Ai miei cari nipotini Prefazione Queste fiabe son nate così. Dopo averne scritta una per un caro bimbo che voleva da me, ad ogni costo, una bella fiaba, mi venne, un giorno, l'idea di scriverne qualche altra pei miei nipotini. In quel tempo ero triste ed anche un po' ammalato, con un'inerzia intellettuale che mi faceva rabbia, e i lettori non immagineranno facilmente la gioia da me provata nel vedermi, a un tratto, fiorire nella fantasia quel mondo meraviglioso di Fate, di maghi, di re, di regine, di orchi, di incantesimi, che è stato il primo pascolo artistico delle nostre piccole menti. Vissi più settimane soltanto con essi, ingenuamente, come non credevo potesse mai accadere a chi è già convinto che la realtà sia il vero regno dell'arte. Se un importuno fosse allora venuto a parlarmi di cose serie e gravi, gli avrei risposto, senza dubbio, che avevo ben altre e più serie faccende pel capo; avevo Serpentina in pericolo, o la Reginotta che mi moriva di languore per Ranocchino o il MRe che faceva la terza prova di star sette anni alla pioggia e al sole per guadagnarsi la mano di un'adorata fanciulla. Avevo anche la non meno seria preoccupazione del giudizio di quel pubblico piccino che irrompeva rumorosamente, due, tre volte al giorno, nel mio studio, per sapere quando la nuova fiaba sarebbe finita. Quei cari diavoletti, che poi mi si sedevano attorno impazienti, che diventavano muti e tutti occhi ed orecchi appena incominciavo: C'era una volta ..., mi davano una gran suggezione. Pochi autori, aspettando dietro le quinte la sentenza del pubblico, credo abbiano tremato al pari di me nel vedermi davanti quelle vispe e intelligenti testoline che pendevano dalle mie labbra, mentre io tentavo di balbettare per loro il linguaggio così semplice, così efficace, così drammatico, che è l'eccellenza naturale della forma artistica delle fiabe. Non mi è parso superfluo dir questo al benigno lettore, pel caso che il presente volume trovasse qualcuno che volesse giudicarlo non soltanto come un libro destinato ai bambini, ma anche come opera d'arte. Il mio tentativo ha una scusa: le circostanze che lo han prodotto. Senza dubbio non mi sarebbe passato mai pel capo di mettere audacemente le mani sopra una forma di arte così spontanea, così primitiva e perciò tanto contraria al carattere dell'arte moderna. Rivedendo le bozze di stampa ho sentito un po' di rimorso. Non commettevo forse un'indegnità chiamando il pubblico a parte di quella mia deliziosa allucinazione che io non posso mai rammentare senza commozione e senza rimpianto? Allora ben mi stia, se le Fate che vennero ad aleggiare tra le bianche pareti del mio studio mentre il sole di gennaio lo scaldava col tepore dei suoi raggi, mentre i passeri picchiavano famigliarmente col becco all'imposta chiusa della finestra e i miei cari diavoletti non osavan rifiatare avvertendo la presenza delle Dee; ben mi stia, se le Fate, per dispetto, abbandoneranno ora il mio libro alla severa giustizia della critica! Roma, 22@ 22 giugno 1882@ 1882 LUIGI CAPUANA Avvertenza. Ho usato i vocaboli Reuccio e Reginetta secondo il significato che essi hanno nel dialetto siciliano e unicamente nel linguaggio delle fiabe, cioè invece di principe reale e di principessa reale. Reuccio trovasi nelle lettere del Sassetti per Re di piccola potenza.
C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE
SPERA DI SOLE
C'era una volta una fornaia, che aveva una figliuola nera come un tizzone e
brutta più del
peccato mortale. Campavan la vita infornando il pane della gente, e
Tizzoncino, come la
chiamavano, era attorno da mattina a sera: - Ehi, scaldate l'acqua! Ehi,
impastate! - Poi, coll'asse
sotto il braccio e la ciambellina sul capo, andava di qua e di là a prender le
pagnotte e le stiacciate
da infornare; poi, colla cesta sulle spalle, di nuovo di qua e di là per
consegnar le pagnotte e le
stiacciate bell'e cotte. Insomma non riposava un momento.
Tizzoncino era sempre di buon umore. Un mucchio di filiggine; i capelli
arruffati, i piedi
scalzi e intrisi di mota, in dosso due cenci che gli cascavano a pezzi; ma le
sue risate risonavano da
un capo all'altro della via.
- Tizzoncino fa l'uovo - dicevan le vicine.
All'Avemaria le fornaie si chiudevano in casa e non affacciavano più nemmeno
la punta del
naso. D'inverno, passava ... Ma d'estate, quando tutto il vicinato si godeva
il fresco e il lume
di luna? O che eran matte, mamma e figliuola, a starsene tappate in casa con
quel po' di
caldo? ... Le vicine si stillavano il cervello.
- O fornaie, venite fuori al fresco, venite!
- Si sta più fresche in casa.
- O fornaie, guardate che bel lume di luna, guardate!
- C'è più bel lume in casa.
Eh, la cosa non era liscia! Le vicine si misero a spiare e a origliare dietro
l'uscio. Dalle fessure si
vedeva uno splendore che abbagliava, e di tanto in tanto si sentiva la mamma:
- Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
E Tizzoncino che faceva l'uovo.
- Se lo dicevano che erano ammattite!
Ogni notte così, fino alla mezzanotte: - Spera di sole, Spera di sole,
sarai Regina se
Dio vuole!
La cosa giunse all'orecchio del Re. Il Re montò sulle furie e mandò a
chiamare le
fornaie.
- Vecchia Strega, se seguiti, ti faccio buttare in fondo a un carcere, te e
il tuo
Tizzoncino!
- Maestà, non è vero nulla. Le vicine sono bugiarde.
Tizzoncino rideva anche al cospetto del Re.
- Ah!... Tu ridi?
E le fece mettere in prigione tutte e due, mamma e figliuola.
Ma la notte, dalle fessure dell'uscio il custode vedeva in quella stanzaccia
un grande splendore,
uno splendore che abbagliava, e, di tanto in tanto, sentiva la vecchia:
- Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
E Tizzoncino faceva l'uovo. Le sue risate risonavano per tutta la prigione.
Il custode andò dal Re e gli riferì ogni casa.
Il Re montò sulle furie peggio di prima.
- La intendono in tal modo? Sian messe nel carcere criminale, quello
sottoterra.
Era una stanzaccia senz'aria, senza luce, coll'umido che si aggrumava in ogni
parte; non ci si
viveva. Ma la notte, anche nel carcere criminale, ecco uno splendore che
abbagliava, e la vecchia:
- Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
Il custode tornò dal Re, e gli riferì ogni cosa.
Il Re, questa volta, rimase stupito. Radunò il Consiglio della Corona: e
i consiglieri
chi voleva che alle fornaie si tagliasse la testa, chi pensava che fosser matte
e bisognasse metterle in
libertà.
- Infine, che cosa diceva quella donna? Se Dio vuole O che male c'era?
Se Dio avesse
voluto, neppure Sua Maestà sarebbe stato buono d'impedirlo.
- Già! Era proprio così.
Il Re ordinò di scarcerarle
Le fornaie ripresero il loro mestiere. Non avevan le pari nel cuocere il pane
appuntino, e le
vecchie avventore tornarono subito. Perfin la Regina volle infornare il pane
da loro; il
Tizzoncino così saliva spesso le scale del palazzo reale, coi piedi scalzi e
intrisi di mota. La
Regina le domandava:
- Tizzoncino, perché non ti lavi la faccia?
- Maestà, ho la pelle fina e l'acqua me la sciuperebbe.
- Tizzoncino, perché non ti pettini?
- Maestà, ho i capelli sottili, e il pettine me li strapperebbe.
- Tizzoncino, perché non ti compri un paio di scarpe?
- Maestà, ho i piedini delicati; mi farebbero i calli.
- Tizzoncino, perché la tua mamma ti chiama Spera di sole?
- Sarò Regina, se Dio vuole!
La Regina ci si divertiva; e Tizzoncino, andando via colla sua asse sulla
testa e le
pagnotte e le stiacciate di casa reale, rideva, rideva. Le vicine che la
sentivan passare:
- Tizzoncino fa l'uovo!
Intanto ogni notte quella storia. Le vicine, dalla curiosità, si rodevano il
fegato. E appena
vedevano quello splendore che abbagliava e sentivano il ritornello della
vecchia, via, tutte dietro
l'uscio: non sapevano che inventare.
- Fornaie, Fatemi la gentilezza di prestarmi lo staccio; nel mio c'è uno
strappo.
Tizzoncino apriva l'uscio e porgeva lo staccio.
- Come! Siete allo scuro? Mentre picchiavo, c'era lume.
- Uh! Vi sarà parso.
La cosa era arrivata anche alle orecchie del Reuccio, che aveva già sedici
anni. Il
Reuccio era un gran superbo. Quando incontrava per le scale Tizzoncino,
coll'asse sulla
testa o colla cesta sulle spalle, si voltava in là per non vederla. Gli faceva
schifo. E una volta le
sputò addosso.
Tizzoncino quel giorno tornò a casa piangendo.
- Che cosa è stato, figliuola mia?
- Il Reuccio mi ha sputato addosso.
- Sia fatta la volontà di Dio! Il Reuccio è padrone.
Le vicine gongolavano:
- Il Reuccio gli aveva sputato addosso; le stava bene a Spera di
sole
Un altro giorno il Reuccio la incontrò sul pianerottolo. Gli parve che
Tizzoncino lo
avesse un po' urtato con l'asse, e lui, stizzito, le tirò un calcio.
Tizzoncino ruzzolò le scale.
Quelle pagnotte e stiacciate, tutte intrise di polvere, tutte sformate, chi
avrebbe avuto il coraggio
di riportarle alla Regina? Tizzoncino tornò a casa piangendo e rammaricandosi.
- Che cosa è stato, figliuola mia?
- Il Reuccio mi ha tirato un calcio e mi ha rovesciato ogni cosa.
- Sia fatta la volontà di Dio: il Reuccio è padrone.
Le vicine non capivano nella pelle dall'allegrezza.
- Il Reuccio gli aveva menato un calcio: le stava bene a Spera di
sole
Il Reuccio pochi anni dopo pensò di prender moglie e mandò a domandare la
figliuola del
Re di Spagna. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re
di Spagna
s'era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea impiccato l'ambasciatore. Ma
questi gli provò
che avea spesa nel viaggio mezza giornata di meno degli altri. Allora il
Reuccio lo mandò a
domandare la figliuola del Re di Francia. Ma l'ambasciatore arrivò troppo
tardi: la figliuola
del Re di Francia s'era maritata il giorno avanti.
Il Reuccio volea ad ogni costo impiccato quel traditore che non arrivava mai
in tempo: ma
questi gli provò che avea spesa nel viaggio una giornata di meno degli altri.
Allora il Reuccio lo
mandava dal Gran Turco per la sua figliuola. Ma l'ambasciatore arrivò troppo
tardi: la
figliuola del Gran Turco s'era maritata il giorno avanti.
Il Reuccio non sapea darsi pace; piangeva. Il Re, la Regina, tutti i
ministri gli
stavano attorno:
- Mancavano Principesse? c'era la figliuola del Re d'Inghilterra: si
mandasse per lei.
Il povero ambasciatore partì come una saetta, camminando giorno e notte
finché non arrivò in
Inghilterra. Era una fatalità! Anche la figlia del Re d'Inghilterra s'era
maritata il giorno
avanti. Figuriamoci il Reuccio!
Un giorno, per distrarsi, se n'andò a caccia.
Smarritosi in un bosco, lontano dai compagni, errò tutta la giornata senza
poter trovare la via.
Finalmente, verso sera, scoprì un casolare in mezzo agli alberi. Dall'uscio
aperto, vide dentro un
vecchione, con una gran barba bianca, che, acceso un bel fuoco, si preparava la
cena.
- Brav'uomo, sapreste indicarmi la via per uscire dal bosco?
- Ah, finalmente sei arrivato!
A quella voce grossa grossa, il Reuccio sentì accapponarsi la pelle.
- Brav'uomo, non vi conosco; io sono il Reuccio.
- Reuccio o non Reuccio, prendi quella scure e spaccami un po' di legna.
Il Reuccio, per timore di peggio, gli spaccava la legna.
- Reuccio o non Reuccio, vai per l'acqua alla fontana.
Il Reuccio, per timore di peggio, prendeva l'orcio sulle spalle e andava
alla fontana.
- Reuccio o non Reuccio, servimi a tavola.
E il Reuccio, per timore di peggio, lo servì a tavola. All'ultimo il vecchio
gli diè quel che
era avanzato.
- Buttati lì; è il tuo posto.
Il povero Reuccio si accovacciò su quel po' di strame in un canto, ma non
poté dormire.
Quel vecchio era il Mago, padrone del bosco. Quando andava via, stendeva
attorno alla casa
una rete incantata, e il Reuccio rimaneva in tal modo suo prigioniero e suo
schiavo.
Intanto il Re e la Regina lo piangevano per morto e portavano il lutto. Ma
un giorno, non si
sa come, arrivò la notizia che il Reuccio era schiavo del Mago. Il Re
spedì subito i suoi
corrieri:
- Tutte le ricchezze del regno, se gli rilasciava il figliuolo!
- Sono più ricco di lui!
A questa risposta del Mago, la costernazione del Re fu grande. Spedì
daccapo i corrieri:
- Che voleva? Parlasse: il Re avrebbe dato anche il sangue delle sue vene.
- Una pagnotta e una stiacciata, impastate, infornate di mano della Regina,
e il Reuccio
sarà libero.
- Oh, questo era nulla!
La Regina stacciò la farina, la impastò, fece la pagnotta e la stiacciata,
scaldò il forno di sua
mano e le infornò. Ma non era pratica; pagnotta e stiacciata furono
abbruciacchiate.
Quando il Mago le vide, arricciò il naso:
- Buone pei cani.
E le buttò al suo mastino. La Regina stacciò di nuovo la farina, la impastò
e ne fece un'altra
pagnotta e un'altra stiacciata. Poi scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma
non era pratica. La
pagnotta e la stiacciata riusciron mal cotte. Quando il Mago le vide, arricciò
il naso:
- Buone pei cani.
E le buttò al mastino.
La Regina provò, riprovò; ma il suo pane riusciva sempre o troppo o poco
cotto; e intanto il
povero Reuccio restava schiavo del Mago.
Il Re adunò il Consiglio di Ministri.
- Sacra Maestà - disse uno dei Ministri - proviamo se il Mago è
indovino. La
Regina staccerà la farina, la impasterà, farà la pagnotta e la stiacciata; per
scaldare il forno ed
infornare chiameremo Tizzoncino!
- Bene! Benissimo!
E così fecero. Ma il Mago arricciò il naso:
- Pagnottaccia, stiacciataccia
Via, lavatevi la faccia
E le buttò al cane. Aveva subito capito che ci avea messo le mani
Tizzoncino.
- Allora - disse il ministro - non c'è che un rimedio.
- Quale? - domandò il Re.
- Sposare il Reuccio con Tizzoncino. Così il Mago avrà il pane
stacciato, impastato,
infornato dalle mani della Regina, e il Reuccio sarà liberato.
- É proprio la volontà di Dio - disse il Re.
- Spera di sole, Spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
E fece il decreto reale, che dichiarava il Reuccio e Tizzoncino marito e
moglie. Il
Mago ebbe la pagnotta e la stiacciata, stacciate, impastate e infornate dalle
mani della
Regina, e il Reuccio fu messo in libertà.
Veniamo intanto a lui, che di Tizzoncino non vuol saperne affatto:
- Quel mucchio di filiggine sua moglie? Quella bruttona di fornaia Regina?
- Ma c'è un decreto reale ...
- Sì? Il Re lo ha fatto, e il Re può disfarlo!
Tizzoncino, diventata Reginotta, era andata ad abitare nel palazzo reale.
Ma non s'era
voluta lavare, né pettinare, né mutarsi il vestito, né mettersi un paio di
scarpe:
- Quando verrà il Reuccio, allora mi ripulirò.
Era possibile? E aspettava, chiusa nella sua camera, che il Reuccio andasse
a trovarla. Ma
non c'era verso di persuaderlo.
- Quella fornaia mi fa schifo! Meglio morto che sposar lei!
Tizzoncino, quando le riferivano queste parole, si metteva a ridere:
- Verrà, non dubitate; verrà.
- Verrò? Guarda come verrò!
Il Reuccio, perduto il lume degli occhi e colla sciabola in pugno, correva
verso la camera di
Tizzoncino: volea tagliarle la testa. L'uscio era chiuso. Il Reuccio guardò
dal buco della
serratura e la sciabola gli cadde di mano. Lì dentro c'era una bellezza non mai
vista, una vera
Spera di sole!
- Aprite, Reginotta mia! Aprite!
E Tizzoncino, dietro l'uscio, canzonandolo:
- Mucchio di filiggine!
- Apri, Reginotta dell'anima mia!
E Tizzoncino ridendo:
- Bruttona di fornaia!
- Apri, Tizzoncino mio!
Allora l'uscio s'aperse, e i due sposini s'abbracciarono.
Quella sera si fecero gli sponsali, e il Reuccio e Tizzoncino vissero a
lungo, felici e
contenti ...
E a noi ci s'allegano i denti.
LE ARANCE D'ORO
Si racconta che c'era una volta un Re, il quale avea dietro il palazzo reale
un magnifico
giardino. Non vi mancava albero di sorta; ma il più raro e il più pregiato, era
quello che produceva
le arance d'oro.
Quando arrivava la stagione delle arance, il Re vi metteva a guardia una
sentinella notte e
giorno; e tutte le mattine scendeva lui stesso a osservare coi suoi occhi se mai
mancasse una foglia.
Una mattina va in giardino, e trova la sentinella addormentata. Guarda
l'albero ... Le
arance d'oro non c'eran più!
- Sentinella sciagurata, pagherai colla tua testa.
- Maestà, non ci ho colpa. É venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo
e si è messo a
cantare. Canta, canta, canta, mi si aggravavano gli occhi. Lo scacciai da quel
ramo, ma andò a
posarsi sopra un altro. Canta, canta, canta, non mi reggevo dal sonno. Lo
scacciai anche di lì, e
appena cessava di cantare, il mio sonno svaniva. Ma si posò in cima all'albero,
e canta, canta,
canta ..., ho dormito finora!
Il Re non gli fece nulla.
Alla nuova stagione, incaricò della guardia il Reuccio in persona.
Una mattina va in giardino e trova il Reuccio addormentato. Guarda l'albero
...; le
arance d'oro non c'eran più!
Figuriamoci la sua collera!
- Come? Ti sei addormentato anche tu?
- Maestà, non ci ho colpa. É venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo
e si è messo a
cantare. Canta, canta, canta, mi s'aggravavano gli occhi. Gli dissi: cardellino
traditore, col
Reuccio non ti giova! Ed esso a canzonarmi: il Reuccio dorme! il Reuccio
dorme!
Cardellino traditore, col Reuccio non ti giova! Ed esso a canzonarmi: il
Reuccio fa la
nanna! il Reuccio fa la nanna! E canta, canta, canta ..., ho dormito
finora!
Il Re volle provarsi lui stesso; e arrivata la stagione si mise a far la
guardia. Quando le
arance furon mature, ecco il cardellino che si posa sopra un ramo, e comincia a
cantare. Il Re
avrebbe voluto tirargli, ma faceva buio come in una gola. Intanto aveva una gran
voglia di dormire!
- Cardellino traditore, questa volta non ti giova! - Ma durava fatica a tener
aperti gli occhi.
Il cardellino cominciò a canzonarlo:
- Pss! Pss! Il Re dorme! Pss! Pss! Il Re dorme!
E canta, canta, canta, il Re s'addormentava peggio d'un ghiro anche lui.
La mattina apriva gli occhi: le arance d'oro non ci eran più!
Allora fece un bando per tutti i suoi Stati:
- Chi gli portasse, vivo o morto, quel cardellino, riceverebbe per mancia una
mula carica d'oro.
Passarono sei mesi, e non si vide nessuno.
Finalmente un giorno si presenta un contadinotto molto male in arnese:
- Maestà, lo volete davvero quel cardellino? Promettetemi la mano della
Reginotta, e in men
di tre giorni l'avrete.
Il Re lo prese per le spalle, e lo messe fuor dell'uscio.
Il giorno appresso quegli tornò:
- Maestà, lo volete davvero quel cardellino? Promettetemi la mano della
Reginotta, e in men
di tre giorni l'avrete.
Il Re lo prese per le spalle, gli diè una pedata e lo messe fuor
dell'uscio.
Ma il giorno appresso, quello, cocciuto, ritornava:
- Maestà, lo volete davvero il cardellino? Promettetemi la mano della
Reginotta, e in men di
tre giorni l'avrete.
Il Re, stizzito, chiamò una guardia e lo fece condurre in prigione.
Intanto ordinava si facesse attorno all'albero una rete di ferro; con quelle
sbarre grosse, non c'era
più bisogno di sentinella. Ma quando le arance furon mature, una mattina va in
giardino ...;
l'arance d'oro non c'eran più.
Figuriamoci la sua collera! Dovette, per forza, mettersi d'accordo con quel
contadinotto.
- Portami vivo il cardellino e la Reginotta sarà tua.
- Maestà, fra tre giorni.
E prima che i tre giorni passassero era già di ritorno.
- Maestà, eccolo qui. La Reginotta ora è mia.
Il Re si fece scuro. Doveva dare la Reginotta a quello zoticone?
- Vuoi delle gioie? Vuoi dell'oro? Ne avrai finché vorrai. Ma quanto alla
Reginotta, nettati
la bocca.
- Maestà, il patto fu questo.
- Vuoi delle gioie? Vuoi dell'oro?
- Tenetevi ogni cosa. Sarà quel che sarà!
E andò via.
Il Re disse al cardellino:
- Ora che ti ho tra le mani, ti vo' martoriare.
Il cardellino strillava, sentendosi strappare le penne ad una ad una.
- Dove son riposte le arance d'oro?
- Se non mi farete più nulla, Maestà, ve lo dirò.
- Non ti farò più nulla.
- Le arance d'oro sono riposte dentro la Grotta delle sette porte. Ma c'è
il mercante, col
berrettino rosso, che fa la guardia. Bisogna sapere il motto; e lo sanno due
soli: il mercante e quel
contadino che mi ha preso.
Il Re mandò a chiamare il contadino.
- Facciamo un altro patto. Vorrei entrare nella Grotta delle sette porte, e
non so il motto. Se
me lo sveli, la Reginotta sarà tua.
- Parola di Re?
- Parola di Re!
- Maestà, il motto è questo:
"Secca risecca!
Apriti, Cecca."
- Va bene.
Il Re andò, disse il motto, e la Grotta s'aperse. Il contadino rimase
fuori ad attenderlo.
In quella grotta i diamanti, a mucchi per terra, abbagliavano. Vistosi solo,
Sua Maestà si
chinava e se ne riempiva le tasche. Ma nella stanza appresso, i diamanti, sempre
a mucchi, eran più
grossi e più belli. Il Re si vuotava le tasche, e tornava a riempirsele di
questi. Così fino
all'ultima stanza, dove, in un angolo, si vedevano ammonticchiate le arance
d'oro del giardino reale.
C'era lì una bisaccia, e il Re la colmò. Or che sapeva il motto, vi sarebbe
ritornato più volte.
Uscito fuor della Grotta, colla bisaccia in collo, trovò il contadino che lo
attendeva.
- Maestà, la Reginotta ora è mia.
Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone?
- Domanda qualunque grazia e ti verrà concessa. Ma per la Reginotta nettati
la bocca.
- Maestà, e la vostra parola?
- Le parole se le porta il vento.
- Quando sarete al palazzo ve ne accorgerete.
Arrivato al palazzo, il Re mette giù la bisaccia e fa di vuotarla. Ma invece
di arance d'oro,
trova arance marce.
Si mette le mani nelle tasche, i diamanti son diventati tanti gusci di
lumache!
Ah! quel pezzo di contadinaccio gliel'avea fatta!
Ma il cardellino la pagava.
E tornò a martoriarlo.
- Dove sono le mie arance d'oro?
- Se non mi farete più nulla, Maestà, ve lo dirò.
- Non ti farò più nulla.
- Son lì dove le avete viste; ma per riaverle bisogna conoscere un altro
motto, e lo sanno due soli:
il mercante e quel contadino che mi ha preso.
Il Re lo mandò a chiamare:
- Facciamo un altro patto. Dimmi il motto per riprendere le arance e la
Reginotta sarà tua.
- Parola di Re?
- Parola di Re!
- Maestà il motto è questo:
"Ti sto addosso:
Dammi l'osso."
- Va bene.
Il Re andava e ritornava più volte colla bisaccia colma, e riportava a
palazzo tutte le arance
d'oro.
Allora si presentò il contadino:
- Maestà, la Reginotta ora è mia.
Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone?
- Quello è il tesoro reale: prendi quello che ti piace. Quanto alla
Reginotta, nettati la bocca.
- Non se ne parli più.
E andò via.
Da che il cardellino era in gabbia, le arance d'oro restavano attaccate
all'albero da un anno
all'altro.
Un giorno la Reginotta disse al Re:
- Maestà, quel cardellino vorrei tenerlo nella mia camera.
- Figliuola mia, prendilo pure; ma bada che non ti scappi.
Il cardellino nella camera della Reginotta non cantava più.
- Cardellino, perché non canti più?
- Ho il mio padrone che piange.
- E perché piange?
- Perché non ha quel che vorrebbe.
- Che cosa vorrebbe?
- Vorrebbe la Reginotta. Dice:
"Ho lavorato tanto,
E le fatiche mie son sparse al vento."
- Chi è il tuo padrone? Quello zotico?
- Quello zotico, Reginotta, è più Re di Sua Maestà.
- Se fosse vero, lo sposerei. Va' a dirglielo, e torna subito.
- Lo giurate?
- Lo giuro.
E gli aperse la gabbia. Ma il cardellino non tornò.
Una volta il Re domandò alla Reginotta:
- O il cardellino non canta più? É un bel pezzo che non lo sento.
- Maestà, è un po' malato.
E il Re s'acchetò.
Intanto la povera Reginotta viveva in ambascia:
- Cardellino traditore, te e il tuo padrone!
E come s'avvicinava la stagione delle arance, pel timore del babbo, il cuore
le diventava piccino
piccino.
Intanto venne un ambasciatore del Re di Francia che la chiedeva per
moglie. Il padre ne
fu lieto oltremodo, e rispose subito di sì. Ma la Reginotta:
- Maestà, non voglio: vo' rimanere ragazza.
Quello montò sulle furie:
- Come? Diceva di no, ora che avea impegnato la sua parola e non potea più
ritirarla?
- Maestà, le parole se le porta il vento.
Il Re non lo potevan trattenere: schizzava fuoco dagli occhi. Ma quella,
ostinata:
- Non lo voglio! Non lo voglio! Vo' rimanere ragazza.
