Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Non abbiate paura. Il Re gli diede un pugno sulla gobba e questa sparì. - Maestà, datemi una tiratina alle gambe! Non abbiate paura! Il Re gli diede una tiratina alle gambine, e queste, di bòtto, si raddrizzarono. - Maestà, afferratemi bene, la Regina per le braccia e voi pei piedi, e tiratemi forte. Il Re e la Regina lo afferrarono l'uno pei piedi, l'altra per le braccia, e tira, tira, tira, il Nano, da Nano che era, diventò un bel giovine di alta statura. Il Reuccio del Portogallo si persuase ch'era di troppo e disse: - Datemi almeno quel cavallo: farò la strada più presto. Montò sul cavallo di bronzo, e dette le parole fatate, in un colpo sparì. La Reginotta e il Nano (lo chiamarono sempre così) furono moglie e marito. E noi restiamo a leccarci le dita.

- Maestà, non abbiate paura. Avrà un dente soltanto, un dente d'oro. Infatti la Regina partorì un bel serpentello verde-nero, che subito, appena nato, sguizzò di mano alla levatrice, attaccossi alla poppa della mamma e si mise a poppare. Quando fu addormentato, il Re gli aperse la bocca e vide che avea davvero un dente soltanto, un dente d'oro. Però, siccome non voleva che quella loro disgrazia si risapesse, fece dire che la Regina avea partorito una bella bimba, ed era stata chiamata Serpentina. Serpentina cresceva rapidamente, e quando apriva la bocca, il suo dente d'oro straluccicava. Un giorno ripassò quella zingara, e il Re la fece chiamare: - Dimmi la ventura di Serpentina. - Buona o cattiva, Maestà? - Buona o cattiva. La zingara prese in mano la coda di Serpentina e si messe ad osservarla attentamente. Scrollava la testa. - Zingara, che cosa vedi da farti scrollare la testa? - Maestà, veggo guai! - E non c'è rimedio? - Maestà, bisognerebbe interrogare una più sapiente di me: la Fata gobba. - O dove trovare questa Fata gobba? - Prendete del pane e del vino per otto giorni e camminate sempre diritto, badiamo! Senza voltarvi in dietro. All'ottavo giorno vi troverete avanti a una grotta: la Fata gobba abita lì. - Va bene, - disse il Re - partirò domani. Prese le provviste per otto giorni, e si mise in cammino. Quando fu a mezza strada: - Maestà! Maestà! Stava per voltarsi, ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto. Un altro giorno, ecco dietro a lui un urlo di creatura umana: - Ahi! M'ammazzano! Ahi! Il Re si fermò, irresoluto; quel grido strappava l'anima!... E stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione, e tirò diritto. Un altro giorno, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo. - Bada! Bada! Spaventato, stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto. Giunto davanti alla grotta, cominciò a chiamare: - Fata gobba! Fata gobba! - Gobbo sarai te! - rispose una voce. E il povero Re, sentitosi un po' di peso sulle spalle, si tastò. Gli era proprio spuntata la gobba. - Ed ora che fare? Come tornare indietro con quella mostruosità? Risolse di tornar di notte, perché nessuno lo vedesse. La Regina, accortasi di quel gonfiore sulle spalle, gli domandò: - Maestà, che portate addosso? - Porto la mia disgrazia! E raccontò com'era andata. La Regina risolse di tentar lei: - Fra loro donne si sarebbero intese meglio. Fece le sue provviste di pane e vino per otto giorni, e partì. A metà strada: - Maestà! Maestà! Lei, sbadatamente, si volta, e si trova tornata al punto d'onde era partita. - Pazienza! Ricomincerò. La seconda volta, più in là di mezza strada, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo: - Bada! Bada! Presa dallo spavento, si volta, e si trova di nuovo al punto d'onde era partita. Allora, da scaltra, disse al Re: - Maestà, turatemi le orecchie col cotone e versatevi su della cera. Così non sentirò nulla, e potrò arrivare dalla Fata gobba: altrimenti non ci sarà verso. Il Re le turò le orecchie a quel modo, e lei partì. Giunta davanti la grotta, si sturò le orecchie, e picchiò. Picchia, ripicchia, non rispondeva nessuno. Lei non voleva chiamare, e dava all'uscio col bastone, a due mani. - Chi è? - urlò finalmente una voce - Chi cercate? - Son io: cerco la Fata. - Quale Fata? Delle Fate ce n'è tante! - La Fata gobba. Le scappò di bocca. - Gobba sarai tu! La Regina si tastò subito le spalle. Le era proprio spuntata la gobba. Tornò di notte, per non esser veduta; e il Re, prima di ogni cosa, le guardò dietro. - Maestà, che portate addosso? - Porto la mia disgrazia! E raccontò com'era andata. - E tutto questo per Serpentina! Schiacciamogli la testa! La mala fortuna ci vien per lei. Il Re non sapea risolversi: - Non era sangue loro? - Farò di mio capo - disse fra sé la Regina. E, di nascosto al Re, chiamò una guardia di palazzo: - Prendi questa cassettina e vattene in un bosco. Quando sarai lì, farai una catasta di legna, ve la metterai su e darai fuoco. Finché non sia consumata, non dovrai tornare indietro. - Maestà, sarà fatto. Intanto il Re ordinava gli si chiamasse la zingara: - Dimmi la ventura di Serpentina. - Buona o cattiva, Maestà? - Buona o cattiva. - Maestà, Serpentina corre pericolo di morte: E se muore Serpentina, Tutto il regno va in rovina. - Che pericolo può correre nelle stanze reali? - Maestà, non è più lì. Quando il Re apprese quello che sua moglie avea fatto, cominciò a strapparsi i capelli: - La loro rovina era compiuta. Ah! Povera Serpentina, dove tu sei? E una voce lontana, lontana: - Maestà, sono nel bosco. - E che tu fai? - Sento strani rumori. Il Re ordinò: - Mi si selli il miglior cavallo della mia scuderia! Montò a cavallo e via, come un fulmine, per la strada del bosco. Di tanto in tanto si fermava: - Serpentina, dove tu sei? - Maestà, in mezzo al bosco. Ora la voce era più vicina. - E che tu fai? - Maestà, ho troppo caldo. Il Re conficcava gli sproni nei fianchi del cavallo: avrebbe voluto che volasse. Ma quando fu in mezzo al bosco, vide una gran fiamma: - Serpentina, dove tu sei? - Maestà, in mezzo al bosco. La voce era vicinissima. - E che tu fai? - Pelle nuova, Maestà! Il Re corse alla catasta in fiamme, e senza curar di scottarsi, tirò la cassettina fuori della brace. L'aperse in fretta e furia, e vide scappar fuori una ragazza di belle forme; se non che avea la pelle tutta squamosa, come quella d'un serpente. - Troppa fretta, Maestà! Ora non potrò più maritarmi! Serpentina non avea avuto il tempo di far pelle nuova. E dava in un dirotto pianto; era inconsolabile: - Lasciatemi qui sola. Anderò dalla Fata gobba. Non potendola persuadere altrimenti, il Re l'abbandonò in mezzo al bosco e tornò al palazzo reale. Ma Serpentina, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscita. Vide uno scarafaggio: - Scarafaggio, bel scarafaggio! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo. - Non la conosco. E tirò via. Più in là, vide un Topolino: - Topolino, bel Topolino! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo. - Non la conosco. E tirò via. Più in là ancora, vide un usignuolo in cima a un albero: - Usignuolo, bell'usignuolo! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo. - Mi dispiace, ma non posso. Aspetto la bella dal dente d'oro che deve passare di qui. - Usignuolo, bell'usignuolo! Sono io la bella dal dente d'oro. E mostrò il dente. - O Reginotta mia! Son tant'anni che t'aspetto. L'usignuolo divenne, tutt'a un tratto, il più bel giovane che si fosse mai visto, la prese per mano e la condusse fuor del bosco. Giunti davanti alla grotta, il bel giovane picchiò. - Chi siete? - Son io e Serpentina. - Chi volete? - La Fata Regina. La grotta si spalancò, e si vide il gran palazzo della Fata gobba; ma bisognava dirle Fata Regina; se no, se l'avea a male. - Ben venuta, figliuola mia! T'aspettavo da un pezzo. Questo giovine è figlio d'un regnante. Una Maga gli aveva fatto l'incantesimo, e per romperlo ci voleva la ragazza dal dente d'oro. Ora dovrete sposarvi. La Reginotta, con quella pelle squamosa, era un orrore. La Fata gobba cominciò a strusciarla da capo a piedi, e in poco d'ora la mondò, in guisa che non pareva più lei. Era così bella, che abbagliava. La Regina, come intese che Serpentina stava per tornare, montò sulle furie: - Se vien lei, partirò io! É la nostra cattiva Sorte! Ma, saputo che quella recava l'unguento da far sparire le gobbe, le andò incontro col Re e con tutta la Corte. Fecero grandi feste, e vissero tutti felici e contenti. E noi citrulli ci nettiamo i denti.

IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

- Sono la figlia dell'Orco; non abbiate paura. Voi chi siete? - Il Reuccio. E le raccontò il tradimento del fratello. - Lasciatemi andare; mio padre dev'essere in pena a quest'ora. - C'è monti, valli e foreste; non trovereste la via. Mio padre v'incontrerebbe e ne farebbe due bocconi. Bisogna avere il suo anello per non smarrirsi; ma egli lo porta sempre in dito. - Glielo leverò, mentre dorme, se voi mi aiutate. - E dopo? ... Mi sbranerebbe. - Vi porto via con me. Ci sposeremo. S'intese il grido dell'Orco, che tornava inferocito per non aver fatto preda alla caccia: - Uhii! Uhii! - Ecco mio padre. Entrate in quella grotta. C'è da mangiare, da bere e un buon pagliericcio per dormire. Non fiatate fino a questa sera; se no, mio padre fa due bocconi di voi! L'Orco, appena entrato, cominciò a fiutare attorno: - Uh! Uh! Che odore di carne cristiana! Uh! Uh! - É la Fantasia che ve lo fa sentire. Siete stanco; desinate e andate subito a letto. L'Orco, brontolando, si spolpò mezzo bue arrosto, e si mise a letto: - Grattami la testa, figliuola. Non poteva addormentarsi, se sua figlia non gli grattava la testa. Con una mano ella grattava, e con l'altra tentava di cavargli l'anello dal dito. - Che tenti, figliolaccia? - urlò l'Orco mezz'addormentato. La figlia, impaurita, ritirò la mano e lasciò stare. Verso sera, l'Orco si preparava a uscire per la sua caccia. - Uh! Uh! Che odore di carne cristiana! Uh! Uh! Fiutava attorno, sgranando gli occhi, con l'acquolina in bocca. - É la Fantasia che ve lo fa sentire. Buona andata e buon ritorno; non venite prima di giorno. L'Orco, brontolando, tirò la porta dietro a sé. - Uhii! Uhii! Si sentiva da lontano un miglio. La figlia dell'Orco chiamò fuori il Reuccio. - Ho tentato di cavargli l'anello; non mi è riuscito. Ritenterò domani. - Fatemi vedere tutta la casa, intanto che vostro padre non c'è. - Giuratemi prima che voi mi sposerete, se andremo insieme via di qui. - Ve lo giuro. La figlia dell'Orco aperse un uscio, e il Reuccio rimase a bocca aperta vedendo una stanza tutta tempestata di oro e diamanti, con mobili di marmo, di argento, di legni preziosi. Per terra però qua e là ossa spolpate, macchiate di sangue. - Che ossa son queste? - Non ci badate E aperse un altr'uscio. Il Reuccio rimase a bocca aperta. Pareti di lamine di argento lucide come specchi; cornici d'oro e di perle; pavimento di marmi rarissimi; e mobili fastosi, cortinaggi di stoffe non mai viste, con ricami d'oro e frange d'oro ... Una magnificenza. Per terra però qua e là ossa spolpate, macchiate di sangue. - Che ossa son queste? - Non ci badate, Il Reuccio capì che erano ossa umane; tutte quelle povere creature se le era divorate l'Orco. E si sentì correre brividi da capo ai piedi, pensando che forse anche colei ne aveva mangiate la sua parte. - E lì dentro che c'è? Accennava all'uscio tutto d'acciaio, con congegni complicati e due mostri di bronzo; uno a destra, l'altro a sinistra, che mettevano paura. - Lì dentro c'è il tesoro. Ma non vi si entra; bisogna avere in mano l'anello, per non esser mangiato vivo da questi mostri. S'intese il grido dell'Orco che ritornava dalla caccia: - Uhii! Uhii! - Lesto, nella vostra grotta, e non fiatate fino a sera; se no, mio padre fa due bocconi di voi. Il Reuccio ebbe appena il tempo di nascondersi, che l'Orco picchiava alla porta: - Apri, apri, figliuola! Il babbo ti porta roba buona. Il Reuccio di là sentiva urli e pianti, e ganasce che maciullavano; e poi soltanto quel maciullare di ganasce. La figlia diceva al padre: - Siete stanco; andate a letto. L'Orco si spogliava: - Grattami la testa, figliuola. - Ora gli leva l'anello - pensò il Reuccio. Infatti, la sera dopo, appena l'Orco fu andato via per la caccia, la ragazza chiamò: - Reuccio, Reuccio, ecco l'anello! Mio padre, poverino, ora si sperderà in mezzo al bosco. Per amor vostro, io l'ho tradito. Andarono nella stanza del tesoro, presero oro e diamanti in quantità, e uscirono fuori. L'anello lo teneva in dito la figlia dell'Orco. Passando pel bosco, sentivano da lontano: - Uhii! Uhii! - É mio padre che non trova la via. L'ho tradito per amor vostro, povero babbo! Il Reuccio la guardò in faccia e vide che aveva le labbra sporche di sangue. - Che hai mangiato con tuo padre? - Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca. Nella prima città dove arrivarono, il Reuccio mantenne la sua parola e sposò la figlia dell'Orco. Lì seppe che suo padre era morto, che il fratello traditore era già Re. Ma che poteva farci? E rimase in quella città, godendosi i tesori portati via all'Orco. Sua moglie a tavola non mangiava, o assaggiava appena le pietanze. - Perché non mangi? - Non ho appetito. O che campi d'aria? - Non ci badare. Una notte, il Reuccio si sveglia e non trova sua moglie nel letto. La cerca per tutta la casa, e non la trova neppure. Era in gran pensiero. Verso l'alba, eccola che rientra. - Dove sei stata? - A prendere un po' d'aria. La guardò in faccia; aveva le labbra sporche di sangue: - Che hai mangiato? - Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca. Per quella volta non ci fece caso. Intanto sua moglie lo aizzava sempre contro il fratello traditore. - Se tu fossi Re, io sarei Regina! - Sei meglio che Regina. Non ti manca nulla. - Se tu fossi Re, io sarei Regina! Dovresti andare a ammazzare tuo fratello com'egli tentò di ammazzar te. - E se non riesco? - Con l'anello di mio padre si riesce a tutto! Dovresti vendicarti. Se tu fossi Re, io sarei Regina! Picchia oggi, picchiadomani, il Reuccio cominciò a pensare sul serio alla vendetta contro il fratello. Lo tratteneva soltanto l'amore dei figliuoli. Ne aveva già cinque e un altro era per la via. Se lui moriva in quell'impresa, come sarebbero rimasti quei poverini? Ma sua moglie ripicchiava: - Se tu fossi Re, io sarei Regina! Si sgravò del sesto figliuolo. Ora erano tre maschi e tre femmine. Una notte il Reuccio si sveglia e non trova sua moglie nel letto. La cerca per tutta la casa, e non la trova neppure. Era in gran pensiero. Verso l'alba, eccola che rientra. - Dove sei stata? - A prendere un po' d'aria. La guardò in faccia; aveva le labbra sporche di sangue: - Che hai mangiato? - Agnellini, caprettini che parevano bambini. Non mi son pulita la bocca. Questa volta però il Reuccio entrò in sospetto e inorridì pensando che pasto aveva forse fatto sua moglie. - Non è figlia d'Orco per niente! E l'odio contro il fratello e il desiderio di vendetta gli riavvampò in cuore. - Se non fosse stato per il suo tradimento, non avrei sposato la figlia d'un Orco. L'odiava di più per questo. Il sangue che lordava le labbra di sua moglie doveva essere di creature umane. Oh, che orrore! Un giorno disse a sua moglie: - Porto i bambini a spasso. Prese in collo l'ultimo, che ancora non si era staccato ed era spoppato di fresco, e uscì fuori città. Cammina, cammina, la notte lo sorprese in una pianura deserta. Non c'era casolare dove rifugiarsi; non si vedeva anima viva. - Ah, fratello scellerato, dove mi trovo per te! Voglio ammazzarti! Coricò su la terra nuda i bambini che già cascavano dal sonno, e si sedette in un canto per vegliarli. Tutt'a un tratto vede davanti a sé due occhi di bragia, e una forma nera di animalaccio che si accostava adagino adagino. Gli si agghiacciò il sangue. Non aveva la forza di cavar la spada e difendersi. E sentiva brontolare: - Ah! Che buon odore di carne piccina! Che buon odore! Quella voce non gli giungeva nuova, ma non gli riusciva di riconoscerla. L'amore dei figli però gl'infuse coraggio. Cavò la spada e si slanciò contro l'animalaccio dagli occhi di bragia, che già aveva addentato i bambini. - Ahi! Ahi! Muoio! Muoio! Era sua moglie, la figlia dell'Orco; stava per divorarsi le proprie creature. Non era figlia d'Orco per niente. I bambini erano tutti lacerati, insanguinati, e il povero Reuccio non sapeva come medicarli. Il giorno era alto, e per la campagna deserta non si scorgeva anima viva. Ed egli piangeva strappandosi i capelli, con quell'orrido spettacolo sotto gli occhi: la moglie morta da un canto e i bambini lacerati, insanguinati e morenti dall'altro. - Fratello scellerato! Senza il tuo tradimento, non sarei a questo punto! - Che hai? Perché piangi? Si voltò e si vide dinanzi una bellissima donna tutta vestita di bianco con in mano una verga d'oro. - Ah, buona signora, aiutatemi voi! I miei bambini! ... I miei bambini! - Posso aiutarti, ma a un patto. - A qualunque patto, buona signora! - Ascolta bene: io so tutto. Il tradimento di tuo fratello, l'Orco, la tua fuga con la figlia di lui, il tuo matrimonio, tutto. Se vuoi però che io ti aiuti, devi perdonare a tuo fratello. - A quell'infame? No, mai! La bellissima signora, turbata in viso, gli voltò le spalle e stava per andarsene. - Sì, sì, gli perdono! - gridò il Reuccio. - Pei miei figliuoli! La signora gli si accostò sorridente e gli disse: - Ascolta bene. Dei tuoi figliuoli, dopo parecchi anni, uno solo sopravviverà; questo, il minore. E sai perché? Perché egli soltanto non è nutrito di carne umana. Tua moglie, per virtù dell'anello, ti assopiva profondamente e usciva la notte a caccia di bambini: non era figlia d'Orco per niente. Gli altri cinque, ove campassero, diventerebbero Orchi anche loro! Il Reuccio piangeva. - Se tu perdoni al fratello, il tuo figliolino sarà Re. - Sì, sì, gli perdono! Gli perdono di tutto cuore! - Ora, guarda! Stese la verga d'oro e cominciò a toccare ad uno ad uno i bambini; e di mano in mano che li andava toccando, accadeva un portento. Questi diventava un martello, quegli uno scalpello, chi una tenaglia, chi una pialla, chi una sega. Toccato il minore, diventò un succhiello. Il Reuccio allibì: si sentì drizzare i capelli in testa. La signora gli fece un cenno con la mano: - Non disperarti: non è niente. Tu sarai falegname e questi i tuoi arnesi. Di giorno, ti serviranno per il tuo mestiere; la notte, tòccali con l'anello dell'Orco; ridiventeranno bambini. - E voi chi siete? - Sono una Fata. Il Reuccio si rincorò: - Fata, buona, Fata, suggeritemi voi che debbo fare. - Raccogli questi arnesi e va' nella città dov'è il Re tuo fratello. Prenderai a pigione una botteguccia, e lavorerai di falegname. La colla e i chiodi devono comprarli gli avventori. I chiodi che avanzeranno, li renderai; la colla, no; mettila da parte. Sarà buona da mangiare; vedrai. E gli spiegò tutto quel che doveva accadere. Il Reuccio raccolse gli arnesi: I miei figli ora si chiamano: Piallina, Scalpellino, Tanaglina, Martellino, Seghina e Succhiellino! Piangeva e rideva consolato. - E il cadavere di tua moglie? Lo lasci così, in preda alle bestie feroci e agli uccelli di rapina? - É giusto! Poveretta, Orco il padre, Orca lei: non ci aveva colpa. Le tolse dal dito l'anello, scavò una fossa e la seppellì. - Che nome prenderò, buona Fata? - Il nome te lo appiccicherà la gente; ti chiameranno: Mastro Acconcia-e-guasta. Parrai un vecchio; ma parrai soltanto. - Grazie, grazie, buona Fata! Guardò attorno, vicino, lontano; la Fata era sparita. Il resto, bambini miei, già lo sapete. E la fiaba della Figlia dell'Orco è bell'e finita:

SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Chi pagava, chi no: - Ciaba, abbiate pazienza; tornate domani. - È che allo stomaco non posso dire: Torna domani! Che fare intanto? Si trattava di poveretti come lui. I signori non gli davano scarpe vecchie da rabberciare, non gli ordinavano scarpe nuove col pretesto che non avrebbe saputo contentarli. La bambina che era nel cestino davanti a la bottega, sorvegliata dalla donna intenta a far la calza o a filare, appena scorgeva da lontano suo padre, batteva le manine, gli faceva festa. Sapeva che egli non tornava mai a mani vuote per lei. Infatti, coi pochi soldi guadagnati, innanzi tutto pensava a comprare qualche dolce o un giocattolino da regalare alla bambina, e poi a un po' di spesa per tutti, spesso pochina. Così, come suol dirsi, sbarcava il lunario, felice di veder crescere di anno in anno la figliuola e di vederla divenire sempre più bella e di modi tanto gentili da non sembrare affatto una povera figlia di ciaba. Ora le faccende di casa le faceva tutte lei. Lei disfare e rifare i due lettini, quello del padre e il suo; lei spazzare, rassettare le camerette del mezzanino sopra la bottega, due gusci di ovo; lei lavare i panni, stirarli; lei preparare il desinare, e la cena pure, quando c'entrava. E faceva tutto silenziosamente quasi fosse muta, tanto che il vicinato cominciò a chiamarla: l'Uccellino che non canta. È vero che il padre suppliva per lei. Tirava gli spaghi e cantava, batteva la suola e cantava, piantava bullette nei tacchi e cantava. - E vostra figlia, ciaba? Insegnate a cantare anche a lei. - Canterà! Canterà! - Quando, ciaba? Quando? - L'Uccellino che non canta Volerà su l'alta pianta; Farà il nido in cima in cima ... - E poi? - E poi? Il ciabattino rideva, sornione, e aggiungeva: - Non più zitto come prima! Che se ne sapeva di tutto questo nella capitale del regno? Per ciò il Re, la Regina, gli alti personaggi di Corte erano angustiati per la grave malattia del Reuccio. Dal giorno che il Re gli aveva detto: - Reuccio, dovete sposare la figlia del Re di Levante, - il Reuccio si era sentito prendere da un profondo senso di malinconia, e nemmeno lui sapeva perché. Si aggirava per le stanze del palazzo reale, con le mani dietro la schiena, con gli occhi che guardavano e non vedevano e parevano fissi lontano lontano. Il Re e la Regina gli andavano dietro: - Reuccio, che vi sentite? - Reuccio, che desiderate? - Non mi sento niente, Maestà; non desidero niente! Mangiava poco, dormiva pochissimo, dimagriva a vista d'occhio. Dovette mettersi a letto perché non si reggeva più in piedi. Il Re e la Regina insistevano: - Reuccio, che vi sentite? - Reuccio, che desiderate? - Non mi sento niente, Maestà; non desidero niente! Un giorno che pareva dovesse spirare, tutt'a un tratto, disse: - Voglio l'Uccellino che non canta! E non gli si poté cavar altro di bocca. Grande costernazione nella Corte. Dove trovare l'Uccellino che non canta? Furono spediti valenti cacciatori per tutti i boschi del regno con reti, retoni, retini, casotti da paretaio. Altri ne partìrono volontariamente per tentar di guadagnarsi la grande ricompensa promessa dal Re a colui che avrebbe acchiappato vivo e portato a palazzo reale l'Uccellino che non canta. Banditori a cavallo, a suon di tromba, andavano di città in città, fin nei più remoti villaggi: - Chi acchiappa vivo e porta a palazzo reale l'Uccellino che non canta, sarà fatto Principe, e avrà un castello e un dominio in regalo! Allorché i banditori arrivarono nel paesetto del ciaba, la gente, ridendo, gli disse: - Ehi, ciaba! Avete sentito? Che fortuna! Voi solo possedete l'Uccellino che non canta: mettetelo in una gabbia e portatelo a palazzo reale. Sarete fatto Principe e avrete un castello e un dominio in regalo! Il ciaba rise anche lui, e riprese a lavorare e a cantare ... Chi gliel'aveva insegnata quella canzonetta? Non se ne rammentava; gli era spuntata nella mente, come un fungo, e non l'aveva dimenticata più. Quella nottata non gli riuscì di prender sonno; gli ronzava dentro la testa, come se qualcuno gliela cantasse sottovoce là dentro: L'Uccellino che non canta Volerà su l'alta pianta; Farà il nido in cima in cima, Non più zitto come prima! - E se si tratta del mio Uccellino che non canta? Rifletté un po', si diè del matto, e uscì al solito, di buon'ora, in cerca di scarpe vecchie da rabberciare. Tutti lo canzonavano: - Ehi, ciaba! Che fortuna! È vero che metterete in gabbia e porterete a palazzo reale il vostro Uccellino che non canta? Se lo sentì ripetere tante volte, che una sera disse alla figlia: - Questa notte partiremo! La ragazza non domandò: - Per dove? Perché? - Indossò, come le aveva ordinato il padre, il vestito nuovo, di mussola celeste con fiorellini rosei, che le stava tanto bene, e a mezzanotte fu pronta. Il ciaba volle partire non visto da nessuno dei suoi compaesani. Camminarono otto giorni, sempre a piedi, riposandosi la notte in piena campagna, e giunsero alla porta della capitale, stanchi e affamati perché l'ultimo giorno avevan finite le scarse provviste. Il ciaba non volle perder tempo, e condusse la figlia davanti al portone del palazzo reale. - Che cercate, bon omo? - Vorrei parlare con Sua Maestà il Re. - Tornate domani. Sua Maestà oggi è occupata. Quella guardia lo aveva creduto matto. Ma il ciaba non si diè per vinto. - È cosa d'urgenza. Ho qui l'Uccellino che non canta. Sentito che c'era un pover'uomo con l'Uccellino che non canta, il Re si affrettò a dar ordine che lo facessero salire su, e tutta la Corte fu sossopra, dalla gran curiosità di vedere il fortunato mortale che era riuscito a prendere l'Uccellino che non canta. Il Re e la Regina, visti entrare quei due che guardavano stralunati, domandarono ansiosamente: - Dunque? ... Dunque? ... - Ecco qua, Maestà, l'Uccellino che non canta! Parve che nella gran sala fosse scoppiato un tuono, tanto fu forte il grido d'indignazione del Re, della Regina e di tutte le persone presenti. Il ciaba e la figlia, per ordine del Re, furono presi, legati e gettati in fondo a un carcere. Soltanto per riguardo alla giovinezza della ragazza non vennero giustiziati là per là. Il Re e la Regina entrarono nella camera del Reuccio. - Reuccio, come vi sentite? - Reuccio, che desiderate? Il Reuccio stava col capo abbandonato sui guanciali, mezzo trasognato, col viso infiammato dalla febbre, credette il Re; con la mente in delirio, credette la Regina. Balbettava: - L'hanno già preso! L'hanno messo nella gabbia! E sorrideva, beato. - Tra giorni l'avrò qui l'Uccellino che non canta! L'hanno già preso! L'hanno messo nella gabbia! Il Re e la Regina si sentivano spezzare il cuore. Intanto il povero ciaba si struggeva in lacrime nel fetido carcere dov'era stato rinchiuso insieme con la figlia. Questa però se ne stava seduta in un cantuccio, zitta, come se niente fosse stato. Il carceriere era stupito del contegno di lei. E disse al padre: - Chi vi accecò da farvi beffe del Re? - Volevano ... - i singhiozzi gli impedivano la parola. - Volevano l'Uccellino ... l'Uccellino che non canta, e ... l'Uccellino che non canta ... è questa qui! Il carceriere si presentò al Re: - Maestà, o quell'omo è pazzo, o dice la verità. Egli giura e spergiura che sua figlia si chiama l'Uccellino che non canta! Il Re rimase sconvolto da questa notizia, e ne mise a parte la Regina. - Che, Maestà? Voi permettereste che il Reuccio sposasse quel verme di terra? - È bella, si chiama l'Uccellino che non canta, e può dare la salute e la vita al nostro figliuolo. Almeno proviamo: facciamogliela vedere! ... Se si ottiene ... La Regina non lo lasciò finire e gli voltò le spalle. Il Re pensò: - La notte porta consiglio. E andò a letto, risoluto di prendere una decisione domani. La mattina, appena alzatosi, fece chiamare il carceriere. - Maestà - disse questi. - Il vostro ordine è stato subito eseguito: strozzati tutti e due, padre e figlia! Nello stesso momento si udirono pianti e grida per tutta la reggia. - Il Reuccio è morto! Il Reuccio è morto! - Ah, donna scellerata! - urlò il Re, comprendendo che l'ordine di morte era stato dato dalla Regina. E se non. l'avessero trattenuto, l'avrebbe passata da parte a parte con la spada furiosamente cavata dal fodero. La uccise in poco tempo il rimorso di aver cagionato, con un impeto di stolta superbia, la morte del figlio. Il Re volle che nella stessa tomba del Reuccio fosse pure seppellito l'Uccellino che non canta. - Non han potuto essere uniti da vivi, saranno uniti, e per sempre, da morti! Ma doveva avverarsi la canzone del ciaba: L'Uccellino che non canta Volerà su l'alta pianta; Farà il nido in cima in cima, Non più zitto come prima! Mentre si celebravano i funerali, ecco una vecchietta che si fa largo tra la folla, gridando:- Maestà! Maestà! Non riuscirono a trattenerla, finché non giunse al cospetto del Re. - Che fate, Maestà? Non sono morti, dormono! Infatti i due cadaveri sembravano proprio addormentati. - Reuccio, su! Uccellino che non canta, su! E furono visti rizzarsi, strofinandosi gli occhi, come chi è ancora mezzo insonnolito. Quella vecchietta era la donna che aveva custodito, bambina, l'Uccellino che non canta. La ragazza la riconobbe e voleva abbracciarla; ma essa - una Fata! - diè un bagliore di luce vivissima e sparve nell'aria. E il ciaba? Si destò anche lui, strofinandosi gli occhi, come chi è ancora mezzo insonnolito. Venne ad annunciarlo il carceriere tutto spaventato del fatto. Il Re unì le mani del Reuccio e dell'Uccellino che non canta, e disse: - Siete marito e moglie! E il ciaba fu fatto Principe ed ebbe in regalo un castello. Vissero tutti felici e contenti ... E c'è chi tira la vita coi denti!

LE ULTIME FIABE

661938
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Abbiate pazienza. Ecco il Reuccio e la Reginotta. (Scuote il Re e la Regina) Maestà! Maestà!

IL BENEFATTORE

662573
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Oh, non abbiate paura! - soggiunse la signorina che aveva capito. - Avrò un cavaliere, caso mai ... Don Liddu non sa ancora capacitarsi che una signorina possa permettersi di fare qualche miglio per la campagna, sola sola ... - ella continuò rivolgendosi al giovane. E rideva. - E se suo papà mi domandasse ... - disse don Liddu per scusarsi. - Non vi domanderà niente - rispose miss Elsa. - Mio padre vuol saperlo soltanto da me quel che faccio o non faccio. Non ho segreti per lui. - Voscenza ha ragione! - Povero don Liddu! Va via mortificato - disse Paolo Jenco, senza nascondere il piacere che sentiva di poter accompagnare miss Elsa. Ella si avviò lesta e sorridente verso la Banca notarile, seguita dal giovane che la guardava ammirandola in silenzio. - Cara signorina, io la ringrazio - disse il notaio La Bella venendole incontro. - Debbo ringraziarla io invece - rispose miss Elsa. - Ma non vi è un ospedale qui? Quella poveretta è malata gravemente; a casa manca di tutto; non ha chi l'assista. I suoi figliuoli sono troppo bambini. - Sì, l'ospedale c'è; nessuno però vuole andarvi, neppure i più miserabili. Credono che medici e infermieri li lascino morire, per sbarazzarsene; ed è pregiudizio invincibile. Forse interamente non hanno torto. Quell'amministrazione è un caos! - Ne parlerò a suo padre che è il Sindaco - disse miss Elsa. - Inutilmente - rispose il giovane. - Bisognerebbe portar là i malati con la forza. Sarebbe peggio. - O persuaderli col curarli bene. - È inutile - replicò il notaio. - Possibile? Dio mio! Il viso di miss Elsa si atteggiò a un doloroso stupore che la rendeva più bella. - Il male di qui, di voialtri tutti - ella riprese - è questa rassegnazione mussulmana. Dite: - È inutile! - e non operate, non vi sforzate a vincere quel che vi sembra fatalità. - È proprio così! - approvò il notaio. - Eppure in molte altre cose avete tanta energia! - Nel male - disse Paolo Jenco. - Non è vero. Nel lavoro, per esempio, il vostro contadino è ammirabile. Così parco, così ubbidiente, quando è guidato bene! Così buono, quando non si vede maltrattato! I signori qui non capiscono che non dovrebbero comportarsi coi contadini come con schiavi da sfruttare. Mio padre dice che i contadini siciliani non hanno uguali. - Li ha un po' viziati suo padre. Lo pensano tutti in paese. - Ed io aggiungo - fece il notaio - che non gli sono molto grati. - Sono ignoranti; è forse per questo. Ma non è colpa loro. - E noi galantuomini siamo peggio. Certe volte, io mi vergogno di essere siciliano! - Eccede! - lo ammonì miss Elsa. Paolo Jenco scosse la testa, negando. - Riconoscere i propri difetti è già un bel passo - ella riprese. - Ma non basta. Lei che è giovane può far molto. Dia l'esempio di una vita nuova. - Io? Ma io non posso niente. Mio padre non mi permette nessun'iniziativa. Ho ventitrè anni e mi stima ancora un bambino. Quando ne avrò quaranta, sarà lo stesso. La patria potestà è terribile tra noi, come presso gli antichi romani. Ribellarsi ad essa è atto pazzo quasi quanto sbattere la testa contro una parete di bronzo. - È vero! È vero! - confermò il notaio. - Educati a questo modo - riprese Paolo Jenco - noi perdiamo ogni energia. E quando, troppo tardi, siamo liberi di fare a modo nostro, continuiamo la tradizione. Ripetiamo, precisamente, quel che è stato fatto con noi. Ci vorranno secoli per mutarci. - I secoli passano presto - disse miss Elsa, sorridendo. Un ragazzino, coperto malamente da quattro stracci, si era avvicinato e stava ad ascoltare con le mani dietro alla schiena, gli occhi neri spalancati, intenti alla bella signorina, che l'osservava di sfuggita - se n'era accorto - e che parlava una lingua di cui egli capiva soltanto poche frasi. - Vuoi venire, laggiù, da me? Ti farò il ritratto - gli disse miss Elsa. - Bel tipo arabo! - soggiunse rivolta a Paolo, senza attendere la risposta del ragazzino - Vuoi venire? - Quando? - egli domandò. - Domattina. - Che ne farò del ritratto? - Quello lo terrò io; ti regalerò un vestito; la tua mamma te lo adatterà. Hai la mamma? - No. - È morta? - Chi lo sa? - Sua madre è in carcere, per falsa testimonianza - spiegò il dottore vedendo lo stupore di miss Elsa a quella risposta. - Poverino! Hai il padre però. - È in prigione anche lui, per omicidio, e non ne uscirà vivo probabilmente - soggiunse il notaio. - E gli altri parenti? domandò miss Elsa. - Non ho nessuno - rispose il ragazzo. - Come vivi? - Cara signorina, - disse il notaio - ci vuol così poco per vivere nella sua condizione e alla sua età! - Perchè non lo mettono in un asilo di orfani? Può essere calcolato per tale. Qualcuno dovrebbe occuparsene. - Ma ce n'è venti, trenta, cinquanta nello stesso caso! Che vuol provvedere? Mancano i mezzi. - Verrai domattina? - tornò a domandargli miss Elsa con voce intenerita dalla commozione. - Eccellenza, sì. - Perchè ti sei accostato a noi? Chi t'ha detto: - Va'ad ascoltare quel che dicono? Afferrato improvvisamente per un braccio e colto alla sprovveduta da questa domanda di Paolo, il ragazzo si smarrì, e balbettò: - Me l'ha detto ... me l'ha detto ... Nessuno me l'ha detto - poi si corresse, accigliato. - Chi te l'ha detto, sì? Non esser bugiardo - Il dottor Medulla ... - confessò il ragazzo piagnucolando sotto la forte stretta della mano che lo aveva agguantato. - Oh! - esclamò miss Elsa, indignata. - E perchè? - Per niente signorina; perchè quel signore non ha altro da fare ... e perchè ... - Il perchè lo so io, notaio - lo interruppe Paolo Jenco che si mordeva le labbra, fremente. - Adoprare un ragazzino per un atto così vile! ... Non avrei mai creduto che il dottor Medulla fosse capace di questo! - È un imbecille presuntuoso e vigliacco! - Non si arrabbi, signor Jenco! - disse miss Elsa aggiungendo alla gentilezza delle parole la dolcezza d'uno sguardo che pregava. - Senti, - proseguì Paolo - va' a rapportargli: Don Paolino diceva che voscenza è un buffone. - No, - intervenne il notaio. - Non gli dirai niente. Sarebbe troppa soddisfazione per quel pettegolo. E vi andrebbe di mezzo la signorina. Non gli dirai niente, hai capito? - continuò rivolto al ragazzo - se no, ti darò quattro scoppole e quattro calci io. - Niente,eccellenza, sì; niente! Bella Madre Santissima! - E domani andrai laggiù, dalla signorina Ti darà il vestito. - Eccellenza, sì! - Far fare la spia a un ragazzo! ... Ma perchè? ... Oh! Il dolce viso di miss Elsa era diventato così severo e le sue rosee labbra si erano così scolorite, che il notaio sentì pietà di lei e stringendole una mano la confortava: - Signorina, il mondo è cattivo!

