Il Santo i.
La luna era già tramontata e nel vento della tarda sera l' Aniene
discorreva ora forte ora piano, come colui che parlando concitato ricorda
di tratto in tratto al suo interlocutore cosa da non lasciar udire ad altri. Il
solo forse che in tutta la bella conca di Subiaco stesse attento al suo
discorso, era Giovanni Selva. Seduto presso il parapetto della
terrazza, egli vi teneva appoggiati i gomiti e guardava silenzioso
nell'ombra sonora. Maria e Noemi uscite anch'esse a goder la
frescura e gli aromi selvaggi del vento notturno, si tenevano in disparte.
Maria sussurrò una parola all'orecchio della sorella, che uscì. Rimasta
sola, si accostò pian piano al marito, gli posò un bacio sui capelli:
"Giovanni" diss'ella. Quante volte, oppressa dalla violenza dell'amore,
non gli aveva ella data l'anima sua, tutta sé stessa, in questa sola parola
detta sotto voce, tutte l'altre essendo manchevoli, per lei, o sciupate da
troppe labbra!
Giovanni rispose mestamente, come stanco:
"Maria."
Non sentendosi più il viso di lei sui capelli, temette di esserle parso
freddo.
"Cara" diss'egli.
Ella tacque un momento e posategli ambedue le mani sul capo, prese ad
accarezzarglielo lentamente, dicendo:
"Beati coloro che soffrono per la Verità."
Egli si voltò con un sorridente fremito di affetto, guardò se Noemi
fosse ancora presente, si attirò con un braccio il caro viso sulla bocca.
"Ho tanto bisogno di te," disse "della tua forza!"
"Sono tua per questo" rispose Maria "e sono forte solo perché tu mi
ami."
Egli le prese una mano, la baciò, riverente.
"Vedi?" esclamò poi, alzando il viso. "Forse non sai proprio il più
profondo del mio soffrire, perché è una cosa oscura anche a me che sono
vecchio e non mi conosco ancora. Ci pensavo adesso. Pensavo che quando
si soffre di una ferita la causa del soffrire si vede, ma quando si soffre di
una febbre la causa è oscura così e non si arriva mai a conoscerla bene."
Un mese non era ancora trascorso dalla sera della riunione in cui si era
parlato di una lega fra i cattolici progressisti. Nessuna lega n'era venuta
fuori ma uno strano seguito di fatti spiacevoli non poteva ragionevolmente
attribuirsi ad altra origine. Il professore Dane era stato richiamato in
Irlanda dal suo arcivescovo. Egli si era subito recato da un cardinale di
curia, inglese, per rappresentargli le sue cattive condizioni di salute e
chiedergli di appoggiare presso l' Arcivescovo una domanda di
dilazione. Sua Eminenza gli aveva aperto gli occhi. Il colpo era venuto
da Roma dove si era malissimo disposti verso di lui. Soltanto per un
riguardo al cardinale stesso, amico del Dane, e sopra tutto per riguardo
al governo inglese, non si accontenterebbero coloro che avrebbero voluto
far mettere all'Indice i suoi libri e costringer lui a lasciare la cattedra. Il
cardinale gli aveva consigliato di partire da Roma, dove il caldo era
già molesto, e di ammalarsi un po' più sul serio a Montecatini o a
Salsomaggiore, dove lo avrebbero lasciato tranquillo. Don Clemente
non si era più visto. Giovanni era andato a trovarlo a Santa Scolastica, dove il monaco gli aveva significato con le lagrime agli
occhi che la loro amicizia doveva seppellirsi come un tesoro in tempo di
guerra. A don Paolo Farè, che teneva in Pavia un corso di
religione per gli adulti, era stato imposto di tacere. Il giovane di Leynì
era stato colpito per mezzo della sua famiglia. La sua pia, eccellente madre
lo aveva supplicato piangendo, in nome del morto Padre suo, di
rompere con i pericolosi amici Selva; ed egli credeva che il passo le
fosse stato suggerito dal confessore. Aveva resistito ma a prezzo della sua
pace domestica. Finalmente, un periodico clericale aveva pubblicato tre
articoli sull'opera intera di Giovanni, riassumendo parziali lodi
temperate e parziali biasimi aspri in un giudizio severissimo sul carattere,
secondo il censore, razionalistico dell'opera stessa e sulla temerità
intollerabile dell'autore, che, unicamente armato di sapere laico, aveva
osato pubblicare scritture dove il difetto di scienza teologica si rivelava
miseramente. In sostanza quegli articoli erano una terribile condanna
preventiva proprio del libro che Giovanni stava scrivendo sui
fondamenti razionali della morale cristiana, e preannunciavano, a giudizio
degli esperti, l' Indice per gli altri suoi lavori.
"Dubiti delle tue idee?" disse Maria.
La domanda non era sincera. Ell'aveva, malgrado il suo grande amore, una
conoscenza profonda e chiara dell'animo di suo marito. Pensava che
soffrisse nel suo interno per il presentimento di una condanna
ecclesiastica. Giovanni poteva parlare con disistima di certe sentenze
della Congregazione dell' Indice, ma la sua coscienza, riverente
verso l'autorità più ch'egli stesso non pensasse, si turbava, secondo
Maria, più ch'egli stesso non volesse, del minacciato colpo. E
Maria, temendo di ferirlo se dicesse "hai paura?" aveva simulato un
altro dubbio per aprirgli la via di confessare spontaneamente il vero. La
risposta di Giovanni la sorprese.
"Sì" diss'egli. "Dubito di me. Non però nel modo che tu credi. Dubito di
essere puramente un intellettuale e di esagerarmi l'importanza, davanti a
Dio, delle mie idee. Dubito di non viverle, le mie idee. Dubito di
sentire troppo sdegno contro coloro che non le dividono, contro dei
persecutori che dobbiamo amare, contro quell' Abate svizzero che
venne qua con Dane e poi ha probabilmente parlato di ciò che si è
detto allora tra noi, dove e come non doveva. Dubito di condurre una
Vita troppo inoperosa, troppo facile, troppo piacevole, perché a me lo
studio è piacevole. Dubito del mio stesso amore di Dio perché sento
troppo poco l'amore del prossimo. Mi viene in mente che le dolcezze
mistiche mi possono addormentare circa questo punto. Tu, Maria, tu
vivi la tua fede! Tu visiti gl'infermi, tu lavori per i poveri, tu conforti, tu
istruisci. Io non faccio niente."
"Io sono tu" mormorò Maria. "Sei tu che mi hai fatta così. E poi tu
eserciti la carità intellettuale."
"No no, questa è per me una parola presuntuosa!"
Egli ricadde a contemplare in silenzio l'ombra sonora.
Maria sapeva che veramente il sentimento affettuoso della fraternità
umana non era vivace in lui. Sentiva, non volendolo quasi confessare a sé
stessa, che questa deficienza toglieva a suo marito di esercitare con
successo il grande apostolato religioso che avrebbe dovuto rispondere alle
sue disposizioni intellettuali, a quella fede profonda e luminosa ch'era in
lui frutto d'ingegno, di studio, di amor divino più che di tradizione e di
abitudine. Si rimproverava di essersi qualche volta compiaciuta della
freddezza di Giovanni verso gli uomini, per il prezioso sapore che ne
prendevano i tesori di affetto dati a lei. Egli aveva però la coscienza del
dovere fraterno e mai ella non lo aveva conosciuto sordo alla preghiera,
duro al dolore altrui. Non sentiva e quindi non amava Dio negli
uomini, ch'è il più sublime fuoco della carità; sentiva e amava gli uomini
in Dio, ch'è freddo amore, come di un fratello buono al fratello
soltanto per compiacere al Padre. Ma quest'ultima è la tempra comune
anche dei cuori umani migliori. Quello di Giovanni era temprato così,
non poteva dare la carità sublime di cui umilmente, tristemente si
conosceva vôto. Maria, accarezzandogli i capelli con infinita tenerezza
pia, sognava che fluisse per il proprio cuore, per le proprie mani a quel
capo la soave indulgenza Divina.
"Sai" diss'ella "ti offro subito io un'opera di carità che avrà molto merito.
C'è Noemi che ha ricevuto una lettera della sua amica Dessalle e
dice di aver bisogno del tuo aiuto."
"Chiamala" diss'egli.
Noemi venne. Una leggera nube era passata quel giorno fra lei e
Giovanni. Caso raro, avevano conversato insieme di
religione. Noemi si teneva ciecamente aggrappata alla propria e non
amava discuterne. Malgrado la sua tenerezza per Maria, il suo
affettuoso rispetto per Giovanni, temeva di piegare, se esaminasse le
ragioni e la natura del proprio credere, piuttosto verso lo scetticismo di
Jeanne che verso il cattolicismo liberale e progressista dei Selva.
Questo cattolicismo le pareva una cosa ibrida e forse aveva appreso da
Jeanne a giudicarlo così, perché Jeanne, in qualche momento di
cattiveria nervosa, difendeva con acrimonia il proprio scetticismo da
quella fede che per essere luminosa di spirito e Verità poteva riuscirgli
formidabile. Ell'era poi anche sempre in sospetto, non di sua sorella, ma di
Giovanni che meditasse di convertirla; e il sospetto era trapelato, quel
giorno, discorrendo i due della confessione, nella vivacità di qualche
risposta. Allora Giovanni le aveva dolcemente e gravemente ricordato
che l'errore accolto senz'averne coscienza, col desiderio sincero e puro
della Verità, era incolpevole davanti a Dio; ma che se un
sentimento estraneo a quel desiderio avesse parte nella ripulsa della
Verità, ne sorgeva il peccato.
Questo argomento ferì Noemi ancora più addentro. Ella fu per
domandare al cognato i suoi titoli di vice-giudice divino. Si contenne e
lasciò cadere il discorso.
Più tardi, ripensandoci, ebbe rimorso del suo silenzio imbronciato; non
tanto perché le ultime parole di Giovanni avessero fatto cammino
nella sua mente, quanto perché sapeva dei dispiaceri che le opinioni
religiose da lui professate gli fruttavano, perché lo vedeva abbattuto di
spirito. Anche per questo, richiamata da lui, pregata da sua sorella
d'essergli molto affettuosa, ella si risolse a una infedeltà verso Jeanne.
Di quanto Jeanne le aveva scritto sotto il suggello del segreto, si era
aperta con Maria solo fino al confine dello stretto
necessario. Jeanne, sempre malata di corpo e di spirito, aveva udito
parlare del Santo di Jenne che guariva i corpi e le anime, la
pregava di recarsi a Jenne, di vedere questo Santo, di scrivergliene
qualche cosa. Ora Noemi non poteva andare a Jenne tutta sola,
doveva pur chiedere a Giovanni di accompagnarla. La sua prima
confidenza si era fermata qui. Adesso ruppe tutti i suggelli dell'amicizia e
parlò.
