Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

. - E noi per far tutto questo tramestìo, - disse la Elisa mostrando un gran dispiacere nella voce - abbiam dovuto cambiare alloggio anche noi e andare verso il giardino. - Povera ragazza, guarda mò, - fece ridendo il marchese d'Arco - dover cambiare alloggio! - E non abbiamo tenuta neppur una straccia di finestra verso strada. - Ah capisco ora! Neppur una straccia di finestra verso strada! - Stare sul Corso e non poter andare al balcone, la mi concederà marchese che è una condanna.... Io non ho che il giardino da vedere. - Ma il giardino ha anch'esso i suoi meriti! replicò il marchese sorridendo. - Questa primavera vedrai a sbucciar i fiori, a spuntar l'erba, a fiorire i tulipani. - È vero, - sclamò la Elisa, - ma a me sarebbe piaciuto di più il poter vedere fiorir le rose in giardino.... - E spuntar i tulipani sul Corso? - domandò ridendo il marchese. E, quasi per farsi perdonare la facezia un po' ardita, soggiunse subito: - Basta! Non vedo l'ora di abbracciarlo quel caro ragazzo! - Oh marchese! - sclamò la fanciulla. - Ora non è più tanto un ragazzo. Ha quasi ventun anni ora. Cinque più di me. - È vero! Sono tre anni ormai ch'io non lo vedo più. - E che ne dice marchese di quel barocco d'un testamento di suo padre? domandò la signora Martelli. - Che vuole mai che le dica, cara signora? Quel povero conte Guglielmo era fatto così. Una testa debole, che non calcolava mai gli effetti delle sue azioni; pur di assecondare i moti dell'animo dispotico e pieno di ghiribizzi egli non badava a nulla. - Ah, lei lo deve sapere, che fu tanto amico della povera contessa! Il marchese mise un sospiro, e quasi per stornar l'attenzione da quella frase, ripigliò: - A che ora crede lei che potrà arrivare l'Enrico? - Io dico che sta per arrivare fra mezz'ora - sclamò la fanciulla. - Lo sento quì! - E posò la destra sul cuore. - Ma zitto Elisa! - La lasci dire. È così bella l'ingenuità a quindici anni. - E quattro mesi! - sclamò la Elisa. - Oh, ma non la creda poi tanto ingenua, sa? - fece ridendo la madre. - È un capetto, mah! - Senti Elisa? Tua madre dice che sei un capetto.... mah! - Miracolo che questa volta non abbia aggiunto anche l'ameno! Il marchese rideva. - Dunque io ripasserò stasera, - soggiunse egli - e se l'Enrico arrivasse prima, gli dica di venir subito da me a farsi vedere. Sans adieux E tu Elisa ricordati di voler un po' di bene anche a questo povero vecchio che te ne vuol tanto! - Oh, anch'io, anch'io, caro marchese, - rispose con espansione sincera la fanciulla. - Ora andiamo a vestirci subito, - disse la madre quando il d'Arco fu uscito, - che non abbiamo tempo da perdere se non vogliamo saltare la messa. La Elisa era un capetto davvero. Un tipo di fanciulla più simpatica, più piccante, più piacente di lei non lo si potrebbe imaginare facilmente. Dove diamine la signora Eugenia ed il notaio Martelli fossero andati a pescar tanto spirito, per dare vita a quella loro creatura, è un mistero! La signora Eugenia era infatti una eccellente madre, una buonissima donnetta, una moglie irriprovevole, ma sgraziatamente peccava assai nel fisico; quanto al padre era sgraziato nel fisico e nel morale. La Elisa appariva come la perfetta antitesi de' suoi genitori. Sua madre era piuttosto piccola e tozza, Elisa era slanciata e svelta come un giunco odorato. Sua madre era scarsa d'ingegno; sua figlia un genietto. Suo padre era taccagno e di idee ristrette; la Elisa era una socialista spiegata senza sapere di esserlo. Forse di lei s'avrebbe potuto dire, come della maggior parte dei figli unici, ch'era un enfant gatè La mamma, le aveva sempre voluto troppo bene, le aveva fatte buone le innumerevoli fantasie, l'aveva sempre accontentata in ogni capriccio e baciucchiata troppo. Ma le madri che amano assai non ci sentono da questo orecchio. Quanto non si è detto contro il soverchio amore di certe madri? Ai fanciulli esse parlano incessantemente e quasi esclusivamente del bel musino, del bel vestitino, delle belle scarpette, e li baciano tutto il santo giorno con tali frenesie di tenerezza, che spesso i bimbi ne scoppiano in pianto. Cari e santi baci quei delle madri! Ma non pensano desse che, a lungo andare, anche quei baci riescono fatali, giacchè stimolando senza posa nei bimbi la delicata innervazione, sviluppano in essi una, per quanto inavvertita, troppo precoce sensualità. Amorevole, ma fatale stupro materno, che già rende colpevole l'adolescenza prima che essa abbia cessato di esser innocente! Le madri romane si guardavano bene dall'insegnare la voluttà del bacio alle loro figliuoline. E quando alcuno lodava la bellezza d'una loro figlia in faccia a lei stessa, quelle madri nobilissime usavano di metter la punta del dito medio sulla lingua e di toccar con quella la guancia dell'adulata quasi a purgarla col materno amore da un maleficio straniero. La Elisa aveva tra le altre cose una voce che agiva voluttuosamente sulla corda sensibile dell'udito. Nessuno ha mai ascoltato le arpe eolie, ma chi ha sentita la voce di Elisa Martelli, giura che non la cambierebbe con quella di un'arpa eolia. E il sorriso? S'ha un bel dire, ma dinanzi al realismo della bellezza e della gioventù restano eterne e immutabili anche le ispirazioni romantiche, alle quali fummo allevati. Elisa quando rideva, rideva tutta, come disse il Dossi, e s'avrebbe detto che facesse una luce maggiore intorno a sè, giacchè, il di lei sorriso alleandosi al nitor dei denti e lampeggiando nelle pozzette delle guancie e raggiando fuori collo splendor degli occhi pareva davvero la circondasse di una gioiosa aureola, che è luce appunto e delle più lucenti! Queste doti, già s'intende, preziose per tutti erano difetti per quella lesina di suo padre. Egli avrebbe amato tanto una figlia belloccia sì... non dico! ma che avesse avuto il suo quietismo nel sangue, che andasse in cucina a sorvegliar la cuoca, che facesse tutti i rimendi alla biancheria e rivedesse i libretti della spesa. Ma non c'era verso, e la mamma su questo la difendeva a spada tratta e qualche volta la si permetteva di ricordare al marito una certa loro speranza, sorta si può dire il giorno stesso della nascita della bambina e nutrita religiosamente in famiglia: - Pensa poi che la Elisa deve essere contessa e milionaria! Era la frase sacramentale, che metteva ogni pace e ogni buon umore in quella casa. Il contino arrivò, come aveva presentito la Elisa, mezz'ora dopo, mentre le donne erano a messa. Montò quattro a quattro i gradini dello scalone, che non aveva riveduto da circa tre anni e tirò il campanello all'uscio di casa sua. Il servitore che venne ad aprirgli non lo conosceva punto. - Chi cerca di grazia il signore? - Il notaio Martelli è in casa? - domandò Enrico con un mesto sorriso. - No signore, - rispose l'altro, - il signor cavaliere Martelli è uscito. Enrico si fece conoscere. Entrò, andò difilato alla camera dove era morto suo padre, e vi si rinchiuse. Poi mezz'ora dopo cogli occhi rossi di pianto, si fece portar nascosto in una carrozza al cimitero per visitare il luogo dov'era stato sepolto. Di ritorno a casa Enrico trovò il notaio Martelli suo tutore, che lo aspettava per abbracciarlo. Prima che questi tornasse a casa dal cimitero, il notaio avendo udito dal portiere, come il contino fosse arrivato, era salito frettoloso le scale, ed entrato in anticamera: - Dov'è dov'è questo ragazzo? - aveva sclamato, non pensando che il ragazzo s'era fatto ormai un uomo di quasi ventun'anni. - È andato al cimitero - gli rispose il servitore. - Ah, povero figliuolo!... È vero! Bravo, bravo! Così dicendo, attraversò l'anticamera ed entrò in uno studio attiguo, dove era solito stare qualche ora del giorno a sbrigare le faccende della tutela. - Dì un po' - ruppe a dir egli quando fu seduto allo scrittoio rivolto al Leopoldo - sei stato dal Saulino? - Sì, signor cavaliere. - Cosa ti disse? - Che verrà qui lui dopo pranzo. - E dal Sala? - Anche. - E quello che cosa ti rispose? - Mi disse che ora non ha voglia di comperare carrozze usate. Ma stamattina è stato qui un signore a vederle in rimessa e ha fatto un'offerta. - Quanto? - Mille lire. - Non c'è male. Si può cederle a questo prezzo, mi pare. - La scusi signor cavaliere se metto il naso anch'io in questa materia. È solo per avvertirla che lo steage è quasi nuovo, perchè l'ha fatto fare l'anno scorso il signor conte e l'ha adoperato non più di otto volte in tutto l'anno. - Ebbene? - Ebbene dico che si potrebbe tenerlo, ora che è arrivato il signor contino. È un legno del buon genere. - Che cosa? Buon genere? Bagattelle! Quest'è una parola inventata adesso. A' miei tempi non si parlava punto del buon genere. "Sicuro. Quando regnava Carlo V" pensò tra sè il Leopoldo. - Io di carrozza non me ne intendo una maledetta - continuò il notaio - ma se questo steage è quel demonio di un carrozzone coi sedili fin sull'imperiale come una diligenza.... - Sì, sì, proprio quello! - Allora ti dico addirittura di mettere da parte il pensiero, perchè a trascinare quella macchina non ci vorranno meno di due cavalli.... - Come due! La dica pur quattro. - Figuratevi! No, no, no, vendiamolo subito. - Lei signor cavaliere vorrebbe forse che il signor contino tenesse meno di quattro cavalli in scuderia? - Ma che quattro, ma che tre, ma che due! - sclamò il notaio vivamente. Adesso so che è di gran moda un legnettino leggero da un cavallo solo. Tanto più per un giovinetto della sua età. Bagattelle, anche troppo! - La mi scusi don Ignazio - disse il palafreniere con voce insinuante - ma anche volendo tenere un cavallo solo da tiro ce ne vorrà sempre almeno uno di cambio e uno da sella. - Ma che cambio, ma che sella! - sclamò il notaio inviperito. - Il cambio è perfettamente inutile, perchè se quell'altro fa il suo servizio bene, il cambio resterebbe in stalla a mangiar fieno e biada a tradimento. E quanto a quello da sella si può scusare con un cavallo a doppio uso. "Bazzica!" pensò il Leopoldo. "Come il curato di Cilavegna!" E non disse più nulla, giacchè cominciò a mulinare come qualmente per rubare la biada ad un cavallo solo non gli sarebbe più convenuto di star in quella casa, - Dunque? - domandò il notaio. - Ma ecco, se il signor cavaliere mi permette di parlare. - Te lo permetto. - Le faccio presente che se il cavallo a doppio uso si ammalasse.... - Oh, allora poi, bagattelle, si va un po' anche a piedi... pedibus pedibuscalcantibus pedibuscalcantibus"Ah sicuro!" pensava fra sè quello scorbellato di Leopoldo, "un bel paio di scarpe nuove e avanti." - Io sono bene andato a piedi tutta la mia vita! - riprese il notaio. "E sì, che è un cavaliere!" pensava l'altro. - Se poi il mio signor pupillo non volesse proprio degnarsi di andar a piedi ci sono sempre dei buoni omnibus a dieci centesimi. "Ma sì, guarda me! Non ci pensavo. Ci sono questi omnibus? Adoperiamoli." - Qualche volta ci vado anch'io in omnibus; non però quando non ho fretta, perchè allora arrivo prima colle mie gambe. - Lei è il padrone! - conchiuse Leopoldo. - Faccia lei. - Sicuro che debbo far io - sclamò il notaio. - Anzi, ti avviso di non mettergli in testa all'Enrico delle fisime inutili. L'economia è la madre di tutte le virtù, e quando un solo cavallo può far il servizio di tre, non saprei come possa venir in testa ad un cristiano di tenerne tre invece di un solo. Questi cavalli a doppio uso ci sono o non ci sono? Saranno ben stati inventati per qualche cosa, io credo? Adesso chiama la balia, che mi deve dar la nota della spesa della guardaroba. Chi era la balia? Poco prima che il notaio arrivasse a casa, una vecchia sbacando fuori da una scaletta interna, che metteva nelle cucine del palazzo, aveva sclamato tutta intenerita: - Oh, ch'io lo veda questo mio signor contino, ch'io lo stringa ancora una volta al seno prima di morire. Il palafreniere, che aveva condotto il padroncino nella camera del conte padre, pose l'indice attraverso le labbra e additando alla balia la stanza dove era entrato Enrico, aveva risposto: - È là dentro e non vuol essere disturbato. Piange. - Povero ragazzo! - sclamò la balia con amore. - Starò qui ad aspettarlo. Così detto si adagiò, trasse di tasca la corona e cominciò a biascicare orazioni. Ma il palafreniere non le lasciò il tempo di finire il panem nostrum quotidianum che le domandò: - Voi balia che dovete esser vecchia di casa.... - Altro che vecchia di casa! - interruppe questa. - Io sono nata nel castello dei conti O'Stiary, ed erano già sessantanove anni che ci stavo prima di venir giù a Milano. Io ho allattato il povero conte Guglielmo che è morto or ora; e sono stata la balia secca del contino Enrico. - Tanto meglio! Io volevo domandarvi conto di questo signor marchese, che è venuto un'ora fa a a vedere se il contino era arrivato. - Il marchese d'Arco? - Sicuro. Mi pare di aver capito ch'egli abbia un grande attacco pel giovinetto che deve arrivare, e m'è passato per la testa, così per dire a dire, che egli fosse stato l'amante della mamma.... Si sa bene! La balia levò lentamente la testa canuta, con un fiero rimprovero negli occhi: - Dica, signor Leopoldo; la si ricordi che non è di moda in questa casa il fare dei giudizii temerarii. La contessa Irene era una santa donna e il bene che il signor marchese le voleva era come quello che noi altri cristiani vogliamo alla Madonna. - Tanto peggio per lui! - rispose cinicamente il palafreniere. Leopoldo fece entrare la vecchia e don Ignazio stava per interrogarla, quando s'intese il campanello dell'uscio d'ingresso e poco stante comparve sulla soglia dello studio il giovinetto conte. Vedendo la balia, la quale si era voltata al rumor dell'uscio che s'apriva, Enrico le corse incontro, colle braccia tese e le saltò al collo. - Oh Teresa, la mia buona Teresa, quanto tempo che non t'ho abbracciata! Ma poi vedendo il suo tutore, che s'era levato dallo scrittoio e gli si avvicinava colle braccia protese, si staccò dalla balia e andò con premura verso di lui. - Scusami, caro zio, se il mio primo saluto fu per la Teresa, che mi ha veduto nascere e che mi ha portato tanto in braccio. La balia si asciugava col lembo del grembiale i luciconi. - È naturale, caro Enrico - disse il tutore - Guarda che l'hai perfino fatta piangere di consolazione. - La m'ha scusare - fece la balia, colla voce ancora fra le lagrime - ma non avrei potuto far di meno, e ora posso morire contenta. Avevo tanta paura di morire prima di poterla rivedere. - Ma ho da sentir di peggio? - disse Enrico alla vecchia. - Dammi subito del tu come mi hai sempre dato in castello. - Ah caro lei, adesso è impossibile signor conte. Adesso lei è un uomo. - No, no, non importa. Ti comando espressamente di trattarmi ancora come pel passato. Poi si volse al tutore. - Ma sicuro che mi sei diventato un uomo! - sclamò questi, - tu mi mangi la torta in capo ora. Bravo, bravo! Bene bene! E dimmi un poco. Hai già vedute le mie donne? - No, - rispose Enrico, - non mi ero ancora mosso dalla camera del povero babbo. - Sono andate a messa, - disse la balia. - La signorina Elisa non vede l'ora di vederla, aggiunse ella sottovoce, mentre il notaio s'era voltato. - A proposito, - ripigliò questi - tu l'avrai già sentita la santa messa? - La messa? Ma no, a dirti la verità. Sono arrivato di buon mattino, ho viaggiato tutta notte... non saprei neanche dove avrei potuto averla sentita. - Bene, bene, per questa volta...! Oh, dimmi un poco, tu forse non avrai con te altri abiti che questi che hai indosso, non è vero? In ogni modo ti abbisogna un vestito di lutto. - Sicuro! Quando il colonnello mi disse che il babbo era moribondo e mi lasciò partire, fu tale la mia fretta che non ho neppure fatta la valigia della biancheria. Ora bisognerà provvedere subito a tutto, altrimenti non potrei uscir di casa. - Leopoldo, - disse il tutore al palafreniere, - andate ad avvisare il mio sarto che venga qui subito. - Il suo sarto? - domandò Leopoldo con ironia. - Il portinaio di casa...? - Ma sì, ma sì, il mio sarto, - replicò don Ignazio, - ci vuol tanto? Andate. Poi, rivolgendosi all'Enrico continuava: - Non è certamente uno dei primi sarti di Milano, ma è bravino e mi è tanto raccomandato dal preposto della parrocchia. E poi, è tanto discreto nei prezzi. Vedi quest'abito? - Così dicendo voltava al contino le spalle per mostrargli una palandra, verdolina sgualcita sui gomiti, che gli faceva delle pieghe da tutte le parti. - Mi sta abbastanza bene, n'è vero? Ebbene, indovina un po' quanto me lo ha messo fuori, compreso stoffa, fodere, bottoni, guarnizioni, spedizioni, tutto insomma? Enrico conosceva a un dipresso l'umore di suo zio e non fu sorpreso da quella domanda. Si die' a ridere; però rispose: - Caro il mio zio, non me ne intendo davvero. - Ma perchè ridi? Sono cose molto più serie di quello che tu imagini. Me lo ha fatto pagare ventinove franchi. E nota che l'ho già fatto voltare e rivoltare. Enrico era un po' sulle spine. Tutta questa roba gretta, spilorcia, sordida gli faceva provare una specie di angoscia nervosa. S'intese il campanello. - Saranno le mie donne, - disse il notaio. - Vedrai, vedrai anche la mia Elisa che hai lasciata colle vesti al ginocchio, come si è fatta grande e donna. Enrico arrossì. Il nome di Elisa gli aveva dato un tuffo nel sangue. Erano infatti la signora Eugenia Martelli e la Elisa che tornavano dalla messa. Enrico ed Elisa, primi cugini per parte della madre, erano cresciuti insieme e si erano anche picchiati qualche garontolino giuocando a moscacieca nelle anticamere dell'avito palazzo. Enrico quasi non la riconosceva più, tanto s'era fatta grande, bella e vistosa uscendo dall'età ingrata. I saluti, le condoglianze, le frasi scambiate fra di loro son tutte cose che il lettore intelligente imagina da sè. Elisa negli occhi, nel sorriso, nel colorito del viso, bello e innocente, mostrava una felicità così sincera e grande, che non c'era da sbagliarsi. Povera fanciulla! Ella s'era avvezzata già da qualche tempo a considerare apertamente il contino come il suo amante, come il suo futuro sposo. Era una cosa quasi convenuta in famiglia. Sua madre e la balia glielo ripetevano spesso. La balia qualche volta, non ridendo, la chiamava contessina. La mente dell'Elisa, per non dir ancora il suo cuore, era piena dell'imagine di Enrico, bello, giovine, conte, simpatico, ricco. Perchè non l'avrebbe essa desiderato per marito? Del resto l'Elisa non ne sapeva nulla più in là! Dopo una mezz'ora di condoglianze, di domande, di risposte, di progetti, di spiegazioni la signora, Martelli fece all'Enrico l'ambasciata del marchese d'Arco. - Ci vado subito dal povero vecchio. Mi vuol sempre tanto bene? - Oh sì, - disse la Elisa, - come tutti, del resto. La madre diede a sua figlia uno sguardo significante. Di lì a poco la signora Martelli domandò a suo marito se aveva pensato di invitare l'Enrico a pranzo. - C'è anche Aldo Rubieri, che desidera di conoscerlo. - Non faceva però bisogno d'invitarlo, - rispose don Ignazio, - dove vuoi che vada a pranzare oggi se non è con noi? - Aldo Rubieri, il bravo scultore? - domandò Enrico. - Lui! Io gli faccio tutti i suoi affari, - rispose il notaio. - Oh! bravo, bravo, pranziamo insieme - aveva sclamato intanto l'Elisa battendo le palme una contro l'altra. Ma l'esplosione di gioia erasi troncata di botto perchè ella aveva incontrato di nuovo lo sguardo severo di sua madre. - Non vuoi proprio dunque imparare a dissimulare un poco i tuoi sentimenti? - le diss'ella quando furono sole. - Ma che cosa ho fatto poi? Non m'hai detto tu stessa qualche volta che sono destinata ad essere la sua sposa? - Certo - disse la madre - ma se vuoi che egli prenda molta stima di te, è necessario.... - Ch'io finga di non volergli bene? - interruppe l'Elisa. - Non dico questo.... Tu sei sempre estrema nelle tue frasi. E poi pensa che c'è tempo. Egli non ha che ventun'anni. Figurati quanti ne devono passare ancora prima ch'egli abbia l'età conveniente per sposarti. - Ah, non troppo poi! - sclamò l'Elisa con un adorabile atto di sorpresa - io ne ho quasi sedici, sai mamma, e fra quattro anni sarò già vecchia perchè ne avrò venti. - Oh! - sospirò la madre alzando gli occhi alla soffitta, - esse credono di esser già vecchie a venti anni! Un lungo colloquio ebbe luogo più tardi fra il marchese d'Arco e il giovine conte, che era andato in quella stessa giornata a cercare di lui. - Tu sai come ti ha trattato tuo padre? - gli domandò il marchese fissando negli occhi il giovine con molta attenzione. Enrico piegò leggermente il capo sul petto e rispose: - Sì. - E quali sono le tue intenzioni in proposito? - domandò il marchese con una leggerissima emozione nella voce. Tu fra poco in faccia alla legge sarai maggiorenne. E il suo sguardo nelle pupille di Enrico raddoppiava d'intensità. Era ansioso. - Io voglio rispettare religiosamente la volontà di mio padre, - rispose il giovane alzando la testa con molta naturalezza. Il viso pallido del marchese, si illuminò; gli occhi gli si inumidirono. Allungò le braccia e attirò al petto il giovine conte, che non sapeva spiegarsi bene il perchè di tanta tenerezza. A lui pareva una cosa tanto naturale quella di rispettare l'ultima volontà di suo padre! "Bisogna dire - pensò fra sè - che la cosa a Milano non sia creduta molto facile." Anche il tutore il giorno dopo abbordò la questione del testamento. Don Ignazio, più ancora, del marchese, temeva che l'Enrico si ribellasse alla protratta maggior età e volesse tentare la lite, la quale aveva certamente assai probabilità di essere vinta, ma non la certezza. E s'ingannava! A lui pure l'Enrico dichiarò quello che il giorno prima aveva risposto al marchese, intendere cioè di rispettare il testamento, quantunque fosse persuaso che legalmente parlando quella clausola non avrebbe avuta una sanzione! Il cavaliere Martelli era fuori di sè per la gioia. - Che bravo figliolo! Chi l'avrebbe detto! Che bravo figliolo! Allora discorriamo un poco del tuo avvenire - soggiunse egli col suo miglior sorriso. Il ribollimento del suo dolore, fece scoppiar l'Enrico in nuovo pianto. - Via Enrico - disse il tutore tra l'ammirazione e il compatimento - non rammaricarti poi troppo colle tristi memorie. Tuo padre, come pure la tua povera mamma, erano due degne e sante creature che ti stanno guardando di lassù e che ti proteggeranno contro i pericoli della vita. - Son qua, se lo crede necessario, - disse il giovinetto. - Hai tu pensato qualche volta a quello che vorrai farne della tua vita? cominciò a bruciapelo don Ignazio. - Quello che vorrò farne della mia vita? - ripetè Enrico - -ma credo che farò anch'io nè più nè meno di quello che fanno tutti gli altri. - Gli altri, gli altri! - sclamò il tutore con una smorfia - chi sarebbero secondo te questi altri? Enrico fu un poco sorpreso di questa specie di interrogatorio, ma dissimulando rispose: - I miei amici d'infanzia, i giovani della mia età, i miei compagni di collegio... non saprei io... quelli che conoscerò in società... per esempio, mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Ferdinando Sappia che sono maggiori di me, ma che mi volevano tanto bene, e Alfonso Sant'Albano, che veniva sempre a trovarmi, con la sua mamma e con cui giuocavo... ti ricordi zio? precisamente in questo salotto, prima di andar in collegio.... - Ascolta, caro il mio figliolo; questo già non è il momento di farti un predicozzo sui cattivi compagni, però.... - Come! - interruppe Enrico - mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Santalbano sarebbero cattivi compagni? - Non dico questo... non faccio il nome a nessuno io... parlo in generale. Ti basti di sapere che acqua torbida non fa bel specchio. Qui a Milano ci sono dei giovani, così detti del buon genere, che buttano via il tempo, la salute e i quattrini in cavalli, in cene, in ball... in baldorie, in frascherie insomma, e che so io. - Io non ho davvero queste intenzioni - disse Enrico seriamente. - In collegio mi hanno insegnato che cosa si deve fare per diventare un uomo che possa far onore al proprio paese. - Tu mi consoli, caro Enrico - sclamò con giubilo don Ignazio. - Mi piace sentirti a parlare così dei Barnabiti! Enrico sorrise. - Dunque siamo intesi. Ora veniamo alla morale. Tu già non avrai più nessun danaro di quello che ti ho spedito per fare il viaggio. - Non solo non ne ho più di quello, ma siccome, fatto il conto all'ingrosso, quello che tu mi hai mandato non sarebbe stato sufficiente per venire fino a Milano.... - Come! come! Ti sbagli, - Io non volevo farmi vedere a piangere e ho preso un cuppè tutto per me, caro zio. Tu mi hai mandato il denaro misurato per viaggiare nei secondi posti. - Io viaggio sempre nei secondi. - Io no; sempre nei primi. Mi feci dunque prestare duecento franchi da un compagno a cui bisogna li rimandi subito. - Cominciamo male! - disse il tutore grattandosi in capo. - Dunque non hai più neppur un centesimo? - Ma no, caro zio; l'ultima lira l'ho data al facchino, che portò le mie valigie sul legno, tanto è vero che il cocchiere l'ha pagato la portinaia a cui debbo un altro paio di franchi. - Ma caro Enrico, dovevi sapere che non si dà un franco al facchino della stazione. - Non avevo altro. Non potevo farmi dar indietro il resto in spiccioli. - Io ai facchini do sempre dieci centesimi e sono contentoni. - Sarà benissimo. - E poi che necessità di prendere un legno? C'è l'omnibus della stazione, che passa qui davanti alla porta. Enrico cominciava sul serio a inquietarsi. - Ti dicevo dunque - continuava il tutore - che per metterti nella società che conviene al tuo rango e alla tua educazione ci vuole un po' di denaro in tasca. - Lo credo io! - Però, tu non devi aver bisogno di molto. Qui hai il tuo bell'appartamento di sei camere. Hai la balia per la guardaroba e il palafreniere come cameriere e per la scuderia. Colazione, pranzo e vestiario tutto pagato. È un lusso asiatico. Veniamo dunque al concreto e fissiamo questa benedetta cifra dei minuti piaceri, che è lo scoglio più difficile da sorpassare coi pupilli. Quanto ti pare che - È bello? - Sì, è bellino, ma quello che più importa si è che costa poco. Sono quasi certo di portarglielo via per un tozzo di pane. - A chi di grazia? - Ad un mio amico, che è uno dei primi sensali di zucchero e di cacao di Milano. E nota che è a doppio uso. - Chi, il sensale? - No, il cavallo. Egli lo monta e lo attacca alla carrettella. - Mi pare che sarà un po' difficile che lo possa montar io. - Ma perchè? Il mio amico lo montava tutti i dopo pranzo sul bastione, e bisognava vedere che brio. Adesso, povero diavolo, deve come aver sofferto delle disgrazie nel cacao, e gli tocca di vendere il cavallo per pagare i debiti. - Ma è impossibile! - Si può sapere il perchè? - Caro zio, un cavallo che costa un tozzo di pane o è una gran rozza di figura, oppure è tanto vizioso, che mi farà rompere l'osso del collo in meno di quella. - Tutt'altro invece. Vedi come sbagli - sclamò il tutore credendo aver trovata una gran ragione in contrario. - Quel mio amico non si è mai rotto l'osso del collo, quantunque siano già diciotto o vent'anni che lo monta. Enrico scoppiò in una grande risata. Il tutore capì d'aver detta senz'accorgersi una minchioneria. - Venti, e tre di puledro, ventitre per lo meno. Tu dunque zio vorresti darmi il cavallo dell'Apocalisse? Sarebbe più vecchio di me. Se lo montassi mancherei di rispetto al Luogo Pio Trivulzio! - Bene, bene insomma, al cavallo ci penseremo più tardi, - disse don Ignazio levandosi - Oggi siamo intesi; aspettami qui che ti porterò la prima quindicina dei minuti piaceri. - Cento franchi? - Cento franchi. - Basta! Io penso poi che se non mi basteranno tu zio non vorrai mostrarti crudele verso di me. - Crudele no, mio caro Enrico, ma neppur troppo corrente. Ricordati che c'è un limite a tutto e che il mio dovere di tutore e di esecutore testamentario è quello, non solo di conservarti intatta la sostanza, che tuo padre morendo ha affidata alle mie cure, ma anche di aumentarla; perchè devi pensare che, per uscire dalla minorità fissata da tuo padre nel testamento, ti mancano ancora quasi quattro anni. Con tale considerazione era terminato fra tutore e pupillo questo memorabile dialogo, il quale doveva essere, per così dire, la pietra fondamentale d'un edificio destinato a crollare e a cadere a terra in meno appunto di quattro anni. Enrico O'Stiary s'era dato a fantasticare anche lui sul proprio avvenire, e, cosa non molto strana nella sua posizione, s'era sentito invaso, insieme a un certo desiderio di gloria artistica, giacchè egli adorava, la pittura, da una grande voglia di spendere, di brillare, di far la bella vita. L'avvenire? L'avvenire, pensava lui, come quello della maggior parte dei mortali, che non hanno una meta fissa e sicura o che non possedono la forza d'animo che serve a raggiungerla, è in balìa della fortuna; poteva dipendere dalla prima donna che avesse incontrata sul suo cammino, dalla prima amicizia che avesse stretta al club, dal primo avvenimento che gli fosse capitato sulle spalle. Il tutore dal canto suo non aveva già fatto, senza saperlo, il primo passo per riuscire alla di lui più deplorabile rovina finanziaria? Negandogli i mezzi di vivere dignitosamente nella società del suo rango, obbligandolo a far sicuramente dei debiti, fissandogli nella sua gretta ignoranza del mondo, i duecento franchi al mese, non gli apriva forse dal bel principio la strada al disastro? Qualche volta c'è da pensare volentieri che i Turchi non abbiano così gran torto di credere nel destino! La nostra sorte, la nostra felicità, la nostra vita pur anche, non è forse continuamente in balìa del caso? Se il tal dei tali fosse uscito dalla sua porta il tal giorno, del tale anno, soltanto cinque minuti più tardi, avrebbe forse incontrata alla svolta della via quella straniera, che lo colpì di botto, che si fermò a Milano per lui, ch'egli amò come un pazzo, che lo rovinò miseramente e che lo spinse al suicidio? Se quell'altro tal dei tali, invece di tirar dritto per un'altra via avesse dato ascolto all'amico, che lo pregava di svoltare con lui a sinistra e di accompagnarlo a casa, avrebbe forse trovato quei malandrini che lo accopparono quella famosa notte per rubargli il portafogli e l'orologio? E suo figlio, non orfano, sarebbe certo cresciuto un galantuomo, mentre oggi sta a Procida condannato a vent'anni di lavori forzati! Il primo amico in cui s'imbattè il conte Enrico O'Stiary, lo stesso giorno del suo arrivo a Milano, fu il Marchesino Ferdinando Sappia, che venne a cercarlo in casa. - Finalmente! Sai tu che sono ormai più di tre anni che non ci vediamo? sclamò il Sappia contento di riabbracciare il suo giovine amico d'infanzia. - Come ti vedo volentieri, - disse a sua volta Enrico con uguale espansione. Qui il Sappia, vedendo che Enrico era ancora mezzo vestito da garibaldino, gli domandò se non pensava a mutar d'abito e a uscir di casa. - Certamente, - rispose Enrico, - sto aspettando che il sarto mi rechi il vestito nero. - E chi è mai di grazia il tuo sarto? - domandò il marchese, mentre arrovesciava indietro sull'omero con ineffabile garbo la rivolta del suo soprabito da mattino. - A dirti il vero non lo so bene ancora; ma credo non debba essere gran cosa perchè mi pare di aver udito, non ridere! che sia un portinaio. - Un portinaio! - sclamò il Sappia, balzando in piedi come preso da vero spavento. - Tu conte O'Stiary, discendente... - Bene lascia stare la genealogia!... - Vestito da un sarto portinaio come un diurnista del Municipio? Ma è un tradimento, un disonore, un abbominio! - Che importa? Tu sai che io sono un artista! Io non faccio conto di andar attilato come te. - Prandoni mio caro, - gridò il Sappia, continuando colla intonazione semienfatica con cui aveva incominciato. - Fuori di questo non c'è salute. Il Sappia era un di que' giovani, che quando parlano non ascoltano che sè stessi, e non rispondono mai direttamente all'interlocutore. Per essi l'obiezione, l'affermazione e la negazione di quegli con cui stanno a colloquio non esistono. Si capisce che essi non spezzano mai nella mente il filo delle proprie idee; talchè la parte abbondantissima che essi mettono nel dialogo finisce coll'essere un lungo soliloquio, nel quale non trova posto neppur l'ombra del sentimento altrui. - Che vuoi caro Nando - disse Enrico appena potè avere la parola - sono arrivato oggi stesso dopo essere stato per molti anni nei padri barnabiti e per molti mesi volontario in guerra. Sono ignorante come un pilastro di queste cose. Da quest'oggi, se vuoi, io mi metto sotto la tua direzione. Comincerò col licenziare il sarto portinaio. - Il tuo tutore - ripigliò il Sappia - sarà un bravissimo, notaio, ma non può avere pratica di mondo. Guai a te se io non arrivavo da Parigi. - Ah sei stato a Parigi? - Sono tornato l'altro giorno con Filippo Marliani che è fuggito via dalla Nanà, perchè temeva di pigliare una potente cotta. Anzi l'aveva già pigliata! Ma fu bravo e mi diede ascolto. - Nanà? - domandò Enrico curioso come un fanciullo, udendo quel nome muliebre esotico, e vedendo schiudersi con esso un inaspettato spiraglio del mondo delizioso d'amore a cui sognava. - Sì, un'attrice delle Varietès, una cocotte in gran voga... una bellezza superlativa. - Ah una cocotte! - ripetè quasi macchinalmente Enrico. Il Sappia non fe' caso di quell'esclamazione e tirò via. - Guai ti dico se io non giungevo in tempo. Chissà come ti conciavano. E sopratutto non lasciarti abbindolare dalle stupide ragioni di chi ci dà del leggiero e dell'effeminato, perchè spendiamo qualche migliaio di lire più di loro nel vestirci, nel pettinarci, nell'andare eleganti. Mummie costoro! Il vestirsi bene per noi ricchi e nobili è un dovere nè più nè meno di quello del farci la barba tutti i giorni e del curvarci a raccogliere un ventaglio o una pezzuola sfuggiti di mano a una signora. Notisi che tutte queste cose, esposte dal Sappia con una grande volubilità, non erano che teorie; giacchè, quanto a lui, se lo poteva appena appena, schivava di curvarsi a terra per raccogliere il ventaglio di una signora. Enrico cominciava ad ascoltare il Sappia con quel sorriso a mezza strada fra l'ironia e la sazietà; un sorriso che voleva dire: sono anch'io perfettamente del tuo avviso; non c'era bisogno che tu ti sfiatassi a dirmi cose tanto note; sarebbe stato meglio che tu mi avessi risposto qualche cosa di meglio intorno a quella Nanà.... Il Sappia, dopo un altro paio di tirate su quel gusto, trovando, che Enrico era presso a poco della sua statura, lo invitò a scender nel brougham che teneva alla porta per andar da Prandoni a comandar l'abito di lutto. O'Stiary non se lo fece dir due volte e così uscirono insieme. Quando furono seduti l'uno accanto all'altro nel legno, Enrico disse: - Ora tu devi farmi un programma della mia vita. Come passi tu le ore della tua giornata? Ti diverti o ti annoi a Milano? È bella davvero questa vita milanese o c'è pericolo di stancarsene? - Non è certo tutto oro quel che luce; - rispose questa volta il Sappia, che trovava in quella domanda soddisfatto l'amor proprio. - Si stava meglio a Parigi! Però con un poco di buona volontà e con molti danari.... "Ahi," pensò Enrico. - La giornata la si può passare abbastanza bene anche qui senza studiare e senza far della politica, come vorrebbero che facessimo noi giovani i parrucconi e i gazzettieri utopisti, che ci rinfacciano continuamente il dolce far niente. Povera gente! Essi non sanno che non c'è creatura la quale abbia maggior da fare d'un uomo che non fa niente! E la ragione è chiara; siccome la sola religione di costoro è l'interesse, siccome il solo idolo ch'essi adorano è il danaro, così sapendo che in questo paese non si può guadagnar danaro, che facendo l'avvocato o il notaio o il negoziante, essi non vedono che queste professioni. Del resto tu sei dilettante di pittura e questo basta già a darti il diploma di uomo che fa qualche cosa a questo mondo. - Tutto sta che io trovi il tempo di dipingere.... - Tu discendi da un'antica prosapia irlandese, ed è naturale che i tuoi istinti siano più cavallereschi che artistici o letterarii. Ebbene quella tal genìa col pretesto che a Milano nell'aristocrazia ci furono dei Verri, dei Beccaria, dei Borromei, dei Taverna, dei Litta, dei che so io, vorrebbero che tutti noi fossimo scenziati e letterati e che invece di montare a cavallo, tirar di spada, far delle scarrozzate, amar le belle donne, e divertirci a cena avessimo a studiar tutto il giorno e tutta la notte. Non nego che la cosa in massima non sia eccellente, ma più per tutti gli altri che per noi. Noi abbiamo il dovere di non rubar il mestiere a chi lavora per vivere. Le tre sole carriere che ci convengano sono quella delle armi, quella della diplomazia e quella della chiesa. Ma se si può far a meno!... Capisci. Di diventar arcivescovo, per esempio, io non mi sento la foia. - Neppur io. Tu mi consoli - disse O'Stiary. - Intanto per questa sera tu sei sequestrato - continuò il Sappia. Comincerò col presentarti alla mia amorosa. - Chi è? - Una bella ragazza, che non ha altro difetto che una piccola cicatrice in fronte. Le ho già parlato di te e desidera di conoscerti. - Desidera di conoscermi? - sclamò Enrico ridendo. - Sono dunque diventato già un personaggio in poche ore? Ma no, ti sono obbligato riprese facendosi serio ad un tratto. L'imagine casta e nobilissima della sua Elisa gli si era affacciata a un tratto. - Capisco - ripigliò - che con una signorina di questo genere sarei ancora molto imbarazzato e temo di aver l'aria di un collegiale. - Fidati di me. La è una casa deliziosa. Non perchè gliel'abbia montata io... ma ella sa fare, parola d'onore. Sans gêne come lei, che in illo tempore fu barabbina la sua parte. Dopo cinque minuti ti parrà d'essere in casa tua. La si saluta, poi chi non ha voglia di farle la corte non pensa più nemmeno che essa esista. Tu ti sdrai, fumi, parli, leggi, ridi, sfogli degli albums e senti dire delle enormi sciocchezze e dei calembours impossibili che sono anche quelli che fanno ridere di più. - E la ragazza è contenta che la si tratti così? - Contentissima. L'abbiamo lanciata noi? - Dimmi un po'.... E questa Nanà chi è? - Ah Nanà è un prodigio! È una parigina puro sangue! Bella come una leonessa, matta come una Baccante, calda, piena di spirito. Quel povero Marliani, s'io non lo strappavo da lei, ci lasciava la sostanza, la salute e le ossa. - E tu? - domandò il conte. - Oh, io non mi lascio pigliare! Non appena, nel cervello del marchesino Sappia, fu entrata l'idea, che parlando all'amico di quella gran cocotte di Parigi, il proprio prestigio di uomo di mondo ne sarebbe ingrandito di cento palmi, cominciò a lodare e a magnificare Nanà in tutti i sensi. Da sballone d'ingegno, qual era, inventò su di lei cose inaudite e rare. Parlò delle di lei bellezze, del suo treno di casa, delle sue scuderie, del suo modo di ricevere, del suo appartamento. Cose tutte, tranne la prima, che egli non aveva mai vedute, nè conosciute, che per bocca di Marliani. - Imagina una testa - disse a Enrico - che avrebbe fatto delirare Tiepolo, Giorgione e Tiziano insieme; una testa coi capelli color del pomo d'oro pallido, quando è proprio d'oro, quel colore insomma che la scuola veneta prediligeva; capelli che quando glieli scioglievi, andavano giù fino a terra e la celavano tutta intorno intorno, tanto ne era il profluvio. Imagina tutto ciò che v'ha di più bianco e di splendido nei toni della carnagione, che, come puoi pensare dal color dei capelli, è pari a neve, rosata insieme e calda, con dei riflessi d'oro per la lanugine fulva che la ricopre. Imagina delle linee e delle curve sode e belle come non le hanno mai imaginate neppure gli scultori greci, che si crede abbiano dato il non plus ultra della formosità femminile. Tutte queste bellezze di linee e di curve formano un vero incantesimo, caro il mio Enrico. In quanto al morale imagina una buona pasta di fanciulla, piena di cuore, di voglia di far all'amore, allegra, spensierata, alla mano, una vera bambina di diciannove anni, ma che conosce la scuola erotica come una parigina ch'ella è, e che sa mandarti in paradiso o in inferno a tua posta; imagina tutto questo, e avrai una pallida idea di quello che sia la Nanà di Parigi. Enrico ascoltava il Sappia con quel lieve sorriso adolescente che vuol dire un'infinità di cose gravi. In lui esprimeva anche quel non so qual pudore giovanile, che serve a far vibrare più viva nella fantasia quasi vergine le corde della curiosità voluttuosa. Enrico, per conto proprio, avrebbe continuato a parlare tutto il giorno di questa misteriosa e splendida Nanà. - Chi è che vi ha presentati a lei? - domandò infatti con voce tenue, quasi tentasse di non lasciar iscorgere al Sappia ch'egli si interessava enormemente in quel soggetto. A questa domanda il Sappia non rispose subito. Se egli avesse avuto voglia di dire la verità, avrebbe dovuto rispondere a Enrico che la Nanà, lui e Marliani, l'avevano conosciuta da madama Tricon. Avrebbe dovuto raccontare molto volgarmente, che la bella prima sera del loro arrivo a Parigi erano andati a teatro, e avendo veduta figurare, in una rivista, quella stupenda creatura, avevano domandato conto di lei, all'albergo. Che il cameriere aveva loro insegnato di rivolgersi a madame Tricon dove, mediante una trentina di luigi, avrebbero potuto fare la di lei conoscenza. Fi donc doncE avrebbe dovuto soggiungere, che la mattina dopo, da veri viaggiatori meneghini e sfaccendati che in paese straniero non vedono che donne e non pensano che alle donne, erano corsi, coi loro trenta luigi in tasca, da madame Tricon proponendosi di tirare a sorte la primizia di Nanà. Avrebbe dovuto soggiungere che madame Tricon si rallegrò immensamente di vederli, e fece loro una festa spietata, quando s'accorse che erano forestieri: "Perchè, diceva essa, la Nanà è felice d'essere richiesta da stranieri. Dei parigini essa non ne vuol più sapere. Sarebbe capace di morir di fame ormai, piuttosto che venire da me, se io non la assicurassi che chi la cerca non è francese. Voi siete spagnuoli, non è vero? "Italiani - aveva risposto il Sappia." E avrebbe dovuto ricordare che la Tricon, a quella notizia, aveva fatta una piccola smorfia, punto lusinghiera pel suo paese, e aveva subito domandato loro se tenevano in tasca i venticinque luigi necessarii; e che alla loro affermativa aveva soggiunto: "Debbo avvertirli però che ciascuno di loro due dovrà scegliere un giorno diverso dall'altro, giacchè Nanà non acconsente mai di posare due volte nella stessa giornata." Il lettore che avesse bisogno di maggiori schiarimenti sopra codesta madame Tricon non avrebbe che a scorrere la Nanà di Zola, laddove egli accenna di questa signora: "Zoe - la cameriera di Nanà - aveva veduta una ventina di volte madama Tricon venir in casa e parlare qualche minuto misteriosamente colla padrona; ma essa affettava di non conoscerla, e di ignorare completamente quali fossero i rapporti che esistessero fra questa donna e le signorine che pativano asciugaggine di tasche." La povera - dico povera nel senso cristiano - la povera Nanà quando aveva bisogno urgente di danaro ricorreva alla casa di madame Tricon. "Va, va, ma fille! diceva essa fra sè - ne compte que sur toi. Ton corps t'appartient, et il vaut mieux t'en servir que de subir un affront." "Et sans même appeller Zoè elles s'habillait fievreusement pour courir chez la Tricon. C'etait sa supréme ressource aux heures de gros embarras. Trés demandée toujours sollicitée par la vielle dame... elle ètait sûre de trouver là vincinq louis qui l'attendaient. l'attendaient.Ma tutto ciò, che sarebbe stata la pura e nuda verità, il marchese Sappia non poteva nè voleva più dirlo all'Enrico. Egli, per darsi del tono, si era già compromesso; s'era slanciato a dir mille bugie e mille invenzioni sul conto di Nanà. S'era ingolfato nelle regioni iperboliche di una splendida galanteria. Si guardò bene dunque di accennare neppur per ombra nè alla Tricon, nè ai venticinque luigi necessari, nè ad altre simili bagatelle; e invece impacchiuccò ad Enrico una risposta inventata come tutto il resto, e continuò a parlargli di presentazioni fatte sul palcoscenico, anzi nel di lei camerino, da un amico parigino, che aveva entratura nelle coulisses, coulisses,poi di gite in campagna fatte insieme, e di serate al Mabille, e di cene, e di orgie in cui non c'era la benchè minima ombra di vero, ma che a lui pareva lo posassero in faccia ad Enrico su un piedestallo eccelso. Ciò che v'era poi di più piccante ancora in tutto questo, ciò che costituiva un fatto relativamente grave e ridicolo, si è che, lui, come lui, proprio lui, precisamente lui, codesta Nanà non l'aveva proprio mai toccata neppure colla punta del dito mignolo. I due