Il Marchese di Roccaverdina

662612
Capuana, Luigi 2 occorrenze

«Abbiate pazienza! C'è l'ingegnere.» «Non ho fretta, mamma Grazia.» «Siamo con la casa sossopra.» «Pel matrimonio, l'ho sentito dire.» «Che tosse! ... Riguardatevi, don Silvio!» «Sia fatta ... la volontà ... di Dio!» Con la tosse che gli soffocava le parole in gola, il petto di quel magro corpicciuolo, scosso rudemente a ogni assalto, pareva dovesse schiantarsi. «Mettetevi a letto; fate una buona sudata!» «E i poveretti che muoiono di fame? Per questo sono qui.» «Ah, don Silvio! Non si finisce mai! Il marchese ha vuotato il magazzino del grano ... Fave, ceci, cicerchia ... Che non ha dato?» «Lo so, lo so! Chi più ha più deve dare.» «Famiglie intere su le spalle!» «Lo so. Ma ci sarà qualche cosa anche pei miei poveretti, mamma Grazia.» «Figuratevi! Non se lo lascerà nemmeno dire.» Il marchese, che accompagnava l'ingegnere fino all'anticamera, si fermò, turbato, alla inattesa vista di don Silvio. «E andate attorno con questa tosse?», gli disse l'ingegnere dopo averlo salutato. Don Silvio si levò a stento da sedere, inchinandosi al marchese e all'ingegnere, senza poter pronunziare una sola parola, scusandosi con umile gesto di rassegnazione. «Che abbiamo?», gli domandò il marchese, ostentando disinvoltura. «Qua, su questa poltrona; è più comoda.» Lo aveva fatto entrare nella stanza accanto, e gli si era fermato davanti, in piedi, con le braccia dietro la schiena, guardandolo fisso, per indovinare il motivo di quella visita prima che quegli parlasse. «Mi manda Gesù Cristo!», disse don Silvio. «Quale Gesù Cristo? Perché? ... Andate a raccontare queste storie alle femminucce!» Il marchese quasi balbettava, pallido, da la improvvisa concitazione. «Mi perdoni ... voscenza ! ... Me ne vado ... » E don Silvio non poté proseguire, sopraffatto dalla tosse. Vedendolo avviare verso l'uscio, il marchese lo fermò pel braccio: «Perché siete venuto? ... Che volevate da me? ... Perché siete venuto?». «Pei poveretti, marchese! Non ho saputo esprimermi.» «Ci sono soltanto io a Ràbbato? Ho dato assai. Troppo! Troppo! ... Sono già dissanguato.» «Si calmi! ... Non ha obbligo ... » «Eh? ... Siete stato voi che avete detto al prevosto Montoro ... ?» Gli si era piantato davanti, ringhiando le parole, fissandolo negli occhi. «Che cosa?», domandò timidamente don Silvio. «Che cosa? Gli dava noia in casa quel Crocifisso al marchese! » «E ha potuto supporlo? Oh, voscenza ! Io, anzi, ho lodato il bell'atto che toglieva quella sacra immagine da un posto non degno.» «Non degno?» «Certamente; il suo degno posto era l'altare.» «Perché dunque or ora dicevate: mi manda Gesù Cristo? ... Mi avete scambiato per una donnicciuola, mi avete scambiato?» «Ha ragione! Sono parole piene di superbia quelle! ... Me ne accorgo; ha ragione! ... Credevo che quando uno va a chiedere pei poveri fosse quasi mandato da Gesù Cristo ... Se la prenda con me. I poveretti che hanno fame non debbono scontare il mio peccato. Gliene chiedo perdono ... anche in ginocchio ... » Il marchese lo trattenne. Si vergognava di esser trascorso; ma non voleva lasciarsi intimidire da quel pretucolo. Gli pareva che colui intendesse di abusare della circostanza di essere stato messo a parte, in confessione, di un terribile segreto ... Doveva farglielo capire, perché non ricominciasse più e la finisse una volta per sempre! Non osò. «Che vi immaginate?», riprese con un tono meno alterato. «Mi è rimasto appena tanto grano da bastare per me.» «Oh, penserà il Signore a ricoprirle di nuovo i canicci!» «Infatti! ... Infatti!» «Non disperi della misericordia di Dio, marchese!» «E intanto la gente muore come le mosche. Dovrei avere la zecca in casa, o stampare carte false ... Ma non vedete che non vi reggete in piedi?» Don Silvio assalito da un nuovo e più forte accesso di tosse, aveva dovuto rimettersi a sedere, mezzo tramortito. «Ecco! ... Soltanto per mostrarvi la buona intenzione», aggiunse il marchese. «Lo sapevo che non sarei venuto invano!», rispose don Silvio ringraziandolo. Aveva le lagrime agli occhi. Il marchese rimase, tutta la giornata, con un senso di sorda irritazione nell'animo, quasi il sentimento di pietà che all'ultimo lo aveva commosso fosse stato una specie di soverchieria, una prepotenza usatagli, con fine arte, da quel prete. Si sfogò con mamma Grazia: «Ci mancava lui per venire a smungermi!». «È un santo, figlio mio!» «I santi ... stiano appiccicati al muro, o in Paradiso», rispose duramente il marchese. E due giorni dopo, don Silvio era davvero in via di andarsene in Paradiso, dove il marchese lo voleva. Davanti la porta della sua abitazione, gruppi di gente costernata, con gli occhi al balconcino della cameretta del malato. Il dottore aveva dovuto ordinare di tener chiusa la porta perché la cameretta non fosse invasa. Di tratto in tratto, qualcuno dei pochi ammessi in casa veniva fuori asciugandosi le lagrime, ed era subito circondato. Lo interrogavano con gli sguardi, con una lieve mossa del capo, quasi il suono delle parole potesse disturbare l'agonizzante. «Si è confessato!» «Udite? Gli portano il viatico e l'estrema unzione!» La campanella di Sant'Isidoro dava il segnale con pochi squilli affrettati; e, subito dopo, la campana grande un tocco, due, tre, che ondulavano lenti tristamente. Tutti in orecchie, a contarli: «Quattro! Cinque!». Dappertutto; in Casino, nelle farmacie, nelle botteghe, in ogni casa, davanti le porte. «Sei! Sette!» Come se quei rintocchi cupi e lenti stessero per annunziare una pubblica sciagura. Si sapeva: otto tocchi per le donne; nove per gli uomini; dieci pei sacerdoti! E il decimo rintocco, più cupo, più lento, ondulò a lungo per l'aria. Altra gente accorreva: popolane, contadini, tutti i poverelli da lui beneficiati, magri, squallidi, che dimenticavano in quel momento la mal'annata e la fame, con occhi gonfi di lagrime, con visi sbalorditi. Ah, il Signore avrebbe dovuto prendersi, invece, qualcuno di loro! Ed ecco il viatico! Si udiva il campanello che precedeva il prete con la pisside e l'olio santo. Il canonico Cipolla, sotto il baldacchino, circondato dai fedeli che portavano le lanterne di scorta e seguito da un centinaio di persone recitanti il rosario, passava a stento tra la folla inginocchiata che ingombrava il vicolo da un capo all'altro. La porta fu spalancata; il campanello cessò di suonare. Anche il marchese aveva contato: «Uno! ... Due! ... Cinque! ... Dieci! ... », i rintocchi della campana grande di Sant'Isidoro. Da parecchi giorni, tre, quattro volte il giorno, egli mandava Titta, il cocchiere, a prendere notizie. Lo atterriva l'idea che la febbre facesse delirare don Silvio, e che nel delirio gli sfuggisse una parola, un accenno! ... Poteva darsi! Smaniava attendendo il ritorno del messo. «Sei entrato proprio in camera? Lo hai visto?» «Già sembra un cadavere. Non c'è più speranza!» Il marchese socchiudeva gli occhi, un po' deluso, crudele. Aveva la pelle dura quel prete! E il giorno appresso: «Come va? Perché hai tardato tanto?». «Non volevano farmi entrare. Mi ha riconosciuto. Mi ha detto: "Ringraziate il marchese!", parlava con un fil di voce. "Ditegli che preghi per me!"» «Ah! ... Poveretto!» Ma, nel suo interno, egli dava un significato ironico alle parole riferitegli da Titta; e così giustificava il rancore che gli faceva desiderare più pronta la sparizione di colui che possedeva il suo segreto, e che era per lui, non solamente un rimprovero continuo, ma un pericolo; o, se non un pericolo, una ossessione che gli dava fastidio. E quando udì in Casino (vi era andato a posta per sentire quel che si diceva), quando udì raccontare dal notaio Mazza che don Silvio aveva detto a sua sorella: «Abbi pazienza, fino a venerdì a ventun'ora!», i tre giorni e mezzo che ancora mancavano gli parvero una eternità. Sarebbe stato vero? Il venerdì non poté restare ad attendere che la campana grande di Sant'Isidoro suonasse a morto a ventun'ora, com'è di rito. Il cameriere del Casino era stato mandato a informarsi, anche per la curiosità di sapere se la predizione - e tutti lo credevano - si sarebbe avverata. Vedendo che don Pietro Salvo cava a ogni cinque minuti l'orologio di tasca, il dottor Meccio esclamò: «Stiamo qui a tirargli il fiato di corpo. È sconveniente!». «Andatevene. Chi vi trattiene?» Erano sul punto di bisticciarsi; ma dalla cantonata spuntava don Marmotta come il cameriere era soprannominato. Veniva col suo comodo, dando la notizia a quanti lo fermavano, riprendendo a camminare a passi lenti, con la testa ciondoloni che secondava il movimento dei passi, senza curarsi che fosse impazientemente aspettato. Il marchese gli andò incontro: «Ebbene?». «È ispirato proprio allo scocco di ventun'ora.» Si era immaginato di dover respirare più liberamente a quella notizia. Invece, rimase là, dubbioso. Non credeva ai suoi orecchi, quasi don Silvio avesse potuto fargli il cattivo scherzo di fingere di morire. A casa, trovò mamma Grazia che recitava il rosario in suffragio dell'anima del sant'uomo. «È morto! Che disgrazia! A trentanove anni! Gli uomini come lui non dovrebbero morire mai!» «Muoiono tanti padri di famiglia!», la rimbrottò. «La morte non porta rispetto a nessuno.» Quel lutto di tutto il paese lo irritava. Lo irritava anche il pensiero della morte, che ora gli ronzava alla mente con insolita vivacità e strana insistenza. Gli sembrava che qualcuno gli sussurrasse dentro il cervello: «Oggi a me, domani a te!». E quel qualcuno, a poco a poco, prendeva le sembianze di don Silvio. Avrebbe voluto esser sordo per non udire le campane di tutte le chiese che suonavano a mortorio, tacevano un po', riprendevano a suonare! Sarebbe scappato per Margitello, se non avesse riflettuto che le avrebbe udite ugualmente e più incupite dalla distanza. Eppure non si sentiva ancora rassicurato! Volle vedere il trasporto dalla terrazza davanti al Casino. In Piazza dell'Orologio gran calca. Il mortorio che andava attorno da un'ora, secondo la costumanza, per le vie principali del paese, doveva passare di là per deporre il cadavere nella chiesa di Sant'Isidoro dove gli avrebbero cantato la messa funebre. E già affluiva in piazza la gente che si riversava dalle traverse precedendo il convoglio. La processione s'inoltrava lentamente: confraternite con gli stendardi avvolti all'asta, frati Cappuccini, frati di Sant'Antonio, frati Minori conventuali, preti in cotta e stola nera, canonici con mozzetta di lutto, tutti coi torcetti accesi in mano, salmodianti; e dietro, sul cataletto, il cadavere, scoperto, con le mani in croce, in cotta e stola, e col berretto a tre spicchi in testa, che spiccava su la coltre nera di broccato orlata con frangia di argento; corto, sparuto, col viso giallo, con gli occhi socchiusi e il naso affilato, sembrava che tentennasse il capo a ogni passo dei portatori. Giunti vicino al Casino, essi deponevano a terra il cataletto, e la gente faceva ressa attorno al cadavere per baciargli le mani. Quattro carabinieri erano pronti, dai lati, a impedire che strappassero in brandelli gli abiti del morto per tenerli come reliquie. E così il marchese poté osservar bene quella bocca chiusa per sempre, che non avrebbe potuto mai più, mai più, ridire a nessuno il segreto da lui rivelato in confessione! Allora si sentì forte, vittorioso, quasi la fine di quell'uomo fosse stata opera sua. E soltanto per decenza non sorrise, quando il cugino Pergola gli disse all'orecchio: «Dev'essere rimasto male don Silvio, non trovando di là il Paradiso!».

«Abbiate fiducia in Dio, figliuola mia!» «Se il Signore voleva proteggermi, non mi toglieva il marito!», ella rispose bruscamente a don Silvio, alzando le spalle. «È peccato mortale quel che dite!» «Si perde anche la fede in certi momenti!» Raccolse la mantellina, se l'aggiustò su la testa, chiuse sdegnosamente attorno al volto le falde davanti e, ritta, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra, attese così che la baronessa la licenziasse. La baronessa in quell'istante parlava sottovoce all'orecchio di don Silvio. «Ma è poi vero?», rispose il prete. «Le donnacce come lei sono capaci di tutto!» «Comanda altro, voscenza ?» Agrippina Solmo non dissimulava l'impazienza di andarsene. «Badate a quel che fate! Uomo avvisato è mezzo salvato», rispose seccamente la baronessa. E la seguì fino all'uscio con gli sguardi aguzzi, tetri di rancore, che sembrava la sospingessero fuori per le spalle. «Questa è la grossa spina che ho nel cuore!», ella esclamò. «Dopo d'aver fatto tanto per indurre mio nipote a darle marito! ... Almeno non c'era più pericolo di vedergli commettere una pazzia! ... Ma già noi Roccaverdina siamo, chi più chi meno, col cervello bacato! Mio fratello il marchese, padre di mio nipote, sciupava tempo e danaro con le corse dei suoi levrieri. Voi non lo avete conosciuto. Si era fatto fare un vestito da burattino, all'inglese, diceva lui, e andava attorno pei paesi vicini a ogni festa di santi patroni, facendo la concorrenza ai ginnetti ... Mio fratello il cavaliere si è rovinato per le antichità! Scava ossa di morti, vasi, brocche, lucerne, monetacce corrose, ed ha la casa piena di cocci. Suo figlio se ne è andato a Firenze a studiare pittura, in apparenza; a buttar via quattrini, in realtà; quasi suo padre non bastasse da solo a mandar per aria il patrimonio! ... Mio nipote, il marchese attuale ... Oh! C'è il castigo di Dio su la nostra casa!» S'interruppe vedendo entrare dall'uscio rimasto socchiuso quattro canini neri, bassi, mezzi spelati, con gli occhi cisposi, quasi vecchi quanto lei, che volevano saltarle tutti insieme su le ginocchia. «La mia pazzia, lo so», ella disse allontanando dolcemente i canini, «sono questi qui. Ma io non rovino nessuno; e per gli affari, me ne vanto, il cervello l'ho a posto. Così lo avesse avuto a posto il barone mio marito! ... Bravo, don Carmine!» Strascicando la gamba, reggendo con le due mani uno scodellone di pane e latte, il vecchio s'inoltrava cautamente per non versare la zuppa, imbarazzato dalla ressa delle quattro bestioline che, alla vista del loro pasto, erano corse ad abbaiargli e a saltellargli attorno alle gambe. Inutile precauzione! Sospingendosi, urtando lo scodellone con le zampe e coi musi, i cani facevano schizzare parte della zuppa sul pavimento; e la baronessa, intenerita, si chinava soltanto ad accarezzarli, chiamandoli per nome, per impedire che si mordessero, esclamando ripetutamente: «Povere bestie! Avevano fame, povere bestie!». Don Carmine, piegato in due, con le mani dietro la schiena, tentennava la testa osservando i bei mattoni di Valenza insudiciati. «Non occorre ripulire; ripuliscono essi», gli disse la baronessa mentre egli si chinava per riprendere lo scodellone vuotato. E leccato bene il pavimento, i cani andavano quatti quatti ad accucciarsi, raggomitolandosi a due a due, sui seggioloni destinati a loro in un angolo, con cuscini a posta. «Anche questa è carità, caro don Silvio!», disse la baronessa accomiatandolo.

PROFUMO

662637
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Abbiate pietà di me!" ella mormorava. Queste parole però non se le sentiva scaturire dal cuore, ma suggerire dalla riflessione. Diceva così, perché si soleva dire così, perché tante altre volte ella stessa aveva detto così. Le pareva, anzi, che le venissero suggerite da un'altra per- sona inginocchiata al suo fianco. "Vergine addolorata! Madre degli sconsolati, abbiate pietà di me!" Si portò le mani agli occhi. La gran luce, che inondava la chiesa dalle finestre della navata centrale e da quelle della cupola, da cui un fascio di sole scendeva appunto, tra un nugolo di formicolante pulviscolo, fino a piè dell'altare, la di- straeva abbagliandola. Ma anche con gli occhi chiusi e coperti dalle mani, ella rimaneva impietrita, nè poteva pregare. Una maligna voce le sussurrava sommessamente dentro l'orecchio: "Non è vero! Nulla vive nelle tue viscere. Per questo rimangono mute". "Santa Madre degli afflitti, abbiate pietà di me!" ella balbettava. Si sentiva mancare il terreno sotto le ginocchia; le veniva di prorompere in un grand'urlo e rovesciarsi sul pavimento e rotolarvisi per quella smania che le attanagliava lo stomaco e le scoteva tutta la persona. E si rizzò in piedi, barcollan- te, atterrita dell'assalto nervoso che stava per scoppiarle addosso, presentito da due giorni. Le pareva di correre, di volare leggera come una piuma, sfiorando appena il suolo. La voce del Padreterno, che la invitava dall'angolo opposto a osservare qualcosa, la inseguiva, la inseguiva tra le colonne e tra i banchi attraversati ra- pidamente, con gli occhi ansiosi fissi all'uscio della sagrestia, quasi non dovesse più raggiungerlo e varcarlo ... Nel corridoio riconobbe appena Patrizio che le veniva incontro, rimproverandola affettuosamente: "Ti ho cercata dappertutto! Dovevi avvertirmi che andavi in chiesa." "Ah, Patrizio! ... Patrizio! ..." E si rovesciò, arcuando il corpo e contorcendo i polsi, tra le braccia di lui. Ora ella restava dimessa, quasi vergognosa, dinanzi a suo marito. "Non tormentarti! Non è niente. Sto meglio." Patrizio le rispondeva con mite sorriso di rassegnazione, sentendo di amarla più fortemente da che la sapeva colpita. Non la rimproverava più d'avere taciuto; la compativa come una bambina un po' strana e viziata che mostrava di vo- lersi correggere. "Dimmi: il dottore si è ingannato?" gli domandò un giorno. "Si è ingannato!" "Lo sentivo!" sospirò Eugenia. "Meglio così." "Perché?" "Perché è meglio che, prima, tu sia guarita perfettamente." "Presto?" "Presto, se stai tranquilla, se sai frenarti." "Baciami! Voglio guarir subito!" "Coi baci non si guarisce." "Resta qui, accanto a me. Sarò buona ..." "E l'ufficio?" "Lascia socchiuso l'uscio. Così almeno potrò vederti; mi basterà." Voleva essere tranquilla, voleva frenarsi, come le raccomandava Patrizio. Di tanto in tanto però il solito sospetto, anzi la certezza dell'odio della suocera le rinasceva in fondo al cuore e le accendeva il sangue. Ella faceva ogni sforzo per cacciar via quella tentazione, per tenerla lontana, ma non sempre vi riusciva; massime nei giorni in cui Patrizio pa- reva volesse sottrarsi a qualunque più piccola tenerezza da parte di lei. Quel chiodo le rimaneva conficcato proprio in mezzo al cuore. E la vecchia ve lo calcava più profondamente ogni giorno! Ah, quel suo silenzio, quegli sguardi diacci diacci, indifferenti a prima vista, ma così cattivi! Patrizio tornava a ripeterle: "È una tua fissazione! E ti fa male. Non voglio sentirne parlare!" Ed ella, come l'altra volta, non gliene parlava più. Non pensarci però era impossibile. "Non mi trattiene mai nella sua camera! Mi risponde appena, con un sì o con un no, quando le rivolgo la parola. Mai non mi dice: Eugenia fa' questo! Eugenia fa' quello! . E sarei tanto felice di servirla! Non mi occorre niente. E si rivol- ge a Dorata piuttosto che a me!" Sì, sì, faceva male a ripensarci, a fermarcisi sopra con viva insistenza; Patrizio aveva ragione. E canticchiava a fior di labbra per distrarsi; e si rimproverava di chiamarla, nel suo interno, sprezzantemente: la vecchia! Come dirle: Mam- ma! intanto? Così avesse potuto ripeterglielo a ogni istante, ella che avea appena conosciuta la sua povera mamma, morta giovanissima soprapparto! Eppure, pensando e ripensando, si sentiva eccitare assai meno di prima, quasi i suoi nervi già cominciassero ad abi- tuarsi. Cedeva, per sfiducia, per stanchezza. Che delusione! S'era ingannata lei, immaginando nel matrimonio una felicità che non c'è, oppure l'avevano tradita le circostanze, le persone. Patrizio? Che cosa s'era immaginata infine? Vita tranquilla, ritirata, consolata da affetto sincero. Carezze! Ba- ci! Cose da nulla, e che pure l'avrebbero resa paga e contenta. Ah! Le lettere di Patrizio l'avevano illusa. E quando, di notte, egli le aveva parlato dalla finestra con quella voce affiochita dalla commozione? L'aveva illusa. Oh, allora egli sembrava un altro! Che parole di fuoco! Che castelli in aria per l'avvenire! Le faceva provare le vertigini. Non aveva mai inteso nessuno parlarle a quel modo! Nessuno le aveva mai detto tutte quelle belle cose carezzevoli, vera musica incantatrice ... E l'aveva illusa! L'aveva illusa! ... Si era forse illuso anche lui! Si rivedeva nella cameretta di Castroreale, nel letticciuolo di ragazza, rannicchiata sotto la coperta. Quante fantasti- cherie, per due anni, in quella bianca cameretta, avanti d'addormentarsi! E quante esitanze, quante lotte, nei primi giorni in cui s'era accorta delle intenzioni di lui, sconosciuto, forestiero, che se la divorava con gli occhi quasi di nascosto, per il dubbio, pareva, di essere scoperto da qualche indiscreto! Otto mesi fa, laggiù! E ora in quella celletta di convento, lontana dal paese nativo, dai suoi, da ogni persona nota! E quello sconosciuto, quel forestiero, che tante volte l'aveva fatta sorridere, allora, per quel suo modo strano di guardarla fisso fisso, pieno di timidezza e di audacia, era già diventato il suo Patrizio! E lei gli apparteneva, corpo e anima! Oh, lei sì, corpo e anima! Ma lui? lui? Non trovava risposta a tale domanda. Spesso però si meravigliava anche di essersela potuta indirizzare, ingrata o perversa ... "Di che cosa posso lagnarmi? Che cosa mi manca? ..." Da qualche settimana aveva preso l'abitudine di affacciarsi alla finestra del salottino, coi gomiti appoggiati sul da- vanzale, con la faccia tra le palme. Fantasticava ora intorno all'una, ora intorno all'altra di queste idee che le pullulavano nel cervello non appena rimasta sola. Affacciàtasi a quella finestra, mèssasi in quella positura, le pareva di sentir ranno- dare la catena delle sue fantasticherie al punto in cui il giorno avanti l'aveva interrotta, con la vista dello stesso paesag- gio, con la stessa luce di sole, di faccia al verde di quella siepe di fichi d'India che circondava l'orlo del precipizio; nel silenzio meridiano, interrotto soltanto dalla soneria dell'orologio del convento, o dal cinguettio di qualche passero, o dal grido rauco delle taccole che nidificavano in cima al campanile. Evidentemente, con la cura ordinata dal dottor Mola, i nervi di lei si andavano calmando. Le stesse cose d'una volta già le producevano impressioni meno vive. Di tanto in tanto, è vero, tornava a sentirsi scotere da capo a piedi, come se il male stesse per ridestàrsele dentro all'improvviso; e ne provava un grande sgomento, prima ignorato ... Ma era- no minacce che svanivano, che svaporavano col solito odore di zagara, e più rapidamente che per l'innanzi. Ora la invadeva una tristezza sfibrante, una specie di rimpianto, un dolore chiuso, che talvolta arrivava fino a farla piangere, ma non più a irritarla, a sconvolgerla, a farla contorcere e urlare. Patrizio l'aveva sorpresa due o tre volte in quella positura, in quella contemplazione: "Che cosa guardi? Che cosa pensi?" "Osservavo quelle donne che stendono il bucato al sole su la siepe di fichi d'India. Vengono ogni quindici giorni; l'ho notato." "Non hai visto?" egli le disse una mattina. "Nella selva sono fiorite le rose. Me l'ha detto il Padreterno." "Non me ne sono accorta." "Non te ne curi più, dovresti dire!" "È vero. Le ho trascurate da qualche settimana." "Come ti senti?" "Benissimo." "Dimmi la verità!" "Non ti nascondo più nulla, lo sai." Ella riprese la sua posizione, coi gomiti sul davanzale e con la faccia tra le mani. Patrizio la guardò alcuni istanti, un po' impacciato; pareva volesse soggiungere qualche altra domanda; poi tornò zitto zitto in ufficio. Avrebbe voluto domandarle: "Perché sei cambiata? Che cosa accade nel tuo cuore?" E glien'era mancato il coraggio. Seduto al tavolino, con dinanzi le lunghe liste di cifre da rivedere, da addizionare, da riportare nei diversi registri che lo ingombravano, egli, lavoratore assiduo e paziente, si distraeva di tratto in tratto, abbandonandosi a rimuginare inces- santemente la tormentosa interrogazione che da parecchi giorni lo assaliva all'improvviso: "Perché è cambiata? Che cosa accade nel suo cuore?" Ora udiva di rado l'allegro e sommesso canticchiare di lei, che dall'uscio socchiuso s'insinuava nello studio quasi per dirgli: "Bada: sono qui e penso a te! Dimentica un po' coteste brutte cartacce. Vieni a darmi un bacio!". Non levava gli occhi dai registri, non interrompeva il lesto calcolo delle cifre; sentiva però un delicato piacere a quel mormorio di voce femminile che gli aleggiava attorno e gli penetrava nel più profondo del cuore. E se alzava la testa per trovare una certa lettera alfabetica sul dorso dei volumi in-folio del catasto, allineati nei rozzi scaffali lungo le quattro pareti della cella, andava difilato a prendere il volume occorrente, senza cedere alla tentazione di affacciarsi nella camera dove Eugenia canticchiava lavorando presso la finestra, in quei felici primi mesi dell'insediamento nell'ufficio di Marzallo. Bei giorni! Sovente ella spingeva, zitta zitta, tra i battenti dell'uscio la testina con capelli neri e lucidi, lievemente ondulati; e re- stava là qualche istante a guardarlo in silenzio, finché non le diceva, sorridendo: "Ti ho sentita!" "Guardami dunque!" Egli continuava il suo lavoro, scrivendo una cifra qua, un'altra là, consultando qualche foglio, svoltando una pagina, e poi rispondeva: "Ecco, ti guardo!" Eugenia gli faceva un rapido saluto con la mano e spariva. Bei giorni! Qualche volta ella picchiava all'uscio: "Vuoi un sorso di caffè?" "Grazie; più tardi." "Si fredderà." "Non sarà gran male." Eugenia, tenendo in mano la tazzina fumante, sospingeva l'uscio con gesto di fanciullesco dispetto, ed entrava don- dolando graziosamente la testa, facendo una smorfiettina con le labbra: "Non deve freddarsi ... Oh, non fare il cipiglio! Vado via subito." "Qui si viene soltanto per affari" le diceva, scherzando, nel restituire la tazzina vuota. "Grazie. Questa volta, passi!" E riprendeva a lavorare, brontolando rapidamente le cifre, seguendone le filze con la mano che teneva la penna, con- tinuando l'operazione quasi non l'avesse punto interrotta; ma più svelto, ma con qualcosa che gli sorrideva internamente e gli rendeva gioconde fin le cifre. Ora non più! Quel sommesso gorgheggio femminile era cessato; quelle gentili apparizioni d'un istante interrompevano assai ra- ramente la monotonia del suo arido lavoro. I capricci delle scappatelle in fondo ai corridoi fuori mano, o nella selva, o sulla terrazza, in diverse ore del giorno, specie a sera inoltrata, nelle serate di luna piena, o nella tiepida oscurità protet- trice delle notti estive senza luna; quei capricci, che tante volte lo avevano conturbato perché gli era parso rivelassero in Eugenia un che di malsano e sensuale, da cui veniva urtata la sua rigida idealità; ora che ella restava volentieri sola, in camera o in salotto, anche senza essere occupata in uno dei soliti lavorini di cucito e d'uncinetto, quei capricci egli già cominciava a rimpiangerli, quantunque tuttavia non lo confessasse apertamente a se stesso. Fin i contrasti, le lotte per attutire o infrenare l'irritazione di lei a proposito del contegno della suocera; gli scoppi di pianto e gli accessi nervosi, sopravvenuti a sconvolgere la tranquillità della sua vita e ad atterrirlo per l'avvenire; fin questi talvolta gli sembravano preferibili a quella nuova fase d'indifferenza che gli dava viva inquietudine. "Cosa strana!" pensava. Non avea sempre desiderato che fosse così, per quel gran bisogno di riposo che egli provava dopo le tante fiere agitazioni e i tanti profon- di dolori della sua misera giovinezza? Perché dunque si sentiva preso da malessere, osservando che, col decrescere della malattia di Eugenia, il carattere di lei veniva appunto conformandosi all'idea che egli s'era fatta di un'inalterabile felicità domestica, di una esistenza isolata e quasi fuori del mondo? "È cambiata? Che cosa accade nel suo cuore?" Non aveva proprio desiderato questo, no, mai! E perciò scrollava la testa e si passava la mano su la fronte per scac- ciar via l'irritante pensiero. "È assurdo! È impossibile!" Riprese a lavorare, assorbendosi nei calcoli numerici. Intanto, a dispetto dell'attenzione richiesta dalle operazioni a- ritmetiche, la dolorosa domanda gli insisteva, gli insisteva tuttavia dentro il cervello. Si levò dal tavolino, andò di là, nella stanza dove i commessi lavoravano o fingevano di lavorare, come egli soleva benignamente rimproverarli, e parve volesse sfogare contro di essi il malumore. I commessi si guardarono negli occhi, meravigliati. "Quest'Agente è una dama!" dicevano spesso tra loro. "Una dama a dirittura." E nei rari momenti di severità, si borbottavano da un tavolino all'altro: "Cattivo tempo!" "Tramontana!" "Scirocco!" Poco dopo, nella stanza si sentì soltanto lo stridere delle loro penne su per le colonne degli stampati e sui fogli di carta bollata dei certificati catastali, mentre Patrizio andava da un tavolino all'altro esaminando una registrazione, ri- scontrando una cifra, rimproverando Ciancio per una cassatura, Griffo per una omissione, Zuccaro per l'eccessiva len- tezza di una copia. "Cattivo tempo!" "Tramontana!" "Scirocco!" I commessi si ammiccavano, facendo versacci.

Abbiate pa- zienza; sarò franco; è il mio difetto. Ho ripensato lungamente le vostre parole dell'altra volta, al camposanto: "Non ho saputo farmi amare!". Perché? Il nodo è qui. Si tratta di un disordine morale che ne produce uno fisico, a modo mio di vedere. Io sono codino, credo nell'anima; l'uomo-macchina non mi ha mai persuaso. Se voi mi domandaste in che ma- niera anima e corpo stiano uniti, vi risponderei che non lo so. Nessuno al mondo lo sa; e perciò non mi vergogno della mia ignoranza. Che stiano insieme, lo veggo. Il come, lo saprò, forse, un giorno. Il male è che non potrò venire a dirve- lo, perché allora sarò morto ... Dio vuole così! Sia fatta la sua volontà." E con accento più fermo riprese: "Ascoltatemi bene. Se avete fiducia in me, dovete confessarvi e al medico e all'amico. Con voi non posso servirmi d'una pietosa bugia come, ricordate? con la vostra signora. Il male pareva vinto. Non più crisi, non più odore di zagara. Ora siamo daccapo. Le malattie nervose, si sa, fanno simili scherzetti, tortura di noi poveri medici. Nei tempi andati, le guarivano i preti a furia di acquasanta e di esorcismi. Dicevano: "Qui c'è lo zampino del demonio!" e agivano in conse- guenza, secondo i precetti della Chiesa. Mettiamo pure che il demonio non ci entrasse per niente; l'acqua benedetta però faceva spesso il suo buon effetto, come le pillole di midolla di pane che noi somministriamo a certi fantastici malati. Oggi la scienza non si degna di mostrarsi ciarlatana neppure a fin di bene. È ciarlatana per un altro verso, se pretende di saper guarire meglio di prima. Guarire? Andiamo! Ci sono femminucce che le danno dei punti coi loro empirici impia- stri. Io, quando capita, non ho rossore di servirmi di questi. Non sono scientifici, è verissimo, ma guariscono; ed è l'im- portante. Dunque, niente diavolo. Vi è però un quissimile del demonio: la fantasia eccitata, il pensiero insistente, qual- cosa che lavora sotto sotto e mette i nervi in rivoluzione. Non vi spazientite. Cerco di spiegarmi chiaro. Già, noi vecchi siamo verbosi per natura; bisogna compatirci." "Parli pure. Scusi. Un momentino." Patrizio aperse l'uscio e guardò Eugenia stesa supina sul letto. Un brivido gli corse per la schiena. Nella penombra della camera - col pallore diffuso sulla faccia, il disordine dei capelli scomposti nella convulsione e la immobilità del- l'atteggiamento - la povera Eugenia pareva proprio morta. "È tranquilla" disse. "Starà tranquilla un pezzo" rispose il dottore. "Chiudete quell'uscio, lasciatela riposare e venite a sedervi qui, accan- to a me. Col confessore medico, non occorre che il penitente si metta ginocchioni ... Dunque: "Non ho saputo farmi amare!". Dev'esserci di mezzo qualche equivoco. Ricordo altre vostre parole strane davvero ..." "Le dirò tutto!" esclamò Patrizio, sedendosi e stringendogli le mani. "Non ho più ritegni. Da due settimane una tra- sformazione avviene in me; mi sento divenire un altro; comincio a intravedere qualcosa, io che finora sono stato cieco, brancolante tastoni nella vita! ... Le dirò tutto! Sì, i malati qui siamo due; io, forse, il più grave. Porto da lungo tempo il male con me, secondandolo, aiutandolo, afforzandolo senza accorgermene, credendo anzi di far bene. Non so- no mai stato un uomo, ma un fanciullo!" "Bel difetto" disse il dottore sorridendo. "Oggidì, invece, corre il difetto contrario: i giovani invecchiano troppo pre- sto. Io, sappiatelo, a sedici anni, sapevo appena un po' di grammatica, e facevo il chiasso per le vie coi ragazzi miei pari, senza berretto in testa, con indosso i vestiti smessi di mio padre, adattati; allora usava così! Fra poco avrò settant'anni, e non mi peseranno, statene sicuro. Fanciullo? Eh, via! Non ve ne affliggete. Non v'interrompo più." E non lo interruppe per quasi un'ora. Solamente, di tanto in tanto, scoteva la testa, aggrottava le sopracciglia, o striz- zava un occhio, pelandosi la barbettina attorno al mento, come soleva fare nei momenti scabrosi. Era commosso e stupi- to dell'eloquente sfogo di Patrizio; non gli levava gli occhi dal viso, e talvolta lo imbarazzava con quella mimica conti- nuata, fino a che Patrizio, portandosi le mani alla testa, non conchiuse: "È stato così! ... È stato così ..." Aveva le lacrime agli occhi. Tutta la triste e solitaria sua vita gli era sfilata rapidamente dinanzi, come in un sogno pauroso, come una straziante fantasmagoria. Nel terreno del suo cuore, sconvolto da tante sventure, era germogliato un ideale purissimo, natural prodotto dell'isolamento e della timidezza diventata la caratteristica della sua indole mite e quest'ideale lo aveva illuso, anzi ingannato! Lo aveva fatto soffrire, lo faceva soffrire tuttavia! "Vostra madre aveva ragione" disse il dottore. "Conosceva la vita e conosceva a fondo il proprio figliuolo; per ciò non voleva che voi prendeste moglie." "Era gelosa." "Come tutte le madri; forse, soltanto un tantino di più. Vostra moglie, dall'altro lato, ha ragione anche lei. Ama, ed è naturale che voglia essere amata come si deve essere amati a questo mondo, quando non si è santi addirittura. I santi la- sciamoli lì; son altra gente. Dio largisce loro doni soprannaturali; le leggi comuni per loro non valgono. Il matrimonio, per esempio, può essere tra essi l'unione di due anime e nient'altro. Lasciamoli là; sono santi, beati loro! Voi, la vostra signora, io, tutti gli altri siamo misera carne. E la carne non è poi gran brutta cosa. L'ha fatta pure Domeneddio con le sue proprie mani, e bisogna accettarla come l'ha fatta lui che sa bene quel che fa, molto meglio di noi che non sappiamo niente." "Capisco, capisco!" "Vostra moglie è una preziosa creatura d'una bontà rara, d'una semplicità più rara ancora. Non la mettete a prova. Potrebbe darsi il caso - non vi offenda la ipotesi - che la sua forza di resistenza non fosse proprio invincibile. La ecces- siva sensibilità, le circostanze, le tentazioni ... Il mondo è fatto così. I gravi guai domestici, le terribili tragedie del- le passioni spesso non hanno altra ragione. I medici ne sanno qualcosa; i confessori assai più. Oh, non parlo per spaven- tarvi!" si affrettò a soggiungere il dottore, vedendo un gesto di Patrizio. "Dice bene!" egli rispose. "Da due settimane mi ribollono nella mente le stessissime cose che lei mi ha dette. Solo quest'ultima possibilità non mi era mai passata pel capo. Non accadrà!" "Certamente. E persuadetevi pure che vostra madre, dall'altro mondo, ora vede le cose in maniera molto diversa di come le vedeva con gli occhi terreni; il vostro rispetto filiale può stare tranquillo; questo mutamento non le dispiacerà; le sarà piuttosto di consolazione, perché i morti soffrono degli sbagli commessi quaggiù, vorrebbero correggerne le con- seguenze e non possono. Il loro purgatorio non è forse altro. E non dimenticate, soprattutto, che la vita è molto più faci- le che non paia: e che noi, noi stessi, con le nostre fisime, con le nostre stoltezze, ce la rendiamo difficile e dura!" Patrizio lo guardava, traboccante di gratitudine. Quel vecchietto, risecchito dagli anni, col naso adunco, che gli scrollava dinanzi affermativamente la strana testa schiacciata, gli sembrava nobile e bello in quel momento; e lo avreb- be abbracciato, e baciato, se non lo avesse distratto la nuova agitazione che gli faceva ripetere dentro di sè: "Oh! Non accadrà! ... Non accadrà." L'accesso nervoso, contro ogni previsione del dottore, si era ripetuto verso sera e nella mattina del giorno seguente. Gli tenne dietro un grande abbattimento. Eugenia non tollerava la luce, nè i rumori più lievi. Il dottore però si accor- se che quella repugnanza per la luce non era soltanto degli occhi. La malata voleva restar sola, allo scuro, per pensare, per fantasticare con maggior libertà. La crisi dello spirito era dunque più grave che non apparisse. Questo lo rallegrò. Guarito lo spirito, sarebbe venuta, di conseguenza, la guarigio- ne del corpo. E ne disse qualcosa a Patrizio per consolarlo, per spingerlo a sormontare le ingenue titubanze. Non ce n'era più bisogno. Un lievito di vaga gelosia fermentava nel cuore di Patrizio. Fino a due giorni fa, egli non aveva mai sospettato che il malinteso tra sua moglie e lui sarebbe potuto diventare una rottura o peggio. Si sentiva tutta- via amato in quel dispetto di Eugenia che non si vedeva amata a modo suo; il chiuso rancore, lo sdegno di lei gli sem- bravano una forma dell'amore, non bella, nè invidiabile, ma da contentarsene in mancanza di meglio. Non era egli rima- sto e non rimaneva tutto di lei pur soggiacendo alle influenze della propria mitezza ai bisogni della gelosia materna, alle conseguenze dell'educazione e dei casi della vita? Così Eugenia rimaneva tutta di lui anche nello slancio vacuo, nella ricerca inutile, che rappresentavano la direzione di quel povero cuore, non ismentita un solo giorno da che il matrimonio li aveva uniti. Il dottore intanto aveva detto benissimo: "Ogni resistenza ha un limite!". Riflettendo intorno al possibile disastro, Patrizio dava sbalzi, tendeva le braccia quasi ad afferrare la dolce creatura che vedeva sfuggirsi di mano. "Non accadrà! Non accadrà!" Sentiva fitte punture di rimorso, smaniava domandandosi: "Farò in tempo?" E i primi tentativi lo scoraggiarono. Eugenia gli resisteva; non sopportava una carezza, respingeva i baci, e con tale vivacità da sembrare che le ispirassero orrore. Infatti era proprio così. Sconvolta, indignata dal ricordo dei baci di Ruggero, dopo lo sbalordimento di quel giorno, ella avrebbe voluto portarli via assieme con la pelle della fronte e delle labbra. Invece, macchia indelebile, la loro im- pronta persisteva; e l'idea che le labbra di Patrizio dovessero posarsi là dove si erano posate quelle dell'altro le produce- va intensa nausea, la faceva fremere da capo a piedi. "Baciata! ... Baciata!" Le pareva tanto enorme, che in certi momenti dubitava di quel ch'era accaduto, cercava persuadersi di esserselo so- lamente sognato. E quando non poteva dubitare più, abbrividiva al pensiero che, pur indignandosi, pur non volendo, a- himè, forse sarebbe stata trascinata, un giorno o l'altro, molto più in là! "E per colpa tua!" avrebbe voluto gridare come una forsennata a Patrizio, vedendolo aggirarsi per la camera, a capo chino, con le mani dietro la schiena, senza sospetto, senza turbamento, soddisfatto del presente, sicuro dell'avvenire! "Già stai meglio, è vero?" Ella chiudeva gli occhi, e si stirava sul canapè, irritata da quella domanda, sempre la stessa! Ma quando Patrizio non le domandava niente e le si accostava per accarezzarle i capelli, o si chinava a darle un bacio, mormorando qualcosa che non prendeva suono distinto e non si lasciava intendere, gli opponeva subito le braccia irrigidite dallo sdegno: "Soffro! ... Lasciami stare! ... Soffro!" Non gli credeva più; si sentiva irrisa da quel che le pareva sembiante di carezza e di bacio, mostra senza significato nè valore alcuno. "Soffro! ... Lasciami stare! ... Soffro!" Non mentiva: soffriva torture ineffabili, e si augurava di morire. Ah, se uno di quegli accessi nervosi l'avesse fatta restar là, stecchita sul colpo! Ma no, non sarebbe morta così presto! Doveva penare ancora, Signore Iddio! Che delitti aveva mai commessi da doverli scontare così duramente?

