Racconti fantastici
I FATALI
Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un'influenza sinistra sugli uomini e sulle
cose che li circondano? È una verità di cui siamo testimonii ogni giorno, ma che alla nostra ragione
freddamente positiva, avvezza a non accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei nostri
sensi, ripugna sempre di ammettere.
Se noi esaminiamo attentamente tutte le opere nostre, anche le più comuni e le più
inconcludenti, vedremo nondimeno non esservene una da cui questa credenza ci abbia distolti, o a
compiere la quale non ci abbia in qualche maniera eccitati. Questa superstizione entra in tutti i fatti
della nostra vita.
Molti credono schermirsene asserendo per l'appunto non esser ella che una superstizione, e
non s'avvedono che fanno così una semplice questione di parole. Ciò non toglierebbe valore a
questa credenza, poichè anche la superstizione è una fede.
Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel mondo spirituale quanto nel mondo fisico,
ogni cosa che avviene, avvenga e si modifichi per certe leggi d'influenze di cui non abbiamo ancora
potuto indovinare intieramente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e inscienti
dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di intelligenze su intelligenze, e di queste su
quelle ad un tempo; vediamo tutte queste influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l'una sull'altra,
riunire in un solo centro di azione questi due mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il
mondo della materia.
Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato la nostra fede; il segreto dei
fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha analizzato la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le
sue influenze ci sono quasi tutte note: ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e
dinanzi ai rapporti che congiungono questi a
quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più, e ha trattenuto le nostre credenze sulla soglia di
questo regno inesplorato. Poichè nell'ordine dei fatti noi possiamo ammettere delle tesi generali,
delle verità complesse; non nell'ordine delle idee.
Dove i fatti sono incerti, le idee sono confuse. Avvengono fatti che non presentano un
carattere deciso, sensibile, ben definito, e che la nostra ragione calcolatrice non sa se negare od
ammettere. Vi sono perciò idee incomplete, oscure, fluttuanti, che non possono presentarsi mai
sotto un aspetto chiaro, e che non sappiamo se accettare o respingere. Questa incertezza di fatti,
questa incompletazione di idee, questo stato di mezzo tra una fede ferma e una fede titubante,
costituiscono forse ciò che noi chiamiamo superstizione - il punto di partenza di tutte le grandi
verità. Perchè la superstizione è l'embrione, è il primo concetto di tutte le grandi credenze.
Qualora io vedo una superstizione impadronirsi dell'anima delle masse, io dico che in fondo
ad essa vi è una verità, poichè noi non abbiamo idee senza fatti, e questa superstizione non può
essere partita che da un fatto. Se esso non si è ancora rinnovato e
generalizzato per confermarla, egli è che la via dell'umanità è lunga - più lunga quelle delle
cose - e nessuno può determinare il tempo e le circostanze in cui potrà ripetersi. Gli uomini hanno
adottato un sistema facile e logico in fatto di convenzioni; ammettono ciò che vedono, negano ciò
che non vedono; ma questo sistema non ha impedito finora che essi abbiano dovuto ammettere più
tardi non poche verità che avevano prima negate. La scienza e il progresso ne fanno fede. Del resto,
comunque sia, per ciò che è fede nelle influenze buone e sinistre che uomini e cose possono
esercitare sopra di noi, non v'è uomo che non ne abbia una più o meno salda, più o meno illuminata,
più o meno confermata dall'esperienza della vita. Tutto al più si tratterebbe di riconoscere se essa
abbia o no ragione di essere, e fino a qual punto debba venire accettata, non di negarla - poichè
l'esistenza di questa fede è indiscutibile.
Io ne trovo dovunque delle prove. Per me l'antipatia non è che una tacita coscienza
dell'influenza fatale che una persona può esercitare sopra di noi. Nelle masse ignoranti questa
coscienza ha creato la jettatura, nelle masse colte la prevenzione, le diffidenza, il sospetto.
Non v'è cosa più comune che udire esclamare: «quell'uomo non mi piace - non vorrei
incontrarmi per via con quella persona - mi fa paura - d'innanzi a lui io non sono più nulla - ogni
qualvolta mi sono imbattuto in quell'uomo mi è accaduta una sventura.» Nè questa fede che si
presenta sotto tanti aspetti, che quasi non avvertiamo, che è pressochè innata con noi come tutti gli
istinti di difesa che ci ha dato la natura, è sentita esclusivamente da pochi uomini - essa è, in
maggiori o minori proporzioni, un retaggio naturale di tutti.
Questa superstizione accompagna l'umanità fino dalla sua infanzia, è diffusa da tutti i
popoli. Gli uomini di genio, quelli che hanno molto sofferto, vi hanno posto maggior fede degli
altri. Il numero di coloro che credettero essere perseguitati da un essere fatale è infinito: lo è del
paro il numero di quelli che credettero essere fatali essi stessi, Hoffman, buono ed affettuoso, fu
torturato tutta la vita da questo pensiero.
Non giova dilungarsi su ciò, perchè la storia è piena di questi esempi, e ciascuno di noi può
trovare nella sua vita intima le prove di questa credenza quasi istintiva.
Io non voglio dimostrarne nè l'assurdo
nè la verità. Credo che nessuno lo possa fare con argomenti autorevoli. Mi limito a
raccontare fatti che hanno rapporto con questa superstizione.
*
**
Nel carnevale del 1866 io mi trovava a Milano. Era la sera del giovedì grasso, e il corso
delle maschere era animatissimo. Devo però fare una distinzione - animatissimo di spettatori, non
di maschere. Chè se la taccia di fama usurpata, così frequente, e spesso così giusta in arte, potesse
applicarsi anche alle feste popolari, il carnevale di Milano ne avrebbe indubbiamente la sua parte.
Queste feste non sono più che una mistificazione, ed hanno ragione di esserlo, giacchè le migliaja
di forastieri che vengono annualmente ad assistervi non sono però meno convinti di divertirsi. Tutto
stava nell'istillar loro la persuazione che il carnevale di Milano fosse la cosa più comica, più
spiritosa, più divertente di questo mondo. Una volta infuso questo convincimento, non erano più
necessari i fatti per confermarlo - lo scopo di divertire era ottenuto.
Comunque fosse, il Carnevale del 1866 non era meno animato degli altri, e nelle prime ore
della sera del giovedì grasso, la popolazione si era versata sulle strade a torrenti. La folla aveva
talmente stipate le vie che in alcuni punti era impossibile muoversi e presso la crociera della via di
S. Paolo, ove mi trovava io, si era letteralmente pigiati.
Gli onesti milanesi si frammischiavano fraternamente ai forestieri, e si inebbriavano del
piacere di guardarsi l'un l'altro nel bianco degli occhi - ciò che costituisce l'unico, ma ineffabile
divertimento di questo celebre Carnevale.
Non so da quanto tempo io mi trovassi colà, in piedi, in mezzo a quella gran ressa, in una
posizione incomodissima, allorchè voltandomi per vedere se v'era mezzo di uscirne, osservai
intorno a me uno spettacolo assai curioso.
La folla non si era diradata, ma si era ristretta in modo da lasciare in mezzo a sè uno spazio
circolare abbastanza vasto. Nel centro di questo circolo miracoloso v'era un giovinetto che non
mostrava aver più di diciotto anni, ma cui, a guardarlo bene, se ne sarebbero dati venticinque, tanto
il suo volto appariva patito, e tante erano le traccie che
v'erano impresse d'una esistenza travagliata e più lunga. Era biondo e bellissimo,
eccessivamente magro, ma non tanto che la bellezza dei lineamenti ne fosse alterata; aveva gli
occhi grandi ed azzurri, il labbro inferiore un po' sporgente, ma con espressione di tristezza più che
di rancore; tutta la sua persona aveva qualche cosa di femminile, di delicato, di ineffabilmente
grazioso, qualche cosa di ciò che i francesi dicono souple, e che io non saprei esprimere
meglio con altra parola della nostra lingua. La purezza e l'armonia delle sue linee erano
meravigliose; egli vestiva con estrema eleganza; e guardava quà e là, un poco alla folla e un poco
alle maschere, con aria malinconica e divagata come se si trovasse in quel luogo a suo dispetto, e
fosse più occupato di sè che dello spettacolo poco allettante che aveva d'innanzi allo sguardo.
Ma ciò che mi era parso rimarchevole era che egli sembrava non essersi avveduto di quel
circolo che s'era formato d'intorno a lui, nè alcuni di quelli stessi che lo avevano formato
mostravano di averci posto mente. Non era nulla in ciò di veramente straordinario; pure l'esistenza
di uno spazio così vasto in mezzo ad una folla così fitta,
in mezzo ad una moltitudine che si moveva, fremeva, ondeggiava come un corpo solo,
senza riempire mai il vuoto che s'era formato in quel punto, mi pareva cosa meritevole di
attenzione. Si sarebbe detto che da quel giovine emanasse un fluido ripulsivo, una virtù misteriosa
atta ad allontanare da lui tutto ciò che lo circondava.
In quell'istante che io lo stava guardando, essendogli stati gettati alcuni confetti, di cui
parecchi si fermarono tra le pieghe del suo mantello che teneva avviluppato sul braccio, un
fanciulletto si spiccò dal circolo e gli venne d'appresso quasi per domandarglieli, giacchè egli nè li
aveva presi, nè aveva scosso il mantello per farli cadere.
Il giovine lo guardò con affetto, raccolse le confetture, gliele diede; e prima che si
allontanasse gli passò una mano tra i capelli con una specie di tenerezza piena di soavità e di
malinconia.
Egli aveva posto tanto affetto in quell'atto che, ove anche la natura non lo avesse dotato di
un volto così dolce e così simpatico, lo si sarebbe subito giudicato buono e cortese.
È un fatto che il volto è lo specchio dell'anima: non si può indovinare se la natura abbia dato
ella stessa un'espressione buona
ai buoni, e cattiva ai cattivi; o se la bontà e la malvagità umana possano talmente agire sulle
nostre fattezze da modificarle e da imprimervi il loro suggello; ma egli è ben certo che il cuore
trasparisce dal viso, anche da quelli la cui bellezza vorrebbe nascondere un animo turpe, o la cui
laidezza uno onesto.
Io non mi sarei stancato mai di guardarlo. Non so se le affezioni degli altri uomini sieno
governate da questa legge di simpatie e di antipatie improvvise, energiche, inesorabili cui vanno
soggette le mie, - per me l'innamorarmi di un uomo o di una donna, il concepire un'inclinazione od
un'avversione irresistibile per una creatura qualunque non fu mai opera che di pochi minuti - ma mi
ricordo che l'avrei abbracciato lì sulla via, tanto l'espressione del suo volto era affettuosa, tanto quel
linguaggio andava dritto al cuore, senza dar campo alla ragione di discuterci sopra.
Non mi mossi di là finchè non se ne mosse egli pure. La festa incominciava a languire, la
folla incominciava a diradarsi, e il crepuscolo ad avvolgere tutta quella scena in un penombra grigia
e pesante. Eravamo a due passi da un caffè, ed egli vi entrò con
aria d'uomo che non sa come passare il suo tempo, che sente il peso delle sue braccia, delle
sue gambe, di tutta la sua persona, e che vorrebbe sbarazzarsene e buttarlo là sopra un divano come
un fardello noioso ed inutile. Io era nello stesso caso, non aveva che fare, e gli tenni dietro.
Ci sedemmo di faccia, io a guardarlo, egli a leggere. Se non che egli pareva sì poco
occupato della sua lettura, che se anche avesse afferrato il giornale pel rovescio credo che non se ne
sarebbe avveduto. I suoi occhi erano fissi sulle colonne di quel diario, ma sembravano guardare di
dentro piuttostochè di fuori, parevano aver concentrata tutta la loro virtù visiva in sè medesimi, e
non occuparsi che di ciò che avveniva nell'animo del giovine.
Io non aveva però avuto che il tempo di fare questa riflessione, allorchè dietro la vetrina
della finestra scorsi un nuovo affollarsi di gente e sentii come delle grida femminili; stavo per
alzarmi allorchè si aperse la porta del caffè, e ne fu recato dentro un fanciullo svenuto, il quale era
stato travolto dalle ruote di una vettura, e ne aveva avuto un braccio spezzato. Rimasi
dolorosamente colpito dal riconoscere in quel fanciullo
quello stesso che l'incognito aveva accarezzato in mezzo a quel circolo, e a cui aveva
regalato i confetti caduti sul suo mantello.
Per un moto istintivo diressi lo sguardo dalla sua parte, e lo scorsi nell'istante che usciva
frettolosamente dalla sala. Il suo volto riflesso in quel momento da uno specchio che era di fronte a
me, mi parve pallidissimo.
Io abbandonai poco dopo quel caffè in preda a tristi pensieri.
In quella sera stessa doveva aver luogo alla Scala una rappresentazione straordinaria.
L'opera annunciata era la Sonnambula e il pubblico vi era accorso numeroso ad
ascoltare quella musica divina, così piena, così complessa nella sua semplicità, così affettuosa. Si
era rappresentata poco prima l' Africana - da Mayerbeer a Bellini la differenza almeno, se
non la distanza, era ben grande. Il teatro era illuminato a giorno, la platea era stipata di uditori; e
non v'erano altri palchi vuoti da cinque o sei all'infuori, posti tutti nello stesso punto; e in uno dei
quali riconobbi con mia grande sorpresa il giovine che aveva veduto poco prima assistendo al corso
delle maschere.
Egli era solo e non mi sembrava più nè sì triste, nè sì pensieroso. Vestiva un abito nero
molto elegante, ma nulla dimostrava che fosse avvezzo a prendere gran cura della sua persona. Non
so se fosse inganno mio, o allucinazione, e che altro, ma egli mi pareva straordinariamente bello,
assai più di quanto mi fosse sembrato poche ore prima.
Vi era sul suo volto qualche cosa di luminoso, qualche cosa di quella trasparenza profonda,
benchè torbida, benchè appannata, che ha l'alabastro. Egli aveva difatto la stessa pallidezza: a non
guardarne gli occhi, a non esaminare la mobilità prodigiosa dei lineamenti, lo si sarebbe detto
morto o impietrito. I suoi capelli conservavano ancora quella finezza, quella arrendevolezza, quella
lucidità, quell'arricciamento semplice e naturale che hanno i fanciulli; erano di un biondo
meraviglioso, e lucevano come fili d'oro al riflesso delle fiamme dei candelabri. Teneva appoggiato
il gomito al parapetto, e la guancia sulla mano: la sua testa così inclinata pareva ancora più bella.
Egli aveva quella specie di bellezza che hanno le donne, e che ritrae dalla luce un prestigio
misterioso e affascinante. A contemplare dalla platea - d'onde non si vedeva il resto della persona –
quella
sua testa così diafana e così bianca, la si sarebbe creduta appartenere ad un fanciullo, ad una
creatura fragile e delicata, forse ad un essere sopranaturale.
Io solo aveva rimarcato cosa che mi pareva avere una strana relazione con ciò che aveva
osservato prima al corso delle maschere, voglio dire quel trovarsi egli così isolato in un palco
intorno al quale ve n'erano cinque o sei altri vuoti, mentre non era possibile vederne da tutte le altre
parti del teatro un solo che non fosse occupato - bisognava aver osservato prima l'accidente del
circolo, per trovar causa di meraviglia in questo fatto, - ma gli spettatori erano stati unanimi
nell'avvertire la sua bellezza e nell'ammirarla, nè tardai ad accorgermi che le signore sopratutto ne
erano state colpite, e gareggiavano nel dirigere i loro cannocchiali verso il suo palco.
Tra quelle di esse che erano riuscite ad attirarsi più facilmente la sua attenzione, vi era una
fanciulla che era pure assai bella, ed occupava un palco non molto lontano da quello del giovine.
Come avviene a tutte le ragazze veramente ingenue, non di quella ingenuità convenzionale che esse
devono ostentare spesso come una parte di commedia,
fino a che il marito non le autorizza a rappresentare una parte diversa, ma di quella
ingenuità vera che ha la sua radice nella verginità della mente e del cuore, essa ne era rimasta
fortemente e subitamente impressionata. Era troppo giovine per sapersi già infingere, e credo di non
essere stato io solo ad avvedermi del suo turbamento e della sua agitazione.
Assistetti per un po' di tempo a quella specie di rapporto misterioso che s'era stabilito tra di
loro, mi cacciai come un intruso in quella specie di corrente magnetica che avevano formato i loro
sguardi; poi quasi vergognandomi di quello spiare, di quell'ammiccare alla loro felicità, come un
pitocco che assista ad un banchetto dalla soglia della stanza, e non possa fruire che del profumo
delle salse e delle vivande, mi raccolsi in me stesso, e procurai di rivolgere tutta la mia attenzione
allo spettacolo dell'opera.
Dico che me n'era vergognato, ma per me solo. Che se v'è qualche cosa al mondo, d'innanzi
alla quale io non sappia nè sogghignare per sprezzo nè piangere per pietà, è la vista di due persone
che si amano. Mi sono cacciato spesso di notte sotto i viali
pubblici, sotto i boschetti di tigli, appositamente per incontrarvi qualche coppia
d'innamorati; e non mi venne mai di passar vicino ad una di esse senza sentirmi compreso da un
sentimento di rispetto profondo. Lo confesso, furono quelli i soli istanti della mia vita, in cui i miei
simili mi sieno sembrati meno tristi del solito.
Era così riuscito a poco a poco ad occuparmi interamente della rappresentazione, e non
aveva più alzato gli occhi verso il palco di quello sconosciuto, allorchè avvedendomi d'un
movimento improvviso che si manifestava negli spettatori, e scorgendo la folla addensarsi verso la
porta, mi mossi io pure e entrato a stento nel vestibolo, vidi passarvi due signori che reggevano
sulle loro braccia una fanciulla svenuta, e la trasportavano in una delle sale del teatro.
Non dirò quale fosse la mia meraviglia nel ravvisare in lei quella stessa fanciulla che aveva
guardato con tanto affetto e con tanta insistenza il mio incognito. Tutto ciò che era accaduto non
poteva essere stato che un capriccio del caso: pure era la seconda volta nel termine di poche ore,
che io vedeva una persona alla quale egli aveva dato segno di predilezione, venir colpita
improvvisamente da una sventura.
Rientrai nella platea.
Egli occupava ancora il suo posto, era rimasto nella posizione di prima colla guancia
appoggiata alla mano; ma il suo volto coloritosi improvvisamente di un rossore vivace, era tornato
in un istante di una pallidezza cadaverica. Non era difficile accorgersi che egli soffriva, che s'era
avveduto degli sguardi curiosi e quasi reprensivi di cui era fatto oggetto, e che non era rimasto
immobile al suo posto che per dissimulare la sua commozione, e per non accusare in certo modo
quella specie di complicità che aveva avuto in quell'avvenimento.
Allorchè parve che il pubblico avesse cessato di occuparsi di lui, egli uscì dal teatro, e ne
uscii io pure.
Nessuno conosceva forse il caso assai più deplorevole che aveva avuto luogo poche ore
prima: nessuno aveva forse rimarcata la circostanza singolare e incomprensibile di quella specie di
vuoto che egli pareva formare intorno a sè, nè aveva posto mente ai rapporti che sembravano
congiungere tutti questi fatti, ma io ne era tutto in pensiero. Era evidente esservi in lui qualche cosa
di inesplicabile e di fatale.
