PARTE PRIMA
I. IL TESTAMENTO RATTA
Milano, la grande città del fracasso, dopo aver mandato a casa l'ultimo ubbriaco, si sprofondò nel silenzio
grave delle piccole ore di notte.
A San Lorenzo sonarono due tocchi languidi, rotti dalla neve, che cadeva a fiocchi larghi.
Il Berretta, buttato l'ultimo pezzo di legno nel caminetto, fregandosi in fretta i ginocchi, brontolò in fondo alla
gola:
"Basta, finirà anche questa".
Nella stanza vicina, dove malamente ardeva una candeluccia benedetta, stava nel suo letto distesa la povera
signora Ratta, morta, vestita di una logora gonnella di cotone color terra secca, con in capo la più sgangherata delle sue
cuffie famose e sulle gambe sottili un paio di calze di filugello bigio.
Il portinaio Berretta, che aveva aiutato i becchini a collocare sul letto la povera cristiana, che le aveva legate
non senza fatica le mani colla corona del rosario, non poteva ora togliersi dagli occhi il fantasma della morta benedetta,
quantunque l'uscio della stanza fosse chiuso con due bei giri di chiavetta, e lui, imbacuccato nella pistagna d'un suo
antico tabarro fin oltre gli orecchi, voltasse le spalle all'uscio, e cacciasse la testa tutta quanta nel vano del caminetto.
Per non irrigidire nella paura, che è la più gran cosa fatta di niente, il portinaio, che non aveva ereditata da
natura un'anima di drago, due o tre volte si sforzò di ragionare su cose inconcludenti, di appassionarsi, di accalorarsi nei
pensieri, di ripetere gli avvenimenti della faticosa giornata suscitando in se stesso dei rancori e delle smanie, per aver un
motivo di brontolare e di rompere quel tremendo silenzio di morte, destando degli stimoli d'egoismo colla prospettiva
d'una grossa mancia, o d'un lascito, o di qualche regalo. La vecchia Carolina Ratta nei dodici o tredici anni dacché era
venuta ad abitare in Carrobbio (prima stava in Borgo di San Gottardo), si era sempre servita di un Berretta come una
serva adopera, parlando con poco rispetto, una scopa che ha sotto la mano. I portinai sono la scopa degli inquilini:
"Berretta, mi fate un piacere?" gli pareva di sentirla negli orecchi la voce tremula e fessa della vecchia ottuagenaria.
"Mi comprate il tabacco, Berretta? Badate che sia albania." E non dava mai un soldo, l'avaraccia, salvo il rispetto ai
morti. "Berretta, la mia gatta l'avete vista?" Anche questa: gli era toccato qualche volta di girare mezza la casa dal
solaio alla cantina, in cerca della gatta. Per cui se la sora Carolina gli avesse lasciato nel testamento cento, duecento,
trecento lirette una volta per sempre, proprio niente di male. Don Giosuè Pianelli, il confessore della povera cristiana,
gli aveva fatto capire che il suo nome era scritto su un foglio di carta. Cento lirette le aveva guadagnate soltanto a
correre quel dì. Quando la Giuditta venne a dire che la sora Carolina pareva morta davvero nel suo seggiolone colla
solita calza in mano, in cui aveva litigato fino all'ultimo la sua grande vitalità, bisognò subito correre ad avvertire il sor
Tognino. Poi bisognò correre al Municipio per le formalità e aspettare due ore che i signori impiegati si degnassero di
scrivere. Poi di nuovo bisognò correre alla Società anonima a ordinare la carrozza da morto; poi correre, gambe in
spalla, a San Lorenzo, a combinare coi preti. E tira e tira, tra i preti che volevano la polpetta grossa e il sor Tognino che
odia i preti, fu quasi una commedia in sagrestia. Poi correre ancora, auf! a recapitare una cinquantina di lettere coll'orlo
nero ai quattro punti di Milano... e quando, finalmente, pareva che tutto fosse finito "Neh, Berretta" venne fuori a dire il
sor Tognino fresco come un sorbetto "bisognerà che tu rimanga stanotte a far la guardia alla morta. Sul tardi verrò
anch'io: ma intanto bada a non lasciar passare nessuno. Se vengono i parenti con un pretesto o coll'altro, tu di' che hai
l'ordine di non lasciar passare nessuno, nes... suno, neh!..."
"Ho capito subito che cosa voleva dire con quel dito in aria. Ci vuol poco a capire che il signor Tognino ha
paura dei parenti. La vecchia lascia un carro di denari, dei fondi, e un paio di case in Milano e convien sempre mettersi
a tavola pei primi. Eredi legittimi non ne ha, ma c'è una nidiata di parenti pitocchi, e i corvi passano dove c'è odor di
morto. Staremo a vedere anche questo. Che sugo però di obbligare un povero portinaio, stanco morto, a far la sentinella
a un altro morto!"
Il Berretta si sforzò di ridere sulla sua facezia; ma il piccolo nitrito che uscì di sotto al bavero di vecchio pelo,
risonando nella canna del camino, gli parve una tal voce che trasalì.
La stanchezza, la rottura degli occhi lo tiravano a dormire. La paura lo tirava invece a immaginazioni stupide,
senza senso, che lo riducevano freddo e stecchito sulla sedia di paglia. Come tra due pettini di ferro spasimava e
invocava l'ora che codesto sor Tognino benedetto si lasciasse vedere. Erano già le due; nevicava sempre.
"Che sugo," ripigliò sbarrando le pupille asciutte sulle braci, che gli ammiccavano dalla cenere "i morti non
scappano mica. Che se, per una supposizione, la sora Carolina avesse bisogno di bere, io non sarei mai quel brav'uomo
capace di portarle un bicchiere d'acqua. Uno può avere il coraggio di cento leoni, per un'ipotesi, e non sentirsi quello di
litigare coi morti. Non è paura, è una... sollecitudine così. Mi contava un maresciallo dei carabinieri a cavallo, il quale...
col quale…"
Uno scricchiolio secco di un vecchio mobile spezzò a questo punto le riflessioni del portinaio, che non trasalì,
perché ormai l'uomo e la sedia facevano un pezzo solo, ma la vita precipitò sul cuore, come se si distaccasse a pezzi e a
croste. Torcere il collo non poteva più per una dolente rigidezza dell'osso che si attacca alla spina dorsale, colla quale
l'uomo sentivasi attaccato alla sedia, e colla sedia e colle gambe attaccato alla pietra del caminetto.
Era un silenzio di tomba. Parevan morti tutti a Milano, il freddo scendeva dalla canna del camino e infilava
l'uomo per i piedi e per la bocca dei calzoni. La candela di sego col lucignolo che faceva il fungo nella fiamma, pareva
anch'essa annoiata di far chiaro ai mobili del salotto, che appoggiati colle spalle alle pareti, mandavano di tempo in
tempo dei gemiti di stanchezza dalle giunture.
"È ridicolo alla tua età aver paura dei morti" seguitò il Berretta con un burbero rimorso di coscienza. "È
ridicolo: ma è pur vero che questo morire è una figura birbona. Oggi sei sano, vispo come un pesciolino, ti piace il vino
bianco e la buona compagnia e domani flich, sei un brutto macaco non buono nemmeno per essere imbalsamato.
Nemmeno buono a far legna, sei: ma un essere che puzza, sei; e ti casca il naso, ti cascano gli orecchi, Dio spaventato!"
La predica mentale fu interrotta un'altra volta da un passo che veniva su per le scale, urtando coi piedi nei
gradini. Il passo si avvicinò all'uscio e andò oltre. Non era il sor Tognino. Di sopra abitava il cuoco di casa Mainona,
che tornava spesso a casa collo spirito santo in corpo. Vi abitava anche una cantante, che da un pezzo non cantava più,
se pure aveva mai cantato qualche cosa la bella e incipriata sora Olimpia. In certe ore vi andava un vecchio colonnello...
Una volta ci andava anche il sor Lorenzo, quel caro figliuolo del sor Tognino, detto il Bomba; e così mentre da una
parte il padre avaro sparagnava il centesimo, tirando la pelle in capo agli operai, il Bomba gettava i marenghi in questo
pozzo. A padre avaro figliuolo prodigo, a padre furbo figliuolo bislacco. È una legge così, è una tragedia così, la vita. Di
sotto una vecchia di ottant'anni che fa la sua ultima smorfia sull'assa, colle gambe in due calze lunghe di filugello, e di
sopra la bella Olimpia che canta e che non canta...
Un gran colpo di vento scosse le imposte della finestra, la neve picchiò nei vetri, il turbine ululò in gola al
caminetto. La fiamma della candela posta sul caminetto, cedendo al filo d'aria, allungò l'anima sullo stoppino. Il
Berretta stava ancora brontolando: soffia, scoppia... quando un altro urto di vento spalancò furiosamente le gelosie nella
camera della morta.
I becchini non avevano che avvicinate le gelosie per lasciar corso all'aria, e ora la neve, portata dentro da quel
demonio di vento, fioccava quasi addosso al cadavere.
"Sacco rotto!" bestemmiò il portinaio "anche questa! Ma se la sora Carolina ha freddo, non so proprio che cosa
dire. Vada lei a chiudere: per me non mi muovo. Fossi bestia! già, non piglierà la tosse lo stesso."
E preso al fascino di questa nuova e strana fantasia, cominciò a dispetto della sua volontà, a immaginare che la
morta scendesse veramente dal suo letto di legno, si accostasse alla finestra a chiudere: poi tornasse indietro a prendere
la candela in terra, aprisse l'uscio del salotto, cacciasse il capo nello spiraglio, agitando l'enorme cuffia sfarfallata, colla
bocca aperta e indurita a un oibò!... Era un fascino maledetto, seducente, irresistibile e se lo creava lui quel tormento
birbone per una specie di voluttà poetica; ne soffriva orribilmente ma non poteva sottrarsene.
"Sei qui?"
Il Berretta mandò fuori un ululo d'uomo strozzato...
Era il signor Tognino.
"Pazienza, mi ha fatta una..." e non ebbe la forza nemmeno di nominarla.
Il padrone era entrato così repentinamente nel mezzo delle sue idee, che queste trabalzarono come i bicchierini
sopra un vassoio, a cui un matto appioppi un pugno di sotto.
A tutta prima il portinaio stentò a riconoscere il suo padrone di casa. Invece del consueto paltò col bavero di
castoro e del solito cappello duro portava indosso in questa delicata escursione notturna un mantello bigio a pieghe fitte
e pesanti e in testa aveva un cappello molle di campagna a tese larghe. Mantello e cappello erano pieni di neve.
"Finalmente!" ripeté il portinaio, levandosi col dolore d'uno che si schiodi da un'assa. "Credevo che non
venisse più stasera."
"Fa del fuoco, fa del fuoco" brontolò stizzito il padrone.
"Vado fuori a pigliare qualche fascinetta..."
Il Berretta accese l'altra candela che stava sul camino e uscì, mentre il signor Tognino, scrollata la neve dalle
spalle e sbattuto il cappello contro la schiena della sedia, buttava la roba sul tavolo e andava a sedersi davanti al
caminetto per riattizzare un po' di fiamma.
Era un uomo di sessantatré anni, con una testa piccola, quadra, intelligente, i capelli non bianchi del tutto, il
viso secco e colorito, d'una magrezza solida e risoluta che tradiva dai lineamenti sciupati il giovane galante d'altri tempi.
Gli occhi piccini di un grigio freddo e duro guardavan sempre diritto, come quelli di un cocchiere che ha nelle mani dei
cavalli cattivi su per una strada cattiva. Due modesti baffi quasi bianchi, d'un pelo duro e regolato, coprivano una bocca
sottile senza labbra.
Vestiva con la trascurata proprietà d'un uomo d'affari, che può spendere e vestirsi bene, ma non ha tempo di
spazzolarsi e di star sull'etichetta.
Tognino era primo cugino della defunta Carolina e da qualche tempo suo amministratore, suo factotum e suo
braccio destro nei mille affari d'una grossa azienda domestica.
La Ratta, vedova d'un capo-mastro arricchitosi ai tempi dell'Austria con gli appalti militari, possedeva una
bella sostanza valutata sulle quattrocentomila lire, parte in case, parte in titoli bancari, parte in fondi a San Donato
presso Chiaravalle.
La vecchia Carolina nei quarant'anni di vedovanza aveva fatto dei risparmi, senza troppa fatica, largheggiando
in elemosine, sostenendo la causa del sommo Pontefice, incoraggiando dei giovani sacerdoti, e favorendo colla sua pietà
tutte quelle istituzioni che mirano specialmente a far guerra ai framassoni. Negli ultimi anni aveva finito col cadere in
mano ai preti; ma furba la sua parte, cresciuta com'era in mezzo agli affari, quando capì che i preti e il famoso avvocato
Baruffa, tutta roba dei preti anche lui, miravano a tirare troppo l'acqua al loro molino, un bel dì mandò a chiamare il
cugino e gli disse:
"Guarda un po', Tognino, io sono vecchia ma non voglio morire minchiona. Non ti pare che l'avvocato abusi
della mia fiducia?"
Tognino non stentò a trovare capi d'accusa, si fece autorizzare e a poco per volta tolse di mano al Baruffa tutta
l'amministrazione; non solo, ma gli fece capire che sarebbe stato utile alla sua fama e alla sua dignità di non opporsi alla
volontà dei parenti: lo mise, insomma, delicatamente alla porta.
Poi, suscitando le speranze dei Maccagno e dei Ratta, dimostrando alla vecchia cugina che frati e preti
minacciavano di mangiarla viva, ridestando in lei degli scrupoli per riguardo ai parenti più bisognosi, ch'era ingiustizia
abbandonare, riuscì ad avere in mano una procura legale, che l'abile affarista adoperò come una solida spada. Fece ai
preti, a don Giosuè, a don Felice un'aria poco respirabile; mandò via una certa Santina, una bigotta messa in casa a far la
spia, e prese al servizio una certa Giuditta di piena sua fiducia. Aprì la porta ai parenti più miserabili, ch'egli presentò
alla decrepita cugina con parole affettuose, ottenendo da lei oggi un sussidio per una povera donna partoriente, domani
una limosina per un infermo, o dei prestiti o dei riscatti di pegno, guadagnando la simpatia e la popolarità di tutti i Ratta
più rosicchiati dalla miseria. Quando il figlio d'un Giacomino Ratta celebrò la prima messa nell'oratorio degli Angeli,
Tognino volle assistere come padrino a nome della vecchia benefattrice, quantunque da cinquant'anni non vedesse più
un Cristo in croce, e seppe tanto fare che passò per un mezzo santo.
Tre volte la settimana menava in casa Aquilino Ratta, uno dei veterani del quarantotto e ora vice-ricevitore in
un banco del regio lotto, uomo pieno di rispetto, e lasciava che il buon parente divertisse la vecchia ottuagenaria colle
storie dell'assedio di Venezia e delle varie combinazioni con cui si può vincere un terno. Alla sera Aquilino e la Giuditta
lo aiutavano a fare il quartetto a tarocco, un gioco vecchio e sempre nuovo, in cui la Ratta, quantunque le carte le
svolazzassero di mano da tutte le parti, era una birbona matricolata. E mentre si giocava, Tognino, ch'era stato uomo di
mondo, contava o ricordava molte storie del suo buon tempo, quand'era di moda portare i calzoni bianchi e il panciotto
di piqué, quando c'erano i bei veglioni alla Scala e il risottino alla milanese, dopo il veglione, al famoso caffè della
Cecchina.
Attingendo agli aneddoti dei "Cento Anni" del Rovani, il bravo cugino sapeva con brio suscitare nei morti
sensi della vecchia bigotta l'eco di reminiscenze che risalivano ai baccanali della Cisalpina e della famigerata
compagnia della "Teppa". L'aneddoto lesto, raccontato con spirito, senza mai urtare la religione cattolica e il sommo
Pontefice, strappava alle volte dal petto della paralitica un cachinno asmatico e strascicato, rotto da colpetti di tosse che
davano il rimbombo d'un cembalino scordato e lasciavano nelle profonde rughe della sua faccia accartocciata e morta
una sgocciolatura di lagrime contente.
Era in questi istanti di serenità, specie dopo certi pranzetti, in cui la Ratta aveva fatto onore al così detto latte
dei vecchi, che Tognino le dava a firmare delle note, dei conterelli, delle quietanze. E così andarono avanti benissimo le
cose quasi più di tre anni.
Solamente negli ultimi tempi l'uomo aveva trascurato un poco la vecchia cugina e gli affari, grazie al
matrimonio del figliuolo e a cento altre faccende che assorbirono le sue giornate; poi si dette il caso che verso la fine di
dicembre dovette recarsi come giurato a Lodi in un interminabile processo. Un gusto! Proprio in quei giorni la vecchia
Ratta ebbe il primo urto della morte. Chiamato in fretta il canonico don Giosuè Pianelli, suo confessore, ricevette i santi
sacramenti.
Sul punto di battere alla gran porta dell'eternità, tocca e spaventata dalle parole del canonico, le parve di aver
diffidato troppo dei vecchi amici, di aver creduto troppo alle parole di Tognino, di aver tradito le pie istituzioni di
beneficenza. Lì per lì, sul tamburo della morte, don Giosuè suggerì un codicillo che in nome della santissima Trinità
distruggeva quelle qualsiasi disposizioni che avesse potuto dettare o sottoscrivere negli ultimi tre anni e richiamava in
vigore un testamento del 1878, già consegnato all'avvocato Baruffa. Don Giosuè scrisse la rettifica sopra un foglio di
carta comune e corse in cerca di un notaio. Ma nel frattempo arrivò da Lodi tutto trafelato il cugino, a cui la Giuditta
aveva mandato tre telegrammi.
Credeva di trovare la cugina agonizzante e invece vide che stava meglio. Sicuro! la consolazione morale di
ricevere i sacramenti e di compiere un atto di riparazione aveva fatto tanto bene alla malata, che il giorno del santo
Natale poté ancora assaggiare la sua fetta di panettone nel vin bianco. La Giuditta mise a parte il padrone della manovra
dei preti, ma non seppe dire se la vecchia avesse o non avesse firmata la carta. La vigilia dell'Epifania, dopo un'agonia
in cui la morte ebbe a sudare tre camicie, la buona cristiana in compagnia dei tre Re Magi andò a trovare il suo Ratta in
paradiso, se pur ci vanno in paradiso gli appaltatori.
Il Berretta tornò con un fascetto di legna, s'inginocchiò davanti al caminetto, e cominciò a soffiare nel fuoco,
gonfiando le ganasce. Presto la fiamma si risvegliò, riempì il camino e ravvivò la stanza.
"C'è stato nessuno?"
"Nessuno."
"Che cosa voleva Aquilino?"
"Che Aquilino?"
"Il vice-ricevitore del lotto. L'ho visto sulla porta verso le cinque."
"Voleva vedere la morta."
"E tu, asino, l'hai lasciato passare?"
"Niente passare. Ho detto che non avevo le chiavi."
"Però c'è stato don Giosuè."
"Quest'oggi non l'ho visto."
Il signor Tognino, carezzando coll'ugna del pollice l'orlo dei baffi (era un suo movimento naturale nei momenti
di riflessione), lasciò cadere lo sguardo sul portinaio, che gli stava davanti inginocchiato nella luce viva della fiamma.
Era un occhio abituato a pesare gli uomini, che non sbagliava quasi mai, come non sbaglia l'occhio d'un vecchio
mediatore nel calcolare il peso di un fascio di legna.
"E l'avvocato Baruffa non è venuto?"
"Mai..."
"Non c'è stato nemmeno un tale dalle gambe lunghe, un giovinotto smorto, senza barba, con un occhio bianco,
più grosso dell'altro?..."
"Gamba lunga? Occhio bianco?" ripeté lentamente il Berretta, crollando il capo.
"Pare anche lui un mezzo prete, o un mezzo avvocato."
"Uhm, non l'ho visto."
"Un certo Mornigani; lo chiamano precisamente el mèz avvocat ..."
"Non lo conosco."
"Aquilino che cosa ti ha detto?"
"Mi ha domandato l'ora dei funerali. Gli ho detto: domani alle nove e mezza."
"E la Santina che cosa è venuta a fare?"
"Che uomo!" pensò in fretta prima di rispondere il portinaio "che diavolo d'uomo!" Poi soggiunse a voce alta:
"La Santina voleva ritirare alcune sue robe. Dice che la padrona le aveva lasciato un anello con un diamante."
"E tu, bestia, l'hai lasciata passare?"
"Ha fatto il diavolo sulle scale, ma io son stato agli ordini. Nix per passare."
Il padrone tornò a fissare gli occhi acuti e fini sulla nuca del Berretta e sul rovescio delle sue larghe orecchie
trasparenti alla luce del fuoco. Vecchio strologo di uomini, credeva di saper scoprire dai movimenti della collottola gli
sforzi di una coscienza.
Tenne dietro un mezzo minuto di silenzio, durante il quale i due uomini stettero ad ascoltare il muggito e il
crepitio della vampa, che riempì la bocca del caminetto. Quindi il padrone uscì a dire:
"Chi va adesso da Olimpia?"
"Gente ne passa sempre. Cantanti, impresari, gente da teatro."
Il padrone fissò gli occhi nel fuoco e lentamente, come se arrischiasse una parola, domandò:
"È vero che ci torna ancora qualche volta il mio Lorenzo? "
"Io non l'ho visto più dopo che ha fatto giudizio."
"Guarda che se gli tieni mano…"
"Sor Tognino, che cosa dice?" interruppe con fiera dignità il portinaio, facendo un mezzo giro sui ginocchi.
"Ben, ben... uomo avvisato!... Adesso, metti un altro pezzo di legna sul fuoco e apri bene gli orecchi che ho
un'altra cosa a dirti."
Il Berretta obbedì e pensò intanto:
"Che cosa avrà ancora questo demonio d'uomo?"
Il padrone, dopo essersi un poco fregate le gambe, picchiò colla mano due colpetti brevi sulla spalla del
portinaio, e riprese a dire:
"Dalla cantina della mia povera cugina sono scomparse dal settembre a questa parte circa trenta bottiglie di
vecchio barolo e mancano tre o quattro fasci di legna forte. Io ho le prove in mano che questa roba fu rubata e che il
ladro è in questa casa. Sentiamo un po' che cosa ne sai tu, il mio galantuomo..."
"Io, io non so niente" balbettò il Berretta, alzandosi, appoggiando una mano alla pietra del camino, grattando
coll'altra i pochi capelli ruvidi. E aggiunse mentalmente questa riflessione: "Stavolta è la Giuditta che ha parlato".
"Allora" ripigliò l'altro, soffiando sulle parole una specie di sorriso ironico "allora se tu non sai nulla, io sono
più fortunato di te, perché so dove bottiglie e legna sono andate a finire. E siccome di ladri in casa mia non ne voglio,
così domani farò la mia brava deposizione alla Questura."
"O caro signor Tognino, non mi rovini, per carità" proruppe il Berretta, congiungendo le mani in atto di
supplica.
"Ah, tu non sai nulla…"
"Per i miei poveri morti, per l'anima di quella povera donna, dirò tutto, pagherò tutto, ma non mi faccia, per
amor di Dio, questa brutta figura. Servo da trent'anni e non ho mai toccato..."
"L'acqua piovana..."
"Posso quasi giurare..."
"Non hai mai rubato un pilastro, tu: ma il vino ti piace e se è buono meglio."
"Se mi lascia dire confesserò tutto. Sono un uomo onesto."
"Quando non hai sete..." insistette il padrone colla crudeltà di chi piglia a tormentare con una lesina un topo
preso vivo nella trappola.
"I casigliani possono far fede che non ho mai toccato un soldo a nessuno."
"Un soldo no, ma trenta bottiglie di vin vecchio a tre lire la bottiglia, fanno quanti soldi? E la legna è venuta da
sé a farsi bruciare?"
"Allora dica che vuol la mia morte e addio!" esclamò il Berretta, asciugandosi la fronte madida d'un sudor
freddo. "Non sa che mi ammazzo, se mi fa questa figura? Io giuro, presente cadavere, mi ammazzo."
"Non hai pensato, o gola lunga, che quel vino poteva farti male? non hai pensato che devi il buon esempio a
tuo figlio?"
"Sor padrone, sor padrone, mi senta; io son qui in ginocchio" e il Berretta s'inginocchiò un'altra volta e alzò le
due mani in atto di santo martire. "Servirò per nulla fin che campo, fin che non avrò pagato tre volte il mio debito: ma
per carità, non dica nulla al mio Ferruccio. Non mi faccia questa tremenda figura davanti a quel bravo ragazzo."
"Capisco che ti deve dispiacere che Ferruccio sappia queste tue prodezze. È un buon giovinotto che ha bisogno
di farsi una posizione e non è certamente una raccomandazione l'avere il papà al cellulare."
"O Madonna santissima, non lo dica nemmeno..." singhiozzò il povero Berretta.
"Io potrei far del bene a questo tuo ragazzo. A Natale gli ho dato sessanta lire e potrò dargliene di più, ma non
per merito tuo, birbaccione."
"Sono stato così malato st'inverno e la povera anima, a nominarla come viva, non dava mai niente."
"E hai voluto pagarti da mugnaio."
"Ho fatto male, non dico, ma per un po' di vino non si ammazza mica un uomo, angeli custodi!"
"Basta, non voglio altro. Se tu mi darai una prova sicura..."
"Non vede che piango come un ragazzo?"
"Le tue lagrime non valgono il mio vino: ma se potrai darmi una prova seria, con giuramento..."
"Son pronto a giurare sull'anima mia."
"Allora, va, chiudi bene l'uscio della scala, tira innanzi una sedia, e ascoltami."
Il Berretta, rianimato dal tono più dolce con cui gli parlava quell'uomo tremendo, corse e girò la chiave
dell'uscio, accostò una sedia al camino, sedette, appoggiò le mani sui ginocchi e ancor tutto tremante stette a sentire.
Il padrone con voce fredda e precisa, senza distaccar gli occhi dal fuoco, cominciò:
"Ora io vado di là a cercare una carta che mi interessa, ma tu devi giurarmi prima che non dirai a nessuno ch'io
sono stato qui stanotte. Vedi questo foglio di carta?" e glielo mise sotto il naso. "Qui è scritta la denuncia del furto delle
bottiglie, eccetera. Un avvocato mi ha detto che, trattandosi di un furto qualificato di un valore superiore a cento lire,
con uso di chiave falsa, il reo non potrebbe cavarsela con meno di due anni di reclusione. Vedi, Berretta? io posso
buttare questo foglio sul fuoco..."
"Lo butti, in nome della benedetta Madonna!" pregò l'altro, alzando le mani.
"No, questa sarà la mia garanzia. Se tu ti lasci scappare una parola di quel che vedi e senti stanotte, sai quel che
ti spetta."
E intascò la carta.
"Faccia conto che io sia un uomo morto."
"Per quante domande ti possa fare don Giosuè, l'avvocato Baruffa, Aquilino Ratta, la Giuditta, il mio Lorenzo,
il tuo Ferruccio, o il mezzo avvocato... tu, tu non sai niente, non hai visto niente."
"Niente, niente" ripeté il Berretta, chiudendo gli occhi e spazzando l'aria colle mani davanti a sé.
"Ci sarà della gente che ti offrirà del denaro per farti cantare: ma tu sarai muto come questo sasso..."
Il signor Tognino toccò tre volte col dito il marmo del caminetto.
"Come questo sasso, lo giuro: ma non mi faccia una brutta figura. O poveri morti, due anni di reclusione!"
"Ben, sta zitto e tien vivo il fuoco. Ora vo di là."
Il signor Tognino prese uno dei lumi, e girata la chiavetta nella toppa, entrò nella camera della morta, lasciando
solo il portinaio davanti al fuoco.
L'ombra sconnessa di quest'uomo rannicchiato sulla sedia, sbattuta dalla fiamma sul soffitto, e ballonzolante
alle scosse del fuoco sui marmi e sui mobili, poteva dare un'idea dello stato d'animo e dell'agitazione di tutti i suoi
pensieri, che guizzavano senza ordine e senza contorno nel suo povero cervello. Egli conosceva il sor Tognino, e sapeva
che con quel carattere non c'era da scherzare. Aizzato negli interessi, il vecchio signore diventava una tigre. L'aveva
visto sulle furie il giorno che colse la povera Santina in atto di far la spia dietro l'uscio; misericordia! se non la pigliò a
colpi di piede, fu merito della donna, che seppe infilar l'uscio e le scale. Ma dovette far fagotto e andarsene col salario in
mano, dopo quasi quindici anni di servizio. Che cosa arresta l'uomo aizzato nel suo interesse? che cosa arresta il toro
quando vede rosso? Come, quando, aveva scoperta questa faccenda delle trenta bottiglie? e dire che egli non s'era
manco accorto di berne tante... Lo bevevano tutti quel vino, lo beveva anche la Giuditta: e veramente la vecchia Ratta
non poteva portarselo via nella cassa: e quando un pover'uomo è malato, e passa la sua vita in una tana scura e umida, se
cede a una tentazione, Dio spaventato, non si dovrebbe parlare di furto qualificato e di cellulare!... E ora che cosa
andava a fare, lui, nella stanza della morta?
L'altro, rinchiuso colle spalle l'antiporto, si fermò sulla soglia un momento, sollevò il lume, cercò la sua morta.
La vecchia Ratta giaceva supina sul letto, col volto sprofondato nelle crespe della cuffia, colla povera gonnella
indosso, da cui uscivano le gambe sottili, colle mani legate sul ventre, ferma, fissa in quella rigidità quasi violenta che
pigliano i corpi nei momenti che presentono l'ultima distruzione.
Il signor Tognino, abituato a veder la vecchia cugina raggomitolata nella sua poltrona in preda a una
tremolante convulsione, non poté sottrarsi a un senso di stupore, rivedendola a un tratto tanto ingrandita sul suo letto di
morte; e suo malgrado fu tratto a riflettere qualche cosa su questa stupida commedia della vita, senza però sprofondarsi
troppo nella filosofia, ciò che non era nella sua natura, anzi sforzandosi d'infuriare dentro di sé contro gli imbecilli che
non avevano ben chiuso e lasciavano che la neve entrasse dalla finestra.
La neve, fioccando nello spazio aperto, aveva già coperto il pavimento presso il candeliere in cui la candela
benedetta, ridotta agli estremi, sbrodolava da tutte le parti. Collocato il lume sopra uno stipo, andò a chiudere in fretta i
vetri e accostò con una certa furia le due imposte di legno, non osservando nel venir via che una di queste, respinta dal
contraccolpo e dall'elasticità stessa del legno, tornò a poco a poco a lasciare un vetro scoperto, in modo che un curioso
avrebbe potuto, supponiamo il caso, da una finestra del cortile spiare comodamente nella stanza.
Evitando, per un senso di rispetto, di guardare in faccia alla morta, trasse di tasca un mazzo di piccole chiavi e
cominciò ad aprire il vecchio scrigno di mogano, di un bello stile napoleonico, ornato di massiccie borchie di bronzo
dorato, nel quale la cugina custodiva gelosamente le gioie della sua giovinezza e le sue carte più preziose. Egli
conosceva il mobile più che l'anima sua. Aprì, fece scattare i segreti, cavò fuori i tiretti, correndo presto coll'occhio
prima ancora che arrivasse la luce della candela. Da un cassetto levò un grosso astuccio di cui seppe far saltare la molla,
afferrò colla sinistra tutto il barbaglio d'oro e di brillanti che riempiva il logoro damasco, intascò tutta sta bella roba
come avrebbe fatto con un moccichino; mormorando mentalmente:
"A buon conto".
Posto il lume nel mezzo del mobile, la mano continuò ad aprire e chiudere. L'occhio entrava dappertutto,
scivolando, inventariando, seguito da un pensiero non meno svelto dell'occhio che, infilando roba su roba, sommava,
computava, registrava tutto in un certo libro. Ma non era venuto per la roba stasera. Era venuto per la carta, se
veramente la vecchia aveva sottoscritta una carta, come dubitava la Giuditta. Visto e accertato che nello scrigno non
c'era nulla d'importante, chiuse dappertutto, tolse un'altra chiavetta e cominciò ad aprire i tiretti d'un canterale pure di
mogano, del medesimo stile dello stipo.
Nel primo tiretto trovò una sterminata quantità di calze, ripiegate, sciolte, irrigidite dal bucato, rattoppate, da
rattoppare. Entrò colle due mani in quel caos di calze, smosse, palpò, ghermì quella che dette un tintinnìo, la rovesciò
sul marmo del mobile... Con un rumorio squillante di gioia cento o centocinquanta vecchie doppie di Genova, d'un
bell'oro giallo, uscirono dal pedule e si schierarono in fila, irritando Tognino, che cercava la carta, che, stizzito, votò
tutto quel giallo nel tiretto, chiuse respirando forte a denti stretti: aprì l'altro tiretto... Che gl'importava delle doppie e dei
marenghi? per lui era più una questione di puntiglio.
La carta voleva!... E siccome aveva in testa che una carta ci doveva essere, secondo ciò che aveva riferito la
Giuditta, così cominciava a irritarsi di non trovarla subito. Aprì un altro cassetto, dove la padrona teneva la biancheria.
Entrò con le due mani in questa roba coll'avidità, colla nervosità di un gatto che graffia un canestro chiuso pieno di
pesci.
Anche in mezzo alle camicie e ai corsetti non c'eran carte. Aprì allora il terzo cassetto, l'ultimo, che depose sul
pavimento, quindi piegato il ginocchio, mentre colla sinistra faceva chiaro, coll'altra mano toccò, palpò, agitò, sconvolse
la roba: giubboncini di lana, cuffie di renza e di tulle, gonnelle di varie stoffe, sottovesti, una quantità di vecchi guanti,
borsette, manichette, scapolari, boccette d'acque odorose, mozziconi di candela benedetta... tutta roba che la mano
eccitata dalla passione scrollò nell'aria, ributtò con rabbia, per tornare di nuovo a toccare, a palpare, a premere. Non
c'era uno straccio di carta a pagarlo un milione. Si fermò a riflettere. Che i preti avessero ritirata la carta per farla saltar
fuori a tempo opportuno? ciò era in contraddizione con quanto aveva riferito la Giuditta, alla quale pareva di aver visto
a firmare una carta, ma da quel momento nessuno aveva accostato la vecchia padrona, tranne lei e il sor Tognino. O la
Giuditta aveva fatto un sogno o la carta doveva essere in casa.
Intanto il Berretta, cogli occhi addolorati dalle lagrime, sempre fisso nel fuoco non poteva a suo dispetto non
sentire il rimestare e il tabussare che faceva il padrone nella stanza della morta. Parlando al fuoco con l'aria di
canzonatura, disse (tra sé, s'intende): "Ecco il galantuomo che vuol mandar me al cellulare per una dozzina di bottiglie...
ah!" e allungò un muso che non seppe più disfare.
La notte, cessato quasi subito il vento, ricadde nel freddo silenzio di prima.
Unico rumore era il rimestare, l'aprire, il chiudere che faceva quel diavolo d'uomo, con nessun rispetto al
cadavere, accecato dalla cupidigia della roba, più ladro lui cento volte in quel momento che non possa esserlo in cento
anni un poveraccio di portinaio che patisce la sete. Ma così va il mondo. O non bisogna rubare o bisogna rubar bene. La
discrezione è l'asinità dei ladri.
Rimesso a posto non senza qualche stento il cassetto, l'altro si alzò col corpo indolenzito, girò gli occhi per la
stanza, li fissò sul letto, sul corpo della cugina, che giaceva colle mani legate nella sua impetuosa immobilità, sentì il
freddo della notte cadergli addosso e col freddo un risentimento d'indignazione, che aveva bisogno di scatenarsi sopra
qualcuno. Si mosse, tornò in salotto, e stette un momento in mezzo alla stanza come perduto e sconcertato ne' suoi
pensieri.
"Tu hai ricevuto del denaro" uscì un tratto a dire con furia irragionevole, correndo sopra il Berretta, che trasalì,
vedendolo comparire così livido e stravolto. "Tu sai che c'è stato don Giosuè uno di questi giorni, ma ti hanno pagato a
tacere. Giura un po' che non ci fu don Giosuè stasera."
"Caro sor Tognino," rispose il Berretta colla voce del fanciullo che piange "lei può dire che ho ammazzato
quella povera donna."
"Andiamo, non farmi delle commedie" soggiunse il padrone più rabbonito. "Non sai che mia cugina abbia
sottoscritta una carta?"
"Gesù, come posso saper io..."
"Vuoi guadagnare qualche cosa subito? devi aiutarmi a cercare una carta che mi preme. Si tratta forse di un
intrigo e di un tradimento a danno della povera gente e dei parenti, capisci? Vieni di là, immagino dove è la carta, ma
non posso cercarla da solo. Fammi chiaro."
Alle scosse violente il Berretta trascinato da quella forza che s'impadronì della sua volontà, dopo aver girato gli
occhi trasognati, barcollando come un ubbriaco, mosse i piedi, prese il lume dalla mano del padrone, andò dietro a quel
demonio incarnato che lo tirava per la camicia, che gli parlava quasi senza voce col fiato, cogli occhi, si fermò
sull'uscio, mentre gli orecchi fischiavano come il vapore. Una volta ancora si sentì tirato innanzi, spalancò gli occhi per
veder fuori e scorse il padrone in ginocchio nella stretta del letto, che cacciava la mano tra i materassi, dando certe
scosse alla donna... Chiuse gli occhi. Era... era un'infamia, un sacrilegio, per la roba, manomettere i poveri morti. No,
Gesù non si può, non si deve in coscienza benedetta!
"O Signor, Signor..." sospirò stillando ad una ad una le sillabe con un brivido di raccapriccio.
L'altro gli rispose con un soffio di noia.
Nel cacciare le mani sotto il materasso aveva sentito qualche cosa di nascosto.
Bisognava mandar via il portinaio, che scrollando la candela con scosse di paralitico buttava sego dappertutto e
pareva sul punto di cadere in terra sfasciato.
"Non c'è nulla, tanto meglio così... Avevo sospettato un tiro. A ogni modo non dire a nessuno che son venuto a
cercare. Va a prender dell'aria, Berretta, e in quanto alla denuncia sia per non detto, ma guarda che io so tutto, che a me
non la si fa. Va a dormire adesso. Resto io fino a domani. Ho piacere che non ci sia nulla; ma avevo motivo di dubitare.
Su, su, non hai ammazzato nessuno, perbacco! Non dirò nulla della faccenda delle bottiglie al tuo Ferruccio; ma segreto
per segreto va bene? E se mai vedessi che il mio Lorenzo ripiglia a passare di qui, metto sulla tua coscienza l'obbligo
d'avvertirmene, ve'... O che ora non conosci nemmeno l'uscio?"
Il sor Tognino rise un poco freddamente, mentre apriva l'uscio di scala e spingeva fuori con una certa furia
amorosa il più spaventato degli uomini. Gli mise nelle mani il candeliere, chiuse l'antiporto colla chiave e venne di
nuovo a sedersi al caminetto, aprendo le mani al fuoco, coi tratti del volto induriti e contraffatti a un amaro sogghigno,
fisso a una cosa sola, che nella rigidezza della mente non sapeva esprimere che con una sola parola con penosa e
irritante monotonia: "la carta la carta la carta..." Questa non poteva essere che là, tra un materasso e l'altro.
Rimasto a tu per tu colla morta, non avendo ora da fare che con lei, con lei sola, si accorse che anche i morti
hanno della forza. In certi casi ne hanno forse più dei vivi. Un vivo lo puoi battere e ammazzare: ma un morto no.
Questo nella sua rassegnata impassibilità ti si stende davanti e ti sfida. Forse siamo noi che gli diamo la forza e che lo
armiamo delle nostre paure; o è lui che ci disarma là dove la natura è più forte, nell'orgoglio. Non era filosofo
abbastanza per risolvere, e neanche per proporsi delle questioni di questo genere: ma se le sentiva addosso, sotto la
forma di un malessere che non si sa da dove viene, ma che tiene il corpo in brividi. Si pentì d'aver mandato via il
Berretta, che colle smorfie irritava gli spiriti e rendeva almeno grottesca la paura.
Palpando nei materassi gli era capitato di sentire sotto la mano il grosso e il liscio d'una certa borsa di seta, che
la povera Carolina era solita portare sul braccio e recare tutte le sere in letto, con dentro, insieme al manuale di Filotea,
le più care e gelose memorie, in mezzo ai gomitoli e alla calza. Gliel'aveva vista sul braccio fino agli ultimi momenti, e
là dentro, senza dubbio, bisognava cercare il documento, se Giuditta non aveva visto male. La curiosità non ammetteva
indugio e titubanze.
Saltò in piedi di scatto, prese di nuovo il lume, traversò la stanza, pose il ginocchio in terra, ficcò la mano
sotto, dove aveva sentito prima il grosso, tirò...
Il corpo oscillò sul suo duro giaciglio e mentre Tognino si alzava colla candela in una mano, la preda nell'altra,
l'ombra grande della cuffia che il lume prima proiettava sul soffitto, svolazzò abbassandosi sulla parete, si sciolse e
lasciò vedere un enorme profilo umano, un fantasma che balzò al capo dell'uomo e l'avviluppò come l'ombra d'un
uccellaccio. Fu un colpo di pietra al cuore: ma subito il vivo riprese vantaggio. Alzò il lume, sprofondò l'ombra
sfigurata, si volse dall'altra parte, buttò la borsa sul cassettone, ne sciolse i cordoni, la sventrò di tutte le anticaglie che
conteneva e vide uscire santini, corone, occhiali, gomitoli; e finalmente una carta ancor fresca, piegata in quattro, che
Tognino ghermì, svolse, portò sotto la fiamma.
Era una scrittura grossa, sconnessa, traballante che cominciava precisamente nel nome della santissima Trinità
e sotto, dove corse l'occhio saltando il testo, uno scarabocchio di firma, il solito "Carolina Ratta", che visto da lontano
dava l'idea d'uno scorpione schiacciato, colla sua bella data fresca vicina, tutto in perfettissima regola. E lo scritto, forse
copiato da un modello, diceva… Provò a leggere qualche cosa di quelle cinquanta righe, ma alle prime parole gli occhi
si fecero pieni di sangue, le lettere balzarono fuori dalla carta, un gruppo di biscie lo morsero alla gola, mentre due
piccole lagrime di veleno uscivano a irritare le pupille. Con un secondo sforzo afferrò il senso, e il primo atto fu di
voltarsi verso la morta, e la guardò con occhi cattivi come se la provocasse. Che parole gli venissero alla bocca non si
può dire perché più che parole erano frantumi d'immagini e di sensi, impastati tutti insieme sotto il peso d'una collera
terribile. Finì col sorridere e ciò lo sollevò.
Quando Tognin Maccagno tornò il solito Tognin Maccagno, ripiegò lentamente la carta in quattro, se la cacciò
in tasca accanto alla denuncia che doveva mandare il Berretta al cellulare. Raccolse con calma, fin con precisione i
gomitoli, gli occhiali, i santini, ne riempì di nuovo il ventre della borsa, tirò i cordoni, l'attaccò alla maniglia dell'uscio e
uscì mormorando in fondo dell'anima una frase scomposta e indecisa, qualche cosa che mirava ad augurare la buona
sera... e tornò nel salotto.
"Svelti i pretoccoli!" fu la prima espressione che dal guazzabuglio di tante sensazioni uscì con una formula
logica.
Buttò un'altra fascinetta sulla brace, e nel crepitìo allegro della fiamma colorita, rallegrò, riscaldò gli spiriti,
dissipò le ombre e il ribrezzo.
"Svelti i pretonzoli!" tornò a dire mentalmente, corrugando nella piccola fronte un fascio di rughe.
E dunque un uomo furbo come lui aveva lavorato tre anni a salvare la sostanza Ratta dalle mani degli
intriganti: un uomo abile come lui aveva ristaurato una ricchezza che dilagava come un vino prezioso da una vecchia
botte fessa; per tre anni egli aveva sopportato le più strambe fantasie d'una vecchia bisbetica, diviso con lei i suoi pranzi
di magro e i due soldi delle eterne partite a tarocco; si era fatto odiare e maledire per venire a questo bel costrutto, che
un pezzo di carta, richiamando in vigore il testamento del '78, la dava vinta all'avvocato Baruffa e lasciava il sor Tognin
Maccagno con tanto di naso. Oltre il danno, si vide davanti la bocca larga di don Giosuè Pianelli, e a questa idea della
canzonatura, lo spirito selvatico si arruffò... Ma il più dannato era il pensiero di dover rendere dei conti a questa gente,
di dover forse restituire ciò che non si poteva più restituire... Carta per carta, valevan di più quelle che da sei mesi egli
aveva consegnate al notaio Baltresca.
La fiamma, dopo aver avviluppato il grosso della fascinetta, scoppiò in una vampa rossastra che vibrò e ruggì
nella piccola gola, riempiendo il salotto di vita e di calore, ammaliando colle sue lingue serpentine il vecchio affarista,
che data un'occhiata intorno, cacciò la mano nella tasca di sotto. Le due carte uscirono insieme: confrontò alla luce del
fuoco, ne scelse una, e obbedendo a uno scatto nervoso, vide il bianco nel fuoco prima che avesse deliberato di
buttarvela. Le fiamme mordevano il cartoccio, destando nell'uomo quasi un senso di meraviglia. il cuore d'acciaio
picchiò cinque o sei colpi, la bocca si storse a un sogghigno senza gioia, le mani si apersero irrigidite e si aggrapparono
alle due gambe anteriori della sedia, come se cercassero un appoggio. La carta ripiegata in quattro resistette più che poté
alle lame taglienti, si accartocciò sugli angoli, mostrò nella brace purpurea i graffi della scrittura, ma la santissima
Trinità non poté impedire che una sostanza di quasi quattrocento mila lire, scritta in quel foglio, diventasse per chi
l'aveva scritta un pizzico di carbone.
Tognino Maccagno rimase a contemplare indurito in un senso di stupore quel pugnetto di carta nera, che si
ostinava a star compatta in bocca al fuoco, mostrando i segni rossastri della scrittura. Era un acre piacere che lo
inchiodava a contemplare gli avanzi di un tradimento. Tradimento di chi? non andò a cercare. Prese le molle e con un
colpo violento sfondò sparpagliò, confuse, scombuiando nella cenere e nel fuoco la carta che mandò molte piccole
anime nere su per la canna.
II. IL FUNERALE
Il giorno dopo, con un tempo umido e freddo, il portico, l'andito, la portineria, la scala furono fin dalle prime
ore pieni di gente accorsa a far onore alla povera signora Carolina.
Il signor Tognino, per mettere un argine ai pitocchi veri e falsi, che accorrono ai grossi morti come i mosconi
sullo zucchero, ordinò che si chiudesse un battente della porta e vi piantò due belle guardie di Questura.
La vecchia benefattrice era troppo conosciuta da quelle parti, perché la notizia della sua morte non avesse a
tirar gente dalle più lontane case del Borgo. Verso le dieci in Carrobbio si stentava a passare tanta era la folla.
Dei parenti non ne mancava uno, così dei Ratta come dei Maccagno, oltre i parenti dei parenti, gli amici, i
curiosi, venuti chi per interesse, chi per pietà, chi per dovere, chi per vedere.
I Maccagno, gente benestante, vestivano in nero e affettavano una certa preminenza, perché la morta era una
Maccagno. Pareva quasi che se ne vantassero. I Ratta invece si comportavano più dimessamente. Ce n'era d'ogni colore,
portinai, stampatori, mastri di muro (Gioacchino Ratta aveva cominciato anche lui col portar la secchia della calce),
piccoli bottegai, venditori girovaghi, quasi tutti con qualche segno del mestiere e della miseria indosso, chi male
infagottato nei panni d'inverno, chi livido e fresco nei pochi vestiti della festa.
Un piccolotto nero colla faccia fasciata in un fazzoletto pretendeva di cacciar indietro Giovan dell'Orghen, un
poveraccio quasi senza scarpe, col pretesto che non era un parente, ma Aquilino Ratta dimostrò che i pitocchi son tutti
fra loro fratelli nella santa miseria.
Il sor Tognino, bello e sbarbato, in abito nero, col cilindro fasciato a lutto, faceva gli onori di casa, tra
l'anticamera, l'uscio e il pianerottolo, stringendo la mano ai parenti di riguardo, salutando colla mano in aria i più
poveri, alzando le spalle, ritraendo il capo, socchiudendo gli occhi a quell'espressione politica e filosofica, che tradotta
in parole verrebbe a dire: "Che dobbiamo farci?" La Sidonia Maccagno, sorella di Tognino, maritata all'impresario
Mauro Borrola, sotto un gran cappello alla don Carlos, richiamava ancora gli occhi della gente colla sua bellezza
teatrale, che né i quarant'anni sonati, né le ciprie del palcoscenico avevano potuto cancellare dalla sua faccia larga e
matronale di Norma. Il cavaliere suo marito, glorioso avanzo d'una mezza dozzina di fallimenti, dominava anche lui
colle spalle e colla voce baritonale, d'un sonoro accento padovano, con cui in nome dell'ostia seguitava a brontolar
contro la folla dei pitocchi, come se avesse pagato il posto e il diritto di brontolare.
Vedendo che una nuvola di questa marmaglia sforzavasi d'invadere la scala, alzata una canna con grosso pomo
d'argento, sempre in nome dell'ostia, minacciò quella canaglia di far chiamare le guardie.
Il povero Berretta, livido come un panereccio e non ancora rimesso dallo spavento della notte, movevasi col
passo legato d'un sonnambulo in mezzo alla gente, sollevando ora una mano ora l'altra, senza impedir nulla, sotto la
persecuzione continua del cavalier Borrola, che gonfiando le ganasce, soffiando l'anima, lo minacciava dai primi scalini
col bianco degli occhi. E il bello è che il portinaio né conosceva quel grasso signore dai baffi tirati in punta, dipinto
come una tavolozza, né capiva quel che volesse da lui col suo bastone in aria e col suo fiol d'on can .
Arrivò a tempo Ferruccio con un fascio di candele che consegnò a suo padre perché fossero distribuite.
Entrò a tempo anche la carrozza funebre, che, descritto un bell'ovale nella neve fresca della corte, venne a
collocarsi sotto il portico, tagliando in due parti la folla, i signori verso la scala, la poveraglia verso la cantina. Sui
berretti molli, sui cappelli a cencio, sui fazzoletti delle povere donne svolazzava il tricorno di don Giosuè Pianelli, un
vecchio prete sepolto nel bavero d'un gran tabarro allacciato con una grossa catena di ferro sotto il mento.
Accanto gli stava cogli occhi velati dai neri sopracigli l'avvocato Baruffa, di cui la testa lucida e nuda
splendeva in mezzo ai colori scuri come un grosso uovo di struzzo.
Aquilino Ratta, il vice-ricevitore del regio lotto, cercò d'accostare il prete e d'interrogarlo pulitamente, col
dovuto rispetto alla circostanza, su quelle che dicevano le probabilità d'un testamento, mediante il quale... per il quale...
Don Giosuè, scrollando il tabarro in furia, brontolò qualche cosa in fondo al bavero, e cambiò posto. Fu avvicinato da
questa parte da Salvatore Boffa, il fonditore di caratteri di stampa (l'uomo dalla ganascia fasciata), che, soffiando le
parole come gli permetteva la flussione, toccò ancora il tasto del testamento. Don Giosuè alzò gli occhi al cielo e parve
sprofondare nel bavero come in una botola.
Nell'angusto passo della portineria la Santina, la donna di servizio che il sor Tognino aveva messo
rabbiosamente alla porta, si profondeva in lagrime avvolta in uno scialle nero che le dava l'aspetto di una sanguisuga.
Con tanta ressa di gente che ingombrava la scala e il portico la povera vecchia Ratta stentò a farsi strada,
quando la portarono abbasso nel suo ultimo vestito di legno bianco. Intanto la processione dei preti e dei chierici colla
croce, preso in mezzo Lorenzo Maccagno, lo trascinò, rimorchiandolo fin presso le ruote del carro, tenendolo
imprigionato in un cerchio di candele accese. I preti cominciarono a brontolare orazioni. Lorenzo, chiuso in mezzo dalle
cotte, cercò di salvare il cappello nuovo dalle sgocciolature, e se ne servì come di scudo per difendersi dagli occhi
maliziosi della zia Sidonia, che rideva dietro le spalle massiccie del cavalier marito. Nell'andar via cogli occhi da quella
tentazione, ne incontrò un'altra, a una finestra del secondo piano, dove la bella Olimpia, ancora spettinata, stava spiando
nello spiraglio tra due gelosie.
Il brontolamento dei preti rimescolò subito le viscere del cavalier Borrola, libero pensatore e framasson
padovan, che non poté trattener anche lui il suo rosario contro il botteghin e il bottegon, contro una razza di mangiapan,
che vivono alle spalle dei credenzoni...
Il bravo fallito, gonfiando gli occhi, esprimeva questi suoi sentimenti con una voce di moscone irritato,
movendo la punta dei baffi come gli indici d'un grosso orologio. Un poco di più avrebbe fatto nascere uno scandalo, se a
un tratto la voce stizzosa e chiara del sor Tognino in cima alla scala e lo scalpitare dei cavalli, che menavan via la
morta, non avessero sviata l'attenzione dei dolenti per così chiamarli.
Una donna, certa Angiolina, ortolana di professione, parente anche lei della defunta, essendo venuta in
cognizione che la vecchia Ratta aveva lasciato delle disposizioni a favore dei parenti poveri, sgusciando tra la folla in
coda ai becchini, aveva colto il bravo sor Tognino sulla soglia dell'appartamento e pretendeva avere da lui qualche
notizia positiva. Il sor Tognino la fermò sull'uscio e cercò mostrarle che non era proprio il momento più opportuno di
parlar di affari, per bacco! Le carte erano nelle mani del notaio Baltresca...
"Baltresca o Baltrosca..." ribatté la donna, che dalle voci era indotta a creder poco al bravo parente, "vuol dire
che ci saremo anche noi." E usando la metafora che in verziere è come un manico d'avorio infilato sopra una lama
ordinaria, seguitò, alzando la voce: "Badiamo a non fare il gatto, perché noi ai gatti che allungano troppo lo zampino
tagliamo la coda e se non basta la coda tagliamo anche gli orecchi..."
Il sor Tognino colse un buon momento e chiuse l'uscio sul muso alla pettegola.
Il corteo, infilato l'androne della porta piegò a sinistra e si distese come una vera biscia lungo il corso di Porta
Ticinese, verso la parrocchiale di San Lorenzo. Ai cordoni si trovarono, un po' per caso, un po' per accordi presi,
Sidonia Maccagno maritata al cavalier Borrola, Celestina maritata a Michele Ratta lattivendolo, Paolina Bianconi
maritata a un Maccagno, orefice all'insegna dell'àncora, e Arabella Pianelli, da tre mesi sposa a Lorenzo Maccagno.
Casa Maccagno su tutta la linea.
Nel via vai delle vetture, dei carri, dei tram, della folla che brulica in quel popoloso quartiere, il funerale si
allungò nel piacicchiccio sudicio della strada, dove il fango affogava la neve, passando a sinistra delle antiche colonne
romane, che sfidano nella loro marmorea indifferenza l'indifferenza più che marmorea che i cinquemila bottegai della
parrocchia dimostrano per la loro classica antichità.
La gente si arrestava a guardare un poco, sbadatamente, a questo fatto così comune del morto che passa, che
nelle grandi città non suscita più in chi vede se non il fastidio di aspettare che passi. Quindi la folla si rimescola e
seguita a scorrere nel declivio dolce e potente della vita.
Il sor Tognino aspettò che tutti fossero usciti e, chiuso l'appartamento, tenne dietro al funerale col suo passetto
corto e strisciato, mentre andava infilando un paio di guanti di pelle. Raggiunto il corteo si accostò a Lorenzo e gli
disse:
"Perché hai permesso ad Arabella d'uscire con questo tempo? Non avete proprio nessun giudizio".
"Se tu sai persuadere le donne quando si fissano un'idea..." osservò sorridendo il giovine.
"Nel suo stato è giusto prudenza uscir di casa e il cacciarsi nella folla!"
"Bravo, diglielo..."
Il vecchio Maccagno aspettò il momento che la morta stava per entrare in chiesa, chiamò in disparte la nuora, e
le disse:
"Non voglio che lei resti a prender altro freddo. Dia ascolto a me, torni a casa..."
"Mi sento bene..."
"Oggi si sente bene e domani potrebbe sentirsi male. Venga con me, abbia pazienza. Passa il tram, torni a casa,
e si faccia dare una bell'acqua calda dall'Augusta. E cambi subito le scarpe. Nel suo stato non deve esporsi agli
strapazzi."
"Obbedirò..." disse Arabella con un leggiero sorriso.
"Brava, venga con me."
Il suocero tornò dieci passi indietro, fece arrestare un tram, accompagnò la nuora fino al carrozzone, ne pagò il
posto, osservando che non fosse sulla corrente dell'aria, e tornò a dire:
"Faccia fermare davanti alla porta". E rivoltosi al conduttore, soggiunse: "Fermati in via Torino, alla porta del
dentista..."
"Lo so" disse il conduttore, salutando il signor Maccagno come persona conosciuta.
Il vecchietto seguitò cogli occhi un pezzo la carrozza, e indicando colla mano le scarpe, raccomandò ancora
una volta all'Arabella di cambiare le sue appena a casa. Quindi tornò in chiesa, mentre i preti intonavano il "Beati
mortui", e andò a collocarsi vicino al Botola, un suo vecchio amico d'infanzia, col quale cominciò un discorso molto
vivo. Tre passi dietro di lui l'ortolana, alzando la voce come se fosse in verziere, ripeteva al Boffa e ad Aquilino Ratta:
"Per me, se non vedo le cose chiare, l'ho dichiarato a questo impostore: faccio un altro quarantotto".
III. NELL'AMMEZZATO
"Io ti regalerò questo paio di calze, Ferruccio, ma tu devi spiegarmi un mistero, cioè, come ha fatto il signor
Lorenzo a sposare la signora Arabella."
Così prese a dire la zia Colomba, una vecchietta forte e vivace, mentre scioglieva i gruppi di un grosso fagotto
che teneva sui ginocchi.
Ferruccio arrossì un poco e prima ch'egli avesse tempo di rispondere, la zia Colomba riprese:
"Dimmi un po': non è essa la figliuola di quel povero sor Cesarino, che si è ammazzato per debiti otto o dieci
anni fa? Devi ricordartene, perché fu uno di quei casi che fanno impressione. La sua mamma sposò in seconde nozze un
buon uomo di campagna, se non mi sbaglio".
"È così."
"I Pianelli abitavano in Carrobbio, quando io servivo presso i Grissini e mi ricordo bene di quella cara
biondina, che aveva due occhi pieni di sentimento. Era una donnina fin d'allora. L'ho ben riconosciuta l'altro dì al
funerale della povera signora e ho visto che è diventata una bell'asta di donna, con un faccino rosso e delicato. Come ha
fatto a sposare questo disutile dal faccione grasso di frate sbarbato?"
Ferruccio, alzando un dito davanti alla bocca l'avvertì di parlar pianino. Il sor Tognino poteva entrare da un
momento all'altro.
"Quel suo patrigno" seguitò poi sottovoce "fece delle cattive speculazioni, si trovò in gravi imbarazzi e dovette
cercare dei capitali al sor Tognino, capitali che non fu più in grado di restituire. Il matrimonio, pare, accomodò molti
interessi"
"Ho capito. Sempre così. Gli uomini fanno i cattivi affari e tocca alle povere donne d'aggiustarli. Voi stracciate
e a noi tocca rattoppare, birboni..."
"Però" s'arrischiò a dire il ragazzo "in casa le voglion bene e la trattano con tutti i riguardi."
"È vero, sì o no, che questo babbeo di suo marito ha sempre fatta una vita allegra coi denari del papà e che fino
a ieri ha mandato in lusso una cantante?"
Ferruccio tornò ad arrossire, come se la zia Colomba gliene facesse carico a lui.
"Non è un uomo cattivo nemmeno lui" disse dopo un istante. "Non nego che abbia fatte le sue: è ricco, ha buon
cuore."
"Dàllo ai merli questo cuore!" ripigliò con una certa furia la zia Colomba, agitando le cocche del bel fazzoletto
di seta, che aveva posato sulla testa contro i rigori del freddo. "Tu sei un mezzo chierico e non conosci il mondo; ma
dacché sei entrato in questa casa, io non ho mai avuto il cuore tranquillo. Tutti i giorni faccio le mie indagini e, dico la
verità, vedrei volentieri che tu cercassi qualche cosa di meglio. Tu non hai sposato nessuno, fortunatamente, e puoi
spolverare le scarpe quando vuoi e andartene. Non è il nostro genere. Gente senza legge e senza fede, che per un
quattrino venderebbero l'anima a berlicche! Di religione non si parla; il padre peggiore del figlio e il figlio sulla strada
di diventar peggiore del padre. A me, ripeto, dispiace immensamente che tu sia venuto a masticare questo pane; lo
dicevo anche ieri alla zia Nunziadina. In questa tana non hai nulla di buono da imparare."
Ferruccio indicò col pollice un uscio dietro di lui e si portò di nuovo l'indice alla bocca.
La zia Colomba alzò le spalle, come se non gliene importasse nulla che la sentissero, tentennò un pezzo il
capo, e abbassando di nuovo la voce fin dove glielo permetteva il calore del discorso, soggiunse:
"Sì, mi rincresce, e vedrei volentieri che tu cercassi un altro sito, il mio bene".
Ferruccio, figlio di Pietro Berretta, da un anno circa, dacché rinunciando alla vocazione era uscito dal
Seminario, andava cercando la sua strada, e solamente per non essere d'aggravio ai suoi, s'era adattato a scrivere nello
studio del sor Tognino.
Non avendo potuto trovar posto nella portineria, era andato a convivere colla zia Colomba e colla zia
Nunziadina, sorelle di sua madre, in una casetta di via San Barnaba, posta tra il convento dei barnabiti e l'ospedale, un
luogo segreto tra molti giardini, dove l'erba si fa strada in mezzo ai ciottoli, dove qualche macchia di vecchie piante
resiste ancora agli urti della civiltà.
La zia Nunziadina, una nanina che reggevasi su due piccole gruccie, alta un braccio da terra, con un faccino
profilato e bianco, tutta cuor di Gesù, lavorava i pizzi da chiesa, mentre la Colomba, che potevasi paragonare a un
gruppo di rovere, andava intorno coi fagotti, al Monte di Pietà a comperare e per le case a vendere.
La povera nanina non era meno attaccata a Ferruccio di quel che fosse la sorella.
Anche lei, che viveva in un guscio, aveva seguito il figlio della povera Marietta per tutti gli anni che il chierico
rimase in Seminario, mettendo in disparte i pizzi più belli e un cassettone di refe per le gambe del futuro ministro di
Dio.
Quel dì che per qualche contrasto il ragazzo dichiarò di non voler andar avanti, la zia Nunziadina non gli tolse
il suo amore per questo. Il refe non era ancor tinto. E questo amore diventò ancora più tenero, quando le due zitellone,
conosciute nel quartiere col nome di "due beate", ebbero la fortuna di tirarsi il giovane in casa e di covarlo come si cova
un uovo. La zia Nunziadina gli cedette subito il suo stanzino pieno di quadretti e di rosari, che dava sul giardino di casa
Merliani, e lei si ridusse a dormire nella stanza vicina, insieme alla Colomba. In mezzo non c'era che una cucina, che
serviva anche di salotto, col telaio e il seggiolone della sciancatella sotto la finestra vicino al ballatoio. Davanti apriva il
suo grandioso ombrello un vecchio castano amaro, dalle braccia robuste, che d'estate sbatteva nelle chiare stanzette una
fresca e tremolante luce verdognola. Le "due beate" vivevano come in paradiso, al di sopra degli stenti, colla chiesa
sull'uscio, colla vista dei giardinetti, risparmiando ogni giorno qualche soldo, che andava a ingrossare un libretto di
risparmio, che la zia Colomba consegnava per sicurezza al padre Barca, il dotto rosminiano, autore di una "Cosmogonia
mosaica" molto riputata.
Ferruccio, per non essere di aggravio alle zie, procurava di tornar utile in casa, attingendo acqua, portando
legna e carbone, uscendo e tornando colla cesta della roba stirata, aiutando la zia Nunziadina a increspare, a
incannettare le cotte e i camici, a riscaldare i ferri: o correva al Monte, durante la vendita, per aiutare la zia Colomba a
trasportare la mercanzia. Il suo sogno era di poter entrare presso un libraio a far pratica, dove potesse adoperar meglio le
cognizioni e l'ingegno, e per un pezzo sperò colla raccomandazione del padre Barca di essere assunto da un editore di
operette religiose; ma sul più bello il libraio fece affari d'autore e fallì. Seguirono giorni di grande malinconia per il
povero ragazzo, che si vedeva lungo e inutile. Egli non poteva passar la vita a contemplare la zia Nunziadina, che
lavorava le sue dodici ore senza far rumore, tra le tortorelle che passeggiavano in cucina a beccare nelle screpolature dei
mattoni. In questi momenti tanta tristezza gl'invadeva il cuore, che se ne trovava il viso molle.
"Come si fa, zia? i posti non si trovano mica sempre secondo i nostri desideri, e io sono stufo di vivere alle
vostre spalle, povera gente anche voi. Del resto, in cinque mesi che mi trovo a lavorare col sor Tognino, non mi sono
accorto ch'egli sia quel diavolo d'usuraio che dite voi. È un uomo d'ingegno, lesto, che lavora come un giovinotto. Ora
mi dà sessanta lire e capite, zia, che nel mio caso non è facile trovarle dappertutto sessanta lire."
Questi discorsi avevano luogo in un basso ammezzato che serviva di anticamera allo studio del sor Tognino.
Una larga finestra, che occupava quasi tutta la parete, riceveva luce da una corte in cui l'aria colava con un
color scialbo d'aria vecchia. In giro eran molte finestre che si guardavano in faccia.
La casa è un'alta e bella costruzione recente, posta quasi nel cuore della città, con molte botteghe verso la via
Torino, con eleganti balconi al primo e secondo piano, con un portone signorile, su cui domina l'iscrizione cubitale d'un
dentista tra due massicci denti molari. Sugli stipiti sono molti cartelli e lamine scritte, che dànno all'edificio il carattere
d'un gran magazzino.
Dalla parte degli ammezzati invece una porta secondaria viene quasi ad addossarsi alle logore costruzioni della
vecchia Milano, e serve di sfogo ai retrobottega e agli appartamenti, a cui si accede per via d'una scaluccia sempre
sporca e bagnata. Qui era lo studio del padrone di casa, ossia di colui che i casigliani riconoscevano per il padrone di
casa, perché a lui pagavano due volte l'anno la pigione; ma in realtà il signor Maccagno non era che rappresentante o
subaffittario interessato d'una Compagnia di assicurazione che aveva fatto poco buoni affari.
Dopo un po' di silenzio la Colomba, che per la prima volta poneva il piede in quella tana, prese a dire:
"Io non voglio, il mio bene, importi la mia volontà. Tu hai raggiunta l'età del giudizio e sai distinguere da te
quel che va fatto. Hai studiato anche il latino, sicché, figuriamoci! Ciò che importa a questo mondo è di non perdere il
timor di Dio. Anche di camicie stai male, ma spero rilevarne una mezza dozzina al Monte al prezzo di quattro lire l'una,
se quel della tromba manterrà la parola. Son belle camicie nuove, di tela forestiera, che forse hanno appartenuto a
qualche conte sbagliato. Son forse, un po' larghe, ma tu pensa a ingrassare, anima mia... E quella chi è?"
L'improvvisa domanda fu accompagnata da un gesto verso una ragazza che scendeva la scala (di cui vedevasi
un gomito dalla finestra) facendo cantare un secchiello di rame.
"È la cameriera della signora."
"Come si chiama?"
"Augusta."
"È un bel nome, ma ha certi occhi! Non sarebbe meglio che tu voltassi le spalle alla finestra, quando scrivi?"
"Non ci si vede, cara zia" rispose Ferruccio, ridendo con sicurezza, come chi ha l'animo tranquillo.
"Tu che hai studiato il latino sai come si dice: Oculos porta peccatorum ."
La vecchietta allegra e rubizza rideva ancora a sentirsi in bocca il latino, quando l'uscio si aprì bel bello ed
entrarono Aquilino Ratta, il vice-ricevitore del lotto, Salvatore Boffa il fonditore di caratteri e l'Angiolina l'ortolana,
venuti in deputazione per parlare al sor Tognino, loro mezzo parente, sull'argomento del testamento Ratta.
Era il consiglio che aveva dato loro l'avvocato Baruffa.
"Non c'è," disse Ferruccio "ma tornerà verso mezzodì. Se possono aspettare cinque minuti..."
"A me pare che dal momento che siamo venuti possiamo anche aspettare..." osservò il vice-ricevitore col
tono di chi fa una proposta ragionevole.
"Aspettiamo pure" gorgheggiò con una cantilena tutta sua particolare l'ortolana, che, riconosciuta la Colomba,
riprese a dire: "Come? anche la Colomba nella casa dei ladri?"
La donna, che stava stringendo i gruppi di due grossi involti, l'uno di panno verde l'altro in un fazzoletto rosso
di cotone, raccontò d'esser venuta a parlare a quel suo ragazzo, che era figlio della povera sua sorella Marietta. Toccava
a lei a fargli da mamma e a rattoppargli i quattro stracci, perché il figliuolo, dacché era uscito dal Seminario, si trovava
come perso nel mondo. A trovare un onesto boccone di pane, spavento! in giornata è diventato un affar serio.
"In giornata la fortuna è dei ladri e dei Tognini" declamò l'Angiolina colla voce fresca, che usava in verziere al
tempo delle prime fragole.
"Io direi, punto primo, di non guastare la torta" osservò colla naturale prudenza il vice-ricevitore, che amava
in ogni questione star sempre dalla parte della ragione.
Prima di fare degli scandali era bene parlare amichevolmente col loro parente, sentir le due campane e
ragionare. A ragionare ci s'intende, e per ragionare non è necessario gridare...
Salvatore Boffa, quel piccolotto nero che aveva ancora la faccia rifasciata nel fazzoletto, alzò il capo, socchiuse
gli occhi, dimenò le mani forse per dire: "Le donne, falle tacere le donne..." Ma non uscì che un sordo mugolìo.
"Torto o torta, qualche cosa dovremo rompere del sicuro" seguitò colla sua indomabile ostinazione la donna,
facendo scorrere le mani sulle maniche, come se si preparasse a lavare. "La Colomba sa bene anche lei di che cosa si
tratta."
"Io non so nulla, caro il mio bene. Io sto laggiù a San Barnaba, fuori del mondo."
"Come? non sapete che Tognino Gattagno" (e accompagnò il nome col gesto di chi gratta l'aria) "ha fatto
scomparire un testamento di quattrocento mila lire?" "Scomparire..." osservò sorridendo Aquilino, che non amava le
asserzioni avventate. "Punto primo..."
"Sissignori! un testamento, in cui, dire a dire, è impegnato il sangue di tanta povera gente."
"Noi non sappiamo se l'ha fatto sparire o se non l'ha fatto..."
"Caro il mio regio impiegato, si vede proprio che il cilindro vi scalda la testa."
Angiolina volle alludere al cappello che Aquilino aveva preso per la circostanza, perché Tognino non dicesse
in nessun modo che i parenti gli avevano mancato dei debiti riguardi.
"Non sappiamo? è vero o non è vero che quella vecchia ha lasciato una sostanza di quattrocento mila lire? non
l'ha detto il notaio? non l'ha detto l'avvocato? non l'ha detto don Giosuè? è vero o non è vero che questo birbone s'è
pappato tutto?"
"Noi siamo venuti per discorrere, e per discorrere bisogna, punto primo, discorrere, è vero?"
Aquilino, che non si curava mai del punto secondo dei suoi ragionamenti, si volse verso Ferruccio per avere
una testimonianza in un giovinotto serio, che sapeva scrivere.
Anche il vice-ricevitore, per dir la verità, lusingato un po' troppo nelle sue speranze, dopo aver lasciato
vincere alla vecchia parente delle partite a tarocco, ch'era un peccato a strapazzarle a quel modo, anche lui era rimasto
scosso e mortificato quando il notaio assicurò che Tognino aveva ereditato tutto. Un uomo, per quanto prudente e
ragionevole, non è di legno. Alla povera Carolina, Aquilino aveva fin strappato un dente, ed è sempre una cosa ingrata
dover sputar fuori una buona speranza.
Il testamento faceva obbligo all'erede universale di assegnare ai parenti di secondo e terzo grado un regalo, una
mancia una volta tanto: ma Aquilino Ratta aveva dignitosamente rifiutato l'elemosina. Un Aquilino che si è battuto a
Mestre e ha fatto il quarantotto non riceve elemosine. Con tutto questo non poteva approvare il sistema di violenza con
cui i diseredati credevano di farsi rendere giustizia, punto primo, perché la violenza ha sempre torto...
"Non conoscevo questa storia del testamento" disse la Colomba, cercando cogli occhi il figliuolo, che stava lì
come incantato anche lui a sentire. "Possibile? una sostanza di quattrocento mila lire?"
"Tutta lui!" ripigliò l'Angiolina, agitando i dieci diti raccolti in due pugnetti sotto il naso della Colomba. "E
questo cilindrone non vuole che io dica che Raffagno è degno della galera... E dire a dire che siamo una masnada di
bisognosi, senza contare i morti di fame, corpo d'una biscia! che stentano a star diritti se tira vento. Infame, tutto per lui
e per le sue sgualdrine!"
La donna eccitata e sferzata dalla sua passione parlava cogli occhi infiammati, colla faccia in su, coi pugni
chiusi e puntellati sul grosso dei fianchi, assorbendo in sé tutta l'anima della Colomba e dei tre uomini che le stavano
intorno.
"Quattro...cento...mila lire!" sillabò ancora una volta, parlando quasi coi denti, verso la Colomba, che infilati i
due fagotti, congiunse le mani in un atto di pietosa commiserazione.
E l'ortolana, postandosi sul piede destro, avanzato l'altro come se si preparasse a ballare il minuetto, colle due
braccia piegate sulle anche, come due solide anse d'un'olla di bronzo, stava per aggiungere una lunga frangia, quando,
proprio in quel punto, l'uscio di scala si schiuse, spinto da una mano dolce, e Arabella entrò col suo passo leggiero,
dicendo:
"Scusi, signor Ferruccio..." e vista dell'altra gente, fece un inchino colla testa, ripetendo: "Scusino..."
Era vestita d'un lungo soprabito di velluto con orli e risvolti di pelliccia, con un cappello di mezzo lutto
guarnito di nastri violetti, che scendevano a fasciarle le fattezze delicate del volto. Teneva le mani in un piccolo
manicotto d'un pelo lungo e floscio, che premeva sul grembo. Entrò col respiro un po' affaticato (essa era già sui due
mesi) portando in quell'aria ottenebrata e pregna dell'acre odore della muffa e dell'inchiostro un delicato profumo di
ireos...
Porse un foglio a Ferruccio, dicendo:
"Le ho portato il promemoria della povera Teresa Stella. Sono stata ieri a vederla e fa veramente compassione.
Ha il marito malato all'Ospedale e tre figliuoletti senza pane. La stanza non può pagarla assolutamente; non è mica un
pretesto. Lo dica a mio suocero".
"Sissignora, glielo dirò."
"Se no, pagherò io per lei."
"Sissignora..." rispose di nuovo Ferruccio, movendo il capo come un arlecchino snodato.
"Se le può perdonare il semestre, fa un'opera di carità."
"Sissignora."
Ferruccio rosso più del fuoco corse ad aprir l'uscio, come se avesse bisogno di mandarla via subito. Tremava
tutto.
"La permette, la mia bella signora, che io la riverisca?" disse la zia Colomba, facendosi avanti con una
riverenza e co' suoi due fagotti infilati sulle braccia. E mentre Arabella le fissava gli occhi in faccia: "Son la Colomba,
che servivo i Grissini, la zia di questo figliuolo, si ricorda?"
"Molto bene: e vi trovo tal e quale. Come state, Colomba?"
"Si resiste. E la sua bella mammina sta bene? Come s'è fatta grande e bella, angeli custodi. Non è più quella
magrina bionda che trovavo sulle scale, si ricorda? Ho dovuto domandare a Ferruccio..."
"Brava! venite a trovarmi qualche volta."
"Certo, volentieri: mi farà una grazia."
"Lei si ricorda..." riprese a dire Arabella rivolta verso il giovane. "una carità..."
"Sissignora..."
Ferruccio aprì di nuovo l'uscio e si affrettò a chiuderglielo dietro le spalle, come se cercasse di tenerla fuori per
sempre.
"Ci vuol altro che vestirsi di velluto, brutta smorfiosa" entrò a dire l'Angiolina subito dopo. "Ci vuol altro che i
cappellini e che il fare la carità col sangue della povera gente, sgualdrinetta."
"Che colpa ne ha lei?..." osservò la Colomba.
"Le solite esagerazioni..." soggiunse Aquilino, crollando il capo in aria di compatimento.
Ferruccio, pallido e irritato, stava cercando anche lui una parola di difesa, quando la voce chiara e nervosa del
sor Tognino, che risonò sul pianerottolo, diede una scossa ai pensieri dei tre delegati e agitò la zia Colomba, che
avrebbe voluto essere già lontana tre miglia.
"Non voglio assolutamente che lei passi di qui" diceva il vecchio suocero ad Arabella. "Sta bene, sta bene, ma
può parlare con me senza bisogno di tanti avvocati."
E ancora infiammato in viso aprì l'uscio e con gli occhi semichiusi, come fanno oltre ai corti di vista coloro che
non vogliono vedere, adocchiò gli illustri personaggi che stavano aspettando l'udienza.
Aquilino, volendo prendere una rispettosa iniziativa, dondolò un poco sulle gambe a guisa di canna, e agitando
il suo cilindro prese a dire:
"Sono io, caro sor Tognino, io Aquilino Ratta, sicuro: e questi son due nostri buoni parenti, coi quali, per i
quali siamo venuti, se lei ha tempo un piccolo momentino, perché vorressimo, punto primo, discorrere un poco in
intuito di quel testamento di quella povera Carolina nostra parente, per la quale..."
"Aaah!" cantarellò in tono nasale il vecchio affarista, come se cascasse dalle nuvole. "Passate di qui…" ed
entrò per primo nello studio.
Aquilino si rivolse all'Angiolina e alzato un dito diritto come una lancia, le raccomandò ancora una volta la
prudenza. "Parlo io!" disse con quel dito in aria, e andò avanti. Il Boffa lo seguì. Ultima fu l'Angiolina che, data una
scossa tremenda alla Colomba, volle tirarsi un altro chiodo dallo stomaco:
"O vediamo i soldi, Colomba, o si fa il quarantotto!"
E trottolò dietro gli uomini.
"O zia Colomba!" proruppe Ferruccio, pallido in viso, correndo presso la donna. "Che storia è questa? avete
sentito che brutte parole? e che c'entra la signora Arabella?"
"Io non so niente, il mio bene, io sto a San Barnaba; ma non mi meraviglio di niente. Il denaro è peggiore del
diavolo che l'ha inventato. Andrò in cerca di tuo padre e mi farò contare la storia di questo testamento. Io ho detto
subito che quella povera creatura era in bocca ai cani..."
"Saranno le solite esagerazioni..."
"Non mi meraviglio di nulla, e torno a dire, vedrei volentieri che tu cercassi un pane migliore. Vieni a casa
presto stasera e ne parleremo anche colla zia Nunziadina."
IV. I PENSIERI DELLA ZIA COLOMBA
La Colomba tornò a casa un po' più tardi del solito, avendo voluto prima parlare con suo cognato Berretta,
circa le voci che correvano su questa benedetta eredità.
Essa temeva che Ferruccio avesse a trovarsi implicato in qualche brutto intrigo e desiderava ancora più di
prima che, potendo, cambiasse aria al più presto.
Trovò il Berretta più brutto del solito nel bugigattolo della portineria, tutto occupato a far dei punti in una
vecchia livrea di casa Mainona, al lume di un moccoletto di sego, che se rompeva il buio della stanzuccia, sfigurava
davanti al chiaro della strada. A Sant'Antonio il giorno si prolunga di un'ora buona: e in certe giornate serene il sole
arriva quasi a tempo a vedere la minestra in tavola.
"Ho visto Ferruccio" cominciò la Colomba, mettendosi a sedere senza tirar le braccia dai grossi fagotti, che
appoggiò sui ginocchi "e mi ha detto che il suo principale gli ha aumentato il mese. È una bella cosa, ma non vorrei che
con questi denari il povero figliuolo avesse a comperarsi dei fastidi e molto meno degli aggravi di coscienza. Che razza
d'uomo è questo vostro principale? Io non l'ho visto che alla sfuggita e mi ha la figura di una faina. È vero che ha fatto i
denari in ogni maniera? che a Milano possiede certe case dove, per esempio, non vorrei che Ferruccio andasse a dire il
rosario? e che storia è questa del testamento rubato, che so io? di un'eredità di quattrocento mila lire; che il bravo uomo,
si dice, avrebbe fatto scappare? Voi che cosa ne sapete? perché io ho sentito oggi parole di fuoco e quando la gente
comincia a tirar sassi contro un cane rabbioso c'è pericolo che i sassi rompano qualche cosa e colpiscano la testa della
gente che passa. Ferruccio è un povero chierico che ha ancora la sua prima innocenza e non vorrei che si trovasse, senza
accorgersi, implicato in un affaraccio. Il gatto bianco che va a dormire nel carbone bisogna che si svegli nero la mattina.
Siamo povera gente a cui piace morire in pace; e il male, parlando con poco rispetto, è come la rogna: chi l'ha l'attacca."
Il Berretta lasciò cadere il lavoro sui ginocchi e, guardando la cognata attraverso i vetri grossi degli occhiali,
prese a dire con un tono mezzo canzonatorio:
"Vedete che io faccio il sarto"
"Il fare il sarto non v'impedisce di vedere chi va e chi viene dalla vostra porta, e non deve nemmeno impedirvi
d'occuparvi del bene del vostro figliuolo."
"Egli aveva trovato un benefattore che lo faceva studiare."
"Lasciamo stare questa storia, che non c'entra adesso. Se il figliuolo non si è sentito di fare il prete, ha mostrato
della forza d'animo e della coscienza a buttare il collarino nelle ortiche. Di preti senza vocazione il Signore non sa che
cosa farne. Io parlo del Ferruccio d'oggi, anima benedetta!"
"Se gli dànno sessanta lire al mese..." brontolò svogliato il portinaio, ripigliando a far dei punti nella livrea.