Il peggio fu quando il Re di Francia mandò a dire che fra otto giorni
arrivava.
Come rimediare con quella figliolaccia caparbia?
Dallo sdegno, le legò le mani e i piedi e la calò in un pozzo:
- Di' di sì, o ti faccio affogare!
E la Reginotta zitta. Il Re la calò fino a metà.
- Di' di sì, o ti faccio affogare!
E la Reginotta zitta. Il Re la calava più giù, dentro l'acqua; le restava
fuori soltanto la
testa:
- Di' di sì, o ti faccio affogare!
E la Reginotta zitta.
- Dovea affogarla davvero?
E la tirò su; ma la rinchiuse in una stanza, a pane ed acqua. La Reginotta
piangeva:
- Cardellino traditore, te e il tuo padrone! Per mantenere la parola ora
patisco tanti guai!
Il Re di Francia arrivò con un gran seguito, e prese alloggio nel palazzo
reale.
- E la Reginotta? Non vuol farsi vedere?
- Maestà, è un po' indisposta.
Il Re non sapeva che rispondere, imbarazzato.
- Portatele questo regalo.
Era uno scatolino tutto d'oro e di brillanti. Ma la Reginotta lo posò lì,
senza neppur curarsi
d'aprirlo. E piangeva.
- Cardellino traditore, te e il tuo padrone!
- Non siamo traditori, né io, né il mio padrone.
Sentendosi rispondere dallo scatolino, la Reginotta lo aperse.
- Ah, cardellino mio! Quante lagrime ho sparse.
- La tua Sorte volea così. Ora il destino è compito.
Sua Maestà, conosciuto chi era quel contadino, le diè in dote l'albero
che produceva le
arance d'oro, e il giorno appresso la Reginotta sposò il Re di Francia.
E noi restiamo a grattarci la pancia.
RANOCCHINO
Questa è la bella storia di Ranocchino porgi il ditino, e sentirete qui
appresso perché si
dica così.
Si racconta dunque che c'era una volta un povero diavolo, il quale aveva sette
figliuoli, che se lo
rodevano vivo. Il maggiore contava dieci anni, e l'ultimo appena due.
Una sera il babbo se li fece venire tutti dinanzi.
- Figliuoli - disse - son due giorni che non gustiamo neppure un gocciolo
d'acqua, ed io, dalla
disperazione, non so più dove dar di capo. Sapete che ho pensato? Domani mi farò
prestar
l'asino dal nostro vicino, gli porrò le ceste e vi porterò attorno per vendervi.
Se avete un po' di
fortuna, si vedrà.
I bimbi si misero a strillare; non volevano esser venduti, no! Solo l'ultimo,
quello di due anni,
non strillava.
- E tu, Ranocchino? - gli domandò il babbo, che gli avea messo quel
nomignolo perché era
piccino quanto un ranocchio.
- Io son contento - rispose.
E la mattina quel povero diavolo se lo prese in collo, e cominciò a girare per
la città.
- Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino!
Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera!
S'affacciò alla finestra la figlia del Re.
- Che cosa vendete, quell'uomo?
- Vendo questo bimbo, chi lo vuol comprare.
La Reginotta lo guardò, fece una smorfia e gli sbatacchiò le imposte sul
viso.
- Bella grazia! - disse quel povero diavolo. E riprese ad urlare:
- Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino!
Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera!
Quel povero diavolo non avea coraggio di tornare a casa, dove gli altri
figliuoli lo aspettavano
come tant'anime del purgatorio, morti di fame.
Ranocchino intanto gli s'era addormentato addosso.
Allora lui pensò ch'era meglio ammazzarlo, piuttosto che vederlo patire: gli
avrebbe ammazzati
tutti, quei figliuoli, ad uno ad uno; e cominciava da questo!
Era già sera: e, uscito fuor di città, si ridusse in una grotta, dove non
poteva esser veduto da
nessuno. Adagiò per terra il bimbo che dormiva tranquillamente, e prima
d'ammazzarlo si mise a
piangerlo:
- Ah, coricino mio!
E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti!
Ah, Ranocchino mio!
E non ti vedrò più per la casa, non ti vedrò!
Ah, coricino mio!
E chi fu la Strega che te lo cantò in culla, chi fu?
Ah, Ranocchino mio!
E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti!
Spezzava il cuore perfino ai sassi.
- Che cosa è stato, che piangi così?
Il povero diavolo si voltò e vide una vecchia seduta a traverso la bocca della
grotta, con un
bastoncello in mano.
- Che cosa è stato! Ho sette figliuoli piccini e moriamo tutti di fame. Per
non vederli più patire,
ho deliberato d'ammazzarli; e comincio da questo.
- Come si chiama?
- Si chiama Beppe; ma noi gli diciamo Ranocchino.
- E Ranocchino sia!
La vecchia toccava appena il bimbo col bastoncello, che quegli era già
diventato un ranocchio e
saltellava qua e là.
Il povero padre rimase spaventato.
- Fatti coraggio! - gli disse la vecchia - Fruga in quel canto; c'è del pane
e del formaggio:
mangerete per questa sera. Domani a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del
palazzo reale: sarà
la tua fortuna.
Quando i figliuoli lo videro tornare senza il fratellino, si misero a
strillare.
- Zitti! Ecco del pane e del formaggio.
- Ma Ranocchino dov'è?
- É morto!
Disse così per non esser seccato.
E il giorno appresso, prima dell'ora fissata, andava ad appostarsi sotto le
finestre del palazzo
reale. Aspetta, aspetta, la vecchia non compariva. La figlia del Re era a una
finestra, che si
pettinava. Lo riconobbe e gli domandò, per canzonatura:
- O quell'uomo, e Ranocchino ve l'han comprato?
Ma prima che quello rispondesse, ecco la vecchia con una coda di gente dietro.
La gente fece
crocchio e la vecchia, nel mezzo, diceva:
- Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri
avevano un bel
dirgli: - Ranocchino, porgi il ditino -; non se ne dava per inteso. Una
meraviglia non mai vista.
E tutti pagavano un soldo.
La Reginotta fece chiamar la vecchia sotto la finestra; voleva veder anche
lei.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Rimase ammaliata. E corse subito dal Re.
- Babbo, se mi vuoi bene, devi comprarmi quel Ranocchino.
- Che vorresti tu farne?
- Allevarlo nelle mie stanze: mi divertirò.
Il Re acconsentì.
- Buona donna, quanto volete di quel Ranocchino?
- Maestà, lo vendo a peso d'oro. É quel che vale.
- Voi canzonate, vecchia mia.
- Dico davvero. Domani varrà il doppio. Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri
avevano un bel
dirgli: - Ranocchino, porgi il ditino -; non se ne dava per inteso.
- Vedi? - disse il Re alla Reginotta. - Occorre anche la vecchia.
La Reginotta non s'era provata.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Ranocchino spiccò un salto, le fece una bella riverenza e le porse il
ditino.
Allora bisognò comprarlo: se no, la Reginotta non si chetava.
Posero Ranocchino in un piatto della bilancia e un pezzettino d'oro
nell'altro, ma la bilancia
non lo levava. Possibile che quel Ranocchino pesasse tanto? Colmarono d'oro il
piatto ma la
bilancia non lo levava. La Reginotta e la Regina si tolsero gli orecchini,
gli anelli, i
braccialetti e li buttarono lì. Nulla! Il Re si tolse la cintura, ch'era d'oro
massiccio, e la buttò lì.
Nulla!
- Anche la corona! Vorrei ora vedere!...
Allora la bilancia levò esatta; non mancava un pelo.
La vecchia si rovesciò quel mucchio d'oro nel grembiule e andò via.
Quel povero diavolo l'attendeva all'uscita.
- Tieni!
E gli riempì le tasche.
- Però bada! Spendi tutto a tuo piacere; ma la corona reale, se tu la vendi o
la perdi, guai a te!
La Reginotta si spassava, tutto il giorno, con Ranocchino.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Era una bellezza. Lo teneva sempre in mano, lo portava seco dovunque. A
tavola,
Ranocchino dovea mangiare nel piatto di lei.
- Una cosa sconcia! - diceva la Regina.
Ma quella era figlia unica, e le perdonavano tutti i capricci.
Arrivò il tempo che la Reginotta dovea andare a marito. L'avea chiesta il
Reuccio del
Portogallo, e il Re e la Regina n'eran contentissimi. Lei disse di no:
Voleva sposare Ranocchino!
Poteva darsi? Intanto non c'era verso di persuaderla.
- O Ranocchino, o nessuno!
- Te lo do io Ranocchino!
E il Re, afferratolo per una gambetta, stava per sbatacchiarlo sul pavimento;
ma entrò un'aquila
dalla finestra che glielo strappò di mano e sparì.
La Reginotta piangeva giorno e notte. Povera figliuola, faceva pena! E tutta
la Corte
stava in lutto.
Intanto in casa di Ranocchino pareva tutti i giorni carnovale. Spendi e
spandi; mezzo
vicinato banchettava lì e i danari andavano via a fiumi. Finalmente non ci fu
più il becco d'un
quattrino.
- Babbo, vendiamo la corona reale.
- La corona reale non si tocca!
- Si dee crepar di fame? Vendiamola!
- La corona reale non si tocca.
Quel povero diavolo tornò nella grotta in cerca della vecchia, e si mise a
piangere.
- Che cosa è stato?
- Mammina mia, i quattrini son finiti e quei figliuoli vorrebbero vendere la
corona reale; ma io
non l'ho permesso.
- Fruga in quel canto. C'è del pane e del formaggio; mangerete per questa
sera. Domani a
mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna.
Tornò a casa, e trovò una tragedia! Cinque figliuoli erano stesi morti per
terra in un lago di
sangue; uno respirava appena:
- Ah, babbo mio! É venuta un'aquila forte e picchiò alla finestra. "Ragazzi,
Fatemi vedere la
corona reale." "Il babbo la tiene sotto chiave." "E dove l'ha riposta?" "In
questa cassa." Allora, a
colpi di becco, cominciò a scassinarla; e siccome noi ci si opponeva, ci ha
tutti ammazzati.
Detto questo, spirò.
Quel povero diavolo si sentì rizzare i capelli. I figliuoli morti e la corona
sparita!
Il giorno dopo, quando vide la vecchia, le raccontò ogni cosa.
- Lascia fare a me! - rispose quella.
La Reginotta stava malissimo. I medici non sapevano più quali rimedi
adoprare.
- Maestà, - dissero, all'ultimo - qui ci vuol Ranocchino, o la Reginotta
è spacciata.
Il Re si disperava:
- Dove prenderlo quel maledetto Ranocchino? L'aquila lo aveva già digerito
da un pezzo.
Si presentò la vecchia:
- Maestà, Ranocchino ve lo farei trovare io; ma ci vuole un gran coraggio.
- Mi lascerei anche fare a pezzi rispose il Re.
- Prendete un coltello di diamante, il più bel bue della mandria, una corda
lunga un miglio, e
venite con me.
Il Re prese il coltello di diamante, il più bel bue della mandria, una corda
lunga un miglio, e
partì insieme colla vecchia. Nessuno dovea seguirli.
Camminarono due giorni, e al terzo, verso il tramonto, giunsero in una
pianura. Lì c'era la torre
incantata, senza porte e senza finestre, alta un miglio.
- Ranocchino è qui! - disse la vecchia. - Quegli uccellacci che aliano
attorno alla cima, sono
i suoi carcerieri. Bisogna montare lassù.
- O come?
- Maestà, ammazzate il bue e vedrete.
Il Re ammazzò il bue.
- Maestà, scorticatelo e lasciate molta carne attaccata al cuoio.
Il Re lo scorticò e lasciò molta carne attorno al cuoio.
- Ora rivolteremo questo cuoio - disse la vecchia. - Io vi ci cucirò dentro.
Scenderanno gli
uccellacci e vi porteranno lassù. La notte, spaccherete il cuoio col coltello di
diamante; e la mattina
quando l'aquila e gli uccellacci saranno andati via per la caccia, attaccherete
la corda alla cima,
prenderete Ranocchino e la corona reale, metterete il coltello fra i denti e
vi lascerete andar giù.
Il Re esitava.
- E se la corda si spezzasse?
- Tenendo il coltello fra i denti non si spezzerà.
Il Re, per amor della figliuola, si lasciò cucire dentro il cuoio. E,
subito, ecco gli uccellacci
di preda che lo afferrano cogli arti gli e se lo portano lassù.
La notte, spaccò il cuoio col coltello di diamante e andò a nascondersi in
fondo a uno stanzino.
Quando fu giorno, aspettò che l'aquila e gli uccellacci di preda andassero a
caccia, attaccò la corda
alla cima della torre, prese Ranocchino e la corona reale, e si lasciò andar
giù.
E il coltello? L'aveva dimenticato.
Allora la corda cominciò a nicchiare:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Come rimediare? Il Re si morse una vena del braccio e ne fece schizzar il
sangue. Intanto
scivolava giù.
Ma poco dopo la corda da capo:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Il Re si morse la vena dell'altro braccio e ne fece schizzar il sangue.
Intanto scivolava giù.
Ma la corda da capo:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Il Re, visto che ci voleva pochino a toccar terra:
- E spezzati! - rispose.
Infatti si spezzò; ma lui, per sua fortuna, se la cavò con qualche
ammaccatura. Per le vene ferite
delle braccia la vecchia cercò un'erba, e gliele medicò con essa, e gli sanarono
a un tratto.
Appena visto Ranocchino, la Reginotta cominciò a riaversi.
- Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino porgeva il ditino, e a lei soltanto.
Il Re, per finirla, voleva far subito le nozze. Ma la vecchia gli disse:
- Bisogna aspettare ancora un mese. Intanto Fate preparare una caldaia d'olio
bollente.
- A che farne?
- Lo saprete poi.
Quando fu il giorno, l'olio bolliva nella caldaia. Venne la vecchia e dietro a
lei quel povero
diavolo con un carro, su cui erano distesi i cadaveri dei sei figliuoli.
- Reginotta, - disse la vecchia - volete sposare Ranocchino? Bisogna
prenderlo per un
piede e tuffarlo tre volte in quell'olio.
La Reginotta esitava.
- Tuffami, tuffami! - le disse Ranocchino.
Allora lei lo tuffò. Uno, due! Ma la terza volta le scappa di mano e casca in
fondo alla caldaia.
La Reginotta si svenne.
Il Re voleva far ammazzare la vecchia; ma questa, afferrati in fretta in
fretta quei morticini e
buttatili nell'olio bollente, cominciò a rimestare col suo bastone, e intanto
cantava:
Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.
Infatti ecco il figlio maggiore che salta fuori vivo, il primo.
Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.
E rimestava. Ed ecco saltar fuori il secondo. Così tutti e sei i fratellini.
- Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.
E rimestava. Ma Ranocchino venne soltanto a galla e non saltò.
La Reginotta, appena lo scorse, tentò d'afferrarlo; la vecchia la trattenne.
- Voleva scottarsi? Doveva fare come al solito.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Ranocchino porse il ditino alla Reginotta ..., e chi uscì fuori? Un bel
giovane che
pareva un Sole.
La Reginotta lo riconobbe pel bimbo che quel povero diavolo volea vendere, e
gli domandò
scusa d'avergli sbatacchiato le impòste sul viso. Ranocchino, si capisce, le
aveva già perdonato.
Si fecer le nozze con magnifiche feste, e Ranocchino, a suo tempo, ebbe la
corona reale.
Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta;
Chi non gli piace, me la riporti.
SENZA-ORECCHIE
C'era una volta un Re che avea una bimba.
La Regina era morta di parto, e il Re avea preso una balia che gli
allattasse la piccina.
Un giorno la balia scese, insieme colla bimba, nel giardino reale. La bimba
avea tre anni, e si
divertiva a fare chiasso sull'erba, all'ombra dei grandi alberi. Sull'ora di
mezzogiorno la balia
s'addormentava; ma quando si svegliò, non trovò più la Reginotta. Cerca,
chiama per tutto il
giardino; nulla! La bimba era scomparsa.
Come presentarsi al Re, che andava matto per quella figliuola?
La povera balia si picchiava il petto, si strappava i capelli:
- Dio! Dio! Sua Maestà l'avrebbe fatta impiccare!
Agli urli della balia erano accorse le guardie.
Fruga e rifruga, tutto fu inutile.
Venne l'ora del pranzo.
- E la Reginotta? - domandò il Re.
I ministri si guardarono in faccia, più bianchi di un panno lavato.
- La Reginotta dov'è?
- Maestà, - disse un ministro - è accaduta una disgrazia!
Il Re pareva fuori di sé dal gran dolore. Fece subito un bando:
- Chi riporta la Reginotta, gli si concede qualunque grazia.
Ma eran già passati sei mesi, e al palazzo reale non s'era visto nessuno.
I banditori andavano di regno in regno:
- Sia cristiano, sia infedele, chi riporta la Reginotta, gli vien concessa
qualunque grazia.
Ma passò un anno, e al palazzo reale non si presentò nessuno.
Il Re era inconsolabile: piangeva giorno e notte.
Nel giardino reale c'era un pozzo. La Reginotta, mentre la balia dormiva,
s'era accostata
all'orlo e vi si era affacciata.
Vedendo, laggiù, nello specchio dell'acqua, un'altra bimba sua pari, l'avea
chiamata: - Ehi! Ehi! -
, accennando colle manine. Allora era sorto dal fondo del pozzo un braccio lungo
lungo, peloso
peloso, che l'afferrò e la tirò giù. E così, da parecchi anni, lei viveva in
fondo a quel pozzo, col
Lupo Mannaro che l'aveva tirata giù.
In fondo al pozzo c'era una grotta grande dieci volte più del palazzo reale.
Stanze tutte oro e
diamanti, una più bella e più ricca dell'altra. É vero che non ci penetrava mai
sole, ma ci si vedeva
lo stesso. La bimba veniva servita da quella Reginotta che era. Una cameriera
per spogliarla,
una per vestirla, una per lavarla, una per pettinarla, una per recarle la
colazione, una per servirla a
pranzo, una per metterla a letto. S'era già abituata e non ci viveva di cattivo
umore.
Il Lupo Mannaro russava tutto il santo giorno e la notte andava via.
Siccome la bimba,
quando lo vedeva, strillava dalla paura, si facea veder di rado: non volea
spaventarla.
Intanto la Reginotta s'era fatta una bella ragazza.
Una sera, entrata in letto, non poteva dormire. Sentito che il Lupo Mannaro si preparava
ad andar via, tese meglio l'orecchio. Il Lupo Mannaro con quella sua
vociaccia ròca, urlava:
- Chiamatemi il cuoco.
Il cuoco venne.
- Credo che siamo in punto, - gli disse - mi pare una quaglia.
- Bisogna vedere - rispose il cuoco.
La Reginotta sentì che giravano adagino il pomo della serratura:
- AhimŠ! Dunque si trattava di lei? Il Lupo Mannaro voleva mangiarsela.
Le si accapponò la pelle, sfido io! Si fece piccina piccina, e finse di
dormire. Il Lupo Mannaro s'accostava al letto, svoltava le coperte con cautela, e il cuoco
cominciava a tastarla
tutta, come gallina da tirargli il collo.
- Ancora una settimana, - disse il cuoco - e sarà un boccone reale.
Come intese queste parole, la Reginotta si senti rinascere:
- Otto giorni! Oh, quella quaglia il Lupo Mannaro non l'avrebbe mangiata;
no, no!
Pensa e ripensa, le venne un'idea. La mattina, saltata giù dal letto,
appostossi alla bocca della
grotta, dentro il collo del pozzo, ed aspettò che venisse gente ad attinger
acqua. La carrucola stride,
la secchia fa un tonfo, ed ecco la Reginotta che s'afferra alla corda,
puntando i piedini sull'orlo
della secchia. La tiravano su lentamente; era un po' pesa. A un tratto la corda
si rompe, e secchia e
Reginotta, patatunfete, giù!
Accorsero le cameriere e la ritirarono dall'acqua.
- Ebbi un capogiro e cascai. Non ne Fate motto, per carità; il Lupo Mannaro mi
picchierebbe.
E passò un giorno.
Il secondo giorno, aspetta aspetta, la secchia non venne giù. Bisognava
trovare un altro mezzo:
ma non era come dirlo. Quale? La grotta non aveva che quell'unica uscita.
E passò un altro giorno.
La Reginotta non si perdette d'animo. Appena aggiornava, era al suo posto;
ma la secchia
non calava.
E passarono altri due giorni.
Una mattina, mentre lei piangeva dirottamente, guardando fisso nell'acqua vide
lì un
Pesciolino rosso, che parea d'oro, colla coda bianca come l'argento, e con tre
macchie nere sulla
schiena.
- Ah! Pesciolino, tu sei felice! Tu sei libero in mezzo all'acqua, ed io qui
sola, senza parenti
né amici!
Il Pesciolino montava a fior d'acqua, dimenando la coda, aprendo e chiudendo
la bocca;
pareva l'avesse sentita:
- Ah! Pesciolino, tu sei felice! Tu sei libero in mezzo all'acqua, ed io qui
sola, senza parenti
né amici. Fra quattro giorni sarò mangiata!
Il Pesciolino rosso, dalla coda bianca e dalle tre macchie nere sulla
schiena, s'era accostato
alla sponda:
- Se tu fossi di sangue reale e volessi sposarmi, saremmo liberi tutti e due.
Per vincere il mio
incanto non ci vuol altro.
- Son sangue reale, Pesciolino d'oro, e son tua sposa fino da questo
momento.
- Cavalcami sulla schiena e tienti forte.
La Reginotta si mise a cavalcioni del Pesciolino e gli si afferrò alle
branchie; e il
Pesciolino, nuota, nuota, la portò in fondo al pozzo. Di lì passava un fiume,
sotto terra. Il
Pesciolino infilò diritto la corrente e la Reginotta gli si tenne sempre ben
afferrata alle
branchie.
Ma ecco, in un punto, un pesce grossissimo, con tanto di bocca spalancata, che
voleva ingoiarli:
- Pagate il pedaggio, o di qui non si passa.
La Reginotta si strappò un'orecchia e gliela buttò. Nuota, nuota, ecco un
altro pesce più
grosso del primo, con tanto di bocca spalancata e una foresta di denti:
Pagate il pedaggio, o di qui non si passa.
La Reginotta si strappava l'altra orecchia e gliela buttava.
Quando la corrente sboccò all'aria aperta, il Pesciolino depose la
Reginotta sulla sponda
e diè un salto fuor dell'acqua. Era diventato un bel giovane, con tre piccoli
nŠi sulla faccia. Lei
disse:
- Andiamo a presentarci al Re mio padre. Son tredici anni che non mi vede.
Al portone del palazzo reale non volevano lasciarla passare.
- Sono la Reginotta! Son la figliuola del Re!
Non ci credeva nessuno, nemmeno il Re. Pure ordinò di fargliela venire
dinanzi:
- Chi sa? Poteva anche darsi!
Il Re la guardò da capo a piedi: gli pareva e non gli pareva. Lei gli
raccontò la sua storia; ma
non disse nulla delle orecchie, per vergogna. Infatti nascondeva il suo difetto,
tenendo basse le
trecce.
Ma un ministro se n'accorse:
- E le orecchie, figliuola mia? Dove le perdeste le orecchie?
Il Re, indignato, la condannava a rigovernare i piatti e le stoviglie della
cucina reale. Il
Principe Pesciolino (lo chiamarono subito così) fu dannato a spazzar le
stalle:
- Imparassero in tal modo a farsi beffa del Re!
Un giorno Sua Maestà volea mangiare del pesce. Ma in tutto il mercato
c'era due pesci
soltanto, e nessuno sapeva che razza di pesci si fossero, neppure i pesciaioli.
Ed erano lì dal giorno
avanti, e cominciavano a passare. Ma il Re volea del pesce ad ogni costo, e il
cuoco li comprò:
- Maestà, non c'è che questi; nessuno sa che pesci siano, neppure i
pesciaioli. Trovansi in
mercato da due giorni e cominciano a passare.
- Sta bene, - disse il Re - portali in cucina.
In cucina il cuoco fa per sventrarli, e che gli trova nelle budella? Due
orecchie di creatura umana,
ancor stillanti sangue!
Chiamarono subito Senza-orecchie, come le aven messo il nomignolo:
- Senza-orecchie, Senza-orecchie, ecco roba per te!
La Reginotta accorse: eran davvero le sue orecchie. Tremante dalla
contentezza se le adattò
al capo e le si appiccicarono; il sangue avea servito da colla.
Colle orecchie, il Re suo padre raffigurolla ad un tratto:
- É lei! É la mia figliuola!
E bandì feste reali per otto giorni. Poi, siccome era vecchio, volle lasciare
il regno. E il re
Pesciolino e la Regina Senza-orecchie regnarono a lungo dopo di lui.
Stretta la foglia, e larga la via,
Dite la vostra, ché ho detto la mia.
IL LUPO MANNARO
C'era una volta un Re e una Regina che non avevan figliuoli e pregavano i
santi, giorno
e notte, per ottenerne almeno uno. Intanto consultavano anche i dottori di
Corte.
- Maestà, Fate questo.
- Maestà, Fate quello.
E pillole di qua, e beveroni di là; ma il sospirato figliuolo non arrivava a
spuntare.
Una bella giornata ch'era freddino, la Regina s'era messa davanti il palazzo
reale per
riscaldarsi al sole. Passa una vecchiarella:
- Fate la carità!
Quella per la noia di cavar le mani di tasca rispose:
- Non ho nulla.
La vecchiarella andò via brontolando.
- Che cosa ha brontolato? - domandò la Regina.
- Maestà, ha detto che un giorno avrete bisogno di lei.
La Regina le fece correre una persona dietro, per richiamarla; ma la
vecchiarella aveva
svoltato cantonata ed era sparita.
Otto giorni dopo, si presentava un forestiero, chiedeva di parlare in segreto
col Re:
- Maestà, ho il rimedio per guarir la Regina. Ma prima facciamo i patti.
- Oh, bravo! Facciamo i patti.
- Se nascerà un maschio, lo terrete per voi.
- E se una femmina?
- Se una femmina quando avrà compiti i sette anni, dovrete condurla in cima a
quella montagna e
abbandonarla lassù: non ne saprete più nuova.
- Consulterò la Regina.
- Vuol dire che non ne farete nulla.
Stretto fra l'uscio e il muro, il Re accettò. Il forestiero cavò di tasca
una boccettina, che gli
spariva fra le dita e disse:
- Ecco il rimedio. Questa notte, appena la Regina sarà addormentata,
Vostra Maestà
glielo versi tutto intero in un orecchio. Basterà.
Infatti, dopo nove mesi, la Regina partorì e fece una bella bambina. A
questa notizia il
Re diede in uno scoppio di pianto:
- Povera figliolina, che mala Sorte! Che mala Sorte!