giovinetti naturalmente, là dalla Tricon, avevano tirato le buschette. Se i lettori trovano questo fatto molto choquant non so che farci. E d'altronde nel caso di Sappia e di Marliani tutti i lettori farebbero lo stesso. La sorte aveva favorito il Marliani. La Tricon allora aveva significato al Sappia, che egli avrebbe dovuto rassegnarsi ad aspettar un altro giorno le grazie di Nanà, perchè quella benedetta ragazza non avrebbe mai acconsentito a passar dalle braccia dell'uno in quelli dell'altro. Il Sappia, di malumore per questo sberleffo della fortuna, pure aveva aspettata Nanà là nel salotto della Tricon, per vederla arrivare, e sentir da lei quando fosse stata di comodo di concedergli il rendez vous vousanche a lui. Essa era venuta infatti, tutta bella, fresca e voluttuosa; ma quand'egli aveva tentato di farsi promettere che il giorno dopo sarebbe ritornata per lui, Nanà aveva risposto: "No, caro signore, domani no. Restate voi a Parigi?" "Certamente, siamo arrivati ieri. Io ci starò finchè a voi piaccia di non essere crudele con me." "Allora vedremo, aveva risposto Nanà, la quale, come si sa, abborriva dal cedere per danaro, e lo faceva soltanto nei giorni di grande arsura. - Vi farò avvisare da madame Tricon, se vi piace. Ma non fatemi importunare troppo dalla vecchia, perchè altrimenti non mi avrete mai più!" Il Sappia ridendo si rassegnò ad aspettar il di lei capriccio. Aveva capito che con quella creatura non era il caso di ottener di più, nè colla preghiera, nè colle offerte. Per venti giorni egli s'era recato ogni mattina a trovare la Tricon, la quale dal canto suo andava un paio di volte la settimana a sollecitare la Nanà; sempre invano. Marliani intanto, senza dir nulla all'amico, c'era riuscito invece ad ottenere da lei un secondo rendez-vous, in tutt'altro luogo, e le aveva mandato una bagattella di braccialetto da cinquemila franchi, i quali se li era dovuti far mandar da Milano. La Nanà aveva trovato il Marliani molto simpatico e non s'era fatta pregare molto a concedergli una seconda visita. Quanto a lui, da buon amico, aveva tentato di dissuadere Nanà a dar ascolto al Sappia. Essa non glielo aveva promesso formalmente, ma glielo aveva lasciato sperare. Invece un bel giorno la Tricon mandò un bigliettino al marchese in cui gli significava che la Nanà sarebbe venuta a casa sua quel giorno per lui, ma che aveva messo per condizione il migliaio. Il marchese, contentone, aveva messo nel suo portamonete il biglietto da mille, e alle due ore era là tirato come uno stecco, ad aspettare la bella donna. La sua frègola era al colmo. Il Marliani gli aveva raccontate cose tali di Nanà che il marchesino ardeva, bruciava, e dopo un quarto d'ora aveva già indosso l'agonia. Passarono le due e mezzo, passarono le tre, le tre e un quarto e Nanà non compariva. Madama Tricon si esibì di andar ella stessa a vedere che cosa diamine fosse successo. Mezz'ora dopo tornò a contare che Nanà aveva litigato con Satin, e che non sarebbe venuta; che l'aveva mandata al diavolo lei, la sua casa, gli Italiani, il biglietto da mille e tutti quanti insieme. Il Sappia era dunque partito da Parigi senza poterla biblicamente conoscere. E siccome aveva conservato pel Marliani in fondo al cuore un po' di rabbietta, perchè egli potesse vantarsi d'averla trattata e lui no, giunto in patria gli aveva voltato l'occhio, e dall'arrivo non s'erano più ritrovati. Quanto al Marliani aveva seguíto a malincuore il Sappia. Quella fatale Nanà - quella cocotte da venticinque luigi - lo aveva ammaliato. Le due o tre volte ch'essa s'era concessa a lui per riconoscenza del braccialetto, gli ballavano nella fantasia una ridda di tali memori voluttà, che capiva non l'avrebbero lasciato tranquillo per un bel pezzo. La carrozza era giunta a casa di Sappia. Montati in camera, questi intraprese la metamorfosi di Enrico, vestendolo di nero; poi andarono dal cappellaio, poi dal Mosconi il calzolaio dei nobili, poi dal Prandoni. Enrico tornò a casa all'ora del desinare e pranzò colla Elisa, la quale di quando in quando, allorchè egli le sorrideva, alzava i suoi occhioni innocenti e belli in viso al garibaldino, mentre due altri sguardi, tutt'altro che indifferenti, andavano spesso a impetrare dalla vergine un amichevol occhiata, ch'ella quel giorno si ostinava di non conceder loro. Erano gli sguardi di un altro giovane invitato a pranzo, e che sedeva accanto alla signora Eugenia, uno scultore, che si era fatto conoscere favorevolmente nella Esposizione di quell'anno e che rispondeva al nome di Aldo Rubieri. Verso le otto e mezza il Sappia venne a riprendere Enrico per andar insieme dalla Luisa, alla quale il marchesino passava seicento franchi al mese. Essa abitava un elegante appartamento a primo piano in Via Solferino. Chi era la Luisa? D'onde veniva? Come aveva conosciuto il Sappia? Nel nostro tempo, una ragazza di diciotto anni: come la Luisa, con discreto ingegno, molta malizia, una gran dose di concupiscenza in corpo, e punto quattrini, se fosse rimasta, quel che si dice, una fanciulla onorata lo avrebbe dovuto indubbiamente ai propri genitori. Non è certamente troppo difficile che anche da una famiglia di galantuomini sorta fuori una ragazzaccia che si butti via; ma sarebbe un vero miracolo se in una famiglia viziosa, disordinata e miserabile, ci fosse una creatura che sapesse conservarsi onesta. La Luisa era nata da un padre briccone e da una madre bigotta e quasi cretina. Suo padre faceva un mestiere proibito dal codice, e, quel ch'è peggio, lo faceva colla coscienza tranquilla di chi crede di non commettere azione disonesta. "Un mestiere come un altro" diceva lui. Egli, sostraro fallito, s'era acconciato a diventare fabbricatore di falso coke, che vendeva a certi suoi antichi colleghi, ladri come lui, a non so quanti centesimi il chilogrammo. Il falso coke è composto di rottami di fabbrica, di vecchi mattoni, di calcinacci e di ciottoli fatti cuocere nella pece e simulanti il coke vero. Per certi venditori di carbone è comodissimo. Fa comparir un quintale di combustibile, ciò che, in sostanza, non è più di ottanta chilogrammi. Essi spacciano alle loro pratiche quattro quinti di coke e un quinto di falso coke fabbricato dal babbo della Luisa, e rubano, con un peso perfetto, il quinto sulla differenza. A Parigi questi e simili truffatori sono colti e pagano delle buone multe. A Milano finora nessuno ci ha mai badato, e le stufe a coke milanesi son tutte piene di mattoni e di calcinacci. I primi col dileguarsi della pece che li ricopre, diventano rossi dalla vergogna, i secondi bianchi dalla paura. Prima che giungesse per la Luisa l'età dei desiderî malfrenati e prima che il mal esempio paterno entrasse a guastarne l'indole, già discretamente perversa, la Luisa era un ciuffetto, ma non dava a pensare che sarebbe diventata la birba che diventò. Ella aveva qualche istinto buono; tant'è vero che aveva cominciato fin dai nove anni e senza addarsene, a trovarsi in flagrante contrasto con suo padre per causa di probità. Una sera - ell'aveva appunto nove anni, e andava come piccina a scuola di stiratora - stavano raccolti nella lurida stanzaccia, che serviva di covile a tutti e tre, e il padre si mostrava lieto più del solito. - Che hai Gana? - domandò la madre. - Ho tirato su un bischero al prezzo - rispose il marito fregandosi le mani lorde. - Che prezzo? - Al mio uso carbone. Oggi ne ho venduta una partita a dieci centesimi al quintale più del solito. Ah, fu una gran bella invenzione la mia! - Babbo! - fece la Luisa. - Che vuoi, pettegola? - È vero che il tuo carbone fa peso ma non fa caldo? - Chi te l'ha detto, stupida marmotta, chi te l'ha detto? - gridò il Gana arrovvellato. - Quando i mattoni sono roventi fanno caldo anch'essi. Chi te l'ha detto? - Me l'ha detto la maestra - rispose la piccina. - Dirai alla tua maestra che la vada a pigliar.... La frase, per quanto vera, non può essere ripetuta. Nessuna teoria al mondo potrà fare mai, che essa sia per diventare artisticamente e umanamente presentabile. Ma la Luisa ebbe allora il coraggio di replicar un'idea sentita da sua madre. - Anche la mamma dice, che questo è un rubare alla povera gente. Non l'avesse mai detto! Il Gana prese un bicchiere sulla tavola, e lo scagliò contro la bimba. Il bicchiere si spezzò sulla di lei fronte; uno zampillo di sangue spicciò da un arteria e andò a bagnar la faccia del feritore, che ne restò sconciamente intrisa. La madre svenne di spavento. Questo era stato il primo grave strapazzo, ma non l'ultimo. Quella bestia di un fabbricatore di coke batteva a sangue la Luisa tutte le volte che sentiva di aver torto. Così, imparando da suo padre, già a quattordici anni ella avrebbe potuto aspirare alla cerchia dove Dante condannò i violenti. Di lì a poco la Luisa s'era già concessa per semplice curiosità, senza lotta e senza amore, al primo scapestrato, che le aveva offerto un anellino e una cena al veglione. Costui veniva spesso dalla maestra stiratora a raccomandarle di dar l'amido più denso o meno azzurrino ai manichini e ai solini da collo. Un giorno regalò alla Luisa uno spillone d'acciaio in forma di stiletto per fermare il profluviante volume de' suoi capegli castagni. La Luisa aveva usato di quello stiletto per ferire malamente una compagna, di scuola, spintavi da subitaneo furore di gelosa picca. L'educazione paterna portava già i suoi frutti cruenti. Quella ferita, fatta in corpo scrofoloso e affetto da lue ereditaria, aveva tratto al sepolcro quella misera compagna, e la Luisa era stata condannata a due anni di carcere in grazia dell'età adolescente e della nessuna premeditazione. In carcere essa aveva compiuta la sua educazione di mariuola e quando ne uscì, ell'era in tutto il rigor del termine, una birba sconsacrata. Immaginatevi ora una fanciulla di diciasette anni bella, poltrona, lasciva, scorbellata, che esce di prigione e che non vuole nè può tornare in casa paterna, dove non è rimasto che un babbo, ancora più briccone, più scioperato e più lascivo di lei. Sua madre, nel frattempo era morta; le anime buone, dicevano di crepacuore, le sue più intime amiche dicevano di catarro. Dal carcere, finita la pena, alla Luisa era toccato di andar difilato alla Questura; e più precisamente a quella sezione dell'ufficio, che provvede alla sanità pubblica e che ha l'incarico di sorvegliare la condotta delle fanciulle, che non avendo di che vivere, non pensano a mettersi un ditale sul pollice e un ago fra le dita. Là le venne domandato naturalmente, che cosa intendesse di fare della sua vita e in qual modo contasse provvedere alla propria esistenza? - Me lo dicano loro! - rispose la Luisa. - Io non lo so. - Noi non possiamo dir niente - rispose il delegato con un sorriso eloquente. - Noi siamo qui per sentire e non per insegnare. Non facciamo il maestro di scuola noi. Bisognerebbe però che prima di tutto tu ti trovassi un qualche galantuomo che venisse qui a rispondere per te. Allora saresti fuori immediatamente da tutti i fastidî. "Bravo - pensò la scorbellata - vuole dire ch'io mi faccia mantenere." - Ma dove vado a pescarlo, così sui due piedi, un galantuomo che voglia rispondere per una povera tosa che esce di prigione? - Prima di entrarci in prigione un amante lo avevi pure! - disse il delegato. - Ma ora non c'è più. Ha pensato bene di buttarsi nel tombone di San Marco, perchè era troppo contento d'esser venuto al mondo. - Cerca qualcun altro allora. - A questo c'avevo già pensato anch' io - riprese la Luisa - ma intanto, come faccio a vivere? - Ti sentiresti di poter tornare una buona figliola? - In che modo buona figliola? - Mettendoti ancora a lavorare! - Io sì - rispose la Luisa, mentendo; giacchè nel suo interno era g'ià scoppiato invece un no risoluto e indiscutibile - Ma dov'è che potrei trovar da lavorare? Se me lo procurano loro lo piglio, se no, non saprei. - T'ho già detto, cara mia, che noi non facciamo di questi uffici. Non eri tu prima da una stiratora? - Oh, come lo sanno loro? - Noi si sa tutto. Tu eri già sul nostro libro prima di andar in prigione. Tu frequentavi le sale da ballo e qualche altro luogo anche peggio. Non è vero? "Ho capito" - pensò fra sè la Luisa. - Va a vedere se la tua antica maestra la ti volesse ripigliare. È una buona donna. - Io no, vede, e lei? Mi canzona? Dopo quello che è accaduto là in quella stanza? L'imagine della ferita, del sangue, delle grida e di tutto il trambusto ch'ella aveva suscitato il fatal giorno, le si affacciò con brusco assalto e impallidì. Il delegato capì e non insistette. - Vedi che cosa vuol dire a fare delle brutte azioni? - Ora quel che è stato è stato; la brutta azione me l'hanno anche fatta pagare carne salata, me l'hanno fatta. - Ricordati che sarai tenuta d'occhio dalle guardie. - Questo lo so senza che me lo dica. Se non ha altri moccoli, perch'io m'aiuti, posso fallare a morir di fame. - Cercati lavoro e non andar in volta di sera e ben poco anche di giorno. Capisci? - Già, e il lavoro verrà da sè stesso a cercarmi a casa mia, n'è vero, il lavoro? E intanto come farò a vivere? - Questo ti riguarda, Arràngiati. Arràngiati.La Luisa continuava a far l'innocentina. - Cosa vuol dire arràngiati? arràngiati?- Non so nulla. Ma ricordati di non lasciarti trovar sola a scopar la strada, specialmente dopo il tramonto, se no le guardie ti arresteranno e ti condurranno qui da me. - Me l'ha già detto e ripetuto tre volte a quest'ora. E nella sua testa la Luisa aveva cominciato a mulinare al mezzo di far cascare il delegato in una frase scandalosa. Ella si sentiva in confuso, una gran voglia di far risaltare la così detta immoralità nella bocca di quell'impiegato dei Governo. Voleva che fosse proprio lui a dirle di pensare a vendersi senza tanti scrupoli, e a fare la sgualdrina. - Io le torno a domandare chi è intanto che mi darà da mangiare? - Oh! - scoppiò finalmente a dire il delegato che non sospettando non stava in guardia, ed era anche un po' ammaliato dal bel viso di lei - credi tu che io sia un imbecille, da venir qui a farmi la bambina, dopo essere stata due anni in prigione? Chi t'ha a dar da mangiare? Ma, il primo messere che abbia due occhi in capo, dieci lire al giorno da spendere... sacrr... - e qui giù una specie di bestemmia da regio impiegato - e a cui piaccia il bel sesso. E quando il messere sarà deciso a fare sicurtà per te, conducilo qui che io ti cancellerò subito dal libro. - Ora sono soddisfatta - sclamò la Luisa che c'era riuscita. - Basta così! Il delegato, che la guardava con compiacenza, s'accorse allora dal sorriso maligno di lei, ch'ella era persuasa d'aver riportata su di lui una piccola vittoria. Essa c'era riuscita! E infatti pensava lei a un dipresso: "È il direttore d'una sezione di Questura, è il rappresentante della morale pubblica, è l'ufficiale del governo italiano che m'ha detto di andar alla perdizione. Io farò il mestiere per obbedire al commissario. Se fosse altrimenti, egli penserebbe piuttosto a procurarmi del lavoro. Egli mi lascia in balìa di me stessa, e sa pure che io di lavoro nè posso, nè voglio trovarne, mentre egli sa che di messeri, anche senza il suo parere, ne troverò finchè sarò stufa." La Luisa, uscita di là, si mise dunque in cammino per obbedire al delegato. Essa dava ascolto alla legge, essa si uniformava ai regolamenti di Questura: Non caste sed caute Così che, se fosse anche stato il caso di dover fare il brutto mestiere contro voglia e contro coscienza - ciò che non era - la si sarebbe trovata come si dice colle spalle al muro. Se non che la coscienza e la voce dell'onore nella Luisa era un bel pezzo che tacevano. Anch'essa, come Nanà, quantunque in un grado molto più volgare e più perverso, non sentiva più in corpo che tre grandi inclinazioni molto serie e molto spiccate: quella di non lavorare, quella di far all'amore e quella di non morir di fame. E, quanto alla terza, via! non si saprebbe davvero da qual parte farsi per dare tutto il torto a lei sola. Il diritto non le può essere contestato! Non aveva mossi un centinaio di passi fuor dall'ufficio di Sanità, eh' ella s'accorse d'essere pedinata. Non sapeva bene se erano due o tre, perchè non li vedeva e non si voltò indietro; ma se li sentiva, come per intuizione, nella schiena. Si fermò a guardare in una vetrina di modista per lasciarli passare e sapere almeno se erano gobbi o sciancati, giovani o vecchi. E volgendo il viso per guardarli, passati che furono, scorse dal canto della via, spuntare una donna, un'antica conoscenza, una certa sôra Marianna, la quale teneva sotto il braccio un enorme fardello e veniva un po' barcollando verso di lei, col sorriso che dava a vedere come l'avesse già ravvisata da lungi. Quando le fu d'accosto: - Centini mundi - sclamò questa; la era una sua esclamazione particolare. - Finalmente che la possiam rivedere, la possiamo, questa nostra bellezza! Dove diamine la è stata tutto questo tempo? Sapeva la vecchia che la Luisa era appena uscita di prigione? Le aveva fatta la domanda con malizia e per umiliarla, oppure non ne sapeva nulla? La Luisa, a buon conto, fece la prima supposizione, e rispose non arrossendo e con una specie di impertinenza: - Sono stata a Parigi! E lei, dove va con quel fagotto? - Eh, sa bene! Le solite miserie. Vado a mettere in collegio un po' di roba, perchè è bene che impari anche lei a stare al mondo. In lingua il bisticcio della Marianna non regge; in dialetto fece il suo immancabile effetto, e la Luisa ne sorrise malinconicamente. In dialetto, monte e mondo hanno lo stesso suono. - Anche lei! - disse la fanciulla. - Non c'è dunque che miseria a Milano? - Che vuole, cara Luisa! E lei? - Io? Io, come la mi vede, non so oggi come pranzare. - Possibile! - sclamò la signora Marianna coll'accento incredulo. - Una bella tosa pari sua? Centini mundi S'io fossi in lei, vorrei domandar se Milano è da vendere. Lei non ha a far altro che metter giù il suo bravo grembiale e star lì a veder i merli a fioccarvi dentro colle mani piene di bigliettoni bianchi, rossi e verdi. - Me lo disse poc'anzi anche il... Voleva dire il delegato, ma troncò la frase. La vecchia però aveva già mangiata la foglia. - Oh, diamine! Le toccò di andar laggiù? La Luisa si morse le labbra. Pel gusto di ponzare la sua piccola idea di ribellione ironica contro le incumbenze del delegato e contro la morale pubblica, essa aveva svelato il brutto segreto. - M'ha mandato a chiamare per sapere come faccio a vivere dopo il mio ritorno da Parigi, perchè ha saputo che vivo sola. - Io ne avrei uno che sarebbe un portento per lei - disse la vecchia strizzando l'occhiolino. - Di che cosa? - domandò la Luisa fingendo di non capire. - Un messere, centini mundi Chi vuol che sia? - Chi è desso? - È un banchiere. - Giovane? - Ecco - disse la Marianna - per giovine non è giovine di primo pelo, ma però è benissimo conservato, e ricco. - Quanti anni avrà, insomma? - Io non gli darei più di sessant'anni o sessantadue. - Oh, che strega! - sclamò la Luisa, scoppiando a ridere. - Mi parla di primo pelo! Non è nè di primo, nè di secondo! - È meglio anzi che sia un uomo posato... un uomo che ha già fatta la sua carovana. - Sì, sì, non dico, ma quanto al primo pelo... màghero! màghero!- È capace di farle una posizione. - Crede lei che vorrebbe rispondere per me là da quel caro direttore? - Questo poi non lo so, perchè è ammogliato. - Anche ammogliato! - sclamò la Luisa. Poi riprese: - Meglio allora! - Sicuro che è meglio. Dà minor fastidio. Lo si può tener in gambe, comprometterlo, levargliene quanti si vuole. E poi si è più libere di tenersi il candelliere e il capriccio; si ha sempre il coltello per il.... - Bene, bene, queste cose le penso anch'io - interruppe la Luisa un po' duramente. Quella benedetta parola di coltello, poco o molto, la faceva sempre trasalire, anche quando era pronunciata in una figura rettorica. - Dove si potrebbe vederlo questo banchiere di... terzo pelo? - In casa mia, se vuole. - Lei sta ancora laggiù? - Sì, cara. - E quando? - Magari domani. Il tempo di avvisarlo. - A che ora? - A mezzogiorno. - Bene, domani a mezzogiorno sarò da lei. E si lasciarono. La Luisa si spiccò di là, e vide sul canto della via che uno de' suoi pedinatori stava ad aspettarla. Quand'essa gli passò dinanzi, egli le fe' tanto di cappello. La Luisa rispose con un modesto chinar del capo. L'altro, che era appunto il marchesino Sappia, le si mise accanto. - Si potrebbe aver l'onore di sapere, bellissima creatura, dove siete diretta? - Lei è ben curioso! - Io faccio come il dottor Faust con Margherita, e vi domando il permesso di accompagnarvi a casa. - Non posso darglielo - rispose la Luisa, che, piena di appetito, aveva già messo l'occhio sul suo moscone per farsi pagare da pranzo. - Perchè non può darmelo? - Se io le ripetessi che lei è assolutamente troppo curioso, che cosa mi risponderebbe? - Che la curiosità è la madre della voglia di sapere. - Lei è forse uno di quelli che scrivono sui giornali? - No, no - rispose il Sappia ridendo. - Ma perchè questa domanda? - Perchè lei mi parla molto difficile. Che so io? Poc'anzi era il dottor Faust e Margherita, e ora è la madre della voglia.... - Bene, parlerò più facile. Come avete nome? - Ho nome... ho nome Aquilina. Ma non permetto che mi si dia del voi. - Vi darò del lei. Aquilina, bel nome! Nome superbo, e portato da una donna adorabile. - Me l'hanno detto degli altri. - E se io desiderassi di fare la sua conoscenza, bellissima Aquilina, me ne darebbe lei il permesso? - Mi par bene che stiamo facendola.... - Sì, ma io dico... una conoscenza un po' più intima... a quattrocchi. - Non si rifiuta mai la conoscenza d'una persona educata come lei. - In casa sua dunque non ci si può venir davvero? - Per ora no. In seguito non dico. Ora io vado a pranzo. Quest'oggi si potrebbe tutt'al più trovarsi alla stessa tavola a pranzo. - E se io la invitassi a pranzare con me fuori di Porta? - Dove, per esempio? - Non saprei.... All'Isola Bella. - No - rispose la Luisa - all'Isola Bella c'è troppa gente; piuttosto al Giardino d'Italia. - Allora ci possiamo andar subito. Sono ormai le quattro e mezza. - Come vuole. Il Sappia fece un gesto ad un cocchiere di vettura pubblica, che passava col legno vuoto. Vi montarono, e via pel Giardino d'Italia. Come si vede, la Luisa obbediva largamente al delegato. Essa coglieva due piccioni ad un favo. Aveva trovato un probabile messere e aveva azzeccato il pranzo di quel giorno. - Sapete, bella Aquilina - disse il Sappia quando fu seduto a tavola colla Luisa al Giardino d'Italia - che voi assomigliate in un modo spaventevole ad un'amante che io ho avuto or ora a Parigi? - Davvero? Ciò mi rende orgogliosa! - Naturalmente voi non siete ancora a quel punto.... - Oh, lo credo! - Quella era una cocotte sì, ma una cocotte gran dama. - Ho capito! - Ha nome Teresa, ma tutti a Parigi la chiamano Nanà. Non ha meno di trentamila franchi al mese, ed è sempre in miseria. - Vuol dire che li spendeva. - Sicuro! - Ah, in questo poi non vorrei assomigliarle. - Vediamo, Aquilina. Voi mi piacete in modo enorme. Ci sarebbe speranza di intenderci? Io non v'ho ancora detto il mio nome; sono il marchese Sappia. Io vorrei fare di voi una seconda Nanà. - Che non spende trentamila franchi al mese, però. - Ah, naturale! Tutto dev'essere in proporzione. Milano fa trecento mila abitanti coi Corpi Santi, Parigi ne fa un milione e mezzo; cinque volte tanto. A Milano, una fanciulla come voi può col quinto di trentamila franchi al mese, che sono sei mila far la signora come Nanà a Parigi. - Questo poi non credo. Sei mila franchi sono una miseria anche a Milano. - Ah, ah! Avete delle idee in grande, voi. - Voi ci tenete ad essere solo? - Perchè questa domanda? - Ponete che io sia già impegnata con un vecchio, che non vi potrebbe dare ombra di gelosia. Ponete che io sia qui con voi perchè mi siete simpatico.... - Grazie, Aquilina. Non ne dubitavo. - Io so bene che voi non vorreste che io fossi vostra amante gratis, gratis,n'è vero? - Neppur per sogno. - Se voi non avete difficoltà che il vecchio continui la mia relazione, voi diventerete il mio amante di cuore. Mi farete qualche regalo e tutto sarà detto. - Accettato. - Allora vi dirò che io non mi chiamo Aquilina, ma mi chiamo Luisa. E così era avvenuto il contratto del loro matrimonio morganatico. Il marchesino uscì dalla casa di Luisa verso le nove del mattino del giorno dopo. A mezzodì in punto, la fanciulla montava le scale della Marianna. Il vecchio banchiere non si fece aspettare; dopo mezz'ora di conversazione, trovò che la Luisa era la creatura che pareva creata apposta pe' suoi fini reconditi; le fece delle discrete proposte, ed essa le accettò subito anche quelle, senza farsi pregare: giacchè l'appetito non c'era verso, che non ritornasse ogni mattina e ogni sera a persuaderla che bisognava dar ascolto al delegato. Così in breve la scarcerata di fresco fu accasata come una signora, in mezzo a mobili propri, con due assegni mensili, che uniti ne facevano uno più grosso di quello d'un consigliere di Cassazione e che le venivano dal Sappia e dal banchiere, il primo dei quali era l'amante en entitre l'altro lo spunta-pesi segreto. Poco prima che Enrico O'Stiary giungesse a Milano, essa aveva finto di piantare in asso il vecchio banchiere, per farsi maggior merito presso il suo amante scoperto. Ma in fatti essa era legata al vecchio peggio di prima e da ben altri legami che non fossero i legami dell'amore. - Buona sera, Nando - diss'ella al Sappia, che era entrato con Enrico O'Stiary. E intanto aveva diretta un'occhiata curiosa all'amico che stava dietro di lui un po' in disparte. - Buona sera, Gigia - rispose il marchesino, e volgendosi tosto verso il conte, ripigliò: - T'ho condotto il mio giovine amico, il conte O'Stiary, che farà in tua casa i primi passi al mal costume. Enrico strinse la mano che la Luisa gli porse; e l'indispensabile vermiglio, che accompagna quasi sempre il primo passo al malcostume, si pinse sulla fronte del giovinetto. La Luisa lo invitò a sederle accanto. - Spero bene - cominciò dessa - che Nando le avrà detto, che qui da me sono banditi i complimenti. Dunque la metta giù il suo cappello, giacchè il mio motto è sans gêne Ma quasi mi scordavo di presentare a questi signori; il signor Silvestro Bonaventuri aiutante di... e il signor Paganino di Genova. I due nominati s'inchinarono. O'Stiary fece altrettanto. - Lei è uscito da poco dal collegio, non è vero? - Ora torna dal campo. - Dal campo!... A proposito - disse levandosi; ma disse quell'a proposito precisamente a sproposito, giacchè ciò che stava per metter fuori non c'entrava per nulla col campo - Cominciate a fare anche voi altri il vostro dovere qui su questa lista. Vi avviso che non voglio rovinarvi però. Non accetto meno di venti franchi, ma non accetto neppure più di cento franchi. - Così dicendo, la Luisa aveva levato da un tavolino una borsa, una lista, ed un lapis che presentò colla bocca aperta al Bonaventuri. - Che cos'è? - domandò questi con aria un poco sorpresa. - Ho fatto voto, che tutti quelli che i quali metteranno il piede in questa sala, dal primo all'ultimo del mese, dovranno per una volta almeno aiutarmi a fare un'opera buona. È una colletta per una povera famiglia che muore di fame. - Volontieri - rispose il Bonaventuri. - Che cosa debbo fare? - Scrivere su questa lista il vostro riverito nome e cognome, colla cifra che intendete di mettere in questa borsa, per la mia irresponsabilità. E guardò con un bel sorriso in faccia a O'Stiary. - Spero la mi permetterà di avere anch'io questo piacere di far del bene in sua collaborazione - disse Enrico traendo di tasca il portamonete. - Veramente, per la bella prima volta! - sclamò ridendo la Luisa - è un po' da sfacciata! - Faremo dunque il male in mezzo - fece il Bonaventuri parlando forte. Ecco i miei cinquanta franchi. - Ed ecco i miei - soggiunse il Paganino da Genova, mettendo i suoi cinque biglietti da dieci nella borsa. Il povero Enrico fa sopraffatto da uno sgomento indicibile. Egli aveva pensato in cuor suo di non dare che venti lire, e capiva che bisognava metterne cinquanta come gli altri, e temeva di non averli nel suo portamonete. Dei cento franchi della mezza mesata sborsatagli dal tutore, e che dovevano servirgli per quindici giorni, gli pareva di averne già spesi in guanti, in profumerie, in gingilli, in mancie e al caffè, una metà abbondante. Non sapeva bene quanto gli restasse nel portamonete, ma temeva d'essere a corto. Guardò trepidando in esso, e con lieta sorpresa vi trovò appunto i cinquanta franchi che parevano lì apposta contati. Non gli rimaneva più che un bigliettino sudicio da cinquanta centesimi, che rimase là unico e vergognoso, come una protesta contro la lèsina del tutore. - Ed ecco i miei - ripetè anche lui mettendo l'obolo nella borsa di Luisa, che lo ringraziò col suo più splendido sorriso. "Spero bene - pensò - che il tutore non mi vorrà mangiare se gli racconterò che ho dato cinquanta franchi a scopo di beneficenza - pensò Enrico, dopo che la Luisa lo ebbe ringraziato. - "Io non potevo dar meno di Paganino e di Bonaventuri, che devono essere meno ricchi di me." Poco dopo entrarono nuovi visitatori. Erano il signor Ciambelli colla Romea, un fuseragnolo di donna, con due occhi discreti e una carnagione che arieggiava la porcellana colorata, per amor dell'intonaco ch'ella si praticava sul viso. Ciambelli, suo amante, un pancione nero come un croato, le aveva messa su una buvette, dove la Romea troneggiava dal suo banco, chiamando, col desio e colle occhiate lunghe, i passanti, che non volevano saperne di entrare nella di lei bottega a bevere l'amaro prima di andare a pranzo. La Romea era una sgualdrina come tante altre, ma la si teneva ingenuamente in conto di donna onesta, e parlava delle mantenute col disprezzo d'una principessa! Quanto la godevano per questa pretesa le sue poche pratiche! A un certo punto si parlò di far un piccolo taglio di macao. La Luisa sulle prime fece finta di opporsi, ma poi, vedendo che tutti erano del parere fece recar le carte e lasciò che giuocassero. Enrico, un po' per timidezza, un po' per innata ritrosia, ma sopratutto perchè non voleva far vedere d'essere corto a quattrini stava in disparte. Sappia gli andò vicino: - Non fai conto di giuocare tu? - Ma... non ho voglia.... Non sapevo che si giuocasse.... È meglio che stia a vedere... - Ti pare? Il più giovine della brigata, far la figura del più vecchio? Mi faresti sfigurare. Ricordati che questa sera comincia a formarsi la tua riputazione di gentiluomo e di uomo di mondo. Bisogna che tu provi un po' di tutto, in società, se vorrai starci bene, e se vorrai poter educare con cognizione di causa i figli che avrai dalla signorina Elisa. Enrico si fece tutto rosso in viso. - Che c'entra? Come sai? Chi t'ha detto? - Noi sappiamo tutto - sclamò con aria di mistero il marchesino. - Ma io ho ben poco danaro con me... non sapevo. - Se non è che questo ti servo subito. Figurati! E schiuso il portamonete ne trasse un biglietto da cinquecento e lo diede a Enrico dicendo: - Quando non ce n'è più, ce ne sarà ancora. Avrebbe potuto rifiutarsi ancora il nostro collegiale garibaldino? Andò al tavolo verde. Dopo mezz'ora egli aveva perduto fino all'ultimo i suoi cinquecento franchi. La Romea gliene aveva beccati fuori la metà. Sappia gliene prestò subito altri mille. Il demonio del gioco lo aveva già preso alla strozza. A mezzanotte il disgraziato aveva perduto i mille e giocava già disperatamente sulla parola. Al tocco dopo mezzanotte il Sappia si levò dal tavoliere, e disse: - Mi pare ora di andarcene. - Facciamo i conti - gli disse Enrico che appena cessato l'incanto e l'emozione si trovò di aver indosso una febbre indiavolata. Fatti i conti trovarono di avere perduto fra tutt'e due seimila e trecentoventi franchi. Enrico ne doveva mille e cinquecento all'amico, mille e duecento a Silvestro Bonaventuri, e trecento alla Romea, Il povero giovinetto era così confuso di dover danaro perfino ad una donna, era così spaventato, così abbacinato dalla perdita, dal timore di non poter il giorno dopo farsi onore nelle ventiquatt'ore, dello spavento che il tutore e la Elisa venissero a sapere la sua scappata, che quasi quasi ne piangeva a calde lagrime. Il Sappia dovette scuoterlo più volte. - Ma domani come si fa? Pensa che debbo trecento franchi anche alla signora Romea. - Ci penso io - gli rispose l'amico. - Non seccarti. In ogni caso la Romea ne deve a me cinquecento da sei mesi, che non me li ha mai restituiti. Preso poi in disparte il Bonaventuri, che conosceva, per quel tanto che si conoscono certe persone: - Favorisca - gli disse - a indicarmi dove ella sta di casa. - Oh - sclamò il Bonaveuturi, come schermendosi - la si figuri; ha tutto il tempo; lei è padrone di tutta la mia sostanza... "Buono a sapersi" pensò il Sappia fra se. Enrico quella notte non chiuse occhio e fece il più inviolabile proponimento di non giuocare mai più. Nella ingenua purezza della sua coscienza di vent'anni, egli sentiva di quel fatto un rimorso indicibile. A mattina andò dal tutore e gli spiattellò senza reticenze la sua avventura della sera innanzi. La fu una scena di inenarrabile delusione per lui, una tempesta di maggio, un finimondo. Il tutore gli fece una parrucca che non finiva più. Egli era un di quegli uomini che non crederebbero di far il loro dovere se non quando s'accorgono d'avere ben tormentata la loro vittima. Essi hanno nelle vene, io credo, un po' di sangue di Torquemada. Questo modo di educare, essi lo chiamano saggezza. E certo se facesse l'effetto di render saggio meriterebbe quel nome; ma siccome non ottengono invece che quello di seccare dovrebbe esser chiamato seccatura. seccatura.Allo stringer dei nodi il tutore si rifiutò perfino di pagargli quel primo debito di giuoco. Enrico non sapeva più in che mondo si fosse. Corse a trovare il marchese d'Arco. Questi ascoltò in silenzio il racconto e le giustificazioni del giovinetto; poi senza dir motto si levò, andò al suo scrigno, ne abbassò l'imposta, tirò fuori un cassettino, ne trasse tre bei biglietti da lire mille e li porse al giovinetto dicendogli questa sola frase: - Ma cerca di non giuocare mai più se ti è possibile! Enrico da quel tratto restò assai più confuso che non lo fosse stato prima dalla lavata di capo e dalle smanie esagerate del suo tutore. - Oh, marchese, come è buono lei! - sclamò il giovine buttandosi al collo del vecchio e baciandolo sulle labbra. - Mi prometti sul tuo onore che non giuocherai più? ripigliò sorridendo di gioia e dopo un certo silenzio il marchese. - Sì, glielo prometto in parola d'onore e colla sicurezza di mantenere la mia promessa. - Tu devi sapere Enrico, che a' miei tempi ho giuocato molto anch'io. Allora il giuoco era di bon ton non era proibito, lo si faceva in pubblico. Il governo straniero usava di questo mezzo per demoralizzarci, per distoglierci dalle idee di patria e di indipendenza. Vedi dunque che ti parlo con cognizione di causa. Fin d'allora mi capitava sempre, che perdendo, io pagava puntualmente entro le ventiquattr'ore il mio debito; ma se vincevo pochi lo pagavano a me. - Possibile? - Possibilissimo mio caro Enrico. Credilo pure; la gente che paga i debiti di giuoco non è a questo mondo che un decimo di quella che non li paga. Questa almeno è la statistica della mia dolorosa esperienza! Non so se gli altri saranno stati più fortunati di me nella loro vita. Ma è così! Ora capisci bene. Se tu quando perdi sei certo di dover pagare, e quando vinci sei certo di non essere pagato che dieci volte su cento... la cosa diventa molto seria. Sarebbe necessario perchè tu restassi almeno in pace che vincessi novantacinque volte su cento; il che assolutamente non è possibile avvenga. Hai fatto bene dunque a promettermi che non giuocherai più. E qui si mise a parlargli di tutt'altro. Il marchese artista nell'anima tempestava Enrico di domande sulla sua posizione, sulla pittura, sulle sue idee circa le due scuole, sulle sue speranze di farsi un nome, sull'avvenire sognato. Enrico s'accalorò in quel dialogo. Il marchese godeva enormemente a sentirlo parlare così modesto, così schietto, così sincero e così pieno di illusioni. - Ma non credi tu - gli disse a un certo punto - che il positivismo, il realismo e la democrazia abbiano a uccidere l'arte? - Ah, marchese, al contrario! L'esaltazione del popolo sarà l'esaltazione dell'arte. Il marchese crollava il capo sorridendo. - Ah, entusiaste! - Non lo crede lei? - Io no davvero, - rispondeva il marchese. - Il popolo, e per popolo m'intendo quella parte della popolazione d'un paese che si stacca dall'aristocrazia illuminata e dalla borghesia ricca e studiosa, il popolo non sente bisogno dell'arte, nè la capisce. Mancando assolutamente di sentimento estetico come vorresti tu ch'essa amasse il bello nelle sue manifestazioni? - Eppure se c'è un'esposizione di quadri e di statue vi accorre...! - Il popolo no, non se ne cura. La statistica della affluenza del pubblico alle esposizioni parla chiaro. In ogni modo anche i pochi che ci vanno non vi sono attirati dal bisogno di ammirare il bello, ma dalla curiosità di veder nei quadri dei fatti interessanti, allegri o pietosi. Il quadro sarà pessimo come arte, ma rappresenterà qualche fatto ben volgare, ben chiaro, che squadri al popolo? Sarà il prediletto da lui. Esso non s'accorgerà che artisticamente parlando il quadro è uno sgorbio, un abbominio. Il popolo non monta verso l'arte se non quando l'arte discende giù fino al volgo. E il naturalismo stesso, l'impressionalismo, di cui tu mio caro Enrico, ti dichiari seguace e cultore, non è forse l'arte che abdica in favore dei grossi istinti del volgo? Enrico era impaziente di andar a pagare i debiti fatti la sera prima. Erano i primi debiti di sua vita e gli rimordevano la coscienza. Diede dunque ragione al marchese e se ne andò ringraziandolo di nuovo con espansione. Prima di spiccarsi dal suo vecchio amico, questi aveva cavato da una cartella che stava sulla tavola un foglio di carta e accostando alla mano di Enrico il calamaio gli aveva detto: - Scrivimi qui la ricevuta e la promessa di non più giuocare. Enrico si dichiarò debitore delle tremila lire al marchese e promise nella ricevuta di restituirgliele quando fosse andato in possesso della propria sostanza. Della mesata insufficiente fissatagli dal tutore non si fiatò. Non si ricordò di parlarne. Il marchese non gli aveva neppur lasciato il tempo di spiegare la cosa, e quando Enrico s'era trovato esaudito, col danaro in mano, s'era scordato di entrar in quell'argomento. Enrico corse a casa di Sappia, a cui raccontò il rabbuffo e la crudeltà del tutore e il bel tratto del marchese d'Arco. Volle andar egli stesso nella bottega della Romea, a portarle i suoi trecento franchi, che gli bruciavan le dita e dovette spenderne un'altra quarantina di giunta, in bottiglie di dichampagne ch'essa gli appioppò senza che lui, timido ancora, osasse di rifiutarle. Poi, con Sappia, ritornò a casa. - Parlerò io al tuo signor zio antidiluviano - aveva sclamato il Sappia quando Enrico gli aveva raccontato del fiero rabbuffo avutone. - Lui li chiama minuti piaceri Altro che minuti! Impercettibili, microscopici... piaceri! Il notaio a stento acconsentì di portar l'assegno di Enrico da duecentocinquanta a trecento franchi al mese. - Domando io caro signor marchese - gli disse congedandolo, e colla più profonda convinzione di dir cosa sensata ed onesta - domando io come potrà mai arrivare a spendere più di otto franchi al giorno fuori di casa? - Nei mesi di trentun giorni e negli anni bisestili - disse il Sappia con una finissima ironia che il tutore si guardò bene dal notare - gli otto franchi al giorno sì può calcolare che diventino soltanto sette e novantadue centesimi. - Ho fatto un buco nell'acqua - diss'egli tornato che fu all'Enrico, il quale non s'aspettava nemmeno i cinquanta franchi d'aumento - Bisogna che tu faccia la lite al testamento di tuo padre, che ti ha voluto tener sotto a quel mastodente fino ai ventiquattr'anni; se no finirai, col rovinarti moralmente e materialmente, te lo dico io! - No - rispose Enrico. - Prima di tutto io non vorrei fare questa lite, neppure nel caso che non offendessi l'ultima volontà e la memoria di mio padre. In ogni modo, dato che il tribunale mi desse torto, io sarei perfettamente rovinato, giacchè avrei fatta opposizione; e tutta la sostanza andrebbe ai gesuiti che stanno aspettando al varco la preda. È meglio ch'io mi stia ai primi danni. Così erano passati circa due anni, e a dispetto dei trecento franchi al mese, Enrico O'Stiary era diventato uno dei giovani più brillanti di Milano. Cavalcate, scarrozzate, scherma, cene, club, ballerine, e pur troppo di nuovo, il giuoco - nel quale era ricascato con vivo, quantunque inutile rammarico, con profondo, ma pur vano rimorso - erano le occupazioni delle sue giornate e delle sue notti. E la povera Elisa trascurata, infelice, ma orgogliosa nel suo dolore s'era fatta intanto donna. Il tutore non badava più all'Enrico. Disperava di cambiargli la testa. "Chiudeva un occhio per non inquietarsi" come diceva lui. Il marchese d'Arco dal canto suo, il quale vedeva il suo giovane amico far la vita del gentiluomo, e non s'era curato mai di sapere quale somma il tutore gli avesse fissato pei minuti piaceri, era ben lontano dall'idea ch'egli si stesse rovinando a bagno maria. Egli poi non sospettava che Enrico si fosse rimesso a giuocare. Gli sarebbe parso fargli uno sfregio pensando che un'O'Stiary avesse potuto mancare così alla parola d'onore. Quando si trovavano parlavano d'arte, di cavalli, di politica, e le miserie umane le lasciavano da parte. Enrico dal canto suo, si guardò bene dal ricorrere un'altra volta al marchese per denaro, e lo schivava come un rimorso. Il Sappia pensava largamente a tutto. Suo padre e sua madre gliene davano in una certa abbondanza, ed egli aveva un credito grande presso gli usurai! E anche lui - lo sciagurato - faceva delle orribili operazioni a babbo morto! Ma era venuto un bel giorno che anche il Sappia erasi trovato nella necessità di chiedere danaro ad Enrico. Il povero giovine gli avrebbe data la vita, ma non aveva che i suoi duecento franchi al mese. Risolse di farla finita col tutore; di parlargli fuor dei denti, di ottenere insomma quello a cui gli pareva di aver diritto. Ci pensò un paio d'ore, poi piuttosto che aver a fare con don Ignazio si aperse alla balia. La balia gli aveva detto di avere dodicimila lire alla Cassa di risparmio. Non lasciò che l'Enrico terminasse la frase; corse per quanto glielo permettevano i settantanni nella sua camera, e portò al contino le dodicimila lire in tre bei libretti puliti e fiammanti ch'era un piacere a vederli. - Ma no, non voglio, non voglio - diceva Enrico colle lagrime agli occhi. La balia alzò la destra, e con una specie di entusiasmo, sclamò: - Ma non è forse roba sua codesta? Quale uso più degno potrei fare di questo danaro... io che non ho più nessuno al mondo? Pochi mesi dopo convenne di nuovo rivolgersi altrove. Il tutore, quand'ebbe messa da parte del tutto la speranza di vedere il conte far giudizio, pensando al giorno ormai vicino in cui gli sarebbe toccato rassegnargli la sostanza taglieggiata e forse perduta, intieramente aveva cominciato a cercarsi dattorno un altro sposo per la sua Elisa, che già aveva trascorso il diciottesimo anno. Egli comandò a sua moglie di far di tutto per disingannarla nel caso ch'ella nutrisse ancora qualche speranza di diventare la moglie del contino e si mise a sparlare a tavola del suo pupillo e a tentar di metterglielo in mala vista. Ma egli non pensava che dieci anni di pensieri e d'illusioni accarezzate non si distruggono in un giorno! L'uomo adatto, del resto non tardò a presentarglisi sotto la miglior luce del mondo. Era Aldo Rubieri - che s'era fatto un bel nome e una bella sostanza, e che quantunque artista, parve al babbo un modello di uomo serio e un marito esemplare. Chi mai avrebbe detto a Enrico O'Stiary che quei cinquanta franchi da lui con lieto animo versati nella borsa di Luisa a titolo di beneficenza la sera d'un giorno d'autunno del 1866, dovessero essere il primo anello di una lunga e disastrosa catena di sagrificî, di spese, di perdite, di debiti, di rovesci, che lo dovevano condurre tre anni dopo, quando egli era lì lì per aver la piena disponibilità della propria sostanza, ad essere un uomo rovinato? Ma sopratutto chi gli avrebbe detto che la causa principale, la causa effettiva del suo rovescio, non doveva essere nè l'amico Sappia, non doveva essere la Luisa, non doveva essere il giuoco, ma piuttosto la gretta protervia del suo tutore, che aveva negato fin dal principio di fissargli quel tanto, che nella sua posizione era necessario?

