la vela e riprendevano la corsa verso sud, ma non rapidamente come il mattino a causa della neve che, essendosi in parte sciolta sotto i raggi solari, opponeva una certa resistenza ai pattini della slitta. Parecchie volte dovettero discendere e trascinare il veicolo per qualche tratto onde sorpassare certi strati di neve eccessivamente molle, anzi quasi disciolta. Nondimeno verso le 9 della sera avevano percorso altri quaranta o cinquanta chilometri. Il tenente stava per ammainare la vela volendo accamparsi, quando Koninson gli additò una costruzione piantata sulle rive di un laghetto ancora gelato. - Forse ci sono degli abitanti là sotto! - disse il fiociniere. - Non mi rincrescerebbe di vedere un volto umano per quanto possa essere brutto. - Ho poca speranza - rispose il tenente, - Tuttavia dirigiamoci laggiù. La slitta riprese la corsa e dopo venti minuti si arrestava presso l'abitazione segnalata. I due balenieri balzarono a terra, si armarono dei fucili per precauzione, e si diressero a quella volta. Era una capanna semplicissima, formata da sette od otto pali sostenenti un tetto di ramoscelli e di pezzi di corteccia, assicurata con strisce di pelle. La neve, accumulandosi sopra, l'aveva in parte sfondata, ma poteva ancora servire di ricovero. - È un'abitazione estiva dei . - Abbandonata da molto tempo senza dubbio - osservò Koninson. - Dall'anno scorso, molto probabilmente. - Tò! Cosa sono quegli oggetti ammonticchiati in quell'angolo? - Ossa di animali. - Forse che i Co-yuconi le raccolgono per venderle? - No, Koninson, - disse il tenente ridendo. - Li ammucchiano nelle loro capanne perchè credono che, gettandoli via, debbano succedere delle disgrazie; che le caccie diventino infruttifere; che le trappole lascino scappare la selvaggina; che il freddo distrugga gli animali; ecc. Anche quando si tagliano le unghie, i capelli e la barba, raccolgono il tutto entro sacchetti di pelle che sospendono agli alberi del loro territorio, e ciò per lo stesso motivo. - Strane superstizioni, signor Hostrup. Ma guardate laggiù, presso la riva del laghetto, non vedete qualche cosa? - Sì, dei pali piantati sul ghiaccio o meglio nell'acqua - disse il tenente. - Che cosa saranno? - Mio caro Koninson, credo che faremo bene a recarci laggiù. - Che sperate di trovare? - So che gli abitanti di queste regioni prima che l'inverno cominci, piantano nei fiumi e nei laghi dei pali a cui sospendono delle trappole per i pesci. - Che ci sia sotto qualche rete? - Se non sarà una rete, troveremo qualche cosa di simile. Andiamo, Koninson. Lasciarono la piccola capanna e si diressero verso il laghetto. Il tenente non si era ingannato, poichè attraverso il ghiaccio distinsero una forma nerastra stretta fra due pali e che pareva un gran paniere. Con pochi colpi di scure spezzarono il ghiaccio e sotto vi scorsero una specie di imbuto di vimini terminante in un recipiente pure di vimini, dentro il quale nuotavano parecchi grossi pesci. Koninson cacciò dentro le mani, e in pochi minuti ritirò due trote, tre lucci, due bei pesci che il tenente riconobbe per "gadus lota", ed infine un pesce molto grosso, tutto nero, che gli indigeni chiamano "nalina", ma, la cui carne di qualità mediocre serve per lo più a nutrire i cani delle slitte. - Abbiamo dei viveri per quattro o cinque giorni! - disse il fiociniere tutto contento. - Ringrazio di cuore quel co-yucone che ha avuto la buona idea di collocare qui l'imbuto. Se lo troverò, gli regalerò uno dei nostri coltelli. Fecero ritorno alla capanna sotto cui allegramente pranzarono colle due trote; indi, dopo poche chiacchiere, si avvolsero nelle loro coperte, sicuri di non venire disturbati da nessuno. Alle 4 del mattino, approfittando del freddo della notte che aveva indurito lo strato di neve, tornarono a spiegare la vela e ripresero la corsa con una celerità di dieci o dodici chilometri all'ora. Verso le 7 del mattino Koninson segnalò verso sud un bosco che pareva prolungarsi indefinitamente verso est e verso ovest, formato da pioppi e da abeti neri. - Dobbiamo essere vicini al Porcupine! - disse il tenente. - Apri bene gli occhi, fiociniere. Manovrò in modo da entrare sotto il bosco senza urtare contro gli alberi, e lasciò che la slitta continuasse a scivolare verso il sud. Mezz'ora dopo Koninson con un rapido movimento faceva cadere la vela. Era tempo; duecento passi più innanzi, fra due rive coperte di