"Scusate, Pietro: ci sono dei mestieri, in cui si possono guadagnare comodamente duecento e trecento lire al
mese solamente ad aprir l'uscio al diavolo. Se voi mi servite per sessanta lire di chiodi in minestra e se io devo digerire
la vostra generosità, grazie della vostra minestra: preferisco la polenta condita di fame. Ora i rimorsi sono come un
carico di chiodi per la coscienza."
Il sarto chinò il capo, addentò il gruppo del filo e se lo rosicchiò, alzando le spalle, come se il discorso non lo
riguardasse.
"Che cosa c'è di vero dunque in questa storia dell'eredità?" tornò a domandare la Colomba, appoggiando il viso
al fagotto rosso.
"Domandate a me?"
"Con chi parlo se non con voi?" scattò a dire la donna facendosi rossa come il suo fagotto. "L'Angiolina
l'ortolana, Aquilino Ratta, se non isbaglio, un ometto magro che parla bene..."
"Conosco io questa gente?" ribatté il portinaio, quasi contento di poter rispondere alle domande con altre
domande altrettanto noiose e inconcludenti.
"È impossibile che non ne sappiate qualche cosa. La Ratta non è morta qui?"
"E sono io il confessore delle vecchie che muoiono?"
"Saprete almeno dire se il vostro padrone è un galantuomo e se quel che dicono di lui sono bugie?"
"Io?" tornò a domandare il Berretta, indicandosi colle grosse cesoie. "Io faccio il sarto."
"Sapete almeno quel che vi costa l'acquavite che bevete in un giorno e che vi rende stordito come una oca?"
proruppe la Colomba alzandosi, colle fiamme ai pomelli del viso, fiutando nell'aria il puzzo di cui era impregnato lo
stanzino. "Io sono venuta per il bene di Ferruccio e non per sapere gli affari degli altri, e molto meno i vostri. Voi fate il
sarto e io compero la roba al Monte: state allegro e diverrete grasso, Berretta."
E se ne andò dopo aver infilato l'uno dopo l'altro i due fagotti nello stretto passaggio dell'invetriata.
Il Berretta buttò le cesoie sul tavolo con grande fracasso, soffiando forte di dispetto e di disperazione. Che
venivano a rompere la testa a lui? potevano battere un morto con più profitto. Quando un uomo è sull'orlo di essere
impiccato, è giusto a lui che si deve far la questione di che filo è fatta la corda! Lui non conosceva nessuno, né
Aquilino, né Pasqualino, né Maddalena, né Bartolomeo; lui faceva il sarto. Chi sa dire fin dove un uomo è galantuomo e
fin dove è briccone? ma quando il sor Tognino avesse dato corso alla denuncia, non c'era più un cane in Milano che
avrebbe potuto salvare un povero tristo dal cellulare. A quest'idea il povero Berretta rabbrividiva fin nel fondo degli ossi
e non era che per cacciar quel freddo dalla midolla che, non avendo più vino, raccomandavasi all'acquavite.
La Colomba, co' suoi due fagotti infilati sulle braccia, traversò mezzo Milano nell'ora che già cominciavano a
illuminarsi le botteghe e a spuntare le fiammelle rossiccie dei lampioni a gaz nella lunghezza delle strade.
Dal Carrobbio alla via di San Barnaba è una bella passeggiata ma la buona donna, che dalle undici batteva il
selciato e aveva fatto più di una scala, non sentì la fatica, se non quando pose il corpo a riposare sopra una sedia. Allora
le gambe e i due polsi indolenziti dal peso della roba cominciarono a protestare e si lamentarono tutta la notte. Ma fin
che fu in moto ella non si accorse del peso degli anni e del corpo, come se un pensiero più forte di lei la tirasse dietro e
la facesse camminare un dito sollevata da terra.
Quel benedetto figliuolo le stava sul cuore.
Dacché Ferruccio aveva lasciato il seminario, vale a dire da quasi un anno, non aveva mai potuto imbroccare
una buona strada e c'era pericolo che domani avesse a trovarsi da capo, al sicut erat in principio , perché non
basta dire: questo è pane... ma bisogna sapere di che cosa è fatto il pane che si mangia. Ora, quando Ferruccio avesse
dovuto ingrassare il corpo a danno dell'anima, né la Colomba, né la Nunziadina non avrebbero permesso, e bisognava
tornar da capo a cercare un boccone meno duro.
Seguendo le peripezie per cui era passato il ragazzo ne' suoi vent'anni di vita, dal dì che era venuto al mondo,
dando la morte alla sua mamma, il pensiero della Colomba tornava indietro e arrestavasi alla storia della povera
Marietta, che aveva sposato il Berretta, ma che proprio un gran bene non l'aveva mai voluto a quel povero martoro di
sarto. La Marietta era stata una testa romantica e anche Ferruccio aveva una tendenza a scaldarsi l'immaginazione dietro
alle idee. Era un ragazzo da poter far bene una vita tranquilla, nella bottega d'un mercante o d'un libraio, era più stoffa
da maestro che pasta d'uomo d'affari, molto meno affari confusi in cui il diavolo c'entra o coi corni o colla coda. Quel
vederlo rintanato in una stanzuccia oscura, in mezzo ai libri mastri, obbligato a scrivere numeri tutto il santo giorno, a
litigare col quattrino, a fare il tiranno colla povera gente (lui, con quel cuore di piccione), a imparare le malizie
dell'interessaccio sotto la guida di quella vecchia volpe, era una condizione che stringeva lo stomaco, anche
prescindendo dalle belle voci che correvano.
Camminando, per dir così, su questi pensieri che non le lasciavano sentire il sasso, la Colomba arrivò a casa,
salì le scale ed entrò, mentre la Nunziadina appoggiata alle gruccette metteva il formaggio nella pentola della minestra.
La piccola tavola era preparata nel mezzo della cucina, coi soliti tre posti, rischiarati da una lampadina a
petrolio coperta da un verde paralume di carta. La Nunziadina, quantunque non arrivasse colla punta del mento
all'altezza della tavola, saltellando sulle gruccette come un passerino sugli staggi della gabbia, accudiva con agile abilità
alle faccende di casa, cercando di render utile la sua piccola persona, anche nei momenti che le sue mani preziose non
rammendavano il pizzo. La Colomba, prima di uscire la mattina per andare al Monte, preparava il riso e il lardo e il
pentolino all'altezza della nanina, che pensava ad accendere il fuoco e a mettere la minestra in tavola per l'ora che la
sorella e Ferruccio tornavano pieni di fame e di freddo.
"Tu hai tardato più del solito stasera e anche Ferruccio non è ancora tornato. Cominciavo a pensar male. Vedi
il sor Galimberti?"
"Cara Madonna, non l'avevo visto, sor Galimberti: son così stanca" disse la Colomba, lasciandosi cadere sopra
una sedia.
"Come va la nostra Colomba?" chiese colla solita tenera tranquillità e pazienza il delegato, che stava sorbendo
una tazza di caffè. "La nostra Nunziadina ha voluto favorirmi una goccia del nèttare degli dèi, e io stavo dicendo che in
Milano non ci siete che voi che sapete fare un caffè buono. Dopo che hanno inventato tante macchinette e filtri e
diavolerie, non c'è più quell'aroma che si sentiva ai nostri tempi: non è vero Colomba?"
"Noi andiamo all'antica: lo facciamo nel bricco, rimestandolo con un legnetto."
"Sarà effetto del legnetto allora," soggiunse il delegato con un riso grasso in fondo alla gola "ma un caffè come
il vostro non lo si beve nemmeno al Cova. Quando sarò in punto di morte vi farò avvertire, perché io credo che questo
aiuti a salvar l'anima."
"Lei vien giovane e grasso tutti i giorni e parla di morire. Lei non ha fastidi" disse la Colomba,
inginocchiandosi sulla pietra del camino per ravvivare il fuoco sotto la pentola.
"Giovane? da quanto tempo mi conoscete, Colomba! Vostro padre aveva ancora la sostra di legna,
carbone e carbonella in piazza della Rosa, quando io vi conobbi la prima volta. Allora io non era che un modesto
sorvegliante urbano e so che la mia palandrana e il mio cappellone vi facevan tanto ridere; specialmente la Marietta
rideva, quel diavolo pieno di spirito, di cui ero innamorato come un gatto e che avrei sposato, se non fosse stata la
vergogna di quella benedetta palandrana tanto disprezzata."
"Chi sa? forse le cose sarebbero andate meglio"
"Non si sa mai la storia delle cose che non sono accadute, ma è certo che io ho sofferto quando ho inteso che
ne sposava un altro. Amen, lasciamo stare i poveri nostri morti e datemi notizie della vostra salute."
Il sor Galimberti in memoria del tempo passato aveva conservato della benevolenza verso le due "beate", che
veniva di tempo in tempo a trovare, sicuro di bere un buon caffè con molto zucchero in fondo alla chicchera.
Era un buon omaccio al di là della cinquantina, morbido e pesante, con un tono di voce carezzevole, che la
qualità del mestiere non aveva mai saputo inasprire. Dall'umile ufficio di sorvegliante urbano era passato per gradi al
titolo di delegato di pubblica sicurezza, acquistandosi la stima dei superiori, che riconoscevano nel Galimberti una
specialità nel rintracciare i fili del manutengolismo. In Verziere, alla Vetra e al Mercato del Foro Bonaparte, il sor
Galimberti era conosciuto e riverito da tutte le più vecchie ortolane e pescivendole, alle quali compiacevasi ancora di
offrire delle pastiglie di poligala, di cui aveva sempre indosso una scatoletta contro i rantoli del catarro bronchiale.
Mentre la minestra dava gli ultimi bollori borbottando, la Colomba, che aveva sempre il suo figliuolo sul
cuore, condotta dalle malinconiche reminiscenze del delegato a ricordare la povera Marietta, pensò di chiedere al
vecchio amico di casa quegli schiarimenti che non aveva potuto ottenere dal Berretta.
"Lei che vive nel mondo e ha molte reti in mano, conoscerà anche il signor Tognin Maccagno…"
" Notus in Judaea ..." disse il delegato, aprendo la scatoletta bianca delle sue pastiglie.
"Che vuol dire?"
"Che lo conosco da un pezzo…"
"Che uomo è?"
"Come uomo ha del talento, perché quando si arriva quasi dal nulla a possedere due o tre case in Milano
bisogna riconoscere che il talento c'è. Del resto, è quel che si dice un uomo svelto, simpatico, che spenna le galline
senza farle strillare. Io ho avuto qualche breve rapporto con lui e l'ho sempre trovato amabilissimo e niente affatto
usuraio e tiranno. Sicuramente, se voi mi domandate se nella sua vita non ha mai prestato del denaro al cinquanta per
cento, io non ve lo so dire. Se mi domandate se non ha fatto mai qualche torto alla sua legittima consorte, caro Iddio,
come posso mettere la mano nel fuoco? Ho conosciuto anche la riverita signora Maccagno, una brutta donna sempre
malcontenta, che il nostro Tognino sposò insieme a una casa del Borgo. Ma il bell'uomo aveva altri giri... e credo che le
belle donnette non gli dispiaccian anche adesso che è vecchio, più vecchio di me forse una decina d'anni. E talis
pater tale qualis filius , da quel che sento... Del resto, che cosa pretendete, cara la mia donna? che un uomo padron
di casa, faccia il suo interesse senza sequestrare il paiolo di una povera famiglia e senza far piangere una vedova
spettinata? Eh, eh, con queste idee quanti sono i galantuomini in Milano! Il mondo, care le mie donne, non sta a
guardare tanto pel sottile, quando si tratta degli uomini fortunati, li prende come sono, li giudica in blocco, col loro
attivo e col loro passivo. Voi vivete in un guscio e non potete giudicare che cosa è la vita. Voi, quando avete ascoltato la
vostra messa, pagato il fitto, mangiato una minestra e recitato un rosario, andate in letto a dormire; ma il mondo è un
campo di battaglia. E allora vi dirò che pochi uomini in Milano hanno saputo e sanno vedere un buon affare, procedere
spediti senza mettere piede in fallo, girare le posizioni difficili, tirar l'acqua al loro molino, come sa fare il nostro
riverito sor Tognino, pochi uomini sanno conoscere e far ballare uomini come sa farli ballare quest'ometto mezzo
miope, col suo passetto strisciato, colla sua voce secca che non ammette repliche, co' suoi ragionamenti tutti d'un pezzo
che v'imbrogliano il codice. E non c'è pericolo che rasenti la legge, ve': la conosce più lui la legge che tutti gli avvocati.
E con tutto questo non credo che sia egoista, tutt'altro. Questa gente sa essere avara e prodiga a seconda della passione
che soffi. Se vi rovina un uomo, non ha gusto di lasciarlo morire di fame sopra una strada, ma procurerà che sia almeno
ricoverato in un ospizio."
"Uomini come questi Dio li lascia giudicare al diavolo", proruppe la Colomba, rimestando con una certa furia
nella pentola. "Non voglio che Ferruccio resti un giorno di più a questa scuola."
"Eh, voi esagerate: oggi il sor Tognino è arrivato in porto e può darsi anche il lusso di fare il galantuomo e il
generoso. Gli uomini abili come lui, che hanno una gran pratica di mondo, sono i primi a credere all'esistenza e
all'importanza dell'onestà: e sotto questo rispetto potrà fare del bene al vostro Ferruccio. So, per esempio, che fa dei
sacrifici per suo figlio e che ha ricevuto molto bene in casa la nuora, a cui ha preparato un bell'appartamento... Quando
si è vicini a toccare il mezzo milione, è una sciocchezza fare il birbante..."
Il sor Galimberti tornò a ridere del suo riso grasso in cui correvano delle piccole note bronchiali.
"Noi abbiamo un altro catechismo: non voglio più ch'egli rimanga un giorno in quella casa."
"È qui, è qui" venne a dire la Nunziadina, e saltellando sulle grucce, andò incontro al ragazzo, che entrò col
passo barcollante, tutto stravolto in viso: "Da dove vieni così scalmanato, benedetto figliuolo? si direbbe che tu abbia
camminato in un fosso. Le zacchere ti vanno fin sopra la testa."
Ferruccio entrò con aria distratta, e senza salutare nessuno, buttò il cappello e il soprabito sopra una sedia.
"Questo è il figliuolo della povera Marietta" disse la Colomba, indicandolo col mestolo al Galimberti.
"Un bel ragazzo grande, che somiglia tutto alla sua povera mamma..." osservò il delegato, che parve
raccogliersi sopra una sua idea. Se avesse osato parlare, il buon uomo avrebbe voluto aggiungere: "E dire che potrebbe
essere mio figlio! e che ciò non è avvenuto per una spanna di palandrana".
Ma non volle più oltre disturbare le due donne. Salutò e promise di tornar presto. Mentre la Nunziadina lo
accompagnava all'uscio, la Colomba tirò in disparte il ragazzo e gli disse:
"Perché sei così scalmanato? che c'è di brutto? dove sei stato?"
"Ho dovuto correre fino alle Cascine."
"A far che?"
"A chiamare in fretta la madre della signora Arabella."
"Che è capitato?"
"Una cosa orribile, zia... Io tremo ancora..." e il ragazzo, scoppiando in un pianto dirotto, si lasciò cadere sulla
sedia.
V. I CATTIVI AFFARI DEL SIGNOR PAOLINO
Il signor Paolino Botta delle Cascine Boazze aveva sposata la vedova di Cesarino Pianelli, madre di tre
figliuoli, colle più oneste e generose intenzioni del mondo; ma non andò molto che si accorse di aver fatto uno
sproposito. Ai figliuoli si aggiunsero altri figliuoli, mentre i tempi si facevano più difficili pei poveri agricoltori.
Beatrice credette, nel suo placido e incosciente egoismo, di poter godere lautamente dell'abbondanza in cui
l'aveva posta suo marito. E questi, d'altra parte, era troppo buono e troppo innamorato, per non aggravare con un
sistema di continue debolezze la condizione già cattiva dei tempi e delle cose.
Paolino, non più giovane e poco spiritoso, era in una continua preoccupazione di gelosia e di paura che il
Paolino d'oggi potesse, agli occhi della bella moglie, valer meno del Paolino d'ieri: quindi un continuo sforzo in lui di
sostenersi in dignità con spese maggiori delle sue forze, con una continua e quasi febbrile ricerca di cose nuove, di dolci
sorprese, di tenere improvvisate, di troppo violenti trionfi personali, che a lungo andare, per la legge naturale delle cose,
finiscono col logorare le ruote e il carro.
Fu quest'ambizione, mista confusamente di scrupoli e di affezione, che lo persuase a collocare i tre figliuoli
della vedova in buoni collegi, i maschietti a Lodi presso i barnabiti, Arabella presso le madri canossiane a Cremenno,
un paesello di montagna, che respira l'aria del lago, dove la ragazzina poté ricevere una completa educazione, rifacendo
nel clima dolce e salubre la sua costituzione non molto ricca di sangue e alcun poco logorata da precoci patimenti.
Arabella rimase presso le suore circa sei anni e imparò rapidamente e bene tutto ciò che le buone madri
seppero insegnarle, aggiungendo di suo quel che aveva patito, cioè un senso malinconico delle cose e della vita che la
portava a nascondersi in Dio. Il suo povero babbo si era ucciso nel fior degli anni per sottrarsi alla vergogna d'un
processo, e l'idea di un'anima in pena, che espiava il suo male forse senza speranza di perdono, aveva ancora la forza
dopo cinque o sei anni di risvegliarla di sbalzo in mezzo alla notte al minimo scricchiolìo, al minimo soffio di vento,
che paresse tra le fessure gemito o sospiro.
Suor Maria Benedetta, quando la vedeva più pallida, indovinando il segreto dolore della poverina, la segnava
tre volte colla croce e la menava in disparte nel semi-oscuro coretto, nel sacro tiepore che manda l'olio delle lampade,
dove, inginocchiate l'una dietro l'altra, la ragazzina davanti, ai piedi del Sacro Cuore pregavano, pregavano,
inebbriandosi insieme delle delizie dell'orazione mentale.
Intanto Arabella crebbe alta, con un corpo flessibile ed elegante, più ricco di grazia che di forme, che sfuggiva
alle stesse pieghe larghe e goffe della divisa bigia del collegio. I suoi capelli d'un biondo chiaro, l'ambizione del povero
babbo, eran cresciuti e cascavano in due lunghe treccie, che le buone madri cercavano d'allacciare e di nascondere.
Alle Cascine Boazze la fanciulla non passava che pochi giorni delle vacanze, in settembre, sforzandosi per un
sentimento di riconoscenza e di delicatezza di farseli piacere quei prati lunghi e piani, quelle righe lunghe di salici
smorti, che si accompagnano ai fossati, quei casolari tozzi sepolti nel fango o nella polvere delle strade calde. Il suo
pensiero tornava sempre lassù a Cremenno, la sua patria spirituale. Cremenno che suor Maria Cherubina chiamava
l'anticamera del paradiso, lassù dove l'occhio scende nei burroni e nelle valli fiorenti, e corre sugli specchi azzurri del
lago Maggiore, dove infine un'anima agile e pia ha meno strada per toccare il cielo. A lei il secondo matrimonio della
mamma non era piaciuto fin dal principio. Ma poiché era dovere di accettare i fatti compiuti, si era proposta fin dai
primi tempi di fare in modo che la sua vita non andasse a pesar troppo sulle spalle del patrigno. Già le pareva di aver
troppo accettato; e poiché le suore eran contente di lei e le facevano la corte, non tardò a formulare il pensiero deciso
della sua vocazione. Si sentiva naturalmente attirata a entrare nella famiglia delle sue maestre, a consacrare la sua
esistenza all'istruzione nei collegi dell'ordine. Aiutava questa vocazione la vista del disordine crescente che ritrovava
alle Cascine, una casa che reggevasi a forza di puntelli sopra un più nascosto e più profondo disordine amministrativo.
Come avesse potuto il signor Botta in pochi anni scendere e precipitare così basso, era un mistero per tutti, che
la crisi agraria e i tempi difficili non bastavano a spiegare. Certo la scomparsa della buona sorella Carolina, che per
molti anni aveva tenuto nelle mani il governo dell'azienda, e l'entrare in casa d'un'altra donna, non così pratica e
avveduta, era stato il principio d'una decadenza, che una volta avviata, non ebbe più ragione di fermarsi. A questa
condizione generale si aggiunsero alcune disgrazie.
Il signor Paolino, nel primo entusiasmo della luna di miele, si lasciò prendere dalla febbre del fabbricare. La
vecchia cascina non gli pareva più sufficiente ai bisogni della cresciuta famiglia e alle idee della bella moglie. Si mise
nelle mani d'un capomastro e cominciò a tirar su dei muri nuovi. Ma nel tracciare i nuovi edifizî non si osservarono con
abbastanza scrupolo i confini d'un canale di scarico, dov'era anche una testa di fontana che dava un qualche dito d'acqua
ai fondi del vicino.
Queste quattro goccie d'acqua tirarono addosso al signor Botta una causa, coll'ordine perentorio di sospendere i
lavori. La causa, come sempre, andò per le lunghe e costò un fiume di denari. Finalmente, dopo quasi tre anni di rinvii,
di ricorsi, di comparse, di sopraluoghi, di perizie, il signor Botta fu condannato a pagare sotto forma d'indennizzo una
somma di lire quindici mila, una volta tanto, al signor Tognino Maccagno, quale amministratore e rappresentante dei
fondi di proprietà Ratta. A queste quindici mila lire bisogna aggiungere le spese di processo, gli avvocati, le carte
bollate e i conti di fabbrica. La casa nuova rimase lì, né ritta, né seduta, coi muri greggi che invocavano un tetto, ma non
c'eran più denari. Vi piovve e nevicò sopra fin che piacque al padrone dell'acqua e della neve, fin che quei poveri muri
pigliarono un aspetto di rovina prima ancora di nascere. Di contraccolpo ne soffrì la casa vecchia e il padrone, che tra la
rabbia e il dolore, ammalò di mal di fegato con travaso d'itterizia.
Beatrice, con tutti i figliuoli indosso (tre del primo letto, tre del secondo), si contentava della sua parte, dava
qualche comando alle persone, non badando che fosse eseguito, girava per la casa mal pettinata, mal vestita, trascinando
le fascie e la cesta del suo poppante, sfogandosi con qualche vicina intorno ai suoi mali di stomaco, che le facevano
sonare gli orecchi e le riempivano il capo di campanelli.
Era naturale che Arabella, tutte le volte che usciva dal suo collegio bianco e pulito, si trovasse male in quel
vecchio e sgangherato cascinale, tra quei pilastri di vecchio mattone, nel lezzo acuto degli strami che fanno monte in
mezzo alla corte.
Alle Cascine c'era sempre una stanza riservata a lei, che durante la sua assenza serviva di deposito alle patate
ammonticchiate in un cantuccio. Dalla finestra l'occhio poteva scorrere sulla verde distesa dei prati fino all'antica
abbazia di Chiaravalle, che usciva da un folto di pioppi e di salici cenericci con una severa e ardita dignità; ma anche in
quella stanza dalle pareti ruvide e ruvidamente intonacate di calce, dai grossi travi del soffitto male spiallati, dai
quadretti di vetro verdognolo sulle impannate, dal permanente odor di rinchiuso, essa stentava troppo a ritrovare la sua
benevolenza, e l'energia di comparire, di operare, di concorrere cogli altri al bene della sua famiglia. E mentre da una
parte contava i giorni di andarsene, non poteva sfuggire dall'altra parte a un senso quasi di rimorso di non saper
restituire nulla a sua madre e al suo benefattore, in pagamento del bene che le avevano fatto, col darle una buona
educazione e col metterla in grado di apprezzare i beni superiori della coscienza e della religione. Se non ci fosse stato
un uomo tanto generoso da prendersi tutta una famiglia sulle spalle, che cosa avrebbe potuto essere una povera vedova
con tre figliuoli piccini? Quale aiuto avrebbe dato il mondo alla figlia di un uomo che si era ucciso per isfuggire
all'infamia di un processo? Queste idee, cozzando colle altre che venivano da Cremenno, facevano spesso un tal tumulto
nel suo piccolo cuore che spesso non poteva dormire la notte.
Una giovinetta di diciott'anni, educata a tutte le delicatezze spirituali di un collegio di monache, che chiamano
peccato ogni filo di polvere dimenticato sui mobili, non poteva adattarsi senza ripugnanza all'unto e al bisunto di cose e
di abitudini grossolane, alla materialità di una vita così rasente terra, agli schiamazzi, al vociare continuo, al fumo che i
camini rimandano negli occhi, all'untume delle minestre di lardo, al puzzo delle stalle, al linguaggio nudo e mal vestito
dei villani, che parlano secondo natura vuole, andando alle cose per le parole più corte.
"Il mio collegietto di Cremenno mi è sempre nel cuore" scriveva a suor Maria Benedetta "e in questo basso
mondo stento ad abituarmi.
"Non può immaginare, mia buona madre, quanta malinconia mi fa la vita dei pallidi astri e dei girasoli, che
fioriscono in questo nostro umido orticello, dove la notte vengono a cantare le rane. Mi assale una specie di vertigine
quando penso alle mille rose che ornavano la nostra Madonna l'ultimo giorno del mese di maggio. Penso a loro così
liete nella santa opera dell'educare e mi spavento quasi della mia inerzia di spirito. Anch'io ho un gran debito da pagare
a Dio, e mi pare che ogni notte la povera anima venga a bussare al mio uscio.
"A casa mi tornano tutte le memorie del passato e mi par di soffrire per me e per conto di un assente che
aspetta tutto da me. Quel giorno che potrò consacrare il mio cuore e la mia giovinezza all'esercizio del bene e alla
preghiera perenne, soltanto allora mi sembrerà di aver trovata la mia strada: soltanto allora potrò dormire tutta una notte
intera."
L'ultima volta che venne alle Cascine tornò a scrivere con più malinconia:
"A casa ho trovato nuove tristezze. Questo mio secondo padre, al quale devo pure della gratitudine, mi ha
raccontato molte sue disgrazie, da cui non ho afferrato bene che un pensiero, cioè che io son di peso. E veramente che
posso fare io per sollevare questo peso? Se è vero che gli affari dell'azienda vanno male, quale rimedio posso io opporre
se non è una fervida preghiera a Colui che può tutto? dove potrei pregar meglio che in codesto luogo, dove ho imparato
a conoscere il tesoro dei beni spirituali? Ho fatto domandare a Lodi quel che ci vuole per ottenere la patente di maestra
e nel prossimo ottobre potrei dare gli esami. Così, se non potrò, nella mia miseria, portare alla Congregazione una dote
(e lei sa che di mio non ho che dolorose memorie) cercherò di portarvi un titolo utile e una bella volontà di lavorare."
Questo malinconico desiderio di rinchiudersi e di sottrarsi alla tristezza delle cose cresceva in lei fino al
patimento, nelle giornate bigie e in quelle piovose, quando il lungo cascinale colle molte bocche dei fienili aperte nella
corte, coi porticati tozzi, ingombri di travi, di fascine, di attrezzi, coi tetti neri e lucenti, sgocciolanti acqua nelle tinozze,
pareva sprofondarsi nella nebbia e nella mota.
In quella scolorita tetraggine com'era triste il vociare delle oche che starnazzano nel pattume! e che indefinita
voglia di non essere metteva indosso il piagnucolare del fratellino in fascie, che la mamma non sapeva consolare, un
piagnucolare dolente, che saliva dalla cucina insieme al rotto frastuono delle faccende!
Tratto tratto la giovinezza voleva la sua parte. Al tornare, per esempio, d'una bella giornata pigliava con sé
qualche libro, l'album, il panierino di lavoro e correva colla furia d'una passera spaventata verso una chiesuola detta la
Colorina, isolata in mezzo al verde dei prati, a mezza strada tra l'Abbazia e il Camposanto.
Più che una chiesa, si poteva dire una vecchia cappelletta votiva restaurata e ingrandita al tempo della peste,
non arredata ora che da un povero altare di legno inverniciato con quattro figure smorte su per le lesene sgretolate del
muro. Serviva anche di deposito e di magazzino al becchino che vi raccoglieva gli arnesi del mestiere. Là dentro l'aria e
il sole entravano liberamente per le finestre non difese che da logore impannate coi piombi scassinati, con ragnatele al
posto dei vetri. Entravano nella chiesina le rondini, che avevano i nidi sotto le cornici di gesso; entravano i bimbi e le
galline per la porticina sempre aperta sui campi, nella quale nei quieti meriggi di estate soffiava l'aria calda e profumata
del fieno agostano ch'essiccava sul prato.
Arabella, sfuggendo alla sua malinconia, si rifugiava spesso alla Colorina, costeggiando un lungo canale
d'acqua corrente e lucida, chiuso tra due filari di salici. Entrava, e chiuso col saliscendi interno la porta sconnessa, si
trovava subito con Dio e colle ultime rondini dell'anno a riflettere sulla sua vocazione, a meditare sui dolori della terra e
sulle immense cose che riempiono il cielo, a pregare per l'anima bisognosa del povero papà. Più che leggere nel libro di
devozione, leggeva nella pagina azzurra del cielo, che dal suo banchetto vedeva attraverso a una larga finestra ovale: ed
era un assopimento leggero di tutti i sensi in una visione senza contorni, nella quale sentiva diluire la sua piccola vita in
un mare di gaudio.
Era la vigilia della Madonna di settembre. Arabella verso sera affrettavasi a dare gli ultimi punti al bucato della
quindicina, di cui aveva davanti una cesta piena, sotto la finestra della sua camera, quando vide entrare papà Paolino più
triste e più malato del solito. Si mise a sedere con l'aria stracca dell'uomo sfiduciato, finché in mezzo a dei grandi
sospiri uscì a dire:
"Puoi darmi ascolto due minuti, Arabella?"
Perché non doveva ascoltarlo? il disgraziato era solito sfogarsi con lei quando la passione gli mozzava il
respiro. Anche questa volta egli cominciò molto da lontano. Lo avevano tradito perché si era fidato troppo degli uomini.
Tutti rubavano, tutti mangiavano addosso a lui, povero uomo, che aveva il sangue alla gola. Tornò a parlare di una certa
ipoteca... parola che alla monachella ignorante suscitava l'idea d'una cosa antipatica e odiosa, ostinata a voler fare del
male a papà Paolino...
Un padre di famiglia, seguitava lui, non può fuggire e rinchiudersi in un convento. Come un capitano di mare,
deve naufragare e abbruciare col suo bastimento. San Martino veniva avanti a gran passi, egli avrebbe dovuto rinnovare
l'affitto coll'Ospedale, pagare gli interessi al sor Tognino e non aveva i mezzi abbastanza. La causa, i cattivi raccolti, la
concorrenza, le malattie, i figliuoli, le spese, l'avevano mezzo rovinato. Bisognava ricorrere alle cambiali, cioè farsi
strozzare o liquidare, vale a dire rovinarsi prima del tempo, perché una liquidazione agricola significa perdere le scorte,
i foraggi e i frutti del capitale versato sulla terra.
E poi dove andare? che cosa fare? se si fosse lumache! ma quando un uomo ha perso il credito, è peggio d'un
cavallo che ha le gambe rotte...
E tante altre cose seguitò a tirar fuori dal petto quel benedetto uomo, lasciando sgocciolate sulle gote rese
fonde e scialbe dal male quelle lagrime, che in presenza di mamma Beatrice si sforzava d'inghiottire in stranguglioni
grossi e duri come noci.
Arabella l'ascoltò con attenzione, con pietà, con una commozione sincera e profonda, lontana le mille miglia
dall'immaginare dove sarebbe andato a finire un discorso così patetico, che somigliava troppo a cento altri, perché ella
vi potesse supporre qualche cosa di nuovo. Cercò di mettere qua e là una di quelle parole che hanno bisogno d'una gran
fede nella Provvidenza per far bene; ma papà Botta pareva disperare anche della Provvidenza. Da tre domeniche non si
lasciava vedere a messa. La sua vita e la sua morte erano nelle mani del sor Tognino.
Questo nome di sor Tognino, insieme all'altro di ipoteca, più di cento volte era tornato nei discorsi di papà
Botta, come quello di un genio cattivo della sua casa.
"Mi dica, papà," chiese con un moto di lenta curiosità "questo sor Tognino non è quello stesso che ha fatto la
causa di turbato possesso?"
"Lui, precisamente. È un uomo forte, pieno di denari, che mi può fare del male e anche del bene."
"Come c'entra ancora?"
"C'entra perché io non l'ho pagato... cioè l'ho pagato parte con delle cambiali, parte con delle ipoteche."
"Se io potessi capire queste benedette parole..."
"Bisogna però esser giusti anche con lui e riconoscere che mi usò sempre della cortesia. Volle mostrarsi forte
nel suo diritto, ma non posso dire che abbia abusato della sua forza. La gente vista da vicino alle volte è migliore di quel
che sembra da lontano. Io l'ho sempre trovato un uomo ragionevole. È appunto di lui che son venuto a parlarti, la mia
figliuola."
"Se non lo conosco..."
"Egli conosce te."
"Che vuole da me questo signore delle ipoteche?"
"Ti ha incontrata due o tre volte sulla strada della Colorina, è un signore che passa in una carrozza coperta, con
un cavallo grigio…"
"Un uomo vecchiotto..."
"Ma un vecchiotto in gambe. Possiede San Donato, o se non lo possiede, lo amministra, che è quasi lo stesso.
L'ho trovato sabato quindici a Melegnano e venne ad offrirmi del miglio. Poi mi domandò se quella signorina, così e
così, che incontra spesso sulla strada della Colorina, è mia figlia. Gli dissi: è mia figlia adottiva, ma è più che mia
figlia."
Papà Botta si commosse all'idea del bene che avrebbe voluto fare ai figli di Cesarino Pianelli, e che il destino
invece...
"Lo so, lo so" fu pronta a dire Arabella, posando una mano sopra un ginocchio del suo benefattore.
"È una bella e simpatica ragazza", seguitò il sor Tognino, e ha l'aria d'una donnina di talento. Come sarei
contento (ripeto le sue parole) come sarei contento se mio figlio sposasse una ragazza così! E io: la nostra Arabella ha
tutt'altre idee e non pensa a maritarsi."
"Infatti..." si affrettò a dire la fanciulla, sorridendo e arrossendo un poco.
"E ci lasciammo, e amen: non se ne parlò più. Comprai il miglio e questo discorso m'era già uscito dalla mente,
quando stamattina ricevo, guarda, ricevo una lettera, to'..." e trasse di tasca un foglio "una lettera sorprendente, che non
ho osato far vedere a tua madre, perché le donne si scaldano facilmente la fantasia e a me piacciono le cose misurate e
ponderate. Sicuro! tu hai già fatto il tuo pensiero, e il tuo pensiero dev'essere per noi inviolabile come il Santissimo
sopra l'altare. Prima di tutto la voce del cuore, e per quel che c'è di bello nel mondo, vorrei poter anch'io dare un
bell'addio e ritirarmi sopra una montagna. Ma un padre di famiglia è come un capitano di mare. Quando ho sposato tua
madre, Arabella, speravo bene di fare la vostra fortuna e Gesù è testimonio che se si fosse trattato del sangue, avrei dato
il sangue. Le cose sono andate a male, pazienza! ma crepi io sotto la mia casa prima che domandi il sacrificio di
nessuno. Questa lettera nessuno l'ha vista, si può leggere e si può abbruciare. Non te l'avrei nemmeno fatta vedere, se
non mi si dicesse d'interrogarti; né io posso rispondere, se non t'interrogo. Leggi e per tutta risposta dimmi un no, un sì,
una parola che io scriverò tal e quale al sor Tognino, senza..."
Un piccolo singhiozzo ruppe a questo punto un discorso, che il pover'uomo non aveva più la forza di sostenere.
Arabella, fattasi più presso alla finestra, lesse nella corta luce del tramonto le seguenti parole:
"Mio caro signor Botta, vuol interrogare la buona Arabella in proposito del discorso di sabato? Mio figlio non
cerca dote e quando scegliesse una moglie di suo gusto, sono disposto a far qualunque sacrificio. È libero il cuore della
popòla ? potrei dire per esempio, al mio Lorenzo di passare qualche volta a caccia da queste parti? La cosa resti
tra noi; ma fin d'adesso assicuro il signor Botta che se combiniamo l'affare io giro a mia nuora tutti i diritti ipotecari che
posso vantare sulle Cascine. Tra buoni parenti non si guarderà al centesimo; anzi spero di fare un buon acquisto
nell'esperienza del mio vicino per il buon andamento dei fondi, di cui sono un meschino e incapace amministratore. Mi
mandi una risposta presto e buona".
Arabella lesse due volte lentamente fin che le parole regolari e nette della lettera scomparvero nell'ombra della
sera. Sebbene còlta all'improvviso, coll'animo caldo d'altri pensieri e a tutta prima l'idea del maritar le sembrasse
un'assurdità da riderci su, tuttavia, nel punto di aprir bocca, sentì correre sul cuore qualche cosa come un dubbio, o
come un rimorso, che arrestò la deliberazione e la trattenne in una penosa sospensione d'animo.
Nel voltarsi a rendere la lettera, scorse il suo patrigno e benefattore raggomitolato sulla sedia, quasi nascosto
dal buio, coi gomiti puntellati ai ginocchi, colla testa chiusa tra le mani come in due morse, nell'attitudine stanca e
paurosa di chi aspetta una sentenza fatale. A quella vista non ebbe coraggio di togliergli tutte le speranze.
La campanella della Colorina prese a suonare i segni del rosario. Pareva una voce che parlasse da lontano, un
avvertimento che uscisse dalla tristezza infinita dell'ombra e della pianura.
Dal portico saliva il piangere del piccolo Bertino malato, accompagnato da una cantilena della "Bassa", in cui
urtavano i ruvidi colpi della culla sballottata fuor di tempo.
Al piangere del piccino mescolavansi altre voci di ragazze e di donne, insieme al cigolìo dei secchi, al rotolare
delle carriole che rientravano cariche d'erba, nell'ombra sempre crescente del casolare, in cui serpeggiava quasi un senso
di paura.
Rimasero tutt'e due un lungo tratto in silenzio, occupati, smarriti nella grande quantità di pensieri, che
passarono in mezzo tra l'uno e l'altra, che se avessero avuto figura, si sarebbero visti intrecciarsi, cercarsi e sfuggirsi
agitati da una stessa passione.
Il benefattore non voleva sacrifici, ma perché aveva aperta la questione? La speranza è sempre in ciò che non si
ha, e molte volte in ciò che non si vuole. Questo buon uomo, che aspettava una parola di vita o di morte, aveva strappata
una povera vedova con tre figliuoli dalla disperazione e dalla miseria e aveva procurato a una fanciulla, senza padre e
senza protezione, i mezzi d'educarsi, d'essere qualche cosa, togliendola ai cento pericoli che circondano un'orfanella
povera e abbandonata.
Quel Dio, a cui Arabella era disposta a sacrificare la sua giovinezza e la sua vita in espiazione, chi sa?, parlava
forse per la bocca medesima di un uomo onesto e virtuoso, del quale s'era servito per operare i prodigi della sua bontà e
della sua carità.
Arabella sentì subito in quel primo e improvviso conflitto di sensazioni e di pensieri che non basta essere santi
a questo mondo, cioè comprese che è impossibile diventarlo, se non si comincia coll'essere pietosi e buoni. Non
volendo mostrarsi arida e intollerante, si accostò al pover'uomo, che non osava alzare il capo, e gli disse:
"Questa lettera, veramente, io me l'aspettavo così poco, che non so che cosa rispondere. Bisogna a ogni modo
che io rifletta, che interroghi me stessa. Ne parleremo anche colla mamma. Io non conosco questa gente: e son così
lontana dall'idea di maritarmi… Ma intanto si faccia coraggio, papà, non si avvilisca in questa maniera. Ha visto che
Dio ci ha sempre aiutati in cento altre circostanze..."
Paolino, soffocato dalle lagrime e dalla commozione che suscitava in lui la voce tenera e pietosa della figliuola,
alzò un poco la testa, prese la mano della ragazza, se la strinse nelle sue, e voleva dire ancora ch'egli non cercava il
sacrificio di nessuno, che aveva parlato solo per iscrupolo di coscienza, che qualunque fosse la risposta, il suo cuore non
si sarebbe mutato per rispetto alla sua cara Arabella; ma di tutto ciò non poté dir nulla. Si sentiva un uomo strozzato.
La voce della mamma in fondo della scala chiamò a cena, e come se quel grido disturbasse due innamorati,
papà Botta scappò via. Arabella raccolse il bucato e chiuse la finestra.
Peccato! camminava così serena e sicura nella strada della sua vocazione ed era già così vicina a toccare il
porto della sua pace, che la monachella si irritò non senza qualche ragione contro questo improvviso ostacolo e si
meravigliò di non trovare in sé il vigore e il rigore delle vere sante, che non odono che una voce.
Il dir di no e seguitare la sua via sarebbe stato più naturale e più semplice per lei e anche per la gente che si
occupa dei fatti altrui, perché, infine, nulla di più ridicolo d'una mezza monachella che sulla soglia del convento si volta
a sposare il primo che capita. Con tutto ciò al di sotto delle prime ragioni andava formandosi e crescendo un'altra
convinzione, fatta più di coscienza che di ragioni, una coscienza mista a uno sgomento indeterminato delle
conseguenze, che il suo decidersi, qualunque fosse, avrebbe trascinato con sé.
Scese anche lei in cucina, come al solito, a cena. In casa Botta, seguitando gli usi antichi, ognuno pigliava un
posto a una gran tavola, dov'erano distribuite molte scodelle in disordine, servite senza lusso di tovaglie e di tovaglioli.
Un pentolone solo bagnava le zuppe dei padroni e dei castaldi, che tolta la ciotola in mano, sedevano in giro sui sacchi e
sui barili a sbrodolarsi lo stomaco. Un'unica lucerna a petrolio rischiarava il vasto camerone, ingombro più che arredato
di vecchie tavole, di sedie spagliate e zoppe, di botticelle, di sacchi pendenti dal soffitto, di molta roba usata, inutile o
dimenticata, che la pigrizia lasciava lì e il disordine pigliava a calci.
Bertino quella sera non fece che piangere tutto il tempo. Era arrivato anche l'attestato scolastico di Maria con
delle note scadenti e una lettera scoraggiante del padre rettore. Mario, il maggiore dei due fratelli di Arabella, avrebbe
dovuto corrispondere con più riconoscenza agli sforzi e ai sacrifici di papà Botta. La mamma ne aveva gli occhi rossi,
ma ordinò alla figliuola di non dir nulla a quel povero uomo. In quella casa si giocava a chi sapeva più bene nascondere:
e un male, che si poteva guarire a tempo, si copriva di cenci finché fosse incancrenito.
Arabella, vestita d'una divisa scura di collegio, che davale già l'aspetto di monaca, cogli occhi fissi in una
scodella d'orzo bollito, sentì tutta la tristezza di quella gran casa in decadenza, una barca sdruscita, troppo piena di roba
e di gente, che faceva acqua da tutte le parti, dove ogni sera venivano a radunarsi i rancori, le delusioni, le tristezze di
giornate lunghe, piene di fatiche inutili.
Quel povero Bertino non cessò mai dal piangere. Era malato, si vedeva, d'un male che nessuno credeva
necessario di curare e al quale ognuno dava un nome diverso. Sentendosi anche lei un gran peso alla testa, colse un
pretesto e si ritirò prima del solito nella sua stanza, dove si chiuse al buio, per bisogno di raccogliere i suoi pensieri.
Perché avrebbe dovuto maritarsi? Quando aveva ella pensato mai che ci fossero degli uomini al mondo e che
ad uno di questi uomini avrebbe dovuto legare la vita e l'anima? La sua vita, più ricca di pensieri che di passioni,
trattenuta anche dagli spontanei rigori di una natura tenera e delicatissima, più irrigidita che scaldata dall'educazione
sistematica della scuola e della chiesa, intimidita dalle apprensioni provate fin da bambina, non conosceva nessuno di
quei ciechi fenomeni dell'istinto, che turbano la giovinezza di altre fanciulle. Dell'amore ne sapeva quel poco che una
collegiale può capire dai "Promessi Sposi" e dai proverbi della gente onesta, e andava, tutt'al più, a immaginare una
tenera e affettuosa benevolenza tra uomo e donna, che ha per misteriosa conseguenza un certo numero di figliuoli. E
con questi scarsi elementi della vita essa era chiamata a decidere della sua vita. Chi era questo bravo uomo a cui
avrebbe dovuto consacrare la sua benevolenza? L'aveva mai incontrato una volta sulla sua strada? Credeva anche lui in
Dio e nel bene? Come poteva dunque esitare a rispondere una parola che la salvasse subito e per sempre da una terribile
responsabilità?
Presa dalla voglia d'uscire al più presto da un'incertezza così penosa, accese un lume, levò dal cassetto un
foglio e cominciò a scrivere a papà Botta i motivi morali che non le permettevano d'accettare l'offerta del signor
Tognino. La sua vita, scriveva, era già consacrata allo sposo celeste, e non era la vocazione d'un giorno, ma il pensiero
dominante di tutta la sua giovinezza. Per questo voto aveva già ricevuti replicati affidamenti di grazia, talché il venir
meno alla promessa sarebbe stato per lei un tradire, un abbandonare sopra l'abisso un'anima bisognosa, l'anima del suo
povero papà.
In questa convinzione, che le maestre e i confessori avevano più volte ribadita nel suo tenero cuore, la fanciulla
si sentì così dotta e agguerrita, che non le mancarono le parole calde e affettuose per convincere sé e gli altri; e dopo tre
pagine la sua mano leggera scriveva ancora, come se un angelo guidasse la penna, provando essa stessa una soave
emozione nel rileggere parole e frasi scaturite quasi miracolosamente dalla ricchezza del cuore, e che le inondavano il
viso di lagrime.
Sonavano le nove nel gran silenzio. Alle Cascine eran scomparsi i lumi e parevan già tutti addormentati. Dalla
campagna non veniva che il rotolar sordo dei carri che battono la strada grossa, qualche abbaiare lontano di cani, due o
tre volte il fischio del vapore della vicina stazione di Rogoredo. La notte era serena e scura, con un cielo gremito di
stelle; per tutto un silenzio raccolto, entro il quale bisbigliava lo zampillo d'una bocca d'acqua che dava a bere ai prati.
Arabella stava per chiudere la lettera, quando risonò improvvisamente un grido, che fece trasalire il cuore già gonfio e
commosso.
Pareva la voce della mamma. No, era ancora il piangere dolente di Bertino. Sente uno sbattere d'usci e gente
che corre. Poi subito la voce di papà Botta che chiama:
"Arabella!"
Salta in piedi:
"Che c'è?"
"Vieni, io corro a cercare il dottore."
E sente di nuovo il passo di papà Botta scendere la scala e correre attraverso i campi.
"Che cosa c'è mamma?"
Corse, entrò nella stanza della mamma e la trovò col bambino in braccio che si dibatteva in feroci convulsioni.
La voce del piccino, dopo quel gran grido, usciva soffocata come un rantolo dalla gola e le manine annaspavano con
violenza nell'aria, come se si sforzassero di togliere un laccio, lì alla gola.
La povera mamma si era accorta da poco tempo che il suo Bertino moriva. Mezza svestita, coi capelli in
disordine, bianca come la neve, non sapeva dir altro che:
"Gesù, Gesù!"
Arabella prese lei il bambino in braccio, spalancò la finestra e ve lo portò in maniera che la respirazione fu
subito meno affannosa. Cercò coi diti di schiudere la piccola bocca inchiavata dalla convulsione; ma non poté.
Finalmente venne il dottore, che giudicò un caso gravissimo di angina difterica.
Bertino, un grassottello roseo, coi riccioli biondi, era il coccolo di tutti alle Cascine, e papà e mamma gli
volevano bene anche per quest'ambizione. Ora papà pareva la morte in piedi, e la mamma, dopo aver brancolato un
pezzo per la stanza senza conchiudere nulla, finì col cadere svenuta in mezzo alle donne.
Il dottore non poté contare che sull'aiuto intelligente di Arabella, che tenne fermo il bimbo, mentre gli
bruciavano in gola, soffocando nelle sue braccia i guizzi tremendi del povero angelo, resa forte del coraggio che la
donna attinge alla pietà, fatta avveduta e intelligente da quella buona maestra, la natura, che mette nel cuore della donna
ciò che la scienza non fa che confondere nei libri.
Finita la crudele operazione, la sorella sedette accanto al lettuccio, dette delle ordinazioni, mandò via la gente,
comandò che il bimbo fosse suo, notò i consigli del dottore e non si mosse più per ventiquattro ore da quel suo posto,
finché durò la tremenda agonia, finché il piccino non ebbe dato l'ultimo respiro.
Era la prima volta ch'essa vedeva soffrire a quel modo un'innocente creatura ed era il primo morto a cui
chiudeva gli occhi; e le parve, attraverso i patimenti, di veder al di là, nel vasto mistero delle cose.
Nella lunga veglia, nel faticoso sforzo dell'animo non sapeva a volte distinguere tra sé e la povera mamma, che
andava e veniva come un fantasma. Era un patimento solo che stringeva due cuori; se non che la giovinezza e la
baldanza delle forze facevano sentire alla figlia anche una superiorità morale, che la piegava a un senso di protezione
verso la povera donna. Senza volerlo si sentì l'anima della casa. Si meravigliò di non aver conosciuto prima quel grande
amore che la legava al fratellino, e contemplandolo spirato, provò lo strazio di chi si sente portar via il cuore. Qualche
cosa d'irrigidito scioglievasi in lei. Non mai aveva abbracciato con tanta effusione d'affetto e di lagrime la sua povera
mamma, che le ricordò nel suo sfasciamento la Madonna addolorata ai piedi della croce. E anche questa stessa pia
tradizione di dolori sacri e adorati prese nel suo cuore un significato novissimo di verità, di umanità, di grandiosa
comprensione, come se l'umanità saltasse fuori dalle venerate immaginette simboliche della via crucis.
Nel dolore immenso conobbe l'amore, si sentì madre anche lei in qualche maniera dei piccini e dei grandi, e
quando, dopo un sonno profondo di alcune ore, si risvegliò nella sua stanza e ritornò col pensiero alle cose di qua, le
parve di aver fatto un lunghissimo viaggio.
Rileggendo la lettera che aveva preparato per il suo patrigno, la trovò fredda e artificiale, e soffrì di non sentirla
più come prima. Forse vi sono al mondo per una donna due sorta di vocazioni, di cui essa non aveva finora conosciuta
che la più semplice. Nascose la lettera e rimandò la risoluzione del delicato problema a un altro momento.
Continuamente ora avevano bisogno di lei. La mamma non faceva che piangere sul cadaverino e in quanto a
papà Paolino metteva paura a vederlo. Lungo, scarno, col viso giallo, l'occhio itterico, i capelli irti come setole faceva e
rifaceva quelle maledette scale, rispondendo a caso alle domande dei famigliari, alle consolazioni del curato, dimentico
degli altri grossi dispiaceri, che per riguardo a questo si rassegnavano a tirarsi indietro. Arabella per mettere una nota di
consolazione volle che il funerale del piccino fosse bello e gaio, come si usa in campagna cogli angioletti. Fece sonare a
festa e mandò a raccogliere quanti fiori trovò. Preparò essa stessa la bara con molto verde e ordinò alle donne di
condurre i bambini, di cui non c'è mai penuria, a ciascuno dei quali mise in mano un ramoscello di mirto. Tutti
sentirono la seduzione di quei conforti, e quando il corteo si mosse sotto il sole d'una bella giornata di settembre e
cominciò a sfilare lungo il canale pel viale dei salici che mena alla chiesa, tutti avevan gli occhi sopra la monachella, a
cui dovevano l'edificazione commovente di quello spettacolo.
Il funerale, al ponte, s'incontrò in una carrozza, che si tirò in disparte. Un vecchio signore e un elegante
giovinotto saltarono dal legno e stettero col cappello in mano a veder sfilare la processione. Arabella, che veniva in
coda alle bambine, credette di riconoscere il cavallo e il legno del signor Tognino e immaginò chi poteva essere il
giovane robusto che era con lui.
Il cuore, che aveva interamente dimenticato, balzò come al tocco d'uno spillo. Un profondo turbamento scosse
il sangue. Il volto pallidissimo, stanco e sbattuto dalle lagrime, si accese improvvisamente d'una fiamma, che parve a
chi la guardava dar fuoco ai sottili capelli biondi.
Fu, quella la prima volta che Lorenzo Maccagno vide la figlia di Cesarino Pianelli.
VI. RETI SOTTILI
Aveva detto bene la Colomba: "Gli uomini fanno i cattivi affari e poi tocca alle donne d'aggiustarli!". Che lo
spirito d'interesse e l'abitudine di trovar in ogni cosa il lato solido avesse spinto il sor Tognino ad accostarsi ai Botta
delle Cascine sarebbe quasi un fargli torto a negarlo. In procinto d'ereditare il grosso fondo di San Donato, egli aveva
trovato non inutile, nella sua perfetta ignoranza di cose agricole, d'appoggiarsi al signor Paolino, un uomo onesto a tutta
prova, già suo avversario e ora suo debitore, alquanto avariato nel credito ma un praticone di valore e da potervisi
interamente fidare.
Si aggiunga che da un pezzo si parlava di dar moglie a Lorenzo. Il più caldo di questo proposito era lo zio
Mauro, l'ex-impresario, che voleva ad ogni costo fargli sposare una sua protetta; ma il babbo non si fidava troppo di
suo cognato impresario e della sorella cantante, che avevano sempre in giuoco qualche loro misterioso interesse: e
poiché Lorenzo pareva proprio disposto a prender moglie, il vecchio sarebbe stato contento di trovarla lui la donna fatta
apposta per il suo balordo.
Lorenzo, un giovane colosso, sano e rubicondo, dal volto roseo e liscio come quello d'un bamboccione, a
ventisette anni non aveva ancora trovata una strada che conducesse a divertirsi senza far debiti. Questi erano in parte
conseguenza della sua leggerezza, e in parte conseguenza dell'avarizia paterna, che lesinava l'elemosina a un povero
figliuolo: al punto che il buon zio Borrola aveva dovuto in varie riprese soccorrerlo del suo e aiutarlo a pagare i così
detti debiti d'onore.
Ragazzo un po' fatuo, ma non antipatico e non cattivo nel fondo, buon compagnone, largo di cuore e di mano,
sotto l'apparenza dell'uomo forte e prepotente c'era in Lorenzo la bonaria spensieratezza del prodigo e l'incapacità
morale di resistere alle tentazioni, tanto a quelle che vengono dal diavolo come a quelle che vengono dall'angelo
custode. Una buona moglie poteva essere l'angelo custode, e poiché papà Tognino sentiva di esercitare un forte dominio
sul carattere fiacco del figliuolo, pigliò l'idea come si piglia una mosca in aria, chiuse il pugno e non la lasciò più
scappare.
Fu nel corso di questi pensieri, che frequentando per gli affari dell'amministrazione i dintorni di Chiaravalle, e
di San Donato, il vecchio Maccagno incontrò in varie riprese la figurina simpatica e non comune di Arabella Pianelli,
seppe chi era, indovinò nell'aria modesta e seria della ragazza una donnina di valore e come se lo colpisse una
ispirazione poetica, esclamò nel suo cuore:
"Perché no? ci sarebbe anche un'altra convenienza. Ho nell'idea che una ragazza così aggiusterebbe la testa a
quell'asino..."
Fu la natura primitiva che la vinse sulle ragioni dell'interesse? Fu una seduzione misteriosa, a cui il vecchio
spirito dell'affarista cedette alla vigilia del suo trionfo? Fu il desiderio che qualche cosa di bello e di gentile entrasse a
popolare la casa di un uomo vicino a ereditare quasi un mezzo milione? A non molto andare, in seguito all'eredità Ratta,
che non poteva tardare un pezzo e di cui teneva già in mano i frutti e la caparra, egli veniva a coronare un grandioso
edificio, lavoro di vent'anni di pazienza, e in questo edificio bisognava collocare qualche cosa.
Fu lo sgomento d'invecchiar solo, dopo aver lavorato senza uno scopo tutta la vita e colla prospettiva di
mantenere e d'ingrassare i vizi d'un disutilaccio e l'avidità dei furbi che vi speculavano addosso? Da qualche tempo,
sebbene a sessantatré anni un uomo della sua tempra non potesse dirsi vecchio, tuttavia non si sentiva più giovane e
l'idea d'aver una casa e una compagnia s'impossessò dell'animo suo con tanta impazienza, che da quel momento non
ebbe più requie.
Trovato il signor Botta sul mercato di Melegnano, provò a buttar fuori una prima parola; poi scrisse; poi tirò in
disparte Lorenzo e cercò di farlo ragionare sul serio una mezz'ora; poi interessò il curato e non ebbe più pace finché non
condusse Lorenzo alle Cascine a vedere e a innamorarsi. Gli fece tutte le prediche che si fanno in questa circostanza,
dimostrandogli che non basta essere al mondo, ma che bisogna starci con giudizio, che tutti devono lavorare in
proporzione del pane che mangiano; che il tempo passa anche per i giovani, e molto più per i vecchi: sicché egli poteva
morire domani col dolore di lasciar la sua roba in mano ai cani. Promise di pagargli i debiti, purché fossero gli ultimi e
di trovargli un'occupazione in Borsa, tanto che potesse imparare anche lui a distinguere il diritto dal rovescio d'una carta
da bollo e d'una obbligazione.
Lorenzo, un po' per necessità, un po' per la sua debolezza di carattere, che non sapeva resistere alla mano di
ferro dell'adirato padre, un po' per un confuso sentimento che il vecchio avesse ragione, o anche per un desiderio di
finirla con una vita noiosa, messo tra i debiti e la moglie, si lasciò trascinare a conoscere questa fittavolina , che
il babbo aveva scoperto tra i salici e gl'incastri delle Cascine Boazze.
S'immaginava di vedere una delle solite ragazzone dalle ganasce tonde, dalle spalle larghe, dalle mani
grassoccie e cortine, e si confuse nel trovarsi davanti a una figurina inglese, d'un biondo fino e delicato, con due occhi
intelligenti, una specie di contessina troppo di soggezione per lui. Ma il babbo non gli lasciò tempo di riflettere e
nemmeno quello di dubitare, Superbo di averla scoperta lui questa figurina inglese, appuntandogli un dito sullo
stomaco, gli disse:
"Tu, tu non sarai così asino da lasciarmela scappare. Bisogna meritarsela, zuccone, far giudizio, essere un
uomo, non una giraffa, pensare che io non ho più vent'anni e che posso morire domattina."
L'idea di questo matrimonio, una volta saltatagli in corpo, dominò il nostro affarista, non gli lasciò più tregua,
come quando sentivasi invasato dallo spirito della speculazione. Dove e quale fosse il guadagno, non sapeva discernere
bene nella confusione delle prime impressioni, perché, con tutte le arie signorili della sua bella figurina inglese, la
figliuola di Cesarino Pianelli non aveva di suo un quattrino di dote; ma con tutto ciò, vicino a tirar i remi in barca,
sentiva che nel suo riposo sarebbe stato per lui un guadagno immenso, incalcolabile, d'aver un filo d'amore e di
benevolenza nella vita. La pratica degli uomini (dalla quale non erano escluse le donne) gli fece sentire che Arabella
sarebbe stata capace di creargli d'attorno un'aria sana e un ambiente simpatico. E quando non fossero che illusioni, era
difficile che il vecchio ostinato rinunciasse a una sua idea prima di vederne il fondo.
Questo spiega in qual modo la sua lettera cadesse sulle Cascine e nel cuore di quella buona gente come un
fulmine a ciel sereno; in qual modo facesse strabiliare non solamente Arabella, ma coloro stessi che ricevevano quel
fulmine sul collo come una benedizione del cielo. Si spiega come alla lettera seguissero le visite, alle visite i discorsi, e
coi discorsi una smania quasi irragionevole di conchiudere e di far presto.
Arabella si trovò presa in mezzo a una sottilissima rete di fili di seta tra i quali erano intrecciati degli invisibili
fili di ferro. Prese tempo qualche giorno prima di rispondere, e quantunque il suo patrigno non osasse chiederle un
sacrificio, essa vedeva benissimo che il povero uomo viveva attaccato a questa sola speranza. La mamma non dubitava
nemmeno che ella non avesse a dir di sì. Sarebbe stata non solo una ingrata ostinata, ma una sciocca. Il giovine era
bello, allegro, e col tempo avrebbe ereditato qualche cosa come un mezzo milione. Era il Signore che voleva
compensarla della morte del povero Bertino: la vita è una bastonata e una carezza, una carezza e una bastonata
Arabella, dubitando di fare un sogno strano, sperava sempre di risvegliarsi a Cremenno. Stentava a persuadersi
che Dio volesse chieder tanto da lei, servirsi di lei per operare tanti prodigi, strapparla di punto in bianco al suo nulla
per buttarla anima e corpo in mezzo agli uomini e alle cose: le mancava il cuore, le tremavano i ginocchi...
Il signor Tognino non poteva mostrarsi verso di lei più cavaliere, più remissivo. Lontano dal far sentire la
superiorità del suo beneficio, era in lui continuo lo sforzo per rimovere le ultime paure e le ultime diffidenze della
fanciulla.
"Sappiamo che lei rinuncia alla sua vocazione" le diceva "cioè alla mano dello sposo celeste per sposare questo
bel mobile; ma il Signore non è geloso. E noi siamo tutti interessati a farla star bene, come se andasse in paradiso."
E qualche volta, tirandola in disparte, mentre le carezzava la mano, le sussurrava con tono paterno:
"Lei deve fare da mammina a questo figliuolo e vedrà che a poco a poco me lo ridurrà come un agnello.
Lorenzo non è mica cattivo; se ha un difetto, è di essere troppo di pasta dolce; si lascia menar via dalle occasioni. Non
ha quasi mai avuto una mamma si può dire, ed è cresciuto un po' come le piante; ma lei deve ragionare anche la sua
parte. Non per nulla sono venuto alle Cascine a cercare una nuora a dispetto di chi mi offre le duecento e le trecento
mila lire. Che importa a me il denaro? quel che voglio è una donnina savia, giudiziosa, con del criterio, che metta casa
anche a me, che son vecchio, e mi dia presto dei nipotini."
In questi discorsi il vecchio affarista stava a sentire la sua voce meno irritata del solito, e preso da una strana
commozione, si lasciava spesso intenerire e trascinare a confidenze e ad arguzie, che scoprivano il fondo d'una
giovinezza sprofondata da un pezzo, ma non scomparsa, sotto il mucchio degli anni e delle vicende. I preti non gli
avevano ancora giocato dei tiri birboni: e senza accorgersi, era vittima anche lui di quel fascino, che piglia l'animo
stracco dell'uomo al volgere dell'ultima giornata, quando sazio e seccato delle cose che si conoscono, il pensiero, per un
ritorno dello spirito, ricomincia da capo a carezzare delle illusioni.
Arabella esitò ancora un poco a dir di sì, quantunque vedesse che i giorni non passavano inutilmente anche sul
suo silenzio. In un momento di calda ispirazione e quasi di visione celeste essa aveva fatto voto della sua vita a
pacificazione dell'anima inquieta del suo povero babbo, che in tutti i passi della sua giovinezza aveva sentito come
presente e che dal suo sacrificio perpetuo doveva ritrarre un infinito beneficio di pace e di espiazione. "Ma i vivi hanno
più bisogno dei morti" le diceva il vecchio curato, dissipando i suoi scrupoli "e tu non devi credere, figliuola, che Dio
non sappia tener conto delle intenzioni e delle necessità. Bada che sotto il nome di vocazione non si nasconda un falso
desiderio di riposo e di tranquillità, perché alle volte il nostro egoismo si veste anche da frate e da monaca. Questo
matrimonio è una benedizione per la tua famiglia e le benedizioni, da qualunque parte vengano, fanno sempre bene ai
vivi e ai morti. Me ne parlava anche ieri il povero sor Paolino, che vede venir innanzi con spavento San Martino, e che
senza questa combinazione non saprebbe più dove dare del capo. Pensa alla tua povera mamma, carica di figliuoli;
pensa a' tuoi fratelli che restano di peso a un uomo che non ha l'obbligo di mantenerli. È subito detto: mi faccio
monaca... Ma quando tu andrai a pranzo a suon di campanello, non potrai, la mia figliuola, pensare senza rimorso a
questi tuoi parenti che non avranno forse da mangiare. Credi alla mia esperienza: quando una casa comincia a barcollare
o la si rifà o ci si resta sotto... E puoi credere di placare una povera anima tribolata, che è sotto la misericordia di Dio,
col procurare il danno e la disperazione di molte anime, verso le quali tu hai dei doveri maggiori? Tu dici di non
conoscere questa nuova gente che ti cerca. In primo luogo, è gente conosciuta dai tuoi e devi anche fidarti di chi ti vuol
bene; poi, conosco anch'io il sor Tognino da un pezzo, e ho qualche prova in mano che è un uomo non solo d'ingegno,
ma di buoni propositi. Ti citerò un caso. Per molti anni aiutò a pagare la pensione d'un povero figliuolo, che studiava in
Seminario, per puro spirito di carità, e lo fece segretamente per mezzo mio, che ne parlo a te per la prima volta. Sicuro
che gli uomini sono uomini e bisogna pigliarli coi loro difetti: ma Dio ha creato apposta le donne per tirarli al bene.
Procurino le donne di andare esse in paradiso e gli uomini andranno dietro. Del resto, che cosa di più santo, di più bello,
di più spirituale che il mettere il fondamento a una buona famiglia di cristiani? che il fondare, per dir così, il suo proprio
convento nella regola delle affezioni domestiche? che il veder crescere dei figliuoli nel santo timor di Dio? che il dar
insomma delle anime a Dio?"
Qualche altra volta, tornando dalla chiesa in compagnia delle donne delle Cascine, era costretta a ricevere le
congratulazioni di quella gente come se fosse già sposina. A nessuna veniva in mente che essa potesse avere dei dubbi o
delle ripugnanze.
"Questo era ben meglio che il farsi monaca, che il rinchiudersi in quattro muri a dir dei rosari. Questo era un
dar la vita ai morti e nello stesso tempo un andare in paradiso in carrozza. E che bel giovane! e che partito! si calcolava
che solamente San Donato valesse duecento mila lire e che il fittabile pagasse l'affitto col solo reddito del latte. E San
Donato era a due passi dalle Cascine, sicché poteva dire di maritarsi in casa, quasi sui ginocchi della mamma..."
Queste cose le donne gliele dicevano cogli occhi lagrimosi, e Arabella le confermava tacendo, piangendo
anch'essa, curvandosi sempre più al suo destino di ragazza fortunata.
Anche i muri delle Cascine pareva che si riavessero di sotto al peso delle ipoteche. I vecchi massai, che
conoscevano lo stato segreto delle cose, e che si vedevano sull'orlo di perdere da un giorno all'altro il padrone e di
sfrattare il paese, mostravano cogli occhi la loro contentezza, dicendo a onor del sor Paolino, che chi fa bene trova bene.
VII. ANGELICA
Arabella non aveva ancora detto di sì. Essa aspettava che parlasse in lei qualche altra ragione, dopo quella degli
altri. Lorenzo non era un giovane antipatico, il partito era bello, magnifico, il dir di no sarebbe stato per parte sua una
crudele ostinazione; ma quando l'anima è abituata a trovare ne' suoi abbandoni spirituali i teneri calori della carità e
della fede e la pia corrispondenza d'un amore senza confini, è naturale che titubi paurosa davanti a un bel matrimonio di
convenienza. Avrebbe essa potuto amare suo marito? Ora provava qualche cosa di duro e d'irritato nel cuore che la
metteva in sospetto. Anche nel matrimonio si possono commettere dei sacrilegi, si può perder l'anima, quando manca la
perfetta comunione degli spiriti; e ancora non sentiva di voler bene abbastanza allo sconosciuto, a cui doveva cedere
tutta se stessa.
Alle Cascine essa non aveva compagne della sua età e della sua condizione, alle quali potesse chiedere un
consiglio, e delle sue amiche di collegio poche erano in grado di fornirle degli schiarimenti. Solamente Maria Arundelli
era andata a stabilirsi a Milano, moglie a un professore di ginnasio, ma durante le vacanze non stava mai in città.
La mamma, povera donna, mezza disfatta per la morte del suo Bertino, non vedeva e non ripeteva che una sola
idea, anzi quasi non la ripeteva più, come se non ce ne fosse più bisogno. Badava invece a persuadere Arabella a
smettere i vestiti del collegio, che la facevano comparire goffa e senza corpo. L'unica persona a cui la ragazza soleva
chiedere qualche soccorso spirituale e qualche morale consolazione era la povera Angelica, una giovane contadina di
ventitré anni costretta a letto da una paralisi alle gambe e alla spina dorsale.
Abitava un cascinale poco distante dalla Colorina, cara alla sua povera gente, quantunque così malata, o forse
perché così malata, per quel sentimento di simpatia che stringe i forti ai deboli bisognosi, sentimento che la bontà, la
rassegnazione dell'inferma e la continuità delle cure rendevano ogni giorno sempre più profondo e raffinato.
I Malgascia erano persuasi che le orazioni e i patimenti rassegnati della loro Angelica facevano bene alla casa,
come se il Signore avesse incaricato lei di soffrire per tutti. Se la gragnuola non batteva il loro campo, se il loro fieno
era meno bruciato, se il fuoco non aveva mai toccata la loro paglia, se le bestie stavan bene, il merito era di quella
povera anima del purgatorio che, bella come un angelo, non si lamentava mai, non si lamentava mai.
Il male, il letto, il vivere sempre rinchiusa avevano non solo educata la coscienza, ma ingentiliti anche i
lineamenti della ragazza, che dal suo guanciale sorrideva dolcemente con un raggio di pia rassegnazione a chi entrava a
salutarla e a portarle qualche regaluccio. Le sue mani delicate e scarne lavoravano tutto il giorno nella biancheria della
casa e in qualche cuffietta o babbuccia di bambini; e spesso, quando il sole batteva vivo sulle impannate di carta, come
se si movesse in lei più forte il senso della vita, lasciavasi condurre a intonare le litanie con una voce che la sentivano
dal mezzo della campagna.
La domenica accorrevano le ragazze dei dintorni a trovarla. Sedute intorno al letto messo pulito, in bianco,
come quello di una sposa, ciascuna contava la sua, o invocava un'orazione speciale per i suoi malati. Tutte poi se ne
andavano coll'animo edificato, come quando si vede un castigo immeritato santificare un'anima.
Anche Arabella veniva spesso a tener compagnia all'inferma. Povera, illetterata, chiusa nel breve circolo delle
sue sensazioni casalinghe, Angelica s'incontrava coll'anima viva e penetrante di Arabella in un terreno fuori del mondo,
dove le anime parlano tutte lo stesso linguaggio, dove la scienza non è che una illusione perduta, per chi ha perduto il
suo tempo ad acquistarla, dove i dolori e i patimenti di quaggiù hanno una ragione, anzi la sola ragion d'essere.
Arabella, prima di dire l'ultima parola, volle consultare come un oracolo l'inferma, che molte volte le aveva
parlato con una chiaroveggenza meravigliosa. Dio si manifesta nelle anime che soffrono, più che nella luce del sole.
Per il viale dei salici giunse al cascinale un dopo pranzo, mentre la gente era sparsa sui lavori della campagna.
Entrò, come soleva, salì la scaluccia di legno, spinse l'uscio della camera.
Angelica, rivedendola, batté le due mani e gridò:
"Viva la sposa!..."
Allargò le braccia, nelle quali Arabella si gettò coll'abbandono di una bambina smarrita che trova la mamma. E
cominciò a piangere.
"Perché, perché?" chiese Angelica, carezzandola.
"Lasciami piangere. A casa non posso mai… Ho bisogno di sollevarmi il cuore. Tu mi compatisci, non è vero?
Ecco, mi sento già meglio" soggiunse, asciugandosi gli occhi e accostando la sedia al letto.
"Sento dire che questo matrimonio è una fortuna per tutti."
"Sì, è una fortuna: ma anche le fortune fan paura e io ero così lontana da quest'idea, tu lo sai. Io avevo
promesso alla Madonna che le avrei regalato questi capelli per la pace del mio povero papà. Non si rinuncia senza
dolore alla vocazione di tutta la sua giovinezza, e tu devi aiutarmi, Angelica, a vincere questa ripugnanza, perché sento
che ho torto e che devo restituire a' miei parenti il bene che mi hanno fatto. Anche il signor curato mi ha rimproverata e
me ne ha fatto uno scrupolo. Guai se io dicessi di no! Sarebbe come se io volessi rovinare la casa sulla testa della mia
gente. Ma qui, qui..." e colla mano segnava il cuore "qui c'è qualche cosa di morto, di troppo freddo, di troppo duro, che
non risponde alla chiamata, che rabbrividisce all'idea delle responsabilità che mi aspettano a Milano. Bisogna che tu
preghi per me, Angelica, e interponga presso il Signore i meriti della tua pazienza, perché io possa amare l'uomo che
devo sposare e che domani sarà padrone di me. Ah Dio! Dio...!"
Arabella, respirando profondamente, si coprì il volto colle mani presa da un brivido quasi di terrore che le
traversò tutto il corpo; e cadde in ginocchio nella stretta del letto, appoggiando la testa sulle mani della contadina.
Dalle impannate socchiuse entrava, insieme al riverbero verde e al tremolio delle foglie del vicino pioppo, il
soffio caldo dell'aria che scorreva sui prati. Nell'aia deserta chiocciavano le gallinette. La gran pace dei caldi meriggi di
settembre cadeva sul casolare isolato nel verde e penetrava nella rustica stanza dell'inferma non addobbata che da
piccoli quadri, da corone e da immaginette attaccate all'uscio.
Angelica, che per un'intuizione delicata del suo organismo sentiva più in là di quel che dicessero le parole,
commossa da un senso di mistica pietà capì e compatì la ripugnanza della vergine, apprezzò il suo sacrificio, e parlando
come soleva nei momenti d'ispirazione, col tono elevato e profetico di chi espone più una dottrina che dei pensieri
propri, prese a dire senza levar la mano dalla testa della sua compagna:
"Comprendo che tu abbia a rimpiangere la tua vocazione, povero giglio del giardino della Madonna. Che cosa
di più bello della santa castità? essa ci accosta agli angeli. Che cosa di più caro della nostra verginità, che ci fa tutte
figlie di Maria? Essere così vicine al sacro tabernacolo e sentirsi strappare via è un gran dolore. E tu avevi consacrata a
un'anima bisognosa questa tua vita di pensieri puri e immacolati, ma Dio non vuole, cioè Dio vuole da te qualche cosa
di più grande, di più bello. Non tocca a noi scegliere la nostra strada nel mondo. Oh, se così fosse, chi vorrebbe essere
ammalato, chi vorrebbe veder morire i suoi figliuoli, chi stentare tutta la vita per morire povero e solo in un ospedale?
Se la strada del tuo dovere è diversa da quella che tu avevi scelta, cara figlia della Madonna, non devi dire che Dio
s'inganna o che vuol troppo da te. Non è mai troppo il bene che si fa. Difficilmente il nostro dovere va d'accordo col
piacer nostro. La croce è dappertutto e per tutti; e dappertutto tu sarai obbligata ad avere della pazienza. Tutti ne
dobbiamo avere: tu che stai per entrare nel mondo, io che da quindici anni non esco da questo letto, tuo padre e tua
madre che lavorano pei loro figliuoli, colui che semina, colui che raccoglie, chi ha il campo bello, chi lo vede battuto
dalla tempesta. Dalla pazienza viene il coraggio e dal coraggio viene l'amore che fa piacere i nostri dolori. Gesù sulla
croce non sentiva i chiodi, perché il suo dolore era immerso nell'amore: e tu non sentirai le spine del tuo sacrificio,
perché nell'amore per tuo marito, per tuo padre, per tua madre, per i tuoi figliuoli, troverai il pagamento di ciò che perdi.
E l'anima tormentata a cui volevi consacrare la tua vita ne guadagnerà, perché ciò che solleva le anime è il sacrificio.
Apri il cuore, cara figlia della Madonna," continuò l'inferma alzando le due mani come se celebrasse un rito "e pensa
che ciò che tu soffri in questo momento è ben poco in paragone della disperazione e dell'abbattimento dei tuoi parenti,
se tu rifiutassi l'offerta della Provvidenza."
Un freddo fremito di venerazione scosse Arabella nell'intendere parole che parevano venire da un mondo
remoto. L'occhio di Angelica era splendente e sereno, la sua voce calda, misteriosamente eccitata ed eloquente, come se
veramente parlasse in lei uno spirito superiore. Forse era vero quel che dicevano i suoi, che in certi momenti essa aveva
l'ispirazione divina.
Arabella alzò la testa e lasciò che Angelica accomodasse un poco i suoi capelli scomposti dall'agitazione e per
la prima volta vide la possibilità di considerare se stessa e le cose della sua vita sotto un lato meno ristretto e meno
personale. Mentre prima essa sforzavasi a collocare se stessa in un piccolo dovere scelto da lei e accomodato ai suoi
istinti, ora sentì quel che vi può essere di nobile e di santo nella rinuncia della volontà.
La monachella lasciavasi trascinare dall'ordine delle cose a compiere il dovere scelto da Dio.
Stringendo le mani di Angelica, contemplando la miseria e la nudità di quella povera stanza, dove l'infelice
compieva pregando, sorridendo e cantando, il suo lento sacrificio, l'anima viva e impressionabile della giovinetta provò
un principio di quell'entusiasmo, che faceva così felici gli altri all'idea del suo matrimonio.
Rimase in compagnia dell'ammalata, in intimi e caldi discorsi, finché il sole non cominciò a nascondersi dietro
i pioppi, e se ne venne via col cuore cambiato. Scese la scaluccia, e attraversata l'aia, infilò il viale, sentendosi un gran
calore al viso, come se avesse attraversato una fiamma. Sul crocicchio delle due stradette s'incontrò in papà Paolino e
gli si mise al fianco.
Il buon uomo, dal dì che aveva posta sul tappeto la questione del matrimonio, non più osava guardar in viso la
figliuola adottiva, per paura che il suo sguardo avesse a pesar troppo nell'anima della fanciulla.
Da dieci o dodici giorni egli viveva col cuore sospeso in croce. Il suo destino dipendeva da una parola di lei.
Camminarono un tratto in silenzio lungo il canale, rasentando la chiesuola di mattoni, che si crogiolava nel
raggio rubicondo del tramonto, quando Arabella a un tratto si arrestò:
"Papà," disse con un leggiero tremito di voce "potrò rivedere ancora una volta le mie buone suore di
Cremenno?"
"Quando?" egli disse con uno sforzo di voce.
"Prima di andar laggiù, a Milano" soggiunse sorridendo e indicando la punta del Duomo, che usciva di tra le
piante lontane.
Papà Paolino, non potendo resistere alla commozione, cercò la mano della figliuola, se la portò alla bocca, la
baciò, bagnandola delle sue grosse lagrime, crollando il capo, come se cercasse inutilmente di contraddire: e
continuarono in silenzio la strada fino a casa.
VIII. I GIOIELLI DELLA SPOSA
Accesa la lucerna annerita dal fumo e dagli sciami di mosche che vi si posano la sera, il Pirello, con un
ginocchio sulla pietra del camino e una mano stretta al paiolo, stava rimestando una grossa polenta davanti a una
fiamma spropositata. Mamma Beatrice, vicina ai fornelli, sollecitava colla ventola un certo stufato del giorno addietro a
scaldarsi. Uomini e donne entravano e uscivano, urtandosi sulla soglia, chi con un sacco di medica sulle spalle, chi con
un cesto o con due secchi d'acqua che lasciavano sull'ammattonato un pattume di fango.
La vasta cucina inondata da quella gran fiamma d'oro, pareva ancor più disordinata del solito coi suoi sacchi
ammonticchiati alla parete, colle sedie scompagnate che perdevano la paglia, cogli zoccoli, gli sgabelli, le scarpuccie
dei bimbi seminate dappertutto, che nessuno pensava di raccattare o almeno di portar via.
Era il sistema della casa, aiutato dalla pigrizia di mamma Beatrice che la morte di Bertino aveva reso più
indifferente, dalla sfiducia di papà Paolino, che vedeva le cose andare a rotoli, dall'abitudine che avevano tutti di
comandare, nessuno di obbedire.
Naldo, il fratellino di Arabella, un ragazzo sugli undici anni, vivo come il fuoco, pieno di fame, picchiava una
musica disperata sulla scodella vuota, seduto davanti alla tavola rustica, dove diverse mani andavano preparando le
forchette, i piatti e i cucchiai d'ottone per la cena.
Arabella entrò con papà Paolino, e sedette presso al fratellino per farlo tacere. Il diavoletto, che aveva battuta la
campagna tutto il giorno in caccia di uccelli e di rane, non aveva un filo pulito. Le scarpe scalcagnate, sporche di fango,
lasciavano uscir i diti dei piedi, mostrando delle calze color di fango; e il fango saliva al naso, agli orecchi, dappertutto,
dando a quel caro monello l'aspetto d'un pezzente pescato in una gora. Ove mancavano i bottoni, s'era aiutato da sé con
lacci di corda e con spini di robinia.
Arabella, che aveva il cuore aperto, si sentì a un tratto molto colpevole di quel disordine, di quell'abbandono.
Naldo era suo fratello giusto, il ritratto in piccolo del suo povero papà, gli stessi occhi neri, la stessa carnagione bianca e
delicata. Se cresceva un monello e se portava intorno i segni della pezzenteria, la colpa non era soltanto della povera
mamma, stanca, abbattuta sotto il peso di tante cose e di tante disgrazie, ma ancora un poco di una certa monachella che
colla scusa di contemplare gli eterni misteri del paradiso, non si curava dei bottoni e delle calze della sua gente.
Domani, come una fata benefica delle leggende, essa avrebbe potuto con una parola trasformare quella rovina
in una casa ordinata, ricondurre la pace, la speranza, la volontà nel lavoro e nel bene; prendere essa l'autorità,
l'iniziativa, il comando, che viene dalla forza e dai mezzi, cambiare il bianco in nero, impedire che la rovina menasse la
disperazione, e che i suoi fratelli andassero per il mondo come veri vagabondi,
"Senti, Ara," disse Naldo, parlando sottovoce alla sorella "c'è stato due ore fa il sor Tognino, che ha lasciato un
magnifico astuccio per te. Vedessi! è pieno di perle e di diamanti."
"Dov'è?"
"La mamma voleva che ti chiamassi, ma papà Paolino non ha voluto, perché dice che tu non hai ancor detto di
sì. L'astuccio è di sopra nella tua stanza."