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Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 1 occorrenze

Il Dauby non è persona sospetta di simpatie demagogiche, anzi abbiam sentito da parecchi tacciar di codino lui e il suo libro. Il signor cav. J. Dauby, autore di molti bellissimi libri popolari, era nel 1874 amministratore del Monitore Belga ma fu un tempo semplice operaio. Il benemerito tipografo della città nostra cav. Angelo Colombo, amico ed ammiratore di quello scrittore, ci narrò come quegli dall'umile sua condizione abbia potuto salire tanto alto. Entrato nel 1840, dice il cav. Colombo, per una felice congiuntura di poche ore, nella stamperia del signor G. Lesigne, vi rimase per ventiquattro anni. Il suo padrone non tardò guarì ad affidargli la direzione del suo stabilimento, incombenza, alla quale in seguito aggiunse la tenuta della contabilità e la correzione degli stamponi. Fu in questo mezzo che il Dauby fece amicizia con alcuni eminenti personaggi, che gli professarono grande benevolenza ed esercitarono sulla sua vita un ascendente per lui decisivo. Fra essi noi citererno per tacer d'altri, il compianto Edoardo Ducpetiaux, ispettore generale delle carceri e degli stabilimenti di beneficenza dei Belgio, uomo di fama europea, ed il conte G. Arrivabene, divenuto poi senatore del Regno d'Italia. E Ducpetiaux, che si occupava indefessamente d'opere di riforma in favore di quelli che la fortuna aveva diseredati, organizzò a Bruxelles nel 1856 un'Esposizione internazionale d'economia domestica , ch'ebbe buonissimo esito. Fra i pregevoli oggetti, che quell'esposizione conteneva, eravi pure la casa d'un operaio colle sue modeste supellettili. Per quanto però completo fosse quel mobiliar emodello, vi mancava nondimeno una cosa necessariissima: un buon libro Il Dauby ne fece motto al Ducpetiaux; e questi l'incoraggiò vivamente a scrivere un tal libro; e tre settimane appresso, sulla tavola della casa-modello c'era un manoscritto intitolato: Il libro dell'operaio: consigli d'un collega Un tal fatto decise della carriera letteraria dell'autore. Il libro dell'operaio ottenne all'esposizione d'economia domestica la medaglia d'onore, che fu rimessa all'autore, con vive parole d'incoraggiamento, dal duca di Brabante, oggidì Leopoldo II re del Belgio. « Il libro dell'operaio incontrò favorevolissime accoglienze, e, pel rapido spaccio, se ne fecero più edizioni, meritando di essere tradotto in varie lingue, tra le quali la portoghese, per cura della Società d'incoraggiamento del lavoro negli opifici posta sotto l'alta protezione del re di Portogallo. Il Dauby non può essere pertanto sospetto di demagogia, ed il suo libro è pieno di massime di una grandissima moderazione. Eppure egli, descrivendo in questo modo le condizioni degli operai, non avvertiva che parlava soltanto d'una parte della classe operaia, anzi per meglio dire di momenti speciali nella vita d'una parte della classe operaia. Ma dell'operaio si può fare un altro quadro, che non è men vero di quello dipintoci dal signor Dauby. In modeste stanzuccie abitano le famiglie degli operai. Ecco delle buone mogli che alla mattina s'alzano sollecite per preparare un eccellente caffè nero pel loro marito, il quale non manca tuttavia di recarsi appena uscito di casa, dal liquorista, presso cui convengono i suoi colleghi. Qui si riscalda lo stomaco con un bicchierino o due d'acquavite e scambia quattro idee coi suoi compagni, idee, che so, io? di politica, di economia, di amministrazione, di filosofia epicurea e d'altro. Egli ha così soddisfatto a due bisogni egualmente legittimi, l'uno fisico e l'altro morale. Poi si reca al lavoro. Se l'operaio lavora a cottimo, lo si vede, massime nei primi giorni della settimana, porre mano al lavoro, poi smettere, poi uscire di fabbrica, poi ricominciare, consolandosi colla speranza che, lavorando come una bestia (è una frase di prammatica) per quattro giorni della settimana, egli guadagna più che non ne richieggano i bisogni della sua famiglia. Ma, sciagurato, lo sforzo che fai nei quattro giorni ti rovina la salute! - E che importa? Non c'è l' ospitale? Non c'è il servizio di Santa Corona che mi fornisce e medici e medicine? Non ho io pensato forse a iscrivermi nella Società operaia per avere il soccorso in caso di malattia? E poi non ho io un padrone che anche quando sono ammalato mi anticipa la pappa? Ah stolto egoista! per non fare al tuo mal talento una piccolissima violenza, per non vincere una mala abitudine, per non rinunciare ad un piacere sciocco e passeggero qual è quello di ciondolarsi due giorni interi per la fabbrica, dando la baia a quei pochissimi, che attendono al lavoro, perchè son pagati a giornata, ah, tu non guardi di nuocere alla tua famiglia, di sciupare la pubblica beneficenza, di scroccare un sussidio a tutto danno dei fondi della società a cui appartieni, e di giuocare la tua indipendenza contro le anticipazioni del tuo padrone! E per compensare costui della sua bontà cerchi di danneggiarlo in tutti i modi possibili? Cerchi per tre giorni della settimana, ossia per quasi mezzo anno tieni il suo capitale, la macchina che ti presta per lavorare, nelle tue mani senza corrispondergli alcun frutto, e poi negli altri giorni lavorando in fretta e in furia gli rovini la macchina, ossia gli consumi il suo capitale, assai più che nol faresti se tu lavorassi regolarmente ogni giorno. E posto anche che in quattro giorni tu possa guadagnare senza un grande sforzo di che mantenere la tua famiglia e avanzare di che scialarla all'osteria, non è forse vero che lavorando anche gli altri tre giorni della settimana potresti porre in disparte un bel gruzzolo da depositare alla Cassa di Risparmio? Tu invece non puoi esser mai tranquillo sul domani nè per te, nè per la tua famiglia; tu ostenti indifferenza per le strettezze che ti si affacciano nel futuro, conti sul lavoro de' tuoi figli; ma, nutriti sregolatamente, un giorno cioè indigestione e un giorno digiuno, sono lì male andati in salute e pare anche a te che, continuando di questo passo, non potranno certo giungere ad essere il bastone della tua vecchiezza. Vedi dunque che non sei tranquillo. T'illudi ma non ti regge l'animo, e talvolta per obliare tuffi nel vino o nell'acquavite i tristi tuoi presentimenti. E s'aggiunge a questi tuoi dolori anche il lamento continuo della moglie, la quale s'accora. . . E di che s'accorano la maggioranza delle donne degli operai? Perchè anche domenica dovrà andare all'osteria suburbana collo stesso abito della domenica precedente, mentre le altre donne vi si recheranno con un vestito nuovo, fatto all'ultima moda, con nastri e fronzoli ... E tutta la settimana tu vedi, caro operaio, tua moglie occupata a riattare un vestito vecchio, taglia di qua, ritaglia di là, aggiungi, inserisci, attacca, appendi, sovrapponi, e intorno a quel vestito stanno tutte le casigliane intente a dare consigli, a prodigare lodi al buon gusto, alla diligenza, alla laboriosità della tua donna ... quando non ci sia qualcuna di quelle, che le faccia capire che a lei giovane e bella non potrebbe mancare chi regalasse un bel vestito nuovo ogni domenica, e che la conducesse nei principali alberghi in carrozza, e che le facesse bere di quelle bottiglie di vino, che al solo vederle fanno spuntare sul ciglio la lagrimetta della compunzione ... e che ci sarebbe il figlio del prestinaio dirimpetto, che farebbe pazzie per lei ... Povero a te, ottimo operaio, se sei predestinato! Ma voglio ammettere che tua moglie sia una donna onesta e in tali panie non s'inveschi. Dirà alla malvagia consigliera: Ma, e l'onore, Cecca? Quantunque la Cecca potrebbe farle sulla tesi "onore" dei sillogismi sans nom assai curiosi. Ammettiamo adunque che la tua moglie sia una donna onesta. Non accadrà altro male che quello di sciupare un po' di tempo. Ma sarà appunto quel tempo prezioso, che essa non impiegherà per rassettare la casa, per raggiustarti e stirarti la biancheria, per rattoppare i poveri vestitini de' tuoi figli, per levar le frittelle dall'unica tua giubba della festa. La sua civetteria ucciderà la felicità di tutta la famiglia. E tuttociò ti pare forse poca cosa? E l'operaio che lavora a giornata? Fa il meno che può per tema d'ingrassare troppo il padrone, e si diverte a dirne poi tutto il male possibile. Ma, dal mezzogiorno della domenica alla mattina del lunedì, domandate all'operaio che cosa sia la miseria, domandategli che valore abbiano le lire, parlategli di economia politica (scienza di moda e intorno a cui anche i lustrascarpe pretendono dissertare largamente) citategli lo esempio di Beniamino Franklin, e poi venitemi a dire che cosa vi risponderà? Con quel risolino tra labbro e labbro, proprio di chi ha alzato un po' troppo il gomito, con una strizzatina d'occhio, e con una scrollatina di capo a sinistra, vi dirà: Non ha nessun parente più prossimo da contargli tutta questa bella roba? E col dorso della destra si liscierà i baffi ancora sgocciolanti di vino. Alla domenica le osterie sono piene di operai, i teatri sono pieni d'operai, i postriboli sono anch'essi pieni d'operai, le vetture pubbliche sono tutte noleggiate dagli operai; in quella mezza giornata la ghiottornia, la sensualità, l'imprevidenza riddano, turbinano intorno alla mente ed al cuore, del povero operaio, il quale, trascinato dal vortice delle passioni, crede che il miglior modo di godere sia quello di stancarsi senza saziarsi un giorno, solo, per restare poi digiuno gli altri sei lunghissimi giorni della settimana. Nella notte della domenica avvengono per la città liti indiavolate e ne sono cagioni precipue la gelosia, l'ubbriachezza, il giuoco. Anche quest'ultima passione entra nelle abitudini del nostro popolo. D'estate, in tutte le osterie si giuoca da mattina a sera alle boccie e d'inverno si giuoca a tarocchi, a tresette, a briscola, e infine alla mora. Questo giuoco chiassoso, che Orazio ben conosceva e che chiamavasi a' suoi tempi popolano in digitis dimicare è uno dei passatempi più graditi pel milanese, giacchè risponde meglio d'ogni altro alla sua indole ciarliera ed urlona; serve alla ginnastica del polmone, e a far sentire sempre più il desiderio di ingozzare del vino. Laonde la maggior parte degli osti sono anche giuocatori di mora e organizzano partite nei loro negozi ed invitano, esortano, eccitano i loro avventori a giuocare; sapendo che come tutti i salmi finiscono col gloria, così ognuna di queste partite finisce coll'assorbimento d'un litro di vino, il che dà ad essi non piccolo vantaggio. Anzi, un oste che sappia il suo mestiere fa di più: quando vede tranquillamente seduti nel proprio negozio uno qua uno là alcuni suoi avventori, eglì li raccozza e si mette tra essi come trait d'union affinchè si accingano a giuocare e partecipa egli pure a qualche partita. Basta questa presentazione dell'oste, perchè quei buoni avventori prima di notte siano amici e stiano tra loro come pane e cacio e si promettano di ritrovarsi al tavoliere anche la sera seguente. La partecipazione dell'oste al giuoco è la garanzia della lealtà dei singoli giuocatori. Vi sono alcuni operai, che sono diventati famosi quali giuocatori di mora, e tengono il campo in certe osterie, dalle quali i novellini stanno lontani come i topi dalle trappole. Ma avvengono talora delle sfide formali e i giuocatori che si credono capaci si presentano in queste osterie, dove c'è qualche celebre morista, e con lui si cimentano, e premio della vittoria non sono soltanto i litri e le bottiglie di vino che si scommettono in ciascuna partita, ma il vincitore riporta anche una bandiera, ch'egli reputa premio tanto pregevole quanto lo poteva essere per un romano la corona civica. Per la mora el Togn l'è in bandera vale quanto dire che è un invincibile giuocatore. Com'è facile accorgersi, l'operaio consuma in brev'ora quanto si guadagna in parecchie giornate di faticoso lavoro, e perciò durante la settimana il bisogno l'assale e allora i lamenti, i guai, i litigi si succedono in famiglia, e quando la sventura viene a punirlo dalla sua imprevidenza, allora non gli resta più che ricorrere al Monte di Pietà, alla Congregazione di Carità, ossia a divorarsi la speranza e a sciupare quel rossore, che lo stendere della mano,alla pubblica beneficenza, richiama sempre sul volto a qualunque galantuomo. Eppure v'ha di peggio. Qualche operaia stretto dal bisogno arriva a chiudere un occhio sulle mariuolerie dei figli, su certe colpevoli relazioni delle figliuole e persino della moglie, purchè queste vergogne gli apportino in casa tanto da supplire ai bisogni della famiglia. A tanto l'imprevidenza e la prodigalità possono trascinare anche un onesto operaio. Chi gli sapesse predicare la frugalità e la sobrietà, chi rendergli accetti i gusti semplici e fargli preferire una vita modesta e tranquilla ad una vita turbolenta e scialacquatrice farebbe davvero opera meritoria. Ma dov'è l'apostolo?

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

' Già, dovremo spendere un po' di denari, ma abbiam del margine. Se non basterà la prima istanza, andremo in appello, se non basterò io, chiameremo in aiuto un'altra pancia: abbiamo degli appoggi... Siamo noi che facciamo la pioggia e il bel tempo; alla garibaldina, pam, pam '. Buffoni! non darò a rosicchiare a questi liberaloni il mio formaggio... Fossi bestia! Vedo, come in uno specchio, che se mi lasciassi pigliare, non me la caverei più in trent'anni. Di tribunale in tribunale, di rinvio in rinvio, dopo avermi fatto spendere un capitale in carta bollata e in ricorsi, avrei la grazia di salvarmi un paio di scarpe. Faccian pure la causa, se hanno gusto, gli altri; io non mi muovo. Io non ho nulla a dimostrare ai giudici. Son essi che devono dimostrare che il mio testamento non è un testamento. Intanto il Berretta è a posto." Il treno lo portava nella crescente oscurità della sera verso la pianura e verso quel gran cittadone, che gli diventava ogni giorno più antipatico. Nella penombra, gli passavano davanti i casolari oscuri e raggruppati dei villaggi e dei cascinali, da cui usciva il fumo lento delle povere cene. Trasparivano i piccoli lumi delle stalle e i fuochi vivi dagli usci aperti. Qualche suono d'avemaria mescolavasi al rombo del treno, e nei pochi minuti di sosta alle stazioni vedeva dappertutto della gente felice, seduta in terra a fumar la pipa, o dei gruppi di ragazze che tornavano a casa dalla filanda, cantando come se avessero mangiato la felicità colla polenta. Quattro spanne di terra, quattro fagiuoli, una scodella di latte e questa gente è padrona del mondo. Più furba questa gente in fondo (se lo sapesse) di chi logora anima e scarpe dietro il quattrino o dietro la gloria, o a cavallo di un puntiglio, o in una continua e rabbiosa diffidenza, per non raccogliere in fine che odio e maledizioni. Qualche cosa come una maledizione sentiva che gli pesava addosso da qualche giorno, per quanto egli si sforzasse di non pensarci e di dissiparsi in cento faccende. Egli aveva bisogno di essere perdonato... Era partito bruscamente senza rivederla, dopo averla maltrattata, insultata. Aveva ruvidamente respinta la sua preghiera, per non ascoltare che le voci del suo risentimento e della sua vendetta. Per quanto la passione o quel misto di puntiglio, di rabbia e di paura, ch'egli chiamava un diritto di legittima difesa parlasse ancor forte in lui, tuttavia sentiva, non senza sgomento, l'animo avviluppato da un sentimento che un altro uomo avrebbe riconosciuto ed accettato come un rimorso, ma che nella sua quasi ignoranza del bene e del male ostinavasi a tener indietro come un primo sintomo di debolezza e di senilità. Che bisogno aveva egli d'esser perdonato da una monachina? quali soddisfazioni le doveva? tra loro due chi più in debito di gratitudine? Bastava che egli la mettesse al sicuro d'ogni altro oltraggio, questo sì: e a tal fine non aveva risparmiato passi e denari. Ma in quanto al resto non è stabilito che le donne non c'entrano negli affari degli uomini? Esse hanno la loro casa, la loro musica, le loro calze, i loro figliuoli; gli uomini hanno la banca, l'industria, il commercio, la politica, la guerra, le botte... Anche le botte, sì: la vita è una battaglia e vince chi pesta di più. Son come due amministrazioni con due libri mastri diversi che non hanno nulla a che fare l'un coll'altro; e di questo avrebbe dovuto capacitarsi quella benedetta ragazza. E mentre un pensiero sofistico andava persuadendolo di queste verità così vecchie, un sentimento non meno ragionevole e forte gli faceva capire che bisognava far la pace subito, ad ogni patto, con Arabella. Non poteva star in collera, e non poteva vivere nel dubbio di non essere amato e stimato da lei come prima. Poesia o no, questa benedetta figliuola, dal dì ch'era entrata in casa, e forse anche prima, aveva ringiovanita una vita sterile, senz'affetto, aveva rinnovate e rinfrescate delle sensazioni che parevano morte e sepolte; gli aveva fatto del bene... Per quanto procurasse e si sforzasse di richiamare le furie più scapigliate della sua natura e di affilare spade e coltelli in una guerra di diritto, non poteva sottrarsi a quel dolore vivo che prendeva nel venire innanzi la mesta figura di lei. E questa pallida e dolente figura, come lo spettro d'un morto offeso, non si rassegnava a partire. Al contrario, se la sentiva presente anche nei momenti in cui l'ira strillava di più e la mente sbandavasi di più, come una coscienza nuova fuori di lei, che esaminasse, giudicasse... aspettasse qualche cosa. Non avrebbe osato dirlo, ma cominciava ad accorgersi, istintivamente, che se Arabella non fosse mai venuta in casa, la sua strada sarebbe stata molto più facile e diritta, sempre quella che aveva battuta dal quarantotto in giù, la strada dei mezzi semplici e dei pronti risultati. Aveva voluto deviare, indugiare, fare della poesia, assaggiare prima di morire il sapore del bene e questo dolce ora facevagli male allo stomaco. Non si è mai abbastanza al riparo dalle tentazioni, e quelle che vengono dal bene non sono le meno pericolose. Che diavolo! colui che nelle cose del mondo aveva un piglio così lesto e sommario, che fin dall'adolescenza s'era abituato a stimar buono ciò che serve a qualche cosa, e ciarle inutili tutto il resto; colui che a preti, a frati, ad avvocati, a parenti, a deputati rideva tanto di gusto in viso, non era strano, inesplicabile che dovesse sgomentarsi all'idea d'una monaca a cui non doveva nulla, ma che s'era tirata in casa quasi per compassione? poesia, romanticismo! Ma non poteva cacciarla via. Una soddisfazione, una parolina di scusa doveva dirgliela. L'aveva offesa, dunque chi fa il male faccia la penitenza. Fra una mezz'ora sarebbe stato a Milano, l'avrebbe vista, le avrebbe parlato: forse avrebbe concesso oggi quel che non aveva osato promettere prima. Sì, sì, povero angiolo, bisognava che la vedesse prima di andare a dormire. E battendo le palpebre, cercò di reprimere una improvvisa commozione di pietà, che riempì e sconvolse tutta la vita. Qualche cosa di forte e di misterioso si mosse al disotto di un oscuro risentimento, che lo afferrava da tutte le parti come un amico tre volte più grande, che lo disarmava. Sporgendo il capo dallo sportello nell'aria fredda, cercò un refrigerio, si sforzò di riprendere un coraggio che fuggiva, e ritrovò finalmente gli spiriti nell'energia di una parola che tornò a inframettersi alle sue malinconie, e ch'egli pronunciò colla faccia rivolta verso i monti: "Buffoni!" In mezzo a questi contrasti arrivò a Monza ch'era già buio, e buio prima dell'ora per quel diavolo di temporale. Il treno aveva viaggiato verso il cattivo tempo, e ora si trovava nel fitto della bufera. Non pioveva ancora, ma il temporale secco scatenavasi in un turbine di vento polveroso, in lampi spessi e taglienti come lame, e in tuoni continui, ringhiosi, brontoloni. La stazione e i vagoni non erano ancora rischiarati, perché l'amministrazione non tien conto dei temporali. Ci si vedeva sì e no, più coll'aiuto dei lampi che, sto per dire, con quello degli occhi. Mentre il nostro viaggiatore stava appoggiato allo sportello, intento a strologare la tettoia di vetro che mandava bagliori e fosforescenze a ogni guizzo, un reverendo sacerdote, per quanto si poteva vedere, entrò dall'altra parte del vagone e si rincantucciò in un angolo. "Che demonio di temporale!" esclamò il reverendo, che ansava ancora per la corsa fatta, mostrando la voglia d'avere un compagno in quel breve viaggio al buio. "Eppure io credo che va a finire in nulla... Oggi è stata una giornata calda: son lampi di caldo..." Prima che il treno si rimettesse in moto, anche un giovane e svelto ufficiale di cavalleria saltò sul vagone e sedette in mezzo ai due viaggiatori, che occupavano i due angoli obliquamente opposti. L'ufficiale chiese il permesso di fumare. "Faccia pure" dissero insieme le due voci. L'ufficiale accese un zolfanello di cera e lo tenne vivo il tempo d'accendere un sigaro, rischiarando il vagone, mentre il convoglio, alquanto in ritardo, ripigliava la sua corsa. Ciò permise al signor Tognino di riconoscere nel reverendo, seduto nell'angolo, la cara e simpatica persona di don Giosuè Pianelli e a costui nel suo compagno di viaggio quel bel gioiello di sor Tognino. Per fortuna di tutti e due il buio del vagone li coprì e li nascose di nuovo l'uno all'altro e la presenza del regio esercito impedì che si guastasse strada facendo, una conversazione che pareva così bene avviata. Ma i due vecchi bisbetici, dopo essersi fiutati come due cani in collera, continuarono a ringhiare e a guardarsi nell'oscurità. Tutte le volte che l'ufficiale accendeva il sigaro (e un fumatore italiano può immaginarsi quante) quei quattro occhi, attratti da una forza che aveva nulla a che fare coll' "affinità affettiva" di cui parla il Goethe, s'incontravano nella linea diagonale sul fuoco del fumatore, che mandando globi di fumo in alto ritornava forse lieto da un lieto incontro. L'odio e l'amore son fatti per non conoscersi, ma spesso viaggiano insieme. Quei due sguardi si guardavano fissi incrociandosi come due fioretti, i lineamenti delle faccie s'indurivano, le mani diventavano pugni, poi tutto ritornava nero come i loro pensieri. Nel buio continuavano i due cuori ad azzuffarsi. Il prete odiava nell'affarista il traditore, il ladro empio e bugiardo, il sacrilego miscredente che coll'aiuto del diavolo aveva rubato alla chiesa e ai poveri un'eredità di quattrocentomila lire. L'affarista esecrava nel prete l'intrigante, il gesuita, l'impostore, la causa prima degli scandali, l'eccitatore interessato d'una masnada di straccioni. Se le idee che passano negli animi degli uomini avessero la virtù d'accendersi secondo la forza elettrica che contengono, i due vecchi bisbetici avrebbero mandato fuori lampi più sinistri di quelli che andavano guizzando e irritandosi laggiù sopra Milano, dove il treno li portava a precipizio, rumoreggiando, fischiando sotto i primi goccioloni del temporale. Ci volle tutta la carità, di cui è pieno il libro del breviario che gli faceva gonfia la veste sul petto, perché don Giosuè si trattenesse dal gridare sul muso del vecchio affarista: "Ladro maledetto, ti porterà via Belzebù!" "Ci vuol altro," pensava infuriando con se stesso il canonico "ci vuol altro che predicare pace, conciliazione, misericordia, come seguita a ripetere quell'anima di polentina di don Felice. In questi tempi di affarismo, di ebraismo, di massonismo trionfante, bastoni di ferro bisogna! l'acqua santa non spegne più nemmeno la polvere delle strade. A furia di piagnistei e di fiducia nella provvidenza ha visto il Papa quel che gli è toccato. Bastoni di ferro! trentamila cani còrsi ci vorrebbero... a... a... Animali!" Dall'altro cantuccio scoppiavano idee non meno velenose contro gl'intriganti, che speculano sui rintocchi delle agonie, sulle goccie di cera, pipistrelli dell'oscurantismo, mummie tenute su dall'ignoranza dei gonzi... L'ufficialetto sognava, col sigaro morto in bocca. Il treno entrò in stazione. Il giovinotto fu il primo a scappar via. Gli tenne dietro il signor Tognino che, colla mano attaccata allo sportello, s'indugiò un istante come se aspettasse il prete: e quando questi gli fu presso, l'affarista sputò sul predellino. "C'è del marcio..." ringhiò don Giosuè. La folla li travolse e li separò, mentre l'acquazzone rovesciavasi, crescendo, sulla volta di vetro. Il sor Tognino prese una vettura e prima di andare a casa volle vedere il notaio, col quale rimase fin verso le nove. Giunto a casa un po' più tardi, trovò sulla porta l'Augusta in compagnia della portinaia e di qualche altra vicina, che a vederlo, gli vennero incontro, esclamando in coro: "E la signora?" "Che signora?" "La siora Arabella..." ripeté l'Augusta con un tono smarrito. "Che cosa la siora ?" tornò a chiedere il padrone con impazienza. "Non l'ha trovata? non è con lei? È uscita in principio di sera e non s'è più vista." "Uscita?" dimandò, precedendo le donne fino in portineria. "Con chi uscita?" "È uscita sola." "A fare? che cosa ha detto?" "Non ha detto nulla. È uscita di punto in bianco e non si è più vista. E c'è questo tempo in aria, povareta !" "Non capisco nulla... venite di sopra..." brontolò il padrone, continuando la sua strada verso le scale.