La povera Dessalle era più infelice che mai. Nel breve soggiorno a
Subiaco aveva incontrato l'antico amante. Esclamazione di
Giovanni: era dunque proprio don Clemente? No, era l'uomo
venuto alla villa col Padre la sera dell'arrivo di Jeanne, il garzone
ortolano di Santa Scolastica, colui che non era più al monastero,
colui del quale si parlava già in tutta la valle dell' Aniene, e anche a
Roma, come del Santo di Jenne. Noemi si scusò di non
averlo detto subito, allora. Guai se Jeanne fosse venuta a saperlo, dopo
le sue proibizioni di parlare! E poi non serviva. Giovanni prese quasi
furtivamente una mano di sua moglie e se la recò alle labbra. Maria
intese e sorrise. Ambedue assalirono Noemi di domande.
Sì, lo aveva riconosciuto la sera dell'arrivo e adesso Giovanni e
Maria potevano intendere il perché di quel tramortimento che si era
visto. L'incontro era poi avvenuto l'indomani al Sacro Speco. Noemi ne sapeva soltanto che le speranze di lei n'erano
state distrutte, ch'egli vestiva da monaco e aveva parlato come un uomo
datosi a Dio per sempre, ch'ella gli aveva promesso di dedicarsi ad
opere di carità e che nessuna relazione diretta era più possibile fra loro.
Adesso la Dessalle scriveva da villa Diedo, il soggiorno veneto
dove si era ricondotta col fratello da Roma, due giorni dopo aver
lasciato Subiaco. Scriveva in un'ora di amarissimo sconforto. Il
fratello, sorpreso ch'ella si occupasse tanto de' poveri, s'irritava di questa
novità nei suoi pensieri e nella sua Vita. Largheggiasse di denaro, se le
piaceva, quanto le piaceva! Farsi venire una fila di pezzenti in casa,
visitarli nei loro tugurii, no! Questo era sciocco, era inutile, era noioso, era
ridicolo, era pazzesco, era clericale. C'erano altre difficoltà. Ell'avrebbe
desiderato entrare nelle associazioni femminili caritatevoli della città. Al
contatto della signora che aveva tanto fatto parlare di sé per Maironi,
che se pure andava qualche volta in Chiesa la domenica però non
adempiva il precetto pasquale, esse indietreggiavano chiudendosi in sé
stesse come sensitive. E finalmente anche le sue abitudini di dama oziosa
si ricomponevano via via dopo il primo strappo a impedirle il nuovo
cammino, tanto più pronte quanto più il cammino si faceva difficile.
Sentiva di dover soccombere se non le venisse una parola di consiglio, di
aiuto da lui. Vederlo non poteva, scrivere non osava perché
certamente egli aveva inteso vietare anche questo ed ella sarebbe morta
piuttosto che fargli cosa sgradita, potendo evitarlo. Aveva letto una
corrispondenza romana del Corriere sul "Santo di Jenne"
dove si diceva che il Santo era giovine e aveva lavorato da bracciante
nell'orto di Santa Scolastica. Era lui, dunque! Supplicava
Noemi di andare a Jenne, di chiedergli per lei l'elemosina di un
conforto.
Noemi era risoluta di andare. Vorrebbe Giovanni accompagnarla?
Nel tôno umile col quale lo chiese Giovanni sentì una tacita offerta di
scuse e di pace, le stese la mano.
"Di tutto cuore" diss'egli.
Maria si offerse per terza compagna. Fu stabilito di andare l'indomani,
a piedi, e di partire alle cinque del mattino per non avere il sole ardente
sulla costa di Jenne, nuda e scoscesa. Poi si parlò del Santo.
Tutta la valle ne era piena. La corrispondenza letta dalla Dessalle
diceva che una quantità di gente affluiva a Jenne per vedere e udire il
Santo, che si proclamavano guarigioni miracolose operate da lui, che i
benedettini raccontavano con ammirazione la Vita di penitenza e di
preghiera ch'egli aveva condotto per tre anni lavorando nell'orto di
Santa Scolastica. A Subiaco si raccontava ben altro. Un tale
Torquato, guardaboschi, brav'uomo, parente della domestica dei
Selva, aveva detto a costei di essere andato a Jenne con un
forestiere, una specie di poeta, venuto da Roma per parlare al
Santo. Nell'andata e nel ritorno aveva veduto, tutt'assieme, forse una
cinquantina di persone che si recavano a Jenne per lo stesso scopo.
Fior di signori, anche; sulla costa di Jenne una processione di donne
che cantavano le litanie. A Jenne aveva saputo tutta la storia. Una
notte l'arciprete di Jenne aveva sognato un globo di fuoco sulla grande
croce piantata a sommo della costa e questo globo di fuoco aveva acceso
la croce che ardeva e splendeva senza consumarsi, illuminava tutte le
montagne e le valli. Il giorno di poi egli si era visto capitare un giovine
vestito da converso benedettino, che aveva l'incarico di recargli una
lettera. Questa lettera era dell' Abate di Santa Scolastica e
diceva: "Vi mando un angelo di fuoco ardente che farà parlare di
Jenne in tutto l'universo mondo." Anche vi era scritto che questo
giovine era nato principe grande di sangue di re, e che per servire Dio
in umiltà si era fatto ortolano per tre anni a Santa Scolastica. E
l'arciprete si era come impazzito per la commozione di questo fuoco
sognato e di questo fuoco arrivato, e gli era venuta una grandissima
febbre. L'indomani era giorno di festa. Degli altri due preti che stanno a
Jenne uno era infermo e l'altro se n'era andato a Filettino due
giorni prima per vedere sua madre inferma. La fantesca del parroco aveva
raccontato nel paese di questo benedettino e del sogno e ogni cosa. La
gente del paese era andata in Chiesa per udir la messa del benedettino
che avean veduto entrarvi, e non voleva credere che il benedettino non
dicesse messa. Volevano che almeno predicasse, malgrado le sue proteste
di non averne il diritto in Chiesa; e, presolo in mezzo, gli facevano
tanta ressa intorno ch'egli aveva accennato con la mano di uscire della
Chiesa promettendo ai vicini di parlare fuori. E fuori aveva parlato.
Che avesse propriamente detto, la fantesca non l'aveva saputo dire a
Maria, né Maria l'aveva poi potuto cavar bene a Torquato. Un
po' interrogando, un po' immaginando, ella si ricostituì il suo discorso
così:
Potete voi entrare in Chiesa? Siete voi riconciliati con i vostri fratelli?
Sapete cosa Vi dice il Signore Gesù con questa parola che non si
può avvicinarsi all'altare senza essersi riconciliati con i fratelli? Sapete che
non potete entrare in Chiesa se avete mancato contro la carità e la
giustizia e non ne avete fatto ammenda, o non ne siete pentiti quando
nessuna ammenda è possibile? Sapete che non Vi è lecito di entrare in
Chiesa se nutrite qualche rancore verso i fratelli vostri non solo, ma
pure se avete fatto torto loro in qualunque modo, negl'interessi o nel'onore,
se avete detto loro ingiuria, se portate nel cuore desiderii disonesti contro i
loro corpi e le loro anime? Sapete che tutte le messe, le benedizioni, i
rosarii, le litanie contano meno che niente se voi prima non vi purificate il
cuore secondo la parola di Gesù? Siete voi immondi di odio,
d'impurità? Andate, Gesù non vi vuole in Chiesa!
Ma che! diceva Torquato. Il discorso era niente, era la voce, era il
viso, erano gli occhi! Il buon uomo ne parlava come se vi ci fosse trovato.
Allora la gente, giù, in ginocchio, e pianti; e certe donne, nemiche fra loro,
ad abbracciarsi. Già non c'erano che donne e vecchi perché gli uomini di
Jenne son tutti pecorai a Nettuno e ad Anzio, e prima della
fine di giugno non ritornano alla montagna. Il Santo, vedutili così
contriti, aveva detto: entrate, inginocchiatevi, Iddio è dentro di voi,
adoratelo in silenzio. La gente era entrata, una moltitudine. Eran caduti in
ginocchio, tutti, e per un quarto d'ora, Torquato raccontava così, si
sarebbe udita, in quella grande Chiesa, una mosca volare. Poi il
Santo aveva intonato il "Padre nostro" a voce alta e, seguito dal
popolo, lo aveva recitato lentamente sostando a ogni versetto. E Torquato
raccontava che l'arciprete, udito tutto questo, aveva baciato il suo ospite e
nel baciarlo era guarito della febbre. Ecco portare infermi al Santo, in
canonica, perché li benedica e li sani. Egli non voleva ma quanti
riuscivano a toccargli, magari di furto, la tonaca, guarivano. E tanti
andavano a lui per consiglio. C'era stato un miracolo grande di una mula
imbizzarrita sulla discesa della costa, ch'era per gittare il suo cavaliere
sulle pietre in vista del Santo, il quale saliva dall' Infernillo
portando acqua. Il Santo aveva stesa la mano e la mula si era chetata
sull'atto.
Il racconto del guardaboschi fu riferito da Maria.
"Che tutto sia vero come il principe di sangue reale?" disse Noemi.
"Domani si saprà" rispose Giovanni, alzandosi.
III.
L'oste di Jenne, un brav'uomo in occhiali, nobilmente cortese, che
conosceva il mondo per essere stato in America e tuttavia pareva immune
delle sue corruzioni, parlò di Benedetto ai nuovi arrivati con favore, in
sostanza; però non senza certo riserbo diplomatico. Non lo chiamava il
Santo; lo chiamava fra Benedetto. I Selva seppero da lui che
Benedetto viveva in una capanna sua, lavorandogli per compenso un
campicello. Chi lo volesse vedere doveva aspettare le undici. Adesso stava
falciando l'erba. La sua Vita era questa. Sull'alba andava alla messa
dell'arciprete. Lavorava fino alle undici. Mangiava pane, erbe, frutta, non
beveva che acqua. Nel pomeriggio lavorava per niente le terre delle
vedove e degli orfani. La sera, seduto sulla sua porta, parlava di religione.
Alle dieci e mezzo i Selva e Noemi andarono a veder
Sant' Andrea, la Chiesa di Jenne, accompagnati
dall'ostessa, bella donna poderosa, pulitissima, semplice, ilare
modestamente. Usciti in piazza dal dedaluccio di vicoletti dov'è l'osteria,
vi trovarono gran capannelli di donne, a detta dell'ostessa, forestiere. Ella
le distingueva dai busti, dai guarnelli, dalle calzature. Queste erano di
Trevi, quelle di Filettino, quell'altre di Vallepietra. L'ostessa
entrò in un forno a destra della Chiesa dove parecchie donne di
Jenne si facevan cuocere le stiacciate, ciascuna la propria.