La Regina lo seppe:
- Maestà, perché avete pianto: Povera figliolina, che mala Sorte?
- Non ne Fate caso.
La Reginotta cresceva più bella del sole: il Re e la Regina n'erano
matti. Quando
entrò nei sette anni, il povero padre non sapeva darsi pace, pensando che presto
doveva condurla in
cima a quella montagna, abbandonarla lassù e non averne più nuove! Ma il patto
era questo:
bisognava osservarlo.
Il giorno che la Reginotta compì i sette anni, il Re disse alla Regina:
- Vo in campagna colla bimba; torneremo verso sera.
Cammina, cammina, giunsero a piè della montagna e cominciarono a salire. La
Reginotta
non potea arrampicarsi, e il Re se la tolse in collo.
- Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro.
Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia.
- Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro.
Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia.
- Babbo, che siam venuti a fare quassù? Torniamo indietro.
- Siediti qui; aspetta un momento.
E l'abbandonò alla sua Sorte.
Vedendolo tornar solo, la Regina cominciò a urlare:
- E la figliuola? E la figliuola?
- Calò giù un'aquila, l'afferrò cogli artigli e la portò via.
- Ah, figliuola mia! Non è vero!
- Le sbucò addosso un animale feroce e andò a divorarsela nel bosco.
- Ah, figliolina mia! Non è vero!
- Faceva chiasso in riva al fiume e la corrente la travolse.
- Non è vero! Non è vero!
Allora il Re le raccontò per filo e per segno ogni cosa.
E la Regina partì, come una pazza, per ritrovar la figliuola.
Salita in cima alla montagna, cercò, chiamò tre giorni e tre notti, ma non
scoperse neppure un
segnale; e tornò, desolata, al palazzo.
Eran passati sette anni. Della bimba non s'era più saputo nuova. Un giorno la
Regina si
affaccia al terrazzino e vede giù nella via quella vecchiarella tanto ricercata:
- Buona donna, buona donna, montate su.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
La Regina rimase male. E il giorno dopo stette tutta la mattinata ad
aspettarla al terrazzino.
Come la vide passare:
- Buona donna, buona donna, montate su.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
Il giorno dopo, la Regina, per far meglio, andò ad aspettarla innanzi il
portone.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
Ma la Regina la prese per una mano e non la lasciò andar via; e per le scale
le domandò
perdono di quella volta che non le aveva fatto l'elemosina.
- Buona donna, buona donna, Fatemi ritrovar la mia figliuola!
- Maestà, che ne so io? Sono una povera femminuccia.
- Buona donna, buona donna, Fatemi ritrovar la mia figliuola!
- Maestà, male nuove. La Reginotta è alle mani d'un Lupo Mannaro,
quello stesso
che diè il rimedio e fece il patto col Re. Fra un mese le domanderà: mi vuoi
per marito? Se lei
risponde di no, quello ne farà due bocconi. Bisogna avvertirla.
- E il Lupo Mannaro dov'abita?
- Maestà, sotto terra. Si scende tre giorni e tre notti, senza mangiare, né
bere, né riposare, e al
terzo giorno s'arriva. Prendete un coltellino, un gomitolo di refe e un pugno di
grano, e venite con
me. La Regina prese tutto quello che la vecchiarella avea ordinato, e partì
insieme con lei.
Giunsero ad una buca, che ci si passava appena. La vecchiarella attaccò un
capo del refe a una
piantina e disse:
- Chi semina raccolga,
Chi ti attacca, quei ti sciolga.
Ed entrarono. Scendi, scendi, scendi, la Regina già si sentiva le ginocchia
tutte rotte.
- Vecchiarella, riposiamo un tantino!
- Maestà, è impossibile.
Scendi, scendi, scendi, la Regina non si reggeva più dalla fame.
- Vecchiarella, prendiamo un boccone, mi sento svenire!
- Maestà, non è possibile.
Scendi, scendi, scendi, la Regina affogava di sete.
- Vecchiarella, per carità, un gocciolo di acqua!
- Maestà, non è possibile.
E sbucarono in una pianura. Il gomitolo del refe terminò. La vecchiarella
attaccò quell'altro capo
ad una pianticina, e disse:
- Chi semina raccolga,
Chi ti attacca, quei ti sciolga.
Cominciarono ad inoltrarsi. Ad ogni passo la Regina dovea lasciar cadere in
terra un chicco
di grano e la vecchiarella diceva:
- Grano, grano di Dio,
Com'io ti semino, vo' mieterti io.
Il grano nasceva e cresceva subito, colle spighe mature che penzolavano.
- Maestà, ora piantate in terra il coltellino e sputate tre volte; siamo
arrivati.
La Regina piantò il coltellino e sputò tre volte; e la vecchiarella disse:
- Coltellino, coltellino di Dio,
Com'io ti pianto, vo' strapparti io.
Lasciamo costoro e torniamo alla Reginotta.
Vistasi sola sola in cima alla montagna, s'era messa a piangere e a strillare;
poi, povera bimba,
s'era addormentata. Si svegliò in un gran palazzo; ma per quelle stanze e quei
stanzoni non vedeva
anima viva. Gira, rigira, era già stanca.
- Reginotta, sedete, sedete!
Le sedie parlavano.
Si sedette, e dopo un pezzettino, cominciò a sentirsi appetito. Comparve una
tavola
apparecchiata, colle pietanze fumanti.
- Reginotta, mangiate, mangiate!
La tavola parlava.
Mangiò, bevve, e poco dopo le vennero le cascaggini.
- Reginotta, dormite, dormite!
Il letto parlava. Era uno stupore. Così tutti i giorni. Non le mancava nulla,
ma s'annoiava a star lì
senza vedere un viso di cristiano. Spesso piangeva, pensando al babbo e alla
mamma; ed una volta
si mise a chiamarli ad alta voce, tra i singhiozzi:
- Babbo mio! Mamma mia! Con che cuore mi lasciate qui, mammina mia!
Ma una vociona le gridò:
- Sta' zitta! Sta' zitta!
Ranicchiossi in un canto, e non ebbe animo di più fiatare.
Passato un anno, un bel giorno si sentì domandare:
- Vuoi vedermi?
E non era quella vociona. Rispose:
- Volentieri.
Ed ecco gli usci si spalancano da loro stessi, e di fondo alla fila delle
stanze viene avanti un
cosino alto un cubito, vestito d'una stoffa a trama d'oro, con un berrettino
rosso e una bella piuma
più alta di lui.
- Buon giorno.
- Buon giorno. Oh, bimbo mio, come sei bello!
E lo prese in braccio e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in
aria come una
bambola.
- Mi vuoi per marito? Mi vuoi?
La Reginotta rideva:
- Ti voglio, ti voglio.
E un altro salto per aria, prendendolo fra le mani.
- Come ti chiami?
- Gomitetto.
- Che fai qui?
- Sono il padrone.
- Allora lasciami andare! Lasciami tornare a casa mia!
- No, no! Dobbiamo sposarci.
- Per ora bada a crescere!
Gomitetto se l'ebbe a male ed andò via. E per un anno non si fece vivo. La
Reginotta
s'annoiava a star lì senza vedere un viso cristiano. Ogni giorno chiamava:
- Gomitetto! Gomitetto!
Ma Gomitetto non rispondeva. Un bel giorno le domandò di nuovo:
- Vuoi vedermi?
- Volentieri.
In un anno dovea esser cresciuto un pochino: ma gli usci si spalancarono, e le
venne innanzi
sempre lo stesso cosino alto un gomito, vestito di stoffa a trama d'oro, col
berrettino rosso
sormontato da quella bella piuma più alta di lui.
- Buon giorno.
- Buon giorno.
La Reginotta, nel vederlo lo stesso, rimase sorpresa. Lo prese in collo e
cominciò a baciarlo,
a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola.
- Mi vuoi per marito? Mi vuoi?
La Reginotta rideva:
- Ti voglio! Ti voglio! Ma per ora bada a crescere.
E qui un capitombolo per aria, prendendolo fra le mani. Gomitetto se l'ebbe
a male e andò
via.
Ogni anno così; ed eran passati sette anni. Intanto la Reginotta s'era fatta
una ragazza, che ci
volevan quattro paia d'occhi per guardarla. Una notte non potendo prender sonno,
pensava al babbo
e alla mamma:
- Chi sa se più si ricordano di me? Forse mi credono morta!
E piangeva sui guanciali; quand'ecco sente buttar dei sassolini all'imposta
della finestra.
Chi poteva essere, a quell'ora?
Si fece coraggio, saltò giù dal letto, aperse adagino adagino l'impòsta, e
domandò:
- Chi siete? Che cosa volete?
- Son io, figliuola mia; siam venute per te!
Dall'allegrezza stava per saltar dalla finestra.
- Ascolta, figliuola - disse la Regina sotto voce. - Quel Gomitetto è il
Lupo Mannaro. Ti s'è mostrato a quel modo per non farti paura. Ma ora che sei
grande, fra qualche
giorno t'apparirà col suo vero aspetto. Figliuola mia, non atterrirti. E se ti
domanda: Mi vuoi per
marito? rispondi di sì; altrimenti sarai morta; ne farà due bocconi. La prossima
notte a quest'ora ci
rivedremo.
La mattina, la Reginotta udì la solita voce:
- Vuoi vedermi?
- Volentieri.
Si spalancarono gli usci, ma, invece di Gomitetto, venne avanti il Lupo Mannaro
alto, grosso, peloso, con certi occhiacci e certe zanne, che Dio ne scampi ogni
creatura! La
Reginotta si sentì mancare.
- Mi vuoi per marito? Ti feci fare apposta per me.
Lei tremava come una foglia.
- Mi vuoi per marito?
Più la Reginotta sentiva quella vociaccia, e più tremava e si smarriva.
- Mi vuoi per marito?
Voleva rispondergli: sì! Ma le scappò detto:
- Oh, no! no!
- Allora vien qui!
E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela.
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia!
Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso! Sarai mangiata domani.
La notte, all'ora fissata, lei s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi scappò detto di no; sarò mangiata domani.
- Fatevi coraggio! - disse la vecchiarella.
E picchiò forte al portone.
- Chi è? Chi cercate?
All'urlo del Lupo Mannaro tutto il palazzo tremava.
Son coltellino,
Son piantato nella terra dura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina,
all'alba, venne
fuori; e come vide il coltellino, si mordeva le mani:
- Se trovo chi l'ha piantato, ne faccio un boccone!
Cercò, frugò attorno, ma non trovò nessuno. All'ultimo chiamò la Reginotta:
- Vien qua, strappami di terra questo coltellino: non ti mangerò più.
La Reginotta gli credette, e strappò il coltellino.
- Ed ora vien qui!
E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela.
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia.
Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso.
La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi disse: strappa di terra questo coltellino, ed io glielo
strappai. Domani
sarò mangiata!
- Fatevi coraggio!
E la vecchiarella picchiò forte al portone.
- Chi è? Chi cercate?
All'urlo del Lupo Mannaro, tutto il palazzo tremava.
Son frumentino,
Son seminato nella terra scura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina
all'alba, venne
fuori; e come vide il seminato colle spighe penzoloni, si mordeva le mani:
- Se trovo chi lo seminò, ne faccio un boccone.
Cercò, frugò intorno, ma non trovò nessuno. E la mattina dopo disse alla
Reginotta:
- Vieni qua: mietimi questo frumento; non ti mangerò più.
La Reginotta gli credette, e si mise all'opera. Per lei non c'era malìa, e
in una giornata poté
facilmente terminare di mieterlo.
- Ed ora vien qui!
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia.
Quegli stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso, per l'ultima volta.
La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi disse: mieti questo frumento ed io glielo mietei. Domani
sarò mangiata.
- Fatevi coraggio!
E la vecchiarella picchiò forte al portone.
- Chi è? - urlò il Lupo Mannaro. Son refe fino
Son attaccato alla pianta matura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina
all'alba venne
fuori, e come vide il capo del refe legato alla pianticina, si mordeva le mani:
- Vien qua; scioglimi questo refe dai due capi: non ti mangerò più.
La Reginotta era stata indettata dalla vecchiarella.
Non doveva fermarsi un passo, né mangiare, né bere, ma aggomitolare,
aggomitolare e andare
avanti. Sciolse quel capo, e lei avanti, aggomitolando, il Lupo Mannaro
dietro.
- Ripòsati, ripòsati!
- Quando sarò stanca, mi riposerò.
Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro.
- Prendi un boccone, prendi un boccone!
- Quando avrò fame mangerò.
Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro.
- Bevi un gocciolino d'acqua, un gocciolino!
- Quando avrò sete, berrò.
Eran già arrivati alla buca d'uscita. Come il Lupo Mannaro s'accorse che
l'altro capo del
refe era attaccato alla pianticina di fuori, cominciò a mordersi rabbiosamente
le mani. E vista la
vecchiarella, diventò bianco come un panno lavato.
- Ah! La nemica mia! Son morto! Son morto!
La Regina e la Reginotta si voltarono e, invece della vecchiarella, videro
una bellissima
signora, che pareva la stella del mattino. Era la Regina delle Fate.
Figuriamoci che
allegrezza!
La Regina delle Fate prendeva intanto dei sassi, e li metteva l'uno
sull'altro davanti la
buca.
- Sassi, sassi di Dio,
Io vi muro e vo' smurarvi io!
Murata la buca, la Regina delle Fate sparì.
E quella brutta bestiaccia crepò di fame lì dentro.
La Regina e la Reginotta tornarono sane e salve al palazzo; e un anno dopo
la
Reginotta sposò il Re di Portogallo.
CECINA
C'era una volta un Re, che amava pazzamente la caccia, e per essere più
libero di andarvi
tutti i giorni, non aveva voluto prender moglie.
I ministri gli dicevano:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui rispondeva:
- Prenderò moglie l'anno venturo.
Passava l'anno, e i ministri da capo:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui:
- Prenderò moglie l'anno venturo.
Ma quest'anno non arrivava mai.
Ogni mattina, appena albeggiava, indossava la carniera, e col fucile sulla
spalla, e coi cani, via
pei forteti e pei boschi.
Chi avea da parlare col Re, doveva andare a trovarlo in mezzo ai boschi e ai
forteti.
I ministri ripicchiavano:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
Talché finalmente il Re si decise, e mandò a chiedere la figlia del Re di
Spagna.
Ma, andato per sposarla, si accorse che era un po' gobbina.
- Sposare una gobbina? No. Mai!
- Ma è bella, è virtuosa! - gli dicevano i ministri.
- É gobbina e basta: no, mai!
E tornò alla caccia, ai boschi e ai forteti.
Quella Reginotta gobbina aveva per comare una Fata.
La Fata, vedendola piangere pel rifiuto del Re, le disse:
- Sta' tranquilla: ti sposerà e dovrà venire a pregarti. Lascia fare a me.
Infatti un giorno il Re, andando a caccia, incontrò una donnicciola magra,
allampanata, che
un soffio l'avrebbe portata via.
- Maestà, buona caccia!
Il Re, a quel viso di mal augurio, stizzito, fece una mossaccia, e non
rispose nulla.
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Un'altra mattina, ecco di nuovo quella donnicciuola magra, allampanata, che un
soffio l'avrebbe
portata via:
- Maestà, buona caccia!
- Senti, strega - le disse il Re - se ti trovo un'altra volta per la strada,
te la farò vedere io!
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Ma la mattina dopo, eccoti lì quella del malaugurio:
- Maestà, buona caccia!
- La buona caccia te la darò io!
Il Re avea condotto con sé le sue guardie, e ordinò che quella donna del
malaugurio fosse
chiusa in una prigione.
Da quel giorno in poi, tutte le volte che il Re andò a caccia, non poté
tirare un sol colpo. La
selvaggina era sparita, come per incanto, dai forteti e dai boschi. Non si
trovava un coniglio o una
lepre, neppure a pagarli a peso d'oro.
Gli accadde anche peggio.
Non potendo più fare il solito esercizio della caccia, il Re cominciò a
ingrassare, a
ingrassare, e in poco tempo diventò così grasso e grosso, da pesare due quintali
con quel suo gran
pancione che pareva una botte.
Quando avea fatto due passi per le stanze del palazzo reale, era come se
avesse fatto cento
miglia. Soffiava peggio di un mantice, sudava da allagare il pavimento; e doveva
subito subito
riposarsi e mangiare anche qualche cosa di sostanza, per rimettersi in forze.
Desolato, consultava i
migliori dottori:
- Vorrei dimagrare.
I dottori scrivevano ricette sopra ricette. Non passava giorno, che lo
speziale non mandasse a
palazzo bicchieroni d'intrugli amari come il fiele, che dovevano guarire Sua Maestà.
Ma Sua Maestà, più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Nel palazzo reale avevano già allargato tutti gli usci delle stanze, perché
il Re potesse
passare; e una volta gli architetti dissero che se non si fossero puntellati ben
bene i solai, Sua Maestà col gran peso gli avrebbe sfondati.
Il povero Re si disperava:
- O che non c'era rimedio per lui?
E chiamava altri dottori; ma inutilmente. Più intrugli prendeva e più grasso
diventava.
Un giorno si presentò una vecchia e disse al Re:
- Maestà, voi avete addosso una brutta malìa. Io potrei romperla; ma voi, in
compenso, dovrete
sposare la mia figliuola, che si chiama Cecina, perché è piccina come un
cece.
- Sposerò la tua Cecina!
Il Re avrebbe anche fatto chi sa che cosa, pur di levarsi di dosso tutto
quel grasso e quel
pancione.
- Conducila qui.
La vecchia cacciò una mano nella tasca del grembiule, e ne tirò fuori la
Cecina, che era alta
appena una spanna, ma bellina e ben proporzionata. Come vide quel pancione, la
Cecina
scoppiò in una risata; e mentre quella la teneva sulla palma della mano per
mostrarla al Re, lei
spiccò un salto e si mise ad arrampicarsi su pel pancione, correndo di qua e di
là, come se il
pancione del Re fosse stato per lei una collina.
Il Re, con quei piedini, sentiva farsi il solletico e voleva fermarla; ma
quella, salta di qua,
salta di là, peggio di una pulce, non si lasciava acchiappare. Pel solletico, il
Re rideva, ah! ah!
ah!, e il pancione gli faceva certi sbalzi buffi. Ah! ah! ah!
Allora la Cecina: - Pancione del Re,
Palazzo per me!
Il Re dal gran ridere, teneva aperta la bocca; la Cecina, dentro e giù per
la gola:
- Pancione del Re,
Palazzo per me!
Figuriamoci lo spavento di Sua Maestà e di tutta la Corte!
Nella confusione, la vecchia era sparita.
E la Cecina, che dal suo palazzo ordinava:
- Datemi da mangiare!
E il Re doveva mangiare anche per lei.
- Datemi da bere!
E il Re doveva bere anche per lei.
- Lasciatemi dormire!
E il Re dovea stare fermo e zitto, perché la Cecina dormisse.
- Maestà, - disse uno dei ministri - che sia una malìa di quella donna magra,
allampanata, fatta
mettere in prigione? Facciamola condurre qui.
I guardiani aprirono la prigione e la trovarono vuota. Quella donna dovea
essere scappata pel
buco della serratura!
- Ed ora che fare?
E la Cecina, dal suo palazzo del pancione:
- Datemi da mangiare! Datemi da bere!
Il popolo intanto mormorava per le tasse; giacché per riempire quel pancione
del Re, ce ne
volea della roba! E bisognava pagare.
Il Re fece un bando:
- Chi gli cavava la Cecina dallo stomaco, diventava principe reale e avrebbe
avuto
quattrini quanti ne voleva!
Ma i banditori andarono attorno inutilmente. E come la Cecina cresceva, per
quanto poco
crescesse, il pancione del Re si gonfiava e pareva dovesse scoppiare da un
momento all'altro.
Il Re la pregava:
- Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
- Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da mangiare.
- Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
- Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da bere.
Se non fosse stato il timore della morte, il Re si sarebbe spaccato il
pancione colle proprie
mani.
E il popolo che brontolava:
- Re pancione ingoiava tutto! Lavoravano per Re pancione!
Come se Re pancione ci avesse avuto il suo piacere! Lo sapeva soltanto lui,
quello che
pativa, con la Cecina dentro che comandava a bacchetta e voleva essere
ubbidita!
Finalmente un giorno ricomparve la vecchia:
- Ah, vecchia scellerata! Cavami fuori la tua Cecina, o guai a te!
- Maestà, son venuta a posta coi miei dottori.
E i suoi dottori erano due uccellacci più grossi di un tacchino, con un becco
lungo un braccio e
forte come l'acciaio.
- Maestà, - disse la vecchia - dovete stendervi a pancia all'aria in mezzo a
una pianura.
Il Re, che era ingrassato da non poter più fare neppure un passo, comandò:
- Ruzzolatemi.
E il popolo cominciò a ruzzolarlo come una botte, per le scale e per le vie;
e, dalla fatica,
sudavano.
Arrivati nella pianura, e messo il Re a pancia all'aria, uno degli
uccellacci gli diè una
beccata sul pancione e, che ne schizzò fuori? Uno zampillo di vino schietto,
tutto il vino che
Sua Maestà aveva bevuto in tanti anni.
La gente riempiva botti, botticini, caratelli, tini, barili, fiaschi, boccali;
non c'erano vasi che
bastassero. Pareva di essere alla vendemmia. Tutti cioncavano e si ubriacavano.
E il pancione del Re si sgonfiò un poco.
Allora l'altro uccellaccio gli diè la sua beccata, ed ecco rigurgitar fuori
tutto il ben di Dio
mangiato dal Re in tanti anni; maccheroni, salsicciotti, polli arrosto,
bistecche, pasticcini, frutta,
insomma ogni cosa. La gente non sapeva più dove riporli. Tutti mangiarono a
crepapancia, come
fosse di carnovale.
E il pancione del Re sgonfiò un altro poco.
Allora il Re disse:
- Cecina bella, vien fuori; ti faccio Regina!
La Cecina affacciò la testa da uno dei buchi, e ridendo rispose:
- Eccomi qua.
E il Re tornò com'era prima.
Si sposarono; ma il Re, con quella cosina alta una spanna, che era una
moglie per chiasso, si
credette libero di tornare a divertirsi colla caccia, e stava fuori intere
settimane.
La Cecina piangeva:
- Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re per questo lamentìo, non la poteva soffrire.
Andò da una Strega e le disse:
- Che cosa debbo fare per levarmi di torno la Cecina?
- Maestà,
- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Mangiarla gli repugnava; pure, tornato a casa disse alla Cecina:
- Domani ti condurrò a caccia, e ti divertirai.
Voleva condurla in mezzo ai boschi, dove non potesse vederlo nessuno. Ma la
Cecina rispose:
- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Grazie, Maestà! Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re rimase stupito:
- Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
- Maestà, quando la Cecina sarà addormentata, tagliatele una ciocca di
capelli e portatemela
qui.
Però, quella sera, la Cecina non avea voglia di andare a letto.
- Cecina, vieni a dormire.
- Più tardi, Maestà; per ora non ho sonno.
Il Re aspettò, aspettò, e si addormentò lui per il primo. La mattina,
svegliatosi, vide che la
Cecina era già levata.
- Cecina, non hai dormito?
- Chi si guarda si salva. Grazie, Maestà. - Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re rimase stupito:
- Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
- Maestà, invitate re Corvo; appena la vedrà, ne farà un sol boccone.
Venne re Corvo:
- Cra! Cra! Cra! Cra!
E come vide la Cecina, alta una spanna, cra! cra! ne fece un boccone.
- Mille grazie, re Corvo. Ora potete andar via.
- Cra! Cra! Cra! Ma prima di andar via, debbo mangiarti gli occhi.
E con due beccate gli cavò gli occhi.
Il povero Re piangeva sangue:
- La Cecina morta, e lui senz'occhi! Ah, Cecina mia!
Passato un po' di tempo, ricomparve la solita vecchia. Era la Fata comare
della Reginotta
di Spagna.
- Maestà, non vi affliggete. La Cecina è viva, e i vostri occhi son
riposti in buon luogo;
son nella gobba della Reginotta di Spagna.
Il Re si trascinò fino al palazzo reale, dove questa abitava, e cominciò a
gridare
pietosamente, dietro al portone:
- Ah, Reginotta! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta, dalla finestra, rispondeva:
- Sposare una gobbina! No, mai!
- Perdonatemi, Reginotta; e rendetemi gli occhi!
La Reginotta dalla finestra rispondeva:
- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Allora il Re capì che la Reginotta di Spagna e la Cecina erano una sola
persona; e si
mise a gridare più forte:
- Ah, Reginotta! Ah, Cecina mia! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta scese giù e gli disse:
- Ecco gli occhi.
Il Re la guardò sbalordito. La Reginotta non era più gobba e somigliava
precisamente
alla Cecina, benché fosse di giusta statura.
Così fu perdonato, e da lì a poco la sposò.
Lei, per ricordo, volle sempre essere chiamata Cecina. Vissero lieti e contenti
E a noi si allegano i denti.
L'ALBERO CHE PARLA
C'era una volta un Re che credeva d'aver raccolto nel suo palazzo tutte le
cose più rare del
mondo.
Un giorno venne un forestiere, e chiese di vederle. Osservò minutamente ogni
cosa e poi disse:
- Maestà, vi manca il meglio.
- Che cosa mi manca?
- L'albero che parla.
Infatti, tra quelle rarità, l'albero che parlava non c'era.
Con questa pulce nell'orecchio, il Re non dormì più. Mandò corrieri per
tutto il mondo in
cerca dell'albero che parlava. Ma i corrieri tornarono colle mani vuote.
Il Re si credette canzonato da quel forestiere, e ordinò d'arrestarlo.
- Maestà, se i vostri corrieri han cercato male, che colpa ne ho io? Cerchino
meglio.
- E tu l'hai veduto, coi tuoi occhi, l'albero che parla?
- L'ho veduto con questi occhi e l'ho sentito con queste orecchie.
- Dove?
- Non me ne rammento più.
- E che cosa diceva?
- Diceva "aspettare e non venire è una cosa da morire".
Era dunque vero! Il Re spedì di bel nuovo i suoi corrieri. Passa un anno, e
questi
ritorNano da capo colle mani vuote.
Allora, sdegnato, ordinò che al forestiere si tagliasse la testa.
- Maestà, se i vostri corrieri han cercato male, che colpa ne ho io? Cerchino
meglio.
Questa insistenza lo colpì. Chiamati i suoi ministri, disse che voleva andar
lui in persona alla
ricerca dell'albero che parlava.
Finché non lo avesse nel suo palazzo, non si terrebbe per Re.
E partì, travestito.
Cammina, cammina, dopo molti giorni la notte lo colse in una vallata dove non
c'era anima viva.
Sdraiossi per terra e stava per addormentarsi, quand'ecco una voce che pareva
piangesse:
- Aspettare e non venire è una cosa da morire!
Si scosse e tese l'orecchio. Se l'era sognato?
- Aspettare e non venire è una cosa da morire!