salici, si estendeva un largo fiume che doveva essere il Porcupine. XXIII L'ORSO BIANCO §Il Porcupine, chiamato anche Ratto, è un bel corso d'acqua comunicante col fiume Makenzie, che scorre da ovest ad est, quasi parallelamente alla costa, da cui però dista oltre duecento miglia. Nella stagione estiva molti canotti lo percorrono mettendo in comunicazione il forte Yucon colla stazione di La Pierre e coi forti che si trovano sulle rive del Makenzie; ma, quando comincia a gelare, la navigazione viene interamente sospesa e le tribù indiane che popolano le rive e che si chiamano "figlie del Ratto", si ritirano o verso sud o verso nord, dedicandosi alla caccia che talvolta è più produttiva della pesca. Quando il tenente e Koninson, lasciata la slitta, discesero la sponda, non scorsero anima viva, nè alcuna abitazione. Il fiume, completamente gelato, non aveva attirato ancora alcuno di quei valenti canottieri e pescatori che s'incontrano così spesso nella buona stagione. Però, percorrendo la riva per qualche tratto, trovarono qua e là numerose traccie del soggiorno degli indiani. Infatti ai piedi d'una roccia rinvennero delle vecchie reti state abbandonate perchè inservibili; più oltre una capanna semi-arsa, un remo ancora piantato nel ghiaccio e finalmente anche un canotto lungo otto piedi, costruito con lunghe liste di corteccia di betulla cucite insieme con sottili radici d'abete e calafatato di resina. Un fianco, però, era stato sfondato, forse dall'urto dei ghiacci, sicchè non poteva più servire. - Diamine, mi pare che questi signori indiani si facciano molto desiderare! - disse Koninson. - Molte traccie abbiamo trovato, ma non un volto umano abbiamo veduto dalle rive dell'Oceano a questo fiume. - Eppure parecchie tribù vivono in questa desolata regione - rispose il tenente. - Ma dove sono? - Non lo so, ma vi sono e qualcuno ne incontreremo. - E verremo bene accolti? - Non ho mai udito dire che gli indiani di queste terre siano cattivi. - Però so che parecchie volte hanno dato addosso ai bianchi. - È vero, Koninson, ma per difendere la loro indipendenza. Aggiungerò anzi, che hanno dimostrato di essere assai coraggiosi e di non aver paura dei forti meglio armati. - Quale tribù sperate d'incontrare? - Quella che si chiama "figlia del Ratto", che vive sulle sponde di questo fiume. È possibile, però, che in sua vece ne incontriamo qualche altra, poichè nessuna ha dimora stabile e tutte vanno qua e là cercando i territori che offrono maggiore selvaggina. - E come si chiamano questi altri indiani? - Vi sono i Co-yuconi, i più numerosi dell'Alaska e che abitano le rive del fiume Yukon; i Koctck-a-Kutkin o indiani delle bassure; gli An-Kutkin e i Tatanckok-Kutkin appartenenti alla famiglia dei Malemuti, che abitano il basso corso dell'Yukon, e i Tanana, che hanno il loro centro al confluente dell'Yukon col fiume Tanana, dove si erge un grosso villaggio chiamato . Altre tribù minori occupano il territorio che si estende fra i fiumi suddetti e il Makenzie, appartenenti quasi tutte alla gran tribù dei "figli del Ratto". - Ed ora che noi siamo qui giunti, dove ci dirigeremo, signor Hostrup? Verso ovest o verso est? - Sarei dell'opinione di seguire il Porcupine fino al Makenzie e di raggiungere il forte Speranza. - Allora andiamo al forte Speranza. - Ti avverto che la via sarà lunga. - Non mi spavento, signor Hostrup. - Oggi accamperemo qui e cercheremo di rinnovare le nostre provviste. Io spezzerò il ghiaccio e mi metterò a pescare; tu batterai i boschi. - Non chiedo di meglio. Tornarono alla slitta, mangiarono un boccone e si separarono: Koninson si cacciò sotto il bosco col fucile e il tenente discese la riva armato di scure per aprire un buco nel ghiaccio. Il fiociniere per qualche tratto costeggiò il Porcupine colla speranza di abbattere qualche capo di selvaggina acquatica, avendo notato qua e là delle traccie di lontre ma nulla scorgendo, si addentrò nel bosco camminando con prudenza e cercando di non far scricchiolare la neve. In lontananza si udivano le lugubri urla di una muta di lupi, forse occupata a cacciare qualche grosso capo di selvaggina, qualche alce senza dubbio, sicchè si diresse da quella parte, niente affatto atterrito dai denti di quei feroci ma non coraggiosi carnivori. Dopo aver superato una piccola altura sulla quale erano già spuntati in gran numero i papaveri dai petali bianchi e dai petali d'oro, primi