"Forestiere che vogliono parlare al nostro Santo" diss'ella a Maria.
Ella non diceva "Fra Benedetto" come il marito; diceva "il Santo".
"Non a lui, però" dichiarò arrossendo "perché lui si stizzisce." No, non si
stizziva veramente, perché gli era un Santo; ma pregava con dolore di
non venir chiamato così.
Nel gran chiesone rovinoso che "una domenica o l'altra" diceva l'ostessa
"ce schiaccia tutti come topi" non c'erano che i due malati e la loro
compagnia. I due malati erano stati adagiati sul pavimento, proprio nel
mezzo della Chiesa, con due guanciali sotto il capo. I loro compagni
salmeggiavano ginocchioni e non guardarono a chi entrava, continuarono
a salmeggiare.
"Forse li hanno condotti per farli benedire al Santo" disse l'ostessa
sotto voce "ma di questo il Santo ha dolore. Non vuole. Forse
cercheranno di toccargli l'abito di soppiatto e questo pure è difficile, ora."
Quella povera gente cessò di salmeggiare e una donna venne a domandare
all'ostessa se le undici fossero suonate. Le rispose Maria che mancava
un quarto d'ora e le domandò degl'infermi. L'uomo era malato di febbri, da
due anni; la ragazza, sua sorella, di cuore. Venivano dal piano di
Arcinazzo, una strada di parecchie ore, per farsi guarire dal Santo
di Jenne. Una donna di Arcinazzo, malata di cuore, era guarita
giorni prima solo con toccargli l'abito. Maria e Noemi parlarono
agli infermi. La ragazza era fidente. L'uomo, che tremava di febbre, pareva
fosse esser venuto per accontentare i suoi, per provare anche questa.
Aveva molto sofferto del viaggio.
"So' strade per andare all'altro mondo" diss'egli "e la guarigione sarà
quella."
Una donna, forse sua madre, ruppe in pianto e lo supplicò di pregare, di
raccomandarsi a Gesù e Maria. Le due Signore si
allontanarono, richiamate da Giovanni per un tafferuglio che avveniva
sulla piazza fra le donne e quegli studenti che avevano oltrepassato i
Selva sulla costa di Jenne. Gli studenti dovevano avere scherzato
male sulla devozione loro al Santo. Erano inviperite. Quelle di
Jenne sbucarono dal forno. Da un'altra parte sbucarono due pennacchi
di carabinieri. Noemi e Maria entrarono fra le donne a metter pace.
Giovanni arringò gli studenti che ridevano per braveria, con pericolo
di peggio. Un canto suonò dalla Chiesa, prima velato, poi, aprendosi
la porta, forte:
"Sancta Maria, ora pro nobis."
Comparvero i due ammalati. La ragazza camminava sorretta, l'uomo era
portato a braccia, dalla testa e dai piedi, spenzolato come un cadavere. E
anche le portatrici cantavano, solenni in viso:
"Sancta Virgo virginum, ora pro nobis."
Sulla piazza le donne caddero ginocchioni tutte insieme, intorno ai
carabinieri sbalorditi; gli studenti ammutolirono; una cavalcata di signori e
Signore che entrava in piazza dalla mulettiera di Val
d' Aniene, si arrestò. Maria prima, quindi Noemi, tratte a terra
da uno spirito che metteva loro brividi di commozione, s'inginocchiarono.
Giovanni esitò. Quella non era la sua fede. A lui sarebbe parso di
offendere il Creatore e Donatore della ragione facendo viaggiare a
lungo sul mulo degli ammalati perché un simulacro, una reliquia, un
uomo, li guarisse miracolosamente. Però era fede. Era, dentro un rude
involucro d'ignoranze caduche, il senso, negato alle menti superbe,
dell'ascosa Verità che è Vita, radio misterioso dentro un ammasso
di minerale impuro. Era fede, era incolpevole errore, era amore, era
dolore, era un che visibile degli accolti più alti misteri dell'Universo. La
terra stessa e la grande faccia triste della Chiesa e le piccole facce
umili delle casupole intorno alla piazza, parevano averne intelletto e
riverenza. Giovanni si vide in mente la immagine di una morta,
statagli cara, che aveva creduto così, un'aura gelata corse anche a lui nel
sangue, le ginocchia gli si piegarono sotto. La compagnia degli ammalati
passò cantando colla faccia levata:
"Mater Christi" . Le donne inginocchiate risposero colla
faccia a terra:
"Ora pro nobis" .
Poi si alzarono e seguirono il corteo. Intanto tre o quattro donne di
Jenne dissero forte:
"Non vole! Non vole!"
Una spiegò a Maria che il Santo non voleva gli fossero portati
infermi. Non furono ascoltate e seguirono anche loro, curiose di quel che
sarebbe.
Pure i Selva, sulle prime renitenti, si mossero dietro a Noemi,
avida. Alle loro spalle, con quel giusto intervallo che li dimostrasse
spettatori e non seguaci, si avviarono gli studenti. Soli, assai più da
lontano, seguivano i carabinieri, ultima coda del serpe di gente, che guizzò
e scomparve dentro un fesso dell'ammasso di casolari fronteggianti la
Chiesa.
Scomparve, si torse per i vicoletti oscuri dai nomi pomposi, che riescono a
un'altra fronte del villaggio, la più misera, la più deforme. Ivi, sulla ruina
sassosa del monte, male affisse ai ronchioni, alle lastre della roccia,
sdrucciolano in basso fra i ciottoli le stamberghe ammassellate. Le
finestrine nere guardano come occhiaie di scheletri il silenzio della valle
profonda, chiusa. Le porte versano sulla ruina scalini diruti. Le più non ne
hanno che tre o quattro scheggioni. Qualcuna n'è rimasta del tutto vedova.
Quando ci si è a fatica inerpicati dentro si trovan caverne senza luce né
aria.
"So' mali passi, vigoli cattivi" disse alle Signore dalla sua porta una
vecchia, sorridendo.
Una di questa caverne male accessibili era la dimora di Benedetto.
Due rivi della turba, rotta nella discesa, vi si riunirono sotto la porta
aperta. Da un forno lì accanto le donne uscirono a dire che Benedetto
non c'era. La turba ondeggiò intorno ai due infermi, si levarono voci di
lamento. Domande ansiose, diversi mormorii risalirono per i due rivi di
gente su all'altro capo della processione, dove non si era inteso il perché di
quei gemiti e si faceva ressa per scendere, per vedere. Forse qualche
maggior guaio era accaduto agli ammalati, fermi nel sole ardente. Tre
studenti scivolarono giù fra le donne levandone grugniti di male parole.
Ecco, una donna di Jenne ha detto:
"Portateli dentro, poverini."
Sì, sì, dentro, dentro! Nella casa del Santo!
La gente si aspetta già il miracolo dalle pareti fra le quali egli vive, dal
suolo che preme, dagli arredi pregni della sua santità. Sul letto del
Santo! Sul letto del Santo! Si posano delle assicelle sui pietroni
smozzicati che salgono alla porta di Benedetto, i due infermi sono tra
spinti e portati su da un'ondata. Eccoli stesi per traverso sul giaciglio del
Santo. L'ondata empie la caverna. Tutti cadono ginocchioni, a pregare.
È caverna veramente. Un fianco intero n'è parete giallastra di roccia,
tagliata per isghembo. Si cammina sulla terra nuda, mal calcata. Accanto
al giaciglio, alto due palmi, è un focolare. Non vi son finestre, ma un
raggio di sole, entrato per il camino, batte, celeste fiamma, sulla pietra
senza cenere del focolare. Una coperta bruna è stesa sul letto. Una croce è
scolpita rozzamente sulla parete obliqua di roccia, presso all'entrata. In un
angolo si vede, sola ricchezza, una gran secchia piena d'acqua, un catino
verde, una bottiglia, un bicchiere. Alcuni libri sono accatastati sopra una
sdruscita seggiola di paglia. Un'altra seggiola porta un piatto di fave e del
pane. Il luogo ha l'aspetto di una estrema povertà, ordinata e pulita.
L'uomo, febbricitante, si lagna del freddo, dell'umido, del buio. Dice di
star peggio e che lo hanno condotto a morire. Lo scongiurano di chetarsi,
di sperare. Invece la sua giovinetta sorella dal cuore ammalato, un minuto
dopo che l'han posata sul letto, sente sollievo. Lo annuncia subito,
annuncia che guarisce. Intorno a lei si lagrima e si ride insieme, si loda il
Signore. Le si baciano le vesti come s'ella pure fosse divenuta santa, si
grida l'annuncio fuori. Voci di gioia rispondono, altra gente si caccia nella
caverna col viso acceso, con gli occhi avidi. Ma in quel momento
qualcuno, ch'è sceso più abbasso in cerca del Santo, grida da lontano:
il Santo viene! il Santo viene! Allora la caverna rigurgita gente
sulla china, un fracasso di voci e di passi trabocca in giù, in un attimo tutto
è vuoto intorno ai Selva e a tre o quattro studenti, fermi sotto l'entrata
della capanna. Delle donne di Jenne parte è ritornata nel forno al
lavoro, parte sta a guardare sulla porta. Maria scambia qualche parola
con queste. Tutta forestiera quella gente ch'è scesa? Eh sì, non tutta ma
quasi. Gente di Vallepietra, la più parte. Sarebbe meglio che da
Vallepietra ci venisse l'acqua. E che vogliono? Portarsi via il
Santo da Jenne? Sì, dicevano anche questo, parlavano di far gran
cose. E voi? Noi si sa che lui non vole andare. E poi ... Le
compagne gridano qualche cosa dal di dentro, la donna si volta, succede
un litigio, i due Selva e gli studenti entrano a vedere la guarita
miracolosamente. Noemi rimane fuori. È impaziente di vedere
Benedetto, palpita, non ne comprende il perché, si chiama stupida nel
suo cuore; ma non si muove.
Due tonache benedettine venivano per i campicelli del basso, da lontano.
Sopra la seconda lampeggiava tratto tratto un ferro di falce. Udito piombar
dall'alto lo scroscio delle voci e dei passi, Benedetto disse al suo
compagno con un sorriso: "Padre mio."
Don Clemente, appena arrivato a Jenne, aveva raggiunto
Benedetto sul praticello che stava falciando, gli aveva recato il
messaggio doloroso e promesso, dopo un lungo colloquio, di tenere a chi
lo chiamava Santo certo discorso che Benedetto desiderò. Udì
anche lui lo scroscio della folla che scendeva, le grida "il Santo! il
Santo!" e quando Benedetto gli ebbe detto sorridendo: "Padre
mio!" impallidì, fece un gesto di acquiescenza e passò avanti.