Io lo aveva veduto solo nel seno di uno
spazio formato quasi miracolosamente in mezzo ad un folla fittissima, aveva veduto
rinnovarsi lo stesso caso in un teatro ripieno di spettatori; aveva veduto un fanciullo che aveva
ricevuto le sue carezze venir travolto dalle ruote di una carrozza, e una fanciulla osservata da lui,
essere colta da un malessere improvviso. Non mi pareva possibile che una pura combinazione
avesse dato luogo a questa serie di avvenimenti. E se così non era, chi era dunque egli? Quale era
l'influenza che poteva esercitare quell'uomo?
*
**
Otto giorni dopo io mi trovava al caffè Martini - quel convegno di artisti che non lavorano,
di cantanti che non cantano, di letterati che non scrivono, e di eleganti che non hanno uno spicciolo
- e si parlava, raccolti in buon numero attorno ad un tavolo, d'una specie di pasticcio di nuova
invenzione, qualche cosa di consimile al pudding, che era stato aggiunto quel giorno alla
nota delle vivande del ristorante.
Da questo soggetto la conversazione era
caduta, filtrando per l'idea del pudding e dell'oca di cui le classi ricche a Londra
usano regalare le classi povere nel giorno di Natale, sul discorso che la regina d'Inghilterra aveva
fatto allora al parlamento.
Una frase di questo discorso aveva dato un gran colpo alla discussione e l'aveva gettata di
balzo sulle eventualità d'una guerra in Italia. Da ciò, giù per la china delle opinioni e delle
antiveggenze personali si era arrivati ai pronostici; e dai pronostici ai presagi; e da questi, entrando
nel campo della vita intima, alle fatalità, alle stregature, alle malie; per modo che cinque minuti
dopo aver difeso a spada tratta l'eccellenza di questo pasticcio di nuova invenzione, io raccontava a
quel circolo di sfaccendati gli avvenimenti incomprensibili di cui era stato testimonio pochi giorni
prima a proposito di quel giovine incognito.
Inutile dire che si rise di me e che non mi si volle prestar fede; il fatto della fanciulla
svenuta poche sere innanzi era bensì noto, ma le cause, dicevano essi, dovevano essere diverse.
Nondimeno il soggetto di questa nuova deviazione del nostro discorso era stato trovato interessante,
e la conservazione dopo aver fluttato su tanti argomenti, si era arrestata
saldamente su questo. Ciascuno esponeva le proprie idee, ciascuno aveva qualche cosa a
raccontare a questo riguardo. E come avviene ogni qualvolta ci affacciamo a questo mondo pauroso
dell'incomprensibile e del soprannaturale, che se ne ride da principio per ostentazione di coraggio e
si finisce coll'atterrirsi di ciò che si ascolta, e spesso di ciò che abbiamo raccontato noi stessi,
ciascuno di noi si sentiva compreso da un sentimento misto di paura e di meraviglia, e si affannava
a riannodare e a rinfocare la conversazione ogni qualvolta questa mostrava di languire, con
quell'insaziabilità che hanno i fanciulli di ascoltare i racconti spaventevoli dei maghi e delle fate.
Avevamo pressochè esaurito tutto il repertorio delle nostre cognizioni su questa tesi,
allorchè un vecchio artista da teatro che tutti noi conosciamo da tempo - una dalle cariatidi più
celebri di quel caffè - si alzò da un tavolo vicino da cui era stato ascoltando, e venne a prender
posto nel nostro circolo.
-Il signore ha ragione, diss'egli, accennandomi col dito. Io non conosco il giovine di cui egli
ha parlato poco fa, e non posso far fede dell'influenza che gli attribuisce, ma che esistano uomini
siffattamente fatali, anzi
assai più fatali di quel giovine, non è cosa da potersi mettere in dubbio. Chi di voi ha sentito
nominare il conte Corrado di Sagrezwitcth?
-Nessuno-È strano, giacchè egli si è formato in quasi tutti gli Stati d'Europa e in molte delle
provincie degli Stati Uniti una terribile reputazione. Egli è considerato come l'uomo più fatale di
cui si abbia memoria, la sua presenza segnala dovunque una sventura immancabile, egli si è trovato
sempre sul teatro delle calamità più terribili, ha assistito ai disastri più spaventosi. Egli si trovava
nell'America del Sud allorchè bruciò la chiesa di S. Jago in cui perirono più di mille persone; egli
viaggiava or fanno due anni sulla ferrovia del Pacifico allorchè avvenne quello scontro in cui
perdettero la vita più di trecento viaggiatori; egli era a Pietroburgo allorchè rovinò il palazzo del
principe di Jakorliff in cui tante nobili dame e tanti dignitari dello Stato trovarono la morte. Nelle
miniere irlandesi e in quelle di Alstau Moor in Scozia - luoghi che egli ha spesso visitati - il suo
nome non viene ascoltato mai senza spavento; ogni sua visita ha segnalato qualcuna di quelle
catastrofi
che sono tanto frequenti e tanto temute nelle miniere. Il conte di Sagrezwitcth è stato già
parecchie volte in Italia; vuolsi che egli si trovasse a Torino all'epoca della convenzione allorchè
avvennero i fatti luttuosi di settembre, ma nessuno, per quanto io sappia, ve lo ha veduto.
-E voi lo conoscete?
-L'ho incontrato quattro volte ne' miei viaggi. Voi sapete che io ho percorso come artista e
come impresario teatrale, quasi tutta l'Europa e una buona metà del Nuovo Mondo. È forse perciò
che ho potuto essere edotto dell'esistenza di quest'uomo straordinario, e conoscerlo personalmente.
La prima volta che lo vidi fu a Berlino dove esordii nel capolavoro di Mozart colla parte di D.
D.Giovanni. Lo incontrai poscia in una sala di caffè a Nuova York, allorchè ferveva ancora in
America la guerra di secessione, e precisamente alla vigilia dell'ultima disfatta dei separatisti, e la
terza volta che mi imbattei con esso fu di nuovo a Berlino ....
-E di che paese è egli?
-Alcuni vogliono americano, alcuni polacco. Nessuno ne conosce con certezza la patria,
forse nemmeno il nome. In America si faceva chiamare coll'appellativo di Duca
di Nevers, in Europa conservò sempre il nome di conte di Sagrezwitcth; i minatori scozzesi
lo chiamano l'uomo fatale Egli parla correttamente molte lingue, ha le abitudini e i costumi
di tutti i paesi che ha visitato; in Italia è italiano, in Inghilterra è inglese, e in America è americano
modello ...
-E che età può avere?
-Mostra cinquant'anni, ma i suoi capelli e la sua barba nerissima non hanno ancora alcun
segno di canizie. È un uomo di statura mezzana, di aspetto antipatico, benchè le sue fattezze sieno
regolari e in qualche modo leggiadre. Porta quasi sempre nell'inverno un berretto di pelo a foggia di
turbante, e suol vestire volontieri i costumi dei paesi in cui si trova. A giudicarne dallo sperpero che
egli fa ordinariamente del suo danaro, lo si direbbe assai ricco; nondimeno fu visto parecchie volte
alloggiarsi in osterie di second'ordine, e tenere un regime di vita molto economico. A Nuova York,
per esempio, era bensì alloggiato all'albergo del Fifth-Avenue quel colosso di marmo che
ha mille e duecento stanze, ma vi occupava un letto della sala di riposo concessa ai viaggiatori che
dispongono di mezzi assai limitati. È
fama che egli abbia coscienza della sua fatalità, e che si compiaccia di esercitarla. Quel suo
recarsi continuo da un capo all'altro del mondo non può essere senza uno scopo. Del resto si sa che
egli non ebbe mai affetti, non amicizie, forse nemmeno conoscenze, toltene alcune poche e
superficialissime. Coloro che ne conoscono la potenza lo sfuggono per progetto, quelli che la
ignorano, per istinto. - Che vi sieno persone che gli negano questo potere, questa specie di missione
arcana e terribile, riprese egli vedendo che alcuni di noi sorridevano con aria di incredulità, è cosa
naturalissima. Nessuno può provare che le sciagure avvenute nei luoghi ove egli si è trovato, e negli
istanti in cui vi si è trovato, abbiano avuto una causa nella sua volontà, o in ciò che noi chiamiamo
la sua influenza. Egli è d'altronde un uomo come tutti gli altri; parla, veste, opera come tutti gli
altri; volendo è affabile e gentiluomo, vi è nulla a che opporre; ma parmi cecità il negare cosa che
la maggior parte degli uomini ha ammesso, il negare perchè non si comprende.
-Noi non neghiamo, gli diss'io, dubitiamo. Ma, a proposito, avete dimenticato di dirci dove
l'avete incontrato la quarta volta.
-Ah! riprese egli un poco rassicurato dalle mie parole. Quest'ultimo incontro ha una data
molto recente. Io lo vidi due mesi or sono a Londra, allorchè vi bruciò il teatro della regina. Seppi
anzi che egli aveva intenzione di passare presto in Italia, e se egli ha scelto questa stagione per
venirvi, vi è nulla di più probabile che le feste del carnovale lo abbiano condotto a Milano.
-A Milano!
-Sì, e desidererei che lo vedeste. Non so dirvi il motivo di questo desiderio, pure mi sembra
che al solo vederlo potreste comprendere il perchè di tante cose che io non posso spiegarvi; mi pare
che non potreste più dubitare della verità della mia asserzione. - Osservereste, riprese egli dopo
qualche istante, una cosa assai rimarchevole nel suo abbigliamento, voglio dire la freschezza e la
finezza de' suoi guanti che egli suole mutare più volte in un sol giorno, per modo che nessuno l'ha
mai veduto a mani scoperte; e un'altra singolarità non meno notevole nella sua persona, cioè la
potenza del suo sguardo, un non so che di magnetico e di inesplicabile che vi è in lui, e che vi
sforza quasi a guardarlo e a salutarlo vostro malgrado.
-A salutarlo! esclamammo noi sorridendo.
-Sì, a salutarlo.
-Oh! vorrei vederlo!
-Davvero-Vorremmo vederlo!
In quell'istante - potevano essere le due dopo mezzanotte - si aperse l'uscio del caffè, e un
uomo pingue e tarchiato entrò nella sala. Al ritratto che ci era stato delineato poco prima, al berretto
di pelo, alle mani calzate da guanti freschissimi, all'espressione singolare del suo volto, noi non
tardammo a riconoscere in lui l'uomo di cui si era parlato. Allora, o fosse meraviglia, o fosse
confusione di idee prodotta da quella sorpresa, ci alzammo unanimemente a salutarlo. Egli portò la
mano al berretto con atto di cortesia schietto ma moderato, e si sedette all'altra estremità della
stanza.
Io non posso esprimere la confusione, la meraviglia, il dispetto che s'impadronì di noi in
quell'istante. Comprendevamo di esserci mostrati deboli verso di lui, verso di noi stessi, di esserci
mostrati fors'anche ridicoli. Ciascuno era rimasto assorto in questo pensiero, nè aveva osato
riprendere la parola. Il silenzio aumentava la nostra confusione.
L'incognito chiese una tazza di punch
punchche bevve avidamente. Gettò sulla guantiera uno scudo d'argento, e respinse al cameriere il
residuo del prezzo della sua bibita. Il cameriere nell'allontanarsi inciampò del piede nell'estremità
della sua sedia e cadde; la guantiera essendogli scivolata di mano, percosse del volto sui cocci della
tazza che si era spezzata, e si ferì in modo che il viso gli si coperse in un istante di sangue.
A quella vista ci alzammo tutti come mossi da una sola volontà, e uscimmo a precipizio
dalla sala.
*
**
Nei primi giorni della mia residenza a Milano aveva dovuto quasi mio malgrado, stringere
conoscenza con una famiglia, la quale per mediazione di amici, mi aveva reso anni prima alcuni
servigii assai utili. Abitava essa una di quelle casupole grigie e isolate che fiancheggiano il naviglio
dalla parte occidentale della città - una vecchia casupola a due piani che il tetto sembrava
comprimere e schiacciare l'uno sull'altro come una cappa pesante di piombo, tanto erano bassi ed
angusti. Correvanle tutto all'intorno alcuni assiti neri e tarlati
su cui si arrampicavano delle zucche nane e dei convolvoli malati di clorosi.
Un setificio vicino l'avvolgeva notte e giorno in un'atmosfera di fumo, l'umido del naviglio
aveva prodotto qua e là alcune rifioriture nell'intonaco esterno delle pareti, e le aveva rivestite di
muffa e di piccole pianticelle di acetosa; nubi di moscherini entravano per la bocca e pel naso al
primo affacciarsi alla finestra; e il cicaleccio, e lo sbattere, e il canticchiare delle lavandaie che
risciacquavano, e sciorinavano su quegli assiti e su quelle zucche produceva da mattina a sera un
baccano continuato e assordante.
Non vi sono forse a Milano cento persone le quali abitino nel centro della città, e conoscano
con esattezza quella parte de' suoi dintorni. Milano è la miniatura esatta di una gran città; ha in
piccole proporzioni tutto ciò che è proprio delle grandi capitali. Quel lembo estremo di case che
costeggia il naviglio da Porta Nuova a Porta Ticinese è ciò che è la Marinella a Napoli, ciò che è il
Temple a Parigi, ciò che è Seven-dials a Londra.
Avverso, mezzo per istinto, mezzo per progetto, a conoscere nuove cose e nuove
persone, io ho sempre considerato una conoscenza nuova come un peso nuovo aggiunto alla
mia vita - non aveva avuto però a dolermi di quella. Era una famiglia di onesti negozianti arrichitasi
mediocremente nel commercio, e venuta ad alloggiare in quella casa solitaria per godervi in pace la
piccola fortuna che aveva raggranellato.
Silvia l'unica erede di quella fortuna, era una delle più splendide bellezze che io avessi mai
veduto, e non aveva che diciasette anni allorchè io la conobbi. Non era una di quelle beltà fine e
delicate che preferiamo spesso alle beltà robuste - l'amore ha fatto da alcuni anni un gran passo
verso lo spiritualismo - ma la sua bellezza, benchè ineffabilmente serena benchè fiorente di tutti i
vezzi della gioventù e della salute era temperata da qualche cosa di gentile e di pensieroso che non
hanno ordinariamente le bellezze di questo genere. Nè io potrei dirne di più; ciascuno di noi porta
in sè un ideale diverso di bellezza, e quando si è detto d'una donna: è leggiadra, si è detto tutto ciò
che si può dirne. Un pittore, uno scultore potrebbero darne nella loro arte un immagine meno
incompleta, la letteratura non lo può - le altre arti parlano ai sensi, la letteratura alle
idee. Ho veduto due incisioni di Jubert, due angeli simboleggiati da due giovinette nude,
paffute, rosate, per ciò che è colorito e pienezza di forme, due vere popolane; eppure l'artista aveva
saputo dare a quei volti tanta spiritualità che incantavano e non si potevano guardare senza restarne
rapiti. Nelle madonne del Carraccio ho osservato lo stesso contrasto. La bellezza di Silvia era di
questo genere, risolveva in certo modo lo stesso problema - la spiritualità della materia.
Essa era una di quelle anime semplici, pie, modeste che non sanno aver mai alcun rancore
colla vita, ricche di quella cara fatuità che la natura ha dispensato con tanta larghezza alla donna,
felici nell'ordine e nella quiete che la loro semplicità medesima ha creato intorno ad esse, e che
l'assenza delle loro passioni non può mai turbare.
Durante le mie prime visite, aveva conosciuto in quella famiglia un cugino di Silvia, certo
Davide, giovine maturo e positivo che era giunto da poco a Milano, e che era stato un tempo
interessato negli affari commerciali di quella casa. Pericoloso come tutti i cugini - non so se
parimenti fortunato - non m'era stato difficile accorgermi che egli amoreggiava la fanciulla. Come
tutti gli altri
uomini non era nè bello, nè brutto - la bellezza dell'uomo è una cifra di cui non si è ancora
trovato il valore, anche per la maggior parte delle donne non è che una cosa insignificante; noi
cerchiamo nell'uomo un carattere, le donne vi cercano semplicemente un uomo - sono esse che
hanno creato quel noto aforismo: un uomo è sempre bello.
Io confesserò che quella scoperta era stata uno dei motivi essenziali che m'avevano indotto a
trascurare la conoscenza di quella famiglia. Io non aveva posto occhio nè sulla dote, nè sulla
bellezza di Silvia, ma aveva compreso che l'amore di Davide che io credeva corrisposto mi poneva
d'innanzi a lui in una certa quale inferiorità di cui mi sentiva umiliato. In ogni uomo che avvicina
una donna si suppone il desiderio di corteggiarla; in due uomini che l'avvicinano a un tempo si
suppone quasi il dovere di lottare per ottenerne la preferenza. Almeno la società ed il cuore umano
hanno ancora di tali pregiudizii: abbiamo mutato vocaboli, ma non abbiamo mutato cose e passioni:
presso ogni circolo di donne vi è ancora una piccola corte d'amore intima dove si combatte ad armi
cortesi per l'affetto di una dama preferita. E poi io mi sono sempre
sentito sì meschino dinnanzi ad un uomo positivo, che non mi bastò mai l'animo di
impegnarmi in una lotta qualunque con un nemico siffatto. Che cosa è egli un dotto, un letterato, un
sapiente al confronto di ciò che noi chiamiamo un uomo di mondo? È pur poca cosa l'ingegno!
Come gli uomini ignoranti, col loro buon senso borghese, grossolano, triviale ci avanzano nella
scienza e nella pratica delle cose! Noi non facciamo che inciampare come fanciulli a tutti i più
piccoli scogli della vita!
Questa coscienza della mia inferiorità aveva dunque reso meno frequenti le mie visite - io
ho ora nella stessa città in cui abito conoscenza di famiglie che mi reco a visitare ogni tre o quattro
anni, come tornassi da un viaggio di circonvoluzione attorno al globo - e più tardi, morto il padre di
Silvia, che era delle persone della famiglia quella cui era più specialmente obbligato, ne aveva
preso pretesto per troncarle completamente.
Era trascorso così pressochè un anno allorchè, pochi giorni dopo quella singolare comparsa
del conte di Sagrezwitcth al caffè Martini, m'imbattei in Davide che non aveva più veduto da quel
tempo e che mi parve molto mutato.
Egli mi strinse le mani e mi guardò con espressione triste e turbata - quell'espressione mista
di ritegno e di confidenza che hanno coloro i quali vogliono farvi comprendere di avere un segreto
doloroso, e di non volervelo confidare.
-Non vi si è più veduto in casa di mia cugina, mi diss'egli, la vostra assenza improvvisa ha
prodotto una sorpresa un poco penosa in quella famiglia. Perchè voi sapete che mia zia aveva molta
confidenza in voi, e poi ... si era presa l'abitudine di vedervi. Se sapeste! sono avvenute nuove
sciagure in quella casa; Silvia sta per morire ....
- Per morire!
-Sì, la poveretta è travagliata da una malattia di consunzione, una malattia misteriosa che i
medici non sanno nè conoscere nè definire più esattamente, ma che hanno dichiarata inguaribile.
Essa doveva prender marito ....
-Voi forse?
-Non io, diss'egli tristamente, un ricco forestiero a cui mi ha posposto, e pel quale ha
concepito una passione di cui non l'avrei mai creduta capace. Essa doveva sposarlo allorchè cadde
malata, e queste nozze, ancorchè le si facciano ora come credo che
abbiano risolto, non potranno aver più alcuna influenza sulla sua salute. Dubito che la
felicità abbia potere di farla vivere più lungamente, ma ad ogni modo sarà almeno felice per quei
pochi istanti di vita che le rimangono. Sarà felice anche senza di me, aggiunse egli con amarezza. È
facile avvedersi che ella deperisce ogni giorno, e che è impossibile arrestare il processo di questo
deperimento così rapido e così misterioso.