fiori della buona stagione, un certo numero di sassifraghe stellate e di ranuncoli gialli, ridiscese verso il fiume avendo udite le urla dirigersi da quella parte e quindi allontanarsi in direzione sud. Aveva raggiunta una macchia di piante sui cui rami spuntavano certe coccole rosse delle quali sono amanti gli orsi bianchi, quando scorse a terra delle larghe tracce che indicavano il passaggio di un grosso animale. - Oh! Oh! - esclamò egli, arrestandosi di botto. - Queste non sono nè tracce di alci, nè di lupi e tanto meno di volpi. Si curvò e le esaminò attentamente, poi si sollevò rapidamente gettando uno sguardo inquieto sotto gli alberi e intorno ai cespugli che crescevano in gran numero presso la riva del fiume. - Per di qui è passato un orso, e senza alcun dubbio un orso bianco - mormorò. - Devo tornare o tirare innanzi? Esitò un momento, sapendo quanto fosse forte e terribile l'avversario che poteva da un istante all'altro incontrare, ma la speranza di tornare all'accampamento con un sì bell'animale lo decise a continuare la caccia seguendo appunto quelle orme. Rinnovò per maggior precauzione la carica del fucile introducendovi due palle, si assicurò se il coltello scorreva facilmente nella guaina di pelle, poi si slanciò risolutamente innanzi, ma con gli occhi bene aperti e gli orecchi ben tesi. Percorse un quattro o cinquecento metri fermandosi di frequente per ascoltare, poi si gettò precipitosamente dietro a un grosso albero. In mezzo ad un cespuglio, lontano un tiro di freccia, aveva veduto agitarsi una massa biancastra che era subito scomparsa, forse perchè stava scendendo il pendio della riva. Stette alcuni minuti immobile cercando di distinguere meglio il carnivoro, poi udì, non senza provare un certo tremito, una specie di nitrito simile a quello che emette un mulo. - È un orso bianco! - esclamò il fiociniere, abbandonando con precauzione il nascondiglio. - Animo, mio caro Koninson, se sei venuto fin qui non devi tornare al campo a mani vuote. Sapendo quanto gli orsi bianchi siano diffidenti e difficili a lasciarsi accostare se non sono affamati, si gettò sottovento onde l'animale non lo fiutasse e guadagnò la riva del fiume sempre tenendosi celato dietro i tronchi degli alberi e le irregolarità del terreno. Giunto là, s'alzò sulle ginocchia tenendo in mano il fucile e guardò. A trenta soli passi di distanza egli scorse l'orso bianco occupato a divorare le coccole rosse dei cespugli e le tenere gemme di alcuni minuscoli salici d'acqua che crescevano stentatamente fra la neve. Senza dubbio non si era ancora accorto della presenza del cacciatore, poichè non dimostrava alcuna inquietudine, anzi lentamente gli si avvicinava. Koninson imbracciò il fucile e mirò lungamente la testa del mostro, non ignorando che, se lo avesse colpito in qualunque altra parte del corpo, non lo avrebbe atterrato. Alcuni istanti dopo la detonazione del fucile si fece udire scuotendo fortemente gli strati dell'aria. Quando il fumo si dissipò, il fiociniere, con suo grande terrore, vide l'orso che saliva la riva di galoppo, aprendosi impetuosamente il passo fra i cespugli. Nessuna macchia di sangue si scorgeva sulla bianca pelliccia, segno chiaro che la palla si era perduta altrove. Mancava il tempo di ricaricare l'arma e anche di fuggire, poichè l'orso non era più che a pochi passi. Il fiociniere in quel terribile frangente non si perdette d'animo. Afferrò il fucile per la canna e quando si vide l'animale dinanzi, lo percosse replicatamente sul muso. Disgraziatamente l'arma gli sfuggì di mano mentre vibrava un terzo colpo e si trovò inerme. Impegnare una lotta corpo a corpo col coltello era cosa troppo pericolosa con simile avversario, la cui forza è veramente straordinaria, se non eguale, certo di poco inferiore a quella del terribile orso grigio delle Montagne Rocciose. Non restava che fuggire a tutte gambe. Koninson si appigliò a questo partito, e si diede a precipitosa fuga attraverso la foresta, mandando alte grida per attirare l'attenzione del tenente che non doveva essere molto lontano. Superò, correndo disperatamente, la piccola altura procurando di tenersi presso gli alberi onde, in caso disperato, salvarsi sui rami; poi si lasciò scivolare o meglio rotolare fino al basso, dove incontrò il tenente che si era affrettato ad accorrere col fucile e una scure. - Cos'hai? - gli chiese questi, precipitandosi verso di lui. - Che