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Dio faccia che un giorno non mi abbiate a dar ragione! - Il dottor Cymbalus scrisse una prescrizione sur un foglietto di carta e la porse ad Hermann: - Dopo sei giorni di questa cura, tornate qui. Tenteremo -. Hermann si precipitò sulla mano del maestro e la coperse di baci. William si sentiva stranamente commosso. Una settimana dopo, Hermann e William picchiavano al cancello della villetta. In un angolo della camera larga ed ariosa era preparato il letto pel paziente. Sopra il tavolino rotondo posto nel centro, vedevansi due boccette con liquidi rossi e nerastri, fasce ripiegate, filacce e una piccola borsa chirurgica. William guardò questi apparati con occhio indifferente. Il dottor Cymbalus gli ordinò di mettersi a letto, poi gli somministrò il cloroformio. Mentre Hermann, aiutato dal servo del dottore, rivoltava bocconi il suo povero William reso insensibile, il dottore cavava fuori dalla borsina due aghi e una lancetta, preparava due fasce e stendeva sopra cuscinetti di filacce un po' di quei liquidi rossi e nerastri delle boccette, che subito si rapprendevano. Era sopra pensiero. - Lasciatemi solo - egli disse; - e non entrate prima che io suoni -. Trascorsero dieci minuti; durante i quali Hermann, che origliava dietro l'uscio, non sentí altro nella camera che il passo affrettato del dottore dal letto al tavolino e dal tavolino al letto. Benché non dubitasse menomamente della riuscita, era agitatissimo, tremava, non vedeva l'ora che l'uscio della stanza di William fosse stato aperto. Il dottore suonò. - Tenetevi pronti - disse, vedendo entrare Hermann e il servitore. - Appena si sveglierà, le sue convulsioni saranno tremende -. Un lento mugolio annunziava da lí a poco il ritorno ai sensi dell'Usinger. Le filacce, trattenute da due fasce nel mezzo della spina dorsale e all'occipite, indicavano il posto dove l'operazione aveva avuto luogo. Non vi si scorgeva traccia di sangue. William stirava le braccia con moto convulsivo, poi le lasciava cadere come sfinite. Tentò svoltarsi, ma non riuscí. Lo lasciarono fare. Il dottore aveva raccomandato intervenissero soltanto nel caso che quello cercasse di strapparsi le fasce. Il mugolio diventava a poco a poco un urlo prolungato. William mordeva i cuscini, tormentava con le mani le lenzuola e le materasse, si agitava con tutta la persona, e urlava: - Ahi! ahi! La morte! La morte! Ahi! Ahi! - Quando videro che tentava di strapparsi la fasce, Hermann e il servo lo afferrarono ai polsi. Era livido, colla fisonomia contratta, cogli occhi terribilmente spalancati. - Ahi! ahi! - continuava ad urlare. - La morte! La morte! - Vi è da temere, maestro? - domandò Hermann ansioso. - Tutto va bene - rispondeva il dottore colla soddisfazione dello scienziato che ha ottenuto una vittoria. William restò per alcuni minuti come un corpo inerte. Il dottor Cymbalus gli tastava il polso. - Le convulsioni ricominciano; saranno le ultime, ma piú violente -. L'accesso riprese appena il dottore aveva terminato di parlare, ma non durò molto. William ricadde spossato. - Lasciamolo riposare - disse il dottor Cymbalus -. Già si sviluppa la febbre. È la natura che si solleva contro la violazione delle sue leggi! - William dormí tranquillamente quattr'ore di fila. Quando svegliossi, i suoi occhi smarriti si fissavano sulle persone e sugli oggetti intentamente, come per riconoscerli bene; poi passavan via, senza lasciar capire se gli avesse o no riconosciuti. Le sue mani brancicavano nel vuoto, sfregavano le coperte; poi si tastava il viso, il petto, lo stomaco, e tornava a b rancicare qualcosa invisibile. La sua voce era un lamentio basso, interrotto, una specie di singhiozzo. Durò cosí due giorni. Al terzo riconobbe Hermann e gli strinse la mano: sorrise al dottore. - Soffro molto - diceva; - soffro molto qui -. E gl'indicava il petto. - Non è nulla - rispondeva il dottor Cymbalus. - Passerà -. Quando questi gli tolse le fasce, Hermann vide sulla spina dorsale e sull'occipite di William due piccolissime cicatrici, due graffiaturine nere; niente altro. William si sentiva uscire a poco a poco da un profondo sbalordimento. Le idee gli erravano per la mente, gli sfuggivano, gli tornavano innanzi come nuvoloni sballottati da un temporale; poi cominciavano ad ordinarsi simili a una folla di persone entrate confusamente in una sala che riescono infine a trovar tutte il lor posto. Capiva che doveva essere accaduto qualcosa di straordinario dentro di lui; provava un vuoto immenso e un benessere ineffabile, ma non si ricordava bene: credeva d'aver sognato. - Hermann, il dottor Cymbalus, il letto, la stanza, l'operazione subita non erano fantasmi creati dalla sua fantasia delirante? Si era forse ucciso, e quello stato di calma era la sua nuova esistenza in un mondo migliore? Finalmente ebbe la certezza della realtà. - Consummatum est! - gli disse il dottor Cymbalus scotendo la testa tristamente. - Ella è il genio del bene! - rispose William. - Dite piuttosto il genio del male, capace di distruggere e non di edificare! - Ah, dottore, come son lieto di non aver ascoltato i suoi consigli! Io gusto una pace, una felicità che non credevo possibili sulla terra! - Infatti era una felicità vera. All'eccessivo tumulto dei suoi affetti succedeva un silenzio completo. I suoni gli aliavano intorno alle orecchie, sussurrandovi le loro note senza decidersi ad entrarvi. I colori venivano a posarglisi sulla retina colla delicata precauzione di chi non vorrebbe farsi scorgere. Quella parola misteriosa della malinconia dei tramonti, del mormorio delle acque, del profumo dei fiori, delle linee della campagna, della serenità dei laghi, dell'altero slanciarsi dei monti al cielo, del mesto sprofondarsi delle vallate; quella parola misteriosa che tutti cerchiamo, che tutti ci sforziamo a riprodurre poeti, romanzieri, pittori, scultori, maestri di musica, quella viva ed eterna parola dell'universa natura, lui non la sentiva piú o non la intendeva. Viveva come circondato da un'immensa so litudine, fra le vaste ruine d'un mondo una volta animato. E si sentiva felice, e s'inorgogliva di se stesso. - Come era superiore a quanto gli stava attorno! Nulla giungeva piú a fare nessun'impressione su lui! - Ricordava sua madre, ricordava Ida Blumer, le sole creature ch'egli avesse immensamente amate e per le quali il suo cuore aveva tanto sofferto; ma non provava piú né commozione, né rimpianto: - Era vendicato di esse! - Gioiva del suo trionfo. Durante questo tempo, avvenimenti inaspettati mettevano sossopra il palazzo della contessa K***. La sventura avea spetrato quel cuore di madre, e il pentimento e il rimorso la conducevano alla casa del figliuolo cosí spietatamente abbandonato e, una volta, fatto scacciare dai suoi servitori. William abitava insieme ad Hermann. Quella stessa vecchia che un giorno lo introdusse nella stanza di studio del suo amico gli annunciò la visita d'una gran dama. - Passi - rispose smettendo di lavorare. Una signora vestita a lutto, con un fitto velo sugli occhi si presentava sulla soglia. Esitava ad inoltrarsi. William le era andato incontro. Allora quella signora avea sollevato il suo velo ed era rimasta a testa bassa innanzi a lui. - Mia madre -. William non si era scomposto. Ma la signora, fulminata da quella freddezza, lo fissò in volto. Non vi traspariva nessun indizio di commozione repressa. Suo figlio la guardava attentamente, ma con impassibile tranquillità. Al grido straziante della contessa, e al vederla fuggire inorridita, William avea alzate le spalle ed era tornato al tavolino, a disegnare figure di geometria. Otto giorni dopo, passando davanti la casa dove si espongono i cadaveri non riconosciuti delle persone perite di morte improvvisa o violenta, avea veduto molta gente affollarsi sull'uscio. La curiosità lo avea spinto ad entrarvi. Sopra una bara giaceva il cadavere d'una giovane dai diciotto ai vent'anni. Bella, vestita con eleganza, aveva i capelli rappresi sulla fronte e sul collo; gli abiti ancora bagnati indicavano il genere di morte scelto dalla infelice per finire i suoi giorni. - È Ida Blümer - egli disse; - la riconosco -. Condotto davanti al commissario, vi fece la sua deposizione. La vista di quel cadavere lo aveva lasciato indifferente. Eran passati sei anni. - Che cosa voleva dire quella stanchezza vaga, indefinibile che cominciava ad insinuarsi nella sua vita regolare e monotona? Quei confronti del passato col presente, che gli erano stati cagione di tanta allegrezza, perché ora prendevano un accento di lieve rimprovero? - Fu spaurito di questi sintomi e cercò di svagarsi. Ma come sfuggire la memoria? Si vedeva perseguitato da essa perfino nei sogni. Giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, la stanchezza e la noia aumentavano. Non poteva far nulla per arrestarle; si sentiva inetto a resistere. - La gran legge del lavoro! - Aveva un bel ricordarsene; non gli riusciva di lavorare. Si stancava, si annoiava subito. Gli mancava qualcosa che gli rendesse caro il lavoro. La sua solitudine gli faceva spavento. I momenti piú tristi della sua vita gli parvero preferibili, immensamente, a quella calma di morte che l'operazione del dottor Cymbalus gli avea procurata. - Mamma! Ida! Mamma! Ida! - chiamava ad alta voce, chiuso nella sua stanza, senza voler vedere nessuno. Tentava di riscuotersi con quei nomi dal torpore che lo teneva incatenato fra i suoi terribili nodi. - Ma nulla! - Quelle parole: "Mamma, Ida" gli risuonavano nell'orecchio come due voci che non avessero mai avuto alcun senso per lui. - Ah! Quell'ore di pianto, di disperazione, di strazio mortale passate a guardar da lontano le finestre del palazzo K*** nelle notti d'inverno! Ah! quell'ore d'agonia, quando si struggeva di abbracciare sua madre che perduta tra le feste e i conviti piú non si ricordava di lui! Quelle erano state ore! E quando i furori della gelosia, i folli propositi di vendetta gli avevano sconvolto il cervello, al tradimento di Ida Blümer? Che emozioni! Che divini dolori! ... Ed ora piú nulla! Nulla! Un giorno corse d a sua madre. La contessa K*** si preparava per un viaggio lontano. Nel momento che William saliva le scale del palazzo ricordando la trista scena di parecchi anni fa, essa trovavasi nel suo elegante salotto, abbandonata su una poltrona, col viso fra le mani, piangente. Una cameriera levava della roba da un mobile antico incrostato di avorio e di madreperla, e nominato un oggetto, aspettava che la sua signora le rispondesse sí o no con un cenno del capo. William irrompeva nella stanza. La contessa pareva ammattita dalla gioia. Rideva, piangeva, lo abbracciava, lo carezzava, tornava ad abbracciarlo. William non rifiniva dal baciarla: - Il contatto di quelle labbra dovea fargli rivivere il cuore! Chiamami figlio! Chiamami figlio! - Figliuolo, figliuolo mio! - ripeteva la contessa. Il rimorso, il pentimento, la gioia rendevano sublime l'accento di lei. William smaniava; si scioglieva dalle braccia di sua madre, le metteva una mano sulla fronte per tenerle sollevato il volto: - Voleva contemplarlo bene e assorbire tutti gli splendori di quegli occhi! Qui le tue mani, sul mio cuore! ... Premi forte! ... Ancora piú forte! Ma no! No! Quel terribile gelo non voleva fondersi. Il suo cuore era morto per sempre! Non un palpito! Non una leggiera emozione! Baciava forse una statua? Era un'infamia! Oh, maledetta quella scienza che lo aveva cosí ridotto! - La mattina dopo, senza dir nulla al suo amico, William Usinger prese la strada che conduceva alla villetta del dottor Cymbalus. Era giorno di festa. Allegre brigate di uomini e di donne, sparse pei prati che fiancheggiavano la strada, conversavano allegramente o ballavano al suono del violino e del contrabasso. William si fermava a guardare quelle persone felici; ma non capiva piú nulla di quella loro musica, e di quelle loro canzoni. Quei visi sorridenti gli sembravano atteggiati a scherno o a disprezzo per lui. Il dottor Cymbalus lo ricevette colla sua solita cordialità. William gli espose quel che provava. - Io non v'ingannavo, figliuolo mio! - gli disse il dottore diventato tristo e meditabondo. - Forse sarebbe stato meglio vi avessi lasciato mettere in atto la vostra disperata risoluzione! Non credete per questo che vi fossi indotto da una vanità di scienziato, per tentar l'esperimento delle mie scoperte. Voi calunniereste il mio cuore d'onest'uomo che la scienza fa palpitare vivamente per qualunque creatura che soffre. Fui sedotto da una speranza: osai sperare che la natura non sarebbe stata inesorabile. E ravate cosí giovane! Avevate tanto sofferto! Ma la natura non muta le sue ineluttabili leggi. - Addio, dottore! - disse William. - Abbiate coraggio, abbiate coraggio! - Avrò coraggio -. Il dottor Cymbalus dalla finestra del suo studio seguí coll'occhio il giovane che s'allontanava a capo chino. Lo vide fermarsi per consegnar qualcosa al servo poi sparire nel campo vicino, dietro un folto gruppo di alberi. S'udí un'esplosione d'arma da fuoco. Il dottore corse in fretta, accompagnato dal servo, verso il punto dove l'Usinger era scomparso. William giaceva a terra immerso in un lago di sangue, col petto squarciato da una terribile ferita. Quando il servo consegnò al dottore il foglio ricevuto alcuni momenti prima, il vecchio scienziato lo aperse tremando dalla commozione, colle lacrime agli occhi. Esso conteneva queste brevi parole: "Lascio tutto il mio patrimonio al dottor Franz Cymbalus ed al mio amico Hermann Strauss perché con esso istituiscano una scuola gratuita dove si insegni ad Amare!" Firenze, settembre 1865@. 1865.

Racconti 3

662746
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma non abbiate nessun rimorso sul serio; io non mi sento infelice. E se soggiungessi che vi sono grato di avermi guarito un po' spietatamente, non importa, di una passione che minacciava di diventar pericolosissima, credetelo, Signora, non mentirei. Non vi accadrà tanto facilmente di far del bene senza volerlo. Vi lascio. È l'ora in cui, ogni giorno, esco a passeggiare su la spiaggia per riempirmi i polmoni di benefica salsedine di aria marina prima di riprendere a lavorare. Vi sono immensamente grato anche di questo beneficio. Sappiate conservarvi intanto ... il vostro «manichino da gran sarto»! E perdonatemi la piccola malignità di rammentarvi, finendo, questa veramente pittoresca frase che fa onore al vostro buon gusto, se non alla vostra sincerità. Cordiali saluti. RICCARDO

. - Abbiate pazienza; ho la mania degli aneddoti, delle storielle; ma essi concludono assai piú di certi ragionamenti, sono anzi ragionamenti che hanno preso carne e ossa. Se, per esempio, uno scienziato vi esponesse, astrattamente, che si potrebbe procurare negli animali lo sviluppo intellettuale che sembra assoluto privilegio della razza umana, e ve ne spiegasse le ragioni teoretiche, voi avreste il diritto di stimare un po' fantastica tale affermazione. Ma se però venisse un altro scienziato, e vi mettesse sotto gli occhi ... - Io giudicherei, a priori, che costui è piú bestia di quella bestia da lui pretesa di umanizzare! - E ragionereste ... da teologo! Io invece direi: stiamo a vedere. E spalancherei bene gli occhi e me li strofinerei ripetutamente guardando. Per disgrazia, ci sono ... dei teologi anche tra gli scienziati. E quando il professore Schitz, bravo tedesco, corto, grasso, con candida chioma spiovente dietro il collo e candida barba arruffata, presentò la sua memoria intorno all'esperimento da lui fatto di umanizzare, direbbe l'abate Venini, una scimmia, l'Accademia di Berlino rigettò la memoria come indegna della serietà di un gran consesso scientifico. C'è dei teologi dappertutto, cioè gente che non vuol vedersi guastare le uova nel paniere. - È feroce questa sera, dottore! - Oh, baronessa! Non mette conto d'inferocire per nessuna cosa di questo mondo: è il mio modo di pensare. Figuriamoci poi per una discussione, e qui, dove lei gentilmente ci permette di fare quattro chiacchiere alla buona, quando non interviene col suo spirito, con la sua grazia, e le altre signore pure. - Si fa adulatore, per scusarsi. Zitto! E ci parli piuttosto ... - Della scimmia del professor Schitz? ... Era un bel scimmione, da lui comprato ad Amsterdam per controllare gli studi del suo amico dottor Garner intorno al linguaggio di questi animali ... Non aggiungo: nostri progenitori, per non far andar in collera l'abate e anche perché soltanto gli ignoranti si lasciano scappar di bocca tale stupidaggine, che i veri scienziati non si son mai sognati di dire. Io mi trovavo allora a Breslau ... - Si trova dappertutto, quando occorre - lo interruppe maliziosamente la baronessa. - Pur troppo, la mia vita è stata un continuo errare di qua e di là, ma non per ciò un divertimento, gliel'assicuro. Mi trovavo a Breslau, e avevo ammirato piú volte il magnifico scimmione in casa del professore, che abitava una villetta fuori della città in un delizioso tratto di campagna. Una sera trovai il professore lietissimo di avere aggiunto due altre parole, o, per dir meglio, due altri suoni o gridi a quelli accertati dal dottor Garner. «Io già posso fare una brevissima conversazione, sempre la stessa, col mio animale, e intenderlo ed essere inteso da lui». E si stropicciava le mani dalla sodisfazione. «Ma questo è poco, molto poco - soggiunse. - Mi è venuta un'idea. Bisogna però maturarla. Con voi posso parlare senza reticenze; so che non vi stupite di niente». Lo ringraziai del complimento e mostrai di attendere la confidenza. «Mi son domandato piú volte - egli riprese dopo di aver riacceso la sua grossa pipa - perché le facoltà iniziali delle bestie non oltrepassino mai, neppure nella domesticità, il limite, che può variare fino a un certo punto, da cui vien segnata la distinzione delle diverse razze animali. I cani, i gatti, fin gli asini ammaestrati non provano niente. Si è visto che non trasmettono per eredità quel po' che hanno appreso a fare a furia di frustate e di fame. Atti imitativi e null'altro. Eppure essi hanno nervi, materia bianca e grigia nel cranio, e, probabilmente, un po' di quel che noi chiamiamo anima pur di dargli un nome e non sappiamo ancora che cosa sia. I cani, per esempio, possiedono affettività e intelligenza con cui ragionano talvolta cosí bene da farci maravigliare. Vi sono uomini che non arrivano a raggiungere lo sviluppo intellettuale di alcuni di essi, ma noi conosciamo la ragione di tali anormalità patologiche nel maggior numero dei casi. Siamo proprio sicuri che per gli animali si tratti di casi normali? Io comincio a credere di no. E voglio tentare di risolvere quest'arduo problema». «Tentare non nuoce» risposi allo sguardo interrogativo del professore che mi fissava sorridente del mio imbarazzo. «Capisco: vi sembra follia; ma io rifletto che tanti altri tentativi sono stati reputati pure follia, e poi ... ». «Ho conosciuto - soggiunsi sornionamente - una vecchia signora, della riviera ligure, la quale pretendeva che un suo gatto era malato, ella diceva, d'una trasformazione maravigliosa: stava per divenire scimmia! Magro, spelato da fare schifo, sembrava davvero piú scimmia che gatto ... Ma morí ... gatto, prima che l'attesa trasformazione fosse avvenuta». «Ah! - riprese il vecchio professore, ridendo. - Io non penso di trasformare una scimmia in uomo. Penso che se si potesse sviluppare il volume del suo cervello, parecchie facoltà ancora iniziali si svilupperebbero egualmente. C'è la difficoltà della scatola cranica, che tiene prigioniero il cervello, e non ne consente l'aumento del volume. Non è, forse, difficoltà insuperabile. Tolto l'ostacolo, il cervello si dilaterà, e aumentando di volume e di circonvoluzioni ... Non vi pare?» Io non ho mai tentato niente per conto mio, ma mi sono interessato sempre, con passione, dei tentativi degli altri. Pochi giorni dopo, trovai lo scimmione con una specie di cuffia che copriva una fasciatura attorno al capo. Era buffo! Se ne stava rannicchiato nell'angolo della terrazza dove il professore lo teneva incatenato e sembrava avvilito per la cuffia, la fasciatura e la camicetta di forza che gli impediva di portar le braccia al capo e levar via l'impiastro applicatogli per rammollire la scatola cranica. Rifiutava fin di mangiare. Quando il professore gli parlava il suo linguaggio - io non potevo trattenermi dal ridere sentendogli emettere certi strani suoni gutturali che significavano: «Via! Mangia! Via! Bevi!» - lo scimmione lo guardava aggrottando le sopracciglia, arrotando i denti, e masticava rabbiosamente i biscotti e le frutta che s'induceva, dopo un pezzo, ad accettare. Ho dimenticato di dire che il professore aveva una serva vecchia e brutta; brutta talmente da giustificare la sciocca opinione della provenienza dell'uomo dalla scimmia. Forse per questa bruttezza lo scimmione la stimava quasi della sua razza e si lasciava spulciare, lavare pazientemente da lei. La quale intanto non poteva soffrirlo e gli dava a malincuore tutte quelle cure soltanto per obbedire agli ordini del padrone. Da che gli avevano messo quell'impiastro e quella cuffia per reggerlo bene, lo scimmione si era mostrato straordinariamente irritato contro la vecchia che portava anch'essa la cuffia; forse sospettava che tutto ciò fosse un dispetto di colei. Avea cercato piú volte di morderla. E per questo il professore gli stava attorno lui, da mattina a sera, lieto che il rammollimento della scatola cranica progredisse piú rapidamente ch'egli non avesse preveduto. Infatti il cranio dello scimmione era già ridotto molle come quello di un neonato; e, dopo due soli mesi, aveva preso conformazione diversa: si era arrotondato, si era dilatato. E già si notava qualche modificazione anche nell'indole dell'animale che si lasciava volentieri mutare e rimutare l'impiastro, quasi ne riconoscesse il benefizio. - Scommetto che morí scimmione - lo interruppe ironicamente l'abate Venini - come il gatto di quella vostra signora ligure, morí gatto non ostante ... - No, caro abate, - rispose il dottor Maggioli. - Lo scimmione morí ... di amore, sentimentalmente; e, forse, compose dei versi come un trovatore o un poetino qualunque; ma li compose nel suo linguaggio e nessuno li capí! - Dottore! Vuol darcela a ingoiare troppo grossa! - Niente affatto, baronessa! Era avvenuto quel che il professore Schitz avea divinato. Poiché la scatola cranica non opponeva piú resistenza, la massa cerebrale avea potuto facilmente aumentare di volume, di circonvoluzioni, e le sensazioni da esse tramandate ai nervi, vi si trasformavano in sentimenti, in maniera primitiva, s'intende. E cosí il povero scimmione, dopo quattro o cinque mesi, libero dalla cuffia e dall'impiastro, si trovava trasformato (prego lor signori di non ridere quantunque la cosa sembri ridicola) in innamorato sentimentale ... E di chi? Della vecchia serva! La guardava con occhiate cosí languide, le indirizzava certi gridi d'intonazione cosí raddolcita quando la vedeva andare per la terrazza ed innaffiar i fiori, a sciorinare la biancheria su le cordicelle tese da un capo all'altro; l'accarezzava cosí delicatamente ora ch'ella aveva ripreso a spulciarlo, da non potersi dubitare di quel che avveniva dentro il cervello del povero animale. I maschi delle scimmie - è notissimo - non sono molto riserbati nelle dimostrazioni dei loro istinti amorosi. E lo sapeva pure la vecchia serva del professore che spesso era scappata via facendosi il segno della santa croce, come davanti all'apparizione d'un demonio ... Ma ora lo scimmione del professore Schitz era mutato. Appariva proprio un innamorato sentimentale; prendeva pose da rêveur , col dito d'una delle sue mani appoggiato alla guancia, con la testa inclinata tristamente da un lato. La vecchia, appunto perché bruttissima, era il suo ideale di bellezza: né poteva averne altro naturalmente, da quello scimmione che era. «E ha avuto un nuovo grido, un nuovo suono, una nuova parola! - esclamava trionfalmente il professore. - È la sua dichiarazione di amore». Dichiarazione che rimaneva inascoltata perché, dopo che il professore aveva detto alla vecchia: «Lo scimmione è innamorato di te!» la vecchia non voleva piú saperne di dargli le solite cure. E il poveretto languiva, languiva come un innamorato sentimentale qualunque. E un giorno ... «Mi pento di aver sperimentato su questo povero animale - ripeteva il professore Schitz, vedendolo morire di consunzione. - Pur troppo, aumento d'intelligenza apporta aumento di dolori! Se avessi potuto prevedere!» E non seppe prevedere neppure quel che seguí. Un giorno - è certo - lo scimmione, disperato di non veder corrisposto il suo amore, fece come tutti gli innamorati violenti: si suicidò strozzandosi con la catena che lo teneva legato. Il professore Schitz ne fu inconsolabile -.

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 2 occorrenze

Abbiate pietà di me." "Non meriti pietà." "Abbiate almeno pietà del mio bambino. Povero Guiduccio! Se rimanesse solo in questa casa, me lo mangerebbero i lupi." "No, no ... io non voglio essere mangiato ... dai lupi", disse fra il sonno il figlioletto dell'oste, che dormiva nella stessa camera del babbo, in un lettino a parte. Alle parole di quel bambino, Golasecca mutò fisonomia: e preso un tono di voce un po' più umano, disse all'oste: "Su da bravo! Salta subito il letto e preparami da cena." Moccolino ubbidì alla prima: ma era tanta la paura e la confusione che aveva addosso, che non sapeva nemmeno lui come fare a vestirsi. Credé di aver preso le calze, e invece si ostinava a infilare i piedi nel berretto da notte. Accortosi dell'errore, si messe le scarpe, e sopra alle scarpe infilò le calze. Poi infilò la giacchetta, e sulla giacchetta la camicia, e sulla camicia la sottoveste, finché trovandosi in mano i calzoni e non rammentandosi più a che cosa servivano, li ripiegò perbene e li chiuse dentro l'armadio. Scese quindi al pianterreno e aprì la porta dell'osteria. Golasecca, che aveva ripresa la statura d'un uomo comune, entrò dentro scotendosi i panni che gocciolavano: e postosi a sedere dinanzi a una tavola apparecchiata, domandò all'oste: "Che cosa mi dai per cena?". "Tutto quello che desidera Vostra Signoria. Non deve far altro che comandare." "Che cosa c'è di carne?" "Nulla di carne." "E di formaggio?" "Nulla di formaggio." "E di pane?" "Nulla di pane." "Che cosa posso dunque mangiare?", domandò l'assassino, tentennando il capo e cominciando a perdere la pazienza. "Se Vostra Signoria desidera della frutta ... " "Che cos'hai di frutta?" "Ciliegie, mandorle e pesche." "Dammi un bel piatto di pesche." "E a me, un bel piatto di ciliegie", disse una vocina, che uscì dalle tasche del vestito di Golasecca. "Chi è che ha chiesto le ciliegie?", balbettò l'oste, tutto impaurito e maravigliato. "Sono io", rispose la solita vocina. "Non dubitare", interruppe Golasecca, e digrignando i denti, "non dubitare, Pipì, che le ciliegie te le darò io ... e ti darò qualcos'altro! A buon conto, esci subito fuori, e facciamo i nostri conti." "Così dicendo, il capo-masnada sbottonò la tasca della sua giacca, e lo scimmiottino, senza tanti complimenti, saltò in mezzo alla tavola e si pose a sedere sopra una zuppiera di porcellana.

non abbiate paura che il suo bravo perché ce l'aveva! Altro se ce l'aveva! Tonio e la Betta, tanto per far vedere il buon cuore, gli domandarono subito se voleva favorire, ossia se voleva prendere un morso di pane e di formaggio fresco. Gigino ringraziò, e atteggiandosi a persona annoiata, s'intrattenne a cinguettare del più e del meno. Appena però si accorse che il desinare stava per finire, tirò fuori di tasca un bel sigaro toscano, e spezzandolo nel mezzo col garbo di un vecchio fumatore, ne offerse la metà al capoccia Tonio. "Mi dispiace", disse il contadino tutto complimentoso, "mi dispiace di non poter fare onore alle sue grazie ... " "Perché?" "Perché non fumo, e non ho mai fumato." "Davvero?" "Il sigaro, con rispetto parlando, m'è parso sempre una gran porcheria. Lo dice anche il nostro medico ... " "Bravo furbo! E tu sei tanto bono da dar retta al medico?" "Gli do retta sicuro! Cred'ella che il nostro medico sia uno zuccone? La se lo levi dal capo: è un omo che la sa lunga dimolto e ci vede bene, e quando i suoi malati moiono, gli è proprio segno che non volevano più campare." "E che cosa dice il vostro medico dei sigari?" "Dice che i sigari sono la peste del genere umano e la sorgente di tutti i malanni che vengono sulla lingua, in gola e in fondo allo stomaco." "Grullerie! Ti pare che se i sigari facessero male davvero, il governo li lascerebbe vendere in tutte le botteghe?" "Scusi: e lei che fuma?" "Altro se fumo!" Gigino, dicendo così, diceva al solito una grossa bugia, perché fino a quel giorno non aveva fumato mai. "E il sigaro non gli guasta l'appetito?" "Guastarmi l'appetito? a me? Per tua regola ho una salute di bronzo, e quando ho fumato un mazzo di sigari, sto meglio di prima. E tu, Cecco, sei fumatore?" "Vorrei vedere anche questa!", gridò la Betta inviperita, alzandosi in piedi e puntando le mani sulla tavola. "Io", rispose il ragazzo ridendo, "fumo qualche volta: ma fumo i sigari di cioccolata ... " "Ti compatisco!", disse Gigino. "Sei ancora troppo ragazzo per i nostri sigari ... Mi vuoi dare un fiammifero acceso?" "Volentieri." Cecco accese un fiammifero di legno e lo presentò al padroncino; il quale, trovandosi oramai all'impegno, si armò di un coraggio da leoni e ficcatosi mezzo sigaro fra le labbra, cominciò a fumarlo. Tutti, com'è naturale, lo guardavano con maraviglia, come si guarderebbe una bestia rara: quand'ecco il bambinetto chiamato Formicola, che voltandosi alla mamma, disse con una vocina piagnucolosa: "Mamma, lo fai smettere il sor Gigino?" "Che cosa ti fa il sor Gigino?" "Mi fa le boccacce!" E Formicola aveva ragione: perché il nostro amico, fra una fumata e l'altra, faceva con la bocca certi versacci sguaiati, da metter quasi paura. Poi tutt'a un tratto diventò bianco come un panno lavato. Avrebbe voluto rizzarsi in piedi, ma le gambe gli si ripiegavano. "Si sente male?" gli domandò premurosamente la Betta. Gigino si provò a rispondere qualche cosa: ma non ebbe fiato. Invece sbadigliò, e dopo uno sbadiglio lungo lungo, sputò tre o quattro volte e fece con la bocca un certo garbo ... mi sono spiegato? Allora Tonio corse subito a prendere una catinella ... Fosse almeno arrivato a tempo! Povero Gigino! Dopo un'ora di trambusto di stomaco, che somigliava alla morte, se ne tornò alla villa mezzo intontito: e salendo le scale, diceva fra sé e sé: "Quanto avrei fatto meglio a fumare un sigaro di cioccolata! ... "

ARABELLA

663062
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

"Abbiate pazienza, don Giosuè. Intellige quae dico Il Berretta può benissimo aver detto una cosa e la gente aver interesse a capirne un'altra: va bene?" "Sissignore, sor prevosto, che Dio lo benedica, deve essere proprio così. C'è della gente che mi manderebbe volentieri in galera, e della gente che vorrebbe vedermi impiccato. Che ne so io di questi pasticci? Io faccio il sarto, vedo e non vedo, sento e non sento, piglio da tutti e non m'intrigo nei pettegolezzi. Di che carte mi parlano?" "Senti, il mio bravo Pietro, noi non facciamo nessun aggravio a te. Sappiamo bene che sei un galantuomo e che anche tu devi obbedire al più forte. Lasciamo stare quel che puoi aver detto o meno: e aiutaci a depurare la verità. L'hai sorvegliata tu la morta la notte avanti al funerale? Sì? bravo, bravo. Ed eri solo in camera?" Il Berretta, coi dieci diti delle mani irrigiditi in aria, faceva ogni sforzo per poter dir di no, un bel no, che l'avrebbe salvato dal rispondere altri sì; ma non seppe sputarlo fuori. La strada del male non era la sua e il diavolo non aiuta che i suoi. "E in quella notte non è venuto il sor Antonino?" "Vuol dire il sor Tognino" corresse per la terza volta il canonico. "Di' la verità, non c'è nulla di male." "Bisogna che io mi ricordi" sillabò, alzando gli occhi alla volta, e portando alla bocca la punta d'una mano. "Eh, eh, guarda il balordo" sogghignò don Giosuè andando colle mani fin sotto il naso del suo galantuomo. "Noi non dobbiamo far violenze alla coscienza, caro don Giosuè. Bisogna pure che il nostro Berretta si ricordi e verifichi il fatto, spiritu et veritate Non gli vogliamo far del male, si sa; né lui è uomo capace di far del male al prossimo, mentre ci può essere della gente interessata a far del male a lui." "Lei dice bene, sor prevosto: che Dio lo benedica per i suoi morti." "Lo conosco da un pezzo il babbuino: oggi gli giova di far l'indiano per non pagare dazio. Volete che non se ne ricordi? prova un poco ad alzare gli occhi, aperti ve', a questo Signore in croce e torna a ripetere: ' Non me ne ricordo '. Sostieni che il sor Tognino non è venuto quella notte, verso le due; di': non è vero, Signor Gesù Cristo, che io ho fatto lume al padrone mentre egli cercava una carta... Ah! tu vorresti scappare, adesso." Don Giosuè afferrò il portinaio per un braccio e cominciò a scrollarlo, come se cercasse di svegliare uno dei sette dormienti. "Non so niente, dico..." gridò piagnucolando il poveretto con voce più scossa e indebolita. Come diavolo il prete aveva saputo questi particolari? eran voci corse, c'eran dei testimoni, oppure era una trappola per farlo cascare? Fra i due giudici il più pericoloso non era, come si potrebbe credere, quel che pareva il più terribile, quello cioè che gridava di più, che lo minacciava, che l'irritava colla sua voce rauca, col suo dito lungo, magro, color tabacco. La forza non è sempre nella forza. Ciò che lo avviliva maggiormente, che gli toglieva l'animo di resistere e di spergiurare, che lo disarmava in quel contrasto, era la presenza bonaria e paterna di don Felice, la voce buona, carezzevole di questo buon vecchio tremolante, che mentre accaloravasi a proteggerlo, rimescolava tutte le forze morali della resistenza. "Senti, caro Pietro," riprese la voce paterna e insinuante del prevosto "capirai benissimo che qui non si tratta del nostro interesse, né di cattive intenzioni che si abbiano contro di te, povero diavolo. Si tratta puramente e semplicemente d'un diritto di giustizia, sicuro! Si tratta del pane di molta povera gente, che si presume danneggiata non da te, povero diavolo, ma da un uomo, a cui Dio avrebbe tolto per un momento il lume della coscienza. O le voci che corrono son false e tu, il mio buon Pietro, hai il dovere di dimostrare che son false e che quello che hai potuto dire a terze persone è egualmente falso: o le voci son vere, cioè hanno fondamento nel vero, anzi tu sei stato, tuo malgrado, testimonio del vero, e allora, caro figliuolo, pensa al carico di coscienza che stai per assumere. Senza cattiva intenzione tu ti fai complice d'un ladroneccio, ti copri di una responsabilità che io, ne' tuoi panni, non vorrei per tutto l'oro del mondo portare davanti al tribunale di Dio." "Ma se io non posso parlare" singhiozzò l'uomo, alzando le due mani sopra la testa e tenendole così aperte nell'aria. "Se ci andasse di mezzo la vita?" "Ah, t'hanno dunque minacciato," entrò a dire don Giosuè "bene, bene, bene!..." E fregandosi le mani, fe' una giravolta nella stanza. "Ti hanno minacciato? e dubiti che questo Signore che ti sta sul capo sia meno forte dei prepotenti che ti minacciano? e quando pur sapessi che c'è qualche pericolo a dir la verità, puoi tu comperare la tua sicurezza a prezzo d'un tradimento? e credi che vi possa essere sicurezza nel campo della ingiustizia? e ti par bello dormire sul letto di spine de' tuoi rimorsi, il mio Pietro? in balìa al genio delle tenebre, il mio Pietro?" Così batteva sul cuore del portinaio la voce amorosa e terribile. "Io non ho rubato nulla a nessuno, per la benedetta Madonna! Sono un povero uomo che non fa male a nessuno; non ho detto niente a nessuno; non voglio andare in cellulare" provò ancora a ripetere con monotonia, annaspando colle mani in aria, buttando gli occhi in tutti i cantucci dov'era sicuro di non incontrare gli occhi de' suoi giudici, chinando il capo per isfuggire al baglior bianco di quel Signore in croce. "Non voglio andare al cellulare: prima mi ammazzo." "Non è la strada più lunga per andare all'inferno, babbuino, l'ammazzarsi... Senti il parere di chi ti vuol bene, asino! non capisci che il tuo negare a noi non serve a nulla, perché ne sappiamo più di te?" A ogni frase don Giosuè dava una ruvida scossa al suo uomo. "Che cosa hai detto al Mornigani? non sai che ti hanno visto col lume in mano a far chiaro al tuo ladrone, voglio dire al tuo padrone?" Il portinaio, scosso, sospinto da queste parole e dalla mano vigorosa del prete, non sapendo dove trovare un rifugio, andò a stramazzare ginocchione sulla predella, come un uomo veramente mazzolato, strinse la testa nelle mani e ruppe in tali singhiozzi, che don Felice ne sentì una profonda compassione. Voltatosi verso don Giosuè, non volle più che seguitasse a tormentarlo. "Sta bene," disse costui "badate però a non lasciarmelo scappare." "È un buon ambrosiano incapace a far del male." "Fategli fare una buona confessione; io intanto corro ad avvertirne l'avvocato." Don Giosuè uscì e ritornò sui suoi passi a prendere il tricorno, che nella furia delle idee aveva dimenticato in sagrestia. Si strinse nel mantello, ritraversò la chiesa, così invasato dal suo primo trionfo, che non salutò nemmeno con una riverenza il padrone di casa. Uscì e prese la strada più corta verso Sant'Ambrogio, dove abitava l'avvocato, senza sentire l'acquerugiola fredda che veniva dal cielo.

Demetrio Pianelli

663135
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

"Abbiate pazienza, lo sbaglio fu tutto mio. Capisco che avrei dovuto essere piú prudente, credere meno alla gente. Ma ci sono andata in casa come si va nella casa di un benefattore; voi stesso mi avete parlato sempre di lui con una grande opinione. Chi doveva immaginare che quel signore, alla sua età ... Insomma fui ingannata, ma la colpa è mia. Avrei dovuto credere ai vostri consigli. Quando sono uscita da quella casa mi pareva che la gente dovesse leggermi in viso la mia vergogna e mi pareva di sentire la voce di Cesarino che diceva: "Brava, begli esempi che dài alla tua figliuola!" Ah che notti ho passato mai ieri e ieri l'altro! Che cosa non ho pensato anche di voi, Demetrio! Dicevo: egli mi ha sempre parlato del cavaliere come di una persona molto rispettabile; gli ha raccomandato Mario per l'Orfanotrofio: gli ha subaffittato due stanze ... Ma, Signore! che anche Demetrio aiuti a tradirmi? dove sono? in mano di chi sono? Capisco, forse sono una donna viziata dalla buona fortuna, una donna poco pratica, poco avveduta, ma quando ho dato prova, Gesú mio, di non essere una donna onesta? Se venisse qui il mio povero Cesarino, guardate, Demetrio," e nel dir cosí si pose quasi a sedere sul letto, "se egli potesse uscire dalla sua fossa, vi giurerebbe sul capo de' miei figliuoli che io non ho mai tradito, nemmeno col pensiero, i miei doveri di buona moglie, e dal dí che egli è morto voi sapete che non ho fatto che piangere e pregare." E tornando a rompere in un gran pianto, soggiunse: "Ditelo, ditelo a quel signore ... ditelo alla gente ... non aiutate anche voi a tradire una povera donna ... Fatelo almeno per compassione de' miei figliuoli ... ." Beatrice, dopo questo sfogo, lasciò cadere la testa di nuovo sul guanciale colla pesantezza di persona sfinita. I suoi capelli in disordine, nel bianco delle coltri, spiccavano come una massa d'oro. Ora che aveva parlato e detto il suo peccato, le pareva di sentirsi quasi guarita. Nessuno l'aveva mai veduta cosí bella. Demetrio, irrigidito nei muscoli, ritto in piedi come un pilastro, colle mani schiuse ad un gesto che pareva indurito nell'aria, dopo aver capito tutto, anzi troppo, finí col non capir piú nulla. Aveva davanti a sé un bianco fantasma confuso dentro una nuvola, sentiva nelle orecchie il rumore d'una voce compassionevole; ma fatto stupido e farnetico dalla sofferenza, col cuore soffocato da uno sdegno tremendo, cogli occhi offuscati, stava lí che non sentiva nemmeno la terra sotto i piedi. È lungo dire tutto ciò che precipitò nel suo cuore in quell'istante, tutto ciò che il pianto e il rimprovero di quella donna eccitò in lui di terribile e di spaventoso tutto ciò che l'ira persuase di fare. Ma piú che dall'ira fu vinto dalla sua debolezza. La sua faccia somigliava a una maschera che piange. Era questa l'arte del saper vivere: questo il sugo dei pareri disinteressati: questo lo zelo per la pace di un uomo ingenuo caduto dalle tegole ... O scempiaggine! o cattiveria umana! Egli per il primo, colla sua presunzione di far meglio degli altri e di aver ereditato tutto il buon senso di casa Pianelli aveva accolte le voci della malignità, aveva sospinta una povera donna nelle fauci del lupo. Però con questi bei servigi s'era procacciata una speciale benemerenza, forse una promozione nell'organico ... to' to' ... anche questo spiegava le riverenze del Ramella, gli amplessi del Quintina, le umili raccomandazioni del Bianconi. Dio, che vergogna, che abbiezione, che mortificazione alla nostra superbia! che avvilimento, che castigo! Sentiva quasi la vita rompersi e scassinarsi, come un vecchio orologio a cui la mano di un pazzo strappi la catena e faccia sonare tutte insieme le ore. Corse colla mano in cerca del fazzoletto, perché la testa gli si gonfiava e gli occhi s'imbambolavano. Crollando il capo, si mosse, andò fin sotto la finestra, appoggiò la fronte riarsa ai vetri, contro i quali batteva la pioggia fredda e sottile, e pianse col singhiozzo addolorato e rauco dell'uomo che non piange da un pezzo. "Perché piangete, voi?.. Non ne avete colpa, lo so. Anche voi avrete agito in buona fede ... Io non vi accuso di questo, Demetrio. Abbiate pazienza." Cosí sorse a dire con tono compassionevole la cognata. Quando fu dissipato quel gran fumo che gli velava il lume degli occhi, quando finalmente poté parlare, egli si voltò con un moto pronto e risoluto: "Sentite," esclamò con una voce diversa di prima "è detto che io sono un povero imbecille" e siccome Beatrice voleva contraddire, egli gridò: "no, no, no: è vero, lo sono, lo sono. Se non lo dice nessuno, lo dico io: io sono un imbecille, un bestione," insisté, portando i due pugni stretti alla fronte "un mammalucco, sono." Beatrice voleva di nuovo protestare. "No, abbiate pazienza, lasciatemi dire. Io sono anche un imbecille presuntuoso, che dò pareri agli altri e non ne tengo per me. È giusto che porti la pena della mia asinità; ma sentite, Beatrice, com'è vero che stamattina ho fatto la santa Pasqua," soggiunse alzando le due mani giunte "io sarei il piú vergognoso degli uomini, se questa ingiuria che vi hanno fatta non la ricacciassi in gola ... ." "Sentite ... ." "In gola, in gola ... " tornò a ripetere quasi fuori di sé, mostrando i pugni alla terra "in gola a quell'impostore ... ." "Per carità, caro Demetrio" supplicava la malata, sollevandosi ancora un poco a sedere sul letto. "Ad uno ad uno gli farò ringoiare i buoni consigli che mi ha dato. Ah io sono un uomo ingenuo, io mi mangerò il fegato, mi farò maledire!?.. Glielo farò mangiar io il fegato a quel ... ." Ed aizzato dalla sua passione continuò a passeggiare su e giú per la camera come forsennato. Arabella, chiamata da quella voce stridula, corse e stette a sentire all'uscio col cuore in tempesta. Eravamo alle solite? Lo zio Demetrio non aveva mai gridato a quel modo. "Sentite una volta, Demetrio. Ora mi fate pentire d'aver avuto confidenza in voi. Abbiate pazienza, venite qua, sedetevi un momento, per l'amor di Dio. Non voglio che voi crediate il male piú grande che non sia." Demetrio, quasi condotto da quella voce molle e insinuante, andò a sedersi su una scranna appoggiata al muro, e si raccolse in sé, con aria sdegnosa e spossata, curvò il corpo sulle gambe, appoggiando la faccia ai due pugni stretti. Beatrice, con un candore pieno di umile contrizione, prese a raccontare distesamente la sua visita al cavaliere, e perché vi era andata, e come avesse risposto alle sue insistenze, e come, tornata a casa, si togliesse d'addosso quel braccialetto che le bruciava le carni, e come finalmente ricorresse a lui, Demetrio, non per essere vendicata, ma soltanto per restituire al suo adoratore i denari ed il regalo, perché di questa roba non ne voleva piú sapere. E rigirando l'avventura un poco allo scherzo, mettendo nella voce un filo sottile d'ironia, finí col dire: "Io per me, me ne rido di quel vecchio sciocco e galante, del quale non ho mai cercata la protezione: ma voi potreste avere dei dispiaceri grossi. Egli è potente, è vostro superiore, e, non potendo vendicarsi su di me, avrebbe gusto di vendicarsi su di voi." "Si vendichi ... " sentenziò Demetrio, alzandosi sulla persona. E voleva dire: "Se vuole anche il mio sangue, se lo pigli ... " ma la vista quasi improvvisa di quella donna che lo guardava cogli occhi grandi, l'abbagliò: tornò ad abbassare il capo, si restrinse, si contorse nella sua scontrosa debolezza, e sentendosi quasi morire, mandò col cuore un'ardente invocazione a quel Signore che aveva ricevuto nel petto la mattina. Il colloquio fu interrotto da Arabella che entrò leggermente con una medicina. La fanciulla era pallida, sconvolta, e le sue mani tremavano come se avesse indosso la febbre. Dietro di lei entrò anche la signora Grissini; cosí, dopo qualche sconnessa parola di complimento, Demetrio prese congedo e uscí, graffiando l'uscio, promettendo che si sarebbe lasciato rivedere presto. Aveva bisogno di respirare l'aria libera. Fece le scale, trovò la solita strada di casa sua quasi per miracolo, come se camminasse in sogno, sollevato una spanna dal suolo. La testa girava come un arcolaio che gira al sole, proiettando ombre strane e sgangherate sul fondo della sua coscienza. "Che talento, sor Pianelli!" andava declamando una voce in fondo a quel testone enorme che gli pesava sulle spalle, "che bel talento! e che furberia, Meneghino! valeva la pena di scendere dall'abbaino a predicare la morale agli altri e di credersi quasi l'incarnazione del buon senso, per fare in fondo queste belle figure!" E i bei consigli del suo benamato superiore? qui il bello toccava il sublime. "Povero Pianelli, lei è troppo ingenuo" la voce carezzevole e insinuante del cavaliere gli rinasceva nelle orecchie e gli dava la baia; "lei ha troppo buon cuore e il cuore è buono per i merli. Io le parlo come padre, come superiore: non sta nemmeno della sua dignità ... ." "Ah, sí, proprio?" esclamava, fermandosi sui due piedi in mezzo alla gente. Per fortuna e per grazia di Dio il cavalier Balzalotti non era a Milano e forse in quel momento lí dava a sua eccellenza il Ministroi i suoi preziosi consigli: altrimenti egli sentiva che avrebbe fatto uno scempio, e poi finis mundi . Che gli importava adesso della sua vita? si poteva cadere piú basso di cosí, anche andando in prigione? "Non sta della mia dignità il patire la fame e la miseria coi disgraziati, ma è della dignità tua, o birbone, tendere la trappola a una povera donna, tirarla in casa colle belle, chiudere la chiave dell'uscio, far le moine del gattone, tentarla un po' colle dolci, un po' colle brusche, provarne la virtú coi regalucci? Ah birbonaccio!" Durante le ore che rimase all'ufficio, nei primi due giorni che tennero dietro al colloquio con Beatrice, non fece che ripetere quest'orazione, sogghignando dal suo posto alla poltrona vuota del cavaliere, la quale nella sua matronale tranquillità pareva rispondere: Io non c'entro. Lavorò poco, confusamente, evitò d'incontrarsi coi colleghi — birbonacci anche loro! "Vengano adesso a implorare la parolina! Venga il signor Bianconi, caro anche lui con quel fare di gattamorta! Non c'è piú da fidarsi in questo mondo, nemmeno dei piú vecchi amici." Una volta il Ramella, vedendolo passare, corse ad aprire la porta e a far le riverenze. "Stia comodo," gli disse Demetrio con un sorriso amaro e gonfio "adesso è finita l'entratura." "Cosa?" domandò il portinaio, che non aveva capito. "Uuh!" rispose con voce nasale Demetrio, rincagnando la faccia. "Non c'è piú da fidarsi di nessuno ... Cara anche quella signora Palmira co’ suoi buoni consigli, co’ suoi segreti protettori. Bel regalo che ha fatto all'amica del suo cuore! e adesso bisogna trovare subito cento lire da restituire al buon benefattore, e bisogna farlo subito, per telegrafo se occorre, perché certi denari bruciano le mani. Dove trovarle cento lire? non le avrebbe chieste certamente a Paolino questa volta ... A proposito. Non doveva egli consegnare una lettera di costui a Beatrice? L'aveva collocata sotto il calamaio ... anzi l'aveva presa una volta con sé, ma la lettera non c'era piú, né qui, né là, né in fondo alle tasche. Che l'avesse perduta? La sua testa aveva ora ben altro da pensare che alle scalmane del signor Paolino. E perché non veniva lui a proteggere l'onore della sua fiamma, ma stava comodamente alle Cascine ad aspettare la manna dal cielo? oltre al resto doveva toccare anche a lui la parte del mediatore, per farsi odiare forse anche dal cugino? perché questa è la regola: piú un uomo si strugge per fare del bene e piú diventa antipatico e odioso. È meglio nascere con un ramolaccio al posto del cuore, guardare a sé, pensare a sé, fare il proprio interesse, pigliarsi i propri comodi, soddisfare i propri appetiti. Egoisti, egoisti, viva la vostra faccia!" Per due o tre giorni non fece che predicare a sé stesso, dentro di sé a questo modo con una violenza morbosa, fuggendo la faccia degli uomini, finché una volta si domandò, stringendo la testa nelle mani, se aveva il cervello a posto. Naldo aveva voluto tornare dalla sua mamma. Rimasto ancor solo in cima alle scalette, nella morta solitudine dei tegoli, Demetrio aveva tutto il tempo di torturarsi da sé, vittima di una forza alla quale non sapeva resistere. Ma il dispetto furioso, a poco a poco vinto dalla stanchezza stessa dei nervi, cominciò a cedere il posto a un'altra riflessione se pure meritava questo nome un lembo di sereno, che usciva or sí or no in mezzo alla nuvolaglia di tante brutte cose. Quel lembo di sereno era Beatrice. In fondo all'aspra battaglia, nell'abisso della sua vergogna, il pover'uomo si sentiva avvicinato non uno ma cento passi a quella donna. Qualche cosa che non si sa definire, qualche cosa che ti piglia e ti stringe i sensi del cuore, dandoti in mezzo alle sofferenze dell'agonia una goccia di dolcezza, seguitava a invadere l'anima. Egli viveva di quella goccia. Capiva come si possa accettare anche di morire per inebriarsi una volta di quella dolcezza e come si possa morire volentieri una volta gustata. Essa lo aveva chiamato una volta caro Demetrio; aveva steso verso di lui le braccia, supplicando ancora la sua protezione. Aveva con due parole perdonate tutte le amarezze sofferte da lui e le offese a cui l'aveva esposta la sua grossolana ignoranza. Beatrice nella sua bontà semplice e mite era passata in mezzo alle calunnie, come uno spirito che le cose del mondo non possono toccare. Non era una donna sublime, né per ingegno, né per arte di stare al mondo, né per tante altre cose che dànno poi il frutto che s'è visto: era una buona creatura, onesta per indole, affezionata alla sua gente, che chiedeva soltanto un po' di pace e un sorriso; ed egli aveva visto questa donna, coi capelli scomposti, cogli occhi lucenti verso di lui, nel suo gran letto bianco, mentre cercava di intenerirlo, con una voce supplichevole da rompere in due pezzi un ciottolo del selciato ... Ah no! non si potevan covar idee d'odio e di vendetta con quella voce nel cuore ... Questa voce lo svegliava nel pieno della notte. Si metteva a sedere sul letto, nel buio, cogli occhi fissi alle stelle e procurava di ricrearsi davanti il bianco e stupendo fantasma. Finí col non poter dormire piú. Il mattino lo sorprese piú d'una volta pallido, intirizzito sulla sponda del letto. O se la eccessiva prostrazione gli faceva posare un momento il capo sul cuscino e gli velava la pupilla, quanti fantasmi lividi e lucenti assalivano il suo spirito! Visioni morbide e morbose avviluppavano il suo pensiero, gli toglievano la forza di raccapezzarsi. "O Signore Iddio, abbiate misericordia di un povero uomo!…" esclamava in mezzo ai sogni nell'ombra. Da quelle visioni cadde in un letargo febbrile, che divenne ben presto una febbre bella e buona, poi un febbrone bruciante, che gl'impiombò le palpebre e lo tenne inchiodato in letto quasi una settimana.