"Sta zitto, vado a vedere."
Arabella uscì senza dir altro. Il Pirello rosso e scalmanato agitò tre volte la polenta nel paiolo, riempiendo la
cucina d'un buon fumo caldo. La famiglia era quasi tutta raccolta. La Pirella col secchiello in mano e la tazza nell'altra,
versava il latte spumoso nelle scodelle di terra allineate sulla tavola. Gli uomini, che lavoravano in casa, prendevan
posto sui sacchi, dove s'era messo in guardia anche Brill, un cane ricciuto che non si ricordava più di essere stato
bianco. Mario, tornato da pochi giorni dal collegio, entrò colle gabbie e colla civetta e cominciò a litigar forte con
Naldo, come al solito. Le donne che avevan fatto il bucato sedevan sotto il portico, al piccolo chiaro del crepuscolo,
ciascuna colla sua scodella in grembo, e già tutti ormai avevano trovato il loro posto, il loro piatto, il loro cucchiaio, e le
bocche cominciavano a essere occupate, quando l'uscio che mette sulla scala si spalancò e apparve Arabella, col lume in
mano, coperta il collo, i polsi, il petto, i capelli, di perle, di diamanti, di braccialetti d'oro con grosse pietre di rubino e di
smeraldo, una vera apparizione miracolosa della Madonna santissima, che sulle prime incantò tutti gli occhi, poi trasse
un grido di meraviglia e di giubilo; tutti gridarono:
"Viva la sposa!"
Mamma Beatrice, a cui il marito aveva sussurrata una parolina in disparte, tocca nella parte più sensibile del
suo orgoglio materno, corse verso la figliuola, se la prese nelle braccia, la baciò a lungo sui capelli, la condusse nel
mezzo della cucina, dove uomini e donne e ragazzi, colla scodella in mano, si raccolsero ad ammirare quel non mai
visto splendore di gemme. Accorsero altre ragazze dal cortile, il portico si affollò e Arabella dovette farsi vedere anche
a quelli di fuori.
"O santa, se l'è mai bella!" bella!" "L'è un splendor che scuriss la vista." vista." "Non se ne vede... " " "L'è la Madonna de la Salètta, Delaida." Delaida." "Con vun de quist " disse il Pirello, indicando colla punta del cucchiaio un grosso brillante dello
spillone, "se pò mung la vacca anca al scur... "
"Tutti vollero dire qualche cosa. Le bambine scalze e spettinate a cui Arabella soleva far la dottrina in chiesa,
eccitate anch'esse da quell'apparizione, le baciavano il vestito e le mani.
Papà Paolino scivolò via e si nascose nello stanzino della pesa al buio. Aveva bisogno di piangere forte e che
nessuno lo sentisse.
IX. VITA NUOVA
Arabella era entrata nella sua nuova casa accolta come una regina.
Il sor Tognino non badò a spendere perché gli sposi avessero un bell'appartamento nella casa di via Torino,
sopra gli ammezzati, con l'ingresso dalla porta e dalla scala principale e tenne per sé due o tre stanze vicine, uscio a
uscio, sul medesimo pianerottolo, per essere pronto a ogni bisogno come un buon cane di guardia.
Arabella gli ricuperava un figliuolo ch'egli credeva perduto per sempre, e il sentimento della paternità,
trionfando sopra tutti gli altri interessi, in un momento di espansione malinconica, aveva mutata la durezza in amore,
dandogli una fresca e nuova energia, che soverchiava in lui la potenza delle abitudini.
Ogni giorno si faceva un onore e quasi un dovere di dividere cogli sposi il pranzo e un pezzetto di luna di
miele: e fu atto d'uomo savio e avveduto per non lasciare Lorenzo abbandonato nei primi tempi alla forza delle
abitudini.
Dove il figliuolo per ignoranza o per materialità mancava di spirito e di delicatezza, suppliva il babbo con una
continua e gelosa vigilanza, usando tutti i riguardi perché la sposina, mezza monaca e mezza bimba, non avesse a
soffrire di nulla, si abituasse a capire, a compatire, a contentarsi del meno male, in attesa del bene e dell'ottimo.
Lorenzo aveva veramente bisogno di grande compatimento. Cresciuto a caso, nella compagnia di giovani
allegri, con un ingegno limitato, chiuso a tutte le sensazioni astratte e filosofiche, portava in casa insieme al puzzo del
sigaro e del cognac le mosse del dilettante di cavalli, e le espressioni energiche, che rinforzano all'osteria le cattive
partite di scopa.
Eran vizi e modi esteriori, che lasciavan vedere, per dir così, come attraverso gli strappi di una camicia, una
carnagione sana, un fondo non pervertito, un vecchio ragazzo male avvezzato, non privo di buone intenzioni e di
sentimento, un bel matto allegro, se anche si vuole, che nella sua pecorile ignoranza spingeva l'ingenuità fino a lasciarsi
corbellare credendo di corbellare.
Capitato in mezzo a una compagnia di capi scarichi, tra cui Max Baratti e il marchesino di Brienne, fondatori
del famoso Piccione club , si lasciò facilmente ubbriacare dalle adulazioni con cui quei bravi signori avariati nel
credito cercarono d'interessarlo in una società per le corse di Senago, che non fece correre che cambiali. Lorenzo pagò
per sé e per gli altri, fin che piacque a papà Tognino di pagare; poi ricorse al giuoco e al fido di suo zio Borrola; e infine
si trovò immerso fino ai capelli nei debiti.
Arabella gli ottenne il saldo: ma quantunque avesse rinunciato ai cavalli, alle donne e agli amici, peggiori delle
donne e dei cavalli, il segretario del Piccione club non poteva di punto in bianco trasformarsi in un santo padre,
per quanto Arabella e papà Tognino fossero egualmente interessati a salvare un'anima.
Nelle prime settimane del suo matrimonio, quando si trovò nella piena balìa di quell'uomo giovane, robusto,
impetuoso, Arabella provò la paura dell'agnellino caduto nelle zampe dell'orso. Man mano che imparava a conoscere
suo marito e che scendeva a toccare la materialità di quella scorza vuota, un senso di compassione indefinita si
mescolava ai suoi timori e fuggevolmente una voce del cuore domandava se essa avrebbe mai saputo compiere la santa
opera di redenzione a cui Dio l'aveva chiamata. Nei momenti in cui era sicura di non esser vista, dal suo cuore umiliato
e gonfio si sprigionavano delle lagrime, che ella sentiva affacciarsi alle palpebre non richieste, quasi non avvertite; ma
poi un buon momento di Lorenzo (che non mancava di brio naturale) o le buone parole di suo suocero, che nutriva le
stesse speranze, riconducevano giorni più sereni. Nelle sue fervide preghiere alla Madonna essa poté illudersi di amare
suo marito, verso il quale slanciavasi qualche volta con impeti veramente generosi, che non trovavano che una sola
corrispondenza... sempre quella, la più semplice, quella che l'avviliva di più.
Ma verso la metà di novembre avvenne un caso che produsse nel suo cuore il miracolo. La luce dissipò il
freddo e le tenebre, e la vita che prima conduceva a caso, a balzelloni, per un terreno rotto, seminato di sassi, si trovò
aperta una bella strada maestra davanti. Il dottor Taruzzi assicurò che c'era un erede. Essa era madre!
L'avvenimento produsse un vivo piacere anche a Lorenzo che da qualche tempo, dominato senza avvedersene
dalla dolcezza di Arabella, sforzavasi di far l'uomo serio. Ma chi toccò il cielo col dito fu il nonnetto.
Quel sentimento di paternità che l'aveva condotto alle Cascine a cercare una moglie per il figliuolo, provò una
scossa elettrica alla notizia che sua nuora gli preparava un erede.
I preti e gli avvocati non gli avevano ancora giocato dei tiri birboni, e gli affari da qualche tempo eran passati
in seconda linea. Era per il vecchio affarista un momento di tregua, quasi di luna di miele, che preludiava serenamente
ai giorni del suo riposo. A ragione gli amici del caffè Martini, dove passava verso sera a leggere i telegrammi di Borsa,
vedendolo così alacre, così ringalluzzito e contento, gli domandavano se l'aveva presa lui la sposa.
Quanto v'era in lui di meno vecchio, di meno logoro, di meno stanco e di meno ostinato, conveniva come a un
banchetto a questa nuova festa della paternità, in cui insieme al sentimento naturale di famiglia, così vivo negli uomini
sani, si confondevano, in un misterioso amplesso di indulgenza, il rispetto, la riverenza, la compassione, la tenerezza per
le due tenere creature, che eran venute da poco tempo a popolare la sua casa.
In attesa che una di queste si rivelasse, concentrava i suoi riguardi verso quella che ne aveva più bisogno.
Siccome la gravidanza si presentava con qualche malinconia, come capita spesso alle creature un po' delicate,
il nonno fu tutto occhi e tutto orecchi perché alla nuora non avesse a mancar nulla. Tolse in casa una cuoca, fece
collocare una stufa americana in modo che nell'appartamento il caldo fosse diffuso uguale e mite in tutte le stanze; e al
venire delle prime nebbie, quando Lorenzo usciva la sera a fumare una pipa (il vecchio non aveva mai fumato in vita
sua), veniva a tener compagnia alla sposina, attizzava il fuoco sul caminetto; e mentre Arabella sedeva presso la
lampada a lavorare all'uncinetto in una babbuccietta di lana rosa, il nonno dava un'occhiata al Corriere della Sera
, si faceva contare i casi della giornata, contava egli i suoi, qualche volta pregava sua nuora di mettersi al piano...
Una volta, prima dei quarant'anni, anche lui aveva frequentato la Scala con passione. Allora non era ancora
inventata la musica difficile. Da orecchiante il suo Verdi lo gustava ancora. Arabella preferiva invece sonar della
musica da collegio, del Mozart, del Beethoven, cosette graziose, in cui il vecchio abbonato della Scala sentiva un gusto
nuovo, con in mezzo alle note quasi dei ragionamenti che lo facevano pensare. Stava a sentire in silenzio, poi andava a
dormire col capo pieno di quella musica, che ragionava a lungo, con dolcezza, in mezzo ai sogni; e gli capitava di
risvegliarsi di soprassalto, meravigliato egli stesso, come chi si desta a un tratto e vede la camera rischiarata dall'insolito
chiarore di una festa che si celebra di fuori. Di interessi e di affari non parlava mai colla nuora. A che pro? gli affari son
maschi e le donne son femmine. Arabella non sapeva nemmeno che ci fosse uno studio Maccagno nella casa: non ci
avrebbe capito nulla lo stesso. Era contenta che il matrimonio avesse accomodate molte partite, ma sforzavasi a tenersi
fuori dagli affari, anche per resistere alle insistenze della mamma, che faceva i conti sopra una figliuola maritata come
sopra una miniera.
In quanto al vecchio affarista sentiva istintivamente che una cosa sono gli affaracci della strada e un'altra cosa
è l'affezione di famiglia: proponevasi di tener nettamente separate le due amministrazioni, se si può dire così, quella dei
numeri e quella del cuore.
Quando la cugina Ratta avesse chiusi gli occhi per sempre, era sua intenzione di realizzare il patrimonio, di
dare un calcio a tutte le brighe che aveva in Milano, di semplificare la vita, di ritirarsi a sorvegliare i suoi fondi, e a fare
il nonnetto di campagna, beato come un papa; e non immaginava che gli affari son come le donne brutte. Si attaccano di
più quando temono d'essere abbandonate.
X. IL RISULTATO D'UN COLLOQUIO
La stanza dove il signor Tognino introdusse i tre delegati non era che un altro ammezzato un po' meno buio
dell'anticamera, colla finestra verso la via pubblica, arredato di pochi e vecchi mobili pieni di carte e di cartaccie alla
rinfusa.
In questa stanza il principale era solito ricevere i capimastri e i fornitori che lavoravano per conto suo nelle
fabbriche di Milano nuovo, ai quali anticipava capitali, garantendo il credito con buone ipoteche.
Uno scrittoio, un libro mastro, quattro sedie, uno scaffale, un ritratto affumicato di Cavour attaccato fuori di
simmetria formavano tutto l'arredo di quei quattro muri coperti di una carta color cioccolata, che riceveva una luce di
rimando e l'onda dei rumori e dei gridi della viuzza vicina.
"Venite avanti, sedetevi se trovate da sedere e cercate d'esser chiari e corti, perché il mio tempo è prezioso."
Così disse con aria napoleonica, mettendosi a sedere in una poltroncina lucida di pelle senza guardare in faccia
a nessuno, anzi mostrando di occuparsi interamente d'un fascio di carte che aveva portato con sé.
"Chi siamo, è inutile ch'io lo dica, perché il nostro parente mi conosce e questi sono altri parenti della povera
Carolina, per la quale..." disse Aquilino, indicando col cappello Salvatore che si stringeva il naso colla berretta, e
Angiolina che con un faccino morbido e sorridente seguitava a far inchini e a fregarsi dolcemente i palmi, come se
affilasse due coltelli.
"Risparmiate pure le presentazioni," interruppe l'altro, tuffando rapidamente la penna nel calamaio e scrivendo
una fila di numeri sul rovescio d'una polizza, "io vi conosco e non vi conosco e per me Aquilino, Andrea, Giosafatte,
Tintimilia..."
"Angiolina, non Tintimilia, Angiolina, Angiolina, Angiolina..."
L'ortolana ripeté tre volte il suo nome armonioso con una cantilena sempre più piena di grazia e di delicatezza,
accompagnando ogni volta la musica con una bella riverenza, come fanno le prime donne quando ringraziano il colto
pubblico. Credeva così di obbedire agli ordini del vice-ricevitore, che andava raccomandando le belle maniere. Ma
Tognino le rispose con una occhiata cattiva saettata di sotto alla piccola tesa del cappello e tornò a scrivere i suoi
numeri.
"Insomma, che cosa volete?"
"Che cosa vogliamo?" riprese con una intonazione più elevata Aquilino, facendo un passo avanti. "Il notaio
Baltresca ci ha data la comunicazione e ci ha detto di venire, perché non è possibile che la buona Carolina, sapendo
d'avere molti parenti poveri, abbia voluto sobbarcarsi, dirò così, a un viaggio così lungo, lasciando a tutti in mano una...
con poco rispetto parlando, mentre don Giosuè Pianelli, mazzacronico del Duomo..."
"Un bel prete sporco che il sor Tognino conosce benissimo..." aggiunse Angiolina sempre con delicatezza.
"Ha le prove questo don Giosuè riverito?" chiese l'affarista, alzando il viso, e fermandolo in faccia all'Aquilino,
colla penna sospesa e stretta nella mano. "Se questo vostro prete ha della carta in mano la faccia cantare. Ci son fior di
tribunali in Milano, fior d'avvocati. Sapete dove sto di casa. Fatemi citare e soprattutto fuori le prove, le prove, le prove.
A ciarle siamo tutti milionari. Fate una causa. Se avete bisogno di un avvocato, qui c'è la guida di Milano. Ce ne sono
cinquecento a Milano di avvocati, pei quali non è mai troppo il numero dei minchioni."
"Senti, senti..." scoppiò a dire questa volta l'Angiolina, dando fuoco alla prima bomba.
Ma Aquilino entrò in mezzo e col gesto d'un direttore d'orchestra che segna la battuta:
"Abbiate pazienza," disse alla donna "lasciate prima dire una parola a me e poi parlerete voi"
"Sì, è meglio, perché se parlo io, è la rivoluzione" soggiunse l'ortolana, correndo come se volesse andarsene.
Quando fu sulla soglia, piombò sopra una sedia ch'era lì e incrociò le due braccia solide e tonde sul petto, per
quanto permetteva di farlo quel che c'era sotto, e dondolando le gambe che stentavano a toccar terra, comandò al
vice-ricevitore di parlare per il primo. Il Boffa, che un resto di flussione faceva più taciturno del solito, alzò il mento e
cominciò a grattarsi il collo.
Aquilino, col tono ragionevole d'un uomo che ama discorrere e ragionare bene le cose, agitando il cappello e
raddolcendo le parole con un sorriso di celia, riprese a dire:
"Mi vien da ridere. So anch'io che non è mai troppo il numero dei minchioni a questo mondo. Il mio buon
parente Tognino mi conosce da un pezzo e adesso è inutile rivangare il sangue. Ho fatto il quarto a tarocco più di venti,
più di cento volte e ho strappato l'ultimo dente alla vecchia e venerata cugina. La povera Carolina era una Maccagno,
che ha sposato un Ratta, Gioacchino Ratta, che ha fatto i denari cogli appalti, per cui, a rigore, se c'è gente che ha diritto
all'eredità... cose da riderci su... siamo noi Ratta, tutta gente rovinata come la finanza. Questa era la intenzione della
defunta".
"La qual defunta, caro il mio Tognino..." venne a dire saltando dalla sedia e correndo verso la scrivania la
donna; ma Aquilino fu svelto, la prese al volo, la fece girare sulle gambe e la ricondusse a sedere, gridando anche lui:
"Adesso parlo io, corpo di Bismarck, dopo parlerete anche voi".
E tornando verso Tognino, che continuava a scrivere come se non ci fosse nessuno, seguitò:
"Noi non abbiamo in mano, per modo di dire, la prova palpabile, proprio il pezzo di carta che dice così e così;
ma abbiamo la testimonianza di molte persone, vero, Salvatore?"
Il Boffa alzò la barba, mosse un braccio, come se tirasse un mantice per dar fiato all'organo, ma non mandò
fuori che un sordo mugolìo.
Toccò ancora all'Aquilino andare innanzi:
"Farò un paragone. Non abbiamo in mano la carta del salame, per dire che qualcuno ha mangiato il salame, ma
ne sentiamo l'odore. Il nostro buon cugino Tognino sa bene i suoi conti e può insegnare, mi vien da ridere, il calcolo
sublime a tutti noi; ma io ho visto il mondo. Sono stato in Calabria, e so, corpo di Bismarck, che a questo mondo un po'
per uno fa male a nessuno. Un'occhiata anche a noi, dalla parte di Dio! Si lavora come bestie, siamo carichi di figliuoli,
e qualche cosa bisogna pur che si mangi anche noi per poter stare in piedi..."
"Adesso ho capito. Prove non ne avete che io ho rubato un testamento, come dite voi; ma siete in trenta, siete
in quaranta e credete di farmi paura. Non potendo portarmi via l'eredità, perché la legge mi dà la forza e io sono nel mio
diritto, vorreste colle vostre prediche spillarmi dei quattrini, quasi in forma di tacitazione per poter dire dopo: Vedete?
Se ci ha dato questo, è perché sa d'avere la coscienza sporca. Son più vecchio di voi e conosco le trappole. Il notaio
Baltresca sa quel che deve a ciascuno. Per conto mio non dò un quattrino a nessuno."
Tognino parlò con voce secca, gestendo con furia coll'indice magro magro, col tuono d'uomo irritato e offeso
nel suo diritto.
L'Angiolina, prima ancora ch'egli avesse finito il suo ragionamento, appoggiati i pugni ai fianchi robusti,
camminando con passi piccoli e strisciati come una ballerina, era venuta a piantarsi davanti al tavolino, dondolando
tutta in un pezzo, col capo inclinato da una parte, l'occhio socchiuso, quasi semispento, come se dormisse in piedi.
"Dunque, niente a nessuno..." declamò colla voce grave di chi intona un salmo.
Aquilino cercò col mettersele davanti di far paravento, ma la donna scartò di fianco, e afferrato il volume
panciuto della Guida di Milano , se lo cacciò sotto il braccio e tornò a cantare, ma con tono più rialzato:
"Niente a nessuno, sor ladrone illustrissimo…"
"Piano colle parole, o chiamo le guardie…" disse il signor Tognino, alzandosi di scatto e battendo quasi il suo
dito ossuto sul naso della donna.
"Dobbiamo andare adagio colle guardie, sor Tognino riverito! lasciamole stare le guardie! c'è in Verziere della
gente che non ha paura delle guardie..."
La donna, sbarrando gli occhi pieni di quarantotto, pareva un cagnaccio in atto di scagliarsi su un gatto, e a lei
rispose l'uomo con un occhio da vero gatto, un occhio quasi verde, avvelenato, mentre colla mano irritata faceva saltare
sul legno un tagliacarte di bronzo massiccio che mandò un suono forte e squillante.
"Noi non abbiamo prove tu dici, brutta faccia di mezzo impiccato!" gridò colla sua bella voce spiegata
l'ortolana. "Dunque noi non siamo parenti come gli altri... Quel che dice don Giosuè è falso; quel che dice l'avvocato
Baruffa è falso; quel che la vecchia aveva detto ad Aquilino è falso. È la carta che tu vuoi, Maccagno. Tu hai bisogno
della carta, o furfantaccio. Non contento d'aver raggirata la vecchia balorda, di aver cacciata via la sua cameriera, di
aver chiusa la porta in faccia ai parenti, di aver mangiato la casa e i fondi di quella bigotta che ti manteneva, tu vuoi
anche della carta, o schifoso..."
Ferruccio, che stava a sentire nell'altra stanza, si lasciò cadere sopra una sedia.
"Questo non è parlare..." gridò Aquilino, volgendosi irritato al Boffa, che mosse una gamba.
"Questo è parlar chiaro, il mio regio impiegato; questa è la messa cantata. E non hai schifo del pane che mangi,
o Gattagno, fatto col sangue della povera gente? Non hai schifo di mantenere le tue sgualdrine e quelle del tuo Bomba
coi quattrini dei poveri padri di famiglia? Ci vuol altro che mandare in lusso la nuora smorfiosa..."
Ferruccio, che ascoltava di fuori, si coprì gli orecchi colle mani.
Tognino fece un certo segno ad Aquilino, strizzando l'occhio con un moto particolare e parlante, che persuase
il vice-ricevitore a discorrere col Boffa. Costui entrò perfettamente nell'idea, e come se gli scoppiasse a un tratto una
bomba nel ventre, saltò addosso alla donna, la ghermì per un braccio e cominciò a tirarla nella stessa maniera che si tira
un mobile pesante o una bestia riottosa.
La donna, non potendo resistere a quella forza di ferro, si lasciò trascinare: ma volle gettare in faccia a Tognino
tutti i titoli cavallereschi che si usano in verziere in queste occasioni. Vociò in anticamera, vociò sulle scale e non si
persuase a smettere nemmeno quando fu in corte. Strillavano in lei diecimila ortolane.
"Le donne non sono responsabili e io mi asciugo le mani di quest'acqua sporca" disse Aquilino con tono
amichevole, fregando la mano che aveva libera sulla manica dell'altro braccio come se l'asciugasse davvero. "Nemmeno
quando si giuoca a tarocco mi piace di gridare, vero, caro cugino? perché chi ingiuria, punto primo, ha sempre torto, e a
me piace discorrere."
"Dunque avete delle prove?" riprese il caro cugino con piglio bonario, ripigliando la penna.
"Benedetto! non si vuol mica portar via il testamento, ma se nel tagliare il panettone, per un esempio, cascano
delle briciole..."
"Il notaio Baltresca sa quel che deve fare."
"Darà cento lire a testa per elemosina. Cento lire, caro Tognino, sono in queste condizioni un insulto."
"E allora fate una causa."
"Lei dice così perché sa che non siamo in grado di fare una causa."
"E allora lasciate stare..." seguitava a ripetere pazientemente l'altro, bagnando spesso la penna e scrivendo,
scrivendo e bagnando.
"Tanto fa come dire: affogatevi, strozzatevi, ungetevi di lucelina e datevi il fuoco."
"Oh insomma...! io non vi chiedo che una cosa sola..." proruppe questa volta con un gesto d'impazienza l'abile
affarista, aprendo le due mani come due ventagli.
"Quale?" ebbe ancora l'ingenuità di chiedere il
vice-ricevitore"Le prove!"
Aquilino capì che non istava più nella sua dignità d'insistere. Il diavolo fa i birboni e poi li acceca. Si mise il
cappello in testa, e si cacciò le due mani nelle tasche sotto le falde del suo stiffelio della festa, lasciando cadere uno
sguardo di compatimento sopra un infelice che, per l'avidità dell'oro, commetteva delle abbiette vigliaccherie. Aquilino
aveva combattuto a Mestre con Poerio e poteva bene dall'alto della sua povera, ma onesta dignità, commiserare un
meschino che si avviliva nel fango. Queste cose disse o credette di esprimere colla lunga occhiata con cui salutò il
cugino, mentre avviavasi verso la porta. Sulla soglia si fermò, si voltò, sollevò un dito all'altezza del cilindro e declamò
la sentenza del Metastasio:
Se a ciascun l'interno affanno
si leggesse in fronte scritto...
E uscì tutto d'un pezzo, non degnandosi nemmeno di finire.
Ci pensò l'Angiolina a finire. Trascinata sulla strada dal Boffa, che tirava come un argano, si appoggiò al muro,
tra la porta dell'osteria e il tabaccaio, in faccia alla finestra dell'ammezzato, e cominciò, o per dir meglio, seguitò a
gridare:
"Maccagno birbone! Maccagnaccio ladro! fatti vedere, faccia d'impiccato".
C'erano abbasso molti altri parenti interessati a far nascere scandali, che aizzavano l'ortolana a gridare più
forte, che suggerivano le parole delle litanie. La donna, coi pugni appoggiati alle anche, il viso in una fiamma, l'occhio
grosso e lucente, tirava un mezzo fiato, commentava alla gente, che prese subito a radunarsi, chi era il Maccagnaccio
ladro, che cosa aveva fatto, che cosa aveva rubato: poi subito tornava da capo:
"Gattone, Battista Scorlino, Boggia della povera gente!"
Ferruccio sentivasi venir male, gli tremavano le gambe.
A questi insulti, che salivano dalla pubblica strada, il signor Maccagno non seppe più star fermo. Saltò in piedi,
venne a dare un'occhiata breve e tagliente attraverso i vetri polverosi, stringendo ancora il tagliacarte di bronzo come un
coltello, masticò senza inghiottirle delle parole amare e avvelenate, trovando nell'irritazione dell'oltraggio la forza che
non gli veniva data dalla buona coscienza.
Nel livore dell'odio e della reazione selvaggia, l'egoismo, ingannando se stesso, confondeva il legittimo diritto
della difesa col diritto del più forte, che non è sempre il migliore, come pare al lupo della favola. L'uomo arido e
sprezzante ritrovava nella necessità della battaglia quasi un senso di orgoglio, che si accompagna sempre al valore,
qualunque sia la causa per la quale si combatte. E come si sa, l'orgoglio si confonde spesso coll'onorabilità e aiuta con
questa a confondere le idee, o almeno quelle che non desiderano troppo d'essere chiarite.
Erano nell'affarista quasi due creature in cozzo tra loro. L'una, la primitiva, capace di idee buone e generose; e
una seconda, quella del mestiere, che non intendeva che una ragione sola, l'interesse. Queste due nature s'erano fatte
quasi due abitazioni nella sua coscienza, e come due vicine in discordia, cercavano sempre di non incontrarsi e di non
farsi vedere insieme; si può dire che invecchiassero nella stessa casa, quasi senza conoscersi, odiandosi, respingendosi a
vicenda, in una paurosa attesa, quale di loro due sarebbe morta prima, e quale sarebbe rimasta padrona assoluta della
casa.
"Grida, squàrciati, strega!" brontolò, pensando che tutti i cenci di quei pidocchiosi miserabili non avrebbero
mai potuto mettere insieme il piccolo cencio di carta che le fiamme del caminetto avevano divorato insieme alla malizia
dei preti e degli avvocati. "Sgòlati, crepa! Una carta abbruciata non c'è Dio che la risusciti."
Da questa parte potevano assalirlo in cinquecento, ma la prova che la vecchia avesse fatta una carta non l'aveva
che lui, e nemmeno lui era più in grado di presentarla. Le ingiurie e le insolenze pubbliche non facevano che dargli
qualche ragione di più, se non si vuol dire che le sue ragioni cominciassero da queste. Un cagnolino debole ha bisogno
d'essere aizzato per risolversi a mordere. Bene! le ingiurie e le insolenze aiutavano a farlo comparire vittima
perseguitata. Si aggiunga che un torto fin che dorme (e in fondo sentiva d'aver torto in questa guerra) è come un lupo
addormentato che si lascia ammazzare stupidamente a colpi di bastone. Queste punture obbligavano la bestia a dormire
con un occhio aperto e a mandare di tanto in tanto un sordo ruggito d'avvertimento ai ragazzacci e ai villani della
contrada.
"Piglierò le mie note, stupida creatura."
Tornò al tavolino, e tolto un foglio di carta, notò il giorno e l'ora, come se pigliasse gli appunti per un processo
verbale.
"Tognino, ladro di testamenti" urlò la donna.
"Benissimo" e scrisse anche queste parole sulla carta.
"Assassino della povera gente!"
"Brava, dinne un'altra, brutta cagna."
"Schifoso!"
"C'è abbastanza per cacciarti in galera. Aspetta."
Si mosse ancora dal suo posto e buttata nella viuzza un'altra rapida occhiata, notò molta gente sulle botteghe,
riconobbe l'albergatore, il tabaccaio, il lattivendolo, qualche altro, dei quali volle scrivere i nomi nel verbale, per
chiamarli tutti come testimoni d'accusa nel terribile processo d'ingiuria, oltraggio e diffamazione ch'egli avrebbe domani
intentato all'ortolana e a' suoi compari. Oh se li avrebbe fatti ballare!
"Ferruccio!" chiamò a mezza voce, aprendo un poco l'uscio verso la scala.
Il giovinetto, colle convulsioni nelle gambe, era disceso in corte e andava cercando cogli occhi qualche
sorvegliante o una guardia di questura che facesse smettere la spiritata. Non pareva più Milano. La strada in poco tempo
fu piena di curiosi e di sfaccendati e anche di gente che aveva qualche cosa di meglio da fare, ma che il caso nuovo e
stuzzicante teneva lì, fermi a guardare e a pestar la premura coi piedi.
Chi rideva, chi canzonava, chi eccitava la donna, credendola ubriaca, a dirne sempre delle più grosse. Intorno a
lei si parlava (come si può parlare tra gente male informata) della vecchia Ratta, che aveva lasciato un milione: del
canonico Pianelli che aveva, d'accordo col Maccagno, rubato il testamento e s'eran diviso mezzo milione ciascuno:
dell'avvocato Baruffa, il quale aveva le prove in mano che la vecchia era stata avvelenata: e altre siffatte fanfaluche, che
parevan vere a chi le diceva, in proporzione del gusto che ci pigliava a dirle.
E siccome questo gusto è sempre un po' meno di quello che prova chi le ripete, in poco tempo la storia del
testamento e del veleno si sparpagliò in tutto il quartiere, e a furia d'esser data per vera, divenne verosimile. Chi rideva
come alla commedia, chi, più interessato e quindi meno ragionevole, parlava d'impiccare, di bastonare, di cavare il
denaro dalle budella. E come di fuori, così nel vano del cortile sporgevano teste di donne, berretti di cuochi e di
lavoranti, correvano voci da muro a muro, da scala a scala, mentre dai retrobottega uscivano i commessi e i facchini di
studio a domandare, a sentire, a vedere, a mettere il naso.
Ferruccio, impaurito dal crescente bisbiglio, vistosi quasi preso di mira dai curiosi, chiamato dalla voce
dell'Augusta che strepitava in cima alle scale, risalì le quattro scalette a corsa, e stava per entrare nell'ammezzato,
quando nell'arco della porta risonò un grido acutissimo, un grido terribile di donna spaventata o ferita, un grido che fece
balzare Tognino Maccagno dalla scranna, e suscitò un immenso susurro di voci adirate e scandalizzate. Tognino
Maccagno, stringendo sempre quel tagliacarte acuto e lucente come un coltello, uscì, afferrò Ferruccio che vacillava sul
pianerottolo, se lo tirò dietro per un braccio, scese a precipizio, passando, urtando, tra la gente, livido in faccia, e arrivò
nel momento appunto che Arabella stramazzava mezza morta ai piedi della scala.
Tornava dall'aver fatto una visita a Maria Arundelli che abitava verso le parti di Porta Genova. Giunta in via
Torino, invece d'entrare in casa per la porta principale, svoltò ancora nella viuzza, per ripetere e per aggiungere una
nuova raccomandazione a Ferruccio in favore della povera Stella, e per incaricarlo di qualche sussidio.
Svoltato appena l'angolo, era stata ravvisata dall'Angiolina, che a vederla, fu presa da una nuova idea. Lasciato
il posto, dove sbraitava all'aria, l'ortolana andò incontro alla moglie di Lorenzo Maccagno, che veniva rallentando il
passo, coll'animo sospeso allo spettacolo della folla insolita che ingombrava la strada, le piombò subitamente addosso
come un'aquila che ghermisce una tortora, e presala per un lembo del vestito cominciò a chiamarla ladra, moglie di
ladri, nuora di ladri, manutengola...
Arabella, còlta all'improvviso, trasalì, stentò a capire, e per l'istinto prese a correre verso la porta. E l'altra
dietro:
"Mettilo giù quel cappellino, smorfiosa, figlia di ladri..."
Arabella vide come una gran fiamma rossa, un fuoco agli occhi, affrettò di nuovo il passo, mentre sentiva il
sangue precipitare. E l'altra sempre dietro, a incalzarla, a tormentarla fin sotto la porta, dove allungò la mano al collo
della giovine, che inorridita gettò un grido, quel terribile grido, si rivoltò, vacillò, si resse colle mani al muro, poi vide
scendere il buio, sentì la morte venire... e cadde sugli ultimi scalini.
Molti uomini, disgustati a quella scena, presa in mezzo l'ortolana, la cacciarono via, bistrattandola e battendola.
Essa corse e sparì come una grossa talpa, tirandosi dietro un nugolo di ragazzi.
"È niente. State lontano, non toccatela... È niente, Arabella. Un po' d'acqua. È meglio portarla di sopra. Fate
stare indietro la gente, per bacco! Arabella, è nulla, mi creda; è uno sbaglio. Pigliala, Ferruccio, che la portiamo su."
Era il signor Tognino Maccagno che parlava così, che ordinava, che teneva lontano la gente, sorreggendo il
corpo della giovane svenuta, trascinandola con uno sforzo verso la scala, mentre Ferruccio, cogli occhi velati da un
fiume di lagrime, la prendeva fasciandole modestamente i piedi nel vestito, e aiutava a portarla su per le quattro scalette
fino all'ammezzato. Pareva che portassero una morta.
Aquilino si collocò ai piedi della scala e col tono irritato di chi non ama le vigliaccherie, persuase i parenti a
non far scene, ch'era una vergogna. Pigliarsela colle donne è più che una vigliaccheria, è una sporchezza. Il veterano,
fremendo, cominciò egli stesso colle mani e col fazzoletto rosso di cotone a mandar via la ragazzaglia, che si caccia
dappertutto come le mosche.
Quando fu tutto finito, arrivarono le guardie.
Arabella, posta a sedere sopra la poltroncina di pelle, cominciò leggermente a sospirare. Il suocero le sorresse
colle mani la testa cadente, premendosela sul petto, mentre due o tre buone donne accorrevano con dell'acqua, con
dell'aceto, con del rum. Essa riaprì gli occhi, li girò mollemente intorno con aria trasognata, sospirò, si ricordò, strinse la
mano del parente per ringraziarlo, e dopo aver mormorato delle parole chiuse, uscì a dire:
"Non c'è più quella donna?"
"Nossignora, non c'è più" disse in fretta Ferruccio, che tremava sempre come una foglia.
"Non c'è più nessuno. È stato un equivoco... Ha creduto che fosse chi sa chi... Come si sente? vuol andare di
sopra, Arabella?"
Il vecchio Maccagno parlava con una voce così alterata, che egli stentò a riconoscerla per sua.
"Se queste buone vicine mi accompagnano..."
Entrano l'Augusta e la Gioconda, che si strinsero amorosamente intorno alla padroncina. Arabella si sforzò di
alzarsi, ma non poté reggersi. Sentiva la testa in fiamme e la vita fuggire. Le due donne presero la poltrona e la
sollevarono così, mentre Ferruccio correva innanzi a spalancar gli usci. Il giovine gemeva senz'avvedersene, come
quando si soffre in sogno. Fu portata su e messa subito a letto.
Una delle vicine, la moglie del mercante, capì che bisognava il dottore e ne avvertì subito il signor Tognino.
"Perché, perché?" domandò il vecchio sbarrando gli occhi.
"Ho paura che perdiamo le belle speranze."
Tognin Maccagno si portò i pugni stretti e angolosi alla bocca; ma non volendo mostrarsi avvilito, voltò le
spalle e uscì. In anticamera trovò Ferruccio, fermo in mezzo, come un mobile dimenticato.
"Hai visto Lorenzo?"
Il ragazzo disse di no colla testa.
"Sai dove sta il dottor Taruzzi?"
"Sì, lo so."
"Va a chiamarlo."
Il giovane s'avviava già per uscire, quando il principale lo richiamò di nuovo:
"Se vedi Lorenzo, non dirgli nulla com'è stato. Chiama il dottore e poi to'... son dieci lire..." Tognin Maccagno
trasse con mano tremante il portamonete e dette il denaro. "Vai a Porta Romana, pigli il tram di Lodi, e se non c'è, pigli
una carrozza e avverti la sua mamma, sai? alle Cascine..."
"Sì, sì" disse il ragazzo, non accorgendosi che per la prima volta il principale gli dava del tu. E tornò a
discendere le scale correndo.
"Il soggetto è per natura delicato," osservò il dottor Taruzzi sul pianerottolo, dopo aver visitata la malata,
"però, dopo l'accidente, il fenomeno è regolare e non presenta pericolo. C'è bisogno di un'assoluta quiete per una
ventina di giorni e raccomando una continua vigilanza. Poi farebbe bene l'aria di campagna. Del resto, gli sposi son
giovani e non sono i figliuoli che mancano a questo mondo. In quanto al nonno, caro signor Tognino, abbia pazienza
anche lui per questa volta."
XI. LA VITTIMA
Il colpo fu così improvviso, così impreveduto, che il signor Tognino non ebbe il tempo di impedire una
dolorosa sventura. I suoi nemici nell'assalir lui erano passati sul corpo della sua nuora. Il colpo era dato, perdita
irreparabile. E qual perdita! A farlo apposta non avrebbero potuto ferirlo in una parte più viva e più sensibile. In questa
prima speranza di casa Maccagno il vecchio cuore era balzato e risorto a una vita nuova: nuovi e grandi progetti eran
stati fondati su questa speranza; a un tratto tutto cadde e sparì. E la perdita fu ancor poco in paragone dello spavento,
perché Arabella per cinque o sei giorni stette a un filo di voltar via anche lei, abbruciata da una febbre di quaranta gradi;
e rimase al di qua per miracolo, estenuata, senza sangue, cogli occhi ancora pieni di spavento, come se si vedesse
sempre le mani della strega addosso, come se una folla di gente intorno al letto seguitasse a urlare: ladra, figlia di ladri,
metti giù quel cappellino!...
La febbre di quei giorni pericolosi non fu per lei senza fantasmi e senza visioni torbide e spaventose. Che il suo
povero babbo si fosse ucciso per debiti e per isfuggire al disonore di un processo, era la storia, si può dire, di tutta la sua
vita; sperava di averla espiata, e dopo otto anni lusingavasi quasi che la gente l'avesse dimenticata: ma la gente ha buona
memoria. Vedendola passare in gran lusso, col bel cappellino, questa gente aveva voluto mortificarla. Glielo diceva in
mezzo agli spauracchi del suo delirio una voce fioca, che ragionava di sotto al tumulto delle altre voci, come se la
rimproverasse di non aver saputo proseguire fino alla fine l'opera d'espiazione, facendosi monaca, dando a Dio anima
per anima...
Eppure era stata così contenta di sentirsi madre! nel possesso di una creatura erale sembrato di trovare la
ragione e il compenso di molte tribolazioni. Una dolce pacificazione di spirito l'aveva invasa e dominata in questi due
mesi. La tenerezza materna, che aveva scoperta presso il lettuccio del fratellino agonizzante, s'era risvegliata di
soprassalto al dolce mistero della maternità vera, le aveva inondate le vene della gioia più pura e più completa che sia
dato godere a una donna.
All'uscire dalla febbre e dal pericolo si ritrovò come isolata, con un senso di paura e di stanchezza nell'anima,
colla disperazione che prova il navigante, che da uno scoglio arido e deserto vede affondare il legno che l'ha portato e
non ha davanti che un mare senza sponde.
Mamma Beatrice rimase a Milano sei o sette giorni, finché ci fu maggior bisogno e non la richiamarono alle
Cascine. Nel suo buon senso beato e rassegnato cercò di dimostrare alla figliuola che, morto un papa, se ne fa un altro,
che son cose che càpitano a tutte, che a lei era capitato di peggio la prima volta per colpa d'un cane grosso che l'aveva
assaltata in istrada.
"Non sono i figliuoli che mancano a questo mondo, cara miseria! fan tutte così le sposine: prima piangono per
averne, poi piangono perché ne hanno troppi."
E la buona donna, rifiorente e bella ancora nel suo piccolo lutto, sfogavasi a raccontare le sue miserie e quelle
del povero uomo rimasto a casa. Il matrimonio aveva accomodate molte cose, ma non le aveva accomodate tutte. C'eran
altre scadenze, c'eran dei livelli, e c'eran quei benedetti figliuoli, a cui bisognava provvedere tutti i santi giorni.
"I morti, alla fine, non hanno bisogno di nulla, ma i figliuoli bisogna vestirli, calzarli, mantenerli, istruirli, e
papà Paolino ne aveva fatto dei sacrifici pei figliuoli degli altri. Era giusto che pensasse anche ai suoi: e poiché il
Signore aveva mandato la fortuna, Arabella doveva cercare nella sua posizione di aiutare la barca. Quasi collo scarto
della roba di suo marito c'era da vestire Mario e Naldo. Se avesse risparmiato ogni mese qualche cosuccia
sull'andamento della casa, si metteva in grado di pagare per la Pasqua quel benedetto livello. Non parlava per sé, che
ormai sentivasi vecchia e stufa, quantunque fosse una malinconia anche per lei l'aver dovuto contentarsi di un vestito di
lana, mezzo rosicchiato dalle tarme, che la sarta non aveva voluto aggiustare, un vestito che a Milano non porterebbero
le donne di servizio."
Con questi discorsi, mamma Beatrice cercava di richiamare Arabella alle cose di questo mondo. La poesia è
come i bombons : è buona per chi ha mangiato il resto. E non volle andarsene a mani vuote. Dopo aver fatta la
corte un pezzo a un bel scialletto di seta, se lo fece dare insieme a un paio di buccolette di mosaico, che lo zio Demetrio
aveva mandato dalla Toscana in regalo alla sposa. Arabella l'accompagnò con un sorriso e con uno sguardo di
compatimento. Nel suo sfinimento fisico e morale non aveva nemmeno la forza di contraddire.
Avendo la malata bisogno di quiete, Lorenzo trasportò i suoi lari nella stanza che serviva di studio al signor
agente di cambio, dove a nessuno faceva male l'odore della pipa; e per tutto il tempo che Arabella stette in letto, cioè
fino ai primi di febbraio, non gli dispiacque di ricuperare la libertà dei movimenti, che il matrimonio, la soggezione
paterna e un senso d'obbligazione morale gli avevano tolta. Gli dispiacque il brutto caso, che papà Tognino raccontò e
spiegò alla sua maniera: cercò di consolare anche lui, alla sua maniera, la povera "Ara bell'Ara", ripetendo la storiella
che, morto un papa, se ne fa un altro. Entrava la mattina, sedeva il tempo di rotolare una sigaretta, dava qualche ordine
superficiale all'Augusta, e dopo aver ballato un poco sulle gambe, se ne andava colla furia di chi si sente mancar l'aria
respirabile.
Arabella, anche quando ricuperò la forza di comprendere e di parlare, non faceva nulla per trattenerlo.
Nelle lunghe ore in cui rimaneva sola, cogli occhi fissi alle tende di pizzo, il suo pensiero, quasi infossato in
una ruga della fronte, si proponeva ancora la paurosa questione che l'aveva resa timida e titubante a dir di sì. Qualche
cosa era venuta meno in lei colla perdita della sua prima speranza. Essa sentiva (ah! lo sentiva troppo ora nella
languidezza del suo stato) che non avrebbe mai potuto amare un uomo senza idee e senz'anima. Ora non aveva più altro
bene a cui rivolgere il suo pensiero; la paura, il mistero, lo scoraggiamento morale la circondavano da tutte le parti. Non
poteva sperare nella sua mamma: egoisti tutti, egoisti tutti... E piangeva, avvolgendosi nelle coltri, quasi più di rimorso
che di dolore, mentre la nebbia del lungo inverno scendeva a riempire il triste cortile e a togliere la poca vista del cielo.
Qualche volta, nella languida dolcezza della convalescenza, l'occhio velavasi in un sonno leggiero e ristoratore,
durante il quale la mente seguiva in sogno più agili le memorie della fanciullezza, in modo speciale quelle verdi e
ridenti portate via da Cremenno, memorie in cui entravano viottoli, prati, torrenti luccicanti, chiesine coperte d'edera,
popolate di rondini, litanie e melodie d'armonium preludianti a visioni che suscitavano nel suo giovane cuore palpiti di
amorose trepidazioni. Era la poesia della sua anima, che nell'abbandono delle forze e della coscienza, usciva a
carezzarla. Ma la prosa, cioè la verità, l'aspettava al suo risvegliarsi. Sentiva che non l'avevano maritata perché fosse
felice; ma perché col suo sacrificio placasse un cattivo destino che pesava da un pezzo sulla sua famiglia. Monaca o
maritata, vestita di sacco o di velluto, essa era sempre la vittima dell'espiazione, la figlia del suicida raccattata per carità,
maritata per interesse, girata di mano in mano come una cambiale. Che ore di tristezza passavano sul suo capo, mentre il
sole di febbraio riposava languido sui vetri, o la pioggerella mormorava monotona nel canale sopra il rumore indistinto
che veniva dalla strada!
Rimasta sola nelle mani delle persone di servizio, ebbe troppo tempo di pensare a' casi suoi e di riflettere su
una quantità di piccole cose, che i forti e i fortunati calpestano come si calpestano le formiche passando, ma che
nell'inerzia forzata e nell'impotenza morale vi assalgono da tutte le parti, irritandovi il cervello e il cuore.
Dov'era caduta? perché l'avevano maritata? che colpe era chiamata a scontare? e questa gente, ignota ieri, che
oggi essa doveva amare e rispettare, da dove veniva, che pretendeva da lei, chi era e perché tanto odio contro di lei, un
odio che sollevava un tumulto di gente irritata?
Suo suocero, volendo in qualche maniera giustificare il disgraziato accidente di cui era rimasta vittima,
aggiustò una favola, che spiegò con molte parole, come se l'Angiolina avesse voluto vendicarsi di essere cacciata via.
Ora egli aveva accomodata ogni cosa: tutto era finito colla pace di tutti. Pensasse dunque a guarire e a rimettersi in
forza, per poter andare insieme a passare la primavera in campagna, in qualche bel sito quieto…
Queste cose veniva spesso a raccontare alla malata colla preoccupazione nervosa che nasce, oltre che
dall'affezione, dal desiderio di far dimenticare il male. Ma una volta fuori di stanza, il vecchio irascibile tornava a' suoi
pensieri di vendetta, a' suoi progetti di difesa contro una ciurmaglia, che credeva d'impaurirlo coi gridi e cogli scandali.
Se riusciva a mettere in salvo Arabella in qualche luogo sicuro (e a questo scopo stava combinando col Botola di
prendere in affitto una casa sul lago di Como), se otteneva d'aver le mani libere per lo spazio di un mese, avrebbe dato
ai prepotenti una lezione in piena regola, tale da levare a chicchessia il gusto di litigare con lui.
Arabella credette o finse di credere a tutto ciò che le davano a intendere. Nella sua estenuazione fisica e morale
non aveva la forza di volere, né quella di non volere, e accettava tutte le ragioni colla stessa malinconica rassegnazione
con cui trangugiava i decotti e i beveroni che ordinava il dottor Taruzzi senza chiedere che roba fosse.
Che ne sapeva essa della vita, degli uomini, delle cose? Che gente era questa che essa doveva rispettare ed
amare? Suo marito entrava sempre più di rado a salutarla, e pareva sulle spine quei pochi cinque minuti; ciò era triste,
doloroso; ma più triste e più doloroso era il sentimento quasi di tedio, che essa provava alle sue consolazioni e alle sue
pesanti carezze.
La Madonna, che la guardava dal capo del letto, non doveva permettere che il suo cuore s'intiepidisse nel bene.
Richiamando tutte le voci dell'anima sua devota e fervente, cercava nella preghiera lunga e ripetuta la speranza e la
forza che l'avevano sostenuta in altre tristezze, soprattutto la fede nella vita e la buona fede negli uomini, o almeno la
fede della povera Angelica.
XII. IL TIRANNO
Un giorno, poco prima dell'ora del pranzo, il signor Tognino, entrando lentamente e cautamente nella camera
della malata, la trovò addormentata, più seduta che stesa sul letto, avvolta in parte in uno scialle di lana, colla bella testa
sprofondata nel candore del cuscino e delle guarnizioni, la bocca dischiusa a un lieve respiro, avviluppata dal candore
niveo del letto, colle mani abbandonate sul libro delle preghiere.
Il suocero collocò delicatamente sul tavolino un fiaschetto di vecchio Xeres, che aveva acquistato apposta, si
avvicinò pian piano al letto, posò leggermente la mano sulla fronte della malata, la sentì umida e fresca, e si ritrasse
leggermente, mettendosi a sedere in un angolo oscuro, dietro la finestra, da dove poteva sorvegliarla senza essere
veduto.
Partita la mamma, era lui l'infermiere e il padrone di casa. Per essere più pronto aveva portato da scrivere nella
stanza vicina e vi rimaneva tutte le ore che poteva rubare agli affari. Su Lorenzo non c'era da fare un gran conto; si
vedevan di rado; si sarebbe detto che i due uomini da qualche tempo si sfuggissero.
Qualche cosa di forte e di duro come un grosso martello da fabbro era caduto sul cuore del vecchio affarista,
che non batteva più col battito lento e sommesso d'un cuore in regola col tempo, ma aveva degli scatti, delle corse
affannose e precipitose, delle strane immaginazioni, che riempivano la notte di fantasmi, quando voltandosi e
rivoltandosi nel letto, il padrone cercava invano di riattaccare il sonno.
E non da ieri, ma da un pezzo, se cercava indietro, era cominciata questa sua palpitazione, che gli ultimi
avvenimenti, la rabbia e lo spavento, non avevano fatto che incrudelire. L'uomo non era più l'uomo di prima fin dal
giorno che s'era parlato di dar moglie a Lorenzo, e che, andando verso le Cascine, s'era incontrato per caso, o per
destino, o per disgrazia - chi sa come si muove il mondo? - nella figliuola adottiva del signor Paolino. Era quella stessa
figura elegante, bionda e delicata, che ora dormiva nel molle abbandono della stanchezza, che una donnaccia aveva
osato toccare, che una masnada di pezzenti voleva trascinare nel fango, che lui però avrebbe difeso, ringhiando e
mordendo, se ciò era necessario.
Se il nostro affarista fosse stato un filosofo, capace di frugare in mezzo ai ferravecchi della sua vecchia e
ingombra coscienza, forse avrebbe trovato che in questo accanito furore di difesa era in giuoco anche un interesse
nuovo e curioso, poco chiaro allo stesso interessato, ma che dava alle sue ragioni una forza nuova e premurosa.
Salvare Arabella voleva anche dire salvare quanto di meno disprezzabile era rimasto in lui e insieme quanto di
veramente prezioso sentiva ancora di possedere nell'affezione e nell'opinione di questa sua figliuola. Il castigo non
poteva essere che questo: il resto... che cosa gl'importava del resto? Ecco perché sospirava l'ora e il momento di vederla
fuori dal letto, completamente ristabilita, non solo per sottrarla alle congiure, alle pressioni, alle vessazioni di gente
cattiva, ma per collocarla in qualche luogo lontano e sicuro, dove non potessero arrivare le voci dei volgari interessi,
dove soffrisse meno con lei qualcheduno o qualche cosa che viveva di lei. Più che vederla e intenderla questa necessità,
egli la sentiva con un sollevamento d'animo tutte le volte che poneva il piede nella stanza della malata, tutte le notti che
si avvicinava sommessamente al suo letto e che procurava di consolarla, di rassicurarla, di fornirle delle spiegazioni.
Curvo, rannuvolato in una oscura commozione, in cui alla pietà mescolavasi un senso irritato d'odio e di
vergogna, sollevava di tempo in tempo lo sguardo sulla persona dell'addormentata, che nella placida e lenta quiete
pareva morta.
Era uno sguardo perplesso, che non osava più, come una volta, penetrare e guardar fisso in faccia alle cose,
qualunque fossero, sicuro di sostenerle; ma ritraevasi dal letto colla mortificata e lenta tristezza, con cui l'occhio
dell'analfabeta si toglie da uno scritto, che suscita in tutti gli altri una viva e potente commozione e non dice nulla a chi
non sa leggere.
Forse era già troppo tardi per mettersi da capo a imparare a leggere quel che vi può essere di bello e di santo
nel cuore d'una buona creatura. Forse non gli avevano mai insegnato a decifrare questo alfabeto: e se nella prima
giovinezza aveva sentito a parlarne, troppo tempo, troppe cose eran cadute in mezzo. Peggio per lui! ma peggio ancora
se Arabella avesse letto nel suo, di cuore!
Ogni suo sforzo, ogni sua ambizione doveva mirare a una cosa sola: impedire che Arabella diventasse il
ludibrio di Milano. Qualche avvertimento in questo senso gliel'aveva dato anche il notaio Baltresca, che considerava la
questione coll'occhio pratico del mestiere. Un processo è sempre uno scandalo; si sa dove si comincia, non dove si
finisce. Preti, monache e avvocati vi potevano pescar dentro il loro interesse. E anche supposto che l'ortolana venisse
condannata a qualche mese di prigione, chi poteva impedire, per esempio, che Arabella fosse chiamata in Tribunale a
deporre in qualità di testimonio, in mezzo a quella marmaglia, tra uscieri, sbirri, scribi e farisei, per sentirsi ripetere sul
viso infamie di ogni colore?... Se ciò fosse accaduto - e la sola idea gli mozzava il respiro - da qual parte sarebbe stato il
reo? e da qual parte il giudice più terribile? Chi avrebbe impedito all'avvocato Baruffa di rifare a modo suo la storia? E
Arabella avrebbe dovuto assistere a una bega di questa sorta, bersaglio a Dio sa quali infamità? no, no.
Questi pensieri, solamente col passare, gli facevano corrugare la fronte e gli tiravano il capo all'ingiù. Temeva
quasi che avessero a turbare e a funestare il riposo dell'addormentata.
La bega era grossa e bisognava uscirne al più presto, nel miglior modo possibile.
Di cosa in cosa si ricordò d'aver ricevuta una lettera nella quale il Botola gli parlava di avvocati, di processo, di
Lorenzo.
Col Botola i Maccagno erano legati da un'amicizia che risaliva fino al quarantotto, fino ai tempi che il padre di
Tognino, detto il Valsassina, cominciava a guadagnare i primi quattrini in una botteguccia di liquori fuori di porta.
Venute le grosse brighe della rivoluzione, mentre gli "italianoni" facevano alle barricate, Botola e Valsassina
introducevano in città molte brente di spirito di contrabbando, mettendo in questo modo la base alla fortuna.
Nell'agosto tornarono i castigamatti, ma la gente aveva tutt'altro per la testa che di verificare le bollette di
dazio. Poi eran passate molte altre cose. Chi andò sulla forca, chi emigrò, chi tornò a portare il baldacchino. Annegò chi
non seppe nuotare. E per poco non annegò anche il Botola, troppo corto d'ingegno e d'istruzione, per saper resistere ai
tempi nuovi, bianchi, rossi e verdi. Fallito un paio di volte, il vecchio disgraziato vivacchiava meschinamente, facendo
il pignoratario su piccoli prestiti.
Che cosa gli scriveva il vecchio amico? Cercando nelle tasche, trovò in mezzo a una manata di cartacce un
cencio con su disegnati certi scarabocchi grossi e sgangherati, che volevan dire parole, quantunque somigliassero più ai
pali di una vigna battuta dalla tempesta, che non ai segni inventati da Cadmo. Il pignoratario riferiva d'aver saputo che i
parenti Ratta, Maccagno, Borrola, con altri diseredati, intendevano infirmare il testamento e intentare una causa, perché
fosse tenuto valido il testamento anteriore del '78.
"Faccian pure la causa!" rispondeva mentalmente colla solita asprezza il signor Tognino, come se qualcuno
fosse lì a sentirlo. "In quanto ai signori Borrola, che vantano delle pretensioni, son curioso di sapere su che cosa
appoggiano le loro speranze. È tutta rabbia, è tutto veleno, perché ho scoperto il loro giochetto e ho strappato Lorenzo ai
loro intrighi. Faccian pure, ma non si lascin trovare da me in un momento cattivo."
Arabella mormorò qualche parolina dolente e mosse leggermente la mano sul libro aperto abbandonato sul
letto.
Il vecchio si scosse da' suoi pensieri, come se quelle voci rispondessero in qualche modo a ragionamenti che
egli faceva dentro di sé e sentì che, se gli bastava il cuore di sfidare mezzo mondo, pure di fronte a sua nuora avrebbe
avuto tutte le paure. E come se istintivamente si mettesse sulle difese, socchiuse un poco una imposta e si tirò meglio
nell'angolo oscuro.
La stanza s'immerse ancor di più nella penombra, il fascio di luce che entrava dalla finestra socchiusa andava a
stento fino a rischiarare il guanciale e una parte del letto, dove Arabella, di sogno in sogno, di imagine in imagine,
percorreva la storia della sua vita.
Nei sogni le impressioni tornano spesso sfigurate, sconnesse, più grandi o più piccole della verità; ma non
perdono mai il significato che le fa nascere. Avviene non di rado che nell'ingrandimento grottesco ed esagerato o nella
riduzione che sopportano, si manifesti a chi sogna, analizzato o riassunto, il significato che inutilmente aveva cercato ad
occhi aperti. Il senso è più libero a percepire ciò che la ragione o non osa o non sa, o non vuole intendere: e dai sogni
qualche volta s'intende la vita come dal commento il poema.
Arabella, ritornando sulle sue memorie, ritornava a soffrire e a godere più vivamente d'impressioni non bene
afferrate la prima volta, come se in sogno germogliassero i piccoli semi caduti nei luoghi più oscuri dello spirito.
Di cosa in cosa le parve di tornare ai primi giorni del suo matrimonio e precisamente al suo primo entrare nella
casa nuova. Suo suocero aveva fatto degli inviti. La casa era come quella sera piena di gente nuova e sconosciuta che la
salutavano, si congratulavano, la soffocavano di parole e di baci non chiesti e non desiderati. Una specie di nausea dallo
stomaco saliva al capo, effetto forse d'un forte vin "brulé", che alcuni servitori in guanti bianchi portavano intorno sui
vassoi.
Parevale che tutta quella gente fosse lì per saziarsi in qualche maniera di lei, coi baci, cogli occhi, coi
commenti, come fanno i bimbi, che trovato un pezzo di zucchero in un cantuccio, se lo succiano un po' per uno.
La zia Sidonia, in un vestito di raso rosso color brace, scollata in una foggia indecente, se la stringeva sul seno
morbido e caldo, chiamandola il suo bell'angiolino, mentre lo zio Mauro, seduto al pianoforte, tempestava sopra una
canzonetta veneziana di sua invenzione, che faceva ridere tutte le bocche. Sì, ridevano tutte quelle faccie sconosciute di
parenti, di mezzi parenti, di agenti di cambio, di amici di suo marito, di cui sentiva ripetere i nomi senza afferrarli in
mezzo al frastuono. Solamente papà Paolino colla schiena appoggiata allo stipite dell'uscio guardava in su per non farsi
vedere a piangere. C'era la mamma, la più bella donna in mezzo a molte signore brutte, magre, dal tipo volgare, che
ripetevano il colore terreo e le mandibole pronunciate della famiglia, che seguitavano a guardarla come se dicessero in
cuor loro:
"Povera diavola, dove sei capitata!"
E stava in mezzo alla folla coll'animo addolorato, quando vide entrare con un passo lesto senza suono, in abito
nero anche lui, rigido e smorto come tutti i morti che camminano, il suo povero papà.
Come fosse vivo, come venisse alla festa, che cosa le dicesse sottovoce non riusciva a capire. La rimproverava
d'essere venuta meno al suo voto? era malcontento anche lui di vederla in questa casa? L'immagine dell'infelice rimasta
impressa negli anni in cui la memoria è più viva, mantenuta viva e presente per tutti gli anni successivi da un generoso
desiderio di riparazione morale, era troppo famigliare ai pensieri della figliuola perché essa si sgomentasse di rivederla
in mezzo a gente viva; anzi se lo strinse sul cuore, forte, teneramente, e cominciò a parlargli con calore per dimostrargli
che tutto era proceduto secondo la volontà di Dio, che l'aveva fatto per amore e per compassione della sua mamma; e
nell'abbracciarlo sentiva una così profonda compassione, che cominciò a singhiozzare davvero...
Il vecchio Maccagno, a sentire la malata singhiozzare, uscì dal buio e dalla tempesta de' suoi pensieri, si
accostò al letto.
Arabella, agitata da un piccolo fremito, corrugava la fronte collo sforzo di chi mira a liberarsi da una dolorosa
oppressione. Egli allora, quasi per liberarla dall'incubo, le prese dolcemente la mano e se la tirò a sé, dolcemente,
chinandosi sopra di lei per dimandarle che cosa si sentisse: e in quella Arabella aprì gli occhi pieni di lagrime, li fissò,
come chi stenta a orientarsi, in faccia al suo premuroso infermiere.
Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l'abbandono inerte
della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento
e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sé, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sé che
un gran bianco, un gran bianco...
"Perché piange?"
"Non so, un brutto sogno."
"Non si sente mica più male?"
"Non mi pare."
"Devo aprire le imposte?"
"Sì: ho dormito un pezzo?"
"Forse un'ora."
"Lorenzo, dov'è?"
"È stato qui: ha visto che dormiva..."
"Povero papà!" uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un
meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto.
Il suocero attribuì a sé la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere
per sé e che sua nuora non era mai stata animata a concedere. Colto in un momento di debolezza, s'intenerì ancor di più,
e mettendosi con moti frequenti a carezzare i capelli della malata, si abbandonò anche lui, per la prima volta, a darle del
tu:
"Guarisci, guarisci presto, e andremo in campagna. Vedrai che bel sito! Non sei mai stata in Tremezzina? In
primavera è il paese delle rose. Rose dappertutto... Anch'io ho bisogno d'andar fuori dei piedi della gente, sono un poco
stanco e malato anch'io e non vedo l'ora di collocarmi in campagna a coltivare le rape e le verze..."
E cercò di ridere per combattere la molle malinconia che l'assaliva da tutte le parti. Questa malinconia montava
come un'acqua che scaturisce improvvisamente da una vena sconosciuta al rompersi di una roccia. Da dove derivano
queste acque fredde e limpide che il passeggero incontra sulla sua strada polverosa in mezzo a un paese brullo, riarso
dal sole? La natura ha i suoi misteriosi serbatoi che mandano rigagnoli ai più lontani strati e non di rado spiccia l'acqua
pura anche al disotto del fango. Sentendo che insieme all'onda refrigerante saliva qualche cosa di amaro, messo in paura
o in sospetto d'una mestizia che lo conduceva a cantare delle arie di gioventù col falsetto del vecchio, spaventato all'idea
che egli potesse dire una sciocchezza od una meschinità, accomodò con una certa furia distratta le pieghe del letto e
soggiunse, mutando tono:
"Ho trovato un vin vecchio sincero che le farà bene: lei ne deve bere un bicchierino. Il dottore raccomanda il
vin vecchio. Lo assaggi. Questo è sangue."
Versò il vino nel calice e si accostò di nuovo, tenendo il bicchiere colle due mani, per resistere a un tremito
convulso che faceva vibrare tutto il corpo.
Arabella si sollevò un poco, colla sinistra mandò indietro i capelli folti che scendevano scomposti, e coll'altra
mano aggradì il calice, in cui brillava un vino secco color dell'ambra.
"Beva, questo è sangue..." ripeté il suocero con un tono monotono d'uomo distratto, socchiudendo gli occhi.
XIII. PRIME SCARAMUCCE
Quando uscì dalla stanza provò il senso di chi cammina al buio per anditi sconosciuti. Egli doveva fare qualche
cosa per mettere Arabella al sicuro; era pronto anche a perdonare a' suoi nemici, se il perdonare poteva condurre più
presto a una pacificazione: la primavera non era lontana e il dottore prometteva che per la fine di febbraio la malata
avrebbe potuto senza pericolo intraprendere un viaggio. Como non è in capo al mondo, e una volta sul lago, non si sente
più di viaggiare.
Occorreva ch'egli facesse una corsa a questa villa, di cui da un poco gli parlava il Botola, posta in una
bellissima posizione, in pieno mezzodì, già ammobiliata, con un giardino ombroso fino al lago; e avrebbe potuto
andarci quando Arabella cominciasse ad uscir dal letto. Egli non voleva trovare una casa in disordine, esposta al vento,
a rischio di esporre sua nuora, già indebolita, a un colpo d'aria.
Scendeva le scale senza veder i gradini, ravvolto come in una nuvola in questi pensieri, quando arrivato
sull'ultimo pianerottolo, s'incontrò faccia a faccia in Sidonia, l'amatissima sorella cantante, che vestita come una Maria
Stuarda, andava su.
"Si può vedere Arabella?" domandò la buona zietta.
"Nossignora!" rispose il fratello, sentendo ribollire il sangue.
"Non è mica più aggravata..."
"Niente affatto, ma non riceve nessuno."
"Neanche i parenti?"
"Non conosco per parente chi fa lega coi miei nemici" scattò a dire il fratello, che nella sua guerra era sempre
in timore di lasciarsi prendere la mano.
Sidonia arrossì un poco sotto la cipria e il belletto; ma non abituata a far scene fuori delle scene, recitò con
tono pacato:
"Credevo di far onore a tua nuora: anch'io non conosco per fratello chi mi manca di rispetto".
"Ah! voi volete il rispetto..." cominciava a strillare l'ometto sanguigno, agitando le sue mani magre sotto il viso
di Sidonia.
"Ti prego" disse costei, arrestandosi con una solenne occhiata di Norma, sacerdotessa dei Druidi. "Io non sono
abituata ai pettegolezzi di Baltresca, e non mi lascio insultare dai vagabondi. Se hai delle ragioni, c'è mio marito e sai
dove sto di casa."
"Ciò che voglio è che non mi si venga tra i piedi."
"Oh, s'immagini!"
"Non voglio spie in casa..."
"I ladri vedono spie dappertutto..."
Con questi complimenti pronunciati in modo da non dar scandalo, coll'intonazione quasi sorridente che usano
gli amanti in collera, arrivati alla porta, i due fratelli si fecero un bell'inchino e si divisero, andando ciascuno per la sua
strada, carichi tutti e due di rabbia compressa, pronti a saltar in aria come due barili di polvere alla minima scintilla.
Giunta a casa, Sidonia, trovato il marito, gli dimostrò tutta l'enormità dell'oltraggio ricevuto. Colei che l'imperatrice
Eugenia aveva ricevuta alle Tuileries come una sorella, che papà Rossini soleva chiamare sa chère petite Malibran
, era stata messa alla porta come una pezzente da un indegno fratello.
Mauro Borrola gonfiò gli occhi, bestemmiò mezz'ora in padovan, girando per la casa in pantofole e in veste da
camera: avrebbe voluto uscir subito a chiedere una soddisfazione d'onore a suo cognato o a Lorenzo; ma il nuovo
Rosetter inglese ha questo difetto, che alle prime pennellate dà alla barba uno spiccato color violetto e la ricetta
consiglia qualche giorno di chez soi , finché i bulbi non gli abbiano assorbito per capillarità il liquido ristoratore.
Pensò di rimandare la cosa a un altro momento e di rifarsi in qualche altra maniera. La sua prima visita fu per l'avvocato
Baruffa. Gli elementi della causa erano raccolti. Presto si sarebbe tenuta un'adunanza di tutti gl'interessati per procedere
d'accordo contro il signor Tognino.
Come avvisaglia di guerra, qualche giorno dopo, la Augusta consegnava in gran segretezza alla sua padrona la
seguente lettera:
"Illustrissima Signora,
"Le molte pie persone che mi parlano bene del suo cuore e della sua pietà mi fanno animo a rivolgermi a Lei,
illustrissima signora, per una questione in cui son persuaso Ella vorrà prendere la parte dei deboli e dei sacrificati. Per
quanto sia difficile giudicare sulle apparenze intorno alle umane cose, pure voglio ritenere che il signor Tognino suo
suocero sia veramente nel suo pieno diritto quando trattiene tutta per sé un'eredità di quattrocentomila lire, che ogni
segno faceva sperare sarebbe andata ripartita non solo in pie istituzioni di carità, ma a sollievo eziandio di molti e
bisognosi parenti che ne avevano ugual diritto.
"Ma il sommo diritto bene spesso si riduce a ingiuria, a ingiustizia, e ciò accade tutte le volte che al bene di un
solo si sacrificano i bisogni di cento e cento poverelli sofferenti, tutte le volte che si suscitano ire, odii, male passioni,
querele che amareggiano la stessa ricchezza, turbano le coscienze, e caricano la responsabilità nostra di gravissimi
conti.
"Allo scrivere queste parole mi muove la persuasione che nulla è noto ancora alla S. V. Illustrissima di
tutto ciò che si dice intorno alla eredità Ratta; ma poiché mi risulta da varie parti che nelle querele e nelle amare
recriminazioni dei diseredati è ripetuto spesso anche il suo nome come quello di una complice dell'ingiustizia, a nome di
antiche sue maestranze venerabilissime, vengo, sebbene a malincuore, a interessarla in una questione, in cui la sua non
può essere che una parola di giustizia e di carità.
"Io non so vedere quel che Ella potrà fare e dire a vantaggio dei poveri: ma fin d'ora mi lusingo di trovare in
Lei una di quelle anime zelanti del bene, che non si acquietano nel dubbio e nell'incertezza. Parlando col suo signor
marito e col suo signor suocero, Ella potrà mettersi in grado di ben giudicare se convenga per un eccessivo zelo del
proprio diritto affrontare le conseguenze dell'odio e della vendetta, turbare le coscienze dei buoni cristiani, crearsi un
fasto che riposa sui dolori altrui. Io non posso giudicare quanto vi sia di vero nelle voci che corrono, le quali
accuserebbero il signor Maccagno di aver carpito quasi colla violenza un testamento che avrebbe dovuto sonare ben
diverso. Solo l'occhio di Dio può scendere nell'oscurità e illuminarla. Ma posso quasi esser certo che la buona e pia
allieva delle madri canossiane non vorrebbe accettare un soldo che non fosse consacrato dalle ragioni della giustizia e
che nella contingenza in cui si trova, vorrà prestare l'opera e l'autorità della sua posizione di consorte e di figlia per
avviare delle trattative, le quali conducano a una più giusta soluzione e ripartizione dei beni.
"Posso fin d'ora comunicarle che a quest'atto di conciliazione è vivamente interessato anche Sua Eminenza
l'arcivescovo di Milano, quale supremo tutore di tutte le pie Case che da una siffatta eredità credono d'essere state, non
che danneggiate, ingiustamente lese nei loro diritti: e l'autorità di un tal nome dev'essere per l'animo suo pio e cristiano
arra di giustizia e quasi uno stimolo di più a zelare l'opera della giustizia e della conciliazione, dalla quale essa non può
ritrarre che benedizioni e frutti di santa edificazione.
"Tosto che la sua preziosa salute glielo permetta, io riceverò di buon grado una sua visita al mio domicilio, ove
potrò fornirle quegli altri schiarimenti che sarebbe troppo lungo esprimere per lettera. Intanto le raccomando la massima
discrezione su questa mia ingerenza in una questione che non mi tocca, se non in quanto mi toccano tutte le questioni in
cui è in giuoco il bene dei poveri e quello delle anime.
"Col più profondo rispetto mi sottoscrivo
pr. FELICE VITTUONE, pr. parr. ".
PARTE SECONDA
I. UN UOMO CHE NON HA VISTO NULLA
Il terzo venerdì di quaresima, il Berretta fu avvertito che don Felice Vittuone aveva urgentissimo bisogno di
parlargli: passare subito in sagrestia.
Capitato per caso Ferruccio, il portinaio lo lasciò di guardia alla porta, si spazzolò le spalle, infilò una giacca,
applicò tre o quattro buffetti alla cupola di un vecchio cappello di feltro, che non usava che nelle grandi occasioni, e in
quattro passi fu alla chiesa.
Il prevosto lo faceva chiamare spesso per piccole commissioni di cucitura e di rammendatura; perciò il
portinaio, non sospettando una trappola, entrò difilato in sagrestia come in casa sua e domandò al Bossi se c'era don
Felice.
"Eccolo qui" disse il sagrestano.
Lo scricchiolio di un paio di scarpe, che risalivano la navata della chiesa, precedette il prevosto, un buon
vecchietto piccolo e brutto, con molti capelli bianchi, un po' tremolante, un sant'uomo amato dai poveri per la sua carità
e per la sua tolleranza. In questa benedetta faccenda del testamento Ratta egli rappresentava la parte della conciliazione,
ma capiva che la sapienza non basta a conciliare l'acqua col fuoco, il diavolo coll'acqua santa.
"Sei tu, Pietro? bravo bravo" e rivoltosi a un chiericotto dondolante su due gambe storte, che una vestaglia
verdognola non riusciva a nascondere agli occhi di Dio (che scruta le reni e i cuori), gli domandò qualche cosa
sottovoce.
"Ha detto che vien subito. Sta confessando una donna."
"Allora passiamo di qua, Berretta."
Il Berretta seguì il prevosto per un lungo corridoio rivestito sulle due pareti da massicci armadi, fino a un gran
stanzone, detto la guardaroba, dov'è anche la penitenzeria degli uomini. Anche questa stanza era rivestita su tre pareti da
alti armadi antichi a grossi intagli. La quarta parete contro la porta aprivasi in due finestre, innanzi alle quali scendevano
le tende di un grosso telone giallastro, che in quella giornata semipiovosa davano all'ambiente un'aria proprio di
quaresima. Tra l'una e l'altra finestra pendeva un gran crocifisso avvolto da un zendado polveroso. Il Cristo scendeva
coi piedi a toccare lo schienale di una vecchia poltrona di vacchetta presso un inginocchiatoio, dove più volte il
portinaio, da buon cristiano, aveva versato il fardello de' suoi peccati. Quel camerone è riservato agli uomini nei
momenti di molto concorso. Lungo il corridoio, col capo appoggiato agli armadi, si schierano i bottegai del quartiere
che credono ancora alla santità del peso e delle misure e aspettano in fila la volta di gettarsi ai piedi del vecchio Cristo,
che in duecento o trecento anni che sta lì, ne ha sentite d'ogni colore e, abbassando la testa impolverata in un
atteggiamento di stanchezza, par che dica: "Che fare? ci vuol pazienza..."
Il Berretta nel rivedere il luogo e la croce risentì per una naturale associazione d'impressioni un
rimescolamento che aveva nel fondo un rimorso, simile a una piccola puntura di spillo. E stava ancora coll'animo
sospeso quando da una porticina di fianco sbucò un altro prete, che non aveva nulla a che fare colla nettezza e colla
bonomia di don Felice. Era invece un vecchio olivastro, una faccia da contadino, rugosa come una castagna secca: era
insomma don Giosuè Pianelli.
"Ci siamo!" disse in cor suo il portinaio, che capì o credette di capire all'ingrosso il motivo di questa chiamata,
e si preparò a sostenere un processo.
"Ti ho fatto chiamare, caro Pietro, per qualche schiarimento. Sedete, don Giosuè."
"Son comodo" disse il canonico, raggruppandosi più che sedendo sopra uno sgabello di legno, mentre il
prevosto andava a mettersi nella poltrona di pelle, sotto la croce, come il Berretta era solito vederlo due volte all'anno. Il
portinaio rimase in piedi tra i due preti inquisitori, sotto la soggezione di quel gran Signore in croce.
"Io non ho bisogno di dirti che facciamo conto sulla tua sincerità, va bene, Berretta? Conosci don Giosuè?"
"Eh, se mi conosce, altro che!" prese a dire il canonico, facendo in modo da poter osservare il portinaio nella
luce obliqua che pioveva di sotto le tende.
"Dunque, saprai, il mio Pietro, che don Giosuè Pianelli è stato il confessore della povera sora Ratta, che fu per
i poveri di questa parrocchia un vero angelo di carità. I sussidi sono scarsi e la miseria cresce ogni dì."
"Di miseria non c'è mai miseria" aggiunge don Giosuè, seguitando con un tono irritato: "Cresce la miseria,
crescono i vizi, crescono i birboni, mentre cala la religione e la carità... Sono i begli effetti del massonismo trionfante."
"Don Giosuè non ha torto" riprese il buon vecchietto "ma di cristiani ce ne sono ancora e il nostro Berretta è
uno di questi: non è vero? bravo, bravo."
Il portinaio spalancò la bocca, aprì le braccia a un movimento d'ometto meccanico e rimase lì. Avrebbe pagato
un occhio del capo a non esserci. Sentiva già da lontano che i due preti andavano tirando i fili d'una rete per pigliarlo in
mezzo. Ma gli mancò la forza di scappare, che in certi frangenti, come dice la lepre, è il miglior rimedio.
"La santa Pasqua è vicina, e tu sai, non è vero, Berretta? tu sai tutta l'importanza dei sacramenti. Si tratta ora di
compiere un'opera di giustizia, che si riduce in fondo a un'opera di carità, sicuro! Si tratta del bene dei poveri, sicuro!
Tu hai detto a qualcuno che il signor Antonio Maccagno..."
"Tognino, Tognino" corresse don Giosuè, mettendo nella storpiatura del nome un suo gusto particolare.
"Tu hai detto che il signor Maccagno, tuo padrone, ha preso una carta..."
"Io, io, io?" balbettò troppo in fretta il portinaio, rispondendo prima d'essere interrogato.
Don Giosuè chiuse un occhio e guardò fisso coll'altro il prevosto. Quell'occhio nero e lucente, pieno di
espressione, avrebbe voluto dire: "Capite?"
"Aspetta, lascia finire a don Felice. Parlerai dopo, il mio galantuomo." E don Giosuè fece sentire un'ironia che
sonò male all'orecchio del povero sarto.
"Dunque, è vero o è falso che la notte prima del funerale, presente cadavere, tu hai aiutato il sor Antonino..."
"Tognino!" ribadì l'altro, che preferiva avere il suo uomo storpiato.
"... a cercare una carta nella stanza della morta?"
"Io ho detto? quando ho detto questo? io, una carta? che carta? non so un bel niente, io, di carte... Io faccio il
sarto..."
Così disse il portinaio, con aria distratta, muovendo il capo ad ogni frase, ora a destra, ora a sinistra come un
automa meccanico; ma il cuore era un martellamento d'inferno. Capì subito che se si lasciava pigliare a questa trappola
egli era perduto. Divenne rosso rosso, come se il vino rubato alla vecchia Ratta gli andasse tutto in una volta alla testa.
"Non so niente io, di carte..."
"Ha coraggio di spergiurare sotto gli occhi di nostro Signore questo bel galantuomo" saltò su il canonico.
"Abbiate pazienza, don Giosuè. Intellige quae dico Il Berretta può benissimo aver detto una cosa e la
gente aver interesse a capirne un'altra: va bene?"
"Sissignore, sor prevosto, che Dio lo benedica, deve essere proprio così. C'è della gente che mi manderebbe
volentieri in galera, e della gente che vorrebbe vedermi impiccato. Che ne so io di questi pasticci? Io faccio il sarto,
vedo e non vedo, sento e non sento, piglio da tutti e non m'intrigo nei pettegolezzi. Di che carte mi parlano?"
"Senti, il mio bravo Pietro, noi non facciamo nessun aggravio a te. Sappiamo bene che sei un galantuomo e che
anche tu devi obbedire al più forte. Lasciamo stare quel che puoi aver detto o meno: e aiutaci a depurare la verità. L'hai
sorvegliata tu la morta la notte avanti al funerale? Sì? bravo, bravo. Ed eri solo in camera?"
Il Berretta, coi dieci diti delle mani irrigiditi in aria, faceva ogni sforzo per poter dir di no, un bel no, che
l'avrebbe salvato dal rispondere altri sì; ma non seppe sputarlo fuori. La strada del male non era la sua e il diavolo non
aiuta che i suoi.
"E in quella notte non è venuto il sor Antonino?"
"Vuol dire il sor Tognino" corresse per la terza volta il canonico.
"Di' la verità, non c'è nulla di male."
"Bisogna che io mi ricordi" sillabò, alzando gli occhi alla volta, e portando alla bocca la punta d'una mano.
"Eh, eh, guarda il balordo" sogghignò don Giosuè andando colle mani fin sotto il naso del suo galantuomo.
"Noi non dobbiamo far violenze alla coscienza, caro don Giosuè. Bisogna pure che il nostro Berretta si ricordi
e verifichi il fatto, spiritu et veritate Non gli vogliamo far del male, si sa; né lui è uomo capace di far del male
al prossimo, mentre ci può essere della gente interessata a far del male a lui."
"Lei dice bene, sor prevosto: che Dio lo benedica per i suoi morti."
"Lo conosco da un pezzo il babbuino: oggi gli giova di far l'indiano per non pagare dazio. Volete che non se ne
ricordi? prova un poco ad alzare gli occhi, aperti ve', a questo Signore in croce e torna a ripetere: ' Non me ne ricordo '.
Sostieni che il sor Tognino non è venuto quella notte, verso le due; di': non è vero, Signor Gesù Cristo, che io ho fatto
lume al padrone mentre egli cercava una carta... Ah! tu vorresti scappare, adesso."
Don Giosuè afferrò il portinaio per un braccio e cominciò a scrollarlo, come se cercasse di svegliare uno dei
sette dormienti.
"Non so niente, dico..." gridò piagnucolando il poveretto con voce più scossa e indebolita.