Benedetto depose la falce, uscì un poco del sentiero, sedette dietro un
masso e un gran melo fiorito, che lo nascondevano ai sopravvegnenti. Don
Clemente li affrontò solo.
Al primo vederlo coloro si arrestarono. Più voci dissero: "non è lui!" e
altre voci: "lui è dietro!" e altre ancora dalla retroguardia: "passate avanti!"
La colonna si mosse.
Allora don Clemente levò la mano e disse: "Ascoltate."
L'uomo che non sapeva parlare a due persone sconosciute senza coprirsi di
rossore, adesso era pallidissimo. La voce dolcemente velata si udì appena
ma si vide il gesto. Il bellissimo viso sereno, l'alta persona, imposero
riverenza.
"Voi cercate Benedetto" diss'egli. "Voi lo chiamate Santo. Questo
è un grandissimo dolore che voi gli date. Egli ha pur detto a tutti dal primo
giorno del suo arrivo a Jenne di essere un gran peccatore ridotto a
penitenza per la infinita bontà di Dio. Ma egli vuole che io vi confermi
questo. Lo confermo, è la Verità. È stato un gran peccatore. Domani
potrebbe cadere ancora. Se vi credesse un solo momento quando voi lo
chiamate Santo, Iddio si allontanerebbe da lui. Non lo chiamate
più Santo e soprattutto, poi, non gli domandate più miracoli."
"Padre" lo interruppe con voce solenne, facendosi avanti e allargando
le braccia, un vecchio alto, magro, sdentato, dal profilo d'aquila.
"Padre, noi non domandiamo il miracolo, il miracolo è fatto, la donna,
come ha toccato la dimora dell'uomo è guarita, e noi Le diciamo che
l'uomo è Santo e se a Jenne vi è gente che dice altre cose è gente
degna di bruciare nel fondo dell'inferno. Padre, noi Le baciamo le
mani ma diciamo questo."
"C'è un ammalato, ancora! C'è un ammalato, ancora!" gridarono dieci,
venti voci. "Venga il Santo!"
Dal gruppo degli studenti, alla retroguardia, si gridò: "avanti il Santo!
Il Santo parli!"
"O che modo è questo?" fece il vecchio volgendosi addietro con dispetto,
da spodestato oratore del popolo. "Che modo è questo?"
Un subisso di voci sdegnose coperse la sua, gridando gli studenti sempre
più forte:
"Venga il Santo! Parli il Santo! Via il prete! Via!"
Le donne si voltarono minacciose:
"Via voi, via!"
E in alto, dalle stamberghe appollaiate sulla rovina, sbucarono i pennacchi
dei carabinieri. Allora Benedetto si alzò, uscì allo scoperto.
Appena fu veduto, un gran clamore di gioia lo accolse. I Selva si
fecero sulla porta della caverna a guardare in giù, Noemi scese di
corsa. Benedetto si trovò attorniato in un lampo da gente che gli
baciava la tonaca benedicendo. Molti, ginocchioni,
piangevano. Noemi, ch'era discesa sola dietro gli studenti, si slanciò
avanti, vide finalmente l'uomo.
Jeanne le ne aveva mostrate più fotografie, dicendo però che di
nessuna era soddisfatta pienamente. Nella fisonomia simpatica di
Piero Maironi Noemi aveva letto un'ombra interna di
tristezza; quella di Benedetto luceva di straordinaria Vita. Da due
giorni egli si era fatto radere capelli e barba per aver udito una donna
sussurrare: "è bello come Gesù." La espressione dell'anima
dominatrice gli si era accentuata nel naso più prominente per la maggiore
magrezza, nelle grandi occhiaie scure. Gli occhi avevano un fascino
inesprimibile. Spiravano tristezza anche adesso ma una tristezza dolce,
piena di vigore e di pace, di devozione mistica. Attorniato, sotto la bianca
nuvoletta del melo fiorente, dalla turba prostrata, circonfuso di sole e di
mobili ombre, pareva una visione di pittore antico. Noemi impietrò,
stretta alla gola da un groppo di pianto. Presso a lei parecchie donne
piangevano, solo per averlo veduto, penetrate da una suggestione
vicendevole. Una di esse, ammalata, stanca, si era seduta sull'orlo del
sentiero, non poteva vedere il Santo, piangeva di commozione senza
saperne il perché. Sopraggiunsero dei ritardatarii, un vecchio e tre donne
di Vallepietra. Subito le tre donne, scambiando don Clemente per
Benedetto, si misero a singhiozzare e a gridare: "com'è bello, com'è
bello!"
Intanto, sotto la bianca nuvoletta del melo fiorito, Benedetto riuscì con
parole di dolore, di supplica, di rampogna, a respingere l'assalto della turba
adoratrice, a farla rialzare in piedi. Un grido partì dal gruppo degli
studenti: "parli!" In quello stesso momento, lassù in alto, le campane di
Jenne annunciarono solenni il mezzogiorno al villaggio, alle
solitudine, al monte Leo, al monte Sant' Antonio, al monte
Altuino, alle nubi veleggianti verso ponente. Benedetto si pose
l'indice alla bocca, le campane parlarono sole. Guardò don Clemente
come per un tacito invito. Don Clemente si scoperse e cominciò a dire
l' Angelus Domini . Benedetto, in piedi, a mani giunte,
lo disse con lui e fino a che le campane suonarono tenne gli occhi fissi sul
giovane che gli aveva gridato di parlare: gli occhi pieni di tristezza, di
dolcezza mistica. Quello sguardo ineffabile, il suono delle campane
solenni, il tremar dell'erba, l'ondular lieve dei rami fioriti al vento, il
rapimento di tante facce lagrimose volte a una sola si componevano
insieme per Noemi in una parola unica che la esaltava senza rivelarsi,
come tormenta l'anima nel desiderio di sé la parola occulta sotto una
tragica processione di accordi musicali. Le campane tacquero e
Benedetto disse dolcemente a chi gli stava di fronte:
"Chi siete voi e cosa è accaduto che vi ha fatto venire a me come se io
fossi quello che non sono?"
Gli fu risposto da più voci a un tempo, gli fu detto del miracolo e com'egli
fosse desiderato nel villaggio degli uni e nel villaggio degli altri.
"Voi esaltate me" diss'egli "perché siete ciechi. Se questa giovine è guarita
non io l'ho guarita ma la sua fede. Questa forza della fede che l'ha fatta
alzarsi e camminare è nel mondo di Dio, dappertutto e sempre, come
la forza dello spavento che fa tremare e cadere. È una forza nell'anima
come le forze che sono nell'acqua e nel fuoco. Dunque se la giovine è
guarita è perché Dio ha disposto nel suo mondo questa gran forza;
datene lode a Dio e non a me. Ma poi udite. Voi offendete Dio se
la Sua potenza e bontà vi paiono più grandi nei miracoli. Esse sono
dappertutto e sempre infinite. È difficile di capire come la fede risani, ma
è impossibile di capire come questi fiori vivano. Il Signore non
sarebbe mica meno potente né meno buono se questa giovane non fosse
guarita. Pregate di guarire sì, ma pregate più ancora di comprendere questa
grande cosa che vi ho detto ora, pregate di poter adorare la volontà del
Signore quando vi dà la morte come quando vi dà la Vita. Vi sono
nel mondo degli uomini che credono di non credere in Dio e quando le
malattie e la morte entrano nelle loro case, dicono: è la legge, è la natura, è
l'ordine dell' Universo, noi pieghiamo il capo, noi accettiamo senza
mormorare, noi proseguiamo il cammino del nostro dovere. Guardate che
questi uomini non passino avanti a voi nel regno dei cieli. E pensate anche
quali miracoli domandate. Voi venite per esser guariti dalle malattie del
corpo, voi volete che io venga nei vostri villaggi per questo. Abbiate fede
e guarirete senza di me. Ricordatevi però che potreste usare anche meglio
la vostra fede secondo la volontà di Dio. Siete voi tutti e interamente
sani dell'anima vostra? No, voi non lo siete; e che vi servirà di aver l'otre
sana se il vino è guasto? Voi amate voi stessi e le vostre famiglie più della
Verità, più della giustizia, più della legge Divina. Voi avete
presente sempre quello ch'è dovuto a voi e ai vostri e ben di rado quello
ch'è dovuto agli altri. Voi credete di salvarvi colla moltitudine delle
preghiere. E nemmeno sapete pregare. Voi pregate allo stesso modo i
Santi che sono i servi e Iddio ch'è il Padrone; quando non fate
peggio! Voi non pensate che al Padrone non importano le molte
parole, ch'Egli preferisce essere servito fedelmente in silenzio col pensiero
sempre alla Sua volontà. E non intendete i vostri mali, siete come il
moribondo che dice: "sto bene." Forse alcuno di voi pensa in questo
momento: se non intendo il male che faccio, il Signore non mi
condannerà. Ma il Signore non giudica come i giudici del mondo.
L'uomo che ha preso un veleno senza saperlo deve cadere come colui che
lo ha voluto prendere. L'uomo che non ha la veste bianca non può entrare
nella cena del Signore anche se non sapeva che la veste non era
necessaria. Colui che ama se stesso sopra ogni cosa, sappia o non sappia il
suo peccato, non passa per la porta del regno dei cieli, allo stesso modo
che il dito della sposa, se è ripiegato sopra sé stesso, non entra nell'anello
offerto dallo sposo. Conoscete le infermità dell'anima vostra e pregate con
fede di esserne sanati. Vi dico in nome di Cristo che lo sarete. La
guarigione del vostro corpo è buona per voi, per la famiglia vostra, per gli
animali e le piante che avete in cura; ma la guarigione dell'anima vostra,
credete questa cosa benché non la comprendete! la guarigione dell'anima
vostra è buona per tutte le povere anime dei viventi sbattuti fra il bene e il
male, è buona per tutte le povere anime dei morti che si purificano con
fatica e dolore, come la vittoria di un soldato è buona per tutti della sua
nazione. È anche buona per gli Angeli, che sentono tanta gioia, ha
detto Gesù, per la guarigione di un'anima, e la gioia fa crescere la loro
potenza, e la loro potenza, credete voi che sia per le tenebre o per la luce,
per la morte o per la Vita? Domandate con fede, prima la guarigione
dell'anima e poi la guarigione del corpo!"
Dal ripido pendìo gli si porgeva una fitta di visi; avidi i più alti cui
soltanto giungeva il suono della voce, e rigati di pianto; parte attoniti i più
vicini, parte entusiasti, parte dubbiosi. Anche a Noemi colavano
lagrime lungo le guancie smorte. Gli studenti avevano smesso l'aria
beffarda. Quando Benedetto tacque, uno di loro avanzò risoluto e
serio, per parlare. In quel mentre il vecchio esclamò:
"E voi ci guarite l'anima!"