Non se l'era sognato! E domandò subito:
- Chi sei tu?
Non rispondeva nessuno. Ma le parole erano, precise, quelle dell'albero che
parlava.
- Chi sei tu?
Non rispondeva nessuno. La mattina, come aggiornò, vide lì vicino un
bell'albero coi rami
pendenti fino a terra:
- Doveva esser quello.
E per accertarsene, stese la mano e strappò due foglie.
- Ahi! Perché mi strappi?
Il Re, con tutto il suo gran coraggio, rimase atterrito.
- Chi sei tu? Se sei anima battezzata, rispondi, in nome di Dio!
- Son la figliuola del Re di Spagna.
- E in che modo ti trovi lì?
- Vidi una fontana limpida come il cristallo, e pensai di lavarmi. Tocca
appena quell'acqua,
rimasi incantata.
- Che posso fare per liberarti?
- Bisogna aver la fatatura e giurare di sposarmi.
- Questo lo giuro subito, e la fatatura saprò procurarmela, dovessi andare in
capo al mondo. Ma
tu, perché non mi rispondevi la notte scorsa?
- C'era la Strega ... Sta' zitto, allontanati; sento la Strega che
ritorna. Se per
disgrazia ti trovasse, incanterebbe anche te.
Il Re corse a nascondersi dietro un muricciolo, e vide arrivar la Strega a
cavallo del
manico di una granata.
- Con chi hai tu parlato?
- Col vento dell'aria.
- Veggo qui delle pedate.
- Son forse le vostre.
- Ah! Son le mie?
La Strega afferrava una mazza di ferro e:
- Di dove vieni? Vengo dal mulino.
- Basta, per carità! Non lo farò più!
- Ah! Son le mie?
E:
- Di dove vieni? Vengo dal mulino.
Il Re, angustiato, si persuase che era inutile il seguitare a star lì;
bisognava procurarsi la fatatura.
E tornò addietro.
Ma sbagliò strada. Quando s'accorse d'essersi smarrito in un gran bosco e non
trovava più la via,
pensò di montare in cima a un albero per passarvi la notte; altrimenti, le
bestie feroci n'avrebbero
fatto un boccone.
Ed ecco, a mezzanotte, un rumore assordante per tutto il bosco. Era un Orco
che tornava a
casa coi suoi cento mastini, che gli latravano dietro.
- Oh, che buon odore di carne cristiana!
L'Orco si fermò a piè dell'albero, e cominciò ad annusar l'aria:
- Oh, che buon odore!
Il Re aveva i brividi mentre i mastini frugavano latrando, fra le macchie, e
raspando il suolo
dove fiutavan le pedate. Ma per sua buona Sorte era buio fitto; e l'Orco,
cercato inutilmente
per un po' di tempo, andava via chiamandosi dietro i mastini.
- Té! Té!
Quando fu giorno, il Re, che tremava ancora dalla paura, scese da
quell'albero e cominciò ad
inoltrarsi cautamente. Incontrò una bella ragazza.
- Bella ragazza, per carità, additatemi la via. Sono un viandante smarrito.
- Ah, povero a te! Dove tu sei capitato! Fra poco ripasserà mio padre e ti
mangerà vivo,
poverino!
Infatti si sentivano i latrati dei mastini dell'Orco e la voce di lui che se
li chiamava dietro:
- Té! Té!
- Questa volta sono morto! - pensò il Re.
- Vien qua, - disse la ragazza - bùttati carponi. Io mi sederò sulla tua
schiena, e la mia gonna ti
coprirà. Non fiatare!
L'Orco, vista la figliuola, si fermò.
- Che fai lì?
- Mi riposo.
- Oh, che buon odore di carne cristiana!
- Passava un ragazzino, e ne feci un bocconcino.
- Brava! E le ossa?
- Se le rosicchiarono i cani.
L'Orco non cessava d'annusar l'aria.
- Oh, che buon odore!
- Se volete arrivare alla marina, non indugiate per via.
Partito che fu l'Orco, il Re raccontò alla ragazza, per filo e per segno,
tutta la sua storia.
- Maestà, se volete sposarmi, la fatatura ve la darei io.
La ragazza era una bellezza; il Re l'avrebbe sposata volentieri.
- AhimŠ, bella ragazza! Ho impegnato la parola.
- É la mia cattiva Sorte! Ma non importa.
Lo condusse a casa, prese un barattolo e gli strofinò il petto con una pomata
di suo padre. Il
Re fu fatato.
- Ed ora, bella ragazza, dovreste prestarmi una scure.
- Eccola.
- Che cosa è quest'unto?
- É l'olio della cote dove è stata affilata.
Colla fatatura, ci volle un batter d'occhi per tornare al luogo dove trovavasi
l'albero che parlava.
La Strega non c'era, e l'albero gli disse:
- Bada! Dentro il tronco c'è nascosto il mio cuore. Quando dovrai abbattermi
non dar retta alla
Strega. Se ti dirà di dar i colpi in su, e tu dàlli in giù. Se ti dirà di
darli in giù, e tu dàlli in su;
altrimenti m'ammazzeresti. Alla Stregaccia poi bisognerà spiccarle la testa
con un sol colpo, o
saresti spacciato; neppure la fatatura ti salverebbe.
Venne la Strega.
- Che cerchi da queste parti?
- Cerco un albero per far del carbone, e stavo osservando questo qui.
- Ti farebbe comodo? Te lo regalo, a patto che per atterrarlo tu dia colpi
dove ti dirò io.
- Va bene.
Il Re brandì la scure, che tagliava meglio d'un rasoio e domandò:
- Dove?
- Qui.
E lui, invece, diè lì.
- Ho sbagliato. Da capo. Dove?
- Lì.
E lui, invece, diè qui.
- Ho sbagliato. Da capo.
Intanto non trovava il verso di assestare il colpo alla Strega: essa stava
guardinga. Il Re
fece:
- Oooh!
- Che vedi?
- Una stella.
- Di giorno? É impossibile.
- Lassù, diritto a quel ramo: guardate!
E mentre la Strega gli voltava le spalle per guardare diritto a quel ramo,
lui le menò il colpo
e le staccò, di netto, la testa.
Rotta così la malìa, dal tronco dell'albero uscì fuori una donzella, che non
poteva esser guardata
fissa, tanto era bella!
Il Re, contentissimo, tornò insieme con lei al palazzo reale, e ordinò che
si preparassero
subito magnifiche feste per gli sponsali.
Arrivato quel giorno, mentre le dame di Corte abbigliavano da sposa la
Regina,
s'accorsero, con gran meraviglia, che avea le carni dure come il legno. Una di
esse volò dal Re:
- Maestà, la Regina ha le carni dure come il legno!
- Possibile?
Il Re e i ministri andarono ad osservare. La cosa era sorprendente. Alla
vista parevano carni
da ingannare chiunque; a toccarle, era legno! Lei intanto parlava e si muoveva.
I ministri dissero
che il Re non poteva sposare una bambola, quantunque essa parlasse e si
muovesse; e
contromandaron le feste.
- Qui c'è un altro incanto! - pensò il Re, che si ricordò dell'unto della
scure.
Prese un pezzetto di carne e lo tagliuzzò con questa. Aveva indovinato! I
pezzettini, alla vista,
parevan carne da ingannare chiunque; a toccarli, eran legno. Il tradimento
gliel'aveva fatto la
figliuola dell'Orco, per gelosia.
Il Re disse ai ministri:
- Vado e torno.
E si trovò nel bosco, dove aveva incontrato quella ragazza.
- Maestà, da queste parti? Che buon vento vi mena?
- Son venuto apposta per te.
La figlia dell'Orco non volea credergli:
- Parola di Re, che siete venuto apposta per me?
- Parola di Re!
Ed era vero; ma lei s'immaginava per le nozze.
Si presero a braccetto ed entrarono in casa.
- Questa è la scure che tu mi prestasti.
Nel porgergliela, il Re fece in maniera di ferirla in una mano.
- Ah, Maestà, che avete fatto! Son diventata di legno!
Il Re si fingeva afflittissimo di quell'accidente:
- E non si può rimediare?
- Aprite quell'armadio, prendete quel barattolo, ungetemi tutta coll'olio che
è lì dentro, e sarò
subito guarita.
Il Re prese il barattolo:
- Aspetta che io torni!
Lei capì e si messe a urlare:
- Tradimento! Tradimento!
E gli scatenò dietro i cento mastini di suo padre. Ma sì!... il Re era
sparito. Con
quell'olio le carni della Regina tornarono subito morbide, e si poterono
celebrare le nozze.
Furono fatte feste reali per otto giorni, e a noialtri non dettero neppure un
corno.
I TRE ANELLI
C'era una volta un sarto, che aveva tre figliuole, una più bella dell'altra.
Sua moglie era morta
da un pezzo, e lui si stillava il cervello per riuscire a maritarle. Le ragazze
non avevano dote, e
senza dote un marito è un po' difficile a trovarsi.
Un giorno questo povero padre pensò d'andarsene in una pianura e chiamare la
Sorte:
- Sorte, o Sorte!
Gli apparve una vecchia, colla conocchia e col fuso:
- Perché mi hai tu chiamata?
- Ti ho chiamata per le mie figliuole.
- Menale qui ad una ad una; si sceglieranno la Sorte colle loro mani.
Il buon Uomo, tornato a casa tutto contento, disse alle figliuole:
- La vostra fortuna è trovata!
E raccontò ogni cosa. Allora la maggiore si fece avanti, ringalluzzita:
- La prima scelta tocca a me. Sceglierò il meglio!
Il giorno dopo, padre e figliuola si avviarono per quella pianura:
- Sorte, o Sorte!
Gli apparve una vecchia, colla conocchia e col fuso:
- Perché m'hai tu chiamata?
- Ecco la mia figliuola maggiore.
La vecchia cavò di tasca tre anelli, uno d'oro, uno d'argento, uno di ferro e
li mise sulla palma
della mano:
- Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
Naturalmente prese l'anello d'oro.
- Maestà, vi saluto!
La vecchia le fece un inchino e sparì.
Tornati a casa, la sorella maggiore, pavoneggiandosi, disse alle altre due:
- Diventerò Regina! E voi reggerete lo strascico del manto reale!
Il giorno dopo andò col padre l'altra figlia.
Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso, e cavò di tasca due anelli,
uno d'argento ed uno
di ferro:
- Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
E, s'intende, prese quello d'argento.
- Principessa vi saluto!
La vecchia le fece un inchino e sparì.
Tornata a casa, quella disse alla maggiore:
- Se tu sarai Regina, io sarò Principessa!
E tutt'e due si diedero a canzonare la sorella minore:
- Che volete? Chi tardi arriva male alloggia. Dovea venire al mondo prima.
Lei zitta.
Il giorno dopo andò col padre la figliuola minore.
Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso e cavò di tasca, come la prima
volta, tre anelli,
uno d'oro, uno d'argento e uno di ferro:
- Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
Con gran rabbia di suo padre, avea preso quello di ferro.
La vecchia non le disse nulla, e sparì.
Per la strada il sarto continuò a brontolare:
- Perché non quello d'oro?
- Il Signore m'ispirò così.
Le due sorelle, curiose, vennero ad incontrarla per le scale.
- Facci vedere! Facci vedere!
Come videro l'anello di ferro, si contorcevano dalle risa e la canzonavano.
Saputo poi che lo avea
scelto fra uno d'oro e uno d'argento, per grulla la presero e per grulla la
lasciarono.
E lei, zitta.
Intanto si sparse la voce che le tre belle figliuole del sarto avevano gli
anelli della buona
Sorte. Il Re del Portogallo dovea prender moglie e venne a vederle. Rimase
ammaliato
dalla maggiore:
- Siate Regina del Portogallo!
La sposò con grandi feste e la menò via.
Poco dopo venne un Principe. Rimase ammaliato dalla seconda.
- Siate Principessa!
La sposò con grandi feste e la menò via.
Restava l'ultima. Non la chiedeva nessuno.
Un giorno, finalmente, si presentò un pecoraio:
- Volete darmi questa figliuola?
Il sarto, che ne aveva una Regina ed una Principessa, era montato in
superbia e rispose:
- Il pecoraio, scusate, noi per ora ce l'abbiamo.
Stava per passare un altr'anno. La minore restava sempre in casa, e il padre
non faceva altro che
brontolare giorno e notte:
- Le stava bene, stupidona! Sarebbe rimasta in un canto, con quel suo anello
di ferro.
E all'anno appunto, tornò a presentarsi il pecoraio:
- Volete darmi quella figliuola?
- Prendila - rispose il sarto. - Non si merita altro!
Si sposarono, senza feste e senza nulla, e la menò via.
Allora il sarto disse:
- Voglio andar a visitare la mia figliuola Regina.
La trovò che piangeva.
- Che cos'hai, figliuola mia?
- Sono disgraziata! Il Re vorrebbe un figliuolo, ed io non posso farne. I
figliuoli li dà
Dio.
- Ma l'anello della buona fortuna non giova a nulla?
- Non giova a nulla. Il Re mi ha detto: "Se fra un anno non avrò un
figliuolo, guai a te!". Son
certa, babbo mio, che mi farà tagliar la testa.
Quel povero padre, come potea rimediare? E partì per far visita alla figliuola
Principessa. La
trovò che piangeva.
- Che cos'hai, figliuola mia?
- Sono disgraziata! Tutti i figliuoli che faccio mi muoiono dopo due giorni.
- E l'anello della buona fortuna non giova a nulla?
- Non giova a nulla. Il Principe mi ha detto: "Se questo che hai nel seno
morrà anche lui,
guai a te!". Son certa, babbo mio, che mi farà scacciar di casa!
Quel povero padre che potea farci? E partì.
Per via gli nacque il pensiero d'andar a vedere l'altra figliuola, quella del
pecoraio. Ma aveva
vergogna di presentarsi. Si travestì da mercante, prese con sé quattro ninnoli
da vendere e,
cammina, cammina, arrivò finalmente in quelle contrade lontane.
Vide un magnifico palazzo stralucente, e domandò a chi appartenesse.
- É il palazzo del re Sole.
Mentre stava lì a guardare, stupito, sentì chiamarsi da una finestra:
- Mercante, se portate bella roba, montate su. La Regina vuol comprare.
Montò su, e chi era mai la Regina? La sua figliuola minore, la moglie del
pecoraio. Quello
rimase di sasso; non potea neppure aprir le cassette degli oggetti da vendere.
- Vi sentite male, poverino? - gli disse la Regina.
- Figliuola mia, sono tuo padre! E ti chiedo perdono!
Lei, che l'aveva riconosciuto, non permise che le si gettasse ai piedi, e lo
ricevé tra le braccia:
- Siate il ben venuto! Ho dimenticato ogni cosa. Mangiate e bevete, ma prima
di sera andate via.
Se re Sole vi trovasse, rimarreste incenerito.
Dopo che quello ebbe mangiato e bevuto, la figliuola gli disse:
- Questi doni son per voi. Questa nocciuola è per la sorella maggiore: questa
boccettina di
acqua per l'altra. La nocciuola, dee inghiottirsela col guscio; l'acqua, dee
berne una stilla al giorno,
non più. E che badino, babbo!
Quando le due sorelle intesero la bella fortuna toccata alla minore e videro
quella sorta di regali
che loro inviava, arsero d'invidia e di dispetto:
- Si beffava di loro con quella nocciuola e con quell'acqua!
La maggiore buttò la nocciuola in terra, e la pestò col calcagno. La nocciuola
schizzò sangue.
C'era dentro un bambino piccino piccino: lei gli aveva schiacciata la testa!
Il Re, visto quell'atto di superbia e il bambino schiacciato:
- Olà! - gridò - levatemela d'innanzi; mozzatele il capo!
E, senza pietà né misericordia, la fece mettere a morte.
L'altra, nello stesso tempo, avea cavato il turacciolo alla boccetta e,
affacciatasi a una finestra,
n'avea versata tutta l'acqua.
Sotto la finestra passavano dei ragazzi che trascinavano un gatto morto.
L'acqua cadde su questo,
e il gatto risuscitò.
- Ah, scellerata! - urlò il Principe. - Hai tolto la Sorte ai nostri
figliuoli!
E in quel momento di furore, la strangolò colle sue mani.
Il babbo tornò dalla figliuola minore, e raccontò, piangendo, quelle
disgrazie.
- Babbo mio, mangiate e bevete, e prima di sera andate via. Se re Sole vi
trovasse, rimarreste
incenerito. Appena avrò buone notizie, vi manderò a chiamare.
La sera tornò re Sole, e lei gli domandò:
- Maestà, che cosa avete visto nel vostro viaggio?
- Ho visto tagliar la testa a una Regina e strangolare una Principessa. Se
lo meritavano.
- Ah, Maestà, eran le mie sorelle! Ma voi potete risuscitarle; non mi negate
questa grazia!
- Vedremo! - rispose re Sole.
Il giorno dopo, appena fu giunto nel luogo dov'era seppellita la Regina,
picchiò sulla fossa e
disse:
- Tu che stai sotto terra,
Mi manda la tua sorella;
Se dal buio volessi uscire,
Del mal fatto ti déi pentire.
- Rispondo a mia sorella:
Sto bene sotto terra.
Dio gli dia male e malanno!
Vo' la nuova avanti l'anno!
- Resta lì, donnaccia infame!
E il re Sole continuò il suo viaggio. Arrivato dov'era stata sepolta la
Principessa, picchiò
sulla fossa e disse:
- Tu che stai sotto terra,
Mi manda la tua sorella;
Se vuoi tornare da morte a vita,
Del mal fatto sii pentita!
- Rispondo a mia sorella:
Sto bene sotto terra.
Male occulto o mal palese,
Vo' la nuova avanti un mese!
Resta lì, donnaccia infame!
Re Sole continuò il suo viaggio, e quelle due sorelle se le mangiarono i
vermi.
Stretta è la foglia, larga è la via.
Dite la vostra, ché ho detto la mia.
LA VECCHINA
C'era una volta un Re molto giovane, che voleva prender moglie, ma voleva
sposare la più
bella ragazza del mondo.
- E se non è di sangue reale? - gli domandarono i ministri.
- Non me n'importa nulla.
- Allora sappiate, Maestà, che la più bella ragazza del mondo è la
figliuola di un ciaba. Ma
il popolo, che è maligno, potrebbe chiamarla: la Regina Ciabatta ...
Maestà, non sta
bene: rifletteteci meglio.
Il Re rispose:
- La figliuola del ciaba è la più bella ragazza del mondo? La figliuola del
ciaba sarà dunque mia
sposa e Regina. Andrò a vederla senza farmi conoscere; partirò domani.
Ordinò che gli si sellasse uno dei suoi cavalli, e, accompagnato da un solo
servitore, s'incamminò
per quel paese, dove il ciaba abitava.
Per via incontrarono una vecchia che domandava l'elemosina:
- Fate la carità! Fate la carità!
Il Re non se ne dava per inteso.
La vecchina arrancava dietro il cavallo.
- Fate la carità! Fate la carità!
Il cavallo del Re s'adombrò, e urtò la vecchina che cadde per terra.
Il Re, senza punto curarsene, tirò innanzi; ma il servitore, impietosito,
scese da cavallo, la
sollevò, e visto che non s'era fatta nulla di male, cavò di tasca le poche
monete che aveva e gliele
mise in mano:
- Vecchina mia, non ho altro.
- Grazie, figliuolo; si vede il buon cuore. Accetta in ricambio questo
anellino e portalo al dito;
sarà la tua fortuna.
Arrivati in quel paese, il Re accompagnato dal servitore passò e ripassò
davanti la bottega
del ciaba, finché non gli riuscì di vedere la bella ragazza, che era la più
bella del mondo. Rimase
abbagliato!
E, senza por tempo in mezzo, disse al ciaba:
- Io sono il Re: vo' la tua figliuola per moglie.
- Maestà, c'è un intoppo. La mia figliuola ha una malìa: chi le parlerà la
prima volta e le farà
provare una puntura al dito mignolo, quello dovrà essere il suo sposo. Possiamo
provare.
Il Re a questa notizia rimase un po' turbato; ma poi pensò:
- Se questa malìa è la sua buona Sorte, costei dev'essere destinata a
sposare un regnante.
E tutto allegro, disse al ciaba:
- Proviamo.
Il ciaba chiamò la figliuola, senza dirle del Re; e come questi se la vide
dinanzi, restò più
abbagliato di prima.
- Buon giorno, bella ragazza.
- Buon giorno, signore.
Lei non sapeva nulla della malìa. Suo padre, che sarebbe stato felice di
vederla Regina, le
domandò:
- Non ti senti nulla?
- Nulla. Che cosa dovrei sentirmi?
Il povero Re, gli parve di morire a quella risposta. E stava per andarsene
zitto zitto; quando il
servitore, ch'era rimasto in un canto, credette opportuno di dire sottovoce alla
ragazza:
- Badate, è Sua Maestà!
- Ahi! Ahi! Ahi!
La ragazza si sentiva un'atroce puntura al dito mignolo, e scoteva la mano:
- Ahi! Ahi! Ahi!
Figuriamoci il viso del Re, come capì che quella ragazza, la più bella del
mondo, era
destinata a quel tanghero del suo servitore!
Prese in disparte il ciaba e gli disse:
- Lascia fare a me; la tua figliuola sarà Regina.
Tornato al palazzo reale, chiamò il servitore:
- Prima che tu sposi la figliuola del ciaba, devi rendermi un servigio: mi
fido soltanto di te.
Portami questa lettera al Re di Spagna, e attendi la risposta; ma nessuno
deve sapere dove
tu vada e perché.
- Maestà, sarà fatto.
Prese la lettera e partì.
A metà di strada incontrò quella vecchina:
- Dove vai, figliuolo mio?
- Dove mi portan le gambe.
- Ah, poverino! Tu non sai quel che ti aspetta. Quella lettera è un
tradimento! Se tu la presenti
al Re, sarai subito ammazzato. Portagli questa, invece: farà un altro effetto.
Allora lui prese la lettera della vecchina, e quella del Re la buttò via.
Ringraziò e proseguì il
viaggio.
Era già passato un anno, e non si era saputo più nuova di lui.
Il Re tornò dal ciaba, e disse alla ragazza:
- Quell'Uomo dev'essere morto: è già passato un anno e non si sa nuova di
lui. Il meglio che
possiamo fare è lo sposarci noialtri.
- Maestà, come voi volete.
Il Re fece i preparativi delle nozze, e quando fu quel giorno, andò insieme
coi ministri a
rilevare la sposa con la carrozza di gala.
In casa del ciaba trovarono una granata ritta in mezzo alla stanza, e il Re
disse ai ministri:
- Ecco Sua Maestà la Regina!
I ministri, stupefatti, si guardarono in viso senza osar di rispondere.
- Maestà, è una granata!
Il Re in quella granata ci vedeva la figliuola del ciaba, la più bella
ragazza del mondo; e,
presala pel manico (lui credeva di prenderla per la mano) la portò in carrozza e
cominciò a dirle
tante belle cose.
I ministri erano costernati e si sussurravano nell'orecchio:
- Che disgrazia! Il Re è ammattito! Il Re è ammattito!
Però, prima di arrivare in città, dove il popolo aspettava l'entrata della
Regina, si fecero
coraggio; e uno di loro gli disse:
- Maestà, perdonate!... Ma questa qui è una granata!
Il Re montò sulle furie; la prese per un'offesa alla Regina. Fece fermar
la carrozza e
ordinò ai soldati che legassero quell'impertinente alla coda di un cavallo, e
così lo trascinassero fino
al palazzo reale.
Gli altri, vista la mala parata, stettero zitti. E il Re, giunto al palazzo
reale, si affacciò alla
finestra per mostrare al popolo la Regina:
- Ecco la vostra Regina!
Non avea finito di dirlo, che gli cadde come una benda dagli occhi e si vide
lì, colla granata in
mano, mentre tutto il popolo rideva, perché Sua Maestà pareva proprio uno
spazzino.
Con chi prendersela? La colpa era della sua cattiva stella, e di quella malìa
della ragazza!
Ma intanto s'incaponiva di più nel volerla per moglie.
Il servitore tornò sano e salvo, colmo di regali.
- Che rispose il Re di Spagna?
- Maestà, il Re di Spagna rispose:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
Il Re fece finta di esserne contento, ma chiamò un Mago e gli raccontò
ogni cosa:
- Come va questa faccenda?
- Maestà, la faccenda è piana. Quell'Uomo possiede l'anello incantato della
fata Regina,
e finché lo avrà al dito, non vi sbarazzerete di lui. Bisogna trovare
un'astuzia per portargli via
quell'anello: la forza non vale.
Pensa e ripensa, un giorno il Re, visto che il suo servitore era tutto
sudato dal gran lavorare
che aveva fatto:
- Vien qua, - gli disse - vo' darti un bicchiere del mio vino; te lo meriti.
Quel vino era conciato coll'oppio, e il pover'Uomo non l'ebbe bevuto, che
cadde in un
profondissimo sonno.
Sua Maestà gli cavò l'anello dal dito, se lo mise nel suo, e così andò a
presentarsi alla
figliuola del ciaba:
- Buon giorno, bella ragazza!
- Ahi! Ahi! Ahi!
La ragazza sentiva un'atroce puntura al dito mignolo e scuoteva la mano!
- Ahi! Ahi! Ahi!
Ora la cosa andava bene, e il Re ordinò di bel nuovo i preparativi per le
nozze. E quando fu
quel giorno, andò a rilevare la sposa colla carrozza di gala.
Giunti al palazzo reale, disse alla Regina:
- Maestà, questo è il vostro appartamento.
Ma, poco dopo, quando il Re volle andare a vederla, gira di qua, gira di là,
non trovava
l'uscio e vedeva scritto sui muri:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
La Regina veniva ai ricevimenti di Corte, veniva nella sala da pranzo dove
c'erano molti
invitati; poi si ritirava nel suo appartamento.
Il Re voleva andare a vederla; ma, gira di qua, gira di là, non trovava mai
l'uscio e vedeva
sempre scritto sui muri:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
Si diSperava, ma non diceva nulla a nessuno; non volea sentirsi canzonare.
Quel pover'Uomo del servitore, dopo un sonno di due giorni, appena aperti
gli occhi, si era
subito accorto che gli era stato rubato l'anello, ed era uscito dal palazzo
reale, piangendo la sua
sventura.
Fuori le porte della città avea trovato la vecchina:
- Ah, vecchina mia! Mi han rubato l'anello.
- Non ti diSperare, non è nulla. Quando il Re avrà sposato, appena la
Regina sarà
entrata nel suo appartamento, pianta questo chiodo sulla soglia dell'uscio e
vedrai.
Perciò il Re non trovava mai l'uscio, quando voleva entrare nelle stanze
della Regina.
C'era quel chiodo piantato lì, che glielo impediva.
Il Re scoppiava dalla rabbia. Fece chiamare novamente il Mago, e gli
raccontò in segreto
ogni cosa.
- Come va questa faccenda?