-Come! io dissi, ella sposerà dunque quel giovane ancorchè tanto inferma come mi dite?
Davide scosse la testa con aria di disapprovazione, e rispose:
-Che volete! Hanno deciso così, anzi è lei stessa che ha deciso. Del resto la sua malattia non
è una di quelle che costringono al letto, piuttosto una di quelle di cui diciamo: si muore in piedi. Ma
perchè non venite a vederci? Son certo che mia zia ne avrebbe gran piacere, e anche Silvia.
-Ci andate ora?
-OraMi accompagnai con esso. Potevano essere le dieci di sera quando ponemmo piede in quella
casa. La zia di Davide, una buona vecchia - la vecchiaia e l'infanzia si toccano, i vecchi sono
sempre buoni come i
fanciulli - mi accolse con gioia schietta e cordiale, ma temperata da un poco di rimprovero e
di mestizia.
-Ci troverete molto mutati, mi diss'ella. Voi non venite più nella casa di un tempo ... La
povera Silvia .... - E s'interruppe un istante come per soffermarsi sul pensiero di quella sventura
ma passate in questa stanza, la rivedrete voi stesso, ciò le farà piacere; e vi presenterò anche a mio
genero.
Entrammo nella camera vicina.
Silvia era seduta sopra una sedia a bracciuoli, una gran seggiola a rotelle, tutta imbottita e
tapezzata di velluto turchino; e presso a lei, sopra una seggiola più bassa il giovane sconosciuto che
io aveva veduto al corso e al teatro. Egli aveva avvicinata la sua sedia a quella della fanciulla in
modo da poter posare il capo sullo stesso bracciuolo su cui ella posava il braccio; e Silvia aveva
inclinata la sua testa su quella del giovane con atto di tenerezza commovente.
Dio! quanto mutata! Appena era possibile riconoscerla. Quella fanciulla che io aveva veduto
sì robusta, sì serena, sì vivace non era più che un'ombra del passato, non aveva più che un riflesso
pallido e incerto della sua bellezza di un tempo. Non che la sua
antica avvenenza fosse del tutto svanita, ma si era alterata; era ora un'avvenenza diversa, era
la bellezza di un fiore sbocciato all'ombra, di un frutto maturato precocemente perchè roso dal tarlo.
Il volto del giovine era pallido, ma quello di Silvia era bianco, più bianco dell'abito lungo e
vaporoso che avvolgeva la sua persona, se non che gli zigomi delle guancie un po' asciutte erano
leggermente rosati, ma senza sfumatura come se vi fossero state sovrapposte due foglie di rosa già
scolorite. I suoi capelli avevano quel lucido morto che hanno ordinariamente i capelli degli infermi,
e pendevano, non sciolti ma scomposti, sulla testa del giovine che la stava guardando con
espressione di pietà inesprimibile.
Il pallore di lui, benchè estremo, non era di quel genere che danno le malattie, ma di quello
che dà l'abitudine del pensiero e del dolore. Egli era ancora più bello di quanto mi fosse sembrato al
teatro - e questa volta aveva potuto giudicarne davvicino - bello di una beltà più femminile che
maschia, ma ad ogni modo assai bello. I suoi capelli biondi e quasi dorati facevano uno strano
contrasto così confusi colle treccie nerissime della fanciulla. Io non aveva veduto
mai un gruppo così stupendo, un quadro d'amore più spirituale e più puro.
I due amanti si riscossero allo stridere che fece l'uscio nell'aprirsi - essi erano soli nella sala.
-Guarda, Silvia, disse dolcemente la vecchia tenendomi per mano, guarda chi ci ha
ricondotto tuo cugino.
E rivolgendosi allo sconosciuto ed a me, pronunciò prima il mio nome, poi quello del
giovine che disse essere il barone di Saternez nativo di Pilsen in Boemia.
Ci inchinammo scambievolmente. Egli mi guardò con uno sguardo sì dolce che io gli porsi
la mia mano quasi senza avvertirlo.
Scambiate alcune parole, la vecchia, forse per lasciar soli i due giovani, mi trasse presso di
sè in un angolo opposto della stanza.
-Che ve ne pare di mio genero? mi chiese ella. E continuò senza aspettare la mia risposta:
un giovine a dovere, sapete, un giovine ricco come il mare; se vedeste i regali che ha fatto alla
Silvia! ... E poi, di che famiglia! Baroni, e dei più illustri di Boemia. Egli ha dovuto emigrare per
affari di politica, credo che volesse far annettere la Boemia al granducato di Sassonia,
figuratevi!, Ma tanto era lo stesso, oramai egli non aveva più interesse a restare nel suo
paese, giacchè era rimasto solo di tutta la sua famiglia. E guardate che bel giovine; non vi offendete
- e mi guardò come per interrogarmi, io sorrisi - non vi offendete, ma non credo che ve ne sia al
mondo un altro come quello. E pensare ... La vecchia s'interruppe come colpita improvvisamente da
un triste pensiero.
-Povera Silvia! riprese ella dopo qualche istante. Voi l'avete veduta prima d'oggi, vi
ricordate come era! E adesso! Guardatela. Non sono più di quattro mesi che essa ha incominciato a
deperire così; fu dal giorno in cui mio genero è entrato la prima volta nella nostra casa. Ora che
avrebbe potuto essere così felice; essa che lo ama tanto, che ne è tanto amata! Ditemi, vi pare che
potrà guarire?
-Non vi è pur luogo a dubitarne, io risposi tanto per riconfortarla. Silvia era vissuta finora sì
ritirata; sì quieta, sì calma che questo disordine insolito ne' suoi affetti ha gettato un po' di
turbamento anche nella sua salute. Ma tutto sarà finito quando ogni cosa sarà rientrata in uno stato
normale, quando essi saranno marito e moglie. A proposito,
ho sentito da vostro nipote che ciò deve avvenire assai presto.
-Fra otto giorni, disse la vecchia, e spero che in quella circostanza sarete dei nostri. Son essi
che hanno voluto così, e i medici non l'hanno disapprovato. Silvia è ancora abbastanza forte per
sopportare il moto della carrozza fino alla Chiesa; d'altronde ne siamo a due passi. - Sarà una festa
un po' triste, aggiunse ella stringendomi la mano, ma voi non rifiuterete di prendervi parte.
La ringraziai, e l'assicurai che vi sarei venuto. Passai tutto il rimanente di quella sera agitato
da pensieri strani e tumultuosi, diviso tra la simpatia irresistibile che mi inspirava il fidanzato di
Silvia, e la ripugnanza che faceva nascere in me l'idea di quella missione fatale che pareva
esercitare. Giacchè non v'era più dubbio; quel giovine sì bello, sì dolce, sì attraente spargeva
d'intorno a sè la desolazione e la sventura, lasciava delle traccie spaventose sulla sua via. Tutti gli
esseri che egli prediligeva soccombevano a questa influenza; il fanciullo delle maschere, la signora
del teatro, Silvia, quella stessa Silvia già così bella, così spensierita, così fiorente facevano fede di
questo suo
potere terribile. E ne fosse egli o no consapevole, questo potere non era meno reale e meno
funesto; era dovere e pietà il prevenirne le vittime, il sottrarle all'influenza incomprensibile di
quell'uomo.
Uscii da quella casa verso mezzanotte. Davide mi accompagnava. Il mio cuore era pieno. Ci
avviammo senza profferir parola verso i bastioni.
La notte era fredda ma asciutta; gli ippocastani colle loro corteccie nere, coi loro fusti alti e
slanciati parevano spettri di alberi; il cielo, come avviene nelle notti serene d'inverno, scintillava di
miriadi di stelle. Non tardai ad avvedermi che anche l'animo del mio compagno era profondamente
turbato.
-Sediamoci, gli dissi accennandogli un sedile di pietra, devo rivelarvi alcune cose che
riguardano vostra cugina.
E gli narrai distesamente tuttociò che aveva osservato a proposito del barone di Saternez,
non gli nascosi i miei sospetti, gli parlai del conte di Sagrezwitcth e dell'incontro che ne avevamo
fatto al caffè Martini, e conchiusi consigliandolo ad adoperarsi per scongiurare la sventura che
minacciava quella casa.
-Vi ringrazio, mi rispose egli dopo avermi
ascoltato con molta attenzione; quelle nozze non si faranno, ve ne do la mia parola. Ho
potuto esitare fin ora, ma adesso ...
-E come intendete di opporvivi?
-Non so, vedrete. E aggiunse con voce terribile: no, quelle nozze non si faranno. Io, io
stesso le renderò impossibili ... perchè ... esse non devono farsi. Perchè son io che dovea godere di
quella felicità, perchè io lo detesto quell'uomo, perchè è lui che mi ha rapito l'amore di Silvia ...
perchè io l'odio!
*
**
Al domani mattina Davide venne per tempo a trovarmi in mia casa. Egli era calmo, ma di
quella calma fredda e convulsa che si distende come un velo sulle fattezze quando la riflessione ha
già concentrato tutta la lotta nel cuore. E delle tempeste del cuore umano come di quelle
dell'Oceano: le meno apparenti sono le più profonde.
-Vengo, egli mi disse, a chiedervi alcune notizie riguardo alle rivelazioni che mi avete fatto
ier sera. Ci ho pensato tutta notte e non ho chiuso occhio; avrei d'uopo sapere ove abita il conte di
Sagrezwitcth, e s'egli è tuttora a Milano. Voi forse potete dirmelo.
-Non lo so, io risposi meravigliato. Ma che! intendereste forse di andarlo a visitare? E a che
scopo?
-Voi mi avete parlato, riprese egli, dell'influenza funesta che esercitano questi due uomini,
egli ed il barone di Saternez, e del potere che hanno di compiere il male per altre vie che non sia
dato di farlo a noi, ne sieno essi o no consapevoli. Il conte, mi avete detto possiederebbe in maggior
grado questo potere. Ora qualunque sieno le cause di questa influenza, qualunque ne sia la natura,
se essa esiste, se essa non è pari in ciascuno di loro, avete pensato alle conseguenze che
risulterebbero dall'urto di queste due forze, dall'incontro di questi due uomini fatali? Ponetemeli
l'uno di fronte all'altro, e se l'esistenza di questo potere è verace, l'uno dovrà distruggere l'altro, la
disparità delle forze cagionerà lo squilibrio; la sconfitta del più debole è inevitabile.
-È un trovato abbastanza specioso, io dissi, voi avreste dunque pensato ....
-Di fare in modo che il conte di Sagrezwitcth venga a trovarsi alla presenza del mio rivale.
-E avreste in animo di parlare a quel conte?
-Solo che potessi rinvenirlo. Mi era recato perciò da voi, e sono afflitto che non possiate
darmi le indicazioni che mi abbisognano. - Ma lo troverò, lo troverò continuò egli con risolutezza.
Non vi sono a Milano che pochi alberghi eleganti, nei quali egli possa aver preso alloggio, li girerò
tutti, domanderò di lui a tutte le porte, e se egli o qui ancora, o se è partito da poco, non dispero di
mettermi sulle sue tracce.
Ciò detto Davide uscì con precipitazione dalla stanza, prima che la mia maraviglia e la mia
titubanza tra lo incorraggiarlo o il distoglierlo da quel progetto mi avessero permesso di articolar
una parola.
Passai tutto quel giorno in un'inquietudine mortale.
Alla notte, e ad ora assai tarda, ricevetti da Davide una lettera così concepita:
«Io parto in questo momento per Genova, d'onde raggiungerò la mia famiglia in un piccolo
villaggio del litorale. È da lungo tempo che meditava questo progetto senza mai sapermi risolvere.
Gli avvenimenti già compiuti e quelli che stanno per compiersi m'hanno fatto prendere finalmente
questa decisione. Non ho voluto rimanere qui perchè nè la pietà mi distogliesse dalla mia vendetta
–
se pure io ho il potere di arrestarla - nè la vista del suo compimento, qualunque ella sia per
essere, mi opprimesse di rimorsi che non debbo avere; sento il bisogno di dirvi tutto ciò che ho
fatto per la salvezza di Silvia. In questo tentativo non vi era egoismo; il suo cuore non mi
apparteneva più, nè io voleva pretendervi ancora; io non voleva che la sua felicità. Il disinteresse
mio apparirà più sincero dalla rinuncia che farò alla mano di mia cugina, anche allorquando il suo
cuore sarà libero e la sua gioventù rifiorita.
Non posso dirvi di più. Ho trovato il conte di Sagrezwitcth e gli ho parlato. Quei due uomini
si conoscono. Io non ho alcuna parte in ciò che sta per succedere; ricordatelo bene. Io non poteva
nè prevedere, nè arrestare gli avvenimenti che dovranno compiersi; è la mano della fatalità, che li
aveva preparati. Io non ne sono stato che uno strumento: ho avvicinato due uomini che dovevano
rimanere lontani, ecco tutta la mia responsabilità; ed è l'amore di Silvia che mi ha indotto ad
assumerne il peso. Che questa mia giustificazione non sfugga dalla vostra memoria! Mi è
impossibile spiegarmi maggiormente. Distruggete subito questa lettera.»
Non mai nella mia vita mi era trovato avvolto in una trama più triste e più complicata. Quali
erano i bisogni di Davide? che cosa gli aveva detto il conte di Sagrezwitcth? come poteva egli
parlarmi con tanta sicurezza di una vendetta che doveva compiersi senza di lui? e perchè era egli
partito? Anche la salvezza di Silvia, se tal cosa era ancora possibile, non mi confortava della mia
dispiacenza di aver confidato a Davide il segreto del barone di Saternez, e di averlo messo nella
possibilità di vendicarsene. Io era in dovere di rimediare, se lo poteva, al male che aveva fatto. Non
mancavano più che sette giorni all'epoca fissata per le nozze, e questa vendetta, il cui scopo era
d'impedirle, avrebbe dovuto compiersi in quell'intervallo di tempo.
Risolsi di recarmi a visitare il giovane barone, e secondo ciò che egli avrebbe risposto alle
mie insinuazioni, confidargli interamente, o lasciargli sospettare il pericolo che lo minacciava.
Distrussi la lettera di Davide: e valendomi dell'indirizzo che egli mi aveva dato del suo rivale, mi
recai tosto alla sua casa.
Il barone di Saternez non si mostrò punto meravigliato di vedermi; mi porse la mano
con atto di affetto più che di semplice cortesia, e disse: vi aspettava.
-Come! esclamai io sorpreso, voi conoscete dunque lo scopo della mia visita?
-Sì, diss'egli. E dopo un istante di silenzio rispose sorridendo d'un sorriso violento: - io non
sono soltanto un uomo pericoloso, sono anche un abile fisionomista. Quando vi ho veduto ieri
l'altro per la prima volta, ho indovinato che il vostro cuore era buono, e che se aveste potuto fallire
per debolezza o per fine di bene, non avreste indugiato a dolervi delle conseguenze dei vostri errori,
e a tentare di ripararvi. In seguito alla visita del vostro amico, il conte di Sagrezwitcth è stato qui
due ore or sono. Era dunque naturale che io vi aspettassi.
Io chinai il capo e tacqui:
Egli riprese dopo un nuovo istante di silenzio:
-Non vi affliggete di ciò che avete fatto, non rimproverate a Davide i mali che ha preparato.
Ciò che avverrà doveva avvenire. Voi non siete stati che un mezzo nelle mani della fatalità. I
sentimenti che vi hanno mossi a prevenire le mie opere sono lodevoli, benchè forse infruttuosi: non
ho l'ingiustizia di disconoscerlo. Quell'uomo ed io
ci conoscevamo da tempo, fors'anche ci cercavamo. - Egli pronunciò in modo
più inarcato queste parole - Tra me e lui corrono dei rapporti che la natura od il caso hanno posto
quasi per dileggio, dei rapporti terribili che un segreto mi vieta di rivelarvi. Il nostro incontro era
inevitabile perchè era predestinato. Era necessario che uno di noi due dovesse sparire, perchè due
elementi contrarii non possono incontrarsi senza lottare; non possono percorrere la stessa via,
camminare l'uno a fianco dell'altro, come non avessero che una virtù comune ad esercitare, una
missione comune a compiere. Che cosa avreste potuto voi soli sulla mia vita? Voi avete avuto
ragione di fare ciò che avete fatto. È la fortuna che vi ha diretti. Era tempo!
S'interruppe, e riprese dopo un altro momento di silenzio in cui io non aveva osato parlare:
-Guardatemi! voi vedete in me un uomo come tutti gli altri, forse apparentemente migliore
degli altri; la mia persona non inspira alcuna ripugnanza, il mio viso, i miei modi quella parte
dell'anima che la natura ha posto sulle nostre fattezze come per rivelarne le virtù celate nel cuore,
non hanno
nulla di odioso, nulla che non sia umano, che non sia dolce, che non sia forse anche
attraente. Ebbene, questo giovine che avreste giudicato innocuo, di cui avreste forse ambita
l'amicizia non conoscendolo, ha sparso la rovina e la desolazione d'intorno a sè, ha ucciso le
persone che lo amavano, ha attraversato la vita e la felicità di tutti coloro che lo conobbero e che lo
ebbero caro. Perchè .... sì, voi avete indovinato, voi avete afferrato il suo segreto. Costui, questo
miserabile, proseguì egli con crescente esaltazione, non ha avuto finora la virtù di rinunciare ad una
esistenza che ne aveva già reso tante infelici; ed ecco la sua colpa. Egli era nato per il bene. La
natura gliene aveva posta l'immagine d'innanzi agli occhi come un'ideale brillante, come una meta
soave e luminosa. Egli avrebbe voluto amare, beneficare, gioire della felicità che avrebbe sparso
d'intorno a sè, gettare delle corone sulle teste di tutti gli uomini .... e un destino crudele, tremendo,
ineluttabile lo condannava a compiere il male, a schiacciare sotto il peso della sua fatalità tutti
quegli esseri buoni ed affettuosi che lo circondavano.
Tacque, e si coperse il volto colle mani.
-Calmatevi, io dissi, se voi avete questo potere, ne esagerate per certo il valore.
Egli sorrise come per mostrare di compatire al mio dubbio, e riprese:
-No, non ho esagerato. Converrebbe che voi poteste risalire alle sorgenti della mia vita per
rinvenire le traccie che essa ha lasciato dietro di sè, e giudicare della loro profondità e della loro
estensione. La mia stessa fanciullezza - l'età in cui tutti sono felici - non fu per me che un periodo
di tristezza e di dolore. Gli esseri che più mi amavano avevano incominciato a soccombere; i miei
fratelli, le mie sorelle, mia madre erano morti; io aveva incominciato ad avvedermi del vuoto che si
faceva intorno a me, e a comprendere che vi era qualche cosa di fatale nel mio destino. Rimasi solo
al mondo assai presto. Quanto più vedeva dilatarsi il cerchio delle mie relazioni, dei miei affetti,
delle mie simpatie, altrettanto vedeva dilatarsi quel vuoto; quanto più entrava nella vita, tanto più
entrava nell'isolamento. Ho provato il bisogno dell'amicizia, ho provato la febbre dell'amore ....
amici ed amanti sparivano nell'abisso che io scavava loro ai miei piedi. Incominciai ad essere
assalito da un dubbio spaventoso: era io fatale a tutto ciò che io amava, a tutto ciò che mi amava?