Altre voci ripeterono ansiose:
"E voi ci guarite l'anima! E voi ci guarite l'anima!"
In un baleno, tutta l'avanguardia, presa dal contagio, traboccò in ginocchio
tendendo le braccia supplici:
"E voi ci guarite l'anima! E voi ci guarite l'anima!"
Benedetto si gettò avanti con le mani nei capelli, esclamando:
"Che fate ancora? Che fate ancora?"
Un grido suonò dall'alto: "la miracolata!" La giovinetta che, posata sul
giaciglio di Benedetto, si era sentita risanare, scendeva al braccio di
una sorella maggiore, cercando Benedetto. Questi non badò al grido,
al balenar della gente lassù, che si divideva per lasciar passare le due
donne. Non valendo a far rialzare la gente, cadde ginocchioni egli pure.
Allora coloro che gli stavano intorno si rialzarono, e giungendo ad essi il
fremito commosso e le voci: "La miracolata! La miracolata!" fecero
rialzare lui che pareva non avere udito. "La miracolata!" gli diceva
ciascuno, "la miracolata!" cercando sul suo viso la compiacenza del
miracolo con occhi che gridavano: "viene per voi, l'avete guarita voi!"
come s'egli poco prima non avesse detto nulla.
La giovinetta scendeva, smorta e giallognola come la petrosa via battuta
dal sole, triste nel visetto gentile inclinato al braccio della sorella. E la
sorella pure era triste. La turba si divise davanti a loro e Benedetto si
fece da parte, riparò dietro don Clemente con un involontario moto
che parve deliberato. Tutti trepidavano e sorridevano come nell'attesa di
un altro miracolo. Le due donne non s'ingannarono, passarono davanti a
don Clemente senza neppur guardarlo, si volsero a Benedetto e la
maggiore gli disse, sicura:
"Uomo Santo di Dio, tu hai guarito questa, guarisci l'altro!"
Benedetto rispose quasi sotto voce, tutto fremente:
"Io non sono un uomo Santo, io non ho guarito questa, per quest'altro
che dite io potrò solamente pregare."
Udito che l'altro era loro fratello, che stava nella sua capanna, sul suo letto
e che soffriva molto, disse a don Clemente:
"Andiamo ad assisterlo."
E si mosse con il suo Maestro. Dietro a loro si ricompose
rumoreggiando il fiotto diviso della gente. Benedetto si voltò a
proibire che lo seguissero, a comandare che le donne si prendessero invece
cura di quella giovinetta, la quale non doveva risalir l'erta a piedi sotto la
sferza del sole ardente. Comandò che la portassero all'osteria, la facessero
porre a letto, la ristorassero con cibo e vino. Quelli che lo seguivano si
fermarono, gli altri fecero ala lasciarlo passare. Lo studente che prima
aveva chiesto di parlare, lo accostò rispettosamente, gli domandò se più
tardi egli e alcuni amici suoi avrebbero potuto trattenersi un poco, soli, con
esso.
"Oh sì!" rispose Benedetto con un virile, caldo impeto di
assenso. Noemi ch'era lì presso, si fece coraggio.
"Devo chiederle cinque minuti anch'io" diss'ella in francese, arrossendo; e
subito le balenò di aver dato così a capire che lo conosceva persona colta,
si fece tutta una vampa e ripeté la sua preghiera in italiano.
Don Clemente premette un poco, quasi senza volerlo, il braccio a
Benedetto, che rispose garbato ma un po' asciutto:
"Vuol far del bene? Si occupi di quella povera ragazza."
E passò oltre.
Entrò nella sua stamberga, solo con Don Clemente. Nessuno lo aveva
seguito. Una vecchia, la madre dell'ammalato, vedutolo entrare, gli si gettò
piangendo ai piedi con le parole di sua figlia:
"Siete voi l'uomo Santo? Siete voi? Una me ne avete guarita,
guaritemi anche l'altro!"
Sulle prime Benedetto, entrando dal sole in quel buio, non discerneva
niente. Poi vide steso sul letto l'uomo che respirava male, gemeva,
piangeva, imprecava ai Santi, alle femmine, al paese di Jenne, al
suo maledetto destino. Inginocchiata accanto a lui, Maria Selva gli
tergeva con un fazzoletto il sudore della fronte. Nessun altro era nella
caverna. Presso alla porta luminosa la grande croce scolpita per isghembo
sulla parete giallastra di roccia diceva in quel momento una oscura parola
solenne.
"Sperate in Dio" rispose Benedetto alla vecchia, dolcemente. E si
accostò al letto, si piegò sull'infermo, gli prese il polso. La vecchia cessò
di singhiozzare, l'infermo d'imprecare e di gemere. Si udì il ronzio delle
mosche nel focolare chiaro.
"Avete chiamato il medico?" mormorò Benedetto.
La vecchia riprese a singhiozzare:
"Guaritelo voi, guaritelo voi, in nome di Gesù e Maria!"
L'infermo riprese a gemere. Maria Selva disse sotto voce a
Benedetto:
"Il medico è a Subiaco. Il signor Selva, che Lei forse conosce, è
andato alla farmacia. Io sono sua moglie."
In quel punto rientrò Giovanni, ansante, afflitto. La farmacia era
chiusa, il farmacista assente. L'arciprete gli aveva dato del marsala. Dei
signori venuti da Roma con gran provvigioni gli avevano dato del
cognac e del caffè. Benedetto chiamo a sé con un cenno don
Clemente, gli disse all'orecchio che facesse venire l'arciprete;
quell'uomo stava morendo. Avrebbe potuto andar egli a chiamarlo ma gli
pareva duro per la povera madre di allontanarsi. Don Clemente uscì
senza far motto. A pochi passi dalla casupola, la compagnia elegante
venuta da Roma per curiosità del Santo di Jenne, tre
Signore e quattro signori, guidata da quel Signore di Jenne
che s'era incontrato con i Selva sulla costa, si stava consultando.
Veduto il benedettino, si parlarono sottovoce rapidamente e uno di loro,
un giovinotto elegantissimo, incastratasi nell'occhio la caramella, avanzò
verso don Clemente che era guardato dalle Signore con
ammirazione, con rammarico che il Santo, come avevano udito dalla
loro guida, non fosse lui.
Anche costoro desideravano un colloquio con Benedetto. Lo
desideravano specialmente le Signore. Il giovinotto soggiunse con un
sorriso beffardo che quanto a sé non se ne credeva degno. Don
Clemente gli rispose breve breve che per ora era impossibile di parlare
a Benedetto; e tirò via. Colui riferì alle Signore che il Santo
stava nel tabernacolo chiuso a chiave.
Intanto Benedetto, supplicandolo sempre la madre desolata che non
usasse medicine, che facesse il miracolo, confortava il giacente con
qualche sorso dei cordiali portati da Giovanni Selva e più con
parole, con lievi carezze, con la promessa di altre parole di salute che altri
gli avrebbe portato. E la voce pia, tenera, grave, operò un miracolo di
pace. L'infermo respirava male assai, gemeva ancora, ma non imprecava
più. La madre, folle di speranza, mormorava a mani giunte, lagrimando:
"Il miracolo, il miracolo, il miracolo."
"Caro" diceva Benedetto "sei in mano di Dio e la senti terribile.
Abbandònati, la sentirai soave. Ti poserà da capo nel mare di questa
Vita, ti poserà nel cielo, ti poserà dove vorrà lei, abbandònati, non ci
pensare. Quand'eri bambino la tua mamma ti portava, tu non domandavi
né il come né il quando né il perché, tu eri nelle sue braccia, tu eri nel suo
amore, tu non domandavi altro. Così anche ora, caro. Io che ti parlo ho
fatto tanto male nella mia Vita, forse un poco ne hai fatto anche tu,
forse te ne ricordi. Piangi piangi così abbandonato sul seno del Padre
che ti chiama, che ti vuole perdonare, che vuol dimenticare tutto. Ora
verrà il sacerdote e tu glielo dirai, il male che forse hai fatto, così come
ricordi, senza angoscia. E poi, sai chi verrà da te nel mistero? Sai che
amore, caro, sai che pietà, sai che gioia, sai che Vita?"
Lottando con le ombre della morte, figgendo in Benedetto gli occhi
vitrei, lucenti di un desiderio intenso e del terrore di non poterlo
esprimere, il povero giovine che aveva inteso male il discorso di
Benedetto, credendo di doversi confessare a lui, cominciò a dire i suoi
peccati. La madre che durante il discorso di Benedetto, buttatasi
ginocchioni alla parete di roccia vi teneva le labbra sulla croce aspettando
il compimento del miracolo, scattò, al suono strano di quella voce, in
piedi, balzò al letto, comprese, gittò un grido disperato con le mani al
cielo, mentre Benedetto, atterrito, esclamava: "no, caro, non a me, non
a me!" Ma l'infermo non intese, gli cinse con un braccio il collo, lo
raccolse a sé, continuò la sua confessione ambasciata, ripetendo
Benedetto: "Dio mio! Dio mio!" nello sforzo di non udire, né
avendo cuore di strapparsi dal morente. Non udì infatti né udire era facile,
tanto rade, rotte e torbide venivano le parole. E non si vedeva arrivare
l'arciprete, e don Clemente non ritornava! Passi e voci sommesse si
udirono bene al di fuori, qualche testa curiosa comparve all'uscio, ma
nessuno entrò. Le parole del morente si perdettero in un garbuglio di suoni
fiochi, egli tacque.
"C'è gente fuori?" chiese Benedetto. "Qualcuno vada dall'arciprete,
dica di far presto."
Giovanni e Maria stavano attorno alla madre che, fuori di sé,
trabalzava dal dolore alla collera. Dopo aver creduto al miracolo, non
voleva credere che il suo figliuolo si fosse ridotto naturalmente a quegli
estremi, ora singhiozzava per lui, ora imprecava alle medicine che gli
aveva date Benedetto, per quanto i Selva le dicessero che non
erano state medicine. Maria se l'era abbracciata e per confortarla e per
trattenerla. Accennò a Giovanni che andasse lui dall'arciprete e
Giovanni corse via. Gli occhi lucenti del moribondo supplicarono.
Benedetto gli disse:
"Figlio mio, desideri Cristo?"
Il poveretto accennò di sì col capo e con un gemito inesprimibile.
Benedetto lo baciò, lo ribaciò teneramente.
"Cristo mi dice che i tuoi peccati ti sono rimessi e che tu parta in
pace."
Gli occhi lucenti sfavillarono di gioia.