Giacomo l'idealista

663184
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Spero che in molti istanti, cosí piagato come siete, abbiate a sentire la santità e la dignità della natura umana ingrandita in voi. "Il fuoco raffina i nobili metalli. Il dolore ha scoperto e messo a nudo molta parte di voi, ch'era prima ignota a voi stesso e che, senza queste scosse, sarebbe rimasta per sempre sepolta. Non dite dunque come un povero merciaio alla vigilia del suo fallimento, che la vostra vita è finita. Provate a chiedervi una volta se per caso una vita nuova non stia per cominciare per voi. Che voi abbiate gettato alle fiamme il manoscritto in cui, come dite, eran raccolte le illusioni della vostra giovinezza, non mi fa pena, come pare che infondo faccia a voi. A me basta che non abbiate abbruciata la vostra fede. Purché la fiamma salga al cielo, poco importa che abbruci l'altare. Provate a cercare nella cenere e ritroverete il vostro diamante. Per quanto grande possa essere il vostro sacrificio, i meriti che acquistate agli occhi di Dio e a quelli della vostra coscienza sono tali che non potranno produrre col tempo che un gran bene. Voi siete giovine e dovete conservare intatte le vostre idealità. Seguitate a studiare. Noi abbiamo bisogno di chi sostenga la fede nella virtú. I nostri figli, lo vedete, non credono piú all'affetto delle madri, e quelli stessi, che dovrebbero combattere in prima fila per l'onore, sono i primi a imbrattarsi di fango. Voi potrete fare del bene, non solo coll'ingegno che Dio vi ha dato, ma anche coll'esperienza che vi siete acquistata. Nessun privilegio nobilita tanto l'anima nostra quanto la coscienza di aver molto sofferto ." A questo punto era arrivata e stava quasi per chiudere la lettera nella quale il suo cuore, nella felice improvvisazione del sentimento, si esaltava della misteriosa dolcezza che hanno le umane consolazioni, quando Fabrizio con un passo sospettoso entrò a farle vedere la scarabocchiata lettera, che aveva tanto spaventato il povero conte. Essa, che quasi s'illudeva di toccare il porto, trasalí a questo nuovo inaspettato assalto. Quel mondo geloso e avaro nelle sue pretensioni, a cui aveva sperato di sfuggire, dava segno di risvegliarsi e già si presentava all'uscio come un esoso creditore. I debiti del male voglion essere scontati e pagati; l'esattore era qui. Pallida, tremante, nascose il lurido scarabocchio tra le carte profumate dello stipetto. - Non dite al conte che mi avete fatta vedere questa lettera: cercherò di parlare col Prefetto. Non parlatene con nessuno. Ah mio Dio, non abbiamo finito!

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675935
Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676082
Ghislanzoni, Antonio 7 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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- gridò il barone colla sua voce rantolosa e vibrata; - abbiate la compiacenza di fermarvi un istante per ascoltare la protesta di un libero cittadino! Tutti gli sguardi si volsero al palco di prima fila, e i cinquantamila spettatori ammutirono come un sol muto. - Signori e signore - riprese il Torresani nel generale silenzio; - nella mia qualità di ex-ministro di Sorveglianza pubblica io non poteva attendermi dagli autori del nuovo dramma delle allusioni o delle apostrofi gentili. A queste non intendo rispondere; io le ho ascoltate con indicibile compiacenza, le ho raccolte come un glorioso attestato di onoratezza. L'onore di un Capo di Sorveglianza, o altrimenti Questore, è posto sotto la salvaguardia dell'odio generale, ed io mi glorio di essere esecrato. Ciò che mi preme rettificare è una circostanza storica del dramma, la quale, se fosse accolta come veritiera, mi pregiudicherebbe grandemente sotto l'aspetto finanziario. Nell'ultimo atto, l'autore si è piaciuto di farmi appiccare ad un fico. Come vedete, io non mi sono appiccato, e vi giuro che non intendo appiccarmi. Ma in quella vece aprirò domani un grandioso negozio di salumeria in via dei Ghiotti al numero 10. Colgo questa occasione per fare un po' di réclame al mio Stabilimento, e augurando a tutti il miglior appetito, vi abbasso le mie salutazioni più affettuose. - No! no! - grida una voce dalla platea; - nessun cittadino onesto metterà il piede nel tuo negozio; nessun onesto mangerà il salame della questura! - Mi importa assai degli onesti! - mormora il Torresani riabbassando il velario riparatore. - Purché i ladri onorino la mia bottega, in due mesi diverrò milionario. Così parlando, il sarcastico vecchietto sovrappose al proprio volto una maschera-guttaperca al sembiante del drammaturgo Scalvoni, e lanciandosi destramente nell'atrio, si fece largo tra la folla plaudente fino alla volante che lo attendeva sulla piazza. Lasciamo che egli se ne vada pe' fatti suoi, e poniamoci sulle orme di altri personaggi più meritevoli e simpatici.

- disse la Viola allo sconosciuto - noi non possiamo intrattenerci o camminare in vostra compagnia, se prima non abbiate adempiuto alla legge di ricognizione. - Dispensatemi dal palesare il mio nome - rispose il giovane. - Una sola di voi ha il diritto di conoscerlo ... ella che diceva poco dianzi: l'amore è perdono. - Quanto alle mie qualifiche, vi basti sapere che io sono l'inventore della nuova macchina per la pioggia artificiale che domani verrà esperimentata al cospetto dell'universo. - Voi ... il nuovo benefattore dell'umanità! - sclamò Fidelia con entusiasmo. - Voi, l'inventore della macchina che ha destato la meraviglia del mondo! - Pur troppo io sono quello sventurato! - rispose il giovane con voce commossa. E in quel punto il volto del giovane si coperse di pallore, e una ruga gl'increspò leggermente la fronte. Luce e Viola si ricambiarono una occhiata significante, poi rivolgendosi a Fidelia: - Vanne, - le dissero, - la pietà accompagni il dolore. Quest'uomo aveva bisogno della confessione, e Dio gli ha mandato il suo angelo! Fidelia baciò in fronte le amiche, e preso per mano il giovane addolorato, si diresse con lui verso la spiaggia del lago. - Chi lo crederebbe? - disse Viola alla Luce, seguendo con lo sguardo i due che si allontanavano. - Quest'uomo da oltre venti giorni riempie il mondo della sua fama; domani, per assistere all'esperimento de' suoi meravigliosi meccanismi, dai confini più remoti della terra converranno a Milano tutti i primati dell'intelligenza. Più di tremila areostati sono già scesi quest'oggi all'arsenale di Corsico - la Casa di ospitalità dell'antico Foro ha già ricoverato ventimila forestieri, - domani prima di mezzogiorno arriveranno i tre palloni smisurati del dipartimento Russia, e la grande arca Americana della forza di cinquecento aquile ... Tutti i veicoli della Unione saranno in moto per trasportare passeggieri - le viscere della terra fremeranno per elettrico impulso negli scambi della grande novella ... Ed ecco: l'uomo che ha dominato gli elementi, che ha sconvolto l'ordine della natura fisica; l'uomo che domani sarà idoleggiato da tutta la famiglia umana, non può emanciparsi dalla tirannia del dolore, non può con tutti gli sforzi della sua volontà e della sua intelligenza sospendere anche per un momento il battito delle proprie passioni. Sarebbe mai vero il paradosso propugnato dalla nuova setta dei Ginevrini, che l'umanità progredisce a scapito degli individui? ... Per giungere al lago, Fidelia e il suo giovane compagno avevano attraversato una folta selva di pini. Uscendo all'aperta, uno spettacolo meraviglioso si presentò al loro sguardo, spettacolo affatto nuovo per la giovinetta, che arrestossi sospesa sulla punta dei piedi, immobile come la statua dell'ammirazione. Le acque erano sparite - una immensa lastra di metallo ne copriva la superficie, formando sovr'esse una cupola lucente, dal cui centro usciva una piramide colossale, gigantesca, immensurabile, la cui estremità superiore si perdeva negli oscuri spazi della notte. La torre di Babele è dunque riedificata? E Iddio ha permesso agli uomini del ventesimo secolo di stabilire una comunicazione fra la terra ed il cielo? E perché non ha egli punito, come in altri tempi, questo sacrilego attentato della superbia umana? La favola di Babele non è certo la meno immorale delle tante immoralità delle Genesi. - Iddio non può punire quel provvidenziale istinto della azione che è nella mente della umanità. Oggimai nessuno può disconoscere questo vero immutabile. Rimescolare la materia, agitarla, trasformarla, tale è la missione dell'uomo. Orgoglioso, superbo fino a credersi onnipotente, l'uomo non cesserà mai da questa lotta gigantesca che aspira al perfezionamento e forse conduce alla dissoluzione. Il Titano schiacciato non cesserà di agitare i suoi massi, di accumulare i macigni per salire fino a Dio - perché egli sente di aver qualche cosa di comune con Dio: l'intelligenza e lo spirito creatore!

. - Il vostro esordio, onorevolissimo Gran Proposto, mi darebbe a credere che voi pure abbiate dei gravi dispiaceri nella vostra famiglia privata - Tanto gravi, che quelli della famiglia pubblica, e sono pure ingentissimi, al paragone mi sembrano inezie. - Se ciò è, mi spiace, onorevolissimo Gran Proposto, che io non sarò in grado di giovarvi come avrei desiderato. - Al contrario ... Non solamente voi siete in grado di prestarmi aiuto, ma fuori di voi, non avvi persona al mondo sulla quale io possa contare nel terribile frangente in cui mi trovo. Il furbo Torresani sapeva già tutto, ma proseguiva a fare l'attonito. - Voi ... senza dubbio ... avrete letto i giornali di ieri sera - disse il Gran Proposto con un largo sospiro - voi saprete la notizia pubblicata dal Figaro, organo uffiziale dei matrimoni, la notizia ... che oggi corre sulle labbra di tutti ... - Ah! ... To! ... Veh! ... La gran testa d'oca ch'io sono ... ! E dire che io mi era già scordato ... Vedete se la politica ci rende imbecilli ... ! Perdonate se io non mi sono affrettato a rivolgervi le mie congratulazioni. - Grazie, onorevole collega! ... Grazie! Non è il caso di farmi delle congratulazioni, ma piuttosto di condolervi ... - Che? ... vediamo un poco se ci intendiamo! - proseguì il Torresani abbandonandosi ad una loquacità che escludeva ogni interruzione. - Io voleva alludere alla petizione di matrimonio inoltrata dal cittadino Redento Albani, dal celebre inventore della pioggia artifiziale, in favore di vostra figlia ... Figuratevi, Gran Proposto, qual fu la mia sorpresa ieri sera ... sì ... ieri sera ... al teatro degli Automi ... voi sapete ... a quel vecchio teatro che un tempo si chiamava della Scala, e che oggi serve agli spettacoli automeccanici delle grandi marionette. Io vado ogni sera a quel teatro, vi ero abbonato da ragazzo, fino dai tempi in cui vi si rappresentava l'opera in musica ... Che volete ... ? Siamo milanesi ... e quindi ... per indole ... per educazione ... fors'anche per influenza di clima ... un po' abitudinari. Una sera, invece dei soliti cantanti, delle solite ballerine, ci hanno dato le marionette ... Io, e i miei coetanei, piuttosto che abbandonare la nostra sedia fissa, il nostro palco di quarta fila ... piuttosto che allontanarci dal nostro vecchio centro, ci siamo accontentati di quel nuovo spettacolo ... e vi assicuro ... Gran Proposto ... che ci si diverte di cuore, e che la vecchia Scala è tuttora il primo teatro del mondo. Il Gran Proposto sbuffava, ma non ardiva interrompere quella foga di parole. Il vecchio Torresani tirava innanzi con una facondia inesorabile. - Or bene - voi conoscete il nuovo sistema dei sipari adottati recentemente nei grandi teatri - voglio parlare del sipario- giornale che suol calarsi dopo il secondo atto della rappresentazione. Su quella vasta tela sono stampati, a grandi caratteri, i dispacci più importanti della giornata e buona parte delle notizie cittadine. Figuratevi dunque la mia sorpresa ... la mia commozione ... la mia gioia ... quando, ieri sera, volgendo il mio binoccolo al sipario-giornale, potei leggere la petizione del cittadino Albani, riprodotta testualmente dal foglio uffiziale dei matrimoni. Oh! vi assicuro io, onorandissimo Gran Proposto, che quelle poche linee produssero una viva sensazione in tutta la sala ... Tutti si compiacevano della vostra buona fortuna ... Tutti dicevano che un partito migliore non poteva presentarsi a quella cara, a quella buona, a quella adorabile figliuola ... - Basta così! basta, Torresani! - proruppe il Berretta balzando dalla sedia liquida - ciò che voi narrate è troppo inverosimile ... ! Io non posso credere che voi, che un uomo qualunque dotato di sana ragione possa congratularsi meco di un tale avvenimento con sincerità di cuore. Il Torresani portò le mani al petto e stravolse gli occhi, come uomo che chiegga perdono di un fallo involontario. Nel fondo dell'anima egli tripudiava di aver prodotta nel suo superiore quella impetuosa irritazione. - Torresani ... mio vecchio collega! - riprese il Gran Proposto con accento più moderato - mettete una mano sul vostro cuore di padre ... e poi rispondetemi ciò che esso vi detta. Dareste voi in moglie la figlia vostra, l'unica vostra figlia, ad uomo come ... lui? ... - In verità.., giudicando dietro i calcoli dell'interesse ... un primate dell'intelligenza ... un uomo che può guadagnarsi dieci o quindici milioni di lussi colla sua invenzione ... - Torresani ... - Sentiamo ... dunque ... - Parliamoci da buoni colleghi ... - Da fratelli ... se vi piace ... - Come si poteva parlare ... ai nostri buoni tempi ... ai tempi dell'Unione latina ... Il Gran Proposto parlava con voce commossa, con accento supplichevole: - Conoscete voi tutta intera la biografia di questo uomo ... che osa chiedere in moglie la mia Fidelia ... ? - Nella mia qualità di Capo di Sorveglianza, io dovrei conoscere tutti i cittadini che entrano nel circuito del mio Dipartimento; ma pure, dopo l'attivazione di quella malaugurata locomotiva dell'aria, vi confesso, onorevole Proposto, che mi riesce oltremodo difficile assumere su tutti delle informazioni complete ... - Non vi ricorda come or fanno cinque anni e pochi mesi, un giovane, che a quell'epoca si chiamava Secondo Albani, fosse implicato in un processo ... in un processo ... che fece inorridire la città tutta intera ... ? io spero che voi m'intendiate ... che non vorrete obbligarmi ad esporre certi fatti ... - Fatti ... orribili ... atroci ... - Voi dunque ... vi sovvenite ... ? - In verità ... nella mia qualità di cittadino ... io dovrei ... - Comprendo i vostri scrupoli, mio eccellentissimo ... - Un capo di Sorveglianza ... - Deve necessariamente tener nota di certe precedenze ... - Le quali, in caso di recidiva, o di sospetto ... - Potrebbero fornire ... argomenti ... - E servire come prove o titoli aggravanti ... - A meraviglia ... ! Io vedo che non occorrono altri discorsi ... Voi siete una perla d'impiegato.! ... - Gran Proposto, voi mi onorate di troppo! I due funzionari si alzarono come due automi, si ricambiarono un profondo inchino, poi ripresero il loro posto. Dopo breve silenzio, il Berretta uscì fuori con una domanda risoluta, colla quale egli sperava abbreviare quel disgustoso colloquio. - Torresani! ... Io farei torto al vostro acume, alla vostra perspicacia, e, aggiungiamolo pure, alla vostra provata amicizia, se mostrassi dubitare che voi non abbiate ancora indovinato ciò che io bramo da voi. Siete voi disposto ad assecondarmi? ... - Quanto all'assecondarvi - rispose il Capo di Sorveglianza con un accento di sommissione che fece rabbrividire il Gran Proposto - voi sapete che un misero impiegato di seconda classe, quale io mi sono, deve necessariamente subordinare la sua volontà a quella degli alti dignitari dello Stato ... Vi ho già detto che, su questo punto, fra noi non può esistere difficoltà di sorta ... Tutto sta che io abbia realmente compresa la situazione vostra, e in conseguenza le vostre intenzioni ... Io non vorrei offendere la vostra delicatezza di cittadino ... parlandovi con soverchia libertà ... Il Gran Proposto arrossì leggermente. L'altro proseguiva: - Basta! Nel caso mi fossi ingannato ... oso sperare che non vorrete prendere in mala parte le mie supposizioni., e vorrete perdonarle come effetto di zelo soverchio. Il Torresani fissava le sue grigie pupille nel volto del Gran Proposto, e tirava innanzi con voce asmatica: - Eccovi dunque come io la intendo, onorandissimo e colendissimo cittadino Proposto. Voi non bramate che vostra figlia, la vostra unica figlia, si unisca in matrimonio a quell'emerito cittadino, oggi Primate d'intelligenza, che porta il nome di Albani Redento, e ciò per la ragione, un po' illegale, se vogliamo, ma pure assai potente sul cuore di un padre, che quel cittadino, quel Primate, l'Albani in una parola, in epoca non remota, pose ... la famiglia tutta intera ... e quindi anche voi ... noi ... tutti quanti ... nella necessità di dover dimenticare certe sue azioni ... Basta! ... Tanto io che voi, onorandissimo e sempre colendissimo Proposto, siamo troppo fedeli osservatori della legge per insistere su quest'ombra di reminiscenza! - Bravo! - L'essenziale è di impedire il matrimonio, opponendo alla petizione del giovane, ed al probabile assenso di vostra figlia, il veto paterno che le leggi rendono inesorabile ogni qualvolta sia appoggiato da gravi ragioni, e convalidato dal voto degli Anziani. - Voi leggete nel mio cuore, o nobile amico. - La lettura è un po' difficile, ma le vostre lodi mi incoraggiano. Non potendo motivare il nostro veto su quelle tali precedenze che tanto io ... come voi ... abbiamo dimenticato ... - E dimentichiamo ... - Sta bene! ... Convien frugare nella vita più recente del nostro uomo, vedere se dopo l'epoca di Redenzione egli non siasi per avventura macchiato ... - Torresani! ... Voi siete un sublime Questore ... ! - Capo di sorveglianza - se vi piace! ... - Perdonate! - la parola mi è sfuggita in un impeto di entusiasmo ... È un lapsus linguæ che vi onora ... Torniamo al nostro ... uomo. - Fra la petizione e il contratto finale di matrimonio, giusta le vigenti leggi (capitolo centosettanta, paragrafo novantotto) deve trascorrere un mese ed un giorno, nel qual tempo i due futuri devono vivere separati da una distanza di sessanta miglia, né avere fra loro comunicazione di sorta. - È una dilazione di prova che impone dei rigorosi doveri ... - Dei doveri che molto spesso vengono obliati dall'una parte o dall'altra, nella quasi certezza che nessuno ne tenga conto ... - Si esigerebbe dunque ... per parte nostra ... un po' di sorveglianza ... - Molta sorveglianza ... - Una sorveglianza perenne, insistente, minuziosa ... - Importuna ... - Irritante ... - Accanita ... - Accanita! ... Ecco la vera parola, onorandissimo signor prefetto ... - Gran Proposto ... se vi piace! ... - I lapsus linguæ son contagiosi ... Vi chieggo mille perdoni! ... - In un mese ... anche l'uomo più onesto può commettere delle azioni ... - Nefande! ... Il giusto pecca sette volte all'ora, dicono i preti riformati, i preti della vecchia portavano la cifra a settanta volte sette! ... - Voi dunque credete? ... - Io credo che in due linee di scritto si trovino sempre dieci capi di accusa per far condannare un imbecille, così l'uomo il più astuto, e diciamolo pure, il più onesto, dopo un mese di sorveglianza fatta a dovere ... - Fatta da voi, mio buon Torresani ... - O da' miei incaricati ... - È un uomo posto fuori dalla legge ... - Un uomo ... impossibile! Il Gran Proposto e il Capo di Sorveglianza si levarono in piedi con moto simultaneo, e si strinsero la mano come due cospiratori. - Io sono orgoglioso di avervi perfettamente indovinato - disse il Torresani con affettata compunzione. - Ormai ogni altra parola sarebbe superflua; convien mettersi in moto e agire prontamente ... Il nostro uomo è partito per Costantinopoli; di là, fra una settimana, dovrà recarsi a Pietroburgo ... Prima ch'egli ci sfugga, bisogna mettergli a fianco due dei nostri ... due buoni bracchi dei meglio addestrati a simili imprese ... Scriverò privatamente a tutti i Capi di Sorveglianza dei principali Dipartimenti della Confederazione ... Insomma, non risparmieremo né cura ... né danaro ... - A proposito ... Io mi scordava dell'essenziale - disse il Gran Proposto, trattenendo Torresani che prendeva le mosse per andarsene. - Per compiere il vostro piano, vi abbisogneranno senza dubbio dei mezzi straordinari ... Via! che serve? ... Facciamo le cose a dovere ... No! io non vi lascio partire ... se prima ... non dichiarate ... - Ma se vi dico che sono inezie! Trattandosi di voi ... della vostra famiglia ... a cui mi legano tante obbligazioni ... - No! ... no! ... I fondi segreti debbono servire a qualche cosa ... Ed è appunto in tali emergenze straordinarie ... - Basta! poichè voi ... lo esigete ... - Duecentomila lussi ... Che vi pare, Torresani?.,. Tanto da cominciare le operazioni ... - Io direi, poichè vi sta tanto a cuore la buona riuscita dell'impresa, io direi che, seguendo l'antico proverbio: omne trinum ... - Trecentomila lussi! ... Ma voi siete troppo discreto, mio vecchio collega! Trattandosi, come dicevate poc'anzi, di rendere un immenso servigio ... - Al Governo ... Il Gran Proposto si sentì trafitto da quest'ultimo sarcasmo. Prese la penna con mano tremante, sottoscrisse un bono di trecentomila lussi, e lo porse al Torresani, senza aggiunger parola. Questi chiuse il viglietto nel portafoglio, e, fatto un inchino grottesco, uscì dal gabinetto. Quella sera, nell'Unità mondiale altro dei fogli dell'opposizione, leggevasi la seguente notizia cittadina: «Stamane, fra il proconsole Terzo Berretta e il famigerato poliziotto Torresani ebbe luogo un lungo conciliabolo a porte chiuse, in seguito a importanti dispacci venuti da Berlino, e da altri capoluoghi della Unione. Noi sappiamo da fonte sicura che il partito governativo (il partito coda) sta tramando un orribile complotto contro la libertà dei popoli. Il colpo di Stato, già tante volte preconizzato da noi, è tanto imminente, che può dirsi un fatto compiuto. All'erta cittadini! ... Popoli dell'Unione preparatevi ad agire! ... »

. - Io non leverò le mie ginocchia dalla terra, prima che voi abbiate risposto ad una domanda. Credete voi che un uomo, il quale un tempo si chiamava Secondo Albani, possa aspirare all'amore di una donna? - Quale strana domanda! - sclamò la giovinetta, fissando gli occhi smarriti nel volto dello sconosciuto. Poi, non potendo indovinare il senso delle misteriose parole, stese la mano al genuflesso, e con voce commossa: - Sorgete - gli disse; - il nome che avete pronunziato è un suono affatto nuovo al mio orecchio; ma se voi siete l'uomo a cui desso appartiene, io lo scolpirò nel mio cuore per non dimenticarlo mai più. - Voi dunque ignorate la triste storia del mio passato! ... - proruppe il giovane levandosi da terra e premendo al cuore la mano di Fidelia. - Gli uomini sono migliori che io non credeva, poiché obbediscono alla Legge di redenzione Ebbene, poiché le vostre parole mi hanno dimostrato che i fratelli non obliarono il dovere, anch'io avrò il coraggio di prevalermi de' miei diritti. A voi sola, per cui l'amore è perdono, a voi ho rivelato il nome fatale ch'io desiderava nascondere a a tutti. L'inventore della pioggia artifiziale, domani, dopo l'esperimento voleva allontanarsi per sempre da questa città che gli diè vita, per isfuggire ad una amara ricordanza, per involarsi ad una gloria che avrebbe ridestato nei fratelli un'eco di riprovazione. Ebbene, io rimarrò - io sfiderò i pericoli della celebrità - il mio nome allo spuntare dell'alba, verrà proclamato dai banditori - dirigerò io stesso, alla prima luce del sole, i meccanismi preparati nelle tenebre ... Voi non potete comprendere quanto vi sia di terribile nella mia risoluzione ... Nulla oso dirvi in questo momento; ma domani a notte avanzata, quando tutto vi sarà noto, io sarò qui, tra gli spasimi del terrore e della speranza, tremante, convulso, ad aspettarvi sotto questo platano stesso, dove mi avete detto che il nome di Secondo Albani rimarrà eternamente scolpito nel vostro cuore. Se prima di mezzanotte voi tornerete a me per ripetermi le sante parole, allora avrò il coraggio alla mia volta di chiedervi qual nome abbia imposto il Signore all'angelo di redenzione. In quel punto, dalla torre Garibaldi squillò il richiamo delle vergini Era la prima volta, dacché Fidelia avea compiuta l'età dell'emancipazione che quel suono la sorprendeva fuori della casa paterna. La giovinetta in quella notte avea sorbiti i profumi inebbrianti dell'amore. Ma il tempo inesorabile e pedante non ha riguardo né pietà per le anime innamorate. Lo squillo del richiamo troncò sul labbro di Fidelia una risposta che il giovane avrebbe pagato a prezzo di sangue.

La Provvidenza vi ha resi bastardi perchè un giorno abbiate ad abbracciarvi e chiamarvi fratelli. Qual marchio vi distingue gli uni dagli altri? ... Come potete riconoscervi? - Al diverso linguaggio? - Ebbene: perchè mai questo epilogo di razze non potrà parlare la medesima lingua? ... Si stabilisca una lingua per tutti - la lingua universale, la lingua cosmica! - e tutte le differenze spariranno. Credereste? - l'idea della unificazione di Europa fu appena enunziata dai pensatori, che subito venne sancita dall'universale consenso. Parimenti ben accetto fu il pensiero di creare una lingua cosmica; ma la scelta di questa lingua diede origine a fatali dissensioni. I vecchi pregiudizii tornarono a galla - i puntigli si inviperirono - la lotta fu lunga e piena di fastidi. - Inventeremo una nuova lingua? - A che pro, mentre tante ne abbiamo? Perchè incomodare tutto il mondo allo studio di un nuovo dizionario? Non è meglio servirci di una lingua già usata ... , della francese, per esempio, nota alla maggioranza degli Europei? La questione fu deferita ad un congresso di filologi, i quali si adunarono a Berlino, e dopo tre anni di discussione, convennero nel proposito di creare la nuova lingua incominciando dal riformare l'alfabeto. Quella decisione fu accolta in Europa con poco favore. Ma l'assemblea dei filologi stette dura! Erano molti, circa duemila, e caparbii. Si accinsero in buona fede all'arduo lavoro. Si accapigliarono per ben cinque anni prima di decidere se il nuovo alfabeto avesse a cominciare coll'o piuttosto che coll'a. Millenovecentonovantanove oratori avevano parlato pro e contro. Quando l'ultimo inscritto si alzò per parlare in merito una grossa bomba venne a cadere sul tavolo del presidente, e scoppiò con orribile fracasso. Fuggirono tutti. Que' buoni filologi, nel calore della polemica, non si erano accorti che la razza latina e la razza tedesca trattavamo da due anni la medesima questione cogli argomenti delle bombe e delle cannonate. I latini entrarono in Berlino la mattina del 10 gennaio 1925, e occuparono la città malgrado le proteste e le minacce di tutta la Confederazione germanica. Era fissato che quella occupazione militare affrettasse l'effettuazione delle nuove idee. I preliminari della unione federativa delle tre razze furono stesi a Berlino. Quei preliminari, due anni dopo, nel 1930, ebbero conferma di un trattato definitivo, che fu steso a Parigi e firmato da duemila rappresentanti del popolo europeo eletti per suffragio universale. I latini, preponderanti di autorità per le recenti vittorie delle armi, ottennero di far accettare la francese come lingua cosmica. Singolare è l'articolo che si riferisce a questa legge. La lingua francese viene accettata a condizione che, per l'uso universale, essa venga traslocata dal naso alla bocca, e purgata dalla blague La grande Unione non poteva costituirsi che sopra un sistema di discentramento amministrativo molto frazionato e molto libero. L'Europa si divise in ventiquattro dipartimenti. L'Italia, suddivisa in quindici comuni di primo ordine o centrali, e centoventidue di secondo ordine, nel 1957 era considerata il più popoloso e il più civile dipartimento della Unione. Chi mai avrebbe immaginato che un sì rapido sviluppo di intelligenza e di moralità, dovesse emergere da un impeto di collera popolare, da un avvenimento barbaro in apparenza, e con tal titolo riprovato dagli storici contemporanei? Questo avvenimento - poichè ci accadde accennarlo - fu l'incendio e la distruzione di Roma, decretata da quel popolo stesso che pochi anni prima aveva eletta la città dei Cesari e dei papi a capitale del nuovo regno italiano. Istallarsi in Roma, consenziente la Curia, benevolo il papa, voleva dire per il governo italiano abdicazione di ogni idea liberale, di ogni principio di moralità. Tardi ma in tempo lo compresero gli italiani. Quando ai banali entusiasmi della piazza, alimentati dal baiocco papalino; quando al sacrilego connubio delle mascherate e delle processioni, delle riviste e dei tridui, sottentrò la calma normale di una nazione che grande si crede, allora i disinganni cominciarono, il pericolo si annunziò minaccioso, il tradimento della Curia esalò putrido e nero dalle sentine cardinalizie. Il Parlamento invaso da canonici - il Senato una congrega di cardinali e di cappuccini corpulenti - le riforme del Codice affidate ad una Commissione di Domenicani! L'Italia, più che mai aggravata dalla cappa di piombo simboleggiata; dall'Alighieri, dopo tanti fastidi e tante guerre per la conquista della capitale, ricominciò a cospirare per disfarsene. La nuova cospirazione affrontò senza esitanza e senza scrupoli il dogma religioso. Rénan preso il posto di Mazzini. La Vita di Gesù Cristo divenne la Giovine Italia dell'epoca nuova. Pio X vide gonfiarsi la marea della rivoluzione anticattolica, e tremò di esser l'ultimo dei papi. Assediato dalle riforme fin dentro le mura del Vaticano, mal trincerato negli antichi sofismi e inesorabilmente aggredito dalla logica universale, stolidamente pertinace, pertinacemente crudele, si avvisò di sommergere la idea in un oceano di sangue umano. E il Nerone dei papi non ebbe raccapriccio a pensare che, per riuscire nel suo immane proposito, l'eccidio di tutti gli italiani, di trentadue milioni di italiani, non avrebbe rappresentato che un impercettibile episodio dell'universale macello. Ad esempio di un suo predecessore, del pari insensato ma meno cannibale, Pio X fuggì da Roma con poco seguito, lasciando dietro i suoi passi benedizioni e scomuniche derise. Ma fuori dell'Italia, segnatamente in Francia e nel Belgio, il gonzume cattolico prestò al pontefice un contingente di armati abbastanza numeroso. Tutto il pantano, tutta la feccia del sanfedismo fermentò per la nuova crociata. Ricondurre il papa a Roma fu l'ultimo grido della setta impotente. Questo supremo attentato dei papi contro il progresso, quest'ultimo sforzo per estinguere nella umanità la ragione, il soffio di Dio, allarmò gli Italiani, e convertì la pazienza di lunghi secoli in furore disperato. Si distrugga Roma! - fu il grido di tutta Italia. - E l'Italia, stanca di preti e di atroci pregiudizii, era pronta ad incenerire le sue cento città, a suicidarsi in un ammasso di ceneri. La città dei Cesari, la sentina dei preti, la capitale di un nuovissimo regno, il giorno 24 settembre 1888, non era più che un mucchio di macerie e di carboni. Due idolatrie, la pagana e la cattolica, furono sepolte in quell'incendio per non lasciare alcuna traccia della loro esistenza. Gli ultimi torsi di Apollo e di Vesta si rovesciarono nell'amplesso degli scheletri santificati, delle carogne adorate. Le due superstizioni sprofondarono nell'immenso rogo, irridendosi, imprecandosi. Da quell'incendio una gran luce si diffuse per tutta la Italia, la luce della riforma. Al vangelo dei papi sottentrò il vangelo che grida all'umanità: siate fratelli! Che poteva la reazione dopo una protesta sì imponente? - I crociati si perdettero d'animo. Pio X, vedendo la sua causa disperata, domandò asilo alla Francia. Voleva morire nel castello di Avignone. Ma la città che altre volte aveva assaggiato la mala gramigna, non volle saperne di calze rosse nè di chieriche. E certo avrebbe accolto a sassate il venerando corteo, se il papa ed i suoi, con opportuno consiglio, non si fossero arrestati in una città meno guasta L'ultimo papa finì i suoi giorni a Carpentras, come un vecchio mobile obliato nel solaio. Nell'anno 1890 il governo italiano trasferì la sua sede a Napoli, che ebbe titolo di capitale del Regno. Ciò avvenne con grande soddisfazione di tutti. Un conte Ricciardi, che dietro un tal esito avrebbe consentito ad accettare il portafogli degli interni, morì per esuberanza di gioia. Questa digressione sulle cose di Roma mi ha preso il tempo che io intendeva consacrare ad un quadro statistico di tutti i dipartimenti e dei principali Comuni della Unione Europea nell'anno 1977. Io vi prego dispensarmi da tale fatica. A chiarire gli avvenimenti che sto per narrare sarà più opportuno un rapido cenno delle leggi che formano la base della nuova Costituzione, delle istituzioni, delle opinioni politiche e religiose dell'epoca, degli usi introdotti nella vita pubblica e privata, delle condizioni morali e fisiche della nuova società, considerata nell'individuo e nelle masse. Tutto ciò occuperà lo spazio di un breve capitolo.

Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l'organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere. «Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l'equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l'equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa. «Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L'idealismo! sempre l'idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore! ... Oh! chi scriverà la storia dell'amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l'attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione? «Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l'assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall'organismo gli atomi eterogenei, «Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice! ... «E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto ... Ma, no! ... io stesso sceglierò l'individuo da applicarsi ... «Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare? ... » Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato. - Sta bene! ... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate ... Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

. - Figliuola mia, temo abbiate dimenticato qualche cosa nella confessione delle vostre colpe... Meditate, cercate ancora... Pensate che siete forse sul punto di presentarvi al giudice supremo. La Principessa allibiva, singhiozzando. - Vediamo - diceva Cassandrino, imitando la voce dell'amico - non ricordate d'aver sottratto... rubato qualche cosa? - Ah, Padre! - singhiozzò la Principessa. - Ho rubato una borsa miracolosa a un Principe forestiero. - Bisogna restituirla! Confidatela a me e gliela farò avere. La Principessa indicò col gesto stanco uno stipo d'argento: e Cassandrino prese la borsa. - E altro... altro ancora, non ricordate? - Ah Padre: ho rubato una tovaglia fatata allo stesso forestiero: prendetela. è là, in quell'arca d'avorio. - E altro, altro ancora? - Un mantello, Padre! Un mantello incantato, allo stesso forestiero. É là, in quell'armadio di cedro... E Cassandrino prese il mantello. - Sta bene - proseguì il falso prete - ora mordete questo pomo: vi gioverà. La Principessa addentò il frutto e subito le squamme verdi si diradarono lentamente e scomparvero del tutto. Allora Cassandrino si tolse la parrucca e la veste. - Principessa, mi riconoscete? - Pietà, pietà! perdonatemi d'ogni cosa! Sono già stata punita abbastanza! I Sovrani entrarono nella camera della figlia e il Re, vedendola risanata, abbracciò il medico. - Vi offro la mano della Principessa: vi spetta di diritto. - Grazie, Maestà! Sono già fidanzato con una fanciulla del mio paese. - Vi spetta allora metà del mio regno. - Grazie, Maestà! Non saprei che farmene! Sono pago di questa borsa vecchia, di questa tovaglia, di questo mantello logoro... Cassandrino, fattosi invisibile, prese il volo verso il paese natio, restituì ai fratelli i talismani recuperati e, sposata una compaesana, visse beato fra i campi, senza più tentare l'avventura.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Che felicità che abbiate salita la scala! E come siete venuti? - I ragazzi gli narrarono che erano giunti con un bastimento comandato da un am- miraglio, il maestro e quattro sapienti. Il Re, felice, ordinò al suo seguito di andare a bordo e condurre al palazzo tutti i com- pagni dei bambini. Il seguito ritornò, dicendo che in porto non c'erano se non le navi del Re; quella dei ragazzi non c'era. Il Re era furente, perché credeva che i ragazzi l'avessero in- gannato. I ragazzi, dal canto loro, erano atterriti. Il Rene ebbe pietà e domandò che cosa avevano. Il Caporione gli raccontò l'avventura per filo e per segno. Il Re, rammentandosi la gratitudine che doveva loro, promise di mandare un incrociatore a catturare il ba- stimento; ma intanto ordinò al suo seguito di rinchiudere gli aristocratici nelle sale più belle del palazzo. Quando l'ammiraglio e i suoi infelici compagni furono lasciati a bordo, non po- tevano più resistere imbavagliati a quel modo, e appena non sentirono più le voci degli aristocratici, l'ammiraglio vide la punta di un succhiello e udì una voce che diceva: « Non abbiate paura, la vostra ciurma è qui che viene a liberarvi. » Di lì a poco comparve la cuoca; tagliò i sacchi dei prigionieri e li spinse a par- tire subito. Il maestro di scuola non credeva ben fatto di abbandonare i suoi scolari; ma l'am- miraglio e i quattro sapienti appoggiarono l'idea della cuoca. Fu sbarcato il maestro, e la nave partì. L'incrociatore mandato incontro alla nave di Bengodi la oltrepassò la notte senza neppur vederla, e la mattina l'ammiraglio guardando con un cannocchiale l'orizzonte, esclamò: - Ora siamo salvi; ma quale scopo daremo al nostro viaggiò? - I sapienti proposero di fare un viag- gio di scoperta scientifica, e l'ammiraglio accettò. Ma nessuno sapeva quale scoperta fare. I filosofi pensavano; l'ammiraglio, se- duto a poppa, coi trampoli celesti e rossi nell'acqua, pensava; la cuoca, mentre fa- ceva il pranzo e puliva la coperta, pen- sava. Dopo diverse ore l'ammiraglio, rivol- gendosi, vide i sapienti col capo nel sacco. Gli dissero che pensavano meglio al buio. Passarono i giorni, e i sapienti col capo nel sacco, pensavano sempre; l'am- miraglio aveva sempre i trampoli nell'ac- qua, e la cuoca cucinava e pensava. Quando il bastimento non aveva il vento in poppa, essa moveva il timone a destra e a sini- stra, e così modificava il corso della nave. - Se sapessi quanti anni ha il minore di quegli aristocratici, - disse un giorno l'ammiraglio —potrei stabilire quanto dob- biamo ancora navigare prima che siano grandi. Allora andremo a prenderli per condurli a Bengodi. - La cuoca si rammentava che il minore di quei ragazzi aveva dieci anni, e l'am- miraglio fissò che dovevano navigare sette anni precisi. E così fecero. I sapienti col capo nel sacco si lambiccavano il cervello per fare una scoperta utile. Il giorno dopo gli aristocratici erano stati rinchiusi nelle stanze più belle del palazzo reale, la Regina aveva mandato loro un messo per dire che l'idea di mettere il capo nel sacco era molto divertente, e che sarebbe loro molto tenuta se volevano mandarle il modello dei sacchi. Il messag- giero aveva cesoie, carta e spilli, e i ra- dazzi tagliarono un sacco coi fori per gli occhi, il naso, la bocca e gli orecchi, e mandarono il modello alla Regina, la quale ne fece due per le sue serve, e li mise loro in capo, ridendo come una matta. Il Re vide quelle serve in anticamera e fu spaventato. Subito adunò il consiglio dei ministri. - Siamo minacciati da un gran pe- ricolo, - disse quando tutte le porte furono chiuse. - Vorreste vivere con la testa nel sacco? Per me, credo sia meglio star fermi per sempre. Il bastimento che non potem- mo catturare ritornerà carico di sacchi, e fra poco ogni testa sarà messa in un sacco. Già si vedono i segni dell'avvicinarsi di quel giorno nefasto. Benchè quei pericolosi individui che inventarono quel supplizio siano rinchiusi, due serve del mio palazzo hanno già la testa nel sacco. - Un grido d'orrore accolse le parole del Re. Fu stabilito, dopo lunga discussione, che una sentinella fosse posta in vedetta sulla torre più alta della città, per scoprire l'avvicinarsi del bastimento; nuove guardie furono collocate alle porte degli aristocra- tici, e fu ordinato che la città fosse visi- tata per vedere se si scoprissero nuovi casi d'insaccamento. Gli aristocratici incominciarono ad es- sere molto malcontenti. Benché non man- casse loro nè da bere nè da mangiare, ed avessero ogni specie di balocchi, pure erano stanchi di sentirsi prigionieri. - Vi domando che affare è questo? - disse Codino. - Io non intendo star più qui. Andiamocene. - Ma come faremo ad andarcene? - chiesero gli altri. - Vedremo se si può uscire. Qualun- que cosa è preferibile a questa prigionìa. - Dopo lunghe discussioni, stabilirono di fuggire. Le finestre non erano molto alte da terra, ma sempre troppo alte per fare un salto; e nelle stanze non vi era nulla di solido che potesse far le veci di una corda. I lenzuoli, i cortinaggi, tutto era di tela finissimo, e di tulle. Finalmente Alle- grone fece una proposta. Le stanze erano grandi e pavimentate con assi di legno pre- zioso, che ne occupavano tutta la lunghezza. Dovevano levare una di quelle assi, appog- giarne una estremità alla finestra e l'altra giù in terra. Così avrebbero potuto scivolare lungo l'asse e fuggire. Subito ogni aristocratico si diede a la- vorare, e chi col coltello, chi con un pez- zetto di ferro, tolsero i chiodi d'argento che fermavano l'asse al pavimento. - Questa è una pazzia, - disse Ca- porione - vedrai che cadremo tutti. - Non c'è pericolo, - disse Allegrone - e suggerì di ungere l'asse con l'olio del lume; quindi l'appoggiarono alla finestra. A uno per volta i ragazzi scivolarono per terra e andarono a rotolare sull'erba, ad una certa distanza. L'ultimo a scendere fu; Allegrone, che tirò a sè l'asse perchè le guardie non sapessero come fare ad inse- guirli. Era quasi buio e i ragazzi non sape- vano dove passar la notte. Essi giunsero ad un fabbricato le cui porte erano chiuse, ma non serrate a chiave, e vi entrarono. Quell'edifizio era una libreria che veniva chiusa presto la sera e aperta tardi la mat- tina. Gli aristocratici si misero comoda- mente a sedere e accesero i moccoletti che ognuno aveva in tasca. Allora discussero. Allegrone disse che il bastimento, un giorno o l'altro, sarebbe tornato a prenderli, per- chè l'ammiraglio non avrebbe avuto il co- raggio di presentarsi senza di essi ai loro rispettivi genitori. La quistione più urgente era quella di sapere come vivere mentre aspettavano la nave. Per dormire potevano star sicuri dov'erano, ma per mangiare bi- sognava guadagnarselo. Dopo lunghe discussioni, dopo una vo- tazione contrastata, fu stabilito che i ra- gazzi avrebbero fatto i portalettere per gua- dagnarsi il pane. - Ma le lettere da portare dove sono? - chiesero alcuni fra i più grandi. - Vedremo domattina, - disse Allegrone - c'è tempo prima che aprano le botteghe. - La mattina si diedero a cercare, a fru- gare, e trovarono nella libreria molte let- tere lasciate lì prima che la città fosse con- dannata all'immobilità. Ogni ragazzo ne prese alcune e andò in giro a portarle per le case. Gli abitanti le leggevano con pia- cere, perchè molte contenevano notizie im- portanti per essi; perciò davano la mancia a chi gliele portava. E ogni giorno alcuni abitanti ricevevano lettere, e ogni giorno i ragazzi avevano alcune monete. Quando il Re fu informato della fuga dei ragazzi, sapendo che non avevano da vivere, esclamò: - Tanto meglio! morranno tutti di fame e noi saremo liberati da quegli ari- stocratici! - Ma la vedetta rimaneva sempre sulla torre della città, poichà nessuno sapeva quando sarebbe giunta la nave cogli altri insaccatori. Un giorno che Caporione distribuiva le lettere, incontrò un vecchio, che rico- nobbe per il maestro di scuola. Da prima ebbe voglia di fuggire, ma quando il vec- chio lo chiamò, si abbracciarono piangendo, e la pace fu fatta. Quella notte il maestro dormì nella libreria, e le sere successive pure; il maestro sceglieva i manoscritti e i libri istruttivi, e faceva lezione agli ari- stocratici, i quali in poco tempo acquista- rono utili cognizioni. Essi salivano spesso sull'alta torre per vedere se giungeva il bastimento, avendo inteso dire che si scor- geva una nave con le vele rosse e azzurre. Ma passavano gli anni senza che vedes- sero una bandiera. Un giorno lessero sulle cantonate un bando del Re, che ordinava ai cittadini di chiudere porte e finestre e ritirarsi nelle case, perchè la città era minacciata da un nuovo incantesimo. Gli aristocratici ne era- no disperati. Come dovevano fare a vivere senza il rifugio della libreria e senza poter portare le lettere? Andarono dal Re a proporgli di salire novamente la scala finchà la città non fosse tornata alla vita. - Sapete a che cosa v'impegnate? - osservò il Rè - e se le forze non vi ba- stassero? - Risposero che lo sapevano ed erano sicuri delle loro forze. Anzi, era più facile che resistessero alla fatica di salire, perché erano assai più grandi e assai più forti della prima volta. Il Re li riconobbe e Allegrone dovette raccontargli la vita che avevano fatto dopo la fuga. Il Re si mostrò contentissimo e ac- cettò l'offerta di salire la scala. Sali, sali, la scala girava sempre. Fi- nalmente si fermò, e la città fu libera per altri dieci anni. Gli aristocratici vennero colmati di onori e di regali, in segno di gratitudine, dal Re e dal popolo e furono alloggiati sontuosamente nel palazzo, insieme col mae- stro di scuola. La libreria fu aperta ogni sera al pubblico, affinchè potesse leggere ed istruirsi. Dopo un anno giunse in porto la nave con l'ammiraglio. I sapienti si tolsero il sacco di testa; erano diventati vecchi e magri, e abbracciarono gli sco- lari che erano diventati grandi e forti. In capo a pochi giorni la nave salpò per il paese di Bengodi. I ragazzi furono accolti con gioia in quel regno, e ovunque si sparse la notizia del servizio che avevano reso al Re della città incantata.

Pagina 36

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679059
Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
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. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

. - Abbiate fede, e sarete guarito, - aggiunse la vecchia. Fede ne aveva, il povero Podestà, e masticò un fascio di foglie e bevve quanta più acqua poté. Ma dopo aver fatto tutto questo ed aver fervidamente pregato, si guardò il naso, e il naso era sempre rosso come un peperone; si tastò il fungo nero, e il fungo nero c'era sempre; si provò a parlare, e faceva sempre precedere da quell'esse incomoda ogni parola. Allora, scoraggiato, disse: - Sdonna smia, sper sme snon sc'è sbene. - Podestà mio, finché un cane peloso non vi morde il fungo e una biscia non vi bacia in bocca, da queste due infermità non sarete liberato. Vedo che né le erbe né l'acqua attinta durante il plenilunio vi giovano. - Sdio smio, se squei sbirbanti smi strovano ... - mormorò tutto afflitto ser Bandino. La vecchia rise facendo vedere le gengive spoglie di denti. - Quassù da me nessuno oserà venirvi a cercare. - Sperché? - domandò il Podestà. - Che volete che vi dica? Sono anni e anni che curo la gente con l'aiuto della Madonna, eppure a nessuno sapreste levar di capo che io non sia una strega. Ser Bandino fu rassicurato in parte da queste parole e si mise ad attendere che giungessero i due animali che dovevano liberarlo. Era una calda giornata di maggio, ed egli, vinto dalla stanchezza, si appisolò. A un tratto fu destato da un dolore acuto da quella parte del naso dove gli pendeva il fungo nero. Aprì gli occhi e vide un can da pastori con una lunghissima coda, che scappava. Ser Bandino si portò subito la mano al naso e si accòrse con gran piacere che quella escrescenza carnosa non c'era più; allora si mise a chiamar la vecchia. - Svieni, sdonnina, svieni; sci sono snovità sgrosse! La vecchina, che era su in camera, scese le scale e alzò le mani al Cielo in atto di ringraziamento, vedendo che il fungo era sparito davvero. - Ora, coraggio, - ella disse, - e come è venuto il cane verrà la biscia; abbiate pazienza e pregate. Ser Bandino si rimise in orazione, ma snocciolando sempre avemmarie finì per appisolarsi col capo inclinato a destra e la bocca spalancata. Un sibilo fortissimo lo destò, e così in dormiveglia si accòrse di aver in bocca la testa di una biscia. Sul subito si spaventò, ma ripensando alle parole della vecchia si fece animo e preso il rettile con due dita gli disse: - Grazie! Nel pronunziare quella parola capì di esser guarito dalla seconda infermità, e questa volta, senza far precedere ogni parola da un'esse, chiamò: - Vecchina, scendi presto, vieni a vedere; il miracolo è compiuto. La vecchina scese pian piano, e sentendo che il Podestà parlava speditamente, si lasciò cadere in ginocchio e pregò a lungo. Ser Bandino fece lo stesso, e quando ebbero terminato, la vecchia disse: - Spero che mi sarete grato e non mi lascerete morir qui come un cane. - Figurati! - disse il Podestà, - ora torno subito a Stia, punisco i colpevoli e dopo vengo a prenderti con una lettiga e ti conduco al palazzo, dove sarai servita e rispettata come se tu fossi mia madre. - Badate di non dimenticarvi della promessa! - replicò la vecchina. - Io sono gentiluomo! - esclamò Bandino. - E senti che cosa dico: Se non mantengo la promessa in capo a un mese, che mi possa ricrescere il fungo e che ritorni più scilinguato di prima. Ser Bandino, tutto allegro, scese il monte, e ogni tanto si toccava il naso, che aveva ripreso il colore del restante del viso, e si provava a parlare a voce alta. Non gli pareva vero di non essere più un coso buffo e di parlare come tutti gli altri. Quando giunse a Stia, era sera inoltrata e il palazzo era chiuso sprangato. Bussa che ti busso, nessuno gli andava ad aprire e di dentro le guardie gli gridavano: - Il Podestà è assente, noi non apriamo a nessuno. - Il Podestà sono io! - rispondeva ser Bandino. - Non ce lo date ad intendere, imbroglione. Il Podestà, quando apre bocca, si conosce subito. - Son guarito! - badava a dire ser Bandino. - Di certi mali non si guarisce; andate in pace, se no vi leghiamo come un salame e vi mandiamo a far compagnia ai dieci monelli, cagione di tanti guai. A farla breve, il portone del palazzo quella sera non si dischiuse per lasciar passare il Podestà; ma egli, che conosceva l'ingresso segreto delle cantine, per non dormire a ciel sereno, entrò in quelle e si distese per terra. La mattina, appena vide uno spiraglio di luce, uscì dal suo nascondiglio e andò di nuovo a bussare al palazzo. Le guardie, che nell'assenza del Podestà e dopo aver respinto la folla tumultuante vi si erano asserragliate come in una fortezza, invece di spalancare la porta, andarono a una delle finestre munite d'inferriate per vedere chi bussava. - Sono il Podestà, aprite! - ordinò ser Bandino; ma a quel comando si sentì rispondere con una sonora risata. - Guarda, guarda chi si spaccia per il Podestà! Se non vuoi essere arrestato per avergli rubato le vesti, raccomandati al cavallo di san Francesco. Non sai che il Podestà ha un fungo appeso a un lato del naso paonazzo, e parla scilinguato, - disse una delle guardie. - Sono il Podestà, aprite! - ordinò ser Bandino. - Se vuoi venire in gattabuia, peggio per te, - gli fu risposto. Il portone del palazzo si aprì, quattro braccia robuste afferrarono ser Bandino e quasi di peso lo portarono nella stessa prigione della torre dov'eran rinchiusi i dieci monelli, autori del disordine. Non valsero né le preghiere né le minacce di ser Bandino per farsi riporre in libertà. Tutto il giorno udiva i monelli parlare del naso e del fungo del Podestà, tutto il giorno li sentiva fargli il verso, e nessuno lo riconosceva tanto era cambiato. Tutte le volte che chiedeva alle guardie quanto tempo intendevano tenerlo in prigione, si sentiva rispondere: - È andato un messo a Firenze; quando tornerà col nuovo Podestà, sarai giudicato. - Ma se il Podestà son io! - Taci, bugiardo, ingannatore, furfante! - gli dicevano. Così passavano i giorni, così passò un mese. Quando quel termine fu spirato, ser Bandino, una mattina, nel destarsi, si vide dintorno tutti i monelli con tanto d'occhi sgranati. Volle interrogarli per sapere che cosa notavano in lui di strano, ma appena ebbe aperto bocca essi incominciarono a schiamazzare gridando: - È lui, è il Podestà! gli è ricresciuto il fungo nero accosto al naso ed è ritornato scilinguato. È lui! è lui! Ser Bandino si sentì morire. Non aveva potuto mantener la promessa fatta alla vecchia ed era ritornato tal quale come prima, perciò i monelli lo canzonavano egualmente. Le guardie, sentendo tutto quel baccano, accorsero, e appena aprirono l'uscio della prigione, rimasero sulla soglia senza osar di fare un passo. Il prigioniero era proprio il Podestà! E ora che cosa sarebbe avvenuto di loro che non avevano voluto riconoscerlo e si eran presi l'ardire di trattarlo a quella maniera? Ma il Podestà era tanto afflitto e avvilito di udirsi colpito di nuovo da quella doppia infermità, che non pensava a vendicarsi. Uscì a capo chino dalla prigione, senza aprir bocca, e dietro a lui uscirono tutti i monelli, che si affrettarono a tornare a casa. Verso sera, quando in paese non v'era più nessuno, il Podestà si avviò solo solo su per il monte in cerca della vecchina. Ma guarda che ti guardo, non gli venne fatto di trovar più né la casa né altro, e nel cuor della notte se ne tornò al palazzo. Questa volta le guardie lo riconobbero al parlare, e gli apriron subito. Benché fosse stanco morto, egli non si mise a letto. Inginocchiatosi dinanzi alla Santissima Annunziata, la pregò fervidamente non più di liberarlo dalle sue infermità, ma di dargli il coraggio di sopportarle. Mentre stava in orazione, che è che non è, ecco apparirgli la vecchina. - Se non hai mantenuto in tempo la tua promessa, - gli disse, - non è colpa tua. Appena libero sei andato a cercarmi sul monte; e in Cielo, dove le buone intenzioni sono valutate, ti si tiene conto di esse. Rassicurati, e a suo tempo sarai consolato, te lo prometto io! "A suo tempo! - pensava egli. - Dunque le mie prove non sono terminate? dunque dovrò soffrire ancora?" La vecchia sparì, e il Podestà poté dormire tranquillo nella sua camera. La mattina dopo, nel destarsi, andò subito a guardarsi nello specchio, ma la deformità del naso non era sparita ed egli non parlava speditamente. Allora pensò che doveva armarsi di coraggio per sostenere nuove prove; ma la speranza che a suo tempo sarebbe stato liberato, faceva svanire la cupa disperazione che lo aveva assalito nel passato. Però la sua pazienza fu messa a dura prova. Era appena ritornato al palazzo, quando gli fu annunziato da un messo l'arrivo di messer Alessandro Vitelli, temuto condottiero di quel tempo. Ser Bandino fece preparare per lui le più belle stanze, e dette ordine al cuoco di mandar ne' serbatoi a prendere le trote più belle e di tirare il collo ai più grossi capponi, poiché bisognava onorare un ospite di tanto riguardo. Il capitano giungeva dalla Consuma per recarsi ad Arezzo. Il Podestà gli mosse incontro a cavallo, con numerosa scorta, e appena incontratolo, volle fargli il suo bravo discorsino. - Sillustrissimo smessere ... - incominciò. Ma non poté finire, perché il capitano Alessandro Vitelli gli dette una di quelle guardatacce, come egli sapeva dare, e ser Bandino, tutto confuso, si sentì la lingua inchiodata al palato e si fece pallido come un morto, mentre il suo naso prendeva un bel color rosso vivo. - La Repubblica fiorentina tiene un Podestà molto strano in questa sua terra di Stia, - disse il capitano rivolto ai suoi, ma in tono abbastanza alto da farsi sentire anche da ser Bandino. - Non è un rappresentante che le faccia onore. L'infelice avrebbe preferito di essere ancora rimpiattato in cantina dietro la botte e minacciato dall'ira degli insorti, piuttosto che di trovarsi di fronte a quel superbo, cui non poteva ricacciare in gola le offese. Però dovette celare nel cuore il dolore e la rabbia che provava, e mettersi al seguito del condottiero, il quale non lo aveva neppur invitato a cavalcargli accanto. Se il primo incontro era stato amaro per ser Bandino, la permanenza di Alessandro Vitelli a Stia, fu un lungo e non interrotto supplizio. Il condottiero, non solo era entrato nel palazzo da padrone, senza curarsi per nulla del Podestà, ma aveva dato carta bianca ai suoi di esigere imposte, di reclutare uomini atti a portare armi, e di comandare, insomma, come se il rappresentante della Repubblica non esistesse, come se il Podestà fosse un fantoccio. Ser Bandino vedeva tutto e fremeva. Inoltre v'era una continua processione di gente a far reclami presso di lui per le ingiustizie che commetteva il condottiero, e questa gente gli rimproverava acerbamente la sua debolezza; ma ser Bandino non osava parlare ad Alessandro Vitelli. Un giorno, però, incalzato da tante e tante lagnanze, si fece animo e si presentò al capitano, il quale, squadratolo da capo a piedi, con fare burbanzoso, gli disse: - Chi vi ha ordinato di venire da me? - Sdoveri sdello stato smio, slagnanze sdegli Stiani! - Andate al Diavolo voi, le vostre esse e i vostri Stiani! - rispose il capitano. - Finché sto qui, intendo di comandar io, e voi non dovete farvi vedere, se no vi rinchiuderò in prigione. Bandino dovette fare una prudente ritirata; ma ridottosi in camera sua pianse amaramente sulla propria sventura e si raccomandò fervidamente alla Santissima Annunziata di liberarlo presto dalle infermità che gli procuravano tanti tormenti. Però, nonostante le promesse della vecchia, le lacrime e le preghiere, il supplizio continuò per più giorni, e il Podestà si ammalò dalla pena. Mentre era a letto, più malato d'animo che di corpo, il condottiero ricevé l'ordine di portarsi subito sopra Città di Castello; di notte tempo fece i preparativi della partenza e se ne andò, senza neppur curarsi del Podestà. I cittadini di Stia respirarono vedendo partire il Vitelli, che in pochi giorni li aveva dissanguati, e il Podestà guarì subito. Ma siccome una consolazione non vien mai sola, il brav'uomo, nell'alzarsi dal letto, si accòrse che gli era sparita la deformità del naso e che parlava speditamente. Lieto, lietissimo di ciò, invece d'inveire contro i monelli del paese, contro tutti quelli che avevano dato mano al saccheggio del palazzo, annunziò con un pubblico bando che voleva iniziare il suo governo con un generale perdono, tanto più che il popolo era stato abbastanza provato dal passaggio di messer Alessandro Vitelli. Questo atto magnanimo lo rese popolarissimo a Stia, dove ser Bandino terminò in pace la vita. Qui la Regina tacque ed ebbe dai signori villeggianti gli stessi complimenti ricevuti la domenica precedente. Mentre essi parlavano di Stia, dove volevano andare a fare una gita, giunse una carrozza di ritorno da Camaldoli e si fermò dinanzi alla viottola. Il vetturino schioccò la frusta per chiamar qualcuno, e tre o quattro dei ragazzi accòrsero subito alla chiamata. Un momento dopo tornarono gridando: - La signora dell'Annina manda a dire che viene domani a desinare dalla sua mamma. - E l'Annina non ce la conduce? - domandò la Carola. - Sì, conduce anche lei. Vengono tutti. Tirate il collo a due galline, mamma, - disse Beppe. - Alle frutta ci pensiamo noi: vedrete che lamponi e che fragole! A quella notizia la gioia ricomparve sul viso della massaia, e anche la Regina sorrise con quel sorriso buono che era il riflesso della felicità dei suoi.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679329
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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Voi lo conoscete già, per poco che abbiate fatta conoscenza con alcuna delle nostre montagne. Cotesti villaggi si somigliano tutti. Case, o meglio capanne (baite) ad un solo piano, coperte di schisto nero, e alla parte del nord, di muschio, al cui verde opaco spesso viene a sposarsi quello trasparente del caprifoglio avviticchiato alle pareti. Porte basse e larghe, attraverso alle quali appare il cortiletto ingombro di gerle, e quasi sempre ombreggiato da un pometo che in maggio si copre di fiori bianchi e rosa; botteghe, che in un'ora di esame non arrivereste a indovinare che cosa vendano, se non esistessero al disopra e ai lati certi orrori di ortografia scritti a color crudo e per lo più turchino. Poi il monumento comunale, la fontana perenne, formata di quattro lastre di pietra appena dirozzate, e dove tre volte al giorno vanno a dissetarsi in famiglia tutte le giovenche del vicinato. E se il villaggio possiede un'osteria siete certi di riconoscerla a una insegna gigantesca colla parola Albergo sovrapposta a un uscio, cui si ascende per tre o quattro gradini, dietro il quale si cela umilmente un locale umido sì ma pulito, tappezzato di pentole e di stagni e dove mancano infallibilmente ai fornelli il cuoco ed il fuoco. Ero già passato davanti a buon numero di case, e per quanto avessi guardato e guardassi in su ed in giù a destra ed a sinistra, l'insegna non appariva, che mi potesse far sperare in una cena ed in un letto. Gli abitanti erano già rientrati, vedevo le finestre illuminate dal riverbero dei focolari; non avevo ancora incontrato di vivo che un ragazzetto ed un cane. Il primo, spalancati due grandi occhi azzurri mi aveva contemplato in silenzio per un minuto, poi s'era dato alla fuga dietro una siepe; il cane aveva abbaiato sommessamente come uno che non sappia di aver torto o ragione, poi anch'esso via nella macchia. Proseguii tra quelle case dalla faccia inospitale, coll'animo alquanto turbato. Nei pellegrinaggi artistici non è, del resto, cosa difficile di trovarsi nell'imbarazzo in cui avevo a quell'ora tutta la probabilità di essere caduto. In uno dei libri sacri dell'India sta scritto: «Se ti nasce una figlia dàlle un nome sonoro abbondante in vocali, e che sia dolce alle labbra dell'uomo». L'egual consiglio si sarebbe potuto dare a quei filologhi dabbene che imposero il nome ai villaggi. Quando si viaggia senza una meta prestabilita, all'unico scopo di veder uomini e cose, quante volte non accade di prendere a destra piuttosto che a sinistra, di salire invece che di scendere, per l'unica ragione che avete preferito, leggendo sulla vostra Guida fra i molti che vi stanno intorno il villaggio dal nome più seducente, dal nome più dolce alle labbra dell'uomo Ma, ahimè, siccome è più che possibile che una Bice, o una Amina, o una Adele, siano fanciulle meno perfette di una Giovanna, di una Gregoria, o di una Anastasia, del pari accade che il più bel nome intitoli spesso la borgata meno simpatica, e, ciò che è più triste se vi arrivate a notte, una borgata senza osteria. E tale mi aveva l'aria di essere il villaggio di Sulzena quando, giunto all'inevitabile fontana, mi scontrai finalmente in un uomo.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

"Credo che abbiate ragione" rispose l'irlandese, sorridendo. "Un buon bicchiere di vino scaccia meglio di qualunque altra cosa le emozioni, anzi, vi confesso che questo freddo mi ha messo indosso un certo appetito." "Sono sette ore che non abbiamo messo sotto i denti una briciola di biscotto. Ehi! Simone, preparaci qualche cosa." "È fiato sprecato, Mister Kelly. Il vostro negro mi pare che sia sempre mezzo morto di paura. Evidentemente i viaggi aerei non sono fatti per i negri." L'irlandese aveva ragione. Il servitore dell'ingegnere non si era ancora mosso dal posto che occupava e continuava a tenersi strettamente aggrappato alle corde gettando in giro degli sguardi smarriti. "Orsù, poltrone" disse l'ingegnere. "Quale strana paura ti ha invaso?" "Temo di cadere, massa" rispose il negro balbettando. "Forse cadiamo noi?" "Io sono negro, e voi ... " "Siamo bianchi" disse O'Donnell, scoppiando in una fragorosa risata. "Che gli uomini della nostra razza portino nel ventre un magazzino d'idrogeno? Che sia proprio così, signor discendente di Cam?" Il negro cercò di sorridere a quelle parole ma, invece, le sue grosse e tumide labbra si contorsero orribilmente, senza riuscirvi. Quel povero diavolo fece però uno sforzo supremo per alzarsi; ma ricadde pesantemente, come se avesse le gambe rotte, emettendo un grido di spavento. Quell'altezza produceva su di lui un senso di invincibile paura; quel vuoto lo atterriva e gli faceva girare la testa. "Rimani là" disse O'Donnell. "M'incarico io del servizio di bordo, poltrone." In un batter d'occhio aprì una cassa, ne tolse una scatola di carne arrostita, un'altra di acciughe, dei biscotti, una bottiglia, bicchieri e posate, e preparò la tavola, che era sostituita da una panchina del battello. "Quando desiderate, Mister Kelly" disse con la sua più bella voce. L'ingegnere, che stava esaminando i suoi strumenti, si affrettò a rispondere all'appello, ed i due aeronauti, che cominciavano a provare i morsi della fame intaccarono con molto appetito le vivande, senza dimenticare il negro, il quale fece molto onore al pasto, specialmente alla bottiglia, malgrado la sua grande paura. Terminata la cena, l'ingegnere e l'irlandese accesero le sigarette, poi volsero uno sguardo verso l'ovest. Il grande banco era scomparso sotto l'orizzonte, e l'aerostato filava sull'immensa distesa dell'Atlantico, i cui muggiti salivano fino alla navicella. L'irlandese, malgrado la sua audacia, impallidì leggermente. Ormai non dovevano contare più sulle loro forze e sul loro vascello aereo, poiché la sola immensità li circondava e in caso di catastrofe nessun uomo sarebbe accorso in loro aiuto. Quasi contemporaneamente il sole tramontò e le tenebre piombarono bruscamente sull'oceano avvolgendo l'aerostato.

"Suppongo però che abbiate già fatto qualche ascensione." "Sì, ma su un pallone frenato. Facciamo l'inventario di ciò che possediamo e cerchiamo di mettere un pò d'ordine nella nostra navicella.? "Nella scialuppa, volete dire". "Infatti, è una vera imbarcazione, leggerissima. ma solida a tutta prova, e ci sarà di grande utilità nel caso che i nostri palloni dovessero cadere in mezzo all'oceano." "Ma quale metallo avete adoperato per costruirla? Si direbbe che sia una barra d'argento." "Ho impiegato uno dei metalli più leggeri, ma nello stesso tempo dei più solidi: l'alluminio. È un metallo che oggi è poco usato, ma che è destinato ad avere un grande avvenire. Ecco la nota delle nostre ricchezze: quattro barili di alluminio contenenti 330 litri d'acqua, 340 chili, due casse di biscotti, 200 chili: sei casse di carni conservate e conserve alimentari, 200 chili: cioccolato, bottiglie di liquori, due fucili, tre rivoltelle, munizioni, una scure, due coltelli, 90 chili; bussole, termometri, barometri, un sestante del punto, matite, carta e piccoli oggetti, 24 chili; piccola farmacia, 4 chili; tende, coperte, vestiti, una vela per la scialuppa, albero e remi, 36 chili; tre ancore, una da terra e due da mare, due piccioni messaggeri, 26 chili." "Tre ancore!" esclamò O'Donnell. "V'ingannate: io non ne vedo che una." "No, amico mio: ne possediamo tre. Quella che vedete lì e che ha la solita forma, è una: le altre due sono quei coni di alluminio che somigliano a imbuti." "Non vi comprendo." "Basta immergere uno di questi coni in mare, e subito si rovescia, si riempie d'acqua, e la resistenza che oppone basta, se non a fermare del tutto i miei palloni, almeno a rallentare assai la loro marcia." "Avete pensato a tutto, Mister Kelly." "Lo spero," rispose l'ingegnere. "Una pompa premente, 8 chili ... " "Una pompa! Che cosa volete farne?" "Per mantenere sempre gonfi i due palloncini." "Ma quali?" "Quelli che stanno dentro nei due grandi palloni contenenti l'idrogeno. Mi spiegherò meglio più tardi. Dieci cilindri di idrogeno compresso, 24 chili ... " "Per cosa farne?" "Per i miei aerostati. Comprenderete che io dovevo cercare il mezzo per mantenermi in aria il maggior tempo possibile, e ho immagazzinato in quei cilindri, mediante una pompa speciale di mia invenzione, ben quattrocento metri cubi di idrogeno." "E non scoppieranno i tubi?" "No: almeno lo spero. Peso del battello, 72 chili; peso delle funi, 100 chili; peso dei nostri corpi ... Quanto pesate?" "Sessanta chilogrammi." "185 chili fra tutti e tre. Peso dei due aerostati, 602 chili; zavorra e altri piccoli oggetti, 758 ... Totale 2600. Va bene, O'Donnell?" "È esatto," rispose l'irlandese. "Dunque noi possiamo disporre di quasi 800 chilogrammi di zavorra: un bel peso, in fede mia, ma necessario" "Una cosa però non ho veduto, fra i tanti oggetti che ingombrano la scialuppa." "E quale?" "Una cucina." "Oh, ghiottone! Mi ero dimenticato di avvertirvi, prima che saliste nella mia navicella, che sareste stato costretto a nutrirvi esclusivamente di cibi freddi." "Non era necessario: freddi o caldi, poco m'importa. Ho fatto l'osservazione non per me, ma per voi." "La cucina portatile è stata la prima cosa che ho eliminato dalla lista dei miei oggetti. Sopra il nostro capo vi è una specie di polveriera, e una scintilla basterebbe a farla scoppiare. L'idrogeno s'infiamma facilmente; ed ecco il motivo per cui ho rinunciato ad accendere il fuoco per tutta la durata del viaggio." "E proibito fumare, dunque." "No, vedete anzi che tengo anch'io una provvista di sigarette: ma alla prima fuga di gas vi consiglio di gettare nell'oceano, e senza ritardo, il vostro sigaro." "Non mancherò di farlo, Mister Kelly. Ora mi spiegherete il vostro sistema di palloni." "Bastano poche parole. Come vedete, i miei due palloni hanno la forma di due grandi fusi, lunghi ventotto metri ciascuno, del diametro di 9,20 metri al centro, più acuminati dinanzi che di dietro e del volume totale di 2120 metri cubi, ossia di 1060 ciascuno. Ho preferito questa forma, perché si presta meglio: se fossero stati due palloni ordinari gli urti fra di loro sarebbero stati frequenti, e per la loro rotondità sarei stato obbligato a tenere ad una distanza troppo grande la mia navicella. Sembrano uniti; ma le loro maglie sono indipendenti l'una dall'altra, e con pochi colpi di coltello possono separarli. Se uno si guastasse, potrei facilmente lasciarlo cadere in mare senza lunghe manovre e farmi reggere dall'altro, gettando la mia provvista di zavorra e gli oggetti meno necessari. Entrambi sono muniti di due valvole: una situata in alto, detta di manovra, serve per la discesa; e per ottenere ciò, basta dare uno strappo a questo due corde fissate a poppa della navicella; l'altra, detta di sicurezza, è automatica, e serve a dar sfogo all'idrogeno quando si dilata per il troppo calore del sole. Senza di questa si potrebbe correre il pericolo di veder scoppiare i nostri palloni. Quando raggiungeremo dei climi più caldi, vi toccherà sovente di sentire un acuto odore di gas. Sarà una perdita grave, ma necessaria per la nostra salvezza. Ma nei miei due palloni ho voluto introdurre un grande miglioramento, che è stato già studiato e anche adoperato, credo, da taluni aeronauti europei, e con risultati soddisfacenti, io ho avuto la massima cura nella scelta del tessuto di seta dei miei palloni e nella vernice interna ed esterna che doveva spalmarli; ma, come voi sapete, il gas fugge sempre anche attraverso i tessuti più impermeabili, e dopo un certo tempo l'aerostato perde la sua forza ascensionale, ricade e forma delle grandi pieghe, entro le quali s'ingolfa il vento, producendo talvolta delle lacerazioni. Io spero che col tessuto da me fatto appositamente fabbricare e verniciare, la perdita dell'idrogeno sarà minima, tanto più che i miei palloni, invece di essere semplici, hanno doppia coperta. Tuttavia fra otto o dieci giorni si sarebbero manifestate delle pieghe che sarebbero diventate assai pericolose, data la forma speciale del mio vascello aereo. Per ovviare a questo grave inconveniente e mantenere la superficie dei miei aerostati sempre tesa, ho posto in mezzo ad essi due piccoli palloni gonfi d'aria, introdotta con la pompa premente che avete veduto. Quando i due fusi perdono l'idrogeno, io gonfio sempre più i miei due piccoli palloncini i quali, aumentando il loro volume, costringeranno la superficie dei primi a rimanere sempre tesa." "Benissimo, Mister Kelly; ma quando i due palloncini saranno completamente gonfi, come farete ad aumentare il loro volume? Allora non potrete più evitare le pieghe che si manifesteranno nei due grandi aerostati." "Non ho portato con me i dieci cilindri di idrogeno compresso? Voi vedete che tutti e quattro i palloni, all'estremità inferiore, o, meglio, nel loro punto centrale, hanno quattro tubi che si prolungano fino a noi. Adatto i cilindri alle maniche dei due fusi e v'inietto dentro i miei 400 metri cubi di gas." "Per San Patrick, mio protettore! Voi avete pensato ad ogni cosa!" esclamò l'irlandese. "Lo spero, O'Donnell; ma questo non è tutto. Se i due grandi aerostati perdessero poco idrogeno e il gonfiamento ad aria dei palloncini fosse sufficiente a mantenerli tesi, io potrei accrescere la forza ascensionale del mio vascello aereo, iniettando i miei 400 metri cubi di idrogeno nei secondi" "Eliminando l'aria?" "Sì. All'una sostituisco l'altro" "E se tutto ciò non bastasse e il nostro vascello dopo un certo numero di giorni cadesse? Chissà, i venti possono spingerci lontano, sull'ampio oceano." "Ho pensato anche a questo, O'Donnell. Ho preso con me tre lunghe guide-ropes o meglio, tre funi moderatrici, del peso complessivo di 70 chili e d'ineguale lunghezza. Se il mio vascello si abbassa (e ciò avverrà senza dubbio tutte le notti, poiché con lo scemare del calore l'idrogeno si restringe, diminuendo considerevolmente la forza ascensionale), io lascio pendere le mie tre funi. Immergendosi, esse perdono una parte del loro peso specifico e alleggeriscono i palloni d'un peso non piccolo. Non bastano? Senza sacrificare la zavorra, calo i miei barili d'acqua, che sono chiusi ermeticamente nei loro recipienti di alluminio, e mi scarico due o trecento chilogrammi. Un'ora di sole basta a dilatare l'idrogeno e noi, a giorno fatto, risaliamo in alto, portando con noi i nostri barili e le nostre guide-ropes, sacrificando forse poche decine di chilogrammi di zavorra." "E se ancora ciò non bastasse e i nostri palloni scendessero per mancanza d'idrogeno?" "Mi resta la scialuppa. Da aeronauti diverremo marinai e cercheremo di raggiungere la costa più vicina, o di incontrare qualche nave." "Ma voi avete eliminato tutti i pericoli." "Tutti no, O'Donnell. Un uragano può lacerarci i palloni, o un fulmine incendiarli, e noi precipitare in fondo all'oceano." "Speriamo di scendere sani e salvi in Europa, Mister Kelly." "Confidiamo in Dio e nel nostro Washington. Simone, versaci un bicchiere di whisky. Quassù fa freddo assai, e una sorsata di liquore ci farà bene e forse ci eviterà un raffreddore." Il negro non si mosse: sempre rannicchiato a poppa della scialuppa, con gli occhi strabuzzati, la pelle bigia, le mani convulsivamente strette attorno alle funi, pareva inebetito dallo spavento. Cercò di rispondere alla domanda del padrone; ma il solo rumore che gli uscì dalle labbra contratte fu uno stridìo di denti. "Orsù, poltrone," disse l'ingegnere. "Hai paura di precipitare nell'oceano? Bel compagno che ho scelto." "Ho ... ho ... paura massa (padrone).." balbettò il negro con voce rotta. L'irlandese proruppe in una fragorosa risata. "Siete comico, mastro Simone," disse. "Non sareste stato voi di certo a tenere allegra compagnia al vostro padrone. Con vostro permesso, Mister Kelly, metto le zampe io sulla vostra cantina." L'irlandese che conservava il suo inalterabile buon umore, stappò una bottiglia e riempì tre bicchieri. "Hurrah per il Washington" gridò. Stava per accostare il bicchiere alle labbra, dopo aver toccato quello dell'ingegnere, quando un'acuta detonazione risuonò sotto l'aerostato. "Per San Patrick!" urlò, "cosa scoppia?" "Una granata," rispose Kelly, con voce tranquilla. "Pare che agli inglesi prema assai di catturarvi. Bah! sarà polvere sprecata!"