- Maestà, la faccenda è piana. Quell'Uomo ha avuto un chiodo incantato
dalla fata
Regina, e l'ha piantato sulla soglia. E questa volta, Maestà, non c'è
astuzia che valga:
rimarrete un marito senza moglie.
- Ma che offesa ho io fatto a codesta fata Regina? Non la conosco neppur di
vista!
- No, Maestà. Vi rammentate d'una vecchina che vi domandò l'elemosina il
giorno che voi
andavate la prima volta dal ciaba? Vi ricordate che la urtaste col cavallo e
cadde per terra?
- Sì.
- Era lei, la fata Regina.
Il Re dovette persuadersi che era inutile lottare con una Fata, e si
rassegnò a sposare una
bella ragazza, sì, ma non la più bella del mondo. Sposò la Reginotta di
Francia.
Il servitore sposò la figliuola del ciaba; e il Re gli diè una ricca dote e
lo fece intendente di
casa reale.
Re e servitore ebbero molti figliuoli:
E noi restiamo da cetriuoli.
LA FONTANA DELLA BELLEZZA
C'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figliuola bruttissima
e contraffatta
nella persona, e non se ne davano pace.
La tenevan rinchiusa, sola sola, in una camera appartata e, un giorno il Re,
un giorno la
Regina, le portavan da mangiare in una cesta. Quando erano lì, sfogavansi a
piangere.
- Figliuola sventurata! Sei nata Regina, e non puoi godere della tua
Sorte!
Diventata grande, a sedici anni, lei disse al padre:
- Maestà, perché tenermi rinchiusa qui? Lasciatemi andar pel mondo. Il cuore
mi presagisce che
troverò la mia fortuna.
Il Re non voleva acconsentire:
- Dove sarebbe andata, così sola e inesperta? Era impossibile!
- Lasciatemi andare, o m'ammazzo!
A questa minaccia diSperata, il Re non seppe resistere:
- Figliuola mia, parti pure!
La diè quattrini a sufficienza, e una notte, mentre tutti nel palazzo reale
dormivano, la
Reginotta si messe in via. Cammina, cammina, arrivò in una campagna. Il sole,
al meriggio,
scottava; e lei riparossi sotto un albero. Di lì a poco ecco un lamentìo:
- Ahi! Ahi! Ahi!
Lei, dalla paura, si voltò di qua e di là, ma non vide nessuno.
- Ahi! Ahi! Ahi!
Allora, fattasi coraggio, avvicinossi a quel punto d'onde il lamento partiva,
e tra l'erba scoperse
una lucertolina, che agitava il moncherino della coda e nicchiava a quel modo.
- Che cosa è stato, lucertolina?
- Mi hanno rotto la coda e non ritrovo il pezzettino. O, se tu me lo trovassi,
ti farei un gran
regalo.
La Reginotta, impietosita, si dié a frugare: e fruga e rifruga in mezzo a
quell'erbe,
finalmente eccolo lì!
- Grazie, ragazza mia. Pel tuo regalo, scava qui sotto.
Scavato un tantino, la Reginotta tirò fuori una cipolla poco più grossa
d'una nocciuola.
- Che cosa debbo farne?
- Tienla cara. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta se la mise in tasca.
Strada facendo, incontrò una povera vecchia con un sacco di grano sulle
spalle. A un tratto si
rompe il sacco, e tutto il grano le va per terra. La vecchia cominciò a pelarsi
dalla stizza.
- Non è nulla disse la Reginotta. Ve lo raccatterò io.
- Ah, i chicchi son contati! Se ne mancasse uno solo, mio marito mi
ammazzerebbe!
E la Reginotta, con una santa pazienza, glielo raccattò tutto, chicco per
chicco, senza che ne
mancasse uno solo.
- Grazie, buona. figliuola; non posso darti altro che questo.
E le dette un coltellino da due soldi, di quelli col manico di ferro.
- Che cosa volete che ne faccia?
- Tienlo caro. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta se lo mise in tasca.
Cammina, cammina, arrivò all'orlo d'un fosso profondo. Sentiva un belato
tremolante. Guardò e
vide laggiù una capretta:
- Capretta, che cosa è stato?
- Son cascata nel fosso e mi son rotta una gamba.
Scese laggiù, la prese in collo, e poi la fasciò così bene con un fazzoletto,
che quella, alla meglio,
zoppicando, poté camminare.
- Grazie, ragazza. Che darti? Il mio sonaglino.
- Che cosa vuoi me ne faccia?
- Tienlo caro. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta le staccò dal collare il sonaglino e se lo mise in tasca,
insieme con la cipolletta
e il coltellino da due soldi.
Cammina, cammina, una sera capitò presso una fattoria fuori di mano.
- Anime cristiane, datemi alloggio per questa notte!
La padrona pareva una buona donna, e si misero a ragionare in cucina, mentre
la pentola bolliva.
- Chi siete? Dove andate?
La Reginotta cominciò a raccontarle la sua storia.
- Zitta, zitta, chiacchierona! Zitta, zitta!
Era la pentola che brontolava; ma la sentiva lei sola.
Non le diè retta e continuò un altro pochino, fino al punto della sua
partenza del palazzo reale.
- Zitta, zitta, chiacchierona! Zitta, zitta!
Era la pentola che brontolava; ma la sentiva lei sola. Rimase colpita; e si
fermò.
- E dopo? - domandò la donna.
- Eccomi qui.
Quando giunse il marito, quella donna gli riferì minutamente ogni cosa.
- Sai che ho pensato, marito mio? Noi abbiamo una figliuola che è un sole:
conduciamola dal
Re. Gli diremo che è la sua figliuola, resa così bella da una Fata. La
Reginotta la
chiuderemo nel granaio e ve la lasceremo morire.
- Ma il Re come potrà crederlo?
- Ci ho tutti i segnali.
Così fecero. Nel mezzo della notte, afferrarono la povera Reginotta, la
chiusero in un
granaio, e il giorno dopo condussero la loro figliuola al palazzo reale.
Il Re e la Regina, sentita quella storia della Fata, rimanevano ancora
incerti. Allora
la ragazza, indettata, disse:
- Maestà, non vi ricordate di quando venivate nella mia camera colla cesta, e
poi vi mettevate a
dire piangendo: "Figliuola sventurata, sei nata Regina e non puoi godere della
tua Sorte"?
Il Re e la Regina rimasero. Quelle parole non potea saperle nessun altro,
che la loro
figliuola! Abbracciarono la ragazza, e bandirono feste reali.
Ai due che l'avean condotta regalarono un monte di monete d'oro.
Intanto la povera Reginotta, dopo essersi per tre giorni stemperata in
lagrime, cominciò a
sentire anche fame. Chiamò più volte, domandando per carità almeno un tozzo di
pan duro!
Non accorreva anima viva. Allora rammentossi della cipolletta:
- Poteva ingannare un po' lo stomaco!
E la cavò di tasca.
- Comanda! Comanda!
- Da mangiare!
Ed ecco pietanze fumanti, tovagliuolo, posata, coltello, bottiglia e
bicchiere.
Terminato di mangiare, ogni cosa sparì.
Cavò di tasca il coltellino.
- Comanda! Comanda!
- Spacca quell'uscio per legna.
E, in un attimo, l'uscio fu ridotto un mucchio di legna.
Cava di tasca il sonaglino e si mette a suonarlo. Ed ecco una mandria di
capre, che non poteva
contarsi.
- Comanda! Comanda!
- Pascolate per questi campi, finché ci sia un filo d'erba.
E in un minuto i seminati, le vigne, gli alberi di quella fattoria eran
distrutti.
La Reginotta partì e arrivò in una città, dove c'era un Re che avea
l'unico suo figliuolo
gravemente ammalato. Tutti i medici del mondo, i più dotti, i più valenti, non
n'avean saputo
conoscere la malattia. Dicevano ch'era matto: ma egli ragionava benissimo. Aveva
soltanto dei
capricci, e dimagrava, dimagrava a segno che era ridotto una lanterna.
Un giorno il Reuccio trovossi affacciato a una finestra del palazzo reale, e
vide passar la
Reginotta.
- Oh! Com'è brutta! La voglio qui! La voglio qui!
Il Re la fece chiamare:
- Ragazza, vorresti entrare a servizio?
- Maestà, volentieri.
- Dovresti servire il Reuccio.
E si mise a servire il Reuccio.
- Bruttona, fai questo! Bruttona, fai quello.
Il Reuccio non la comandava altrimenti: volea perfino che rigovernasse i
piatti.
Una volta al Reuccio gli venne la voglia dei bacelli; ed era d'autunno! Dove
andare a
pescarli?
- Bacelli! Bacelli!
Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quei bacelli
a peso d'oro.
La Reginotta rammentossi della cipolletta e la cavò di tasca.
- Comanda! Comanda!
- Un bel piatto di bacelli!
Ed ecco un bel piatto di bacelli.
Il Reuccio se li mangiò con gran gusto, e dopo disse:
- Mi sento meglio!
Un'altra volta gli venne voglia d'un pasticcio di lumache. Ma non era la
stagione.
- Pasticcino di lumache! Pasticcino di lumache!
Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quelle
lumache a peso d'oro.
La Reginotta corse di bel nuovo alla cipolletta.
- Comanda! Comanda!
- Un pasticcino di lumache!
Il Reuccio se lo mangiò con gran gusto, e dopo disse:
- Mi sento assai meglio.
Infatti, s'era rimesso un po' in carne.
Un'altra volta finalmente gli venne la voglia delle polpettine di rondine. Non
era la stagione.
Dove andare a pescarle?
- Polpettine di rondine! Polpettine di rondine!
Il Re quelle rondini le avrebbe pagate a peso d'oro.
La Reginotta, al solito, cavò di tasca la cipolletta.
- Comanda! Comanda!
- Polpettine di rondine!
Il Reuccio se le mangiò con gran gusto e dopo disse:
- Sto benissimo.
Era diventato fresco come una rosa: non si rammentava neppure d'essere stato
malato. E, un
giorno, vista la Reginotta:
- Oh, come è brutta! - esclamò. - Ma chi è costei? Cacciatela via!
La Reginotta andò via piangendo:
- La sua stella voleva così!
E incontrò la vecchia, quella del grano.
- Che cosa è accaduto, figliuola?
In poche parole le raccontò l'accaduto.
- Sta' allegra, figliuola mia! Ti aiuterò io. Vieni con me.
E la condusse davanti a una grotta.
- Ascolta: lì dentro c'è la fontana della bellezza. Chi può tuffarvisi a un
tratto, diventa bella
quanto il sole. Ed ora, bada bene: questa grotta ha quattro stanze. Nella prima
c'è un drago:
buttagli in gola la cipolletta, e ti lascerà passare. Nella seconda c'è un
gigante tutto coperto
d'acciaio, con una mazza di ferro brandita: mostragli la lama del coltellino, e
ti lascerà passare.
Nella terza c'è un leone affamato: appena ti viene incontro, scuoti il
sonaglino: non ti toccherà
neppur esso. Ma non bisogna aver paura; se no, addio; sei spacciata. Nella
quarta stanza c'è la
fontana. Appena entrata lì, senza esitare un momento, tùffati dentro l'acqua con
tutte le vesti.
La Reginotta entrò. Ed ecco il drago con tanto di bocca, che stendeva il
collo per
inghiottirsela. Gli butta in gola la cipolletta, e quello si ritira, si
attorciglia chetamente, e si mette a
dormire.
Lei passa oltre. Ed ecco il gigante tutto coperto d'acciaio, che si slancia
incontro brandendo la
mazza, cacciando terribili urli. Gli mostra la lama del coltellino, e il gigante
va a rannicchiarsi in un
canto.
La Reginotta passa oltre nella terza stanza. Ed ecco il leone, colle fauci
spalancate, colla
coda rizzata che faceva tremar l'aria. Lei scuote il sonaglino e sbuca un branco
di capre. Il leone si
slancia su di esse, le sbrana e se le divora.
E lei passa oltre. Vede la fontana, e vi si tuffa dentro con tutte le vesti.
Si sentì diventar un'altra:
lei stessa non si riconosceva. Da che il mondo è mondo, non s'era mai vista una
bellezza pari a
quella.
Tornò nella città, dov'era il Reuccio, e prese a pigione una casa dirimpetto
al palazzo reale.
Il Reuccio rimase sbalordito:
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza! Se fosse sangue reale, la prenderei per
moglie.
Il Re, che voleva bene al figliuolo quanto alla pupilla degli occhi suoi,
mandò subito un
ministro a domandarle se mai fosse di sangue reale.
- Sono. Ma se il Reuccio mi vuole, dovrà farmi tre regali.
- Che regali dovrebbe fare?
- La cresta del gallo d'oro, la pelle del re Moro, il pesce senza fiele. Gli
do tempo tre anni. Se
no, non mi può avere.
Il Reuccio partì alla ricerca del gallo d'oro, che si trovava in certi
boschi pieni di animali
feroci. E c'era un gran pericolo: chi lo sentiva cantare, moriva. Dopo mille
fatiche e mille stenti, una
mattina il Reuccio scoperse il gallo d'oro appollaiato su d'un albero.
Tirargli e ammazzarlo fu
tutt'una. E tornò trionfante.
- Va bene - disse la Reginotta. - Mettetelo lì. Aspetto la pelle del re
Moro.
Il re Moro era terribile. Con lui, fin allora non ce n'avea potuto nessun
guerriero. Il
Reuccio mandò a sfidarlo: ne voleva la pelle.
- Venga a prendersela.
Si combatterono colle spade, e il re Moro lo aveva conciato così bene, che
il Reuccio
grondava sangue da tutte le parti.
Ma in un punto questi ebbe l'agio d'assestargli un colpo al cuore.
- Son morto!
Il Reuccio lo scorticò con diligenza e portò la pelle alla Reginotta.
- Va bene: mettetela là. Aspetto il pesce senza fiele.
Questo era più difficile. Fra tante migliaia di pesci va a pescare per
l'appunto quello lì! Eppure
bisognava pescarlo.
Prese canna, lenza ed amo, e se n'andò in riva al mare.
Stette mesi e mesi: tempo perduto! E a compire i tre anni restavano intanto
soli otto giorni!
L'ultimo giorno, tirò fuori un Pesciolino di meschina apparenza. La fortuna
lo aveva aiutato:
era il pesce senza fiele.
- Va bene - disse la Reginotta; - mettetelo lì. Ora si mandi dal Re mio
padre. Senza il suo
consenso, non voglio sposarmi.
Spedirono un ambasciatore, ma l'ambasciatore tornò presto:
- Quello dice che siamo matti. La sua figliuola l'ha lì, chi volesse vederla.
- Dunque tu ci hai corbellati!
E la misero in prigione.
Le rimaneva in tasca il sonaglino. Disperata, si diè a sonarlo furiosamente.
Accorse la capretta.
- Ah, capretta, capretta! Guarda a che sono arrivata! Non ho che te, per
aiutarmi.
- Prendi quest'erba, masticala bene e trattienila in bocca.
E intanto che masticava, la Reginotta ritornava bruttissima e contraffatta
nella persona come
una volta.
- Per ritornar bella, ti basterà sputarla fuori. Ora zitta, e vienmi dietro.
Uscirono di prigione senza che le guardie e i carcerieri se n'accorgessero, e
la Reginotta in
quattro salti andò a presentarsi ai suoi genitori.
Come la videro, il Re e la Regina capiron subito l'inganno. E sentito il
tradimento di quel
marito e quella moglie, li mandarono ad arrestare e, insieme con la loro
figliuola, li fecero buttare in
prigione.
La Reginotta sputò fuori l'erba e ridiventò bellissima.
Da che il mondo è mondo non si era mai vista una bellezza pari a quella!
Fu mandato a chiamare il Reuccio, si sposarono, e vissero fino a vecchi
felici e contenti.
IL CAVALLO DI BRONZO
C'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figliuola più bella
della luna e del
sole, e le volevano bene come alla pupilla degli occhi.
Un giorno venne uno, e disse al Re:
- Maestà, passavo pel bosco qui vicino, e incontrai l'Uomo selvaggio. Mi
disse: "Vai dal
Re, e digli che voglio la Reginotta per moglie. Se non l'avrò qui fra tre
giorni, guai a lui!".
Il Re, sentendo questo, fu molto costernato e radunò il Consiglio di
corona:
- Che cosa doveva fare? L'Uomo selvaggio era terribile: poteva devastare
tutto il regno.
- Maestà, - disse uno dei ministri - cerchiamo una bella ragazza, vestiamola
come la
Reginotta e mandiamola lì: l'Uomo selvaggio sarà contento.
Trovarono una ragazza bella come la Reginotta, le fecero indossare uno dei
più ricchi abiti di
lei, e la mandarono nel bosco. Dovea dire che lei era la figlia del Re.
Il giorno appresso quella ragazza tornò indietro.
- Che cosa è stato?
- Maestà, trovai l'Uomo selvaggio, e mi domandò: "Chi sei?". "Sono la
Reginotta."
"Lasciami vedere." Mi sbottonò la manica del braccio sinistro e urlò: "Non è
vero! La
Reginotta" dice "ha una voglia in quel braccio!" e mi ha rimandato. Se fra due
giorni non avrà
lì la sposa, guai a voi!
Il Re non sapeva che cosa fare, e radunò di bel nuovo il Consiglio di
corona:
- L'Uomo selvaggio sa che la Reginotta ha una voglia nel braccio sinistro;
è impossibile
ingannarlo.
- Maestà, - disse il ministro - cerchiamo un'altra ragazza, chiamiamo un
pittore che le dipinga
una voglia simile a quella della Reginotta, vestiamola con uno dei suoi
vestiti, e mandiamola lì.
Questa volta l'Uomo selvaggio non avrà da ridire.
Trovarono un'altra bella ragazza, le fecero dipingere una voglia sul braccio,
simile a quella della
Reginotta, l'abbigliarono con uno dei più ricchi abiti di lei e la mandarono
nel bosco. Doveva
dire che lei era la figlia del Re.
Ma, il giorno appresso, quella ragazza tornò indietro.
- Che cosa è stato?
- Maestà, trovai l'Uomo selvaggio e mi domandò: "Chi sei?". "Sono la
Reginotta."
"Lasciami vedere." Mi osservò tra i capelli e urlò: "Non è vero! La
Reginotta" dice "ha tre
capelli bianchi sulla nuca". Se domani la sposa non sarà lì, guai a voi.
Il povero Re e la povera Regina avrebbero battuto il capo nel muro.
- Dunque dovean buttare quella gioia di figliuola in braccio all'Uomo
selvaggio?
- Maestà, - dissero i ministri - facciamo un ultimo tentativo. Cerchiamo un'
altra ragazza. Il
pittore le dipingerà la voglia sul braccio, le tingerà di bianco tre capelli
sulla nuca; poi le metteremo
indosso uno dei vestiti della Reginotta e la manderemo lì. Questa volta
l'Uomo selvaggio
non avrà più da ridire.
Ma il giorno appresso ecco quella ragazza che torna indietro anch'essa.
- Che cosa è stato?
- Maestà, trovai l'Uomo selvaggio e mi domandò: "Chi sei?". "Sono la
Reginotta."
"Lasciami vedere." Mi osservò il braccio sinistro: "Va bene!". Mi osservò tra i
capelli, sulla nuca:
"Va bene!". Poi prese un paio di scarpine ricamate e mi ordinò: "Calza queste
qui". E siccome i
miei piedi non c'entravano, urlò: "Non è vero!". E mi ha rimandato dicendo:
"Guai! Guai!".
Allora i ministri:
- Maestà, ora succede certamente un disastro! Per la salvezza del regno,
bisogna sacrificare la
Reginotta!
Il Re non sapeva rassegnarsi: avrebbe dato anche il sangue delle sue vene
invece della
figliuola! Ma il destino voleva così, e bisognava piegare il capo.
La Reginotta si mostrava più coraggiosa di tutti: infine l'Uomo selvaggio
non l'avrebbe
mangiata!
Indossò l'abito da sposa, e accompagnata dal Re, dalla Regina, dalla
Corte e da un
popolo immenso, tra pianti ed urli strazianti, s'avviò verso il bosco.
Arrivata lì, abbracciò il Re e la Regina confortandoli che sarebbe tornata
a vederli, e
sparì tra gli alberi e le macchie folte. Non si seppe più nuova di lei né
dell'Uomo selvaggio.
Passato un anno, un mese e un giorno, arriva a Corte un forestiero, che
chiede di parlare col
Re. Era un nanetto alto due spanne, gobbo e sbilenco, con un naso che pareva
un becco di
barbagianni e certi occhietti piccini piccini. Il Re non aveva voglia di
ridere; ma come vide
quello sgorbio non seppe frenarsi.
- Che cosa voleva?
- Maestà, - disse il Nano - vengo a farvi una proposta. Se mi darete mezzo
regno e la
Reginotta per moglie, io andrò a liberarla dalle mani dell'Uomo selvaggio.
- Magari! - rispose il Re. - Non mezzo, caro amico, ma ti darei il regno
intiero.
- Parola di Re non si ritira.
- Parola di Re!
Il Nano partì.
E non era trascorsa una settimana, che il Re riceveva un avviso:
"Domani, allo spuntar del sole, si trovasse presso il bosco, colla Regina,
con la Corte e
con tutto il popolo, per far festa alla sua figliuola, che ritornava!".
Il Re e la Regina non osavano credere: dubitavano che quello sgorbio si
facesse beffa di
loro: pure andarono. E allo spuntar del sole, ecco il Nanetto gobbo e
sbilenco, che conduceva
per mano la Reginotta vestita da sposa, come quando era entrata nel bosco per
l'Uomo
selvaggio.
Figuriamoci che allegrezza!
Le feste e i banchetti non ebbero a finir più. Ma di nozze non se ne parlava,
e della metà del
regno nemmeno.
Il Re, ora che aveva lì la figliuola, e che l'Uomo selvaggio era stato
ucciso dal Nano, non
intendeva più saperne di mantener la sua parola. Il Nano, di quando in quando,
gli domandava:
- Maestà, e le mie nozze?
Ma quello cambiava discorso: da quell'orecchio non ci sentiva.
- Maestà, e la mia metà del regno?
Ma quello cambiava discorso: da quell'altro non ci sentiva neppure.
- Bella parola di Re! - gli disse il Nano una volta.
- Ah, nanaccio impertinente!
E il Re gli tirò un calcio alla schiena, che lo fece saltare dalla finestra.
- Doveva esser morto!
Andarono a vedere in istrada; ma il Nano non c'era più. Si era rizzato di
terra, si era ripulito
il vestitino, ed era andato via, lesto lesto, come se nulla fosse stato.
- Buon viaggio! - disse il Re tutto contento.
Ma la Reginotta, da quel giorno in poi, diventò di malumore; non diceva una
parola, non
rideva più, andava perdendo il colorito.
- Che cosa ti senti, figliuola mia?
- Maestà, non mi sento nulla; ma ... chi dà la sua parola la dovrebbe
mantenere.
- Come? Lei dunque voleva quel Nano gobbo e sbilenco?
- Non intendevo dir questo; ma ... chi dà la sua parola la dovrebbe
mantenere.
Anche la Regina non viveva tranquilla:
- Quel Nano era potente: aveva vinto l'Uomo selvaggio; doveva tramare
qualche brutta
vendetta!
Il Re rispondeva con una spallucciata:
- Se quello sgorbio gli veniva un'altra volta dinanzi!
Ma la Reginotta ripeteva:
- Chi dà la sua parola, la dovrebbe mantenere!
Intanto essendosi sparsa la notizia che la Reginotta era stata liberata
dalle mani
dell'Uomo selvaggio, il Reuccio del Portogallo mandò a domandarla per
moglie.
La Reginotta non disse né di sì, né di no; ma il Re e la Regina non
vedevano l'ora
di celebrare le nozze.
Il Reuccio di Portogallo si mise in viaggio, e per via incontrò un Uomo,
che
conduceva un gran carro con su un cavallo di bronzo, che pareva proprio vivo.
- O quell'Uomo, dove lo portate cotesto cavallo di bronzo?
- Lo porto a vendere.
Il Reuccio lo comprò e ne fece un regalo a suo suocero.
Il giorno delle nozze era vicino. La gente accorreva in folla nel giardino del
Re, dove il
cavallo di bronzo era stato collocato su un magnifico piedistallo. Restarono
tutti meravigliati:
- Par proprio vivo! Par di sentirlo nitrire!
Scese a vederlo anche il Re con la Corte; e tutti:
- Par proprio vivo! Par di sentirlo nitrire!
Solo la Reginotta non diceva nulla.
Il Reuccio, stupito, le domandò:
- Reginotta, non vi piace?
- Mi piace tanto, - rispose lei - che sento una gran voglia di cavalcarlo.
Fecero portare una scala, e la Reginotta montò sul cavallo di bronzo. Gli
tastava il ciuffo, gli
accarezzava il collo, lo spronava leggermente col tacco; e intanto diceva
scherzando:
- Cavallo, mio cavallo,
Salta dal piedistallo;
Non metter piede in fallo,
Cavallo, mio cavallo.
Non ebbe finito di dir così, che il cavallo di bronzo si scosse, agitò la
criniera, dette fuori un
nitrito, e via con un salto per l'aria. In un batter d'occhio cavallo e
Reginotta non si videro più.
Tutti erano atterriti; non osavano fiatare. Ma in mezzo a quel silenzio
scoppia a un tratto una
risatina, una risatina di canzonatura!
- Ah! Ah! Ah!
Il Re guardò, e vide il Nano che si contorceva dalle risa con quella sua
gobbetta e quelle
sue gambine sbilenche. Capì subito che quel cavallo fatato era opera del Nano.
- Ah! Nano, nanuccio - gli disse pentito; - se tu mi rendi la mia figliuola,
essa sarà tua sposa,
con mezzo regno per dote.
Il Nano continuava a contorcersi dalle risa:
- Ah! Ah! Ah!
E a vedergli fare a quel modo, tutta quella gente ch'era lì, cominciarono a
ridere anch'essi, e poi
perfino la Regina:
- Ah! Ah! Ah!
Si tenevano i fianchi, non ne potevano più. Soltanto quel povero Re rimase
così afflitto e
scornato, che faceva pietà.
- Ah! Nano, nanino bello; se tu mi rendi la mia figliuola, essa sarà tua
sposa con mezzo
regno per dote.
- Maestà, se dite per davvero, - rispose il Nano - prima dovete riprendervi
quel che mi deste
l'altra volta.
- Che cosa ti diedi?
- Un bel calcio nella schiena.
Il Re esitava: avea vergogna di ricevere un calcio in quel posto, davanti al
popolo e la
Corte. Ma l'amore della figliuola gli fece dire di sì.
Si rivoltò colle spalle al Nano e stette ad aspettare la pedata: però il
Nano volle mostrarsi
più generoso di lui; e invece di menargli il calcio, disse:
- Cavallo. mio cavallo,
Non metter piede in fallo;
Torna sul piedistallo,
Cavallo, mio cavallo.