Benedetto chiamò la madre che dalle aperte braccia di Maria si
precipitò sul figlio suo. Ecco entrare don Clemente trafelato, con
Giovanni e l'arciprete.
Don Clemente aveva trovato in canonica un ecclesiastico non
conosciuto da lui, alle prese coll'arciprete. A sentir costui, una turba
fanatica voleva portare in Sant' Andrea la pretesa miracolata per un
ringraziamento a Dio. Era dovere dell'arciprete impedire un tale
scandalo. La guarigione della ragazza se non era impostura non era
nemmanco realtà. Il preteso taumaturgo poi aveva predicato un sacco di
eresie sui miracoli e sulla salute eterna, aveva parlato della fede come di
una virtù naturale, aveva criticato Gesù che guariva gl'infermi. Adesso
stava fabbricando un altro miracolo con un altro disgraziato. Bisognava
finirla. Finirla? pensava il povero arciprete che sentiva già odore di
Sant' Uffizio. Era presto detto "finirla". Ma come, finirla? La visita
di don Clemente, che sopravvenne a questo punto del discorso, lo fece
respirare. Adesso, pensò, mi aiuterà lui. Invece le cose volsero al peggio.
Udito il triste messaggio di don Clemente, quel prete esclamò:
"Vede? Ecco i miracoli come finiscono! Ma Lei non deve entrare col
Santo Viatico nella casa di quell'eretico s'egli prima non esce e
non esce per non tornarci più!"
Don Clemente avvampò nel viso.
"Non è un eretico!" diss'egli. "È un uomo di Dio!"
"Lo dice Lei!" esclamò il prete.
"E Lei" proseguì volto all'arciprete "Lei ci pensi! Faccia come vuole, del
resto; io non c'entro. A rivederla."
Fatto un inchino a don Clemente, senza parole, scivolò fuori della
camera.
"E adesso? E adesso?" gemette il povero arciprete recandosi le mani alle
tempie. "Quello è un uomo terribile ma io non voglio mancare verso
Domeneddio. Dimmi tu, dimmi tu!"
Aveva un Santo timore di Dio, sì, l'arciprete, ma non era neppure
senza un timore fra Santo e umano di don Clemente, della
coscienza severa che lo avrebbe giudicato. A don Clemente
lampeggiò, nella stretta del momento, il partito da prendere.
"Disponi per il Viatico" diss'egli "e vieni subito con me a confessare
quel povero giovane. Benedetto farà vedere se è un eretico o se è un
uomo di Dio."
La fantesca venne ad avvertire che un Signore pregava il signor
arciprete di far presto, presto, perché quell'ammalato moriva.
Don Clemente, trafelato, entrò nella stamberga con Giovanni e
l'arciprete. Chiamò Benedetto a sé, presso l'uscio e gli parlò sotto
voce. L'ammalato rantolava. Benedetto ascoltò, a capo chino, le parole
dolorose che gli chiedevano un atto di umiliazione santa, s'inginocchiò
senza rispondere davanti alla croce scolpita da lui nella roccia, la baciò
avidamente nell'incontro delle braccia tragiche e riaspirare in sé dal solco
della pietra il segno del sacrificio, il suo amore, il suo bene, la sua forza, la
sua Vita; e, rialzatosi, uscì di là per sempre.
Il sole scompariva in un turbinoso fumo di nuvoli montanti a settentrione,
dietro il villaggio. I luoghi che avevano poco prima brulicato di gente
erano un livido deserto. Dalle svolte dei viottoli ghiaiosi, dietro gli usci
socchiusi, dai canti dei casolari, donne spiavano. All'apparire di
Benedetto si ritrassero tutte. Egli sentì che Jenne sapeva l'agonia
dell'uomo venuto a lui per salute, che l'ora della potestà era venuta per i
suoi avversari. Don Clemente, il Maestro, l'amico, gli aveva prima
chiesto di deporre il suo abito e ora di uscire della sua casa, di uscire da
Jenne. Con dolore e amore, ma glielo aveva chiesto. Fra l'amarezza e
il digiuno, poiché non aveva potuto prendere la sua refezione meridiana di
pane e fave, si sentì quasi venir meno, gli si oscurò la vista. Sedette sulla
soglia ruinosa di una porticina chiusa, all'entrata della viuzza della
Corte. Un lungo rombo di tuono suonò sul suo capo.
Poco a poco, nel riposo, si riebbe. Pensò all'uomo che moriva nel desiderio
di Cristo e un'onda di dolcezza gli tornò nell'anima. Sentì rimorso di
aver dimenticato per alcuni istanti quel gran dono del Signore, di
avere disamata la croce appena bevutone Vita e gioia. Si nascose il
viso fra le mani e pianse silenziosamente. Un rumor lieve, in alto,
d'imposte che si aprono; qualche cosa di molle gli batte sul capo. Si toglie
trasalendo le mani dagli occhi; ai suoi piedi è una rosellina selvatica.
Rabbrividì. Da parecchi giorni, o la sera rientrando nella sua spelonca o
uscendone la mattina, ogni giorno aveva trovato fiori sulla soglia. Non li
aveva tolti mai. Li poneva da banda, sopra un sasso, perché non fossero
calpestati; non altro. Neppure aveva mai cercato di sapere qual mano li
recasse. Certo la rosellina selvatica era caduta dalla stessa mano. Non alzò
il capo e comprese che pur non raccogliendo la rosellina né accennando a
raccoglierla, gli bisognava partire. Cercò levarsi, le gambe non lo
reggevano ancora bene, tardò un momento a rimettersi in cammino. Il
tuono rumoreggiava da capo, più forte, continuo. Una porticina si aperse,
se ne porse una giovine vestita di nero, bionda, bianca come la cera, piena
gli occhi azzurrini di sbigottimento e di lagrime. Benedetto non poté a
meno di volgere il capo a lei. Riconobbe la maestra del Comune, che
aveva veduto un momento in casa dell'arciprete, e già proseguiva senza
salutarla quando ella gli gettò un gemito: "mi ascolti!" e, fatto un passo
indietro nell'andito, cadde sulle ginocchia, gli stese le mani imploranti,
ripiegando il capo sul petto.
Benedetto si fermò. Esitò un momento e poi disse, con gravità severa:
"Che vuole da me?"
Si era fatto quasi buio. I lampi abbagliavano, il fragore del tuono empiva
la misera viuzza, impediva ai due di udirsi. Benedetto si accostò
all'uscio.
"Mi hanno detto" rispose la giovine senz'alzare il viso e sostando agli
scoppi del tuono "che Lei forse dovrà partire da Jenne. Una Sua
parola mi ha dato la Vita, la Sua partenza mi farà morire ancora. Mi
ripeta quella parola, la dica per me, solo per me!"
"Quale parola?"
"Lei stava col signor arciprete, io ero nella stanza vicina colla fantesca e
l'uscio aperto. Lei diceva che un uomo può negare Dio senza essere
veramente ateo e senza meritare la morte eterna, quando nega quel
Dio che gli è proposto in una forma ripugnante al suo intelletto ma poi
ama la Verità, ama il bene, ama gli uomini, pratica questi amori."
Benedetto tacque. Lo aveva detto, sì, ma parlando a un prete e non
sapendo di venire udito da persone forse non atte a comprenderlo. Ella
sospettò la cagione di quel silenzio.
"Non si tratta di me" disse. "Io credo, sono cattolica. È per mio Padre
che ha vissuto così ed è morto così e ... se sapesse! ...
hanno persuaso anche mia madre ch'egli non ha potuto salvarsi!"
Mentr'ella parlava, rade gocce, grosse, cominciarono a battere, fra i lampi
e i tuoni, sulla via, macchiarono la polvere di grandi macchie, scrosciarono
col vento, sferzando i muri; ma né Benedetto riparò dentro l'uscio né
lei gliene fece invito, e questa fu da parte di lei la confessione sola del
sentimento profondo che si copriva di misticismo e di pietà filiale.
"Mi dica, mi dica" implorò, alzando finalmente il viso "che mio Padre
è salvo, che lo ritroverò in Paradiso!" Benedetto rispose:
"Preghi."
"Dio! Solo questo?"
"Si prega forse per il perdono di chi non può essere perdonato? Preghi."
"Oh, grazie! Lei è sofferente?"
Queste ultime parole furono sussurrate così piano che Benedetto non
poté udirle. Fece un gesto di addio e si allontanò fra le ondate di pioggia
che flagellavano e urtavano via per il fango la morta rosellina selvatica.
Forse da una finestra, forse dalla porta dell'osteria, Noemi, che vi stava
con la ragazza di Arcinazzo, lo vide passare. Si fece dare un ombrello
dall'oste e lo seguì sfidando la violenza del vento e della pioggia.
Lo seguì, soffrendo di vederlo a capo scoperto e senza ombrello, pensando
che se non fosse stato un Santo, lo si sarebbe detto un pazzo. Uscita
sulla piazza della Chiesa, vide socchiudersi un uscio a mano diritta, un
prete lungo e magro guardare dall'interno. Credette che il prete avrebbe
invitato Benedetto a entrare, ma invece il prete, quando Benedetto
gli fu vicino, chiuse l'uscio rumorosamente, con grande sdegno di lei.
Benedetto entrò in Sant' Andrea ed ella pure vi entrò. Quegli
andò a inginocchiarsi davanti all'altar maggiore, ella si tenne presso la
porta. Il sagrestano, che sonnecchiava seduto sui gradini di un altare, uditi
i loro passi, si alzò, mosse verso Benedetto. Ma egli era del partito dei
preti romani e, riconosciuto l'eretico, ritornò indietro, domandò alla
signorina forestiera se potesse dirgli niente di quel giovine ammalato di
Arcinazzo ch'era stato portato in Chiesa la mattina, quando il
sagrestano ci aveva veduta anche lei. E soggiunse che ne domandava
perché aveva l'ordine di aspettare l'arciprete che sarebbe venuto per
portargli il Viatico. Noemi sapeva che l'uomo di Arcinazzo era
moribondo ma non più di così.
"Ho capito" disse il sagrestano, forte, con intenzione. "Non vorrà saperne
di Cristo. Questi sono i belli miracoli! Sia Benedetto Iddio per
i tuoni e i fulmini che altrimenti ci portavan qui la ragazza!"
E ritornò a sedere, a sonnecchiare sul suo gradino.
Noemi non sapeva levare gli occhi da Benedetto. Non era un
proprio e vero fascino né il sentimento appassionato della giovine maestra.