Come diavolo il prete aveva saputo questi particolari? eran voci corse, c'eran dei testimoni, oppure era una
trappola per farlo cascare? Fra i due giudici il più pericoloso non era, come si potrebbe credere, quel che pareva il più
terribile, quello cioè che gridava di più, che lo minacciava, che l'irritava colla sua voce rauca, col suo dito lungo, magro,
color tabacco. La forza non è sempre nella forza. Ciò che lo avviliva maggiormente, che gli toglieva l'animo di resistere
e di spergiurare, che lo disarmava in quel contrasto, era la presenza bonaria e paterna di don Felice, la voce buona,
carezzevole di questo buon vecchio tremolante, che mentre accaloravasi a proteggerlo, rimescolava tutte le forze morali
della resistenza.
"Senti, caro Pietro," riprese la voce paterna e insinuante del prevosto "capirai benissimo che qui non si tratta
del nostro interesse, né di cattive intenzioni che si abbiano contro di te, povero diavolo. Si tratta puramente e
semplicemente d'un diritto di giustizia, sicuro! Si tratta del pane di molta povera gente, che si presume danneggiata non
da te, povero diavolo, ma da un uomo, a cui Dio avrebbe tolto per un momento il lume della coscienza. O le voci che
corrono son false e tu, il mio buon Pietro, hai il dovere di dimostrare che son false e che quello che hai potuto dire a
terze persone è egualmente falso: o le voci son vere, cioè hanno fondamento nel vero, anzi tu sei stato, tuo malgrado,
testimonio del vero, e allora, caro figliuolo, pensa al carico di coscienza che stai per assumere. Senza cattiva intenzione
tu ti fai complice d'un ladroneccio, ti copri di una responsabilità che io, ne' tuoi panni, non vorrei per tutto l'oro del
mondo portare davanti al tribunale di Dio."
"Ma se io non posso parlare" singhiozzò l'uomo, alzando le due mani sopra la testa e tenendole così aperte
nell'aria. "Se ci andasse di mezzo la vita?"
"Ah, t'hanno dunque minacciato," entrò a dire don Giosuè "bene, bene, bene!..."
E fregandosi le mani, fe' una giravolta nella stanza.
"Ti hanno minacciato? e dubiti che questo Signore che ti sta sul capo sia meno forte dei prepotenti che ti
minacciano? e quando pur sapessi che c'è qualche pericolo a dir la verità, puoi tu comperare la tua sicurezza a prezzo
d'un tradimento? e credi che vi possa essere sicurezza nel campo della ingiustizia? e ti par bello dormire sul letto di
spine de' tuoi rimorsi, il mio Pietro? in balìa al genio delle tenebre, il mio Pietro?"
Così batteva sul cuore del portinaio la voce amorosa e terribile.
"Io non ho rubato nulla a nessuno, per la benedetta Madonna! Sono un povero uomo che non fa male a
nessuno; non ho detto niente a nessuno; non voglio andare in cellulare" provò ancora a ripetere con monotonia,
annaspando colle mani in aria, buttando gli occhi in tutti i cantucci dov'era sicuro di non incontrare gli occhi de' suoi
giudici, chinando il capo per isfuggire al baglior bianco di quel Signore in croce. "Non voglio andare al cellulare: prima
mi ammazzo."
"Non è la strada più lunga per andare all'inferno, babbuino, l'ammazzarsi... Senti il parere di chi ti vuol bene,
asino! non capisci che il tuo negare a noi non serve a nulla, perché ne sappiamo più di te?"
A ogni frase don Giosuè dava una ruvida scossa al suo uomo.
"Che cosa hai detto al Mornigani? non sai che ti hanno visto col lume in mano a far chiaro al tuo ladrone,
voglio dire al tuo padrone?"
Il portinaio, scosso, sospinto da queste parole e dalla mano vigorosa del prete, non sapendo dove trovare un
rifugio, andò a stramazzare ginocchione sulla predella, come un uomo veramente mazzolato, strinse la testa nelle mani e
ruppe in tali singhiozzi, che don Felice ne sentì una profonda compassione. Voltatosi verso don Giosuè, non volle più
che seguitasse a tormentarlo.
"Sta bene," disse costui "badate però a non lasciarmelo scappare."
"È un buon ambrosiano incapace a far del male."
"Fategli fare una buona confessione; io intanto corro ad avvertirne l'avvocato."
Don Giosuè uscì e ritornò sui suoi passi a prendere il tricorno, che nella furia delle idee aveva dimenticato in
sagrestia. Si strinse nel mantello, ritraversò la chiesa, così invasato dal suo primo trionfo, che non salutò nemmeno con
una riverenza il padrone di casa. Uscì e prese la strada più corta verso Sant'Ambrogio, dove abitava l'avvocato, senza
sentire l'acquerugiola fredda che veniva dal cielo.
II. IN CASA DELLE DUE "BEATE"
Qualche giorno dopo quest'incontro, verso sera, la Colomba, la Nunziadina e Ferruccio finivano di desinare
nella scarsa luce del crepuscolo - eravamo ai primi di aprile - colle finestre aperte sulla bella pianta di castagno amaro e
sui giardini vestiti del bel verde tenero della primavera, quando a un tratto l'uscio sbatté e venne dentro il Berretta, colla
faccia stravolta, cogli occhi fuori dalla testa, pallido come la morte.
"Dio buono, che vi è capitato?" gridarono a una voce le due donne. "A quest'ora? che volete, che c'è di brutto?"
Il vecchio portinaio venne avanti, si lasciò cadere sulla sedia, come un uomo che si sfascia, e disse:
"Sono un uomo morto".
"Che cosa dite, adesso?" gridò la Colomba già eccitata da quell'improvvisa apparizione. E muovendosi per la
stanza, soggiunse: "Aspettate che accendo la lucerna".
Il Berretta con una mano tremante di paralitico fe' segno a Ferruccio di chiudere l'uscio e le finestre. Mentre il
ragazzo obbediva, alla zia Colomba non riusciva d'accendere lo zolfanello sulla pietra del camino. La Nunziadina nel
correre da una parte all'altra in preda alla convulsione, fece sonare nel buio le gruccette sull'ammattonato.
Finalmente la fiamma rischiarò quei quattro visi intorno al tavolo, tre dei quali si fissarono in uno come in un
specchio.
"Mi ha denunciato."
"Chi?"
"Che cosa dice questo benedetto uomo" tornò a trillare la zia Colomba, che sollevò un poco lo stoppino della
lampada, come se sperasse con ciò di veder meglio le parole.
La luce livida del petrolio fece parere ancor più livido il disgraziato, che da sei o sette giorni non s'era toccata
la barba.
Ferruccio gli sedette vicino e col tono d'un uomo che ragiona, chiese:
"Chi vi ha denunciato? parlate chiaro; chi vi ha denunciato?"
"Ci sono state le guardie a cercarmi. O povero me! io son morto."
"Le guardie?" tornarono a domandare in coro le tre voci.
E dopo un respiro seguitarono a vicenda incalzandosi:
"Le guardie? a cercar voi? ma che guardie?"
"Ci sono state le guardie alla porta. O povero me. Io mi butto nel Naviglietto, io mi annego."
"Quest'uomo a furia di bere quella schifosa acquavite non sa più quel che si dice, non sa più" soggiunse con
asprezza la Colomba.
Ferruccio, sottovoce, con pazienza, cercò di strappare di bocca a suo padre una confessione.
Perché l'avevano denunciato? chi? il signor Tognino?
"Bisogna dire che n'abbiate fatta una ben grossa se quel pezzo d'onestà vi denuncia" entrò a dire la Colomba,
incrociando le braccia sul petto. "Sentiamo dunque..."
"Non ci sono le guardie? lì, lì sulla scala, è chiuso l'uscio?"
"È chiuso" disse piagnucolando la Nunziadina, facendo cantare il catenaccio.
Ce ne volle della pazienza per tirare dalla bocca di quel mezzo inebetito una storia con un costrutto.
Il vecchio Berretta non avrebbe voluto parlare in faccia al figliuolo, ma finalmente tira di qua, dàlli di là, la
faccenda delle trenta bottiglie rubate alla vecchia Ratta venne fuori. Vennero in seguito le minacce che il sor Tognino
aveva fatto quella tal notte, se il Berretta parlava.
"Parlar di che?"
"Della carta."
"Di che carta?"
"Del testamento."
"Testamento di chi?"
"Della vecchia."
O Signor benedetto! il sor Tognino era venuto a cercare una carta. Aveva un cappello molle in testa. Faceva
freddo; lui stava vicino al fuoco. Lo chiamò a fargli lume, ma lui non voleva. Cercò anche nel letto, ma lui non aveva
viste carte. Se osava parlare lo denunciava. Ma i preti avevan saputo la cosa e lo tirarono sotto il Crocifisso a giurare.
C'era di mezzo il Mornigani, il mezzo avvocato, l'Olimpia e monsignor arcivescovo. Tutti lo volevano morto,
cominciando da don Giosuè Pianelli. Egli non aveva visto niente, aveva detto niente a nessuno, nemmeno ad Aquilino;
ma il sor Tognino aveva saputo tutto, fece la deposizione e mandò le guardie a prenderlo per menarlo al cellulare.
Aveva veduto le guardie dalla bottega della sora Palmira, verso le tre e mezzo, e non tornò più a casa. Aveva fatto il
giro di tutti i bastioni; al cellulare lui non voleva andare, no, no. Prima si gettava nel Naviglietto...
"Oh, oh, oh!..." urlò cacciando le mani nei pochi capelli grigi. "Mi getto nel Naviglietto!"
Mentre il Berretta raccontava a spizzico e a salti la dolorosa istoria, le donne e Ferruccio rimasero atterriti a
sentire, scattando di tempo in tempo sui nervi, uscendo in parole monche di dolore, di meraviglia, di spavento,
guardandosi in faccia senza voce e senza respiro.
"Voi avete aiutato quell'uomo a cercare una carta?" domandò Ferruccio, distendendo le mani sotto il viso di
suo padre. "Che carta? era forse un testamento?"
"Io no, io ho fatto lume, perché ha voluto lui. Ho giurato e non ho visto niente."
"Ma le bottiglie le avete prese?"
"Le ho prese perché la Ratta non mi pagava mai. Sono stato malato; è la Giuditta che ha parlato, o me
pover'uomo."
"È venuto da voi il sor Tognino?"
"Ieri sera e mi ha detto: ' So che hai parlato coi preti. Ti ho denunciato, brutta faccia di ladro '. Sono venute
anche le guardie, e io sono scappato sui bastioni. Io non mangio più, non bevo più, non parlo più. Io mi annego nel
Naviglietto..."
"Zia Colomba" proruppe Ferruccio con una intonazione, quasi con un grido di pianto. "Questo è brutto, questo
è orribile. O quest'uomo non sa quel che dice, o noi siamo una gente disgraziata e disonorata."
E il ragazzo si prese la testa nelle mani, come se con quel gesto cercasse di tenerla ferma sulle spalle.
"Ora capisco quel che diceva l'Angiolina d'un testamento rubato. È di là il ladro" declamò la zia Colomba,
agitando un pugno in aria. "Ma il ladro ha paura di avere in questo pover'uomo un terribile testimonio e lo fa arrestare.
È così?"
"Ma noi non possiamo permettere che le guardie lo menino via. È mio padre, zia Colomba, oh che vergogna,
pensate!"
E il giovane, non potendo più resistere alla violenza della sua emozione, cominciò a singhiozzare e a
contrastare coi suoi singhiozzi.
La zia Nunziadina, non sapendo più stare a quella scena, scappò via saltellando e andò a nascondersi nello
stanzino.
"Le guardie intanto non sanno ch'egli è qui," riprese la Colomba "e qui non morirà di fame. Tu potrai vedere
domattina il padrone e sentirai com'è questa faccenda delle bottiglie, se pure si tratta di bottiglie. Ma mi par di vedere in
uno specchio che c'è qualche altra ragione e che il ladro è di là, e un ladro grosso, di quelli che non si possono pigliare."
"Sicuro che è una cosa orribile e spaventosa" riprese a dire Ferruccio, rimettendosi a passeggiare in fretta
attraverso la cucina, come se recitasse una parte sul palcoscenico. "È il disonore questo, capite, zia? ma voi, voi..." e
così dicendo correva verso quel pover'uomo mezzo stordito dalla paura e dall'acquavite "voi non avete offerto di
pagare? non avete detto ch'io avrei pagato? dovessi vendere anche le scarpe, dovessi vivere a pane e acqua tutta la vita,
ma bisogna ch'io salvi quest'uomo dal disonore. O me poveretto, o la mia povera mamma, se guarda in terra! o zia, che
vergogna!..."
E nel nervoso parossismo il ragazzo si buttò sulla sedia, appoggiò i gomiti sulla tavola, strinse le tempie nei
pugni, e stette coll'occhio infocato a guardare fisso mentre il Berretta, movendo il capo ora a destra ora a manca, pareva
diventato scemo dallo spavento.
La Colomba, soffocata anche lei dalla passione, cominciò col baciare la testa a Ferruccio, poi lo scosse, lo tirò
a sé, inghiottendo con fatica quel gruppo di dolori che aveva in gola, gli disse a scatti, col fare d'una donna pratica di
mondo:
"Bisogna che tu veda il sor Tognino, subito: cercalo per mare e per terra, finché l'hai trovato, e digli che le
bottiglie le paghiamo noi: ora ti darò quei pochi denari... Se non trovi lui cerca la sora Arabella".
La Colomba abbassò gli occhi, ma, sentendo che Ferruccio cominciava a tremare come una foglia, lo prese più
forte per le due spalle e, scrollandolo, soggiunse con tono quasi di rimprovero:
"Ciò che importa è che quest'uomo non vada in prigione. Sarà forse più la paura che il male; ma coi lupi non si
scherza e il sor Tognino è un lupo. Se è vera la storia di questa carta, se è vero che il tuo padrone ha sporca la coscienza,
sai che son gli stracci che vanno all'aria. Cercalo subito, parlagli chiaro: adesso ti dò i denari... O cara Madonna
benedetta, anche questa mi era riservato di vedere."
E dopo aver smosse alcune robe per sbarazzare la strada andò in camera. La Nunziadina aveva acceso due
lumini innanzi alla Madonna della Salette.
"Piglio il libro della Cassa di risparmio."
"Lo arresteranno?"
"Che arrestare? Si fa presto a dir certe cose... Lo faremo arrestar lui quel... quel... quel..."
Le parole stentavano a uscir dalla bocca della povera donna, come stenta uscir l'acqua da una bottiglia
capovolta. Tornò in cucina, cacciò il libretto nella tasca di Ferruccio, abbottonò la giacca, mise in testa al figliuolo il
cappello e accompagnandolo fin sulla scala al buio, seguitò a dirgli:
"Va da lei, di' che sei nipote della Colomba, che serviva in casa dei Grissini. Avete fatto la prima comunione
insieme. Contale la storia delle bottiglie, della carta, delle guardie e falle vedere che non si deve disonorare un povero
giovane per un poco di vino. Torna subito. Non dire che tuo padre è qui. Recita un'avemaria alla Madonna e che la tua
povera mamma, se può, interceda per te".
III. UN'ANIMA IN PENA
Era sera fatta.
Ferruccio prese la via della Guastalla, quasi deserta in quell'ora, e guidato dalla riga dei lampioni, che
mettevano un filo luminoso nel buio del suo cervello sconvolto e annuvolato, venne al ponte di porta Vittoria, traversò
la piazza spopolata del Verziere, provando l'impressione di chi arriva per la prima volta in una città straniera, o meglio
ancora di un prigioniero che ignoti nemici trascinano a una misteriosa destinazione.
Sperò di trovare il signor Tognino al caffè Martini in piazza della Scala, dove convengono la sera gli uomini
d'affari a consultare gli ultimi telegrammi di borsa, e incontrò per caso il Botola, un brutto vecchio mal vestito che da
qualche tempo veniva nello studio a discorrere in gran segretezza col padrone. Il pignoratario lo chiamò e cominciò a
fargli un gran discorso a proposito del Mornigani e d'una villa sul lago di Como... ma Ferruccio non aveva il capo a
queste cose. Lo piantò, traversò di nuovo la piazza della Scala, e per la via di Santa Margherita venne verso la via
Torino.
Era il momento del maggior movimento. I cittadini, approfittando delle prime giornate di primavera, uscivano
a passeggiare in mezzo allo splendore delle loro belle botteghe, sotto un cielo fatto chiaro e bianco dalla luna che
lentamente si distrigava dai pizzi del Duomo. Passeggiavano, affollavano i portici e la Galleria, riempivano i caffè colla
pace di chi ha guadagnato il suo riposo. Ferruccio traversò la piazza del Duomo quasi a corsa. In tre minuti fu in via
Torino a chiedere del principale.
"Lui non c'è," disse la portinaia "è andato in campagna, credo alle Cascine."
"C'è la signora?" domandò esitando.
"Lei sì, ma non so se a quest'ora può ricevere. Provi."
Il ragazzo cominciò a montare le scale a due gradini per volta.
Arabella non era una conoscenza nuova per il figliuolo del Berretta e anche lei avrebbe dovuto ricordarsi del
Ferruccio del portinaio che l'aveva accompagnata molte volte bambina alla scuola delle monache, quando veniva in casa
sua in Carrobbio a portare il pane e il latte della colazione. Ma la signora, che non poneva mai piede nell'ammezzato,
seppe solamente molto tardi che ci fosse uno studio in casa, e riconobbe il giovinetto la prima volta, quando presso le
feste di Natale venne a raccomandare la povera Stella. Incontratisi, avevano rinnovata la conoscenza. Parlarono di vivi e
di morti o per meglio dire parlò lei, perché in quanto a lui, preso dalla soggezione e dal rispetto per la bella signora, non
aveva saputo che rispondere sissignora e nossignora. La padroncina aveva promesso di raccomandarlo a suo suocero e
forse Ferruccio dovette a lei se il principale gli aumentò lo stipendio alla fine dell'anno.
Nei primi mesi del matrimonio Ferruccio aveva fatto un gran discorrere colle zie dei preparativi, della bellezza
e della bontà della sposina, poi a un tratto cessò di parlarne e non la nominò più come se fosse morta.
Che cosa era accaduto?
Per quanto egli guardasse dentro di sé non gli riusciva di vederne il motivo; ma tutte le volte che il discorso
cadeva naturalmente o era condotto da altri a nominare la signora Arabella, il ragazzo (e a vent'anni egli si sentiva un
vero ragazzo) procurava di uscirne presto, o di dargli un'altra piega, qualche volta le fiamme gli uscivano dal viso, o
socchiudeva gli occhi, come fanno certi timorati di Dio, quando sono costretti a guardare in faccia a una bella creatura.
Da solo a solo, specialmente di notte, quando si svegliava in mezzo a un sogno lusinghiero, si compiaceva di
contemplarla nel buio, a occhi aperti. Capiva che era una sciocchezza, una baia, un passatempo poetico, ma nella sua
povertà e nella sua miseria di spirito questa bella immagine signorile teneva il posto che una Madonna dipinta tiene
sopra un povero altare di campagna: finché si abituò a riporre la bella visione tra le squallide idee della sua vita di
mortificazioni e di stenti con quella devozione con cui la Nunziadina teneva riguardata nelle logore pagine della sua
Filotea una splendida immagine di pizzo a fondo d'oro, a cui dava ogni tanto un'occhiata per far belli gli occhi.
Perché l'avrebbe cacciata via questa dolce seduzione che lo proteggeva così bene contro le tentazioni e le
disperazioni volgari? Altri giovanotti della sua età, che hanno denari da spendere, e anche quelli che non ne hanno,
talvolta cercano goder la vita nella compagnia di donne senza onore, e consumano la salute e i quattrini in vizi e in
passatempi vergognosi. Egli, senza credere con questo di far male, compiacevasi del suo segreto, se lo portava nel cuore
misteriosamente custodito, godeva insomma castamente di un bene, che non rubava a nessuno, e che nessuno gli poteva
rubare, perché veniva tutto da lui e, dirò così, dai suoi risparmi morali e dalle sue mortificazioni.
Questo primo fuoco del giovine commesso si sarebbe spento a poco a poco da sé, divorato da qualche altro
fuoco più naturale, se la guerra spietata mossa dai diseredati e dai parenti alla famiglia Maccagno non avesse trascinato
anche lui a dividere le ansie e i patimenti della poverina.
Gli ignobili insulti che la donnaccia aveva lanciato contro la signora, furono per Ferruccio peggio che una
manata di fango negli occhi. In principio fu una fortuna ch'egli non avesse spirito di reagire. Forse si sarebbe
compromesso troppo. Ma la persecuzione non fece che ribadire e dare consistenza di patimento a un sentimento, a cui
non aveva ancora trovato un nome.
Fu questo patimento che, traboccando a suo dispetto, gli trasse un fiume di lagrime il giorno che aiutò a portare
la povera signora svenuta su per le scale.
Fu questo patimento o spavento che lo spinse e lo fece correre fino alle Cascine in cerca della signora Beatrice
e che lo persuase a rimanere in una casa, dove ormai capiva di non aver più nulla da guadagnare.
Ma improvvisamente, ecco, sentivasi ghermito anche lui dal destino che perseguitava buoni e cattivi. Una
moneta d'oro può per qualche tempo coprire una piccola macchia d'olio: ma l'olio è più forte dell'oro. Così il male,
come la macchia d'olio, dilatandosi, usciva a deturpare le anime più innocenti.
Era orribile il pensiero che, per salvare la fama e la ricchezza d'un prepotente, suo padre dovesse andare in
prigione! Ed egli aveva fino a ieri mangiato il pane di questo prepotente! Non capiva ancora bene, troppe furie uscivano
in una volta dal suo cuore in tempesta, ma sentiva dal suo stesso spavento che in questa orribile guerra d'interessi e di
prepotenze era in giuoco la vita di qualcuno.
Ansante e strabuffato si attaccò al cordone del campanello e dette una forte strappata.
Venne ad aprire l'Augusta che, vedendolo così slavato e stravolto, domandò subito che cosa fosse accaduto.
"Ho bisogno di parlare alla signora Arabella."
"Una disgrazia? venga avanti, vado a vedere se è ancora su. Di solito si ritira presto."
La donna condusse il giovane nel salotto da pranzo, collocò una lampada a globo di vetro sul caminetto e andò
ad avvertire la signora.
In piedi cogli occhi fissi al globo luminoso, Ferruccio rimase solo, ancora ansante e affannato per la corsa fatta,
travolto da una vertigine di tutti i sensi, in cui le molte e torbide sensazioni precipitarono in un affanno solo profondo e
straziante, che assorbì tutte le forze della sua vita.
Si pentiva d'essere venuto a confessare la sue vergogne alla signora, come se temesse di rompere colle sue
mani un delicato e prezioso incanto coll'accusare sé, figlio di un uomo cercato dalla polizia; ma nello stesso tempo
sentiva che non si sarebbe mosso di lì, prima d'aver parlato a lei, la sola in cui c'era a sperare qualche cosa di bene.
E stava così assorto, le mani in mano, fermo sulle gambe indolenzite, assopito nella luce della lampada,
vagando in una confusione oscura d'idee e di affetti, quando una voce lo scosse. Non si era neanche accorto di lei.
IV. UN'ALTR'ANIMA IN PENA
Arabella da quindici giorni aveva lasciato il letto, ma la cattiva stagione non permetteva ancora di parlar di
campagna.
Molti fatti nuovi e imprevisti erano intervenuti a mutare il suo sentimento, a scuoterla da uno stato di
abbattimento e d'inerzia morale, che non di rado è così comodo confondere coll'umiltà e colla rassegnazione.
La lettera di don Felice (persona degna d'ogni fede) era stata per lei come la chiave di molte cose misteriose,
che prima non sapeva spiegare, una fiaccola che, se non rischiara tutti gli angoli di un brutto sotterraneo, è abbastanza
per mostrare l'orrore del sito e per non invogliare a rimanervi di più.
Man mano che le forze fisiche tornavano e che essa ripigliava le sue abitudini nella bella casa fresca e nuova,
presa da un senso di abbandono, quasi di squilibrio nel corpo, cresceva in lei il dubbio, se poteva rimanere senza
rimorso e senza vergogna a godere della sua agiatezza, acconciarsi, come scriveva don Felice, alla sua parte di complice
inerte e soddisfatta dell'ingiustizia, continuando a godere i frutti d'una ricchezza, per la quale aveva perduto il frutto più
caro del suo sacrificio, per la quale aveva quasi bussato all'uscio della morte.
Se Dio non l'aveva voluta di là, questo era un segno che il suo dovere non era ancora tutto compiuto. Ma il suo
dovere, oggi, non poteva più essere, come ieri, semplicemente d'obbedire e tacere.
Il suo dovere era di combattere, forse più per gli altri che per sé. Segretamente scrisse a don Felice chiedendo
qualche schiarimento e dei consigli. L'Augusta portava e riportava le lettere. Non chiesta e non desiderata, arrivò anche
una lettera della zia Sidonia, che scusavasi di non venire ad abbracciare la nipote come avrebbe desiderato il suo cuore.
La compassionava mostrando di separare la causa di Arabella da quella di suo suocero, uomo indegno del nome di
fratello, che come aveva speculato sulla bontà dei signori Botta, costringendo un povero angiolino a sposare un uomo
indegno del nome di marito, così sperava di speculare sulla dabbenaggine dei parenti, confiscando un'eredità carpita
colla frode e col tradimento.
E come se queste scosse non bastassero, si aggiunsero altre noie da parte della mamma.
Questa benedetta donna si era fissa in mente che Arabella avesse i sacchi dell'oro in casa e che il matrimonio
era stato fatto principalmente per aggiustare gli strappi, per rabberciare i buchi, per provvedere a tutti i bisogni della
famiglia. È vero che il signor Tognino aveva dato di frego a un grosso debito, ma i bisogni erano più grossi.
All'avvicinarsi della Pasqua scadeva una rata d'affitto, e i fieni erano in ribasso, le bestie valevan nulla e il povero papà
Paolino, uomo in croce, non sapeva a che santo votarsi.
La promessa che aveva fatto il signor Tognino di interessarlo nell'azienda di San Donato non aveva ancora
portato a nulla, perché la guerra dei parenti e gli intrighi di una causa imprevista tenevano le cose sospese. Arabella, a
sentir la mamma, avrebbe potuto o dovuto fare di più.
Suo suocero aveva della bontà per lei, non le diceva mai di no, e se la ragazza avesse fatto presente lo stato
della famiglia che cosa erano due o tre mila lire per un uomo quasi milionario?
Una volta la buona donna disse tanto, che persuase suo marito a venire a Milano a discorrere personalmente
colla figliuola. Papà Paolino venne, ma trovò Arabella così pallida, così malinconica, con un'aria così poco felice, che
dopo aver girato e rigirato un pezzo di cappello nelle mani e masticato dei discorsi vaghi, se ne tornò via senza dir nulla,
con un velo sugli occhi.
La mamma pensò allora di ricorrere a qualche ambasciatore più coraggioso e più eloquente. Che cosa non
avrebbe fatto la povera donna per il bene della sua famiglia?
La malata cominciava a uscir dal letto. Suo suocero, sempre attento e premuroso, aveva pensato a farle regalare
da Lorenzo una ricca vestaglia di lana, tutta bianca, con dei risvolti di seta celeste e badava attentamente che le stanze
fossero ben riscaldate e che quello zoticone non portasse in casa il puzzo del tabacco e del cognac.
Più volte, combattuta tra il sì e il no, essa fu sul punto d'approfittare di queste buone disposizioni di suo
suocero per consegnargli la lettera di don Felice; ma ebbe paura sempre di far peggio, d'irritare il vecchio, di chiudersi
la via a comprendere il resto.
Un giorno, in principio di quaresima, sedeva nella sua poltrona davanti al caminetto, ancor debole e svogliata,
quando l'Augusta venne ad annunciare la visita di un uomo di campagna e d'un ragazzetto.
Entrò il Pirello della Cascine, con un cesto sul braccio, in compagnia di Naldo, che aveva una lettera della
mamma. Erano i soliti rimproveri. Nel suo stile blando e lagrimoso, la mamma finiva coll'accusarla d'ingratitudine e di
cattivo cuore. Se non voleva procurare le due mila lire, consegnasse almeno duecento lire subito in mano del Pirello: o
preferiva esporre sua madre e il suo benefattore al disonore di un sequestro?
Le facce contrite del vecchio contadino e del ragazzetto facevano un muto commento alla lettera.
Arabella, colta in un momento di malinconia nervosa, contrastata, offesa nelle sue intenzioni e ne' suoi
pensieri, accasciata da un rancore che non trovava in nessuna parte compatimento, invece di interrogare quei muti
ambasciatori di tristezza, cominciò a piangere come forse non piangeva da un pezzo, come forse non piangeva più dai
giorni della sua fanciullezza; era un pianto che da tre o quattro mesi andava via via addensandosi nel suo cuore.
Naldo, ammaestrato dalla mamma, si accostò alla sorella, e carezzandola, le disse con una vocina di
pitocchetto:
"Fallo in memoria del nostro povero papà, Ara..."
Il Pirello, spremendo anche lui due lagrime di compassione colla cantilena propria dei villani furbi, che
cercano d'intenerire un padrone in buona fede, entrò a dire:
"Fa proprio pietà ai sassi, povero sor padrone! Domani deve pagare una bestia, e il mediatore ha detto che se
non ha i denari sequestra il latte e il formaggio cosa che, oltre il dispiacere, è una malora in questa stagione. Se ci fosse
il fieno alto, pazienza, ma la Merica seguita a mandar giù roba, che oggi come oggi, vale di più, con poco
rispetto parlando, quel che si mette sul prato, che non quel che si raccoglie. Povero padrone! con quel cuore che darebbe
via anche la camicia, è proprio tribolato."
Naldo, vestito di pochi panni mal lavati, col peggior paio delle sue scarpe sui piedi, andava ripetendo colla
nenia imparata:
"Fallo per il nostro povero papà, Ara."
Arabella con una piccola scossa di donna irritata lo fece tacere; ma pentita del suo mal garbo se lo strinse
subito al cuore, lo baciò sulla fronte, gli accomodò il colletto e la cravatta, mentre contemplava nei lineamenti delicati e
signorili del povero ragazzo una sembianza che si allontanava sempre più dalla sua memoria, quasi ottenebrata da una
nebbia di nuovi dolori.
"Darò quel che potrò" disse alzandosi, e passò nella camera da letto.
Essa non aveva denari, perché suo suocero amava tener lui i conti della casa; ma pensò che avrebbe potuto
disporre liberamente, senza rimorso, di una bella fornitura di corallo, unico avanzo salvato e ricuperato dallo zio
Demetrio dal naufragio di casa Pianelli. Questo astuccio era la sola ricchezza che aveva ereditata da suo padre, la sola
dote che aveva portato andando sposa.
Di questo piccolo tesoro, che per la sua antichità e per il lavoro artistico poteva valere un prezzo, come si dice,
di capriccio, essa poteva liberarsene senza correre il pericolo di dar via roba non sua, e poiché l'accusavano
d'ingratitudine e di cattivo cuore voleva dimostrare a' suoi che dava quanto aveva di più caro e di più geloso.
Aprì il cassetto dove teneva le sue robe più fine, e tra i pizzi e le garze cercò il vecchio astuccio verde dagli orli
consumati; ma non ve lo trovò più.
Turbata da quel senso di penosa meraviglia che ci assale in questi casi, quando non si osa sospettare della gente
che ne sta intorno e non ci si rassegna a credere agli occhi propri, rimandò le sue ricerche a più tardi, raccolse invece
due o tre anelli d'oro in uno scatolino, anche questi memorie del passato, vi aggiunse la medaglia d'argento degli esami,
e consegnò tutto a Naldo, con un biglietto per la mamma.
"Credo che questi oggetti basteranno per ora a impedire un sequestro" disse al Pirello. "Domani manderò altre
cose, se sarà necessario..."
E, quando furono partiti, tornò col batticuore a cercare il suo vecchio astuccio verde; aprì tutti i cassetti, buttò
in aria ogni cosa.
L'Augusta, una buona ragazzona friulana, che nei pochi mesi del suo servizio aveva imparato a voler bene alla
padrona, la sorprese nel momento che, affaticata, cogli occhi riarsi dalle lagrime non asciugate, tentava inutilmente di
rimettere i cassetti a posto.
Arabella non poté nascondere il motivo delle sue lagrime.
Oltre il bene che la padroncina sapeva acquistarsi colla sua bontà, c'era per l'Augusta un'altra ragione
fondamentale che la spingeva a proteggere la sua siora : ed era l'odio accanito che quel pezzo di friulana portava
ai siori omeni Questi dovevano avergliene fatta una grossa al suo paese, da dove era quasi fuggita, una grossa a
cui non accennava che con frasi e con pugni in aria, ma che non avrebbe dimenticato più, come non si dimentica più un
male irreparabile. Nei pochi mesi che serviva in casa Maccagno aveva avuto campo d'osservare che gli omini
ominisono malignazi , birboni, egoisti anche a Milano come al suo paese, forse come dappertutto, tranne forse quel
povero putelo che scriveva nel mezà , con quegli ocioni neri e grandi come parioli e con
quei riccioloni che facevan vogia a vederli.
L'Augusta non avrebbe voluto fare la spia, perché non era nata per questo mestiere; ma la siora poteva
sospettare di lei e la verità è sacrosanta come la messa cantata. Dopo aver tentennato un pezzo la testa, come se pesasse
il pro e il contro, incrociate le braccia al petto, disse inchinandosi verso la padrona, che non cessava mai dal rimestare
nei cassetti:
" So mi dove che 'l xe sto astucio ".
"Parla, dunque."
" L'ho visto in te la camera del sior ."
Avvertita da un pronto consiglio di prudenza e messa in guardia contro le insidie, Arabella ebbe la virtù di
reprimere un senso di stupore e d'irritazione, mostrando di prendere la cosa naturalmente. Mandò l'Augusta fuori di casa
con un pretesto, e corse a far nuove ricerche nella stanza di Lorenzo.
Era la prima volta, dopo la grave malattia, che osava porre il piede nello studio del signor agente di cambio,
trasformato in poco tempo in una specie d'antro o di covile, tanto era il disordine e lo scompiglio della roba.
Il caminetto, il tavolino, il letto, erano più che ingombri, sepolti dalle cose più disparate, messe là, buttate là, e
dimenticate; stivali, bottiglie di liquori, scatolette, cartuccie, pistole, morsi di cavallo, pipe e giornali illustrati e il tutto
condito di quell'acredine speciale che manda il tabacco trinciato di seconda qualità, delizia e ristoro dei cacciatori di
forza.
Arabella, superata l'afa e la ripugnanza, cominciò a cercare con febbrile impazienza il suo astuccio verde. Che
cosa l'aveva persuasa a credere così subito alle indicazioni di una donna di servizio? Non era in istato di rispondere, ma
sentiva quasi che la spiegazione data dall'Augusta non poteva essere più vera e più naturale.
Cominciò a cercare cogli occhi intorno, sui tavolini e sulle sedie, e non trovando quel che le stava a cuore di
trovare, provò ad aprire qualche cassetto della scrivania, colla mano tremante di una doppia emozione, tra il desiderio di
ritrovare un oggetto caro e il timore di scoprire qualche cosa di più triste e di più penoso.
Durante la lunga malattia di sua moglie, Lorenzo, abbandonato a se stesso, precipitò nelle vecchie abitudini, da
cui non era uscito se non come un soldato ubriaco, che fa degli sforzi enormi per star diritto innanzi al caporale.
Ogni cosa intorno a lui parlava di un uomo incapace di un pensiero d'ordine e di un'elevata aspirazione.
Arabella si arrestò un minuto a contemplare quel gran disordine con un senso di scoraggiamento. La vista di un vecchio
mazzo di carte, abbandonato sul camino, richiamò ciò che più volte si era presentato al suo pensiero, vale a dire la
possibilità che Lorenzo fosse tornato al vizio di prima. Il giuoco è una passione terribile, che non perdona, secondo essa
aveva udito dire: e forse la sua bella fornitura di vecchio corallo era andata a pagare un nuovo debito...
La mente correva ancora dietro a questi presentimenti quando, in un cassettino a destra, la mano, frugando,
cadde sull'astuccio. Fu un attimo di gioia; un attimo. L'astuccio era vuoto.
Vuoto! - Questa parola rimbombò nella testa per un istante e rese ottusi i suoi sensi.
La prima idea fu di parlarne a suo suocero, che rappresentava il giudice della casa; ma un secondo riflesso fece
presente quel che la gente diceva e scriveva anche di lui. Qual giudice? Essa era in mano ai ladri...
Questa volgarità di parola scattò, quasi con dispetto, dal fondo amareggiato della sua coscienza, l'avvilì, come
se per la prima volta sentisse e vedesse la volgarità della sua casa insudiciare la dignità di una donna onesta.
Era una casa di ladri! Come pretendere che questi ladri restituissero la roba sua? che cosa scrivere allo zio
Demetrio, che a riscattare quel tesoro di famiglia aveva consacrato tutti i risparmi di una vita sobria e solitaria? E un
vagabondo gliel'aveva carpito, approfittando d'un istante di delirio o di debolezza, forse penetrando di notte, come un
ladro volgare, nella sua camera... C'era ben motivo di piangere; ma con suo stupore gli occhi non davan lagrime:
qualche cosa di forte e di ribelle vi si opponeva.
Dai cassettini uscirono dei vecchi ritratti di donne. Eran le antiche simpatie di suo marito, il suo genere, come
soleva esprimersi egli stesso, parlando delle avventure galanti degli amici. Eran forse le memorie non distrutte di un
passato allegro, forse non dimenticato, forse rimpianto... chi sa? forse ricercato. Anche quelle care creature dalle
gonnelle corte, dalle pose arrischiate avevano preso col tempo una forte tinta di tabacco. Le buttò via con schifo. Essa
non poteva essere gelosa di questo passato, per quanto ripugni a una donna onesta di vedere attraverso a quali viottoli
suo marito è arrivato fino a lei.
C'era anche un libro in quel tritume di carta che rappresentava gli affari del signor agente di cambio, un logoro
romanzo tradotto, dalla copertina gialla, che portava scritto in un angolo un nome di donna.
E dal libro uscì un ritratto, lucido e fresco, che pareva fatto ieri. Era una donna non molto giovine ma di una
bellezza maestosa e teatrale.
Mentre la moglie onesta sforzavasi di trovare dei sensi logici nella torbida violenza da cui fu assalita, il suono
di un passo, e uno sbattere di usci nella stanza vicina, la strappò repentinamente al suo dolore. Richiuse i cassetti, dopo
avere deposto il libro, ma nascose l'astuccio e il ritratto nell'ampia manica della vestaglia. Si sforzò di alzarsi, ma non
poté, come se a un tratto le venisse meno la forza nelle gambe.
Coi gomiti appoggiati alla scrivania, strinse nelle mani la testa che mandava vampe di fuoco, mentre un brivido
le corse per tutto il corpo, le parve che tornasse la febbre terribile dei primi giorni.
Lasciò passare una lunga visione di mali, come un ingenuo che giunto alla riva di un gran fiume si ferma ad
aspettare che l'acqua passi tutta, prima di tentare il guado. Quando la prima tempesta fu alquanto sedata, trovò che in
fondo al suo cuore non c'era soltanto del dolore...
Non avrebbe osato sperare di trovarci tanto orgoglio!
Ed era un orgoglio amaro ed aspro, che dava un vigore insolito alla sua natura, come certe medicine ripugnanti
al palato che rinforzano la fibra.
Se non le fosse sembrato un assurdo, avrebbe osato dire che dal mezzo di questo suo dolore scaturiva una vena
di acre piacere, o, se piacere è dir troppo, di soddisfazione selvaggia, qualche cosa insomma di ancora indecifrabile, che
si sarebbe potuto paragonare al sentimento che prova una schiava affranta dalle verghe quando vede il furore del suo
padrone scagliarsi su un altro corpo ignudo.
Quando aveva essa amato codesto suo padrone, perché dovesse fargli l'onore d'essere gelosa?
E perché avrebbe odiata a morte la donna che, frammettendosi, qualche poco glielo contrastava?
Era sorpresa di sentirsi così calma e così ragionevole davanti al testimonio della sua umiliazione; ma capì ben
presto che da quell'uomo non poteva venire a lei nessuna umiliazione, che quella donna poteva aver nome anche
liberazione.
L'enorme mare di ribrezzo, che l'anima e il corpo avevano assaporato a goccia a goccia in quattro mesi di
matrimonio, soverchiava già i limiti della sua pazienza e del suo dovere. Qualcuno finalmente gettava una fune alla
vittima vicina ad affogare.
Prese con sé il ritratto di Olimpia come un documento, e pensò di chiedere alla zia Sidonia, già così disposta a
compatirla, delle spiegazioni che la buona zia era smaniosa di dare colla speranza di avere nella nipotina una forte
alleata nella gran guerra che i parenti e gli offesi facevano ai Maccagno.
Per alcuni giorni non si mostrò diversa in casa; anzi cercò di essere lieta e disinvolta. Guardandosi nello
specchio si trovò per la prima volta meno pallida. Anche la voce, se doveva giudicare da ciò che ne sentiva, aveva
acquistato un tono più vibrato e sicuro.
Qualche cosa di forte e d'individuale nasceva in lei. Forse la monachella di Cremenno aveva finito di patire...
Dio, la ragione, la giustizia, l'opinione pubblica erano con lei e per lei. Ecco perché, quando l'Augusta venne ad
annunciare in ora così insolita che Ferruccio desiderava parlarle, corse in sala, col passo ardito di chi si muove al primo
segnale della battaglia.
V. LA PRIMA BATTAGLIA
"Che c'è? una disgrazia?" chiese al giovine.
"Sì, una disgrazia, una terribile disgrazia" esclamò Ferruccio, aprendo le braccia e socchiudendo gli occhi:
"una cosa orribile, se lei non ci aiuta, buona signora."
"Che cosa?" chiese Arabella, conducendo il giovine verso il canapè e invitandolo con un gesto a sedere.
Ferruccio, con voce contristata e riscaldata dal dolore, cominciò a raccontare il suo caso, senza mai alzare gli
occhi in viso alla signora, descrisse la disperazione del povero suo padre, quando vide le guardie sull'uscio venute per
arrestarlo, e fece sentire tutto lo strazio di un cuore generoso ed onesto all'idea del disonore che sarebbe pesato su tutta
la sua vita.
"Pensi che disgrazia anche per me, se il signor Tognino fa questa figura a quel povero uomo. Pensi, un vecchio
di sessant'anni! un vecchio di sessant'anni che viene condotto via come un malfattore. O Dio, Dio, Dio..."
Ferruccio si coprì la faccia colle due mani. L'animo intimidito e scontroso, eccitato e scosso dalla sferza
tagliente del dolore, snodavasi e usciva di mezzo ai piccoli impacci dell'ignoranza e della soggezione, trovava la sua
voce naturale, e colla voce l'eloquenza che tocca e che persuade. Era forse la prima volta che l'anima romantica della
povera Marietta parlava con tanto fervore nella voce del figliuolo; quasi se ne accorse egli stesso, soffermandosi una
volta in mezzo alla corsa sfrenata della sua disperazione ad ascoltare una voce, che parlava forte e commovente al suo
stesso orecchio.
"Lei che è tanto buona, lei che è l'angelo di questa casa, lei, cara signora Arabella, non deve permettere questo
castigo. Pensi che è come condannare a morte un povero vecchio coi capelli bianchi. È come dire a un povero giovine di
vent'anni: va, sei disonorato per sempre... No, no, per amor della mia povera mamma non ci facciano questa tremenda
figura. Io pagherò tutto, due volte, tre volte: servirò tutta la vita per nulla, ma dica al signor Tognino che per così poco
non si uccidono due uomini. A lei vuol bene, a lei non dirà di no, e il Signore l'ha messa in questa casa, buona signora,
apposta per impedire molto male..."
"Quando è accaduto tutto ciò?..." interruppe Arabella, commossa dalle parole e dalle ingenue dichiarazioni del
giovine.
"È cosa che risale a questo inverno. Il signor Tognino aveva quasi perdonato, ma ora per un altro motivo vuol
dar corso alla denuncia."
"Quale altro motivo?"
"Mio padre avrebbe detto a qualcuno d'aver aiutato il signor Tognino a cercare una carta."
"So ormai di che cosa si tratta e ho promesso già ad altri di far sentire anche la mia voce in questa dolorosa
faccenda."
"La zia Colomba mi ha dato questo libretto di risparmio e mi ha raccomandato di consegnarlo a lei."
"Non c'è bisogno di denaro... anzi ce n'è anche troppo. Metta via il suo libretto e lo riporti alla sua buona zia. Io
cercherò di parlare domani mattina per tempo a mio suocero, e sarà la volta che ci parleremo chiaro."
"Se lei non ci salva, io non so quel che farò nella mia disperazione... Sento che è meglio morire..."
Arabella, sentendo parlar di morire, essa che era stata a un filo dalla morte, s'immedesimò nella tristezza del
giovine, e dimenticò per un istante, quasi affascinata dalla sua stessa malinconia, le circostanze che lo avevano condotto
a implorare il suo soccorso. Vide che Ferruccio, lottando con se stesso per non piangere, divorava le sue lagrime, e
celava gli occhi per paura di incontrarne altri due che l'avrebbero avvilito. Avevan fatta la prima comunione insieme e
per il ragazzetto essa era stata una specie di maestra, o di sorella maggiore.
"Capisco il suo dolore e il suo spavento, povero Ferruccio, e la ringrazio di essere venuto a parlarmene. Ciò mi
persuaderà a uscire da un'inerzia morale della quale già mi sentivo colpevole. Siamo impigliati un po' tutti in
quest'intrighi, e lei vede che io ne ho sofferto per la prima."
Ferruccio rivedeva la signora per la prima volta dopo il triste accidente, e, alzando gli occhi per commiserarla,
gli parve di rivedere una bellezza più radiante e più consacrata. Il viso attenuato dalla malattia, la bianchezza quasi di
marmo, gli occhi grandi e splendidi, i capelli che fluivano in un certo disordine sui pizzi della vestaglia bianca, la voce
che lo incoraggiava e lo avviliva nello stesso tempo, tutto ciò ebbe la virtù di portare anche lui un istante al di fuori o al
di sopra del suo stesso patimento.
"Vada a casa a consolare la sua gente e dica pure che prendo la cosa sopra di me. Lasci all'Augusta il suo
indirizzo e domani mattina manderò a portare io stessa la risposta. Ne farò una questione mia personale. Un giorno o
l'altro avrei dovuto cercare un pretesto per dichiarare anch'io la mia guerra. È necessario uscirne, e al più presto. Vada e
non dica più che gli manca la forza di vivere: è negar la Provvidenza, Ferruccio."
"O signora Arabella!..." singhiozzò il giovine.
Assalito, quasi travolto dalla violenza morale di quel dolce rimprovero, il romantico figlio della povera
Marietta piegò un ginocchio sopra uno sgabello ch'era ai loro piedi, e in atto di compunzione e di supplica baciò con
riverenza e con umiltà popolana la mano della signora, mormorando:
"Mi scusi, grazie, mi scusi".
In quel punto l'uscio s'aprì con furia, ed entrò il signor Tognino in persona. Da un mese era in sospetto di tutti e
di tutto. Proprio in quel giorno il Botola gli aveva dato per certo che don Felice aveva scritto segretamente alla nuora e
che questa aveva già avuto dei segreti colloqui col prevosto.
Tutto ciò il Botola aveva saputo dal Mornigani che da qualche tempo gli faceva la corte. Per questa stessa via
era stato informato del tradimento del Berretta. Avvertito dalla portinaia che c'era di sopra Ferruccio e sentito
dall'Augusta che il giovine pareva un morto in piedi, entrò nel salotto coll'ansietà di chi s'affretta a scongiurare qualche
altro pericolo. Ma nell'entrare si arrestò di botto, come se urtasse contro una spranga di ferro.
"Eccolo, proprio a tempo!..." esclamò Arabella, alzandosi repentinamente. La sua voce era ferma e tranquilla,
ma soffrì di sentire una vampa di rossore scaldarle il viso. "Questo povero giovine è venuto ad implorare grazia per suo
padre. Mi si raccomandava in ginocchio colle lagrime agli occhi."
"Quel signor povero giovine favorirà a prender l'uscio e dopo l'uscio le scale e non metterà più piede in casa
mia."
Il signor Tognino recitò queste parole con tono aspro e risoluto, indicando col braccio teso l'uscio semiaperto.
E in quella voce sinistra, che Arabella non conosceva ancora, scaturì per un istante il vecchio Valsassina del Borgo.
Ritto nel mezzo della stanza, rimase un bel pezzo in quella posizione, come se stentasse a uscire da una eccitazione
malvagia che gl'induriva i muscoli.
"Senta, sor Tognino..." provò a dire il ragazzo, congiungendo le mani.
"Va via!" gridò l'altro, piegando una volta il braccio e stendendolo di nuovo a indicare la porta. "Non ho
nessuna compassione di chi fa lega coi birbanti e di chi mi insulta in casa mia."
E volgendosi ad Arabella, che stava come impassibile a contemplare la scena, soggiunse con un risentimento
che mirava ad ingrossare le cose:
"Al padre di questo povero giovine ho già perdonato una volta; ma ora vedo che mi paga coll'ingratitudine e lo
tratto da ladro".
"Mi ha mandato la zia Colomba..." provò a dire Ferruccio, mostrando il libretto di risparmio.
"T'avesse mandato Cristo, la denuncia è fatta. Volete la guerra e io ve la faccio. E tu, ripeto, piglia quest'uscio
o ti, ti..."
E il figlio del Valsassina, piegando i diti ad artiglio fece due passi contro il giovine, con un moto minaccioso di
belva ferita, che il contegno modesto e umile del povero figliuolo non aveva provocato.
Arabella entrò in mezzo e disse freddamente a Ferruccio:
"Vada, obbedisca, non insista. Piglio la cosa sopra di me…"
E lo accompagnò ella stessa fin all'uscio, che richiuse. Quindi si voltò per cercare la sua bestia feroce.
Il signor Tognino gettò sul canapè il cappello - quel medesimo cappello molle a larghe tese, che il Berretta gli
aveva visto in testa la notte famosa - e cominciò a camminare con passo adirato tra il caminetto e la parete opposta.
"Mi fanno la guerra e io mi difendo. Quell'asino va a dire ai preti che io ho rubata una carta e io dimostro al
questore, perbacco! ch'egli mi ha rubato cinquanta bottiglie di vin vecchio e mezzo carro di legna. Son nel diritto, sì o
no, risponda?"
La domanda era rivolta in modo da far intendere che esigeva una risposta.
Arabella, in piedi presso il caminetto, colle mani appoggiate alla pietra, finse di non aver capito.
Nel bagliore della lucerna, i suoi capelli irraggiavano una specie di aureola fosforescente intorno al volto
delicato e colorito dall'animazione della battaglia interiore.
Il vecchio fissò l'occhio semichiuso su quella splendida visione di donna, e, inteso a farsi dare ragione per forza
e ad offuscare colla violenza delle parole l'impressione che le parole di Ferruccio avevano potuto lasciare nell'animo di
lei, seguitò:
"Non le pare nemmeno che le mie parole meritino una risposta?" e si arrestò su due piedi, incrociando le
braccia sullo stomaco, fissando lo sguardo sopra la sua bella nuora, che aveva un contegno quasi provocante questa
sera.
"Scusi, signore," prese a dire Arabella freddamente "io non posso giudicare di fatti che non conosco. Ma so
che i torti si fabbricano anche a furia di ragioni."
"Lei però dice di non conoscere i fatti..."
"Non li conosco e non desidero nemmeno di conoscerli..." rispose con accento più risentito, fissando i suoi
occhi lucenti in faccia al vecchio, che un poco li sostenne, ma poi abbassò i suoi e ritornò a passeggiare, il capo avanti,
le mani dietro la vita, colle quali seguitava ad agitare con stizza nervosa un paio di guanti sciupati.
"Io dico soltanto questo, signor Maccagno, che non è segno di forza il mostrare di aver paura di un povero
vecchio."
"Sa lei quel che si dice?" interrogò di nuovo il suocero, fermandosi su due piedi e fissando negli occhi la nuora
quasi per leggervi quel che vi era d'entro.
Già non trovava più la dolce pecorella di prima. I preti già l'avevano guastata. Gli occhi del vecchio Maccagno
schizzavano fuoco.
"Forse non sono ancora istupidita del tutto" continuò Arabella, ridendo con un piglio ironico, che non era
nell'indole sua.
Nello sforzo della passione, la sua bellezza alquanto claustrale si rischiarò e prese in alcuni tratti il vigore di
una donna forte che accetta una sfida.
"Lei non conosce i fatti, dice, ma si permette di giudicarli..."
"Nossignore."
"Sissignora!" gridò il vecchio, battendo la mano secca e nodosa sulla tavola. E colla furia di chi corre a
difendere qualche cosa di prezioso, seguitò: "Io non ho studiato sui libri come lei, ma so leggere più in fondo di lei. Non
solo lei non conosce i fatti, ma li conosce male, il che è peggio, e li giudica come li conosce. Avrei molto piacere che lei
si tenesse fuori dagli affari che non la riguardano. Scusi... Avrei voluto dirglielo prima, ma spero di dirglielo a tempo."
"Non mi sono messa da me in questi affari che lei dice."
"Lo so, lo so, ma ha fatto male a credere a ciò che dei maligni interessati le hanno scritto..."
"Ora è lei che giudica male..."
"Maligni interessati, che io chiamerò ad uno ad uno davanti al giudice..."
"Ella si irrita inutilmente con me..."
"Non inutilmente con chi prende le parti de' miei nemici..." soggiunge il vecchio, agitando furiosamente il suo
paio di guanti.
"Di ciò parleremo un'altra volta, se le piacerà. Ora si tratta di quel povero vecchio..."
"Di quel povero vecchio..." ripeté con grossa ironia, ridendo sulle sue parole. "Già, già: di quel povero
vecchio... e anche un po' di quel povero giovine..." e nel sorriso sarcastico guizzò una passione oscura, che, o egli
chiamò a difesa de' suoi interessi, o essa tirò lui a dir di più del giusto. Mal chiamata o mal trattenuta, questa passione,
quasi ignota al suo stesso padrone, entrò in mezzo a spaventarli entrambi.
Arabella scattò dal suo posto e venne a piantarsi davanti al suo accusatore. Che voleva dire il signor
Maccagno? era a lei, o a una delle solite donne di sua conoscenza, che il vecchio Maccagno osava rivolgere una frase,
che nella sua ironia lasciava trasparire un pensiero vile, un'accusa villana?
Credette di poter rispondere anche lei un mare di aspre parole: ma non poté dirne una. Il viso divenne duro,
quasi superbo. Gli occhi si impicciolirono in una luce fuggente di supremo disprezzo, portò la mano alla bocca per
chiudere la via a una volgarità che la sua dignità non le permise di dire. Non la disse, ma la fece vedere con un moto
altero della testa, che riassumeva tacitamente tutta la ripugnanza che suscitava in lei l'oltraggio dell'umana vigliaccheria.
Quando finalmente quel tumulto di sensazioni fu alquanto sedato, volgendosi per uscire, giunta sulla soglia si fermò, e
come se parlasse a due persone, che sentiva associate nel disprezzo, alzata la testa, disse con voce lenta e irritata:
"Ebbene, sissignore, anche quel povero giovine mi preme..."
E uscì, chiudendo dietro di sé i battenti.
Il vecchio le corse dietro un tratto, gridando:
"No, no, figliuola, mi ascolti..." e rimase lì, atterrito davanti all'uscio che Arabella gli chiuse sul viso.
Atterrito, è la parola vera. Il suo demonio, per chiamare con un vecchio nome una passionaccia oscura e
ingannatrice, l'aveva trascinato a dire una brutta parola all'unica creatura ch'egli stimava e amava sulla terra.
Perché l'aveva dunque pronunciata? aveva bisogno di prove per credere che Arabella era un angelo di onestà,
di sacrificio, di virtù, un essere capace di sopportare le battaglie della vita per sé e per gli altri? tutto ciò sapeva
benissimo anche prima, lui, che da sei mesi viveva, si può dire, giorno per giorno, ora per ora, della vita e dei respiri di
quella figliuola. Era lui che da sei mesi lottava da leone contro le maligne influenze dell'ambiente per mantenere intorno
ad Arabella quasi un'oasi di purezza, per fare che una stilla di fango non cadesse a contaminare un lembo del suo
vestito. Ed ora il suo demonio l'aveva condotto a gettarle una manata di quel fango in viso...
"Scusi, Arabella; senti, figliuola..."
E istintivamente pose la mano alla serratura e cercò di sforzare i battenti.
Ma poiché Arabella non rispondeva, gli mancò la forza d'insistere. Si mosse come un uomo che ha smarrita la
sua strada e ritorna sui passi, più per la paura di perdersi maggiormente, che non per la speranza di trovare la strada
buona. Uscì coll'intenzione di cercare Lorenzo, ma, giunto dabbasso, passò nell'altra corte, salì le scale dell'ammezzato,
tolse la chiavetta ed entrò nello studio.
Uh! il grand'uomo che avrebbe voluto far processi d'ingiuria a mezzo mondo, eccolo qui, peggio degli altri, a
supporre subito quasi una tresca tra la nuora e quel ragazzo... Perché questo era stato il suo primo pensiero contro cui
urtò nell'entrare, quando li vide così vicini. Per questo pensiero aveva cacciato il ragazzo come si caccia un cane.
Ebbene, aveva torto, non solo di immaginare certe cose, ma d'ingerirsene... lui... vecchio...
In questi pensieri che luccicavano, dirò così, nel suo cervello rabbuiato come i frantumi sparsi d'uno specchio
rotto a colpi di sassi, si rintanò nella piccola stanza, dove entrò senza lume, guidato dalla scarsa luce che dalla viuzza
sottoposta sbattevano i fanali sulle finestre polverose dell'ammezzato.
Rannicchiato nelle braccia della sdruscita poltrona di pelle, tra le grandi ombre delle scansie, appoggiò i gomiti
ai cartocci che ingombravano la scrivania, strinse la fronte nelle mani, tentò di mettere un poco d'ordine nella
confusione delle molte sensazioni che cozzavano per la prima volta a rompere l'armonia del suo cervello sano e pratico.
Ormai non c'era più dubbio: anche Arabella era contro di lui. Ferruccio doveva averle raccontato cose
tremende, ingrandendo apposta parole e fatti per destare più compassione, per tirare Arabella dalla sua parte. I preti
sulla testimonianza del Berretta sostenevano e credevano di poter dimostrare ch'egli aveva trafugata una carta. Ora i
Borrola, secondo ciò che gli aveva detto il Botola, erano andati a scovare delle nuove testimonianze. Intrighi sopra
intrighi, intrighi d'avvocato, intrighi di sagrestia, mentre l'ortolana, il Boffa e gli altri malandrini gli minacciavano
guerra di coltello. E Arabella osava parlare di pietà e di misericordia!...
Eran riusciti ad aizzarla contro di lui, mentre egli stava già per metterla in salvo. E mentre da una parte l'odio e
il rancore eccitavano le solite furie, sentiva in fondo all'animo, in un luogo buio dove non arrivavano le voci
dell'orgoglio, che questa benedetta figliuola gli faceva paura. Essere male giudicato da lei parevagli un castigo troppo
duro, che non poteva sopportare.
Mosso dalla forza di questa paura, desideroso di gettare quasi un ponte tra lui e sua nuora, accese una candela,
tolse via alcune carte, tirò avanti un foglio bianco e prese a scrivere lesto sotto la dettatura d'uno spirito che comandava:
"Mia cara nuora,
"Mi perdoni quel che ho detto in un momento di cattivo umore. Nella foga del discorso la parola ha detto ciò
che non era nel mio pensiero, glielo giuro. E come potrei pensare cose meno che oneste e meno che buone di lei, cara
mia figliuola, la più onesta e la più buona creatura ch'io conosco? mi perdoni e non mi tolga il suo affetto e la sua
benevolenza.
"In questo momento ho bisogno di un'amica che mi voglia bene e che mi assista. Il mondo mi giudica male, se
pur non ho abusato anch'io nel giudicare degli uomini. A ogni modo se qualche cosa di bene posso fare anch'io, non può
essere che coll'aiuto e colla stima delle persone care e coraggiose come lei.
"A provarle che in me è sincero il pentimento, le prometto che domani andrò io stesso dal signor questore a
ritirare la querela contro il Berretta, quantunque preveda di trasformare un ladro confesso in un pericoloso nemico. La
guerra che mi fanno i parenti è senza fondamento. Può essere dispiaciuto a qualcuno di loro che la povera mia cugina
abbia favorito me solo nelle sue disposizioni e ciò spiega il loro odio accanito contro di me e contro la mia famiglia;
ma..."
A questo "ma" la penna si arrestò, provando una resistenza a proseguire, come se nel meccanismo del
ragionamento fosse caduto un corpo estraneo a incagliarne il movimento. Non s'era mai fermato davanti a siffatti
sassolini. L'uomo che corre non può arrestarsi a raccattarli. Nel caso suo aveva saltato ben altri muriccioli... Se si fermò,
bisogna ritenere che sentisse in sé il bisogno di rifare la storia dei fatti per evitare delle inutili contraddizioni.
"..ma non tocca a noi giudicare le intenzioni di chi non è più. Nella mia fortuna avrei potuto fare del bene a
tutti, specialmente ai Ratta poveri e bisognosi, se non che per invogliarmi a far del bene, il peggiore sistema è la guerra
sorda e palese che mi minacciano. È il calunniare, l'insolentire pubblicamente, l'inveire contro me e contro la mia
famiglia, il comperare false testimonianze, il corrompere i miei servitori, il fare insomma intorno al mio nome un
osceno can-can, che mi fa comparire come la bestia feroce di Milano. Ella ha già più d'una prova se io sono una bestia
così feroce. A questa guerra io son risoluto di opporre un'altra guerra; agli scandali altri scandali, a processi altri
processi per tirar sul terreno della legalità una ciurma di affamati avvezzi a schiamazzare pel loro mestiere.
"Non è dunque la paura di un povero vecchio che mi ha fatto comparire duro e intransigente questa sera: è,
come vede, il dovere naturale che ho verso di me e verso la società di difendermi colle armi stesse che mi offrono i miei
nemici.
"Con tutto questo, cara Arabella, per dimostrarle che sopra il mio stesso diritto apprezzo il suo affetto e la sua
stima, le prometto che ritirerò la querela, anzi autorizzo lei a mandare questa notizia a Ferruccio, per dimostrarle come
io stimi e voglia bene anche a questo buon giovane. E se tutto ciò non basta, mi dica e mi suggerisca quel che posso fare
per dimostrarle il mio pentimento e per riacquistarmi quell'affezione che spero d'aver meritato…"
Come se dalla fiamma della candela scoppiasse un piccolo razzo, a questo punto vide guizzare, tra le righe del
suo nero inchiostro, una fila di minute scintille, e le parole farsi livide e confuse. Passò la mano sugli occhi e cominciò a
rileggere il suo foglio, meravigliandosi d'aver scritto tanto in così poco tempo.
Dalla parte degli ammezzati la viuzza era già quietissima, quantunque non fosse ancora molto tardi. Di tanto in
tanto sonava un passo sul lastricato e svoltava all'angolo; poi tutto ricadeva nel silenzio.
Fin dove può un uomo ingannare se stesso? Rileggendo la difesa ch'egli aveva scritto di sé, il vecchio affarista
era indotto a credere alle sue stesse parole da una strana e assorbente commozione, che gli faceva gli occhi gonfi.
Quasi si compiaceva come una vittima dell'avarizia e dell'egoismo altrui. E mentre da un lato non riconosceva
più se stesso, provava dall'altro un desiderio senza fine di umiliarsi al cospetto della nuora, di mettersi incatenato in
mano sua, di lasciarsi guidare in quante opere di carità, d'indulgenza, di misericordia ella credesse utile di suggerire.
E stava per chiudere la lettera, quando nel silenzio del vicolo e nella profondità delle case risonò sguaiatamente
una voce, che fece trasalire nella sua poltrona il vecchio malinconico. Era la solita voce:
"Maccagno birbone! non dormi? quando ti farai impiccare?"
Soffiò spaventato sulla candela e si rannicchiò nel buio. Era la prima volta che l'Angiolina osava farsi sentire di
notte. Aveva aspettato che Tognino la facesse arrestare; quando si accorse che coi processi l'ometto non osava venire
avanti, prese coraggio e volle cantargli una serenata.
"Non ti tira pei piedi la vecchia Ratta? corbaccio mercante di carne umana..."
La voce stridula e sguaiata, rimbombando nella stretta fessura della viuzza, fece aprire qualche finestra e
arrestò qualche passo. Non era possibile che, passando nell'arco della porta, quelle maledizioni non salissero fino ad
Arabella, a rinnovare i brividi e lo spavento dell'altra volta. Tognino, se avesse avuto un coltello, se avesse potuto...
Sepolto nelle tenebre, alle ingiurie così gridate nell'aria rispondeva con grugniti di bestia ferita, aggrappandosi colle
mani irritate alle gambe della scrivania. Che pace, che perdono, che benevolenza! questo era veleno, peste, abbominio.
Il lupo scosse la febbre, arruffò le setole, e bestemmiando i sette sacramenti, lacerò in cento pezzi la lettera, in cui
parlava di indulgenza e di perdono, e giurò di andar dritto per la sua strada, che, al punto in cui era arrivato, non poteva
essere che una sola.
VI. UN CATTIVO ROSARIO
Durante la corsa di Ferruccio in mezzo alle strade di Milano, la Colomba, dopo aver fatto bere al Berretta una
scodella di brodo e un bicchiere di vino, disse alla Nunziadina:
"Recitiamo il rosario, perché la Madonna addolorata abbia pietà dei nostri dolori".
Tirò di tasca la corona, memoria della povera Marietta, e cominciò dal mistero che contempla Gesù nell'orto.
Il Berretta, seduto sulla pietra del camino, e la Nunziadina immersa nell'ombra d'un paralume di cartone,
rispondevano con un leggiero bisbiglio, con sospiri affannosi in cui stentavano a reggersi le avemarie. E avevan di
grazia di poter tenere l'anima raccolta. A ogni passo su per la scala, a ogni gemito e scricchiolìo dell'uscio, il portinaio
alzava la testa, aguzzava l'udito nell'aria, per paura che fossero le guardie. La Nunziadina pareva ancora più
rimpicciolita sulle gruccette.
La lucerna, col lucignolo abbassato fin dove si può dire che la luce non guasta il buio, lasciava la stanza in una
mezza oscurità, dentro la quale le tre figure parevano sprofondare.
Nessun rosario fu più distratto, più scucito. Il Berretta rispondeva or sì or no, sia che i rumori e la paura lo
tenessero impennato, sia che la stanchezza e i patimenti d'una giornata di fuga e senza cibo lo tirassero a reclinare il
capo e a dormicchiare sopra i pensieri.
Chi andava più lontana a battere la campagna, fuori d'ogni devoto sentiero, era la Colomba. Come se dalla
corona si distaccassero, insieme alle avemarie, antiche reminiscenze, il suo cuore tornò indietro a ricordare un'altra notte
di spavento, quella in cui era morta la madre di Ferruccio, un affare di vent'anni fa.
Delle tre sorelle la Marietta era la più bella, la più viva, la più romantica com'erano tutte le sartine del suo
tempo. Aveva sposato il Berretta, non già perché il cuore le dicesse qualche cosa per quel povero martoro di sarto, ma
perché così avevan voluto, o perché bisognava maritarla quella figliuola. Nel dare alla luce Ferruccio (un certo nome
che essa aveva trovato in uno dei suoi romanzi) tre giorni dopo fu assalita da una maligna infezione e in ventiquattro ore
moriva abbruciata dalla febbre, col ventre gonfio, delirando come una pazza, confessando anche ciò che avrebbe fatto
bene a tacere, poverina.
"Hai sentito?" entrò a chiedere la Nunziadina, rompendo il filo dei pensieri che s'attorcigliavano al rosario.
"Che cosa?"
"Mi par di sentire..."
"È quest'uomo qui."
Il Berretta, puntellato ai ginocchi, dondolando, e balzando in piccole scosse, mandava dal naso un soffio
pesante d'uomo che dorme.
Si entrò nel secondo mistero.
"Delirava la poverina, chiamando per nome tutte le ragazze della scuola, e i giovinetti che accompagnano le
ragazze. A volte credeva di recitare sul teatro, faceva la tragedia e la commedia, sempre in mezzo a una fornace di
febbre, sempre con quel ventre alto come una montagna, mentre il bimbo strillava di fame in un cesto. Il Berretta per
consiglio del dottore era corso, a piedi, fino a Niguarda in cerca d'una balia.
"Che giornata, che notte di purgatorio! Che cosa non usciva di bocca alla malata? a crederle c'era da ritenere la
povera tosa peggiore d'una donna perduta; o bisognava credere che il demonio approfittasse del male per far ballare
innanzi alla moribonda solamente le immagini carnevalesche dei veglioni e delle festine da ballo, apposta per perdere
un'anima.
"A crederle, Ferruccio non sarebbe stato figlio di quel pover'uomo, che col cuore in bocca correva a Niguarda a
cercare la balia. Per fortuna, o per misericordia, il delirio cessò al tornare del Berretta colla contadina. La Marietta entrò
in agonia, e non parlò più... Storie di vent'anni fa, che uscivano ora a farsi vive, sotto la scossa degli avvenimenti,
mentre toccava al ragazzo di correre per salvare la vita di suo padre..."
"Non ti pare ch'egli tardi troppo?"
"Se tarda, è perché non ha trovato subito. Non è mica un bimbo d'un anno" brontolò la Colomba.
"Siam sole, e se venissero le guardie?"
"Che guardie d'Egitto! non farmi la stupida anche te…"
A queste parole ruvide, pronunciate con forti scosse di testa, la Nunziadina oscillò sulle gruccette e raggrinzò il
bianco faccino a un greppio duro di bimba che vuol piangere.
Il portinaio, appoggiata la mano alla tempia sinistra, cominciò a russare raggirando un piccolo rantolo in fondo
alla gola.
"Verso la mattina la povera Marietta, carbonizzata dal male, con due occhi spiritati e gonfi, cacciò le gambe
dal letto per scappare, e cominciò a gridare: ' Il prete, il prete; voglio confessarmi, portatelo via '. Non si fu svelti
abbastanza, stramazzò e la riposero morta sul letto."
"O Gesù, Giuseppe e Maria..." aspirò la Colomba, e con un sospiro mise giù la corona per non mescolare il
bene col male.
Le reminiscenze del passato erano quasi più forti dei bisogni del presente. Il Signore solo sa leggere i segreti
della coscienza, e se il male non ha fatto mentire una moribonda, Dio doveva averla giudicata e compatita nella sua
misericordia. E da vent'anni ormai la stessa Colomba s'era abituata a considerare le cose come oneste e naturali,
allontanando sempre dal pensiero il sospetto, tutte le volte che le varie e le piccole circostanze della vita e l'indole di
Ferruccio venivano a ridestarlo. Ma a certe scosse di terremoto che fanno crepar la terra, escono spaventati i più vecchi
sorci: e Dio, che non paga al sabato, può benissimo far scontare a un figliuolo il peccato della mamma.
"È qui, è il suo passo" disse la Nunziadina.
La zia Colomba alzò lo stoppino della lampada, tolse il paralume, e alla luce diffusa e bianca credette vedere
entrare dall'uscio la faccia profilata della povera sorella, com'era rimasta sul cuscino dopo l'ultimo respiro.
"Mi ha cacciato come un cane, non mi ha lasciato parlare, mi ha coperto di vituperi..."
Ferruccio gettò il cappello sulla sedia e fece un giro intorno al tavolo.
"O povero me, io mi butto nel Naviglietto..." riprese a dire piagnucolando colla voce d'uomo che dorme il
vecchio portinaio.
"Ah, ti ha cacciato via..." domandò la Colomba senza levar gli occhi d'addosso al figliuolo.
"Come un cane; non mi ha lasciato parlare."
"E la signora Arabella?"
"Io mi butto nel Naviglietto."
"Voi fatevi coraggio," disse il ragazzo a suo padre "la signora Arabella ha promesso di occuparsi della vostra
causa e domani mattina manderà una risposta. Per fortuna c'è questa buona signora..."
"Dio la benedica..." esclamarono insieme le donne, congiungendo le mani.
"Essa ha detto che ne avrebbe parlato al signor Tognino, il quale alle volte esagera apposta... Se non avessi
ancora questa speranza, io non so quel che farei di me."
Stringendo nei pugni i folti capelli, come se volesse strapparseli, girando inquieto per la stanza, esclamò:
"Che cosa ho fatto io di male a Dio e alla gente, perché debba soffrire a questo modo? e quella donna lassù non
guarda, non ha un poco di compassione del suo Ferruccio?"
La zia Colomba corse verso il figliuolo e, abbracciandolo, cercò di soffocare contro il suo petto le parole che
invocavano così fuor di proposito i poveri morti.
Tutta la notte il Berretta rimase in cucina seduto in terra coi gomiti nella cenere del camino. Fu il solo che bene
o male trovasse la maniera di dormire. Le donne provarono a mettersi a letto, ma di dormire non ci fu verso. Finché
Arabella non avesse mandata una risposta era come voler dormire sopra un letto di brace. I quattro poveri martiri
respirarono in questa speranza che la cara e buona signora finisse col commuovere il sor Tognino e facesse ritirare la
denunzia. Ci sarebbe riuscita? a tutti pareva impossibile che si potesse negare una grazia a quella santa interceditrice.
Verso il mattino la Colomba, pisolando, se la vide comparire a braccetto della povera Marietta, che mostravasi
tutt'allegra e contenta; ma fu più l'ombra del suo pensiero che non un sogno vero.
Ferruccio non si levò manco le scarpe, ma quasi tutta la notte passeggiò sulla ringhiera, nel raggio chiaro della
luna, che s'imbianchiva sul muro e versava dalla gronda un'ombra lunga e quieta.
Contò le ore fino alle tre e mezzo, sbattuto dalle sue agitazioni come un pezzo di legno in preda alle onde di un
mare in burrasca. Cercò inutilmente nella serenità poetica della notte, nella pallida luce delle stelle, nell'aria frizzante
che gli giocava nei capelli, un sollievo, una distrazione a quel senso doloroso e cocente, che gli pesava come una brace
ardente sul cuore.
A che pro' vivere onesti e buoni, credere alle cose sante, mortificare la propria giovinezza, chiedere all'ideale la
virtù che ti porta in alto al di sopra di tutti gli altri, se ogni monello della via avrà il diritto di chiamarti figlio di ladri?
come affrontare lo sguardo delle persone oneste, se puoi temere che ti si legga in viso la tua vergogna? Molti ti
compatiranno e diranno:
"Vedete quel povero giovane? ha il padre in prigione. Avrebbe potuto fare una buona carriera, è un giovane
che ha studiato, ma non si può raccomandare, naturalmente, una persona che ha il padre al cellulare".
E come, allora, presentarsi a cercare un impiego con questa terribile paura che ti leggano negli occhi il
disonore? e poiché di un pane maledetto egli non ne voleva più mangiare, ecco, insieme al disonore, la miseria e la
fame.
Per poche bottiglie di vino un uomo ricco e potente cacciava un vecchio in carcere e un giovane nella necessità
di dover stendere la mano. E un delitto di questa natura si osava compiere in nome della giustizia. Giustizia questa?
"Ma, Signore, se è giustizia questa, io preferisco credere all'iniquità del ladro che ti assalta sulla strada. Allora, forza per
forza, giustizia per giustizia, vendetta per vendetta, io stringerò il manico di un coltello, mi presenterò a quell'uomo che
mi assassina l'anima, la fede, le speranze, tutto, e scriverò anch'io la mia sentenza nel sangue di quest'uomo."
"O povero me!" sospirava davanti a questi pensieri, passeggiando su e giù per la ringhiera.
Tacevano i giardini e gli orti nella luce smorta. Solo il vento usciva ogni tanto con un bisbiglio tra i rami in
fiore e fra le tenere foglie del castagno. L'ora scoccava in quel silenzio chiaro dal vicino campanile, preceduta dal
rantolo delle ruote e dei pesi, che scorrono dentro la torre.
Al disopra delle case chiuse e addormentate, al disopra degli orticelli e dei muricciuoli, al disopra delle ombre
e di tutte le cieche sensazioni che l'aria, l'ora, la luce, le ombre e le tristezze della notte versavano nell'animo travagliato
del giovane, s'innalzava un pensiero che a volte pigliava i contorni d'una figura umana, a volte mandava i bagliori di una
fonte, da cui stillasse a' suoi tormenti un soave refrigerio. Una dolcezza mistica, che usciva di mezzo ai patimenti, quale
soltanto era dato ai martiri cristiani di provare nei deliri cocenti del supplizio, lo invitava a benedire la mano che
percote. La sua disgrazia l'aveva avvicinato a quella donna, s'era inginocchiato davanti a lei, aveva pianto nelle sue
mani; l'aveva fatta piangere ed essa gli aveva posta una delle sue manine d'angelo addosso.
Queste immagini avevano la forza di eccitar l'entusiasmo della sventura. Non si poteva a un tempo soffrir di
più e inebbriarsi di più del proprio martirio. Da lei sola stava per dipendere ora la libertà, l'onore, la vita di suo padre, la
vita e l'onore di un povero giovane; e in questa totale dipendenza da lei, Ferruccio provava la spinta che ci trae ad
abbandonarci nei momenti della disperazione nelle braccia aperte di una mamma.
Verso la mattina piegò la testa anche lui sul letto e si addormentò di un sonno chiuso e senza sogni, quale
prende un uomo sfinito dal lungo cammino.
La Colomba raccomandò a Nunziadina di star quieta in letto, cacciò le gambe, si vestì in fretta e guidata dalla
luce bianca del cielo, si preparava ad uscir di casa per parlare al padre Barca, uomo influente e giudizioso. Volle prima
dare un'occhiata al vecchio e al ragazzo: dormivano tutti e due, l'uno colla schiena appoggiata al muro, l'altro
raggomitolato sul letto. Fece il segno della croce e uscì dalla porta a vetri che mette sulla ringhiera. Ma si tirò indietro
spaventata. Nel cortile c'erano due guardie di questura.
Si attaccò colle mani alle imposte per reggersi, e sentì cinque o sei colpi tremendi nello stomaco, come se
glielo picchiassero col martello. Chiuse la finestra e colle due mani sulle orecchie corse nello stanzino dove dormiva il
ragazzo. Stette ancora un minuto sospesa, come se tardasse apposta, per carità, a dargli il terribile colpo; ma quando
sentì che picchiavano all'uscio della scala, pose una mano sulle mani del nipote, lo scosse e disse:
"Ferruccio..."
"Che c'è? che c'è?"
"Ci son le guardie."
"Dove?"
"In corte... Senti che picchiano."
Ferruccio sollevò la testa e stette col viso stravolto, forse senza capire.
"Che cosa si fa? O cari angeli, che cosa si fa?"
Di fuori picchiarono più forte, finché anche il vecchio si scosse dal suo letargo.
Ferruccio saltò dal letto, si abbottonò la giacca, ficcò le mani nella folta selva dei capelli e disse:
"Non aprite, ci penso io".
Andò in cucina intanto che suo padre, irrigidito dal freddo e intorpidito dal sonno e dalla cattiva posizione,
cominciava a brancolare sul suolo per tirarsi su.
Ferruccio ripeté:
"Ci penso io..."
E aprì il cassetto del tavolo di cucina per trarne un comune coltello.
La zia Colomba che gli teneva dietro, lo afferrò ai polsi e mettendogli il viso quasi sul viso, con un'espressione
risoluta gli disse tre volte di no, con tre rapide scosse della testa:
"No, figliuolo, il coltello no: no".
Ferruccio si lasciò dolcemente disarmare.
In quel punto una delle guardie, che pareva il capo, comparve sulla ringhiera, sforzò senza molta fatica le
vecchie e tarlate imposte della finestra lunga che metteva sul ballatoio, entrò, e disse con tono d'uomo ragionevole che
sa di parlare a persone ragionevoli:
"Stiano zitti, buona gente, che è il meglio che si possa fare. Siamo venuti di buon'ora apposta per non dare
troppo disturbo. Siete voi il Pietro Berretta?"
"Sono innocente, o misericordia! No, Ferruccio, salvami, fammi scappare..." pregò il vecchio portinaio,
aggrappandosi alle braccia del figliuolo. E senza aspettare che gli mettessero le mani addosso, corse a rifugiarsi nello
stanzino, affrettandosi a chiudere l'antiporto dietro di sé.
La guardia ch'era nella stanza, vista la mossa, corse per tagliargli la strada; ma Ferruccio, acciecato da un fiotto
di sangue che gli montò al capo, urtò con tutta la forza nel tavolo di cucina e lo rovesciò contro lo sbirro, che sospinto
da quella strana macchina, barcollò sulle gambe e cadde mettendo i gomiti nei vetri della finestra.
All'urto, al crepitìo dei vetri sull'ammattonato, la Colomba mandò un grido e corse a rifugiarsi nella stanza di
Nunziadina, che alzò dal cuscino la piccola testa imbacuccata, per chiedere il motivo di quel diavolo in casa.
Intanto il Berretta ebbe tempo di chiudere l'uscio per di dentro contro gli sforzi di una seconda guardia, che,
entrata dalla porta principale, cominciava un lavoro di leva. L'uscio nella sua fragile costituzione non avrebbe resistito a
lungo, se Ferruccio, inferocito dalla guerra, visto che il maggior pericolo era da questa parte, non avesse lasciato il
primo sbirro intrigato nelle gambe del tavolo per scagliarsi sull'altro.
Lo afferrò colle mani alla vita, e puntando un piede al muro collo slancio e col vigore elastico de' suoi
vent'anni, riuscì a strappare la guardia dall'uscio, innanzi al quale si piantò lui, pallido come un cadavere, ansante,
ruggente, non armato che della sua generosa sventatezza.
La lotta stava per cominciare da capo, se la prima guardia, uscita tra la finestra e il tavolo, col viso e colle mani
tagliuzzate dal vetro, per spirito brutale di vendetta non l'avesse assalito colla spada sguainata, correndo a colpirlo col
pomo di questa sul viso e sulla testa, assalendolo di fianco e mandandolo ruzzolone col capo in sangue in un canto della
stanza.
Le due guardie non ebbero difficoltà a levar dai gangheri l'uscio e a metter le mani sul vecchio imprudente.
Ma intanto al diavolo si erano risvegliati i pochi casigliani e la gente cominciò a radunarsi sulla porta delle
"due beate". Da un piccolo male Ferruccio ne aveva fatto nascere dieci grossi, oltre ai pettegolezzi e al disonore e allo
spavento delle donne. Ma a vent'anni non si sa ancora scegliere con giudizio in mezzo ai mali.