Ritornai sul mio passato,
rifeci orma per orma il cammino della mia esistenza, interrogai tutte le rovine che aveva
lasciato dietro di me .... Era vero - bisognava crederlo - era terribilmente vero! Allora mi allontanai
dalla mia patria, errai pel mondo fuggendo e fuggendomi. La sventura che aveva colpito i miei più
cari mi aveva colmato di ricchezze a prezzo della loro vita; benchè di tali ricchezze io non abbia
potuto giovarmi che per me solo, benchè nessuno abbia mai potuto essere beneficato da me
impunemente. Fu così che vagando di paese in paese io venni a Milano, che fuggendo la folla e la
società per rendermi meno fatale, frequentando i quartieri più modesti e più remoti, conobbi Silvia,
e ne fui preso irresistibilmente, prima che la coscienza del male che le avrei cagionato, avesse avuto
il potere di distogliermi da quell'affetto. Essa mi corrispose. Io era giovine, io era sventurato, io
aveva il diritto di dare dell'amore e di chiederne; io che non aveva provato mai la felicità, che non
aveva fatto che toglierla altrui senza poterla dare a me stesso, che aveva dovuto sempre gettarla
lontano da me come un frutto amaro e vietato. Voi sapete il resto. Voi sapete che sono ora
minacciato da un
pericolo, e venite per avvertirmene. Ebbene, è troppo tardi - lo scopo della mia vita è
raggiunto. La morte - se essa deve colpirmi non ha per me più nulla di amaro e di increscevole: io
ho realizzata l'estrema delle mie aspirazioni, e sorrido dell'impotenza di coloro che avrebbero
voluto impedirlo.
Egli pronunciò queste parole con una specie di alterezza che diede alla sua fisionomia già
tanto soave un'espressione singolarmente severa.
-Sì, è troppo tardi, continuò egli con entusiasmo; voi avete voluto impedire le mie nozze;
ebbene, sappiatelo, queste nozze non sono più che un pretesto dinnanzi alla società, che una
giustificazione di ciò che l'amore ha già dato spontaneamente. Silvia fu mia! Che monta che essa
abbia a morire? E che cosa è egli il morire? Ebbe mai l'amore altra aspirazione? Ebbe egli mai altra
ricompensa che questa? O preceduto, o seguito, io invoco ora questa morte che voi avete voluto
prepararmi.
-Oh, non io! esclamai, il cielo mi è testimonio se io ho desiderato e preparato la vostra
morte. Voi dimenticate che io sono qui in questo momento per avvertirvi di un pericolo, non certo
per minacciarvene.
-È vero, rispose egli con dolcezza, perdonate. E mi porse la mano che ritrasse subito, come
avesse temuta di offendermi o di nuocermi con quel contatto.
Io lo guardai in volto come per interrogarlo. Egli era sì bello, sì sereno, era tornato sì
nobilmente calmo; e v'era qualche cosa di così virile su quel suo viso di fanciulla, e v'era tanta forza
in quella sua stessa debolezza, che io compresi come una donna avesse potuto accettare il suo
amore anche a prezzo della vita. Ignorava se Silvia avesse conosciuto il segreto di quel giovine, ma
sentiva come anche conoscendolo, il sacrificio della sua esistenza avesse dovuto apparirle assai
misera cosa in confronto della dolcezza di quell'amore.
Egli conosceva forse il potere della sua bellezza, o mi lesse nell'animo, poichè fece atto di
offrirmi una seconda volta la mano, e mi disse:
-Andate, andate, ve ne scongiuro. Voi siete buono, voi potreste sentire forse un poco di
simpatia per me, e io potrei pagare d'ingratitudine il servigio che avete voluto rendermi colla vostra
visita. È il mio destino! ...
-E sia pur tale, interruppi, io non lo temo. - E afferrai la sua mano che mi strinsi al cuore.
Io vi aveva giudicato diverso, io aveva voluto impedire una sventura; fu tutta mia la colpa.
-Non vi torturate con questo pensiero, disse egli. Non sono io colui che potrà credere alla
libertà delle azioni umane - l'arbitrio è una menzogna - la volontà non è che la prescienza di un atto
già preordinato; essa non ha alcun peso sulla bilancia su cui si librano tutte le cose della vita - sulla
bilancia del destino.
Io crollai il capo con espressione di dubbio. Egli osservò quell'atto e riprese:
-No, io non tenterò alcuna via per allontanare da me quel pericolo; sarebbe inutile. Ad ogni
modo vi ringrazio.
-Vi rivedrò ancora? io chiesi, quasi dubitoso di lasciarlo così fermo in quel proposito.
Egli sorrise con espressione di gratitudine, e disse: - quando vorrete, a domani?
-A domani.
Ometto il racconto delle mie relazioni col barone di Saternez durante quei sette giorni che
precedettero le sue nozze. Fu per esse che io potei formarmi un'idea meno inesatta del suo carattere,
quantunque non mi fosse mai dato di penetrare nel segreto della sua vita, più di quanto non mi
fosse stato possibile nel nostro primo incontro. Aveva nondimeno conosciuto tanto di lui da
potermi formare una convinzione a suo riguardo. Egli era indubbiamente onesto, indubbiamente
buono. Ho conosciuto pochi uomini che presentassero
nella loro indole una mistura di debolezza e di forza più singolare - intendo quella debolezza
che sta nella sensibilità, nell'attitudine a ricevere potentemente le impressioni, non nella fiacchezza
del carattere. Era scettico di mente e credente di cuore: la sventura non lo aveva prostrato, ma lo
aveva reso vecchio anzi tempo, per modo che compariva giovine o vecchio a intervalli, secondo
l'impulso interno che riceveva dalle sue passioni. E benchè sembrasse naturalmente espansivo,
come tutti i buoni, non lo era; che forse quel tristo potere di cui si credeva dotato l'aveva
ammaestrato a nascondere e a dissimulare; nè mai da quei giorno, per quanto mostrasse di avermi
caro, rialzò quel velo che si distendeva sul suo passato, e di cui mi aveva sollevato un lembo in quel
primo momento di espansione.
Mi era sembrato in quei giorni che la sua indole non fosse così malinconica, come lo aveva
giudicato dapprincipio, ma mi era poi avveduto facilmente che vi era qualche cosa di violento, di
forzato, di convulso nella sua gioia, e che egli viveva sotto l'apprensione di un pensiero che lo
riempiva di terrore. Passava dagli eccessi dell'ilarità, agli eccessi della tristezza; spesso pareva
calmo, e affettava una serenità d'animo che non sentiva. Ma ciò era per Silvia. Essa lo amava
con quella specie di cecità che non vede nulla.
Aveva fatto in quei giorni con me lunghe passeggiate, e mi aveva fatto osservare nella
campagna alcune prospettive e alcuni effetti di luce e di neve che sarebbero sfuggiti ad una mente
nè poetica, nè osservatrice. Non mostrava di temere il pericolo di cui gli aveva parlato, e non ne
fece meco alcun cenno, ma impallidiva visibilmente nel sentir pronunciare il nome del conte. Una
notte - mancavano due soli giorni agli sponsali - fui sorpreso nell'incontrarlo in compagnia del
conte di Sagrezwitcth lungo un viottolo oscuro e remoto. Tenni lor dietro, ma non giunsi a
comprendere una sola parola del loro dialogo vivace ed animato. Essi parlavano una lingua che io
non conosceva; e mi parve dal gesto e dall'imperiosità della voce del conte, che questi insistesse in
una domanda, cui l'altro si ostinava a rifiutarsi di accondiscendere.
Da quella notte apparve evidente che egli tentava stordirsi, con ogni mezzo possibile, da
qualche grande affanno. Egli aveva incominciato a chiedere al vino la dimenticanza di questo
dolore segreto, e nel giorno seguente lo aveva ricondotto a casa io stesso in uno stato di ebbrezza
assai grave.
Ma abbrevierò la mia narrazione.
Il giorno delle nozze era giunto, e le nozze
stesse si erano compiute senza che fosse sorto alcun ostacolo ad impedirle. Una festicciuola
di famiglia aveva luogo in quella sera; i congiunti e le amiche della sposa erano intervenuti in gran
numero.
Silvia era raggiante; il barone di Saternez era così giovanilmente felice, che io mi rallegrava
con me stesso della vanità delle minaccie di Davide, e fors'anche di quella della pretesa influenza
del giovine, a cui era tentato di cessare di credere. Parevami che la prospettiva d'una felicità così
grande avrebbe dovuto restituire la salute alla fanciulla, e distruggere in lui quel potere terribile e
misterioso di cui si credeva dotato.
Era trascorsa già la mezzanotte, e io pensava, seduto in un angolo della sala, alla possibilità
di questo avvenire dei due giovani, allorchè sentii pronunciare presso di me il nome del duca di
Nevers; e mi ricordai tosto essere questo il nome che il conte di Sagrezwitcth aveva portato spesso
in America. Trasalii e mi rivolsi. Un servo era entrato nella stanza, e aveva presentato allo sposo un
biglietto di visita su cui era impresso quel nome sormontato da una corona di duca. Quello strano
visitatore doveva parlar subito al barone di Saternez, e lo attendeva sotto l'atrio della casa.
-È cosa d'un istante, disse il giovine senza manifestare la benchè menoma emozione.
Infatti .... io aveva bisogno di parlare a quell'uomo. Sarò di ritorno tra pochi minuti.
Strinse la mano a Silvia, e discese. Nell'aprirsi dell'uscio mi parve d'intravvedere nel fondo
dell'atrio il conte di Sagrezwitcth, ma non potrei asserirlo. La persona che si era fatta annunciare col
nome di duca di Nevers portava però, come disse in seguito il servo che lo vide, un berretto di pelo
assai grande, e guanti di capretto d'una bianchezza irreprensibile.
Lo si attese tutta la notte - una notte fredda e piovviginosa di marzo - ma indarno. Io
rinuncio a descrivere la desolazione di quella famiglia; sarebbe compito superiore alla parola. Al
domani si leggeva nelle cronache dei giornali: «Un giovine straniero domiciliato da qualche tempo
nella nostra città, ove era giunto con passaporto falso sotto il nome di barone Saternez, boemo; ma
il cui vero nome è Gustavo dei conti di Sagrezwitcth, polacco, fu trovato stamane morto dietro i
bastioni di Porta Tanaglia, con un coltello immerso nel cuore. Non si conoscono finora nè le
circostanze, nè gli autori di questo assassinio.»
Ora quali erano i legami che congiungevano quelle due persone e quei due nomi? Quale era
il vero nome di ciascuno di quei due uomini? Lo aveva uno di essi usurpato
all'altro, o lo portavano entrambi? E il duca di Nevers! Era questo veramente il casato di
Sagrezwitcth che aveva asserito di conoscere il giovine, e col quale costui aveva detto di avere
alcuni rapporti che non poteva rivelare? È un'enimma che nè io, nè alcuno di coloro a cui ho
raccontato questa storia ha potuto mai decifrare.
Del resto Silvia guarì - fosse caso, fosse natura del male, guarì; benchè le piaghe del suo
cuore non si sieno mai rimarginate. La sua famiglia ha venduto quella casa grigia e ammuffita che
abitava qui, e si è domiciliata in un piccolo villaggio della Brianza. L'uomo conosciuto sotto il
nome di conte di Sagrezwitcth non fu mai più visto a Milano. Di Davide non seppi più nulla.
Sono scorsi due anni dalla data di questo avvenimento, e nessuna luce fu fatta su questo
delitto.
LE LEGGENDE DEL CASTELLO NERO
«Non so se le memorie che io sto per scrivere possano avere interesse per altri che per me
le scrivo ad ogni modo per me. Esse si riferiscono pressochè tutte ad un avvenimento pieno di
mistero e di terrore, nel quale non sarà possibile a molti rintracciare il filo di un fatto, o desumere
una conseguenza, o trovare una ragione qualunque. Io solo il potrò, io attore e vittima a un tempo.
Incominciato in quell'età in cui la mente è suscettibile delle allucinazioni più strane e più paurose;
continuato, interrotto e ripreso dopo un intervallo di quasi venti anni, circondato di tutte le parvenze
dei sogni, compiuto - se così si può dire d'una cosa che non ebbe principio evidente - in una terra
che non era la
mia, e alla quale mi avevano attratto delle tradizioni piene di superstizioni e di tenebre; io
non posso considerare questo avvenimento imperscrutabile della mia vita che come un enimma
insolvibile, come l'ombra di un fatto, come una rivelazione incompleta, ma eloquente d'un'esistenza
trascorsa. Erano fatti, od erano visioni? L'uno e l'altro - nè l'uno nè l'altro forse. Nell'abisso che ha
inghiottito il passato non vi sono più fatti od idee, vi è il passato: i grandi caratteri delle cose si
sono distrutti come le cose, e le idee si sono modificate con esse - la verità è nell'istante - il passato
e l'avvenire sono due tenebre che ci avviluppano da tutte le parti, e in mezzo alle quali noi
trasciniamo, appoggiandoci al presente che ci accompagna e che viene con noi, come distaccato dal
tempo, il viaggio doloroso della vita.
Ma abbiamo noi avuta una vita antecedente? Abbiamo previssuto in altro tempo, con altro
cuore e sotto un altro destino, alla esistenza dell'oggi? Vi fu un'epoca nel tempo, nella quale
abbiamo abitato quei luoghi che ora ignoriamo, amato quegli esseri che la morte ha rapito da anni,
vissuto fra quelle persone di cui vediamo oggi le opere, o cerchiamo la memoria nelle storie o
nell'oscurità delle
tradizioni? Mistero! - E nondimeno .... sì, io ho sentito spesso qualche cosa che mi parlava
d'un'esistenza trascorsa, qualche cosa di oscuro, di confuso, è vero, ma di lontano, di infinitamente
lontano. Vi sono delle rimembranze nella mia mente che non possono essere contenute in questo
limite angusto della vita, per giungere alla cui origine io devo risalire la curva degli anni, risalire
molto lontano .... due o tre secoli .... Anche prima di oggi mi era avvenuto più volte ne' miei viaggi
di arrestarmi in una campagna e di esclamare: ma io ho veduto già questo sito, io sono già stato qui
altre volte! ... questi campi, questa valle, questo orizzonte io li conosco! E chi non ha esclamato
talora, parendogli di ravvisare in qualche persona delle sembianze già note: quell'uomo l'ho già
veduto: dove? quando? chi è egli? non lo so, ma per fermo noi ci siamo veduti altre volte, noi ci
conosciamo! - Nella mia infanzia vedeva spesso un vecchio che certo aveva conosciuto fanciullo,
da cui certo era stato conosciuto già vecchio: non ci parlavamo, ma ci guardavamo come persone
che sanno di conoscersi da tempo. - Lungo una via di Poole, rasente la spiaggia della Manica, ho
trovato un sasso sul quale mi rammento benissimo di essermi seduto,
saranno circa settant'anni, e ricordo che era un giorno triste e piovoso, e vi aspettava una
persona di cui ho dimenticato il nome e le sembianze, ma che mi era cara. - In una galleria di quadri
a Gratz ho veduto un ritratto di donna che ho amato, e la conobbi subito benchè ella fosse allora più
giovine, e il ritratto fosse stato fatto forse vent'anni dopo la nostra separazione. La tela portava la
data del 1647: press'a poco a quell'epoca, risale la maggior parte di queste mie memorie.
Vi fu un tempo della mia fanciullezza durante il quale non poteva ascoltare la cadenza di
certe canzoni che cantano da noi le donne di campagna nelle fattorie, senza sentirmi trasportare ad
un tratto in un'epoca così remota della mia vita, che non avrei potuto risalirvi anche moltiplicando
un gran numero di volte gli anni già vissuti nell'esistenza presente. Bastava che io ascoltassi quella
nota per cadere sull'istante in uno stato come di paralisi, come di letargia morale che mi rendeva
estraneo a tutto ciò che mi circondava, qualunque fosse lo stato d'animo in cui essa mi avesse
sorpreso. Dopo i venti anni non ho più riprovato quel fenomeno. Non aveva io più ascoltata quella
nota? o la mia anima, già abbastanza immedesimata colla vita presente, si era resa insensibile a quel
richiamo?
O che la mia natura è inferma, o che io concepisco in modo diverso dagli altri uomini, o che
gli altri uomini subiscono, senza avvertirle, le medesime sensazioni. Io sento, e non saprei
esprimere in qual guisa, che la mia vita - o ciò che noi chiamiamo propriamente con questo nome
non è incominciata col giorno della mia nascita, non può finire con quello della mia morte: Io sento
colla stessa energia, colla stessa pienezza di sensazione con cui sento la vita dell'istante benchè ciò
avvenga in modo più oscuro, più strano, più inesplicabile, E d'altra parte come sentiamo noi di
vivere nell'istante? Si dice, io vivo. Non basta: nel sonno non si ha coscienza dell'esistere - e
nondimeno si vive. Questa coscienza dell'esistere può non essere circoscritta esclusivamente negli
stretti limiti di ciò che chiamiamo la vita. Vi possono essere in noi due vite - è sotto forme diverse
la credenza di tutti i popoli e di tutte le epoche - l'una essenziale, continuata, imperitura forse; l'altra
a periodi, a sbalzi più o meno brevi, più o meno ripetuti: l'una è l'essenza l'altra è la rivelazione, è la
forma. Che cosa muore nel mondo? La vita muore, ma lo spirito, il segreto, la forza della vita non
muore: tutto vive nel mondo.
Ho detto il sonno. E che cosa è il sonno? Siamo noi ben certi che la vita del sonno non sia
una vita a parte, un'esistenza distaccata dall'esistenza della veglia? Che cosa avviene di noi in
quello stato? chi lo sa dire? gli avvenimenti a cui assistiamo o prendiamo parte nel sogno non
sarebbero essi reali? Ciò che noi chiamiamo con questo nome non potrebbe essere che una
memoria confusa di quegli avvenimenti? ... Pensiero spaventoso e terribile! Noi forse, in un ordine
diverso di cose, partecipiamo a fatti, ad affetti, ad idee di cui non possiamo conservare la coscienza
nella veglia; viviamo in altro mondo e tra altri esseri che ogni giorno abbandoniamo, che rivediamo
ogni giorno. Ogni sera si muore di una vita, ogni notte si rinasce d'un'altra. Ma ciò che avviene di
queste esistenze parziali, avviene forse anche di quell'esistenza intera e più definita che le
comprende. Gli uomini hanno sempre rivolto lo sguardo all'avvenire, mai al passato; al fine, mai al
principio; all'effetto, mai alla causa; e non di meno quella porzione della vita a cui il tempo può
nulla togliere o aggiungere, quella su cui la nostra mente avrebbe maggiori diritti a posarsi, e dalla
cui investigazione potrebbe attingere le più grandi compiacenze, e gli ammaestramenti
più utili, è quella che è trascorsa in un passato più o meno remoto. Perocchè noi abbiamo
vissuto, noi viviamo, vivremo. Vi sono delle lacune tra queste esistenze, ma saranno riempiute.
Verrà un'epoca in cui tutto il mistero ci sarà rivelato; in cui si spiegherà tutto intero ai nostri occhi
lo spettacolo di una vita, le cui fila incominciano nell'eternità e si perdono nell'eternità; nella quale
noi leggeremo, come sopra un libro divino, le opere, i pensieri, le idee concepite o compiute in
un'esistenza trascorsa, o in una serie di esistenze parziali che abbiamo dimenticate. - Se gli altri
uomini serbino o no questa fede, non so; ma ciò non potrebbe nè fortificare, nè abbattere il mio
convincimento. Ad ogni modo, ecco il mio racconto.