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Salvatore e Maddalena, lo abbiam detto, s'eran pigliata a tempo la parte migliore di quel cuore pieno di passioni e di fantasmi. - E come spiega allora, eccellenza, che Salvatore fosse in possesso del cappello di prete Cirillo? - Io non so nulla, caro... - Ella avrebbe detto al giornalista che il cappello può essere stato gettato nel giardino... - Sí. - Ci dia un'idea della casa e del giardino. C'è un muro di cinta? - Sí. - Molto alto? - Cosí... - Ma un testimonio dice che il cappello non fu trovato in giardino. - Dove fu trovato? - chiese con piú animo il barone. - In casa. - Dove? - insisté sua eccellenza con un tono quasi insolente. - Abbia pazienza, capisco, è noioso. Ma è questione di cinque minuti. Il barone si era fermato al suo dove? come davanti a una porta chiusa. Non era meno curioso degli altri di sapere in qual maniera il prete aveva perduto il suo cappello. Successe una piccola pausa intanto che il signor cancelliere e l'altro signore dagli occhiali sul naso frugavano in mezzo a un mucchio di carte, susurrando tra loro parole confuse e cabalistiche. - Non sai nulla! - disse ancora una volta una voce che usciva dagli strati piú fondi del suo pensiero. Era un ultimo avvertimento a un uomo, che si accorgeva di lasciarsi troppo ingannare dalle sensazioni. Si abbandonò, si accomodò nella poltrona e cominciò a guardare diritto avanti a sé coll'occhio fisso nella luce chiara della finestra, colle gambe accavallate, col suo splendido cilindro in mano. Agitò il bastone, si guardò la punta dei guanti... - Non sai nulla! - tornò a dire la voce prudente e segreta. Il giudice perdette un po' di tempo a cercare una carta tra le carte; poi, col tono uniforme di una campana, cominciò: - Il suo nome?... Scusi, sono le solite formalità. - Carlo Coriolano barone di Santafusca - rispose il barone con enfasi. - Figlio? - Di Nicolò. - Età? - Quarantacinque... credo... però... "U barone" sorrise un poco. Sorrise un poco anche il giudice. - Abitante?... lo sappiamo... non importa. Il giudice mormorò alcune parole al vicino che alzò il naso armato di due grandi occhiali. Il vecchio usciere cominciò a dondolare come un pendolo dietro le spalle del testimonio. "U barone" che lo vedeva colla coda dell'occhio non poté resistere alla voglia di voltare il capo e di guardare ancora una volta quella secca figura di merluzzo vestita di nero. Era un gran mistero per lui come avesse potuto credere di distruggere il corpo del delitto, gettando in fondo al mare un cappello, che adesso era nelle mani dei giudici. Fisso in questo problema non intese l'ultima dimanda del giudice, e ciò produsse un piccolo imbarazzo in tutti. - Non crede che possa essere stato gettato in mare? - chiese con una naturale diversione l'amabile cavaliere Martellini, che non perdeva di vista l'orologio, come per dire all'illustre amico: Abbia pazienza, ho quasi finito. - È difatti la mia opinione... - Che cosa fu gettato in mare? - chiese il cancelliere, che stava scrivendo le risposte nel processo verbale. - Il cappello. - Il prete. Queste due parole risonarono insieme, la prima per la bocca del barone che era trascinato dalla forza della verità, l'altra per la bocca del giudice, che seguiva invece i naturali indizi del processo. L'urto di queste due parole fu una prima scossa dell'edificio che il barone aveva innalzato per sua difesa. Temette di essere già caduto in contraddizione, e si affrettò a dire con grande vivacità: - Dico il cappello... il cappello. - Questo non è possibile, - soggiunse il signor giudice - perché il cappello è nelle nostre mani. Anzi, se lo vuol vedere... Quaglia togliete il panno. L'usciere si avvicinò alla cesta con passo lento e vacillante e la scoprí. Il cavaliere Martellini si alzò e disse: - Favorisca. eccellenza. Il barone, che sedeva piú basso, non poteva arrivare cogli occhi fin sopra la cesta. All'invito replicato del giudice fece per muoversi, ma non poté subito per una specie di paralisi nervosa. - Scusi, se non le rincresce incomodarsi... "U barone" sentí che non poteva rimanere lí, duro duro, incantato. Si spaventò di questa sua fisica incapacità, molto piú che gli parve di scorgere in viso al cavaliere un senso di meraviglia; si riprese, e con uno di quegli sforzi supremi con cui soleva pigliarsi quasi per i capelli, andò diritto fino al banco e guardò. Il cappello del prete, nella sua eleganza di cappello nuovo, spiccava sul fondo rossiccio di una sacca o carniere da cacciatore. Il cavaliere continuò: - Ecco il famigerato cappello: lo osservi, eccellenza. La giustizia sa di sicuro che questo cappello fu venduto a prete Cirillo la mattina del giorno quattro di aprile. Don Antonio l'avrebbe trovato nella stanza di Salvatore, che forse l'avrà raccolto in giardino. Per scrupolo di coscienza fu inviato in una scatola a Filippino Mantica. In questo intervallo prete Cirillo scomparve e non si sa piú nulla dei fatti suoi. Il cappello porta qualche ammaccatura leggiera qua e là, qualche macchia di calce... osservi, vede? "U barone" non vedeva nulla, tranne un gran nero. Tutta la sua vita era raccolta nell'afferrare le dimostrazioni e le dimande del giudice. Al suo fianco vedeva una figura nera che si agitava, e che cacciava le mani nella cesta quasi per fargli dispetto, e cominciò a fissarla con un occhio sanguigno e cattivo. La toga nera e sciupata delvecchio usciere faceva spiccare il bianco del suo piccolo capo e di un bavaglino di tela conficcato nel collare. Il Quaglia, che teneva il cappello del prete in mano, lo mosse due o tre volte, segnando col dito ossuto le macchie e le ammaccature qua e là, gonfiando un poco un paio d'occhi color madreperla. Il barone non poteva torcere gli occhi da quegli occhi gonfi, che lo guardavano con una mezz'aria d'ironia. - In quanto all'opinione che accusa un cacciatore, - continuò il giudice, - sarebbe in parte confermata dalla scoperta di questo carniere. - Ah! - fece il barone con un'esclamazione quasi di trionfo, come se volesse dire: "E non avevo ragione io di credere in questo cacciatore?". - Questo carniere fu trovato in una barca presso alcuni scogli. - Precisamente! - ribatté il colpevole, senz'accorgersi di dire troppo, ma credendo con ciò di distruggere meglio l'effetto di una contraddizione in cui fosse caduto poco prima. Ormai nel suo turbamento e nel conflitto in cui trovavasi tra la verità, la coscienza e il giudice, non sempre aveva presente ciò che gli conveniva dire e ciò ch'era meglio tacere. - Scusi, barone, ella forse si sente male... - balbettò l'egregio funzionario, impallidendo un poco. - No, no, sto benissimo, che cosa dice? - rispose "u barone" balzando con una scossa del corpo come se cadesse da un gradino non visto, nel buio. - Volevo soltanto far notare - soggiunse ridendo - che la mia opinione era fondata su una presunzione, e che non avevo torto di dire "cherchez le chasseur". Non mi sento male, tutt'altro, anzi ho quasi appetito... - Trasse e guardò l'orologio. - È naturale, è quasi mezzodí. Pareva che lor signori avessero voglia di trovarmi in contraddizione; ma qui c'è la prova parlante che un cacciatore esiste. Ecco il triste connubio dell'assassino e della sua vittima! La voce del barone di Santafusca erasi fatta cosí oscura e profonda, il modo con cui andava squadrando il vecchio usciere era cosí pieno di ferocia e di spavento, che il cavaliere Martellini e gli altri, allibiti, si guardarono in viso. Il buon giudice istruttore finse di cercare alcune carte, ma le sue mani tremarono come se avesse indosso la terzana fredda. - C'è don Ciccio Scuotto? - chiese al Quaglia. - È di fuori. - Fatelo pure entrare. Il barone, la testa del quale navigava già in un mare torbido e burrascoso, tornò a fissar l'occhio bianco e cristallino sulla finestra. - Scusi eccellenza, si accomodi pure - riprese a dire il giudice con voce più composta. Anche noi non abbiamo mai messo in dubbio l'esistenza di un cacciatore... Si accomodi. Il barone andò a sedersi sopra una scranna che portò egli stesso nel mezzo della sala, e cominciò a far dei calcoli e dei confronti tra il suo orologio e il quadrante appeso alla parete. Si sarebbe detto che il processo non lo toccasse più. - Dunque vediamo d'orientarci, caro barone, per venire a una conclusione - cominciò a dire colla amabilità solita il signor giudice: anzi, infilando egli stesso il racconto con una di quelle astuzie inquisitorie che non sbagliavano quasi mai, entrò nell'animo del testimonio e cercò di tirarlo a sé: - Un cacciatore dunque fu veduto alla Falda, all'osteria del "Vesuvio"; poi fu veduto da un cantoniere della strada ferrata, e finalmente pare che abbia preso il largo in una barchetta da pesca che trovò presso alcuni scogli. Va bene? - Precisamente - tornò a dire Santafusca col tono semplice e naturale di chi ha veduto e quasi toccate le cose che afferma. Il cavaliere Martellini tornò a rimestare nelle carte, per dar tempo all'animo di ricomporsi. Gli altri due signori che sedevano ai capi della tavola si lanciarono un'occhiata piena di spavento dietro le carte e i protocolli. Piú che il contegno irritato, piú che l'occhio stravolto, fece colpo sull'animo dei giudici la sicurezza, la prontezza, il candore quasi con cui il testimonio confermava e ribadiva i semplici indizi della procedura. In quel mentre entrò don Ciccio, a cui il Quaglia aveva susurrato nell'orecchio alcune paroline. L'acuto "paglietta" gettò uno sguardo su quell'uomo torbido che sedeva nel mezzo della sala, piú appoggiato alle ginocchia che alla sedia, e si arrestò di scatto. Aveva egli trovato piú di quanto cercava? Fisso, estasiato di quel suo trionfo, l'avvocato dei preti andava girando la manica sul pelo del suo cilindro bianco, che non era mai stato cosí liscio. Dopo aver ricomposta la persona sulla poltrona, il cavaliere Martellini ritornò a dire colla solita piacevolezza: - Ancora una parola, eccellenza, e poi la lascierò in libertà. Ormai non è più il giudice che interroga, ma l'amico che discorre di un caso curioso. Noi magistrati siamo spesse volte affetti di miopia curialesca, e piú aguzziamo l'occhio e meno vediamo le cose che cerchiamo. Un uomo di mondo invece ha l'occhio sano. Voi avete detto benissimo, caro barone... - soggiunse il giudice ripigliando un grazioso tono di confidenza, - noi abbiamo davanti il turpe connubio dell'assassino e della sua vittima; ma, secondo voi, quale interesse poteva avere l'assassino di uccidere il povero prete? - Il prete era ricco - disse il barone alzando burberamente le spalle. - E voi credete, caro barone, che il cacciatore abbia agito per conto proprio o invece per mandato di qualche persona potente? - Per conto proprio, diavolo! - Dunque - continuò il giudice con un tono piú eccitato e squillante - questo cacciatore o falso cacciatore avrebbe procurato di tirare il prete fuori di Napoli... Il barone si alzò con aria tragica e accompagnò la sua affermazione con un gesto vigoroso, stendendo il braccio e l'indice verso un punto della parete. - Precisamente, e lo gettò in mare. - Il prete? gridò il giudice. - Il prete... rispose il barone che adesso non parlava piú che per una specie di meccanismo interno. - Prego il signor cancelliere di mettere a processo verbale che il testimonio crede che il prete sia stato gettato in mare. Il tono ruvido e autorevole con cui il signor giudice pronunciò queste parole, e i colpi del dito sulla carta con cui accompagnò l'ordine, diedero una seconda e terribile scossa ad un uomo che parlava come un addormentato. "U barone" trasalí, e ripetendo a sé stesso l'ultima risposta, si spaventò di essere caduto cosí presto in contraddizione. Prima aveva detto che il cacciatore aveva gettato in mare il cappello e non il prete: ora diceva che il prete era stato gettato inmare. Di questa contraddizione la sua mente non era piú in grado di valutare l'importanza e il pericolo: e tanto meno essa era in grado di conciliare la prima risposta colla seconda: ma il colpevole sentí confusamente che l'edificio della sua difesa diroccava da tutte le parti, e che da questo momento aveva nel cavaliere Martellini un terribile nemico. Procurò di rettificare la deposizione di prima: ma ormai gli mancavano gli argomenti, gli mancava la voce, il tempo; e le parole gli si aggrovigliavano in bocca. Gli veniva meno la forza di tener separato nettamente il cacciatore da sé, di non attribuire all'uno pensieri ed atti che appartenevano, pur troppo! soltanto all'altro. Non sapeva piú discernere il fatto da' suoi particolari, e, per la foga di conciliare il prete col suo cappello e di voler credere troppo nel cacciatore, non si accorgeva che a poco a poco andava esponendo e accusando sé stesso. La sua testa era una fornace. I mille fantasmi cacciati, respinti, costretti, flagellati dalla sua scienza edalla sua logica, uscivano sbucando ora tutt'insieme dai tenebrosi spechi della coscienza, invadendo la sua ragione e lo spavento s'impadroniva di quell'uomo che da circa un mese aveva lanciata una terribile sfida alla natura e a Dio. Questa povera anima, che aveva resistito agli urti del rimorso e della disperazione, fatta solida da uno smalto artificiale di convinzioni scientifiche, si screpolava da sé per la inferiorità della sua stessa vernice. La mente non connetteva più, si spezzavano le formole logiche, e la pazzia, la furia vendicatrice della superba ragione, scendeva a rompere la testa del barone di Santafusca, come egli aveva spezzata, con una sbarra di ferro, la piccola testa di prete Cirillo. Ciò che seguí da questo momento non fu piú interrogatorio nelle forme, ma la lotta estrema di una ragione contro un rimorso. Il barone in piedi, nel mezzo della sala, gesticolando con forza, col suo bastoncino in mano, cominciò a dire: - Mi meraviglio che si voglia ancora trovarmi in contraddizione. È chiara, per Dio! Prego a non farmi dire cose che non penso. Che ne so io di questa faccenda? Io dico che il cacciatore aveva tutto l'interesse a far scomparire le traccie del prete, cioè il suo cappello. L'uno valeva l'altro; anzi l'uno piú dell'altro, perché l'uomo si spegne come a soffiare sopra un moccolo, ma la materia (gridò contorcendo nelle mani il bastone) la materia è dura, resistente, indistruttibile, ha filamenti eterni, immortali. Avete letto, signori, il "Trattato delle cose" del celebre dottor Panterre? Devo io citare a questi signori Buchner, Moleschott, Hartmann, per dimostrare questo principio fondamentale che nulla si può distruggere di ciò che esiste? Quando voi pensate che una palla di cannone impiega piú d'un milione d'anni a cadere dal centro del sole al centro della terra, e che il sole è un tuorlo d'uovo in confronto delle nebulose e degli asteroidi e dell'infinito spazio, io son persuaso che riderete anche voi con me di queste sciocchezze, come rideva poco fa quel teschio di prete coi denti appoggiati alla grata. Né quel prete, né quell'altro, non cantano piú l'epistola... "U barone" sorrise in modo sinistro e, facendo tre o quattro passi veloci nella sala, continuò, rinfocolandosi, spezzando in due il bel bastoncino e buttandone in aria i frantumi: - Ecco perché il cacciatore cercò di far scomparire il cappello del prete, gettandolo in mare. Per averlo in mano, quel cappello, era andato fino alla Falda perché sapeva che Giorgio della Falda l'aveva preso con altre robe nella stanza di Salvatore. Per questo io dicevo che il cappello fu gettato in mare, e non c'è nessuna contraddizione, caro cavaliere Martellini. Se il cacciatore avesse affogato il prete, come potrebbe il prete essere sepolto a Santafusca? Non vorrete supporre che lo abbia ammazzato Salvatore. O per l'anima mia! io devo difendere la memoria di un uomo che mi ha portato sulle braccia, e, dovessi dar tutto il mio sangue, non permetterò mai che l'ombra del piú piccolo sospetto funesti una tomba pura e modesta! Vigliacco è chi lo pensa, vigliacco chi lo dice. Perché avete trovato il cappello nella sua stanza, voi correte a calunniare un poveretto morto che non può difendersi. E chi vi dice che il cappello non sia stato portato in camera di Salvatore dal suo cane?... Interrogato il cane, non rispose, ha detto ironicamente il cavaliere Martellini; ma se quel cane parlasse, signori miei, vi direbbe, come ha detto a me, che il prete non fu gettato in mare, ma fu ammazzato dal cacciatore e sepolto da lui nella villa... - Dal cacciatore? - soggiunse con voce rotta da un singulto il giudice, che si aggrappava ai bracci della poltrona quasi per resistere allo spavento di quella scena non mai veduta. Gli altri ufficiali, l'usciere, don Ciccio, irrigiditi da quello spettacolo, non davano quasi piú segno di vita. - Dal cacciatore, dall'anticristo... - gridò "u barone". - Che... che tirò il prete a Santafusca con un pretesto... l'uccise e lo seppellí in giardino... eh? eh? - Il giudice pareva che volesse arrampicarsi sullo schienale dei seggiolone. - Non in giardino - esclamò "u barone" ridendo come se l'amabile cavaliere avesse detto una facezia. - In fondo alle scuderie, sotto quel mucchio... Il barone non parlò piú. L'occhio fisso sul cappello del prete, dopo aver raccontato del cacciatore ciò che da un mese aveva troppe volte raccontato a sé, si sprofondò nella contemplazione estatica del suo delitto come se ancora avesse sotto gli occhi quel maledetto mucchio di calce e di mattoni. Ed era uno spettacolo veramente tragico e solenne assistere alla confessione di un uomo che accusava l'ombra sua. - Barone di Santafusca, - gridò finalmente il giudice, alzandosi ritto su tutta la persona che parve diventata piú grande - voi siete mio prigioniero. Il barone a queste parole si scosse da quella specie di sonno magnetico in cui l'aveva tratto la fissazione della sua mente; fece un mezzo giro su sé stesso, si guardò intorno con occhio scemo e torvo, parve ancora una volta riconoscere l'orrore delle sua condizione, mandò un urlo, alzò le braccia, e, spinta la sedia in terra, cercò farsi strada verso la porta. Era troppo tardi. Vi stava già la forza. - No, - gridò colla bava alla bocca - v'ingannate. Posso dare altre prove. Sono malato, vedete, è la testa. Sentite la mia testa. Per Cristo santo, ho la febbre! Sono innocente. Volete che io vi conduca sul luogo del delitto? Vi farò vedere e toccar con mano. Signori, voi avete davanti un barone di Santafusca, che non si lascia arrestare come un guappo. Cosí dicendo, si chinò, afferrò la sedia colle due mani, e alzandola colla vigoria dei suoi muscoli furibondi, cercò di farsi ancora una strada verso la libertà. Successe una scena indescrivibile. I giudici si alzarono spaventati e si ritrassero verso la parete di fondo, scompaginando nella fuga sedie, carte e libri. Il vecchio usciere per poco rimaneva massacrato dalla sedia che l'assassino gli scaraventò sulla testa; guai a lui, se non si abbassava a tempo! Seguí una lotta fiera a corpo a corpo, tra l'assassino inferocito e i due soldati dalle braccia robuste, che lo avvinghiarono come un orso feroce. L'assassino rotolò in terra ai piedi della tavola, trascinando con sé uno dei carabinieri che tentò di mordere al viso. Finalmente, coll'aiuto d'altri secondini accorsi, fu domato, legato.... ma la giustizia umana non ebbe nelle mani che un povero pazzo. Il barone era stato tradito e punito dalla sua stessa coscienza.

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

663154
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

NARCISO: Non posson tardar molto, ma noi abbiam tempo di prendere prima un cicino di caffè in compagnia, se lei permette. Si accomodi: forse avrà sentito qualche rumore in casa... MARIANNA: Tutt'altro: lei ha in questa casa un piccolo paradiso. NARCISO: Mentre parliamo, sì... Lei non è milanese. MARIANNA: Nossignore, sono di Perugia. NARCISO: Si capisce all'accento. Mia moglie invece è di Abbiategrasso. ( Menica serve il caffè ). NARCISO: Lo piglia dolce? MARIANNA: Così, basta. NARCISO: Ci vuol mettere un biscottino? MARIANNA: Volontieri. NARCISO: Vorrei essere io... quel biscottino. Ed è un pezzo che ha sposato il signor Spazzoletti? MARIANNA: Due anni... NARCISO: Due anni appena? son due sposini novelli. E si voglion bene eh... MARIANNA: Spazzoletti è tanto buono, tanto premuroso! sicuro, che per volersi bene bisogna qualche volta contraddirsi; non c'è estate senza temporale... NARCISO: In quanto a temporale la mia Marianna l'è ona tronada sola ; ma è una donna eccellente per far le uova strapazzate. Lei mi ricorda tutto il profilo della mia prima moglie. MARIANNA: È vedovo il signor Ballanzini? NARCISO: Ha visto quel ritratto a olio nella sua stanza? quella è la mia prima moglie. MARIANNA: Un'espressione dolce, graziosa... NARCISO: Povera Carolina: dopo un anno di matrimonio Dio l'ha voluta a sè. MARIANNA: E il signor Ballanzini ha detto: - Chi muore giace, chi vive si dà pace... NARCISO: Fragilità delle cose umane... MARIANNA: La seconda signora Ballanzini deve aver avuta una grande attrattiva per vincere la memoria di una donna così bella e ideale... NARCISO: Non mi faccia fare delle confessioni... Glissons ... scarligon ... MARIANNA: Qui c'è della musica? Suona la signora Ballanzini? NARCISO: Sarebbe una buona suonatrice di campane, ma il cembalo, dice lei, el ghe fa nass i sciattit in del venter... MARIANNA: Questa è vecchia musica da canto... NARCISO: La povera Carolina aveva una bella voce e qualche volta la sera d'inverno, quando el fioccava, la se metteva lì, povera veggia, e intanto che io dava un'occhiata alla gazzetta la si divertiva colla Sonnambula e col Trovatore ... Anche lei sa la musica? MARIANNA: È il mio maggior divertimento. Che cosa è questa: Serenata valacca ? NARCISO: L'era la sua romanza favorita... MARIANNA ( suona e canta ) NARCISO ( siede e accompagna la musica con una controscena ): La par la soa vôs che vegna dal ciel... T'è lì, t'è lì... che me ven squasi de piang...! O Narcis... cosa l'è che te parla in del coeur... Cosa l'è che vola per l'aria? Finita la romanza Marianna si alza e si avvicina alla sedia dove sta seduto Narciso; questi le stende le mani, ma oppresso dall'emozione non sa parlare. MARIANNA: Forse io ho sollevato dolorosi ricordi... NARCISO ( sforzandosi di sorridere ): Dolci, cari... MARIANNA: Ho forse evocata la voce d'una povera morta... NARCISO: Ha fatto vivere a un morto un minuto di... di... di... Che ciallon, la dirà... Ma sont on omm insci... Me commoevi per pocch... Che la mi suoni qualche cosa d'allegro: una polketta, un galopp... ( la conduce al piano ). MARIANNA: ( canterà una romanza allegra ) NARCISO: ( si muove per la stanza in preda a un dolce orgasmo ) Chissà come l'è fa sto coeur, Narcis... Te seret nassuu per fa el papà di trenta fioeu... Va là, che te set un fieu ancamò... ( batte il tempo e si accompagna colla voce alle ultime note della romanza: non si accorge che dietro di lui è entrata la Ballanzini che dopo aver contemplato un istante la scena si fa a battere sulla schiena del marito ) LA BALLANZINI: Uno due e tre... galeotto infame! NARCISO: Oh la mia Marianna! ( l'abbraccia ) LA SPAZZOLETTI ( Cessa di suonare e vede Luigi ): Luigi, sei qui? LUIGI: Oh la mia Marianna ( si abbracciano ) pausa LUIGI: Oh la mia povera Marianna! NARCISO ( imitando con caricatura ): Oh la mia povera Marianna! LA SPAZZOLETTI: Oh il mio Luigi...! LA BALLANZINI: Oh el me baloss! NARCISO: Ma donde siete sbucati? la corsa non è ancora arrivata. LUIGI: La signora Ballanzini era così impaziente che questa mattina ha voluto prendere una carrozza. LA BALLANZINI: Per rivà a temp a batt la musica! LA SPAZZOLETTI: Come avete potuto passare la notte? LUIGI: La signora Ballanzini ha voluto presentarmi ad alcuni suoi amici che mi accolsero con molta cortesia. LA SPAZZOLETTI: La quale non potrà mai essere superata dalla cortesia con cui mi ha ospitato in casa sua il signor Ballanzini. LA BALLANZINI: Oh el sem che l'è bravo monsù de fa i compliment ai sciorinn... NARCISO: Volevi, cara moglie, che lasciassi una povera creatura di Dio su una strada? La carità cristiana... LA BALLANZINI: Fa minga la dottrina del diavolo... Se permetten parli mì. Il signor Spazzoletti el gh'à premura de vess a Milan per i so affari e sem vegnù apposta in carrozza perché sta bella sciora la pudess ciappà la prima corsa che va in giò... NARCISO: Come? io speravo che restassero almeno a far colazione. LA BALLANZINI: Mangiaran con pussee appetitt a Milan... Quindi disaria che gh'è minga temp de perd. LUIGI: La signora Ballanzini ha ragione: avrei dovuto essere a Milano fin da ier sera. Io ringrazio il signor Ballanzini di tutte le premurose gentilezze che ha usate a mia moglie... LA BALLANZINI: El s'è pagaa de mornee, ch'el vaga là. LUIGI: E spero che quest'avventura sarà il principio della nostra amicizia. LA SPAZZOLETTI ( alla Ballanzini ): Io chiedo perdono alla signora Ballanzini d'aver invasa la sua casa... LA BALLANZINI: Che la se figura cara el me tesor... LA SPAZZOLETTI: E spero che ella verrà qualche volta a Milano con suo marito... LA BALLANZINI: Immaginas! Mènica portem el bicocchin... NARCISO: Permettano almeno che li accompagni alla stazione... (Appena vidi il sol che ne fui privo) Avrei voluto offrire almeno un caffè e latte, una cioccolatta, ona barbajada... LA BALLANZINI ( mentre si spoglia ): Un risott alla milanese, una frittada rognosa, una fritturina de pasta badese per i sorci... Menica, el me bicocchin... MENICA ( reca un arcolaio con su un'ascia ingarbugliata ) LA BALLANZINI: T'è minga nancamò finii de sgarbialla? MENICA: Pussee se lavora pussee se la ingarbia. ( siede a svolgere la matassa ) LA BALLANZINI: A che ora l'è vegnuda ier sira quella sciora lì? MENICA: Coll'ultima... LA BALLANZINI: Dove l'à dormì? MENICA: Nella stanza della sora Carolina... LA BALLANZINI: Anh... a che ora l'è levada su...? MENICA: Poc fa... LA BALLANZINI: Vo de là a mettere in sorieura. Finiss de sgarbialla. MENICA: La gh'à un diavol gelos per cavel. Pover sor Narcis, l'è sta castigà un po' trop. GAITAN: Vuj,Menica, ho capii dove el sta el miracol. MENICA: Che miracol... GAITAN: El miracol dell'acqua che fa diventà gioven i donn. MENICA: Te set mat? GAITAN: Sont andà a toella adess... l'acqua... MENICA: Me par che te set andà a toe el vin... GAITAN: I ho vist mi i botteli... hin chi... MENICA: Bravo martor... bevi GAITAN: Te credet no? te voeut la proeva? MENICA: Dammela sta preuva... GAITAN: Dil no al padron... Vuna pu vuna men l'è minga quella che fa... ( esce ) MENICA: Gh'ò paura che g'abbien pagà el grappin per strada a quel pover martor. De che acqua el parla? de che miracol el discor? LA BALLANZINI ( esce in giubboncino leggiero un po' simile a quello che indossa Menica ) Da chì, da chì, te set intrega come ona settimana. Va a mett in orden la stanza de quella sciora... Met feura tutt coss all'aria. Menica esce. LA BALLANZINI: E adess el sor Ballanzini el giusterà i cunt con mì. Tutto deve confessare dall'a alla z: e imparerà on'altra volta a lassam dormì a posta per scappà via colla sciorina. GAITAN ( tra sè ): Eccola chi la miracolosa botteglia... Adess ghe la foo alla Menica... Ghe ne voja in testa un sidellin... LA BALLANZINI: E minga content de vess scappaa, el troevi chi a fa el gibigian e a batt el temp colla bocca averta come on merlo. Te vegneret a ca a scenna... GAITAN: Acqua della Rupe di Mosè Fa un miracolo per me... ( versa l'acqua in testa alla padrona ) LA BALLANZINI ( strilla ): Ohi, ohi... cosa l'è... cosa l'è... moeri... nega... ( si toglie il secchiello dal capo ) ajut... pover mort... GAITAN: O Signor, l'è diventata pussee veggia ancamò... ( fugge ).