In un batter d'occhio, cavallo e Reginotta furono lì.
Allora il Nano disse al Re:
- Maestà, datemi un pugno sulla gobba! Non abbiate paura.
Il Re gli diede un pugno sulla gobba e questa sparì.
- Maestà, datemi una tiratina alle gambe! Non abbiate paura!
Il Re gli diede una tiratina alle gambine, e queste, di bòtto, si
raddrizzarono.
- Maestà, afferratemi bene, la Regina per le braccia e voi pei piedi, e
tiratemi forte.
Il Re e la Regina lo afferrarono l'uno pei piedi, l'altra per le braccia,
e tira, tira, tira, il
Nano, da Nano che era, diventò un bel giovine di alta statura.
Il Reuccio del Portogallo si persuase ch'era di troppo e disse:
- Datemi almeno quel cavallo: farò la strada più presto.
Montò sul cavallo di bronzo, e dette le parole fatate, in un colpo sparì.
La Reginotta e il Nano (lo chiamarono sempre così) furono moglie e marito.
E noi restiamo a leccarci le dita.
L'UOVO NERO
C'era una volta una vecchia che campava di elemosina, e tutto quello che
buscava, lo divideva
esattamente: metà lei, metà la sua gallina.
Ogni giorno, all'alba, la gallina si metteva a schiamazzare; avea fatto
l'uovo. La vecchia lo
vendeva un soldo, e si comprava un soldo di pane. La crosta la sminuzzava a
quella, la midolla se la
mangiava lei: poi andava attorno per l'elemosina.
Ma venne una mal'annata. Un giorno la vecchina tornò a casa senza nulla.
- Ah, gallettina mia! Oggi resteremo a gozzo vuoto.
- Pazienza ci vuole! Mangeremo domani.
Il giorno appresso, sul far dell'alba, la gallina si mise a schiamazzare.
Invece d'un uovo, ne aveva
fatti due, uno bianco e l'altro nero.
La vecchia andò fuori per venderli. Quello bianco lo vendé subito; quello
nero, nessuno voleva
credere che fosse uovo di gallina. La vecchina comprò il solito soldo di pane, e
tornò a casa:
- Ah, gallinetta mia! L'uovo nero non lo vuol nessuno.
- Portatelo al Re.
La vecchia lo portò al Re.
- Che uovo è questo?
- Maestà, di gallina.
- Quanto lo fai?
- Maestà, quello che il cuore v'ispira.
- Datele cento lire.
La vecchina, con quelle cento lire, si credette più ricca di Sua Maestà.
Giusto in quei giorni la Regina avea posta una gallina, e alle uova messe a
covare aggiunse
anche quello. Ma la chioccia non lo covò.
Il Re fece chiamare la vecchia:
- Quell'uovo era barlaccio.
- Maestà, non può essere; la gallina l'avea fatto lo stesso giorno.
- Eppure non è nato.
- Bisognava lo covasse la Regina.
La cosa parve strana. Ma la Regina, curiosa, disse:
- Lo coverò io.
E se lo mise in seno. Dopo ventidue giorni, sentì rompersi il guscio. Venne
fuori un pulcino
bianco ch'era una bellezza.
- Maestà, Maestà! Fatemi la zuppa col vino.
E pigolava.
- Sei galletto o pollastra?
- Maestà, son galletto.
- Canta.
- Chicchirichì!
Era proprio galletto. E diventò il divertimento di tutta la Corte. Ma più
cresceva e più si
faceva impertinente. A tavola beccava nei piatti del Re e della Regina;
razzolava, come se
nulla fosse, nei piatti dei Ministri, che non osavano dirgli sciò per rispetto
del Re; girava di
qua e di là per tutte le stanze del palazzo reale, s'appollaiava dovunque, e
insudiciava e riempiva
ogni cosa di pollìna. E poi tutto il giorno:
- Chicchirichì! Chicchirichì!
Rintronava le orecchie. La gente del palazzo reale non ne poteva più.
Un giorno la Regina s'era fatta un vestito nuovo ch'era una meraviglia, ed
era costato un
sacco di quattrini. Prima che lo indossasse, va il galletto e glielo insudicia.
La Regina montò sulle furie:
- Sporco galletto! Per questa volta passi. Un'altra volta te la farò vedere
io!
E ordinò alla sarta un altro vestito più ricco di quello. La sarta ci si messe
con impegno;
figuriamoci che vestito!... Ma prima che la Regina lo indossasse, va il
galletto e glielo
insudicia.
La Regina perdé il lume degli occhi:
- Sporco galletto! Ora ti concio io. Chiamatemi il cuoco.
Il cuoco si presentò.
- Mi si faccia con cotesto galletto una buona tazza di brodo.
In cucina gli tirarono il collo e lo messero a lessare. Appena la pentola diè
il primo bollore:
- Chicchirichì!
Il galletto era scappato fuori, come se non gli avessero mai tirato il collo e
non lo avessero mai
pelato e abbrustolito.
Il cuoco corse dalla Regina:
- Maestà, il galletto è risuscitato!
La cosa era troppo strana, e il galletto diventò prezioso. Tutti lo guardavano
con rispetto;
qualcuno anche con un po' di paura. Ed esso se n'abusava. A tavola beccava
peggio di prima, nei
piatti del Re e della Regina; razzolava, come se nulla fosse, nei piatti dei
Ministri che
non osavano dirgli sciò per rispetto del Re; s'appollaiava dovunque,
insudiciava perfino il
soglio reale e lo riempiva di pollìna. E poi, notte e giorno: chicchirichì!
chicchirichì! Rintronava gli
orecchi. E il popolo imprecava a denti stretti:
- Accidempoli al galletto e a chi lo fa allevare!
Un giorno Sua Maestà dovea scrivere a un altro Re. Prese carta, penna e
calamaio,
fece la lettera e la lasciò sul tavolino ad asciugare. Va il galletto e gliela
insudicia, proprio dov'era la
firma.
- Sporco galletto! Per questa volta passi. Un'altra volta te la farò vedere
io!
Il Re scrisse di bel nuovo la lettera, e la lasciò sul tavolino ad
asciugare. Va il galletto, e
gliela insudicia, proprio dov'era la firma.
Il Re perdé il lume degli occhi:
- Sporco galletto! Ora ti concio io! Chiamatemi il cuoco.
Il cuoco si presentò.
- Mi si faccia arrosto pel pranzo.
In cucina gli tirarono il collo e lo infilzarono nello spiedo.
Quando fu l'ora del pranzo, il cuoco lo servì in tavola. Sua Maestà
cominciò a dividerlo,
a chi un'ala, a chi una coscia, a chi un po' di petto, a chi il codione: serbò
per sé il collo e la testa
colla cresta e coi bargigli.
Avea terminato appena di mangiare, che dal fondo del suo stomaco sente
scoppiare:
- Chicchirichì!
Fu una costernazione generale. Chiamarono tosto i medici di Corte.
Bisognerebbe spaccar la pancia del Re; ma chi ci si mette?
E il galletto, di tanto in tanto, dal fondo dello stomaco di Sua Maestà,
dava la voce:
- Chicchirichì!
- Chiamatemi la vecchia - disse il Re.
Appunto essa veniva a domandar l'elemosina al palazzo reale, e la condussero
su.
- Strega del diavolo! Che malìa hai tu fatta a quell'uovo? Ho mangiato la
testa del galletto, ed
esso mi canta dentro lo stomaco. Se non me ne liberi, tienti per morta!
- Maestà, datemi un giorno di tempo.
E tornò subito a casa:
- Ah, gallettina mia! Sono stata chiamata dal Re: "Ho mangiato la testa del
galletto, ed esso
mi canta dentro lo stomaco". Se non lo libero, sarò morta!
- Vecchia mia, questo è nulla. Domani prenderai un po' di becchime, tornerai
dal Re e farai:
billi! Billi Sentendo la tua voce, il galletto verrà fuori.
E così fu.
La cosa era troppo strana. Il galletto diventò famoso, e tornò a fare peggio
di prima.
Una mattina, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' una gallina.
- E diamogli una gallina!
Il giorno appresso, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' un'altra gallina.
- E diamogli un'altra gallina!
Insomma, ne volle due dozzine.
Un'altra mattina, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' gli sproni d'oro.
- E sproni d'oro siano!
Il galletto, ch'era diventato un bel gallo, con quegli sproni d'oro si
pavoneggiava attorno,
beccando questo e quello.
Un'altra volta, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' la cresta doppia d'oro.
- E cresta doppia d'oro sia!
Il Re cominciava a stufarsi; ma il gallo, con quegli sproni d'oro e quella
cresta doppia d'oro,
si pavoneggiava attorno, beccando questo e quello.
Finalmente un'altra mattina, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' mezzo regno; ho corona al par di voi!
Al Re scappò la pazienza:
- Levatemelo di torno, questo gallaccio impertinente!
Ma come fare? Ammazzarlo era inutile; risuscitava sempre. Portarlo lontano non
concludeva
nulla: sarebbe tornato. Prenderlo colle buone era peggio; rispondeva canzonando:
- Chicchirichì! Il
Re, disperato, mandò a chiamare la vecchia:
- Se non mi liberi del gallo, ti fo mozzare la testa!
- Maestà, datemi un giorno di tempo.
E tornò subito a casa:
- Ah, gallinetta mia! Sono stata chiamata dal Re: "Se non mi liberi del
gallo, ti fo mozzare la
testa". Che debbo rispondere?
- Rispondi: "Maestà, voi non avete figliuoli; adottatelo per figliuolo, si
cheterà".
Il Re, messo colle spalle al muro, risolvette di adottarlo. Ma giovò poco.
Con tutte quelle galline, il palazzo reale era diventato un pollaio. Il Re,
la Regina, i
Ministri, le dame di Corte, i servitori, tutti si sentivan pieni di pollìna
dalla testa ai piedi, e
non potevano reggere. E poi, schiamazzate di qua, chicchiriate di là; aveano il
capo come un
cestone.
Il popolo imprecava a denti stretti:
- Accidempoli al gallo, alle galline e a che li fa allevare!
- Senti, Strega - disse il Re. - Se fra un giorno non mi spazzi gallo e
galline, pagherai con
la tua testa.
- Maestà, qui ci vuole la fata Morgana; mandatela a chiamare.
Il Re mandò a chiamare la fata Morgana. La Fata rispose:
- Chi vuole vada, chi non vuole mandi.
E il Re dovette andarci egli stesso in persona.
- Maestà, finché quel gallo non sarà diventato un Uomo al pari di voi, non
avrete mai pace.
- Ma che cosa ci vuole, perché diventi un Uomo al pari di me?
- Ci vuol tre sorta di becchime. Fate tre solchi colle vostre mani, e
spargete queste tre
sementi. Mietete, trebbiate, senza mescolare il grano, e poi dite:
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E spargerete per terra questo grano qui. Quando non ne rimarrà più un chicco:
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E spargerete per terra quest'altro grano. Quando non ne rimarrà più un chicco:
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E spargerete per terra l'ultimo grano.
Il Re s'ingegnò di far tutto a puntino. Quando fu il momento:
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E una metà delle galline morì.
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E il resto delle galline morì.
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
Il gallo si mise a beccare lui solo, e appena beccato l'ultimo grano, si
ritirò, s'allungò,
chicchirichì! Si scosse le penne d'addosso e diventò un giovane alto e bello. Di
gallo gli eran rimasti
soltanto la cresta e gli sproni. Ma non importava.
Il Re disse al popolo:
- Non ho figliuoli, e questo qui sarà il Reuccio. Rispettatelo per tale.
- Viva il Reuccio! Viva il Reuccio!
Ma, sottovoce, dicevano:
- Staremo a vedere. Chi gallo nasce dee chicchiriare.
Il Reuccio, dopo parecchi mesi, diventò malinconico. Voleva star solo, non
parlava con
nessuno.
- Che cosa avete, figliuolo mio?
- Maestà, nulla.
Non lo voleva dire, provava rossore, ma sentiva una gran voglia di far
chicchirichì!
Chiamarono i medici di Corte; chiamarono anche quelli fuori del regno, i più
valenti. Non ci
capivano niente.
- Forse il Reuccio voleva moglie?
- Non voleva moglie.
- Ma dunque che cosa voleva? Qualunque cosa avesse voluto, gli sarebbe stata
concessa.
- Vorrei ... fare chicchirichì!
Bisognò permetterglielo: e si sfogò tutta la giornata.
Allora gli tagliarono la cresta, e quella voglia non la ebbe più.
E il popolo:
- Staremo a vedere! Chi da gallina nasce convien che razzoli.
Dopo parecchi mesi il Reuccio tornò ad essere malinconico. Voleva star solo,
non parlava
con nessuno.
- Che cosa avete, figliuolo mio?
- Maestà, nulla.
Non lo voleva dire, provava rossore, ma sentiva una gran voglia d'uscir fuori
a razzolare.
Tornarono a chiamare i dottori, ma non ci capivano niente.
- Forse il Reuccio voleva moglie?
- Non voleva moglie.
- Ma dunque che cosa voleva? Qualunque cosa avesse chiesta, gli sarebbe stata
concessa.
- Vorrei ... uscir fuori a razzolare!
E bisognò permetterglielo.
Allora gli strapparono gli sproni, e quella voglia non la ebbe più.
Venne il tempo di dargli moglie:
- Vi piacerebbe, figliuolo mio, la Reginotta di Spagna?
- Maestà, dovendo sposare,... vorrei sposare una pollastra!
Si era dunque sempre daccapo?
Il Re quel giorno avea le paturne. Tira fuori la sciabola e gli taglia la
testa.
Ma, invece di sangue d'Uomo, gli uscì fuori sangue di pollo.
Si presentò allora la vecchina:
- Maestà, ecco, è finita.
Gli riappiccicò il capo collo sputo, e il Reuccio tornò vivo.
Ora ch'era un Uomo davvero stette tranquillo, e di lì a poco si sposò colla
Reginotta di
Spagna. Poi diventarono Re e Regina, e fecero un po' di bene.
E la fiaba finisce.
LA FIGLIA DEL RE
C'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figlia unica, e le
volevano più
bene che alla pupilla de' loro occhi.
Mandò il Re di Francia per domandarla in sposa.
Il Re e la Regina, che non sapeano staccarsi dalla figliuola, risposero:
- É ancora bambina.
Un anno dopo, mandò il Re di Spagna.
Quelli si scusarono allo stesso modo:
- É ancora bambina.
Ma i due regnanti se l'ebbero a male. Si misero d'accordo e chiamarono un
Mago:
- Devi farci un incanto per la figlia del Re, il peggiore incanto che ci
sia.
- Fra un mese l'avrete.
Passato il mese, il Mago si presentò:
- Ecco qui. Regalatele questo anello; quando lo avrà portato in dito per
ventiquattr'ore, ne vedrete
l'effetto.
Regalarglielo non potevano, perché s'eran già guastati coi parenti di lei.
Come fare?
- Ci penserò io.
Il Re di Spagna si travestì da gioielliere, e aperse una bottega
dirimpetto al palazzo reale.
La Regina volea comprar delle gioie e lo mandò a chiamare.
Quello andò, e in uno scatolino a parte ci avea l'anello.
Dopo che la Regina ebbe comprato parecchie cose, domandò alla figliuola:
- O tu, non vuoi nulla?
- Non c'è niente di bello - rispose la Reginotta.
- Ci ho qui un anello raro; le piacerà.
E il finto gioielliere mostrò l'anello incantato.
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza! Quanto lo Fate?
- Reginotta, non ha prezzo, ma prenderò quel che vorrete.
Gli diedero una gran somma e quello andò via.
La Reginotta s'era messo in dito l'anello e lo ammirava ogni momento:
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza!
Ma dopo ventiquattr'ore (era di sera):
- Ahi! Ahi! Ahi!
Accorsero il Re, la Regina, le dame di Corte, coi lumi in mano.
- Scostatevi! Scostatevi! Son diventata di stoppa.
Infatti la povera Reginotta avea le carni tutte di stoppa.
Il Re e la Regina erano proprio inconsolabili. Radunarono il Consiglio
della
Corona.
- Che cosa poteva farsi?
- Maestà, Fate un bando: Chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re.
E i banditori partirono per tutto il regno, con tamburi e trombette.
- Chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re!
In una città c'era un giovinotto, figlio d'un ciabattino. Un giorno, vedendo
che in casa sua si
moriva di fame, disse a suo padre:
- Babbo, datemi la santa benedizione: vo' andare a cercar fortuna pel mondo.
- Il cielo ti benedica, figliuolo mio!
E il giovinotto si mise in viaggio.
Uscito pei campi, in una viottola incontrò una frotta di ragazzi che, urlando,
tiravan sassate a un
rospo per ammazzarlo.
- Che male vi ha fatto? É anch'esso creatura di Dio: lasciatelo stare.
Vedendo che quei ragazzacci non smettevano, saltò in mezzo ad essi, diè uno
scapaccione a
questo, un pugno a quello, e li sbandò: il rospo ebbe agio di ficcarsi in un
buco.
Cammina, cammina, il giovinotto incontrò i banditori che, a suon di tamburi e
di trombette,
andavan gridando:
- Chi guarisce la Reginotta, sarà genero del Re.
- Che male ha la Reginotta?
- É diventata di stoppa.
Salutò e continuò per la sua strada, finché non gli annottò in una pianura.
Guardava attorno per
vedere di trovar un posto dove riposarsi: si volta, e scorge al suo fianco una
bella signora. Trasalì.
- Non aver paura: sono una Fata, e son venuta per ringraziarti.
- Ringraziarmi di che?
- Tu m'hai salvato la vita. Il mio destino è questo: di giorno son rospo, di
notte son Fata. Ai
tuoi comandi!
- Buona Fata, c'è la Reginotta ch'è diventata di stoppa, e chi la
guarisce sarà genero
del Re. Insegnatemi il rimedio: mi basterà.
- Prendi in mano questa spada e vai avanti, vai avanti. Arriverai in un bosco
tutto pieno di
serpenti e di animali feroci. Non lasciarti impaurire: vai sempre avanti, fino
al palazzo del
Mago. Quando sarai giunto lì, picchia tre volte al portone ...
Insomma gli disse minutamente come dovea fare:
- Se avrai bisogno di me, vieni a trovarmi.
Il giovinotto la ringraziò, e si mise in cammino. Cammina. cammina, si trovò
dentro il bosco, fra
gli animali feroci. Era uno spavento! Urlavano, digrignavano i denti,
spalancavano le bocche; ma
quello sempre avanti, senza curarsene. Finalmente giunse al palazzo del Mago,
e picchiò tre
volte al portone.
- Temerario, temerario! Che cosa vieni a fare fin qui?
- Se tu sei Mago davvero, devi batterti con me.
Il Mago s'infuriò e venne fuori armato fino ai denti: ma, come gli vide in
mano quella spada,
urlò:
- Povero me!
E si buttò ginocchioni:
- Salvami almeno la vita!
- Sciogli l'incanto della Reginotta, e avrai salva la vita.
Il Mago trasse di tasca un anello, e gli disse:
- Prendi; va' a metterglielo nel dito mignolo della mano sinistra e l'incanto
sarà disfatto.
Il giovanotto, tutto contento, si presenta al Re:
- Maestà, è vero che chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re?
- Vero, verissimo.
- Allora son pronto a guarirla.
Chiamaron la Reginotta, e tutti quelli della Corte gli s'affollarono
attorno; ma le avea
appena messo in dito l'anello, che la Reginotta divampò, tutta una fiamma! Fu
un urlo. Nella
confusione, il giovanotto poté scappare, e non si fermò finché non giunse dove
gli era apparsa la
Fata:
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la disgrazia.
- Ti sei lasciato canzonare! Tieni questo pugnale e ritorna dal Mago: vedrai
che questa volta
non si farà beffa di te.
E gli disse minutamente come dovea regolarsi.
Il giovinotto andò subito, e picchiò tre volte al portone.
- Temerario, temerario! Che cosa vieni a fare fin qui?
- Se tu sei Mago davvero, devi batterti con me.
Il Mago s'infuriò e venne fuori, armato fino ai denti. Ma come gli vide in
mano quel pugnale,
si buttò ginocchioni:
- Salvami almeno la vita!
- Mago scellerato, ti sei fatto beffa di me! Ora starai lì incatenato,
finché l'incanto non sia
rotto.
Lo legò bene, piantò il pugnale in terra, e vi attaccò la catena. Il Mago
non poteva muoversi.
- Sei più potente, lo veggo! Torna dalla Reginotta, cavale di dito l'anello
del gioielliere e
l'incanto sarà disfatto.
Il giovinotto non avea viso di presentarsi al Re; ma saputo che la
Reginotta se l'era
cavata con poche scottature, perché tutti quei della Corte aveano spento le
fiamme, si fece
coraggio e si presentò:
- Maestà, perdonate; la colpa non fu mia; fu del Mago traditore. Ora è
un'altra cosa.
Caviamo di dito alla Reginotta quell'anello del gioielliere, e l'incanto sarà
disfatto.
Così fu. La Reginotta diventò nuovamente di carne, ma pareva un tronco: non
avea lingua,
né occhi, né orecchi; era rovinata dalle fiamme. E se lui non la guariva
intieramente, non potea
diventar genero del Re.
Partì e andò in quella pianura dove gli era apparsa la Fata:
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la disgrazia.
- Ti sei lasciato canzonare!
E gli disse, minutamente, come dovea regolarsi.
Il giovanotto tornò dal Mago:
- Mago scellerato, ti sei fatto beffa di me! Lingua per lingua, occhio per
occhio!
- Per carità, lasciami stare! Vai dalle mie sorelle, che stanno un po' più in
là. Devi fare così e
così.
Cammina, cammina, arriva in una campagna dove c'era un palazzo simile a quello
del Mago.
Picchiò al portone.
- Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Cornino d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me?
- Vuole un pezzettino di panno rosso; gli si è bucato il mantello.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra un pezzettino di panno rosso, tagliato a foggia di
lingua.
Andò avanti, e arrivò a piè d'una montagna dove, a mezza costa, c'era un
palazzo simile a
quello del Mago. Picchiò al portone.
- Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Manina d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me?
- Vuole due grani di lenti per la minestra.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra due grani di lenti, involtati in un pezzettino di
carta.
Andò avanti, e arrivò in una valle, dove c'era un altro palazzo simile a
quello del Mago.
Picchiò al portone.
- Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Piedino d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello! Che cosa vuole da me?
- Vuole due lumachine per mangiarsele a cena.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra le lumachine richieste.
Il giovanotto tornò dal Mago:
- Ho portato ogni cosa.
Il Mago gli disse come doveva fare, e il giovanotto stava per andarsene:
- Mi lasci qui incatenato?
- Lo meriteresti, ma ti sciolgo. Se mi hai ingannato, guai a te!
Il giovane si presentò al palazzo reale e si fece condurre dalla Reginotta.
Le aperse la bocca, vi mise dentro quel pezzettino di panno rosso, e la
Reginotta ebbe la
lingua. Ma le prime parole che disse furon contro di lui:
- Miserabile ciabattino! Via di qua! Via di qua!
Il povero giovane rimase confuso:
- Questa è opera del Mago!
Senza curarsene, prese i due semi di lenti, con un po' di saliva glieli
applicò sulle pupille spente,
e la Reginotta ebbe la vista. Ma appena lo guardò, si coprì gli occhi colle
mani:
- Dio, com'è brutto! Com'è brutto!
Il povero giovane rimase:
- Questa è opera del Mago!
Ma, senza curarsene, prese i gusci delle lumachine che aveva già vuotati, e
con un po' di saliva
glieli applicò bellamente dov'era il posto degli orecchi: la Reginotta ebbe
gli orecchi.
Il giovane si rivolse al Re e disse:
- Maestà, son vostro genero.
Come intese quella voce, la Reginotta cominciò a urlare:
- Mi ha detto: Strega! Mi ha detto: Strega!
Il povero giovane, a questa nuova uscita, sbalordì:
- É opera del Mago!
- E tornò dalla Fata.
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la sua disgrazia.
La Fata sorrise e gli domandò:
- Le hai tu tolto di dito l'altro anello del Mago?
- Mi pare di no.
- Vai a vedere; sarà questo.
Come la Reginotta ebbe tolto di dito quell'altro anello, tornò gentile e
tranquilla.
Allora il Re le disse:
- Questi è il tuo sposo.
La Reginotta e il giovanotto si abbracciarono alla presenza di tutti, e
pochi giorni dopo
furono celebrate le nozze.
E furono marito e moglie;
E a lui il frutto e a noi le foglie.
SERPENTINA
C'era una volta un Re e una Regina. La Regina era incinta.
Un giorno passò una di quelle zingare che van dicendo la buona ventura, e il
Re la fece
chiamare:
- Che partorirà la Regina?
- Maestà, un serpente.
Quelli trasecolarono.
- E che dovevano farne? Ammazzarlo appena nato? Allevarlo?
- Dovevano allevarlo.
La povera Regina dette in un pianto dirotto:
- Chi avrebbe allattato una bestia così schifosa? Lei sarebbe morta dal
terrore! E poi, se le
mordeva il seno?
- Maestà, non abbiate paura. Avrà un dente soltanto, un dente d'oro.
Infatti la Regina partorì un bel serpentello verde-nero, che subito, appena
nato, sguizzò di
mano alla levatrice, attaccossi alla poppa della mamma e si mise a poppare.
Quando fu addormentato, il Re gli aperse la bocca e vide che avea davvero un
dente soltanto,
un dente d'oro. Però, siccome non voleva che quella loro disgrazia si risapesse,
fece dire che la
Regina avea partorito una bella bimba, ed era stata chiamata Serpentina. Serpentina cresceva rapidamente, e quando apriva la bocca, il suo dente
d'oro straluccicava.
Un giorno ripassò quella zingara, e il Re la fece chiamare:
- Dimmi la ventura di Serpentina.
- Buona o cattiva, Maestà?
- Buona o cattiva.
La zingara prese in mano la coda di Serpentina e si messe ad osservarla
attentamente.
Scrollava la testa.
- Zingara, che cosa vedi da farti scrollare la testa?
- Maestà, veggo guai!
- E non c'è rimedio?
- Maestà, bisognerebbe interrogare una più sapiente di me: la Fata gobba.
- O dove trovare questa Fata gobba?
- Prendete del pane e del vino per otto giorni e camminate sempre diritto,
badiamo! Senza
voltarvi in dietro. All'ottavo giorno vi troverete avanti a una grotta: la
Fata gobba abita lì.
- Va bene, - disse il Re - partirò domani.
Prese le provviste per otto giorni, e si mise in cammino. Quando fu a mezza
strada:
- Maestà! Maestà!
Stava per voltarsi, ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò
diritto.
Un altro giorno, ecco dietro a lui un urlo di creatura umana:
- Ahi! M'ammazzano! Ahi!