ti è accaduto? Chi ti insegue? - Fuggite! Fuggite! - esclamò Koninson rimettendosi in piedi. - Ho un orso bianco alle spalle. - Un orso! E dov'è? - L'ho incontrato presso le rive del fiume e si era messo a inseguirmi, dopo essere sfuggito al mio colpo di fucile. - Se si mostra avrà una buona accoglienza, ragazzo mio. Ma dov'è il tuo moschetto? - Mi è sfuggito di mano mentre mi difendevo. - Bisogna andarlo a riprendere, o quell'animale te lo rovinerà tutto. Orsù, prendi la scure e andiamo a vedere. - Badate, tenente, che abbiamo da fare con un orso affamato, il quale si getterà su di noi. - Siamo in due e possiamo tenergli testa. Hai nulla di rotto? - Sono intatto. - Allora silenzio e avanti. Il tenente, che ci teneva assai ad abbattere il carnivoro per rinnovare le provviste già molto scarse, salì intrepidamente l'altura a rapidi passi, fiancheggiato da Koninson, il quale trovandosi male armato tentennava, e giunto sulla cima gettò uno sguardo sul versante opposto, in direzione del fiume, ma. non vide nulla, nè udì il ben noto nitrito del pericoloso avversario. - Dove si sarà nascosto? - si chiese. - Forse dietro a quelle macchie - rispose il fiociniere, indicando i cespugli che crescevano sulle sponde del Porcupine. - Non ti ha inseguito? - Non lo so, poichè non ardii voltarmi indietro. - Scendiamo, amico mio. Tenendosi dietro ai tronchi degli alberi e cercando di produrre meno rumore che fosse possibile, per sorprenderlo e sparargli addosso prima che potesse fuggire, raggiunsero i cespugli e precisamente il luogo ove era avvenuta la lotta. Guardarono attorno alle piante, sulla riva e nel fiume, ma l'orso bianco non c'era e, quello che era più sorprendente, non c'era nemmeno il fucile perduto dal fiociniere. - Tò! - esclamò il tenente al colmo della sorpresa. - Che abbia mangiato il moschetto? Eppure non è una bistecca. Si misero a frugare nelle macchie colla più grande attenzione, visitarono i crepacci, girarono i tronchi degli alberi per un bel tratto di bosco, ma sempre nulla: il fucile era proprio scomparso. - Che ne dici? - chiese Hostrup, che si grattava furiosamente la testa. - Io dico che questa sparizione ha del soprannaturale, - rispose Koninson. - Che l'orso abbia portato con sè l'arma? - E per che farne? - Non lo so davvero, Koninson. - Che sia venuto qui qualche indiano? - Non è possibile, poichè non vedo sulla neve che le tue traccie e quelle dell'orso. - E allora? - Che sia un orso ammaestrato? - Ma non vi sono serragli nei dintorni, che io sappia, signor Hostrup. - Ma vi possono essere degli indiani. - E voi credete ... - Io non credo nulla, ma dico che quell'orso può appartenere a qualche banda d'indiani. - E voi supponete che il birbante abbia portato il mio fucile ai suoi padroni? - Così deve essere. - Cosa dobbiamo fare? - Inseguire il ladro. - Ben detto, signor Hostrup. - Ecco qui le traccie che ha lasciato sulla neve. Ha disceso la riva, ed ha attraversato il fiume dirigendosi senza dubbio verso sud. Forse dietro a quella foresta sorge un accampamento di indiani. - Allora andiamo, ma ... e la nostra slitta? - La ritroveremo nel ritorno. - Ma i lupi la saccheggeranno. - Faranno un ben magro bottino, amico Koninson. Orsù, in cammino. Discesero la riva, attraversarono il fiume che in quel luogo misurava circa duecento metri di larghezza e risalirono l'opposto pendio entrando in un'altra foresta, sotto la quale scorrazzavano diversi lupi bianchi di dimensioni non comuni. Le traccie dell'orso furono ben presto ritrovate ed assieme ad esse l'impronta del calcio del fucile. - Si direbbe che quel birbante adopera la mia arma come un bastone - disse Koninson. - Deve essere un gran burlone! - rispose il tenente. - Ora che ci penso, che sappia anche adoperare il fucile? Non vorrei che ce lo scaricasse contro a tradimento. - Mi hai detto che non hai avuto tempo di ricaricarlo, quindi questo pericolo non esiste. Affrettiamo il passo e apriamo ben bene gli occhi. Si rimisero in cammino sempre seguendo le traccie del carnivoro ma, percorsi duecento metri, tutti e due tornarono a fermarsi in preda ad una certa inquietudine. Da una fitta macchia di pini e di abeti neri, usciva una grande cortina di fumo che strisciava lentamente sul campo gelato prolungandosi infinitamente, e in distanza si udivano delle voci umane. - Un accampamento? - chiese Koninson. - Senza dubbio! - rispose il tenente. - Andiamo innanzi? - Sì, ma