Giacomo l'idealista

663167
De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Sapete quanta stima abbiam sempre avuta per voi. - La sua famiglia, signor conte, fu sempre troppo buona verso di me - disse Giacomo con commozione sincera. - Coi Lanzavecchia delle Fornaci siamo da un pezzo buoni vicini e non c'è mai stata ombra di dissidio fra noi. Ha fatto male il povero Mauro a morir cosí presto. Pareva il ritratto della salute, povero omaccione! Per me è un brutto avviso, perché siam lí lí cogli anni, e i cardinali, dicono a Roma, muoiono sempre a due per volta. Ci pensavo anche stanotte a quel pover'uomo, e, se permette, vi farò sentire quattro righe d'una iscrizione, che avrei preparato per la sua croce. - Il signor conte onora un galantuomo . - Non solo questo, ma ho voluto darmi il gusto di riprodurre un carattere. Non vorrei portar nottole ad Atene, e voi farete di quel mio esercizio quel conto che vorrete; quel che importa è che l'epigrafia non resti sempre nelle mani di questi benedetti curati, che guasterebbero il Santissimo. Dopo il Giordani, che fu quel gran maestro che sapete, non si vede piú una iscrizione tollerabile. Ma parleremo con più agio anche di questo un'altra volta; ora desidero sapere da voi che cosa si potrebbe fare di questo gran materiale di quasi trentamila iscrizioni, fra lunghe e corte, che rappresentano per me il lavoro paziente di trent'anni. Credeteche valga la pena di stamparle? la contessa dice di sí, e alle volte le donne hanno piú di noi il senso fino della convenienza; ma se si stampano, le esigenze scientifiche vorrebbero che si compilasse un indice e forse meglio ancora due indici, uno per i nomi, l'altro per le cose, e, se ce ne fosse un terzo in ordine cronologico, tanto meglio: ma voi mi capite, Giacomo, che per far tre indici di trentamila iscrizioni, lallèla , non basterebbero gli anni di Matusalem. Il conte raggrinzò la faccia a un riso lungo e silenzioso, che gli fece raccogliere in un ciuffo le grosse sopracciglia grigie biancheggianti e colorí la sua bella faccia di galantuomo sotto il berretto d'astracan, da cui scappavan due altri ciuffi di capelli brizzolati irti come lesine. Giacomo, messo nella necessità di dover dare una risposta cortese, tenne un pezzo gli occhi fissi sulla superficie e sul volume di quel muro di carta scritta, di cui, a parte le esagerazioni, riconosceva il merito storico, e più ancora il merito morale di chi aveva voluto con quell'opera di pazienza guadagnarsi il suo posto in paradiso. - Sicuro - disse finalmente, fissando gli occhi ora sul conte, ora sulle cartelle. - Sicuro che sarebbe un peccato non cavar da questo tesoro un costrutto. - Non pare anche a voi che un buon index nominum potrebbe portare un bel contributo alla onomatologia italiana? - Senza dubbio - riconobbe di buon grado Giacomo. - Non è lavoro che si possa fare né in un anno né in due; ma non è il tempo che manchi alla pazienza. Ne parlavo anche ieri sera colla mia Cristina, che, coll'intuito pronto delle donne, mi ha detto: Perché non ne parli al Lanzavecchia? egli potrebbe aiutarti. È giovane, e diligente, e gli può far piacere di trovare un'occupazione tranquilla che gli permetta di stare a casa sua. S'intende che ci dovremmo intendere da buoni amici. Quel che vi dà, per esempio, il collegio di Celana, ve lo potrei dare anch'io, per tre, per quattro anni, fin che è necessario: e vi darò anche di piú, quando si incominciasse la stampa del primo foglio, in proporzione della fatica e dei meriti. Cosí avreste il vantaggio morale di restare quest'inverno a casa vostra e di attendere anche alla vostra famiglia. Di tanto in tanto potrei fare una scappatina per consigliarmi con voi, e, quando si tornerà al Ronchetto per il raccolto dei bozzoli, si potrà dar principio alla pubblicazione d'una prima puntata. Che ve ne pare? Prima che Giacomo avesse il tempo di metter fuori una risposta degna di lui e del conte, una voce interna gli disse che questa proposta era un'abile e delicata insidia della contessa, che voleva fargli un beneficio senza umiliar il suo amor proprio: e nella schiettezza della prima impressione provò verso la buona signora un nuovo palpito di gratitudine. La contessa, che conosceva le angustie della sua casa e le segrete aspirazioni del suo cuore, gli offriva con un gentile artifizio un mezzo onorevole per provvedere degnamente alle une e alle altre; e nello stesso tempo veniva a infondere uno spirito di vita in un materiale sepolto, su cui si era logorata inutilmente l'energia podagrosa del povero conte. - La proposta che il signor conte mi fa - riprese a dire con un tremito di contentezza - è di quelle che lusingano l'amor proprio d'un uomo e anche, posso dire, la golosità d'uno studioso. Ma non so se il còmpito sia fatto per le mie spalle. - Non è il caso di citare il quid valeant humeri, caro Giacomo. Duecento lire al mese, per due, per tre, per quattro anni, fin che sarà necessario, fin che vi piacerà, è la mia proposta: e tocca a me ringraziar voi, che mi cavate da questo sepolcro. È sempre stato il mio sogno di lasciar qualche cosa, che mi ricordasse a' miei figli, quando sarò fatto polvere di pomice. E poiché sento che vostro padre vi ha lasciato in qualche imbarazzo, d'accordo con Cristina, non solo vi prego d'accettare questa nostra proposta, ma speriamo che non vorrete rifiutare fin d'ora una piccola anticipazione sul vostro lavoro. Nel dir queste parole il conte tirò fuori da un volume del Forcellini, che aveva sulla scrivania, una grossa busta di carta sigillata e si avanzò verso Giacomo, che, ritirandosi verso il muro, cercava di schermirsi. Don Lorenzo lo spinse bel bello nell'angolo tra la libreria e la stufa, e, sollevando il pesante dizionario, andò adappoggiarlo allo stomaco del giovane Lanzavecchia, mentre seguitava a dire colla sua quasi infantile bonarietà: - Non capite che è tutta una nostra furberia? se voi accettate questo denaro, non ci scappate piú. E senza aspettare una risposta, il conte insaccò la busta gonfia nel taschino, dove Giacomo soleva nascondere la peppinetta. - Se non volete accettare per voi, accettate per i bisogni della vostra mamma. Io voglio che possiate dare a questo lavoro tutto il vostro tempo, e tutto l'animo vostro; né dovete immaginarvi che vi si voglia far l'elemosina. A chi volete che affidi questa enorme fatica, se non siete voi, che da molti anni considero come un figliuolo della casa? Non spererò mai che Giacinto abbia a pubblicare le mie opere postume. Povero Giacintone! - Il conte ritornava pian piano a ricollocare il primo volume del Forcellini accanto al secondo, senza smettere di ripetere: - Povero Giacintone! piú grande amico dei cavalli che dei libri. Avrei dovuto chiamarlo alla greca, Filippo o Ippofilo. Mi ha scritto ieri una cartolina da Roma tutta piena di parole tenere e senza errori di ortografia. È a lui che voglio dedicare, se campo abbastanza, questa pubblicazione, a cui intendo premettere un "Discorso preliminare intorno agli Uffici della Nobiltà nel presente tempo", che mi sta sul tavolino da parecchi anni e non aspetta che un'ultima spinta . Fabrizio, il vecchio cameriere particolare del conte, comparve in quel mentre sull'uscio: - La signora contessa prega il signor Giacomo, prima d'andar via, di passare un istante da lei. - Dite invece alla signora contessa che l'aspettiamo qui - soggiunse il conte: e fatto un cenno a Giacomo, lo trasse nel vano della porta a vetri, che dava sul giardino, dove, affievolendo colla voce la importanza della cosa, gli disse: - Eccovi le due righe di epigrafe che avrei scritte per quel povero uomo. Voi sapete da insegnarmene, ma la qualità dell'uomo presentava questa volta qualche difficoltà stuzzicante. Imbalsamare gli illustri personaggi è mestier facile; ciarriva anche il sacrestano. Il punctum è di saper far vivere nel sasso un uomo modesto, un fabbricatore di mattoni: qui ti voglio, Giovannino! non si può mica mettere sul marmo la locuzione: Fabbricatore di mattoni e tanto meno quello sguajato (sgua-j-a-to, colla coda, con vostro permesso) epiteto di fornaciajo, e tanto meno fornaciaio coll' i corto. Ergo, come ce la caviamo? il latino dà fornacator, che non ha continuità nel volgare: meglio sarebbe calcarius, ma calcario può indurre nel volgo ambiguità e far pensare a ricalcare, calco, calcagno. Plinio mi dà un buon laterariorum fornacator, vale a dire cuocitore di laterizii, ma c'è pericolo che si cada nell'astruso, mentre il bello, come il sole, è tutto nella chiarezza. Quando poi si tratta di stile epigrafico, il bello è tutto nell'evidenza . Donna Cristina entrò ad interrompere la dotta esposizione, nella quale il conte si rianimava già tutto come un anatrino, che, dopo un lungo tempo di polvere e di siccità, senta tuonare in cielo e subito dopo vede l'acqua traboccare dai fossatelli. Era la prima volta che la contessa rivedeva Giacomo, dopo la morte di Mauro Lanzavecchia: e il giovane attribuí l'animazione dolente, quasi paurosa, con cui gli tese la mano, a un sentimento di commiserazione e di fedele amicizia. - Giacomo non ci dice di no, - cominciò a riferire il conte - anzi la cosa è fatta. Io gli dicevo poc'anzi quel che mi dicevi tu ieri sera; è un piacere e un servizio reciproco, che ci facciamo. I vecchi hanno bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno dei vecchi. - Signora contessa, - prese a dire Giacomo con un'intonazione cosí profonda che per poco non rasentava il pianto - non è la prima volta che io provo la bontà e la generosità illuminata di questa casa e, se qualche cosa mi trattiene dal dire subito di sí, è il dubbio ch'io non sappia degnamente corrispondere. Ringrazio il signor conte, ringrazio lei, donna Cristina. - E, non sapendo piú continuare davanti alla forte commozione, stese le mani a questi suoi due benefattori, fissando gli occhi sulla luce della finestra. - Offrendole questa tenue anticipazione, non intendiamo di umiliare il suo coraggio, caro Giacomo, ma solamente di metterla in grado di compiere piú bene il suo dovere di figlio amoroso e di studioso. Non è un dono, ma un prestito, che vogliamo assicurare alla sua attività. La contessa disse tutto ciò con un accento quasi sforzato, come se ogni parola le cagionasse un tormento. - E poi, Giacomo potrà anche, restando alle Fornaci, dare un occhiata a questa nostra gente. Il fattore è vecchio e comincia a far capire poco quello che dice, come un filosofo anche lui. - Il conte, che per aver ben digerita la colazione era in vena d'allegria, seguitò a battere una solfa leggiera sulle spalle del filosofo che aveva davanti - Finché non torni a casa dal servizio militare Bogella il giovine non farà male un'occhiata intelligente alla casa. Anche questi libri avrebbero bisogno d'un buon repulisti, ma se i servitori ci mettono zampe, addio categorie . Don Lorenzo, in questo istante, per non so quale successione di idee, si ricordò di non aver ancor preso il suo caffè delle tre. Egli soleva fare la sua prima colazione alle sette con un brodo liscio, o con un caffè all'ovo,o con una tazza di cioccolata che Fabrizio gli portava in camera, a seconda delle esigenze dello stomaco. In cucina e nelle sue adiacenze giudicavano subito dell'umore del padrone dalla chicchera sporca che tornava indietro. Brodo liscio significava sempre pranzo mal digerito, notte inquieta, giornata torbida, brontolamenti a tavola, piatti di ritorno, rimproveri al cuoco, accessi di palpitazione, sgomento della contessa, lacrime delle cameriere. Quel doversi mettere a tavola senza voglia di mangiare era per il conte una mortificazione insopportabile, quasi un vivere senza speranza, come avere un bel libro in mano, scritto bene, stampato bene, e non vederci. Per mantenere il buon equilibrio dello stomaco, che pei ricchi è la base della felicità, come pei poveri si vuole che sia il ventre, don Lorenzo faceva gran conto sul suo caffè caldo delle tre, anch'esso un piccolo piacere della vita, che Orazio, il classico gaudente, non aveva conosciuto, una vera nettarea bevanda, che avrebbe potuto ispirare a Virgilio un poemetto didascalico sul tipo delle "Georgiche". Nei primi ardori giovanili, quasi tutti ci sentiamo in qualche parte di noi stessi un poco poeti, don Lorenzo aveva ben carezzata l'idea d'una Coltivazione del caffè in versi sciolti, sull'esempio del poemetto che l'Arici consacrò alla Coltivazione degli olivi; e le quattro parti eran già distribuite con una varietà di scene e di episodi, che andavano dai torridi campi del Guatemala all'Ottagono della Galleria e al caffè Biffi di Milano; ma la difficoltà inaudita d'introdurre in versi rispettabili certe parole, come chicchera e macinino, ne aveva a piú riprese stancate le mani. Dopo averne pubblicato un mezzo canto sull' "Annuario degli Agiati di Rovereto", continuò a berlo il suo nèttare, ma lasciò stare le Muse, che non potevano ispirare quel che non avevano mai provato. Mentre Fabrizio serviva il caffè nelle belle chicchere di porcellana, Giacomo espose nettamente alla contessa il desiderio di avere alle Fornaci per alcuni giorni, la Celestina, in aiuto alla povera mamma. - È impossibile, - scattò a dire la contessa colla istintiva prepitazione di chi si difende da un improvviso assalto; ma poi per correggere sé stessa e per distruggere l'impressione che doveva produrre una cosí recisa risposta: - Cioè, non per dir di no, - soggiunse con umile spiegazione: - in un altro momento non avrei fatto ostacolo; ma in questi giorni aspetto le mie cognate di Buttinigo, avremo gente a pranzo, insomma se me la lasciate . - Che cara figliuola questa vostra Celestina! - disse il conte, che cominciava a gustare col naso il profumo del suo caffè - la mi piace con quel suo fare allegro e villereccio, che mi ricorda la Nencia di Barberino. Quando mi sento di cattivo umore o lo stomaco impastato, la faccio cantare: Va là, villan e mi pare di bere una tazza d'acqua fresca del fonte d'Ippocrene. Birbone il filosofo! - sentenziò socchiudendo gli occhietti maliziosi, mentre indicava col cucchialino alla contessa l'amico Giacomo, che stava prendendo il suo caffè in piedi con un contegno imbarazzato, colla testa accesa da una non ingrata commozione. - Birbone il filosofo, in filosofia, lui dice, io sono spiritualista, hegeliano, trascendentale e, se non vi disturba, anche intinto di panteistico spinosismo; ma in amore cerco il materiale e il palpabile. Questi idealisti son piú birboni degli altri, ve': a noi dànno le penne, ma l'oca se la mangiano loro . Mentre il conte, fatto rubicondo dal piacere, interno ed esterno, rideva cogli occhi, colla pelle del naso e col cucchialino, il volto di donna Cristina, pallidissimo, si fissò sui vetri della finestra in una rigidezza piú severa che dolente. Il conte che aveva la bocca buona, continuò: - Solamente, caro Giacomo, procurate che queste signore non ve la guastino, col loro Sacro Cuore. È diventata una esagerazione questo Sacro Cuore di Gesú. Pare che non si possa esser buoni cattolici, se non si fanno smanie per queste francioserie. Adesso bisogna che anche la divozione ci venga di Francia insieme alla moda dei cappellini. Oggi "Sacré- Coeur", domani "Ravachol" . Il conte, che aveva colla Francia una vecchia ruggine per quel che aveva letto dei tempi del Terrore, non poteva perdonarle la continua e deleteria influenza, che il libro francese esercita sul modo di scrivere dei nostri giornalisti e dei nostri stessi autori, non escluso quel benedetto don Alessandro, che in questa faccenda dello scrivere ha avuto dei grossi torti. - Francioserie di lingua, francioserie di cappellini, francioserie di Madonne e di Sacri Cuori, a furia di francioserie ci sveglieremo una bella mattina con una bomba sotto il letto. Io son vecchio ormai, o almeno spero che questo balzano di cuore mi farà morire a tempo: ma voi, Giacomo, mi saprete dire, cioè non verrete a dirmelo, perché sarò morto, ma vi accorgerete che gusto sarà questo vostro Socialismo. - Non è mio, signor conte, - obbiettò sorridendo Giacomo. - Non è vostro, ma è figlio della vostra filosofia dalle maniche larghe. Ve ne accorgerete, ve ne accorgerete. Speriamo che per quel tempo io abbia finito di mangiare la mia galantina e di prendere il mio caffè. Mi rincresce per il mio Ippofilo, per Filippone, e per quell'angelo che suona il cembalo di là. Il conte tacque per ascoltare alcune battute di una sonatina di Beethoven che donna Enrichetta eseguiva con una garrula agilità. Le note entrarono e risonarono nello studio, come il trillo gaio d'un canarino. La luce tiepida del pomeriggio, passando per le finestre, diffondevasi sugli scaffali, sulle splendide rilegature dei libri, sui vasi di porcellana, sulle cornici dei quadri, sulle stoffe damascate delle poltrone in una festa tranquilla di colori e di forme, in mezzo a cui apriva le braccia un mite crocifisso d'avorio biancheggiante su un drappo rosso ricamato in oro dalle mani della contessa e sormontato dallo stemma di casa. Duemila lire! Giacomo, nel ritornare alle Fornaci per la bella strada che gira dietro il "Roccolo" di don Andrea, non fece che pensare a questa offerta, che gli avrebbe permesso di lasciare per qualche tempo l'insegnamento e di rimanere alle Fornaci a dirigere la liquidazione e gli accomodamenti della sua casa. Duemila lire! S'egli tornava indietro col pensiero fino alle prime memorie della vita, non ricordava d'aver posseduto mai, tutto in una volta, una somma cosí grossa e veneranda, né di aver mai pensato, in mezzo alle ipotesi della possibilità, a quel che si può fare con due mila lire in mano. Gli era nota la forza del sole e anche quella dell'intelligenza umana, che sa predire le eclissi: ma della potenza dinamica del denaro, se aveva un'opinione confusa, per quel che si può vedere guardandosi in giro, non ne aveva mai provata la sensazione immediata del possesso, sensazione che gli metteva in corpo una specie di vanagloriosa ebbrezza. Gli pareva che con due mila lire un uomo, che non fosse stato ne' casi suoi, dovesse realizzare un tal patrimonio di compiacenze e di cose felici che a descriverle bene non sarebbero bastate due mila pagine d'un bel formato Le Monnier. Bastava dire che in grazia di quei quattro foglietti da cinquecento, chiusi in una busta di carta, egli avrebbe potuto sposare e vivere un anno lautamente con Celestina in quattro camerette imbiancate di fresco, tra quattro mobili profumati di vernice fresca: unanno di paradiso, mezzo in terra e mezzo in cielo, di cui non sapeva supporre le delizie, senza provare delle vertigini quasi mortali. E faceva conto che restasse ancora il margine per una cinquantina di libri tra vecchi e nuovi, che, a furia di farsi desiderare inutilmente, eran diventati anch'essi una specie di amoroso tormento. A Bergamo aveva veduto esposto in una bottega un vestito intero di un panno grigio-ferro per sessantacinque lire: c'era da far la figura di un signorone. Per men di quaranta lire un suo collega, piú disgraziato di lui, gli aveva offerto un orologio d'oro, che avrebbe potuto diventare uno splendido anello con un rubino, un simbolo lucente che parlasse alla santarella d'un cuore vivo, coronato di spine, come quello del buon Gesú. E tutto questo per duemila miserabili lire, per molto meno, cioè, di quel che costa un cavallo! Il denaro non è l'idea, ma compera i padroni dell'idea. Misteriosa calamita, attira la simpatie degli uomini, di cui consolida il lavoro e la forza, come il raggio del sole si consolida nei frutti della terra. Il denaro è la volontà del mondo fatta metallo, è la forza quasi divina della materia, che il cieco volgo prosternato adora; e peggio per chi non ci crede! Le porte d'oro del piacere non si apriranno agli empi. Se non che le benedette duemila lire non erano per lui che una goccia di rugiada al sole. L'avvocato Brognolico aveva parlato chiaro. Si sarebbe tentato un concordato coi creditori, che, non potendo continuare essi a fabbricare mattoni, forse avrebbero potuto nel loro interesse venire a una intelligenza coi Lanzavecchia, che da padroni di casa dovevano rimanervi come servitori degli altri. Alla povera mamma doveva parer brusca questa sentenza, e piú brusca alla Lisa, con quel suo carattere indocile e caparbio! Battista doveva per ora e forse per sempre rinunciare alla sua Fiorenza, la quale non aveva servito che di specchietto per tirare gli allocchi nelle reti del sor Francesco della Fraschetta, un gran positivista anche lui! e anche Angiolino aveva finito di divertirsi colle sue trappole ai topi e cogli archetti agli uccelli. In quanto al sor Giacomo, il gran fabbricatore e negoziante di nebbia, come aveva già detto: Cara Celestina, addio, poteva aggiungere anche: Addio, filosofia! I creditori, gli avvocati, il curatore, il giudice, non potendo battere un morto e avendo bisogno di un vivo che potesse rispondere, venivano a cercare e a tormentare lui, che aveva studiato e perfino stampato dei libri. Camminando per la bella strada del sole, Giacomo cosí parlava all'ombra sua, che gli scivolava di sotto i piedi: - Intanto bisogna che ti metta nelle mani d'un uomo pratico, che ti consigli e ti mostri fin dove è dover tuo riconoscere gl'impegni di tuo padre. Un sapiente della tua forza è un pulcino nella stoppa in questi affari; tutti sistemi di filosofia presi insieme non pagano un soldo di pane. In queste angustie le profferte di casa Magnenzio e il soccorso pronto di questi buoni signori sono la mano di Dio, e tu non potresti rifiutare senza esporti al biasimo di altezzoso, di superbo e di sconsiderato. Non è elemosina, bensí una onesta anticipazione, che potrai restituire con largo interesse in altrettanto lavoro; ma fosse anche l'elemosina, il respingerla quando viene fatta a questo modo, sarebbe piú una scontrosità che un atto dignitoso. Si fa del bene anche col lasciarlo fare agli altri, e il saper ricevere non è merito piú comune che il saper dare. Se si toglie ai signori ogni occasione d'esser utili al prossimo, non si sa perché Dio li metta al mondo. Anche la ricchezza finirebbe col diventare un'illusione, se non giovasse a diminuire i mali del mondo, mentre nelle mani dei buoni e dei generosi la ricchezza è la vicaria della Provvidenza in terra. Tra questi pensieri giunse in vista delle Fornaci. Blitz,quando riconobbe il padrone, gli mosse incontro a fargli festa con un gran dimenare di coda. Giacomo gli strinse il muso, lo guardò negli occhi, e mettendogli vicina al naso la busta suggellata: - Indovina - gli disse - che cosa c'è qua dentro. - E siccome il cane ignorante non sapeva che odore avesse il denaro, Giacomo gli batté la busta sul naso, dicendogli: - Questo è l'Assoluto, asinaccio!