Signor aeronauta, abbiate compassione di noi che moriamo di fame! Non abbandonateci in nome di Dio!" "Vi prometto di soccorrervi, ma lasciate andare le funi, o guasterete il mio pallone." "No, non ci sfuggirete, signore urlarono i naufraghi, con accento minaccioso." "Ve lo prometto, parola di yankee." "Siete un compatriota? ... Viva l'America!" L'alba si avvicinava rapidamente, facendo impallidire gli astri. Fra pochi minuti il sole doveva spuntare e versare i suoi ardenti raggi sull'oceano. La zattera, poiché era proprio quella che il mozzo aveva abbandonata sei giorni prima, era ormai visibile. Era un ammasso informe di legnami, di travi, di pennoni, di pezzi di fasciame, di tavole legate con cordami e catene, e sormontato da un troncone d'alberetto, da cui pendeva una vela stracciata. Undici uomini montavano quella zattera, undici miserabili, coi volti bestiali, le membra ischeletrite dai lunghi digiuni, con le barbe arruffate e coperti di stracci Alcuni impugnavano delle scuri e due tenevano dei fucili; pareva che minacciassero il pallone, decisi a rovinarlo con una scarica, piuttosto di lasciarlo andare. A prua di quello strano galleggiante, gli aeronauti scorsero, non senza un fremito d'orrore, gli avanzi di due scheletri umani gettati dietro a due barili sfondati. Non ci voleva molto a comprendere che quegli sciagurati, rosi dalla fame, si erano pasciuti delle carni di quelle due vittime. "Orrore!" esclamò O'Donnell. "Questa è una seconda edizione del naufragio della Medusa ... " "La fame non discute, O'Donnell" disse l'ingegnere. "Orsù, cerchiamo di soccorrerli nel limite delle nostre forze." "Ci lasceranno liberi poi?" "Taglieremo le funi." "E le nostre àncore?" "Piuttosto di farmi trascinare sulla zattera, preferisco sacrificarle." "Temo che quest'incontro ci porti sfortuna, Mister Kelly." L'ingegnere non rispose. Esaminò rapidamente la sua dispensa, scelse parecchie scatole di carne conservata, ammucchiò in una cassa qualche decina di chilogrammi di biscotti, vi unì dello zucchero e delle scatole di tonno. "Caliamo questi viveri" disse. "Mettendosi a razione, quegli uomini possono vivere qualche giorno e guadagnare le Canarie, che non sono lontane." "Ma non abbiamo funi per calare questa cassa" disse O'Donnell. "La faremo scorrere lungo una fune di un'ancora. Aiutatemi, amici." I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato. Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti. L'ingegnere e O'Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell'ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: "Attenti alle teste!" La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati. "E l'acqua! ... Noi vogliamo dell'acqua!" urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti. "Ne abbiamo appena per noi" disse l'ingegnere. "Dateci la vostra acqua, canaglie!" tuonò Mac-Canthy. "Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!" urlò O'Donnell. "La canaglia sarai tu!" "A me amici!" gridò il marinaio. "Tiriamoli giù!" "Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!" urlarono i marinai furiosi. L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O'Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi. "Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!" tuonò Mister Kelly con tono minaccioso. I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

"Pare che abbiate dei conti da regolare con la polizia britannica: comprenderete che ... " Lo sconosciuto impallidì leggermente, poi disse con triste accento: "È vero: voi avete il diritto di credermi un malfattore e come tale indegno di seguirvi in questo grande viaggio." "No, ma ... " "Al vostro posto questo sospetto mi sarebbe filtrato nel cervello, Mister Kelly, e avrei obbligato lo sconosciuto a spiegarsi o ad andarsene. Mi spiegherò; poi se mi crederete indegno di tenervi compagnia e di dividere con voi i pericoli di questo grande viaggio mi getterò a capofitto nell'oceano." "Per uccidervi? Dimenticate che ci troviamo a 3500 metri d'altezza!" "Bah! La morte non mi fa paura. Il mio delitto è quello di aver troppo amato la terra dei miei avi, la mia patria, la mia Irlanda." "Siete un feniano?(1)" "Sì, Mister Kelly, sono uno dei capi di quella lega che mira alla emancipazione dell'Irlanda dall'oppressione dell'Inghilterra e che, all'ombra della bandiera stellata del vostro paese, ha dichiarato una guerra di sterminio alla potenza inglese, la quale tiene schiava la mia povera patria; di quella lega che al tempo della guerra di secessione sparse tanto sangue per i vostri compatrioti dell'Unione. Voi sapete la guerra atroce che le polizie inglese e canadese muovono alla lega per distruggerla. Io, capo dei feniani del Basso Canada, segnalato come uno dei più pericolosi e dei più audaci, quindici giorni or sono, venivo sorpreso di notte e arrestato come complice dell'assassinio di uno sceriffo, trovato ucciso con due colpi di rivoltella sul qual di Quebec ... Questo delitto, attribuito a torto ai feniani, poiché vi giuro che nessuno della lega lo compì, avrebbe dovuto mandarmi a passeggiare all'altro mondo senza colpa; ma i miei amici trovarono il modo di farmi evadere. Sapendo che le autorità mi avevano condannato a piroettare nell'aria con una corda al collo, travestito da marinaio scesi il San Lorenzo e sbarcai all'Isola Brettone, in attesa d una nave in rotta per l'Europa. Appresi della vostra partenza per le regioni dell'aria e avendo udito che cercavate un compagno, decisi di seguirvi, certo che gl'inglesi, che non avrebbero mancato di visitare scrupolosamente le navi transatlantiche, non mi avrebbero inseguito per aria; e avete veduto che i policemen sono rimasti a terra. Questo è il mio delitto: ora giudicatemi voi." "Ma voi siete il feniano Harry O'Donnell!" esclamò l'ingegnere. "In persona, Mister Kelly." "Sono ben felice di avervi salvato, O'Donnell, e sono doppiamente felice d'aver un compagno della vostra specie." "Grazie, Mister Kelly," disse il feniano, stringendo calorosamente la mano che l'aeronauta gli porgeva. "Speriamo che gli inglesi non ci raggiungano." "Raggiungerci? E in qual modo, O'Donnell?" "Ho veduto una nave, un incrociatore inglese uscire da Sidney e filare verso Terranova a tutto vapore, pochi minuti dopo la nostra partenza." "E voi credete ... ?" "Che ci dia la caccia." "Credere che uno steamer possa gareggiare con il pallone è una pazzia, amico mio. In poche ore il vostro incrociatore rimarrà indietro di due o trecento miglia." "Ma non siamo quasi immobili?" chiese l'irlandese con stupore. "Filiamo con una velocità di trentasei miglia all'ora." "Ma io non sento alcun movimento e nemmeno un lieve soffio; se il pallone camminasse con una velocità di trentasei miglia all'ora, si dovrebbe provare una forte corrente d'aria. Guardate, Mister Kelly: la bandiera è immobile e il fumo della mia sigaretta non si disperde che lentamente." "E che cosa proverebbe ciò?" "Che dobbiamo essere immobili, o poco meno." "V'ingannate, O'Donnell, o potete accertarcene guardando l'Isola Brettone, che ormai è appena visibile, mentre Terranova ingrandisce a vista d'occhio." "Infatti è vero." "Noi non possiamo accorgerci della marcia del nostro vascello aereo, perché i palloni non hanno moto proprio. È la massa d'aria che li tiene prigionieri, ed essa cammina: ecco il motivo della nostra apparente immobilità. Anche se il vento fosse più forte, noi non ci accorgeremmo della sua rapidità e ci sembrerebbe di essere sempre immobili." "Ciò è strano!" esclamò l'irlandese. "Io ho sempre creduto il contrario." "E i più lo credono; anzi, taluni pretesi aeronauti hanno perfino immaginato di dotare i palloni di vele, credendo di poter aumentare la loro velocità." "Mentre le vele rimarrebbero assolutamente inerti." "Precisamente." "E non potrebbe nemmeno influire la maggiore o minore grandezza dei palloni sulla rapidità?" "Nemmeno: sia piccolo o grande, il pallone filerà sempre con la velocità del vento e niente più." "E credete voi di riuscire ad attraversare l'Atlantico e di discendere sulle coste europee?" "Lo spero, O'Donnell. Dispongo di tali mezzi che mi permettono di mantenermi in aria per parecchi giorni, anzi alcune settimane. Ho a lungo studiato questo grandioso viaggio aereo, ho tutto calcolato con precisione matematica, mi sono preparato a tutto e ho fatto degli studi profondi sulla direzione delle correnti aeree che si spingono verso il levante. Se avessi voluto intraprendere la traversata dell'oceano, avrei dovuto caricarmi di tale massa di carbone per la macchina da farlo ricadere subito, e sono tornato al vecchio sistema dei palloni liberi, che finora ritengo sia ancora da preferirsi. È vero che ho introdotto nel mio vascello aereo dei grandi miglioramenti ma, come vedete, è sempre un pallone senza moto proprio, senza macchine e senza eliche, affidato solamente alle correnti aeree. Dapprima avevo cercato di costruire un pallone dirigibile, dotandolo di moto proprio; ma mi sono convinto che, coi mezzi attuali di cui dispone la scienza, sarebbe stata un'utopia e ho rinunciato. È bensì vero che ero riuscito a costruire una piccola macchina a vapore che metteva in movimento due grandi eliche, le quali mi permettevano di lottare contro il vento, quando questo soffiava con velocità moderata, e ad inventare un timone che mi dava adito a dirigere l'aerostato; ma ciò poteva servire soltanto per un viaggio di breve durata. Andremo direttamente in Europa? Io lo spero. Ma se la grande corrente che va a levante, e che io ho scoperto, dovesse deviare nel mezzo dell'oceano e spingerci altrove, ho pensato a trovare il mezzo di mantenerci a lungo in aria e spero di esserci riuscito. Se tutto va bene, se un uragano non fa scoppiare i palloni, e un fulmine non ce li incenerisce, io calcolo di toccare le sponde dell'Europa fra sei giorni o forse anche meno." "Quale distanza corre fra l'isola Brettone e le prime coste europee?" "Circa tremila miglia. Ho scelto appositamente l'Isola Brettone, che si può considerare come un lembo di terraferma, data la sua vicinanza alla Nuova Scozia, e che è la più prossima alle coste europee. Avrei potuto partire dalla Groenlandia, che dista dalle spiagge della Norvegia solo ottocento miglia; ma avrebbero detto; forse che io non ero partito dall'America, quantunque i geografi di tutte le nazioni considerino quel gran deserto di ghiaccio come terra americana." "Ma non vi è altro punto più prossimo?" "No, poiché scendendo più a sud le distanze crescono, allargandosi l'oceano. Tra la Florida e il Marocco abbiamo già una larghezza di tremilaseicento miglia; fra Rio della Piata e il Capo di Buona Speranza sono altrettante." "Ma fra il Capo di San Rocco e la costa africana non si restringe l'oceano?" "È vero, O'Donnell, poiché là l'Atlantico è largo solo milleseicento miglia; ma noi avremo incontrato le grandi calme e i venti che da levante soffiano costantemente verso ponente; e anche se fossimo riusciti ad attraversare l'oceano, saremmo caduti sulle coste inospitali della Sierra Leone, forse fra le mani dei feroci abitanti del Dahomey e degli Ascianti." "Ma siete certo che i venti ci spingano verso oriente?" "Proprio certo, no; ma io so che al di là di Terranova i venti ordinariamente soffiano verso il nord-est." "Ma allora finiremo in Manda o in Norvegia," disse l'irlandese. "Ma credete che non vi siano altre correnti sopra quelle che vi ho accennato? Io spero di trovarne qualcuna che mi faccia piegare verso l'oriente. Bisogna però non illudersi, O'Donnell, ed essere preparati a tutto, anche a ritornare in America. Siamo in balia delle correnti aeree: possono spingerci direttamente in Europa, come possono trascinarci verso le gelide regioni del nord, o a quelle ardenti dell'equatore; possono prepararci una discesa trionfale sulle spiagge o dell'Inghilterra, o del Portogallo, o della Spagnia, o ... la morte. La nostra vita è nelle mani di Dio e dei venti." "Sono preparato a tutto, Mister Kelly," disse l'irlandese. "Ero condannato a morte, e tutti i giorni che vivrò ancora saranno guadagnati. Nel caso in cui fosse necessario, per salvezza vostra e dell'aerostato, ve lo dissi già, disponete liberamente della mia pelle." "Grazie, O'Donnell," disse l'aeronauta, sorridendo. "Cercherò di risparmiarla finché lo potrò e mi limiterò a gettare la zavorra che qui abbonda. Porto con me un peso enorme, che mi permetterà di mantenermi in aria lungo tempo." "Quanti chilogrammi ? " "Tutto compreso, noi, la scialuppa, le armi, le provviste, le funi, ecc., tocchiamo i 2600 chilogrammi." "Tale forza hanno i vostri palloni!" "La loro forza ascensionale è di 1,20 chili per metro cubo d'idrogeno, essendo questo di qualità superiore agli altri, che non sollevano ordinariamente più di 1,18 chili. Ora facciamo l'inventario dei nostri progetti; poi, in attesa di giungere sopra Terranova, se vorrete, vi spiegherò il sistema che ho adottato per i miei aerostati."

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Si fermò dinanzi al conte, facendo un grazioso inchino, accompagnato da un delizioso sorriso, poi, stendendogli la destra, gli disse: - Sono lieta che voi, signor conte, abbiate accettato il mio invito. - Gli uomini di mare son ruvidi, marchesa; ma non rifiutano mai un invito, specialmente quando vien fatto da una signora bella come voi. Quelle parole fecero corrugare piú di una fronte e sollevarono fra gli adoratori della marchesa qualche mormorio. Il Conte de Miranda si voltò vivamente, con la sinistra appoggiata fieramente sull'elsa della spada e la destra sul fianco, e disse con voce chiara: - Pare che a qualcuno non sia piaciuto quel che ho detto: si sappia che noi, figli dell'oceano, sappiamo guidare le navi, ma regalare anche una buona stoccata. - Vi siete ingannato, signor conte - disse la marchesa. - Qui tutti hanno molta stima per gli uomini che, sfidando tempeste e pericoli, ci difendono dai filibustieri della Tortue. Nessuno aveva osato fiatare e le fronti si erano spianate. Solamente un capitano degli alabardieri di Granata, un pezzo d'uomo alto un palmo piú del giovane conte, era ancora molto corrucciato. - Signor conte, - disse la marchesa di Montelimar - volete offrirmi il vostro braccio? Sarò orgogliosa di appoggiarmi ad un forte uomo di mare. - Che metterà la sua spada e la sua vita sempre a vostra disposizione, marchesa - rispose il bel giovane, guardando insolentemente gli invitati che manifestavano un po' di malumore per la preferenza accordata dalla bella vedova a quel capitano sconosciuto a tutti. - Non chiedo tanto conte. Danzate? - Sí, marchesa; alla francese però, perché sono stato educato in Provenza. - Come mai? Non siete spagnuolo? I de Miranda, se non m'inganno, sono castigliani. - Puro sangue; ma mio padre aveva sposato una francese, e mi affidò ancora bambino ai parenti di mia madre. - Infatti mi accorgo che voi avete un accento diverso dal nostro. - Gli uomini di mare visitando tanti paesi, perdono l'accento della madre lingua; poi ho soggiornato molto anche in Italia. - Ecco perché voi parlate cosí dolcemente. Ah, l'Italia! Anch'io l'ho visitata ... E venite ora ... ? - Da Vera-Cruz, marchesa. - Dopo aver incontrato chi sa quante avventure! - No, marchesa: una tempesta ed un paio d'abbordaggi con due navi filibustiere. - Che avrete affondato, immagino. - Rimorchiate, marchesa, dopo aver imprigionato i loro equipaggi. - Ed ora andavate? ... - Mi fermo qui per difendere San Domingo. - Siamo minacciati? - Si dice che i bucanieri, d'accordo con i filibustieri, si preparino per un colpo di mano contro questa città, ma troveranno sul loro cammino i quaranta cannoni della mia Nuova Castiglia, e vi giuro, marchesa, che li farò ... Il conte si interruppe bruscamente e si voltò di fianco. Un capitano degli alabardieri, lo stesso che poco prima aveva borbottato piú degli altri, un bell'uomo sulla quarantina, alto come un granatiere, con due immensi baffi cadenti alla chinese, gli si era fermato a pochi passi come se cercasse di sorprendere le sue parole. Alla fermata improvvisa del giovane capitano, aveva girato sollecitamente sui talloni, battendo impazientemente la sinistra sulla guardia della sua lunga spada e abbordando una signora che in quel momento attraversava la sala. - Chi è quel signore? - chiese il conte alla marchesa, aggrottando la fronte. - Il conte di Sant'Iago, capitano degli alabardieri del reggimento di Granata - rispose la marchesa di Montelimar, sorridendo. - Vi interessa? - Niente affatto, signora. Mi pareva che ci seguisse, per ascoltare ciò che noi dicevamo. - È un mio adoratore. - Ad una cosí bella signora non possono mancare. - Oh, conte! - esclamò la marchesa, battendogli su una mano il suo ricco ventaglio dalle stecche d'oro. - Vi ama? - Alla follia. La settimana scorsa uccise un luogotenente di marina con un terribile colpo di spada, perché credeva che io avessi per quel disgraziato qualche preferenza. - Ah! Il capitano è geloso? - E un buon spadaccino, a quel che si dice - aggiunse la marchesa. - Vorrei provare un po' la sua abilità - disse il conte con voce ironica. - Guardatevene, signor de Miranda! - E che, marchesa; mi credereste voi tal uomo da aver paura di quel capitano? - No, conte, ma mi rincrescerebbe ... - Che cosa? - Che vi toccasse qualche disgrazia - rispose la marchesa, alla quale pareva che un'improvvisa commozione avesse alterato l'accento. Il giovane capitano si staccò dal suo braccio e la guardò con sorpresa: - A voi, che mi conoscete appena da cinque minuti, - disse - a voi spiacerebbe se mi succedesse qualche disgrazia? - Io ammiro i gentiluomini coraggiosi e amabili come voi, conte. Il giovane represse un sospiro, poi disse a mezza voce:: - È strano; anche mio zio ... Ma tosto s'interruppe, stringendo le labbra. - Che cosa avete detto, conte? - chiese la marchesa di Montelimar. - Che la musica è ottima, e che si potrebbe danzare questo delizioso fandango. - Era quello che volevo proporvi. - Ai vostri ordini, marchesa. Le danze erano già state riprese. Dame e cavalieri giravano vorticosamente nelle splendide sale del palazzo di Montelimar, elettrizzati da una dozzina di suonatori nascosti dietro ad una specie di giardinetto formato da una doppia fila di superbi banani, le cui grandissime foglie s'alzavano fino al soffitto dorato. Il conte cinse il fianco della marchesa e si slanciò agilissimo nel turbine dei danzatori e delle danzatrici. Alcuni si erano fermati per ammirare quel bellissimo giovane e la sua bellissima compagna, stupefatti della sua leggerezza e della sua grazia. Mai prima d'allora avevano veduto danzare a quel modo un uomo di mare. Il fandango era appena finito e il conte aveva ricondotta la marchesa al suo posto, quando alle sue spalle udí una voce che gli disse: - Signore, voi che danzate cosí bene, sapete giocare altrettanto bene? Il giovane capitano della Nuova Castiglia si voltò vivamente e non seppe frenare un moto di sorpresa nel vedersi dinanzi il capitano degli alabardieri del reggimento di Granata. Il conte lo fissò per un momento; poi rispose con accento ironico: - Un gentiluomo deve saper danzare, saper giocare e dare anche colpi di spada quando gli si offre l'occasione. - Vi ho proposto solamente di giocare, per ora - disse il capitano degli alabardieri. - Se ciò può farvi piacere eccomi ai vostri ordini, conte di Sant'Iago. - Come? Mi conoscete? - esclamò il capitano, facendo un gesto di stupore. - Cosí ... per caso La marchesa di Montelimar, un po' pallida, si era alzata. - Che cosa volete, conte di Sant'Iago dal conte de Miranda? - chiese. - Null'altro, signora, che proporgli una partita al montes - rispose il capitano. - Gli uomini di mare preferiscono il gioco alla danza; è vero, conte? - Qualche volta - rispose asciuttamente il giovane. - E poi avete già danzato una volta con la regina della festa. - Ma se la marchesa desiderasse fare un altro giro rinunzierei subito alla partita che voi mi proponete, checché dovesse succedere. - La notte non è ancora finita, e avrete tempo di muovere le gambe finché vorrete - disse il capitano degli alabardieri con sottile ironia. - Non giocate, conte - disse la marchesa. - Oh, non farò che una sola partita! - rispose il giovane capitano. - Sono distrazioni che piacciono alle genti che navigano. Andiamo, signor di Sant'Iago. Baciò galantemente la mano alla marchesa di Montelimar e seguí il burbero capitano degli alabardieri, non senza aver prima fatto alla bella vedova un leggero cenno, come per dirle: - Non vi preoccupate per me. Attraversarono l'ampia sala sfolgorante di luce, dove capitani di terra e di mare danzavano allegramente insieme con le piú leggiadre signore e signorine di San Domingo, ed entrarono in un salottino dove una dozzina di ufficiali, per la maggior parte vecchi, stavano giocando e fumando grossi sigari avana, senza occuparsi affatto della festa da ballo. Dei dobloni semplici e doppi scintillavano sui tavolini da giuoco, e dadi e carte venivano gettati con una certa noncuranza, piú affettata che reale, dai giocatori. - Signor conte, - disse il capitano degli alabardieri - preferite le carte o i dadi? Il giovane capitano di fregata parve pensare un momento, poi disse: - I dadi mi pare che diano un'emozione piú violenta delle carte, e ciò va benissimo per gli uomini di guerra abituati ai colpi di spada e di cannone. Non vi pare, signor di Sant'Iago? Non siamo dei tranquilli piantatori di canne da zucchero o d'indaco! - Avete dello spirito, conte. - Di mare, condito con molto sale - disse il giovane sorridendo. Noi siamo uomini molto salati. - Mentre noi siamo molto profumati, invece - rispose il capitano degli alabardieri di Granata. - Perché? - Viviamo sempre nei boschi, alla caccia dei bucanieri. - E ne uccidete molti di quei furfanti? - Uff! qualche volta qualcuno cade sotto i nostri archibugi, ma quasi mai sotto le alabarde delle nostre guardie. Appena quei furfanti odono lo sparo d'un archibugio, invece di attaccare, scappano come lepri. - Chi? I bucanieri o i nostri? - I nostri, conte. - Hanno tanta paura? - Basta talvolta un bucaniere bene imboscato per mettere in rotta i nostri alabardieri; e notate che non si mettono mai in campagna, se non sono almeno cinquanta. - Bel coraggio! - disse il conte de Miranda con un sorriso un po' sarcastico. - Carrai! vorrei veder voi al loro posto! - Li attaccherei a fondo alla testa dei miei marinai. - Si vede, infatti, che bella figura fanno i marinai che montano i nostri galeoni! - osservò il capitano beffardamente. - Dopo le prime cannonate, abbassano il grande stendardo di Spagna e consegnano ai furfanti della Tortue le verghe d'oro che hanno nella stiva. - I miei veramente ... Il conte di Miranda si fermò mordendosi le labbra come pentito di essersi lasciato sfuggire quella frase e disse: - Capitano, volete dunque che giochiamo? - Vi avevo invitato per questo. Vedremo se l'amore porta fortuna o sfortuna. - Che cosa volete dire? Il conte di Sant'Iago, invece di rispondere, fece un segno ad un servo negro gallonato vestito di seta e gli ordinò: - I dadi: vogliamo giocare. - Subito, signor conte. Un momento dopo il servo portava su un piatto d'argento finemente cesellato una piccola tazza d'oro con due dadi di dente di marsuino. - Che giochiamo, signor conte de Miranda? - chiese il capitano degli alabardieri. - Quello che volete. - Badate a quello che dite. - Perché, signor conte di Sant'Iago? - chiese il giovane con affettata indifferenza. - Carrai! - Caramba! Bestemmiate, signor conte. - Ed anche voi, mi pare. - Oh! Io sono uomo di mare! D'altronde nessuno vi proibisce di bestemmiare. Le genti di terra e di mare qualche volta vanno pienamente d'accordo su questo.. terreno. - Avete dello spirito, conte. - Qualche volta. - Giocate? - chiese il capitano. - Ve l'ho già detto: quello che desiderate. - Una pelle viva? Il giovane guardò il capitano con sorpresa - Non vi comprendo: quale può essere questa pelle viva? Quella d'un pescecane forse? Il capitano degli alabardieri di Granata si mise le mani sui fianchi, con un fare provocante, poi disse con voce grave: - Fra gli uomini d'arme di terra usa giocare una pelle, quando si è stanchi di gettare dell'oro sul tavolo. - Ossia? - chiese il conte de Miranda con calma. - Quello che perde si fa saltare il cervello con un colpo di pistola. - Brutto giuoco! - Anzi interessantissimo, perché si giuoca la vita d'un uomo. - Preferisco arrischiare i miei dobloni - rispose il giovane. - Lo trovo piú comodo. - E quando non se ne hanno piú? - Si lascia il tavolino da giuoco e si va a dormire nella cabina: almeno cosí usa nella marina. - Non fra noi però! - Che diavolo! Sareste uomini tanto diversi, signor conte? - Può darsi! - rispose seccamente il capitano. - Avete pessimi gusti. - Volete offendermi? - Io? Niente affatto, capitano, sono venuto qui per giocare e non per arrabbiarmi o suscitare uno scandalo. Che cosa si direbbe di me? - Forse avete ragione. - Lasciate dunque in pace le pelli vive o morte, e giochiamo dei dobloni o delle piastre. Quelle almeno non hanno peli né da vendere né da uccidersi - Puntate? - Cento piastre - rispose il giovane gentiluomo. - Volete rovinarmi? - No, perché sono un pessimo giocatore, signor di Sant'Iago; e poi non ho mai avuto fortuna né alle carte, né ai dadi. - L'avrete con le belle signore, con le marchese soprattutto - disse il capitano quasi con rabbia. - In mare non ho incontrato che navi, montate per lo piú da corsari, e quelle non mi regalavano baci, ve l'assicuro. Al mio saluto rispondevano invece con palle di buon calibro che facevano sudar freddo i miei uomini. - Ma in terra, sí però. - Signor di Sant'Iago, io sono entrato in questo salotto per giocare qualche migliaio di piastre e non già per chiacchierare. Dovreste saperlo che gli uomini di mare non amano parlar molto ... Cento piastre? - Sia! - rispose il conte di Sant'Iago con un gesto sprezzante. - Volete essere il primo? Il capitano, invece di rispondere, prese il bossolo d'oro, fece saltellare i dadi: poi li rovesciò sul tavolino. - Tredici! - disse. - Ecco un numero che porterà fortuna. - Siete superstizioso? - No, tuttavia questo tredici mi ha dato una scossa al cuore. - Allora morrete molto presto - disse il conte de Miranda ridendo. - Per mano di chi? - Non sono mai stato uno stregone, io. - D'un rivale? - Può essere. - Non lo credo, perché ne ho ucciso uno la settimana scorsa, per il semplice motivo che mi dava ombra. - Avete la mano troppo lesta, signor di Sant'Iago. - Che fora sempre quando stringe una spada. - Veramente anche la mia non è tarda - ribattè il giovane. Il capitano degli alabardieri lo guardò fisso fisso, come se cercasse di comprendere bene il senso di quelle parole, poi disse: - Tocca a voi. Il conte de Miranda prese a sua volta il bossolo e fece rotolare i dadi sul tappeto. - Quattordici! Che combinazione! - esclamò. - Caramba! Un tredici e un quattordici. Che cosa significano questi due numeri cosí vicini l'uno all'altro? Il capitano degli alabardieri si era passata una mano sulla fronte aggrottata. Una viva preoccupazione traspariva dal suo viso. - Che cosa ne dite voi, signor di Sant'Iago? - chiese il giovane. - Che voi avete vinte le mie cento piastre. - Di quelle non mi occupo: io parlo dei due numeri. - Nemmeno io sono uno stregone. - Continuate? - Sí: voglio vedere come si combineranno i nuovi numeri. Vi propongo tre colpi di cinquecento piastre ciascuno. - Sta bene: a voi. Il capitano riprese il bossolo e, dopo aver agitato nervosamente i dadi, li fece saltare sul tappeto. Un'imprecazione a malapena repressa gli sfuggí, mentre la fronte gli s'imperlava di sudore. - Tredici ancora! - aveva esclamato. - È col diavolo che io gioco? - Veramente sono vestito come lui! - disse il conte de Miranda, sempre ilare. - Giocate, per Dios! - Dodici! - esclamò il giovane. Il capitano sussultò. - Il tredici chiuso fra il dodici ed il quattordici! - disse, battendo un pugno sul tavolino. - Non trovate strano tutto ciò, conte? - Infatti è una cosa che dà a pensare. - E il numero fatale l'ho io! - Ma mi avete vinto cinquecento piastre, una somma che può consolare anche un capitano degli alabardieri. - Avrei preferito perderle, purché fosse uscito un altro numero. - Né io, né voi possiamo comandare ai dadi. Continuiamo. La partita fu ripresa, ed il conte d Miranda vinse le altre mille piastre, con un quindici e con un diciassette, contro un quattordici ed un sedici. Il capitano si era alzato di cattivo umore, nel momento in cui i servi annunciavano che era la mezzanotte e che perciò la festa era finita. - Vi manderò domani a bordo le millecento piastre che mi avete vinto, conte - disse il signor di Sant'Iago con voce secca. - Non abbiate fretta - rispose il giovane. - Mi accorderete una rivincita, spero. - Quando vorrete. - Non qui però. - Perché? - Non ho fortuna in questa casa. - E non si può litigar liberamente; è vero, capitano? - chiese il de Miranda ironicamente. - Può essere - rispose il capitano. - Buona sera, conte. Ciò detto, uscí dal salotto ed entrò nella sala da ballo, dove dame e cavalieri si affollavano intorno alla marchesa di Montelimar per accomiatarsi. Il comandante della Nuova Castiglia si era invece fermato, appoggiandosi allo stipite della porta. Aspettava probabilmente che gli invitati se ne andassero. Dall'espressione del suo viso si capiva che non era meno preoccupato del conte di Sant'Iago. Tormentava con la sinistra la guardia della sua spada e si torceva nervosamente i baffi. Quando la splendida sala fu quasi vuota, a sua volta avanzò verso la marchesa, la quale pareva che già lo cercasse con lo sguardo. - Signora, - le disse inchinandosi - mi perdonerete se io non sono piú rientrato per fare un'altra danza con voi, ma mi ero impegnato in una grave partita al giuoco. - Col capitano degli alabardieri? - chiese la bella vedova, con una certa ansietà. - Sí, marchesa. - Non avete questionato con lui? - Niente affatto. La marchesa respirò. - Guardatevi da lui, signor conte - disse poi. - È un uomo pericoloso. Il giovane batté una mano sulla guardia della spada. - Quando al mio fianco sta questa lama, io non ho paura di tutti i capitani degli alabardieri di Spagna, di Francia o d'Italia! - disse. - Marchesa, quando potrò rivedervi? Io devo chiedere a voi un'informazione che mi interessa. - A me? - Sí, marchesa. - Allora domani farete colazione con me. - Domani, - disse il conte, mentre sulla sua fronte passava come un'ombra - potrebbe essere troppo tardi. - Contate di partire presto? Siete arrivato solamente stamane. - È vero, marchesa: ma vi sono delle volte che non si può disporre del proprio tempo. Potrei rimanere, come potrei partire da un momento all'altro. Non vorrei andarmene però prima d'aver avuto un colloquio con voi. - Non siete venuto per proteggere San Domingo da un attacco dei corsari della Tortue e dei bucanieri? - Non posso rispondervi, marchesa. - Eppure voi non dovete partire cosí presto. Sapete cavalcare, conte? - Sí, marchesa. - Domani ha luogo la corsa al gallo e desidererei che vi prendeste parte. - Perché? - La posta è un mio bacio che darò e riceverò dal vincitore. Il conte de Miranda ebbe un leggero trasalimento. - Checché accada, - disse poi - prenderò parte alla corsa. Buona sera marchesa; noi ci rivedremo, perché è necessario. Baciò la mano alla bella vedova e uscí accompagnato da un valletto mulatto, il quale reggeva a stento un pesante doppiere d'argento. In quello stesso momento gli ultimi invitati lasciavano il magnifico palazzo di Montelimar.

.- Credo che non solamente per ritrovare vostra sorella voi abbiate lasciato l'Italia e siate venuto in questi mari lontani. - Mio padre ed i suoi fratelli diventarono corsari per compiere delle vendette - rispose il conte con voce sorda. - È probabile che anch'io debba compierne una; ma questa, signora, deve rimanere un segreto fra me e Dio. Il bucaniere riempí il bicchiere del conte, dicendo: - Bevete, signore: l'aguardiente sopisce e soffoca in me, piú di quello che credete, terribili ricordi: questo delizioso vino di Spagna calmerà i vostri. In quello stesso momento in cui il conte, forse convinto dalle parole del misterioso avventuriero, stava per vuotare la tazza, un negro si precipitò nel porticato, col viso sconvolto, la pelle grigiastra, gli occhi di porcellana dilatati, dicendo: - Sono qui, signora: sono entrati. - Chi? - chiese la marchesa aggrottando la fronte. - Una cinquantina intera. - Con qual diritto? - Ordine del governatore di San Domingo. - Comincia a diventare noioso quel signore! - disse la marchesa alzandosi. - Amici, non sarebbe prudente che voi rimaneste ancora qui. Ci hanno interrotta una notte deliziosa, ma io no ne ho nessuna colpa ... Marto, chiama subito gli uomini che cenano sulla terrazza. - Che cosa volere fare, Marchesa? - chiese il bucaniere. - Nascondervi. - Nella vostra palazzina? Con un ordine del governatore non si tratterranno dal frugarla da cima a fondo. La signora di Montelimar ebbe un sorriso. - Lasciate fare a me, conte - disse. - Avete qualche nascondiglio segreto anche qui? - Vi mando nelle mie cantine. - Bel luogo! - disse Mendoza che entrava in quel momento, seguito dal guascone. - Marto, conduci questi signori nell'ultima cantina, quella che è piena di botti. Gli spagnuoli non giungeranno fin là; rispondo io di tutto, conte. I quattro uomini seguirono il servo negro, il quale si era munito di parecchie torce e d'un paniere dove aveva messo i resti della cena. Giunti all'estremità dell'ampio cortile Marto aprí una porticina e li fece scendere per una scaletta stretta e umida, e li condusse poi attraverso spaziose cantine piene di botti grossissime. - Compare, - disse il guascone battendo sulle spalle di Mendoza - giú vi è da bere a crepapelle. - E noi berremo! - rispose il filibustiere. - Ne assaggeremo un po' da tutti quei recipienti. La marchesa non deve bere che del vino delle Canarie o di Alicante. Attraversate parecchie cantine, giunsero finalmente nell'ultima, assai lunga e stretta, e anche quella ingombra di botti e di barili. - È un paradiso un po' oscuro, ma pur sempre un paradiso, - disse Mendoza, facendo schioccare la lingua. - Passate, signori, - disse il negro - perché devo ostruire l'entrata con dei barili. - Non ci seppellirai vivi, spero - disse il guascone. - Non abbiate questo timore - rispose l'africano sorridendo. Il conte, Buttafuoco e i due avventurieri s'affrettarono a rifugiarsi nella cantina, portando le torce, gli archibugi ed il paniere, mentre Marto spingeva contro l'apertura, molto bassa e molto stretta, una grossa botte, ostruendo e nascondendo completamente il passaggio. - Speriamo che questa avventura sia l'ultima! - disse il conte, dopo aver piantata in terra una torcia. - Che ne dite, Buttafuoco? - Eh! - rispose il bucaniere, il quale non sembrava molto tranquillo. - Non so se la marchesa potrà resistere ad un ordine scritto dal governatore di San Domingo. - Che ci vengano a scovare? - Non saprei che cosa rispondere alla vostra domanda, signor conte. - Se verranno, ci difenderemo - disse Mendoza. - Qui siamo come in una casamatta. - Ma senza uscite - aggiunse il guascone. - Noi siamo come lupi rinchiusi nella loro tana con i cacciatori all'ingiro. - In attesa che i cacciatori si mostrino o si ritirino, io avrei una proposta da fare - disse Mendoza. - Quale? - chiese il conte. - Di terminare la cena, giacché quel bravo pagano dell'Africa ha avuto la buona idea di empire il canestro; e poi di assaggiare il vino di questa botte. Sono curiosissimo di sapere quali vini beve la marchesa e quali offre ai suoi ospiti. Vi pare, don Barrejo? - Un guascone non rifiuta mai di bere! - rispose l'avventuriero, con sussiego. - Signore conte, - disse Buttafuoco, il quale non aveva potuto frenare uno scoppio di risa - dove avete raccolti questi due diavoli? - Uno l'ho pescato nel mar di Biscaglia - rispose il signor di Ventimiglia. - E me fra i boschi di San Domingo, presso Puerta del Sol aggiunse il guascone. - Ma anch'io ho respirato l'aria salubre del mar di Biscaglia. Compare, terminiamo la cena, se il signor conte ce lo permette: io non ho avuto che il tempo di assaggiare una costoletta di cinghiale, coriacea come la carne d'un mulo centenario. - Fate pure - disse il signor di Ventimiglia. - Io preferisco, finché gli spagnuoli ci lasciano un po' di respiro, chiudere gli occhi. - Ed io altrettanto - aggiunse il bucaniere. - Se si dovrà impegnare nuovamente la lotta, saremo almeno riposati. Affidiamo a voi la guardia. - Un guascone non s'addormenta mai in faccia al nemico - disse don Barrejo. - E nemmeno un basco! - aggiunse Mendoza. - Si sono ben appaiati - brontolò il bucaniere. Il conte si era già coricato fra due botti ed aveva subito chiusi gli occhi. Buttafuoco non tardò ad imitarlo, mentre il filibustiere ed il suo degno compagno si accoccolavano intorno al canestro, pescando e divorando quanto vi era dentro, per nulla preoccupati dell'imminente pericolo che li minacciava. - Sapete, don Barrejo, che voi resistete meravigliosamente al sonno? - disse Mendoza, quando non vi fu piú nulla da porre sotto i denti. - E che! ... Un guascone! ... - Questi guasconi sono dunque delle macchine? - Quasi, compare. - Se provassimo la nostra resistenza al vino? - Era quello che volevo proporvi. Quel brutto negro si è dimenticato di mettere delle bottiglie nel canestro. Ma non valeva la pena che s'incomodasse; non siamo qui in una cantina marchionale? Sono qualche volta una bestia, compare - disse l'avventuriero. - Quantunque guascone! ... - Eh, qualche volta anche noi diventiamo bestioni; ma io rimedio subito ... - Guardate che bella pancia ha quel bottale! ... Scommetterei che contiene dello Xeres. - No, dell'Alicante. - Ma che! ... Xeres. - Me ne intendo io di vini di Spagna! - Anche senza assaggiarli? ... Compare! ... Voi siete un uomo meraviglioso! ... Scommettiamo uno dei vostri dobloni? - Vada per il doblone, - rispose don Barrejo, - Si troverà meglio nelle vostre tasche che in quelle degli spagnuoli. Spillate, compare, vedremo chi avrà ragione. Mendoza, che aveva già adocchiato un grosso boccale di terra, nascosto sotto una trave e che serviva probabilmente ai cantinieri per gustare il vino della marchesa all'insaputa dell'intendente, andò a spillare il panciuto recipiente, facendo uscire un bel rivoletto color dell'ambra. - Caramba! - esclamò il marinaio. - Voi avete una fortuna indiavolata, signor Barrejo. Questo è vero Alicante! ... Che i guasconi abbiano anche un fiuto meraviglioso? - Non manca nulla a noi, caro compare! Avete perduto il doblone. - Che vi pagherò quando saremo a bordo della fregata, se ci riusciremo. Il guascone fece una smorfia, poi alzò le spalle. - Bah, - disse - mi consolerò con questo deliziosissimo Alicante. Sentite che profumo, compare? La signora marchesa di Montelimar sa dove fare i suoi acquisti. Su, bevete e passate. Volete farmi morire di sete? - No, prima al vincitore! - rispose serio Mendoza, porgendo la brocca. Il guascone l'afferrò, allargò per bene le gambe e si mise a bere a garganella, senza nemmeno prendere respiro. - Carrai! - esclamò il filibustiere, facendo un gesto di spavento; - Volete ubriacarvi, don Barrejo? - Bah! ... Un guascone? ... - rispose l'avventuriero staccando per un momento le labbra. - Al diavolo tutti i guasconi! ... Io mi attaccherò alla botte e vedremo chi berrà piú a lungo. Il degno lupo di mare imboccò lo spinello e per parecchi minuti nella cantina non si udí altro rumore che quello prodotto dal gorgoglio del vino che passava attraverso le gole dei due formidabili bevitori. Chi sa quanto quel leggero rumore sarebbe continuato, se un improvviso sussurrio di voci, che proveniva dalle ampie cantine, non l'avesse interrotto. Il guascone aveva lasciato cadere il boccale senza averne veduto il fondo, mentre Mendoza chiudeva rapidamente la cannella della botte, dicendo precipitosamente al compagno: - Spegnete la fiaccola. Il guascone si affrettò ad obbedire. - Che stiano per scoprirci? - chiese il lupo di mare. - Della gente scende nelle cantine, - rispose don Barrejo, accostandosi alle botti che ostruivano l'entrata. - Vedo delle torcie brillare. - Sacco rotto! ... Che questa bevuta di Alicante ci porti sfortuna? ... Era proprio Alicante, è vero, don Barrejo? - Per Bacco! ... E del piú fino, - rispose l'avventuriero. - Peccato che siano venuti a guastarci la bevuta. Potevano aspettare un momento, diavolo! ... Svegliamo il conte? - Non credo che pel momento sia necessario, - rispose Mendoza. - Aspettiamo di vedere quello che succede. Forse avremo ancora l'occasione di riprendere la nostra bevuta senza incomodi testimoni. Ventre di foca! ... Sono proprio gli spagnuoli. Guardate, don Barrejo. S'avvicinarono entrambi alle botti che occupavano, anzi che nascondevano la porta e spinsero gli sguardi attraverso le fessure lasciate dai grossi recipienti che Marto aveva fatti rotolare. Quattro servi della marchesa, tutti schiavi negri, guidati da Marto in persona, erano entrati nella cantina, seguiti da una dozzina di archibugieri spagnuoli i quali portavano delle torcie. - Ohé, compare, - disse Barrejo, - va bene essere guasconi e baschi, ma mi pare che la faccenda diventi un po' seria. - Forse meno di quello che credete, - rispose Mendoza. - Non vedete che invece di frugare le cantine s'attaccano alle botti? Scommetterei un mezzo doblone contro cento che quei bravi armigeri sono piú assetati di noi! ... - E allora noi li imiteremo. - Adagio, signor guascone. Non scherziamo troppo con questo delizioso Alicante, specialmente in questi momenti. Potrebbero interrompere la loro bevuta e venire a scoprirci e non so che cosa succederebbe allora con troppo vino in corpo. Invece di bucare gli spagnuoli, potremmo bucare le botti. - E causare una inondazione. - È vero, signor guascone. - Ammiro la vostra prudenza. - State zitto e vediamo che cosa sta per succedere. Gli archibugieri del governatore di San Domingo pareva che avessero affatto dimenticato lo scopo principale della loro escursione nelle cantine della marchesa. I servi, guidati da Marto, avevano tratto di sotto le travi che reggevano le monumentali botti, dei grossi boccali e si erano affrettati a riempirli ed i soldati, che forse mai si erano trovati in mezzo a tanta abbondanza, vi avevano dato dentro, bevendo furiosamente Porto, Alicante, Xeres e Madera. Perfino il sergente che li guidava, afferrato un boccale e dopo essersi seduto su una trave, si era messo a trangugiare a lunghi sorsi il contenuto. - Compare, - disse don Barrejo, che da qualche istante si dimenava come avesse il diavolo in corpo. - E noi assisteremo come due statue ad una simile festa? - Avete ragione, signor guascone, - rispose Mendoza. - Quella gente non si occupa che delle botti e siccome noi non siamo botti da spillare non verranno di certo ad importunarci. - Voi continuate coll'Alicante, io darò l'assaggio a qualche altro recipiente. Vedremo chi sarà piú fortunato. - Io, di certo. - Un doblone che troverò di meglio io, invece. - Vada! - disse Mendoza. - Già non pagherò nemmeno questo. I due compari, che ormai erano legati da una profonda amicizia, stavano per riprendere la bevuta, quando una sorda imprecazione li arrestò. Buttafuoco che aveva un udito finissimo e che era abituato a dormire con un solo occhio, si era lasciato scivolare giú dalle botti, chiedendo con voce sommessa: - Che cosa succede? Perché avete spenta la fiaccola? - Gli spagnuoli ci cercano - aveva risposto Mendoza. - Sono già discesi? - Sí, ma pare che cerchino piú le botti che noi, - disse il guascone. - Potevate continuare il vostro sonno. E poi non vegliamo forse noi? - Parlavate di dar l'assalto anche voi al buon vino. - Tanto per scacciare la noia e l'umidità, signor Buttafuoco, - rispose Mendoza. - Per ora lasciate in pace le botti, - rispose il bucaniere. - Sono troppo pericolose in certi momenti. Vi rifarete piú tardi. - E questo è parlare da saggio, capitano, - disse quel volpone di guascone. Buttafuoco si accostò alla porticina e guardò a lungo, - La marchesa li ha giuocati, - disse finalmente. - Possiamo aspettare tranquillamente che quei soldati abbiano bevuto. La bevuta degli archibugieri del governatore di San Domingo durò una buona mezz'ora, poi tutti se ne andarono, piú o meno malfermi in gambe, e le cantine ridiventarono silenziose e tenebrose. - Possiamo attaccare? - chiese Mendoza. - Che cosa? - chiese Buttafuoco. - Le botti anche noi? - Andate al diavolo! ... Io riprendo il mio sonno. - E noi la guardia, - rispose il guascone. - Badate di non addormentarvi davvero di fronte al nemico. - Oh! ... Mai, signore. E mentre il bucaniere, ormai pienamente rassicurato di non rivedere piú gli spagnuoli nelle cantine, riprendeva il suo sonno, i due compari, non meno tranquilli di non correre piú alcun pericolo, ricominciavano i loro assaggi dei vini della marchesa di Montelimar.