VI. NELLO STUDIO DELL'AVVOCATO
Nello studio dell'avvocato Baruffa, in piazza di Sant'Ambrogio, la seconda festa di Pasqua si dettero convegno
i diseredati per concordare un'azione comune contro il signor Tognino.
Il primo a comparire, verso le due, fu Aquilino Ratta, che per sistema preferiva aspettare al farsi aspettare.
Quando uno è stato una volta soldato sa che cosa vuol dire la precisione.
Aveva un bel redingotto di panno color cannella sopra un panciotto chiaro a fiorellini celesti, preludio di
primavera, roba che una volta era di gran moda anche tra gli eleganti. Per la circostanza si era preso con sé anche un
paio di guanti di pelle tra il nero e lo stracciato, pronto a metterseli quando vedesse la convenienza di farlo. In ogni
circostanza Aquilino amava stare colla maggioranza, cantare col clero e bevere coi sonatori.
Al convegno eran stati invitati ricchi e poveri; e Aquilino non voleva comparire né ineducato coi forti, né
superbo coi deboli.
I Boffa e una confraternita di poveri straccioni avevano combinato di entrare nell'azione comune, pagando la
loro piccola parte a rate mensili. Don Giosuè era incaricato di raccogliere le firme, le contribuzioni, e di guidare la
mandra. Le monache del Buon Pastore si fecero rappresentare da don Felice Vittuone. La famiglia Borrola e tre o
quattro Maccagno ricchi si dichiararono pronti a sostenere l'avvocato. Costui, oltre al puntiglio suo personale e alla
voglia di tormentare un intrigante che l'aveva messo pulitamente alla porta, provava un gusto, per dir così,
professionale. Un processo, per quanto magro, può sempre diventare un processo lungo, e alle volte il miglior brodo è
quello che si spreme dagli ossi.
"Sono il primo?" domandò Aquilino, fermandosi sulla soglia.
Il Mornigani, quello stesso che chiamavano el mèzz avvocat , alzò la grossa testa dalla tavola, dove
stava scrivendo, e indicando colla cannuccia una cassapanca antica rasente il muro, sotto il ritratto a stampa di Pio IX,
disse:
"Sedetevi, è presto ancora".
"Ho ricevuto una lettera di convocazione per le due..."
"Sono soltanto le due... Sedetevi e ditemi il vostro nome, galantuomo."
Aquilino a sentirsi trattato col voi, come un fattore di campagna, fu per rispondere all'illustrissimo signor
scrivano che non gli pareva di aver succiato con lui a balia; ma preferì compatire al farsi compatire. Sedette e cominciò
a carezzare col dito il pelo scarso di un cilindro sufficientemente rispettabile.
"Il mio nome è Aquilino Ratta, del fu Vincenzo, impiegato al Regio Lotto, Banco numero 94" disse in un tono
freddo, in cui si sentiva una certa fierezza burocratica.
"Siete parente della vecchia Ratta testè defunta?" disse di nuovo il mezzo avvocato, alzando il capo in modo
che pareva volesse guardare colle narici.
"Sissignore, lo siamo" ribatté con un fare cerimonioso e carico d'ironia. "La povera signora Carolina Ratta era
una nostra prima cugina."
"Conoscete gli interessati?"
"I Ratta quasi tutti, per servirla."
"Potreste fornire delle prove, galantuomo, che la vecchia defunta avesse intenzione di favorire in modo
speciale i parenti poveri? l'avvocato mi ha incaricato per far presto di raccogliere quante più notizie possono giovare
all'istruttoria della causa."
Aquilino questa volta arrossì e socchiuse gli occhi. Era disposto a comparire, ma chi dava a uno sgangherato
scrivano il diritto di chiamarlo galantuomo? Galantuomini dobbiamo essere tutti, ma appunto per questo non c'è
bisogno che altri venga a dirtelo. Aquilino non avrebbe mai detto a una persona rispettabile: "Si accomodi, signor
rispettabile cavaliere". Ma chi ha educazione, chi non ne ha. E anche questa volta, guardando in fondo al cilindro, si
limitò a rispondere:
"Ecco, prove, diremo così, palpabili, non ne abbiamo. Possediamo delle allusioni".
"Degli indizi volete dire, delle prove indirette..."
"Lei ha studiata la legge e troverà la parola giusta" ribeccò con più fiera ironia, indicando un libro stracciato
sul tavolo, che aveva tutto l'aspetto di un vocabolario. "Per conto mio so che andavo tutte le sere a fare una partita a
tarocco e so che la buona parente voleva sempre me per compagno. Alla madonna d'agosto m'invitò a mangiare
un'anatra, e dopo pranzo, presente la sora Santina..."
"Chi è questa Santina?"
"La sora Santina era la donzella di casa Ratta, quella stessa che il signor Tognino mise alla porta."
"La donna di servizio, volete dire."
"Tutti dicevano donzella, e io sto col clero."
"La governante, la fantesca, sì, sì, la conosciamo."
"Come vuol lei, sorr..." rispose Aquilino, tirando in lungo le erre per far capire che uno può avere della
superbia ed essere un bel niente. "Presente la sora Santina la buona parente mi disse: ' Aquilino, quando sarò morta
sarete contenti tutti '. ' Che cosa dice, signora cugina? tutt'altro! lei deve campare più di noi. ' ' Non sarebbe giusto ' dice
lei; ' più che vecchi non si campa. Io mi ricorderò dei parenti del mio povero Gioacchino '."
"Chi è questo Gioacchino?" domandò lo scrivano, che andava pigliando degli appunti sopra un foglio.
"Gioacchino adesso non è più niente, perché è morto: ma da vivo era il marito della povera defunta. Più tardi, il
giorno di San Carlo, che è ai quattro di novembre…"
"Sappiamlo..." interruppe il Mornigani, gonfiando le narici.
"Andai per farle i miei auguri e l'ho trovata seduta nella sua poltrona accanto alla finestra. ' Sei Aquilino? '
domandò."
Il vice-ricevitore cercò di riprodurre il tono asmatico dell'ottuagenaria.
"Sissignora, sono io, sora cugina" rispondo.
"Sei buono, Aquilino, di levarmi un dente che mi dà fastidio?"
"Proverò", dico io. Era un dentone a sinistra già tutto sconnesso, lungo come una lesina, che gli dava pena,
poverina. E io con un poco di filo, trac, glielo levai netto come un corno."
Il Mornigani, che nel suo interno godeva più che alle marionette, imitò il gesto con cui il
vice-ricevitoraccompagnò il suo trac, e fingendo di tener preziosa nota della disposizione, scrisse in fretta, ripetendo sottovoce
"dente... corno... anatra..."
Aquilino, che non tollerava d'esser preso a zimbello, alzò un dito all'altezza dell'occhio e osservò:
"Non credo necessario che ciò sia scritto a verbale; ma ho voluto soltanto citare il fatto per dimostrare, dirò
così, l'intimità e il sanfason con cui essa ci trattava. Punto primo una signora non si lascia mettere le mani in
bocca dal primo che capita".
"E questo dente lo conservate ancora?"
Aquilino tuffò due dita nelle tasche del panciotto e trasse un scatolino bianco di farmacista, l'aprì e mostrò al
Mornigani un bel dente, sano come un corallo, tuffato in mezzo a della bambagia.
Il mezzo avvocato, soffocando nelle gote la gran voglia di ridere, e simulando un serio interessamento, si alzò
un poco, e s'inchinò a osservare attraverso una grossa lente col manico, che tolse dal tavolo, il prezioso documento. E
vide anche lui un bel dente sano, bianco, ingrandito dalla lente nella misura di una chicchera da caffè.
"So anch'io che un dente non può parlare" osservò a tempo Aquilino, prima che la gente corresse a giudicarlo
un ignorante. "Non lo conservo se non come una prova di confidenza."
"Io credo qualche cosa di più. Si sono viste delle ragioni appoggiate a documenti meno solidi" seguitò
gonfiando le grosse narici il furbo scrivano, che si preparava a fondare su quel dente una allegra storiella da far ridere
tutti i preti della sagrestia. Non volendo guastare il suo uomo, prese un tono serio, e ripigliando la penna in mano,
domandò:
"Conoscete un certo Berretta?"
"Berretta? ne conosco due. Uno era tamburino della mia compagnia, ma questo è morto a Mestre, nel '49, a due
passi dal bravo Poerio. Avrà sentito nominare Poerio..."
"Un fabbricante di cioccolata?"
Ora toccò ad Aquilino ridere di gusto nel fondo del suo interno.
Tanta superbia e non saper nemmeno il nome dei fondatori della patria! Ma non credette della sua dignità di
perdere il fiato con un frustapenne. Crollò il capo e seguitò:
"Nossignore, la cioccolata non c'entra".
E sorrise amorosamente, mentre coi due diti stringeva e rotolava il piccolo pizzo di barba che riempiva la
fossetta del mento.
"L'altro Berretta che conosco è il portinaio."
"Sapete che fu arrestato?"
"Arrestato?" esclamò Aquilino tutto sorpreso. "Arrestato dalle guardie?"
"Dalle guardie, sissignore, e tradotto al cellulare."
"Io resto di carta. Ma perché?"
"Il sor Tognino ha scoperto che tutte le notti il Berretta metteva in cantina una bottiglia di barolo: quando la
cantina fu troppo piena, l'ha fatto menar via..."
Il mezzo avvocato alzò un poco il viso dalla carta e rise coi buchi del naso, che all'Aquilino faceva l'effetto
d'una trappola.
"Io casco dalle nuvole. Don Giosuè assicurava che il Berretta sarebbe stato un buon testimonio nella nostra
causa."
"Per questo il sor Tognino l'ha fatto legare."
"Ma, punto primo, per far legare un uomo ci vuole un motivo."
"La sete, la sete, la sete, galantuomo."
Aquilino rimase così colpito da questa notizia, che non dette più peso al titolo di galantuomo, che per la terza
volta il frustapenne gli buttava sul viso. Raccolse la mente e, tentennando il capo, parlò con se stesso, osservando che
con Tognino non era facile scherzare. I preti fanno tutto facile e credono che il diavolo abbia ancora paura dell'
asperges ; ma il diavolo è vecchio più dei preti, e l'acqua santa, in giornata, non fa paura nemmeno ai cani idrofobi.
Credevano di pigliar Tognino nel trappolino come un topolino; e Tognino cominciava col far legare il Berretta, e, un
dopo l'altro, c'era da aspettarsi che facesse legare l'Angiolina per insulti e calunnie, e poi forse anche il Boffa, che gli
aveva mostrato un pugno, e, guerra per guerra, non è la corda che manca a Milano: basta! A buon conto egli aveva la
coscienza di essere sempre rimasto nei limiti del rispetto: e quando un uomo opera col testimonio della coscienza, non
deve aver paura del suo diritto. Con tutto ciò era prudente andar col piede di piombo. Si fa presto a fare un buco
nell'acqua.
"Dite un po', Aquilino," riprese dopo un istante lo scrivano "non conoscereste per caso una certa Olimpia?"
In un altro momento il reduce delle patrie battaglie avrebbe potuto far osservare che, se Aquilino era il suo
nome di battesimo, non credeva per questo d'aver mangiato un sacco di sale col sor avvocato dalle gambe lunghe. Ma
ora gli stava a cuore di schiarire le circostanze e rispose che non conosceva affatto la signora Olimpia.
"È una cantante, ma di quelle che cantano poco."
"Non conosco gente di teatro."
"Si dice che sia l'amante del sor Maccagno iunior ."
"Iunior? uno svizzero?"
"Ecco il nostro don Giosuè!" sorse a dire con intonazione vivace il Mornigani, andando incontro al canonico, e
fregandosi una mano sul palmo dell'altra, come se si lavasse con un pezzo di sapone.
Aquilino osservò che il mezzo avvocato vestito di nero con falde lunghe e penzolanti pareva un prete, mentre il
canonico, salvo sempre il dovuto rispetto, pareva un cavallante. La religione cattolica sarebbe forse meno perseguitata,
se i ministri di Dio avessero meno paura dell'acqua del pozzo.
Il Mornigani, ridendo col rumore d'una carrucola, dopo aver abbracciato don Giosuè colla confidenza che
chierici, giornalisti e cantanti hanno col loro riverito prossimo, esclamò:
"Oh che diavolo d'un don Giosuè! Sappiamo che lei ci ha fatto una visita".
"Sta zitto, gambero" brontolò il vecchio prete, urtando il pettegolo nel gomito.
"Che male infine? per salvare una pecorella smarrita nostro Signore..."
"Va via, mammalucco!" brontolò di nuovo il prete, facendo la faccia del ranocchio.
"Ih, ih, ih..." tornò a ridere il Mornigani, sbattendo sotto lo zimarrone nero le due gambe, lunghe e sottili come
quelle d'un cavalletto da pittore. "L'avvocato ha moglie e figli ed è uomo troppo rigoroso per esporsi ai pericoli della
carne. Se è vero che Olimpia ha visto qualche cosa, non bisogna lasciarla scappare."
"Canta ancora questa...?" si arrischiò a domandare il prete.
"Sollo io? o canta o fa cantare i merli..."
E il gamba lunga tornò a dare una fregatina sulla mano.
Aquilino, per quanto cercasse di non occuparsi dei discorsi altrui, non poté a meno d'osservare che è poca
creanza parlare a voce alta in pubblico luogo di cose a doppio fondo, e ridere e corbellare con un prete così. C'è della
gente che l'educazione non sa neanche dove stia di casa. Sentendo un'altra volta nominare la bella Olimpia, la bella
cantante, fu a un pelo di domandare se questa brava signora entrava anche lei nella causa dell'eredità.
Ma il suo desiderio fu troncato a mezzo dalla voce chiara e limpida d'una donna, che entrò senza aspettare il
permesso.
L'Angiolina, invece del solito vestito di cotone e del solito scialle color frittata, che l'allacciava come una
mortadella di Bologna, aveva un bel vestito di seta verdognola, con fosforescenza d'ale di farfalla, con una catena al
collo, con anelli sui grossi diti, con buccole massiccie negli orecchi, d'un oro giallo come il risotto, che litigava col
pomodoro del suo faccione ancora fresco.
Con lei entrò la Santina, la donzella di casa Ratta. Questa povera cristiana malaticcia, con due occhi che
parevan pieni di cenere, venne avanti avviluppata fin sopra ai capelli in uno sciallo scuro, che dava alla sua persona
magra e prolissa la figura di una sanguisuga.
"È qui che l'avvocato tiene la circonferenza? Madonna della Saletta, non poteva pigliar casa un po' più vicino?
È come andare in Siberia. To' Aquilino. Sempre puntuale come un orologio, Aquilino. Bravo e coi guanti! e anche il
cilindro... Conoscete la Santina? È mezza malata e senza voce e non voleva venire! ma io l'ho condotta per forza. Ci
dobbiamo essere tutti a questo quarantotto. L'avvocato mi deve sentire. Ho mangiato apposta tre acciughe stamattina per
mettermi in forza di cantare, e se l'avvocato non ha gli orecchi foderati di stagno, sentirà una bella campana. Intanto
Tognin Gattagno non ha osato fare dei processi all'Angiolina; e invece si vede questo, che un'Angiolina fa dei processi a
Tognin Raffagno. Dove si paga? qui? pago subito..."
L'ortolana si accostò al banco dove il Mornigani prese nota del nome e delle generalità. Intanto don Giosuè
moveva incontro a don Felice Vittuone, che entrava in quella e lo fermò sullo stipite. Il buon vecchietto, tirato in quella
bega da un sentimento di dovere e di giustizia, avrebbe voluto far trionfare delle idee di conciliazione. Una causa non
giova che agli avvocati, mentre, secondo il suo discreto modo di vedere, sarebbe stato più utile cercare di ottenere una
transazione amichevole e finirla colla pace di Dio.
"Voi conoscete benissimo san Tomaso, caro don Felice, ma non conoscete affatto chi sia il nostro Tognino"
osservò don Giosuè con una certa furia, mettendo le sue mani giallognole sopra il magro stomaco del vecchietto, che
sorrideva con indulgenza. "Sono idee buone per una predica, caro voi. Non vi dà l'ombra di un soldo sto malandrino, se
cominciate a parlare di conciliazione e di transazione."
"Colla rendita di un anno può contentare una parte..."
"Ci manderà tanta corda per impiccarci. Transazione vorrebbe dire riconoscere in qualche maniera i nostri
diritti, e Tognino è birbone, ma non bestia."
"A questo mondo bisogna guardarsi anche dal guadagnar troppo..." osservò evangelicamente il prevosto; ma
don Giosuè, infuriandosi, cercò dimostrare che gli asini non piacciono nemmeno al Signore.
"Eppure è a cavallo d'un asino che ha voluto trionfare in Gerusalemme" notò l'altro celiando con bonomia.
"Per questo l'hanno messo in croce."
Sospinti dal battente dell'uscio, i due preti dovettero cedere il posto e lasciar passare la elegante e venusta
Sidonia Borrola, che entrò a braccetto del cavalier Massimiliano Maccagno, capitano d'artiglieria, venuto apposta a
Milano dal suo distretto di Alessandria per assistere all'adunanza.
Mauro Borrola, che aveva la pancia a portare, entrò un momento dopo ansante e sudato. Visto i due preti,
cominciò a gonfiare le ganascie e a brontolare il suo rosario contro i pipistrelli. Ma don Giosuè non gli lasciò il tempo
d'andare in collera. Fattogli un segno con un dito curvo come un uncino, lo tirò nel vano della finestra per metterlo a
parte d'un segreto, in cui entrava ancora la bella Olimpia, la cantante, la quale...
A ogni frase del vecchio prete il faccione di Mauro Borrola prendeva un'espressione di meraviglia e di maggior
benevolenza, come un sipario che dal buio viene a poco a poco rischiarato dai lumi della ribalta. Si voltò a cercare
Sidonia, per comunicarle la importante notizia; ma il Mornigani aveva già introdotta la signora e stava introducendo gli
altri nello studio.
Era lo studio dell'avvocato una sala lunga con tre finestre, che davano sopra i piccoli giardini verso il canale di
San Gerolamo, con travi e stipiti dipinti a rabeschi rococò, logorati dal tempo, ma conservanti ancora al disotto delle
rinzaffature qualche traccia dell'oro e del fasto d'una volta.
Tra una finestra e l'altra erano appese in semplici cornici di legno le stampe dei famosi quadri del Duomo,
rappresentanti molti episodi della vita di san Carlo Borromeo e di sotto ai quadri in ovali di gesso i ritratti dei sommi
pontefici.
Nel fondo era la libreria colla scrivania del famoso avvocato consulente, zeppa di carte, di cartelle, di libri, e
nel mezzo apriva le braccia un mite crocifisso addossato a un fondo di panno rosso ricamato d'oro.
Davanti alla scrivania il Mornigani aveva disposto tre o quattro file di sedie di pelle, dove di volta in volta fece
sedere gl'invitati, pigliando il nome di ciascuno sopra una lista di carta, e procurando di avvicinare le persone più pulite
sul davanti e la poveraglia in fondo.
L'Angiolina, non contenta del suo posto, mosse una sedia e andò a collocarsi nel bel mezzo della prima fila, di
fianco alla bella e superba cantante, che si degnò di guardar la sua vicina con occhiate lunghe piene di compatimento.
"Oggi canto anch'io, madama; sentirà che voce!" disse apposta per far rabbia a una smorfiosa infarinata come
il pan francese.
Madama Sidonia si compiacque di sorridere d'un sorriso che non uscì dalla pelle. Si tirò su, si impettì, e fece
capire che non aveva gusto di parlare con persone sconosciute. Venendo in quel momento a capitarle davanti Mauro, si
mosse d'un posto e mise tra lei e l'ortolana il ventre del marito.
Intanto, su per le scale, raccolti e guidati dal Boffa, che per la circostanza non s'era nemmen lavata la faccia,
venivano altri parenti, cugini di terzo grado, che di Ratta non avevano che il nome, messi insieme per forza, per fare il
numero grosso e per incutere paura a Tognino. C'erano in mezzo a quei poco ben vestiti faccie scialbe di portinai, che
respirano l'aria dei sottoscala senza luce, faccie scure di magnani e di ciabattini, faccie lunghe e livide di sarti e di
cucitrici, faccie istupidite di contadini che non avevano conosciuta mai questa loro parente milionaria, che non capivan
nulla: gente che don Giosuè era andato a scovare fin dai cascinali della Valsassina (i Maccagno venivano di là) e del
basso Milanese, aiutandosi sui registri parrocchiali e servendosi a questo scopo dell'aiuto della curia arcivescovile.
Il Mornigani, aiutato dalle mani legnose di don Giosuè, riuscì a spingere a poco a poco quella torma di scarpe
grosse, pesanti come il piombo, e a distribuirla in fondo sull'ultima fila di sedie: prese ancora qualche nome sulla lista,
notò la professione, l'abitazione, il grado accademico, i titoli cavallereschi, e, quando gli parve che ci fossero tutti, andò
ad avvertire l'avvocato.
Tra fabbri, magnani, agricoltori, portinai, ortolani, preti, impresari, regi impiegati, meccanici, cantanti e
cavalieri, erano in tutti una trentina, senza contare le procure e quelli che avevan data carta bianca in mano all'avvocato
patrocinatore.
Tutta questa gente raccolta nella sala sotto la soggezione dei sommi pontefici, mantenne sul principio un
contegno freddo e mortificato, tra la paura e la diffidenza. Rotta a poco a poco la soggezione, che teneva l'un l'altro in
rispetto e quasi in sospetto, cominciò un ronzìo, un bisbiglio come una pentola che sente il calore. Le parole si
mescolarono, le mani si toccarono, si rinnovarono conoscenze, producendo in fine un frastuono che il Mornigani fece
subito cessare con un batter secco delle sue mani lunghe e piatte come pantofole.
Si sentì squillare a lungo un campanello elettrico. Una porta, a destra della scrivania, si aprì e comparve un
giovanotto biondo biondo, cogli occhiali lucidi, con un fascio di carte sulle mani, colla cannuccia in bocca, si pose a
sedere a un tavolino in disparte, dove collocò gli atti, dove si diè un'energica fregatina di mani. Quindi cominciò la
pulizia degli occhiali.
Qualcuno riconobbe nel giovanottino biondo biondo un bravo avvocatino, un bel partito per una ragazza
educata nei savi principii. Da un anno faceva la pratica nello studio Baruffa.
Un altro squillo nervoso di campanello. La porta si apre di nuovo, e, preceduto da un moderato scricchiolìo di
scarpe, ecco entrare l'avvocato in persona, inchinarsi tre volte all'assemblea, che si alzò per rispetto, venire a stringere la
mano, strisciando le suole sul mosaico, a Sidonia, al capitano, all'Angiolina, che allungò la sua col mezzo guanto di
refe, all'Aquilino che arrossì un poco dell'onore (non si è mai veterani abbastanza nella vita): salutò con un cenno
amichevole tutti gli altri più lontani che riassunse con una morbida occhiata e andò a mettersi nella poltrona di damasco,
svolse un rotolo, si piegò verso il giovine biondo per chiedere una spiegazione, chiamò col dito il Mornigani, che corse
a prendere altre carte.
Intanto la gente ebbe comodità di osservare che l'avvocato Gerolamo Baruffa, cavaliere di San Gregorio, era
ancora un bell'uomo fresco, poco in là della cinquantina, colla fronte alta e spaziosa, che andava a finire in un cranio
lucido come una biglia, costeggiato da capelli ancora neri. Due basette regolate e leggermente toccate da un pennello
facevano comparire più candida la carnagione morbida e ben nutrita. Gli occhi grandi si nascondevano spesso sotto due
folti sopraccigli e non uscivan dal loro nascondiglio, se non quando avevan bisogno di perlustrare, diremo così, i
dintorni d'una posizione. L'Angiolina notò due cose: che aveva due manine da signora e che una volta il sant'uomo
adocchiò con una certa compiacenza la bella cantante.
Quando il Mornigani tornò colle carte, l'avvocato, data una scossa al campanello, si alzò, si passò la mano sul
labbro e con tono sommesso, quasi di confidenza, in mezzo a un religioso silenzio, prese a dire:
"Signori..."
Aquilino socchiuse gli occhi e per sentir meglio aprì la bocca.
"Non ho bisogno, o signori, di spiegare il motivo per il quale noi siamo oggi qui raccolti, né di manifestare il
grado d'interesse ch'io porto a questa, non dirò causa vostra, o causa mia, ma a buon diritto causa nostra; imperocché nel
beneficio dell'eredità Ratta io devo essere interessato non meno di voi, sia pei dritti miei acquisiti in molti anni di non
interrotta fiducia, come pei dritti di pie istituzioni che ho più che l'onore - il dovere - di rappresentare."
Questo esordio, detto con voce solida e chiara, che rispondeva a meraviglia a un pensiero chiaro e solido, fece
una buona impressione sull'animo degli uditori, che con una leggera scossa si accomodarono meglio, tesero i colli,
aprirono occhi e orecchi.
L'avvocato, dopo aver contemplato un poco la punta delle unghie, seguitò:
"Le linee fondamentali della causa son presto segnate. Noi siamo qui non già per impugnare la validità di un
testamento, che la sagacia d'un uomo, che per ora mi limiterò a chiamare avveduto e scaltro, ha saputo preparare in
tempo opportuno, munito di tutti i requisiti che la legge domanda in documenti di simil natura. Io ho riscontrato il
testamento depositato in mano del notaio Baltresca e ho trovato che per la forma puossi considerare come un testamento
di ferro, inespugnabile. È tutto di mano della defunta, debitamente firmato, con data che risale all'agosto dell'anno
scorso, ed è in questo testamento di ferro, o signori, che d'una sostanza di quasi quattrocento mila lire vien nominato
erede universale il signor Tognino Maccagno, primo cugino della defunta testatrice, coll'obbligo a lui di assegnare vari
piccoli legati o donazioni ai parenti più bisognosi".
"Il birbonaccio!" scappò detto all'Angiolina, che non poteva più star ferma sulla scranna.
La parola non fece ridere nessuno, perché ognuno era sotto la greve impressione di quel testamento di ferro.
L'avvocato chetò la donna con un gesto della manina e seguitò:
"Noi, ripeto, non possiamo impugnare l'autenticità di quel documento chirografico e io sarei non una, ma due
volte mentecatto, se volessi contrapporre a questo un altro testamento del '78, da me in parte ispirato e alle mie mani
affidato dalla stessa defunta signora Carolina, due anni prima che si facessero sentire e operassero sopra di lei delle
influenze, che mi limiterò a chiamare per ora poco leali e poco corrette. Di queste disposizioni del '78 farò dar lettura a
voi tra poco, affinché possiate conoscere se le ispirazioni del vostro avvocato erano in quel tempo, come s'è voluto far
credere da maligni interessati, subdole e rapaci".
E sollevando a un tratto il tono della voce, con un severo aggrottamento dei sopraccigli, soggiunse:
"Signori! ciò che noi vogliamo e speriamo massimamente di dimostrare coi mezzi che la legge mette a
disposizione nostra si è che il testamento Baltresca, per così chiamarlo, non è l'ultimo dei testamenti segnati dalla
defunta Carolina: ma che dopo di questo ve ne deve essere un altro del dicembre dell'anno testé spirato. Dimostreremo
quindi che, o questo testamento esiste in mani che mi limiterò a chiamare per ora avare e strette, o che viceversa il
testamento fu distrutto. Dell'esistenza di questo importante documento abbiamo, o signori, due qualità di prove, le une
dirette, indirette le altre. Le dirette sono: - Primo: una copia di esso in carta semplice e non firmata, fatta da don Giosuè
Pianelli, qui presente, confessore della defunta Carolina, uomo superiore a ogni sospetto. Di questa copia farò dare
lettura a tempo opportuno, perché ciascuno di voi possa farsi un'idea dell'entità della causa, della sua importanza morale
e materiale e della presunzione nostra. - Secondo: la testimonianza dello stesso reverendo canonico don Giosuè pronto a
giurare che veramente la defunta ha scritta una carta. Se non che la diffidenza da cui era tormentata la debole vegliarda,
la trattenne dal rilasciare a persona di fiducia nostra il prezioso documento. Ciò fu ragion sufficiente perché altre mani,
che mi limiterò a chiamar agili, se ne impadronissero, quindi ogni traccia di questo nuovo atto, che doveva essere per la
pia signora un atto di resipiscenza e di riparazione, sparì; una volontà più forte della sua, quella volontà che da molto
tempo la dominava spaventandola, rese frustraneo ogni tentativo di ribellione: la coercizione spense il libero arbitrio: la
violenza, il diritto..."
L'avvocato Baruffa batté colle nocche sul tavolo, come se schiacciasse gli ossi a questo povero diritto così
spesso conculcato, e alzò la testa con un moto leonino. Un fitto bisbiglio l'applaudì. Ripreso il discorso, alzò le due
mani e avviò un'altra argomentazione, dicendo con voce più chiara:
"Ora voi direte: se il prezioso documento, se quello che dovrebbe essere per noi il testamento d'oro è
scomparso, e non ci resta che battere il capo sul testamento di ferro, su che cosa andiamo noi a fabbricare le nostre
speranze? - rispondo: sulle prove indirette, cioè: - Primo: noi sappiamo che intenzione della defunta non fu mai di
negare ai parenti anche più poveri il beneficio della sua eredità... (e di ciò molti di voi saranno chiamati a
testimoniare)".
"C'è la Santina, c'è Aquilino..." saltò su di nuovo l'Angiolina.
"Abbiate pazienza, buona donna. Ora parlo io, poi sentiremo anche voi."
"Dopo, sor avvocato, sentirà la messa cantata."
Una grossa ilarità salutò queste parole. L'avvocato, che era rimasto attaccato con un dito al pollice dell'altra
mano, portò il dito sull'indice e contò:
"Secondo! La pietà della buona defunta non poteva suggerirle di defraudare della sua carità le istituzioni di
beneficenza. E infatti nel testamento del '78 è fatta gran parte a queste istituzioni. Come si spiega il cambiamento nel
testamento Baltresca? Aveva la pia signora perduta ogni fede nella religione e nella carità? - Terza prova indiretta (e
alzò il medio): la confessione del portinaio Pietro Berretta, il quale ha dichiarato come veramente, la notte dopo la
morte, il signor Tognino Maccagno, presente cadavere, entrasse a cercare una carta nella stanza della defunta".
"Ah, ah, ah…" esclamarono diverse bocche, ed erano i pochi a cui questa circostanza arrivava nuova.
Gli altri, come se non potessero resistere al fascino di quei tre diti che l'avvocato teneva alti sulle loro teste, si
mossero e ballarono sulle sedie.
"Quarto! La confessione del Berretta fece tanto paura al nominato Tognino Maccagno, che egli cercò subito di
infirmarla, e non potendo sottrarre un uomo come si sottrae una carta, procurò di diminuirne la credulità coll'accusare
un povero uomo di furto qualificato e facendolo tradurre come un malfattore in carcere. Il signor Maccagno vuol
dimostrare con ciò che il testimonio è bugiardo, perché è ladro: noi andremo più in fondo, o signori, e sapremo
dimostrare che il signor Maccagno è ladro, perché è bugiardo..."
"Bravo, bene..." scoppiò da varie parti.
L'ambiente si riscaldava. Tutti si guardavano in viso con occhiate piene di calore, che sommate produssero una
corrente di simpatia verso il valentuomo, il quale con animata eloquenza e ferrea dialettica sapeva così bene interpretare
ciò che ognuno sentiva nel cuore come un gruppo ingarbugliato. La solidarietà dell'impresa faceva scomparire le
differenze sociali e nel comune interesse tutti si sentirono alleati e fratelli. Fu per qualche tempo un agitato muoversi di
braccia e di gambe; chi lodava l'argomentazione dell'avvocato, chi l'avvedutezza di don Giosuè, chi si fece rosso per il
gusto e per la speranza, chi per poco non si sentì il testamento in saccoccia. E l'avvocato, tenendo sempre elevati e diritti
i suoi quattro diti, lasciò passare con un sorriso di compiacenza il piccolo subbuglio; poi, aggiungendo ai quattro diti
grossi anche il mignolo, gridò in tono di vittoria:
"Quinto!"
Il silenzio divenne di nuovo perfetto. Si sarebbe sentito volare una mosca.
L'Angiolina, che non poteva più stare nei vestiti, si alzò, si voltò verso la platea e sollevata anche lei la sua
mano grossa e aperta come un ventaglio, gridò anche lei:
"Quinto!"
"Nuova e preziosa testimonianza abbiamo in persona, che il segreto professionale m'impedisce ora di
nominare, la quale è in grado di provare che il signor Maccagno entrò veramente nella stanza della defunta, mise
sottosopra roba e carte... cercò nei cassettoni... frugò nello stipo... nel letto medesimo dove la morta giaceva. A che
scopo? A cercar che?"
E mentre l'avvocato lasciava cadere queste gravi parole, come altrettante gocce d'oro colato, era a vedersi la
diversa espressione delle faccie, certi occhi imbambolati, certi cordoni del collo tesi, certe bocche semiaperte a gustare
tutto il sapore di quelle grandi cose. I cuori s'eran fatti duri e stretti, non respiravasi più per non disturbare. L'oratore,
continuando in un tono domestico, come tra parentesi, conchiuse:
"Qui non posso dir tutto, ma ciò che dirò in tribunale sarà abbastanza pel signor Maccagno. A ogni modo voi
vedete che se l'eredità fatta dal suddetto signore è splendida, non si può con egual sicurezza dimostrare che essa sia
solida e invidiabile! Oh! noi non andremo a impugnare i testamenti di ferro; ma inviteremo il fortunato erede a
confutare i nostri testimoni e a dimostrare al giudice e al pubblico ch'egli è un uomo onesto e delicato. Noi non potremo
negare l'esistenza di un atto che nomina unico erede di una sostanza di quattrocento mila lire un cugino quasi ignoto
fino a ieri alla stessa testatrice; ma noi - e quando dico noi intendo tutti voi - obbligheremo l'abile signor Maccagno a
dimostrare che coercizione morale non ci fu, quando si videro allontanati dalla casa della ricca benefattrice i più vecchi
e fedeli amici, che da quindici, venti, venticinque anni l'avevano assistita col consiglio disinteressato e prudente; quando
si videro da lei, piissima credente, respinti gli stessi sacerdoti a cui aveva chiesto più volte il conforto dei beni spirituali;
quando si vide allontanata dalla testatrice la fantesca Santina Rovatti, che essa s'era tratta in casa fanciulla e del cui
fedele servizio s'era per vent'anni lodata..."
"Sì! sì!..." proruppe singhiozzando la povera donzella di casa Ratta, a cui l'avvocato inacerbiva una piaga.
E molti le furono intorno a compassionarla, a compatirla, mentre l'avvocato, che sentiva d'avere il suo uditorio
in pugno, incalzava più forte:
"Qual meraviglia se una vecchia di ottantacinque anni cedesse e cadesse vittima di questo sistema di ingiustizia
e di violenza, ripudiasse quel che aveva già ordinato e scritto, scrivesse quel che le facevano scrivere, andando contro
nella debolezza senile della sua ragione ai sentimenti più naturali del suo cuore?... Qual meraviglia che un giorno,
vicina a battere alla porta del supremo giudice, quando pare che nel morente riviva la fiamma della coscienza,
chiamasse il suo antico confessore e, approfittando d'un momento in cui si sentiva meno sorvegliata, distruggesse, in
poche righe, disposizioni estorte per ritornare con un atto di naturale rinsavimento alle primiere disposizioni più
consone alla sua benevolenza e alla sua coscienza? E ciò ha potuto avvenire in quel momento appunto perché Tognino
Maccagno non era là. E ciò avvenne perché la stessa Giuditta Canzi, la donna spia che le avevano messo al fianco, non
ha potuto negarlo. Ciò era naturale, dico, consono a' suoi sentimenti, perché... (e nel calore del dire la testa dell'avvocato
s'era fatta rossa come un pomo) perché non una, ma cento prove abbiamo che la testatrice fu sempre benevola verso i
parenti poveri. Agli uni faceva pervenire segrete limosine, agli altri dava sussidio di consigli ed appoggi, molti invitava
alla sua mensa e, non richiesta, si abbandonava a lusinghiere promesse. Aquilino Ratta, qui presente, eroe delle patrie
battaglie, onesto impiegato, soldato non avvezzo a mentire, verrà a testimoniare fin dove arrivasse la confidenza della
veneranda signora verso i parenti di umile condizione."
Aquilino, non resistendo alla seduzione di quella voce armoniosa e calda, che carezzava così bene il suo amor
proprio, mentre arrossiva colla timidezza di una fanciulla, tuffò la mano nel taschino del panciotto, ne tirò fuori lo
scatolino, lo scoperchiò e mostrò ai vicini il bellissimo dente, che prese a girare di mano in mano come una reliquia.
"Ecco, ecco il terreno," continuava intanto a tonare la voce dell'avvocato "ecco il terreno, sul quale cercheremo
di tirare il nostro fortunato avversario. Se noi staremo uniti e compatti, se non ci spaventeremo dei primi sacrifici, vi
prometto che gli faremo un tal letto, che quello di Procuste in paragone dovrà sembrare un letto di rose."
"Bravo, molto bene!" sorse a dire col suo vocione di baritono il cavalier Borrola, agitando la mazza col pomo
d'avorio, acceso anche lui dall'entusiasmo, a cui non sfugge mai un'anima d'artista davanti all'eloquenza vera.
Pigliando la parola per sé e per gli altri, recitò anche lui un discorso, in cui si fece interprete dei sentimenti
conculcati, dei diritti vilipesi, dei...
Ma l'assemblea non era più in grado d'ascoltare dei discorsi. I pianti della donzella di casa Ratta, le
saette dell'Angiolina, il dente di Aquilino, le rivelazioni, i sottintesi dell'avvocato, le illusioni suscitate, fomentate,
ingrandite, il desiderio di fare qualche cosa in odio a Tognino Maccagno, il fascino luminoso delle quattrocentomila
lire, che stendevasi di sopra coi bagliori di un immenso sole, riscaldò siffattamente gli animi, che a fatica poté farsi
sentire, in mezzo allo schiamazzo delle voci, la voce del campanello.
Ognuno aveva idee proprie da suggerire, argomenti da portare, una prova da metter fuori, una testimonianza,
un ricordo da aggiungere per frangia. Aquilino, preso in mezzo in un cerchio, cercava di spiegare a tre o quattro
poveracci stracciati come ladri il meccanismo della causa, che Battistino Orefice, il pittore di scene, seguitava a definire
un buco nell'acqua.
L'Angiolina, che il diavolo non poteva più tenere, s'era messa a sedere davanti al tavolo dell'avvocato e
predicando, coi pomelli rossi, andava mettendo sottosopra le carte. Il brav'uomo non arrivava a tempo a togliergliele di
mano. Finalmente un'altra scampanellata rinforzata dai colpi sonori di due mani larghe come pantofole, rimise l'ordine.
"Silenzio!... Come ho detto, farò dar lettura del primo testamento del '78, al quale si riferivano le disposizioni
che la testatrice qualche giorno prima di morire dettò a don Giosuè Pianelli. Anzi comincerò a dar conoscenza di queste
disposizioni nella copia che don Giosuè tenne con sé e che si trova allegata agli atti del presente processo. Silenzio,
laggiù, se dobbiamo intenderci. Ecco dunque la forma del documento che il nostro buon amico Maccagno avrebbe
avuto l'agilità... di far scomparire: ' In nome della Santissima Trinità, io sottoscritta, Carolina Maccagno vedova di
Gioacchino Ratta, ancor sana di mente, ancorché debole di corpo e prossima a presentarmi al tribunale del supremo
Giudice, memore dell'affetto che mi lega a tutti i membri della mia famiglia e di quella del mio compianto consorte,
dichiaro annullate quelle qualunque disposizioni testamentarie che posso aver segnate nella mia debolezza e non
riconosco per mia ultima e sincera e libera volontà, conforme agli obblighi della mia coscienza, che il testamento del 20
agosto 1878 da me dettato e consegnato al signor avvocato cav. Gerolamo Baruffa, abitante nella piazza di
Sant'Ambrogio in Milano, al civico numero 24, e nomino di nuovo detto avvocato Baruffa mio esecutore testamentario,
incaricandolo di dividere la mia sostanza nei modi che in detto testamento sono indicati a beneficio, parte de' bisognosi
miei parenti e di pie istituzioni di carità, parte agli altri parenti, non che a suffragio dell'anima mia. In fede... ' E qui
manca la firma. Ma che l'atto autentico sia stato scritto e firmato dalla morente, c'è qui don Giosuè, il quale potrà
riferire."
Tutti si voltarono verso il prete, che rosso e caldo in viso quanto si poteva vedere al disotto del suo colorito di
vecchia pipa, agitando le mani legnose e parlando coi soliti gusci in bocca, raccontò a chi ne aveva bisogno come
veramente la signora Carolina avesse scritta, firmata e poi trattenuta la carta; come, prima di morire, avesse fatto segno
di aver firmato, ma in quel momento entrò il sor Tognino, reduce da Lodi, dov'era stato chiamato tra i giurati,
s'impadronì delle chiavi, e addio. Firmata o non firmata, una carta ci doveva essere, laddove invece...
"Laddove invece," seguitò l'Angiolina, picchiando un pugno sulle carte dell'avvocato e voltandosi verso
l'adunanza a predicare, "laddove invece s'è trovata una bella..."
L'avvocato la fece sedere per forza e, agitando il campanello sul naso dell'ortolana, gridò:
"Avete inteso? facciamo silenzio? adesso, se state zitti, farò dar lettura del testamento del '78, o meglio, per
accorciare la seduta, essendo il documento abbastanza particolareggiato e prolisso, lo metterò a disposizione di quelli di
voi che vorranno consultarlo, tutti i giorni dalle undici al tocco. Di tutti i parenti fino al terzo grado è unita una lista che
io sto compilando colla più scrupolosa diligenza, e ciascuno di voi è interessato a portare alla causa comune quegli
schiarimenti che valgano a far trionfare la giustizia".
Il rumore, l'acciottolìo, le ciarle non cessarono se non quando la gente incominciò a infilar la porta. Tutti
sapevano ormai chi fosse Tognino Maccagno e di quanto fossero suoi creditori. Tutti imprecavano contro di lui, ladro,
usurpatore, ciascuno in misura del danno che credeva d'aver sofferto. Sulla scala continuarono le discussioni: si
trascinarono fin sulla piazza. Don Giosuè che era l'anima nera di quella congiura prese note, indirizzi, e col suo
scartafaccio sotto l'ascella traversò di corsa la piazza per non arrivare tardi al vespero in Duomo.
Aquilino Ratta rimase un pezzo sotto le piante a spiegare il meccanismo della causa a Michele Ratta e al Boffa,
che parevano inebetiti dalla speranza. Aquilino, uomo sereno e non avido, poteva dire di dominare la questione meglio
di ogni altro. Tra chi vedeva tutto azzurro e già si sentiva i denari in tasca, e chi parlava di un buco nell'acqua, Aquilino
stava in una via di mezzo, né troppo azzurro, né troppo buco. Probabilità buone c'erano e non c'erano: l'avvocato era
bravo, ma neanche Tognino era grullo. Aquilino era di questo parere, che non bisogna insegnare ai gatti la maniera
d'arrampicar sulle piante. I gatti furono sempre gatti e lo saranno sempre. Una cosa sola per parte sua capiva poco,
ovvero aveva penetrato poco bene; là dove l'avvocato tirò in scena il letto di Procuste. Capiva che era un'allusione alla
storia romana, ma anche supponendo che Procuste fosse stato, per modo di dire, un filosofo famoso dei tempi antichi,
non vedeva come c'entrasse il letto; a meno che il filosofo usasse dormire sulla nuda terra.
"E quell'altra parola, chiro... chirografico?" chiese il lattivendolo.
"Quella è chiara. È un modo fino per dire che Tognino è chiro...grafico ...!"
E Aquilino allungò la parola, accompagnandola con un giro della mano, che spiegò come un ventaglio e chiuse
in fretta come se pigliasse una mosca a volo.
PARTE TERZA
I. AVVOCATO CONTRO AVVOCATO
Gli affari, gli intrighi, il bisogno di preparare una difesa e forse, più d'ogni altro motivo, la vergogna di
ricomparire innanzi a sua nuora senza una buona giustificazione, tennero il signor Tognino occupatissimo per cinque o
sei giorni. Intanto la questura per conto suo arrestava il Berretta. Era un primo esempio e ne sarebbero venuti degli altri.
Più volte ebbe lunghe conferenze col notaio Baltresca.
Costui, che da lontano spiava i passi del nemico e che forse era interessato anche per la parte sua a vincere,
andava suggerendo al cliente di non lasciarsi cogliere alla sprovvista, ma di opporre avvocato ad avvocato, prima, per
risparmio di seccature e di amarezze, e in secondo luogo, perché tutte le più belle ragioni del mondo contano un bel
nulla davanti a una sentenza che ti capita tra capo e collo.
Per guarire da un avvocato non c'è che un rimedio: pigliare un altro avvocato forte come lui, similia cum
similibus .
Per il buon Baltresca non c'era che un uomo al mondo capace di far paura anche al Codice; e mise innanzi il
nome d'un onorevole deputato della maggioranza parlamentare, suo vecchio camerata di collegio, nativo anche lui di
Vigevano, un liberale di vecchia data, uomo di grande capacità, di grande influenza, che gli amici chiamano il Gambetta
di Vigevano, non solamente per la naturale e focosa eloquenza, ma anche per una certa somiglianza fisica che il buon
Peppino aveva col grande democratico francese, specialmente nella barba.
Il signor Tognino non ebbe fatica ad afferrare il valore prezioso di questo consiglio, ma tentennò un pezzo il
capo ripugnandogli di aver a che fare con avvocati. I suoi interessi li aveva sempre curati da sé, senza bisogno
d'intermediari: e ora l'inaspriva l'idea di dover mettere nelle mani d'un leguleio i suoi pensieri, la sua coscienza, come si
dà, per un paragone, il fazzoletto sporco alla lavandaia. Ma visto e considerato che se un avvocato ti pianta un chiodo in
testa, non c'è che un altro della sua razza capace di tirartelo fuori; visto e considerato che tra due bestie feroci è meglio
star dalla parte della più ringhiosa, persuaso anche lui che la giustizia di questo mondo è precisamente come la ragnatela
descritta dal Porta in una canzonetta, dopo più matura riflessione, si lasciò persuadere a incontrarsi con questo signor
avvocato.
Il caso volle che l'onorevole di Vigevano fosse chiamato a Como come arbitro legale in una intricatissima
questione tra la Süd-Bahn e le nostre strade ferrate, una faccenduzza in cui era in giuoco qualche milione. Il
nostro affarista colse quest'occasione per andare col Botola sul lago a veder la villa, sempre colla speranza che al primo
raggio di bel tempo potesse persuadere Arabella a lasciare Milano.
Andò coll'amico fino a Tremezzo, vide la casa e il sito; gli piacquero, combinarono il prezzo e se ne tornò solo
a Como, dove la mezza eccellenza democratica, a cui il Baltresca aveva scritto in prevenzione, gli aveva dato convegno
al Grand Hôtel Volta, sulla piazza del lago.
Verso le quattro si presentò e si fece annunziare. Fu prima un gran correre di camerieri, un gran sonar di
campanelli elettrici, un gran via vai di personaggi barbuti e grassi, di banchieri e di pezzi grossi dell'amministrazione
ferroviaria; e finalmente, quando piacque alla mezza eccellenza, venne chiamato anche lui.
Trovò un grassotto non troppo alto, con la barba alla Gambetta, che gli venne incontro in aria confidenziale,
che gli prese la mano, che lo fece sedere in un gran seggiolone, e, mostrando d'avere i minuti contati, entrò subito in
argomento, riassumendo quel che aveva scritto il vecchio amico Baltresca...
"A rigore non potrei assumere altri impegni, caro signore, perché devo presto tornare a Roma per la
importantissima discussione sulle Opere Pie, della quale Sua Eccellenza il Ministro di Grazia e Giustizia" (tutte queste
maiuscole si sentivano nel respiro pesante del grand'uomo, che colle mani sotto la giubba sforzavasi di sfibbiare il
panciotto) "s'è compiaciuto di affidarmi la relazione. Una bella briga! Adesso ho sulle spalle anche questa faccenda
colla Süd-Bahn , e prevedo che non ne usciremo né in un anno né in due. Però... però... se il signor Maccagno,
di cui l'amico Baltresca mi parla così bene, si trova nella necessità, noi avvocati siamo come i medici: non possiamo
rifiutarci, e nel caso potrò fare una scappata a Milano, dove ho dei vecchi amici e dei commilitoni. È un pezzo che non
vedo Milano, quel Milano birbone che vuol resistere a Crispi, come ha saputo resistere al Barbarossa. Ma vedrete,
vedrete; romperemo la crosta! Forse il signor Maccagno è una colonna della Costituzionale, ma non fa nulla: noi saremo
lo stesso buoni amici. Solamente io ho bisogno di saper bene le cose come stanno, anche se stanno male, perché non si
va in cerca d'un consulente specialista né per un raffreddore, né per un piccolo mal di denti... Mi spiego? Tra noi ci
dobbiamo intendere subito come due amanti, non aver segreti l'un per l'altro, caro cavaliere..."
E il bravo Gambetta di Vigevano batté dolcemente colla mano tre colpetti sul ginocchio del cliente. Poi,
abbandonatosi nelle braccia della poltrona, portò l'occhialino al naso, e scorrendo la lettera del Baltresca, riepilogò:
"L'affare è grosso: quattrocentomila lire! il Baruffa è una vecchia volpe; preti e frati non badano a spendere e
hanno ancora la mano lunga. Ci sono interessate delle pie istituzioni, lato debole e delicato! c'è un testamento del '78,
che si può disprezzare, ma si può anche non disprezzare. Queste benedette cause di successione fanno degli scherzi
improvvisi, sono capricciose e traditore come le belle donne. Non bisogna mai fidarsene. L'interesse ci soffia dentro da
tutte le parti, e ciò che ieri pareva una vescica, domani può diventare una bomba. Se poi vi si mescola il fanatismo, il
paolottismo, il beghinismo, la tonaca e la corona del rosario, si può avere gli occhi d'Argo e non si arriva mai a veder
tutto. L'insidia è nell'indole dei nostri avversari, i quali non furono mai così potenti come in questi tempi così detti di
liberalismo. Lo so io che ho tra le mani quella poca matassa delle Opere pie!" l'onorevole di Vigevano tornò a sfibbiare
qualche altra cosa sotto la giubba. "Vedesse, caro signore, che pressioni! che ingerenze! che intimidazioni! e non da una
parte sola: da tutte le parti, e specialmente dall'alto, sicuro, dall'alto, da molto in alto! e mi si viene a parlare di laicizzare
le istituzioni!" L'avvocato rise di gran cuore, pigliandosi in mano un piede ben calzato in una scarpetta di panno a due
file di bottoni d'osso. "Ma comunque sia, ne ho vinto delle più difficili, alla garibaldina, s'intende, pam, pam! e
vinceremo anche questa. Spenderemo forse un po' di denaro, ma vedo che c'è del margine, un bel margine, e faremo
presto. Vedrà, sei mesi, un anno al più. Se non sarà in prima istanza andremo in appello, dove conto dei forti appoggi
dappertutto, purché i miei colleghi non mi facciano il tiro di mandarmi alla Consulta, nel qual caso passerei le carte a un
alter ego, che farà ancor meglio di me."
La campana della table d'hôte interruppe a tempo un discorso che minacciava di non finir più.
L'onorevole competenza si alzò, promise di scrivere per combinare una seconda seduta, strinse nelle sue la mano magra
e dura del bravo signor Maccagno e lo accompagnò gentilmente all'uscio.
Il vecchio affarista, sangue dei Valsassina, non abituato alle circonlocuzioni parlamentari, uscì da quel
colloquio col viso rosso, l'anima gonfia di bile, i denti stretti e con una voglia indosso di strozzar qualcheduno. Quando
fu nel mezzo della piazza, presso la famosa fontana asciutta, quel malumore concentrato nel fegato scoppiò in una
parola sonora, che riassumeva nella sua concisione tutto un trattato di filosofia politica:
"Buffoni!"
Non gli riuscì di dir altro fino alla stazione, dove cercò di far passare il dispetto con un buon pranzo e con una
bella bottiglia di vin di Valtellina.
"Che buffoni!"
La villa di Tremezzo gli aveva fatto una buona impressione. Non troppo alla riva, si appoggiava da una parte a
un declivio molle e boscoso, dall'altra aprivasi con un terrazzo sul meraviglioso bacino di Bellagio, passando oltre colla
vista sino a Varenna e più in su: un pezzo di cielo in terra. Era il luogo fatto apposta per sua nuora. Col lago di mezzo
non c'era più pericolo che una masnada di mummie venissero a tormentarla. Quanti fiori in quella villa! Sua nuora era
così innamorata dei fiori!... Si pentì di non averne portato via un mazzo; ma voleva scrivere al Botola che ne mandasse
un cesto a Milano.
"Che razza di buffoni!"
Scrisse una cartolina, la buttò egli stesso nella buca, e rinforzato da un buon pranzetto, dato un bell'addio alla
mezza eccellenza, si rincantucciò nell'angolo del vagone. Cominciava a imbrunire. Il sole colorava ancor le cime più
alte, ma verso occidente andavano spandendosi per il cielo delle lunghe nuvole cenericcie e stracciate che il vento
portava in su, gonfiandole come se ci soffiasse dentro.
Dopo qualche tempo la grossa nuvolaglia si raccolse in un nuvolone solo, livido e grosso, nel quale il lampo
cominciò a dibattersi col moto nervoso di un sopracciglio irritato, mentre nella riga più bassa dell'orizzonte il
crepuscolo ardeva come un immenso braciere.
Il nostro vecchietto, leggermente eccitato dal vino di Valtellina, fissò gli occhi su quel grande e magnifico
spettacolo del cielo, che sfugge a chi vive da talpa nei muri d'una grande città e, come se un pensiero tirasse l'altro,
tornò a rivedere la bella casa di Tremezzo, posta in un boschetto di lauri e di magnolie, un angolo verde che valeva da
sé tutto Milano col Duomo per giunta. Se egli avesse potuto dare un calcio a tutte le brighe e ritirarsi lassù o almeno
persuadere Arabella a partir subito la settimana prossima... Intorno alla causa e ai pettegolezzi e alla guerra dei parenti,
una volta che Arabella fosse al sicuro, avrebbe forse potuto anche transigere... Chi sa?
Alle volte, a tirare troppo, la corda si rompe. In quanto a opporre avvocato contro avvocato, ne aveva già
assaggiato abbastanza.
"Buffoni! e quel buon uomo di Baltresca crede che io possa credere a queste famose pancie democratiche,
come i gonzi credono alle meravigliose virtù di Dulcamara! e io darò a mangiare il mio o mi lascerò dar del cavaliere da
codesti nuovi frati della santa retorica, che spennano chi ci crede in nome dei grandi principii! Preferisco i preti, che
almeno son più furbi! E come ha saputo toccare il tasto del liberalismo!... ' Già, dovremo spendere un po' di denari, ma
abbiam del margine. Se non basterà la prima istanza, andremo in appello, se non basterò io, chiameremo in aiuto
un'altra pancia: abbiamo degli appoggi... Siamo noi che facciamo la pioggia e il bel tempo; alla garibaldina, pam, pam '.
Buffoni! non darò a rosicchiare a questi liberaloni il mio formaggio... Fossi bestia! Vedo, come in uno specchio, che se
mi lasciassi pigliare, non me la caverei più in trent'anni. Di tribunale in tribunale, di rinvio in rinvio, dopo avermi fatto
spendere un capitale in carta bollata e in ricorsi, avrei la grazia di salvarmi un paio di scarpe. Faccian pure la causa, se
hanno gusto, gli altri; io non mi muovo. Io non ho nulla a dimostrare ai giudici. Son essi che devono dimostrare che il
mio testamento non è un testamento. Intanto il Berretta è a posto."
Il treno lo portava nella crescente oscurità della sera verso la pianura e verso quel gran cittadone, che gli
diventava ogni giorno più antipatico. Nella penombra, gli passavano davanti i casolari oscuri e raggruppati dei villaggi e
dei cascinali, da cui usciva il fumo lento delle povere cene. Trasparivano i piccoli lumi delle stalle e i fuochi vivi dagli
usci aperti. Qualche suono d'avemaria mescolavasi al rombo del treno, e nei pochi minuti di sosta alle stazioni vedeva
dappertutto della gente felice, seduta in terra a fumar la pipa, o dei gruppi di ragazze che tornavano a casa dalla filanda,
cantando come se avessero mangiato la felicità colla polenta. Quattro spanne di terra, quattro fagiuoli, una scodella di
latte e questa gente è padrona del mondo. Più furba questa gente in fondo (se lo sapesse) di chi logora anima e scarpe
dietro il quattrino o dietro la gloria, o a cavallo di un puntiglio, o in una continua e rabbiosa diffidenza, per non
raccogliere in fine che odio e maledizioni.
Qualche cosa come una maledizione sentiva che gli pesava addosso da qualche giorno, per quanto egli si
sforzasse di non pensarci e di dissiparsi in cento faccende. Egli aveva bisogno di essere perdonato... Era partito
bruscamente senza rivederla, dopo averla maltrattata, insultata. Aveva ruvidamente respinta la sua preghiera, per non
ascoltare che le voci del suo risentimento e della sua vendetta.
Per quanto la passione o quel misto di puntiglio, di rabbia e di paura, ch'egli chiamava un diritto di legittima
difesa parlasse ancor forte in lui, tuttavia sentiva, non senza sgomento, l'animo avviluppato da un sentimento che un
altro uomo avrebbe riconosciuto ed accettato come un rimorso, ma che nella sua quasi ignoranza del bene e del male
ostinavasi a tener indietro come un primo sintomo di debolezza e di senilità.
Che bisogno aveva egli d'esser perdonato da una monachina? quali soddisfazioni le doveva? tra loro due chi
più in debito di gratitudine? Bastava che egli la mettesse al sicuro d'ogni altro oltraggio, questo sì: e a tal fine non aveva
risparmiato passi e denari. Ma in quanto al resto non è stabilito che le donne non c'entrano negli affari degli uomini?
Esse hanno la loro casa, la loro musica, le loro calze, i loro figliuoli; gli uomini hanno la banca, l'industria, il
commercio, la politica, la guerra, le botte... Anche le botte, sì: la vita è una battaglia e vince chi pesta di più. Son come
due amministrazioni con due libri mastri diversi che non hanno nulla a che fare l'un coll'altro; e di questo avrebbe
dovuto capacitarsi quella benedetta ragazza.
E mentre un pensiero sofistico andava persuadendolo di queste verità così vecchie, un sentimento non meno
ragionevole e forte gli faceva capire che bisognava far la pace subito, ad ogni patto, con Arabella. Non poteva star in
collera, e non poteva vivere nel dubbio di non essere amato e stimato da lei come prima. Poesia o no, questa benedetta
figliuola, dal dì ch'era entrata in casa, e forse anche prima, aveva ringiovanita una vita sterile, senz'affetto, aveva
rinnovate e rinfrescate delle sensazioni che parevano morte e sepolte; gli aveva fatto del bene...
Per quanto procurasse e si sforzasse di richiamare le furie più scapigliate della sua natura e di affilare spade e
coltelli in una guerra di diritto, non poteva sottrarsi a quel dolore vivo che prendeva nel venire innanzi la mesta figura di
lei. E questa pallida e dolente figura, come lo spettro d'un morto offeso, non si rassegnava a partire. Al contrario, se la
sentiva presente anche nei momenti in cui l'ira strillava di più e la mente sbandavasi di più, come una coscienza nuova
fuori di lei, che esaminasse, giudicasse... aspettasse qualche cosa.
Non avrebbe osato dirlo, ma cominciava ad accorgersi, istintivamente, che se Arabella non fosse mai venuta in
casa, la sua strada sarebbe stata molto più facile e diritta, sempre quella che aveva battuta dal quarantotto in giù, la
strada dei mezzi semplici e dei pronti risultati.
Aveva voluto deviare, indugiare, fare della poesia, assaggiare prima di morire il sapore del bene e questo dolce
ora facevagli male allo stomaco. Non si è mai abbastanza al riparo dalle tentazioni, e quelle che vengono dal bene non
sono le meno pericolose. Che diavolo! colui che nelle cose del mondo aveva un piglio così lesto e sommario, che fin
dall'adolescenza s'era abituato a stimar buono ciò che serve a qualche cosa, e ciarle inutili tutto il resto; colui che a preti,
a frati, ad avvocati, a parenti, a deputati rideva tanto di gusto in viso, non era strano, inesplicabile che dovesse
sgomentarsi all'idea d'una monaca a cui non doveva nulla, ma che s'era tirata in casa quasi per compassione? poesia,
romanticismo! Ma non poteva cacciarla via. Una soddisfazione, una parolina di scusa doveva dirgliela. L'aveva offesa,
dunque chi fa il male faccia la penitenza. Fra una mezz'ora sarebbe stato a Milano, l'avrebbe vista, le avrebbe parlato:
forse avrebbe concesso oggi quel che non aveva osato promettere prima. Sì, sì, povero angiolo, bisognava che la
vedesse prima di andare a dormire.
E battendo le palpebre, cercò di reprimere una improvvisa commozione di pietà, che riempì e sconvolse tutta la
vita. Qualche cosa di forte e di misterioso si mosse al disotto di un oscuro risentimento, che lo afferrava da tutte le parti
come un amico tre volte più grande, che lo disarmava. Sporgendo il capo dallo sportello nell'aria fredda, cercò un
refrigerio, si sforzò di riprendere un coraggio che fuggiva, e ritrovò finalmente gli spiriti nell'energia di una parola che
tornò a inframettersi alle sue malinconie, e ch'egli pronunciò colla faccia rivolta verso i monti:
"Buffoni!"
In mezzo a questi contrasti arrivò a Monza ch'era già buio, e buio prima dell'ora per quel diavolo di temporale.
Il treno aveva viaggiato verso il cattivo tempo, e ora si trovava nel fitto della bufera.
Non pioveva ancora, ma il temporale secco scatenavasi in un turbine di vento polveroso, in lampi spessi e
taglienti come lame, e in tuoni continui, ringhiosi, brontoloni.
La stazione e i vagoni non erano ancora rischiarati, perché l'amministrazione non tien conto dei temporali. Ci si
vedeva sì e no, più coll'aiuto dei lampi che, sto per dire, con quello degli occhi.
Mentre il nostro viaggiatore stava appoggiato allo sportello, intento a strologare la tettoia di vetro che mandava
bagliori e fosforescenze a ogni guizzo, un reverendo sacerdote, per quanto si poteva vedere, entrò dall'altra parte del
vagone e si rincantucciò in un angolo.
"Che demonio di temporale!" esclamò il reverendo, che ansava ancora per la corsa fatta, mostrando la voglia
d'avere un compagno in quel breve viaggio al buio.
"Eppure io credo che va a finire in nulla... Oggi è stata una giornata calda: son lampi di caldo..."
Prima che il treno si rimettesse in moto, anche un giovane e svelto ufficiale di cavalleria saltò sul vagone e
sedette in mezzo ai due viaggiatori, che occupavano i due angoli obliquamente opposti.
L'ufficiale chiese il permesso di fumare.
"Faccia pure" dissero insieme le due voci.
L'ufficiale accese un zolfanello di cera e lo tenne vivo il tempo d'accendere un sigaro, rischiarando il vagone,
mentre il convoglio, alquanto in ritardo, ripigliava la sua corsa.
Ciò permise al signor Tognino di riconoscere nel reverendo, seduto nell'angolo, la cara e simpatica persona di
don Giosuè Pianelli e a costui nel suo compagno di viaggio quel bel gioiello di sor Tognino.
Per fortuna di tutti e due il buio del vagone li coprì e li nascose di nuovo l'uno all'altro e la presenza del regio
esercito impedì che si guastasse strada facendo, una conversazione che pareva così bene avviata. Ma i due vecchi
bisbetici, dopo essersi fiutati come due cani in collera, continuarono a ringhiare e a guardarsi nell'oscurità.
Tutte le volte che l'ufficiale accendeva il sigaro (e un fumatore italiano può immaginarsi quante) quei quattro
occhi, attratti da una forza che aveva nulla a che fare coll' "affinità affettiva" di cui parla il Goethe, s'incontravano nella
linea diagonale sul fuoco del fumatore, che mandando globi di fumo in alto ritornava forse lieto da un lieto incontro.
L'odio e l'amore son fatti per non conoscersi, ma spesso viaggiano insieme.
Quei due sguardi si guardavano fissi incrociandosi come due fioretti, i lineamenti delle faccie s'indurivano, le
mani diventavano pugni, poi tutto ritornava nero come i loro pensieri. Nel buio continuavano i due cuori ad azzuffarsi.
Il prete odiava nell'affarista il traditore, il ladro empio e bugiardo, il sacrilego miscredente che coll'aiuto del
diavolo aveva rubato alla chiesa e ai poveri un'eredità di quattrocentomila lire.
L'affarista esecrava nel prete l'intrigante, il gesuita, l'impostore, la causa prima degli scandali, l'eccitatore
interessato d'una masnada di straccioni.
Se le idee che passano negli animi degli uomini avessero la virtù d'accendersi secondo la forza elettrica che
contengono, i due vecchi bisbetici avrebbero mandato fuori lampi più sinistri di quelli che andavano guizzando e
irritandosi laggiù sopra Milano, dove il treno li portava a precipizio, rumoreggiando, fischiando sotto i primi goccioloni
del temporale.
Ci volle tutta la carità, di cui è pieno il libro del breviario che gli faceva gonfia la veste sul petto, perché don
Giosuè si trattenesse dal gridare sul muso del vecchio affarista: "Ladro maledetto, ti porterà via Belzebù!"
"Ci vuol altro," pensava infuriando con se stesso il canonico "ci vuol altro che predicare pace, conciliazione,
misericordia, come seguita a ripetere quell'anima di polentina di don Felice. In questi tempi di affarismo, di ebraismo, di
massonismo trionfante, bastoni di ferro bisogna! l'acqua santa non spegne più nemmeno la polvere delle strade. A furia
di piagnistei e di fiducia nella provvidenza ha visto il Papa quel che gli è toccato. Bastoni di ferro! trentamila cani còrsi
ci vorrebbero... a... a... Animali!"
Dall'altro cantuccio scoppiavano idee non meno velenose contro gl'intriganti, che speculano sui rintocchi delle
agonie, sulle goccie di cera, pipistrelli dell'oscurantismo, mummie tenute su dall'ignoranza dei gonzi...
L'ufficialetto sognava, col sigaro morto in bocca.
Il treno entrò in stazione. Il giovinotto fu il primo a scappar via. Gli tenne dietro il signor Tognino che, colla
mano attaccata allo sportello, s'indugiò un istante come se aspettasse il prete: e quando questi gli fu presso, l'affarista
sputò sul predellino.
"C'è del marcio..." ringhiò don Giosuè.
La folla li travolse e li separò, mentre l'acquazzone rovesciavasi, crescendo, sulla volta di vetro.
Il sor Tognino prese una vettura e prima di andare a casa volle vedere il notaio, col quale rimase fin verso le
nove.
Giunto a casa un po' più tardi, trovò sulla porta l'Augusta in compagnia della portinaia e di qualche altra vicina,
che a vederlo, gli vennero incontro, esclamando in coro:
"E la signora?"
"Che signora?"
"La siora Arabella..." ripeté l'Augusta con un tono smarrito.
"Che cosa la siora ?" tornò a chiedere il padrone con impazienza.
"Non l'ha trovata? non è con lei? È uscita in principio di sera e non s'è più vista."
"Uscita?" dimandò, precedendo le donne fino in portineria. "Con chi uscita?"
"È uscita sola."
"A fare? che cosa ha detto?"
"Non ha detto nulla. È uscita di punto in bianco e non si è più vista. E c'è questo tempo in aria, povareta
!"
"Non capisco nulla... venite di sopra..." brontolò il padrone, continuando la sua strada verso le scale.
II. ARABELLA ROMPE LA SUA CATENA
Dopo il vivo colloquio con suo suocero, Arabella si trovò nel fitto d'una battaglia, prima ancora che avesse
risoluto di gettarvisi. Già quella stessa notte i gridi dell'Angiolina sotto la finestra, risuonando nel silenzio dell'ora,
ebbero la forza di farla trasalire di spavento, come se ridestassero nelle sue viscere il terrore dell'altra volta. Anche dopo
molti giorni, anche a dispetto della ragione, i suoi nervi non ragionavano più su questa impressione. Il grido d'un
rivenditore, uno strepito improvviso, lo sbattere improvviso d'una porta, il cadere d'una sedia bastava a farle battere le
vene del capo, e a riempirle il cuore d'un subito spavento; impallidiva, sudava freddo, afferravasi all'Augusta, tremando
come una colomba scossa dal rimbombo d'un fucile...
La mattina seguente, quando preparavasi a uscire coll'intenzione di parlare a don Felice in favore del povero
Berretta, s'incontrò sulle scale nella Colomba, più morta che viva, che veniva a implorare misericordia. L'avevano
arrestato e menato via quel povero uomo come un cane rabbioso. Avevano disonorata una famiglia, maltrattato, quasi
ammazzato un giovine onesto. Ferruccio, ferito da un tremendo colpo alla testa, dopo aver perduto un catino di sangue,
era in letto con una febbre da cavallo, in delirio, più di là che di qua.
Arabella allibì. Chiese di veder suo suocero, ma la portinaia disse ch'era già uscito la mattina; e non fu
possibile trovarlo per tutto il giorno.
Andarono insieme dal prevosto, che ascoltò il racconto con un senso di sincera pietà, crollando la testa, e
ripetendo:
"Quel benedetto don Giosuè colla sua furia..."
Il buon vecchio era del parere che colle dolci si sarebbe potuto evitare molti dispiaceri. Consolò la Colomba,
fece animo alla signora Arabella e promise di parlar lui al signor Tognino.
Trovandosi sulla via quasi smarrita, un cattivo pensiero la persuase a fare una visita alla zia Sidonia e vi andò
collo spirito conturbato di chi corre a cercare aiuto e protezione non tanto a un amico sincero, quanto a un fiero nemico
del suo nemico.
Ritornò a casa convinta, risoluta a cogliere la prima occasione o il primo pretesto per rompere la sua catena.
"Dove deve essere andata con questo tempo?" domandò di nuovo il signor Tognino, volgendosi in tono di
rimprovero all'Augusta.
" Giusto! e non la g'à manco l'ombrela ."
"Chi c'è in casa?"
"C'è la Gioconda."
"S'eran bisticciati a tavola?"
"Chi?"
"Chi, chi...? i ' siori '."
" Mi non so. Mi non stago a scoltar ..."
" A scoltar col naso " rimbeccò il padrone, parlando anche lui in veneto per far dispetto alla pettegola.
"È forse possibile che una donna di servizio non stia a sentir ciò che dicono i padroni?"
"Io non ho visto che si siano bisticciati."
"Avranno combinato d'andare insieme a teatro."
"Senza dir nulla?"
"C'è forse bisogno di dir tutto alle illustrissime?"
Entrarono in casa. Egli buttò il cappello su una sedia, passò nel salotto, rischiarato dalla lucerna posta sopra la
tavola, chiamò:
"Gioconda, Gioconda!"
La cuoca, che sonnecchiava in cucina, venne fuori. Confermò anche lei che la signora, cinque minuti dopo che
il signore era uscito, fattasi portare il mantello, era uscita anche lei dicendo: "Torno subito".
"A che ora torna a casa di solito il signore, la sera?"
Le due donne si guardarono in viso, come se l'una aspettasse che parlasse l'altra.
"Non ha ora precisa..." disse la Gioconda.
"Portate un lume."
E, senza aspettare che l'Augusta tornasse colla candela, spinse i battenti, traversò il corridoio, cacciò la testa
nella camera da letto perfettamente buia.
"Arabella" chiamò con voce sommessa, che morì in un tremito pauroso.
Non c'era nessuno. Quando venne l'Augusta col lume, entrarono, dettero un'occhiata intorno. Vista una lettera
aperta, quasi buttata là sulla tavoletta, egli la ghermì, vi gettò sopra l'occhio, riconobbe la scrittura. Era firmata "S".
Intascò la lettera e tornò nel salotto da pranzo. E poiché le donne stavan lì in piedi, incantate, colle mani in mano,
perdette la pazienza e le mandò via:
"Andate a vedere e mandatemi Giuseppe".
Le donne non erano ancora uscite che fattosi sotto la lampada, scorse le due righe del biglietto. Questo diceva:
"L'indirizzo è quello che ti ho indicato. Stasera c'è ballo nuovo al Dal Verme. So che ci andranno. - S."
S.""La vipera, la vipera!" e strinse il profumato biglietto nel pugno come se spremesse una spugna.
Perdette un momento la vista sotto il furore della rabbia.
"La vipera!"
Col pugno stretto, coi denti irritati da una fiera convulsione, girò due volte intorno alla tavola, come un leone
in preda alla febbre della fame. Vedeva l'intrigo. La buona zietta, per vendicarsi, dopo aver fatto il bel mestiere della
spia, tirava a sé Arabella, l'invitava a casa sua per condurla in teatro ad assistere allo spettacolo d'un tradimento. Non
potendo ferir lui capace di mordere, i Borrola allungavano la mano a colpire la povera figliuola.
"Vipere, vipere!"
Una carrozza si fermò davanti alla porta.
Il signor Tognino aprì, andò sul balcone a vedere se mai fosse lei di ritorno.
Ai goccioloni era successo l'acquazzone solito con l'accompagnamento di un tuono grave e noioso, che andava
rotolando nella volta oscura del cielo; e ora cadeva una pioggia minuta e spessa, balestrata a capriccio dal vento.
L'ampia strada, per tutto il tratto che si stende dalla rotonda di San Sebastiano fino alla piazza del Duomo,
luccicava di pozze livide e nere, in cui specchiavansi i lumi dei lampioni.
La carrozza, che s'era fermata davanti alla casa dirimpetto, partì subito a corsa mandando dalla vernice bagnata
smorti bagliori. Non un'anima viva sotto quel maledetto tempo.
Tornò a chiudere con impeto, tornò a leggere le poche righe in cui Sidonia aveva stillato il suo veleno: stette a
sentir delle ore sonare. Eran le dieci e mezzo.
Perché uscir sola? Eran d'accordo di sorprendere Lorenzo in teatro in compagnia di Olimpia? "La vipera!" Non
gli usciva altra parola dall'ugola soffocata da una emozione e da una rabbia, che gli mordeva il cuore: e in questa parola
concentrava, riassumendo, quasi tutto il costrutto e il veleno dei discorsi e delle supposizioni che la sua mente andava
facendo senza ascoltarsi.
Che si fosse rifugiata presso i suoi alle Cascine?
Cercò nel cassetto un orario e riscontrò le corse del tram di Lodi, che passa rasentando le Cascine. L'ultima
corsa era alle sette. Si alzò, toccò il bottone d'un campanello, tenendovi sopra il dito, finché ricomparve l'Augusta, col
lume in mano, che entrò tutta rossa e affannata per una corsa fatta sulle scale. (" Birboni d'omeni, el ghe pareva el
dì del giudissio ".)
"A che ora è uscita la siora ?"
"Hanno pranzato alle sei, e ho portato il caffè alle sette. Il sior è andato a far toeletta, ha acceso il
sigaro e ha detto alla siora che doveva andare alla Camera dei deputati."
"Alla Camera di commercio..."
"Che m'intendo io? già son tutte bugie lo stesso."
"E poi?"
"La siora è rimasta cinque o sei minuti col giornale in mano; poi ha sonato, s'è fatta portare le robe e
la xe scapada fora come una luserta ."
"Alle sette e mezzo?"
"Più tardi sior : poco prima che cominciasse a tuonare."
"Hai trovato Giuseppe?"
"Adesso ha detto che viene."
Dunque Arabella non poteva essere partita col tram. Né era presumibile che avesse presa la strada ferrata fino a
Rogoredo, perché da questa stazione alle Cascine, corrono quasi due miglia in mezzo ai campi. Forse aveva cercato un
rifugio dalla sua amica.
"Come si chiama quella signora, moglie d'un professore?"
"La signora Arundelli."
"Sai dove sta di casa?"
" Sior sì ."
"Allora manda Giuseppe a prendere una carrozza e fatti accompagnare fino alla casa di questa signora. Se non
la trovi, colla stessa carrozza vai nei Fiori Chiari, da mia sorella Sidonia. Non dire che t'ho mandato io. Parla in
segretezza colla donna di servizio e procura di sapere se la tua signora c'è stata oggi e se c'è ancora."
"Va bene, vado subito…"
Egli andò dietro alla ragazza fin sull'uscio. Qui rimase in forse se uscire anche lui, se dare una capatina in
teatro, se mandare un telegramma ai Botta. Ma rifletté che nel frattempo poteva tornare o lei o lui, e non conveniva
spaventare senza una ragione plausibile i parenti delle Cascine, tirarsi in casa una mezza rivoluzione. Era evidente che
Arabella, messa in sospetto e guidata da Sidonia, aveva spiato suo marito. Ma poi? perché non tornava? Che sorpresa
dal temporale si fosse ricoverata in un caffè? in un caffè, una donna sola, in ora così tarda, con un tempo simile?
"Certo s'è rifugiata presso gli Arundelli che stanno anch'essi da quelle parti. L'Augusta mi porterà presto
qualche notizia. In quanto a lui, a quell'animale, aggiusterà i conti con me... Il peggio sarebbe che avesse cercato asilo
presso la signora Sidonia. Dio, dovessi portarla via col revolver in mano, ma in quella casa non deve rimanere. Le
vipere! penseremo anche alle vipere. Penseremo anche alla sora Olimpia. Ma resta a vedersi se Arabella dopo questa
scena vorrà tornare in casa. Mi si parlerà di separazione. Questi caratterini delicati messi al cimento son più forti degli
altri. È buona e religiosa, ha paura degli scandali, ma se tutti pigliano a tormentarla, a irritarla, a pungerla, a spaventarla,
prima l'Angiolina, poi la sora Sidonia, poi l'Olimpia poi questo... poi quello..." e si ricordò d'averla maltrattata anche lui
per causa di quel povero vecchio e di quel povero giovane.
Per fuggire alla persecuzione di questi pensieri, tirò innanzi carta, penna e calamaio e gli parve ch'egli potesse
e dovesse scrivere a qualcheduno. Scrivere a chi? non a lei, non a Sidonia, non all'avvocato... Era tanto conturbato, che
per quanto fissasse gli occhi sul bianco dell'orologio, non gli riuscì di decifrar l'ora.
La luce viva d'un lampo riempì la stanza, e poco dopo s'intese il rumore lontano del tuono, accompagnato da
nuovi scrosci d'acqua.
Eran già le undici.
L'Augusta tardava a tornare. Gli sembrò d'essere abbandonato da tutti, e che il tuono, il lampo, la pioggia
congiurassero con tutti gli uomini per fargli la guerra.
Riprendendo il filo delle supposizioni, provò di nuovo a immaginare che Arabella avesse veramente sorpresi
gli amanti o in un caffè, o in un teatro, o per via, che fosse nata una scena, che Lorenzo l'avesse maltrattata, cacciata via,
che le fosse venuto male - era così debole ancora! - che la gente si fosse impadronita di lei, per buttarla domani in bocca
alla cronaca delle gazzette.
"Ah se l'ha maltrattata! guai se l'ha toccata!" e tutto contorto nei muscoli, coi pugni stretti, fino a conficcar
l'unghie nelle carni, colse se stesso in un atteggiamento quasi feroce, in atto di scagliarsi contro qualcuno... Contro suo
figlio!
Il rumore d'una carrozza, che risalendo dal Carrobbio venne per tutta la via Torino ad arrestarsi sotto la casa, lo
strappò all'aspra battaglia ch'egli combatteva colle ombre e con se stesso.
Forse era lei; o forse l'Augusta tornava con qualche notizia.
Andò incontro alla donna fino sulla scale.
L'Augusta e il portinaio venivan su cicalando, ed egli cercò d'indovinare dal tono delle loro voci se portavano
qualche buona notizia. A un certo punto provò un tal senso di paura, che si nascose nel vestibolo dell'uscio.
"Dalla siora Arundelli non c'è" disse l'Augusta con voce rotta da una mesta compassione "e non c'è
nemmeno dai siori Borrola."
"Con chi hai parlato?"
"Ho parlato con la signora Sidonia che venne ad aprir la porta. Non l'ha vista né oggi né ieri. Rimase incantata
anche lei a sentire che non la si trovava più. Non fidandomi del tutto, ho fatto chiamare in portineria la Carmela che non
ha segreti per me. Siamo dello stesso paese. E anche la cameriera mi ha giurato che non s'è mai vista. In quanto alla
signora Arundelli è cascata dalle nuvole. E intanto la vien che Dio la manda."
L'Augusta non seppe trattenere due piccole lagrime, che fece scomparire coll'angolo del grembialetto bianco.
Essa voleva bene alla sua siora e vedeva troppo da vicino come la facevano soffrire. Ma non era più un
mistero per lei che gli omeni sono tutti traditori, che non si contentano di una, ma le voglion tutte. In qualche
altra maniera era passata anche lei attraverso a questi tradimenti, e non le mancava il cor de compatir e de maledir
.
Il vecchio Maccagno si ritirò nelle sue stanze, vi si chiuse dentro, ma non si spogliò, non toccò il letto.
Una tremenda inquietudine, una convulsa irritazione di tutti i nervi, un dolore nuovo e acuto che gli forava il
cuore, un avvilimento di tutte forze che lo trascinava verso la disperazione, non che permettergli di dormire, non gli
lasciarono nemmeno la quiete e la facoltà di esaminare e di ragionare sugli avvenimenti.
Cento pensieri, cozzando tra loro, finiscono col rompere il filo del raziocinio.
Stanco e come fiaccato nella testa e nelle gambe, cadde sopra una sedia, e rimase tutta la notte, così
appoggiato, coll'occhio aperto e fermo nel buio, in agguato se mai sentisse venir su un passo. Essa non tornò più. Non
tornò nemmeno lui, nemmeno lui, l'assassino.
I tristi avevano avvelenata l'unica fonte non amara della sua vita. I tristi…
Arabella li aveva giudicati tutti.
E cogli occhi spalancati nel buio, quanto fu lunga quell'eterna notte, il vecchio affarista, mezzo febbricitante,
percorse a galoppo la storia della sua vita, parlando affrettato con se stesso, come chi vuole persuadere un ostinato o
ingannare un diffidente, attonito, intimorito davanti a una coscienza nuova, che sorgeva a rimproverarlo e ch'egli
cercava di spaventare come si caccia via un uccellaccio notturno.