Il signor dottorino

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

I misteri vogliono poche parole, e quando abbiam detto che un nuovo amore ha cacciato il vecchio, non ci resta altro a spiegare per chi d'amore s'intende; gli altri credano al mistero, piú comodo e spiccio d'ogni dimostrazione. - Mi piacciono queste vertigini - esclama accendendosi alquanto in viso Adriana. - Cos'è la vita senza le commozioni? a mezzanotte era in teatro; quattro ore di fuga attraverso boscaglie ed eccoci al mattino in pieno medioevo. Non avete liuto, conte? - Voi avrete bisogno di riposo. - Voglio dormire in questa sedia patriarcale. Credete voi che nessuno conosca il nostro nascondiglio? - No: ho fatto credere a una certa causa di rivendicazione di terre, per la quale è necessaria la mia presenza. Adriana, dite almeno che credete all'amor mio: non vi pare che abbia fatto qualche cosa per voi? - Sí, sí, vedo quanto vi costo. - Non dico questo. - Vi costo una dote di due milioni, se non mi sbaglio, e una fanciulla ingenua, che è quanto di piú raro esista, dopo i milioni. - E, se ciò fosse, non merito la vostra fiducia? - Adriana, voi m'insegnate veramente cos'è l'amore. Il cavaliere veduto da lontano sarebbe sembrato inginocchiato presso Adriana, rapito in quegli occhi, che avevano tutte le variazioni azzurrine dell'aria. Durante quell'estasi, l'intelligenza di don Giulio non aveva la virtù di oltrepassare il breve circolo di quelle pareti, in cui stringeva tutto il suo universo, e ogni legge di onore, ogni suo dovere, ogni rimorso, dileguavano come cera alla fornace, o gli sembravano leggi necessarie per il bene di tutti, ma fatali a ciascuno. Severina, nel caldo immaginare di quegli istanti, gli appariva come una di quelle sbiadite figure a guazzo, mingherline e grette, mentre Adriana brillava di tutti i colori ardenti di Tiziano. Don Giulio tornò due o tre volte a Firenze, e credette opera generosa confessare al padre le sue intenzioni; il conte Gian Andrea, vedendolo tanto risoluto, aggrottò le ciglia e gli voltò le spalle, esclamando: - Fate voi, ma è un'indegnità. - In questo tempo Severina cominciò a notare la freddezza del conte, e nacquero i primi disaccordi col barone, disaccordi che portarono, come sappiamo, a un fiero contrasto fra i due gentiluomini e che affrettò la partenza del conte per Parigi. A quest'uomo aveva scritto il dottore la lettera che conosciamo, ma la penna gli diventava di piombo, quando egli si accingeva a porvi il fatale indirizzo. Si imaginava già presente il conte e distrutte le care illusioni, che da un mese lo facevano tanto felice. Perché non ritardava di qualche giorno il compimento di questo sacrificio? aveva diritto il barone di comandare a lui, arbitro della salute e della felicità di Severina? Il servo entrò. - Cosa volete? - gli chiese il dottorino. - Non aveva una lettera da consegnarmi?, - Vi ha mandato qui Sua Eccellenza? - Nossignore, ma ella stessa non mi ha pregato poco fa… - Sí, sí... Eccola. Il dottorino sillabò nello scriverle queste parole: Genève, Hôtel Suisse, mentre un agro sorriso gli sfiorava le labbra. - Sua Eccellenza - disse il servo - mi disse di affrancarla - Fate pure, galantuomo... Il servo, presa la lettera, andò diffilato alla posta. Marco si coprí il volto, strinse i pugni ed esclamò: - Ah, io divento perverso... Non importa, il conte almeno non verrà. Il buon dottorino era colpevole d'un gran peccato, ma non è il caso di confessarsi ora per lui. Secondo il consiglio del dottorino, il barone scrisse alla contessa Ippolita, una delle piú care amiche di Severina, e alla marchesa Ermanna, la vecchia zia, pregandole di venire in suo soccorso, ed esse accorsero sollecite al letto dell'inferma, che già cominciava a uscire del lungo assopimento e a dar segno di conoscenza. Era il sesto dí che Marco dimorava al Ritiro e la malattia, precisamente come egli aveva pronosticato volgeva a buon fine: il conte Giulio, dietro le congetture del barone, doveva aver ricevuto già da tre dí la lettera del dottore e forse fra un'ora, forse fra due poteva arrivare chi sa con quale aspetto! chi sa con qual animo! Alle vaghe interrogazioni di Sua Eccellenza, il dottorino rispondeva con parole monche, sforzandosi di mettere innanzi non so quali dubbi sul carattere di don Giulio, uomo, secondo lui, di nessun valore e inabile a ogni buon'azione. Adriano, occupato nel pensiero di Severina, desideroso e nello stesso tempo pauroso d'incontrarsi in quell'uomo fatale, prestava orecchio distratto alle parole dell'amico, accorgendosi né poco né tanto del suo sguardo timido, del suo frequente smarrirsi e del colore insolitamente pallido. Sua Eccellenza, per quel resto d'orgoglio che ogni uomo porta con sé anche nel sepolcro procurava nascondere l'ansietà che lo dominava, né i servi, né altri, meno la vecchia zia, sapevano del ritorno del conte; il barone soffriva una nuova pena, l'aspettare, ma il suo contegno era sempre grave, solenne e di una immobilità marmorea Invece una gran tempesta rumoreggiava nel cuore di Marco, il quale era certissimo che don Giulio non sarebbe giunto mai, se non per miracolo. Nessuno meglio di Marco sapeva quel che era scritto sopra la lettera mandata a Ginevra, e il buon dottorino che non si era ancora pentito del crudele scherzo giuocato a due uomini illustri, stava, covando rimorsi, ad aspettare gli eventi. A questi rimorsi non era abbastanza compenso l'amore di Severina? egli solo finalmente dominava il campo e don Giulio non era forse tal uomo da meritarsi anche di peggio? Severina, sebbene sfinita, aveva riconosciuto la zia e l'amica, ma destandosi e smarrendosi a vicenda, stentava a raccapezzarsi del luogo e del tempo: girava gli occhi incantati, e ad una ad una andava risuscitando le memorie piú note e piú lontane, senza mai chiedere di don Giulio, come s'ei fosse scomparso dalla memoria. La sera si avanzava. Il barone passeggiando sul terrazzo, spingeva l'occhio nella lontananza del lago già involto dall'ombra; passò l'ultimo piroscafo, né don Giulio comparve. Che avrebbe detto a Severina, se per caso domattina, nelle ore piú serene, chiedeva del suo fidanzato? Come ingannarla ancora senza mettere a estremo pericolo questa fragile intelligenza? Intanto il dottore, venuto al letto della malata, vide che gli occhi estatici di lei si fissavano per la prima volta ne' suoi e che un leggiero rossore, come un raggio passeggiero di sole, colorava le sue guance e saliva, smarrendosi, fino alla fronte. Se non gridò per la gioja, fu per non sembrare scemo o crudele, ma sentí ch'ei rinasceva nel pensiero della fanciulla proprio secondo il suo desiderio, e gli parve di essere lí a contendere quella bella creatura a un branco di avidi ladroni. La luce che usciva dalle sue pupille in quel momento aveva un non so che del falchetto e dell'aquila. - Don Giulio? - domandò sottovoce la vecchia marchesa, che seduta in una grande poltrona a' piedi del letto, diceva corone. - Non è arrivato - rispose Marco. - Noi forse lo cerchiamo invano sulla terra, e questa povera bambina... - I singhiozzi l'interruppero, ma poi seguitò: - Può darsi che anche tornando a ragione continui l'inganno di prima e che voi, dottore, suo fidanzato... - Io? - esclamò tremando il dottorino. - Se ella vi amasse, e se ciò fosse la sua vita? - Ma, io povero uomo... - Il conte aveva un milione e mezzo: io ve ne darei due, dottore, per amore di questa bambina... - Sua Eccellenza non acconsentirebbe mai. - Adriano ama sua figlia... e sopra la necessità non vi è che Dio. Il dottorino a queste parole, pronunciate da una voce tremula e lagrimosa, sorrise fantasticamente e si appoggiò, per non cader ginocchioni, alla sponda del letto. E qui torna opportuno, anche a giustificazione intera del nostro buon amico, osservare come da un mese egli vivesse in un mondo meraviglioso, nel quale i suoi pensieri erano messi alla tortura e i suoi affetti esposti alle piú nude tentazioni onde non dobbiamo far gli occhiacci se qualche volta lo troviamo in colpa e in falsi giudizi. Un dí vede una solitaria bellezza fra le piante sorridere a lui e se ne accende come è ben naturale in un animo gentile; ma questa fanciulla è ricca ed è pazza ed egli cerca di fuggire; no, il destino lo spinge verso di lei, che l'abbraccia, che gli dichiara un immenso amore, che cade come morta a' suoi piedi: da una settimana veglia per lei a consultare gli oracoli della scienza ne spia ogni respiro, ogni batter di palpebre; la gelosia gli entra in cuore quel dí che egli si sente degno di Severina; qual meraviglia se tutti questi casi hanno dato al suo carattere un accento esasperato, frenetico, fanatico e se le sue idee non si svolgono secondo il corso ordinario? Egli stesso se ne accorse alcun poco, e quando venne questa stessa notte a chiudersi nella sua camera, andava chiedendosi se per avventura egli non avesse fumato dell'oppio, o passeggiato a capo nudo sotto il sole. Severina aveva arrossito onestamente innanzi a lui; sia che ella l'amasse come conte, sia che l'amasse come dottore, nessuno poteva negare che tornando miracolosamente alla vita e alla ragione la fanciulla non si attaccasse a lui, come a un caro salvatore. - Domattina sarebbe ritornato a quel letto e alla luce chiara del dí Severina lo avrebbe riconosciuto: "Sei tu?" (il dottorino immaginava per suo conto anche il dialogo). "Sei tu, caro Giulio?- oppure, chi siete voi?" "Io son uno che vi amo, Severina!". "Ah! Dunque fu tutto un sogno quel che io soffrii...?". "Voi avete veduta la morte ma io ho tanto vegliato presso di voi...". "Ah! grazie, mio caro" "Chi oserà porsi fra noi?". Quest'ultima frase Marco la declamò, destando perfino il rimbombo sotto la volta della camera, ed egli stesso n'ebbe vergogna e paura. "Diavolo!" pensò "che la sua pazzia mi entri addosso?". Altri pensieri nol lasciavano requiare, perché la voce misteriosa della vecchia marchesa ronzava ostinatamente al suo orecchio: "Io vi darei due milioni...!!...". Questo era il mondo della favola! che dovesse svegliarsi un bel mattino ricco sfondato? Egli aveva sempre pensato da stoico sul valore dei beni di quaggiù; ma il diavolo non aveva mai fatto tintinnare tanto da vicino il sacchetto dell'oro, come quel dí, e il suon del metallo, ognun lo sa, fa voltare anche il sordo. Essere ricco e amato! - gli pareva la somma di una filosofia nuovissima, che abbracciava in poche parole tutto l'universo, anima e corpo, la vita e la morte e andava domandandosi se egli poteva senza scrupolo stendere la mano a quel mucchietto e stringere in pugno il proprio avvenire; ma le risposte venivano facili e in folla, dal punto che tutto era per la salute di Severina. Come si vede, questo rimuginare gli doveva mettere le fiamme al viso e lo sbalordimento al cervello; gli parve che la sua camera divenisse troppo angusta per quelle idee magnifiche, onde uscito bel bello, venne a una scaletta che metteva al giardino, sforzò dolcemente la molla d'un cancello di ferro, uscí all'aria aperta, che gli era tempo. - Non era ancor suonata mezzanotte, ma tutti dormivano in casa; nessun cane vegliava a custodia, cosicché il dottore poté passin passino attraversare il largo del giardinetto alla volta del bosco di magnolie. - Viaggiavano nel cielo certe nubi distese in figure grottesche e come agglomerate intorno a un piccolo cerchio di luna squallida squallida; l'aria sentiva ancora del fresco e dell'umido di una pioggia cessata da poco, e che aveva sí immollato il terreno che il piede vi sfondava mezzo; poco lontano risonavano i fiotti del lago, grosso in quella notte, che rompendosi contro il solido granito delle fondamenta mandava il suono di una pasta molle sbattuta da un furioso. Qua e là, negli spazi di terra luccicavano sotto quel pigro lume le pozze d'acqua, in ogni forma e misura, come i frantumi d'uno specchio. Il dottore, che stringeva, come dicemmo, il suo destino nel pugno tornò all'idea fissa della pazzia, né gli parve improbabile questo pericolo per un uomo che si trovava al cospetto d'un domani sí meraviglioso e fantastico. Gli vennero in mente le favole di certi romanzi letti da lui in quella età che gli altri li fanno e trovò non esser falsi del tutto quei personaggi, fabbricati a Parigi, pieni di peccati e di milioni, che passeggiano la notte a meditare astuzie e trappole, che compiono le piú fiere vendette, uccidono rivali, avvelenano vecchie avare, rubano testamenti... - Ma che diavolo! mormorava e si batteva la testa col pugno. - Son io che penso cosí? Il dottorino sognava ad occhi aperti e del suo fantasticare avevano colpa, non solo gli avvenimenti, ma anche quel cielo a ragnatele, quelle goccie diacciate, che grondavano dalle lucide foglie delle magnolie, quel brivido che gli serpeggiava sotto pelle, quel non so che, fra la speranza ed il dubbio, che fa tentennare i piú saldi, quella fede in un amplesso vicino, in un bacio sí ardente che avrebbe fatto di una pazza una savia donna e di un uomo ragionevole forse... Udí poco lontano il suono d'un passo e un fruscío di foglie. Ristette su due piedi, ma il cuore accelerò i suoi battiti fino allo strazio - Tende l'orecchio, traguarda fra ramo e ramo e sente un vero scricchiolío di sabbia, onde pauroso, non per natura, ma per le circostanze in cui si trovava, si rannicchiò nei rami sporgenti e aguzzò verso il tempietto del fauno che sorgeva in fondo a quel viale. Di là spuntò un'ombra, che forse era un uomo. Forse anche l'ombra notò un agguato sul suo cammino, perché ristette ferma, senza fiatare, spiando senza dubbio nelle fitte tenebre dove stormivano le foglie. Il dottore andava almanaccando tra sé chi poteva essere l'ignoto vivo, che a quell'ora passeggiava in un giardino chiuso, non certamente il barone che era alla statura piú piccolo d'una spanna, non uno dei servi, né un ladruncolo perché al portamento, al nero cupo dell'abito e a certi rivolti candidi al collo e alle maniche, gli pareva un uomo molto ben vestito. Si ricordò, nel tempo di un amen, d'aver già udito altra volta dalla finestra un suono di passi nel giardino e dei gemiti sommessi e subitanea, come il lampo, gli balenò un'idea, una brutta idea per la verità: - Che fosse il conte? L'ombra rassicurata, si avanzò di buon passo direttamente e verso il dottore, che avrebbe voluto sprofondarsi sotterra. - Chi siete? - domandò con voce strozzata Marco. - Lode a Dio! temeva d'incontrarmi nel barone Adriano. - Ma voi? - Ella è forse il signor dottore? - disse sottovoce lo sconosciuto. - Lo sono, ma vorrei cortesia per cortesia - rispose alquanto stizzito. - Sono il conte Giulio - e nominò quel cognome che noi non possiamo trascrivere pei dovuti riguardi. - Come sta la poveretta? - chiese di nuovo il conte; ma il dottorino, che sentiva un'ambascia insolita e come goccie d'acqua diacciata stillargli sul cuore, non rispose che con un mugolío sordo di meraviglia e di rabbia. Finalmente trovò modo di domandare alla sua volta. - Avete forse ricevuto la mia lettera? - Quale lettera? - disse il conte non badando al modo famigliare e duro del suo vicino. - Vi ho scritto saranno tre dí, ma non so... - Da quindici giorni mi trovo sul lago e da una settimana penetro tutte le notti in questo giardino, come un ladro di campagna; ella saprà che io ho tanti rimorsi da scontare... - Lo so. - E che cosa mi si scriveva? Il dottore pensò un istante e franco rispose: - che ogni speranza per Severina era perduta; che non veniste piú da queste parti perché Sua Eccellenza ha giurato di uccidervi. - Il dottore nel pronunciare queste parole andava tendendo i nervi e stringendo i pugni come se volesse soffocare alcuno. - È la grazia che cerco - disse lentamente e chinando la testa l'infelice. Il dottore lo adocchiò, e non poté impedire che questo accento disperato non vibrasse in modo strano dentro di lui. - Vorrei parlarle con sicurezza - disse per il primo il dottore dopo un lungo silenzio. - Dove potrò trovarla, signor conte? - Alla riva di Molina, non lontano dall'Orrido, al di là del lago. Domandi a qualcuno ove abiti l'Inglese e glielo diranno. - Ella traversa il lago tutte le notti? - Verrà una notte che mi fermerò a metà. - Ah! - esclamò Marco, con un grande respiro, sollevando gli occhi al punto piú alto del cielo, e quel grido pareva volesse significare: Io sono ben tristo! - Non dirà d'avermi incontrato, dottore? - No! - Resto qualche ora a contemplare il lume di una finestra; finché quel lume risplenderà... ma alzando le spalle il conte s'interruppe dicendo: - Buona notte, dottore. - E gli stese la mano: poi sparí per il lungo viale. Marco era legato alla terra, né sapeva formolare un pensiero che avesse un colore e una proporzione; tentennava la testa, sorrideva a fior di labbro e all'improvviso cantare d'un gallo si scosse pauroso, girò gli occhi intorno, uscí dal suo nascondiglio, corse in punta di piedi fino al cancello, salí al buio la scaletta, precipitò nella sua camera e cadde colla testa sul guanciale. La peggior tempesta rumoreggiava in quella povera testa: non aveva per avventura traveduto, sognato, delirato? No, il conte era vicino a due passi da Severina, a due passi da lui. Come poteva egli indifferentemente rinunciare alla felicità per cedere il posto a questo ladrone notturno? Il conte non temeva il barone, e il barone lo aspettava ansiosamente; questi due uomini non si odiavano piú. Chi travolgeva le piú semplici leggi della natura e del cuore umano per tormentar lui, che aveva tanto fatto per Severina? Questo miracolo non avveniva per volontà di Dio, perché il barone non credeva in Dio: uno spirito maligno faceva strazio del suo cuore, e moveva gli avvenimenti come in un giuoco di scacchi. - Oh mia povera Severina! - disse sospirando - ch'io abbia a fuggire da te nel momento che, riaprendo gli occhi, mi avresti beato del tuo sguardo dolcissimo? Prima che spunti il sole, ella potrebbe svegliarsi piú serena, piú docile, piú ragionevole: "Don Giulio non è con voi?" domanderebbe alla zia e all'amica. "Dov'è don Giulio? Chiamatelo" Il momento è solenne! Il dottore ritto in piedi nel mezzo della camera e nell'ombra accompagnava coi gesti questi pensieri tumultuosi. "Il momento è solenne! io entro... Sei tu?..E dopo? se quell'uomo si uccide? se l'inganno non durasse piú d'un giorno? che diverrei io in mezzo a questo mondo fantastico, falso di nome, fra abitudini non mie, fra gente che mi compatirebbe, o riderebbe di me.? Troppi gruppi in una volta, mio Dio!... E pensò finché un tremendo riflesso di luce non disegnò i contorni del monte Bisbino, che sovrastava; il cielo s'era fatto lucido e netto e brillavano ancora molte stelle. Fissò gli occhi in quell'azzurro e in quelle luci, e l'arcana poesia de' suoi quindici anni risuonò a lui d'intorno quasi portata dall'aria mattutina, bisbigliata dalle foglie scosse. Qualche pettirosso provava la voce, ma la sua vicina aveva ancora troppo sonno per rispondergli. Rumori incerti, susurri, fruscii parevano accennar ai primi moti d'una natura che si sveglia, e, la calma del mattino era succeduta ai tenebrosi schiamazzi, alla pioggia e al vento della notte. - Addio! - mormorò il dottorino, non sapendo bene egli stesso a chi fosse rivolto questo saluto. - Addio, sí; ma prima voglio vederti. Si vede che la risoluzione era presa; una fuga. Era ben tempo di fuggire, e troppo grave era stato il castigo di tanto indugio. Fuggire con una dolce imagine nel pensiero, e l'orgoglio in cuore di aver compiuto una nobile azione pareva bello a chi non aveva mai pensato che un uomo possa uccidersi. L'aspettavano ancora le Alpi, i vetturali, gli osti e le montanine della Svizzera; al di là si vendeva birra eccellente a buon mercato e alla peggio la birra istupidisce. Dopo un mese sarebbe tornato allegro come Celestino, con una lunga pipa, coperto d'una buona crosta di esperienza, che salva l'anima dalle malattie croniche. Egli sarebbe partito al primo raggio di sole, lasciando al barone un biglietto coll'indirizzo del signor Inglese e tanti saluti in casa. Era risoluto come un gendarme, ma prima voleva rivederla una volta, il tempo d'un minuto, d'un batter d'occhio. Pensò che a quell'ora tutti dormivano nella casa, perché la vecchia zia ritiravasi a mezzanotte, e Marianna sul far del mattino, nel tempo che ogni infermo suol essere piú tranquillo, godevasi un sonnellino. Un corridoio e una scala di pochi gradini lo separavano da quella cameretta. che avea incominciato a venerare; l'andarvi in quell'ora e solo sarebbe sembrato altre volte alquanto indiscreto, ma egli, fuggendo per sempre, moriva per Severina e a chi muore si usa pietà. Uscí; né tremava, né titubava. La sua ragione era tornata ai sodi principi, alla verità delle cose, ai propositi schietti e luminosi, e se concedeva un'ultima lusinga al cuore, era per meglio rabbonirlo. Giunse e stette innanzi all'uscio; era il medico e poteva entrare. Entrò. Marianna sonnecchiava in una poltrona accanto al caminetto, sul quale ardeva una lucerna accesa appena appena da non essere spenta. Si accostò al letto dell'inferma come aveva fatto cento volte in quei giorni, e non meno franco, e non meno onesto. Sedette sopra la sedia vicina e ascoltò il dolce respiro della dormiente. - Dorme! - disse a sé stesso per il bisogno di occuparsi in qualche argomento. Ma il misurato respiro della fanciulla a poco a poco prese il suono d'un ragionamento susurrato all'orecchio, e il dottorino si chinava per udir meglio; ma non sentiva che un alito sul viso. Il dottorino si strinse le tempia fra le due mani, e la pazzia dell'amore, della voluttà, dell'odio svolazzò e lo toccò; il pianto che da due ore ruggiva chiuso nel petto, minacciò rompere il suo silenzio, e il dottorino lottava atleticamente con un altro sé stesso piú selvaggio, piú irriverente. Entrambi erano forti, ma il selvaggio conosceva certi impeti maligni, che avrebbero ucciso un uomo, e perfino svegliata Severina. - Ah mia bella.... - soffiò il maligno, e svincolavasi dalle strette; ma l'angelo buono lo buttava ginocchioni a piè di quel letto, fremente, ma devoto, riverente, adoratore di quella divina bellezza assopita. Mentre il dottorino, caduto a piedi del letto, smemorato di ogni cosa andava di fantasia in fantasia, una mano fredda, ma dura come ferro, lo toccò. Levò gli occhi. Era il barone. - Usciamo - disse freddamente il barone e si avviò verso la porta, né si arrestò che nella propria camera, seguito in silenzio dal dottorino, che senza imbarazzo, senza preoccupazioni, ma rispettoso e severo, stette innanzi a Sua Eccellenza, gli occhi fissi nel suo viso. Il barone, chinando le palpebre come soleva fare nei grandi momenti, domandò: - Ama ella mia figlia? La domanda era inaspettata, sebbene il dottore avesse già fiutato nell'aria la tempesta, onde balbettò, ma non rispose. - Ella non mi risponde. - Sono colpevole? - domandò alla sua volta il dottore per lasciare il fastidio della risposta al barone. - Io non giudico, esamino. Quali sono le sue intenzioni, signore? - Fuggire da questa casa. - Grazie: almeno è onesto, se non... - Se non ricco! - continuò con amarezza il dottore. - Ciò che non posso concederle, o signore, è il diritto di offendermi. - È giusto! - mormorò il dottore, chinando umilmente la testa. Il barone prese a passeggiare innanzi al dottore, che sentiva rimbombare nel cuore ciascuno di quei passi solenni, e pesandogli il silenzio ancor piú dei rimproveri, si fece forza a dire: - Vostra Eccellenza non vorrà essere troppo severo nel giudicarmi; io non cercai il pericolo, e innanzi al pericolo fuggo. - Il conte è qui - esclamò Adriano alzando la voce. - Come sa? - Ella l'ha incontrato questa notte nel mio giardino. - Ero sorvegliato? - L'amore toglie il sonno agli amanti... - Ella ci ha spiati... - Il conte è qui forse da molto tempo, perché venne al convegno notturno, come uomo che conosce bene la sua strada. Perché ella non me l'ha detto? - Perché... - il dottorino arrossí sebbene avrebbe potuto rispondere d'ignorarlo; ma non affatto innocente, come sappiamo, ebbe paura che il barone gli leggesse in viso il tranello della lettera falsa, ma gli occhi di Sua Eccellenza notarono quelle vampe. - Basta, signor dottore; le risparmio la pena di una menzogna. - Ma!... - Ella ha interesse che il conte non ritorni... - Cioè, interesse... - La vista del dottore cominciava a offuscarsi. - Povera Severina, perdette un amante e ne ritrova due: da bravi, come l'aggiusteranno, messeri? è ai dadi o all'armi che si giuocherà questo cencio di dote? Era troppo; e il dottore, sotto lo spasimo di questo sarcasmo, che gli passava il cuore, evocò quell'antica fierezza di carattere che altrimenti si potrebbe dire coscienza della propria virtù. Non era piú la condizione casuale di un uomo, che lotti contro un sentimento ampio, indefinito, fatale, ma era lotta sincera di un uomo giusto contro un uomo ingiusto, e il conforto della propria innocenza gli ispirò una risposta vivace: - Quel che mi dice Vostra Eccellenza non mi offende, perché non mi tocca; ella non può compatire un minuto di viltà in un uomo onesto, né io mi meraviglio, sapendo come non a tutti gli uomini è dato d'essere generosi... Gli occhi del barone si animarono e nell'arrestarsi a un tratto Sua Eccellenza non seppe celare un insolito impeto d'ira; ma trovò una fronte alta e due occhi, che non temevano i suoi. - Chi non sa perdonare, - continuò il dottore - non intende e per verità lodo Dio che a non tutti abbia largito i tesori di un'anima capace d'intendere e di perdonar tutto. Amai donna Severina, non lo nego, e l'amava già prima di metter piede in questa casa; ma, poiché ella, signore, ha spiato i miei passi, avrà scoperto come non mi giovassi delle occasioni, che un beffardo destino mi offriva, quanto trepidassi alla vicinanza di questa creatura, che si dava tutta a me, come ad un amico, come ad un fratello; tentennai un giorno, non lo nego, ma fu sotto il fascino di alcune domande che feci a me stesso: Non sono io degno di lei? Non l'ho io ricreata? - Oggi rispondo calmo, sereno che no, e fuggo. Se paresse al signor commendatore ch'io fossi troppo pigro ad andarmene, può licenziarmi: una pena la merito e son pronto a scontarla. Il barone andava squadrando questo giovanotto con occhio stupito, e gli impeti di un sacro orgoglio offeso salirono piú volte a suggerirgli una parola acerba, e che fosse l'ultima di un dialogo già troppo lungo e umiliante; ma la parola non venne, e invece gli parve di cedere al peso di un'eloquenza seduttrice, che gli mescolava i giudizi nel capo, e confondeva le verità piú lucenti. Non rispose subito, perché si avvide che le parole vecchie non valevano, e a trovar le convenienti, che sciogliessero il nodo e che fossero nello stesso tempo aristocratiche e giuste, non aveva la calma necessaria.. Il dottore stanco d'aspettare quest'ultima parola, che egli stesso aveva invocato, urbanamente disse: - Se il signor barone mi crede indegno di questa parola, io ubbidirò anche a un gesto... Al fremito, che corse per tutto il corpo del barone, si sarebbe detto ch'ei fosse adirato di quella non mai finita umiliazione, o che avesse dispetto di quell'uomo, tanto pieno di giustizia. - Cedo il posto, - seguitò Marco - a persona piú degna e piú rispettabile... - Non è vero! - gridò infuriando Sua Eccellenza. - Questi elogi non richiesti sono per me una nuova offesa: è una gara di generosità, che mi adira. - Il conte ha dei diritti, o, se meglio le piace, dei doveri. - Chi intende queste contraddizioni? - Mi sforzo d'intenderle. Amo, lo confesso, ma il mio posto non è qui. - Sa il conte d'essere aspettato fra noi? - Lo saprà avanti mezzodí. - Non precipitiamo gli avvenimenti. - Donna Severina potrebbe dimandare di lui. - Di lui! di lui! - ripete Adriano. - Il mio sangue si ribella ancora a questo nome. - Ancora? Non intendo... - Ah! non intendete alla vostra volta: voi siete un uomo ben stravagante. Perdonate la confidenza colla quale vi parlo. Il dottorino strabiliava e sentendo la voce piú conciliante e il modo col quale il barone gli parlava, piú modesto e amichevole, fissò uno sguardo curioso in quel volto pallido. - Il conte non merita questa felicità, n'è vero? - Non voglio giudicare... - Severina forse... - Il barone esitò e poi alzando a un tratto la voce esclamò - Vi rincrescerebbe, dottore, s'io diventassi generoso? è invidiosa la vostra virtù? - Ciò vuol dire?.. - Vuol dire che ogni minuto della vita c'insegna una verità: dottore, è finita la prova, e vi ritrovo, qual vi pensai, grande e degno d'una regina... - Io? - Voi, sí, voi. Da molto tempo vado spiando i vostri passi, le vostre veglie, e quando penso che per opera vostra Severina m'è ridonata, e che ella ha imparato ad amarvi, e che voi l'amate, come posso io preferire un uomo, che l'ha tradita, e che versò il pianto de' suoi rimorsi nel seno d'altre donne? - Ma il conte l'ama... - Ami! è questa la mia vendetta. - Ciò è impossibile. La nobile e dignitosa condotta del dottorino, una speciale simpatia per lui, la gratitudine naturale per il tanto bene da lui modestamente compiuto avevano risvegliato nell'animo del barone non so quali antiche memorie di tempi giovanili, allorché, levando la testa dai grossi libri della filosofia, egli discorreva fra gli uomini a cercare le orme d'una virtù, che dicevasi passata sul mondo. In quei dí, nella vivacità dei vent'anni, sorvolando ai fatti comuni della vita accidentale, e alle frequenti viltà, il barone soleva fermarsi piuttosto a contemplare in sé stesso gli elementi di una filosofia umana capace di fatti grandiosi; perciò al tornare di quelle memorie, credeva ritrovare nel dottorino quel sé stesso, che la disperazione aveva da molto tempo ucciso. In questa bassa landa dei vivi, dove l'esercizio di una semplice bontà è tenuto a vile, e dove si preferiscono le grandi massime che intontiscono alle povere opere che guariscono, dove gli uomini si fanno ogni giorno piú noiosi che utili, il barone compiacevasi di aver trovato una rupe solitaria, che aveva ancora del vecchio macigno. Se prima non se n'era accorto, la ragione si è che viveva lontano dalla gente e questi rari avanzi giacciono nascosti nella moltitudine e non li trova se non chi li desidera. Il barone strinse la mano dell'amico e gli domandò: - Avete capito? - Se non è un sogno, è questa un'offerta ch'io non posso accettare... - Temete l'ira del conte? - Il conte è un infelice. - Lode al vostro Dio. - Eccellenza, - rispose con voce commossa il dottorino - vi fu un istante che io sognai questa lusinga e questa fortuna, ma cattivo consigliero è il cuore innamorato e il piú delle volte trionfa a danno della sana ragione. Quale sarebbe il mio destino s'io non fuggissi? lo dica una parola: Sarei un uomo spostato. Innanzi agli altri cesserei d'essere quel che sono, per diventare che cosa?.. un amante, un marito, un ricco fortunato e caro al cielo. Signore, per tutto ciò può pur meglio di me bastare il conte, e lasci che io torni, ove sono desiderato, fra quella gente a cui ho promesso il mio aiuto, dove il conte è inutile. - Amiamo l'equilibrio delle cose che regge il mondo. Chi mi assicura oltre a ciò che Severina non si ravveda dell'inganno? Abbiamo incominciato questa storia pietosa come una novella per le donne gentili, ma è tempo (e ne sento il bisogno) di tornare al giusto senso delle cose, di ristabilire l'ordine, anche a dispetto del cuore... Lasciamo i vecchi romanzi e facciamo della vita. - Il conte ama donna Severina, e da molte notti entra in giardino per sedersi sotto una finestra illuminata; anche qui, signore, c'è dell'infermità, e un'offesa fatta a un uomo disperato potrebbe eccitare una vendetta, in qualunque modo spaventosa sia che il conte castighi me, e sé stesso, o tutte quante le donne che gli parleranno d'amore.- Invece s'io torno al mio paesello, Celestino sarà contento, il conte tornerà giustificato dai rimorsi, ella, Eccellenza, avrà la consolazione di ricordare un uomo... non affatto indegno di vivere... La voce gli mancò e non potè arrestare una mezza lagrima che spuntò sotto le palpebre; il barone, che stava riflettendo alle cose udite, sorreggeva il volto colla palma e tentennava la testa sforzandosi di rassegnarsi. - Non è meglio cosí? - riprese con voce piú chiara il dottorino come se ora parlasse per conto altrui. - Il cuore non è ostinato e si lascia a poco a poco persuadere, se la ragione sa parlar come va. - Questo signore... tornerà? - mormorò Adriano. - Non so imaginare il modo migliore di riceverlo. - Gli scriva due linee d'invito, che io porterò; cosí avrò la coscienza di aver compiuto tutto il mio dovere, e sconterò qualche peccatuccio... - Il dottore sorrise. - Mandiamo un servo. - No. È necessaria una persona che narri la storia di questa malattia, e che dimostri la necessità d'un pronto ritorno, se no, il conte potrebbe pensare a un tranello. - Per parte mia? - So quel che mi dico, Eccellenza, quando parlo de' miei peccati: due amanti, che s'incontrarono sotto la medesima finestra, si scambiarono delle spiegazioni, ma può darsi che qualcuno abbia accusato anche Vostra Eccellenza di un delitto premeditato. - Il dottorino sorrise allegramente, e sforzò al ridere anche la patetica faccia di Sua Eccellenza. A colazione la vecchia zia narrò come Severina allo svegliarsi avesse dimandato di don Giulio e il dottore permise che le si parlasse del prossimo arrivo del conte. - Ma Severina non si accontentò di vaghe promesse e il dottore le fece dire dalla contessa Gemma come prima di sera don Giulio sarebbe di ritorno. - La malata in questa dolce aspettazione si acquetò. - Tutto va bene, - disse il dottore fregandosi le mani - e farò stampare questa guarigione sul bollettino medico. Chi sa che non mi faccia una gloria europea. Ho bisogno di un po' di gloria… Il barone scrisse un breve invito per il conte e sul far del mezzodí il dottore scendeva i gradini di una scala che metteva nel lago, ove era pronta una piccola gondola. Adriano lo accompagnò fino all'ultimo gradino, muto, malinconico, come se partisse l'amico della sua infanzia, e a stento seppe balbettare: - Passerò tre ore di febbre. Il dottorino entrò nell'elegante gondoletta e in tre colpi di remo si allontanò solo solo da quella malaugurata costa. Quando fu nel mezzo del lago, tirò i remi in barca e, lasciando che l'acqua leggermente commossa dal vento lo cullasse a suo capriccio, cercò di occuparsi in idee comuni per distrarsi, ora guardando il cielo coperto di nuvole, ora i monti e i loro contorcimenti, ora le coste interrotte dai rapidi ghiaieti. Cosí oziando e tratto tratto movendo i remi colla noncuranza d'un pesce che scuote le pinne, venne senza accorgersene quasi a contatto d'un'altra barca, guidata da un vecchio rematore, che a' giorni suoi non aveva mai tratto a riva un carico tanto irrequieto. Erano dieci sartine, venute da Milano a far festa sul lago, pigiate sui loro sedili di legno, con abiti quali li sa fare chi veste sí bene le altre, le une bionde, le altre brune, qualcuna né bionda né bruna, tutte con occhi ladri, delicati, e scosse in quella vecchia barcaccia dagli urti, che dava la vivacità, lo scherzo e la paura. - Legna verde! - disse il vecchietto al dottore, accennando a quel complotto vivace, che faceva un cicalío da cento passere sopra una pianta; e il dottore fu sorpreso dalla varietà degli scialletti rossi e azzurri, dalle piume confitte in gusci di noce, o cappellini, legati sopra una piramide di capelli, come, alla lor volta, le fanciulle destate dallo scherzo del barcaiuolo, si fecero a contemplare la bella gondoletta e il bel pedagogo che andava, dicevano, a pesca d'anguille, non risparmiando le puerili esclamazioni, né le risa semplici, che scoppiavano a loro dispetto dai fazzolettini bianchi e profumati. - Marco, sebbene avesse l'animo penosamente occupato, pure fu in procinto di seguire la bella comitiva fino alla villa Pliniana, dov'erano dirette: passare un'ora fra quelle passerelle, spiegar loro l'iscrizione latina che vi è coi soliti commenti che un giovane di spirito sa cavare da una pagina di bel latino, sarebbe stata senza dubbio la consolazione di tutti i suoi mali. Qualcuna aveva sul viso una espressione profondamente erudita e avrebbe saputo cavar nuovi commenti dalla lezione, supponiamo, carezzare la barba del bravo pedagogo pescatore d'anguille; ma il braccio, seguendo l'impulso d'un pensiero piú profondo girò a poco a poco il remo e spinse la gondoletta piú in là verso la riva di Molina, dove già apparivano poche case e piú in su, a mezzo il monte, tre paesetti con ville eleganti e tra le pieghe del monte ombre e verdi cupi e su su le nude rotonde delle cime e sopra tutto il panorama una tinta di sole acquaiuolo. Che malinconia! Che voglia di piangere! Ma il fantasticare era inutile dal momento che la barca, toccata riva, non poteva andare piú oltre (egli avrebbe cosí vagolato per sempre), onde sbarcò, chiese al primo uomo, che gli venne incontro, del signor Inglese, e, dietro le indicazioni, venne frettolosamente a un'osteria modesta, ma di bell'apparenza. Intese come, secondo il solito di tutti i dí, milord fosse andato al vicino Orrido di Molina, dove passava qualche ora a dipingere, e senza perder tempo il dottorino prese la strada dell'Orrido, che ben conosceva, annoiato di questi indugi che prolungavano il suo martirio. Sassosa era la strada ed essendosi messo un vento straordinario, ei camminava con pena, presso a poco come chi sogna di correre e che sente le gambe intralciate. Il cielo facevasi sempre piú spesso di nuvole e andava offuscandosi specialmente per un cumulo gigantesco, che montava dietro il montagnone - la cuffia del Bisbino; la punta di Torriggia appannavasi sotto un velo di nebbia e le case al di là, fra cui il Ritiro sfumavano come vecchie pitture sopra un muro umidiccio; stormivano gli alberi, si turbavano i ciuffi d'erba che spuntano dai crepacci, e volavano folate di polvere, onde il dottore si fermò a considerare come cosa non mai veduta, la superficie del lago senza riflessi e qua e là qualche barca peschereccia, che guadagnava la riva, le onde, che venivano attorcigliate come cannoncini e che finivano a squagliarsi fra i ciottoli in spume bianchiccie e morbide come la panna. Qualche uccellaccio del mal augurio strapiombava da una catena all'altra dei monti, sopra le ali lunghe e immobili, e nell'aria tutta sentivasi un tempo diavolone. Per conto suo il dottore non era malcontento che la natura prendesse il colore de' suoi pensieri e stette fermo a contemplarla, finché le prime goccie non lo scossero. Il conte vestito di un abito di flanella bigia, succinto e stretto alla vita da una cintura di cuoio, con un berretto alla staffiera orlato di nastro scozzese, veniva, con una cassettina sotto il braccio, alla volta del dottorino che, tiratosi sotto il monte, pareva un masnadiere in attesa. - Signor conte - disse. - Chi mi chiama? - Sua Eccellenza il barone Adriano Siloe mi manda; eccole un suo biglietto. - Che? Sua Eccellenza ha scoperto... - Ha saputo che don Giulio è da quindici giorni sul luogo. - Da chi lo ha saputo? - Io glielo dissi. Non si ricorda, conte, di avermi incontrato questa notte? - Ella è il dottore? È questo l'avviso d'un'ultima disgrazia? Dica schietto, vi sono da lungo tempo preparato. - Cosí disse il conte, ma contro sua voglia impallidí. - Ho bisogno di parlarle a lungo, né qui mi pare luogo opportuno. Come si vede il dottore pigliava tempo a rispondere e il conte, confusamente commosso, correndo col pensiero a indovinare, balbettando rotti monosillabi, precedette il compagno verso l'osteria e sentiva dentro di sé che, se la fanciulla era morta, eterna sarebbe stata per lui la disperazione d'averla uccisa. Cosí nel primo momento, ma poi riebbe il sopravento quell'orgoglioso cinismo, che da qualche tempo si era fatto in lui un'abitudine, molto piú che agli uomini in genere spiace sempre mostrarsi ad altrui vinti dalla propria coscienza; talché la disperazione dell'animo, che stava per rompere in furore, si sciolse in un amaro sogghigno e in un tentennamento del capo e in un levar di spalle beffardo, come chi dicesse: - Tutto è finito. Entrarono nell'osteria, dov'erano raccolti alcuni barcaiuoli e pescatori e, quasi milord temesse che quella buona gente leggesse nel suo volto il gran delitto, si fece a ciarlare con loro, guastando l'italiano da bravo inglese, e cercò del fuoco alla pipa di Anselmo, l'oste, e comandò del vinetto bianco per sé e per il dottore. Costui andava considerandolo con meraviglia, ma piú occupato di sé, seguí il conte su per una scaletta fino a un camerone, disposto a studio di pittura, con un cavalletto e sopra un quadro coperto, presso la finestra, una tavola piena di manoscritti, di giornali, di musica e uno sparpagliamento di disegni, di schizzi e di stampe su per le pareti e per il pavimento. La bella Luisina entrò con un fiasco di una vernaccia favorita da milord, e bisogna dire che il conte si fosse dato a tristi abitudini a giudicare dall'esagerazione del fiasco. Infatti don Giulio non esitò a tracannare d'un fiato il suo bicchiere e, come se ad un tratto uscisse in una sfida, gridò: Lo dica dunque, è morta. - No. - È moribonda? Sia spiccio. - No. Donna Severina è guarita. - La pazza? - Non è piú pazza. - Lo sono io? beva dottore e parlerà piú chiaro. - Benissimo! - gridò alla sua volta il dottorino, riempiendo il bicchiere. - Beviamo, perché il racconto è allegro e bello. Il conte non bevve piú durante il racconto del dottore, che si fece a narrare con tranquillità tutta la storia di Severina dal giorno che egli l'aveva conosciuta e l'invito ricevuto dal barone e l'incontro colla fanciulla e i nuovi inganni, in cui era caduta e i baci e gli abbracci che egli, senza suo merito, aveva toccati e la crisi del male risolta e la sicura guarigione. Tacque affatto del suo amore e fece bene; però per acquistar lena e per rischiarare le idee, il buon dottorino, che pareva il piú allegro uomo del mondo, empí non so quante volte, dopo la prima, il suo bicchiere, non per deliberato proposito di ubbriacarsi, ma sbadatamente. Quando don Giulio intese com'egli fosse aspettato, il suo volto s'infiammò per un precipitoso afflusso del sangue, tentennò la testa per tirarla al giusto apprendimento di quella notizia e balbettò: - È vero? - To'! - gridò ridendo pazzamente il dottorino - ch'io sia venuto a contar fandonie? - e picchiava troppo forte il bicchiere sulla tavola. - Severina? - esclamò il conte balzando in piedi e fregandosi la fronte e gli occhi. - Ma non è un sogno questo? mi svegli dottore, se questo è un sogno. Il dottorino ghignava allegramente. Il conte pareva fuor di sé e girava per la camera, ridendo, esclamando, scarmigliandosi i capelli, frugandosi nelle tasche, come uomo che cerchi qualche cosa e che non sappia ove riesca. Il tempo frattanto si era fatto buio e le vetriate tremavano per i forti buffi, che venivano dal bacino di Argegno; una pioggia a sbalzi picchiava rabbiosamente sui vetri e lampi rapidissimi si disegnavano facendo aureola fiammeggiante al montagnone di contro e talora nicchiando come la pupilla d'un selvaggio incatenato. Il dottorino stentò a levarsi dalla sedia e non senza fatica venne fino alla finestra, da cui grondavano rigagnoli lunghi e giallognoli e serpeggianti, come vermiciattoli, fino a mezzo della stanza. Appoggiò la fronte, che bruciava, al vetro gelido e forse per effetto di quella vernaccia, bevuta in mal punto, dopo un lungo digiuno e un viaggio malaugurato, vide sul piano plumbeo del lago sorgere boschetti e cespi e un villino e macchie di fiori, fra i quali movevasi un bianco cappello di paglia. Però il conte, già troppo egoista per natura, non si avvide né dei fumi, né dei barcollamenti, da cui era preso il dottore. - Bisogna partir subito. - Subito - rispose il dottore. - Non permetto che ella mi segua con questo tempo, - Si figuri - rispondeva l'altro, tanto per rispondere. Ma nessuno di que' barcaiuoli volle prendere il remo e sfidare il tempo, neppure per qualunque offerta, segno che della vita quei filosofi avevano un concetto piú largo d'una moneta d'oro. Il conte cominciò a bestemmiare fra i denti e domandò al dottore, se sentivasi cuore d'accompagnarlo. - Anzi è il dover mio - rispose il dottore, tanto per rispondere. Ma questa volta milord aveva fatto i conti senza l'ostina, la bella Luisina, che, all'intendere quella disperata risoluzione, fu per cader morta o poco meno, dallo spavento; venne innanzi al bell'inglesino, e alzò la voce e le braccia, e lo cinse al collo e lo bagnò di lagrime, chiamandolo con tali nomi pietosi, che tradivano in lei quella cara amicizia, che va perdendosi nel mondo. Spiacque a don Giulio questo contrattempo, sebbene non gli riuscissero tutt'affatto nuove queste cerimonie della bella ostina, onde con violenza aspra e ferina si sciolse da lei, che cadde davvero ginocchioni al suolo; il conte urtò nel gomito il dottore e quasi lo sospinse fino alla gondoletta, maledicendo a mezza voce le ostine, che, quando amano, amano davvero. - È giusto che mi ricordi di te, ma domani... Presto, dottore, a poppa. Il tempo è molto brutto, ma ella conoscerà meglio di me questi venti... Il dottore obbediva. Arrancarono i remi, e aiutati da pochi pescatori accorsi, presero il largo, ma l'onda li risospinse ancora a riva, finché accordatisi colla voce, si curvarono entrambi sui quattro remi gagliardamente, piú con rabbia che con arte, ciascuno, per ragioni sue particolari e alla sua maniera, orgoglioso di sfidare la morte. La gondoletta prese l'aire come vollero i padroni, e, quando fu a cento colpi di remo dalla sponda, cominciò a galoppare, precisamente come un poledro balzano e il conte andava gridando con voce chiara ed eroica: - Attento! l'onda è qui: su! - e la gondola montava in groppa a un'onda, che veniva per schiacciarla; il vento si portò i cappelli dei remiganti, la pioggia fitta li batteva ostinatamente nel viso e negli occhi. Si era già al tramonto, che in quel dí aveva precipitata la corsa e al giungere della sera meschiavansi, non saprei dire, quali nuovi venti alla battaglia, cosicché l'onde squallide si gonfiavano e si sbattevano affannosamente le une contro le altre destando rombi e gemiti misteriosi. La gondola una volta dié di cozzo nella curva di un'onda e da tutte per un terzo girò sopra un fianco, schiaffeggiata le parti da fiotti, che sormontarono e che cercarono tirarla giú coi loro uncini di spuma, ma i due rematori con un grido se l'intesero, e con un po' di tabusso e di scialacquo si drizzarono. Toccavano già il mezzo del bacino sudati, grondanti d'acqua, coi capelli strabuffati, arsi in volto, coi denti stretti, e mandavano ad ogni colpo una specie di ruggito che alla sua maniera sfidava le furie delle acque e dei venti. - Severina merita questo viaggio, n'è vero, dottore? Cosí domandò il conte in un istante di tregua e seguitò: - Da bravo, punti a destra. Io vedo già nelle tenebre il mio paradiso... Il dottorino man mano che entrava nell'animo del conte, scopriva come l'orgoglio e l'egoismo ispirassero tutte le sue passioni come quel riaccendersi dell'amore avesse in se piú del furore che della compassione e infatti don Giulio sentivasi spinto verso Severina da una disperazione, che, radunata per tanto tempo fra le strane avventure, assopita qualche volta ma non spenta mai, aveva minacciato rompere in follia. Questa disperazione, quando riprese nome di amore, piú che amore si poteva chiamare bufera voluttuosa che eccitava gli spiriti fieri del patrizio e l'avidità cieca dell'uomo. Ecco perché il conte, senza accorgersene, riusciva crudele contro il dottore. Questi aveva già l'esca al cuore; la vernaccia gli dava le vertigini, l'ondeggiamento della gondola gli metteva in corpo la nausea, la pioggia e il vento gelato, destando in lui i brividi della febbre, congiuravano contro la sua ragione e contro i propositi gravi che aveva promesso di mantenere: passavano degli intervalli fra queste tenebre, nei quali il dottore smarriva del tutto la coscienza di sé e, come se la testa abitasse in qualche pianeta lontano, ragionava sí, ma non colle idee di tutti i dí, esagerandole, mescolandole, addormentandosi talora in una dolorosa estasi, che non era altro se non smemoramento. Perciò alle parole del conte sentí ribollire i vecchi spiriti domati fin qui, e, perduto il sentimento del giusto e dell'utile da ubriaco, infuriò contro l'uomo che l'oltraggiava contro la sorte che l'aveva stretto fra le asse d'una gondola, e si sarebbe volentieri rovesciato nei flutti, non per volontà di morire, ma per scatenarsi contro un nemico qualunque. Fu in questo rapido delirio ch'egli dié quattro o cinque colpi di remo a contrattempo, in risposta all'offesa del conte, il quale non immaginando quello scherzo e colto all'improvviso, fu imbarazzato nel remeggio, talché un'onda subdola, che incalzava, urtò la navicella di traverso, la spinse e la portò con una lama d'acqua, per buon tratto, all'indietro contro un'altra, che piombò sopra la prua dov'era il conte: questi, che sentí cedere l'assito, tentennò, si protese col corpo piú che poté sopra il remo sinistro, e, rinversandosi energicamente sulle calcagna, trasse la gondola da un pericoloso avallamento, sebbene fosse già stortata sul fianco e assediata da nodose spire. Un lampo rossigno, che balenò, illuminò il valoroso lottatore, bello nel suo abito bigio, e coi capelli ricciuti, che colle scosse cavalline del capo, toglieva dagli occhi; anche il dottorino lo vide e gli parve sublime. - Conte - gridò - pare che l'inferno sia ben vicino al vostro paradiso. - Avanti, il vento è gagliardo, ma per Severina scenderei anche negli abissi. - Povero Orfeo! ahi! mi si è spezzato un remo. - Maledetto! - urlò il conte, che sentí un sinistro scricchiolio e un nuovo urto alla gondola. - Che è questo, che è questo? - ripeté. Una spaventosa idea venne in mente al conte, a cui il contegno del dottore cominciava a parer ben stravagante. - Conte - seguitò il dottorino con voce sguaiata - fermiamoci alla prima osteria? Luisina ci porterà della vernaccia. Queste celie, che scaturivano quasi dal buio, fra pericoli di morte, suonarono male all'orecchio del conte, che cominciò a dubitare d'un inganno. Il racconto udito poco prima gli parve a un tratto inverosimile, e corse col pensiero al barone; pensò che Severina fosse veramente morta e che questa fosse una trappola e una vendetta. Vendetta di chi? non d'altri che di quest'uomo venuto a sfidarlo sí bizzarramente fra la tempesta, correndo egli stesso pericolo di morte. Non aveva detto il dottore di baci e di abbracci ricevuti, senza meritarli? non aveva vegliato molte notti al letto di Severina? ch'ei l'amasse? non aveva costui contemplato a suo agio tanta bellezza? ah certi suoi sorrisi maliardi! senza dubbio il dottore era un rivale disperato. Queste idee si accumularono nella testa del conte nel tempo che brilla un lampo, e la gelosia feroce e la vergogna dell'onta, e la paura della morte e dell'ignoto destino piombarono, come tanti nembi, nell'anima, e gli oscurarono la vista. Il dottore taceva; era forse scomparso? il conte lavorava di braccia, la pupilla fissa innanzi a scrutare il pericolo, l'orecchio attento ai piú deboli fiati di vento, presentendo quasi coi nervi il venire di un'onda, fiutando nell'aria la via giusta, duro, ostinato, pronto a contendere quella spanna di assito alle furie e all'ira degli uomini. Povero Marco! era ubbriaco e se ne accorse egli stesso allo scombuiamento, che nacque nel suo cervello, a certi vacillamenti delle gambe, alla spossatezza degli spiriti tutti, al tremolío della vista; le sue parole gli risonavano ancora nelle orecchie fastidiosamente, come avviene a chi si accorge d'aver detto uno sproposito e che avvilito e vergognoso non ha scuse pronte. Quel che avesse detto non sapeva raccapezzare, e di questo solo aveva un barlume, d'essere cioè un miserabile senza lealtà, senza coraggio, che aveva assalito un nemico incapace di difendersi. Perché era dunque venuto in traccia del conte? perché aveva ingannato il barone? quale lotta orribile e grottesca si era preparata, dopo tante prove? - Aspettava seduto sulla punta della barca che il conte, abbandonati i remi, si slanciasse contro di lui a chiedergli parole piú chiare, a scongiurargli il suo amore per Severina e Dio sa la tragedia che la gelosia e l'ubbriachezza avrebbero potuto rappresentare su quella scena di flutti, nel disordine della bufera. Si sarebbero afferrati pel corpo? avrebbero lavorato di ugne e di morsi, finché nel nome di Severina non fossero entrambi precipitati a finir la lotta nel fondo? Il conte, che nell'affanno del remare non aveva fiato per una parola, a poco a poco, ripigliato l'andamento dell'onda, cominciò a cercare del dottore, che rannicchiato a poppa, non dava segno di vita. - Dottore! - chiamò; e sospettò ch'ei fosse, nello scompiglio della tempesta, caduto nel lago; ma un singhiozzo lo fece trasalire, al quale seguí un altro e finalmente un pianto lamentoso, come di bimbo istizzito, con parole mozzicate, delle quali il conte non intese se non: - Scusi, sono ubbriaco. Il dottorino infatti aveva sentita tanta compassione di sé, che piangeva per non saper far di meglio, né desiderava altro che di poter svanire come un buffo di fumo. Il conte piú attonito che irritato si ricordò della vernaccia tracannata ingordamente dal dottorino all'osteria, e, pensando che nella foga del remare gli fosse andata al capo, compatí quello sciocco ubbriacone, che pieno di vino osava sfidare tant'acqua. - Si sente male, dottore? si consoli che il vento cala e che siamo sotto costa. Non si muova, perché Bacco e Nettuno non se l'intendono troppo bene. Ne faremo un quadretto, dottorino, per i morti miracolosi di Torno. - Il conte rideva. Queste celie giungevano al dottore come il suono d'un lontano fruscio di foglie, perché il suo cranio era girato e raggirato fra certi anelli, che si dilatavano e si stringevano a vicenda, rapidamente, sí che talora gli sembrava di scender basso basso fino a toccare fondo e di balzarne su elasticamente come un sughero, fino al pelo dell'acqua. Il conte rideva, ma alla vista di lanterne a vento, che movevansi innanzi a un casino e al mormorio di voci non troppo lontane, il cuore tornò a picchiar forte, come al tempo dei piú ingenui amori; guidò la gondoletta a una nota scogliera, ove soleva sbarcare nelle altre sue visite notturne, e fu solo all'urto della punta contro i sassi che il dottor si svegliò di soprasalto, girò gli occhi, rammentò, comprese dov'era, si mosse quasi per istinto, e cadde, piú che non saltasse, dalla gondola all'asciutto. Il conte gli diede mano, perché non tuffasse, ma vedendo che il malanno era poco, e che il dottore, tornato in sé dopo un sonnellino di cinque minuti, balbettava scuse stracche, lo affidò alle cure della Provvidenza e prese la corsa verso il Ritiro . Il dottorino restò immobile alcun tempo cogli occhi fissi al suolo e sorrise mestamente di sé stesso; lasciata la gondola ben assicurata colla catena a un macigno, montò fino all'orlo della strada e chiamò il conte; ma il conte non c'era piú. Cercò qua e là, come meglio poteva nell'oscurità cupa di quella strada, ma si trovò solo, troppo solo. Stette pensando al cammino che doveva prendere, se verso il paese o verso il Ritiro , e sentí proprio come due forze egualmente tenaci che lo tiravano dalle due parti. Don Giulio venne di corsa fino al Ritiro , che distava cento passi dallo sbarco, e i servi, avvisati del suo arrivo, gli furono incontro e lo riconobbero. - Mi attende? - disse con ansietà. - Da due ore e colla piú grande inquietudine - rispose il vecchio napoletano. - Dov'è? - Di qui; a destra per la scala. Il conte precedeva il servo, che non correva abbastanza; agli ultimi gradini gli mancò il respiro, e calmò il battimento del cuore premendovi ambo le mani. - Come il dottore aveva consigliato, si era tenuto discorso a Severina del prossimo arrivo di don Giulio, che si fingeva chiamato da Milano: ma al giungere di quel tempaccio, nacque in tutti la paura che il dottore e il conte fossero stati sorpresi per via. Il barone passeggiò per il tratto di due miglia nella camera di Severina, che, tendendo l'orecchio ad ogni soffio d'aria andava dicendo: - È qui?.. Il barone, che correva col pensiero a imaginare qualche nuova disgrazia, fatto piú livido, piú cupo stringeva le mani tanto da tagliarsi coll'unghie. Quando intese un suono di passi nel giardino e riconobbe la voce del conte, un grido che gli muggiva sordamente nel petto venne fino alla strozza, ma la superbia, lo sdegno di padre e di patrizio ve lo soffocò. Quale vergogna! sarebbe stato un grido di gioia. La vecchia zia entrò, sbattendo furiosamente le porticine e, agitando le braccia sopra la testa, disse piú che non parlasse. Severina balzò a sedere sul letto, spingendo innanzi il capo, spalancando i grandi occhi spiritati, colle chiome che si sparpagliavano, per immensa trepidazione. La contessa che l'aveva assistita in que' giorni, commossa, cadde muta, sospesa, accesa in volto a piè del letto; il barone si rintanò nel vano d'una finestra, e due, forse tre minuti secondi passarono silenziosamente e parvero lunghi come quei dell'agonia, finché suonò un passo nel corridoio. La fanciulla, ridendo scosse la testa, dilatò le pupille, portò le mani ai capelli, e, guizzando, sarebbe balzata dalle coltri, se prima non si fosse precipitato verso di lei un uomo. Un grido acutissimo s'udí, che non pareva umano, e sparí la pazzia. Chi non avrebbe pianto? Adriano posò la testa allo spigolo della finestra e guatò sdegnosamente l'ombra della notte; nessuno si accorse delle sue lagrime. Severina, dopo molte risa convulse e selvaggie, ruppe in lagrime e posò la testa sul guanciale, come persona stanca. Don Giulio piegò un ginocchio e, presa una mano di lei, vi pose le labbra e chiese, tremando ed esaltato, il conforto di una benedizione, che ottenne di poi. Marco, che veniva gesticolando verso il Ritiro , assorto in penose investigazioni, delle quali non conosceva bene egli stesso la ragione, intese quel grido acutissimo, in cui pareva trasfusa tutta un'anima umana, l'amore, la gioia, e la pazzia. Si arrestò di botto, e quasi si svegliasse da un sogno, si orizzontò, ritrovò sé stesso, capí che la bella storia era finita, sorrise in atto di chi si rassegni, e mosse gli ultimi passi verso il cancello del Ritiro . Lo trovò chiuso, perché i servi, occupati altrove, non si sognavano punto di lui; sforzò colle mani le sbarre e le sentí rigide, dure, resistenti e nel loro tintinnio alquanto canzonatorie; alzò gli occhi alle finestre e vide un muoversi di lumi e un disegnarsi di ombre su per le ampie cortine; tutto era silenzio là dentro, ma era facile immaginare perché ciascuno tacesse. Immaginò alla sua maniera quella scena di aspettazione, di pianto, di slanci indomabili, di frenesie voluttuose, sebbene meste, e non seppe trattenersi dal dare una scossa a quell'inferriata. Piovigginava ancora, e, sebbene nessuno avesse voluto di proposito escluderlo, tuttavia parve al dottore che il conte o altri si fosse vendicato dell'audacia d'un povero dottorino, che aveva fermati gli occhi e il desiderio sopra una baronessa. - Era la prima volta ch'egli si accorgeva che la figlia d'un barone è una baronessa. Piovigginava ed egli, come un pezzente, non sapeva staccarsi da quella illustre porta, e andava cercando nell'ombra l'immagine diletta, per la quale tanto soffriva; ah poveretto! aveva fatto a fidanza sulla virtù razionale del suo ingegno e sulla fierezza stoica del suo carattere, spregiando in malo modo le esigenze del cuore. Il cuore aveva sofferto e taciuto fin lí, ma ora punto dall'ira e dalla gelosia, sorse a spaventosa ribellione; l'amore per la bella baronessa dagli occhi molli, dalle membra delicate, che egli aveva contemplata bellissima nel sonno, piú bella nel sorridere, quasi ammaliatrice nell'abbracciare nella follia e nell'abbracciare un amico, - quest'amore compresso, trascurato, reietto tornò con tutte le lusinghe delle memorie, con tutta la poesia delle imagini, con tutte l'armi di chi, desiderando vuol contrastare ad altrui un bene, e infuriò sotto la pioggia, il vento, il freddo... - Ah l'indegno! - disse con un rantolío alla gola, puntando la testa al cancello. - Ah l'indegno! - urlò lanciandosi a corsa per quella strada buia, e piena di fango, scendendo alla ventura per i sassi della riva, finché tornò alla gondoletta, la sciolse, vi entrò e colla punta del piede la spinse in là, fra le onde, non per voglia di morire, ma perché in tanto scompiglio della ragione e del sentimento gli pareva quella una via buona ed unica. Vi si distese come un morto nel cataletto, posò la faccia, stretta fra le palme, sull'assito e poiché, fra il rumore dell'onda e dei venti, il suo pianto non sarebbe giunto a orecchio umano, e le sue imprecazioni non a Dio, gemette e imprecò ad alta voce contro sé, il conte, gli uomini tutti meno Severina, che si figurava invece di sorprendere in quel vano tenebroso nella notte, fra l'accendersi dei lampi, e il rigoglio dei flutti. Gli ultimi fumi della vernaccia davano alle imagini della fantasia e alle cose vere contorni nebulosi, in modo da confonderle tutte quante in un via-vai da labirinto in quadri placidi dissolventisi ad ogni tratto per trasformarsi. Poiché Severina era perduta per sempre, accese l'immaginazione a determinare il valore del bene perduto, riproducendola in tutta la sua bellezza co' suoi capelli ondeggianti, che tentava toccare, con quei tremiti di labbra, che aveva tante volte sorpreso, a cui credeva accostarsi e ne prelibava quasi la dolcezza... finché un urto piú forte alla barca gli ricordò dove fosse. La bufera stava per finire, e ne fu il segnale un fulmine che si scaricò al di sopra di Nesso: Marco balzò a sedere e vide corruscarsi tutto il lago in rapide scintille d'oro, e ripiombare poi piú tetre e spesse le tenebre. Dove andava? la tempesta non era sdegnosa abbastanza per travolgerlo; l'ubbriachezza cessava, e sentivasi trascinato dal sonno. Parve ridicolo a sé stesso e se ne adirò. Non voleva essere eroe, non voleva morire. Giudicava il morire azione da vile, e forse aveva paura. Pensò che il genio buffo, il quale sorveglia ogni uomo serio, gli mormorasse: "Lí sotto non troverai Severina e domani ti pescheranno come un luccio" Il dottorino era lombardo, e sentiva tornare a poco a poco quell'antichissimo buon senso, che vola da queste parti e che proibisce a molti buoni di diventare eroi inutili. Cominciò ad arrabbiarsi, e finí col ridere, - era l'ultima conclusione - e rider forte di questo povero dottorino, cullato dalle onde come Mosè, e che molle d'acqua e di vino avrebbe voluto combattere una battaglia contro una rovina di sassi e afferrare le saette per mettersele in saccoccia. Gli parve udire la voce grossa di Celestino, che rideva, onde brancicò per cercare i remi; ma quei del conte erano rimasti sulla riva e i suoi come trovarli? Girò dunque gli occhi oziosamente all'intorno, e li fissò alla riva non troppo lontana, dove campeggiava l'ombra del campanile del suo paese e vide errare dei lumi, e lo ferirono voci indistinte, che venivano di là. Ma a un tratto trasalí per una voce non tanto discosta, che gridava: - Tonio! Tonio! - e piú lo spaventò un tabusso come d'uomo che annaspi nell'acqua; guardò e vide a tre passi un cencio nero che si voltava nell'acqua e piú in là il lume d'una barca mentre la medesima voce ripeteva: - Tonio! - Si curvò sulla sponda della gondola e scrutò fra le tenebre; gli ultimi abbarbagli del lampo non erano troppo accesi per rischiarare la scena, ma un rantolo d'uomo che si anneghi, gli manifestò troppo chiaramente che Tonio non poteva rispondere. Non era tempo di vani pensieri: trasse le scarpe, e la giubba, e si rovesciò sopra un fianco della gondola, che si capovolse. Nuotò verso il corpo, coperto tratto tratto dall'onda non ancora tranquilla; la spuma dei fiotti gli entrava negli occhi, ma guidato da un buon istinto, venne sotto al corpo, lo sollevò con una mano, lo trasse per un lungo spazio alla cieca finché, scrollando il capo, poté orientarsi sulla giusta direzione. La barca gli era sfuggita e pensò meglio fatto dirigersi alla riva. Lottava con un braccio contro le resistenze dell'acqua, che faceva gorgo intorno la sua testa non furiosamente, ma colla tremenda morbidezza di cuscini che si ammucchiano. Dietro di lui risuonò un tuffo di remi, e la medesima voce di prima: - Di qua, di qua! La testa di Tonio ballonzava pesa sulla sua spalla e tratto tratto il cadavere tirava in giù il vivo; dico cadavere sebbene Tonio viva ancora a contarla, ma allora perduti i sensi, pieno d'acqua come una botte, rigido e stecchito pareva che avesse giurato di trascinare il dottorino alla casa dei pesci. Andò ancora un poco come a Dio piacque, finché sentí sferzarsi il viso da una scuriada, che lo acciecò e per poco non gli sfuggí di mano la preda; l'afferrò con avidità rituffandosi piú d'una spanna, e ritornò a galla ansante, sbuffante, e alquanto disgustato di quell'acqua che non era vernaccia. E già la destra sentiva i pizzichi del granchio, e gli abiti molli e saturi pesavano come cappe di piombo e gli sovrastava minacciosa la noiosa legge che tira i pesi al centro, quando una nuova frustata attraverso il collo gli fe' gettare un grido di dolore; sentí serrarsi fra le orbite di un serpente, cioè di una corda, che gli lanciavano per la seconda volta dalla barca che, avendo a lottar colle tenebre, col vento e coll'onda non osava avanzarsi troppo per paura di schiacciare i naufraghi. - L'ha abboccata: forza, ragazzi. - Cosí predicava la medesima voce, e il dottorino, che aveva abbrancata la fune, si sentí a un tratto tirato in rimorchio; l'acqua tagliata dalla barca veniva a gorgogliare all'orecchio di Marco, che per quel fregamento provava in tutti i nervi un voluttuoso solletico. Era tempo. Lo trassero a riva in tale stato che Tonio poteva sfidarlo alla corsa. Mentre lo portavano in un casolare vicino rinvenne alquanto, e parlava ancora d'una miriade di lumi, visti in quella dormiveglia, di voci che schiamazzavano, come se i lanzichenecchi fossero alla canonica, e di un amalgama di ciclo e di acqua che lo chiuse in una notte profonda. Il fatto si può contar presto. Tonio, uno dei pescatori di quel paese, s'era indugiato sul lago, pigliando a gabbo certi fischi, che gli avevano zufolato: - Va' via! - onde fu colto dalla tempesta proprio nel momento che non avrebbe voluto esservi. Le sue donne a casa chiamavano già tutti i santi per nome, e i suoi amici, che l'avevano veduto un'ora prima presso Torno, avevano sfidato coraggiosamente il pericolo per venirgli incontro. Oggi a me, domani a te - dice la povera gente, e per fare una buon'azione non pensano mai a formare un comitato: perciò in dieci minuti furono nelle peste in cerca di Tonio; ma questi, che da mezz'ora nuotava in cattive acque, colla barca crepa e il timone rotto, aveva creduto migliore buttarsi a nuoto, ed era, dopo un'altra mezz'ora di lotta bestiale, ai rantoli; quando gli furono addosso il dottorino, e in seguito gli amici. Allorché riconobbero il sor dottorino nel miracoloso salvatore di Tonio, tutto il paese fu in rumore, come se si avesse detto l'imperatore; la voce si sparse per tutte le case e prima di mattina lo sapeva il sagrestano del duomo di Como, che la contava ai preti, e via via fino all'imperial regio commissario. Ai nostri giorni l'avrebbero fatto cavaliere, ma a quei tempi avari si contentarono di parlarne coll'istesso calore che d'un omicidio e dello scandalo d'una bella signora. Tonio guarí e dei due non saprei dire quale salvasse l'altro, perché, quando Marco aperse gli occhi, dopo una notte di febbre in casa sua, sentí una dolce consolazione e un gran piacere di essere al mondo, onde sono per credere che l'uomo soltanto, il quale abbia l'idea della sua dignità, è veramente vivo e incomincia a morire il dí che diventa inutile. Al suo fianco sedeva Celestino, che lo risvegliò del tutto dicendogli: - Raccontami qualche cosa del regno delle sirene; è vero che finiscono in coda di pesce?..che peccato! - Celestino gli somministrò un cordiale di risa sí sgangherate da riscuotere una mummia. La febbre durò tre giorni, ma Celestino assicurò che era tanta salute e non volle che si levasse da letto; dopo il quinto dí, poiché l'infermo aveva avuto giudizio, il dottore permise un bicchiere di contraveleno, cioè di quel vino che strappava le lagrime di riconoscenza verso la Divina Provvidenza, che dopo aver creato l'uomo, lo vuole allegro. Sul far della sera si bussò all'uscio. - Chi è? - domandò Celestino. - Sono io - rispose una voce. - Chi è l'io? - Sono il morto. Entrò Tonio, un po' pallido, ma in gambe e lo seguiva la donna con un bimbo al collo, e ultima veniva la vecchia madre appoggiata alle spalle di una bambina, che di pulito aveva soltanto gli occhi. Tonio teneva per la coda un grosso luccio, uno di quelli che l'avevano aspettato a cena quella brutta notte. - Che diavolo! - gridò Celestino. - Non è la festa delle rogazioni. - Scusi, sor dottorino... La Ghita ha voluto venire per ringraziarlo dell'incomodo, che si è preso per me l'altra sera. - Dov'è? è qui? - domandò la vecchia madre, che era cieca - È qui - le rispose la fanciulla. - Ne ho benedetti molti e sono stati fortunati. Marco stese la mano commosso a Tonio, che gli offrí il pesce d'una libbra e tre quarti, assicurando che cotto nell'aceto doveva essere un cappone. - Grazie, buon amico - rispose il dottorino. Celestino voltò le spalle e andò a suonare il tamburo sui vetri: certe cose gli rimescolavano il sangue. La vecchierella venne fino al letto e posata una mano tremante sulla testa del giovane: - Benedetto te - esclamò - benedetti i tuoi figli e la tua sposa, quando l'avrai, perché hai salvato un padre di famiglia. - Sicuro - disse Tonio; - se non c'era lei, la era finita per questi, come si dicono? Di' anche tu qualche cosa, Ghita, ci vuol altro che piangere... Anche il dottorino ebbe una benedizione e, come se tutta quella felicità gli venisse da Severina. socchiuse gli occhi per rivolgere a lei un ultimo pensiero, che fu il piú venerabile e il piú delizioso. L'amore diventava religione. Questa scena di pietà sarebbe durata a lungo, se Celestino non avesse levata la voce a sgridare Tonio, perché aveva lasciato il letto troppo presto, a sgridare la vecchia perché uscita di casa con tanti malanni in corpo e il bimbo perché aveva il naso sporco e la fanciulletta perché non si lavava la faccia. Se non si aiutava con questa sfuriata, Celestino (non state a ripeterlo) era un uomo da commettere uno sproposito, non dico piangere, ma commuoversi. Venne il giorno che i due amici dovevano lasciarsi. Marco accompagnò Celestino per un buon tratto di via, e, man mano che si andava innanzi, le parole si facevano piú scarse, finché stettero a guardarsi in faccia, tenendosi per mano, sorridendo, ma non allegramente. Celestino aveva lasciato spegnersi la pipa. Marco gli aveva narrata la dolorosa istoria del suo amore, e Celestino per assicurarsi che era veramente guarito gli disse: - Il barone, Severina e l'altro sono partiti ieri sera. - Buon viaggio - rispose il dottore, ma la voce gli si affievolí. - Troverai nel tuo scrittoio una lettera di Sua Eccellenza, che ho ricevuto ieri, ma che tenni nascosta per riguardo alla tua convalescenza. A proposito di lettere eccotene un'altra che mi ha scritto un uomo bizzarro pochi giorni or sono, e fa di leggerla mentre ritorni a casa, perché la strada è deserta e potrai riderne a crepapelle. Celestino diede la lettera, accese la pipa, toccò vezzeggiando il ganascino all'amico e gli disse: - Stammi bene, mio bel filosofo, e guardati dai colpi di sole. - Poi se ne andò fischiando. Il dottorino ritornò verso casa e, aperta la lettera rise di cuore nel riconoscere la propria scrittura e nel rileggere queste righe: "Illustrissimo signor Conte, "Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll' autorità d'un superiore.... La lettera, respinta da Ginevra per difetto di indicazione, dopo lungo giro, era venuta nelle mani di Celestino, al quale era diretta. La lettera del barone diceva semplicemente: "Il vostro Dio meriterebbe d'esistere", e chiudeva due biglietti da lire mille. - M'hanno pagato! - borbottò il dottorino e fu per stracciare quei preziosi cenci di carta, ma pensò che venivano da Severina e che molte spose del suo paese non avevano un soldo di dote. Passarono molti anni da quel giorno; la baronessa divenne contessa e dispero di ritrovarla fra i vivi; il conte ingrassò ed era nel suo pieno diritto, il barone si chiuse in biblioteca, che fu la sua prima tomba, l'epicureo Celestino, morto di colera, fu sepolto, come desiderato, colla sua pipa. La benedizione fruttò al dottorino di campar lunghi anni sano e rubizzo, e, sebben vecchio, vive ancora contento di vivere. A chi gli domanda il segreto di questa beatitudine mostra una ricetta in latino, trovata fra le carte del suo povero amico, la quale può chiudere a guisa di morale, queste pagine non immortali. Recipe vinum bonum et pippam longam , e io la consiglio alle anime sensibili. 40