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Non può essere che lui, - disse Yanez, - quantunque voi abbiate affermato di non saper nulla su quel nostro ostinato e misterioso avversario. Sir Moreland pareva che non lo avesse nemmeno udito. Guardava Darma con un senso di profonda angoscia. Sandokan, Yanez e la giovane s'intrattennero alcuni minuti ancora nella cabina, scambiando qualche parola col dottore, poi si accommiatarono. Prima però che la giovane uscisse, sir Moreland le disse, guardandola con una certa tristezza: - Spero, miss, di rivedervi presto e che non vorrete considerarmi sempre come un nemico. Quando la giovane fu uscita, l'anglo-indiano rimase a lungo alzato, tenendo gli occhi fissi sulla porta della cabina e le braccia incrociate sul petto, in attitudine pensierosa, poi si riadagiò, dicendo al dottore, con un lungo sospiro: - Che triste cosa è la guerra. Getta l'odio perfino fra due cuori che potevano battere insieme col medesimo affetto. - Ed il vostro avrebbe battuto assai, è vero, sir Moreland? - disse l'americano sorridendo. - Sì, dottore, ve lo confesso. - Per miss Darma? - Perchè dovrei nascondetelo? - Una bella e coraggiosa giovane, degna di suo padre e di voi. - E che non sarà giammai mia, - disse sir Moreland, con accento strano. - Il destino ha scavato fra noi, senza nostra colpa, un abisso che nessuno potrà mai colmare. - Per quale motivo? - chiese Held, stupito dal tono che pareva avesse in sè dell'angoscia e dell'odio profondo. - Questi uomini sono nemici del rajah, e degli inglesi e non già vostri. Sir Moreland guardò l'americano senza rispondere. Il suo viso però in quel momento aveva assunto una espressione così terribile da colpire vivamente l'americano. - Si direbbe che vi è un segreto nella vostra vita, - disse il dottore. - Maledico il destino, ecco tutto, - rispose il giovane con voce sorda. Poi, cambiando bruscamente tono, chiese: - Dottore, dove ci conduce il comandante? - Va al nord-ovest, per ora. - A Sarawak forse? - Può darsi, Sir. - Che voglia sbarcarmi? - Vi rincrescerebbe? - Forse sì. - Per lasciare miss Darma? - Per altri motivi più gravi, - rispose l'anglo-indiano. - Quali, se è lecito saperlo? - Perchè il rajah mi lancerà nuovamente contro di voi e forse spetterà a me compiere il doloroso dovere di darvi il colpo mortale e di sommergere la donna che amo, - disse Moreland. - Quel giorno può essere molto lontano. - Io credo il contrario, perchè la vostra nave non potrà tenere eternamente il mare, nè rifornirsi sempre di viveri, di munizioni e di combustibile, senza avere un porto amico. - L'oceano è immenso, Sir. - Sì, è vero, ma quando dieci o venti navi solcheranno da tutte le parti quest'oceano e chiuderanno, come in un cerchio di ferro, il vostro incrociatore, quale speranza vi rimarrà? Ammiro l'audacia di questi pirati della Malesia, come ammiro la loro nave, un capolavoro dell'ingegneria navale, tuttavia permettetemi di dubitare sul buon esito della vostra crociera. Che gravi danni possiate recare alla marineria inglese e creare molti fastidi al rajah, non lo nego, essendo il vostro Re del Mare il vascello più rapido che ora esista e forse il meglio armato, nondimeno non la durerete a lungo. - Questi formidabili corsari non hanno la pretesa di tenere in iscacco, per molti anni, le squadre inglesi, sir Moreland. Sanno perfettamente la sorte che li attende e non ignorano che un giorno i loro cadaveri andranno a dormire il sonno eterno nelle tenebrose vallate del mar della Sonda o in fondo a qualche spaventevole baratro. - E anche miss Darma lo sa? - chiese l'anglo-indiano con un brivido. - Lo suppongo, sir Moreland. - Ah! Sbarcatela! Salvatela! - Qui combattono suo padre ed i suoi protettori, ai quali deve la vita, a quanto mi si disse, e non li lascerà, - rispose l'americano. Sir Moreland si passò una mano sulla fronte, poi disse come parlando fra sè: - Sarebbe meglio che domani le squadre riunite affondassero tutte, me compreso. Almeno sarebbe finita e non udrei più mai il grido del sangue che reclama vendetta!

I CORSARI DELLE BERMUDE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Ci andremo, signore; non abbiate premura. La corvetta non corre alcun pericolo; qui i salsiciotti affumicati ed il buon vino non mancano; la miss è presso di voi, al sicuro dagli attacchi del marchese. Che cosa vorreste desiderare di più? - Desidererei trovarmi sulla mia corvetta. - Pazienza, comandante. Lasciate fare al vostro vecchio mastro. Per questa notte non c'è più nulla da fare, e credo che faremmo bene a chiudere nel nostro magazzino ... Mastro Taverna! Viene sì o no questo Medoc? Vogliamo andare a dormire. L'albergatore salì precipitosamente la scala, tutto affannato, e depose sulla tavola mezza dozzina di bottiglie, che portavano la loro brava etichetta ammuffita con tanto di "Medoc". - Le ultime - disse. - Non ne ho trovate altre. - Uhm; esclamò il mastro. - Sempre le ultime. Domani verrò con te in cantina, e vedremo se non ce ne saranno altre. I tuoi occhi sono troppo grossi, perciò ti servono poco bene. Se fossi in te, andrei a chiedere consiglio ad un oculista. - Me l'aveva detto anche mio padre. - E non l'hai obbedito: male, male. Si devono sempre ascoltare i genitori. I tre corsari, messi un po' di buon umore alla prima bottiglia, diedero lestamente fondo alla seconda, poi raggiunsero mastro Taverna che stava preparando loro i letti. - Se la signora chiama - gli disse sir William - verrai subito ad avvertirmi. Questa notte non devi dormire. - No, mio gentleman; ve lo prometto - rispose l'albergatore, prendendo al volo un'altra sterlina che gli aveva gettato il Corsaro. - Se poi torna quel tedesco che ieri mattina è venuto a bere con me - aggiunse Testa di Pietra - mi verrai a svegliare. Tieni pronta una di quelle bottiglie, dove conservi i tuoi scorpioni. - Vorreste berla? - Io no, amico: bevo il Medoc. Sarà il soldato che manderà giù il tuo aguardiente scorpionato. Quel bravo ragazzo non ci farà caso. Preceduti dall'albergatore, passarono nella loro stanza-magazzino, posate le pistole sui tavolini da notte, messe le spade e le sciabole sguainate in fondo ai letti, si gettarono sulle coperte, senza nemmeno togliersi i pesanti stivali, per essere più pronti a saltare in piedi e menare le mani nel caso che qualche pattuglia inglese fosse riuscita a scovarli. Le bombe cadevano sempre su Boston, poiché gli americani durante la notte scavavano nuove parallele per ridurre al silenzio le batterie inglesi. I corsari non se ne preoccupavano. - Ci sono tante altre case da scoperchiare - aveva mormorato Testa di Pietra, girando sull'altro fianco. - Che debba proprio cadere una sopra le nostre teste? Non aveva finito di parlare, che già russava come una vera marmotta. Dormiva da cinque o sei ore quando una mano vigorosa lo scosse. Aprì gli occhi e vide sopra di sé mastro Taverna. - Chi ti ha detto di svegliarmi così presto? - chiese. - Così presto? Sono già le otto, gentleman. - Potevi lasciarmi dormire fino a mezzogiorno e prepararci una colazione abbondante a base di salciccie affumicate. - C'è il tedesco. - Perbacco! - esclamò il bretone, slanciandosi dal letto. - Bell'affare! Guardò il Corsaro e Piccolo Flocco: dormivano ancora. - Lasciamo che si riposino - disse. - Me la caverò da solo. Poi guardando il taverniere, gli chiese: - Hai preparata la bottiglia piena di scorpioni? - Due, mio signore. - E salciciotti ne hai ancora? - Posseggo una discreta provvista di carne di maiale, anzi, se volete, ho ancora un prosciutto che mi sono fatto mandare da Chicago. - Tu o tuo padre? - Io, io. - Allora va' a dire al tedesco che fra cinque secondi sarò da lui. Prepara intanto la tavola. Qui, come vedi, si paga a colpi di sterline. - Lo so bene. - Va'. Si ravviò rapidamente i capelli, si lisciò alla meglio la barba ispida, ringuainò la sciabola d'abbordaggio e si mise nella rosseggiante fusciacca la lunga pistola a due colpi, poi uscì in punta di piedi per non svegliare sir William. - Per il borgo di Batz! - brontolò. - Come me la caverò con quel pappagallo? Cacciò una mano nella fusciacca e fece saltare parecchi dollari. - Hulrik è più avaro del notaio di Batz - disse. - Con questi mi prenderò non solamente la sua testa, ma anche la sua anima ... Si tirò su i calzoni, e lasciò la stanza-magazzino senza far rumore. Il soldato stava seduto dinanzi ad un tavolino, centellinando un miserabile bicchierino di gin Vedendolo, si era alzato dicendo: - Pon giorno, patre! Aver dormito bene? - Io? - esclamò Testa di Pietra. - Dormo sempre a casa mia, figliuol mio, e sempre in compagnia del catrame, delle àncore e delle gomene. Il tedesco fece un gesto di stupore. - E come? - disse. - Che cosa? - chiese il mastro. - Tu essere uscito dalla torre, patre? - Avevo portato con me una solida corda, e di quella mi sono servito per calarmi giù senza che nessuno mi vedesse. - Allora quella corda servire ai latri! - A quali ladri? - chiese il mastro, fingendo di cadere dalle nuvole. - Tu non sapere quello che è toccato a mio colonnello? - Al tuo colonnello? Chi è? - Il marchese d'Halifax. - E dunque? - Averlo quasi assassinato con un colpo di spada. - E la mia fidanzata l'hanno pure uccisa? - No, essere sempre viva, ma i latri avere portata via sua patrona. - Erano ladri in carne ed ossa? Non ho mai udito parlare di tali individui. - Io non sapere - rispose il tedesco, allargando le braccia. - Corpo d'un albero fulminato! - esclamò Testa di Pietra, simulando il più grande stupore. - Che storia è questa? - Patre, quando afere lasciata torre? - Saranno state circa le dieci. - Penissimo: altri afere subito approfittato tua fune. - Infatti la cosa mi pare chiara. E hanno svaligiato la torre? - No; solo patrona afere portato via. - E la mia fidanzata, la mia dolcissima Nelly? Questa è strana! È morto il tuo colonnello? - No, ma afere perduto molto sangue. - Ah, se ne rimetterà dell'altro mangiando buone bistecche e bevendo Bordeaux. C'è qui mastro Taverna che possiede ancora qualche dozzina di bottiglie. Te ne farò dare un paio e gliele regalerai, ma non a nome mio, vè! - Oh, io non parlare. - Hai fame? - Io afere sempre, patre: generale Howe non dare che mezza razione. - Mentre per voi tedeschi ce ne vorrebbero due. Il tedesco sorrise, facendo col capo un cenno affermativo. - Mastro Taverna, - disse il bretone, volgendosi verso l'albergatore - dà da mangiare a questo bravo figliuolo; pago tutti io. - Tu sempre pacare, patre - disse il soldato. Il taverniere fu pronto a portare una libbra di prosciutto, una mezza dozzina di salciciotti, pane duro quanto le pietre ed una bottiglia. - Mangia, figliuolo. - disse, il bretone. Il tedesco, dotato d'un appetito formidabile, compatibile d'altronde coi suoi venticinque anni e le magre razioni che il comandante della piazza passava ai suoi soldati, si era gettato sul prosciutto, impregnato di sale in modo detestabile e che doveva muovergli una sete inestinguibile. Testa di Pietra sturò la bottiglia e gli riempì il bicchiere che gli stava innanzi. Un superbo scorpione montò subito a galla. Il tedesco, occupato a far lavorare i suoi denti, non vi aveva fatto caso, ma quando prese la tazza, fece un gesto di sorpresa. - Piccola pestia nera - disse, prendendola fra due dita. - Scorpione? - Ma che scorpione d'Egitto! - rispose il mastro. - È una mosca nera della Gran Canaria. - No, scorpione! - No, no! Il tedesco gettò via la bestiolina e vuotò il bicchiere succhiandosi le labbra. - Ponissimo! - disse. - Sfido io! È madera che costa un dollaro la bottiglia. Bevi pure figliuolo mio. Il giovane non si fece pregare, ed un altro scorpione galleggiò nel suo bicchiere. - Non badarci, figliuolo, - disse il bretone vedendolo esitare. Devi sapere che nel Madera, che viene dalla Gran Canaria, ci mettono appositamente dentro quel genere di mosche per dare al vino maggior forza e maggior sapore. - Tu non pere con me, patre? - Presi una volta, nella Gran Canaria, una sbornia così fenomenale, che mi ha fatto odiare per sempre, con mio grande dispiacere, il Madera. - Capito - rispose il soldato, ridendo. Levò anche il secondo scorpione tracannò, assaltando poi subito i salsicciotti. Testa di Pietra si era fatto portare una bottiglia di Medoc, che aveva fatto sturare dopo l'aguardiente, e spiava attentamente il soldato, stupito che resistesse così tenacemente a quel liquore di nuovo genere, che doveva contenere principii tossici. - Se mangia le candele fuse dentro la minestra - brontolava fra sé - può bere anche quel Madera, che viene, viceversa, dal Messico. Il tedesco, intanto continuava a divorare le durissime pagnotte che dovevano sembrargli biscotti. Di quando in quando s'interrompeva, si empiva il bicchiere, e beveva fino all'ultima stilla. Era giunto al quinto salsicciotto, quando Testa di Pietra lo vide rovesciarsi sulla spalliera della sedia, colle braccia penzoloni e il viso congestionato. - Che sia avvelenato, o colto da ubriachezza fulminante? - si chiese Testa di Pietra un po' inquieto. - Non è la sua pelle che voglio; bensì il suo vestito. Prese la bottiglia e la capovolse: era completamente vuota. - Per il borgo di Batz! - esclamò. - Un litro d'aguardiente in meno di venti minuti. Sfìdo io! Nemmeno un vecchio marinaio avrebbe potuto resistere. È vero che ha in corpo una buona libbra di prosciutto, quattro salsicciottì e non so quante pagnotte ... Mastro Taverna, bada che non cada. Testa di Pietra si slanciò nella stanza-magazzino, e trovò Piccolo Flocco seduto sulla sponda del letto che fumava tranquillamente. - E il capitano? - chiese subito il bretone. - È salito dalla miss per augurarle il buon giorno. E tu, l'hai finita col tuo tedesco? - Vieni a vederlo, e aiutami. Tornarono insieme nella taverna. Il soldato pareva morto; non respirava nemmeno più. - Ah, corpo d'una bombarda! - esclamò il bretone, grattandosi la testa. - Che l'abbia proprio avvelenato? Non dovevo giocargli questo tiro; ma anche lui poteva bere un po' meno. Che te ne pare, mastro Taverna? L'albergatore scosse il capo, poi rispose - Non so. - E se fosse proprio morto? - Lo vado a seppellire in cantina sotto l'ultima botte. Ne abbiamo abbastanza di questi tedeschi, che ci piovono addosso da tutte le parti come lupi affamati. - Ecco un parlare d'oro! - disse il bretone. - Non credo però che questo bravo ragazzo abbia già rimandata la sua anima al di là dall'Atlantico. Sono resistenti questi giovanotti. Orsù aiutatemi a portarlo a letto. Mi occorrono le sue vesti. - Per farne che cosa? - chiese Piccolo Flocco. - Lo saprai dopo. Sollevarono il soldato, che pesava quanto un giovane toro, lo portarono nella stanza magazzino, lo spogliarono della sua divisa e lo cacciarono sotto le lenzuola.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

. - Abbiate pazienza fino a domani. - Allora levateci da questa gabbia. - È impossibile per ora. - Noi non possiamo resistere a queste atroci scene. - V'interessate di quei banditi? - chiese il magistrato. - Non siamo abituati ad assistere a simili torture. - Manderò via i carnefici. - E fate dare da mangiare a quei miserabili che muoiono di fame. La vostra giustizia vi disonora. - Avranno dei cibi, - rispose il magistrato. - I nostri carcerati sono trascurati, questo è vero. Con un gesto che non ammetteva replica, fece uscire tutti; poi, rivolgendosi ai due europei, disse: - Non farete nulla per informare la vostra ambasciata fino a domani mattina? Solo a questa condizione io vi prometto di lasciarvi tranquilli. - Avete la nostra parola - rispose Fedoro. - Vi farò subito servire il pasto. - Se non possiamo quasi muoverci? - Vi ho detto che pel momento non posso liberarvi, perché la grazia dell'Imperatore non è ancora giunta. Tranquillatevi e abbiate fiducia nella giustizia cinese. - Che cosa ti ha detto quel miserabile? - chiese Rokoff, quando il magistrato fu lontano. - Che domani saremo liberi - rispose Fedoro, raggiante. - Essi hanno avuto paura di qualche denuncia all'ambasciata. Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso. - Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci. - E chi? - Quel furfante di maggiordomo. - Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della "Campana d'argento", messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone. - Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco. Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell'ufficiale dei cosacchi. Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d'una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari. Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime. Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione. Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all'eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S'intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all'indomani sarebbero stati rimessi in libertà. - Fedoro - disse Rokoff, quando furono soli. - Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie. - Senza liberarci però - rispose il russo, che pareva un po' preoccupato. - Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci. - No, ma ... vorrei essere già lontano da qui. - Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un'ora dopo ... - Dopo che cosa? - Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff! Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare. Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d'imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All'indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini. Due lunghe aste, un po' elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde. - Pare che si preparino a portarci via - disse Rokoff. - Che ci conducano all'ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo. Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato. Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d'una larga e lunghissima scimitarra. - Fedoro, - riprese Rokoff - dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo. - È vero, Rokoff; sono preoccupato per l'assenza del magistrato. - Si sarà ubriacato d'oppio e giungerà più tardi. In quel momento l'ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo: - Andiamo. - E dove? - chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata. Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero. - Vi ho domandato dove ci volete condurre - replicò Fedoro. - Ci era stata promessa la libertà per stamane. - Ah! - fece l'ufficiale. Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse: - Orsù, sbrigatevi. Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati. L'ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata. - Comprendi nulla tu? - chiese Rokoff al negoziante di tè. - Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà - rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.- Vedremo come finirà questa avventura. Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione. La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù. - Questi cinesi vogliono rovinarci - disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. - Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po' la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone! Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell'impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi. Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l'ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata. - Dove ci conducono, Fedoro? - chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni. - Vorrei saperlo anch'io. - All'ambasciata no di certo. - Siamo usciti dalla città. - E ci dirigiamo? - Verso il Pei-Ho, se non m'inganno. Ah! Mi viene un sospetto. - E quale Fedoro? - Che c'imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all'ambasciata russa. - Ci sfrattano dall'impero? - Lo suppongo, Rokoff. - Che ci mandino via non m'importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare. Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d'artiglieria di legno. Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l'attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo. Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente "fiume" e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord- est. - Mi pare che ci conducano a Tong - disse Fedoro. - Che cos'è? - Una borgata sulle rive del Pei-Ho. - Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci. - Tale è ancora la mia opinione, Rokoff. - Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi? - Sì, Rokoff. - In conclusione, trattano i prigionieri come polli. - Né più né meno - rispose Fedoro. - Bel sistema per far rompere le gambe. - Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili. - In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani! - E lontani centinaia di miglia? - aggiunse Fedoro. - All'inferno i cinesi! - Vedo delinearsi all'orizzonte delle abitazioni. - - Che sia la borgata? - Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d'alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare. I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all'immensa capitale. I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l'altro dietro. Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre. In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine. Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata. - Che siamo aspettati? - chiese Rokoff. - Non so - rispose Fedoro, il quale era diventato pallido. Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi. Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento. Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell'urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche: - Fan-kwei-weilo! Weilo! Fedoro aveva mandato un grido d'orrore. In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s'appoggiava ad una larga scimitarra. Era un carnefice in attesa delle sue vittime.

- Chi mi assicura che non abbiate avuto dei complici? - chiese il mandarino. - Il maggiordomo di Sing-Sing ha affermato d'aver veduto delle persone sospette aggirarsi intorno al palazzo, anche dopo che tutte le lanterne erano state spente. - Allora è lui il colpevole! È lui il ladro! È lui che ha protetto gli affiliati della "Campana d'argento". - Il maggiordomo era affezionato al suo padrone; tutta la servitù lo ha confermato. - Sicché voi siete convinto che Sing-Sing sia stato assassinato da noi? Il mandarino alzò le braccia, poi le lasciò ricadere con un gesto di scoraggiamento, più simulato però che reale. Fedoro fu preso da un impeto di furore. - Voi non ci ucciderete, canaglie! - urlò, battendo furiosamente il pugno sul tavolo. - Noi siamo innocenti e per di più europei. - Se siete innocenti, provatelo - rispose il mandarino con calma. - Cominciate coll'arrestare il maggiordomo e costringerlo a confessare la verità. A voi i mezzi non mancano per strappargli quanto egli sa e che non vuol dire. - Non abbiamo alcun motivo per tradurlo qui e sottoporlo alla tortura. Non è già nella sua stanza che fu trovato il pugnale che servì agli assassini per trucidare Sing-Sing. - Siete dei banditi! ... - Dei giudici. - No, delle canaglie, che per odio di razza volete sopprimerci, ma le ambasciate europee non vi permetteranno di compiere una simile infamia. Il mandarino alzò le spalle, poi fece un gesto. Prima che Fedoro e Rokoff potessero sospettare ciò che significava, si sentirono afferrare per le spalle e per le braccia da dieci mani vigorose ed atterrare. Una banda di carnefici o di carcerieri, tutti di statura gigantesca, era entrata silenziosamente nella sala ed al cenno del mandarino si era scagliata improvvisamente sui due europei, prendendoli di sorpresa. Né Fedoro, né Rokoff avevano avuto il tempo di opporre la menoma resistenza, tanto quell'assalto era stato fulmineo. Mentre i giudici si ritiravano per deliberare sulla pena da infliggersi ai due colpevoli, i carcerieri ed i carnefici, aiutati anche dai soldati, strappavano di dosso ai due russi le loro vesti, costringendoli ad indossare una ruvida keu- ku, specie di casacca fornita d'ampie maniche ed un paio di keu-ku, sorta di calzoni molto ampi che formano sul ventre una doppia piega e che usano portare i barcaioli ed i contadini. Levarono quindi loro gli stivali, surrogandoli invece con le ha-tz, ossia scarpe grosse, a punta quadra e un po' rialzata, con suola di feltro bianco, poi con pochi colpi di rasoio fecero cadere le loro capigliature, non lasciando coperta che parte della nuca. Era una trasformazione completa: i due europei erano diventati due cinesi e per di più dell'ultima classe. Quando quei manigoldi ebbero finito, sollevarono violentemente Fedoro e Rokoff e li cacciarono a forza entro una gabbia di bambù, d'una solidità a tutta prova e così stretta da contenerli a malapena. Quando Rokoff si sentì libero, mandò un vero ruggito. S'aggrappò alle sbarre e le scosse con furore, mentre dalle sue labbra contratte uscivano urla feroci. - Banditi! Canaglie! Vi mangerò il cuore! Siamo europei! Aprite o vi uccido tutti! Erano vani sforzi. I bambù non si piegavano nemmeno, quantunque l'ufficiale, come abbiamo detto, fosse dotato d'una forza più che straordinaria. Fedoro invece, accasciato da quell'ultimo colpo, si era lasciato cadere in fondo alla gabbia girando intorno sguardi inebetiti. Intanto il cancelliere era rientrato tenendo in mano un cartello su cui si vedevano dipinte delle lettere contornate da geroglifici superbi. Lo mostrò per un momento ai due prigionieri, poi lo appese sotto la gabbia. Fedoro era diventato orribilmente pallido e si era avventato contro le traverse come se avesse voluto strappare al cancelliere quel cartello che annunciava la loro pena. Ed infatti aveva potuto leggere: Condannati a morte perché assassini. Subito otto uomini avevano alzato la gabbia ed erano entrati in un'altra sala dove se ne vedevano parecchie altre contenenti ciascuna due prigionieri, ma molto più piccole, tanto anzi, che i disgraziati che vi erano rinchiusi non potevano fare il più piccolo movimento senza mandare urla spaventose. - Fedoro - disse Rokoff, che aveva gli occhi schizzanti dalle orbite. - È finita, è vero? - Sì, se non interviene l'ambasciatore russo. - E oseranno ucciderci? - Come cinesi. - Perché ci hanno vestiti così? - Onde nessuno possa sospettare che noi siamo europei. - E come ci faranno morire? - Non so ... ma ho paura e sento che divento pazzo! ...

. - Non abbiate alcun timore - disse il capitano in cinese. - Ma voi siete uomini! - esclamò il calmucco, nella egual lingua. - E chi volevate che fossimo? - Figli del sole e della luna. - Se vi piace crederci tali, noi non ci opporremo. - E quella bestia? - chiese il monaco, accennando, con un gesto di terrore, lo "Sparviero". - Ah! Quell'uccello sì che è un figlio della luna. - E, come si trova in vostro possesso? - Gli uomini bianchi sono amici della luna e possono montare i suoi figli. - E non vi mangia? - Non ne ha bisogno. Quell'uccello fa a meno delle colazioni e dei pranzi, non vivendo che d'aria. - Anche a noi non farà male? - A nessuno. - Signore - disse il monaco - voi che siete uomini così potenti, volete degnarvi d'accettare l'ospitalità d'un povero mandiki? - Siamo discesi appunto per questo - rispose il capitano. - Io ne acquisterò gran fama e riuscirò forse a realizzare il mio sogno di diventare finalmente ghetzull e chissà, fors'anche hellung. - Il monaco è ambizioso, - disse Fedoro a Rokoff. - Perché? - chiese questi, che non aveva capito niente. - Questo monaco è un mandiki, ossia uno dei più infimi della casta e si capisce che vorrebbe guadagnare uno degli ordini superiori e diventare ghezull o, meglio ancora, hellung. - Ciò non gli ha impedito però d'ingrassare enormemente. - Sono tutti così rotondi i sacerdoti dei calmucchi. - Devono condurre una vita beata. - Sono i più neghittosi di tutti e anche i più formidabili mangiatori. Vivono alle spalle dei pastori e non pensano che a divorare, bere e dormire. - I furbi! - Sono volponi matricolati. - E dove andava questo prete? - A quanto ho udito, si reca a Turfan per la festa delle lampade. - Una cerimonia religiosa? - E delle più importanti e anche delle più curiose. - Che il capitano voglia andare a vederla? - Non mi stupirei. Mentre chiacchieravano, il seguito del monaco aveva rizzato le tende, o meglio le kibitkas, formate da pali molto sottili che all'estremità superiore vengono piegati ad arco, in modo da formare una specie di cupola, che poi viene coperta da uno spesso tessuto di feltro. Nel centro vi si attacca una grossa pietra sospesa a una fune, onde dare al leggero edificio maggior stabilità e porlo in grado di resistere ai venti, che talvolta soffiano impetuosissimi sugli altipiani dell'Asia centrale e nel deserto di Sciamo. Il monaco aveva invitato il capitano e i suoi due amici nella sua tenda, che era la più vasta e la più bella, offrendo tosto del koumis, miscuglio composto di latte di cammello agro e d'acqua, non sgradevole, e un mezzo agnello arrostito qualche ora prima. Il capitano, dal canto suo, aveva fatto portare dal macchinista alcune bottiglie di whisky e dei pasticci, acquistati chissà quanti mesi prima in America o in Australia, ma che il freddo intenso della ghiacciaia aveva mirabilmente conservati. Il monaco non solo aveva assalito ingordamente i pasticci, ma si era attaccato anche alle bottiglie, tracannandone il contenuto con un'avidità da vero selvaggio. Alla seconda, era già tanto commosso che grosse lacrime bagnavano il suo faccione da luna piena. Si era messo a raccontare le sue sventure. Da sette anni, nonostante tutta la sua buona volontà e la sua ambizione, era sempre rimasto un umile mandiki, mentre aveva sognato di poter diventare un giorno un potentissimo Lama, ossia capo della religione. Eppure aveva preso parte a tutte le feste religiose, aveva mangiato e bevuto a crepapelle per acquistare quella rotondità necessaria per far buona figura, rovinando una mezza dozzina di tribù di pastori, alle quali aveva divorato, a poco a poco, perfino l'ultimo agnello. Ormai non contava più che sopra un avvenimento straordinario per diventare almeno ghetzull se non hellung. - Voi soli potreste darmene il mezzo - disse finalmente, quand'ebbe vuotata la terza bottiglia. - E in quale modo? - chiese il capitano, che rideva fino alle lagrime delle comiche sventure dell'obeso calmucco. - Facendomi scendere dal cielo. - Non vi comprendo. - Prendetemi con voi, sulla vostra bestia e conducetemi a Turfan. Vedendomi scendere dalle nuvole, io acquisterò una tale fama, che i miei confratelli non esiteranno più a passarmi di grado. Un uomo che vola? Un uomo che è in relazione colla luna! Figuratevi che successo! - Ah! Briccone! - esclamò Rokoff, a cui Fedoro aveva tradotte le parole del calmucco. - È più furbo di tutti! Se io fossi voi, capitano, lo accontenterei. L'avventura sarebbe buffa. - Volete che andiamo a vedere la festa delle lampade? - chiese il comandante, che non riusciva a frenare il riso. - Andiamoci, signore - disse Fedoro. - Sotto la protezione d'un monaco nulla avremo a temere. - E il seguito? - chiese Rokoff. - Se ne andrà a Turfan per suo conto - rispose il capitano. Il progetto fu comunicato al monaco, il quale per la gioia si mise a piangere come una vite appena potata. - La mia carriera è assicurata - gridava, sbuffando come una foca. - Sarò ghetzull, fors'anche hellung e chissà anche Lama. Oh! miei buoni figli della luna! Quanta riconoscenza vi dovrò! Metterò a contribuzione tutti pastori di Turfan per empire la vostra bestia di agnelli e di capretti. - Compiango quei poveri diavoli - disse Rokoff. - Purché, invece di agnelli, non ci regalino del piombo o delle legnate! - I monaci dei calmucchi sono onnipossenti e nessuno oserebbe ribellarsi ai loro voleri. - Andiamo dunque a Turfan. Il mandiki, dopo molti sforzi, era riuscito ad alzarsi. Traballava però così male sulle sue gambe elefantesche, che il troppo abbondante whisky aveva reso estremamente pesanti, che Rokoff e Fedoro si videro costretti a sorreggerlo per non fargli perdere la sua dignità di monaco buddista. Quando gli uomini della scorta appresero la sua decisione di recarsi a Turfan su quella bestia alata, non poterono fare a meno di manifestare la loro ammirazione pel coraggio del loro sacerdote. Ebbero bensì qualche apprensione vedendolo dirigersi verso la bestia in compagnia di stranieri, però si rassicurarono, dopo che ebbero promesso di aspettarli a Turfan. Ci volle anche l'aiuto del capitano e del macchinista per imbarcare quell'enorme massa, che non doveva pesare meno d'un quintale e mezzo. - Siete sempre deciso? - gli chiese il comandante, prima di dare ordine d'innalzarsi. - Sì - ebbe appena la forza di borbottare il monaco. - Ghetzull ... hellung ... Lama ... E si lasciò cadere di peso su un materasso, che fortunatamente si trovava presso di lui, chiudendo gli occhi. - L'aria fresca gli farà passare presto l'ubriachezza - disse Rokoff. - Che bevitore! Sono curioso di vedere come finirà questa amena avventura. Lo "Sparviero" aveva preso lo slancio e s'innalzava quasi verticalmente, battendo vivamente le ali. I calmucchi, vedendolo andarsene, ebbero un'ultima esitazione. - No! No! - gridarono, con voce singhiozzante. - Non portatelo via! Ma già lo "Sparviero" fuggiva sopra il deserto, con una velocità di quaranta miglia all'ora, passando sopra gli ultimi contrafforti del Tan-Sciang. - Ci vorrà molto a giungere a Turfan? - chiese Rokoff al capitano, il quale stava osservando una carta della Mongolia. - Fra un paio d'ore ci saremo - rispose il comandante. - È un centro grosso? - Eh! Una borgata perduta lungo la via carovaniera che attraversa lo Sciamo occidentale. Lo "Sparviero" si era molto innalzato per poter superare la catena, la quale spingeva i suoi picchi rocciosi a settecento, a ottocento e perfino a mille metri. Era un ammasso enorme di rupi brulle, senza alcuna traccia di vegetazione verso le cime, con spaccature profondissime che disegnavano delle vallate selvagge, in fondo alle quali si vedevano scorrere dei torrentacci impetuosi. Laggiù la vegetazione non mancava, anzi si vedevano vere foreste di betulle, di pini e di larici, ma nessuna abitazione. Solo degli argali, specie di stambecchi, con due corna molto ramose ai lati della testa, balzavano fra le rupi, fuggendo con rapidità fantastica; in alto invece qualche aquila in vedetta su qualche picco e che alla comparsa dello "Sparviero", invece d'inseguirlo, fuggiva precipitosamente, calando sugli altipiani inferiori. Il treno aereo avendo trovato un vallone profondo che pareva tagliasse in due la catena, si era abbassato fino a quattrocento metri, radendo talvolta, coll'estremità inferiore del fuso le punte degli abeti e dei pini. Il capitano aveva ordinato al macchinista di abbassarsi sperando di fare un buon colpo sugli argali che si vedevano sempre numerosissimi, ma quei sospettosi e agilissimi animali non si lasciavano accostare. Appena scorta l'ombra proiettata dallo "Sparviero" s'affrettavano a cacciarsi nei boschi, rendendo così impossibile l'inseguimento. Verso le tre pomeridiane, ossia due ore dopo lasciato l'accampamento dei calmucchi, il treno aereo sboccava nello Sciamo meridionale, presso la via carovaniera di Chami e d'Urumei. Quasi subito, fra due colline, apparve un aggruppamento di costruzioni in legno e di tende. - Turfan - disse il capitano. - È ora di svegliare il monaco - disse Rokoff. - Anche per nostra salvaguardia - aggiunse Fedoro. - È incaricato di proteggerci. - Aprirà poi gli occhi? - chiese il cosacco. - Sarà ancora ubriaco. - Gli somministreremo un po' d'ammoniaca in un bicchier d'acqua - disse il capitano. - Se dovessimo sbarcarlo in questo stato, i calmucchi sarebbero capaci di prendersela con noi. Il macchinista, il quale aveva ceduto il timone allo sconosciuto, che si era sempre tenuto da parte senza mai parlare, portò il bicchiere e forzò il monaco a berlo. Il povero diavolo lo mandò giù facendo delle smorfie e sternutendo sonoramente parecchie volte. - Questo non è koumis! - esclamò. - Briganti di servi! Che cosa avete dato al vostro sacerdote? Probabilmente credeva di trovarsi ancora sotto la sua tenda. Accortosi dell'errore e vedendo sopra di sé agitarsi le immense ali dello "Sparviero", impallidì e si portò le mani alla fronte. - Dove sono? - si chiese, con accento smarrito. - Sopra Turfan - rispose il capitano, ridendo. - Su, in piedi, se volete diventare ghetzull o hellung. - Turfan! - esclamò il calmucco, che penava molto a raccapezzarsi. D'un tratto mandò un grido: - I figli della luna! - Pare che l'ubriachezza gli sia finalmente passata - disse Rokoff. - E che sia molto spaventato - aggiunse Fedoro. - Non c'è più alcool nel suo corpo che gli dia del coraggio. - Gliene faremo ingollare dell'altro. Il monaco, aiutato dal capitano, si era alzato aggrappandosi alla balaustrata. Appena ebbe dato uno sguardo all'abisso che gli si apriva sotto i piedi, retrocesse vivamente, agitando le braccia come un pazzo. - Ho paura! - esclamò. - Non gettatemi giù! Sono un povero mandiki. - Che cosa vi salta pel capo, ora? - chiese il capitano. - Volevate andare a Turfan coi figli della luna e noi vi abbiamo accontentato. - E non ci ammazzeremo tutti? - chiese il monaco, che sudava freddo. - Giungerete in ottimo stato, ve lo prometto. - E questa bestia non mangerà nessuno? - Non le piacciono gli uomini, specialmente quelli della vostra razza. Il mandiki, un po' rassicurato, si riaccostò alla balaustrata, poi tornò a retrocedere, coprendosi gli occhi colle mani. - Cadiamo! - gemette. - Animo - disse il capitano. - pensate che da questa discesa dipende il vostro avanzamento. Ecco gli abitanti che vi acclamano. Una folla numerosissima si accalcava sulla piazza del villaggio, mandando urla di sorpresa e anche di terrore. Si vedevano donne e fanciulle fuggire e uscire invece dalle tende uomini armati di fucili e di tromboni. - Fatevi vedere - disse il capitano al monaco. - Se fanno fuoco io non scenderò e sarete costretto a rimanere con noi. - Ho paura! Ho paura! - balbettava il mandiki. - Se non obbedite vi getto giù! A quella minaccia il calmucco impallidì come un cencio lavato e fu lì lì per lasciarsi cadere. Vedendo però il capitano avanzarsi, si fece animo e si curvò sulla balaustrata, gridando alcune parole. Le urla erano subito cessate. I calmucchi avevano lasciato cadere le armi, facendo gesti di maraviglia e di stupore. Il loro mandiki scendeva dal cielo, portato da quel mostruoso uccello! La cosa doveva sembrare ben meravigliosa a quei poveri nomadi, che non avevano mai udito parlare né di aerostati, né tanto meno di macchine volanti. La loro sorpresa era tale, che parevano come pietrificati. Lo "Sparviero" intanto scendeva descrivendo dei larghi giri che a poco a poco si restringevano, poi le sue ali rimasero tese formando un paracadute assieme ai piani orizzontali e la massa si lasciò cadere proprio in mezzo alla piazza. La folla, vedendolo abbassarsi, si era ritirata precipitosamente per non farsi schiacciare, mentre il monaco, che aveva riacquistato il coraggio, ritto a prora con un'aria da trionfatore, trinciava benedizioni a destra e a manca, invocando Buddha. Grida d'ammirazione scoppiavano da tutte le parti. Si urlava, si applaudiva il monaco che aveva saputo, certo per opera del dio, domare quell'enorme mostro e renderlo docile ai suoi voleri. Tuttavia nessuno osava accostarsi a quell'uccellaccio di nuova specie, anzi alcuni avevano armato i fucili, temendo un improvviso attacco. Il mandiki, con un gesto da sovrano, impose silenzio alla turba e gridò con un vocione da basso profondo: - Giù le armi, figli miei. Questa bestia non farà male a nessuno, perché io l'ho domata e fate buona accoglienza agli uomini che mi accompagnano, che sono i figli di Buddha. - Ah! Il volpone! - esclamò Rokoff. - Per lui eravamo figli della luna; ora siamo diventati, per gli altri, nientemeno che figli del dio. Sfrutta bene l'ignoranza di questi poveri calmucchi. Il mandiki, dopo molti sforzi e anche coll'aiuto del cosacco e di Fedoro, era riuscito a scavalcare la balaustrata, muovendo, con incedere maestoso, verso la folla che gli si era subito stretta intorno disputandosi l'onore di baciargli l'orlo della veste. I calmucchi parevano in preda a un vero delirio. Finirono per sollevare il monaco, nonostante il suo enorme peso, portandolo in trionfo per la piazza. - Ci lascia? - chiese Rokoff. - Non sarei stupito che se ne andasse dimenticandosi d'inviarci i promessi montoni. Ma il cosacco giudicava male il mandiki, perché questi, appena calmatosi un po' l'entusiasmo della folla, si fece deporre a terra e s'avvicinò allo "Sparviero", dicendo al capitano: - Signore, degnatevi d'accettare l'ospitalità nella tenda della principessa che comanda in Turfan. Si sta preparando il pranzo pei figli di Buddha. - Durante la nostra assenza nessuno toccherà il mio uccello? - Oh! Non temete! Questi stupidi hanno troppo paura e non oseranno nemmeno accostarsi. Non sono sacerdoti essi. - Per prudenza lasciamo qui il macchinista e quel signore - disse il capitano. - E noi, signor Rokoff e voi, Fedoro, armiamoci delle rivoltelle. Non si sa mai quello che può accadere. Nascosero le armi sotto le larghe fasce, delle rivoltelle di grosso calibro, vere Colt americane e seguirono il monaco fiancheggiati da due o trecento calmucchi, i quali però si tenevano a una certa distanza. - Sarà giovane o vecchia questa principessa? - chiese Rokoff al capitano. - Se sarà bella e giovane, vi concedo il permesso di corteggiarla - rispose il comandante, ridendo. - Non rimarrà insensibile agli omaggi d'un figlio di Buddha. - Non mi comprenderà. - Ah, sì, mi dimenticavo che non parlate nemmeno il cinese. - Ditemi, capitano, comandano le donne qui? - Sarà la vedova di qualche capo. - Allora sarà vecchia. - Aspettate a giudicarla. All'estremità della piazza s'alzava una vastissima kibitka di forma quasi ovale, coperta di grosso feltro impermeabile, con un'apertura sulla cima per lasciar penetrare la luce e uscire il fumo, non conoscendo i calmucchi, al pari dei duzungari loro vicini e anche dei mongoli, i camini. Il mandiki alzò un lembo della tenda e li introdusse, pregandoli di aspettare la principessa, la quale stava abbigliandosi in una tenda vicina. L'interno era montato con un lusso, che stupì perfino il capitano. In un canto vi era un letto monumentale, con una coperta di seta azzurra a fiorami rossi e gialli, con baldacchino pure di seta e tende bianche e rosa. Dinanzi stava un divanetto con un ricco tappeto di provenienza persiana o tibetana e in disparte un ricco cofano d'origine cinese, a colori brillanti e lacca, carico di coppe ricolme di riso e di frumento, di sonagliuzzi di varie grandezze, con due bambole vestite di seta, simili a quelle che vendono i cinesi. In mezzo si vedeva una statuetta di Buddha coperta da una mussola ricamata in oro. Intorno poi alla tenda v'erano numerosi cuscini di seta, posti su piccoli tappeti, destinati di certo ai visitatori. - Che lusso! - esclamò Rokoff, che non poteva star zitto un minuto. - La principessa deve essere bella e molto graziosa per avere un così ricco letto. Mi rincresce di dover starmene muto dinanzi a lei. - Eppure voi, che siete cosacco, dovreste conoscere qualche parola di calmucco - disse il capitano. - Questa razza, nomade fra le nomadi, si è sparpagliata fino ai confini dell'Europa e ha tribù numerose perfino nel Caucaso e nell'Astrakan. - Ha invaso mezza Asia? - Se non di più, signor Rokoff. È una razza di conquistatori, che ha avuto, secoli indietro, parecchie fasi di gloria e di potenza, e che sotto il famoso Genghiz Khan portò le sue armi vittoriose fino in Russia. Sapete che si dice che gli unni, che con Attila invasero perfino l'Italia, siano stati gli antenati di questi nomadi, che ora vedete così miserabili? - Ne ho udito parlare. Ora però non sono capaci d'altro che di condurre al pascolo i loro montoni e i loro cammelli. - Perché si sono troppo dispersi e suddivisi in un numero infinito di tribù indipendenti le une dalle altre. - Ecco la principessa - disse Fedoro. I tre aeronauti si erano alzati guardando curiosamente verso l'entrata della tenda, che l'enorme monaco teneva alzata. - Ah! La brutta vecchia! - esclamò Rokoff. - Ma questa è una strega! La principessa si era avanzata, facendo colle mani un saluto rispettoso. Era una donna piccola, magra come un chiodo, colla pelle del viso color del pan bigio, grinzosa e incartapecorita, con due occhietti neri ancora vivaci e di una mobilità straordinaria. Quale età poteva avere? Ottanta o cent'anni? Rokoff gliene avrebbe dati anche di più. Come tutte le ricche calmucche, indossava una lunga veste che le scendeva fino ai piedi, aperta in alto in modo da lasciar vedere la camicia di seta bianca. Sul capo portava una specie di berretto colla parte superiore quadrata e l'inferiore rialzata da una parte e aveva i capelli raccolti in trecce e ancora neri e abbondanti, chiusi in una fodera di seta nera. Le dita ossute erano coperte di anelli d'oro e d'argento e anche al collo portava pesanti monili formati da tael cinesi e da grani d'oro. Nonostante quello sfarzo di gioielli, il colore azzurro della veste e le ricche babbucce di pelle rossa con ricami d'argento, la principessa era d'una bruttezza ripugnante. Il monaco, che pareva all'apice del suo trionfo, presentò alla vecchia i figli viventi di Buddha, chiamandoli suoi amici e suoi protettori, poi li fece sedere sui cuscini mentre egli prendeva posto sul divanetto assieme alla principessa. Quasi subito entrarono parecchi servi portando quattro capretti arrostiti interi, vasi ricolmi di koumis e focacce di frumento e di riso. - Diamo un saggio della capacità degli stomachi dei piccoli Buddha - disse Rokoff. Il mandiki, nella sua qualità di monaco, aveva servito agli ospiti dei pezzi enormi su piatti d'argento, invitandoli a far onore alla modesta cucina della principessa Khurull-Kyma-Chamik. - Mi pare che abbia sternutato - disse Rokoff. - No, ha pronunziato il nome della bella principessa - rispose Fedoro. - Un nome superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa. Si erano messi a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa, quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli all'orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco. Il capitano, che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli: - Badate! La principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore. - Per le steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo. - E che, non vi piacerebbe diventare principe di Turfan? - Con quella vecchia! - Non è poi tanto brutta - disse il capitano, frenando a stento le risa. - Che il diavolo se la porti! - E sarà anche ricchissima. - Non continuate, o scappo via. - Non guastate le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in pezzi lo "Sparviero". - Dopo il pranzo ce ne andremo. - Dobbiamo assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i preparativi. - Chi ve lo ha detto? - Il mandiki. - Avrei preferito andarmene. - Più tardi, quando avremo ricevuto i montoni promessi. Mentre chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo. Avevano appena terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo: - Ecco che la sulla comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza. Tutti uscirono dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso la piazza come un immenso serpente fiammeggiante. Dinanzi alla dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d'altare, il dender, formato con rami d'abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti d'erba. Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael. La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi. Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente. Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi. - Che cosa può raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle. - Io non so, ma vedo una cosa. - Quale? - Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi. - Che quella vecchia pazza ... - Signor Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato, dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik. - Una commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore. - Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni. - Che cosa c'entrano i montoni ... i cammelli ... Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente: - Io saluto in voi il principe di Turfan. - Io principe! - gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare. - Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo. - Fulmini del Don! - Fortunato amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava d'avermi accompagnato in Cina!