con prudenza. Se sono indigeni potremmo venire scambiati per nemici e accolti molto male. - Vedete? - esclamò Koninson, - le traccie dell'orso si dirigono verso quell'accampamento. - Lo dicevo io, che quel burlone doveva essere ammaestrato. Gettiamoci dietro questi alberi e procediamo cauti. Stavano per eseguire quella prudente tattica, quando delle urla selvaggie scoppiarono alle loro spalle. Si volsero rapidamente l'uno puntando il fucile e l'altro impugnando la scure. Alcuni uomini, che si erano forse tenuti nascosti dietro i tronchi degli alberi o i mucchi di neve, correvano loro addosso agitando certe fiocine e certi ramponi di forma particolare ed alcuni vecchi fucili. Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa: - Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Essendo il mehari molto più intelligente dei cammelli, si affeziona subito al suo padrone e si ammaestra facilmente, al punto che se in un combattimento il padrone rimane ucciso, non lo abbandona. Anzi gli si inginocchia accanto come per invitarlo a montare in sella e non lo lascia se non dopo essersi convinto della sua morte. Non fugge però. Ritorna al duar dell'estinto padrone per mostrare alla famiglia la sella vuota. Il marchese ed i suoi compagni s'intrattennero un giorno fra quegli allevatori ospitalissimi, ben diversi dai Tuareg, lasciando presso di loro il negro raccolto ad Eglif, essendosi questo rifiutato di accompagnarli a Tombuctu a causa della sua estrema debolezza. Toccando poi successivamente le piccole oasi di Trasase e di Grames, dopo una lunghissima marcia giunsero a Teneg-El-Hadsk, una delle ultime stazioni del deserto. Solamente poche giornate li dividevano ancora dalla Regina delle Sabbie. L'influenza del Niger, il fiume gigante dell'Africa occidentale, si faceva sentire. L'aria non era più così secca, né così infuocata e anche fra le sabbie cominciavano ad apparire dei cespuglietti verdi. Si cominciavano poi a vedere delle bande d'uccelli, i quali s'affrettavano subito a fuggire verso il sud. Qua e là le tracce delle carovane aumentavano. Si vedevano di frequente scheletri di cammelli e d'uomini, basti, casse sventrate, avanzi di fuochi; chissà quanti disgraziati erano morti in vista della Regina delle Sabbie, sulla porta della salvezza, sfiniti dalle privazioni e soprattutto dalla sete. A Teneg-El-Hadsk erano già giunte due grosse carovane provenienti dalle rive del Niger, una diretta al Marocco con carichi di piume di struzzo e di avorio, l'altra nell'Algeria con gomma arabica e polvere d'oro delle miniere di Kong. L'occasione era propizia per assumere informazioni circa la sorte toccata al disgraziato colonnello Flatters. Provenendo quelle carovane da Tombuctu, non dovevano ignorare se dei francesi erano stati colà condotti e venduti al sultano. Con sua profonda meraviglia, il marchese provò invece un'amara delusione. Flatters! Tutti ne avevano udito parlare, sia marocchini che algerini, ma nessuno aveva udito narrare che i Tuareg l'avessero condotto a Tombuctu. "Che cosa ne pensate, Ben?" chiese il marchese, dopo aver interrogato tutti i capi delle due carovane, ottenendo sempre la medesima risposta. "Che io sia stato ingannato e che il colonnello sia stato veramente ucciso nel deserto?" "Non disperiamo, marchese," rispose l'ebreo. "Forse questi uomini, interamente occupati nei loro traffici, non si sono interessati della sorte toccata al povero colonnello." "Eppure io so che il governo dell'Algeria aveva promesso dei premi ai carovanieri che avessero potuto fornire notizie sulla spedizione," disse il marchese. "Quando noi saremo a Tombuctu faremo delle ricerche scrupolose, marchese, e sapremo la verità. Se è vero che il colonnello è stato condotto al sultano, qualcuno lo avrà veduto di certo entrare in città coi Tuareg." "Che disillusione se invece fosse stato ucciso nel deserto!" esclamò il corso, con amarezza. "Vi rincrescerebbe aver fatto questo lungo viaggio inutilmente?" chiese Esther, la quale assisteva al colloquio. "Oh no!" esclamò vivamente il corso, guardandola negli occhi. "No, Esther, ve lo giuro!" La giovane lo comprese e sorrise, mentre una viva fiamma le animava gli sguardi. "No, non è possibile," esclamò poi abbassando gli occhi. "Sarebbe un sogno troppo bello ... " "Esther," disse il corso con voce grave, "se questo sogno si realizzasse? Se io vi amassi davvero?" "Voi, marchese, amare una