Malombra

670406
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

"Signora no, ne abbiam mica trovato di Momoli. Lei, signora Fanny, vada colla candela, che io andrò a pigliare il lanternino." Fanny e la contessa si avviarono alla scalinata. "Marina!" chiamò Sua Eccellenza. "Contessa!" rispose Marina ancora invisibile. "Non hai trovato mio fio, tesoro? Non hai trovato Momolo? Oh Dio, che scala di Ponzio Pilato! Mi sorprendo di Momolo, perché te l'ho mandato incontro cinque minuti fa. Mio fio sarà mezz'ora che ti è andato incontro. Aspetta, tu col lume, cosa sei tu, viscere, che c'è un maledetto scalino mezzo rotto. Ecco. Dove sei, Marina! Vieni, cara! Alzate quella candela, benedetta! Oh Dio, Marina, non ti vedo ancora!" Il Rico le passò avanti con il lanternino, facendo gli scalini a tre a tre. Lo si vide fermarsi tosto e ridiscendere. Dietro al lanternino luccicavano nell'ombra certi grandi bottoni d'acciaio che la contessa conosceva. Ella si fece avanti e abbracciò Marina. L'abbracciò con impeto a più riprese e le sussurrò all'orecchio: "Dio ti benedica, delizia, eri il sogno del mio cuore." E non finiva di baciarla. Marina taceva. Edith chiese a Fanny se suo padre era in casa. Fanny non lo sapeva. "No, tesoro" disse la contessa spiccandosi da Marina. "No, è uscito da un pezzetto con uno di quei tre re magi; non con quell'asino di stamattina che voleva farmi veder l'Orrido; con quell'altro lungo, quel della piazza." La contessa Fosca non ricordava mai o quasi mai il nome delle persone che conosceva da poco tempo. Parlava sempre di quello dal naso lungo, di quello dalla bocca storta, di quello dagli occhiali. Marina, appena sciolta dagli amplessi della contessa, le gittò un frettoloso "a rivederci" e discese con Fanny. Sua Eccellenza prese il braccio di Edith e scese con lei adagio adagio, discorrendo e interrompendosi ogni momento per la paura di cadere. "Che angelo, quella Marina! Piano. Che sentimento, che talento! Piano, benedetta, piano. E bella! Un momento, viscere; non son mica un saltamartino come Voi. Dunque, cosa vi pare? Non sapete? Non vi ha detto niente quella briccona? Neppure una parolina? Tutta delicatezza. Oh Dio, io rotolo giù, figlia cara. A piano. Dimmi, tesoro, era ella di buon umore adesso, venendo giù da quelle maledette montagne?" Edith capiva sempre poco il linguaggio della contessa. Ora lo capiva meno che mai. "Beata, non è vero?" riprese la contessa. "Beata, poveretta. Eh, la ho vista. È l'ultimo scalino questo? Commossa, la me anima. In nome di Dio che siamo abbasso." Attraversarono il cortile, precedute dal lanternino del Rico. I raggi lunghi e sottili si trascinavano barcollando per la ghiaia candida, saltavano, si allargavano sulle grandi foglie vellutate degli arum, scintillarono un momento sulle perle e i brillanti del getto d'acqua, il quale raccontava e raccontava la sua vecchia storia monotona e malinconica. Presso alla porta del Palazzo la contessa si fermò, trasse Edith a sé e le disse sottovoce: "Oh, insomma, Ve lo dico io. Io ho già in testa che siate una furbaccia e che sappiate tutto. Marina sposa mio fio." In quella una voce flebile chiamò dall'alto: "Eccellenza!" "Chi è! Cosa è nato?" disse la contessa guardandosi alle spalle. "Son Momolo, Eccellenza." "Dove diavolo vi siete ficcato!" "Son qua, Eccellenza." "È su lì" disse il Rico ridendo come un matto del suo riso argentino, malizioso. Corse sotto la muraglia che sostiene il vigneto e alzò la lanterna quanto poté. "Eccolo su!" diss'egli. Si videro le gambe nere di Momolo. "Come hai fatto, bestia, per andar lì?" "Niente, Eccellenza, ho perso la strada... Mi pareva anche a me adesso che non dovesse andar bene. Se ha la bontà, Eccellenza, di mandarmi, dopo, il putto col lume, mi trovo subito, non la dubiti, Eccellenza." Il putto dal lume rideva a crepapelle. "Il conte Nepo lo hai visto?" "No, Eccellenza." "Bene, adesso verrà qua questo birichino a farti lume e dopo andrete insieme incontro al conte Nepo, e gli direte che la marchesina è arrivata." "Servirla, Eccellenza." Il Rico risalì la scalinata col lanternino e la contessa entrò in casa senza badare se Edith ve l'avesse preceduta o no. Edith era immobile al posto e nell'atto in cui l'avevano colta le parole della contessa Fosca. N'era rimasta sbalordita. Ripensando gli strani discorsi, lo strano contegno della sua compagna di passeggio, comprendeva questo solo: che i Salvador facevano compassione e che Marina faceva paura. Finalmente alla voce di Nepo che tempestava per la scalinata con Momolo e il Rico, si scosse, entrò in casa pensando un altro pensiero, il pensiero del Ferrieri. Il Ferrieri non era poi stato tanto temerario quanto Mari na avrebbe potuto credere. Lo aveva tocco la bellezza quieta e intelligente di Edith, il suo contegno così diverso da quello delle ragazze troppo timide o troppo ardite ch'egli conosceva. Sognava aver trovato una donna simile all'alta idea che portava in mente al di sopra degli opifici, delle macchine, delle ferrovie, de' suoi scolari, de' suoi maestri, della sua fredda scienza. Stimava che quell'incontro, a quarantadue anni, fosse l'ultima offerta della fortuna, e tutta la sua giovinezza inaridita rinverdi va. Aveva presso a che deliberato di parlare a Steinegge prima che a Edith. Nel buio dell'Orrido, stando presso a lei, smarrì il suo sangue freddo, le prese le mani con forza, le parlò e non poté, pel gran fragore, essere inteso. Comprese, prima dalla violenta ripulsa, poi dal volto di lei, quanto l'avesse offesa; comprese troppo tardi come in quel luogo una violenta dichiarazione d'amore potesse venir male interpretata. Infatti Edith l'aveva interpretata male e ora andava pensando perché mai suo padre foss e uscito, cosa insolita, col Ferrieri. Intanto sopraggiunse Nepo infuriato per non aver saputo combinar Marina, e gridando "non è possibile, non è possibile" oltrepassò Edith, senza salutarla, nel vestibolo, mentre il Rico, fermo sulla porta con il suo lanternino, se la rideva di cuore e Momolo brontolava: "Ohe, bardassa, rispettiamo Sua Eccellenza, digo." Nepo si abbatté sulle scale in Fanny che scendeva in fretta a cercare di Edith per il pranzo. "Dov'è la signora marchesa?" diss'egli senza fermarsi. "Dov'è?" rispose Fanny, saltando giù per una diecina di scalini. "Nella sua camera" gridò dal fondo della scala, mentre lui n'era già al primo pianerottolo, dove sua madre lo attendeva impaziente. "Dov'è?" diss'egli sottovoce. "Cosa ti ha detto? Sa che hai parlato al conte Cesare?" A tante domande la contessa rispose con altrettante: "E tu cos'hai fatto che non venivi più? Dove ti sei perso? Hai trovato Momolo? Va là, diglielo tu che ho parlato al vecchio. Fa presto. L'hanno chiamata a pranzo. In salotto la non c'è ancora. Sarà in camera sua. Aspettala in loggia. Va là!" Quale ignoto spirito d'inquietudine si era infiltrato per le pietre del palazzo? Tutti vi erano nervosi come Nepo e la contessa Fosca. Il signor Paolo rumoreggiava in cucina, indispettito di dover servire un secondo pranzo. Catte aveva toccato una ramanzina dalla contessa per certo bottone, e girava di qua, di là, cercando non so che cosa, borbottando fra i denti di non aver mai visto la padrona così cagna come quella sera. Un domestico correva su e giù dalla cucina al salotto con piatti, bottiglie e bicchi eri, sbattendo gli usci co' piedi, alla disperata. Ferrieri e Steinegge rientravano dalla passeggiata agitatissimi l'uno e l'altro. Il conte Cesare, il Finotti e il Vezza discutevano in sala il primo annuncio della Convenzione di settembre. Il Vezza le saettava freddi sarcasmi da spettatore indifferente, spruzzati d'aceto clericale; il Finotti, futuro membro della Permanente, la combatteva con furore; e il conte Cesare la giudicava, con le sue idee da patrizio romano antico, un colpevole mezzo termine, un d ire al nemico "non ho paura solo delle tue armi, ma anche della tua ombra" e si riscaldava contro il re, il Ministero, il Parlamento, le classi dirigenti che governando a quel modo, fornivano un pretesto al ribollire del democraticume balordo e borioso. Il conte Cesare parlava più acre del solito, temeva che il Finotti ed il Vezza lo pigliassero per un alleato e non risparmiava nelle sue invettive gli amici politici dell'uno né dell'altro. Marina, malgrado l'avessero avvertita di scendere a tavola, sedeva ancora, nella sua camera da letto, al tavolino ovale che le serviva qualche volta da scrittoio e a cui ora appoggiava i gomiti, reggendosi le tempie con le palme. La candela che ardeva davanti a lei le metteva de' bagliori aurei nei capelli e rivelava fila azzurrognole di vene all'angolo della sua fronte bianca, mezzo coperto dal mignolo roseo; gittava sugli arredi lucidi dispersi nella stanza oscura dei fiochi riflessi, come occhi di spirit i che guardassero la donna pensosa. Sul velluto azzurro d'uno scannello aperto fra i suoi gomiti c'era un foglietto cenerognolo con un grande viluppo di rabeschi d'oro, un'orgia di quattro lettere attorcigliate insieme; sotto a queste, un drappello di zampine di mosca, in battaglia: più giù, al posto del capitano, un nome solo: Giulia. Le zampine di mosca dicevano così: Sai che trasporto anch'io la mia capitale da via Bigli a Borgonuovo? Così ha voluto l'imperatore. Son corsa ieri a dire addio alla mia buona vecchia via erbosa. Che orrore i trasporti di capitale! Ho lasciato Sua Maestà nella polvere con gl'imballatori e i tappezzieri e son tornata qui per mandarti subito un petit pâté chaud. È un gruppettino di casi di romanzo, molto bene impasticciati, e ha in mezzo il signor Corrado Silla, autore di Un sogno, domiciliato in Milano, via S. Vittore. Ti racconterò il gruppettino di casi che me l'han fatto scoprire, ma un'altra volta; quando potrò dirti qualche cosa di più. Adieu, ma belle au bois dormant. Domani viaggio per affari: vado a ballare a Bellagio. Poveri myosotis! Chi se ne ricorda? Stavolta sarò in bianco. Avrò dei coralli e avrò anche delle magnifiche alghe del Baltico che mi manda G... da Berlino con un sonetto. Quello non l'avrò. Giulia Si batte alla porta e la voce di Fanny disse: "La non viene? La non si sente bene?" "Vengo" rispose Marina. Balzò in piedi e con un impeto d'orgogliosa gioia stese all'indietro le braccia aperte, alzò il viso trionfante, guardò in alto, davanti a sé. Si slanciò fuori, scivolò giù dalle scale e in loggia trovò Nepo, inquieto. "Finalmente, angelo mio!" diss'egli. "La mamma ha parlato allo zio. È contentissimo. E Voi?" Le cinse con un braccio la vita, aspettando. "Felice!" diss'ella e gli sgusciò di mano con una delle sue risate argentine che suonò via per la loggia e al di là dell'altra porta nella sala di conversazione, dove tutti, tranne il conte Cesare, si alzarono in piedi ed ella passò correndo leggera come una fata, con un cenno del capo e un sorriso. "Atalanta, Atalanta" disse il commendator Vezza, guardandole dietro. Nepo entrò a precipizio, tutto rosso, con gli occhi che gli schizzavano dalla testa, incespicò sulla soglia e venne ad abbracciarsi al Vezza per non cadere. "Scusi, caro commendatore" diss'egli con un impertinente tono corbellatore "speravo abbracciare qualche cosa di meglio." "Maledetta bestia!" pensò il commendatore. "Si figuri!" diss'egli, asciutto, asciutto. "Non è vero, zio?" rispose l'altro pigiando sulla parola zio. "Lei se lo può bene immaginare, zio, chi speravo, a buon diritto, abbracciare. Onorevoli signori, loro sono liberi di trarre dalle mie parole, da tutte le mie parole, le induzioni... più legittime, le induzioni... più ragionevoli!" Egli strascicava e ripeteva i sostantivi, meditando l'epiteto, vibrando poi con un ampio gesto oratorio. "...Le induzioni... più naturali! Io credo di non poter meglio... sviscerare! dirò, questo vocabolo." E passò, tronfio, nel salotto. Il conte non si poté tenere: "Burattin" diss'egli fra i denti, in piemontese. "Eueueuh!" sbuffò il Vezza, sfogandosi. "Lo hai sviscerato." "Ma!..." disse il Finotti accennando il salotto alle sue spalle col pollice della mano destra e facendo una smorfia eloquente. Il conte tacque. "Dobbiamo...?" riprese l'altro stendendogli la mano. "Uuuh" esclamò il conte. Era una smentita o un rifiuto sdegnoso di felicitazioni? Nessuno lo domandò. Non si udirono che le voci del salotto. Nel salotto la contessa Fosca e Nepo assistevano al pranzo di Marina e di Edith, la quale comprendeva essere di troppo e non vedeva l'ora che il pranzo fosse finito per raggiungere suo padre. Questi passava e ripassava in sala, davanti alla porta aperta del salotto, gittando a Edith delle occhiate strane. "Dio, che delizia, questo paese, cugina!" disse Nepo, ispirato. "Quell'Orrido, che luogo indimenticabile!" Egli guardava Marina con i suoi grandi occhi miopi, a fior di testa, appoggiando i gomiti sulla tavola. "Il cuore mi palpita quando vi penso. Questa notte non scenderà sonno sulle mie pupille. Ah! È inutile, mamma, tu non puoi comprendere con la tua anima il segreto incanto di quella grotta. Ah!" Si alzò in piedi e dimenò le braccia come un forsennato estatico; dopo di che abbracciò sua madre che si mise a gridare: "Matto, matto, lasciami stare coi tuoi spiritessi." "Senti questa, senti questa, mamma" diss'egli, rizzandosi, mentre la contessa ripeteva a Marina "è in boresso, è in boresso." Marina chiamò il Finotti, che guardava curiosamente dalla sala. "Lascialo stare, colui", disse la contessa. "Finotti!" ripeté Marina. Quegli entrò, tutto ringalluzzito. "Sentite questa, sentite questa" gridava l'infatuato Nepo. "Qua, Finotti." Marina lo fece sedere fra Edith e sé. "Sentite questa. Ero tanto esaltato dalle bellezze dell'Orrido che, quando siamo giunti con mia cugina sotto il gran pietrone nero dell'ultima grotta, io, comunque profano alle discipline di quella nobile arte ch'è la ginnastica, saltai!..." "Oh!" interruppe Marina. "Non è vero, come saltai?" riprese l'altro guardandola e aspettando con le braccia in aria. "Quite a new way of leaping" gli rispose Marina. "Per carità, Marina, non starmi a parlar francese, viscere, che a Venezia, con questo maledetto francese non si può vivere. Cosa hai detto?" "Le tue solite sciocchezze, mamma! Marina ha parlato inglese e non francese." "Scusi" uscì a dire il Finotti per riconciliarsi la signora contessa Fosca ch'era diventata rossa rossa, e si versava un conforto di Barolo. "Scusi conte; che inglese! che francese! Quando si ha la fortuna di nascere col miele profumato in bocca di quel caro dialetto fatto per le Grazie a scuola di Venere, perché guastarsi il palato col francese e coll'inglese? La contessa ha ragione." "Andate là che vi credevo peggiore. Sì davvero vi credevo peggiore. Così mi piace; difendere anche me, povera Giopa. Sarà quel che volete la nostra lingua, ma almeno non è piena di ossi e di spine come le altre. Non dicono che i nostri vecchi, benedetta l'anima sua, parlavano veneziano anche al Papa? Io non sono nata nobile, ma sono veneziana vecchia, sa. Mio bisnonno è morto pescando cape da deo, e mio nonno ha servito sotto Sua Eccellenza Anzolo Emo. Parlerò turco, ma francese no e inglese manco. Il pover o Alvise la pensava come me. Sbattezzatemi se ha mai detto due parole altro che in veneziano. Ma adesso non tocca più far così. Adesso tocca vergognarsi di esser veneziani. Andate dalla... e dalla... e dalla... sentirete che musica. No no no. Con il forestiere, non dico, pazienza; ma tra noi altre? Sci, sci, sci, sciù, sciù, sciù? Povere squinzie!" Qui la contessa Fosca volle prender fiato col Barolo; ma, appena accostato il calice alle labbra, lo posò sputando e schiamazzando, tra le risate di Nepo che aveva trovato modo, durante la sua filippica, di versarle nel vino mezza saliera. "La ho chiamata come uomo di spirito fra questa gente di spirito" disse piano Marina al Finotti. "Ah, marchesina" rispose questi sospirando "a che serve lo spirito? Vorrei essere un imbecille di venticinque anni." Intanto la contessa e Nepo facevano un tal baccano che il conte Cesare, il Vezza e Steinegge entrarono anch'essi nel salotto. Il Ferrieri si affacciò un momento all'uscio, ma non entrò; colse anzi il destro di allontanarsi inosservato e non comparve più per tutta la sera. Marina, visto entrar lo zio, si alzò da tavola e si avviò alla sala a braccio di Nepo. "Carino coi Vostri salti" gli diss'ella ridendo. Mentr'egli rispondeva solennemente, ore rotundo, la coppia passò davanti al conte Cesare e Marina fissò lo zio con due occhi scintillanti di gaiezza. La contessa Fosca, ancora indispettita del brutto tiro giuocatole da suo figlio, passò senza guardarlo, facendosi vento. Il conte trasse l'orologio. Erano le nove e mezzo, un'ora affatto straordinaria per lui. "Questi signori avranno bisogno di riposo" diss'egli volgendosi agli Steinegge e ai commendatori. Poi, senz'attendere la risposta, ordinò di approntare le candele, ed entrò in sala, dove ripeté l'antifona. "Io penso" diss'egli ai Salvador "che dopo tante fatiche e tante emozioni avrete bisogno di riposo." "Ma carissimo zio..." cominciò Nepo avanzandosi verso di lui con le braccia aperte, a passi brevi e frettolosi. L'altro non lo lasciò proseguire. "Oh, sicuramente, che diavolo!" diss'egli. "Adesso si approntano le candele." Nepo fece un voltafaccia e tornò verso Marina, ritirando il capo tra le spalle e alzando le sopracciglia. La contessa Fosca s'interpose. "Ma via, Cesare" diss'ella piano al conte "che originale che siete! Stasera che i miei putti avrebbero tanto gusto di parlarvi, di dirvi..." "Sì, sì, sì, sì" s'affrettò a rispondere il conte "intendo molto bene quello, intendo molto bene quello. Ecco le vostre candele." Non c'era da replicare. "E voi" disse il conte quando si trovò solo con Marina "non andate, voi?" "Non ha niente da dirmi? Non è contento che io abbia seguito i Suoi consigli?" "I miei consigli? Come, i miei consigli?" "Ma certo." Si parlavano a dieci passi, guardandosi a sbieco. "Spiegatevi" disse il conte; e posata in furia la candela che aveva presa, le si voltò a fronte. Presso Marina, sopra un tavolino di marmo addossato alla parete, v'era un vaso di cristallo, con frondi d'olea e fiori sciolti. Ella piegò il viso dicendo: "Non se ne ricorda?" e odorò i dolci profumi moribondi. "Io?" rispose il conte recandosi la mano al petto. "Io vi ho consigliata?" Marina rialzò il capo dai fiori. "Lei, Lei" diss'ella. "Poche ore prima che i Salvador arrivassero qui. Fu in biblioteca. Lei mi disse che noi due non eravamo fatti per vivere insieme, che Suo cugino aveva una posizione splendida e pensava a prender moglie, che vi pensassi." "Bene, bene, può essere che io abbia detto quello" replicò il conte imbarazzato, frugandosi con la mano i capelli. "Ma io allora non conoscevo appunto mio cugino e voi non avete creduto consultarmi prima di accogliere la sua domanda." "Adesso lo conosco. Lo trovo un perfetto gentiluomo pieno d'intelligenza, molto distinto, molto brioso, simpaticissimo, come lo trova Lei, insomma." "Come lo trovo io?" "Ma, sì! Non ha dichiarato stasera alla contessa che Lei è contentissimo del matrimonio?" "Sicuramente. Poi che voi non avete stimato di dover prendere la mia opinione e avete deciso da sola, io ne sono contentissimo. Ma mi preme affermare..." Il conte si fermò per l'entrata di Catte. "Oh, per amor di Dio" esclamò costei tutta sorpresa e quasi ritraendosi. "Mi scusino tanto. Credevo che non ci fosse più nessuno. Ero venuta a prendere il ventaglio di Sua Eccellenza." "Qui non c'è ventagli" disse il conte, brusco, vibrandole un'occhiata che la sgomentò. "Eh, nossignore, nossignore" mormorò la povera innocente Catte, e ritirò per la porta la sua magra persona, il suo lungo naso. "Mi preme affermare" ripigliò il conte dopo un istante di silenzio "che io non vi ho consigliata." Marina sorrise. "Ma io La ringrazio" diss'ella "del Suo consiglio, io sono felicissima." Il conte avrebbe voluto adirarsi e stavolta non poteva. Vero che Marina aveva deciso senza consigliarsi prima con lui; ma restavano sempre sulla coscienza sua le parole dette in biblioteca e ora ricordate da lei. Non era uomo da cavillare con la propria coscienza per acchetarla. Soltanto adesso quelle parole gli tornavano a mente; ne esagerava la gravità e si doleva di averle proferite. "E siete contenta?" "Rispondere di no, adesso, sarebbe un po' tardi, ma io sono felicissima, l'ho già detto." "Udite, Marina." Da gran tempo il conte non aveva parlato a sua nipote con la grave dolcezza che pose in queste due parole. La figlia della sua cara sorella morta avea preso una risoluzione che l'allontanava per sempre da lui. Non credeva che sarebbe stata felice, e ora temeva essere in colpa egli stesso di queste nozze male promettenti. Temeva essersi lasciato trarre a imprudenti parole dal risentimento delle gravi offese recategli da sua nipote, dal desiderio di non vederla più, di non udirne la voce irritante. Tale desid erio, fitto e saldo nell'animo suo fino a quel punto, ora, in sul compiersi, veniva meno. Perché Marina non si moveva, fece egli stesso alcuni passi verso di lei e le disse: "Per il Vostro decoro in questa circostanza penso io." "Per il mio decoro?" "Sicuramente. Voi entrate in una famiglia molto ricca. Dovete entrarvi a fronte alta." La mano destra del conte gli era uscita di tasca per metà, nell'aspettazione istintiva di un'altra mano che venisse in cerca di lei. Ma l'aspettativa riuscì vana e quella mano ridiscese lentamente. Zio e nipote rimasero un momento immobili a fronte. Poi egli prese una candela e andò a caricar l'orologio a pendolo sul piano del caminetto. Intanto Marina prese l'altra candela e uscì silenziosamente, senza che il conte, intento a girar la chiave, mostrasse avvedersene. Ella non chiuse neppure l'uscio dietro a sé; tuttavia, appena fu uscita, il conte s'interruppe, voltò la testa e stette un poco a guardar la porta semiaperta. Indi terminò di caricar l'orologio e uscì egli pure, a capo chino, meditabondo, per andarsene a letto. La vecchia casa dormiva inquieta. Più d'una gelosia chiusa appariva rigata di lume; da più d'un uscio sfuggivano bisbigli, s'incontravano nei corridoi vuoti, sulle scale deserte; come quando ciascuno di noi si dispone nel silenzio e nella solitudine al riposo notturno, che i nostri segreti escono dalle loro celle recondite, si spandono bisbigliando per tutta l'anima. Steinegge era nella stanza di sua figlia. Le aveva dato una grande notizia; la domanda formale della mano di lei, fattagli poche ore prima dall'ingegnere Ferrieri. Il povero Steinegge aveva la febbre addosso. Sentiva confusamente che, avuto riguardo al valore e alla condizione sociale del Ferrieri, la era una grande fortuna; sentiva che l'ingegnere doveva essere un onest'uomo: di questo lo persuadeva il colloquio, avuto con lui. Il Ferrieri gli aveva lealmente aperto il suo cuore, gli aveva narrato l'episod io dell'Orrido, esprimendo la speranza che Edith avrebbe accettate le sue scuse, parlando di lei col toccante rispetto di un fanciullo di sedici anni. Poi gli aveva lungamente ragionato di sé, della sua famiglia, nulla celandogli né del bene né del male; gli aveva tratteggiata la vita seria e tranquilla, ma signorile, che offriva a Edith. Steinegge sentiva che avrebbe perduto per lo meno gran parte di sua figlia; n'era accorato e si sdegnava in pari tempo seco stesso di questo egoismo invincibile. S'era fat to quindi uno scrupolo di magnificare a Edith l'uomo e le sue parole. Ma egli era troppo commosso per potersi spiegare a dovere. Le aveva impasticciato il discorso del Ferrieri, mettendone a fascio il capo e la coda, lardellandolo di esclamazioni: "Un uomo nobile! Un uomo grande!" confondendosi, ripigliandosi ad ogni momento. Quand'ebbe finito, Edith venne a posargli le mani sulle spalle. "Che mi consigli, papà?" diss'ella. Il povero Steinegge non fu in grado di rispondere a parole, ma fece un gesto energico, un'affermazione disperata con il capo e con le braccia. Finalmente, a furia di volontà, poté articolare queste due parole: "Grande fortuna." Edith gli posò il capo sopra una spalla e parlò; le cose che aveva in cuore non osava metterle fuori mostrando il viso. "Sa? C'è qualcuno che mi dice: "Non ha più il suo paese, non ha più vecchi amici, non ha più la sua giovinezza; ma io sono tranquilla perché tu sei al posto mio, presso di lui, e gli darai tutto il cuore, tutta la tua vita"" "Oh, no, no, no, no!" interruppe Steinegge. "Mi dice così, papà. E poi aggiunge: "Non ti dividerai ora da tuo padre, se..."", Qui Edith, abbassò la voce: ""...se speri che siamo tutti uniti un giorno, meglio, oh, molto meglio che negli anni tristi in cui il papà ha tanto faticato, tanto sofferto per me, per te stessa"" Steinegge chiuse le braccia intorno a sua figlia, ripetendo: "No, no, no!" "Ma... e poi, papà" disse Edith rialzando il viso sereno. "c'è anche un'altra piccola cosa. Questo signore non mi piace." "Oh, impossibile! Pensa, bambina mia, che forse si potrebbe restare insieme lo stesso." "No, no! Sai bene, dovrei essere prima una moglie e poi tua figlia. Figurati! E i nostri progetti? La nostra casettina, le nostre passeggiate? E poi, davvero, io posso perdonare se vuoi, al signor Ferrieri: ma egli non mi piace. Gli dirai così: la mia signora figlia non può accettare che le sue scuse. Non è vero che gli dirai così, papà?" "No, non è possibile, non farai questo. Io sono vecchio; e se..." Edith gli pose una mano sulla bocca. "Papà" diss'ella "perché addolorarmi? È inutile." Steinegge non sapeva se mostrarsi allegro o dolente. Gesticolava, faceva mille smorfie, buttava esclamazioni teutoniche, come tappi di champagne che partissero uno dopo l'altro. Prima di lasciar la camera tornò a supplicare Edith di pensarci, di riflettere, d'indugiare. Uscito finalmente, bussò pochi minuti dopo all'uscio per dirle ch'ell'era ancora in tempo di mutare la sua risposta, e che avrebbe potuto consultare il conte Cesare. Ma Edith gli troncò le parole in bocca. "Almeno" diss'egli obbedendo alle sue abitudini cerimoniose "almeno lo ringrazierò a nome tuo il signor Ferrieri, gli dirò: "mia figlia Le è riconoscente..."." "Non mi pare necessario, papà. Digli che accetto le sue scuse." "Ah, bene." E Steinegge rientrò nella sua camera proprio nel momento in cui la contessa Fosca, assaporando voluttuosamente con la sua vecchia pelle la morbida frescura delle lenzuola di casa Salvador, congedava Catte così: "No la me piase gnente, no la me piase gnente, no la me piase gnente. Stùa." Tacevano i bisbigli nei corridoi, le persiane rigate di luce si oscuravano di botto, una dopo l'altra; ma la vecchia casa non dormiva ancora quieta. Nell'ala di ponente le finestre della camera d'angolo verso il lago erano aperte e tuttavia lucenti come occhi giallastri d'un gufo mostruoso. Marina vegliava. Era uscita dalla presenza del conte con il cruccio d'un pensiero molesto, con l'ombra sul cuore delle ultime parole pronunciate da lui. Il cruccio si sprofondava, l'ombra si allargava sempre più, a misura che quelle parole velate pigliavano nella sua mente il loro significato certo, suonavano e risuonavano nella sua memoria, chiare, irrevocabili; come quando una stilla d'inchiostro cade quasi inavvertita sulla carta umida, che si allarga presto per ogni verso e si profonda. Mentr'ella attraversava lentament e la loggia col lume in mano, il pavimento che la reggeva, il tetto sopra il suo capo, le colonne, gli archi eran pieni di una voce sola, ed era la voce stessa di quel molesto pensiero fermo in fondo alla sua coscienza: beneficio. Beneficio dell'uomo che odiava e doveva odiare. No, non avrebbe riconosciuto questo debito mai. Non sarebbe mai giunta, questa bugiarda voce, a toccare i suoi odii, i suoi amori. Mai. Passò nel corridoio, e le parole dello zio le rimorsero il cuore tormentosamente; davanti, sull'a ltra scala, le appariva la smilza figura di lui, la gran testa severa illuminata di dolcezza. Solo quando entrò nella propria camera, fra le pareti pregne de' suoi pensieri più occulti, della essenza di lei stessa, custodi di tante cose sue e delle segrete voci de' suoi libri prediletti, delle sue lettere, solo allora si sentì forte, e la sorda irritazione del suo cuore trovò un concetto, una via. Un pugno d'oro nel viso; ecco le parole del conte; ecco il beneficio. Gratitudine per questo? Le pareva di levarsi da terra in un impeto d'alterezza, di scuotere da sé il denaro immondo, di scuoterlo addosso a Nepo Salvador. Li disprezzava egualmente l'uno e l'altro; li odiava; più dell'uomo, il denaro. Non ne aveva mai sentito come ora il tocco ributtante; era vissuta lungo tempo nel suo splendore senza vederlo, senza voler pensare che la luce intorno a sé fosse luce di una rapida corrente d'oro, versata d a mille mani sucide e volgari, portata via da mille altre; e non luce della sua nobiltà, della sua bellezza, del suo genio elegante. V'era bene stata un'eclissi momentanea dopo la morte di suo padre ma più sul volto delle persone che su quello delle cose intorno a lei. Sapeva che nel mondo il denaro è un dio; è voluttuoso sprezzare un dio. Era voluttuoso per lei irritare con le sue freddezze di gran dama la borghesia opulenta, bene aristocratizzata nelle donne, male negli uomini. Pretendeva che a questa gen te si vedesse negli occhi e sulla fronte il bagliore dell'oro, che la loro voce avesse un suono metallico, che lo strascico d'ogni signora borghese ripetesse una fila di cifre. Schizzar su lei un getto d'oro non era beneficarla: altra gente si benefica così. Era piuttosto ferirla perché il denaro del conte Cesare doveva essere avvelenato d'inimicizia. Peggio ancora; intendeva egli forse saldare a quel modo la partita di tante prepotenze, di tante offese oblique e dirette? Certo lo intendeva. Come mai non l'aveva ella pensato prima? Suonò il campanello, per Fanny. Fanny faceva dei risolini in quella sera, apriva ogni tanto la bocca come se volesse parlare e non osasse, attendesse un invito. "Spero" diss'ella finalmente sciogliendo una treccia della sua padrona "che se Lei avesse ad andar via di qua, non mi abbandonerebbe mica, non è vero?" "Fa presto" rispose Marina. "Faccio presto, faccio presto. Come la mi piace mai quella signora contessa! Come la mi è cara!" E pigliò a sciogliere un'altra treccia. "È vero che a Venezia non ci sono carrozze? Sarà però sempre meglio di qua, dico io. Non è vero?" Marina non rispondeva. "Com'era contenta la signora contessa stasera! Mi ha fatto quasi un bacio. Povera donna! Mi vuol proprio bene. Mi ha detto che sono un tesoro. Povera signora! A me non sta bene di ripeterlo, ma mi ha proprio detto così. Lo dice anche la signora Catte, povera signora Catte, che di cameriere come me ce ne son poche dalle sue parti. È brava anche lei però. Bisogna vedere come cuce bene. Cuce quasi tanto bene come me. La mi ha detto adesso..." "Fa presto." "Faccio presto, faccio presto. La mi ha detto adesso che il signor conte ha voluto mangiarla, perché..." "Hai finito?" "Sì, signora" "Bene, vattene" "Non vuole che La spogli?" "No, non voglio niente. Vattene." Fanny esitò un poco.. "È in collera con me?" "Sì" disse Marina per sbrigarsene "sì, sono in collera. Vattene." E si alzò scuotendo il fiume dei capelli biondo bruni che le cascava alle spalle sull'accappatoio. "Perché è in collera?" disse Fanny. "Per niente, per niente, vattene." "Che La senta" ripigliò Fanny rossa rossa "se fosse per certi bugiardoni qui di casa che Le avessero contate delle storie, non stia a crederci, perché dei signori giovani e belli ne ho conosciuti tanti e nessuno mi ha mai toccato un dito..." "Basta, basta, basta!" la interruppe Marina "non so che cosa tu voglia dire, non voglio saperlo. Non sono in collera. Ho sonno. Va, va." Fanny se ne andò. "Oh, carino" mormorò Marina, poi che rimase sola, "Benissimo, questo." Ella rilesse il biglietto della signora De Bella. Non ritrovò le impressioni di prima. Tutt'altro. Giulia aveva scoperto la traccia di Corrado Silla, aveva scritto subito, la lettera era giunta poco dopo che lei, Marina, aveva promesso a Nepo di sposarlo. E che perciò? Era un caso straordinario da vederci quello che ci aveva visto lei sulle prime, un passo del destino? Ella sapeva ora che Silla era a Milano, conosceva la sua abitazione. Gran cosa! Lo avrebbe saputo egualmente pochi giorni dopo, da Edith. Ma c'era solo un'ombra di lontano indizio che Silla dovesse tornare presto o tardi al Palazzo? Non v'era. Dunque? A che poteva riuscire questo aspettare inerte un dubbio destino? Su tale domanda il suo pensiero si fermò e poi si annientò ad un tratto, lasciandole la impressione di un gran vuoto e tutti i sensi tesi nell'aspettazione istintiva di qualche segno, di qualche voce delle cose in risposta. Udì il colpo sordo di un uscio chiuso da lontano; poi più nulla. Neppure un atomo si moveva nel silenzio grave della notte. Le scure pareti, le suppellettili sparse nella penombra della stanza, chiuse nella loro immobilità pesante, non parlavano più a Marina. I fiochi bagliori accesi com e occhi di spiriti nelle arcane profondità del lago lucido, la guardavano senza espressione alcuna. Subitamente le si ridestò il pensiero e insieme le cadde il cuore. Ella si vide salire in un carrozzone da viaggio con Nepo Salvador, sentì una frustata che sperdeva tutte le sue illusioni stupide, sentì la scossa della partenza, le ingorde braccia di Nepo; a questo punto si rialzò nello sdegno, confortata; non era possibile, nelle braccia di Nepo non sarebbe caduta mai, sposa o no. Ma questa idea ne trasse un'altra con sé. Ella aveva chiuso la lettera nello scannello ed era venuta a deporre l'accappatoio sulla sua bassa poltroncina di toeletta, di fronte allo specchio. Vi cadde a sedere, si guardò per istinto nello specchio illuminato da due candele che gli ardevano a lato sui loro bracci dorati. Si contemplò in quella tersa trasparenza sotto l'alto lume delle candele che le batteva sui capelli, sulle spalle, sul seno, e pareva rivelare una voluttuosa ondina sospesa in acque pure e profonde. Sotto i capelli lucenti il viso ve lato di ombra trasparente pendeva avanti, sorretto al mento da una squisita mano chiusa, più bianca del braccio rotondo che si disegnava appena sul candore dorato del seno, sulla spuma sottile di trine che cingeva le carni ignude. Le spalle non somigliavano punto a quelle opulente della gentildonna del Palma. Non vi appariva però alcun segno di magrezza, e avevano nella loro grazia delicata, nel contorno alcun poco cadente, una espressione di alterezza e d'intelligenza, quali splendevano nei grandi occhi az zurri chiari, nel viso leggermente chinato al seno. E mai, mai, labbro di amante vi si era posato! Allora Marina, palpitando, lo immaginò. Immaginò che qualcuno, il cui viso ell'aveva veduto l'ultima volta al chiarore dei lampi, venisse da lontano, per la notte oscura e calda, ebbro di speranza e delle voci amorose della terra; che avanzasse sempre, sempre, senza posa; che varcasse, più muto d'un'ombra, le porte obbedienti del Palazzo, ascendesse brancolando le scale, spingesse l'uscio... Ella si levò in piedi soffocata da un'oppressione senza nome, emise un lungo respiro, cercando sollievo; ma l'aria tepida, profumata, era fuoco. Ah lo amava, lo amava, lo invocava, lo stringeva nelle sue braccia! Spense in furia i lumi dello specchio, ricadde di fianco sulla poltrona e, abbracciatane la spalliera, vi fisse il viso, la morse. Giacque lì un lungo quarto d'ora, tutta immobile fuor che le spalle sollevate da un palpitar forte e frequente. Si rialzò, alfine, cupa; e pensò. Perché non aver trattenuto Silla dopo udito il nome terribile? Perché, s'ella aveva perduto in sulle prime e moto e senso e volontà, non s'era slanciata poi quella notte stessa dietro a lui, a caso ma con l'istinto della passione, dietro a lui ch'ella aveva amato, come dubitarne? al primo vederlo, malgrado se stessa, con dispetto e rabbia, dietro a lui che l'aveva stretta nelle braccia chiamandola Cecilia? Non si compiva così la predizione del manoscritto ch'ella sarebbe amata con questo nome? Perché non fu ggire, non cercare di lui subito? Perché questa commedia con Nepo Salvador? C'era bene il perché, e Marina non poteva dimenticarlo a lungo. Quelle ultime parole del manoscritto! "Lasciar fare a Dio. Sieno figli, sieno nipoti, sieno parenti, la vendetta sarà buona su tutti. Qui, aspettarla qui." E i fatti non accennavano già confusamente da lontano com'ella potrebbe raggiungere insieme la vendetta e l'amore? Le tornò la fede. Si alzò, prese la candela, venne sulla soglia dell'altra stanza e porse il capo a guardare lo stipo del secreto, alzando il lume con la sinistra. Era là, appena visibile nell'ombra della parete, nero a tarsie bianche, come un sarcofago dove fossero incisi caratteri arcani. Marina lo contemplò, dorata i capelli e le spalle ignude dal vivo chiaror tremulo che si spandeva intorno a lei per breve spazio di pareti e di pavimento. Ai suoi piedi oscillava l'ombra rotonda del candeliere. Fu assali ta, pietrificata da una delle sue reminiscenze misteriose. Le pareva esser venuta su quella soglia un'altra volta, anni ed anni addietro di notte, discinta, con i capelli sciolti, aver visto ai suoi piedi l'ombra oscillante del candeliere, il lume intorno a sé per breve spazio di pareti e di pavimento, e, là davanti, lo stipo nero, i caratteri arcani.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675874
Garibaldi, Giuseppe 3 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Era stata cagione della risata una facezia insolente d’uno di essi sul fatto della giornata che suonava così: «Io credevo di venire a Viterbo per menare le mani contro degli uomini e invece vi abbiam trovato conigli, che si son rintanati al solo nostro apparire. Ove diavolo si sono appiattati questi liberali che menan tanto romore?». L’ultima frase aveva fatto ripigliare i loro posti ai tre proscritti e, fatto un gruppo dei tre guanti, Attilio con piglio sdegnoso lo scaglia contro il viso del maldicente, senza articolare parola. «Oh! Oh! - esclamò il provocato - che affare è questo!» e pigliando il gruppo dei guanti li sciolse e continuò: «dunque sono sfidato da tre!... bravi! ecco un nuovo saggio del valore italiano: tre contro uno! tre contro uno!» e se la rideva sgangheratamente insieme coi compagni. I tre lasciarono passare il nuovo clamore e quando fu finito Muzio con voce stentorea gridò: «Tre contro tutti! signori insolenti!». L’effetto di queste parole fu magico, poiché all’accento di Muzio i tre amici s’erano alzati fulminando coi loro sguardi or l’uno or l’altro ufficiale e presentando nelle loro teste scoperte quell’insieme alla Michelangelo che abbiam descritto, quel bello e marziale aspetto che natura qualche volta prodiga ad un individuo colla sua capricciosa e maestra mano: capriccio, forse ingiustizia relativamente ai molti che non ricevono tale favore, ma dono che noi ammiriamo sempre con piacere nella persona amata, con odio, nel caso contrario. E tale fu l’effetto prodotto sulle due fazioni, che stavano assise alla stessa mensa. Gli italiani ne furono edificati e con aspetto ilare e plaudente contemplarono i tre campioni dell’onore nazionale con ammirazione e gratitudine, mentre gli stranieri rimasero stupefatti per un pezzo e non poterono a meno di restare sorpresi dalla maschia bellezza dei tre e dal loro fiero contegno. Passato quel momento, il sarcasmo straniero tornò in campo ed uno dei più giovani esclamò: «Amici un brindisi», e poiché tutti si alzarono col bicchiere in mano: «io bevo, - egli disse -, alla grande nostra fortuna, d’aver incontrato finalmente dei nemici degni di noi in questo paese». Orazio rispose: «Io bevo alla liberazione della nostra Roma da ogni immondizia straniera!». Le parole d’Orazio sembrarono troppo insultanti agli ufficiali e la maggior parte si levò portando minacciosamente la mano sull’elsa, ma uno fra loro più maturo di età tranquillandoli, disse: «Amici! non conviene turbare la quiete della città, dove sapete che siamo venuti per rimetter l’ordine. All’alba ci troveremo co’ tre nostri provocatori; solamente bisogna assicurarsi che questi signori non vadano via nella notte, e ci privino dell’onore d’uno scontro». «Troppo fortunata è l’occasione che a noi si presenta di combattere i nemici del nostro paese, - rispose Attilio -; perché ce la lasciamo sfuggire. Se vi garba staremo insieme tutti sino all’alba per movere uniti al luogo della pugna». Gli stranieri chiesero della carta per scrivere i loro nomi e tirare a sorte chi dovesse combattere; tra i pacifici commensali italiani se ne trovarono tre che si offrirono di servire da secondi ai loro concittadini e quanto alle armi, siccome v’era insulto manifesto, da ambe le parti, si chiese il duello ad oltranza. A quindici passi: e al segnale dei padrini i combattenti marcerebbero ad incontrarsi, sciabola e pugnale. I tre campioni dei preti usciti dall’urna, ossia da un cappello, ove erano stati deposti i nomi, furono un francese legittimista, uno spagnuolo carlista ed un austriaco. Il primo si chiamava Goulard, il secondo Sanchez ed il terzo Haynau. I padrini nel resto della notte si occuparono a visitare le armi per fare in modo che le condizioni dei combattenti si trovassero pareggiate sul terreno.