Nel 1830 io aveva quindici anni, e conviveva colla famiglia in una grossa borgata del
Tirolo, di cui alcuni riguardi personali mi costringono a sopprimere il nome. Non erano passate più
di tre generazioni dacchè i miei antenati erano venuti ad allogarsi in quel villaggio: essi vi erano
bensì venuti dalla Svizzera, ma la linea retta della famiglia era oriunda della Germania: le memorie
che si conservavano della sua origine erano sì
inesatte e sì oscure, che non mi fu mai dato di poterne dedurre delle cognizioni ben definite:
ad ogni modo, mi preme soltanto di accertare questo fatto, ed è che il ceppo della mia casa era
originario della Germania.
Eravamo in cinque: mio padre e mia madre, nati in quel villaggio vi avevano ricevuto
quell'educazione limitata e modesta che è propria della bassa borghesia. Vi erano bensì delle
tradizioni aristocratiche nella mia famiglia, delle tradizioni che ne facevano risalire l'origine al
vecchio feudalismo sassone; ma la fortuna della nostra casa si era talmente ristretta che aveva fatto
tacere in noi ogni istinto di ambizione e di orgoglio. Non vi era differenza di sorta tra le abitudini
della mia famiglia, e quelle delle famiglie più modeste del popolo; i miei genitori erano nati e
cresciuti tra di esse, la loro vita era tutta una pagina bianca; nè io aveva potuto attingere dalla loro
convivenza, nè trarre dal loro metodo di educazione alcuna di quelle idee, di quelle memorie di
fanciullezza che predispongono alla superstizione e al terrore.
L'unico personaggio la cui vita racchiudeva qualche cosa di misterioso e d'imperscrutabile, e
che era venuto ad aggiungersi, per così dire, alla mia famiglia, era
un vecchio zio legato a noi, dicevasi, da una comunanza d'interessi, di cui però non ho
potuto decifrarmi in alcun modo le ragioni, dopo che, e per la morie di lui e per quella di mio padre,
io venni in possesso della fortuna della mia casa.
Egli toccava allora - e parlo di quell'età a cui risalgono queste mie memorie - i novant'anni.
Era una figura alta e imponente, benchè leggermente curvata; aveva tratti di volto maestosi,
marcati, direi quasi plastici; l'andamento fiero quantunque vacillante per vecchiaia, l'occhio
irrequieto e scrutatore, doppiamente vivo su quel viso, di cui gli anni avevano paralizzata la
mobilità e l'espressione. Giovine ancora, aveva abbracciato la carriera del sacerdozio, spintovi dalle
pressioni insistenti della famiglia; poi aveva buttata la tonaca e s'era dato al militare; la rivoluzione
francese lo aveva trovato nelle sue file; egli aveva passato quarantadue anni lontano dalla sua
patria, e quando vi ritornò - poichè non aveva rotti i voti contratti colla Chiesa - riprese l'abito di
prete che portò senza macchie e senza affettazione di pietà fino alla morte. Lo si sapeva dotato
d'indole pronta benchè abitualmente pacata, di volontà indomabile, di mente vasta e erudita,
quantunque s'adoperasse a non parerlo.
Capace di grandi passioni e di grandi ardimenti, lo si teneva in concetto di uomo non
comune, di carattere grande e straordinario. Ciò che contribuiva per altro a circondarlo di questo
prestigio, era il mistero che nascondeva il suo passato, erano alcune dicerie che si riferivano a mille
strani avvenimenti cui volevasi che egli avesse preso parte - certo egli aveva reso dei grandi servigii
alla rivoluzione; quali e con quale influenza non lo si seppe mai: egli morì a novantasei anni
portando seco nella sua tomba il segreto della sua vita.
Tutti conoscono le abitudini della vita di villaggio; non mi tratterrò a discorrere di quelle
speciali della mia famiglia. Noi ci radunavamo tutte le sere d'inverno in una vasta sala a pian
terreno, e ci sedevamo in circolo intorno ad uno di quegli ampii camini a cappa sì antichi e sì
comodi, che il gusto moderno ha abolito, sostituendovi le piccole stufe a carbone. Mio zio che
abitava un appartamento separato nella stessa casa, veniva qualche volta a prender parte alle nostre
riunioni e ci raccontava alcune avventure de' suoi viaggi e di alcune scene della rivoluzione che ci
riempivano di terrore e di meraviglia. Taceva però sempre di sè; e richiesto della parte che vi aveva
preso, distoglieva la narrazione da quel soggetto.
Una sera - lo ricordo come fosse ieri - eravamo riuniti, secondo il solito, in quella sala: era
d'inverno, ma non vi era neve; il suolo gelato e imbiancato di brina rifletteva i raggi della luna in
guisa da produrre una luce bianca e viva come quella di un'aurora. Tutto era silenzio, e non si udiva
che il martellare alternato di qualche goccia che stillava dai ghiacciuoli delle gronde, Ad un tratto
un rumore sordo e improvviso di un oggetto gettato nel cortile dal muracciuolo di cinta, viene ad
interrompere la nostra conversazione; mio padre si alza, esce e si precipita fuori della porta che
mette sulla via. ma non ode rumore alcuno di passi, nè vede per tutto quel tratto di strada che si
distende d'innanzi a lui, alcuna persona che si allontani. Allora raccoglie dal suolo un piccolo
involto che vi era stato gettato, e rientra con esso nella sala. Ci raccogliamo tutti dintorno a lui per
esaminarlo. Era, meglio che un involto, un grosso plico quadrato in vecchia carta grigiastra
macchiata di ruggine, e cucita lungo gli orli con filo bianco e a punti esatti e regolari che
accusavano l'ufficio di una mano di donna. La carta tagliata qua e là dal filo, e arrossata e
consumata sugli orli, indicava che quel piego era stato fatto da lungo tempo.
Mio zio lo ricevette dalle mani di mio padre, e lo vidi tremare ed impallidire nell'osservarlo.
Tagliatane la carta, ne trasse due vecchi volumi impolverati; e non v'ebbe gettato su gli occhi, che il
suo volto si coperse di un pallore cadaverico, e disse, dissimulando un senso di dolore e di
meraviglia più vivo; - è strano! E dopo un breve istante in cui nessuno di noi aveva osato parlare
riprese: - è un manoscritto, sono due volumi di memorie che risalgono alle prime origini della
nostra famiglia, e contengono alcune gloriose tradizioni della nostra casa. Io ho dato questi due
volumi ad un giovine che, quantunque non appartenesse direttamente alla nostra famiglia, vi era
congiunto per certi legami che non posso ora qui rivelare. Furono il pegno d'una promessa, cui non
io, ma il tempo mi ha impedito di mantenere: sì, il tempo .... aggiunse tra di sè a bassa voce. - Io lo
aveva conosciuto all'Università di ***, allorchè vi studiava teologia: egli fu ghigliottinato sulla
piazza della Greve, e la sua famiglia fu distrutta dalla rivoluzione saranno ora quarant'anni .... non
uno gli sopravisse ... È strano! ....
E dopo un breve intervallo, osservando che verso la cucitura dei fogli si era accumulala una
polvere rossastra leggerissima,
ci disse, come si fosse risovvenuto di un pericolo: - lavatevi le mani. - Perchè?
-Nulla ....
Ubbidimmo. Si passò tutta quella sera in silenzio: mio zio era in preda a tristi pensieri, e si
vedeva che egli si sforzava di evocare o di scacciare delle memorie assai dolorose. Si ritirò assai
presto, si rinchiuse nel suo appartamento, e vi stette due giorni senza lasciarsi vedere.
In quella sera io mi coricai in preda a pensieri strani e paurosi di cui non sapeva darmi
ragione. Era preoccupato dall'idea di quell'avvenimento più che non avrei dovuto, più che un
fanciullo della mia età non avrebbe potuto esserlo. Indarno io tenterei ora di rendere qui colla
parola i sentimenti inesplicabili e singolari che si agitavano dentro di me in quell'istante. Parevami
che tra quei volumi e mio zio, e me stesso, corressero dei rapporti che non aveva avvertito fino
allora, delle relazioni misteriose e lontane di cui non giungeva a decifrarmi in alcun modo la natura,
nè a comprendere il fine. Erano, o mi parevano rimembranze. Ma di che cosa? Non lo sapeva. Di
che tempo? Remote. Nella mia giovine intelligenza tutto si era alterato e confuso.
Mi addormentai sotto l'impressione di quelle idee, e feci questo sogno.
Aveva venticinque anni: nella mia mente si erano come agglomerate tutte quelle idee, tutte
quelle esperienze, tutti quegli ammaestramenti che il tempo mi avrebbe fatto subire durante gli anni
che segnavano quella differenza tra l'età sognata e l'età reale; ma io rimaneva nondimeno estraneo a
questo maggiore perfezionamento, benchè il comprendessi. Sentiva in me tutto lo sviluppo
intellettuale di quell'età, ma ne giudicava col senno e cogli apprezzamenti proprii dei miei quindici
anni. Vi erano due individui in me, all'uno apparteneva l'azione, all'altro la coscienza e
l'apprezzamento dell'azione. Era una di quelle contraddizioni, di quelle bizzarie, di quelle
simultaneità di effetti che non sono proprie che dei sogni.
Mi trovava in una gran valle fiancheggiata da due alte montagne: la vegetazione, la
coltivazione, la forma e la disposizione delle capanne, e un non so che di diverso, di antico nella
luce, nell'atmosfera, in tutto ciò che mi circondava, mi dicevano ch'io mi trovava colà in un'epoca
assai remota dalla mia esistenza attuale - due o tre secoli almeno. Ma come era ciò avvenuto? come
mi trovava
in quelle campagne? Non lo sapeva. Ciò era bensì naturale nel sogno: vi erano degli
avvenimenti che giustificavano il mio ristarmi in quel luogo, ma non sapeva quali fossero; non
aveva coscienza del loro valore, della loro entità, non l'aveva che dalla loro esistenza. Era solo e
triste. Camminava per uno scopo determinato, prefisso, per un fine che mi attraeva in quel luogo,
ma che ignorava. All'estremità della valle s'innalzava una rupe tagliata a picco, alta, perpendicolare,
profonda, solcata da screpolature dove non germogliava una liana; e sulla sua sommità vi era un
castello che dominava tutta la valle, e quel castello era nero. Le sue torri munite di balestriere erano
gremite di soldati, le porte dei ponti calate, le altane stipate d'uomini e di arnesi da difesa; negli
appartamenti del castello era rinchiusa una donna di prodigiosa bellezza, che nella consapevolezza
del sogno io sapeva essere la dama del castello nero e quella donna era legata a me da un
affetto antico, e io doveva difenderla, sottrarla da quel castello. Ma giù nella valle a' piedi della
rupe ove io mi era arrestato, un oggetto colpiva dolorosamente la mia attenzione: sui gradini di un
monumento mortuario sedeva un uomo che ne era uscito allora; egli era morto e
tuttavia viveva; presentava un assieme di cose impossibile a dirsi, l'accoppiamento della
morte e della vita, la rigidità, il nulla dell'una temperata dalla sensitività, dall'essenza dell'altra: le
sue pupille che io sapeva essere state abbaccinate con un chiodo rovente, erano ancora attraversate
da due piccoli fori quadrati che davano al suo sguardo qualche cosa di terribile e di
compassionevole a un tempo. A quel fatto si legavano delle memorie di sangue, delle memorie di
un delitto a cui io avevo preso parte. Fra me e lui e la dama del castello correvano dei rapporti
inesplicabili. Egli mi guardava colle sue pupille forate; e col gesto, e con una specie di volontà che
egli non manifestava, ma che io, non so come, leggeva in lui, m'incitava a liberare la dama.
Una via scavata lateralmente nella rupe conduceva al castello. Una immensa quantità di
projettili lanciatimi dai mangani delle torri m'impedivano di giungervi. Ma, strana cosa! tutti quei
projettili enormi mi colpivano, ma non mi uccidevano - nondimeno mi arrestavano. Attraverso le
mura del castello, io vedeva la dama correre sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col
volto e coll'abito bianchi come la neve, protendendomi le braccia con espressione di desiderio e di
pietà
infinita; e io la seguiva collo sguardo attraverso tutte quelle sale che io conosceva, nelle
quali aveva vissuto un tempo con lei. Quella vista mi animava a correre in suo soccorso, ma non lo
poteva; i projettili lanciatimi dalle torri me lo impedivano: a ogni svolto del sentiero la grandine
diventava più fitta e più atroce; e quegli svolti erano molti - dopo questo un altro, dopo quello
ancora un altro .... io saliva e saliva .... la dama mi chiamava dal castello, si affacciava dalle ampie
finestre coi capelli che le piovevano giù dal seno, mi accennava colla mano di affrettarmi, mi
diceva parole piene di dolcezza e di amore, nè io poteva giungere fino a lei - era un'impotenza
straziante. Quanto durasse quella terribile lotta non so; tutta la durata del sogno, tutto lo spazio
della notte ... Finalmente, e non sapeva in che modo, era arrivato alle porte del castello; esse erano
rimaste indifese, i soldati erano spariti: le imposte serrate si spalancarono da sè cigolando sui
cardini irruginiti, e nello sfondo nero dell'atrio vidi la dama col suo lungo strascico bianco, e colle
braccia aperte, correre verso di me, attraversando con una rapidità sorprendente, e rasentando
appena lo spazzo, la distanza che ci separava. Essa si gettò tra le mie
braccia coll'abbandono di una cosa morta, colla leggerezza, coll'adesione di un oggetto aero,
flessibile, soprannaturale. La sua bellezza non era della terra; la sua voce era dolce, ma debole
come l'eco di una nota; la sua pupilla nera e velata come per pianto recente, attraversava le più
ascose profondità della mia anima senza ferirla, investendola anzi della sua luce come per effetto di
un raggio. Noi passammo alcuni istanti così abbracciati: una voluttà mai sentita da me nè prima, nè
dopo quell'ora, mi ricercava tutte le fibre. Per un momento io subii tutta l'ebbrezza di
quell'amplesso senza avvertirla: ma non m'era posato su questo pensiero, non era appena discesa in
me la coscienza di quella voluttà, che sentii compiersi in lei un'orribile trasformazione. Le sue
forme piene e delicate che sentiva fremere sotto la mia mano, si appianarono, rientrarono in sè,
sparirono; e sotto le mie dita incespicate tra le pieghe che si erano formate a un tratto nel suo abito,
sentii sporgere qua e là l'ossatura di uno scheletro .... Alzai gli occhi rabbrividendo e vidi il suo
volto impallidire, affilarsi, scarnarsi, curvarsi sopra la mia bocca; e colla bocca priva di labbra
imprimervi un bacio disperato, secco, lungo, terribile .... Allora un fremito, un brivido di morte
scorse per tutte le mie fibre; tentai svincolarmi dalle sue braccia, respingerla .... e nella
violenza dell'atto il mio sonno si ruppe - mi svegliai urlando e piangendo.
Tornai a' miei quindici anni, alle mie idee, a' miei apprezzamenti, alle mie puerilità di
fanciullo. Tutto quel sogno mi pareva assai più strano, assai più incomprensibile che spaventoso.
Quali erano i sentimenti che si erano impossessati di me in quello stato? Io non aveva ancora
conosciuta la voluttà di un bacio, non aveva pensato ancora all'amore, non poteva darmi ragione
delle sensazioni provate in quella notte. Ciò non ostante era triste, era posseduto da un pensiero
irremovibile; mi pareva che quel sogno non fosse altrimenti un sogno, ma una memoria, un'idea
confusa di cose, la rimembranza di un fatto molto remoto dalla mia vita attuale.
Nella notte seguente ebbi un altro sogno.
Mi trovava ancora in quel luogo, ma tutto era cambiato; il cielo, gli alberi, le vie non erano
più quelli; i fianchi della rupe erano intersecati da sentieri coperti di madreselve; del castello non
rimanevano che poche rovine, e nei cortili deserti e negli interstizii delle stanze terrene
crescevano le cicute e le ortiche. Passando vicino al monumento che sorgeva prima nella
valle e di cui pure non restavano che alcune pietre, l'uomo abbacinato che stava ancora seduto sopra
un gradino rimasto intatto, mi disse porgendomi un fazzoletto bruttato di sangue: - recatelo alla
signora del castello. Mi trovai assiso sulle rovine: la signora del castello era seduta al mio fianco
eravamo soli - non si udiva una voce, un eco, uno stormire di fronde nella campagna - essa,
afferrandomi le mani, mi diceva: - sono venuta tanto da lontano per rivederti, senti il mio cuore
come batte .... senti come batte forte il mio cuore! ... tocca la mia fronte e il mio seno: oh! sono
assai stanca, ho corso tanto; sono spossata dalla lunga aspettazione .... erano quasi trecento anni che
non ti vedeva.
-Trecento anni!
-Non ti ricordi? Noi eravamo assieme in questo castello: ma sono memorie terribili! non le
evochiamo.
-Sarebbe impossibile; io le ho dimenticate.
-Le ricorderai dopo la tua morte.
-Quando-Assai presto.
-Quando-Fra venti anni, al venti di gennaio: i nostri destini, come le nostre vite, non potranno
ricongiungersi prima di quel giorno.
-Ma allora?
-Allora saremo felici, realizzeremo i nostri voti.
-Quali-Li ricorderai a suo tempo .... ricorderai tutto. La tua espiazione sta per finire, tu hai
attraversate undici vite prima di giungere a questa, che è l'ultima. Io ne ho attraversate sette
soltanto, e sono già quarant'anni che ho compiuto il mio pellegrinaggio nel mondo: tu lo compirai
con questa fra venti anni. Ma non posso rimanere più a lungo con te, è necessario che ci separiamo.
-Spiegami prima questo enimma.
-È impossibile ... Può avvenire però che tu lo abbia a comprendere. Ho rinfacciato ieri a lui
la sua promessa; te ne ho restituito il mezzo, quei due volumi, quelle memorie scritte da te, quelle
pagine sì colme di affetto .... le avrai? Se
quell'uomo che ci fu allora sì fatale non t'impedirà di averle.
-Chi-Tuo zio .... egli .... l'uomo della valle.
-Egli? mio zio!
-Sì, e lo hai tu veduto?
-Lo vidi, e ti manda per me questo fazzoletto insanguinato.
-È il tuo sangue, Arturo, diss'ella con trasporto, sia lodato il cielo! egli ha mantenuto la sua
promessa.
Dicendo queste parole la signora del castello sparve - io mi svegliai atterrito.
Mio zio stette rinchiuso per due giorni nel suo appartamento: appena ne fu uscito mi
precipitai nelle sue stanze per impadronirmi di quei volumi, ma non vi trovai che un mucchio di
cenere; egli li aveva dati alle fiamme. Quale non fu però il mio terrore quando nel rimescolare
quelle ceneri vi rinvenni alcuni frammenti che parevano scritti di mio pugno; e da alcune parole
sconnesse che erano rimaste intelligibili, potrei ricostituire con uno sforzo potente di memoria degli
interi periodi che si riferivano agli avvenimenti accennati oscuramente in quei sogni! Io
non poteva più dubitare della verità di quelle rivelazioni; e benchè non giungessi mai ad
evocare tutte le mie rimembranze per modo da dissipare le tenebre che si distendevano su quei fatti,
non era più possibile che io potessi metterne in dubbio l'esistenza. Il castello nero era spesso
nominato in quei frammenti, e quella passione d'amore che pareva legarmi alla signora del castello,
e quel sospetto di delitto che pesava sull'uomo della valle vi erano in parte accennati. Oltre a ciò,
per una combinazione singolare altrettanto che spaventevole, la notte in cui aveva fatto quel sogno
era appunto la notte del venti gennaio: mancavano adunque venti anni esatti alla mia morte.