Lo vide vacillare, poggiar le mani ai gradini e poi voltarsi, stentatamente,
a sedere, né si domandò se soffrisse. Guardava lui ma più assorta in sé che
in lui, assorta in un mutamento progressivo del proprio interno che la
veniva facendo diversa, non riconoscibile a se stessa, in un senso ancora
confuso e cieco di una Verità immensa che le si venisse comunicando
per vie misteriose, che le torcesse con sofferenza intime fibre del cuore. I
ragionamenti religiosi di suo cognato potevano averle turbata la mente; il
cuore non glielo avevano toccato mai. E ora perché? Come? Cos'aveva
detto, infine, quell'uomo macilento? Oh ma lo sguardo, ma la voce, ma
... Che altro? Qualche altra cosa, impossibile a comprendere. Un
presentimento, forse. Quale? Ma! Chi sa? Un presentimento di qualche
futuro legame fra quell'uomo e lei. Lo aveva seguito, era entrata in
Chiesa per non perdere l'occasione di parlargli e adesso ne aveva quasi
paura. Parlargli di Jeanne, poi anche. Jeanne, lo aveva ella
compreso? Come mai aveva potuto Jeanne, amandolo, resistere alla
corrente di pensiero superiore ch'era in lui, che forse a quel tempo sarà
stata latente ma che una Jeanne doveva pur sentire? Cos'aveva ella
amato? L'uomo inferiore? Se gli parlasse, non gli parlerebbe solamente di
Jeanne, gli parlerebbe di religione, pure. Gli domanderebbe quale
fosse la sua, proprio. E poi, s'egli le rispondesse una cosa sciocca, una
cosa volgare? Per questo aveva quasi paura di parlargli.
Una folata di pioggia batté dalle invetriate rotte di una finestra sul
pavimento. Noemi pensò che mai più non avrebbe dimenticato
quell'ora, quella grande Chiesa vuota, quell'oscuro cielo, quel colpo di
pioggia entrato come un colpo di pianto, il naufrago del mondo assorto sui
gradini dell'altare maggiore, Dio sa in quali sublimi pensieri, e
neppure il sagrestano suo nemico, postosi a dormire sui gradini di un altro
altare con la famigliarità noncurante di un collega di Domeneddio.
Passò molto tempo, forse un'ora, forse più. La Chiesa si venne
rischiarando, parve che smettesse di piovere. Suonarono le quattro. Entrò
in Chiesa don Clemente e dietro a lui entrarono Maria e
Giovanni, contenti di trovar Noemi, della quale non sapevano che
fosse avvenuto. Si mosse anche il sagrestano che conosceva il Padre.
"Dunque? Il Viatico?"
Il Viatico? L'uomo, pur troppo, era morto. Al Viatico si era
pensato troppo tardi. Il Padre domandò di Benedetto e Noemi
glielo indicò. Parlarono del colloquio che Noemi desiderava. Don
Clemente arrossì, esitò, ma poi non seppe come rifiutarsi a chiederlo e
raggiunse Benedetto.
Mentre i due discorrevano insieme, Giovanni e Maria
ragguagliarono Noemi di quel ch'era accaduto. Entrato l'arciprete,
l'infermo non aveva parlato più. Non era stato possibile di confessarlo.
Intanto era scoppiato il temporale con tale veemenza, tali torrenti
strepitavano intorno alla capanna che l'arciprete non aveva potuto uscirne
per andar a prendere l'olio Santo. Si credeva che l'ammalato durasse
qualche ora; invece, alle tre, era morto. Don Clemente e l'arciprete
erano usciti appena lo avevano permesso i torrenti. Giovanni e
Maria erano rimasti colla madre, che pareva impazzita, fino all'arrivo
della sorella maggiore del morto. Allora erano partiti, anche per venire in
cerca di Noemi. Non l'avevano trovata all'osteria, si erano diretti alla
Chiesa. Avevano incontrato sulla piazza il Padre che usciva da
una casa civile. Non sapevano che ci fosse andato a fare. Maria parlò
con entusiasmo di Benedetto, de' suoi conforti spirituali al moribondo.
Era sdegnatissima, come suo marito, della guerra fattagli da gente che
adesso aveva buon giuoco a voltargli contro tutto il paese. Biasimavano la
debolezza dell'arciprete e non erano contenti neppure di don
Clemente. Don Clemente non avrebbe dovuto prestarsi alla
cacciata del suo discepolo! Perché gli aveva detto lui di andarsene, quando
era venuto l'arciprete. Il suo primo torto era stato di portare il messaggio
dell' Abate. Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si
voleva spogliare Benedetto della sua tonaca, scattò: Benedetto
non doveva obbedire!
Intanto Benedetto e il Padre mossero verso la porta. Benedetto
si tenne in disparte; il Padre venne a dire ai Selva e a Noemi
che, parecchia gente volendo parlare a Benedetto, egli aveva
combinato un ritrovo comune presso un Signore del paese. Doveva
ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a riprenderli in
Chiesa fra pochi minuti.
Il Signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa
di Jenne dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La
duchessa era poi arrivata con altre due dame e con alcuni cavalieri fra i
quali un giornalista, il giovinotto elegantissimo dalla caramella. Il
Signore di Jenne non capiva più nella pelle, si sentiva per quel
giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di magnificenza. Perciò don
Clemente, consigliato dall'arciprete di rivolgersi a lui, ne aveva
facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio abito
nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio.
Quando, nella camera dov'erano preparate le vesti laicali, il discepolo,
svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che
stava alla finestra, non poté trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo
Benedetto lo chiamò dolcemente.
- Padre mio diss'egli. "Mi guardi."
Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando
pace. Il Padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto,
ritratta con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che
parve allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze
umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere,
cenere e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola.
"L'ho fatto per te" mormorò alfine don Clemente. "Ti ho portato io il
messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in
questo tuo abito vile più che nella tonaca."
Benedetto lo interruppe.
"No no" diss'egli "non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio,
invece, che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che
ho avuto a Santa Scolastica quando Lei mi ha offerto l'abito
benedettino e io ho pensato che nella mia visione mi ero visto morire con
quell'abito. Il mio cuore si alzò allora come dicendosi: "sono veramente
prediletto da Dio!" E adesso ...
"Oh ma ...!" esclamò il Padre e subito tacque, tutto una
fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato:
"non è detto che tu non lo riprenda, l'abito che hai spogliato! non è detto
che la visione non si avveri!" e che poi non avesse voluto dire il suo
pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo
abbracciò. Il Padre si affrettò a parlare d'altro, scusò l'arciprete ch'era
dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare
Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio,
non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con
l' Autorità.
"Io gli perdono" disse Benedetto "e prego Dio che gli perdoni, ma
questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto
che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con
Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza,
dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s'intende che
operando contro il bene o astenendosi da operare contro il male per
obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al
mondo il carattere cristiano. Non s'intende che il debito verso Dio e il
debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando
mai contro il bene, non astenendosi mai da operare contro il male, ma
senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta
obbedienza in tutto che non è contro il bene o a favore del male,
deponendo ai loro piedi la propria Vita stessa, solo non la coscienza;
la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della
sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro
grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò
cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà
imputridito!"
A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel
pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la
fronte un chiarore augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle
spalle di don Clemente. "Maestro mio" diss'egli raddolcendosi nel viso "io lascio il tetto, il
pane e l'abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità fino a che avrò Vita. Me ne vado ma non per tacere. Si
ricorda di avermi fatto leggere la lettera di S. Pier Damiano
a quel laico che predicava? E quello là predicava in Chiesa! Io non
predicherò in Chiesa ma se Cristo vuole che io parli nei tugurii,
nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei palazzi parlerò; se
vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se vuole che io parli
sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all'uomo che operava nel nome di
Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo
fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?"
"Per l'uomo del Vangelo sta bene, caro" rispose don Clemente
"ma ora sulla volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada."
Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole
imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra.
"Del resto, Padre mio" riprese Benedetto "lo creda, io non sono
bandito per avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch'Ella deve
sapere. La prima è questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da
qualcuno che mi parlò quella volta e poi non vidi più, di abbracciare la
carriera ecclesiastica per diventare missionario. Risposi che non mi
sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei primi giorni dopo la mia
venuta a Jenne, discorrendo di religione con l'arciprete, gli parlai della
vitalità eterna della dottrina cattolica, del potere che ha l'anima della
dottrina cattolica di trasformare continuamente il proprio corpo,
accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, Padre mio, da
chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L'arciprete deve
avere riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi
domandò se a Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i
suoi libri. Mi disse ch'egli non li aveva letti ma sapeva ch'erano da fuggire.
Padre mio, Ella comprende. È per causa del signor Selva e
dell'amicizia di Lei col signor Selva che io parto da Jenne così.
Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma
dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni
nell'anima Sua!"
Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore,
Benedetto si gettò un'altra volta nelle braccia del Maestro che,
straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se
domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente poté
dirgli, ansando:
"Anch'io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall'anima
tua."
Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani
guardinghe, riverenti, l'abito deposto dal discepolo. Raccolto che l'ebbe,
disse a Benedetto che non poteva offrirgli l'ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva,
ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno,
nell'interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto
la protezione del signor Giovanni. Benedetto sorrise.
"Oh, questo no!" diss'egli. "Temeremo noi le tenebre più che non
ameremo la luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia
conoscere, se possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro.
E adesso vorrebbe farmi portare un po' di cibo e di vino? Poi mi mandi chi
mi vuole parlare."
Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli
domandasse del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe
mandata pure quella signorina che stava con i Selva. Benedetto lo
interrogò cogli occhi, ricordando che quando la signorina, poi riveduta in
Chiesa, gli aveva chiesto un colloquio, don Clemente gli aveva
stretto il braccio come per ammonirlo tacitamente di stare in guardia. Don
Clemente, arrossendo molto, si spiegò. Aveva veduta la signorina a
Santa Scolastica insieme a un'altra persona. Quel moto era stato
involontario. L'altra persona era lontana.
"Non ci rivedremo" diss'egli "perché appena ti avrò mandato il cibo e avrò
avvertite queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica." Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto
"forse questo, forse altro" con un accento così pregno di sottintesi, che don
Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò:
"Pensi a Roma?"
Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il
fardello dov'era la povera tonaca concessa e ritolta, se l'accostò, non senza
un tremito delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente.
Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola
evangelica? Era l'attesa di un'ora lucente nell'avvenire?
Rese il fardello al Maestro.
"Addio" diss'egli.
Don Clemente uscì a precipizio.
La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto
aveva un grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a
fiorami azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la
stoppa per gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli
parrucconi dalle cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una
muraglia greggia, l'altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte
pensoso, sul cielo. Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si
affacciò per un addio ai prati, al monte, al povero paese. Preso da
spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era una spossatezza dolce dolce.
Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il cuore gli si ammolliva di
beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi pensieri oggetto e forma,
il senso della quieta innocente Vita esterna, delle stille che gocciavano
dai tetti, dell'aria odorata di montagna, lievemente, occultamente mossa
ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli rinacquero nella memoria
ore lontane della sua giovinezza prima, quando non aveva moglie né
pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell'alta Valsolda, sui
dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi
genitori avessero vissuto trenta, vent'anni di più! Almeno uno di essi! Si
vide nel pensiero la lapide del camposanto di Oria:
a Franco
in Dio
la sua Luisa
e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta
della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa
tentazione di debolezza.
"No no no" mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose:
"Non ci vuole ascoltare?"
Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli
non li aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel
ragazzo, basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli
chiese arditamente perché avesse spogliato l'abito clericale. Benedetto
non rispose.
"Non lo vuol dire?" fece colui. "Non importa, senta. Noi siamo studenti
dell' Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e
subito. E ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito
anche questo."
Uno dei compagni tirò l'oratore per la falda dell'abito.
"Sta zitto!" disse il primo. "Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un
purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri
che stanno giuocando all'osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con
noi. Dice che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che
Le ho detto. Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere
un miracolo, s'era possibile; insomma per stare allegri."
I compagni lo interruppero, protestando.
"Ma sì!" ribatté lui. "Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero. Infatti
mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci
volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s'è udito il
discorsino ch' Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse,
questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina,
questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci
si accordò subito di chiederle un colloquio. Perché poi, se siamo un poco
scettici e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe Verità
religiose c'interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo
buddista."
I suoi compagni risero ed egli si voltò ad essi adirato.
"Sì, non sarò buddista nella pratica ma il Buddismo m'interessa più del
Cristianesimo!"
Qui successe un battibecco fra i tre per quest'uscita poco opportuna; e un
secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali, prese il posto del primo. Costui
parlava nervoso, con frequenti scatti del capo e degli avambracci rigidi. Il
suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui avevano discusso più volte
intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti ammettevano che fosse
esausta e che la morte seguirebbe presto se non intervenisse una riforma
radicale. Alla possibilità di questa riforma chi credeva e chi non credeva.
Desideravano conoscere l'opinione di un cattolico intelligente e moderno
nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano molte domande
a fargli.
Qui il terzo ambasciatore della compagnia studentesca giudicò venuto il
suo momento e scaraventò addosso a Benedetto una tempesta
disordinata di quesiti.
Sarebb'egli stato disposto a farsi propugnatore di una riforma della
Chiesa? Credeva nell'infallibilità del Papa e del Concilio?
Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente?
Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma
desiderabile? Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri? Approvava le sue idee? Gli piaceva
che fosse proibito ai cardinali di uscire a piedi e ai preti di andare in
bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e dell'ispirazione?
Prima di rispondere, Benedetto guardò a lungo, severo in viso, il suo
giovine interlocutore.
"Un medico" diss'egli finalmente "aveva fama di saper guarire tutte le
malattie. Qualcuno che non credeva nella medicina andò da lui per
curiosità, per interrogarlo sull'arte sua, sugli studî, sulle opinioni. Il
medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese il polso, così."
Benedetto prese il polso del primo che gli aveva parlato e proseguì:
"Glielo prese, glielo tenne un momento in silenzio, poi gli disse: - Amico,
voi soffrite di cuore. Io ve l'ho letto in viso e ora sento battere il martello
del falegname che vi lavora la bara."
Il giovine dal polso prigioniero non poté a meno di batter le ciglia.
"Non parlo per Lei" disse Benedetto. "Parla quel medico a quel tale
che non crede nella medicina. E continua: - Venite voi a me per avere
Vita e salute? Io vi darò l'una e l'altra. Non venite per questo? Io non
ho tempo per voi. - Allora colui, che si era sempre creduto sano, allibbì e
disse: - Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva."
I tre rimasero per un momento sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e
a replicare, Benedetto riprese:
"Se tre ciechi mi domandano la mia lampada di Verità, cosa
risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli occhi vostri ad
essa perché se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne avreste alcun lume,
voi non potreste che guastarla."
"Non vorrei" disse lo studente lungo, smilzo e occhialuto "che per vedere
questa Sua lampada di Verità si dovessero chiudere le finestre alla
luce del sole. Ma insomma capisco ch' Ella non voglia spiegarsi con
noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo o almeno
io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi
sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però,
se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me,
meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo
la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a
Roma."
"Mi dia il Suo nome" disse Benedetto.
Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso.
"Sì Signore" diss'egli "sono israelita, ma questi due battezzati non
sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso."
Il colloquio era finito. Nell'uscire, il più giovane dei tre, quello dalla
gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto.
"Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne
politiche?"
Benedetto tacque. L'altro insistette:
"Non vuoi rispondere neppure a questo?"
Benedetto sorrise.
"Non expedit" diss'egli.
Passi nell'anticamera; due colpettini leggeri all'uscio; entrano i Selva
con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto
così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di
riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A
Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un
momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora:
Non fu dal vel del cuor giammai disciolto
e stringe la mano all'uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto.
"Sì ma Lei non deve portare questa roba!" esclamò Maria, meno
mistica di suo marito.
Benedetto fece un gesto come per dire "non parliamo di ciò!" e
guardava il Maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e
riverenti.
"Sa" diss'egli "quanto Vero e quanto bene mi sono venuti da Lei?" Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell'uomo attraverso
don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e
ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un
po' di effettivo bene operato in un'anima.
"Quanto sarei stato felice" ripigliò Benedetto "di lavorare nel Suo
orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!"
Noemi, all'udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una
esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire.
Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l'ospitalità,
poiché don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne
la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il
colloquio ch'egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò
Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta.
"La ringrazio" diss'egli, dopo avere pensato un poco. "Se busserò alla
Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro."
Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò
di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua
sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria
cadde perché Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di
segreti suoi. I Selva si ritirarono.
Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli
sapeva di avere a fronte l'amica di Jeanne, presentiva il discorso che
verrebbe, un messaggio di Jeanne.
"Signorina" diss'egli.
Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: "quanto più presto,
tanto meglio."
Noemi intese. Qualunque altro l'avrebbe offesa. Benedetto, no.
Con lui si sentiva umile.
"Ho l'incarico" diss'egli "di domandarle se sa niente di una persona ch'Ella
deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non
so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores." Benedetto trasalì. Non si aspettava questo.
"No" esclamò ansioso. "Non so niente!"
Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di
parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a
bassa voce, mestamente:
"Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa Vita." Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe,
caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari
occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime,
due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don
Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che
sono nel tuo cuore?
Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò:
"Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande."
Benedetto si scoperse il viso.
"Dolore e non dolore" diss'egli.
Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando
quella persona fosse morta.
Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori
d' Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un'amica sua alla quale
era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall'amica, quella
persona, Noemi non ne ripeté il nome per un delicato riguardo, aveva
fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche
questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece
un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del
colloquio. Noemi non si mosse.
"Non ho ancora finito" diss'ella.
E soggiunse subito:
"Ho un'amica cattolica ... io non sono cattolica, sono protestante
... che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di
dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque
religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si
metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio
religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce
contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare
poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati.
Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole
andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi
inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora
è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di
nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto
bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha
letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne,
spera che non rifiuterà."
"Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche
di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una
cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere,
si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male
dello spirito, con tutto l'amore che ..."
Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così
espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di
cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche,
solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la
bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo
vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa
lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere
anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto,
forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene
acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio."
"Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché
mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il
Suo incoraggiamento in Suo nome?"
La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano
chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma
Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli
chiedeva per Jeanne.
"Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò."
Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli
di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava
parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che
direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente.
"Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le
approva tutte, le idee religiose di mio cognato?"
Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da
vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più
sciocca e dicendola irresistibilmente:
"Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi."
"Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il
Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di
adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono
salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non
possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e,
portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io
non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato
possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le
dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo
cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca
bene."
"Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente.
Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a
Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era
nuovo.
"No" diss'egli "non credo."
Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune
parole confuse.
Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure;
e il colloquio si sciolse senz'altro saluto.
Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e
compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e
mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica
di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de'
suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per
curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma
o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso
di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala,
le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della
sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed
era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco,
e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in
particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo.
Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua
ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo
misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa
e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel
vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che
per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese,
prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva
di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione,
lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa,
riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel
suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il
dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo;
che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista
ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa
Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua
venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni
di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi
presente. Finì il suo discorso così:
"Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain
trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle
facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella
del giornalista, rispose:
"A l'instant, madame!"
E uscì della camera.
Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male
negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a
sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo,
pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a
Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove
conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non
pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva
dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento
mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano
risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato
perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata
così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno
non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente
l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita
vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere
vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di
Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita
commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione
fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore
del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu
veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo
credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio.
Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un
giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi.
"Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli.
"La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di
apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so
se vado a Roma."
"Io La seguo" disse il giovine, impetuoso.
"Mi segue? Perché mi segue?"
Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra
malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto.
"Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo
Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta,
permetta che La segua!"
"Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò."
Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo,
e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli,
esclamò:
"Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!"
Benedetto sorrise.
"A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?"
Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti
saprebbero dove trovarlo.
"Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto.
Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano.
"Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si
ricordi di me!"
E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della
mulattiera, disparve.
Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa,
Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette
arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi
passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della
gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli
occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di
più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la
memoria, la nozione del tempo.
Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso,
diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non
tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il
petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne
che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il
Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce.
Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel
sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di
Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu
sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò
lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera.
Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male,
male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la
mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno
venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì
esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli
aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che
avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non
avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle
di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di
proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la
buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la
prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide
fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti
per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di
Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo
quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla
costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un
viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne
notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era
partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era
stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per
riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad
aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì
Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da
Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro,
scomparve.
Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col
mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo,
sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con
l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti
di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva
le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e
l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose,
tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di
amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide
nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che
sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose
innocenti.
Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una
bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una
bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto,
meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo
nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice:
"È la bambina dell'oste."
Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona
silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto
prender con sé la bambina.
"Grazie" diss'egli.
Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò:
"Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa
donna accusa Lei di averlo fatto morire?"
Benedetto rispose con qualche severità nella voce:
"Perché mi dice questo?"
Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò
desolata:
"Oh mi perdoni!"
E riprese:
"Posso farle una domanda?"
"Dica."
"Ritornerà mai a Jenne?"
"No."
La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo.
Ella disse, a voce più bassa:
"Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita?
Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?"
Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe
vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine.
"Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra
Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le
intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno
insieme all'opera."
Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice:
"Addio."
Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde:
"A Dio."
Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà
dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà
Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel
momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla
febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di
quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi
lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva,
sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in
profondo, più e più forte:
"Roma, Roma, Roma."