Il Re si fermò, irresoluto; quel grido strappava l'anima!... E stava per
voltarsi; ma si
ricordò della raccomandazione, e tirò diritto.
Un altro giorno, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che
corrano di galoppo.
- Bada! Bada!
Spaventato, stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione della
zingara, e tirò diritto.
Giunto davanti alla grotta, cominciò a chiamare:
- Fata gobba! Fata gobba!
- Gobbo sarai te! - rispose una voce.
E il povero Re, sentitosi un po' di peso sulle spalle, si tastò. Gli era
proprio spuntata la
gobba.
- Ed ora che fare? Come tornare indietro con quella mostruosità?
Risolse di tornar di notte, perché nessuno lo vedesse. La Regina, accortasi
di quel gonfiore
sulle spalle, gli domandò:
- Maestà, che portate addosso?
- Porto la mia disgrazia!
E raccontò com'era andata.
La Regina risolse di tentar lei:
- Fra loro donne si sarebbero intese meglio.
Fece le sue provviste di pane e vino per otto giorni, e partì.
A metà strada:
- Maestà! Maestà!
Lei, sbadatamente, si volta, e si trova tornata al punto d'onde era partita.
- Pazienza! Ricomincerò.
La seconda volta, più in là di mezza strada, ecco alle sue spalle un gran
rumore, come di cavalli
che corrano di galoppo:
- Bada! Bada!
Presa dallo spavento, si volta, e si trova di nuovo al punto d'onde era
partita.
Allora, da scaltra, disse al Re:
- Maestà, turatemi le orecchie col cotone e versatevi su della cera. Così non
sentirò nulla, e potrò
arrivare dalla Fata gobba: altrimenti non ci sarà verso.
Il Re le turò le orecchie a quel modo, e lei partì.
Giunta davanti la grotta, si sturò le orecchie, e picchiò. Picchia, ripicchia,
non rispondeva
nessuno. Lei non voleva chiamare, e dava all'uscio col bastone, a due mani.
- Chi è? - urlò finalmente una voce - Chi cercate?
- Son io: cerco la Fata.
- Quale Fata? Delle Fate ce n'è tante!
- La Fata gobba.
Le scappò di bocca.
- Gobba sarai tu!
La Regina si tastò subito le spalle. Le era proprio spuntata la gobba.
Tornò di notte, per non esser veduta; e il Re, prima di ogni cosa, le guardò
dietro.
- Maestà, che portate addosso?
- Porto la mia disgrazia!
E raccontò com'era andata.
- E tutto questo per Serpentina! Schiacciamogli la testa! La mala fortuna ci
vien per lei.
Il Re non sapea risolversi:
- Non era sangue loro?
- Farò di mio capo - disse fra sé la Regina.
E, di nascosto al Re, chiamò una guardia di palazzo:
- Prendi questa cassettina e vattene in un bosco. Quando sarai lì, farai una
catasta di legna, ve la
metterai su e darai fuoco. Finché non sia consumata, non dovrai tornare
indietro.
- Maestà, sarà fatto.
Intanto il Re ordinava gli si chiamasse la zingara:
- Dimmi la ventura di Serpentina.
- Buona o cattiva, Maestà?
- Buona o cattiva.
- Maestà, Serpentina corre pericolo di morte:
E se muore Serpentina,
Tutto il regno va in rovina.
- Che pericolo può correre nelle stanze reali?
- Maestà, non è più lì.
Quando il Re apprese quello che sua moglie avea fatto, cominciò a strapparsi i
capelli:
- La loro rovina era compiuta. Ah! Povera Serpentina, dove tu sei?
E una voce lontana, lontana:
- Maestà, sono nel bosco.
- E che tu fai?
- Sento strani rumori.
Il Re ordinò:
- Mi si selli il miglior cavallo della mia scuderia!
Montò a cavallo e via, come un fulmine, per la strada del bosco. Di tanto in
tanto si fermava:
- Serpentina, dove tu sei?
- Maestà, in mezzo al bosco.
Ora la voce era più vicina.
- E che tu fai?
- Maestà, ho troppo caldo.
Il Re conficcava gli sproni nei fianchi del cavallo: avrebbe voluto che
volasse. Ma quando fu in
mezzo al bosco, vide una gran fiamma:
- Serpentina, dove tu sei?
- Maestà, in mezzo al bosco.
La voce era vicinissima.
- E che tu fai?
- Pelle nuova, Maestà!
Il Re corse alla catasta in fiamme, e senza curar di scottarsi, tirò la
cassettina fuori della
brace. L'aperse in fretta e furia, e vide scappar fuori una ragazza di belle
forme; se non che avea la
pelle tutta squamosa, come quella d'un serpente.
- Troppa fretta, Maestà! Ora non potrò più maritarmi!
Serpentina non avea avuto il tempo di far pelle nuova. E dava in un dirotto
pianto; era
inconsolabile:
- Lasciatemi qui sola. Anderò dalla Fata gobba.
Non potendola persuadere altrimenti, il Re l'abbandonò in mezzo al bosco e
tornò al palazzo
reale.
Ma Serpentina, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscita. Vide uno
scarafaggio:
- Scarafaggio, bel scarafaggio! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un
magnifico
regalo.
- Non la conosco.
E tirò via.
Più in là, vide un Topolino:
- Topolino, bel Topolino! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un
magnifico
regalo.
- Non la conosco.
E tirò via.
Più in là ancora, vide un usignuolo in cima a un albero:
- Usignuolo, bell'usignuolo! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un
magnifico regalo.
- Mi dispiace, ma non posso. Aspetto la bella dal dente d'oro che deve passare
di qui.
- Usignuolo, bell'usignuolo! Sono io la bella dal dente d'oro.
E mostrò il dente.
- O Reginotta mia! Son tant'anni che t'aspetto.
L'usignuolo divenne, tutt'a un tratto, il più bel giovane che si fosse mai
visto, la prese per mano e
la condusse fuor del bosco.
Giunti davanti alla grotta, il bel giovane picchiò.
- Chi siete?
- Son io e Serpentina.
- Chi volete?
- La Fata Regina.
La grotta si spalancò, e si vide il gran palazzo della Fata gobba; ma
bisognava dirle Fata Regina; se no, se l'avea a male.
- Ben venuta, figliuola mia! T'aspettavo da un pezzo. Questo giovine è figlio
d'un regnante. Una
Maga gli aveva fatto l'incantesimo, e per romperlo ci voleva la ragazza dal
dente d'oro. Ora
dovrete sposarvi.
La Reginotta, con quella pelle squamosa, era un orrore. La Fata gobba
cominciò a
strusciarla da capo a piedi, e in poco d'ora la mondò, in guisa che non pareva
più lei. Era così bella,
che abbagliava.
La Regina, come intese che Serpentina stava per tornare, montò sulle
furie:
- Se vien lei, partirò io! É la nostra cattiva Sorte!
Ma, saputo che quella recava l'unguento da far sparire le gobbe, le andò
incontro col Re e
con tutta la Corte. Fecero grandi feste, e vissero tutti felici e contenti.
E noi citrulli ci nettiamo i denti.
IL SOLDO BUCATO
C'era una volta una povera donna rimasta vedova con un figliolino al petto.
Era di cattiva
salute, e con quel bimbo da allattare poteva lavorare pochino. Faceva dei
piccoli servigi alle vicine,
e così lei e la sua creatura non morivano di fame.
Quel figliolino era bello come il sole; e la sua mamma, ogni mattina, dopo
averlo rifasciato,
lavato e pettinato, un po' per buon augurio, un po' per chiasso, soleva dirgli:
- Bimbo mio, tu sarai barone!
Bimbo mio, tu sarai duca!
Bimbo mio, tu sarai Principe!
Bimbo mio, tu sarai Re!
E ogni volta che lei gli diceva: tu sarai Re, il bimbo accennava di sì colla
testina, come se
avesse capito.
Un giorno si trovò a passare proprio il Re, e sentito: Bimbo mio, tu sarai
Re, la prese
in mala parte, perché non aveva avuto ancora figliuoli e ne era accorato assai.
- Comarina, - le disse - non vi arrischiate più a dire così, o guai a voi!
La povera donna, dalla paura, non disse più nulla. Però quel figliolino, ora
che la sua mamma
stava zitta, ogni mattina, appena rifasciato, lavato e pettinato, si metteva a
piangere e strillare.
Lei gli ripeteva:
- Bimbo mio, tu sarai barone!... Tu sarai duca!... Tu sarai
Principe! ...
Ma il bimbo non si chetava. Talché una volta, per prova, tornò a dirgli
sottovoce:
- Bimbo mio, tu sarai Re!
Il bimbo accennò di sì colla testina, come se avesse capito, e non strillò
più.
Allora la povera donna si persuase che quel figliolino doveva avere una gran
fortuna; e temendo
la collera del Re, già pensava di mutar paese.
Intanto, poiché il figliuolo era spoppato, quando le capitava di fare qualche
servizio, pregava
una vicina:
- Comare, tenetemi d'occhio il bambino; vado e torno in due minuti.
Un giorno le accadde di tardare. La vicina era seccata di tenere in braccio
quel cattivello che
piangeva perché voleva la mamma. In quel punto comparve un cenciaiolo:
- Cenci, donnine, cenci!
- Lo volete questo cencio qui?
- Se ci si combina, lo prendo.
- Ve lo do per un soldo.
Il cenciaiuolo le tolse il bimbo di braccio e le mise in mano un soldo bucato.
A quella scena lei e le altre vicine presenti ridevano: il cenciaiuolo in
questo mentre svoltava la
cantonata e spariva. Corri, cerca, chiama ... L'avete più visto?
Figuriamoci che pianto, quella povera mamma, quando apprese la sua disgrazia!
Corse subito dal Re:
- Giustizia, Maestà!... Mi han rapito il bambino!
- Bimbo mio, tu sarai Re! - le rispose il Re facendole il verso, per
canzonarla.
E la mandò via, tutto contento che quel malaugurio per la sua discendenza
fosse sparito.
Gli occhi della povera donna parevano un fiume. Andava attorno tutta la
giornata, fermando la
gente:
- Buona gente, incontraste per caso il cenciaiuolo che mi ha rubato il mio
bambino?
Le persone, che non ne sapevano nulla, la prendevano per matta e le ridevano
in viso.
Quel giorno della disgrazia, la vicina le aveva dato il soldo bucato messole
in mano dal
cenciaiuolo; ma la povera donna, dalla gran rabbia che aveva, lo buttò via.
La mattina dopo, apre un cassetto ... il soldo bucato era lì.
- Soldaccio maledetto! Non ti voglio neppur vedere!
E lo buttò nuovamente via dalla finestra.
Ma la mattina dopo, torna ad aprire quel cassetto e che vede? Il soldo bucato.
Richiuse il cassetto con stizza.
- Fossero almeno dieci lire ...! Mi comprerei uno straccio di veste!
Non avea finito di dirlo, che sentì lì dentro un suono di soldi rimescolati.
Stupita, riapre. Pareva
che il soldo avesse figliato. Oltre a quello, c'erano lì tanti soldi, da fare
giusto dieci lire.
Da allora in poi, quando avea bisogno di denaro, le bastava che dicesse:
- Soldino mio, vo' cento lire, vo' mille lire!
Le cento lire, le mille lire erano subito lì.
La buona donna non si teneva questa fortuna per sé sola; faceva spesso la
carità a tutte le
persone bisognose al par di lei, ed era già diventata una benedizione del cielo.
Ma quel bene lei lo faceva sempre col pensiero al figliolino perduto:
- Che le importava di tanta fortuna, senza il suo figliolino? E sperava sempre
che, un giorno o
l'altro, il cielo l'avrebbe consolata.
In quel tempo il Re ebbe il capriccio di comprarsi un magnifico cavallo.
Conchiuso il
negozio, andò per prendere il denaro dallo scrigno ove solea tenerlo riposto, e
si accorse che
mancava una bella somma.
Appostò lì due guardie per acchiappare il ladro; e, passati alquanti giorni,
tornò a guardare:
mancava un'altra bella somma!
Si mise in agguato lui stesso; cominciava a sospettare dei suoi Ministri.
Una mattina, ecco una voce nell'aria, lontana, lontana:
- Soldino mio, vo' mille lire!
E, subito, un rimescolìo nello scrigno, come se qualcuno vi prendesse
quattrini a manate.
Apre in fretta in fretta ... Le mille lire mancavano, ma lì dentro non
c'era nessuno!
- Come andava questa faccenda?
Il Re ci perdeva la testa.
Però, benché fosse un po' avaro, gli dispiaceva di più dover morire senza
figliuoli. Se la
prendeva colla Regina, come se la colpa fosse stata di lei, e la maltrattava:
- Non era buona a fargli un figliuolo, neppure di terra cotta!
La Regina, indispettita, gli fece colle sue mani un bel puttino di terra
cotta.
- Ecco, se era buona!
Tutti accorrevano al palazzo reale per vedere quel puttino di terra cotta, che
era una meraviglia, e
vi andò anche quella povera donna.
- Oh Dio! É tutto il mio bambino!... Ma non era così che ti volevo Re,
figliolino
mio!
E si mise a piangere.
Il Re, a quelle parole, montò in furore. Diè un calcio al puttino di terra
cotta e lo ridusse in
mille pezzi.
Alla povera donna parve di vedersi squarciare sotto gli occhi il figliolino
perduto. Ma che poteva
dire a Sua Maestà? Dovette ingozzare anche quell'amarezza, e tornarsene a
casa zitta zitta.
Intanto nello scrigno del Re i quattrini continuavano a mancare; e sempre
quella voce
nell'aria, lontana lontana:
- Soldino mio, vo' cento lire, vo' mille lire!
E quanti diceva la voce, tanti il Re ne sentiva prendere dalla mano del
ladro invisibile.
Il Re mise le sue spie per scoprire di chi fosse quella voce: e un giorno le
spie gli condussero
dinanzi ammanettata la donna del bambino rubato:
Era lei che aveva detto: "Soldino mio, vo' cento lire!".
Il Re non volle neppure ascoltare la povera donna, che voleva raccontargli
come stesse la
cosa, e la fece gettare in un fondo di carcere.
Ma da quel giorno egli non ebbe più pace.
Voleva andare a letto? E gli strappavano le coperte:
- Maestà, non si dorme!
Chi era? Non si vedeva nessuno.
Si sedeva a tavola per mangiare? E gli portavano via il piatto:
- Maestà, non si mangia!
Chi era? Non si vedeva nessuno.
Se durava un altro po', il Re moriva d'inedia. Perciò mandò a consultare un
vecchio
Mago.
Il Mago (che poi era quel cenciaiuolo che avea rapito il bambino per
proteggerlo) rispose
soltanto:
- Bimbo mio, tu sarai Re!
Visto che il destino era quello, e non volendo morire d'inedia, il Re
cominciò dallo
scarcerare la povera donna, e tornò a mandare dal Mago:
- Come rintracciare il bimbo? Lo avea rapito un cenciaiuolo e non se ne sapeva
più notizia.
Il Mago rispose:
- Raccatti i cocci di quel puttino di terra cotta e li saldi insieme collo
sputo.
Il Re, sebbene di mala voglia, raccattò i cocci del puttino e li saldò collo
sputo.
- Ed ora?
- Ed ora - rispose il Mago - prepari una bella festa e faccia così e così.
Il Re fece dei grandi preparativi, poi, secondo le istruzioni del Mago,
mandò a chiamare
la mamma del bimbo a palazzo reale e la fece sedere a lato della Regina.
Il puttino di terra cotta bello e saldato si vedeva collocato nel mezzo del
salone e, attorno attorno,
ministri, principi, cavalieri in gran gala che aspettavano.
Quando fu l'ora, s'intese nella via:
- Cenci, donnine, cenci!
A questo grido il puttino di terra cotta scoppiò, e ne usci fuori un bel
giovinotto fra un gran
rovesciarsi di monete, che ruzzolavano da tutte le parti.
Il Re, contento anche perché riacquistava tutti i suoi quattrini, voleva
abbracciarlo come un
figliuolo; ma quello corse prima dalla sua mamma e non sapeva staccarsela dal
petto:
- Bimbo mio, tu sarai Re!
Ed era già Reuccio, poiché il Re lo adottava!
Qui entrò una guardia e disse:
- Maestà, c'è di là un cenciaiuolo; rivuole il suo soldo bucato.
Il Re non ne sapeva nulla; ma la povera donna rispose subito:
- Eccolo qui.
Sentita la storia di quel soldo, il Re pensò ch'era meglio tenerselo per
sé. Andò di là, bucò
un altro soldo e diede questo in cambio di quello al cenciaiuolo.
Ma gliene incolse male.
La prima volta che disse:
- Soldino mio, vo' mille lire!
Invece di mille lire furono mille nerbate, che lo conciarono per le feste,
tanto che morì.
- Bimbo mio, tu sarai Re!
E si era avverato.
Stretta è la foglia, larga è la via,
Dite la vostra, ché ho detto la mia.
TI, TIRITI, TI
C'era una volta un contadino che aveva un campicello tutto sassi, e largo
quanto la palma della
mano. Vi era rizzato un pagliaio e viveva lì, da un anno all'altro, zappando,
seminando, sarchiando,
insomma facendo tutti i lavori campestri.
Nelle ore di riposo cavava di tasca un zufolo e, tì, tìriti, tì si
divertiva a fare una sonatina,
sempre la stessa; poi riprendeva il lavoro.
Intanto quel campicello sassoso gli fruttava più di un podere. Se i vicini
raccoglievano venti, e
lui raccoglieva cento, per lo meno. I vicini si rodevano. Una volta quel
campicello non lo avrebbero
accettato neanche in regalo: da che lo aveva lui, non sapevan che cosa fare per
strapparglielo di
mano.
- Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C'è chi li pagherebbe tre
volte più della stima.
- Questi sassi son per me:
Non li cederei neppure al Re.
- Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C'è chi li pagherebbe
dieci volte più della
stima.
- Questi sassi son per me:
Non li cederei neppure al Re.
Una volta, per caso, passò di lì anche il Re, accompagnato dai ministri.
Vedendo quel
campicello, che pareva un giardino, coi seminati verdi e vegeti, mentre quelli
dei campi attorno
somigliavano a setole di spazzola, gialli, stenti, si fermò, colpito dalla
meraviglia e disse ai ministri:
- É proprio una bellezza! Lo comprerei volentieri.
- Maestà, non si vende. Il padrone di esso è un Uomo strano. Risponde a
tutti:
- Questi sassi son per me:
Non li cederei neppure al Re.
- Oh! Voglio vederlo.
E fece chiamare il contadino.
- É vero che questo campicello tu non lo cederesti neppure al Re?
- Sua Maestà ha tanti poderi! Che se ne farebbe dei miei sassi?
- Ma se lui li volesse?
- Se lui li volesse?
- Questi sassi son per me:
Non li cederei neppure al Re.
Il Re fece finta di non aversela avuta a male, e la notte dopo mandò cento
guardie a
scalpicciare, zitte zitte, quel seminato, da non lasciar ritto neanche un filo
d'erba.
La mattina, il contadino esce fuor del pagliaio, e che vede? Uno spettacolo! E
tutti i vicini che
stavano a guardare, con gusto, quantunque si mostrassero addolorati.
- Ah, compare, compare! Se voi aveste venduto quei quattro sassi, ora questa
disgrazia non vi
sarebbe accaduta.
Ma quegli zitto, dinoccolato, come se non dicessero a lui.
Quando i vicini furono andati pei fatti loro, cavò di tasca lo zufolo, e
tì, tìriti, tì il seminato
cominciava a rizzarsi; tì, tìriti, tì, il seminato si rizzava come se nulla
fosse stato.
Il Re, sicuro del fatto suo, lo aveva mandato a chiamare:
- C'è qualcuno che ti vuol male. So che la notte scorsa ti han mezzo
distrutto il seminato. Vendi
a me quei quattro sassi. La gente, quando saprà che son miei, li guarderà da
lontano.
- Maestà, non è vero nulla. Il mio seminato è più bello di prima.
Il Re si morse il labbro:
- Dunque i suoi ordini non erano stati eseguiti!
E se la prese coi Ministri. Ma appena questi gli riferirono che le povere
guardie, dal gran
scalpicciare di quella nottata, non si poteano neppur muovere, il Re rimase!
- Quest'altra notte, ad ora tarda, si mandi lì tutto l'armento.
La mattina, il contadino esce fuori dal pagliaio, e che vede? Uno spettacolo:
il terreno brucato
raso!
I vicini:
- Ah, compare, compare! Se voi aveste venduto quei quattro sassi, questa nuova
disgrazia non vi
sarebbe accaduta.
E quegli zitto, dinoccolato, come se non dicessero a lui.
Quando i vicini furono andati via pei fatti loro, cavava di tasca lo zufolo, e
tì, tìriti, tì il seminato
ripullulava; e tì, tìriti, tì il seminato era bell'e cresciuto come se
nulla fosse stato.
Il Re, questa volta, era sicuro di aver buono in mano. Volea vederlo,
quell'Uomo! Chi sa che
grugno!
E appena l'ebbe alla sua presenza:
- C'è qualcuno che ti vuol male. So che la notte scorsa ti hanno, a
dirittura, distrutto ogni cosa.
Vendi a me quei quattro sassi. La gente, quando saprà che sono miei, li guarderà
da lontano.
- Maestà, non è vero nulla. Il mio seminato è più bello di prima.
Il Re si morse il labbro:
- Dunque i suoi ordini non erano stati eseguiti!
E se la prese coi Ministri. Ma quando questi gli riferirono che tutto
l'armento, dal gran
mangime di quella nottata, avean le pance che gli scoppiavano e che metà eran
già morti di
ripienezza, il Re rimase!
- Qui c'è un mistero! Bisogna scoprirlo. Vi do tempo tre giorni.
Col Re non si scherzava. I Ministri cominciarono dal grattarsi il capo, e,
pensa e ripensa,
uno di essi propose di andare, la notte, ad appostarsi dietro il pagliaio di
quel maledetto contadino e
star lì fino all'alba. Chi sa? Qualcosa avrebbero visto.
- Benone!
Andarono; e siccome nel pagliaio c'erano parecchie fessure, si misero a spiare
attraverso a
queste.
Il Re non avea potuto chiuder occhio pensando all'accaduto: e la mattina, di
buon'ora, fece
chiamare i ministri.
- Maestà, oh! Che abbiamo visto! Che abbiamo visto!
- Che cosa avete mai visto?
- Quel contadino ha uno zufolo, e appena si mette a sonarlo, tì, tìriti,
tì il suo pagliaio, di botto,
diventa una reggia.
- E poi?
- E poi vien fuori una ragazza più bella della luna e del sole, e lui, tì,
tìriti, tì, la fa ballare con
quella sonata; e dopo le dice:
Bella figliuola, se il Re ti vuole,
Dee star sette anni alla pioggia e al sole.
E se sette anni alla pioggia e al sole non sta,
Bella figliuola, il Re non ti avrà.
- E poi?
- E poi smette di sonare e quella reggia, di botto, ridiventa pagliaio.
- Glieli darò io la pioggia e il sole! - disse il Re, toccato sul vivo. - Ma
prima vediamo
codesto miracolo di bellezza!
E andò la notte dopo, accompagnato dai Ministri.
Ed ecco il contadino cava di tasca il suo zufolo, e tì, tìriti, tì, di botto
il pagliaio diventa una
reggia; e tì, tìriti, tì compare la ragazza e si mette a ballare. A quella
vista il Re ammattì:
- Oh, che bellezza! Dovrà esser mia! Dovrà esser mia!
E, senza metter tempo in mezzo, picchia all'uscio a più riprese.
Il contadino cessò di suonare; di botto la reggia ridivenne pagliaio, ma di
aprire non se ne parlò
neppure: e il Re, che bruciava dall'impazienza, dovette tornarsene a palazzo.
Prima che
albeggiasse, spedì un corriere a spron battuto:
- Lo voleva il Re, subito subito.
Il contadino andò a presentarsi:
- Sua Maestà che cosa comandava?
- Comando e voglio la tua figliuola per sposa. Lei diventerà Regina e tu
Ministro di
palazzo reale.
- Maestà, c'è una condizione:
Chi vuole la mia figliuola
Dee star sette anni alla pioggia e al sole;
E se sette anni alla pioggia e al sole non sta,
Fosse chi fosse, non l'otterrà.
Il Re avrebbe voluto darglieli lui la pioggia e il sole! Ma c'era di mezzo
la ragazza. Si strinse
nelle spalle e rispose:
- Starò sette anni alla pioggia e al sole.
Lasciò il governo ai Ministri, per tutto il tempo che sarebbe stato assente,
e andò ad abitare
col contadino, scottandosi la pelle al solleone e restando sotto la pioggia
anche quando veniva giù a
catinelle.
Dopo poco tempo, povero Re, non si riconosceva più; parea fatto di terra
cotta, colla pelle
bruciata a quel modo. Ma avea un compenso. Di tanto in tanto, la notte, il
contadino cavava di tasca
lo zufolo, e prima di sonare, gli diceva:
- Maestà, rammentatevi bene:
Chi tocca stronca,
Chi parla falla!
E tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventava una reggia; e tì,
tìriti, tì, compariva la ragazza più
bella della luna e del sole.
Il Re se la divorava cogli occhi, mentre quella ballava. Dovea fare proprio
un grande sforzo
per non slanciarsi ad abbracciarla e non dirle: "Sarai Regina!". La passione
lo conteneva.
Eran passati sei anni, sei mesi e sei giorni. Il Re, dalla contentezza, si
fregava le mani.
Fra poco quella ragazza più bella della luna e del sole sarebbe stata sua
sposa! E lui se ne
tornerebbe al palazzo reale, Re come prima e più beato di prima!
Ma la sua disgrazia volle che una notte il contadino cavasse di tasca lo
zufolo, e si mettesse a
sonare senza ripetergli:
- Maestà, rammentatevi: chi tocca stronca, chi parla falla.
Quando, tì, tìriti, tì ... apparve la ragazza più bella della luna e
del sole, e si messe a
ballare, il Re non seppe più frenarsi, le corse incontro e l'abbracciò,
gridando:
- Sarai Regina! Sarai Regina!
Fu un lampo. E, invece della ragazza, che cosa si trovò fra le braccia? Un
ceppo bitorzoluto!
- Maestà, ve l'avevo pur detto io:
Chi tocca stronca,
Chi parla falla!
Il Re pareva di sasso:
- Bisognava ricominciare?
- Bisognava ricominciare!
E ricominciò.
Si abbrustoliva al sole:
- Sole, bel sole
Patisco per amore!
Si lasciava conciare dalla pioggia.
- Pioggia, pioggia bella,
Patisco per la donzella!
E quando il contadino cavava di tasca lo zufolo e, tì, tìriti, tì, la
ragazza ricompariva e si metteva
a ballare, lui se la divorava cogli occhi, da un cantuccio, zitto e cheto come
l'olio. Non se la sentiva
di ricominciare.