Dopo quel giorno io non aveva dimenticato mai quel presagio, ma quantunque non ponessi
in dubbio che vi fosse un fondo di verità in tutto quell'assieme di fatti, era riuscito a persuadermi
che la mia gioventù, la mia sensibilità, la mia immaginazione, avevano contribuito in gran parte a
circondarli del loro prestigio. Mio zio, morto sei anni dopo, mentre io era
assente dalla famiglia, non aveva fatto alcuna rivelazione che si riferisse a quegli
avvenimenti; io non aveva più avuto alcun sogno che potesse considerarsi come uno schiarimento
od una continuazione di quelli; e degli affetti nuovi, e delle cure nuove, e delle nuove passioni
erano venute a distogliermi da quel pensiero, a crearmi un nuovo stato di cose, un nuovo ordine di
idee, ad allontanarmi da quella preoccupazione triste e affannosa.
Non fu che diciannove anni dopo che io dovetti persuadermi per una testimonianza
irrefragabile, che tutto ciò che io aveva sognato e veduto era vero, e che il presagio della mia morte
doveva conseguentemente avverarsi.
Nell'anno 1849, viaggiando al Nord della Francia, aveva disceso il Reno fin presso al
confluente della piccola Mosa, e m'era trattenuto a cacciare in quelle campagne. Errando solo un
giorno lungo le falde di una piccola catena di monti, mi era trovato ad un tratto in una valle nella
quale mi pareva esser stato altre volte, e non aveva fatto questo pensiero che una memoria terribile
venne a gettare una luce fosca e spaventosa nella mia mente,
e conobbi che quella era la valle del castello, il teatro de' miei sogni e della mia esistenza
trascorsa. Benchè tutto fosse mutato, benchè i campi, prima deserti, biondeggiassero adesso di
messi, e non rimanessero del castello che alcuni ruderi sepolti a metà dalle ellere, ravvisai tosto
quel luogo, e mille e mille rimembranze, mai più evocate, si affollarono in quell'istante nella mia
anima conturbata.
Chiesi ad un pastore che cosa fossero quelle rovine, e mi rispose: - Sono le rovine del
castello nero; non conoscete la leggenda del castello nero? Veramente ve ne sono di molte e non si
narrano da tutti allo stesso modo; ma se desiderate di saperla come la so io .... se ....
-Dite, dite, io interruppi, sedendomi sull'erba al suo fianco. - E intesi da lui un racconto
terribile, un racconto che io non rivelerò mai, benchè altri il possa allo stesso modo sapere, e sul
quale ho potuto ricostruire tutto l'edificio di quella mia esistenza trascorsa.
Quando egli ebbe finito, io mi trascinai a stento fino ad un piccolo villaggio vicino, d'onde
fui trasportato, già infermo a Wiesbaden, e vi tenni il letto tre mesi.
Oggi, prima di partire, mi sono recato a rivedere le rovine del castello - è il primo giorno di
settembre, mancano sei mesi all'epoca della mia morte - sei mesi, meno dieci giorni - giacchè non
dubito che morrò in quel giorno prefisso. Ho concepito lo strano desiderio che rimanga alcuna
memoria di me. Assiso sopra una pietra del castello ho tentato di richiamarmi tutte le circostanze
lontane di questo avvenimento, e vi scrissi queste pagine sotto l'impressione di un immenso
terrore.»
*
**
L'autore di queste memorie, che fu mio amico e letterato di qualche fama, proseguendo il
suo viaggio verso l'interno della Germania, morì il venti gennaio 1850, come gli era stato presagito,
assassinato da una banda di zingari nelle gole così dette di Giessen presso Freiburgo.
Io ho trovate queste pagine tra i suoi molti manoscritti, e le ho pubblicate.
LA LETTERA U (Manoscritto d'un pazzo)
U! U!
Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L'ho io delineata
esattamente? L'ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co' suoi profili fatali, colle sue due
punte detestate, colla sua curva abborrita? Ho io ben vergata questa lettera, il cui suono mi fa
rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore?
Sì, io l'ho scritta.
Ed eccovela ancora:
Eccola un'altra volta
Guardatela, affissatela bene - non tremate, non impallidite - abbiate il coraggio di sostenerne
la vista, di osservarne tutte le parti, di esaminarne tutti i dettagli, di vincere tutto l'orrore che v'ispira
.... Questo U! ... questo segno fatale, questa lettera abborrita, questa vocale tremenda!
E l'avete ora veduta? ... Ma che dico? ... Chi di voi non l'ha veduta, non l'ha scritta, non l'ha
pronunciata le mille volte? - Lo so; ma io vi domanderò bensì: chi di voi l'ha esaminata? chi l'ha
analizzata, chi ne ha studiato la forma, l'espressione, l'influenza? Chi ne ha fatto l'oggetto delle sue
indagini, delle sue occupazioni, delle sue veglie? Chi vi ha posato sopra il suo pensiero per tutti gli
anni della sua vita?
Perché .... voi non vedete in questo segno che una lettera mite, innocua come le altre; perchè
l'abitudine vi ci ha resi indifferenti; perchè la vostra apatia vi ha distolto dallo studiarne più
accuratamente i caratteri .... ma io .... Se voi sapeste ciò che io ho veduto!… se voi sapeste ciò che
io vedo in questa vocale!
E consideratela ora meco.
Guardatela bene, guardatela attentamente, spassionatamente, fissi!
E così, che ne dite?
Quella linea che si curva e s'inforca - quelle delle due punte che vi guardano immobili, che
si guardano immobili - quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le
cime - quell'arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando - e nell'interno quel
nero, quel vuoto, quell'orribile vuoto che si affaccia dall'apertura delle due aste, e si ricongiunge e
si perde nell'infinità dello spazio ....
Ma ciò è ancor nulla, Coraggio!
Raddoppiate la vostra potenza d'intuizione; gettatevi uno sguardo più indagatore.
Partite da una delle due punte, seguite la curva esterna, discendete, avvicinatevi all'arco,
passatevi sotto, risalite, raggiungete la punta opposta ....
Che cosa avete veduto?
Attendete!
Compite adesso un viaggio a rovescio. Discendete lungo le linea interna - discendetevi con
coraggio, con energia –
raggiungete il fondo, arrestatevi, fermatevi un istante, esaminatelo attentamente; poi risalite
fino alla punta d'onde eravate partito dapprima ...
Tremate? Impallidite?
Non basta ancora!
Posatevi un istante sulle due linee che ne tagliano le punte; andate dall'una all'altra; poi
guardate l'assieme della lettera, guardatela d'un sol colpo d'occhio, esaminatene tutti i profili,
afferratene tutta l'espressione .... e ditemi se non siete paralizzati, se non siete vinti, se non siete
annichiliti da quella vista?!?!
Ecco.
Io vi scrivo qui tutte le vocali:
a e i o u
Le vedete? Sono queste?
a e i o u
Ebbene?!
Ma non basta il vederle.
Sentiamone ora il suono.
A. - L'espressione della sincerità, della schiettezza, d'una sorpresa lieve ma dolce.
E - La gentilezza, la tenerezza espressa tutta in un suono.
I - Che gioia! Che gioia viva e profonda!
O - Che sorpresa! che meraviglia! ma che sorpresa grata! Che schiettezza rozza, ma
maschia in quella lettera!
Sentite ora l'U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordii più profondi, ma pronunciatelo
bene: U! uh!! uhh!!! Uhhh!!!
Uhhh!!!Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, il
lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi
è qualche cosa d'infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono?
Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!
Vi voglio raccontare la mia vita.
Voglio che sappiate in che modo questa lettera mi ha trascinato ad una colpa, e ad una pena
ignominiosa e immeritata.
Io nacqui predestinato. Una terribile condanna pesava sopra di me fino dal primo giorno
della mia esistenza: il mio nome conteneva un U. Da ciò tutte le sventure della mia vita.
A sette anni fui avviato alle scuole.
Un istinto, di cui ignorava ancora le cause, mi impediva di apprendere quella lettera, di
scriverla: ogni volta che mi si facevano leggere le vocali mi arrestava, mio malgrado, d'innanzi
all'U; mi veniva meno la voce, un panico indescrivibile s'impossessava di me - io non poteva
pronunciare quella vocale!
Scriverla? era peggio! La mia mano sicura nel vergare le altre, diventava convulsa e
tremante allorchè mi accingeva a scrivere questa. Ora le aste erano troppo convergenti, ora troppo
divergenti; ora formavano un V diritto, ora un V capovolto; non poteva tracciare in nessun modo la
curva, e spesso non riusciva che a formare una linea serpeggiante e confusa.
Il maestro mi dava del quadrello sulle dita - io m'inacerbiva e piangeva.
Aveva dodici anni, allorchè un giorno vidi scritto sulla lavagna un U colossale, così:
U
Io stava seduto di fronte alla lavagna. Quella vocale era lì, e pareva guardarmi,
pareva affissarmi e sfidarmi. Non so qual coraggio mi nascesse improvvisamente nel cuore:
certo il tempo della rivelazione era giunto! Quella lettera ed io eravamo nemici; accettai la sfida, mi
posi il capo tra le mani e incominciai a guardarla .... Passai alcune ore in quella contemplazione. Fu
allora che io compresi tutto, che io vidi tutto ciò che vi ho ora detto, o tentato almeno di dirvi,
giacchè il dirvelo esattamente è impossibile. Io indovinai le ragioni della mia ripugnanza, del mio
odio; e progettai una guerra mortale a quella lettera.
Incominciai col togliere quanti libri poteva a' miei compagni, e cancellarvi tutti gli U che mi
venivano sott'occhio. Non era che il principio della mia vendetta. Fui cacciato dalle scuole.
Vi ritornai tuttavia più tardi. Il mio maestro si chiamava Aurelio Tubuni
TubuniTre U!! Io lo abborriva per questo, Un giorno scrissi sulla lavagna: Morte allU!
allU!Egli attribuì a sè medesimo quella minaccia. Fui ricacciato.
Ottenni ancora di tornarvi una terza volta. Presentai allora, come lavoro di esame, un
progetto relativo all'abolizione
di questa vocale, alla sua espulsione dalle lettere dell'alfabeto.
Non fui compreso. Fui tacciato di follia. I miei compagni, conosciuta così la mia avversione
a quella vocale, incominciarono contro di me una guerra terribile. Io vedeva, io trovava degli U da
tutte le parti: essi ne scrivevano dappertutto: sui miei libri, sulle pareti, sui banchi, sulla lavagna - i
miei quaderni, le mie carte ne erano ripieni; nè io poteva difendermi da questa persecuzione
sanguinosa ed atroce.
Un giorno trovai nella mia saccoccia una cartolina, su cui ne era scritta una lunga fila in
questo modo infernale, così:
Divenni furente! La vista di tutti quegli U disposti in questa guisa, collocati con questa
gradazione tremenda, mi trasse di senno. Sentii salirmi il sangue alle tempia, sconvolgersi la mia
ragione .... Corsi alla scuola; ed afferrato alla gola uno de' miei compagni, l'avrei per fermo
soffocato, se non mi fosse stato tolto di mano.
Era la prima colpa a cui mi trascinava quella vocale!
Mi fu impedito di continuare i miei studii.
Allora incominciai a vivere da solo, a pensare, a meditare, ad operare da solo. Entrai in una
nuova sfera di osservazioni, in una sfera più elevata, più attiva: studiai i rapporti che legavano ai
destini dell'umanità questa lettera fatale; ne trovai tutte le fila, ne scopersi tutte le cause, ne
indovinai tutte le leggi; e scrissi ed elaborai, in cinque lunghi anni di fatica, un lavoro voluminoso,
nel quale mi proponeva di dimostrare come tutte le umane calamità non procedessero da altre cause
che dall'esistenza dell'U, e dall'uso che ne facciamo nella scritturazione e nel linguaggio; e come
fosse possibile il sopprimerlo, e rimediare, e prevenire i mali che ci minaccia.
Lo credereste? non trovai mezzo di dare alla luce la mia opera. La società ricusava da me
quel rimedio che solo potava ancora guarirla.
A venti anni mi accesi d'amore per
una fanciulla, e ne fui riamato. Essa era divinamente buona, divinamente bella: ci amammo
al solo vederci; e quando potei parlarle, le chiesi:
-Come vi chiamate?
- Ulrica Ulrica-- Ulrica U. Un U! Era una cosa orribile. Come sottomettermi alla violenza atroce,
continua di quella vocale? Il mio amore era tutto per me, ma nondimeno trovai la forza di
rinunziarvi. Abbandonai - Ulrica
UlricaTentai di guarirmi con un altro affetto. Diedi il mio cuore ad un altra fanciulla. Lo
credereste? Seppi più tardi che si chiamava Giulia Mi divisi anche da quella.
Ebbi un terzo amore. L'esperienza mi aveva reso cauto: m'informai del suo nome prima di
darle il mio cuore.
Si chiamava Annetta Finalmente! Apparecchiammo per le nozze, tutto era
combinato, stabilito, allorchè, nell'esaminare il suo certificato di nascita, scopersi con orrore che il
suo nome di Annetta non era che un vezzeggiativo, un abbreviativo di Susanna,
Susannetta e oltre ciò - inorridite! aveva cinque altri nomi di battesimo: Postumia, Uria,
Umberta, Giuditta e Lucia
LuciaImmaginate se io mi sentissi rabbrividire nel leggere quei nomi! - lacerai sull'istante il
contratto nuziale, rinfacciai a quel mostro di perfidia il suo tradimento feroce, e mi allontanai per
sempre da quella casa. Il cielo mi aveva ancora salvato.
Ma ohimè! io non poteva più amare, la mia affettività era esaurita, prostrata da tanti
esperimenti terribili. Il caso mi condusse ad - Ulrica le memorie del mio primo amore si
ridestarono, la mia passione si raccese più viva .... Volli rinunciare ancora al suo affetto, alla felicità
che mi riprometteva da questo affetto .... ma non ne ebbi la forza - ci sposammo.
Da quell'istante incominciò la mia lotta.
Io non poteva tollerare che essa portasse un U nel suo nome, non poteva chiamarla con
quella parola. Mia moglie! ... la mia compagna, la donna amata da me .... portare un U nel suo
nome! ... Essa che aveva già fatto un acquisto così tremendo nel mio, perchè io pure ne aveva uno
nel mio casato!
Era impossibile!
Un giorno le dissi:
-Mia buona amica, vedi quanto quest'U è terribile! rinunciavi, abbrevia o muta il tuo nome!
... te ne scongiuro!
Essa non rispose, e sorrise.
Un'altra volta le dissi:
-- Ulrica il tuo nome mi è insopportabile .... esso mi fa male .... esso mi uccide!
Rinunciavi.
Mia moglie sorrideva ancora, l'ingrata! sorrideva!,..
Una notte mi sentii invaso da non so qual furore: aveva avuto un sogno affannoso .... Un U
gigantesco postosi sul mio petto mi abbracciava colle sue aste immense, flessuose .... mi stringeva
.... mi opprimeva, mi opprimeva .... Io balzai furioso dal letto: afferrai la grossa canna di giunco,
corsi da un notajo, e gli dissi:
-Venite, venite meco sull'istante a redigere un atto formale di rinuncia ....
Quel miserabile si opponeva. Lo trascinai meco, lo trascinai al letto di mia moglie.
Essa dormiva; io la svegliai aspramente e le dissi:
-- Ulrica rinuncia al tuo nome, all'U detestabile del tuo nome!
Mia moglie mi guardava fissamente, e taceva.
-Rinuncia, io le replicai con voce terribile, rinuncia a quell'U.,.. rinuncia al tuo nome
abborrito!! ....
Essa mi guardava ancora, e taceva!
Il suo silenzio, il suo rifiuto mi trassero di senno: mi avventai sopra di lei, e la percossi col
mio bastone.
Fui arrestato, e chiamato a render conto di questa violenza.
I giudici assolvendomi, mi condannarono ad una pena più atroce, alla detenzione in questo
Ospizio di pazzi.
Io pazzo! Sciagurati! Pazzo! perchè ho scoperto il segreto dei loro destini! dell'avversità dei
loro destini! perchè ho tentato di migliorarli? .... Ingrati!
Sì, io sento che questa ingratitudine mi ucciderà: lasciato qui solo, inerme! faccia a faccia
col mio nemico, con questo U detestato che io vedo ogni ora, ogni istante, nel sonno, nella veglia,
in tutti gli oggetti che mi circondano, sento che dovrò finalmente soccombere.
Sia.
Non temo la morte: l'affretto come il termine unico de' miei mali.
Sarei stato felice se avessi potuto beneficare l'umanità persuadendola a sopprimere
quella vocale; se essa non avesse esistito mai, o se io non ne avessi conosciuto i misteri.
Era stabilito altrimenti! Forse la mia sventura sarà un utile ammaestramento agli uomini;
forse il mio esempio li spronerà ad imitarmi ....
Che io lo speri!
Che la mia morte preceda di pochi giorni l'epoca della loro grande emancipazione,
dell'emancipazione dall'U, dell'emancipazione da questa terribile vocale!!!
*
**
L'infelice che vergò queste linee, morì nel manicomio di Milano l'11 settembre 1865.
UN OSSO DI MORTO
Lascio a chi mi legge l'apprezzamento del fatto inesplicabile che sto per raccontare.
Nel 1855. domiciliatomi a Pavia, m'era dato allo studio del disegno in una scuola privata di
quella città; e dopo alcuni mesi di soggiorno aveva stretto relazione con certo Federico M. che era
professore di patologia e di clinica per l'insegnamento universitario, e che morì di apoplessia
fulminante pochi mesi dopo che lo aveva conosciuto. Era uomo amantissimo delle scienze, e della
sua in particolare - aveva virtù e doti di mente non comuni - senonchè come tutti gli anatomisti ed i
clinici in genere, era scettico profondamente e inguaribilmente - -lo era per convinzione, nè io potei
mai indurlo alle mie credenze, per quanto mi vi adoprassi nelle discussioni appassionate
e calorose che avevamo ogni giorno a questo riguardo. Nondimeno - e piacemi rendere
questa giustizia alla sua memoria - egli si era mostrato sempre tollerante di quelle convinzioni che
non erano le sue; ed io e quanti il conobbero abbiamo serbato la più cara rimembranza di lui. Pochi
giorni prima della sua morte egli mi aveva consigliato ad assistere alle sue lezioni di anatomia,
adducendo che ne avrei tratte non poche cognizioni giovevoli alla mia arte del disegno: acconsentii
benchè repugnante; e spinto dalla vanità di parergli meno pauroso che nol fossi, lo richiesi di
alcune ossa umane che egli mi diede e che io collocai sul caminetto della mia stanza. Colla morte di
lui io aveva cessato di frequentare il corso anatomico, e più tardi aveva anche desistito dallo studio
del disegno. Nondimeno aveva conservato ancora per molti anni quelle ossa, che l'abitudine di
vederle me le aveva rese quasi indifferenti, e non sono più di pochi mesi che, colto da subite paure,
mi risolsi a seppellirle, non trattenendo presso di me che una semplice rotella di ginocchio. Questo
ossicino sferico e liscio che per la sua forma e per la sua piccolezza io aveva destinato, fino dal
primo istante che l'ebbi, a compiere l'ufficio d'un
premi-cartecome quello che non mi richiamava alcuna idea spaventosa, si trovava già collocato da
undici anni sul mio tavolino, allorchè ne fui privato nel modo inesplicabile che sto per raccontare.