E finalmente il giorno, colla sua luce chiara e, se si può dir così, ragionevole, venne a por fine a un tormento
inutile.
Si mosse più risoluto, e, uscito sul pianerottolo, trovò l'uscio ancora aperto, l'appartamento vuoto, silenzioso,
morto. La lampada del salotto mandava gli ultimi guizzi contro i raggi d'oro del sole che battevano sulla finestra. Il
temporale della notte lasciava dietro una giornata splendida.
Si mosse per le stanze deserte, spinse le portine della stanza da letto, vi entrò, come se sperasse di ritrovarla a
una più diligente ricerca. Il letto nella sua fresca copertura di drappo era intatto. Egli vi posò una mano e coll'altra si
fregò fortemente gli occhi per rimuoverne la nebbia della notte e ne portò via un umor pungente.
Non sapeva piangere e se ne sentiva un acre bisogno.
Si ricordò che fanciulletto di cinque o sei anni si era buttato sul cadavere di una sorellina a piangere e a strillare
perché non gliela portassero via.
Se avesse potuto far lo stesso!
Arabella nel correr dietro a suo marito non aveva che un'idea, raccogliere una prova di più, vedere, toccare con
mano fin dove era tradita e avvilita, di questo documento farsene una forza per uscire con diritto, giustificata e
compatita, da un'abbietta schiavitù legale; romperla insomma con una gente a cui l'ignoranza e l'egoismo incosciente de'
suoi l'avevano venduta e che faceva scontare al suo corpo e all'anima sua le conseguenze di colpe e d'abitudini
irrimediabili.
Aveva bisogno di vedere e d'essere veduta per poter dire domani: basta! qui comincia la mia dignità...
S'illudeva della sua stessa forza come tutte le anime semplici, che non ne hanno che una, quella del dolore.
Riguardo a suo marito inutilmente esso aveva eccitate le più scapigliate furie che la gelosia manda fuori e
mette nel cuore delle povere donne tradite e ingannate: il cuore non le diceva nulla contro di lui. Il cuore, anche lui, non
cercava che un documento di più per la sua liberazione.
Gli avvenimenti si erano inseguiti e incalzati con tanta rapidità, che essa non ebbe quasi il tempo di riflettere
sulle conseguenze del suo passo. Sentiva in un modo duro e violento che in qualunque maniera l'opera sua in quella casa
era finita, che non avrebbe potuto più mangiarne il pane senza rimorso e senza nausea; che il bene non può in nessuna
maniera derivare dal male, come la luce non può derivare dalle tenebre. A codesta gente essa aveva ormai sacrificato
più di quel che avesse ricevuto o potuto ricevere. I denari si possono trovare e restituire, ma nessuno ti renderà mai la
fede che t'ha rubata e messa sotto i piedi.
Dio solo onniveggente e misericordioso avrebbe potuto dire a qual prezzo essa aveva pagata la beneficenza
fatta da questa gente alla sua famiglia; la coppa della pazienza era esaurita o non dava che fiele.
Uscì dunque non tanto per respirare l'oltraggio, quanto per sentire fin dove una donna può essere oltraggiata,
come il malato desidera che gli portino uno specchio per la curiosità di vedersi livido e consumato dal suo male.
Era la prima volta che usciva sola di sera: e al primo trovarsi in mezzo alla gente, sotto le luci vive delle
botteghe, si sentì come travolta da un vortice pauroso. Nell'esaltazione del suo sentimento essa non capiva se avesse
ceduto all'impeto d'una passione o all'insidia di una tentazione.
Due volte una voce interna le comandò di tornare indietro e di provvedere in altro modo alla sua difesa; ma una
folla di oscure smanie, di cieche furie, di non so quali forze maligne seguitava a incalzarla in una direzione, ed essa vi
cedeva come a un istinto.
Voleva vedere, solamente vedere... Dopo sarebbe tornata a casa più convinta e più rassegnata: non osava dire
più soddisfatta, ma il cuore sperava anche questo. Anche il cuore ha il suo egoismo. Per quanto ci possa recare dolore e
disgusto sorprendere chi ci ruba, con la roba rubata in mano, l'orgoglio vuol la sua parte, e gode quando il ladro colto in
flagrante è un nostro acerbo creditore, un nostro persecutore e nemico.
Ecco perché voleva vedere. Oh! non avrebbe fatto scene... no, no: né tragedie, né commedie. Le bastava d'aver
tanto in mano per poter dire a' suoi padroni: il conto è pagato: me ne vado: non abbiamo più nulla in comune tra noi:
datemi la mia libertà e io vi lascio la vostra responsabilità innanzi a Dio e innanzi agli uomini. I vostri peccati vi hanno
tradito: i vostri peccati vi puniranno. Vi perdono il male e la nausea che mi avete fatto.
Camminando colla fretta di chi vuol sfuggire agli occhi dei curiosi, sotto la sferza di questi pensieri, raggiunse
in pochi minuti Lorenzo, poco più in là di San Giorgio, mentre egli stava per entrare a comperar delle sigarette in una
bottega.
Sempre cedendo a quella forza d'istinto che la guidava, essa traversò tutta la strada per non mettersi sopra i
suoi passi e si fermò in attesa, davanti alla vetrina di un piccolo orefice, la quale servì di specchio. Dietro i gioielli e gli
orologi disseminati nella bacheca, la via grande e popolosa coi lumi e colle botteghe aperte disegnavasi nello sfondo,
come un'altra città, non mai vista, dove andava vagando una signora coperta d'un dolman bigio con in testa un tòcco
d'astrakan, una signora pallida e smarrita... Quando Lorenzo uscì dalla bottega coll'elegante astuccio delle sigarette, la
signora dal dolman bigio stette un poco a osservare i suoi passi. Egli traversò il crocicchio del Carrobbio e scomparve
precisamente nella porta indicata. Il cuore di Arabella dette tre colpi duri e dolorosi. Aveva visto abbastanza. Poteva
tornar indietro...
Era una casa maledetta, dove il suo povero papà aveva cercata la morte. C'è una mano cattiva che conduce e
rimescola le cose. In quella casa, suo marito, dopo aver cicalato una mezz'ora in una poltrona, accanto a sua moglie,
nell'obesità della digestione, veniva a distrarsi con un'altra donna.
Voltò per tornare indietro, con un velo di lagrime steso sugli occhi, nell'umiliazione; ma poi le parve che al suo
interesse non bastasse il vedere, bisognava essere veduta, e carpire una prova di più contro i sofismi della bugia.
Sciocca e indegna del nome di creatura umana, se non osava rivendicare i diritti della sua dignità di donna onesta! La
natura, la legge, l'opinione pubblica, la religione erano dalla sua parte. Dove manca uno scopo al martirio, non può
essere santo il prosternarsi nel fango e il permettere che altri ti passi coi piedi sul corpo...
Di questi concetti non rilevava che le ombre gettate rapidamente sul fondo dell'anima, come le immagini
sfigurate d'una lanterna magica, in mano a un ragazzo inquieto, balzano sul muro.
I piedi obbedirono all'istinto e la portarono alla casa. Entrò, e, prima che avesse tempo di pentirsene, si trovò
nel bugigattolo del portinaio.
Il Berretta non c'era. Il signor Tognino gli aveva trovato un altro posto.
Sul tavolo fumigava in mezzo ai frastagli alle pezze e alle filaccie una meschina lampadina a petrolio, che
riempiva del suo puzzo e della sua luce rossastra il piccolo covo disabitato.
La fiamma non bastava a rischiarare che una porzione del portico e i primi gradini della scala. Nel resto il buio
fitto involgeva la corte e gli anditi segreti di quella vecchia casa, dove Lorenzo veniva a cercare un compenso
all'ineffabile noia della sua casa fresca, pulita, illuminata e impregnata d'una soverchia quantità di virtù casalinghe.
Arabella, aspirando con fremito nervoso l'odore acuto del petrolio, non sentì paura di trovarsi sola, in quell'ora,
in quel luogo, in quell'avventura, come se le tenebre e il triste silenzio della tana suscitassero in lei delle seduzioni meno
buone, delle vertigini dall'alto in giù; ma la voce di Lorenzo e il suo passo pesante che tornava indietro l'invasero di un
subito spavento. Non potendo fuggire, si ritirò dietro un pezzo di paravento logoro, che nascondeva la cucina del
portinaio.
Lorenzo scese di corsa, soffiando. Chiamò due o tre volte:
"Carlino!"
Ma non vedendo uscir nessuno, andò nella strada brontolando.
"C'è 'sta carrozza?" domandò dal mezzo della scala una bella voce di contralto, che fece scattare Arabella dallo
sgabello su cui s'era accovacciata.
III. UN'ALTRA BATTAGLIA
Un fruscio di vesti annunciò la comparsa della bella Olimpia, che avvolta in una candida sciarpa di seta, che le
faceva come un cappuccio, si fermò sull'ultimo scalino ad allacciare i bottoni dei lunghissimi guanti di Svezia. Battendo
i piedi per la stizza, cantarellò a mezza voce:
"Che stupidi tutti e due!"
Arabella fece un passo avanti. Stando sempre dietro la torbida impannata di vetro, ebbe la comodità di
contemplare la famosa cantante in tutto lo splendore della sua viva e scenica bellezza.
Era veramente una bella creatura, una bella femmina. La guardò con occhio freddo, quasi come si guarda una
straniera, cercando nelle esagerazioni dell'orgoglio tutte le ragioni che potevano sottrarla a dei paragoni umilianti.
La cantante aveva occhi grandi, resi più profondi da qualche breve pennellatura. Il viso aveva tondo d'una
bianchezza molle, delicata, incipriata. La sua persona larga e maestosa pareva sfidare nella tranquillità delle mosse e
nella sicura imperturbabilità del temperamento gaio e superbo, le burrasche e le cattive stagioni di questa povera vita.
La bella creatura, agli occhi freddi e giusti di Arabella, parve riassumere quasi una massima, che ha le sue basi
nella vanità delle cose e che si formula di solito in una domanda semplice e terribile: "Che cosa è la vita senza il
piacere?"
Arabella, dal suo posto, si saziò nei due o tre minuti che la carrozza tardò a venire nell'esame spassionato di
una donna così diversa da lei, contro la quale non sentiva quasi di nutrir odio, perché costei nulla aveva rubato che fosse
più caro a lei che ad altri, perché in fondo la donna onesta sentiva che qualche cosa di comune la legava a quella
leggiadra civetta nel disprezzo di uno scempio.
Olimpia, quando ebbe allacciato l'ultimo bottone, scese dallo scalino e, sempre canticchiando di stizza, venne
verso la portineria, alzò gli occhi, che arrestò con curiosità su questi altri due occhi freddi che la guardavano. E quasi
ammaliate l'una dall'altra stettero poche battute a guardarsi così, a interrogarsi coi sopraccigli, finché parve a Olimpia di
scorgere in quell'occhio fisso una forza irritante che la turbò: dubitò un istante che la bella signora magra l'avesse con
lei.
In quel mentre una carrozza si fermò davanti alla porta.
Arabella, suo malgrado, aprì l'uscio forse per andarsene, venne fuori, e si trovò in mezzo tra suo marito e la
donna.
Lorenzo trasalì. Fu la scena muta di un minuto secondo, durante il quale Arabella ebbe agio di riconoscere la
sua bella fornitura di corallo al collo della preferita. Non aprì bocca, alzò la mano e la lasciò cadere di peso in uno
schiaffo nervoso e sonoro sulla gota molle e incipriata di Olimpia.
Il grido che questa gettò, arretrandosi, scosse Arabella dalla fascinazione in cui l'avevano condotta gli occhi
grandi e immobili della civetta.
Si svegliò di soprassalto, spaventandosi di ciò che faceva, cercò un'uscita, scivolò, fuggì tra la porta e la
carrozza, traversò il Carrobbio, infilò una strada semioscura, che la menò lontano dal luogo dello scandalo, sostenuta
dalla violenza convulsa dei nervi, l'anima fiammante d'una emozione nuova, non mai immaginata, e nemmeno
lontanamente sospettata prima, una emozione di forza, di orgoglio, che non dava dispiacere al cuore, anzi rinvigoriva il
coraggio, aizzava al combattere. Perché l'aveva percossa? chi l'aveva trascinata? non era forse un sogno?
Non era venuta per far scene e per avvilirsi in una ignobile avventura di palcoscenico. Doveva dunque credere
che un'altra donna avesse a un certo punto schiamazzato e operato in lei. Come non provava alcun rimorso di ciò che
aveva fatto? Sentivasi anzi più bene, più libera, più sollevata, quasi più appagata nel suo diritto e nella sua vanità.
Aveva battuto; aveva schiaffeggiato; la bandiera della insurrezione era sollevata; nessuno, né la legge, né gli uomini, né
le donne, tranne forse le buone monache, potevano darle torto. Ma che sanno le buone monache di tutte queste
meschine faccende?
Camminò per fuggire presto, per vie che s'infilano l'una nell'altra senza scegliere la sua strada, senza guardare
ai nomi e alla meta, purché andasse lontano da quell'antro maledetto. Temeva che Olimpia chiamasse gente e la facesse
inseguire. Perché l'aveva battuta? Oh se avesse potuto risvegliarsi da questo brutto sogno!
Per le vie di San Sisto, dei Morigi, di Brisa, vecchie strade che si contorcono sulla pianta del vecchio Milano,
si trovò in un piazzaletto più largo, confluente di cinque o sei strade maggiori, tra più spesse botteghe, in un luogo
ignoto dove la vista di un orologio elettrico la richiamò al senso del tempo e delle cose di quaggiù.
Ove andava? per di là la strada menava nelle vasta oscurità di piazza Castello.
Da cinque minuti ad alcuni goccioloni di preavviso seguitavano i primi scrosci di un temporale che pesava da
un'ora come una cappa di piombo sui tetti di Milano. A man dritta, verso il centro della città, guizzava il lampo in una
nuvola nera senza contorni.
Ove andare? a casa no, no, per il suo diritto, per la sua dignità, per la sua liberazione!
Al primo scroscio traversò correndo il largo del crocicchio e corse a raggiungere la casa dall'altra parte,
cercando rifugio sotto la gronda, dove l'acqua batteva meno sviata dal vento, rasentò un gran caffè pieno di ufficiali; e
qui la colse un senso di raccapriccio, di scoraggiamento, di una paura grande, che somigliava ai terrori della morte. Che
cosa aveva fatto? dove andare?
Dio volle che dalla piazza Castello venisse a gran corsa una vettura. Alzò il braccio, agitò il guanto che
stringeva ancora come l'impugnatura d'una spada e la carrozza (mandata dal suo angelo custode) venne ad arrestarsi
davanti. Pronunciò il nome di una via con un numero e vi si rifugiò. Il cavallo spronato dall'acqua e dalla frusta corse a
saltelloni davanti a case e in mezzo a viuzze interminabili, trascinando il legno, facendolo trabalzare agli svolti e sopra
le rotaie di ferro. Arrivò finalmente dopo un quarto d'ora, trafelato, irritato anche lui, in un piazzaletto deserto presso
una chiesa e si fermò davanti a una porticina.
Il fermarsi improvviso che fece la carrozza scosse Arabella da quello stato di assopimento in cui s'era
abbandonata nell'appoggiare la testa alla parete del legno, nel chiudere gli occhi, nel lasciarsi cullare e stordire dal
rumoreggiare delle ruote.
Saltò in terra, mise nelle mani del cocchiere il prezzo della corsa, e, senza dire una parola, sparve nell'andito
oscuro della porticina, e al buio, cercando a tastoni una scaluccia, giunse sopra un ballatoio che dava verso il cortile.
Un sogno non avrebbe potuto essere più sogno di questa lugubre realtà di trovarsi a nove ore di sera sopra il
ballatoio di una povera casa, in luogo sconosciuto, esposta al vento e alla pioggia, che strepitava in un cieco cortile,
dove certe piantone nere si agitavano e stormivano nell'ombra.
La casa pareva deserta. Solamente un quadretto di luce, sfuggendo da una finestra, andava a sbattere sul fondo
verdone di un castagno amaro, che riempiva de' suoi rami l'angolo del cortile.
Arabella, camminando rasente il muro, lungo il ballatoio per non essere battuta dalla pioggia, picchiò
leggermente nella finestra illuminata.
La Colomba, col capo ravvolto in un fazzoletto di cotone, dall'orlo del quale uscivano alcuni pizzi di capelli
bianchi, cogli occhiali sul viso, aprì la finestra, e sollevando la lampadina a petrolio che impallidì al soffio dell'aria,
domandò:
"Chi è?"
"Sono io, Colomba."
"Chi?" chiese un'altra volta la donna, mettendo fuori il capo.
"Sono l'Arabella."
"O santa Maria Maddalena!"
"Aprite l'uscio."
"Passi di là. Vengo subito. O santa Madonna del Rosario!"
E corse ad aprire la finestra ad uscio, che dava direttamente sul ballatoio.
"Lei? ma è proprio lei? con questo tempo? cari angeli, ci porta qualche buona notizia?"
"Lasciatemi sedere."
"Cara vita mia, è tutta un'acqua. Da dove viene? Aspetti che ora faccio un po' di fuoco. Si sente male?"
"No, abbiate pazienza. Lasciatemi tranquilla un momento. Ora vi dirò tutto."
"Qualche altra disgrazia? si segga, riposi: già, non mi aspetto più nulla di bene."
"Ferruccio?"
"Hanno voluto quasi ammazzarlo. L'hanno buttato in terra, percosso alla testa, peggio degli assassini di strada.
Poi dette fuori la febbre, il delirio, la congestione che ha tenuto sospeso il dottore fino a stamattina. Oggi s'è un poco
risvegliato; ma pareva diventato matto quando la febbre me lo bruciava vivo. Se non divento matta anch'io, è perché il
Signore vuole che io rimanga a soffrire per me e per gli altri, per i vivi e per i morti. Si asciughi i piedi. Da dove viene
con questo tempo?"
"Son venuta a cercarvi una carità. Lasciatemi qui fino a domattina."
"Io usare una carità a lei?"
"Vengo qui dopo aver schiaffeggiata una donna. Sentite, tremo tutta."
"O santa pazienza, che cosa mi dite?"
"Non vi ha mai detto Ferruccio che mio marito manteneva un'amante?"
"O poverina, capisco che abbia a tremare. Come l'ha saputo? e ha avuto il coraggio? oh quanti mali ci sono nel
mondo, vero, pover'anima? Adesso si calmi; taccia, riposi. Le farò scaldare una goccia di caffè. L'ha presa a schiaffi?
capisco, ci son certe cose... Non parli adesso. Lasci quietare il cuore. Vado un momento a veder quel figliuolo... Intanto
prenda. Questa è una corona benedetta al santuario di Caravaggio. Se anche non si sente di pregare, se la tenga nelle
mani. In certi momenti le nostre forze non bastano e bisogna attaccarsi a qualche cosa di più forte. Del resto, viva la sua
faccia! se l'ha presa a schiaffi..."
In queste parole la Colomba gironzava per la cucina, mettendo le mani sulle cose senza concluder nulla.
Finalmente si ricordò d'aver promessa una goccia di caffè e accostò un bricco nero e affumicato al fuoco. Poi andò nello
stanzino a vedere Ferruccio, che giaceva assopito colla testa avvolta in pezze ghiacciate. La zia Nunziadina, seduta ai
piedi del letto nell'ombra oscura del paralume, faceva la calza.
Dopo la benedizione che la povera nanina aveva fatta dare a sue spese a San Barnaba, Ferruccio cominciò
subito a migliorare: perciò il cuore della zia aveva qualche ragione d'essere più contento e di sperare.
"Chi è venuto?" chiese sottovoce alla Colomba.
"È la sora Arabella, ma non disturbarla: va in letto a riposare, che resto io."
"Ha aperto due volte gli occhi."
"Ha cercato da bere?"
"Gli ho dato due cucchiai di acqua e zucchero."
Il vento e l'acqua infuriavano sui tetti.
"Par la fine del mondo" mormorò la zia Colomba.
Arabella, cogli occhi fissi alla lingua di fuoco che serpeggiava nel vano nero del caminetto, si abbandonò col
pensiero e si lasciò assorbire nella sua stanchezza dai bagliori della fiamma.
Si dimenticò, pesando col corpo sulla povera scranna di paglia, come chi sta per addormentarsi dopo un lungo
e faticoso cammino. Anima e corpo sospiravano un minuto di riposo, dopo la gran corsa attraverso alle strade e alle
persecuzioni umane.
Il volto, fatto più acceso dall'affanno e dai riverberi del fuoco, splendeva d'una bellezza più asciutta e più
vigorosa, in cui gli occhi neri, forti e risoluti, mandavano dei lampi insoliti. Il piccolo berretto o tòcco di astrakan, che le
copriva a stento la cornice dei capelli, dava alla fuggitiva un carattere ardito di viaggiatrice, un'aria straniera al suo
carattere, un non so che di avventuroso, che sarebbe molto dispiaciuto alle buone madri canossiane.
"È un tempo indiavolato!" disse la Colomba, rientrando e mettendosi in ginocchio davanti al fuoco. Le due
donne rimasero così un po' di tempo in silenzio, mentre il bricco cominciava a fremere nella brace e a mandar bollicine
dal becchetto. Ravviato il fuoco, la Colomba tolse dalla dispensa una bella chicchera dall'orlo rosso e servì il caffè.
"Si scaldi lo stomaco, poveretta: il caffè rianima. Io non vorrò niente altro in punto di morte. Possiamo farci
compagnia, mentre quel povero ragazzo è quieto. Lei dunque ha saputo, e ha dato un paio di schiaffi a quella... E ora
non vuol tornare a casa?"
"No."
"Andrà a casa, dalla sua mamma?"
"Non so."
"Non sa, cara pazienza? Se io avessi un palazzo a mia disposizione, sarei così contenta di offrirglielo."
"Povera Colomba…"
"Povera, sì, povera, in tutti i sensi, il mio bene. Eran più di vent'anni che vivevo tranquilla, come se il Signore
mi avesse perduta di vista. Non si fa male a nessuno, veramente: e quel poco di bene che si può fare non ci rincresce.
Bastò una parola per renderci i più disgraziati del mondo: l'uno è in prigione, l'altro in punto di morte, Nunziadina è
convulsa per lo spavento, e io non so se sono di questo o di quell'altro mondo. Vede dunque che tutti abbiamo le nostre
tribolazioni e forse le più grosse non sono ancora quelle che si possono contare."
La pioggia verso mezzanotte cominciò a calare, e prese più fiato il vento che scendeva a mugolare nella canna
del camino. Le due donne rimasero un pezzo in segreti discorsi nella luce del fuoco. Arabella contò le sue passioni,
colla confidenza che ispirano le anime semplici, provando nel togliere i pesi dal cuore un primo sollievo.
"Vorrei scrivere una lettera a mio zio Demetrio."
"Sulla scrivania di Ferruccio c'è carta e penna. Venga con me."
Passarono insieme nello stanzino sulla punta dei piedi, e si accostarono al letto. Arabella pose una mano sulla
mano dell'infermo assopito e stette un minuto ad ascoltare il battito dei polsi. Ferruccio aperse un pochino gli occhi.
Siccome veniva fuori da una selva di sogni fitti, di vaneggiamenti e di stravaganti deliri, stentò a ritrovarsi, a ricordare,
a distinguere il vero dalle ombre. Nel pesante sopore in cui più d'una volta vide suo padre accapigliarsi col sor Tognino,
gli era parso di udire la voce della zia Colomba mescolata ad altri rumori che lo menavano lontano, ai giorni della sua
fanciullezza, tra i compagni di stamperia, tra i chierici del seminario, tra le più remote e abbandonate sensazioni della
sua vita oscura o modesta.
"Ho sete" balbettò sbarrando gli occhi.
Non ben desto gli parve di vedere la signora Arabella attingere dell'acqua a una fontana che scaturiva lì presso,
nella luce abbagliante d'una lucerna, e curvarsi verso di lui a refrigerargli la bocca e la fronte abbruciata. Capì ch'eran
sogni di febbre e voltò il capo con espressione dolente, chiudendo di nuovo gli occhi.
"È meno arso di stamattina" disse sottovoce la donna.
"L'occhio lo trovo limpido."
"Ora non delira più, ma ieri faceva pietà. Ha nominato anche lei."
"Povero giovane!"
"Vuol scrivere? sul tavolino c'è tutto. Non guardi il disordine. Sono i libri di questo figliuolo che, quando può,
ama leggere e scrivere. Fa qualche volta anche dei sonetti che il padre Barca trova mica male. Io mi accomodo nella
stretta e appoggio un poco la testa ai piedi del letto."
La Colomba collocò la lucernetta sulla scrivania, tirò davanti un vecchio paravento per togliere la luce dagli
occhi del malato e andò a sedersi su un cuscino in terra per poter appoggiare la testa piena di sonno e di dolori al
materasso.
Arabella, segregata tra le finestra e il muro, si tolse il mantello dalle spalle, collocò il berretto sul tavolino, e
scelto un foglio tra quelli ch'erano sparsi tra i libri, cominciò a scrivere d'impeto:
"Caro zio Demetrio, la sua povera Arabella, dopo aver inutilmente sperato nell'aiuto di Dio, non ha altri a chi
ricorrere che al suo buon zio, che fu sempre per lei come un padre. Immagini in quale abisso io son caduta da queste
parole: ho abbandonata stasera la casa di mio marito, disposta a morir di fame piuttosto che ritornarvi. Ho schiaffeggiata
una donna... O mio caro zio, lei conosce quasi giorno per giorno la mia vita, i miei sentimenti, la mia religione, la mia
forza di resistenza al male e all'ingiustizia: quindi non ho bisogno di dimostrarle che se ho potuto venire a questa
risoluzione, è proprio perché non ne posso più, non ne posso più. Avrei a scrivere troppo se soltanto accennassi alle
vicende dolorose che mi hanno condotta a poco a poco a questo passo. Mi hanno strappato alla mia vocazione, hanno
fatto di me una specie di cambiale che doveva riparare a un disastro di famiglia: mi hanno circondata di un fasto senza
amore; e quando cominciavo a vivere de' miei affetti di madre, hanno insultato me e la mia creatura per odio al nome
che porto; ora che mi pareva di aver tutto perdonato mi insultano nella più sacra mia dignità di donna, mescolandomi ad
avventure di trivio...
"Io mi domando se non ho insultato anch'io al mio dovere, credendo che il dovere di una donna onesta possa
arrivare fin qui. Questa non è vita, è una condanna che sento di non meritare. Dovessi lavorare venti ore al giorno,
logorarmi gli occhi e le mani per un boccon di pane, sarà sempre una condizione più degna di questa quiescenza e quasi
complicità a un sistema di cose che viola ogni legge di onestà, di delicatezza, di rispetto.
"Immagino il suo stupore, povero zio, nel leggere queste parole. Ella chiederà se io impazzisca; non crederà
possibile che la sua Arabella osi scrivere a questo modo. Si meraviglierà anche perché io non le ho scritto mai nulla di
questo stato di cose e che aspetti a gridare aiuto quando l'acqua mi arriva alla gola. Sì, è vero: non ho osato prima di
quest'oggi dolermi con nessuno e invocare l'aiuto di nessuno, perché ho sempre creduto che avrei vinta da sola l'iniquità
della mia sorte; perché non volevo coi miei lamenti accusare la buona fede di nessuno; perché speravo ancora nell'aiuto
di Dio e, superba come sono, speravo nella forza del bene. Dio forse mi punisce, o almeno mi abbandona. Il male è più
forte del bene nel mondo, dove, per un cuore che si sacrifica in olocausto sull'altare della virtù, cento egoismi vigliacchi
e potenti trionfano incoronati della loro sfrontatezza. Il bene è un sole luminoso ma troppo in alto, mentre di male è
seminata la terra che non dà altro frutto e di questo bisogna mangiare per vivere. Mentre scrivo colla febbre indosso, mi
pare che anche l'inchiostro abbia color di fango. Zio, o io sono per impazzire o sono molto malata. Non frapponga
indugio: venga, non mi lasci naufragare in quest'oceano di amarezze... intendo di chiedere la separazione legale, subito,
senza esitazioni, senza restrizioni. Intendo restituire a quella gente tutto ciò che potrò restituire e di partirmene più
povera di prima. Nessuno compenserà il male che questa gente mi ha fatto, ma io perdonerò tutto, se ciò può muovere la
misericordia di Dio ad aver compassione di me. La fede non basta, lei forse lo sa, che ha sofferto anche lei la sua parte
nel mondo. Sopraggiungono pensieri che per poco non spingono alla disperazione. Venga subito a Milano, mio buon
zio, e faccia valere per partir subito, la ragione che una sua povera nipote è sull'orlo del sepolcro. Più malata di me non
si può essere e la morte dev'essere una cosa ben terribile, se per morire si deve soffrire di più. Mi telegrafi il suo arrivo
qui a Milano in casa..."
La mano fu arrestata nella ricerca d'un indirizzo. Arabella alzò la testa, come se si svegliasse da un lungo
sonno, si guardò intorno con occhio smarrito, impaurendosi di trovarsi a un tratto sola, in casa altrui, di notte, ospite di
gente quasi sconosciuta. Che cosa era venuta a fare in questa casa non sua?
La Colomba, rotta dalla fatica, s'era addormentata col capo appoggiato al letto. Il suo respiro lungo e oppresso
era l'unico rumore che rompesse il gelido silenzio della stanza, mentre di fuori la furia d'un vento primaverile faceva
stormir la pianta. Qualche stella scintillava sul nero sfondo dei vetri. Sentì sonare alcune ore che il vento portò via senza
lasciarle contare. Coi gomiti appoggiati al tavolino, reggendo la testa coi palmi, rabbrividendo ai soffi freddi che
entravan per le fessure, Arabella si abbandonò alla vertigine de' suoi pensieri, che la travolsero di ombra in ombra fino
all'orlo di un assopimento che ha del sonno tutti i fantasmi ma non l'oblio. E poiché tutti i dolori si conoscono tra loro, il
suo patimento presente la menò a risentire le angoscie provate al letto del povero Bertino, a confondere nel rilassamento
delle sensazioni se stessa col povero piccino agonizzante, a compassionare se stessa in lui, a combattere confusamente
contro la morte, che voleva portarsi via il caro biondino.
Rivide lo squallore delle Cascine, lo smarrimento della sua povera mamma divenuta vecchia vecchia. E allora
cercava di dimostrarle che il malato non era il bimbo, ma un'altra creatura, che perdeva la vita col sangue negli spasimi
mortali di un aborto: finché sopraggiungeva anche lo zio Demetrio a fare un discorso lungo e confuso sul conto del
signor Tognino...
Si risvegliò a una voce che chiamava lì presso. In principio credette che fosse ancora lo zio Demetrio, ma
quando riconobbe il luogo, la scrivania, la lettera rimasta tronca, capì che aveva fatto un sogno.
"Ho sete..." ripeté ancora la voce di poco prima,
La Colomba dormiva pesantemente sdraiata sul tappetino. Arabella, riconosciuta la voce del malato, si alzò,
pose la lucernetta sul cassettone e si mosse a dargli da bere. Ferruccio s'era un poco levato sul cuscino per togliersi il
sacchetto del ghiaccio, che gli scivolava dietro il collo. Vedendo venire verso di lui la signora Arabella, socchiuse gli
occhi e dondolò un poco la testa, come chi si accorge di vaneggiare sempre e mostra di compiangere se stesso.
Arabella versò dell'acqua nella tazza e l'accostò alla bocca del malato, che riaprì gli occhi e bevette quasi fino
al fondo.
"Come si sente?"
Il giovine fissò gli occhi in faccia alla sua visione e interrogò ancora una volta colla pupilla immobile:
"È proprio lei?" balbettò.
"Vuol bere ancora?"
"No, no..." disse Ferruccio, senza mai distaccare gli occhi dalla sua visione.
"Vuol ancora il ghiaccio sulla testa?"
"No, no..." e allungò la mano per prendere quella del suo fantasma.
Sentì veramente una mano viva e calda. E, come se da quel calore irradiasse la vita, la faccia dell'infermo
arrossì, la pupilla si illuminò, e dopo aver chiusi gli occhi per sottrarsi a un acuto tormento, li riaprì velati di lagrime.
"Perché è qui?" interrogò sommessamente.
"Lo saprà: ora stia tranquillo e lasci riposare la povera zia."
Ferruccio si tirò sotto obbediente. Non era ben sicuro che non fosse un sogno.
Cominciò ad albeggiare. Il cielo prese a schiarirsi dietro i ricami del castagno amaro, in cui svegliavasi il
bisbiglio degli uccelli. La lucernetta non avendo più olio, Arabella la portò in cucina e la spense: poi ritornò nello
stanzino, coprì le spalle col dolman, si rannicchiò di nuovo davanti alla scrivania, la faccia nelle mani, tutta
raccapricciante nei brividi mattutini, mezza istupidita dal sonno e dalle emozioni. A San Barnaba suonò l'avemaria, e ad
ogni rintocco della campanella il cielo seguitò a schiarirsi, come se obbedisse ad un comando, finché una pennellata di
carminio venne ad illuminare i comignoli e le gronde dei tetti. Il vento, spazzate le nuvole, aveva preparata una
splendida giornata alle miserie umane. Ferruccio raccolse l'armonia di quel risveglio e cercò inutilmente intorno a sé la
dolce immagine, che era venuta a porgere ristoro alle sue fauci infocate. Vide invece la zia Colomba, che, riscossa dal
suono della campana, saltava in piedi tutta agitata.
"Hai dormito?"
"Sì."
"Tu sei più fresco, mio cuore. Ho dormito anch'io un pezzo."
Ferruccio si persuase ch'egli aveva proprio sognata la dolce consolatrice e sospirò. La zia Colomba nel suo
dormire fitto e pesante aveva dimenticata interamente la povera creatura che era venuta a cercare ospitalità in casa sua e
fu per trasalire di paura, quando vide un corpo mezzo abbandonato sul tavolino nella luce crepuscolare. Si accostò, posò
la mano sulla testina fredda, e presa da quell'impeto di carità umana, che nel cuore della povera gente non è ancora
guasto dalle definizioni, si abbassò su quel corpo irrigidito, strinse la testina nelle mani, vi accostò il viso per riscaldarla
e seguendo i suggerimenti della buona madre natura, prese a dire sommessamente:
"O la mia povera figliuola, o il mio caro angelo, che ho abbandonato qui solo a patire. O il mio povero faccino
freddo, le mie povere manine... Il sonno ha tradito anche me..."
A questa voce che la compassionava, come se in lei si spezzasse un edificio di ghiaccio che l'aveva sorretta
nella sua rigida lotta contro gli uomini, nella debolezza in cui è sempre la coscienza mescolata alle ombre dei sogni,
Arabella fu presa da un tal delirio di pianto, che una bambina schiacciata dalle ruote di un carro non avrebbe potuto
gridare di più.
Quel gran mucchio di mali, che da otto mesi era andato accumulandosi a fuscellini, divampava in una
fiammata. Oh avete un bel dire che la donna è nata pel sacrificio, che può colla grazia e colla sua forza morale vincere e
abbellire la tristezza d'ogni destino, assurgere al disopra del fango che la circonda, compiere anche in mezzo alle
abbiezioni la sua missione d'amore e di pazienza! Avete un bel dire che a lei la fede è sostegno incrollabile: non è vero.
La donna ha bisogno d'amare e d'essere amata, come il fiore ha bisogno d'aria e di luce. Quando la violenza delle cose,
la debolezza dei giusti, la tirannia dei tristi costringono una debole creatura a respirare aria corrotta, e voi non date a una
povera donna che amarezze, oltraggi e fango, null'altro che fango, lasciate almeno che essa gridi del male che le fate...
Coi pugni dentro i capelli scarmigliati dalla veglia, Arabella Pianelli gridava veramente in un pianto lamentoso
senza lagrime, dilaniata dalla coscienza del suo stato, avvilita dopo una notte di falsa e morbosa resistenza, assiderata
dal freddo della febbre e della notte.
"Non così, non così la mia creatura...." prese a dirle all'orecchio la Colomba, serrandola alla vita colle braccia e
posando la sua testa grigia sui capelli morbidi e biondi della tribolata. "Non così, per amor di Dio. Ciò può far male
anche a questo figliuolo malato. Crede che non ci sia un Signore anche per noi? Io capisco e compatisco, angeli custodi,
ma non bisogna mai disperare della Provvidenza. Questo è un piangere che rompe il cuore e del nostro cuore dobbiamo
rendere conto come di un vasetto d'oro che Dio ci ha dato in custodia. Ti hanno maltrattata, il mio angelo; ti hanno
venduto, avvilito, insultato nel tuo sentimento di sposa e di madre, e so che certi mali fan perdere la testa. Tu non hai
meritato questi castighi, è vero; ma sappiamo noi se non soffriamo per il bene di qualcuno? Nostro Signore aveva
meritata la sua passione? E tante povere mamme che non han da dare da mangiare ai loro figliuoli, meritano di soffrir
tanto? Noi non sappiamo nulla dei misteri del mondo, cara Arabella; ma dobbiamo tener dacconto il nostro cuore,
perché gli è come il tabernacolo del Santissimo. Se non ci vorranno bene gli uomini, ci vorranno bene gli angeli, ma noi
dobbiamo aver sempre pronto il cuore a ricevere il bene che ci vorranno dare o presto o tardi. Su dunque, alza la testa,
mio caro angiolo, e vieni fuori con me, un momento. C'è qui la chiesa vicina: noi abbiamo bisogno di essere aiutate a
patire..."
La Colomba ricondusse la figliuola di nuovo nell'altra stanza. Le ravviò un poco le vesti; fece un po' di fuoco
ancora e versò quel resto di caffè che era rimasto in fondo al bricco. La persuase a non mandare per ora la lettera allo
zio Demetrio e a cercar invece di quella sua amica di collegio, l'Arundelli, a cui poteva confidare il suo segreto. Meglio
di tutto poi sarebbe stato di andare alle Cascine in cerca della mamma. La mamma è il miglior dottore per certi mali...
IV. UN UOMO TRA DUE DONNE
Olimpia sul primo momento, sorpresa e sbalordita dalla violenza del colpo, si rifugiò, senza capire, sotto il
portico Quando rinvenne dal suo intontimento e sentì la gota ardere, cominciò a capire d'essere stata percossa da una
donna gelosa, da quella stessa donna che l'aveva fissata così freddamente negli occhi.
Un vulcano di sdegno vomitò lava e fuoco nel suo cuore di bella donna superba e leggiera. Tale e tanta fu la
furia che l'assalì, che, strozzata dall'emozione, non poté metter fuori una parola. Stretti i denti, da cui non usciva che un
fischio sordo, montò a corsa le quattro lunghe scale, si attaccò furiosamente al cordone del campanello, riempì la casa
del frastuono, entrò nella stanza dove ardevano ancora i doppieri, si tolse, o meglio si strappò di dosso la mantellina, la
buttò sul letto, e ne uscì bellissima, terribile, nel suo vestito di teatro, d'un rosso metallico fosforescente, colle solide
spalle ignude, colle braccia ignude fino ai guanti.
Lorenzo, che l'aveva seguita ansante, entrò anche lui, ripetendo:
"Senti, senti…"
"È tua moglie?" domandò, andandogli fin sotto gli occhi colle mani.
"Senti, dunque."
"È tua moglie?" ripeté con un tono, con uno sguardo che non ammettevano indugio.
"Sì, ma..."
"Allora lo restituisco a te..." e cavandosi con uno strappo lungo e violento l'alto guanto di Svezia, collo sforzo
irritato e raccapricciante di chi leva la pelle a una biscia viva, lasciò cadere la mano con un colpo forte sul viso largo del
Bomba, che barcollò, si appoggiò all'uscio, e mormorò chinando la testa:
"Olimpia, che cosa fai?"
"Aggiustatevi tra voi. Già sapevo che tu sei un imbecille."
"Scusa..."
"Vammi fuori dei piedi..." e gli scaraventò addosso una boccetta d'acqua odorosa. Buon per lui che il colpo
andò perduto.
Olimpia si strappò i braccialetti e la collana e pezzo per pezzo li buttò ai piedi di quel grosso imbecille, che
stava appoggiato al muro, come un uomo sotto una gronda in attesa che si sfoghi un temporale.
Quando nel guardarsi nello specchio essa scorse sulla gota destra il segno e quasi il solco dell'oltraggio
ricevuto, non avendo altro modo di vendicarsi, investì nuovamente Lorenzo, lo coprì di vituperi e di trivialità rimestate
nel crudo linguaggio del palcoscenico e della bottega paterna. (Suo padre era uno zoccolaio di Pavia.)
"Tu mi darai una soddisfazione…" soggiunse, quando fu un poco sedato il terribile uragano delle sue passioni
turbolente.
"Io ti chiedo scusa, Olimpia: io non potevo prevedere."
"Domani mi accompagnerai."
"Dove?"
"A Nizza..."
"Cioè…"
"Sì, a Nizza. Poiché quella donna fa la gelosa, mi mette in puntiglio. Devi venire via con me. Voglio
divertirmi. Ti vorrò bene ancora, forse, ma tu devi darmi questa soddisfazione."
"Ben, ne discorreremo. Adesso tu sei agitata..."
"Termine ventiquattro ore: o tu mi accompagni a Nizza, o io dimostrerò a tutti che sei figlio di un ladro..."
"Olimpia!" esclamò Lorenzo con qualche risentimento "tu non farai questa brutta parte."
"Termine ventiquattro ore, o con me o contro di me…"
Olimpia chiamò la servetta e fece accompagnare alla porta il signor Lorenzo Maccagno, che se ne venne via
come un cane scottato. Strada facendo, gli sonò nella testa più volte il dilemma: "O con me o contro di me..." Di solito
le furie di Olimpia duravano come le emicranie di una bella signora, e si poteva prevedere che passate le ventiquattro
ore, non avesse a parlar più di Nizza e di soddisfazioni. Ma il caso non era dei soliti, e quando ella avesse proprio voluto
giocare di puntiglio e pigliarsi una soddisfazione, non le mancavano i mezzi di tormentare lui, suo padre, sua moglie.
C'era di mezzo un brutto intrigo, che in mano di furbi poteva diventare un pericoloso riscatto. Ma il guaio più grosso lo
aspettava a casa. Chi avrebbe potuto immaginare che Arabella... Era proprio lei? chi le aveva dato questo coraggio? chi
l'aveva così bene informata? dov'era venuta a nascondersi per uscire improvvisamente, come una donna qualunque, a
menar le mani? Arabella? La madonnina infilzata, la monachella di Cremenno, che spia, sorprende, schiaffeggia una
Olimpia, gli pareva un caso così poco naturale, così contrario all'indole di sua moglie che, strada facendo, andò a
supporre in questa faccenda lo zampino di qualche interessato.
"Di chi?" si domandava, arrestandosi tratto tratto sulla soglia delle porte al coperto dell'acquazzone che
cominciava a battere il selciato. E proseguendo rasente i muri, seguitava ruminando: "Non c'è che lui che ha l'interesse
di mettermi in cattiva vista d'Arabella: non c'è che lui che sa queste mie relazioni e che da un pezzo mira a romperla con
me. È lui che istiga mia moglie, che mi mette in cattiva parte. Ora avrà gusto di vedermi nelle peste. È lui che vuole lo
scandalo. Si parlerà di una separazione e ciò lo libererà dall'obbligo di mantenermi e di pagare i miei debiti. Non mi
darà più un soldo, contentone di sostenere le parti di mia moglie contro di me. Io dovrei mostrarmi più forte in questa
faccenda, più geloso de' miei diritti... Non devo accettare una separazione, ma posso promettere a mia moglie dei nuovi
patti. Voglio la mia indipendenza: il marito sono io, e in casa mia voglio aver il diritto di comandar io".
In questi strani e rotti pensieri, tra cui non osava formularsi interamente la languida e posticcia gelosia che lo
istigava, Lorenzo, più stordito che umiliato, venne sotto la pioggia di via in viuzza fino al crocicchio che la via dei Ratti
fa, o faceva, con quella degli Armorari. Ve lo aveva condotto in mezzo all'oscurità e all'incertezza della volontà un
pensiero meno buio degli altri, che si confondeva quasi coll'istinto di una vecchia abitudine.
Quando fu sulla piazzetta, infilò una porticina, mezza nascosta da un assito di fabbrica, salì al lume d'uno
zolfanello di cera una sconnessa scaluccia, dagli scalini rosicchiati dal tempo, picchiò col pomo del bastoncino in un
uscio, sul primo pianerottolo, e mentre il buio lo avviluppava da ogni parte, stette e sentire se qualcuno rispondeva dal
di dentro. Dopo un poco di tempo rispose un sordo brontolìo accompagnato da uno strascico di pianelle fruste. Di sotto
alla fessura dell'uscio scaturì un filo di luce rossiccia, che si dilatò nel guazzo del sucido pianerottolo, mentre una voce
che aveva dello spaventato, dimandava di dentro:
"Chi è?"
"Sono io."
"Io, chi?"
"Lorenzo."
"Che Lorenzo?"
"Il Bomba."
"A quest'ora?" esclamò il Botola, aprendo e introducendo il figliuolo del suo miglior amico.
Il vecchio pignoratario s'era già messo in arnese di confidenza, con una zimarrona indosso, a fiorami gialli,
filettata di nastro rosso e in testa un fazzoletto di nessun colore, raggirato come un turbante, sotto il quale la sua faccia
piena d'infossature e sparsa d'una peluria dura di argento, luccicava come un vetro al riverbero della lucernetta ch'egli
teneva in mano.
"A quest'ora, con questo tempo? tu devi averne fatta una delle tue. Hai giocato eh? hai giocato dalla zietta e hai
perduto ancora, malandrino. Capisco dagli occhi che hai perduto. Quel tuo povero padre ha un bel risparmiare il
quattrino e un bel mangiarsi il fegato, ma la testa non te l'aggiusta più. Io, se di una cosa mi contento, è d'essere solo al
mondo come un vecchio cane, piuttosto che d'aver dei figliuoli che mi mangiano il sugo degli ossi."
"Quando avrai finito, Botola, raccomanda l'elemosina."
"Vieni, siediti. Sai che io ti ho sempre dato dei buoni pareri. Con tuo padre siamo vecchi amici. Abbiamo
cominciato a far degli affari insieme sul mercato di Porta Ticinese, qualche anno prima del quarantotto. Tuo nonno, che
chiamavano il Valsassina, aveva un botteghino di liquori laggiù, presso Sant'Eustorgio, e mentre gli italianoni facevano
alle barricate di fuori e di dentro, noi abbiamo quietamente introdotto qualche dozzina di brente di spirito senza pagare
il dazio. C'era altro a pensare in quelle giornate che a curare chi frodava. Gli altri gridavano: Viva l'Italia! Viva Pio
Nono! (con quel bel costrutto che s'è visto), e noi intanto si facevano i nostri bravi interessi. Quello fu il principio della
fortuna di tuo padre che, bisogna riconoscerlo, non ha mai fatto i corni alla fortuna, come tu, animale, li fai alla tua
legittima consorte. La sorte gli ha soffiato di dietro, e oggi il sor Maccagno può aspirare a esser cavaliere come ogni
altro italianone, mentre io son rimasto un povero cane, costretto nella mia vecchiezza a far da pignoratario alla miseria
altrui."
Il Botola indicò cogli occhi la roba che riempiva lungo le quattro pareti la stanza, non molto ampia, col soffitto
a travetti. Sopra alcune mensole confitte nel muro, erano appesi dei rotoli, dei sacchi, degli involti gonfi, immersi in una
misteriosa oscurità, dai quali emanava un lungo odore di muffa e di vecchiezza. Roba d'ogni foggia e senza foggia era
ammucchiata negli angoli, in terra e sopra le seggiole, accatastata al muro, come se aspettasse d'esser portata via.
Sopra una gran tavola zoppa, d'uno stile quasi rococò, stavano dei registri a matricola con dei fasci polverosi di
quitanze schiacciate da grosse chiavi, in mezzo a una raccolta di oggetti di apparenza rara e preziosa, come a dire
orologi a pancia, cornicette sagomate, statuette di legno e di bronzo, tondini pieni di antiche monete e di minute rarità
d'antiquario, reliquiari e perfino libri di preghiere, roba infine scossa e buttata dalla miseria e dall'onda della vita a
depositarsi a poco a poco e a incrostare il banchetto d'un uomo paziente e preciso.
Per quanto l'apparenza del Botola fosse di pover'uomo (tutti lo chiamavano Botola, ma c'era chi credeva di
sapere che il suo vero nome fosse Domenico Guerrini), tuttavia non gli mancava mai in casa un centinaio di lirette
straccie per salvare un buon figliuolo di famiglia dal fare una cattiva figura, e più volte ne aveva prestate in segretezza
anche al figliuolo del suo miglior amico, limitandosi a un meschino interesse per riguardo a una vecchia amicizia che
risaliva fino al quarantotto.
Dopo il suo matrimonio, Lorenzo non si era lasciato più vedere dal vecchio pignoratario, e ciò spiega la
meraviglia che il compare mostrò nel trovarselo davanti a quell'ora, con quel brutto tempo, con quell'aria malinconica.
"E dunque? è in casa dalla tua cara zietta che hai perdute queste duecento lire?"
"Che duecento lire? chi ti ha detto che ho perduto?"
"Me lo dicono i tuoi occhi di pollo morto. Son forse cinquecento? Io ti credevo canonizzato per santo, lo giuro.
Arrivi in un cattivo momento, anima mia, se pensi che io possa aiutarti. Non è né bello né morale che un uomo tradisca
il suo miglior amico, guastandogli il migliore de' suoi figli."
"Se mi lasci parlare..."
"Sì, parla, parla."
Lorenzo in quattro parole mise a parte il miglior amico di suo padre di ciò che era accaduto in Carrobbio e
concluse:
"Olimpia è in collera e mi ha cacciato via, ma di lei non me ne importa. Penso invece che a casa non posso
andare: le sfuriate non mi piacciono e tu sai che egli va presto fuori dei gangheri. Mi dispiace per Arabella... Se tu
potessi aiutarmi..."
"Come posso aiutarti?"
"Cercando di placare Olimpia, che ha per te un po' di deferenza. Ella sa che tu mi hai fatto del bene molte volte
e che puoi far del bene anche a lei in una circostanza..."
Lorenzo stette a osservare l'effetto che queste parole facevano sul vecchio pignoratario e gli parve di scorgere
in fondo agli occhietti bigi e furbi un raggio di tenera compiacenza. Quindi soggiunse:
"Poi devi vedere subito mio padre e tenergli un serio discorso. Io so che in questa faccenda egli non
rappresenta una bella parte, no: pare che ci trovi del gusto a compromettermi, a farmi fare delle cattive figure..."
"Lo meriti..."
"In lui parla un sentimento d'avarizia, e lo sai. Più volte mi ha ripetuta la minaccia di diseredarmi e di trattarmi
male, non come un figliuolo, ma come si tratta un ingrato."
"L'ha detto anche a me."
"Tu vedi che rovina! Se Arabella domanda una separazione, io sono letteralmente sopra una strada."
"Ha detto anche a me che avrebbe lasciato il suo all'Ospedale, piuttosto che buttarlo in bocca ai creditori di suo
figlio. Ma che interesse può avere?"
Lorenzo non rispose e stette cogli occhi fissi, rivolti a un angolo buio della stanza, dove cercò nascondere una
sua vergognosa idea. Agitò il bastoncino, picchiò sulla punta delle scarpe, e, traendo un grave sospiro, seguitò:
"Ora non posso dir tutto; ma tu devi vedere mio padre domani e parlargli chiaro".
"Cioè? che cosa gli devo dire?"
"La sua volontà di ferro è la volontà di tutti, anche di Arabella, perché in fondo ci domina tutti. Dimostrargli
che è del comune interesse. Per parte mia prometto che farò di tutto, per essere..."
"Meno indegno della sua eredità" suggerì il Botola sogghignando.
"Anche questo..." Lorenzo tagliò l'aria con tre o quattro movimenti di scherma. "Anche questo, Botola, e
perché no? Digli che non gli conviene pigliar di fronte Olimpia, usarle delle durezze, perché Olimpia potrebbe diventare
un nemico pericoloso. Essa pretende d'aver visto mio padre entrare a prendere delle carte nella stanza della morta
Carolina... Conosci questa storia?"
"La conosco, la conosco, Olimpia me ne aveva già parlato una volta. È una testimonianza che conta un bel
nulla."
"Tuttavia i parenti ci fanno su un certo calcolo; Olimpia chiamata a giurare sull'onor suo..."
"Che non ha."
"O sulla sua coscienza..."
"Che il diavolo ha portato a conciare."
"Come vuoi; ma è una donna che fa del chiasso: e non vorrei che per smania di vendetta tirasse la questione su
questo terreno."
"Io dirò tutto questo a tuo padre e sarò ben contento di mettere la pace in una onorata famiglia..." Il Botola
strinse nelle rughe un sogghignetto ironico e picchiando sul ginocchio di Lorenzo riprese: "Quando si tratta di una certa
eredità di quattrocentomila lire, trovo che si può fare anche qualche sacrificio. La miglior maniera per placare Olimpia
sarebbe di anticiparle i quartali di una buona stagione".
"Tu potrai suggerire anche questo... Se tu mi aiuti, Botola non avrai a pentirti di me. Altrimenti io dovrò fare
altri debiti e, non potendo pagarli, finirò coll'ammazzarmi."
"Non dire queste brutte cose..." sogghignò il vecchietto.
"Son così stufo..." disse soffiando il Bomba.
"L'ammazzarsi non paga nessuno. Voialtri giovinotti scapestrati credete di far dello spirito con questo vostro
ammazzarsi, che lascia i creditori negli impicci. Il vero spirito…"
"È quello che si froda al dazio..." fu pronto a ribattere con lieta soddisfazione Lorenzo, che tratto tratto aveva
lampi d'ingegno.
L'acqua che gorgogliava nel canale richiamò per un istante l'attenzione dei due amici sul tempaccio che
infieriva di fuori.
"Dove intendi di andare con questo tempo?" chiese il padrone di casa.
"Sono uscito coll'intenzione di accompagnare Olimpia a teatro e l'abbiamo fatto noi il teatro. Ora è troppo tardi
per chiedere ospitalità alla mia buona zia Sidonia, che sta fin laggiù nei Fiori. E poi dovrei dare delle spiegazioni che mi
seccano."
"Ci va molta gente in casa di questi tuoi parenti?"
"Da un pezzo non ci vado più."
"È vero che tuo zio Borrola vince... troppo?"
"Che vuoi ch'io sappia? tu credi a tutte le voci."
"Ho sentito anche il marchesino di Brienne lamentarsi di questa faccenda. Un padrone di casa deve saper
perdere qualche volta, se non altro, per cortesia. Del resto son cose difficili a giudicare e ognuno è padrone di far quello
che vuole in casa sua. Così io intendo la libertà, la libertà vera, non quella che gridavano gli italianoni nel quarantotto."
"Senti la casa del diavolo!" esclamò Lorenzo a un colpo tremendo di tuono, che scosse la casa e i vetri.
"Se tu vuoi restare nella povera casa d'un vecchio amico, io posso offrirti questo divano e una coperta di lana,
in cui potrai passare la notte, che è detta la madre dei consigli."
"Accetto volentieri se non ti disturbo."
"Non è la prima volta che offro la mia casa a dei bravi giovani. Quest'inverno ci ha dormito anche il
marchesino e non si è trovato male. Già, intesi: io non posso offrire di più che una coperta."
"Nessuno pensa male delle tue intenzioni..."
"Una buona coperta non manca mai..."
Il vecchio pignoratario, strascinando le pianelle, andò col lampadino in mano verso un angolo della stanza, si
abbassò, sciolse la bocca d'un sacco, riempiendo coll'ombra del suo corpo ricurvo il soffitto e le pareti, tirò dal sacco
una coperta di lana, facendosi rosso per lo sforzo, e tornò verso il giovine, trascinandosela dietro come un manto reale.
"Questa è roba della nobile e antichissima famiglia Rescalli. Qua dentro hanno dormito delle famose bellezze.
Ci si sente ancora un delicato profumino di peccati mortali. Ora stento a difenderla dai topi."
Il vecchio pignoratario rallegrò il suo viso, angoloso e ruvido come un pezzo di tufo, con un sorriso di
indulgenza. Buttò la coperta sul divano, e, accusando un gran sonno, accese un moccoletto di sego e se ne andò a
dormire in un buco vicino augurando la buona notte. La casupola in cui abitava era di sua proprietà, acquistata a poco a
poco con lenti risparmi. Varie scaluccie giravano in quel labirinto di muri cadenti, che una martellata del progresso ha
di recente fatto scomparire come un castello di sudice carte da giuoco.
Intorno era una trama di vecchissime case, alcune delle quali con dei segni storici in fronte, l'una appoggiata
all'altra per non cadere, con una rete di anditi e di corridoi e di cortiletti e di buchi da far venire in mente i meandri d'un
formaggio lodigiano male assortito.
Lorenzo stese le gambe sul divano e accese un sigaro per abbandonarsi meglio al corso dei suoi pensieri.
Il mal tempo rumoreggiava e fiammeggiava sopra i tetti neri delle case vicine e sopra i tettucci logori d'un
cortiletto chiuso come il fondo d'una torre, in cui tre o quattro canalacci di ferro versavano il diluvio universale con un
frastuono d'inferno.
L'acqua, passando tra le fessure d'una finestra lunga e mal chiusa, cominciò a versare un rigagnolo che si
distese a poco a poco in una tortuosa biscia nel mezzo della stanza. La lampadina, a cui il padrone lesinava il petrolio,
ben presto cominciò a crocchiare, a mandare dei guizzi, diffondendo ombre e puzzo, ombre in cui gli involti appesi ai
ganci parevano i corpi degli strozzati di casa.
Il Botola sotto quella casa del diavolo aveva coraggio di dormire come un bambino. Il vecchio batteva il
selciato dalla mattina alla sera, sempre sulla traccia d'un piccolo buon affare, e al primo stendere le gambe nel canile
l'accoglieva il sonno del giusto. Il suo russare pareva il verso d'un cane malato: e due volte Lorenzo gli dette sulla voce.
Il vecchio si voltò sul fianco e ripigliò la musica in nota di contrabasso.
A poco a poco Lorenzo poté mettere un ordine ne' suoi pensieri. Il pensare non era il suo forte, ma questa volta
capì che stava per giocare una carta seria. Si arrabbiava dentro di sé all'idea che Arabella avesse scoperto l'intrigo,
prima per il dispiacere che essa ne doveva sentire e poi per la serie di pasticci che ne dovevano derivare. Le donne non
ammettono certe distinzioni, ma se egli avesse potuto persuaderla avrebbe parlato presso a poco così: Senti, Ara,
bell'Ara , tu sei sempre mia moglie, io ti voglio bene; io anzi son superbo di te, e mi dispiace che tu possa essere
gelosa di una cantante d'operette. Il cuore non c'entra. Tu sei stata così malata in questi mesi..." Ma capì che era tempo
perso a seguitare su questa via, perché né egli avrebbe fatto un tal discorso a sua moglie né Arabella avrebbe avuta la
pazienza di ascoltarlo.
Come mai costei aveva trovato il coraggio di far quel che aveva fatto? Dunque non c'era in lei soltanto la
devota cristiana e la madre della rassegnazione, ma anche un diavolo geloso che menava le mani maledettamente. Va a
capire le donne! ti si cambiano nelle mani come le carte di prestigio. La donna di fiori ti diventa la donna di picche e
viceversa. Il bello si è che, paragonando Olimpia, l'Olimpia dagli occhi pitturati e dalle carni floscie a questa donnina
nervosa, a questa bionda dagli occhi intelligenti che col suo bel tòcco d'astrakan in testa si apposta dietro un uscio,
sbuca fuori e batte senza parlare una sciocca rivale - confrontando le due donne come donne - il bello si è, che egli
veniva a poco a poco a innamorarsi di sua moglie. E di nuovo tornava nel pensiero di prima: che Arabella non avrebbe
mai saputo nulla, se non ci fosse stato di mezzo l'interessato a metter male, a seminare la zizzania tra marito e moglie,
per raggiungere chi sa quali sue idee.
Quando Lorenzo si scosse una prima volta da queste confuse riflessioni che gli riempivano la testa di nebbie e
di dolori, si accorse di essere al buio. L'acqua batteva rabbiosa contro il telaio della finestra e sgocciolava dai travicelli.
Il Botola faceva di là il verso della morte. Cercò i zolfanelli e s'indispettì di non trovarseli più indosso. Nel mettersi a
sedere sul divano, posò i piedi in terra e sentì che l'acqua del rigagnolo era già arrivata fino a lui come una lunga biscia
e faceva un lago. Che notte birbona! Un senso non so se di odio, o di stizza, o di paura, o di dispetto, o di noia, o di
tutt'insieme l'assalì, l'avvilì, gli fece provare il tedio immenso della vita. Capì come si possa in certi istanti mettere la
mano sopra una pistola carica, puntarla alla testa e finirla con una vita stupida.
Finì coll'addormentarsi anche lui.
V. LA SCHIAVA È RIPRESA
Arabella ringraziò la Colomba e mentre questa avviavasi in cerca del signor Tognino per parlargli del vecchio
Berretta, e commuoverlo sullo stato del figliuolo, essa andò a chiedere un asilo a Maria Arundelli.
Attraversò Milano chiaro e splendido nella bella giornata serena e nella frescura lieta del mattino, come una
sonnambula che cammina sognando. C'era a meravigliarsi ch'essa sapesse ritrovare le strade; ma la sostenne, la portò, la
guidò la medesima forza d'irritazione e di sdegno che l'aveva condotta fuori di casa, una forza che metteva radice in una
profonda speranza: la liberazione... Per quanti mali avessero a succedere, nessun male poteva essere più triste del tornar
nel dominio brutale e assoluto di un uomo che, non mai come ora, sentiva di non aver mai amato.
Maria Arundelli, moglie a un modesto professore di ginnasio, abitava un quartierino di poche stanze al quarto
piano d'una casa nuova sul piazzale di porta Genova. Era una buona ragazzona, figlia d'un negoziante di carta, di
temperamento allegro, di cuore irragionevole e sempre spettinata. La casa, gli allattamenti, il piccolo stipendio, i crucci
e la tribolazione delle serve non riuscivano a toglierle la voglia di ridere e di voler bene alla vita, che natura le aveva
dato abbondante, sana e pacifica.
Maria Arundelli aveva seguito con interesse il matrimonio della sua compagna di collegio, lieta di ritrovare
nell'Arabella Pianelli, che a Cremenno chiamavano la maestrina, una buona relazione e un'amica che non avrebbe
badato troppo all'etichetta delle visite e dei ricevimenti. Capì subito che la poveretta non era molto felice. Quando seppe
del brutto accidente capitatole sulla pubblica strada, corse a trovarla e raccolse delle confessioni che le strinsero il
cuore. La visita improvvisa dell'Augusta a sera tarda e le mille parole che in tre minuti la veneta pronunciò sulla soglia
dell'uscio, l'avevano messa sossopra. Non poté dormire la notte e già si preparava a uscir di casa per aver delle notizie,
quando Arabella, bianca come una morta, le comparve davanti.
Le due compagne di scuola si abbracciarono senza parlare, senza piangere.
"Vieni, la mia povera tosa : contami questa storia."
"Sarei venuta fin da ieri, ma ho avuto paura. Ti disturbo?"
"Niente affatto, Giorgio ha approfittato del giovedì e della bella giornata per condurre la bambina dalla nonna
in campagna, non ci siamo che io e Napo; anzi se permetti sento che piange, vado a prenderlo, perché è la sua ora."
Maria lasciò Arabella nel piccolo salotto e tornò col suo grasso bambino, che usciva dalle fascie come una
castagna matura dal riccio. Siccome il bimbo, non abituato a sentire che i suoi bisogni, non cessava dallo strillare, la
mamma, per farlo tacere, sbottonò in fretta il giubboncello di lana e gli porse la poppa, sedendo vicino alla compagna
che pareva irrigidita dal freddo e dal patimento.
"È vero quel che mi ha detto ieri sera la tua cameriera?"
Arabella raccontò in poche parole fredde e senza lagrime la scena della sera.
"E ora che intendi di fare? separarti da tuo marito?"
"Sì."
"Proprio davvero? pensaci. È sempre una disgrazia. Hai già scritto a tua madre?"
"Non ancora. Vorrei sentire prima il tuo consiglio. Per me, oggi, non c'è che un consiglio buono."
"Povera Arabella! chi te l'avrebbe detto a Cremenno? Una separazione, sta bene; ma poi, dimmi, vuoi tornare
nella tua famiglia? lo puoi?"
"No, in famiglia no. Non voglio essere più di peso a nessuno."
"Hai tu abbastanza da vivere?"
"Nulla, sai bene."
"È vero che tuo marito, in ogni modo, ha l'obbligo di concorrere..."
"Non voglio nulla da quella gente. Piuttosto la fame."
"Caro il mio angelo, anche la fame è una brutta cosa."
"Non è la peggiore..."
"Tu sei giustamente irritata e parli come sente il cuore; ma il cuore non è soltanto lui il padrone di casa.
Vediamo un po' di ragionare sul caso tuo. Tu non vuoi tornare in famiglia, non vuoi accettare nulla da tuo marito, non
puoi bussare alla porta delle monache..."
A questo punto fu picchiato all'uscio. Maria, interrompendo la dolorosa argomentazione, soggiunse:
"Scusa, dev'essere la mia nuova donna di servizio. Me l'hanno mandata ieri da Pallanza e non distingue il dritto
dal rovescio d'un padellino. Ci vuole una pazienza!... Mi tieni un istante il piccino?"
Maria collocò il bamboccio roseo e trasudato come se lo distaccò dal seno sui ginocchi di Arabella, e,
trottolando coi grossi fianchi, corse a vedere quella benedetta ragazza.
Arabella sollevò il bimbo mal fasciato che sgambettava, guardandola coll'occhio largo e beato dell'uomo
soddisfatto, strabuzzando la boccuccia sotto gli sforzi della digestione. Quando ebbe digerito, fece un sorrisetto che
illuminò la sua faccia di galantuomo senza denti, ma non trovò nessuna corrispondenza da parte della bella signora.
Si sarebbe detto, al modo con cui Arabella stava a guardarlo, coll'occhio fisso e metallico, che le fosse
antipatico o che provasse del dispetto a stare con lui.
"Tu non puoi bussare all'uscio delle monache" riprese Maria ritornando "e non puoi andare a fare la serva."
"Tu puoi aiutarmi".
"Come posso aiutarti?"
"Tua sorella Clementina è ancora direttrice dell'Ospedale dell'Annunciata a Genova."
"Non è più direttrice, perché l'hanno nominata madre superiore; ma l'Ospedale dipende ancora da lei. Dopo
l'arcivescovo è la prima autorità ecclesiastica della città; la chiaman la papessa. Ma tu non hai voglia di ridere, povero
cuore. Ebbene che possiamo fare per te?"
"Quelle buone monache non hanno in Genova una casa di rifugio?"
"Hanno infatti un rifugio per i vecchi e per le miserie che nessuno riceve."
"Dunque troverò anch'io un rifugio."
"Che pensi, che cosa dici? va via, andiamo..." esclamò in tono di rimprovero Maria Arundelli, stringendosi al
petto il suo marmocchio.
"Maria, se anche tu mi abbandoni..."
"Io non ti abbandono, ma tu adesso sei alterata dal dolore e parli a sproposito. Ti aiuterò certamente, ma non
mi pare il caso di avvilirsi a questo modo e di disperare della Provvidenza."
"Non nominare la Provvidenza. Sapessi, Maria, quante volte fui sul punto di negare questa Provvidenza che ci
hanno insegnato a invocare nelle nostre necessità. Che cosa ha fatto Dio per me dal giorno che sono venuta al mondo?
quando ho avuto un giorno di gioia serena e intera? Da bambina ho sofferto spaventi e strazi di cuore, che mi
spaventano ancora e mi fanno trasalire la notte quando mi addormento male. Tu la sai la mia storia. Ho fin patito la
fame... Ho chiesto a Dio di poter abbandonare il mondo, e mi hanno risposto che il dovere era di restarci. Ebbene, che
cosa ho guadagnato dal mio sacrificar tutto, vocazione, simpatie e fin la mia creatura? e chi ha guadagnato almeno per
conto mio? nessuno. Io non ho cambiato nulla, non ho migliorato nulla, il fango è rimasto fango, anzi il fango è
cresciuto intorno a me e invece d'amore, vedi, non ho raccolto che oltraggi, odio, tradimento. No, Maria, no: non ne
posso più. Non ho più forza per resistere all'onda di questi mali. Se finora ho vissuto inutilmente per gli altri, è tempo
ch'io cominci a vivere non inutilmente per me, perché" (e Arabella nel dir queste parole alzò il capo con qualche
fierezza) "con questo veleno nel cuore io non posso piacere a Dio e non è con questa disperazione, che mi soffoca
anima e respiro, ch'io potrò meritarmi il suo perdono. Se io resto ancora un giorno nella compagnia di questa gente, la
disperazione, Maria, potrebbe montare dal cuore alla testa e allora c'è la pazzia, mia cara, c'è qualche cosa di peggio..."
La figlia del povero Cesarino Pianelli si attaccò con una forza nervosa al braccio dell'amica, come per
sostenersi contro un pericolo nei dibattiti convulsi del suo dolore. Chinò la testa: da accesa divenne di nuovo
pallidissima e mormorò come se parlasse a se stessa:
"Non ho mai compatito tanto il mio povero papà come in questi giorni..."
"O Madonna, tu le perdona perché non sa quel che dice" interruppe vivamente la buona e devota Maria,
coprendo colle braccia il bambino, perché non sentisse le brutte parole.
"Provassi! ci son dei momenti in cui pare così necessario e così bello il morire..."
"Tu sei malata, la mia figliuola" gridò la povera Maria: "tu non pensi, tu non le senti le cose che dici. Scriverò
subito a mia sorella, se ciò può farti un po' di bene."
"Dille che son disposta a tutto: a far scuola, a servire malati, a rattoppare dei cenci, a tutto, purché sia in un
luogo dove possa dimenticare quella che sono stata."
"Io farò quello che vuoi, ma promettimi che non dirai più cose spaventose. Tu mi hai fatto piangere anche
Napo... Non piangere così, Napo..." prese a cantarellare al bimbo che strillava per conto suo "non ha detto sul serio la
zia Arabella. Adesso l'hanno fatta soffrire ed è molto malata. Quando diverrai grande capirai anche tu, Napo, che cosa
voglia dire soffrire. Anche tu ti troverai in mezzo a un mondo di tormentatori e di tormentati, ma non ti piacerà far
piangere la gente, vero, Napo?"
Sentendo che essa stessa non sapeva più resistere alla commozione, la buona Maria si portò il suo bimbo alla
bocca, in atto di divorarlo, e soffocò i singhiozzi, asciugando alle carni molli le grosse lagrime, ripetendo la cantilena
dell' Ara, bell'Ara , mentre Arabella stringevasi e contorcevasi come una foglia secca nel gelo della sua
tristezza.
"Promettimi che non farai piangere nessuno" seguitò la mamma cullando il bambino stretto sulla faccia "e se
gli altri faranno piangere te, vieni sempre dalla tua mamma, ve', Napo: io ti beverò le lagrime, io mi piglierò i tuoi
dolori, ma non maledire mai il giorno in cui ti ho messo al mondo, la mia creatura; non far questo torto alla povera tua
mamma, che t'ha messo al mondo con tanti dolori e con tanta gioia. Tu non hai sentito quel che ha detto la zia Ara: non
credere alle sue parole. Essa è troppo buona e troppo intelligente per ammettere che i cattivi all'ultimo abbiano a
vincerla sui buoni. Essa non vede che il male in questo momento, e non ricorda tutto il bene che ha ricevuto nella sua
vita e quel tesoro di beni che la facevano a scuola un modello di virtù, di buon esempio, di talento, di grazia, il tesorino
delle maestre, la delizia delle sue compagne. Essa non ricorda il bene che ha ricevuto dal suo benefattore e il bene che
gli ha fatto, salvandolo dalla rovina e dalla disperazione. Essa non fa nessun conto del bene che le vogliamo noi, io e te,
Napo, per esempio, e parla di voler morire, così, come se non le importasse nulla di chi le vuol bene..."
Arabella cadde in ginocchio e si appoggiò all'amica per chiederle perdono: ma non poté pronunciare una
parola. I suoi occhi non davan lagrime e portavano dentro una forte risoluzione. Essa chiedeva perdono all'amica, ma
lasciava capire che avrebbe combattuto per la difesa della sua dignità.
L'uscio in quel momento si aprì e dietro alla ragazza di servizio comparve la Colomba. Questa alla sua volta,
volgendosi, fece l'atto di presentare qualcuno che le teneva dietro dicendo:
"Guardi chi ho condotto con me."
E subito dopo, Arabella vide entrare la sua mamma.
Il signor Tognino aveva mandato a pigliarla fin dalle prime ore della mattina. In casa Maccagno essa s'era
incontrata colla Colomba, che veniva a implorare misericordia per il Berretta, per Ferruccio, per sé, per i vivi e per i
morti. Questa poté dire ove si trovava Arabella, e si offrì di accompagnarla.
Arabella le andò incontro con un sorriso addoloratissimo, e stringendole le mani nelle mani, con uno
stiramento convulso dei muscoli, non seppe balbettare che il nome di... mamma.
Mamma Beatrice, ansante per le scale fatte in fretta e per l'emozione, si lasciò cadere sul divano, e facendo
sedere la figliuola, aspettò che questa parlasse per la prima.
La Colomba e Maria sedettero sulle poltroncine davanti. Nessuna osava rompere il silenzio e tutte avevan gli
occhi su Arabella. Parevano donne convenute nella casa d'un morto a piangere.
Fu la Colomba la prima a rompere il silenzio. Raccontò la sua meraviglia, quando s'era vista comparire la sora
Arabella in casa con un tempo disperato: raccontò la visita fatta al sor Tognino e come costui l'avesse ricevuta bene, e
avesse dichiarato di esser disposto a ritirare la denuncia contro il Berretta, purché Arabella tornasse a casa e si
perdonasse un poco da tutte le parti. Così stando le cose, alla Colomba non pareva il caso per il momento di irritare il
sor Tognino, considerando che c'erano in lui delle buone disposizioni, e per conto suo veniva a pregare la buona sora
Arabella ad aver dell'indulgenza anche lei per riguardo a un povero vecchio, che marciva in una prigione, per pietà di un
povero giovine malato. Non c'era tempo da perdere: si fa presto a morire. La sora Arabella aveva visto in che stato
giaceva il figliuolo: orbene essa aveva già dato a Ferruccio delle lusinghe, gli aveva detto cioè che il sor Tognino non
avrebbe insistito più nel processo. Ma se il sor Tognino si metteva a giocare di puntiglio, chi salvava da una catastrofe?
"Nessuno più di me sa capire e compatire" seguitò la buona donna coll'eloquenza che vien dal cuore e dal
proprio interesse "ma se questo primo passo verso la conciliazione può portar subito del bene, io non vedo perché dal
bene abbia in seguito a derivare del male. I conti si aggiusteranno strada facendo; ma intanto il sor Tognino ha detto: '
Arabella torni a casa e farò quel che vorrà; ma prima torni a casa '. Io parlo, cara la mia creatura, per la vita e per
l'anima della mia gente: la sua mamma le dirà il resto."
"E il resto è molto semplice ed esplicito" soggiunse mamma Beatrice con un tono fra l'accorato e il sostenuto.
"Tuo suocero non ti dà torto, ma disapprova il modo con cui hai creduto di ottenere ragione per forza. Egli è nemico
degli scandali e delle pubblicità e pare che quella donna che tu hai offeso..."
"Io?..." scoppiò a dire con una risata ironica Arabella.
"Abbi pazienza, tu potrai aver cento ragioni, ma non ti deve piacere di mettere i tuoi dolori in piazza. Il sor
Tognino è disgustato appunto per la scenata di ieri sera, che servirà ai suoi nemici per muovergli guerra. Vedrai, ne
parleranno anche i giornali... Oh! a te non te ne importa; ma devi pure ricordare che il sor Tognino ha fatto del bene alla
tua famiglia."
"Sì?..." interrogò con una punta di canzonatura Arabella.
"Sì, sì, ne ha fatto del bene, a tuo padre e a tua madre. Ad ogni modo è uomo che, disgustato oggi, potrebbe
domani rifarsi del bene che ha fatto, e allora? credi che papà Botta non deva tutto a lui, se oggi non è con cinque
figliuoli sopra una strada? tu non guardi che alla tua passione, al tuo interesse e dal giorno che ti sei maritata hai sempre
affettata una specie d'indifferenza per la tua famiglia. Ma se ti fossi occupata di leggere anche negli interessi di casa,
avresti visto che papà Botta oggi sta in piedi solamente perché il sor Tognino lo sorregge col suo credito: e che se
domani si dovesse venire a una liquidazione, non è certo il sor Tognino che deve del denaro a tuo padre e a tua madre. È
subito detta una divisione! ma una divisione coniugale oggi vuol dire una liquidazione di conti. Oh il sor Tognino su
questo punto stamattina mi ha parlato chiaro. O Arabella torna in casa e si rimette alla nostra discrezione o io non
conosco più casa Botta. Grazie del complimento! Ciò vuol dire in poche parole una rovina peggiore della prima. Ora io
non so se i tuoi diritti, se il tuo vantaggio, se il tuo puntiglio valgono proprio la disperazione di una famiglia, e se potrai
essere contenta il giorno che per odio a quella donnaccia saprai d'aver messo su una strada il tuo benefattore e la tua
povera mamma..."
Mamma Beatrice si portò il fazzoletto agli occhi.
Arabella fece un gesto colle mani per togliersi dagli occhi un velo di nebbia, che le nascondeva la vista delle
cose.
"Creda pure, cara figliuola," entrò ancora a dire la Colomba, ribadendo il chiodo caldo, "creda pure che il
diavolo visto da vicino è meno brutto di quel che dicono. Lei è giovine e fa bene ad avere della poesia e anch'io, sa, ne'
suoi panni, avrei menato non una, ma tutte e due le mani. Ma creda a me che son la più vecchia. Negli uomini non è
sempre questione di cuore. Si sa, anche nostro Signore ha detto che la carne è fragile e un giovinotto non può tutt'a un
tratto farsi eremita. L'esempio gli sarà servito, ma a tirar troppo si rompe la corda, mentre l'esperienza insegna che piglia
più mosche una goccia di miele che un barile d'aceto. Io non so se mi spiego, ma vorrei dire insomma che in queste cose
non bisogna dar troppa importanza alle prime impressioni. Io ho visto in cento altre occasioni dei mariti senza
conclusione stufarsi sinceramente, tornare alla famiglia, diventare mariti modello, padri di famiglia eccellenti, tutto per
merito di una brava donnina, che aveva saputo perdonare a tempo. Questo in tesi generale. Nel caso suo speciale, il mio
angelo, ci penserei dieci volte prima di assumermi una responsabilità, perché, come ha sentito, c'è in gioco il bene, la
vita e la morte di molt'altra povera gente."
Arabella, che aveva fin qui ascoltato con pazienza e docilità, alzò il capo e sbarrò gli occhi, come se
cominciasse a dubitare che si trattasse veramente di lei.
Maria Arundelli pensò a non lasciar cadere in terra il discorso:
"Una moglie che si divide dal marito" disse "ha sempre un poco di torto. Una divisione è sempre uno scandalo
o è un rimedio che non ripara nulla, e che non fa che allargare il male, creando due spostati, ci dà in pascolo alle ciarle e
alle maldicenze della gente, che non è sempre disposta a compatire. La gente non ammette mai che il torto sia tutto da
una parte: va a supporre che dall'altra parte ci sia stata almeno della freddezza, della poca buona volontà, della
indifferenza di cuore, e fortunata la donna di cui non si pensa che questo! Una donna divisa dal marito è un oggetto di
malsana curiosità per i buoni e per i cattivi. I primi pensano che abbia fatto troppo poco per andar d'accordo; i secondi
che abbia fatto troppo per non andar d'accordo. Gli uni diranno che pretendevi troppo; gli altri che sei rigida,
intransigente, bigotta... e, scusa ve', o che avevi un amante."
"Ah...!" fece Arabella, schiudendo la bocca a una esclamazione di stupefazione. Parlavan proprio di lei?
"Non offenderti. Tu hai troppo buon cuore e troppo buon senso per non tener conto del bene che puoi fare e del
male che puoi risparmiare. Qui si tratta di scegliere tra due mali il minore per te e tra due beni il maggiore per gli altri.
Un bel partito sarebbe di dare un addio a queste tribolazioni e di rifugiarsi in una grotta a meditare sulla vanità e
sull'afflizione delle cose di quaggiù. Ma dove non arriva la voce e il rumore del mondo, arriva sempre la voce della
coscienza, il dubbio, lo scrupolo di aver comperata la propria pace a prezzo d'indifferenza, di aver sacrificato troppo
all'amor proprio. Quando Arabella sentisse, per esempio, che il suo secondo padre e benefattore è stretto nei bisogni,
che la sua povera mamma non trova pane pe' suoi figlioli..."
"Che un povero vecchio muore in una prigione, mentre si poteva..."
"Mentre si poteva guadagnare la benevolenza e le benedizioni di tutti..."
"Mentre si poteva evitare degli scandali."
Arabella si alzò. Le labbra si mossero coll'intenzione di dire: andiamo... ma non ne scaturì che un fremito. Fece
qualche passo come se cercasse di svincolarsi da tutte quelle mani amorose, che la tenevano prigioniera, da quelle
parole, da quelle tenerezze che l'avviluppavano da tutte le parti.
Mamma Beatrice avvertì questo primo momento di debolezza, e, tirandola in disparte nel vano della finestra, le
strinse il volto nelle mani e proseguì sottovoce:
"Sai che cosa mi ha detto tuo suocero? che se tu ti fidi di lui e torni a casa, buona buona e obbediente come
prima, non solo farà cacciar via quella donna e obbligherà Lorenzo a volerti bene, ma mette a tua disposizione una
somma, perché tu possa disporne per le tue opere di carità. Egli voleva ad ogni costo mettermi in mano duemila lire,
sapendo in che imbarazzi si naviga; ma io gli ho detto: ' No, sor Tognino, io non posso riceverli che dalle mani di
Arabella. Quando Arabella sarà tornata a casa sua e avrà dato segno d'aver perdonato e dimenticato, allora soltanto
potremo accettare senza rimorso qualche sussidio: prima no '. Duemila lire in questi momenti sono per noi più che una
bella giornata di maggio; ma tu non soffriresti mai che noi accettassimo la carità da gente che non conosci e peggio da
gente a cui vuoi male. Mentre se tu ritorni, puoi mettere dei patti nuovi e puoi domandare anche un risarcimento, non ti
pare, Arabella? Vieni, fidati di tua madre, che ne ha passate di peggiori e che ha sempre messo in disparte il puntiglio e
la vanità, quando si trattava del bene dei suoi figliuoli. Lorenzo capirà i suoi torti, tornerà a volerti bene, e tu potrai
vivere da signora come prima; mentre io, quando il tuo povero papà mi ha lasciato sola a quel modo che sai, non avevo
nemmeno da mangiare. E che spavento! e che disonore... Eppure gli ho perdonato e tornerei a volergli bene ancora se
comparisse..."