ebrea, una donna che nel Marocco si disprezza?" "La Corsica e la Francia non sono il Marocco, Esther. Il destino mi ha gettato sulla vostra strada, ho imparato ad apprezzarvi e ad ammirarvi e credo che nessun'altra donna potrebbe diventare, meglio di voi, la compagna della mia vita." Aveva appena pronunciato quelle parole quando udì presso di sé una rauca imprecazione. Si volse vivamente e vide sdraiato presso la tenda El-Melah. La faccia del sahariano era contratta e manifestava una collera terribile. "Che cosa fate qui?" domandò il marchese, aggrottando la fronte. "I Tuareg," rispose il sahariano. "Quali Tuareg?" chiese il corso. "Quelli che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti. Stanno entrando ora nell'oasi." "Che ci abbiano seguito?" si domandò il marchese, con ira. "La presenza di quei predoni non mi piace affatto." "Che osino assalirci fra tanta gente?" chiese Esther. "No di certo, perché i marocchini e gli algerini s'unirebbero a noi per respingerli. Qui siamo come fra compatrioti." "Che vadano anch'essi a Tombuctu? Che cosa ne dici, El-Melah?" Il sahariano non rispose. Guardava Esther in modo strano, mentre un brutto sorriso gli increspava le labbra. "Ebbene, non mi hai udito, El-Melah?" chiese il marchese, impazientito. "Che quei Tuareg si dirigano anch'essi a Tombuctu?" "Ah! Sì, lo suppongo," rispose il sahariano, quasi distrattamente. "Con Ben vado ad assicurarmi chi siano. Tu, El-Melah, non lascerai Esther durante la mia assenza e aspetterai il ritorno dei beduini e di El-Haggar, che sono andati ad acquistare dei viveri." Il sahariano fece un gesto d'assenso e si sdraiò al suolo, a quattro passi dalla giovane ebrea, la quale si era seduta presso la tenda, all'ombra d'un bellissimo palmizio. Il viso del giovane non si era ancora rasserenato, né i suoi sguardi si erano ancora staccati dall'ebrea. Anzi una fiamma cupa balenava entro quegli occhi nerissimi, mentre la fronte gli si aggrottava sempre più. "Signora," disse ad un tratto, risollevandosi. "Che cosa va a cercare a Tombuctu il marchese?" Esther alzò il capo che teneva appoggiato ad una mano, e guardò con stupore il sahariano. "Perché mi fai questa domanda, El-Melah?" chiese. "Io vi ho seguito fin qui senza aver ancora potuto conoscere chiaramente i vostri progetti e prima di entrare in Tombuctu desidererei sapere lo scopo che vi guida. La Regina delle Sabbie è pericolosa per gl'infedeli; voi giuocate la vita." "Andiamo a cercare il colonnello Flatters. Credevo che tu lo sapessi, El-Melah." Un sorriso beffardo spuntò sulle labbra del sahariano. "Non valeva certo la pena di venire fino qui a cercare un uomo che forse è morto e che è ben lontano da Tombuctu." "Sai qualche cosa tu?" chiese Esther. Il sahariano crollò il capo, poi disse come parlando fra sé: "Lasciamolo cercare." "Chi?" "Il francese." "Non ti comprendo, El-Melah." "Chissà, forse potrà trovare anche qualche cosa d'altro a Tombuctu. Signora, è vero che il marchese vi ama?" "Sì, El-Melah." "E voi?" chiese il sahariano, figgendole in viso uno sguardo acuto come la punta d'uno spillo. "Ciò non ti può interessare," rispose Esther, il cui stupore aumentava. "Desidererei sapere se lo lascereste per un altro uomo che pure vi ama e forse più del marchese." "El-Melah," esclamò la giovane alzandosi. "Il sole del deserto ti ha sconvolto il cervello? Ne avevo il dubbio, ora ne ho la certezza." "Sì, deve esser così," rispose il sahariano, con un accento strano. "Il sole del deserto deve aver guastato il cervello di El-Melah." S'alzò girando intorno alla tenda; poi tornò a sdraiarsi, tenendosi il capo stretto fra le mani. "Quel povero giovane è pazzo," disse Esther. In quel momento il marchese tornava con Rocco, El-Haggar e Ben. Tutti e tre parevano assai preoccupati ed inquieti. "Che cosa avete?" chiese Esther, movendo loro incontro. "I Tuareg che sono passati per di qua sono gli stessi che abbiamo incontrato ai pozzi di Marabuti," rispose Ben. "Vanno a Tombuctu." "Che abbiano qualche progetto su di noi?" chiese Esther. "Tutto si può attendere da quegli uomini," disse El-Haggar. "Se essi hanno un sospetto che voi non siete mussulmano, ci possono fare arrestare dalle guardie del sultano e anche uccidere." "Eppure non possiamo rimanere qui ora che abbiamo attraversato il deserto. Io non me ne tornerò se non quando avrò la certezza che il colonnello è morto o che si trova prigioniero del