Aveva conosciuto a Milano nella scorsa primavera un magnetizzatore assai noto tra gli
amatori di spiritismo, e aveva fatto istanze per essere ammesso ad una delle sue sedute spiritiche.
Ricevetti poco dopo invito di recarmivi, e vi andai agitato da prevenzioni sì tristi, che più volte
lungo la via era stato quasi in procinto di rinunciarvi. L'insistenza del mio amor proprio mi vi aveva
spinto mio malgrado. Non starò a discorrere qui delle invocazioni sorprendenti a cui assistetti:
basterà il dire che io fui sì meravigliato delle risposte che ascoltammo da alcuni spiriti, e la mia
mente fu sì colpita da quei prodigi, che superato ogni timore, concepii il desiderio di chiamarne uno
di mia conoscenza, e rivolgergli io stesso alcune domande che aveva già meditate e discusse nella
mia mente. Manifestata questa volontà, venni introdotto in un gabinetto appartato, ove fui lasciato
solo; e poichè l'impazienza e il desiderio d'invocare molti spiriti a un tempo mi rendevano titubante
sulla scelta, ed era mio disegno di interrogare lo spirito invocato
sul destino umano, e sulla spiritualità della nostra natura, mi venne in memoria il dottore
Federico M. col quale, vivente, aveva avuto delle vive discussioni su questo argomento, e
deliberai di chiamarlo. Fatta questa scelta, mi sedetti ad un tavolino, disposi innanzi a me un
foglietto di carta, intinsi la penna nel calamaio, mi posi in atteggiamento di scrivere, e
concentratomi per quanto era possibile in quel pensiero, e raccolta tutta la mia potenza di volizione,
e direttala a quello scopo, attesi che lo spirito del dottore venisse.
Non attesi lungamente. Dopo alcuni minuti d'indugio mi accorsi per sensazioni nuove e
inesplicabili che io non era più solo nella stanza, sentii per così dire la sua presenza; e prima che
avessi saputo risolvermi a formulare una domanda, la mia mano agitata e convulsa, mossa come da
una forza estranea alla mia volontà, scrisse, me inconsapevole, queste parole:
«Sono a voi. Mi avete chiamato in un momento in cui delle invocazioni più esigenti mi
impedivano di venire, nè potrò trattenermi ora qui, nè rispondere alle interrogazioni che avete
deliberato di farmi. Nondimeno vi ho obbedito per compiacervi, e perchè aveva bisogno io stesso
di voi; ed era gran tempo che cercava il mezzo di mettermi in comunicazione col vostro
spirito. Durante la mia vita mortale vi ho date alcune ossa che aveva sottratte al gabinetto
anatomico di Pavia, e tra le quali vi era una rotella di ginocchio che ha appartenuto al corpo di un
ex inserviente dell'Università, che si chiamava Pietro Mariani, e di cui io aveva sezionato
arbitrariamente il cadavere. Sono ora undici anni che egli mette alla tortura il mio spirito per riavere
quell'ossicino inconcludente, nè cessa di rimproverarmi amaramente quell'atto, di minacciarmi, e di
insistere per la restituzione della sua rotella. Ve ne scongiuro per la memoria forse non ingrata che
avrete serbato di me, se voi la conservate tuttora, restituitegliela, scioglietemi da questo debito
tormentoso. Io farò venire a voi in questo momento lo spirito del Mariani. Rispondete.»
Atterrito da quella rivelazione, io risposi che conservava di fatto quella sciagurata rotella, e
che era felice di poterla restituire al suo proprietario legittimo, che, non v'essendo altra via,
mandasse da me il Mariani. Ciò detto, o dirò meglio, pensato, sentii la mia persona come
alleggerita, il mio braccio più libero, la mia mano non più ingranchita come dianzi,
e compresi, in una parola, che lo spirito del dottore era partito.
Stetti allora un altro istante ad attendere - la mia mente era in uno stato di esaltazione
impossibile a definirsi.
In capo ad alcuni minuti, riprovai gli stessi fenomeni di prima, benchè meno intensi; e la
mia mano trascinata dalla volontà dello spirito, scrisse queste altre parole:
«Lo spirito di Pietro Mariani ex inserviente dell'Università di Pavia, è innanzi a voi, e
reclama la rotella del suo ginocchio sinistro che ritenete indebitamente da undici anni. Rispondete.»
Questo linguaggio era più conciso e più energico di quello del dottore. Io replicai allo
spirito: Io sono dispostissimo a restituire a Pietro Mariani la rotella del suo ginocchio sinistro, e lo
prego anzi a perdonarmene la detenzione illegale; desidero però di conoscere come potrò effettuare
la restituzione che mi è domandata.
Allora la mia mano tornò a scrivere;
«Pietro Mariani, ex inserviente dell'Università di Pavia, verrà a riprendere egli stesso la sua
rotella.»
-Quando? chiesi io atterrito.
-E la mano vergò istantaneamente una sola parola «Stanotte.»
Annichilito da quella notizia, coperto di un sudore cadaverico, io mi affrettai ad esclamare,
mutando tuono di voce ad un tratto: «Per carità ... vi scongiuro .... non vi disturbate .... manderò io
stesso .... vi saranno altri mezzi meno incomodi ...» Ma non aveva finito la frase che mi accorsi per
le sensazioni già provate dapprima, che lo spirito di Mariani si era allontanato, e che non v'era più
mezzo ad impedire la sua venuta.
È impossibile che io possa rendere qui colle parole l'angoscia delle sensazioni che provai in
quel momento. Io era in preda ad un panico spaventoso. Uscii da quella casa mentre gli orologi
della città suonavano la mezzanotte: le vie erano deserte, i lumi delle finestre spenti, le fiamme nei
fanali offuscate da un nebbione fitto e pesante - tutto mi pareva più tetro del solito. Camminai per
un pezzo senza sapere dove dirigermi: un istinto più potente della mia volontà mi allontanava dalla
mia abitazione. Ove attingere il coraggio di andarvi? Io avrei dovuto ricevervi in quella notte la
visita di uno spettro - era un'idea da morirne, era una prevenzione troppo terribile.
Volle allora il caso che aggirandomi, non so più per qual via, mi trovassi di fronte a una
bettola su cui vidi scritto
a caratteri intagliati in un'impannata, e illuminati da una fiamma interna «Vini nazionali» e
io dissi senz' altro a me stesso: Entriamovi, è meglio così, e non è un cattivo rimedio; cercherò nel
vino quell'ardimento che non ho più il potere di chiedere alla mia ragione. E cacciatomi in un
angolo d'una stanzaccia sotterranea domandai alcune bottiglie di vino che bevetti con avidità,
benchè repugnante per abitudine all'abuso di quel liquore. Ottenni l'effetto che aveva desiderato. Ad
ogni bicchiere bevuto il mio timore svaniva sensibilmente, i miei pensieri si dilucidavano, le mie
idee parevano riordinarsi, quantunque con un disordine nuovo; e a poco a poco riconquistai
talmente il mio coraggio che risi meco stesso del mio terrore, e mi alzai, e mi avviai risoluto verso
casa.
Giunto in stanza, un po' barcollante pel troppo vino bevuto, accesi il lume, mi spogliai per
metà, mi cacciai a precipizio nel letto, chiusi un occhio e poi un altro, e tentai di addormentarmi.
Ma era indarno. Mi sentiva assopito, irrigidito, catalettico, impotente a muovermi; le coperte mi
pesavano addosso e mi avviluppavano e mi investivano come fossero di metallo fuso: e durante
quell'assopimento incominciai ad avvedermi che dei fenomeni
singolari si compievano intorno a me.
Dal lucignolo della candela che mi pareva avere spento, che era d'altronde una stearica pura,
si sollevavano in giro delle spire di fumo sì fitte e sì nere, che raccogliendosi sotto il soffitto lo
nascondevano, e assumevano apparenza di una cappa pesante di piombo: l'atmosfera della stanza
divenuta ad un tratto soffocante, era impregnata di un odore simile a quello che esala dalla carne
viva abbrustolita, le mie orecchie erano assordate da un brontolio incessante di cui non sapeva
indovinare le cause, e la rotella che vedeva lì, tra le mie carte, pareva muoversi e girare sulla
superficie del tavolo, come in preda a convulsioni strane e violenti.
Durai non so quanto tempo in quello stato: io non poteva distogliere la mia attenzione da
quella rotella. I miei sensi, le mie facoltà, le mie idee, tutto era concentrato in quella vista, tutto mi
attraeva a lei; io voleva sollevarmi, discendere dal letto, uscire, ma non mi era possibile; e la mia
desolazione era giunta a tal grado che quasi non ebbi a provare alcun spavento, allorchè dissipatosi
a un tratto il fumo emanato dal lucignolo della candela, vidi sollevarsi la tenda dell'uscio e
comparire il fantasma aspettato.
Io non batteva palpebra. Avanzatosi fino alla metà della stanza, s'inchinò cortesemente e mi
disse: «Io sono Pietro Mariani, e vengo a riprendere, come vi ho promesso la mia rotella.»
E poichè il terrore mi rendeva esitante a rispondergli, egli continuò con dolcezza:
«Perdonerete se ho dovuto disturbarvi nel colmo della notte .... in quest'ora .... capisco che la è
un'ora incomoda ... ma ...»
-Oh! è nulla, è nulla, io interruppi rassicurato da tanta cortesia, io vi debbo anzi ringraziare
della vostra visita ... io mi terrò sempre onorato di ricevervi nella mia casa ...
-Ve ne son grato, disse lo spettro, ma desidero ad ogni modo giustificarmi dell'insistenza
con cui ho reclamato la mia rotella sia presso di voi, sia presso l'egregio dottore dal quale l'avete
ricevuta: osservate.
E così dicendo sollevò un lembo del lenzuolo bianco, in cui era avviluppato, e mostrandomi
lo stinco della gamba sinistra legato al femore, per mancanza della rotella, con un nastro nero
passato due o tre volte nell'apertura della fibula, fece alcuni passi per la stanza onde farmi
conoscere che l'assenza di quell'osso gl'impediva di camminare liberamente.
-Tolga il cielo, io dissi allora con accento
d'uomo mortificato, che il degno ex inserviente dell'Università di Pavia abbia a rimanere
zoppicante per mia causa: ecco la vostra rotella, là, sul tavolino, prendetela, e accomodatela come
potete al vostro ginocchio.
Lo spettro s'inchinò per la seconda volta in atto di ringraziamento, si slegò il nastro che gli
congiungeva il femore allo stinco, lo posò sul tavolino, e presa la rotella, incominciò ad adattarla
alla gamba.
-Che notizie ne recate dall'altro mondo? io chiesi allora, vedendo che la conversazione
languiva, durante quella sua occupazione.
Ma egli non rispose alla mia domanda, ed esclamò con aspetto attristato: «Questa rotella è
alquanto deteriorata, non ne avete fatto un buon uso.»
-Non credo, io dissi, ma forse che le altra vostra ossa sono più solide?
Egli tacque ancora, s'inchinò la terza volta per salutarmi; e quando fu sulla soglia dell'uscio,
rispose chiudendone l'imposta dietro di sè: «Sentite se le altre mie ossa non sono più solide.»
E pronunciando queste parole percosse il pavimento col piede con tanta violenza che le
pareti ne tremarono tutte; e a quel rumore mi scossi e ... mi svegliai.
E appena desto, intesi che era la portinaia
che picchiava all'uscio e diceva: «Son io, si alzi mi venga ad aprire.»
-Mio Dio! esclamai allora fregandomi gli occhi col rovescio della mano, era dunque un
sogno, nient'altro che un sogno! che spavento! sia lodato il cielo ... Ma quale insensatezza! Credere
allo spiritismo ... ai fantasmi ...» E infilzati in fretta i calzoni, corsi ad aprire l'uscio; e poichè il
freddo mi consigliava a ricacciarmi sotto le coltri, mi avvicinai al tavolino per posarvi la lettera
sotto il premi-carte ...
Ma quale fu il mio terrore quando vi vidi sparita la rotella, e al suo posto trovai il nastro
nero che vi aveva lasciato Pietro Mariani!
UNO SPIRITO IN UN LAMPONE
Nel 1854 un avvenimento prodigioso riempì di terrore e di meraviglia tutta la semplice
popolazione d'un piccolo villaggio della Calabria.
Mi attenterò a raccontare con quanta maggior esattezza mi sarà possibile, questa avventura
meravigliosa, benchè comprenda esser cosa estremamente difficile l'esporla in tutta la sua verità e
con tutti i suoi dettagli più interessanti.
Il giovine barone di B. - duolmi che una promessa formale mi vieti di rivelarne il nome
aveva ereditato da pochi anni la ricca ed estesa baronia del suo avo paterno, situata in uno dei punti
più incantevoli della Calabria. Il giovine erede non si era allontanato mai da quei monti sì ricchi di
frutteti e di selvaggiume; nel vecchio maniere della famiglia, che un tempo era stato un castello
feudale fortificato, aveva appreso dal pedagogo
di casa i primi erudimenti dello scrivere, e i nomi di tre o quattro classici latini di cui sapeva
citare all'occorrenza alcuni distici ben conosciuti. Come tutti i meridionali aveva la passione della
caccia, dei cavalli e dell'amore - tre passioni che spesso sembrano camminare di conserva come tre
buoni puledri di posta - potevale appagare a suo talento, nè s'era mai dato un pensiero di più; non
aveva neppur mai immaginato che al di là di quelle creste frastagliate degli Apennini, vi fossero
degli altri paesi, degli altri uomini, e delle altre passioni.
Del resto siccome la sapienza non è uno dei requisiti indispensabili alla felicità - anzi parci
l'opposto - il giovine barone di B. sentivasi perfettamente felice col semplice corredo dei suoi
distici; e non erano meno felici con lui i suoi domestici, le sue donne, i suoi limieri, e le sue dodici
livree verdi incaricate di precedere e seguire la sua carrozza di gala nelle circostanze solenni.
Un solo fatto luttuoso aveva, alcuni mesi prima dell'epoca a cui risale il nostro racconto,
portata la desolazione in una famiglia addetta al servigio della casa e alterate le tradizioni pacifiche
del castello. Una cameriera del barone, una fanciulla che si sapeva aver tenute tresche
amorose con alcuni dei domestici, era sparita improvvisamente dal villaggio; tutte le
ricerche erane riuscite vane; e benchè pendessero non pochi sospetti sopra uno dei guardaboschi
giovine d'indole violenta che erano stato un tempo invaghito, senza esserne corrisposto - questi
sospetti erano poi in realtà così vaghi e così infondati, che il contegno calmo e sicuro del giovane
era stato più che sufficiente a disperderli.
Questa sparizione misteriosa che pareva involgere in sè l'idea di un delitto, aveva rattristato
profondamente l'onesto barone di B.; ma a poco a poco egli se n'era dimenticato spensierandosi
coll'amore e colla caccia: la gioja e la tranquillità erano rientrate nel castello; le livree verdi erano
tornate a darsi buon tempo nelle anticamere; e non erano trascorsi due mesi dall'epoca di questo
avvenimento che nè il barone, nè alcuno de' suoi domestici si ricordava della sparizione della
fanciulla.
Era nel mese di novembre.
Un mattino, il barone di B. si svegliò un po' turbato da un cattivo sogno, si cacciò fuori del
letto, spalancò la finestra, e vedendo che il cielo era sereno, e che i suoi limieri passeggiavano
immalinconiti nel cortile e raspavano alla porta
per uscirne, disse: «Voglio andare a caccia, io solo; vedo laggiù alcuni stormi di colombi
selvatici che si son dati la posta nel seminato, e spero che ne salderanno il conto colle penne.» Fatta
questa risoluzione finì di abbigliarsi infilzò i suoi stivali impenetrabili, si buttò il fucile ad
armacollo, accomiatò le due livree verdi che lo solevano accompagnare e uscì circondato da tutti i
suoi limieri, i quali agitando la testa, facevano scoppiettare le loro larghe orecchie, e gli si
cacciavano ad ogni momento tra le gambe accarezzando colle lunghe code i suoi stivali
impenetrabili.
Il barone di B. si avviò direttamente verso il luogo ove aveva veduto posarsi i colombi
selvatici. Era nell'epoca delle seminagioni, e nei campi arati di fresco non si scorgeva più un
arbusto od un filo d'erba. Le pioggie dell'autunno avevano ammollito il terreno per modo, che egli
affondava nei solchi fino al ginocchio, e si vedeva ad ogni momento in pericolo di lasciarvi uno
stivale. Oltre a ciò i cani, non assuefatti a quel genere di caccia, rendevano vana tutta la strategia
del cacciatore, e i colombi avevano appostate qua e là le loro sentinelle avvanzate, precisamente
come avrebbe fatto un bravo reggimento della vecchia guardia imperiale.
Stizzito da questa astuzia, il barone di B. continuò nondimeno a perseguitarli con
maggiore accanimento, quantunque non gli venissero mai al tiro una sola volta; e sentivasi stanco e
sopraffatto dalla sete, quando vide lì presso in un solco una pianticella rigogliosa di lamponi carica
di frutti maturi.
-Strano! disse il barone, una pianta di lamponi in questo luogo ... e quanti frutti! come sono
belli e maturi!
E abbassando la focaja del fucile, lo collocò presso di sè, si sedette; e spiccando ad una ad
una le coccole del lampone, i cui granelli di porpora parevano come argentati graziosamente di
brina, estinse, come potè meglio, la sete che aveva incominciato a travagliarlo.
Stette così seduto una mezz'ora; in capo alla quale si accorse che avvenivano in lui dei
fenomeni singolari.
Il cielo, l'orizzonte, la campagna non gli parevano più quelli; cioè non gli pareano
essenzialmente mutati, ma non li vedeva più colla stessa sensazione di un'ora prima; per servirsi
d'un modo di dire più comune, non li vedeva più cogli stessi occhi.
In mezzo a' suoi cani ve n'erano taluni che gli sembrava di non aver mai veduto, e pure
riflettendoci bene, li conosceva;
se non che li osservava e li accarezzava tutti quanti con maggior rispetto che non fosse
solito fare: parevagli in certo modo che non ne fosse egli il padrone, e dubitandone quasi, si provò a
chiamarli: Azor, Fido, Aloff! I cani chiamati gli si avvicinarono prontamente, dimenando la coda.
-Meno male, disse il barone, i miei cani sembrano essere proprio ancora i miei cani ... Ma è
singolare questa sensazione che provo alla testa, questo peso .... E che cosa sono questi strani
desideri che sento, queste volontà che non ho mai avute, questa specie di confusione e di duplicità
che provo in tutti i miei sensi? Sarei io pazzo? ... Vediamo, riordiniamo le nostre idee .... Le nostre
idee! Sì perfettamente .... perchè sento che queste idee non sono tutte mie. Però ... è presto detto
riordinarle! Non è possibile, sento nel cervello qualche cosa che si è disorganizzata, cioè ... dirò
meglio ... che si è organizzato diversamente da prima ... qualche cosa di superfluo, di esuberante;
una cosa che vuol farsi posto nella testa, che non fa male, ma che pure spinge, urta in modo assai
penoso le pareti del cranio .... Parmi di essere un uomo doppio. Un uomo doppio! Che stranezza! E
pure ... sì, senza dubbio ... capisco in questo momento
come si possa essere un uomo doppio.