Eran passati novamente sei anni, sei mesi e sei giorni, e il Re, dalla
contentezza, già si
fregava le mani.
Ma la sua disgrazia volle che una notte il contadino cavasse di tasca lo
zufolo e, tì, tìriti, tì,
comparisse la ragazza e si mettesse a ballare come non aveva ballato mai, con
una grazia, con una
sveltezza! Il povero Re non poté più frenarsi e le corse incontro e
l'abbracciò:
- Sarai Regina! Sarai Regina!
E che cosa si trovò fra le braccia? Un ceppo bitorzoluto.
- Ah, Maestà, Maestà! Chi tocca stronca,
Chi parla falla!
Il Re pareva di sasso:
- Bisognava ricominciare?
- Bisognava ricominciare!
E ricominciò:
- Sole, bel sole,
Patisco per amore;
Pioggia, pioggia bella,
Patisco per la donzella!
Questa volta però stette bene in guardia, e ai sette anni fissati ebbe
finalmente la ragazza, più
bella della luna e del sole. Non gli parea neppur vero! Intanto che cosa era
accaduto? Era accaduto
che i suoi Ministri e il popolo ritenendolo per matto, si erano dimenticati di
lui e avevan dato,
da parecchi anni, la corona reale a un suo parente.
Il Re, infatti, si presenta al palazzo reale colla sposa sotto braccio e i
soldati di sentinella:
- Non si passa! Non si passa!
- Sono il Re! Chiamate i miei Ministri!
Che Ministri? I vecchi eran morti e quelli del nuovo Re lo lasciavano
cantare.
Si rivolge al popolo:
- Come? Non riconoscete il vostro Re?
Il popolo gli ride in faccia e non gli dà retta.
Disperato, ritorna al campicello, dal contadino. Dov'era il pagliaio, vede,
con sorpresa, un
palazzo che pareva una reggia. Monta le scale, e invece del contadino, gli viene
incontro un bel
vecchio con tanto di barba bianca: era il gran Mago Sabino.
- Non ti scoraggiare! - gli disse questi.
E lo prese per mano, e lo condusse in una magnifica stanza, dove c'era un
catino pieno di acqua.
Il Gran Mago afferra quel catino e glielo riversa sulla testa, e il Re, da
un po'
invecchiato che già era, rinverdisce, a un tratto, di vent'anni.
Allora il vecchio:
- Affàcciati a quella finestra, suona questo zufolo e vedrai.
Il Re si affaccia, si mette a sonare, tì, tìriti, tì, ed ecco un
esercito armato di tutto punto, fitto
come la nebbia, su pei colli e per la pianura. Intimata la guerra, mentre i
soldati combattevano lui, in
cima a un poggio, sonava tì, tìriti, tì, senza cessare finché la battaglia
non fu vinta.
Tornò a palazzo reale vittorioso e trionfante, perdonò a tutti, e
all'occasione dei suoi sponsali
diè un mese di feste per tutto il regno.
E presto ebbe un erede;
E noi scalzi d'un piede.
TESTA-DI-ROSPO
C'era una volta un Re e una Regina. La Regina partorì e fece una bambina
più bella
del sole. Insuperbita di questa figliolina così bella, spesso diceva:
- Neppur le Fate potrebbero farne un'altra come questa.
Ma una mattina, va per levarla di culla e la trova contraffatta, con una
Testa di rospo.
- Oh Dio, che orrore!
Benché fosse figlia unica e le volesse un gran bene, quella Testa di rospo
le facea schifo, e
non volle più allattarla.
Il Re, angustiato, disse a un servitore:
- Prendila e portala giù; mettila fra i cagnolini figliati dalla cagna. Però
se morisse, sarebbe
meglio per lei!
Non morì. La cagna, tre, quattro volte il giorno tralasciava di dar latte ai
cagnolini, e porgeva le
poppe a Testa-di-rospo. La leccava, la ripuliva, la scalducciava tenendosela
accosto, e non
permetteva che alcuno stendesse la mano a toccarla.
Quando il Re e la Regina scendevano giù per vedere, la cagna ringhiava,
mostrava i denti; e
un giorno che la Regina fece atto di voler riprendere la figliuola, le saltò
addosso e le morse
mani e gambe.
Testa-di-rospo nel canile prosperava. Quando crebbe, non volle più
lasciarlo. Durante la giornata
abitava su nelle stanze reali; pranzava a tavola col Re, colla Regina, con
tutta la Corte,
e prima di toccar le pietanze, metteva da parte i meglio bocconi; poi ne
riempiva il grembiule e
scendeva giù, nel canile.
- Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi!
La notte dormiva lì, con mamma cagna. Non c'era mai stato verso di indurla a
dormire nel suo
letto.
La Regina, sentendole ripetere ogni giorno: - Mamma cagna, mangiate; la mia
vera mamma
siete voi! -, cominciò a odiarla terribilmente, come se non fosse stata sua
figliuola.
E una volta disse al Re:
- Maestà, no, costei non è la nostra figliuola. Ce la scambiarono quand'era
in culla. Che ne
facciamo di questo mostro? Io direi di farla ammazzare.
Il Re non ebbe animo di commettere questa crudeltà:
- Mostro o non mostro, è una creatura di Dio.
Talché la Regina giurò di disfarsene in segreto.
E che pensò? Pensò di dar ad intendere al Re che era nuovamente gravida e,
quando fu l'ora,
gli fece presentare una bambina nata di fresco, che lei aveva fatto comprare a
peso d'oro in un altro
paese.
Il Re fu molto contento; e alla bambina mise nome Gigliolina; perché era
bianca come
un giglio.
Allora la Regina gli disse:
- Ora che abbiamo quest'altra figliuola, che ne facciamo di quel mostro? Io
direi di farla
ammazzare.
Per amore di quest'altra figliuola, il Re, benché a malincuore acconsentì.
Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla soglia
del canile
trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti.
E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori.
- Perché non vieni fuori?
- Perché mi farete ammazzare.
- E chi ti ha detto questo?
- Me l'ha detto mamma cagna.
La Regina, maliziosa, voleva indurla colle buone:
- Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è
nata.
- Sorellina non me n'è nata,
A peso d'oro fu comprata.
Mamma cagna, mamma cagna,
Siete voi la vera mamma.
- Che significa? - domandò il Re.
- O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia.
Ma il Re disse:
- Chi tocca Testa-di-rospo l'ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una
creatura di Dio.
Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima.
La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere ad una
Strega:
- Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev'essere
incantato: deve bruciare
addosso a chi se lo mette.
- Fra un anno li avrete.
In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due
figliuole; anzi, se
comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello
per Testa-di-rospo.
La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare:
- Quello lì lo voglio io!
E Testa-di-rospo glielo dava.
Passato l'anno, la Regina tornò alla Strega.
- Maestà, i vestiti sono pronti; ma badate di non scambiarli. Per non
sbagliare in questo incantato
ci ho messo un diamante di più.
- Ho capito.
Chiamò le due figliuole e disse:
- Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo
è il tuo, Testa-di-rospo.
Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n'era uno di
più, comincia a strillare:
- Quello lì lo voglio io!
La Regina non permise che lo toccasse.
Intanto la Gigliolina continuava a strillare, e pestare coi piedi:
- Quello lì lo voglio io! Quello lì lo voglio io!
Accorse il Re e disse:
- Non ti persuadi che quello è un po' più grande? Provalo, e vedrai.
E stava per infilarglielo.
- No, Maestà - disse Testa-di-rospo.
Vestito bello, fatto da poco,
Vestito nuovo fatto di fuoco,
Mamma cagna, mamma cagna,
Siete voi la vera mamma.
- Che significa? - domandò il Re.
- O che gli date retta. Testa-di-rospo parla da bestia.
Ma il Re disse:
- Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera
Reginotta, perché nata la
prima.
La Regina, arrabbiata per quest'altro smacco, non sapeva più che inventare.
E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a Corte il Reuccio del
Portogallo,
che andava cercando una Principessa reale per moglie.
La Regina disse al Re:
- Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà.
Il Re, per contentarla, rispose:
- Sia pure.
Il Reuccio voleva visitare le Principesse negli appartamenti ov'esse
abitavano; e la
Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La
Gigliolina,
vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella.
Il Reuccio disse:
- É mai possibile che l'altra Principessa sia bella quanto questa? Andiamo
a vederla. Ma
dove andiamo?
- Nel canile. L'altra abita nel canile.
Il Reuccio, stupito, scese giù insieme col Re e con la Regina, e trovò
Testa-di-rospo nel
canile:
- Reuccio, entrate voi solo; c'è posto soltanto per uno.
Il Reuccio entrò, e Testa-di-rospo chiuse lo sportello.
Mamma cagna si accovacciò lì dietro, ringhiando.
Aspetta un'ora, aspetta due, il Reuccio non compariva. La Regina, sopra
tutti, era
impaziente pel ritardo:
- Chi sa che brutto scherzo Testa-di-rospo stava per farle!
Il brutto scherzo fu che il Reuccio, uscito dal canile, disse al Re:
- Maestà, vi chieggo la mano di Testa-di-rospo.
La Regina non rinveniva dallo sbalordimento:
- Ma che cosa avete fatto tante ore lì dentro?
- Ho visitato tutto il palazzo. Di fronte al palazzo di Testa-di-rospo, il
palazzo reale sembrerebbe
una stalla.
Il Re e la Regina si guardarono, meravigliati.
- Reuccio, dite davvero?
- Dico davvero.
La Regina dovette inghiottire quest'altra pillola amara, e che pensò? Pensò
di accertarsi coi
suoi occhi di quello che il Reuccio aveva detto:
- Testa-di-rospo, vorrei vedere il tuo palazzo.
- Maestà, quel canile lo chiamate palazzo?
- Testa-di-rospo, una notte vorrei dormire con te.
- Chiedetene il permesso a mamma cagna: è lei la padrona.
La Regina andò a trovare mamma cagna:
- Mamma cagna, vorrei visitare il vostro palazzo.
- Bau! Bau!
- Che cosa dice?
- Dice di sì.
- Mamma cagna, una notte vorrei dormire con Testa-di-rospo.
- Bau! Bau!
- Che cosa dice?
- Dice di sì.
La Regina, per entrare nel canile, dovette quasi piegarsi in due.
- Ed è questo il tuo gran palazzo?
- Questo: non ve lo dicevo?
La Regina, indispettita, uscì fuori brontolando contro il Reuccio, che le
avea dato ad
intendere tante sciocchezze; e appena fuori, cominciò a sentire per tutto il
corpo un brulichio e un
brucìo insoffribile. Era, da capo a piedi, ripiena di pulci; e, siccome montava
a corsa le scale e
scoteva le vesti, ne seminava per terra cataste che annerivano il pavimento.
Così per le stanze del palazzo; ma più scoteva e più gliene brulicavano
addosso e se la rodevano
viva viva.
In un momento, Re, ministri, dame di Corte, gente di palazzo, tutti si
videro assaliti da
quelle bestiole affamate, che davano morsi da portar via la pelle; e tutti
urlavano:
- Accidempoli alla Regina che volle entrare nel canile!
Il Re corse subito da Testa-di-rospo:
- Figliuola mia, dàcci aiuto!
- Mamma cagna, dategli aiuto!
Mamma cagna si mise a girellare per le stanze:
- Bau, bau! Bau, bau!
E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei.
La Regina non si stimò castigata abbastanza e insistette:
- Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te.
- Maestà, in un giaciglio!
- Per una volta, potrò provare.
Si acconciò alla meglio, e finse di dormire.
- In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo.
Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e
rimase
abbagliata.
Avea davanti una fila di stanze, così ricche e così splendide, che quelle del
palazzo reale, in
confronto, sarebbero parse vere stalle; e Testa-di-rospo che dormiva, in
fondo, sopra un letto
lavorato d'oro e di pietre preziose, con cortinaggi di seta e lenzuola bianche
più della spuma.
E non aveva più quella schifosa Testa di rospo; ma era così bella, che, al
paragone, la
Gigliolina, bella e bianca come un giglio, sarebbe parsa proprio una megera.
Accecata dal furore, la Regina pensò:
- Ora entro, e mentre dorme, la strozzo colle mie mani.
Ma il muro si richiuse a un tratto, e lei vi batté la faccia e si ammaccò il
naso.
Senza aspettare che facesse giorno, tornò su in camera.
Sentiva nelle carni un brucìo, un gonfiore!... Stende una mano, e si scorge
che, da capo a
piedi, era piena di zecche.
Si sveglia il Re: è pieno di zecche anche lui.
Si svegliano i ministri, le dame di Corte, insomma tutte le persone del
palazzo reale; son
tutti, da capo a piedi, pieni di zecche; e, dal prurito e dal dolore, non
possono reggere:
- Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!
Il Re corse di nuovo da Testa-di-rospo.
- Figliuola mia, dàcci aiuto!
- Mamma cagna, dategli aiuto!
Mamma cagna, Bau, bau! No, no! Non ne vuol sapere.
- Figliuola mia, dàcci aiuto!
Che aiuto poteva dargli? Mamma cagna rispondeva sempre:
- Bau, bau! No, no!
Intanto tornava il Reuccio per sposare Testa-di-rospo.
Tutti erano occupati a tagliar le zecche, colle forbici, perché strappare non
si potevano;
facevano più male. E più ne tagliavano e più ne rimaneva da tagliare:
- Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!
Allora il Re montò in furore. Afferrò la Regina pel collo, e disse:
- Trista femmina, che cosa hai tu fatto, da attirarci addosso tanti guai?
La Regina non ne poteva più e confessò ogni cosa: che avea detto come le
Fate non
potrebbero farne una pari; che avea comprato quella bambina a peso di oro; che
avea fatto fare il
vestito incantato per bruciare viva Testa-di-rospo.
- Ora son proprio pentita, e domando perdono alla Fata!
Disse appena così, che alla Reginotta cadde giù quella schifosa Testa di
rospo, e la
Gigliolina si trovò vestita come una figliuola di contadini, qual era. La
Reginotta splendeva
come il sole, sicché, per guardarla, bisognava mettersi una mano agli occhi. Le
zecche erano
sparite, e non se ne vedeva neppure il segno.
Il Reuccio di Portogallo e la Reginotta si sposarono; e se ne stettero e
se la godettero
e a noialtri nulla dettero.
TOPOLINO
C'era una volta un Re, che più non viveva tranquillo, dal giorno in cui una
vecchia indovina
gli aveva detto:
- Maestà, ascoltate bene:
Topolino non vuol ricotta;
vuol sposare la Reginotta;
E se il Re non gliela dà,
Topolino lo ammazzerà.
Il Re consultò subito i suoi ministri; ed uno di loro disse:
- Maestà, è mai possibile che un Topolino voglia sposare la Reginotta? Io
credo che
quella donna si sia beffata di voi.
Ma gli altri non furono dello stesso parere.
- Per evitare la disgrazia, bisogna distruggere tutti i topi del regno, mentre
la Reginotta
trovasi ancora nelle fasce.
Perciò il Re messe fuori un decreto:
- Pena la vita a chi non teneva uno o più gatti, secondo che avesse casa o
palazzo. Chi
ammazzava cento topi diventava barone.
Il Re diè l'esempio egli il primo; e il palazzo reale fu pieno di gatti,
tenuti assai meglio dei
cortigiani e anche dei ministri. Inoltre, a tutti gli usci venivano appostate
guardie con una granata in
mano, invece di sciabola, che dovevano gridare all'armi appena visto un topo.
Sulle prime, con quella caccia ai topi per diventare barone, fu uno spasso per
tutto il regno.
Il Re, ogni volta che gli portavano al palazzo un centinaio di topi uccisi,
traeva un respiro dal
profondo del petto.
- Voi siete barone!
- Che mi vale, Maestà, l'esser barone, se non ho da mangiare? - disse una
volta un contadino,
che, invece di cento, ne aveva portati un mezzo migliaio.
- É giusto - rispose il Re.
E gli fece un bel regalo.
Saputasi la cosa, tutti quelli che accorrevano al palazzo reale, ripetevano la
stessa storia:
- Che mi vale, Maestà, l'esser barone, se non ho da mangiare?
Ma il Re, ch'era un po' tirchio, si seccò presto a dover far tanti regali; e
all'ultimo rispose:
- Il decreto dice soltanto: sarete baroni.
E il popolo ne fu scontento; molto più che, con tutti quei gatti per la casa,
i quali miagolavano da
mattina a sera, si viveva una vitaccia d'inferno. Ma Sua Maestà ordinava
così; era forza
ubbidirgli!
Da lì a qualche anno, non si trovava un topo in tutto il regno, neppure a
pagarlo un milione.
Il Re già cominciava a rassicurarsi; e siccome la Reginotta era cresciuta,
egli pensava di
darle marito. Parecchi Principi l'avevano chiesta. Ma la Reginotta, quasi lo
facesse a posta,
a ogni domanda di matrimonio, rispondeva:
- Maestà, chiedo un altr'anno di tempo.
Intanto era accaduto questo: in un paesotto del regno, nascosto fra le
montagne, una povera
donna aveva partorito un bambino mostruoso, col viso d'Uomo e il resto del
corpo di vero
Topolino, con le sue zampine e con la sua codina.
Al vederlo, la mamma e la levatrice rimasero trasecolate: e la levatrice, che
provava ribrezzo a
toccare quel mostricino, aveva consigliato di soffocarlo.
La mamma non n'ebbe il cuore, e pregò:
- Non ne fiatare con anima viva, comare!
Infatti nessuno ne seppe nulla; e il bambino crebbe vegeto e vispo da quel
Topolino ch'egli
era. Camminava su due gambe, come un Uomo; solamente la mamma lo vestiva in
maniera, che
del suo corpo non si potesse vedere altro che il volto. Alle zampine anteriori
gli metteva sempre i
guanti.
Gli aveva posto nome Beppe, e così lo chiamavano tutti; ma quando non c'era
nessuno, ella,
per tenerezza, lo chiamava Topolino.
- Topolino, fa' questo; Topolino, fa' quest'altro!
E Topolino non le dava mai il menomo dispiacere, e faceva questo e faceva
quello.
- Dio t'aiuterà, Topolino!
E un giorno Topolino disse:
- Mamma, voglio fare il soldato.
La poveretta che gli voleva bene, piangendo rispose:
- Ed io, come rimango sola sola? Ora sono vecchia, e non posso più lavorare.
- Vi lascerò la mia coda. Quando avrete bisogno di qualcosa, direte:
Codina, codina
Servi la tua mammina!
Ed essa vi servirà, come se fossi io stesso in persona. Se non v'ubbidirà,
vorrà dire che in quel
momento io corro un gran pericolo. Allora, lasciatevi guidare da essa e venite a
trovarmi.
Così fece, e partì. Quella coda era fatata.
Al Re era stata mossa guerra da un altro Re, offeso dal rifiuto della
Reginotta.
Uscito, con tutto l'esercito a combattere, in ogni battaglia ne toccava.
Mutava generali, chiamava nuova gente sotto le armi, veniva alle mani, faceva
prodezze
straordinarie, ma rimaneva vinto sempre; e una volta poté salvarsi, scappando
sul suo cavallo a
rotta di collo.
Si presentò Topolino, ch'era alla guerra anche lui:
- Maestà, se mi date il comando in capo, vi faccio uscire vittorioso.
- E tu chi sei?
- Mi chiamo Niente-con-Nulla; ma non vuol dire. Mettetemi alla prova.
- Niente-con-Nulla sia comandante!
I generali dell'esercito credettero che Sua Maestà fosse ammattito:
- Affidare il comando in capo a quel cosino, ch'era davvero Niente-con-Nulla!
Non rinvenivano dallo stupore. Ma quando fu l'ora della battaglia, Topolino
impartì gli
ordini, fece sonare le trombe, e in un batter d'occhio l'esercito nemico fu
spazzato via.
- Viva Niente-con-Nulla! Viva Niente-con-Nulla.
Non si sentiva acclamare altro. Nessuno più gridava: "Viva il Re!", tanto
che Sua Maestà cominciò a esserne seccato, e pensava di levarsi di torno Niente-con-Nulla, che ci
mancava poco non contasse più di lui.
- Come fare per levarselo di torno? Occorreva un pretesto.
Il pretesto lo trovò una mattina, che la Reginotta venne a dirgli:
- Maestà, volete ch'io sposi? Datemi Niente-con-Nulla per marito.
Il Re montò sulle furie. Ma, per far la cosa zitto e queto, deliberò di
sbarazzarsi di Niente-con-Nulla per mezzo del veleno.
Invitatolo a pranzo, verso la fine gli fece porre davanti un piatto d'oro con
su una torta di ricotta
avvelenata.
- Questo piatto è per voi solo, per farvi onore. Niente-con-Nulla,
mangiate.
Ma Niente-con-Nulla, levatosi da tavola e fatto un inchino a Sua Maestà,
rispose:
- Topolino non vuol ricotta;
Vuol sposare la Reginotta!
E andò via.
Il Re e i Ministri rimasero strabiliati:
- Giacché Topolino è lui, - disse un Ministro - facciamolo arrestare,
rinchiudiamolo in
una stanza con tutti i gatti del palazzo reale, e così sarà divorato vivo vivo.
Lo fecero arrestare, lo spogliarono, lo rinchiusero in uno stanzone insieme
con un centinaio di
gatti affamati, e stettero ad aspettare. Quando riapersero la stanza, Topolino
non c'era più. E i
gatti si leccavano i baffi, come se avessero desinato saporitamente.
Il Re, dalla contentezza, ordinò una festa di ballo.
Va per indossare il manto reale, e lo trova interamente rosicchiato dai topi.
I generali, le dame di
Corte, gl'invitati, nel momento d'abbigliarsi per la festa, tutti avevano
trovato le loro uniformi e
gli abiti rosicchiati dai topi!
Ma questo non fu nulla. I Ministri portavano al Re i decreti da firmare;
e, il giorno dopo,
le carte trovavansi rosicchiate proprio dov'era la firma. A poco a poco, nel
palazzo reale, delle
materasse, delle lenzuola, delle coperte, della biancheria, degli arnesi, dei
mobili non rimase più
intatto un solo capo; pareva che un esercito di topi fosse stato a divertirvisi
coi suoi dentini
distruttori. Né valeva il rinnovare ogni cosa; quello che oggi compravano,
domani era bell'e
rosicchiato.
Centinaia di gatti, intanto, passeggiavano su e giù per le stanze, miagolando,
o si stendevano al
sole facendo le fusa. Soltanto i vestiti e i mobili della Reginotta non erano
rosi.
Il Re, i Ministri, tutta la Corte non sapevano dove dare il capo.
- Questa è opera di Topolino!
- Maestà, - disse il Ministro che aveva suggerito di far divorare Topolino
dai gatti - si
costruisca una gran trappola, che abbia l'aspetto della camera della
Reginotta, e cerchisi un
Mago capace di fare una bambola grande al naturale, somigliantissima a lei,
con un congegno
da poter chiamare: "Topolino! Topolino!" con lo stesso tono della voce di
lei. Sono sicuro
che Topolino cascherà nell'inganno. Quando l'avremo in mano penseremo al da
farsi.
L'idea parve eccellente. Senza che ne trapelasse nulla, i magnagni di Corte
costruirono una
trappola, che simulava la camera della Reginotta; e un famoso Mago fece una
bambola
grande al naturale, da scambiarsi colla Reginotta in carne e ossa, e che
diceva: "Topolino! Topolino!" con lo stesso tono della voce di questa. Collocarono la trappola
nel giardino reale,
ed aspettarono fino alla dimane.
Tutta la notte, il congegno della bambola chiamò: "Topolino! Topolino!".
Ma chi sa
dove lucevano gli occhi di Topolino in quel punto?
Per sei notti l'inganno non giovò. Alla settima, il povero Topolino,
lusingato dalla
somiglianza, era accorso alla trappola e c'era rimasto.
Figuriamoci il tripudio del Re e dei Ministri, la mattina quando lo
trovarono acquattato
in un cantuccio presso la bambola!
- Rosicchia, Topolino! Sposa la Reginotta, Topolino!
Lo beffeggiavano senza pietà; e Topolino, acquattato nel suo cantuccio, li
guardava e non
rispondeva nulla.
Giusto in quel giorno, la sua mamma, avendo bisogno d'un servigio, aveva
detto:
Codina, codina,
Servi la tua mammina!
Ma la codina non si era mossa.
- Ah, codina, codina! - esclamò quella mamma desolata: - Topolino è in
pericolo; andiamo
a soccorrerlo, presto!
E si avviarono, la codina avanti, e lei dietro, finché non giunsero alla
capitale del regno e non
entrarono nel giardino reale, mischiati alla folla che accorreva per la
curiosità di osservare
Topolino dentro la trappola. Quel giorno Topolino doveva esser bruciato. La
trappola era
stata unta tutta d'olio e di grasso; s'aspettava il Re e la Corte per
appiccargli fuoco.
La codina spiccò un salto e andò ad appiccicarsi al codone di Topolino.
- Topolino ha la coda! Lascia vedere la coda, Topolino!
E Topolino, che si era subito ringalluzzato, si voltava compiacente e
dimenava la coda come
se non avesse capito la condanna che gli stava sul capo. La gente rideva e
batteva le mani. Ora che
Topolino era cascato in disgrazia, nessuno più si rammentava del bene ch'egli
aveva fatto,
quando si chiamava Niente-con-Nulla: il mondo è così! Al suono delle trombe,
ecco il Re e i
Ministri e la Corte, tutti vestiti in gran gala, preceduti dal carnefice,
con una torcia accesa in
pugno. La Reginotta era rimasta al palazzo.
Il Re, per scherno, allora disse:
- Topolino, prima di morire, che grazia chiedi?
E Topolino, senza scomporsi, rispose:
- Maestà:
Topolino non vuol ricotta;
Vuol sposare la Reginotta;
E se il Re non gliela dà.
Topolino lo ammazzerà.
E si lisciava la coda.
- Date fuoco! - ordinò il Re inviperito.
Ma non appena il carnefice ebbe accostata la torcia alla trappola, ecco che
insieme con la
trappola scoppia in fiamme il trono reale. Le vampe avvolsero il Re e i
Ministri, che non
trovarono scampo.
La gente fuggiva, atterrita; ma Topolino, trasformato in bellissimo giovane,
usciva fuori sano
e salvo.
Agli urli, alle strida, accorse subito la Reginotta; e, visto il disastro,
si mise a piangere:
- Topolino, se mi vuoi bene, risuscita mio padre!
Topolino esitava. Allora si fece avanti sua madre:
- Topolino, te ne prego anch'io, risuscita il Re!
Poteva dire di no alla mamma e alla sua cara Reginotta?
Toccò colle mani il cadavere mezzo carbonizzato del Re, e lo fece
risuscitare. Ma il Re
era diventato un altro. Domandò umilmente perdono del male che gli aveva fatto,
e conchiuse:
- Giacché questo è il volere di Dio, sposatevi e siate felici!
Il popolo fece grandi feste. Dei Ministri bruciati nessuno si diè pensiero.