Un torrente di lagrime impedì a mamma Beatrice di continuare un discorso, ogni parola del quale cadeva come
una pietra acuta sul cuore di Arabella. Non ci voleva che l'evocazione di una triste memoria e di un fantasma non ancor
morto del tutto, per debellare l'ultima sua fortezza, per annientare quel rimasuglio d'orgoglio, che la faceva ribelle e
ripugnante al suo destino.
La condanna del suicida non era ancora scontata del tutto; e bisognava ch'ella mostrasse almeno di perdonare a'
suoi persecutori, se voleva che gli altri perdonassero a una povera anima in pena. Non aveva promesso a Dio di
consacrare la vita in espiazione? Ebbene, questa era la espiazione. Ai martiri non si concede la scelta del martirio.
Come se si svegliasse da uno strano sogno, le parve di ritrovare in se stessa la buona e docile Arabella di
Cremenno, arrossì un poco di vergogna, come una bambina colta a commettere un piccolo furto campestre fuori del suo
orticello; strinse la mano della mamma, baciò l'Arundelli sul viso, sorrise a tutto ciò che la Colomba, ridendo e
corbellando, le raccontò nel discendere le scale, si lasciò condurre per tutto il lungo del corso Genova, fino a un caffè
del Carrobbio, dove la mamma la persuase a prendere una bevanda calda o a bagnare un biscotto nel vermouth... Esse
avevano bisogno di scaldarsi e di rinforzarsi lo stomaco.
Accettò il vermouth e il biscotto; disse sempre di sì col capo a tutte le questioni della mamma; sorrise due o tre
volte anche a lei, mostrando tutte le buone disposizioni di perdonare. Ma non pronunciò una parola tutto il tempo, come
se la voce fosse morta nel petto. Gli occhi fissi alla vetrina innanzi alla quale si agitava il turbinío di un popoloso
quartiere nella piena luce d'una bella giornata d'aprile, essa, più indifferente che turbata, preparavasi a soffrire fino alla
fine... o fin quando era necessario.
VI. TRE UOMINI
Il Botola non tardò a trovare il vecchio amico e lo condusse a casa sua. Strada facendo, cercò di persuaderlo a
trattare con indulgenza un figliuolo che mostravasi pentito dal fondo del cuore. Citò perfino nostro Signore, il quale ha
detto che sarà molto perdonato a chi avrà molto amato. Suscitò dei ricordi giovanili per dimostrare a Tognino che il
mondo è sempre stato mondo e lo sarà sempre finché ci saranno uomini e belle donnette.
Quando fu sui primi gradini della scala, vedendo che il vecchio amico lo ascoltava poco, lo prese per il bottone
del vestito e toccò il tasto di Olimpia.
"Spero che tu non vorrai infierire contro questa incipriata creatura: essa fa il suo mestiere, canta come può. Il
mio parere sarebbe che tu l'avessi a pigliare colle molle d'argento, come si fa collo zucchero. Essa, da quel che so,
potrebbe farti del male."
"A me?" esclamò il signor Tognino, sogghignando.
"O almeno so che i tuoi riveriti parenti fanno un gran conto sulla sua testimonianza."
"Testimonianza di che?"
"Conto quel che mi hanno contato. Il Mornigani avrebbe detto in sagrestia di Sant'Ambrogio che Olimpia t'ha
visto..."
"Che cosa ha visto?"
"T'avrebbe visto entrare nella stanza della Ratta a cercare una carta..."
"Ah sì!..." cantò in tono nasale il vecchio affarista, che non si aspettava questa novità. "Ah, mi ha visto? o
bella, o bella!" e ridendo confusamente cercò di nascondere all'occhio fino e indagatore del pignoratario un improvviso
turbamento di animo.
Era una testimonianza inconcludente, a rigore, e di nessun valore morale; ma la notte non dormita, l'agitazione
dell'animo, lo scoraggiamento da cui sentivasi preso, avvilirono un istante il vecchio navigante, che stentò a vedere i
gradini della scala.
Quando furono davanti all'uscio, il Botola lo trattenne ancora due minuti per dargli un altro suggerimento:
"Son persuaso che è una trappola montata dai parenti e dall'avvocato, ma ad ogni modo sai che queste donne
son sempre pronte a cantare il falso. E in una causa Olimpia non ha nulla da perdere e invece ha tutto da guadagnare, se
giura sui santi Vangeli che t'ha visto a cercare una carta. La sua finestra dà precisamente sulla stanza della defunta, e sai
che queste donne patiscono la insonnia qualche volta... E poi io prevedo un garbuglio. Olimpia tirerebbe in giudizio
Lorenzo, il padre contro il figlio..."
"Ti ha... ti ha forse parlato lui di questa faccenda?..." balbettò il vecchio. impallidendo un poco.
"Me ne parlava ieri sera, anzi fu lui che mi fece notare questo pericolo."
Il vecchio affarista si abbrancò colla mano all'appoggiatoio di ferro dell'oscuro pianerottolo e fece sentire un
secco sogghigno, che somigliava piuttosto a un rantolo.
Il Botola aprì l'uscio, e nell'indicare uno scalino per cui si scendeva nella stanza, si curvò verso l'uscio e
susurrò:
"Zucchero e miele."
Lorenzo, che stava aspettando in casa del pignoratario l'esito delle trattative, stentò sulle prime a riconoscere
suo padre, un poco per il gran cappello di campagna che gli ombreggiava la faccia, un poco per l'andatura floscia e
legata con cui entrò nella stanza.
Mentre si aspettava un uragano di rimproveri, vide con sua meraviglia l'adirato genitore entrare e mettersi a
sedere senza parlare, coll'abbandono di chi stenta a reggersi sulle gambe.
Sia che la notte agitata, o l'emozione, o lo strapazzo gli facessero male; sia che la imprevista ingerenza di
Olimpia entrasse a turbare l'equilibrio morale del vecchio; risultò a Lorenzo che il babbo non era in vena di far scandali
e rumori.
"Io sono felice e orgoglioso, cari amici, di offrire la mia povera casa a questo, diremo così, congresso della
pace." Così cominciò il Botola col tono scherzevole per raddolcire l'aria e per avviare un discorso utile per tutti. "Vi
prego di non guardare al disordine e alla polvere di questa mia povera casa; io sono uno straccivendolo e si sa... Tu,
Lorenzo, siediti qua alla mia sinistra, e io mi metterò in mezzo a fare il presidente. Non manca nemmeno il
campanello..."
Il vecchietto toccò e fece squillare un coso di bronzo, ch'era sulla tavola, e ne trasse un suono fesso che si
accompagnò al suo ridere che aveva pure del fesso. Sedette in mezzo ai due Maccagno e stirandosi le mani, voltosi a
Lorenzo:
"Dunque," soggiunse "dicevo poco fa a tuo padre che tu sei pentito e dolentissimo di ciò che è accaduto ieri
sera; che pur di aggiustare la cosa senza scandali, pur di far pace con tua moglie, sei disposto a promettere e a giurare..."
"Che suo padre è un ladro...!" interruppe fieramente il babbo, come se si svegliasse bruscamente da un lungo
letargo; e alzò il suo dito magro e lungo con cui era solito infilzare uomini e cose. "Che cosa non è pronto a giurare
quest'imbecille mangiapane?"
"Adesso tu stammi zitto e lascia parlare a me. Siamo uomini o donne?" Così il Botola con una certa furia; e
voltosi a Lorenzo, seguitò: "Intanto abbiamo buone notizie della signora Arabella. È venuta a Milano sua madre e tutti
siamo interessati a mettere acqua sul fuoco, acqua, acqua, Tognino, e non olio."
"Benissimo" disse Lorenzo arrossendo come un ragazzo scapestrato, ma non cattivo, che sente ricordare il
nome della mamma morta.
"Bravo, ma non basta dir benissimo, sor Lorenzo riverito" soggiunse il Botola col piglio amoroso e severo d'un
buon zio interessato. "Tu devi dimostrare col fatto a questo uomo qui, e a tua moglie che sei veramente un uomo, non
una banderuola. Hai la fortuna di possedere una donnetta bella, graziosa, educata, un rosino da far gola al
principe Triulzio e vai a perderti come una bestia con Olimpia. Sii buon marito, non un burattino; sii buon padre di
famiglia, non un libertino..."
Il tono predicatorio del Botola, il sussiego con cui esponeva queste belle massime dalla sua seggiola zoppa,
nell'aria morta di quel camerone pieno di muffa e di stracci, non poté che muovere un poco la naturale allegria del
Bomba, che sbuffonchiando rispose:
"In quanto al buon padre di famiglia, il mio dovere l'ho fatto a suo tempo e non è colpa mia se l'ortolana..."
"Fallo tacere quel tanghero..." supplicò il padre, infiammandosi, sollevando le due mani aperte verso il Botola
"fallo tacere..."
"Non cominciate a irritarvi, e a rivangare le ragioni e i torti. Del passato non si deve parlar più in vitam
aeternam, amen Sei tu disposto, Lorenzo, a far veramente giudizio? Se sì, questo tuo padre qui, che in fondo ti vuol
bene, userà tutta la sua autorità per persuadere la buona sora Arabella a mettere un piede sul passato. Non solo: ma visto
e considerato che, in seguito alla vostra recente eredità, le condizioni sono mutate, tuo padre, di cui credo d'interpretare
il sentimento, vorrà assegnarti da ora innanzi un reddito maggiore, più conveniente al tuo stato, vorrà pagare qualche
tuo vecchio debituccio..."
"Niente affatto!..." protestò il vecchio Maccagno.
"Tu, mio caro illustrissimo e severissimo genitore, devi mettere questo figliuolo nelle condizioni di poter far
onore a' suoi impegni. In quanto a Olimpia, se vi fidate di me, ci penso io. Con pochissimo sacrificio leviamo di mezzo
la pietra dello scandalo. Va bene? date carta bianca a me?"
"Io per me ti lascio carta bianca fin che vuoi" disse Lorenzo con accento d'uomo che parla sul serio. "Ripeto
che di questo stato di cose sono io responsabile; ma, amen , non se ne parli più. Solo mi permetto di proporre al
mio signor padre una piccola condizione..."
Lorenzo non aveva in vita sua pronunciato quattro parole più gravi e solenni; al punto che il vecchio Maccagno
sollevò la faccia e rimase in curiosità di quel che il sapientone stava per dirgli. Anche il Botola rimase lì colla sua faccia
di bertuccia incantata.
"Una piccola condizione che ho quasi il diritto di imporre" seguitò il giovane Maccagno, in preda a un
convulso, che gli faceva battere il bastoncino sulla punta della scarpa. "Desidero, cioè, che mia moglie venga con me; e
stia con me; voglio, cioè, essere io il padrone...comandar io in casa mia, visto che il marito sono io."
Da infiammata la faccia del vecchio Maccagno si fece livida. L'occhio si impicciolì a un'espressione di gatto
selvatico, il corpo si curvò sui ginocchi, le mani si strinsero in due pugni nervosi, uno dei quali si sollevò lentamente e
ricadde come un maglio pesante sul ginocchio. Voleva gridare: "Tu? tu metti alla porta tuo padre?" ma non gli venne
fuori che un mugghio d'uomo strozzato.
"Sissignori, voglio così..." ripeté Lorenzo, alzandosi con un visibile sforzo e piantandosi ritto davanti a suo
padre, colle braccia sul petto, come Napoleone, soffiando la sua straordinaria emozione, che sollevava e scompaginava
la pigra e sonnolenta volontà.
Anche il vecchio si alzò, fe' un giro intorno alla sedia, vi si appoggiò, e sogghignando colla bocca umida di
saliva: "Tu vuoi mettere alla porta tuo padre?" uscì a dire con amaro sarcasmo. "Bene! e io metterò te al posto che
meriti..."
"Il marito sono io..."
"Che, che, che..." balbettò il Botola, cacciando in mezzo la sua faccia pallida e rugosa, coll'aria di un uomo che
stenta a capire o finge di non capire. "Voi non mi farete una brutta scena, adesso. Siete in casa mia: non ve lo permetto.
Vergogna!"
I due Maccagno si guardavan coll'occhio fisso, invelenito, in atto di sfida, l'uno col capo curvo e irrigidito,
appoggiato colle due mani allo schienale della sedia; l'altro, il giovane, ritto e impettito nella sua spavalda vigoria
d'uomo forte e ignorante.
Aveva un bel predicare l'amico conciliatore, di dietro al tavolo zoppo delle sue anticaglie: quei quattro occhi
cattivi non si torcevano, ma continuavano a dirsi delle cose cattive.
"Da quando si è vista una scena simile? tra padre e figliuolo? vergogna! E c'è di mezzo una brava e buona
signora che merita rispetto..."
Così il Botola: ma predicava ai sordi. Quei due uomini avevano dell'odio negli occhi e nel cuore...
"Tu metti tuo padre alla porta..." riprese a dire finalmente con voce sconnessa e indebolita dall'ira il vecchio,
alzando una mano fin sotto il viso del ragazzo. "Tu fai lega co' suoi nemici; tu lo tratti come un ladro; tu gli avveleni la
vita, la vecchiezza; tu porti la vergogna e lo scandalo nella sua casa; tu gli rinfacci tutto ciò che ha fatto per il tuo bene,
tu gli butti sul viso un insulto infame... non figlio, ma assassino di tuo padre..."
E come se a un tratto balzasse infuriando l'ira, che un resto di coscienza teneva incatenata, il vecchio
Maccagno saltò colle due mani al viso di Lorenzo, lo investì, lo sospinse fin contro la parete, dove egli si lasciò
spingere, cedendo, spaventato, avvilito, facendosi scudo della faccia col bastoncino, che stringeva nella mano,
respingendo coll'altra l'assalto senza offendere, mormorando con un profondo gemito:
"Non toccarmi..."
Il pignoratario si cacciò in mezzo. Era una brutta scena, forse non ne aveva mai viste di più brutte. Gli
rincresceva principalmente che la faccenda avesse presa una piega cattiva, che rendeva più difficile l'opera sua
d'intermediario tra Olimpia e un vecchio amico denaroso.
E poiché Lorenzo, quasi affascinato dagli occhi piccini di suo padre, insisteva a rispondergli cogli occhi
insolenti, in atto di sfida, il pignoratario lo rivoltò colle sue mani ossute di scheletro, lo cacciò verso l'uscio, ripetendo:
"Va via, va via!"
Il giovane si lasciò spingere un poco e quando fu sulla soglia, come se volesse confermare ciò che aveva detto,
si voltò ancora verso il babbo e alzò il bastoncino come una spada.
"Va via!" e lo chiuse fuori sui pianerottolo con tanto di catenaccio, che sonò come quello di una prigione.
Tognin Maccagno rimase attaccato alla sedia per non cadere. Il suo corpo tremava tutto. Un pensiero buio e
malvagio gli divorava la vita. Delle cento parole che il Botola gli disse in quel momento, non ne afferrò una, come se
l'avessero colpito con una mazza sulla testa.
VII. TIRANNI E VITTIME
Mamma Beatrice accompagnò la figliuola fino a casa e ricordandosi di avere qualche spesuccia da fare, la
lasciò promettendo di tornare più tardi a salutarla.
Arabella rimontò adagio le scale, provando ad ogni gradino la fatica e la pena di chi sente crescere a poco a
poco un peso, che altri vada lentamente caricando sulle spalle. Non incontrò nessuno, o non vide nessuno.
Spinto l'uscio, entrò in casa, che ritrovò piena di sole e di allegria. Era la sua casa o la sua prigione? non
distingueva più, né aveva più bisogno di distinguere. La sua vita non aveva che un significato: "Espiazione!"
Attraversò il salotto e si rifugiò nella camera da letto.
Nel rivedere il letto liscio e composto, una idea più chiara e più mobile delle altre venne avanti, ma ella non vi
si fermò. In quel letto due mesi prima avrebbe potuto morire.
Si tolse il mantello e il berretto e si guardò nello specchio grande. Com'era pallida! i capelli parevano una
selva. Nel riporre le robe nell'armadio, le venne alle mani una piccola babbuccia di lana rosa rimasta dimenticata sui
ferri. La buttò via. Sentì il pianto salire fino alla gola, ma con un crudele sforzo lo respinse e ricompose l'animo a una
tranquilla e marmorea indifferenza.
Mentre stava collocando in una scatola alcuni pizzi, che avrebbero dovuto servire per un battesimo, si sentì
chiudere tra due braccia, e poi sentì un volto caldo e lagrimoso sul suo, che la baciava teneramente sulle gote e sui
capelli.
"Povera la mia siora ! credevo che facessero patire soltanto le povarete ; ma vedo che siamo
dappertutto le stesse. Pazienza! Se si buttasse un pochettino sul letto?"
"Forse hai ragione. Sono stanca..."
"Venga con me, benedetta"
L'Augusta, che aveva bisogno di abbracciare qualche cosa di caro, senza dir altro, si tolse in braccio la sua
povera padroncina, la collocò sul letto, le sciolse le scarpe, la coprì col piumino, e dopo averla baciata ancora una volta
sui capelli, chiuse le imposte.
Arabella si addormentò come una bambina stanca.
Non fu che verso l'ora del pranzo che il signor Tognino chiese di parlare a sua nuora.
Uscito dalla casa del Botola col cuore avvelenato e rotto, si trascinò a casa, si rinchiuse un pezzo
nell'ammezzato a scrivere, consegnò alcune carte al notaio Baltresca, e mandò due volte la portinaia a domandare a sua
nuora se voleva riceverlo. La prima volta l'Augusta fece rispondere che la sua signora dormiva: più tardi, circa verso le
quattro, raccolto lo spirito a idee più tranquille, il vecchio prese a salire le scale, faticosamente, forse per la stanchezza,
forse per una soggezione nuova che intricavagli, per dir così, la volontà e le gambe.
Un reo di qualche enorme delitto non avrebbe provata una impressione diversa sul punto di essere chiamato la
prima volta davanti al giudice. Non era rimorso, non era paura; non era nemmeno vergogna o mortificazione per la
cattiva condotta di Lorenzo; o forse in quel suo sentimento di stanchezza e di avvilimento entrava un poco di tutto ciò,
misto a una tenerezza, a un desiderio di rivederla, di parlarle, di domandarle perdono, d'ascoltare la sua voce, di trattare
con lei un sistema nuovo di vita per l'avvenire... prima che suo figlio lo mettesse alla porta.
"C'è?" chiese all'Augusta, soltanto per provare la voce.
"Sissignore."
"Dov'è?"
"In gabinetto. Ha riposato bene tre ore."
"C'è anche sua madre?"
"Nossignore, non è ancora tornata."
"E... il signore s'è visto?"
"Non si è visto."
"Va a dirle che son qui."
Mentre l'Augusta eseguiva l'ambasciata, il signor Tognino rimase mezzo minuto in piedi colle mani appoggiate
alla tavola da pranzo, col cuore stretto e angustiato, in preda a dolorose vertigini che si sforzavano di tirarlo in terra.
Vide un gran rosso sulla tavola, che cercò di rimuovere: non era che l'orario delle corse rimasto lì dalla sera prima.
"Se vuol passare..."
"Non si sente mica male..."
"No, ha riposato. Non me la facciano più patire."
Il vecchio non intese le ultime parole della ragazza. Pose il cappello sopra una sedia e, sollevata la tenda
pesante che separava il salotto dal gabinetto, domandò ributtando con uno sforzo supremo la sua puerile trepidazione:
"Permette?"
"Avanti" disse la voce di dentro, che sembrò un'altra voce all'orecchio ottuso del vecchio malinconico.
Alla prima occhiata lo colpì la pallidezza quasi spettrale in cui Arabella pareva dimagrita e quasi invecchiata.
Davanti alla pietosa apparizione sentì tutte le amarezze, tutti i rancori, tutte le violenze, che da tre mesi andava
accumulando in difesa del cuore, precipitare in una rovina desolata. "Ecco che cosa avete fatto d'una povera creatura!"
avrebbe detto il cuore, se avesse potuto parlare o pensare.
Il signor Tognino socchiuse un istante gli occhi.
Arabella stava seduta davanti al tavolino da lavoro, sotto la finestra, nella luce attenuata dalle doppie cortine di
seta celeste, colle mani occupate in apparenza in un piccolo merletto, che aveva cominciato con un delizioso pensiero
nei primi giorni della gravidanza. All'entrare di suo suocero non si mosse. Il suo contegno, senza essere né sgarbato né
umile, rimase d'una freddezza impassibile. Pareva dire nel suo silenzio freddo e sdegnoso: "Ecco la vostra schiava, che
ha creduto per un momento di poter fuggire. Punitela". Arabella non disse, né pensò queste cose; ma il vecchio suocero
gliele lesse sul viso.
"La ringrazio d'essere tornata" disse, appoggiandosi al tavolino colle braccia, per resistere a un tremito nervoso
che lo indeboliva, guardando dall'alto sui capelli di sua nuora accuratamente ricomposti. E come si appoggiava al
tavolino per non cadere, così cercò colla voce di appoggiarsi sulle sillabe delle parole per non tradire la debolezza della
sua commozione. "È sempre una bella cosa aggiustare i nostri guai in famiglia. Ha parlato colla sua buona mamma?"
Arabella accennò di sì col capo. Rimase chiusa e raccolta intorno al suo dolore il tempo di vincere la
ripugnanza al parlare e dopo aver inghiottito qualche cosa di duro che minacciò soffocarla, sollevò penosamente le
palpebre, allargò gli occhi sereni, pieni di una timida sommissione, in faccia a suo suocero e balbettò con un leggiero
movimento della bocca:
"Le domando scusa..."
Egli, che non si aspettava quest'atto di eccessiva umiliazione, rimase ancora più sconcertato. Mosse un poco
una mano in aria e voltando la faccia verso la finestra, balbettò:
"Non tocca, veramente, non tocca a lei chiedere scusa. Dicevo soltanto che non bisogna dar occasione di
parlare alla gente... La gente è cattiva."
Arabella non disse nulla, ma si raccolse con tutte le forza della sua vita sul lavoruccio che teneva nelle mani
come se vi si aggrappasse per non precipitare in un abisso senza fondo. La sua testa prese una immobilità di pietra.
"L'avverto che fin da stamattina ho ritirato la querela contro il Beretta. Il questore lo metterà in libertà oggi o
domani. Vede che ho tenuto conto della raccomandazione... Verrà a ringraziarla…"
"A ringraziar me?"
"Sì, perché deve soltanto a lei, se ho potuto dimenticare quel che ha fatto e quel che ha detto contro di me."
"La ringrazio..." rispose Arabella freddissimamente.
"E ora, mia cara, parliamo un poco degli affari nostri mentre siamo soli..."
Tirò vicino una sedia e vi si pose, sedendo sullo spigolo, mentre essa, ritraendo un poco la testa nelle spalle,
parve dire: "Sono qui".
Egli si tolse lentamente i guanti, li distese sui ginocchi accomodandoli l'uno sull'altro come se cercasse di farli
combaciare, e, mentre andava così stirandoli e carezzandoli, seguitò sottovoce, lentamente, parlando quasi a se stesso:
"Senta, cara Arabella, io non sono qui per difendere Lorenzo; anzi... Non voglio nemmeno sapere quanto di
vero ci sia in ciò che la gente racconta della scena di ieri sera. Non andrò a dare un titolo, il titolo che si merita,
all'azione malvagia di certe persone che hanno voluto sotto apparenza di zelo e di benevolenza avvelenare il suo cuore.
Lei sa se io soffro meno di lei di questo stato di cose; lei sa tutti gli sforzi che ho fatto perché Lorenzo lasciasse le
vecchie abitudini: anzi la mia speranza nel dargli in moglie una donnina savia e giudiziosa fu appunto d'avere in lei un
aiuto... non è così? Sfortunatamente una fila di sciagurate circostanze hanno guastato i nostri progetti. Un triste
equivoco, un sinistro accidente, una lunga malattia, una cara speranza perduta e più di tutto l'invidia e la cattiveria della
gente hanno concorso a sviare Lorenzo dalla sua casa. So chi si è presa la bella parte di spia, so chi ha tutto l'interesse
che Lorenzo torni alla vita dissipata; io non lo difendo, tutt'altro; ma forse egli non è il colpevole maggiore. Amen!
non amareggiamoci per ciò che non si è potuto ottenere, figliuola, e vediamo di riparare, di lavorare per l'avvenire.
Lei ha avuto la bontà di tornare in questa casa ed è già un bel passo... In quanto a quella donna ho già pensato a porvi
rimedio. Tolta l'occasione, tolto il peccato..."
"E resta la nausea" scappò detto alla poverina, che pure aveva promesso di non parlare.
"Sì, per un poco, è naturale, e io non pretendo che lei abbia a dimenticare e a perdonare così subito. Il cuore è
cuore e quel signore deve capire che non si offende una donna onesta, savia, amorosa, senza soffrirne le conseguenze.
Io non sono venuto a parlare di perdono. Il perdono se lo deve meritare monsú Io sono venuto per rimettere sul
tappeto la questione della campagna. Tutto è già pronto. Domani lei può venir via con me e ritirarsi in un bel sito quieto,
che ho scelto apposta, sul lago, dove potrà rimanere tutta l'estate, lontana dai pettegolezzi e dall'insidie della gente,
finché avrà trovata la forza di perdonare del tutto. Conduca con sé l'Augusta, conduca pure la sua buona mamma se vuol
venire, e lasci fare a me tutto il resto. Sul lago troverà una bella casa, un gran riposo, molti fiori: e, se mi permetterà,
verrò a trovarla. O se non vorrà veder nessuno, faremo tutto ciò che piacerà a lei. Se invece preferisce andare qualche
mese alle Cascine, disponga pure. Avevo pensato che, quando si trattasse della salute dell'anima e del corpo, fin le sue
buone suore di Cremenno le darebbero ospizio per qualche tempo. Io non metto condizioni. Ciò che importa è che lei
lasci subito Milano, dove son troppo vive le impressioni, dove c'è troppa gente interessata a turbare la sua pace e a farle
del male. In quanto a Lorenzo tra un mese, tra due deciderà lei quel che si merita."
"Io non devo né posso avere una volontà" riprese a dire malinconicamente Arabella; "andiamo pure in
campagna o restiamo qua, per me è lo stesso. Rientrando in questa casa, io ho lasciato alla porta ogni mia volontà. Dia
pure gli ordini che crede..."
E chinando il capo e accostando sempre più il ricamo agli occhi, come se con quel movimento volesse opporre
un argine a un torrente di lagrime che, suo malgrado, le gonfiava gli occhi, si chiuse di nuovo nel suo doloroso silenzio.
"Non sono ordini…" sillabò timidamente il suocero, guardandosi la punta della mano, reagendo anche lui a un
piccolo singhiozzo, che urtava lo stomaco.
"Del resto..." essa riprese senza alzare gli occhi "sento che non potrà durar molto."
Queste parole, dette senza rancore e senza amarezza, avvilirono del tutto il suocero affezionato, che osservando
la pallidezza mortale di lei, il profilo assottigliato, l'occhio languido e pauroso, la respirazione affannosa, il tremito della
persona che pareva in preda a una febbre nervosa, non seppe respingere un lugubre presentimento. Sentì ingrossare la
passione, alzò una mano lentamente, con un tremito: la posò sulla testa di lei, ne carezzò leggermente i capelli, come se
mostrasse di raccomodarli sulla fronte, e, vincendo una mortale debolezza, mormorò con voce d'uomo che parla in
sogno:
"Lei non deve parlare così, Arabella; noi le vogliamo bene."
Arabella mosse il capo con due piccole scosse di ribellione, che parvero dire: "Grazie del vostro bene..."
Il vecchio intese il significato di quella mossa, e scendendo colla stessa mano a stringere una mano di lei, gliela
posò sul tavolino, tenendola sepolta e stretta nella sua, mentre la sua testa piccina e espressiva s'infiammava d'una
vampa improvvisa.
"Sì, le vogliamo bene... È forse una brutta maniera di voler bene, e lei meritava meglio; ma può dire che
abbiamo operato con cattive intenzioni? Io non difendo Lorenzo, e anch'io mi sento molto colpevole; ma si guardi
intorno e dica se chi pensò a prepararle questa casa merita veramente il titolo di avaro, di affarista, di speculatore, di
ladro, di svergognato che tutti gli dànno. Ne' miei affari la prima regola è l'aritmetica: è naturale. Ma può mia nuora,
scusi, può la famiglia Botta dimostrare che io ho fatto i conti sempre a mio vantaggio? Se io fossi proprio quell'usuraio
che dicono, il signor Paolino non avrebbe scritto otto giorni fa una lettera in cui mi pregava di un soccorso: e l'ho fatto
volentieri. Anzi voglio che essa abbia la prova che non invento..." Così dicendo levò il grosso portafoglio da cui trasse
alcune carte.
"Lo so, lo so" si affrettò a dire Arabella, socchiudendo gli occhi.
"No, no, lei deve vedere e toccare con mano" insistette lui, mettendo sul tavolino delle lettere e delle cambiali.
"Ho diritto di essere giudicato sulla base dei fatti, poiché lei ha creduto alle voci della gente e alle calunnie dei miei
parenti. Chi mandava in prigione per poche bottiglie di vino il Berretta, rinnovava al signor Botta dei titoli che
rappresentano un valore di venticinquemila lire. Mi sarebbe stato così facile passare per un tiranno col signor Botta; ma
non l'ho fatto perché ripeto, il mio abaco non è soltanto pieno di numeri."
"Scusi" disse Arabella alzandosi. "Non so perché lei mi fa questo discorso ch'io non sono in grado di capire.
Me ne ha dette abbastanza la mamma e vede che sono tornata."
"Io volevo dimostrarle che non è soltanto l'interesse che ci fa parlare..." soggiunse sottovoce il vecchio
suocero. "Non voglio nemmeno che lei si consideri come una nostra schiava... Guardi. Consegno a lei questo mio
credito, queste mie carte. Le faccia vedere a una persona pratica, di sua fiducia: ne discorra col suo padrino, colla sua
mamma, con chi vuol lei, e faccia di queste carte quel che vuol lei, le stracci, le abbruci..."
Arabella rifiutò di ricevere le tre o quattro cambiali, che il suocero ad ogni costo voleva farle accettare, e ciò
finì coll'irritarlo. In preda a un tremito convulso, il vecchio aprì il cassetto del tavolino da lavoro, vi cacciò le carte
dentro, richiuse con furia, rosso in viso, si alzò, cercò il cappello e, inchinandosi in atto di licenziarsi, balbettò,
mozzicando le parole:
"Faccia come crede, signora, e perdoni se non abbiamo saputo renderla felice."
"Senta, signore..." interruppe Arabella, raccogliendosi da quello stato di neghittosa rassegnazione, in cui si era
ridotta per sua difesa.
"Lei è libera. Se crede, può andare oggi stesso con sua madre."
"Io son tornata…" provò a soggiungere la giovane.
"Lei è tornata come torna una schiava, e io voglio dimostrarle che a questi patti non accetto il suo sacrificio.
Vada e dica pure che l'abbiamo trattata male, dica pure che in casa nostra non ha mangiato che pane e veleno, dica pure
che siamo egoisti legati all'interesse, ma non ci obblighi a mantenerla come una schiava."
"Senta, signore..." interruppe Arabella, raccogliendo il fascetto delle cambiali e avvicinandosi al vecchio offeso
con un contegno tra il rispettoso e il mortificato, non perché avesse qualche cosa da opporre, ma per una nuova paura
che ne derivassero più gravi e più oscure complicazioni. Un malato non teme tanto i mali che ha, quanto quelli che ne
possono derivare.
In fondo al suo risentimento, la coscienza onesta e chiara non rifuggiva dal riconoscere che, per quanti torti
avesse ricevuto in casa Maccagno, suo suocero s'era mostrato verso di lei generoso e buono, e che l'offenderlo e il
licenziarsi da lui con una dura parola, oltre al non riparare nulla, metteva lei nella condizione di negare la giustizia.
Per questo si mosse a trattenerlo, e fu questo stesso senso di giustizia che la persuase a mostrarsi più
indulgente:
"Senta, papà... abbia compassione di me. Vede che io non so quasi parlare..."
"Tu mi domandi della compassione; ma, cara figliuola mia, sei tu che devi avere un po' di compassione di
questo povero vecchio che tutti prendono a perseguitare…" Così proruppe con un improvviso mutamento di voce il
signor Tognino, tornando in mezzo al salotto, passando in fretta le mani sugli occhi per dissipare una nebbia, umida di
lagrime, segno di debolezza e di stanchezza morale, curvando il capo e la persona alla presenza di una donna che egli
collocava molto in alto ne' suoi pensieri. E stretta la mano di Arabella, condusse questa a sedere sul piccolo canapè,
dove cercò di continuare un discorso difficile e pesante, dal quale gli sfuggivano idee e parole. Lottò un pezzo colla sua
incapacità, chiudendo la bocca al singhiozzo, premendo il fazzoletto sulle pupille oscure e dense, crollando rapido la
testa come se compatisse sé stesso.
Finalmente, dopo aver portata due volte la mano delicata di Arabella alle labbra, mormorò:
"Abbi pazienza..."
"Si sente male?"
"Oh sì, molto, qui..." disse, battendo colla mano il petto.
"Se io ho potuto dire qualche cosa di spiacevole..." balbettò Arabella, fissando lo sguardo sul viso pallido del
vecchio.
"No, no, povera figliuola."
Arabella si raccolse in una penosa concentrazione davanti all'improvviso trasfigurarsi di un uomo che due
minuti prima aveva visto nel pieno vigore del suo carattere ardente e tenace. Una di quelle voci improvvise, che nel
cuore dei buoni sono annunci di ignote verità, sorse a domandarle, suscitando nell'animo suo un senso quasi di stupore,
da qual parte fosse il maggior dolore e a chi tra lor due toccasse d'aver più carità e più compassione. Un occhio malato
stenta a vedere il male degli altri.
La ragione umana, che per giustificare i nostri patimenti ha bisogno di cercare un tiranno ed è quasi sempre
fortunata di trovarne o d'inventarne uno che basta, si turba e non osa credere quando vede le vittime farsi male tra loro.
Arabella, innanzi alle sofferenze e alle lagrime di un uomo che la fortuna aveva abituato a vincere, si domandò,
confusamente e rapidamente (come sono tutti i colloqui che facciamo con noi stessi), se per caso essa non aveva
abusato della sua debolezza. La puntura velenosa d'un'ape moribonda può uccidere un leone. Forse aveva detto delle
inutili asprezze a suo suocero, che verso di lei si era mostrato sempre buono e amoroso. Forse aveva ragione la povera
mamma. Essa non vedeva che sé...
Al venir meno dell'orgoglio, che l'aveva sostenuta in questa fiera battaglia, si spaventò a un tratto come un
assalito che nel furore della mischia si trova di aver oltrepassato i limiti della difesa e d'aver infierito crudelmente e
inutilmente su degli innocenti. Sentì che ora toccava a lei dir qualche cosa di meno amaro, di condurre il discorso a una
buona conclusione. Dal momento che aveva accettato di tornare in casa, non doveva starvi rinchiusa come una fiera
irritata, oh Dio!... essa non aveva il cuore di una fiera. Chi l'aveva resa superba e cattiva?
"Se le pare che la campagna possa far bene a tutti" prese a dire sottovoce "dal momento che ho accettato di
rientrare in questa casa... gli obblighi di riconoscenza che ho verso di lei, mio benefattore... Se c'è speranza ch'io possa
fare ancora del bene a qualcuno... insomma io non mi oppongo, disponga lei come crede meglio."
"Che tu sia benedetta!" ripigliò con più calore il vecchio, facendosi più acceso in volto. "So che tu sei buona,
Arabella, e se non fosse per la tua bontà, io non vorrei soffrire quel che soffro. Tutti son cattivi con me, tutti! È una
congiura di tutti contro uno solo. E anche lui s'è unito a' miei nemici, anche lui mette alla porta suo padre. M'ha ferito,
qui, con un coltello. E domani mi trascineranno davanti ai tribunali, mostrandomi come una belva feroce dentro una
gabbia. È un intrigo mostruoso di preti, di avvocati, di lazzaroni, di parenti, di amici, di nemici, di donnaccie, tutti
contro un povero vecchio... e anche lui ci sarà a gridare: dàlli, dàlli al ladro!"
Un cupo e profondo sospiro interruppe la violenza di questo discorso, che Arabella cominciava ad ascoltare
con mesta attenzione.
"Non ha egli alzata la mano sopra suo padre?" continuò il vecchio parlando con foga accorata. "Andate via
tutti, lasciatemi qui solo a vivere come un cane, solo contro tutta la canaglia di Milano, e così avrò lavorato tutta la mia
vita per non raccogliere che odio, improperi, maledizioni, ingratitudine, e per essere messo alla porta da quelli che
amo..."
"Papà..." interruppe Arabella con un moto di terrore, vedendo il volto del vecchio infiammarsi di nuovo; ma
come se egli parlasse a una turba ch'egli solo vedeva:
"Andate, stampate sui muri che io sono un ladro, che ho rubato, che ho avvelenato, che ho bevuto il sangue dei
poveri, aizzatemi contro i cani di Milano, fatemi maledire dai miei figli".
"Ma no..." tornò a esclamare Arabella con un sincero abbandono di pietà, cercando di sviare il povero vecchio
da una corrente che lo trascinava alla disperazione; ma l'orgasmo fu più forte:
"So che mi avete maledetto" egli disse "so che non mi volete più; furono i preti che v'istigarono a odiarmi.
Pigliatevi i miei denari, buttatemi su una strada. Alla gente io rido in faccia, ma non posso far senza della benevolenza
de' miei figliuoli... Questa mi è necessaria più del pane..."
E il vecchio affarista, trascinato ormai dalla sua stessa energia, non seppe più opporsi al torrente dei mali che
da tre mesi andava urtando contro la sua vita, battendone e scassinandone gli argini di granito. Come per una breccia
aperta, l'onda si riversò, travolgendo le sponde, e si dilagò in un mare di dolore.
Arabella non aveva mai visto un bambino piangere e contorcersi nel suo dolore come vide a un tratto un
vecchio di sessantatré anni, curvo, quasi rannicchiato sopra se stesso, colle mani nei pochi capelli bianchi e il volto
nascosto contro lo schienale del divano. Tale fu la sorpresa, per non dire la paura, che non seppe resistere, si mosse, si
chinò verso il povero afflitto, cercò nel fondo più buono della sua natura una parola buona.
"Non dica, papà, che noi le vogliamo male. Tutti possiamo sbagliare nella nostra vita: e non credo che Lorenzo
abbia potuto dire col cuore una parola cattiva. In quanto a me, se le pare che abbia giudicato troppo severamente, son
pronta a farne ammenda. Siamo giovani, ci manca l'esperienza... Ma ella troverà sempre ne' suoi figliuoli amore e
indulgenza."
Che cosa disse di più? parlava come per incanto, cedendo a una misteriosa suggestione di benevolenza, non
accorgendosi (ed è anche questo un vantaggio dei buoni) che nella sua carità abbracciava nel vecchio addolorato anche
la causa che lo faceva soffrire.
"So che tu sei buona, figliuola, e che non hai coraggio di maledire un povero vecchio. S'io fossi anche cento
volte più colpevole, troverei sempre un po' di compatimento nella mia buona Arabella. Sento che fu Dio che ti ha
mandata sulla mia strada. Me ne sono accorto fin dalle prime volte che ti ho incontrata sulla strada delle Cascine. Una
voce qua dentro mi disse subito che tu saresti stata la luce della mia vita e della mia casa. Mi parve d'allora di aver
trovata per la prima volta la ragione della mia esistenza. Soltanto d'allora cominciai a vivere per qualcheduno, per
qualche cosa. Tu hai visto che a questa ragione ho sacrificato molti interessi e molti diritti. Io non fui più io. E ieri sera,
quando sono tornato e che non ti ho trovata più, sentendomi quasi giudicato ed esecrato da te, ho provato un tal dolore
al cuore che ho creduto di morire. Il pensiero che la gente possa farti del male per cagion mia non mi lascia più dormire
la notte: è una vita troppo di tormento che mi farà morire. E pazienza! ma non dirmi che mi vuoi male, che mi
disprezzi..."
"Io?" uscì fuori a dire con voce esaltata Arabella, ritraendosi un poco colla persona.
Egli afferrò le mani di lei e tenendola così prigioniera:
"Tutto si spezza nelle mie mani", continuò "tutto si spezza dentro di me. Son più che un uomo malato, sono un
uomo che si sfascia. Senti, ho la febbre. Non ho più forza. Vedo oscuro, son vecchio, son stanco, son cattivo... Ho paura
di morir solo, come un cane..."
Arabella, col volto afflitto da una penosa incertezza, cercò una parola d'incoraggiamento; ma le parve di capire
che il viso poco prima così infocato del vecchio si coprisse d'un pallore livido, in cui i lineamenti s'indurivano in una
rigidezza quasi mortale.
"Son cattivo, so che son cattivo..." seguitò con lenti sospiri, parlando quasi nelle mani di sua nuora. "Ma tu sei
buona e potrai insegnarmi come si fa a vivere bene. Farò tutto ciò che mi dirai di fare. Andremo via, in campagna,
lontani dal mondo, la mia volontà sarà la tua volontà. Se dirai: ' Cediamo tutto ' io cederò tutto, contento di dividere con
te un boccone di pane..."
Arabella non afferrava ancor bene il valore di queste strane parole, che somigliavano a una confessione.
Sentendone le mani ardenti, vedendo il pallore mortale, andava a pensare che il vecchio delirasse.
Quel non so che di religioso e di materno, ch'era nel fondo dell'indole sua, fu tuttavia profondamente toccato
dal pianto e dai sospiri del povero vecchio, che invocava pietà e misericordia. È vero: tutti lo respingevano; tutti si
ergevano suoi giudici e suoi persecutori. Lo vedeva ora così malato, così abbattuto...
"Via, si faccia animo, papà, e disponga pure di me fin dove posso essere utile. Non c'è male per quanto grande,
a cui Dio non trovi un rimedio ancor più grande. Lei è proprio malato, vedo bene. Ha bisogno di riposo, di tranquillità
d'animo. Ha la febbre, sento. Anche il suo aspetto mi dice che non si sente bene. Devo chiamare l'Augusta?"
Il vecchio fece segno di no.
"Lei si sente male..."
Arabella cominciò a tremare, e cercò svincolarsi per correre a chiamar gente; ma lui la trattenne forte per un
lembo del vestito: e mormorando parole grosse e confuse, le fece capire che voleva scrivere.
"Scrivere" e indicò col dito un calamaio sul tavolino da lavoro.
Arabella accostò il tavolino, aprì il calamaio, stese un foglio, mise la penna in mano al vecchio, obbedendo in
preda a una convulsa agitazione ai cenni di quel povero uomo, che la tratteneva sempre per il lembo del vestito.
"Passa, passa..." mormorò con voce di fiera malinconia il vecchio come se si riavesse da una momentanea
vertigine.
Appoggiò la testa alla mano sinistra, strappando con l'altra il vestito della giovane, che s'inginocchiò, cedendo
quasi all'invito d'un comando interiore.
"Ho da chiamare qualcuno?"
"No, sto bene. Sta qui."
E dopo aver arzigogolato un poco colla penna, il vecchio malato cominciò a scrivere in righe oblique
mostrando nella contrazione dolorosa del viso duro e pallidissimo lo sforzo della fuggente volontà
Arabella, che sentivasi molle il viso di lagrime, vide che a un certo punto la mano del vecchio s'irrigidì. Fu per
gettare un grido di avviso; ma egli se ne accorse. Svegliandosi, la guardò teneramente, mosse le labbra a un sorriso
morto, e allungando la mano a riprendere quella di Arabella, dopo un lungo sforzo per formulare la parola, disse:
"Prega..."
Arabella aprì le braccia e sorresse il corpo cadente, mentre cogli occhi pareva chiedere soccorso intorno a sé.
Quando si accorse che il malato veniva meno, non trovando in se stessa la forza né di gridare, né di sollevarsi, allungò
la mano fino a toccare il bottone del campanello elettrico, e riempì la casa d'uno squillo lungo e spaventato. Sentì
correre gente. Entrò l'Augusta, che visto il viso irrigidito del vecchio e gli occhi spaventati della signora corse fuori a
chiamar la Gioconda.
Le due donne prestarono i primi soccorsi: finché qualche vicino avvertì il portinaio e si mandò per il dottore.
VIII. LA VITA È UNA TRAPPOLA
Don Giosuè stava cenando tutto solo in canonica con un boccone di merluzzo e un'unghia di formaggio,
quando entrarono a dirgli che il signor Tognino era in punto di morte e desiderava parlargli.
"Parlare a me? in punto di morte? il sor Tognino?"
Non volle credere, finché non gli fu mostrato un biglietto d'Arabella, figlia di parenti che egli non aveva mai
voluto riconoscere, ma della quale il prevosto gli diceva un mondo di bene.
Lasciò il merluzzo, prese cappa e cappello e uscì dietro all'uomo del biglietto, mentre già incominciava a
imbrunire.
Strada facendo, sentì che trattavasi di un mezzo colpo apoplettico.
"Anche lui! ma non aveva fatto un patto col diavolo?"
"La vita è una trappola" finì col conchiudere, riassumendo in un'immagine chiara e succinta tutta l'essenza
antropologica della poca filosofia imparata in Seminario. Dio non paga il sabato, ma il sor Tognino non aveva visto
nemmeno il lunedì, se questo avviso non era uno scherzo. La roba rubata gli era rimasta lì, al pomo di Adamo. E se si
doveva credere che aveva desiderato di vedere un prete, e tra i preti proprio lui, don Giosuè, anche questo poteva essere
un segno di resipiscenza, effetto del dito di Dio, di quel tal dito lungo che arriva dappertutto...
Giunto in via Torino, fu accompagnato di sopra, dove si trovò in mezzo ai parenti raccolti in una stanza
semibuia, in un sommesso complotto. C'erano i Borrola, c'era il notaio Baltresca, c'erano delle signore, molta gente
nell'ombra, su per le scale, in anticamera. Il malato era stato per il momento collocato nel letto degli sposi, perché il
caso grave non permetteva di trasportarlo nelle sue stanze. A nome dei parenti l'impresario cavalier Borrola tirò in
disparte il prete e gli fece capire che bisognava far fare al moribondo qualche dichiarazione: e per questo i parenti
desideravano che il malato fosse assistito da un sacerdote di confidenza che sapesse le cose: e stava per dire il mestiere.
Ma il momento era troppo solenne perché il libero pensatore cavalier Mauro Borrola osasse fare dell'intransigenza.
Quando è in giuoco quasi un mezzo milione, c'è posto per la bottega di tutti.
Il povero signor Tognino giaceva nel letto degli sposi (chi gliel'avrebbe detto?) col capo fasciato di ghiaccio,
colla testa rossa e congestionata, colla pelle del viso tesa e lucida, l'occhio spento, il respiro corto e pesante, il muso
sporgente in una espressione di dispetto.
Il canonico, abituato a strologare sui malati, capì subito che il brav'uomo aveva bell'e goduta la sua eredità. La
farina del diavolo... Ma si affrettò a suscitare contro le insidiose suggestioni dell'orgoglio e dell'interesse mondano un
senso cristiano di carità e di mansuetudine, che non mancava nell'animo del vecchio prete burbero e arruffato, ma ci
stava come un vecchio orologio guasto, che da quarant'anni non segnava le ore.
Si accostò al letto, provò a prendere e a stringere la mano dell'infermo: si chinò sul cuscino, e ammorbidendo la
voce a un tono di tenerezza, a un belato di vecchia pecora, che a lui stesso parve una canzonatura, provò a chiamare:
"Sor Tognino..."
Il malato aprì stentatamente gli occhi, li tenne fissi un pezzo col barlume confuso del moribondo nella faccia
rugosa e intrigata del canonico, diè segno di ravvisare e di capire: e li richiuse con una languida espressione di dolore e
d'impotenza. La lingua ingrossata non poté articolare sillaba.
Anche il prete nel mezzo minuto che stette a guardare negli occhi il suo dannato avversario, sentì qualche cosa
d'insolito muoversi di dentro, sotto il peso dei giudizi fatti: e il malinconico paragone della trappola tornò a balenargli
nella fantasia. Il vecchio orologio guasto mandò dei rantoli.
"Il caso è grave, senza dubbio..." disse nell'uscire ai parenti che lo circondarono.
"È necessario ch'egli metta in ordine i suoi interessi" tornò a insistere il cavalier Borrola.
"Sicuro, tutti più o meno ci siamo implicati" entrò a dire il Botola, che, proprio quella mattina, facendo uso
della carta bianca concessagli dal Maccagno, aveva anticipato dei denari a Olimpia.
"Don Giosuè," riprese l'impresario "coll'autorità morale del ministro di Dio veda di raccogliere qualche
preziosa confessione o dichiarazione o assentimento a proposito dell'eredità Ratta."
"Io non sono della parrocchia e non posso ingerirmi. Si potrebbe avvertire subito don Felice, il prevosto, o
l'avvocato."
"Allora non perdiamo tempo" disse l'impresario: "lei vada a parlar coll'avvocato; io corro a chiamare il
confessore."
Sulla porta era raccolto un mucchietto di gente, che tempestavano di domande la portinaia. Vedendo uscir don
Giosuè, gli furono intorno come mosconi.
"Una trappola, una trappola" seguitò un pezzo a ripetere in cuor suo il canonico, camminando tutto ricurvo, nel
suo vecchio mantello, senza veder la gente che gli veniva incontro. "Colla morte non si scherza, figliuoli. È la gran
ragioniera che accomoda i conti con un bel colpo di falce, zac, trac, che non guarda in faccia a nessuno, né al grasso né
al magro, né al povero, né al ricco, né al lupo, né alla pecora, né al cristiano, né all'ebreo. È la grande liquidazione, il
gran ribasso, e per molti il fallimento con bancarotta. Non si capisce come ci sia della gente attaccata alla roba, alla
vanità, alla carne, quando dietro l'uscio c'è sempre la gran Secca che aspetta col falcetto in mano. Ma siam tutti così,
l'orgoglio ci inasinisce tutti a una maniera. Statue di fango su piedestalli di superbia!..."
E come se una misteriosa mano facesse scattare una sveglia, che da quarant'anni non suonava più nel vecchio
orologio, don Giosuè Pianelli, coll'immagine del sor Tognino sotto gli occhi, stentò a dormire quella notte. "Una
trappola!"
Il Botola, preoccupato anche lui di piccoli affari mondani, non potendo far parlare il padre, andò in cerca del
figlio.
Lorenzo, dopo la brutta scena con suo padre, avvilito, amareggiato, conturbato la prima volta in vita sua da un
dispetto vero e profondo, sentendosi debole e incapace di continuare in una lotta disuguale contro un uomo più forte di
lui, disgustato fortemente anche per compassione di Arabella, ch'egli giudicava strumento e vittima in mano di suo
padre, non sapendo dove andare e che cosa fare della sua vita indebitata, senza babbo e senza moglie, si lasciò
trascinare dall'abitudine al Piccione Club, dove trovò Max, che lo condusse a far colazione al Cova. Mangiarono
dell'orso, affogandolo nel medoc. Dal Cova, col di Brienne e con Max, fece una visita alle attrici del teatro Pezzana, un
baraccone di legno, impeciato e spalmato di peccati mortali. Tornò al club, cacciò il capo nella sala di scherma,
soffermandosi prima dal Campari a ingoiare un assenzio; per antipasto vinse una dozzina di lire a Max in una serie di
piccole partite a scopa, finché venne l'ora di andare a pranzo.
Noleggiata una vettura si fecero trascinare alla Cagnola, dove il falso barolo e il falso marsala finirono
coll'affogare un'anatra che l'oste servì per selvatica.
Il Botola, dopo averlo cercato inutilmente al club, al caffè, da Olimpia, dal Campari e perfino in Borsa, fu
abbastanza fortunato di trovarlo verso le dieci e mezzo solo, davanti a un bicchierino di cognac, seduto a un tavolino del
caffè Biffi, quasi nel mezzo della Galleria, raccolto come un filosofo pessimista a meditare sulla caducità delle cose
umane.
Non fu troppo agevole per il vecchio pignoratario di fargli intendere la brutta notizia. Il medico, il marsala il
cognac, l'orso e l'anatra della Cagnola combattevano una strana battaglia contro lo stomaco, mandando aliti e fumi e
vertigini al povero cervello.
Pieno e indurito come una botte, della gran lotta della vita non gli restava che un senso o per dir meglio una
reminiscenza dolorosa in fondo a quel resto di memoria che sornotava al vino e al cognac, simile al dolore d'un dente
strappato male, che lascia in bocca l'impressione di un'immensa caverna.
Attraversando con rapide vertigini le scene della sera prima, della notte in casa del pignoratario, del suo
incontro con papà, delle male parole dette e udite, uscivano come da un miscuglio oscuro di sensazioni le immagini più
vive e chiare di Olimpia e di Arabella, le vedeva cozzar tra loro, alzava una mano per separarle, mormorando parole che
arrestavano i passanti, finché crollando il capo, rideva anche lui, facendo ridere la gente col ritornello dell' " Ara,
bell'Ara discesa Cornara ..." una fanfaluca fanciullesca, che gli tornava sulla bocca per un travaso di sensazioni
lontane e recondite.
"Sono due ore che ti cerco per mare e per terra," disse il Botola "vieni, tuo padre sta male a morire."
"Il padrone sono io..." declamò tragicamente l'ubbriaco, tirando un filo delle sue scompigliate reminiscenze.
"Fossi almeno padrone delle tue gambe. È una disgrazia che tu non intenda la ragione in questo momento. Tuo
padre è agonizzante, muore, hai capito? vieni a casa."
Il vecchio cercò con forti scrolli di fargli entrare quest'idea, che come un lume attraverso le fessure d'una porta
chiusa, mentre metteva l'ubbriaco in sospetto e in pensiero di qualche cosa di strano al di fuori, non bastava a dargli
l'idea della cosa e la forza d'aprire.
"Il padrone sono..."
"Sì, sì, domani sarai padrone di tutto. Adesso vieni a casa."
E cercò di sollevarlo e di condurlo via. Lorenzo non fece resistenza, e continuando a ripetere la gran ragione
che il padrone era lui, si lasciò tirare fino a una vettura e trasportare a casa. Ai piedi delle scale parve al Botola di
scorgere negli occhi molli dello schiamazzone un barlume di malinconia, quasi una tristezza paurosa e scontrosa e colse
il momento per dirgli di nuovo che suo padre era in punto di morte. E vide allora da quegli occhi annebbiati sgorgare
lentamente e scorrere sulla pelle infocata due piccole lagrime, anch'esse del colore del cognac.
Dal pianerottolo per un breve ballatoio aperto si passava alle scale di servizio. Il Botola condusse al buio
Lorenzo per di lì, lo attaccò colle mani alla inferriata e gli disse:
"Non muoverti".
E lo lasciò a meditare al fresco, al lume delle stelle. Quando gli parve il momento, lo menò nella stanza del
moribondo. Era quasi mezzanotte. Una piccola lucerna nascosta da un paravento rompeva a mala pena le tenebre. Nella
stretta, accoccolata sul tappeto, stava Arabella. L'infermo respirava affannosamente con frequenti urti di rantoli.
Aggrappato alla sponda del letto, Lorenzo, a cui l'aria della notte aveva dissipato alquanto i fumi del vino e
dell'indigestione, con un supremo sforzo di volontà, cercò di farsi un concetto della verità, che gli si presentava coi
torbidi contorni di un sogno grave e fastidioso; e come se a poco a poco si accostasse a toccare la triste realtà, assalito
da un violentissimo colpo di disperazione, di rimorso e di sgomento, cominciò a gemere, a singhiozzare, risvegliando
Arabella, che s'era abbandonata un istante a un lento torpore.
Da tre giorni anch'essa viveva, si può dire, di un sogno torbido e senza fine. Nei brevi intervalli, in cui le era
concesso di ritrovare se stessa, come perduta e rimpicciolita in una gran scena d'uomini e di cose, un sentimento nuovo,
vago, indefinito, l'assaliva, un sentimento che non sapeva trovare la forma d'un dolore o di una paura positiva, ma che
produceva anche in lei l'effetto di una ubbriachezza strana.
Suo suocero nelle poche righe scritte coll'agonia e colla morte alle spalle, senza confessare esplicitamente i
suoi torti, pregava la nuora a trovare coi parenti e coll'avvocato un componimento amichevole: e ciò per la pace dei vivi
e dei morti.
Ogni cosa che vien dai morenti è uno stimolo di carità specialmente se chi muore ci lascia nelle mani il suo
pentimento. Nulla fa tanto bene a chi va al di là come una buona speranza. E perciò Arabella spiava e aspettava il
momento che il moribondo si risvegliasse dal suo torpore per dargli un affidamento che la pace sarebbe stata fatta. La
raccomandazione, che il vecchio peccatore aveva scritto e affidato alla sua clemenza, se la sentiva quasi ardere nel
cuore. In quest'attesa, in questo zelo pio e disinteressato di un bene supremo e urgente, ogni altra questione, ogni altro
male più remoto diventava oscuro e secondario. Essa dimenticava se stessa, il suo stato di donna avvilita e tradita, quel
che era stato ieri, quel che avrebbe dovuto essere domani.
Sei giorni durò l'agonia, durante la quale la fibra forte e resistente contrastò a oncia a oncia il terreno alla
morte.
L'infermo non risvegliavasi che a brevi e rapidi intervalli di conoscenza: e allora l'occhio estinto girava
lentamente intorno in cerca di qualche cosa, soffrendo di non trovarla; e solamente quando incontravasi nel volto
pallido di Arabella, quell'occhio pareva rischiararsi di una luce più serena, approfondirsi in un pensiero, parlare,
sorridere...
Durante quei lunghi giorni e quell'eterne notti, Arabella non si tolse i vestiti d'addosso. Quando il corpo rotto e
indolenzito dalle fatiche invocava il riposo, andava a buttarsi sul divanetto del salottino e subito il sonno la sottraeva
alle pene della realtà. Era un sonno senza visioni, chiuso, dal quale usciva ristorata per dare il cambio all'Augusta, che
con lei vegliava l'infermo.
Lorenzo si moveva intorno a lei, la rasentava, arrestavasi dietro di lei in un silenzio quasi supplichevole; ma
essa sforzavasi di non vederlo; o non ascoltava le sue parole, se non come si ascolta uno sconosciuto mal vestito, che ci
siede vicino durante un viaggio noioso.
Gente andava e veniva per la casa ad ogni ora, di giorno e di notte. Mamma Beatrice rimase colla figliuola. La
zia Sidonia, messo in disparte il risentimento, trovò modo di collocarsi nello studio di Lorenzo, e rimase anche lei in
attesa d'una catastrofe, che scompigliava le ire, le furie, i progetti, le speranze, i propositi nel cuore di molta gente
interessata e già legata in un'azione comune. Un treno in moto e spinto a grande velocità non urta contro un muro senza
dare una scossa a chi viaggia. Così avviene delle idee che urtano in una contraddizione.
L'avvocato, don Giosuè, i Borrola, i Ratta, e gli altri tutti, che avevano un interesse nella causa contro un uomo
vivo, non sapevano rifare sopra un uomo morto una procedura e un'azione che contentasse tutti i gusti; al punto che, se
molti risero e trionfarono di vedere un ladro e un birbone punito dalla mano di Dio, molti altri, e tra questi l'Angiolina,
rimasero sulle prime scornati e dispiacenti, quasi che Tognino, col morire tutto a un tratto, avesse voluto giocare un
ultimo tiro da furbo ai diseredati.
Le probabilità eran molte: o aveva fatto testamento o non aveva fatto testamento; o aveva nominato Lorenzo
erede universale, o aveva lasciato delle disposizioni capricciose, chiamando a parte della sostanza Ratta qualche pia
istituzione, per esempio, la Congregazione di carità; e in questo caso invece di un avversario avrebbero dovuto lottare
con due, con tre, forse con dieci, più grandi e più formidabili. Né don Giosuè, né don Felice avevan potuto cavare da
quella bocca chiusa, inchiodata dal male una parola, un segno di ravvedimento, una buona disposizione a favore dei
parenti poveri. Finalmente si seppe che Arabella aveva in mano una carta e che, parlando in segreto con don Felice,
aveva dato a capire che si sarebbe venuti a una conciliazione; insomma ci sarebbe stato qualche cosa per tutti...
La notizia uscita di bocca a don Giosuè, mentre da una parte gonfiò le speranze dei parenti più prossimi (cioè
di quelli più vicini al morto) mise in sospetto e in paura e in diffidenza tutti gli altri, che fiutarono un nuovo intrigo dei
Borrola e dei Maccagno contro i poveri Ratta.
Se questa circostanza d'una nuova carta aveva un valore, c'era a temere che i parenti ricchi e forti facessero la
parte del leone a scapito dei parenti più poveri. Aquilino fu preso in mezzo e incaricato dai Ratta di parlarne pulitamente
colla buona signora, per interessarla a impedire qualche nuovo ladroneggio. E in mezzo a questi oscuri e sommessi
intrighi, per tutto il tempo che Tognin Maccagno litigò colla morte, fu un continuo correre di gente presso il notaio,
presso l'avvocato, presso i preti, un gran discorrere nelle osterie, nelle anticamere, sui pianerottoli, un segreto congiurare
di furbi che facevan gli ingenui e di ingenui che si lusingavano d'essere più avveduti dei furbi.
Arabella assistette con fredda mestizia e con amaro disprezzo a questa nuova contraddanza di interessi intorno
a un letto di morte: e mentre veniva meno nel suo cuore la stima verso gli uomini, parevale che, in mezzo a tante
maschere, il morente fosse il più semplice e il più naturale. La morte, se non altro, è sincera.
L'ultima notte l'infermo dormiva di quel sonno chiuso e pesante, che non è ancora la morte, ma già non è più il
patimento, quando a un tratto parve ad Arabella, che vegliava sola accanto al letto, imbacuccata in un suo scialle,
nell'ombra densa dei mobili, che il malato alzasse una mano e chiamasse.
Si mosse, si accostò, abbassò la testa e nominando Gesù e Maria, pronunciò qualche frase di consolazione. Egli
mosse con un supremo sforzo la testa, e afferrata la mano della nuora, la strinse con un fuggevole vigore, mandando
fuori delle parole sconnesse che parevano gemiti.
Cercando d'interpretare i monosillabi di quel confuso discorso, essa suggerì delle questioni, a ciascuna delle
quali l'infermo rispose con una leggiera stretta di mano. "Voleva che i parenti gli perdonassero? era pentito? era
rassegnato alla volontà di Dio?" e altre di quelle frasi che si prestano volentieri ai morenti negli estremi dibattiti, quando
la nostra ragione è chiamata a pensare per una ragione che fugge.
Il signor Tognino rispose sempre di sì; ma una parola più forte delle altre insisteva a ritornare e a sornotare in
quel suo sconnesso monologo, che Arabella non sapeva ricomporre e interpretare. Una volta uscì il nome di Ferruccio.
"Me lo raccomanda? non lo abbandoneremo..."
L'occhio dell'infermo rispose con un lungo raggio di benevolenza. Poi a un tratto la fronte si oscurò come sotto
a un nuvolo di tristezza. Con un ultimo sforzo nominò la Marietta... Ma Arabella non afferrò il senso di quelle ultime
voci fioche e singhiozzanti. Era l'agonia.
Il signor Tognino Maccagno morì tranquillamente nelle prime ore d'una bella mattina d'aprile.
IX. I FIORI DEL BENE
Un modesto cartello sulla porta della chiesa raccomandò alla misericordia di Dio l'anima d'un uomo "morto
beneficando nell'ancor verde età di anni 63".
Al funerale accorsero quasi tutti i parenti e le persone che avevano avuto col defunto qualche rapporto di buona
o cattiva amicizia. Don Felice e don Giosuè persuasero gli animi più irritati a deporre davanti a un cataletto i vecchi
rancori e a sperare in un amichevole aggiustamento, del quale fu per desiderio della signora Arabella incaricato lo stesso
avvocato Baruffa.
Prove positive che il defunto avesse carpito un testamento nessuno le possedeva. Il continuare in una causa
senza fondamento pareva ai più una faccenda arrischiata. L'idea della conciliazione e di un aggiustamento persuase di
più. Si diceva che a Lorenzo il vecchio padre sdegnato non avesse lasciata che la parte legittima della sostanza
Maccagno; e che il resto, comprese le case e i fondi di provenienza Ratta, andasse tutto alla nuora.
Così il testatore, in alcune carte consegnate negli ultimi momenti al notaio Baltresca, aveva creduto di castigare
un figlio ingrato ed irriverente e di dare un'ultima testimonianza d'affetto a una creatura che avrebbe continuato a
volergli bene.
Quando il feretro stava per uscire dalla casa, arrivò un gran paniere di fiori. Il giardiniere della villa di
Tremezzo, obbedendo agli ordini, mandava le più belle rose di primavera. Questi fiori, che un morto offriva alla sua
infermiera, Arabella fece spargere sulla cassa e sul carro.
Sfinita da una settimana di veglie e di commozioni, mentre portavano il pover'uomo a seppellire, raccolse
alcune cosuccie e si preparò a partire per le Cascine. Papà Botta si offrì di accompagnarla. Essa non aveva la testa per
intendere altri discorsi e si limitò a scrivere poche righe all'avvocato e al prevosto, pregandoli di avviare quelle pratiche
che potessero più facilmente affrettare una conciliazione.
Di Lorenzo non una parola.
Lasciò la casa in custodia delle donne e venne via col sentimento di commiserazione, che ci accompagna
all'uscire dal teatro, dopo aver assistito a un dramma morale che ci ha fatto piangere, e che al calar della tela non lascia
dietro di sé che il senso delle lagrime e la verità di un insegnamento.
Forse non sarebbe più tornata ad abitare in quella casa funestata dalla morte; o se anche avesse dovuto riporvi
il piede, non vi sarebbe tornata più giovine. L'esperienza, figlia del tempo, invecchia più presto di suo padre.
Ai piedi delle scale s'incontrò in Ferruccio. Da due o tre giorni il giovine cominciava a uscir dal letto, e ancor
debole e abbattuto si era rannicchiato in portineria ad aspettare la signora. Suo padre era stato messo in libertà ed egli
doveva ringraziarla dell'opera e della carità usata in questa circostanza. Voleva dimostrarle che sapeva perdonare anche
lui a chi gli aveva fatto del male e che non gli mancava la buona volontà di cooperare a quel molto di bene che si poteva
fare. Infine voleva rivederla, salutarla...
Vestita di nero, coi capelli che cascavano quasi stanchi anch'essi sul collo e sulle spalle, nel disordine che
segue alle notti mal dormite, cogli occhi abbruciati dalla veglia, la signora gli parve ingrandita e rischiarata d'una
bellezza più pura e ideale. L'apertura del vestito lasciava scoperto un poco il collo d'una candidezza d'avorio, come
d'avorio in quel nero parevano le mani.
Rivedendo nella sua dolente realtà colei che gli era apparsa trasfigurata e raggiante nella poesia del delirio,
sentì d'essere meno straniero verso la poverina. Avevano sofferto insieme.
La zia Colomba lo aveva messo a parte di tutti i particolari per cui la signora era venuta a chiedere l'ospitalità
in casa sua. Sul tavolino erano rimasti molti fogli di una lettera, scritta da lei nel furore d'uno spasimo mortale, e da quei
frammenti il giovane aveva imparato a conoscere a quali gridi si abbandoni un'anima che insorge e che ricade accasciata
sotto il peso delle cose.
La storia di questi dolori era scritta anche sul volto appassito, nella bellezza attenuata, nel disordine della
persona, nello sguardo intimidito e assente: e parlava nella voce, una voce che avreste detto venire da una donna
sopravissuta a una tremenda catastrofe.
"O Ferruccio, come sta? meglio?"
"Sissignora, sto bene."
"È pallidino ancora..."
"Sono venuto a ringraziarla."
"Suo padre?"
"Son venuto anche a nome suo..."
"Dimentichiamo..."
"Oh! ne abbiamo bisogno..."
"Pensi a guarir bene e si lasci veder presto alle Cascine."
"Lei parte…"
"È necessario: ho troppo bisogno di riposare. Venga e parleremo di questi interessi."
"Verrò, sissignora."
"Lei non ci abbandonerà..." disse, stendendogli lentamente la mano.
"Oh no!... se lei comanda..."
"Dobbiamo far del bene insieme."
Egli non poté più cucire due sillabe.
"Saluti la buona zia Colomba: verrò presto a ringraziarla."
E serrando la mano del giovine nella sua, seguì papà Paolino, che aspettava presso una vettura.
Ferruccio stette appoggiato al muro, cogli occhi incantati sulla carrozza, che si allontanava e si impiccioliva in
mezzo al via vai e al frastuono della città. Sognava ancora a occhi aperti.
PARTE QUARTA
I. LIETO MAGGIO
Il mese di maggio venne avanti col suo bel verde.
Una serie di giornate calde e ventilate aiutò la campagna a fiorire. Gli alberi erano già folti, i viali ombrosi e le
siepi mandavano il buon odore della robinia.
Arabella, che da quindici giorni trovavasi alle Cascine in casa de' suoi a rifare le forze, non cercava altro, per il
momento, se non che la lasciassero tranquilla.
Tutti parlavano intorno a lei di perdono, di pace, di conciliazione. Parenti, avvocati, sacerdoti si dimostravano
disposti ad accettare una transazione, che mentre divideva in tre parti la sostanza Ratta e assegnava ad Arabella il fondo
di San Donato, offriva alle istituzioni di carità e ai parenti poveri, in base al testamento del '78, dei compensi che
valevano di più d'ogni grassa causa.
L'ostinarsi a pretendere di più sarebbe stato per i parenti un compromettere una buona condizione, o fare quel
tal buco nell'acqua. Comunque fosse, la pace e la conciliazione non potevano fermarsi qui: e a rigore di coscienza essa
non avrebbe potuto accettare nemmeno questa parte dell'eredità, se non avesse stesa la mano a Lorenzo, che da quindici
giorni aspettava una parola di perdono. Suo suocero l'aveva beneficata per rimunerarla d'essere tornata in casa. I
benefici fatti alla famiglia Botta dal defunto (benefici che Lorenzo irritato poteva trasformare in altrettanti crediti)
presupponevano un buon accordo fra i coniugi. Il non accettare la pace con suo marito, dopo essere tornata in casa,
quando questa era voluta e desiderata da tutti e in essa soltanto era il bene di tutti, sarebbe stata per parte sua una
condotta illogica e crudele. E Dio non l'aveva fatta crudele, se anche la sua testa stentava a capire e a ragionare.
Ora invocava un po' di quiete. La lasciassero stare. Facessero e disponessero pure degli interessi suoi come
meglio credevano, ma per carità concedessero al suo cervello e al suo spirito il tempo di raccogliersi. E a poco a poco
andava abituandosi a quel dolce far niente. Dalla finestra della sua cameretta di fanciulla stava volentieri collo sguardo
ozioso a contemplare la stesa verde dei prati, riscaldati dal sole di maggio, il tremolare allegro che fanno le frasche dei
pioppi scossi dall'aria, il rimescolarsi veloce delle rondini sul far della sera intorno alla bruna guglia dell'abbazia, o colle
mani inerti sopra un lavoruccio, o colle mani morte in grembo, come una persona che aspetta un avviso per riprendere
di nuovo un viaggio non lieto per un paese lontano, che si rivede mal volentieri.
"Tu hai ben diritto di riposare," le diceva qualche volta la mamma, che meglio di lei era in grado di giudicare
del valore delle cose, "basta per ora che dimostri della buona volontà. Intanto ti conviene accettare, non mostrarti
contraria ai nostri progetti. Anche Lorenzo ora è molto occupato e non pretende nemmeno che tu l'abbia ad aiutare.
Poiché a Milano non si può andare, ci vuol tempo per mettere in ordine San Donato e per cercare un'altra casa. Hai
tempo fino al Corpus Domini di riposare e di vedere che il diavolo non è poi così brutto come lo dipingono.
Accettando però quel che ti dicono di accettare, ti metti in posizione di far del bene a tutti, e specialmente a noi, a' tuoi
fratelli, al tuo benefattore. Tu diventi nostra creditrice, e non vorrai farci gli atti, non è vero? Se invece irriti e disgusti
Lorenzo, o supponiamo il caso che tuo padre e tua madre dovessero rifondergli un capitale che non hanno, nessuno
approverebbe la tua ostinazione. Del resto, duecentomila lire, cara te, valgono un bel perdono. Non sai che San Donato
diventa tuo? Son ottocento pertiche milanesi, quasi tutti prati, oltre la casa e le bestie, che solamente in latte mettono in
grado il padrone di pagare l'affitto. Coi soli interessi di un anno puoi far tanto bene ai poveri, da guadagnarti non una,
ma tre sedie d'oro in paradiso… E non devi mica" proseguì la mamma "aver certi scrupoli, perché se il sor Tognino ha
fatto una sostanza, è pur vero che pochi uomini hanno lavorato come lui. E quando uomini onesti come un avvocato
Baruffa, un mezzo santo che porta il baldacchino a Sant'Ambrogio, quando lo zio don Giosuè e il prevosto Vittuone, un
ladro del paradiso, ti dicono che tu puoi accettare con tutta coscienza questa eredità, io non capirei la ragione de' tuoi
scrupoli. In quanto a Lorenzo, credi che è pentito e strapentito. Mi ha parlato un pezzo. La morte di suo padre gli ha
fatto senso. In fondo non è mica un animo cattivo, ve'... E ti vuol bene, l'ha detto a me, e quasi piangeva nel dirmelo. È
un giovane un po', diremo così, volage , e suo padre forse coll'idea di volerlo dominare faceva peggio. Egli mi
ha detto non solo che ti vuol bene e che è pentito, e che non pensa più a quella donna e che vuol far giudizio, eccetera,
eccetera; mi ha detto ancora che, se non ti dispiace la sua idea, egli lascia addirittura Milano, e viene a stabilirsi a San
Donato a fare l'affittaiolo de' suoi fondi, sotto la guida di papà Botta, che per agricoltura bisogna dargli la patente. È
sempre stato il suo ideale questo, lo sai anche tu: e io ho sempre visto che gli uomini son buoni o cattivi, secondo che
sono a posto o fuori di posto. Un buon prete è un cattivo soldato e viceversa. E c'è ancora un altro vantaggio, cioè che tu
potresti prendere con te Mario, che di studiare non ha molta voglia, e invece fa bene qualunque mestiere di campagna.
Mi sarebbe un bel sollievo e mi avvieresti un poco questo figliuolo, che somiglia tanto al tuo povero papà..." gli occhi di
mamma Beatrice si inumidirono a questa memoria. "Così, la mia figliuola, tu sollevi un poco anche la tua povera
mamma dalle fatiche e dai pensieri di questi benedetti figliuoli, che mi stancano ve'... Non sono più giovine, e comincio
anche io a sentire il bisogno di una mano che mi aiuti. San Donato è a due passi, ci potremo vedere spesso, tu aiuti me,
io aiuto te. Se ho un bambino malato posso fare un conto sopra qualcuno, va bene? In quanto a papà Botta, non dico
nulla. Oltre al vantaggio pecuniario, tu gli puoi, diremo così, restaurare il morale. Da una settimana è già diventato più
grasso. Ma ne abbiamo passate di notti dolorose, la mia figliuola! Tu non volevi credere alle mie lettere, quando ti
scrivevo che quasi non si aveva più denaro da comperare la tela di una camicia. A te non mancava nulla laggiù, e
quando si è nell'abbondanza, non si sanno nemmeno immaginare certe angustie e certe mancanze. Amen , tutto
questo è passato, e Dio ci ha voluto bene. Adesso riposa un poco, la mia figliuola, non pensare a tante cose, piglia
qualche cucchiaino di magnesia, che fa bene, in quanto il corpo aiuta l'anima. Un giorno andremo insieme a San Donato
a vedere quel che c'è da fare... e il Signore benedica te e quel povero uomo che ti ha fatto del bene."
Papà Botta a parole non diceva nulla, ma si vedeva dagli occhi, si vedeva dal modo in cui moveva le braccia e
le gambe che in lui camminava un morto risuscitato. Ora le Cascine e San Donato avrebbero fatto una cosa sola; il mio
è tuo, il tuo è mio. Una mano di biglietti da mille è sempre il miglior concime per i fondi della Bassa... La sua casa era
salva, i suoi figliuoli eran salvi, e l'avvenire, grazie ai meriti e alla virtù di quella povera figliuola, poteva dirsi
assicurato. Quando la ricondusse alle Cascine nel suo vestito di lutto, a papà Botta parve di tirarsi dietro un angelo fatto
prigioniero. Pensò a mettere in ordine la stanza, sbarazzandola dei centomila attrezzi, che il disordine e la malavoglia
avevano ammucchiato in mezzo alla polvere e alle ragnatele.
Se fosse venuta in casa la Madonna, papà Botta non avrebbe potuto usare un maggior riguardo. Essa aveva
bisogno di riposo e di quiete? dunque non si doveva né strillare, né far rumore, né cicalare sotto la sua finestra. Mandò
lontano le oche e le galline e per alcuni giorni fece condurre le bestie a un'altra stalla. Intanto egli stesso colla scopa in
mano eccitava gli uomini a far netto, raccontando a tutti quel che Arabella veniva a ereditare dal defunto signor
Tognino.
"Se ho un piacere e una soddisfazione a questo mondo" soggiungeva, indicando le gelosie verdi della finestra
"è che io le ho voluto bene anche prima, quand'era una bambina alta così, quando di suo non aveva che il vestito e un
paio di scarpe stracciate. È giusta la legge che bene fa bene; ma il Signore m'è testimonio che, se mi fosse tornata in
casa logora e senza scarpe, io non le avrei voluto meno bene."
E tutti gli credettero, essendo uno dei molti privilegi dei buoni d'essere creduti degni anche del bene che non
fanno.
Arabella, nella quiete delle belle giornate calde, nella cura e nella benevolenza de' suoi, e, più ancora di tutto,
nella persuasione che la sua vita non potesse essere diversa, a poco a poco si avviò a perdonare e a dimenticare. La
giovinezza vuol vivere. In queste condizioni, anziché ribellarsi a un destino maggiore alle nostre forze, è meglio
condurre queste a smuovere e ad aiutare il nostro destino. Le acque grosse che rompono i ponti, ben incanalate,
muovono molini e gualchiere. Un coscritto malcontento non ha che un rimedio contro la sua disgrazia, ed è di prendere
il servizio con quel coraggio affaccendato e irragionevole, che da un coscritto cava spesso un eroe.
Ritrovava dei momenti di intero riposo e di smemoratezza quando poteva, come una volta, rinchiudersi a
disegnare e a ricamare nella fresca chiesuola della Colorina. Vi si rifugiava colla foga della bimba che ha portato via e
nascosta in tasca una piccola merenda, o una ghiottoneria dolce, che vuol gustare e assaporare un pezzo, da sola,
senz'essere vista. Vi si rifugiava meno a pregare che a sentire la sua vita scorrere lentamente, in attesa di qualche cosa di
chiaro, che tardava ad accendersi in lei e senza di cui sarebbe stato troppo pericoloso continuare per una strada buia.
Essa poteva perdonare e dimenticare; ma non basta. Per vivere bisogna amare. Ora il pensiero che tra quindici
o venti giorni essa avrebbe dovuto cadere nel dominio del suo vecchio padrone, non era per lei così semplice e giocondo
come pareva alla mamma. Qualche cosa della vecchia monachella soffriva ancora nel suo spirito. Nei suoi lunghi e
pensosi silenzi, mentre la mano copiava un gruppo d'alberi o un pezzo di casa in rovina, la voce della monachella
sorgeva a predicare, non tanto a lei, per cui le parole erano inutili, quanto a tutte le buone ragazze, che si affidano alla
vita colla lieta poesia dei diciott'anni: "Non credete alle lusinghe della vita: fatevi monache. Il mondo, sotto uno strato
di rose, vi prepara dei dolorosi letti di spine: fatevi monache. E se Dio vi chiama a sé prima del tempo, benedite il
Signore che vi vuol bene. Meglio morte a quindici anni sotto una coperta d'erba fresca e di fiori di prato, che sentirsi
sepolte vive nel fango del mondo vecchio e corrotto".
Per isfuggire alla seduzione di queste malinconie, usciva a correre qualche volta in mezzo ai prati, univasi alle
donne che sotto il raggio caldo del sole agitavano e ammucchiavano il fieno maggengo, dava di mano a un rastrello, e
mentre le ragazze intonavano un'aria di soldati, nel bagliore della luce aperta, cercava anche lei di attaccarsi alla vita e
alla terra collo sforzo di un lavoro affaticante.
Tra un ritornello e l'altro della canzone sonava dal casolare vicino la voce argentina della povera Angelica, che
dal suo letto salutava le compagne colle litanie della Madonna.
Arabella ponevasi a sedere nel fieno e colle mani abbandonate sui ginocchi, ora incantavasi a contemplare la
schiera delle ragazze, splendenti sotto la luce viva nei chiari vestiti rossi, e così tenacemente attaccate alla terra e agli
affetti della terra: ora il pensiero volava ad Angelica così lieta negli affetti del cielo. Essa non sapeva cantare. Anche in
chiesa la sua voce, avvilita, non aveva più la forza di seguire le litanie. Soffriva non più per non saper rinunciare, ma
come chi ha rinunciato troppo, e muore di rincrescimento in un'inedia morale.