Vorrei sapere perchè questi anemoni mezzo fradici per le pioggie, ai quali non ho mai
badato in vita mia, adesso mi sembrano così belli e così attraenti ... Che colori vivaci, che forma
semplice e graziosa! Facciamone un mazzolino.
E il barone allungando la mano senza alzarsi, ne colse tre o quattro che, cosa singolare! si
pose in seno come le femmine. Ma nel ritrarre la mano a sè, provò una sensazione ancora più
strana; voleva ritrarre la mano, e nel tempo stesso voleva allungarla di nuovo; il braccio mosso
come da due volontà opposte ma ugualmente potenti, rimase in quella posizione quasi paralizzato.
-Mio Dio! disse il barone; e facendo uno sforzo violento uscì da quello stato di rigidità, e
subito osservò attentamente la sua mano come a guardare se qualche cosa vi fosse rotto o guastato.
Per la prima volta egli osservò allora che le sue mani erano brevi e ben fatte, che le dita
erano piene e fusolate, che le unghie descrivevano un elissi perfetto; e l'osservò con una
compiacenza insolita; si guardò i piedi e vedendoli piccoli e sottili, non ostante la forma un po'
rozza de' suoi stivali impenetrabili, ne provò piacere e sorrise.
In quel momento uno stormo di colombi si innalzò da un campo vicino, e venne a passargli
d'innanzi al tiro. Il barone fa sollecito a curvarsi, ad afferrare il suo fucile, ad inarcarne il cane, ma
... cosa prodigiosa! in quell'istante si accorse che aveva paura del suo fucile, che il fragore dello
sparo lo avrebbe atterrito; ristette e si lasciò cader l'arma di mano, mentre una voce interna gli
diceva: che begli uccelli! che belle penne che hanno nelle ali! ... mi pare che sieno colombi selvatici
...
-Per l'inferno! esclamò il barone portandosi le mani alla testa, io non comprendo più nulla
di me stesso ... sono ancora io, o non sono più io? o sono io ed un altro ad un tempo? Quando mai
io ho avuto paura di sparare il mio fucile? quando mai ho sentito tanta pietà per questi maledetti
colombi che mi devastano i seminati? I seminati! Ma ... veramente parmi che non sieno più miei
questi seminati.. Basta, basta, torniamo al castello, sarà forse effetto di una febbre che mi passerà
buttandomi a letto.
E fece atto di alzarsi. Ma in quello istante un'altra volontà che pareva esistere in lui lo sforzò
a rimanere nella posizione di prima, quasi avesse voluto dirgli: no, stiamo ancora un poco seduti.
Il barone sentì che annuiva di buon
grado a questa volontà, poichè dallo svolto della via che fiancheggiava il campo era
comparsa una brigata di giovani lavoratori che tornavano al villaggio. Egli li guardò con un certo
senso di interesse e di desiderio di cui non sapeva darsi ragione; vide che ve ne erano alcuni assai
belli; e quando essi gli passarono d'innanzi salutandolo, rispose al loro saluto chinando il capo con
molto imbarazzo, e si accorse che aveva arrossito come una fanciulla. Allora sentì che non aveva
più alcuna difficoltà ad alzarsi, e, si alzò. Quando fu in piedi gli parve di essere più leggiero dello
usato: le sue gambe parevano ora ingranchite, ora più sciolte; le sue movenze erano più aggraziate
del solito, quantunque fossero poi in realtà le stesse movenze di prima, e gli paresse di camminare,
di gestire, di dimenarsi, come aveva fatto sempre per lo innanzi.
Fece atto di recarsi il fucile ad armacollo, ma ne provò lo stesso spavento di prima, e gli
convenne adattarselo al braccio, e tenerlo un poco discosto dalla persona, come avrebbe fatto un
fanciullo timoroso.
Essendo arrivato ad un punto in cui la via si biforcava, si trovò incerto per quale delle due
strade avrebbe voluto avviarsi al castello. Tutte e due vi conducevano
del paro, ma egli era solito percorrerne sempre una sola: ora avrebbe voluto passare per una,
e ad un tempo voleva passare anche per l'altra: tentò di muoversi, ma riprovò lo stesso fenomeno
che aveva provato pocanzi: le due volontà che parevano dominarlo, agendo su di lui colla stessa
forza, si paralizzarono reciprocamente, resero nulla la loro azione: egli restò immobile sulla via
come impietrato, come colpito da catalessi. Dopo qualche momento si accorse che quello stato di
rigidità era cessato, che la sua titubanza era svanita, e svoltò per quella delle due strade che era
solito percorrere. Non aveva fatto un centinaio di passi che s'abbattè nella moglie del magistrato la
quale lo salutò cortesemente.
-Da quando in qua, disse il barone di B. io sono solito a ricevere i saluti della moglie del
magistrato? Poi si ricordò che egli era il barone di B., che egli era in intima conoscenza colla
signora, e si meravigliò di essersi rivolta questa domanda.
Poco più innanzi si incontrò in una vecchia che andava razzolando alcuni manipoli di rami
secchi lungo la siepe.
-Buon dì, Catterina, le disse egli abbracciandola, e baciandola sulle guancie; come state?
avete poi ricevuto notizie di vostro suocero?
-Oh! Eccellenza .... quanta degnazione ... esclamò la vecchia, quasi spaventata dalla insolita
famigliarità del barone, le dirò ...
Ma il barone l'interruppe dicendole: Per carità, guardatemi bene, ditemi: sono ancora io?
sono ancora il barone di B.?
B.?-Oh, signore! ... diss'ella.
Egli non stette ad attendere altra risposta, e proseguì la sua strada, cacciandosi le mani nei
capelli, e esclamando: io sono impazzito, io sono impazzito.
Gli avveniva spesso lungo la via di arrestarsi a contemplare oggetti o persone che non
avevano mai destato in lui il minimo interesse, e vedeali sotto un aspetto affatto diverso di prima.
Le belle contadine che stavano sarchiando nei campi coll'abito rimboccato fin sopra il ginocchio,
non avevano più per lui alcuna attrattiva, e le parevano rozze, sciatte e sguaiate. Gettando a caso
uno sguardo su' suoi limieri che lo precedevano col muso basso e colla coda penzoloni, disse: «Tò!
Visir che non aveva che due mesi adesso sembra averne otto suonati, e s'è cacciato anche lui nella
compagnia dei cani scelti.»
Mancavangli pochi passi per arrivare al castello, quando incontrò alcuni de' suoi domestici
che passeggiavano ciarlando
lungo la via, e, cosa singolare! li vedeva doppi; provava lo stesso fenomeno ottico che si
ottiene convergendo tutte e due le pupille verso un centro solo, per modo d'incrociarne la visuale;
se non che egli comprendeva che le causa di questo fenomeno erano affatto diverse da quelle;
poichè vedeali bensì doppi, ma non si rassomigliavano totalmente nella loro duplicità; vedeali come
se vi fossero in lui due persone che guardassero per gli stessi occhi.
E questa strana duplicità incominciò da quel momento ad estendersi su tutti i suoi sensi;
vedeva doppio, sentiva doppio, toccava doppio; e, - cosa ancora più sorprendente! - pensava
doppio. Cioè, una stessa sensazione destava in lui due idee, e queste due idee venivano svolte da
due forze diverse di raziocinio, e giudicate da due diverse coscienze. Parevagli in una parola che vi
fossero due vite nella sua vita, ma due vite opposte, segregate, di natura diversa; due vite che non
potevano fondersi, e che lottavano per contendersi il predominio de' suoi sensi - d'onde la duplicità
delle sue sensazioni.
Fu per ciò che egli vedendo i suoi domestici, conobbe bensì che erano i suoi domestici; ma
cedendo ad un impulso più forte, non potè a meno di avvicinarsi ad
uno di essi, di abbracciarlo con trasporto e di dirgli: oh! caro Francesco, godo di rivedervi;
come state? come sta il nostro barone? - e sapeva benissimo di essere egli il barone - ditegli che mi
rivedrà fra poco al castello.
I domestici si allontanarono sorpresi; e quello tra loro che erane stato abbracciato, diceva tra
sè stesso: io mi spezzerei la testa per sapere se è, o se non è veramente il barone che mi ha parlato.
Io ho già inteso altre volte quelle parole ... non so ... ma quella espressione ... quell'aspetto ...
quell'abbraccio ... certo, non è la prima volta che io fui abbracciato in quel modo. E pure ... il mio
degno padrone non mi ha mai onorato di tanta famigliarità.
Pochi passi più innanzi, il barone di B. vide un pergolato che s'appoggiava ad un angolo
del recinto d'un giardino, per modo che quando era coperto di foglie doveva essere affatto
inaccessibile agli occhi dei curiosi. Egli non potè resistere al desiderio di entrarvi, quantunque vi
fosse in lui un'altra volontà che l'incitava ad affrettarsi verso il castello. Cedette al primo impulso, e
appena sedutosi sotto la pergola, sentì compiersi in sè stesso un fenomeno psicologico ancora più
curioso.
Una nuova coscienza si formò in lui: tutta la tela di un passato mai conosciuto si distese
d'innanzi a suoi occhi: delle memorie pure e soavi di cui egli non poteva aver fecondata la sua vita
vennero a turbare dolcemente la sua anima. Erano memorie di un primo amore, di una prima colpa;
ma di un amore più gentile e più elevato che egli non avesse sentito, di una colpa più dolce e più
generosa che egli non avesse commesso. La sua mente spaziava in un mondo di affetti ignorato,
percorreva regioni mai viste, evocava dolcezze mai conosciute.
Nondimeno tutto questo assieme di rimembranze, questa nuova esistenza che era venuta ad
aggiungersi a lui, non turbava, non confondeva le memorie speciali della sua vita. Una linea
impercettibile separava le due coscienze.
Il barone di B. passò alcuni momenti nel pergolato, dopo di che sentì desiderio di
affrettarsi verso il villaggio. E allora le due volontà agendo su di esso collo stesso accordo, egli ne
subì un impulso così potente che non potè conservare il suo passo abituale, e fu costretto a darsi ad
una corsa precipitosa.
Queste due volontà incominciarono da quell'istante a dominarsi e a dominarlo con pari
forza. Se agivano d'accordo, i
movimenti della sua persona erano precipitati, convulsi, violenti; se una taceva, erano
regolari; se erano contrarie, i movimenti venivano impediti, e davano luogo ad una paralisi che si
protraeva fino a che la più potente di essa avesse predominato.
Mentre egli correva così verso il castello, uno de' suoi domestici lo vide, e temendo di
qualche sventura, lo chiamò per nome. Il barone volle arrestarsi, ma non gli fu possibile; rallentò il
passo e si fermò bensì per qualche istante, ma ne seguì una convulsione, un saltellare, un
avvanzarsi e un retrocedere a sbalzi per modo che sembrava invasato, e gli fu gioco forza
continuare la sua corsa verso il villaggio.
Il villaggio non pareagli più quello, parevagli che ne fosse stato assente da molti mesi: vide
che il campanile della parocchia era stato riattato di fresco, e quantunque lo sapesse, gli sembrava
tuttavia di non saperlo.
Lungo la strada si abbattè in molte persone che sorprese di quel suo correre, lo guardavano
con atti di meraviglia. Egli faceva a tutte di cappello, benchè comprendesse che nol doveva; e
quelle rispondevangli togliendosi i loro berretti, e meravigliando di tanta cortesia. Ma ciò che
sembrava ancora più singolare era
che tutte quelle persone consideravano quasi come naturale quel suo correre, quel suo
salutare; e pareva loro di aver travisto, intuito, compreso qualche cosa in que' suoi atti, e non
sapevano che cosa fosse. Ne erano però impaurite e pensierose.
Giunto al castello si arrestò; entrò nelle anticamere; baciò ad una ad una le sue cameriere;
strinse la mano alle sue livree verdi, e si buttò al collo di una di esse che accarezzò con molta
tenerezza, e a cui disse parole colme di passione e di affetto.
A quella vista le cameriere e le livree verdi fuggirono, e corsero urlando a rinchiudersi nelle
loro stanze.
Allora il barone di B. salì agli altri piani, visitò tutte le sale del castello, e essendo giunto
alla sua alcova, si buttò sul letto, e disse: «Io vengo a dormire con lei, signor barone.» In
quell'intervallo di riposo, le sue idee si riordinarono, egli si ricordò di tutto ciò che gli era avvenuto
durante quelle due ore, e se ne sentì atterrito; ma non fu che un lampo - egli ricadde ben presto nel
dominio di quella volontà che lo dirigeva a sua posta.
Tornò a ripetersi le parole che aveva dette poc'anzi; «Io vengo a dormire con
lei, signor barone.» E delle nuove memorie si suscitarono nella sua anima; erano memorie
doppie, cioè le rimembranze delle impressioni che uno stesso fatto lascia in due spiriti diversi, ed
egli accoglieva in sè tutte e due queste impressioni. Tali rimembranze però non erano simili a
quelle che aveva già evocato sotto la pergola; quelle erano semplici, queste complesse; quelle
lasciavano vuota, neutrale, giudice una parte dell'anima; queste l'occupavano tutta: e siccome erano
rimembranze di amore, egli comprese in quel momento che cosa fosse la grande unità, l'immensa
complessività dell'amore, il quale essendo nelle leggi inesorabili della vita un sentimento diviso fra
due, non può essere compreso da ciascuno che per metà; Era la fusione piena e completa di due
spiriti, fusione di cui l'amore non è che una aspirazione, e le dolcezze dell'amore un'ombra, un'eco,
un sogno di quelle dolcezze. Nè potrei esprimere meno confusamente lo stato singolare in cui egli
si trovava.
Passò così circa un'ora, scorsa la quale si accorse che quella voluttà andava scemando, e che
le due vite che parevano animarlo si separavano. Discese dal letto, si passò le mani sul viso come
per cacciarne qualche cosa di leggiero ... un velo,
un ombra, una piuma; e sentì che il tatto non era più quello; gli parve che i suoi lineamenti
si fossero mutati, e provò la stessa sensazione come se avesse accarezzato il viso di un altro.
V'era lì presso uno specchio e corse a contemplarvisi. Strana cosa! Non era più egli; o
almeno vi vedeva riflessa bensì la sua immagine, ma vedeala come fosse l'immagine di un altro,
vedeva due immagini in una. Sotto l'epidermide diafana della sua persona, traspariva una seconda
immagine a profili vaporosi, instabili, conosciuti. E ciò gli pareva naturalissimo, perchè egli sapeva
che nella sua unità vi erano due persone, che era uno, ma che era anche due ad un tempo.
Allontanando lo sguardo dal cristallo, vide sulla parete opposta un suo vecchio ritratto di
grandezza naturale, e disse: «Ah! questo è il signor barone di B. Come è invecchiato!» - E tornò a
contemplarsi nello specchio.
La vista di quella tela gli fece allora ricordare che vi era nel corridojo del castello un
immagine simile a quella che aveva veduto poc'anzi trasparire dalla sua persona nello specchio, e si
sentì dominato da una smania invincibile di rivederla. Si affrettò verso il corridojo.
Alcune delle sue cameriere che vi passavano
in quell'istante furono prese da uno sgomento ancora più profondo di prima, e corsero
fuggendo a chiamare le livree verdi che stavano assembrate nell'anticamera, concertandosi sul da
farsi.
Intanto nel cortile del castello si era radunato buon numero di curiosi: la notizia delle follie
commesse dal barone si era divulgata in un attimo nel villaggio, e vi aveva fatto accorrere il
medico, il magistrato ed altre persone autorevoli del paese.
Fu deciso di entrare nel corridojo. Il disgraziato barone fu trovato in piedi d'innanzi ad un
ritratto di fanciulla - quella stessa che era sparita mesi addietro dal castello - in uno stato di
eccitamento nervoso impossibile a definirsi. Egli sembrava in preda ad un assalto violento di
epilessia; tutta la sua vitalità pareva concentrarsi in quella tela; pareva che vi fosse in lui qualche
cosa che volesse sprigionarsi dal suo corpo, che volesse uscirne per entrare nell'immagine di quel
quadro. Egli la fissava con inquietudine, e spiccava salti prodigiosi verso di lei, come ne fosse
attratto da un forza irresistibile.
Ma il prodigio più meraviglioso era che i suoi lineamenti parevano trasformarsi, quanto più
egli affissava quella tela, ed acquistare un'altra espressione. Ciascuna
persona riconosceva bensì in lui il barone di B., ma vi vedeva ad un tempo una strana
somiglianza coll'immagine riprodotta nel quadro. La folla accorsa nel corridojo si era arrestata
compresa da un panico indescrivibile. Che cosa vedevano essi? Non lo sapevano: sentivano di
trovarsi d'innanzi a qualche cosa di soprannaturale.
Nessuno osava avvicinarsi, - nessuno si moveva; - uno spavento insuperabile si era
impadronito di ciascuno di essi: un brivido di terrore scorreva per tutte le loro fibre ...
Il barone continuava intanto ad avventarsi verso il quadro; la sua esaltazione cresceva, i suoi
profili si modificavano sempre più, il suo volto riproduceva sempre più, esattamente l'immagine
della fanciulla ... e già alcune persone parevano voler prorompere in un grido di terrore, quantunque
uno spavento misterioso li avesse resi muti od immobili, allorchè una voce si sollevò
improvvisamente dalla folla che gridava: «Clara! Clara!»
Quel grido ruppe l'incantesimo. «Sì, Clara! Clara!» ripetereno unanimi le persone radunate
nel corridojo, precipitandosi l'una sull'altra verso le porte, sopraffatte da un terrore ancora più
grande, e quel nome era il nome della fanciulla
sparita dal castello, la cui immagine era stata riprodotta dalla tela.
Ma a quella voce, il barone di B. si spiccò dal quadro, e si slanciò in mezzo alla folla
gridando: «Il mio assassino, il mio assassino!» La folla si sparpagliò, e si divise. Un uomo era in
terra svenuto - quello stesso che aveva gridato - il giovane guardaboschi su cui pendevano sospetti
per la sparizione misteriosa di Giara.
Il barone di B. fa trattenuto a forza dalle sue livree verdi. Il guardaboschi rinvenuto
domandò del magistrato, cui confessò spontaneamente di aver uccisa la fanciulla in un eccesso di
gelosia, e di averla sotterrata in un campo, precisamente in quel luogo dove, poche ore innanzi,
aveva veduto lo sfortunato barone sedersi e mangiare le coccole del lampone.
Fu data subito al barone di B. una forte dose di emetico che gli fece rimettere i frutti non
digeriti, e lo liberò dallo spirito della fanciulla.
Il cadavere di essa, dal cui seno partivano le radici del lampone, fu dissotterrato e ricevette
sepoltura cristiana nel cimitero.
Il guardaboschi, tradotto in giudizio, ebbe condanna a dodici anni di lavori forzati.
Nel 1865 io lo conobbi nello stabilimento carcerario di Cosenza che mi era recato a visitare.
Mancavangli allora due anni a compiere la sua pena; e fu da lui stesso che intesi questo racconto
meraviglioso.