sultano." "Ed io se prima non avrò raccolto l'eredità di mio padre," disse Ben. "E trovato Tasili," aggiunse Rocco. "Senza quell'uomo non potrete certo riacquistare il tesoro." "Ascoltatemi," disse in quell'istante El-Haggar. "A me, come mussulmano, non è vietata l'entrata in Tombuctu e nessun pericolo può minacciarmi. Volete che io segua quei Tuareg per cercare di scoprire le loro intenzioni e cercare Tasili? Fra tre o quattro giorni io sarò di ritorno e allora agirete." "E ti occuperai di sapere se il colonnello è vivo od è stato ucciso?" "Ve lo prometto, marchese. Conosco parecchie persone a Tombuctu e andrò ad interrogarle." "E ne conosco anch'io," disse El-Melah, alzandosi. "Vuoi partire con El-Haggar?" chiese il signor di Sartena. "Tu che conosci quei Tuareg puoi sapere, meglio d'ogni altro, che cosa sono venuti a fare a Tombuctu." "Se lo desiderate io parto," rispose il sahariano, con vivacità. "Vi concederemo una settimana di tempo. Se non vi vedremo ritornare, qualunque cosa debba succedere, noi verremo a Tombuctu," disse il marchese. "Siamo d'accordo," rispose El-Haggar. I loro preparativi furono lesti. Caricarono sui due mehari dei viveri, s'armarono di fucili e di jatagan e salirono in sella. "Prima che il sole tramonti noi entreremo nella Regina delle Sabbie," disse El- Haggar. "Abbiate pazienza e non lasciate questa oasi. In caso di pericolo io o El-Melah torneremo subito e vi rifugerete subito nel deserto." "Và e che Dio sia con te," risposero Ben ed il marchese. Mentre però s'allontanavano, El-Melah continuava a volgersi indietro ed Esther provava ancora l'impressione di quello strano sguardo che le procurava una specie di malessere che non sapeva spiegarsi. Quando i due corridori scomparvero in mezzo alle dune, la giovane provò un vero sollievo. "Che uomo strano è quel Melah," mormorò. "Che sia veramente pazzo?" Il marchese ed i suoi compagni intanto si erano occupati a prepararsi l'accampamento, onde passare quella lunga attesa nel miglior modo possibile. Rizzarono le due tende assicurandole con numerose funi e disposero le casse ed i bagagli all'intorno, formando una specie di barriera; poi con sterpi e foglie innalzarono una zeriba destinata a contenere i cammelli e gli altri animali, precauzione indispensabile con tanta gente che occupava l'oasi in attesa del momento opportuno per mettersi in marcia verso il nord. "Ora armiamoci di pazienza ed aspettiamo," disse il marchese, quando il campo fu pronto. "El-Haggar ritornerà, ne sono certo, e forse accompagnato da Tasili."

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Racconti fantastici

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Si abbandona la famiglia nella quale si era nati, e se ne forma e se ne ama una nuova; si amavano i genitori, ora si amano i figli; si prediligono ai vecchi i fanciulli; e si cerca fuori della sfera delle nostre prime affezioni un elemento d'amore più vergine e più durevole. È perciò che la vecchiezza si accosta alla gioventù, e questa alla vecchiezza; e i giovani preferiscono in amore le donne adulte, e gli adulti amano di preferenza le giovani; e tutte queste forze dell'amore si completano a vicenda, dando o ricevendo, secondo che vi è di esuberanza o difetto. Ma ciò che v'è di crudele in questa legge è quell'abbandono e quell'apatia a cui la natura ha condannato la vecchiaja. Difficilmente l'amore dei figli perdura fino alla vecchiezza dei genitori, e avviene quasi sempre che questo affievolirsi dell'affetto, o le esigenze d'interessi materiali, o le cure di una nuova famiglia li separino in quegli anni sì bisognosi di conforti e di amore. Triste destino di quell'età infelice della vita che l'egoismo crescente dell'epoca mostra di peggiorare ogni giorno, e cui la civiltà (o ciò che noi vogliamo indicare con questa parola) non ha ancora trovato mezzo di rimediare.

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USI,COSTUMI E PREGIUDIZI DEL POPOLO DI ROMA

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Zanazzo, Giggi 1 occorrenze

Designate le loro tane, che devono essere a una bella distanza, e ciascuna rimpetto all’altra, si comincia il giuoco così: Un giocatore della squadra A abbandona la tana e s’incammina verso la squadra nemica; da questa parte un altro giocatore che lo rincorre, e se lo tocca lo fa prigioniero. Ognuno di questi vale un punto; e il giuoco si vince a capo di dodici punti.

Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 2 occorrenze

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Qual'è l'uomo che abbandona una creatura debole in condizioni simili, di giorno e di notte? - Sì, sì - interruppe Clara - sì, è certo, hai ragione: egli ha desiderato di ucciderla! L'ha data in balìa ad altri, a un'altr'uomo, a un bruto, perché la finisse!...... Oh! ma non trovo parole per costui: è un rettile. E' peggio, peggio, peggio dell'assassino che hanno condannato all'ergastolo!..... Agitata, convulsa, con un singhiozzo violento che pareva romperle il petto, ella si lasciò cader sul divano, portando le mani fredde alle tempie brucianti; i capelli d'oro le fluivano giù per il fianco, ed ella s'inchinò lievemente, si distese quant'era lunga. - E' il tuo sposo di domani, costui! - dissi. Ah! ma finiscila! - rispose Clara con violenza. - Non mi vedrà più! Sii buono, finiscila, non impaurirmi ancora! Vedendo ch'ella rabbrividiva di freddo o di terrore, presi dal divano la mantiglia e l'avvolsi attorno al busto della giovane, stringendomela fra le braccia. E' l'odio che mi rende implacabile e cattivo - spiegai sommessamente. Io odio cotesto uomo, non solo pel male ch'egli meditava di fare a te, ma anche pel delitto che ha commesso contro l'altra infelice. La quale era bella, m'hanno detto, e gentile e dolce e desiderosa d'amore. Ah, sa scegliere le sue vittime, con un gusto che par ferocia, colui!... Ma dimmi, Clara: tu ignoravi ch'egli giocasse? - Ignoravo tutto, tutto! - esclamò Clara. - Qui a Firenze, come a Milano, come dovunque, è molto stimato.... - A Milano, però si conosce la sua passione senza freno, - osservai. - A Milano io non abito; e d'altra parte, una donna sa sempre ben poco: voi conoscete molte cose, avete il passaggio in ogni luogo; una donna è schiava, al vostro confronto. Tu stesso, che avresti osato dirmi, se.... se non ne avessi il diritto pel nostro passato? - E' vero, - mormorai. - Il mio amore ti ha fatto un po' di bene..... Clara si tolse alla mia stretta, indovinando ch'io stava per coprirle il volto di baci; e rispose: - Ti devo una gratitudine infinita....... Io scrollai le spalle, sorridendo con amarezza, e la lasciai. - Non ti basta, è vero? - continuò la giovane. - Devo essere tua, anche non amandoti più? Non credere ch'io voglia tormentarti con queste parole: ho per te un'affezione profonda; ma è un'affezione come per un fratello.... Ciò che si chiama amore, è svanito. Io ascoltavo, sentendo di non poter nulla rispondere; e poiché stava silenzioso, pallido, a testa bassa, Clara, dopo un lampo d'esitazione, aggiunse con voce sommessa: - Vieni qui..... Io mi avvicinai. - Mi vuoi? - ella seguitò sottovoce. - Se posso darti un po' di gioia, ebbene, prendimi! Non voglio vederti soffrire. - Mi ami? - domandai, chinandomi verso la giovane. - No, - ella rispose nettamente. - Ti voglio molto bene: l'ho detto. La guardai: lo sguardo diritto dei grandi occhi grigi e limpidi era sincero. Mi levai quasi con un balzo. - Non pensiamoci - dissi, scuotendo la testa. - Se non mi ami, sarai di marmo!.... Nel lungo silenzio che seguì, rimasi in piedi, addossato alla specchiera, fissando quell'amante morta. Pareva morta anche fisicamente, così stesa e senza moto, a occhi aperti. Ella non pensava già più alle sue parole: riviveva forse il dramma che io le avevo narrato; e per non soffrire oltre, io che soffriva atrocemente per le parole vere uscite dalla bocca indimenticabile, mi sforzai d'imitar la donna e di ripensare a colui che poteva ancora farla sua. - Capisci l'uomo? - dissi improvvisamente. - Da quando t'ha incontrata qui a Firenze, non giuoca più. Sa vincersi; e perciò è temibile. Non giuoca; ma domandagli che ha fatto delle sue terre, e d'una casa a Milano, e d'una villa in Val Malenco. Sfumate come la nebbia, a colpi di macao o di faraone. Domandagli se conosce Montecarlo, e la jetée di Nizza, e il Casino di Vichy. - Montecarlo? - interruppe Clara. - Ne parlavamo alcune sere addietro; mi disse che non c'era mai stato. - L'ipocrita! -.... e che giuocava a domino, qualche volta, e che s'addormentava subito. A domino è probabile: mi ci addormento io pure. Ma dovresti farti spiegare il trente-et-quarante, o la roulette. Insomma non dirà nulla. Questo è il suo corredo di nozze: lo tiene in serbo per fartene una sorpresa più tardi, - Mai, mai, mai! - ripetè la giovane, levandosi in piedi e ravviandosi i capelli. - Bada: è un lottatore formidabile. Conosce tutte le arti. - Clara alzò le spalle. - Ci penserò - disse. - Non dubitarne: difendo la mia vita. - Oh, a lui basterebbe la tua borsa! - conclusi. - Va; sono stanca: reggo appena, - mormorò Clara. - E' quasi l'alba.... Mi accompagnò alla portai, ne girò la chiave, l'aperse. Quando fummo ambedue sulla soglia, mi guardò in faccia. - Ti ringrazio? - domandò con un sorriso breve. E innanzi che io avessi potuto rispondere, la sua bocca era congiunta alla mia...... - Poiché sono di marmo, - ella disse maliziosamente,questo non ti fa male..... Rinchiuse la porta, scomparve, e il suo passo si spense..

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