I PIRATI DELLA MALESIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Si dice che voi ne abbiate di veramente eccellente - disse il governatore ridendo. - Vero thè fiorito, ve lo assicuro: il mio amico Tai-Sin me ne regala sempre, quando approda a Sedang. Servite il thè - disse poi. Kammamuri fu lesto a passare in una stanza attigua dove si udiva un rumore di chicchere e poco dopo rientrava seguito da un piccolo malese, il quale recava un servizio completo su di un vassoio d'argento. Il furbo maharatto versò la deliziosa bevanda e nella chicchera destinata al governatore lasciò cadere una pillola, che subito si sciolse. Offrì la prima tazza alla sua padrona, la seconda a sir Hunton e la terza al nipote del sultano, poi ritornò nella stanza vicina. Riempì rapidamente quattro tazze, vi sciolse altrettante pillole, poi disse al piccolo malese: - Seguimi col vassoio. - Vi sono altri invitati, signore? - chiese il servo. - Sì - rispose il maharatto con un misterioso sorriso. - Vi è un'altra uscita senza passare per il salotto? - Sì. - Precedimi. Il malese lo fece passare in una terza stanzetta la cui porta metteva sulla via. A pochi passi vegliavano le quattro sentinelle. - Giovanotti - disse il maharatto muovendo verso di loro. - La mia padrona, la principessa Raibh, vi offre il thè di Hassin. Giù tutto alla sua salute, ed ecco un pugno di rupie che vi prega di accettare. I quattro indiani non si fecero pregare due volte. Intascarono sollecitamente le rupie e tracannarono d'un fiato il thè, alla salute della munifica principessa. - Buona guardia, giovanotti - disse Kammamuri, ironicamente. Ritornò nel salotto del nipote del sultano. Proprio in quel momento il governatore, vinto dal potente narcotico, rotolava dalla sedia stramazzando pesantemente sui tappeti. - Buon riposo- disse il maharatto. Ada e Hassin si erano alzati. - Morto? ... - chiese quest'ultimo con accento selvaggio. - No, addormentato - rispose Ada. - E non si sveglierà? ... - Sì, ma fra ventiquattro ore e noi allora saremo molto lontani. - Dunque è vero che voi siete venuta qui per rendermi la libertà? ... - Sì. - E per aiutarmi a riacquistare il trono dei miei avi? - È vero! - Ma per quale motivo? ... Che cosa potrò fare io per voi, signora? ... - Lo saprete più tardi: ora si tratta di fuggire. - Sono pronto a seguirvi: ordinate. - Avete dei partigiani? - Tutti i malesi sono con me! - E i dayachi? ... - Si batteranno sotto le bandiere di Brooke. - Conoscete un luogo sicuro dove possiate attendere i vostri partigiani? - Sì, il kampong del mio amico Orango-Tuah. - È lontano? - Presso la foce del fiume. - Andiamo: i cavalli sono pronti. - Ma le guardie? - Dormono al pari del governatore - disse Kammamuri. - Andiamo - ripeté Ada. Il giovane principe raccolse le gioie racchiuse in un piccolo forziere, staccò da una parete un fucile e seguì Ada e Kammamuri, dopo aver lanciato un ultimo sguardo sul governatore, il quale russava sonoramente. Dinanzi alla porta giacevano i quattro indiani, l'uno sull'altro, profondamente addormentati. Kammamuri prese loro le carabine e le cartucce, poi emise un fischio. Dal bosco vicino uscirono i quattro marinai dello yacht e Bangawadi. Essi conducevano otto cavalli. Kammamuri aiutò la sua padrona a salire su uno dei migliori, poi balzò agilmente in groppa a un altro dicendo: - Al galoppo! ... Il drappello, guidato dal principe che conosceva la via meglio di Bagawadi, si mise al galoppo seguendo il margine della grande foresta che si estendeva lungo la sponda destra del fiume. I cavalieri erano giunti di fronte alla città, quando sulla riva opposta si udì una voce gridare: - Chi passa? ... - Che nessuno risponda - disse il principe. - Chi passa? - ripeté la voce con accento minaccioso. Non ricevendo risposta, la sentinella che doveva aver scorto quel gruppo di cavalieri, quantunque la notte fosse oscura, fece fuoco gridando: - All'armi! ... La palla passò fischiando sopra il drappello e si perdette nella vicina foresta. - Sprona! ... - gridò Kammamuri. I cavalli partirono di carriera, mentre verso la città si udivano le guardie del palazzo del governatore gridare: - All'armi! ... Il drappello percorse buon tratto della riva destra, poi guadò il fiume ad un miglio dalla città e passò sulla sponda sinistra per percorrere la via che conduce alla costa. - Credete che c'inseguiranno? - chiese Ada al principe. - Lo temo, signora - rispose il pretendente. - A quest'ora avranno già trovato il governatore e, accorgendosi della mia fuga, si lanceranno tutti sulle nostre tracce. - Ma sono solamente venti. - Sedici, signora, poiché quattro dormono. - Tanto meglio. Potremo respingerli facilmente. - Ma andranno a cercare soccorsi nei villaggi dei dayachi e prima di dodici ore avremo ai talloni due o trecento armati. - Giungeremo prima al kampong? - Fra due ore ci saremo, e se verranno ad assalirci troveranno un osso duro da rodere. Fra due giorni spero di radunare cinque o sei mila malesi e un centinaio di prahos. - Armati di cannoni, i prahos? - Alcuni solamente, e saranno sufficienti per assalire la flotta di Brooke. - Fortunatamente fra quattro o cinque giorni giungeranno molte artiglierie. - Delle artiglierie, avete detto? ... - esclamò il principe, al colmo dello stupore. - Sì, servite dai più formidabili pirati del Borneo. - Da quali? - Da quelli di Mompracem. - Di Mompracem? ... Sandokan, la invincibile Tigre della Malesia, viene dunque in mio soccorso? ... - Lui no, ma le sue bande forse a quest'ora navigano verso la baia di Sarawak. - Ma dov'è Sandokan? - Nelle mani del rajah. - Lui prigioniero? ... È impossibile! ... - È stato vinto da forze venti volte superiori alle sue, dopo un terribile combattimento, e fatto prigioniero assieme con il suo luogotenente e il mio fidanzato. È per salvare loro che io vi ho fatto fuggire. - Ma dove sono ora? - A Sarawak. - Li libereremo, signora, ve lo giuro. Quando i malesi sapranno che le bande di Mompracem prendono parte alla lotta insorgeranno tutti. James Brooke non ha che pochi giorni di potere. - Alt! - gridò in quell'istante una voce. Il principe rattenne violentemente il proprio cavallo e si pose davanti alla giovanetta snudando il golok. - Chi vive? - gridò. - Guerrieri di Orango-Tuah. - Va' a dire al tuo capo che il nipote di Muda-Hassin viene a visitarlo. Poi volgendosi verso la giovanetta e indicandole una massa oscura che s'ergeva sull'orlo d'una grande foresta, le disse: - Ecco il kampong! ... Ora possiamo sfidare le guardie del governatore.

. - Farò il possibile perché non abbiate ad annoiarvi, Altezza. - Intanto mi farete vedere il vostro regale prigioniero - disse Ada, ridendo. - Dopo il pranzo, Altezza, andremo a bere il tè da Hassin. - È un uomo gentile od un selvaggio? ... - Un uomo astuto ed educato che ci farà buona accoglienza. - Conto su di voi, signore. Questa sera sarò vostra commensale. Si era alzata ad un cenno di Kammamuri, il quale l'aveva seguita tenendosi in un angolo del salotto. Il governatore la imitò e la condusse fino alla porta, dove il drappello indiano le rese gli onori spettanti al suo grado di principessa indostana. Ritornata alla propria abitazione, seguita sempre da Kammamuri e dai quattro indiani dello yacht, ritrovò l'indiano Bangawadi che l'attendeva sulla porta dimostrando una certa impazienza. - Ancora tu? - chiese la giovanetta. - Sì, padrona - rispose. - Hai delle novità? ... - Ho parlato con Hassin. - Quando? - Pochi minuti or sono. - E che cosa gli hai detto? ... - Che alcune persone s'interessano della sua sorte e cercano di farlo evadere. - E che cosa ti ha risposto? - Che è pronto a tutto. - Sei un brav'uomo, Bangawadi. - E lo sarai di più se tu tornerai da lui - aggiunse Kammamuri. - Sono a vostra disposizione. - Va' allora, e gli dirai che questa sera la principessa Raibh andrà a visitarlo in compagnia del governatore, e che cerchi di essere solo, almeno nelle sue stanze. Dirai inoltre a lui che lasci a me la cura di preparare il thè per il governatore. - Poi, levandosi dalla cintola un piccolo diamante, glielo porse aggiungendo: - Questo è per te, e pagherai da bere alle sentinelle che vegliano sulla casa di Hassin. Questa sera poi offrirò io! ...

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

"Abbiate pazienza e non lasciate questa oasi. In caso di pericolo io o El-Melah torneremo subito e vi rifugerete subito nel deserto." "Và e che Dio sia con te," risposero Ben ed il marchese. Mentre però s'allontanavano, El-Melah continuava a volgersi indietro ed Esther provava ancora l'impressione di quello strano sguardo che le procurava una specie di malessere che non sapeva spiegarsi. Quando i due corridori scomparvero in mezzo alle dune, la giovane provò un vero sollievo. "Che uomo strano è quel Melah," mormorò. "Che sia veramente pazzo?" Il marchese ed i suoi compagni intanto si erano occupati a prepararsi l'accampamento, onde passare quella lunga attesa nel miglior modo possibile. Rizzarono le due tende assicurandole con numerose funi e disposero le casse ed i bagagli all'intorno, formando una specie di barriera; poi con sterpi e foglie innalzarono una zeriba destinata a contenere i cammelli e gli altri animali, precauzione indispensabile con tanta gente che occupava l'oasi in attesa del momento opportuno per mettersi in marcia verso il nord. "Ora armiamoci di pazienza ed aspettiamo," disse il marchese, quando il campo fu pronto. "El-Haggar ritornerà, ne sono certo, e forse accompagnato da Tasili."

"Non abbiate alcun timore intorno a ciò. I marabutti sono uomini santi e non già guerrieri," disse il marchese. "E quando avrò parlato mi lascerete andare?" insistette ancora il marabutto. "Ve lo prometto." "Questo santone non deve avere la coscienza tranquilla," mormorò Rocco. "Forse è stato lui ad aizzare i Tuareg contro gl'infedeli." Il marabutto stette alcuni istanti in silenzio come per raccogliere meglio i suoi ricordi, poi tranquillamente disse "Io mi trovavo nell'oasi di Rhat che è, si può dire, la cittadella dei Tuareg Azghar, quando avvenne il massacro della spedizione; trovandomi a poche miglia dal luogo ove i francesi vennero assaliti, nessun particolare mi è sfuggito. "Come voi avrete saputo, il colonnello, oltre al capitano Masson e a parecchi ingegneri, aveva preso con sé una forte scorta di cacciatori algerini del 1o Reggimento, fra i quali si trovavano due uomini che dovevano più tardi tradirlo: Belkasmer Ben Ahmed, che si era arruolato sotto il nome di Bascir, ed El-Aboid- Ben-Alì." "Lo sapevo," disse il marchese. "Quei due soldati non erano algerini, come si era creduto, bensì entrambi originari del paese dei Tuareg. "Giunta la spedizione nel cuore del deserto, Bascir, d'accordo col compagno, ordì il tradimento per impossessarsi delle armi e dei viveri, nonché dei denari e dei regali che supponeva nascosti nei bagagli. "Col pretesto di condurre il colonnello a visitare una miniera d'oro, trascinò la colonna a Uep-Dam, poi disertò assieme a El-Aboid e corse ad avvertire i Tuareg. Il giorno dopo milleduecento pirati del deserto piombavano sulla spedizione, opprimendola col loro numero. "Flatters, il capitano Masson ed un sottufficiale caddero vivi nelle mani dei nemici; altri, guidati da un sergente, riuscirono ad aprirsi un passaggio attraverso le file degli assalitori, fuggendo poi verso il nord, ma i più rimasero sul terreno, falciati dalle larghe sciabolate dei fanatici. "Devo aggiungere che alcuni giorni innanzi i Tuareg avevano già tentato di distruggere la colonna, vendendo ai suoi membri dei datteri avvelenati, i quali avevano prodotto coliche spaventose. Solo alcuni soldati erano spirati sulle sabbie infuocate e dopo atroci tormenti. "I superstiti intanto avevano continuato la loro fuga verso il settentrione, tormentati incessantemente dai Tuareg, che non lasciavano loro un istante di tregua. "Quei disgraziati, morenti di fame e di sete, che si assassinavano reciprocamente durante veri accessi di follia furiosa, sono caduti quasi tutti mordendo le sabbie negli ultimi spasimi dell'agonia." "Cos'è successo poi del colonnello Flatters e di Masson?" domandò il marchese. "Del colonnello io ignoro se sia stato risparmiato o ucciso. Ho udito però raccontare che i Tuareg lo avevano condotto verso Tombuctu, non so se per finirlo lontano dagli sguardi di tutti, o se per renderlo schiavo di quel sultano." "Allora voi non escludete la supposizione che possa essere ancora vivo?" chiese il marchese. "Anch'io ho udito raccontare che è stato condotto a Tombuctu." "Ignoro la sua sorte," rispose il marabutto. "Giuratelo." "Lo giuro sul Corano." "E il capitano Masson?" "Ho veduto la sua testa piantata in cima ad una picca e anche quella del sergente." "Infami!" gridò Rocco. "Mi avete detto che uno dei traditori è stato arrestato," riprese il marchese. "Sì, Bascir, il quale aveva avuto l'audacia di recarsi a Biskra con la speranza d'indurre il governatore dell'Algeria ad organizzare una spedizione di soccorso per farla poi massacrare dai Tuareg. "Riconosciuto da uno dei pochi superstiti, venne arrestato e, dopo essere stato ubbriacato, fu sottoposto a lunghi interrogatori." "Ed ha confessato tutto?" "Sì, aggiungendo anzi che il colonnello Flatters era stato ucciso perché si era rifiutato di scrivere una lettera colla quale doveva chiedere una colonna di soccorso." "Che Bascir abbia detto il vero?" "Uhm! Ne dubito, signore." "È ancora vivo quell'uomo?" "Ho saputo che è stato avvelenato l'8 agosto nelle carceri di Biskra per opera di alcuni amici dei Tuareg e coll'aiuto del trattore arabo incaricato di fornire i cibi ai prigionieri. Probabilmente temevano che, minacciato di morte e colle promesse di laute ricompense, potessero indurlo a servire di guida ad una spedizione vendicatrice." "Ed il compagno di Bascir, quell'El-Aboid, sapete dove si trovi ora?" chiese Ben Nartico. "Mi hanno detto che è cammelliere in una carovana che si dirige verso Tombuctu." "È l'uomo che cerchiamo e che ci fu segnalato dal vecchio Hassan," disse l'ebreo al corso, parlando in lingua francese. "Sì," rispose il signor di Sartena, il quale era diventato meditabondo. "Egli deve ora nascondersi sotto il nome di Scebbi, ma noi lo ritroveremo egualmente." Fece sciogliere uno dei migliori cammelli, e lo condusse dinanzi al marabutto, a cui Rocco aveva già dato un fucile e delle munizioni. "È vostro," gli disse. "Vi auguro buon viaggio." "Grazie del dono e d'avermi salvato la vita," rispose il marabutto. "Che Dio sia con voi." Salì in sella, fece alzare il cammello e poi aggiunse "Badate, i Tuareg vegliano onde nessun europeo s'addentri nel deserto. Temono la vendetta dei francesi." Così dicendo si allontanò. "Signore, che cosa ne dite di quel santone?" chiese Rocco, guardando il marabutto che stava per scomparire dietro alle dune. "Che quell'uomo non deve essere stato estraneo al massacro della spedizione," rispose il marchese. "E colle sue parole deve aver aizzato i Tuareg a dare addosso agl'infedeli," aggiunse Ben Nartico. "Questi santoni sono dei pericolosi bricconi." Mezz'ora dopo la carovana riprendeva le mosse, dirigendosi verso le pianure sabbiose del sud.

CONTRO IL FATO

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Steno, Flavia 1 occorrenze

. - Ma non abbiate paura. Quel giorno è ancora lontano, perché le miniere di Wyoming sono molto più forti dei tesori europei.... - disse con un certo orgoglio. - E se il duca resistesse? Il signor Rook sorrise. - Allora sarete la padrona della mia vita. Essa comprese la sicurezza e la fiducia immensa ch'egli aveva nel potere della sua bellezza. - Credete adunque ch'egli mi amerà? - Perché farvi ripetere ciò che tanti anni di esperienza devono avervi già detto? - Partiremo presto? - Domani se non vi disturba. Ho molta premura. - Va bene, domani. - Intanto - soggiunse lui, sovvenendosi del dono che aveva seco - permettetemi d'offrirvi questo misero attestato della mia profonda ammirazione e della riconoscenza che mi lega a voi. Essa diede un'esclamazione di meraviglia alla vista di quegli splendidi rubini, che brillavano come brace ardenti al fioco lume della lampada. Non aveva sbagliato accettando lo strano patto di William. L'americano era splendido, quelle gemme valevano un patrimonio. - E - disse ancora il signor Rook, traendo di tasca il libretto degli chèques - siccome la partenza, soprattutto così improvvisa, esigerà delle spese, non permetto certo che voi abbiate a sopportarle sola. Qui vi sono tanti chèques chèquesper cinquecentomila lire - disse staccandoli e deponendoli sulla tavola sotto una fotografia di Yvonne - forse vi basteranno sino a domani. Gli occhi della giovane donna ebbero un lampo di gioia infinita. Ah, quell'americano! - Troppo gentile, - sussurrò chinandosi verso di lui, offrendosi tutta con un invito provocante nello sguardo improvvisamente lascivo. Ma William sfiorò appena colle labbra quella fronte bianca, poi si alzò per uscire. - Ho fatto tardi e dovete essere annoiata, non è vero? - disse galantemente coll'aria d'un gentiluomo che parli ad una contessa. - Tutt'altro! non volete restare a colazione con me? - Come, non avete ancora fatto colazione? Ma io ho mangiato da più d'un'ora! - esclamò lui fingendosi desolato. Yvonne sorrise. - Debbo venire a prendervi per l'Opéra, stasera? chiese ancora William. - Sarà meglio ch'io vada a letto presto, se dobbiamo metterci in viaggio domani! - Come volete; arrivederci a domani, allora. Ella suonò, ma nello stesso punto Maria entrava colla nota di Beudy per la piccola commedia combinata. Yvonne comprese e sorrise. Era ormai inutile quella farsa! Altro che diecimila lire! E quando Maria ritornò in salotto, dopo avere accompagnato il signor Rook fino sul pianerottolo, essa esclamò mostrandole gli orecchini e gli chèques: chèques:- Finalmente eccone uno che paga e che non sarà geloso di certo!...

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Racconti fantastici

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Ed eccovela ancora: Eccola un'altra volta Guardatela, affissatela bene - non tremate, non impallidite - abbiate il coraggio di sostenerne la vista, di osservarne tutte le parti, di esaminarne tutti i dettagli, di vincere tutto l'orrore che v'ispira .... Questo U! ... questo segno fatale, questa lettera abborrita, questa vocale tremenda! E l'avete ora veduta? ... Ma che dico? ... Chi di voi non l'ha veduta, non l'ha scritta, non l'ha pronunciata le mille volte? - Lo so; ma io vi domanderò bensì: chi di voi l'ha esaminata? chi l'ha analizzata, chi ne ha studiato la forma, l'espressione, l'influenza? Chi ne ha fatto l'oggetto delle sue indagini, delle sue occupazioni, delle sue veglie? Chi vi ha posato sopra il suo pensiero per tutti gli anni della sua vita? Perché .... voi non vedete in questo segno che una lettera mite, innocua come le altre; perchè l'abitudine vi ci ha resi indifferenti; perchè la vostra apatia vi ha distolto dallo studiarne più accuratamente i caratteri .... ma io .... Se voi sapeste ciò che io ho veduto!… se voi sapeste ciò che io vedo in questa vocale! E consideratela ora meco. Guardatela bene, guardatela attentamente, spassionatamente, fissi! E così, che ne dite? Quella linea che si curva e s'inforca - quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili - quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime - quell'arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando - e nell'interno quel nero, quel vuoto, quell'orribile vuoto che si affaccia dall'apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell'infinità dello spazio .... Ma ciò è ancor nulla, Coraggio! Raddoppiate la vostra potenza d'intuizione; gettatevi uno sguardo più indagatore. Partite da una delle due punte, seguite la curva esterna, discendete, avvicinatevi all'arco, passatevi sotto, risalite, raggiungete la punta opposta .... Che cosa avete veduto? Attendete! Compite adesso un viaggio a rovescio. Discendete lungo le linea interna - discendetevi con coraggio, con energia – raggiungete il fondo, arrestatevi, fermatevi un istante, esaminatelo attentamente; poi risalite fino alla punta d'onde eravate partito dapprima ... Tremate? Impallidite? Non basta ancora! Posatevi un istante sulle due linee che ne tagliano le punte; andate dall'una all'altra; poi guardate l'assieme della lettera, guardatela d'un sol colpo d'occhio, esaminatene tutti i profili, afferratene tutta l'espressione .... e ditemi se non siete paralizzati, se non siete vinti, se non siete annichiliti da quella vista?!?! Ecco. Io vi scrivo qui tutte le vocali: a e i o u Le vedete? Sono queste? a e i o u Ebbene?! Ma non basta il vederle. Sentiamone ora il suono. A. - L'espressione della sincerità, della schiettezza, d'una sorpresa lieve ma dolce. E - La gentilezza, la tenerezza espressa tutta in un suono. I - Che gioia! Che gioia viva e profonda! O - Che sorpresa! che meraviglia! ma che sorpresa grata! Che schiettezza rozza, ma maschia in quella lettera! Sentite ora l'U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordii più profondi, ma pronunciatelo bene: U! uh!! uhh!!! Uhhh!!! Uhhh!!!Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d'infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono? Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!! Vi voglio raccontare la mia vita. Voglio che sappiate in che modo questa lettera mi ha trascinato ad una colpa, e ad una pena ignominiosa e immeritata. Io nacqui predestinato. Una terribile condanna pesava sopra di me fino dal primo giorno della mia esistenza: il mio nome conteneva un U. Da ciò tutte le sventure della mia vita. A sette anni fui avviato alle scuole. Un istinto, di cui ignorava ancora le cause, mi impediva di apprendere quella lettera, di scriverla: ogni volta che mi si facevano leggere le vocali mi arrestava, mio malgrado, d'innanzi all'U; mi veniva meno la voce, un panico indescrivibile s'impossessava di me - io non poteva pronunciare quella vocale! Scriverla? era peggio! La mia mano sicura nel vergare le altre, diventava convulsa e tremante allorchè mi accingeva a scrivere questa. Ora le aste erano troppo convergenti, ora troppo divergenti; ora formavano un V diritto, ora un V capovolto; non poteva tracciare in nessun modo la curva, e spesso non riusciva che a formare una linea serpeggiante e confusa. Il maestro mi dava del quadrello sulle dita - io m'inacerbiva e piangeva. Aveva dodici anni, allorchè un giorno vidi scritto sulla lavagna un U colossale, così: U Io stava seduto di fronte alla lavagna. Quella vocale era lì, e pareva guardarmi, pareva affissarmi e sfidarmi. Non so qual coraggio mi nascesse improvvisamente nel cuore: certo il tempo della rivelazione era giunto! Quella lettera ed io eravamo nemici; accettai la sfida, mi posi il capo tra le mani e incominciai a guardarla .... Passai alcune ore in quella contemplazione. Fu allora che io compresi tutto, che io vidi tutto ciò che vi ho ora detto, o tentato almeno di dirvi, giacchè il dirvelo esattamente è impossibile. Io indovinai le ragioni della mia ripugnanza, del mio odio; e progettai una guerra mortale a quella lettera. Incominciai col togliere quanti libri poteva a' miei compagni, e cancellarvi tutti gli U che mi venivano sott'occhio. Non era che il principio della mia vendetta. Fui cacciato dalle scuole. Vi ritornai tuttavia più tardi. Il mio maestro si chiamava Aurelio Tubuni TubuniTre U!! Io lo abborriva per questo, Un giorno scrissi sulla lavagna: Morte allU! allU!Egli attribuì a sè medesimo quella minaccia. Fui ricacciato. Ottenni ancora di tornarvi una terza volta. Presentai allora, come lavoro di esame, un progetto relativo all'abolizione di questa vocale, alla sua espulsione dalle lettere dell'alfabeto. Non fui compreso. Fui tacciato di follia. I miei compagni, conosciuta così la mia avversione a quella vocale, incominciarono contro di me una guerra terribile. Io vedeva, io trovava degli U da tutte le parti: essi ne scrivevano dappertutto: sui miei libri, sulle pareti, sui banchi, sulla lavagna - i miei quaderni, le mie carte ne erano ripieni; nè io poteva difendermi da questa persecuzione sanguinosa ed atroce. Un giorno trovai nella mia saccoccia una cartolina, su cui ne era scritta una lunga fila in questo modo infernale, così: Divenni furente! La vista di tutti quegli U disposti in questa guisa, collocati con questa gradazione tremenda, mi trasse di senno. Sentii salirmi il sangue alle tempia, sconvolgersi la mia ragione .... Corsi alla scuola; ed afferrato alla gola uno de' miei compagni, l'avrei per fermo soffocato, se non mi fosse stato tolto di mano. Era la prima colpa a cui mi trascinava quella vocale! Mi fu impedito di continuare i miei studii. Allora incominciai a vivere da solo, a pensare, a meditare, ad operare da solo. Entrai in una nuova sfera di osservazioni, in una sfera più elevata, più attiva: studiai i rapporti che legavano ai destini dell'umanità questa lettera fatale; ne trovai tutte le fila, ne scopersi tutte le cause, ne indovinai tutte le leggi; e scrissi ed elaborai, in cinque lunghi anni di fatica, un lavoro voluminoso, nel quale mi proponeva di dimostrare come tutte le umane calamità non procedessero da altre cause che dall'esistenza dell'U, e dall'uso che ne facciamo nella scritturazione e nel linguaggio; e come fosse possibile il sopprimerlo, e rimediare, e prevenire i mali che ci minaccia. Lo credereste? non trovai mezzo di dare alla luce la mia opera. La società ricusava da me quel rimedio che solo potava ancora guarirla. A venti anni mi accesi d'amore per una fanciulla, e ne fui riamato. Essa era divinamente buona, divinamente bella: ci amammo al solo vederci; e quando potei parlarle, le chiesi: -Come vi chiamate? - Ulrica Ulrica-- Ulrica U. Un U! Era una cosa orribile. Come sottomettermi alla violenza atroce, continua di quella vocale? Il mio amore era tutto per me, ma nondimeno trovai la forza di rinunziarvi. Abbandonai - Ulrica UlricaTentai di guarirmi con un altro affetto. Diedi il mio cuore ad un altra fanciulla. Lo credereste? Seppi più tardi che si chiamava Giulia Mi divisi anche da quella. Ebbi un terzo amore. L'esperienza mi aveva reso cauto: m'informai del suo nome prima di darle il mio cuore. Si chiamava Annetta Finalmente! Apparecchiammo per le nozze, tutto era combinato, stabilito, allorchè, nell'esaminare il suo certificato di nascita, scopersi con orrore che il suo nome di Annetta non era che un vezzeggiativo, un abbreviativo di Susanna, Susannetta e oltre ciò - inorridite! aveva cinque altri nomi di battesimo: Postumia, Uria, Umberta, Giuditta e Lucia LuciaImmaginate se io mi sentissi rabbrividire nel leggere quei nomi! - lacerai sull'istante il contratto nuziale, rinfacciai a quel mostro di perfidia il suo tradimento feroce, e mi allontanai per sempre da quella casa. Il cielo mi aveva ancora salvato. Ma ohimè! io non poteva più amare, la mia affettività era esaurita, prostrata da tanti esperimenti terribili. Il caso mi condusse ad - Ulrica le memorie del mio primo amore si ridestarono, la mia passione si raccese più viva .... Volli rinunciare ancora al suo affetto, alla felicità che mi riprometteva da questo affetto .... ma non ne ebbi la forza - ci sposammo. Da quell'istante incominciò la mia lotta. Io non poteva tollerare che essa portasse un U nel suo nome, non poteva chiamarla con quella parola. Mia moglie! ... la mia compagna, la donna amata da me .... portare un U nel suo nome! ... Essa che aveva già fatto un acquisto così tremendo nel mio, perchè io pure ne aveva uno nel mio casato! Era impossibile! Un giorno le dissi: -Mia buona amica, vedi quanto quest'U è terribile! rinunciavi, abbrevia o muta il tuo nome! ... te ne scongiuro! Essa non rispose, e sorrise. Un'altra volta le dissi: -- Ulrica il tuo nome mi è insopportabile .... esso mi fa male .... esso mi uccide! Rinunciavi. Mia moglie sorrideva ancora, l'ingrata! sorrideva!,.. Una notte mi sentii invaso da non so qual furore: aveva avuto un sogno affannoso .... Un U gigantesco postosi sul mio petto mi abbracciava colle sue aste immense, flessuose .... mi stringeva .... mi opprimeva, mi opprimeva .... Io balzai furioso dal letto: afferrai la grossa canna di giunco, corsi da un notajo, e gli dissi: -Venite, venite meco sull'istante a redigere un atto formale di rinuncia .... Quel miserabile si opponeva. Lo trascinai meco, lo trascinai al letto di mia moglie. Essa dormiva; io la svegliai aspramente e le dissi: -- Ulrica rinuncia al tuo nome, all'U detestabile del tuo nome! Mia moglie mi guardava fissamente, e taceva. -Rinuncia, io le replicai con voce terribile, rinuncia a quell'U.,.. rinuncia al tuo nome abborrito!! .... Essa mi guardava ancora, e taceva! Il suo silenzio, il suo rifiuto mi trassero di senno: mi avventai sopra di lei, e la percossi col mio bastone. Fui arrestato, e chiamato a render conto di questa violenza. I giudici assolvendomi, mi condannarono ad una pena più atroce, alla detenzione in questo Ospizio di pazzi. Io pazzo! Sciagurati! Pazzo! perchè ho scoperto il segreto dei loro destini! dell'avversità dei loro destini! perchè ho tentato di migliorarli? .... Ingrati! Sì, io sento che questa ingratitudine mi ucciderà: lasciato qui solo, inerme! faccia a faccia col mio nemico, con questo U detestato che io vedo ogni ora, ogni istante, nel sonno, nella veglia, in tutti gli oggetti che mi circondano, sento che dovrò finalmente soccombere. Sia. Non temo la morte: l'affretto come il termine unico de' miei mali. Sarei stato felice se avessi potuto beneficare l'umanità persuadendola a sopprimere quella vocale; se essa non avesse esistito mai, o se io non ne avessi conosciuto i misteri. Era stabilito altrimenti! Forse la mia sventura sarà un utile ammaestramento agli uomini; forse il mio esempio li spronerà ad imitarmi .... Che io lo speri! Che la mia morte preceda di pochi giorni l'epoca della loro grande emancipazione, dell'emancipazione dall'U, dell'emancipazione da questa terribile vocale!!! * ** L'infelice che vergò queste linee, morì nel manicomio di Milano l'11 settembre 1865.

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IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683082
Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Abbiate pietà di noi, poveri peccatori!... - A questo punto io mi scostai dal forellino fatto da me nella tela e piantai gli occhi nei buchi fatti da Carlino Pezzi e incominciai a roteare le pupille a destra e a sinistra e, ogni tanto, a fissarle sui tre spiritisti. Essi che tenevano sempre lo sguardo intento al ritratto, poco dopo si accorsero che esso moveva gli occhi, e presi da un gran tremito si scostarono dal tavolino e caddero in ginocchio. - Ah, zio! - mormorò la signora Geltrude. - Ah, zio!... pietà... pietà di noi!... Come potremo riparare ai nostri torti? - Era qui che l'aspettavo. - Togliete il segreto alla porta - dissi - perché io possa venire a voi... - Il cuoco si alzò e pallido, camminando a zig-zag come un ubriaco, andò a togliere il segreto alla porta. - Spengete il lume e aspettatemi tutti in ginocchio! - Il cuoco spense il lume e io sentii poi tornare a inginocchiarsi accanto agli altri due. Il gran momento era giunto. Lasciai il mio posto d’osservazione e affacciatomi all'ingresso dell'armadietto feci con la gola un suono come si fa quando si russa. Immediatamente Gigino Balestra si alzò dal mio letto ov'era ancora disteso e, senza far rumore, uscì dalla camerata. Egli andava a dar l'avviso ai compagni della Società segreta che eran tutti pronti per irrompere nel salone di Pierpaolo Pierpaoli e, armati di cinghie e di battipanni, farne le giuste vendette. Io mi rivoltai nel mio sgabuzzino e accostai l'orecchio alla tela del ritratto per godermi un po' la scena. Sentii aprire l'uscio della sala, richiuderlo col segreto, e poi ad un tratto le grida dei tre spiritisti sotto i primi colpi. - Ah! gli spiriti!... Pietà!... Aiuto!... Soccorso!... - Mi ritirai precipitosamente, e uscito di camerata accesi uno stoppino del quale mi ero provvisto, andai nella stanzetta dei lumi a petrolio, aprii con la chiave che mi aveva dato il Barozzo, staccai la grossa chiave che trovai attaccata dietro la porta secondo le istruzioni che mi aveva dato, e corsi al portone d'ingresso del collegio. Tito Barozzo era lì. Prese la chiave, aprì il portone, poi si rivolse a me e mi avvinghiò con le braccia, e mi tenne stretto stretto al suo petto; mi baciò e le nostre lacrime si confusero insieme sui nostri visi... Che momento! Mi pareva d'essere in un sogno... e quando ritornai in me io ero solo, appoggiato al portone dell'Istituto, chiuso. Tito Barozzo non c'era più. Girai la mandata e ritirai la chiave dal portone e rifacendo rapidamente la strada già fatta l'andai a rimettere al suo posto, richiusi l'uscio dello stanzino dei lumi e ritornai in camerata dove mi affacciai con la massima precauzione, assicurandomi se i miei piccoli colleghi dormivano tutti. Dormivano infatti. Il solo desto era Gigino Balestra, a sedere sul mio letto, che mi aspettava inquieto, non sapendo il motivo per il quale ero uscito. - Siamo tutti ritornati in dormitorio - mormorò. - Ah, che scena!... - Voleva parlare, ma io gli accennai di stare zitto; salii sul comodino, mi tirai su a sedere nell'armadietto e feci cenno a Gigino di venir su anche lui. Con molti sforzi si riuscì a ficcarci tutti e due nel mio osservatorio tra le cui anguste pareti, stavamo distesi, stretti l'uno all'altro come due sardine di Nantes, con la differenza che non eravamo senza testa come loro, ma anzi avevamo i nostri visi, anch'essi appiccicati insieme, dentro la finestrina da me aperta sulla gran sala di Pierpaolo che era nella più completa oscurità. - Ascolta, - dissi in un soffio di voce a Gigino. Si udiva già un singulto cadenzato. - Geltrude - sibilò il mio compagno. Doveva essere intatti la Direttrice che piangeva e ogni tanto borbottava con accento fioco: - Pietà!... Perdono!... Mi pento di tutto! Non lo farò più!... Misericordia dell'anima mia!... - A un tratto nel silenzio tragico di quel momento s'alzò una voce tremula che diceva: - Pierpaolo Pierpaoli... possiamo riaccendere il lume? - Era quel mascalzone del cuoco, inventore della minestra di rigovernatura. Non mi pareva vero di vedere come lo avevano conciato i compagni della Società segreta e mi affrettai a rispondere col solito sibilo: - Sssssss... - Si udì inciampare; poi lo sfregamento scoppiettante di un fiammifero di legno contro il muro, si vide una piccola scialba fiammella giallognola vagar qua e là nel buio come un fuoco fatuo nel cimitero e finalmente un lume si accese. Ah, che spettacolo! Non lo dimenticherò mai. Le sedie, i tavolini erano rovesciati per terra. Sulla consolle il grande orologio, i candelabri erano in bricioli. Dovunque regnava uno spaventevole disordine. Da un lato, accanto al lume acceso, appoggiato alla parete, il cuoco col faccione verde pieno di bitorzoli, vòlto verso di noi, guardava con gli occhi languidi e lacrimosi il ritratto. Dall'altra parte, accovacciata in un angolo, era la Direttrice, col viso sgraffiato, i capelli disciolti e le vesti in brandelli. Anche lei aveva gli occhi gonfi, stralunati, e fissava sul ritratto le inquiete pupille. Poi sopraffatta dal rimorso e dal dolore dètte in un pianto dirotto, balbettando sempre rivolta alla venerata effige del defunto Pierpaolo: - Ah, zio! hai avuto ragione di punirci! Sì... noi siamo indegni di questa tua grande istituzione alla quale dedicasti tutta la tua vita intemerata!... E hai fatto bene a mandarci gli spiriti a punirci, a gastigarci delle nostre colpe... Grazie, zio! Grazie... E se ci vuoi dare altri gastighi, fa' pure!... Fa' pure! Ma ti giuro che da qui in avanti noi non ricadremo più nel peccato tremendo dell'egoismo, dell'avarizia, della prepotenza... Te lo giuriamo, non è vero, Stanislao!... - E si volse lentamente alla sua destra, poi girò lo sguardo da ogni parte, sgomenta. - O Dio! Stanislao non c'è più!... - Infatti il Direttore mancava, e io sentii una stretta al cuore. Che ne avevano fatto, i compagni della Società segreta?... - Stanislao!... - chiamò con voce più alta la Direttrice. Nessuno rispose. Allora il cuoco alzò la voce verso il ritratto: - Pierpaolo Pierpaoli! Gli spiriti punitori hanno forse portato il nostro povero Direttore all'inferno?... - Io rimasi zitto. Volevo dimostrare, ora, che lo spirito del fondatore del Collegio non era più presente. E vi riuscii perché il cuoco, dopo averlo più volte chiamato, disse (e nel dir questo la sua voce aveva ripreso il suo tono calmo e naturale): - Non c'è più! - Anche la signora Geltrude fece un sospiro di sollievo e parve liberata da una gran preoccupazione. - Ma Stanislao? - disse. - Stanislao! Stanislao, dove sei?... - A un tratto dall'uscio che dalla sala mette nella camera dei due coniugi venne fuori una lunga figura così comicamente fantastica che, pur essendo recente la drammatica solennità di quel terribile convegno spiritistico, il cuoco e la direttrice non poterono frenar le risa. Il signor Stanislao pareva diventato più secco e più allampanato di prima; ma il pezzo della sua persona cui era impossibile volger lo sguardo senza ridere era la testa tutta monda e bianca come una palla di biliardo e con un occhio tutto cerchiato di nero intorno e con espressione di così comica desolazione che tanto io che Gigino Balestra, malgrado i nostri più eroici sforzi, non potemmo frenare una risata. Fortunatamente in quel momento ridevano anche il cuoco e la signora Geltrude, sicché non si accorsero di noi. Ma il direttore che non rideva dovette udire qualcosa perché volse l'atterrito occhio cerchiato di nero verso di noi... e noi ci frenammo ancora, resistendo finché ci fu possibile, ma la risata ad un tratto ci scappò via dal naso in un sordo grugnito e ci ritirammo, più in fretta che ci fu possibile in quella ristrettezza, nell'armadietto scendendo poi giù nella camerata. Gigino raggiunse il suo lettuccio e tutti e due spogliatici in un baleno ci ficcammo sotto le rispettive lenzuola palpitanti... Non ho chiuso occhio in tutta la notte, temendo sempre che tutto fosse stato scoperto e che un'improvvisa ispezione venisse a sorprenderci. Fortunatamente nulla di nuovo è accaduto e io posso stamani confidare al mio Giornalino e ultime vicende del collegio Pierpaoli.

Il maleficio occulto

684194
Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

Non vi chiedo come abbiate impiegato il tempo; ma una negligenza tale per l'amica vostra... Insomma, dove sei stato, che cosa hai fatto, chi hai visto, con chi hai parlato?... Non ne posso più! Ella si esprimeva con frasi tronche, quasi sibilanti, squadrandomi dalla testa ai piedi. Io doveva aver l'aspetto dì un reduce dalla caccia al cignale, da una di quelle cacce, però, in cui il cignale incute al cacciatore lo spavento, che è la caratteristica leggendaria della selvaggina. - Sono venuto appunto per rassicurarvi, - dissi con voce malferma. Sto bene; ho un appetito eccezionale, perché ancora non ho pranzato! No, no, vi prego - obbiettai, vedendo ch'ella stava per chiamare. - Non vi disturbate: troverò da mangiare in qualche trattoria... Volevo solo rassicurarvi. - Ma non mi rassicurate punto, con cotesto viso, con le vostre parole... - Ora vado a pranzo, poi a riposare, - dissi stendendole la mano, domani ci vedremo e ci parleremo. - Non potete tornare stasera medesima? - No: è tardi; non dovete più commettere imprudenze. Si rimarrebbe fino all'alba, di nuovo, e sono pazzie imperdonabili.... Strinsi la piccola deliziosa mano ed uscii mentre Clara si chiedeva smarrita, ad alta voce: - Ma che ha? Che cosa è diventato? La poveretta non sapeva che, al vederla, avevo sentito il sangue corrermi alla testa; e che, mentre parlavo, mi ronzava negli orecchi un sussurro, un brusìo molesto, una voce: Clara, al suo amico Lorenzo.....

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