Poco doveva durare questo suo riposo. Passati dieci, dodici, quindici giorni, la gente avrebbe cominciato a
meravigliarsi una seconda volta di trovare in lei della resistenza, l'avrebbe accusata una volta ancora di egoismo e di
freddezza di cuore, perché dove trattavasi di una fortuna grande e cara a tutti, essa ostinavasi a non vedere che il suo
orgoglioso sacrificio. Respingere l'eredità non poteva senza mostrarsi ingrata, incoerente, irragionevole, per non dire
pazza del tutto: e non poteva accettarla senza stendere la mano a suo marito. E se questi era veramente pentito, se
prometteva di diventare un uomo onesto e laborioso, se aveva bisogno d'un erede per restaurare la sua casa, se tutti
facevano voti per questa benedetta assoluzione, di cui essa aveva il merito maggiore, perché ostinarsi a non credere alla
virtù di questa misericordia? perché rinchiudersi in una reazione arcigna e sterile? perché non innovare un dolce sistema
di moglie paziente, di massaia casalinga, di donna come ce ne son mille, che ingrassano lentamente nella pratica delle
modeste virtù, tra la casa, la messa e il pollaio? Questo miracolo doveva essere compiuto per il Corpus Domini
Papà Paolino, dopo vari abboccamenti coll'avvocato e con Lorenzo, d'accordo colla mamma e colla figliuola, aveva
stabilito per quel giorno solenne un gran pranzo alle Cascine, al quale sarebbero intervenuti oltre agli zii Borrola e a
Lorenzo, l'avvocato, il notaio, lo zio canonico: e si sarebbe messa una pietra sul passato. Il Pirello prometteva per quel
giorno una panna degna del paradiso.
Per quel tempo sarebbe stata pronta ed abitabile la casa padronale di San Donato, un avanzo viscontesco, che
sotto le rappezzature e le corrosioni conservava ancora la forte ossatura del suo buon tempo. La parte centrale di quel
vecchio caseggiato di robusta costituzione architettonica conteneva ancora qualche ampia sala, qualche segno di vecchi
dipinti, molte guardarobe e mobili rococò guasti dall'umido, dal tempo e dalla trascuratezza degli ultimi padroni, che vi
avevano abitato nei primi anni del secolo.
Mentre il tempo era bello, papà Botta, coll'aiuto di Ferruccio, fece venire imbiancatori e tappezzieri, mandò a
Milano un carro a prendere il mobilio, perché di tornare in via Torino, dopo i tristi avvenimenti, non si parlava
nemmeno.
Ferruccio, in questo tramestìo, ebbe il suo da fare. Il signor Lorenzo dovette in molte faccende fidarsi di lui che
divenne un personaggio importante, il confidente e il segretario di tutti gli interessati nella conciliazione. Rianimato
quasi da una nuova energia attese al trasporto dei mobili, che accompagnò a San Donato, facendo e rifacendo la strada
da Milano alle Cascine due tre volte la settimana. Portò molte carte a firmare alla signora, secondo le indicazioni del
notaio, e cercò di spiegarle lo stato degli affari, come eran rimasti sul tavolo del povero signor Tognino: raccolse
gelosamente la corrispondenza, i valori e le cartelle di rendita, che scaturivan quasi per incanto dai cassetti e dai mobili
dell'ammezzato.
II. I CONTI DI FERRUCCIO
Se ad Arabella il denaro avesse potuto portare una consolazione, c'era da ringraziarne la Provvidenza; ma
questa sovrabbondanza di fortuna e di ricchezza la rendeva annoiata, stanca, disgustata, e solamente per non parer
cattiva rassegnavasi a leggere e a passare dei mucchi di carte, e a stendere coll'aiuto di papà Paolino dei prospetti e dei
bilanci meravigliosi. Quanti denari aveva lasciato dietro di sé il vecchio! che se avessero potuto parlare... ma Arabella,
socchiudendo gli occhi, cercava di cacciare questi pensieri come si caccia lontano una tentazione. A che pro' indagare
l'origine delle cose che non cangiano? a che pro' logorarsi la coscienza in una filosofia che non serve a nulla? non erano
tutti contenti e soddisfatti?
La prima volta che Ferruccio venne alle Cascine, essa lo tirò in disparte, e, consegnatogli un biglietto di cento
lire, gli disse:
"Provveda ai primi bisogni di suo padre, e mi porti un prospetto di quel che posso fare per i poveri della
parrocchia, per la povera Stella, e in suffragio del defunto. Poiché abbiamo sofferto tanto per colpa di questo denaro non
tardiamo a cavarne quel bene che si può. Lei pure avrà avuto delle spese in questi giorni. Ho bisogno d'essere istruita e
di nessuno mi fido più che di lei. Se può stendermi un minuto rapporto di tutta l'azienda col reddito e cogli obblighi
relativi, cercherò di entrare anch'io in questa selva di numeri, per quel poco di bene che posso fare. Ne parli anche con
mio marito. Spero che lei vorrà restare con noi, finché ne avremo bisogno, o almeno finché non abbia trovato da
collocarsi meglio..."
"Non so, vedremo..." balbettò il giovane facendosi rosso in viso.
"Non si cacciano via i galantuomini" soggiunse la signora sorridendo.
E dopo un momento di riflessione riprese a dire:
"Noi abbiamo patito insieme..."
"Oh sì, e devo a lei se non ho commesso del male..." continuò Ferruccio con sincero entusiasmo.
"Il male non fa mai bene, come ha visto. Ne abbiamo sofferto tutti, colpevoli e innocenti, e chi sa se avremo
finito! Il male è un numero sbagliato, che rende falsi tutti gli altri numeri e falsa la somma totale. Uso un paragone
d'aritmetica per farle vedere che comincio anch'io a far pratica coi numeri e cogli affari."
Ferruccio se ne partiva sempre, dopo questi discorsi, colla mente turbata, ansioso di tornare a Milano come chi,
sognando una colpevole compiacenza, è tratto dal naturale rimorso a svegliarsi e a cercare la luce. Ma una volta a
Milano, i ciottoli della città diventavano per lui carboni accesi, gli pareva di vivere colla testa, ma senza cuore. Il cuore
era là, alle Cascine, che sanguinava, che lo chiamava.
Non gli era mai sembrata così serenamente bella, così in colore, così calma e padrona di sé, così forte, di una
fortezza dolce e terribile. I pretesti per tornare alle Cascine non gli mancavano. E nell'attesa lusingava e faceva tacere la
morbosa inquietudine, lavorando faticosamente a redigere il rapporto della situazione finanziaria della casa, un'azienda
che, se era ordinata e scritta nella testa del signor Tognino come in un libro, offriva molte lacune e molti gruppi non
facili a essere sciolti. Nella selva del bilancio e delle cifre, Ferruccio penetrò con una specie di voluttà, come chi sfonda
arbusti spinosi e ortiche per arrivare a cogliere un mesto ciclamino sull'orlo di una roccia.
A questo turbamento doloroso non osava più dare un nome. Ha la lingua umana le parole per questi misteri
così profondi? vi può essere una definizione dell'infinito? Possono gli occhi leggere ciò che una mano misteriosa scrive
nel buio?
Qualche volta usciva di casa la mattina per portare delle carte all'avvocato, o per recarsi allo studio; e mentre il
pensiero seguiva l'oggetto o la pratica, come si suol dire nel gergo del mestiere, il tram di Lodi lo trasportava alle
Cascine, come una forza che lo sottraesse e lo rapisse a un còmpito noioso, per avvicinarlo a un dolce spettacolo.
Capiva però che questo giuoco non poteva durar molto. Era necessario ch'egli se ne ritraesse prima che
diventasse crudele, come ogni bel giuoco tirato in lungo. E siccome sentiva parlare del Corpus Domini come di
un giorno stabilito per mettere una gran pietra sul passato, stabilì anche lui e si abituò a considerare quel giorno come
l'estremo termine di una gioconda "ferie" giovanile, come la chiusa d'un fantastico poema ch'egli aveva scritto
solamente per sé. Che cosa sarebbe stato di lui dopo quel giorno non andava a cercare. A che pro? Chi può essere
indovino del domani? Ma ad ogni modo egli doveva ritrarsi da una strada erta e pericolosa, dove molti più forti e più
temerari di lui lasciano spesso la vita e l'onore. Non osava guardare in faccia ai pazzi pensieri che gli passavano pel
capo. C'era da farsi compatire, da farsi fischiare da tutto Milano. C'era da morir dalla vergogna, se lei avesse potuto
leggergli nel cuore.
Il ragazzo che non aveva saputo trovar la sua strada nel mondo, il figlio del portinaio, il mezzo chierico, il
commesso a sessanta lire, in certi sogni esaltati correva a immaginare ch'egli potesse salvare o almeno difendere la
buona signora dagli oltraggi della gente, rapirla, fuggire con lei in un paese lontano, al di là dei mari, contrastarla alla
violenza e all'egoismo, come gli antichi cavalieri dell'Ariosto, che contro cento mostri combattevano da soli, vestiti
d'armi lucenti e incantate.
Ma eran sogni: forse era meglio voltare le spalle alla tentazione. Da qualche tempo il padre Barca andava
discorrendo di un posto di compilatore e redattore di un giornaletto cattolico, che una pia associazione di Genova voleva
impiantare coll'aiuto di una ditta libraria di là. E insisteva presso la Colomba perché persuadesse il nipote ad accettare.
Da cosa nasce cosa: il giornale poteva condurre la bottega, e colla buona volontà, cogli studi fatti, con buoni appoggi,
Ferruccio era sicuro di farsi una posizione nobile e indipendente.
Bisognava aver del coraggio e decidersi: ma non osava dirlo a lei. Tutte le volte che il discorso rasentava
questo argomento, egli affrettavasi a confondere le parole, per paura di dir troppo.
Un giorno il signor Lorenzo lo incaricò di consegnarle una lettera che aveva messo insieme coll'aiuto letterario
e filosofico della zia Sidonia. Chiedeva perdono, si dichiarava pentito, prometteva una vita nuova; la morte di suo padre
era stato un tremendo castigo per lui; sentiva il bisogno di rifugiarsi in campagna, di mettersi a lavorare, di fare il
contadino, e pregava Arabella di scrivergli una parola di perdono prima del Corpus Domini , tanto che egli
avesse coraggio a presentarsi e potesse accettare l'invito della mamma.
Ferruccio aveva finita la lunga e bella relazione finanziaria, a cui aggiunse un prospetto riassuntivo, scritto con
due inchiostri e con molti bei fregi e svolazzi calligrafici: un capolavoro. Intendeva con questo bilancio di chiedere il
suo congedo... e di non lasciarsi più vedere. Dalle parole del signor Lorenzo aveva capito che egli era mandato
ambasciatore di pace: e anche lui aveva bisogno di pace.
Arrivò alle Cascine che non aveva ancora messe insieme le quattro parole necessarie per dare alla signora le
sue dimissioni: e si affrettò a cambiar idea. Le avrebbe scritto da Genova. Quel suo fuggire improvviso, non
giustificato, o confusamente giustificato, avrebbe dovuto far senso, ed era appunto in questo non so che di strano e di
violento che essa avrebbe cercato delle ragioni; e forse tra le molte avrebbe trovata quell'una, che egli non poteva dire; e
l'avrebbe compatito... sorridendo; ma l'avrebbe compatito, povero ragazzo!
"È uscita" disse il Pirello. "Se vuol parlarle, la troverà presso la Colorina a pitturare."
Ferruccio prese la stradicciuola che costeggiando il canale, mena alla chiesetta in mezzo ai campi. Le siepi
mandavano un acuto profumo di robinia fiorita. La strada molle ancora per un'allegra pioggerella notturna, sentendo il
caldo del sole, esalava anch'essa il buon odore della terra umida, correndo tortuosa tra il canale e un'alta siepe fino al
ponticello dei mattoni, coperto da un bel gruppo di piante. Seduta sopra una delle basse sponde del ponte, Arabella
stava schizzando sull'albo quella parte dell'abbazia, che usciva nell'apertura della stradicciuola, tra due pioppi che
facevano da cornice sopra lo sfondo sereno del cielo.
Essa non si accorse del giovine, se non quando questi le fu vicino; e per un istante egli rimase dietro di lei in
silenzio, non vedendo innanzi a sé che il bagliore della luce diluita nel verde dei prati.
"Oh..." esclamò per la prima, e non poté nascondere un improvviso turbamento. "Mi ha fatta una paura..."
"Sono così terribile?" si sforzò di aggiungere per tenere il discorso allegro e indifferente.
"Che novità a Milano? non posso dirle di accomodarsi, ma se si mette là, sul muricciuolo, finisco questo
disegno..."
"Non sapevo che ella fosse così brava..." riprese il giovine, meravigliandosi con se stesso di sentirsi così
coraggioso stamattina.
Era il coraggio di chi perde gli ultimi quattrini in un gioco disgraziato, e che, sapendo di non poter più pagare,
arrischia anche quello che non ha.
"So far di meglio, per sua regola..." rispose Arabella ridendo, senza togliere mai gli occhi dal disegno.
Vestita di un abito scuro di lutto, con in testa un cappelluccio tondo di paglia scura, il collo e l'ovale del viso
spiccavano d'una bianchezza di smalto. Qualche fiamma di sole, passando attraverso le foglie degli alberi che facevan
testa al ponte, accendeva di tenero splendore i capelli accomodati colla massima semplicità. A un soffio d'aria cento
fiammelle d'oro l'investivano dando alla sua gentile persona una bellezza spirituale. Questa almeno fu l'impressione che
Ferruccio, seduto in faccia sull'altro muricciuolo rosicchiato del ponte, ne ricevette, mentre ardiva contemplarla, quasi
senza paura, per tutto il tempo che rimasero soli sulla strada deserta, nel dolce silenzio dei campi. L'acqua molle e
verdognola del canale passava silenziosa sotto i loro piedi, scendendo a dare a bere ai prati. Tratto tratto un frullo d'ale.
Un passero scendeva a saltellare sulla strada come se non ci fosse nessuno, e volava via.
"Ho una lettera del signor Lorenzo per lei."
"Lo vede spesso?"
"Quasi tutti i giorni."
Arabella sollevò gli occhi sull'abbazia e parve dimenticarsi.
"Lei sa come sono stata offesa."
"Lo so, poverina. Son cose che non si capiscono."
"Eppure dicono che è una storia così comune. I romanzi non parlano che di tradimenti e di vittime. Legge lei
dei romanzi?"
"Non ne ho mai letti. Finché studiavo da prete era proibito; e poi ho dovuto pensare alle mie tragedie."
"Ora è guarito..."
"Sì, per grazia di Dio; ma per poco quel cane di uno sbirro non mi rompeva la testa. Vede ancora il segno?"
Ferruccio indicò una lunga cicatrice sulla fronte, alla radice dei capelli tagliati corti. "Ma credo che il maggior male non
sia la ferita: la morte vien sempre dal cuore. Per fortuna ci sono delle anime buone a questo mondo..."
"Ci sono?" provò a chiedere Arabella, con un leggerissimo tono di scetticismo.
"Sì, ci sono. Guai a noi se non ci fossero. Che conforto avrebbero le anime che soffrono? Crede che nessuno
abbia avuto compassione di lei? Quel giorno che ho aiutato a portarla in casa, pensando che fosse morta, ho pianto;
quasi ho pregato che fosse morta davvero."
"Perché?"
"Non so spiegarmi. Mi pareva allora che a una morta si potesse voler bene più che a una viva."
Arabella tornò a fissare gli occhi lontano, e mormorò, rispondendo quasi a una lunga questione che ella facesse
dentro di sé:
"Può essere."
Ferruccio, colpito dalla gravità delle parole che gli erano uscite di bocca, quasi venisse meno a un tratto
l'esaltazione dolente che l'aveva fatto parlare, si curvò sul muretto, e fissò gli occhi nell'acqua, provando la vertigine
d'essere anche lui trascinato lentamente col ponticello e colle piante verso i prati. Chi aveva parlato per lui? La Colomba
avrebbe potuto dire che aveva parlato in lui la sua mamma. Ma a Ferruccio era sconosciuta questa legge, per la quale lo
spirito dei morti parla nei vivi. Si sentì a un tratto meschino e colpevole. Non osava più sollevare gli occhi in faccia a
lei, che, chiusa in un freddo silenzio, continuava a giudicarlo, e a castigarlo, tacendo. Essa gli pareva lontana lontana:
non la vedeva quasi più.
"Non so se mio marito abbia pensato anche all'Augusta. Gli faccia memoria. Se l'Augusta vuol rimanere ancora
con noi, potremo combinarci. Di tornare a Milano non si parla, per ora, né io lo desidero. Mi ha preparata la relazione?"
Furono queste parole così fredde e precise, di una importanza così pratica, pronunciate con grave lentezza, che
richiamarono Ferruccio alla realtà della sua sorte e gli dimostrarono quel ch'egli era di fronte alla signora. Arrossì come
il fuoco: si mosse, balbettò qualche parola sconnessa, e, presentando la lettera e la relazione, disse:
"Se lei mi comanda..."
Arabella gli stese la mano, ch'egli strinse nelle sue, e portò alle labbra come l'altra volta, mentre grosse lagrime
di dolore e di pentimento gli solcavano le gote
III. AMORE?
"Dio solo sa quel che è bene e quel che è male" scriveva Arabella qualche giorno dopo a Maria Arundelli "e
tutte le volte che entriamo a giudicare delle cose di questo mondo siam tratte a sbagliare o dalla paura o dall'orgoglio.
Al Corpus Domini ritornerò con mio marito, in una casa nuova, con animo nuovo, in campagna. Appena sia
messa in ordine questa nostra casa, celebreremo le nozze d'oro del perdono. Dio provvederà al resto. La morte di mio
suocero ha precipitato gli avvenimenti e rende utili e necessarie delle risoluzioni che prima mi parevano assurde. Non vi
può essere che del bene in ciò che si fa con coraggio e con fede. Risponderò domani con una lunga lettera a mio marito
e questa estate spero che verrai a trovarmi nella nuova casa di San Donato, una fattoria sul genere di quelle che
troviamo descritte nei romanzi della Bremer. Se avrò altri figliuoli, spero di ritrovare anche quel resto di vita che m'è
sfuggita e d'intessere ancora il mio idillio casalingo in un vecchio avanzo di castello viscontesco, in mezzo al chiocciare
delle galline e al buon odore del fieno.
"La mamma è felicissima e va ripetendo a tutti che io avrò cavalli e carrozze e una proprietà di non so quante
pertiche milanesi: e pare che potrò godermi questa abbondanza senza rimorso al mondo, perché lo stesso monsignor
arcivescovo ha approvato e benedetto i nuovi accordi. Le figlie di Maria furono così soddisfatte del modo in cui è stata
risolta o sarà risolta la intrigata questione dell'eredità Ratta, che, attribuendomi un merito che non ho, mi hanno regalata
una copia della Madonna in trono , del Morelli.
"Vuoi sentirne un'altra? Mio zio Borrola, che era solito mangiare un chierico a colazione e un prete a pranzo,
mi scrive tutto commosso del modo con cui fu ricevuto da monsignore e vuole ad ogni costo avere il piacere e l'onore di
presentarmi al venerando prelato.
"O Maria, io non so perché pianga, mentre ti scrivo queste cose così liete e così belle. Ci sono forse delle
fortune che come le fiamme c'inseguono perché fuggiamo?"
Se durante il giorno, tra il molto scrivere e il dare udienza e il rispondere e il comandare, Arabella poteva
illudersi d'aver ricuperata la pace, o almeno la forza d'accettarla, non era così verso sera, quando pare che la malinconia
esca dalla terra oscura; non era così di notte, quando si trovava sola sola co' suoi pensieri e col suo cuore.
Il cuore di notte si sente di più, come senti battere più forte l'orologio che hai deposto vicino al capezzale. Ora
le capitava di non poter dormire mai, quantunque non avesse che a rallegrarsi di sé e della sua coscienza.
Rimaneva le lunghe ore cogli occhi spalancati, pieni di un mite incantesimo, fissi al biancore della finestra,
colle mani sotto la testa, non provando che un caldo peso sul cuore.
Non era un dolore, o lo era quel poco che basta a mantenere nel corpo una dolce eccitazione morbosa, una
febbrile sofferenza non ingrata, e nella fantasia un immaginare continuo di cose diverse, remotissime dalla realtà, nelle
quali la mente poteva navigare mollemente senza urtare negli scogli.
Nel suo casto rigore il pensiero non osava dare alle immagini forme e contorni troppo determinati. Non osava
nemmeno rispondere alle questioni che insorgono così curiose e tumultuose durante i momenti di maggior ribellione. Le
lasciava gridare, conservando un assoluto dominio sopra se stessa. Era possibile? no: era forse una momentanea
ebrezza, un'indulgenza concessa a se stessa, in compenso del suo lungo soffrire: no, essa non poteva, non doveva
lasciarsi amare da quel ragazzo. Tutto sarebbe passato, al primo rientrare nel sacro tabernacolo del dovere, non
lasciando che una leggiera striscia di dolore al capo, come fa ogni gioia che passa.
A quel ragazzo non poteva non volere un po' di bene. Anche la compassione ha i suoi doveri. Eran cresciuti un
pezzo insieme, lui povero, lei disgraziata. S'eran ritrovati dopo molti anni, lui più povero, lei più disgraziata. In mezzo
alla gente che aveva congiurato a' suoi danni, anche tra quelli che le volevano più bene, egli solo aveva sentito per lei
una pietà pura e disinteressata. Quel povero Ferruccio non si era mosso dalla sua timida e scontrosa mediocrità, se non
per soffrire atrocemente dell'ingiustizia umana. E se non aveva perduta la fede nella Provvidenza e nella vita, lo doveva
a lei, che aveva lasciato cadere a tempo una dolce parola nel suo cuore.
Cresciuto anche lui insieme a' suoi fratelli, non era per lei che il più grande e il più disgraziato de' suoi fratelli,
un ragazzo di poco spirito, un buon giovine cristiano, che la corruzione e lo scetticismo non avevano ancora corrotto.
Toccava a lei salvare questa preziosa giovinezza dal contagio plebeo delle passioni, dai cattivi esempi, sostenere il
coraggio nelle battaglie della vita, come già gli aveva insegnato il catechismo quando era piccina, come l'aveva
preparato alla prima comunione da giovinetta.
Non c'è nessuno che si lasci persuadere più facilmente come un cuore che ha bisogno d'essere persuaso.
Acchetata con queste dimostrazioni la coscienza, essa poteva chiudere gli occhi e dormire; ma le lunghe dimostrazioni
stancavano le sue veglie, sentivasi soffocare nella chiusa stanza, balzava dal letto, e, spalancata la finestra, stava a
contemplare estatica nel tepore della notte chiara la fila nera dei pioppi ondeggianti in fondo ai prati, su cui brillavano le
sparse stelle del Carro, o cercava in capo alla strada l'ombra densa dell'abbazia, che raccoglievasi anch'essa in una
specie di sonno profondo, mentre i grilli mandano l'acuto fischio dalle tane e il vento porta qua e là, strappandolo a
cascinali, il buon odore del fieno
Le parole di un discorso umano son troppo rigide e pesanti a confronto di quelle con cui essa cercava di
giustificarsi e usarsi indulgenza. Il cuore parla a colpi come fanno i prigionieri.
Le pareva che potesse concedersi questa momentanea ebrezza, mentre ancora durava la sua libertà, come la
mamma anche più rigorosa concede alle sue ragazze un festino la sera prima d'entrare in collegio.
Era amore questo bene?
Essa lo aveva trattato forse troppo rigidamente l'ultima volta, non rispondendo nulla a una tenera confessione,
che era traboccata dal suo cuore come sgorga l'acqua limpida e pura da una fontana abbondante.
La paura l'aveva resa superba. Eppure quanta bontà, quanta poesia, quanta freschezza d'animo nelle sue parole!
"Mi pareva che a una morta si potesse voler bene più che a una viva..." Chi aveva insegnato a questo povero
figlio del popolo a dir parole così belle e così commoventi? Non certamente il poco latino studiato in Seminario. No, era
un'anima giovine che parlava; e le anime giovani sono ancora piene di cielo: e quando parlano fanno provare emozioni
che sembrano reminiscenze di un altro mondo. Tutti veniamo da un luogo che non è questo e tutti aspiriamo a tornarvi.
E il cuore batte ed esulta tutte le volte che ascolta una voce che gli parla della patria...
Eran sogni di questa natura ch'essa ricamava intorno a una stella, ripetendo una nenia funebre sopra se stessa.
"A una morta si può voler bene..."
E fra pochi giorni invece essa avrebbe dovuto essere più viva di prima.
La mattina, appena una riga di luce bianca venata di carminio rompeva dietro i tronchi la lunga oscurità della
notte, vestivasi in fretta e scendeva, quando cominciano le gallinette a muoversi, prima ancora che sonasse l' Ave
Maria alla chiesa.
È così bello uscire all'alba e mettersi per un viale di piante nella frescura mattutina, sotto il cielo bianco che si
specchia nelle acque oscure! Le vaste campagne sono ancora deserte, non ancor sveglie di sotto alle coltri di nebbia: o
non escono dai viottoli che le prime ombre dei lavoratori, colle vecchierelle che vanno alla messa, chiuse nello scialle
nero, nella pia tranquillità del corpo che ha riposato e dell'animo che non desidera più nulla.
Essa invece trascinata dall'inquietudine giovanile, che desidera anche ciò che non conosce, andava a rifugiarsi
in un angolo oscuro della chiesa, sotto la vòlta gotica, si prostrava sul marmo freddo d'un altare e assisteva alla messa,
pregando or sì or no, dimenticandosi o guardando come straniera di un'altra fede la gente, le immagini, i lumi dell'altare.
Come chiedere a Dio ciò che non è giusto desiderare? come chiedere ch'egli ti spenga nel cuore l'unica fiamma che lo
scalda? perché invocare che altri ti calchi sulla fronte la corona di spine che ti è toccato in sorte di portare?
Dopo la messa usciva colle donnicciuole e colle altre spose della sua età, con alcuna delle quali soffermavasi a
discorrere di bambini e delle piccole peripezie che riempiono, come le ragnatele, la casa della povera gente. Parlavano
di malanni, di stenti, di malattie croniche, di pellagra e di morti, colla placidezza lenta e rassegnata dei contadini che
riferiscono tutto a quel lassù, sul quale la fede dei poveri scarica, insieme alla responsabilità, tre quarti dei propri fastidi.
E le pareva, sentendole parlare, che appartenessero a un altro mondo o un'altra razza. L'inquietudine sua la
portava a camminare un pezzo per le strade di campagna, finché sentiva il sole caldo sulla testa. Andava un pezzo a
razzolare nel verde, a cogliere fiori di siepe, a cercare le ultime mammolette della stagione rimpiattate nei luoghi più
oscuri, qualche volta fin verso la stazione di Regoredo, o fin dove il canale si affossa e si allarga in un laghetto di acque
sorgive.
Il cielo lucido, che si riflette nell'acqua di un color di acciaio, dà agli occhi l'illusione di due lucidi infiniti che
si baciano. Arabella fissavasi nel limpido specchio fino all'incanto e lasciavasi trasportare a naufragare deliziosamente
in una vertiginosa accondiscendenza.
Forse il suo povero papà era passato di lì.
Qualche volta spingevasi fino al passaggio della strada ferrata presso la stazione, che rompeva con una tinta
rosea il verde delle messi e delle piantagioni.
I bambini del cantoniere impararono presto a conoscerla, perché essa non vi andava mai colle tasche vuote. La
loro madre, una donna pienotta e sana, la intratteneva di cose comuni, di suo marito, di sé, dei suoi figli. Dopo sette anni
di matrimonio, vissuti un po' dappertutto nei quattro muri d'un casello, essa era per mettere al mondo il suo quinto
figliuolo e nascevano tutti sani, ingordi, con nessuna voglia di morire. Tratta a discorrere di questa faccenda, la donna
nel linguaggio più naturale dimostrava come ciò possa accadere ai poveretti, che non hanno il teatro della Scala. Le
parole della cantoniera suscitavano nel segreto dolore di Arabella improvvisi turbamenti.
Vedendola arrossire, la donna allungava il discorso alle solite celie, cercando di dimostrarle che in tre cose i
poveri sono eguali ai ricchi, nel nascere, nel morire e nel fare all'amore, una parola quest'ultima che in bocca alla bassa
gente, è più chiara che nei dialoghi di Platone.
Una mattina - due giorni prima del Corpus Domini - mentre ciarlavano di queste cose, il suono della
cornetta interruppe a tempo certe confidenze, nelle quali la più giovine di quelle due donne provava una specie di
malsana seduzione: subito dopo s'intese il rombo del treno proveniente da Milano.
Arabella, camminando lungo la siepe, aspettò che il treno, dopo la breve sosta alla stazione, ripigliasse la sua
corsa. Il convoglio qualche momento dopo venne ansando, rombando, e passò al di là della siepe colla veloce
imponenza che ha sempre un treno in viaggio. Essa lo seguì cogli occhi, rapita da uno spettacolo che non invecchia mai
e del quale non abbiamo ereditata l'abitudine.
Nell'uscir dalla sua contemplazione, si trovò davanti Ferruccio pallido come un cadavere.
"Lei a quest'ora? che cosa c'è?"
"Son venuto a consegnarle le ultime carte, perché... perché... scusi, non posso parlare. Mi è capitata una cosa, o
Dio, Dio!"
Il giovine si tolse il cappello e si asciugò la fronte madida di sudore.
"Che cosa?"
"Sono chiamato in Questura... cioè, peggio... domani posso essere arrestato anch'io."
"Ma no: per qual motivo?"
"Per ribellione alla forza pubblica."
"Lei? quando? o Gesù..."
"È stato ieri sera da noi il signor Galimberti, un delegato che conosce da un pezzo le mie zie e ha detto che c'è
ordine d'arresto contro di me. Le guardie hanno deposto ch'io mi son ribellato: dicono che io le ho ferite. Il signor
Galimberti vorrebbe che io mi presentassi spontaneamente."
"Ciò è impossibile."
"Io non so d'aver ferito. La zia Colomba giura che non ero armato. Una delle due guardie mostra una mano
slogata. Il signor Galimberti ha promesso d'interessarsi in mio favore, ma non garantisce nulla, perché gli ordini sono
rigorosi..."
Il giovane disse tutto ciò con una grande freddezza, come se non si trattasse di lui.
"E voi, Signore, permettete anche questo?..." scoppiò a dire, con disperazione, Arabella, parlando irritata cogli
occhi al cielo.
"Se mi presento da me," riprese Ferruccio, cercando di rassicurare la sua voce, "il signor Galimberti ha detto
che potranno usarmi dell'indulgenza, altrimenti... Quale indulgenza? se è vero che ho battuto le guardie, se è vero che
ho slogata una mano, dovrò scontarla per forza con cinque o sei mesi di carcere, con tutta l'indulgenza del mondo..."
Egli finì con un sorriso ironico e amaro.
"Che, che..." esclamò essa duramente, con accento soffocato.
"A meno che non ne faccia una più grossa" balbettò coi lineamenti irrigiditi, portando le nocche della mano
alla bocca come se volesse mordere.
"Fuggire? che cosa puoi fare, povero ragazzo? tu non devi andare in prigione. Tu non hai fatto nulla di male,
non sei un ladro, tu non hai ammazzato nessuno. Hai difeso tuo padre e non si condanna un povero figliuolo per questa
colpa. Ora vengo io a Milano. Andremo insieme dai giudici; parleremo a questo signor Galimberti. Capisci che se
questa è giustizia noi potremmo, in nome della giustizia, dar fuoco alle case. No, no: non è possibile. Ah, mi diceva il
cuore che non avevamo finito di patire. Era qui dentro il presentimento. Io porto la maledizione... Ora vengo a Milano.
Tu non devi andare in prigione..."
Parlava quasi inconsciamente, per abbandono, trattando Ferruccio come un vero figliuolo affidato alle sue cure,
sconvolta improvvisamente da una ribellione di spirito, che rompeva argini e dighe, non sostenuta che da una irritazione
fiera, cieca, audace, che aveva la forza di non lasciarla piangere. Accesa nel viso, fremendo in tutte le potenze più
segrete dell'anima, passò sopra al suo stesso patimento e non si accorse che in mezzo ai dolori trionfava un sentimento
più forte di tutti e due.
La stradicciola per la quale scendevano era perfettamente deserta, affondata, perduta tra due cigli alti, nella
grande solitudine dei campi, e permetteva ai due infelici di parlar forte, di gridare e di piangere senza soggezione sulla
loro disgrazia.
Andavano a piccoli passi, soffermandosi spesso, incerti dove menasse la strada, occupati dal doloroso caso.
"Io credo che, se parliamo a qualche persona autorevole, possiamo evitare questa disgrazia. Sto pensando a chi
potrei rivolgermi. Andiamo a Milano. Intanto il dottore potrà testimoniare che tu eri esaltato, che ti sentivi male. Anche
tu sei stato ferito. Ecco, ci hai ancora il segno..." così dicendo, rimosse i capelli del giovine. "Offriremo un bel
compenso alle guardie. Denaro non manca. La zia Colomba potrà condurmi da questo signor delegato. Dimostrerò da
chi è derivata la cosa, e che non è giusto che si seguiti a soffrir tutti per colpa di un morto. Parleremo anche
all'avvocato; faremo scrivere, se occorre, da monsignor arcivescovo; e se ciò non basterà ancora ti darò i mezzi di andar
via, Ferruccio; ma tu non ti lascerai mettere le mani addosso, non è vero?"
"No, no..."
"Non lo voglio..."
"O cara signora, se lei mi salva da questa vergogna..."
"Sì, sì, vedrai che ti salveremo. Ora, fatti coraggio; caccia i pensieri cattivi. Credi che fai dispiacere a me a
pensar certe cose."
"Vedesse la povera zia Colomba, fa pietà ai sassi..."
Ferruccio s'intenerì all'idea della povera donna e singhiozzò, per quanto un impeto furioso di sdegno cercasse
di soffocare le lagrime. Arabella, tocca da quella voce così piena di corruccio, gli pose le due mani sulle spalle. Un fitto
velo di lagrime li nascose l'uno all'altra.
"È la Madonna che mi ha messo in cuore di venire da lei..."
"Che essa ci benedica..." e lo segnò colla croce.
Gli accomodò la cravatta, e ripigliando il tono normale di voce, come se il grave pericolo fosse scongiurato,
soggiunse:
"Perdona se ti ho dato del tu. Mi sei tornato davanti così bisognoso e così spaventato, che non ho visto in te che
il povero ragazzo di una volta. Ora senti. Piglia questo viottolo e in dieci passi sei al camposanto. Va ad aspettarmi
laggiù e intanto puoi fare un po' di bene. Una mamma in paradiso l'hai anche tu... Intanto io torno alle Cascine; non dico
nulla per non propalare la cosa. Piglio un po' di denaro e con un pretesto parto subito. Credo che fra un'ora passi il treno
di Genova, per mezzodì siamo a Milano. Prima di sera avremo aggiustata anche questa: e per il Corpus Domini
verrai anche tu a fare un brindisi... Dio ascolta i voti".
Parlava ancora e già i piedi la portavano verso le Cascine, di cui vedevansi i tetti neri e disuguali uscir di
mezzo al verde.
"Dio ascolta i voti" tornò a ripetere a se stessa, camminando frettolosamente senza sentire la strada.
E ripeté con chiarezza quel che aveva confusamente promesso nel suo cuore. Avrebbe perdonato sinceramente,
se Dio salvava il povero figliuolo dal disonore. E come se avesse già ricevuto un affidamento di grazia, asciugò gli
occhi, entrò in casa non vista, andò a preparare il denaro che papà Paolino aveva messo in disparte per lei, salì in
camera, scrisse due righe alla mamma, scusandosi con un pretesto di dover andare improvvisamente a Milano, e
consegnò la lettera al Pirello. La mamma fin dalle prime ore del giorno era occupata a San Donato e non tornava che a
sera. Papà Paolino il martedì andava sempre a Melegnano.
Uscì col mantello piegato sul braccio, col velo in mano, e andò a raggiungere Ferruccio.
Questi s'era lasciato cadere sul praticello davanti al camposanto come se le gambe gli mancassero sotto. E
rimase alcun tempo colla testa nelle mani, accoccolato nella piena solitudine, sotto gli occhi dei morti a gemere, a
soffrire, a languire, come se perdesse il suo il giovane sangue da una ferita aperta.
Sul suo capo cinguettavano i passeri tra i rami di un vecchio noce. Con rapidi frulli d'ale stormi di uccelli
scendevano e uscivano dal recinto, posandosi sulle povere croci avviluppate d'erba, quasi inghiottite dalla terra, in una
pace dolce e profonda che abbiamo torto di temere.
A poche miglia da quelle croci lo aspettavano i più feroci dolori, una condanna, la reclusione, una macchia, la
vergogna per tutta la vita. E il dolore delle due povere donne? Allo strazio si mescolavano non meno feroci impeti di
sdegno. No, non l'avrebbero preso. Si sarebbe ammazzato prima.
A questi gridi della maggior disperazione sottentrava, quasi chiamata, l'immagine di lei. Come una così dolce
figura potesse muoversi in mezzo a così grandi torture morali, non arrivava a capire; ma sentiva per istinto che la libertà
e la salvazione dell'anima erano nelle mani di lei.
Non era più amore, il quale non deriva che da qualche idea che uno ha di sé; ed egli era nulla, peggio di nulla.
Era la prosternazione di un uomo umiliato davanti a una divina e infinita misericordia.
"O mamma, o la mia povera mamma!" andava ripetendo, e non gli usciva altro di bocca.
IV. IN QUESTURA
Si scosse al rumore di un passo. Essa con voce rinfrancata e autorevole gli disse:
"Andiamo, non abbiamo molto tempo".
E lo precedette, camminando verso la stazione.
Non ebbero molto da aspettate. Essa acquistò i biglietti e lo precedette ancora, entrando in uno scompartimento
affollato, dove la presenza di altri viaggiatori impedì loro di parlare. In silenzio arrivarono a Milano. Salirono in una
vettura che li accompagnò a casa, in via San Barnaba.
Non scambiarono quattro parole lungo il viaggio. Arabella, chiusa in un duro risentimento, se lo tirava dietro
come un ragazzo che ella avesse ritrovato perduto in mezzo a una strada.
La zia Colomba, che stava in sentinella, scese un pezzo di scala, abbracciò la signora e le sussurrò prima di
entrare:
"Nunziadina non sa nulla. È un po' malata e l'ho persuasa a rimanere a letto. In ogni caso le diremo che
Ferruccio ha dovuto partire."
"Mi ha detto questo figliuolo che voi conoscete un delegato."
"Sì, è stato lui... Signore!... è stato lui che ci ha avvertiti."
"Accompagnatemi subito da lui. Sentiremo."
"Sentiremo" ripeté macchinalmente la povera donna, che tremava tutta e non sapeva quel che dicesse e facesse
in questo mondo. Prese lo scialle e raccomandata Nunziadina a Ferruccio, scese le scale, ripetendo:
"Sentiremo."
"Alla Questura!" ordinò Arabella al cocchiere che aspettava abbasso.
Ferruccio andò a sedersi sulla seggioletta della zia Nunziadina, davanti al telaio sul quale era steso un gran
pizzo. E rimase in contemplazione dei ricami tutto il tempo, meravigliandosi di non sentir nulla, come se non si trattasse
più di lui.
Le due donne scesero davanti la Questura e chiesero a una guardia di poter parlare al delegato Galimberti. Fu
loro indicato un lungo corridoio, mezzo cieco, che metteva ai piedi di una scaletta umida e sporca.
Salirono a un portico superiore, dov'erano molti usci con delle scritte sopra, che Arabella non ebbe gli occhi
per decifrare.
Sentiva e vedeva, come in sogno, quasi per una visione interna.
Sulla soglia d'una di quelle porticine molta gente mal vestita, dalle faccie slavate, tra cui molte donne
piangenti, si addossava per spiare quel che si faceva di dentro, mentre altre guardie passeggiavano lentamente in su, in
giù, per il lungo del portico.
Un usciere, a cui la Colomba si rivolse timidamente a chiedere di nuovo del signor Galimberti, rispose con
voce seccata: "Dabbasso" e scomparve, sbattendo furiosamente un usciolino.
Si rassegnarono a tornar giù. Allo svolto del pianerottolo furono quasi brutalmente urtate e respinte da un
corteo di guardie, che tenevano in mezzo un ragazzaccio a sbrendoli, colle mani legate, una figura smilza e
imbozzacchita dai vizi e dalle prigioni, che all'incontrare una signora sulla soglia di casa sua, tese il collo, sgranò gli
occhi, e urlò con voce rauca e sguaiata:
"Viva l'Italia, bella bionda!"
La Colomba, vedendo la signora diventar smorta e tremare, le fece scudo col corpo, ma tremava anche lei
come un coniglio. Rimasero due respiri in silenzio, incapaci di muoversi, sostenendosi a vicenda cogli occhi,
sforzandosi di sottrarsi al pensiero che la vista del ragazzotto arrestato veniva naturalmente a suggerire.
"Se Dio tien conto di quel che lei fa..." balbettò la Colomba.
Arabella fe' segno di tacere, stringendole forte la mano, e scesero insieme gli ultimi scalini quasi correndo. Un
vecchio portiere, che veniva su portando con fatica un secchiolino d'acqua, indicò loro l'ufficio del delegato Galimberti,
a man sinistra, sotto il portico, e stette sulle gambe arrembate a contemplare la bella figurina. Ne càpitano molte in
Questura, di brutte e di bionde.
Il Galimberti, riconosciuta la Colomba, capì di che si trattava e le fece passare in uno stanzino contiguo alla
sala d'ufficio, dove c'era un gran puzzo di sigaro, sbarazzò due sedie dalle carte, le invitò a sedere chiudendo per
precauzione la porta.
La Colomba colla foga della passione cominciò a dire che la signora era pronta a dare delle testimonianze per
Ferruccio.
"La signora è forse una parente?"
"È la padrona di Ferruccio" rispose la vecchia, che lì per lì non seppe trovare una parola migliore.
"Ho capito" disse il delegato, fissando uno sguardo paterno su Arabella, mentre andava a pescare in una
scatoletta di cartone una pastiglietta di poligala. "È la nuora di quel povero signor Tognino? povero uomo, morto
giovine anche lui. Ma...! nido fatto gazza morta..."
"E questo nostro figliuolo?" chiese la Colomba.
"Le testimonianze non fanno male, e non fanno male nemmeno le raccomandazioni delle buone signore. Ma,
ma, ho di nuovo esaminato il caso, la mia donna, e non so come potremo cavarcela. È una disgrazia, capisco, il ragazzo
non è cattivo, è tutt'altro che un socialista e un anarchico: ma i tempi son cattivi sotto questo rispetto, e gli ordini
superiori son chiari. C'è stata ribellione alla pubblica forza... L'avrà fatto per imprudenza, per buon cuore, ma la legge è
legge, cara la mia donna, e non guarda in faccia a nessuno. La ribellione è diventata quasi un tratto di spirito per questi
giovinotti della giornata, che credono, chi sa?, di cambiare il mondo come si cambia un paio di scarpe vecchie. E
naturalmente l'autorità stringe i freni e manda delle istruzioni categoriche, precise, che non scherzano. Si sa che chi va
di mezzo siam sempre noi poveri agenti. Se si fa troppo, gridano che si fa troppo; se si fa poco gridano che non si fa
nulla. I giornali ci mordono ai polpacci, la Prefettura ci picchia sulla testa, il Ministro ci trasloca, ci destituisce, talché si
può dire che i nostri migliori amici sono ancora i birbanti... Questo per darvi un'idea che anche noi abbiamo le mani
incatenate. Nel caso nostro poi c'è un aggravante serio, serio, serio…" Il delegato socchiuse gli occhi e tentennò un
poco la testa. "Oltre alla ribellione c'è la deposizione di una guardia, che è stata sbattuta in terra e ha dovuto rimanere
dieci giorni fuori di servizio per una slogatura alla mano. Caso grave! Una mano per una guardia di questura è come
l'archetto per un suonatore di violino. C'è stato del danno..."
"La signora è pronta a dare un indennizzo."
"Anche il denaro è un bel rimedio che guarisce molte slogature. Protezioni, alte testimonianze, denaro,
potranno esser tant'olio per far correre le ruote e per non lasciarle stridere; ma voi, la mia Colomba, domandate troppo.
Mi par già di essere compromesso per quel che ho fatto, avvisandovi del pericolo e offrendo al ragazzo i modi di
accomodare i suoi cenci in famiglia. Mi rincresce anche per questa buona signora, alla quale non vorrei proprio dir di
no; ma c'è una deposizione, Dio benedetto! c'è la legge."
Arabella, che stava ad ascoltare colla faccia impassibile, mosse due o tre volte le palpebre per asciugare un
leggero velo di lagrime. Il delegato se ne accorse, e fece qualche passo nella stanza. Non poteva veder piangere le
donne. Era il suo debole. Dopo uno sforzo riprese a dire:
"Ho già parlato col ragazzo e gli ho fatto capire che gli conviene fidarsi di me. Mi sta a cuore anche a me,
povero figliuolo, perché ho conosciuta la sua mamma e con queste donne siamo amici vecchi. Ci sono delle circostanze
attenuanti, che non gli fanno disonore... Quindi gli conviene mettersi nelle mie mani".
"O povero martire!" scoppiò a dire lagrimando la Colomba.
"Non esagerate il male, benedette! Anzi fategli coraggio e persuadetelo a seguire il mio consiglio. Credete
forse che lo si abbia a caricare di catene e a far marcire in un tetro carcere come si diceva una volta? Saranno due o tre
mesi, al più, di ritiro, una specie di esercizi spirituali, che a un giovane un po' vivo non faranno male."
"O signore..." balbettò la Colomba. "Quel ragazzo mi muore."
Arabella aggrottò la fronte in un pensiero doloroso.
"Benedetta gente!" riprese dopo un istante il povero Galimberti, che non aveva il cuore di sasso. "Tutto quello
che io posso fare è di tirar in lungo la pratica, per lasciargli il tempo, va bene?, di preparare terreno. Così nessuno si
accorge nemmeno ch'egli sia scomparso. Dà ad intendere d'aver trovato un posto, che so io? a Bergamo, a Como, a
Melegnano... va bene? e tra quindici, venti giorni, una mattina, dietro un mio biglietto, viene da me, quieto quieto, noi
lo esaminiamo in camera caritatis , lo trattiamo con indulgenza. Se poi si comporta bene, io lo farò accettare
negli uffici d'amministrazione, dove, tranne il catenaccio, è come esser qui. Vedete dunque che in realtà si riduce a una
commedia, mentre se invece vuol suscitare rumori, scandali, o pretende che la legge si abbia a cangiare pe' suoi begli
occhi, allora si taglia la strada sotto i piedi, lega le mani a noi, ci compromette e da un maluccio fa nascere un
malaccio."
"Posso quasi assicurare che il giovane non sopporterà il suo disonore" prese a dire Arabella con accento che
aveva in sé qualche cosa di tagliente e di sprezzante. "A ogni modo non possiamo sopportarlo noi, non è vero,
Colomba?"
Il Galimberti aprì le due braccia come se volesse dire: "Non c'è rimedio..." e voltò la faccia verso il muro per
non saper che cosa rispondere.
"Il signor delegato che dice di voler bene a queste povere donne vorrà, come ha promesso, tirar le cose in
lungo."
"È tutto quello che posso fare, cara la mia signora: e lo farò volentieri, perché non solo voglio bene a queste
povere donne, ma il figliuolo mi ricorda la sua povera mamma. La Colomba sa che... che... che..."
E con una scossa del capo si sforzò d'inghiottire un grosso stranguglione di reminiscenze.
Arabella si alzò, e trasse in un angolo vicino alla finestra il delegato, mentre la Colomba pareva diventata sulla
sedia un sacco di stracci. Prese famigliarmente le mani del pacifico tiranno e gli mosse una serie di questioni, alle quali
egli rispose benevolmente, fissando con crescente meraviglia gli occhi negli occhi di questa cara donnina, che gli
parlava con tanto calore e con tanta seduzione. Il mestiere non gli aveva ancora fasciato il cuore d'una corazza di
bronzo; e posto in mezzo tra una povera vecchia che gli risuscitava il passato, e una simpatica bellezza che lo pregava
cogli occhi bagnati, si lasciò trascinare a promettere, non solo che avrebbe cercato di mandar la pratica in lungo, ma che
avrebbe anche rilasciato un foglio di via per Ferruccio, una patente netta... Al resto avrebbero pensato le donne.
"Le donne, le donne, le donne…" seguitò un gran pezzo a ripetere il povero uomo, quando rimase solo, rotto e
sfasciato anche lui sotto l'emozione e sotto il peso della responsabilità che gli addossavano.
Quantunque vedesse di non far nulla di male a tirar la pratica in lungo, quantunque una dichiarazione di buona
condotta la potesse sempre rilasciare a un giovane non ancora giudicato, tuttavia nella sua coscienza di onesto
impiegato sentiva di servir male la sua padrona, questa volta. Il giovinotto avrebbe preso il volo... Oh le donne; vive e
morte, son sempre le più forti...
V. PREPARATIVI PER LA PARTENZA
Arabella promise alla Colomba che si sarebbe lasciata vedere più tardi e andò a fare una visita allo zio Borrola
per chiedergli un consiglio.
Gli zii l'accolsero colla gioia con cui avrebbero ricevuta la regina Margherita. Sidonia l'abbracciò un gran
pezzo e se la scaldò sul seno, mentre lo zio Mauro faceva mettere una posata di più in tavola. La zia, dopo averla
carezzata come un micino, si congratulò di trovarla bene in salute, le parlò del povero Lorenzo che faceva pietà, si
rallegrò con lei che tutto fosse finito colla pace di tutti. Arabella aveva fatto un gran bene, ma poteva farne dell'altro. I
buoni zii erano disposti a transigere, e a contentarsi di poco; ma Arabella avrebbe dovuto persuadere Lorenzo a tener
conto che la zia Sidonia non aveva ancor ricevuto l'ultimo residuo della sua dote, causa di vecchi rancori tra lei e suo
fratello Tognino, il quale era morto senza aver regolata la posizione. Poiché da tutte le parti si parlava di conciliazione e
di amichevoli accomodamenti, la zia sarebbe stata contenta di aggiustare anche questo arretrato (un'inezia di dieci o
dodici mila lire), una cosa subito fatta, quando Arabella suggerisse una parolina all'avvocato.
Essa rispose tre volte di sì senza afferrare una sola parola di tutto questo grande discorso. Lo zio Mauro si offrì
di presentarla all'arcivescovo, un venerando prelato che... ma Arabella gli troncò le parole in bocca per raccontargli il
caso di Ferruccio. Bisognava fare in modo che quel povero ragazzo potesse lasciare il paese. Era un dovere di tutti i
parenti di proteggere un giovine onesto, che scontava le conseguenze di colpe non sue. Ai mezzi avrebbe provveduto
essa stessa, ma bisognava indirizzarlo...
"È il caso nostro" esclamò lo zio Borrola. "Vado subito a parlarne all'amico Vicentelli, che sta per inviare in
America tutto il materiale della Forza del destino Se siamo ancora in tempo, non saprei trovare una più bella
occasione per un giovine che vuol cambiar aria e tentare la sua fortuna."
Anche la zia Sidonia prese vivo interesse a questo caso doloroso, in cui vedeva coll'anima dell'artista un non so
che di drammatico e di avventuroso. La ribellione all'autorità, costituita già nell'indole sua, era cresciuta il giorno che a
Parigi alcuni gardiens de la paix avevano battuto e maltrattato un caro suo cagnolino terrier , mentre
l'imperatrice Eugenia passava in carrozza sulla piazza Vendôme.
Arabella uscì collo zio Mauro, e non si dette riposo finché non ebbe parlato col signor Vicentelli. C'era ancora
l'occasione, ma non bisognava perder tempo. Il piroscafo doveva lasciar Genova ai quindici del mese e bisognava
trovarsi sul posto qualche giorno prima. Il giovane avrebbe viaggiato col direttore della compagnia, uomo pratico che
aveva fatto più volte la traversata dell'Oceano. Una volta a Buenos Aires, avrebbe giudicato lui stesso della convenienza
o di restare colla compagnia in qualità di contabile, o di cercarsi un altro posto. Chi ha qualche soldo in tasca è sempre
padrone del mondo.
Arabella verso sera tornò a veder Ferruccio e la Colomba in via San Barnaba. Sedettero nell'apertura della
finestra, dopo aver socchiuso l'uscio della stanza per non farsi sentire dalla Nunziadina malata.
"Ciò che importa maggiormente adesso è che lei salvi il suo onore" cominciò a dire la signora, volgendosi al
giovine, e parlandogli col tono rispettoso, che aveva sempre usato con lui, come se passato il pericolo, ciascuno
ricuperasse il suo posto. "Per quante giustificazioni noi potremo dare a noi stessi e alla gente, è inutile, non potremo
impedire che il suo nome resti su quei registri e che la giustizia umana faccia di lei un brutto arnese. Non è così,
Colomba?"
"Meglio morire che andar là dentro" soggiunse la vecchia.
"Ferruccio non deve nemmeno morire. Egli è giovane, è buono, è onesto, vero, Ferruccio? sa meglio di noi che
nell'onore è il coraggio, è la vita: sa che noi gli vogliamo bene."
Essa gli prese una mano e lo guardò negli occhi.
"Che cosa devo fare?" sillabò il giovane a testa bassa.
"Partire. C'è una buona occasione. Guardi." Essa presentò una lettera con un piccolo manifesto stampato. "Mio
zio assicura che Vicentelli è un galantuomo e che il direttore è persona prudente. Ella non avrà che d'aiutarlo a tenere i
conti della compagnia, e intanto si vedrà quel che si potrà fare. Ma bisogna partir subito sabato..."
"Dopodomani?" chiese la Colomba, sbarrando gli occhi e alzando le due mani in aria. "Ed è lontana questa
città... come si dice?"
"È un poco lontana, ma noi gli procureremo delle raccomandazioni. Le mie monache vi devono avere una casa.
Gli daremo del denaro abbastanza perché non abbia a soffrire. Ferruccio ha del coraggio e saprà fare laggiù quella
fortuna che non gli lasciano fare a casa sua. Non c'è più nulla di buono da raccogliere in questo vecchio paese. Il signor
delegato ha promesso di aiutarci e farà avere stasera un buon attestato. Niente lo lega al suo paese. Vorrei esser libera
come lui! veder del mondo, veder della gente nuova..."
E poiché la Colomba chinava la testa avvilita, Arabella si chinò verso di lei e le disse piano:
"Non aspetterete che ve lo maltrattino, come avete visto fare a quel ragazzaccio..."
E a Ferruccio, che la contemplava con occhio fisso e brillante, disse:
"Lei non si lascerà mettere le mani addosso".
Il giovine scattò dalla sedia e mosse alcuni passi sul ballatoio, colla testa bassa, colla mano dentro i capelli.
Quando tornò nel vano della finestra esclamò:
"Va bene, son pronto".
"Tu, tu non lo dirai a quella povera donna" singhiozzò la zia Colomba, indicando l'uscio della malata.
"Basterebbe a farmela morire, e allora resterei qui sola come un cane. A lei e a tuo padre diremo che hai accettato il
posto che ti ha offerto il padre Barca, che parti per qualche tempo per Genova."
La povera donna, portatosi il grembiule agli occhi, cercò di soffocarvi dentro il gran pianto e la passione che
rompevale lo stomaco. Ferruccio le circondò la testa col braccio e vi posò le labbra un pezzo senza piangere.
Toccava all'Arabella di far cuore a tutti e due. In quanto alle spese non vi dovevano pensare: essa lasciò subito
del denaro per i primi bisogni. Non occorrevano grandi preparativi. Bastava una valigia colle cose più necessarie;
perché Buenos Aires è paese civile e ci si trova tutto. Per non dar sospetto alla zia Nunziadina era bene che Ferruccio
preparasse le sue quattro robe nell'ammezzato, dove all'indomani essa avrebbe portato il denaro del viaggio. In quanto
alle donne e a suo padre, Ferruccio non doveva aver pensieri. Casa Maccagno era in obbligo di dare una riparazione, e
non per nulla essa aveva perdonato il male che le avevano fatto.
In questi discorsi venne la sera. Prima che fosse buio del tutto Arabella si alzò, e accompagnata dal giovine,
andò a cercare ospitalità in casa dell'Arundelli, che per farle posto dovette mandare il marito a casa della nonna.
Le due compagne di Cremenno passarono tutta la notte a discorrere di questi grandi avvenimenti, che tenevano
la Pianelli in uno stato di febbrile orgasmo. Si vedeva dalla sua inquietudine e dalle sue parole eccitate e nervose che
aveva nel cuore una grande ribellione, qualche cosa che non vi doveva essere. La buona e pia Arabella non solo parlava
male della giustizia umana, ma parlava troppo di quel benedetto giovine. Temeva che il delegato non avesse a
mantenere la promessa: che lo avessero ad arrestare a tradimento: che avesse a commettere un atto di disperazione. E in
queste spine si voltò cento volte nel letto, sospirando, rompendo il sonno della compagna, ritornando cento volte su
delle discussioni che finirono coll'impensierire l'Arundelli.
Appena giorno fu subito in piedi.
Si vestì, uscì con un pretesto, promettendo di tornare, corse a San Barnaba per accertarsi che non lo avevano
arrestato. Lasciò detto alla Colomba che verso mezzodì li avrebbe raggiunti in via Torino, nello studio, e appena le
parve un'ora conveniente, si recò in piazza di Sant'Ambrogio in cerca dell'avvocato. Questi l'accolse cortesemente e non
esitò a consegnarle tremila lire, di cui essa lasciò una ricevuta; e stava per andarsene, quando il Mornigani venne ad
annunciare il signor Lorenzo.
"Bravo non avrebbe potuto arrivare più a tempo" esclamò l'avvocato; "e poiché domani dobbiamo trovarci tutti
insieme alle Cascine a benedire col vino bianco questa bella conciliazione, permetta, cara signora, che io ne pregusti le
primizie. Brava, eccolo qua..."
Lorenzo, nel rivedere sua moglie, abbassò la testa e si fermò sulla soglia, come un ragazzo timido e pentito che
aspetta il perdono della mamma.
"Avanti, e stringiamoci la mano, cari figliuoli" declamò l'avvocato con un tono paterno e religioso. "Così,
bravi! e non si parli più di quel che è stato."
Arabella prese la mano che Lorenzo, commosso fino alle lagrime, le stese, e parlando a monosillabi, accettò,
acconsentì a tutto quello che l'avvocato credette utile di aggiungere, come se in fondo non si trattasse di lei. E le parve
di intendere che Lorenzo si sarebbe recato alle Cascine quel giorno stesso, col tram delle quattro, per accondiscendere
all'invito della mamma, che aveva preparata una dolce congiura.
Avrebbero potuto tornare insieme e fare ai parenti una bella improvvisata.
Mentre un'Arabella rassegnata e indulgente diceva di sì e rimettevasi alla volontà degli altri, un'Arabella più
nervosa, meno buona, quasi straniera alla prima, usciva da lei a combattere una battaglia in cui aveva bisogno di restar
vinta.
Lasciò suo marito ai grandi affari e se ne venne via col desiderio di trovarsi ancora collo zio Borrola, che aveva
delle conoscenze in America e poteva dare delle buone lettere di presentazione per Ferruccio.
Passando dalla chiesa di San Giuseppe, un bisogno del cuore la condusse a pregare un istante ai piedi di un
altare. S'inginocchiò, fissò gli occhi sopra un quadro in cui era dipinto il Transito del santo in mezzo a due schiere
d'angeli, e pregò un pezzo cogli occhi, come se non avesse più la forza di formulare col pensiero un'aspirazione.
La chiesa raccolta, gelida, immersa in una luce squallida, le mise indosso dei brividi di freddo. Si scosse, venne
via, traversò la piazza della Scala e le strade popolate, pensando a nulla, cedendo, più che obbedendo, alla necessità che
la riconduceva a rivedere la sua casa. Non pioveva ancora, ma c'erano in aria dei brutti segni. Era una giornata bigia,
malinconica, svogliata, col cielo chiuso.
Domandò alla portinaia la chiave degli ammezzati e per la scala di servizio entrò nello studio di suo suocero,
ancora ingombro di carte e di mobili, che si rimpiattavano nell'uggia e nell'oscurità di quella giornata semipiovosa.
Passò nella seconda stanza e vi trovò della roba sparsa sulle sedie. C'eran dei libri, della biancheria. Ferruccio
non aveva perduto tempo e stava preparando gli effetti di viaggio fuori dagli occhi della zia Nunziadina.
Una valigia nuova era aperta sul canapè. Il giovane era uscito per presentarsi al signor Vicentelli; ma aveva
detto alla portinaia che sarebbe stato subito di ritorno.
Arabella raccolse alcune cosucce e cominciò a collocarle nella valigia, come aveva fatto molte volte pe' suoi
fratelli alla vigilia del loro entrare in collegio.
I rumori della città viva e grande che agitavasi intorno venivano dalla viuzza a urtare contro la polverosa
finestra di quell'antro offuscato, in cui l'odor di chiuso s'inaspriva nell'acredine del vecchio inchiostro. Un cappello
molle di campagna dimenticato sull'attaccapanni, richiamò la memoria di un uomo, che aveva finito di combattere le
sue battaglie. Dio può perdonare al peccatore, ma i frutti del male devono di necessità rigermogliare sulla terra.
Isolata nel suo dolore essa non viveva che di questo, come se ogni altro sentimento l'avesse abbandonata; e nel
suo sentimento cercò d'immergersi, sperando di trovarvi l'attutimento dei sensi. Piangeva in silenzio, d'un pianto
interno, su chi partiva e su chi restava, mentre le mani rimestavano macchinalmente nella sacca.
Tra le carte sparse sulla scrivania riconobbe dei foglietti scritti di sua mano. Erano alcune pagine della lettera,
che in un momento di eloquente disperazione essa aveva scritta in casa della Colomba allo zio Demetrio e che non era
stata mandata a destinazione. Ferruccio voleva portarsela con sé come una reliquia.
Arabella rilesse alcuni periodi colla dolente curiosità di chi rivede il proprio ritratto d'altri tempi, e si ritrova
diverso, pur riconoscendo se stesso. Ora non avrebbe saputo scrivere così. Il suo cuore era più rassegnato: chi sa? forse
più morto.
Sul rovescio d'una di quelle paginette, obbedendo a una pietosa ispirazione, scrisse queste sentenze:
"Il patimento avvicina e redime le anime, ci colloca in alto sul divino Calvario, da dove si domina la valle dei
bassi egoismi.
"Vi è qualche cosa di più triste che l'esser soli: è il non poterlo essere quando lo si sospira.
"Morir soli è triste. Ma più triste è dare spettacolo della propria agonia in una fiera.
"Non vive inutilmente chi sa ispirare una vita onesta e generosa."
Scriveva queste idee non sue come per reminiscenza o per incantamento senza accorgersi che Ferruccio,
entrato poco prima, aspettava timidamente sulla soglia.
Da tre giorni la vita del giovane Berretta non era più che un seguito di movimenti automatici, di corse, di
sgomenti improvvisi, di occupazioni frettolose e materiali, ch'egli eseguiva in seguito a spinte più forti di lui.
Quando essa si accorse ch'egli era presente, gli disse senza turbarsi:
"Leggerà, è un mio ricordo. Le ho portato il denaro per il viaggio. Son tremila lire che potrà far cambiare in oro
a Genova. Questo denaro è mio, e intendo che lei lo abbia a ricevere come un'indennità ai danni morali e materiali che
abbiamo recato a lei e a suo padre…"
"Lei?..." balbettò il giovane, quasi protestando.
"Sì, noi tutti... via! non stia a distinguere. Spero che il signor Galimberti avrà mandato l'attestato promesso.
Vada con coraggio: suo padre riavrà il suo posto e non mancherà di nulla. Queste son due lettere per un'agenzia teatrale
di Montevideo: e se si ferma qualche giorno ancora a Genova, avrò tempo di farle pervenire qualche altra
commendatizia per i padri Cappuccini di laggiù. Sono raccomandazioni che litigano un poco tra loro" soggiunse
ridendo, per rompere la malinconia di quel discorso "ma in un paese lontano si può aver bisogno di tutti. Lei saprà
distinguere, del resto. Ha parlato con Vicentelli?"
"Sissignora, pare che fino a lunedì non si possa partire."
"Avrei piacere che potesse partire più presto. Per fortuna abbiamo un buon angelo nel delegato: possiamo stare
coll'animo tranquillo. Ho qualche obbligazione anche verso la buona zia Colomba. Se potessi vederla prima di andar
via..."
"Verrà qui a momenti."
"Se non la vedo, la preghi di accettare questa spilla in memoria della carità che mi ha fatto..."
Si tolse dal petto una spilla d'oro e la consegnò al giovine, che mormorò qualche parola di ringraziamento.
"Mi mandi qualche volta le sue notizie. Intanto io non tralascerò dal far le pratiche, perché le sia levata anche
questa piccola condanna. Farò parlare e andrò io stessa dall'arcivescovo, che dice di aver verso di me qualche
obbligazione. Monsignore è in buoni rapporti colla Corte e so che in certe occasioni quando non si tratta di delitti
comuni si concedono amnistie speciali. Intanto non è male vedere dei paesi nuovi."
Ferruccio, appoggiato colle spalle allo stipite dell'uscio, trasse un sospiro coperto come se patisse in sogno.
Cogli occhi bassi, pareva tutto occupato a decifrare i disegni di un fazzoletto che teneva stretto e teso in uno sforzo
nervoso colle due mani.
Arabella si mosse e toccò qualche libro di quelli che erano sparsi sul tavolo e sulle sedie.
"Questo è latino: bravo. Un Virgilio... Fa bene a tenersi in esercizio. Badi a non diventarmi un cappuccino
anche lei..."
E si volse a ridere ancora per invogliare il giovine a uscire da una tristezza, che li avviliva entrambi
schiacciandoli. Vedendo ch'egli non osava alzare gli occhi dopo aver accomodate alcune cosuccie nella valigia, la
signora si aggiustò un lembo del velo sul capo e sulle spalle, guardò a lungo l'orologio per fissare l'animo e la volontà in
uno sforzo supremo sopra un oggetto che la sostenesse, e quasi correndo verso di lui gli tese la mano con piglio
soldatesco, esclamando:
"Dunque, addio!"
Ferruccio vacillò, appoggiò le braccia al muro, alle braccia appoggiò la testa per nascondere e per soffocare un
pianto, che non era più capace di dominare.
Arabella si passò lievemente la sinistra sul volto per rimuoverne una nuvola oscura che l'avvolse, socchiuse gli
occhi con un abbandono d'infinita stanchezza, si avvicinò, gli posò le mani sulle spalle, vi si appoggiò, e parlandogli
nell'orecchio, ebbe ancora la forza di aggiungere:
"Senti, anch'io ho bisogno di coraggio. Il tuo piangere mi avvilisce. Anch'io devo partire tra pochi minuti. Mi
aspettano... Se è vero, Ferruccio, che tu mi vuoi un poco di bene, non devi farmi soffrire così."
Il figlio della povera Marietta a quella voce che spasimava si rivolse, si drizzò sulla persona, e premendo il
fazzoletto sugli occhi, cercò anche lui di essere forte: ma non poté dire che queste due parole:
"Madonna, aiutatemi..."
Era accecato dalle lagrime e dal dolore. Sarebbe forse stramazzato in terra, se le due braccia della signora non
l'avessero stretto e sostenuto. Sentì il calore d'un viso ardente sul suo: sentì sulla fronte e sui capelli una furia di baci
ardenti, sentì due mani gelide che gli serravano la testa: ma non osò, non poté aprire gli occhi.
La sua vita precipitava in un abisso vuoto, oscuro, senza fondo.
La Colomba, che entrata non vista, assisteva da mezzo minuto a quella scena, cercò di separarli.
"Certo che voi morirete e ci farete morire anche noi. O Madonna dell'afflizione, abbiate misericordia!"
E strappando Ferruccio per un braccio, gli disse con accento sconvolto misto di pietà e di rimprovero:
"Basta il patimento, Ferruccio. Basta per amore della tua mamma. E tu, figliuola vieni con me. Non sta bene. È
una tortura per tutti: insieme al cuore si perde l'aiuto di Dio."
Con queste parole riuscì alla donna, inframmettendosi, di separarli. Ferruccio cadde su una sedia. Presa
Arabella come una prigioniera, non senza qualche violenza toccò ancora alla Colomba di metterla fuori, nell'altra
stanza, dove, carezzandola e persuadendola:
"Andiamo," le disse "non si faccia vedere così: non sta bene."
Chiuse l'uscio dietro a sé, le trasse di tasca il fazzoletto, con questo le asciugò gli occhi, le ravviò colle mani i
capelli, le ricompose il velo, le pieghe, la rimproverò, la compatì cogli occhi.
"Non sta bene neanche per l'anima. Offra al Signore quest'altro patimento. Vada dalla sua mamma. Pensi a
quel che soffriamo anche noi. Pensi alla notte che dovrò passare, quando sarà partito quel ragazzo. Dio la benedica per
il bene che gli vuole, ma vada via, vada via."
E bel bello la spinse fin sull'uscio della scala. Sul punto di mettere il piede sul pianerottolo, Arabella con moto
sdegnoso cercò di resistere ancora un poco, attaccandosi al battente dell'uscio. Sentendo uscire quasi un gemito dall'altra
stanza, fece l'atto di gettarsi ancora verso la porta; ma la Colomba le si avviticchiò alla persona:
"No, lascialo stare, lascialo piangere..."
Arabella scese a precipizio le scale, mentre la Colomba serrava dietro di lei la porta con un giro di chiave.
VI. LA MORTE È BUONA
Uscì sospinta da una forza maggiore della sua volontà, nella fiducia che l'aria aperta avrebbe dissipata la
fiamma che divoravale la testa.
Il tempo, che per chi soffre è il miglior elemento della vita, senza ch'ella se ne avvedesse, era volato durante
quella giornata piovigginosa nelle varie corse attraverso alla città; talché, quando scese le scale, eran quasi le quattro.
Passò di nuovo in mezzo alla gente col passo rotto di chi non sa dove va, col cuore in tempesta, colla mente
intorbidita da una violenta emozione, cacciata avanti dal pensiero che qualcuno l'aspettava alla stazione del tram di
Lodi, e che alle Cascine, da dove era partita così improvvisamente, dovevano essere inquieti di non vederla ritornare. La
mamma aveva preparata una dolce congiura, e domani, anzi stasera, essa doveva essere là al suo posto, ad una festa di
perdono e di conciliazione. Il suo dovere era là: tutto il resto non era che passione inutile.
Questa idea a poco a poco divenne così netta e precisa, in mezzo alle mille altre che l'assalivano, che come una
fiamma accesa in fondo a una landa oscura, aiutò a guidarla in mezzo alle varie strade della città e a condurla verso
Porta Romana.
Giunta sul piazzale, fuori di porta, dov'era una brutta stazione di legno, chiese ad alcuni uomini l'ora della
prima partenza. Sentì che mancava una buona mezz'ora. Indecisa, se tornare indietro o se rifugiarsi nella baracca,
parendole che il tempo fosse sicuro e che gli uomini la guardassero con sfacciata insistenza, spinta forse anche dal
bisogno di rompere con una forte fatica e di domare un cattivo spirito che l'aizzava, prese a camminare avanti, verso le
ultime case del sobborgo dove il tram fa di solito una breve sosta prima d'infilare la stradale. La tratta non è lunga, l'aria
umida e fresca faceva bene, e più bene ancora il piacere di essere sola.
Passati gli ultimi casolari, che si distaccano dal corpo massiccio della città come rari e sparsi scogli alla punta
di un promontorio, si trovò presto nella campagna aperta, senza un'anima viva intorno, perché le frequenti pioggerelle
del giorno avevano spopolato i campi.
Credette di sentirsi meglio, quando fu sola e che le parve d'essere abbandonata. Se avesse ceduto alla
tentazione del cuore, avrebbe lasciata anche la strada maestra per mettersi attraverso i campi e perdersi nei prati che
affondano nel guazzo e nella nebbia.
"A che pro Dio le aveva fatto conoscere questo affetto, se anche questo doveva diventare nel suo cuore uno
strumento di tortura? non era più sicura nella sua ignoranza? Ora comprendeva, e troppo tardi, che cosa sia per una
donna amare. Ora solamente e inutilmente entrava nello spirito delle parole grandi e divine che amore ha ispirato in tutti
i tempi. Se fino a ieri, per non dire fino a poche ore fa, essa non aveva amato che come una sorella, come una madre,
come un'anima buona e pietosa, un poco per dovere, un poco per naturale compassione, un poco per incapacità ad
amare diversamente; ora sentiva d'essere non più una collegiale, ma una donna. Il suo cuore ardeva... A che pro? chi
l'aveva trascinata in questo fuoco? Perché invece di rifugiarsi alle Cascine, non tornava indietro a dividere con quel
povero giovine i pericoli dell'esilio? Vivere, lavorare, patire insieme a lui, in una remota parte del mondo, amarsi sopra
uno scoglio, morire con lui..."
Ah! non era lei che pensava queste cose. Era la febbre, era la gran sete che la faceva delirare.
Le gore che stagnavano all'orlo della strada, l'attiravano con malsani luccicamenti a gettarsi nell'acqua nerastra
e livida, tanta era l'arsura.
"Perché doveva nutrire della sua vita fatta a brani il pacifico egoismo di tutti gli altri? perché vietare a sé stessa
un'ora di follia? che cosa poteva fare per avere un'ora di felicità? che cosa aveva commesso nella sua vita, perché non
potesse essere contenta mai, mai, mai?"
Le sue idee a un tratto si rischiararono. Si ricordò che aveva consacrata la sua esistenza a Dio in espiazione
dell'anima di suo padre suicida. Dio l'aveva accettata: ma aveva scelto lui l'altare e la forma del sacrificio.
Non era lei che parlava, ma parlava la febbre che le abbruciava gli occhi, che le faceva veder rossa la strada e
color del sangue le pozze d'acqua dentro le carreggiate.
Per quanto le repugnasse di tornare nelle braccia d'un uomo che non amava: per quanto il mentire fosse
contrario alla sua natura, con tutto questo non poteva dire a' suoi parenti: "Pensate quel che volete voi, ma ogni
conciliazione è impossibile. Io non resto più. Vado via, vado a morire in un paese lontano, tra altri barbari meno feroci
di voi". Come dire queste orribili cose a sua madre, a suo marito, al suo benefattore? Son gridi che una esaltazione
febbrile può strappare dal cuore: ma fin che resta in mezzo al male un filo di coscienza e di ragione, c'è sempre
qualcuno dentro di noi che si ostina a ripetere: "Impossibile, impossibile!". Essa stessa andava avvertendo nel suo modo
di ragionare un non so che di spezzato, d'intermittente, come se in lei dialogassero due persone, come se tutto il suo
essere si sdoppiasse, come se due donne corressero di pari lungo i regoli del binario alla luce d'una vampa. La febbre
suscitava in lei una nervosa energia di pensiero. La sete, il caldo, mandavano al cervello grosse e deformi le ombre
fantastiche, congiuravano a rendere gigantesco e spaventoso il suo patimento, a sconvolgere il senso delle cose.
Quando dal cuore i mali salgono al capo, quando da ventiquattro ore ti pesa una brace sul petto, quando la sete
ti divora le viscere, la vita diventa un sogno, i sogni ridiventano la vita: il vero e l'ombra si mescolano: non sai fin dove
vaneggi e fin dove soffri davvero. Forse ti pare di correre sopra uno stradale lungo, interminabile, melmoso, in una
bigia, interminabile giornata: e tutto ciò non è che lo sforzo impotente che tu fai nel tuo letto per rompere un
vaneggiamento febbrile, per uscire da un fastidioso delirio.
A un certo punto lo schioccare d'una frusta la richiamò al senso della realtà. Essa aveva già oltrepassato il palo
che segna la fermata. Le parve che un uomo dietro di lei le gridasse qualche cosa di seccante, di inafferrabile, e affrettò
il passo, persuasa che il suo dovere fosse di correre sempre avanti per arrivare più presto alle Cascine, per salvarsi da
una tentazione, per gettarsi a' piedi de' suoi a chiedere perdono.
Più camminava però e più sentiva le gambe farsi pesanti e le vesti intralciarsi al passo e avviticchiarsi come
drappi umidi: e il piede sprofondare in un pantano di materialità ributtante e grossolana, in cui spiccicavano delle idee
non meno ributtanti e grossolane.
Il rimorso, ritrovandola così debole e sconvolta, tornava a riprendere d'assalto la debole coscienza della
monachella e diceva: "Vergognati! hai lasciata la tua casa, hai abbracciato e baciato vergognosamente un povero
giovinetto, hai sgomentato la sua vergine coscienza, torna a casa, espia, espia..."
Non era meglio morire? non incalzava dietro di lei qualche cosa di fatale e di tremendo? Se invece di correre
troppo presto verso la sua condanna, avesse rallentato il passo, si fosse sdraiata in terra...? Anche il povero papà era
passato per queste spine, per questa strada melmosa, in cui l'anima affoga nel fango. E se non era lui vivo, era il suo
fantasma inquieto, che camminava dall'altra parte, lungo il regolo del binario, e che le diceva: "A che giova il tuo
sacrificio? tu non lo compi con rassegnazione, e il bene che si fa con rancore non giova né ai vivi né ai morti. Tu mordi
la tua catena e imprechi contro di me: così siamo due anime perdute. Va a casa, Arabella, abbraccia la tua povera
mamma e domanda perdono, perdona tu per la prima... corri, corri: non vedi che piove? corri, vien la macchina..."
Il tram a vapore, lasciate le ultime case, veniva veramente per la strada grossa con una crescente velocità,
sbuffando e rompendo la nebbia grigia coi due fanali d'un rosso sanguigno.
Arabella nel suo delirio ne aveva più che il presentimento, lo sentiva, lo temeva: ma non sapeva distinguere
quanto di vero entrasse nel sogno, e, come chi sogna, non sapeva risolversi. Ma il desiderio della vita la prese. Incapace
di uscire dalle due guide, ch'essa vedeva alte come due muri di ferro, cominciò a correre, quanto poteva permettere la
strada molle, ingombrata dalle traversine.
Perché non avrebbe lasciato venire la morte? Molti terrori s'illuminarono nel buio del suo pensiero delirante e
vide dentro a un baratro di fuoco gli eterni spaventi del morire disperata. Perché non usciva dunque dal binario?
La macchina già poco lontana fischiava, la campanella sonava a stormo. Essa fece il segno della croce per
resistere alla tentazione di sdraiarsi sul terreno. Era affranta, resa ottusa da un sonno di piombo. La sua fede ripugnava
con energica resistenza al suicidio. "Oh no Madonna, no, morire a questo modo." Perché dunque non andava fuori di un
passo? non poteva. C'eran quei due muri di ferro. Una volta incespicò, cadde sopra un ginocchio, si rizzò subito, prese a
correre, a strillare; Gesù, Maria, che sogno!
Dietro di lei molte voci gridavano, infuriavano. Pareva un popolo insorto che l'inseguisse per farla a brani.
C'era in quella folla l'Angiolina ortolana. Ne sentiva la voce inviperita. E le parve ancora una volta che papà cercasse di
strapparla dal pericolo, tirandola pel lembo del vestito, che si sfilacciava in mano al fantasma. Poi qualcuno nero e duro
la prendeva alla vita, la sollevava, la buttava nel fango della strada.
La macchina col treno si fermò a due passi di distanza.
Da un pezzo il macchinista aveva notato la donna che si ostinava a camminare sul binario, e col fischio, colla
campana, aveva dato tutti i segnali. Una volta gli parve che la maledetta donna avesse capito, perché la vide uscire dalle
guide, ma subito dopo tornò dentro col passo d'una ubbriaca. Dette il controvapore, strinse i freni. La gente, mettendo la
testa dalle finestre, cominciò a urlare. Un giovine fochista balzò a terra, strabalzando, e presa la donna attraverso la vita,
arrivò a tempo per un pelo a gettarla in disparte come un sacco di cenci. Molti discesero dai vagoni (c'era anche
Lorenzo, che l'aveva cercata inutilmente alla stazione), circondarono la donna, la raccolsero. Venne a passare un carro
delle Cascine, ve l'adagiarono, la portarono a casa più morta che viva.
Chiamato in fretta il dottore, giudicò un tifo, gravissimo, forse senza speranza.
Arabella per tre o quattro giorni non fece che delirare e chiamare con alti gridi Ferruccio, la Colomba, il suo
papà morto, lo zio Demetrio, suor Maria Benedetta. La voce arrivava fino alla stanza di Angelica, oltre la Colorina.
Nell'arsura infernale d'una febbre di quaranta gradi, balzava dal letto e guai se Lorenzo non era presto ad abbracciarla, a
riporvela, a tenervela! Scarmigliata, cogli occhi distrutti e infossati, essa era più forte di lui, gli graffiava il viso, lo
copriva di oltraggi volgari, finché rotta e sfinita in tutte le ossa, ricadeva in un profondo abbattimento.
Lorenzo, posando la testa sul suo guanciale, piangeva come un bambino.
Gli altri in casa non eran più gente. Eran morti in piedi.
Si chiamò con telegramma lo zio Demetrio, che aspettava d'essere invitato a battesimo.
Durante quei tre o quattro giorni la poverina rivisse in sogno delirando ora coi vivi, ora coi morti, finché le
rimase un'oncia di forza.
Rivide la sua bella mamma ancor giovane andare alle feste con un vestito celeste orlato di un pizzo doré. Vide
se stessa ancor fanciulletta in mezzo a' suoi fratellini, mentre frullava il sabaglione in una piccola cazzeruola lucente.
Mario, Naldo e il piccolo Bertino, bello e biondo come un angelo, ridevano a veder la spuma gialla e profumata
traboccare dall'orlo; e la malata rideva anche lei d'una gioia intera e traboccante, immaginando che quella spuma gialla
e profonda montasse a ondate ad avvolgerla. Quindi usciva la sensazione della prima comunione, colla vista della chiesa
lunga, chiara, tutta fiori e pizzi bianchi; ma non capiva perché Ferruccio fosse andato a porsi in mezzo alle ragazze. Che
c'entrava lui colle ragazze? e perché tutti lo carezzavano con tanta tenerezza. Essa ne provava un'invidia amara, correva
a strapparlo via, gridava: "È mio". Se non che altri fantasmi la conducevano a visitare le cameruccie sotto i tetti, dove
abitava una volta lo zio Demetrio, un uomo buono come un santo, che aveva molte gabbie di canarini, che cantavano a
stordire, svolazzando liberi intorno. Entrando nelle stanzuccie, ne vide più di cento volarle addosso, belli, vispi, bianchi
e gialli posarsi sulle spalle, sulla testa, sul braccio. Se la pigliavano in mezzo, la portavano via, in alto in alto, in un volo
delizioso, verso il campanile di Cremenno, che si disegnava sullo sfondo azzurro del cielo...
E in questa felicità la poverina finiva di patire.