A noi però, durante questa sosta, converrà tornare ad alcuni personaggi principali e cari della nostra storia, che abbiam pur troppo lasciati in dimenticanza; voglio parlare di Giulia e de’ suoi compagni così prodigiosamente scampati dal tempestoso Tirreno. Dopo due giorni dalla sua partenza da Porto d’Anzo, la Clelia entrava con vele e bandiere spiegate a Porto Longone. Appena ancorata i nostri amici videro scendere da Capo Liberi, piccolo villaggio che domina il porto, un gruppo di gente che giunse alla marina, imbarcossi in un palischermo e si diresse verso lo Yacht. Giulia accolse gentilmente la comitiva, composta di persone d’ambo i sessi, e l’invitò ad asciolvere nella camera della nave ciò che gli ospiti accettarono volentieri. Seduti a tavola con davanti un bicchierino di Marsala, vino col quale gli inglesi amano sempre adornare le loro mense, i nuovi arrivati, volgendosi a Manlio, che credettero padrone del legno accennarono di voler parlare. Quindi con accento toscano, non maschio come il romano e robusto ma più dolce, simpatico e comunque sia coll’accento d’un dialetto cui l’Italia deve la maggior parte del suo risorgimento perché in quel dialetto sta uno dei più saldi fondamenti dell’unità nazionale italiana: «Signore! - disse l’anziano della comitiva - in Capo Liberi v’è l’uso che nascendo un bimbo contemporaneamente all’arrivo d’una nave si preghi il capitano a voler essere padrino al nuovo nato. Vorreste esser tanto buono di concederci l’onore d’avervi per compare e comare con questa vostra gentile signorina?». Manlio sorrise a tale richiesta e tutti ammirarono la facilità con cui lo straniero può nell’Elba imparentarsi cogli isolani, poi rispose: «Io sono qui un semplice ospite come voi, la signorina è la padrona del legno, ed essa deciderà su quel che sia da fare». Giulia, la bella viaggiatrice, l’antiquaria, l’artista, l’amica della libertà italiana, fu incantata di trovare tanta semplicità di costumi in quella buona gente e: «per me accetto volentieri la gentile vostra offerta - soggiunse - e siccome odo da voi che il padrino deve essere il capitano della nave lo consulterò e se consente, saremo a disposizione vostra». Chiamato il capitano Thompson, Giulia spiegò la cosa al bravo marinaio, al che Thompson rise graziosamente e rispose con garbo alla sua signora che sarebbe ben onorato di poterla accompagnare tanto più colla prospettiva d’aver a diventare suo compare. Detto fatto! Dopo che Thompson ebbe dato i suoi ordini al Muto

Ultimo rampollo dello splendido suo casato, il principe ne troncava colla sua morte la prosapia; e questa idea, sono certo, non mancava di martellare il cervello della nostra bella matrona la quale, sebbene non repugnasse da un’alleanza plebea, come abbiam veduto, ci teneva al titolo onorevole della famiglia paterna. Alla immensa fortuna che la morte del fratello lasciava in sua balia non pensò punto, essendo troppo generosa di carattere da anteporre l’interesse alla vita del suo caro. Poi i beni di casa T... sul territorio Romano, erano stati confiscati da quelle perle di servi di Dio, i cui beni non sono di questo mondo Ritornati dal funerale, Attilio e Muzio si erano consultati col solitario sul modo di comunicare alla sorella l’avvenimento fatale ed egli chiamato Orazio e la sposa nella propria stanza aveva data loro la ingrata e dolorosa notizia. Gasparo, di tutti il più addolorato, dopo Irene, avea col racquisto del luogotenente trovato refrigerio al suo dolore e si sentiva mosso dalla smania di udire le avventure di lui che credeva perduto per sempre. Ecco dunque i due ex-banditi riuniti a stretto colloquio nell’Albergo Vittoria nella stanza di Gasparo. Dopo un mondo d’interrogazioni e di risposte, per lo più a monosillabi, non essendo l’oratoria Io studio prediletto dei briganti, gente più manesca che ciarlona, il luogotenente così cominciò: «Dopo che voi mi diceste, mio caro capitano, che eravate annoiato della vita brigantesca e disposto di ritornare privato, dal che vi sconsigliai se ben ricordate, io continuai le solite scorrerie senza però mai allontanarmi dai saggi vostri precetti. Spogliare i potenti e sollevare i miseri. I nostri compagni, formati alla vostra scuola, pochi motivi mi diedero di reprimerli; quando qualcheduno però mancava io lo castigavo senza misericordia e così si visse colla grazia di Dio per vari anni. L’affetto per la donna fu sempre lo scoglio del brigante e ben lo sapete voi vecchio corsaro». Gasparo, a quegli accenti agrodolci affilava colle dita i suoi mustacchi color di neve ricordando senza dubbio più d’un’avventura galante nella carriera sua pericolosa mentre l’altro ripigliava: «Voi ricordate Nanna, quella fanciulla per cui tante persecuzioni ebbi da’ suoi parenti. Non vi fate a credere che quell’adorabile creatura mi tradisse. No! l’anima sua, era, e fu pura come quella d’un angiolo! E perdonate se mi asciugo una lagrima pensando alla donna che tanto amai». Ed il ruvido capo dei masnadieri si metteva il fazzoletto agli occhi. «Essa è adunque morta» esclamò Gasparo con affetto. «Morta! Morta!» ripigliava il compagno e i due amici stettero un pezzo in silenzio. Alla fine Marzio continuò: «Un giorno la mia Nanna, un po’ indisposta s’era fermata a passare la notte in casa Marcello presso la povera Camilla impazzita, come avrai saputo, grazie all’infame cardinale S. Io quel dì mi dovetti allontanare colla banda per un’operazione importante. Nella notte la casa fu assaltata e portato via il mio bene in Roma. Puoi immaginare la mia disperazione, puoi immaginare quante ricerche facessi per conoscere il nascondiglio della Nanna. Finalmente dai nostri amici di Roma seppi trovarsi la fanciulla nel convento di San Francesco, ove l’avean condannata a servire le suore e a non vedere mai più la luce. La mia donna, al servizio delle suore! destinata a servire quella turba di giovani donne ingannate e di rantolose vecchie volpi! Ve la darò io, dissi tra me, una serva di quella tempra e, per Dio!, questa volta il diavolo si porta via il vostro convento e quante vecchie pettegole racchiude. La notte, che tenne dietro al giorno in cui conobbi la dimora della Nanna entrai in Roma solo: solo, perché mi sembrava vergognosa codardia farmi accompagnare in una impresa ove si trattava di me solo. Presi meco un fascio grandissimo di frasche secche, comprato in piazza Navona, lo depositai in un’osteria, ed aspettai che si facesse tardi. Verso le undici, prima che si chiudesse l’osteria, presi il mio fascio e via verso S. Francesco. Chi può impedire a un povero diavolo di portarsi un fascio di legna a casa? Poi, la nostra Roma ha questo di buono, poche persone passeggian le vie durante la notte per paura dei ladri che il liberale governo dei preti lascia liberi quanto vogliono purché non si mescolino in politica. Giunto al portone di San Francesco, posai il mio fascio, preparai pronto ad accenderlo un mazzo di zolfanelli, calcai le frasche contro il portone e gettai lo sguardo alle due estremità della strada per attendere il momento opportuno. Era evidente, che bruciando il portone restava la inferriata, la quale mi avrebbe lasciato con tanto di naso e nulla di compiuto. Bisognava fare del chiasso, far accorrere gente di dentro e di fuori. Pertanto dopo aver accomodato ogni cosa traversai la piazzetta e mi nascosi nel vano di una porta saldo ed immobile quale una cariatide aspettando che gente venisse, foss’anco una pattuglia di birri, per me faceva lo stesso. Né ebbi ad aspettar molto, che dopo dieci minuti mi giunse all’orecchio precisamente il suono de’ passi misurati d’una pattuglia. Allora, colla velocità che tu sai». E qui Gasparo interrompendo: «Corpo di Dio! se la conosco, esclamò. Ricordo ancora quel tal Monsignore che, sulla strada di Civitavecchia, avendoci scorti retrocedeva fuggendo a gran galoppo verso Roma ed in men ch’io nol dico tu eri al muso de’ cavalli e fermavi la carrozza». «E che presa fu quella, comandante mio! ci fu da scialacquare per molto tempo colla povertà cristiana di quel discendente degli apostoli! Ma torniamo al racconto. Quando fui certo che la pattuglia veniva innanzi, corsi al fascio, lo accesi e rapido tornai al mio nascondiglio. In pochi minuti, una fiamma d’inferno divampava dinanzi al portone del convento e lo stesso portone poco dopo infiammandosi mostrava uno spiraglio di fuoco simile al cratere di un vulcano. E i birri? Dovunque la più trista canaglia del mondo in nessuna parte arrivano alle tristizie di quei di Roma, i birri dico, codardi per natura e lenti per la vita infingarda che menano invece di correre sul sito a smorzare il fuoco si misero a squarciagola a far schiamazzo per svegliare il vicinato ed al fuoco non si appressarono se non quando buon numero di vicini, d’ogni parte accorrenti, giungeva sulla scena d’azione. Tocca ora a me, pensai, e mi precipitai nel vortice di quel tramestio. Le monache potevan stare allegre che un bel liberatore ce lo avevano alla porta e potevano star allegri anche i birri, che avevano acquistato in me un famoso compagno. Le cose meglio non potevano riuscire. Al clamore di quei di fuori, le monache non tardano a destarsi. Spalancando l’inferriata, giungono anche esse alla riscossa con secchie piene d’acqua e buglioli e catini e quanti recipienti davan loro alla mano le poverette! Dopo aver fatto mostra di smorzar anch’io dalla parte di fuori sempre fisso però il mio occhio di lince verso il di dentro, vedendo la partita ben impegnata mi slanciai nell’interno al soccorso delle suore ed una salva di acclamazioni accompagnò l’atto mio salvatore. Appena dentro, girai lo sguardo sulla turba delle femmine ivi riunite ed alla più vecchia che mi sembrò essere la badessa: "favorisca" dissi, e in pari tempo la presi per il braccio sinistro, in modo da farle comprendere che il favore di seguirmi lo avrei ottenuto un po’ anche colla forza delle mie braccia. Incontrai più resistenza da quel vecchio cataletto ch’io non avrei creduto. Si contorse, s’impuntò, e non volle muoversi che trascinata resistendo con tutte le sue forze, ma inutilmente: poi si mise a gridare onde fui obbligato a levarla nelle braccia e turarle la bocca con un fazzoletto. Cosi mi allontanai dalla folla e giunto davanti alla porta di una cella che trovai aperta mi misi dentro col mio fardello. Il lume era acceso, il letto caldo, deposi la vecchia sul letto e chiusi la porta a chiave. Era la vecchia attonita ma non impaurita. Non ricordo d’aver veduto mai un demonio di tanto coraggio. "Ov’è Nanna?" le chiesi, mentre mi guardava trasognata, con un certo piglio da scuoterla per benino. Nessuna risposta. "Ov’è Nanna?" tornai a dire un po’ più alto di prima. Nessuna risposta. Ah! vi farò trovar io la lingua, brutta strega, esclamai infuriato, tirando fuori dalla cintura questo palmo di lama e facendolo luccicare ai suoi occhi. Eppure niente!». «Sangue della madonna! interruppe Gasparo, sono tutte così le badesse, tutte energumene. Quando alla difesa di Roma nel 1849 la mia compagnia doveva passare nel Convento del Sacro Cuore per occupare le mura di S. Pancrazio ci fecero stare delle ore alla porta senza volerci aprire e la badessa cui era stato presentato l’ordine scritto del Governo lo fece risolutamente in pezzi e solo, quando si cominciava a buttar giù il portone colle mannaie si persuase ad accordarci l’ingresso ».

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Noi abbiam veduto questi due alati portentosi scendere a volo e sostare sulla guglia maggiore della cattedrale di Milano, il giorno in cui l'Albani produceva il miracolo della pioggia artificiale. L'opera di Fourrier, perfettamente riuscita, consolidata dall'esercizio, prometteva alla specie umana una trasformazione stupenda. - I due che ti stanno dinanzi - disse il Levita presentando all'Albani quella coppia di alati, - potranno informarti di ciò che ora si sta operando in favore della buona Maria. Dopo averti restituito il figlio, è giusto che essi ti riferiscano sulle sorti della madre. Lucarino prese la parola: - Ieri, al cader del giorno, noi traversavamo di volo gli spazii sovrastanti a quel monte gigantesco, sempre coperto di nevi, che si chiama il Gottardo. Essendoci di molto abbassati per sottrarci alle punture dell'aria rigidissima, giunsero al nostro orecchio dei suoni che parevano strida da pappagalli, misti ad ululati da jena. «Sostammo, e raccogliendo il volo sovra una superficie lucente, che da lungi ci era parsa un enorme ammasso di ghiaccio, il nostro piede avvertì una gradita esalazione di tepore. Immaginate la nostra meraviglia! Noi passeggiavamo sovra una tettoia di cristallo leggermente riscaldato, e sotto i nostri piedi si sprofondavano le muraglie di un vasto palazzo popolato di esseri viventi. Che mistero è codesto? quali saranno gli abitatori di questo immenso edilizio fabbricato sulle alture di una montagna oggimai divenuta inaccessibile? «Aggirandoci intorno al quadrilatero, osservando, ascoltando, ci avvenne di scorgere una giovane donna che correva, invocando soccorso, fra gli scoscendimenti di una valle poco discosta. Quel grido ci trafisse l'anima; accorremmo, e in meno ch'io ve lo dico, ci trovammo al fianco di quella donna. «- Se voi siete due angeli - esclamò ella con accento desolato - prendete sotto la vostra custodia questa mia creatura innocente; è un figlio dell'amore, del primo, dell'unico amore che abbia fatto trasalire le mie viscere. «Così parlando, la tapina ci sporse un paniere, dove tra bianchi pannilini giacea sopito il grazioso bimbo che ora posa su quel letto. «- Io sono inseguita - riprese ella con terrore; - inseguita da un uomo potente e feroce. Presto! esaudite il voto di una povera madre. Prendete quel fanciullo, dirigetevi su Milano e fate di scendere alla casa di quel santo che si chiama il fratello Consolatore. Nel paniere vi hanno due lettere, dirette l'una al buon Levita, l'altra a colui:.. «Ma la tapina non potè proseguire, sgomentata da uno strepito di passi. «Chi avrebbe esitato? Noi afferrammo il paniere dai due lati, e ansanti, desolati di non poter alla misera donna giovare altrimenti, con rapido volo ci allontanammo dal luogo nefasto. - Povera Maria! - sciamò l'Albani; - quel Cardano ... quel mostro ... l'avrà uccisa. - Egli l'amava troppo per ucciderla - disse il Levita. - Fui io stesso, che consigliai alla povera immolata il più grande dei sacrifizi, inducendola a seguire quell'uomo. Ed ecco, per mezzo di lei, alla provvidenza è piaciuto svelarmi l'autore della misteriosa disparizione di tanti neonati. Sì; avete ragione; Cardano è un mostro; ma egli è uno di quei mostri generati dall'orgoglio e della manìa di sapere, che in tanta copia si producono all'età nostra. Volendo conoscere le prime espressioni della favella umana e studiare gli istinti ingeniti della nostra specie, quello scienziato abbominevole esercitava la tratta dei neonati. Le piccole creature rapite alle madri venivano accolte e allattate da mute nutrici nel vasto edifizio destinato alle atroci esperienze. Parecchie centinaia di fanciulli d'ambo i sessi erano là da parecchi anni a stridere, ad ululare come animali selvaggi, avvoltolandosi nella terra, commettendo tutte le stranezze e gli abbominii suggeriti dall'istinto sfrenato ... - Orrore! orrore! - gridava l'Albani percorrendo la stanza a passi concitati. - Il dolore delle madri è salito al cielo! - disse il Levita. - E la giustizia umana compirà l'opera sua - soggiunse Lucarino. - Il fatto è segnalato. A quest'ora, sulle alture del Gottardo, migliaia e migliaia di cuori gridano: morte a Cardano. - E noi siamo ancora qui? Ciò detto, l'Albani con ardore paterno baciò in fronte il bambino, e ricoricatolo sul letticciuolo, uscì a passi precipitati dalla casa del Levita.

L'ANNO 3000

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Mantegazza, Paolo 3 occorrenze

E ne abbiam altri, che col loro talento e il lavoro indefesso perfezionano le scoperte dei primi; nè è cosa giusta, che essi abbiano gloria eguale agli altri. È il concorso dei più, è il voto dei membri della grande Accademia di Andropoli, che decide quale sia il monumento, che deve essere innalzato alla memoria del grande scomparso. E il giudizio non è pronunziato che dopo una lunga e profonda discussione.

Si figuri, che per il solo cervello abbiamo almeno una ventina di specialisti, che curano le malattie delle cellule motrici e delle pensanti, che studiano le malattie del pensiero, della volontà e così via; così come abbiam osteopati per le affezioni delle ossa, ematopati per le malattie del sangue, epatopati per quelle del fegato, nefropati per quelle del rene, gastropati per quelle del ventricolo, e così di seguito. Abbiamo poi la più alta gerarchia fra i medici, quella degli Igei, che studiano gli organismi sani, per spiare prima dello sviluppo della malattia la disposizione ad ammalare; e sono essi che visitano i neonati per verificare se sono atti alla vita. Anche fra essi si è formata una sottospecialità, che è quella dei Psicoigei, che come vedremo fra poco, constatano nel neonato le future attitudini al delitto, onde sopprimere i delinquenti, prima ch'essi possano recar danno alla società in cui son nati. Ma ecco qui, che un medico astante passa in rivista i clienti giunti questa mattina, per indicare loro a quale sezione dell'Igeia devono dirigersi per essere visitati Un giovane chiamava i clienti per il numero, che era stato loro consegnato alla porta, e dopo aver domandato loro di che soffrissero, indicava loro se dovessero consultare il gastropato, l'epatopato o l'ematopato. Era una visita molto sommaria e l'indicazione poteva anche essere sbagliata, ma lo specialista l'avrebbe poi corretta, quando avesse visitato il cliente colla luce perfezionata del Röntgen. Quest'operazione distributiva dei malati si faceva col massimo ordine, senza dispute e senza confusione e in meno di mezz'ora tutta la sala rimase vuota, perchè ognuno aveva avuto l'indicazione, che doveva guidarlo all'uno o all'altro dipartimento dell'Igeia. - Ed ora che abbiamo veduto la sala d'aspetto, - disse il Direttore, - andiamo a visitare uno dei tanti compartimenti, nei quali gli specialisti osservano i malati e prescrivono loro il metodo di cura. Se non dispiace loro, andremo nella sezione dei pneumopati, cioè di quelli che soffrono degli organi respiratorii. Entrarono infatti in questa sezione, dove molti malati d'ambo i sessi aspettavano di essere visitati. Un giovane gracile, pallido e sottile stava per l'appunto aspettando la chiama. Il pneumologo lo invitò a svestirsi e quando fu del tutto nudo, lo pregò di mettersi in piedi in una specie di nicchia e allora a un tratto scomparve la luce che rischiarava la camera e tutto rimase nel buio. Subito dopo però il medico diresse un fascio di luce su quell'uomo nudo, che divenne trasparente come se fosse di vetro. Si vedeva il cuore batter frettoloso e irregolare, si vedevano i polmoni dilatarsi e contrarsi ritmicamente, si vedevano tutti i visceri del ventre, come se quell'uomo fosse stato aperto dal coltello anatomico; si poteva scorgere perfino il midollo nel profondo delle ossa. Il pneumologo lo guardò lungamente con un doppio cannocchiale, facendo mettere il malato di fronte, poi di fianco, poi col dorso rivolto a lui e poi: - Consolatevi, che il vostro male è sul principio ed è guaribile in poco tempo. Voi siete minacciato da una tubercolosi, ma sarà vinta con un buon regime respiratorio e alimentare. Vestitevi ed io scriverò ciò che dovete fare. Il medico andò a un tavolino e scrisse queste prescrizioni: Recarsi subito sull'Everest, alla stazione di Darley, posta all'altezza di 2000 metri, prendervi alloggio e rimanervi per un anno intero: poi in seguito per parecchi anni ritornarvi soltanto nei mesi dell'inverno. Dieta lattea e carnea. Per gli altri particolari l'ammalato seguirà i consigli del medico direttore della Stazione di Darley. L'ammalato, che veniva da un villaggio lontano e molto all'infuori della corrente della nuova civiltà, domandò al medico pneumologo: - Non dovrò prendere nessuna medicina? Il medico si mise a ridere e poi: - Chè nel vostro villaggio avete ancora dei farmacisti? Qui ad Andropoli e in tutte le grandi città planetarie le farmacie non esistono più da forse un secolo. Le pillole, le pozioni, i cerotti sono avanzi della medicina antica. Oggi si curano tutte le malattie col cambiamento di clima, col regime alimentare, e coll'applicazione razionale del calore, della luce e dell'elettricità. I farmacisti furono per molti secoli i continuatori dei maghi, che curavano le malattie cogli esorcismi, e coi versetti del Corano o colla preghiera rivolta a Dio, alla Beata Vergine e ai suoi santi. E le ricette erano come lettere indirizzate a persone, di cui si ignora il domicilio. Qualche volta per caso incontravano chi doveva riceverle, ma il più delle volte pillole, polveri e decotti, dopo una corsa più o meno rapida attraverso il tubo gastroenterico, andavano a finire nel cesso, senza aver incontrato il viscere a cui erano indirizzate e che avrebbero dovuto curare e guarire. Ogni medico aveva la sua ricetta e ogni scuola cambiava metodo di cura. È in quell'epoca, che un grande poeta francese, che fu anche per poco tempo Presidente della Repubblica di Francia, fece la più amara, ma la più vera critica della medicina del suo tempo, dicendola: une intention de guèrir; ma anche per parecchi secoli dopo il Lamartine quella definizione fu la fotografia fedele dell'arte di curare i malati. Il pneumologo passò a visitare gli altri malati, e i nostri viaggiatori colla loro guida escirono da quel riparto per recarsi a quello in cui si visitavano i neonati. Paolo e Maria avevano osservato che quel malato di petto, che aveva subito la visita davanti ad essi, ringraziando il medico, gli aveva messo in mano un piccolo cartoncino. Era il pagamento della sua visita. Nell'anno 3000 da gran tempo non circolava più il denaro e la moneta corrente è costituita da tanti cartoncini piccolissimi, e tutti della stessa grandezza, che portano un timbro, quello del ministro delle finanze, e dove in una linea lasciata in bianco, ognuno scrive il proprio nome e la somma che vuole. Il colore del cartoncino indica le somme che si possono scrivere su di esso, essendovi venti serie, contraddistinte ciascuna da un diverso colore: Da una lira a cento - cartoncino bianco. Da 100 a 500 - cartoncino bigio. Da 500 a 1000 - cartoncino azzurro chiaro. Da 1000 a 2000 - cartoncino azzurro oscuro. Da 2000 a 5000 - cartoncino verde glauco. Da 5000 a 10000 - cartoncino verde smeraldo. Da 10 a 20000 - cartoncino giallo pallido. Da 20 a 50000 - cartoncino arancione. Da 50000 a 100000 - cartoncino violetto chiaro. Da 100 a 200000 - cartoncino violetto oscuro. Da 200 a 300000 - cartoncino mezzo bianco e mezzo nero. Da 300 a 500000 - cartoncino roseo. Da 500 a 600000 - cartoncino roseo oscuro. Da 600 a 700000 - cartoncino mezzo giallo e mezzo verde. Da 700 a 800000 - cartoncino mezzo azzurro e mezzo rosso. Da 800 a 900000 - cartoncino mezzo verde e mezzo rosso. Da 900000 a un milione - cartoncino mezzo bruno e mezzo rosso. Da 1 a 2 milioni - cartoncino mezzo bianco e mezzo verde. Da 2 a 3 milioni - cartoncino argenteo. Da 3 a 10 milioni - cartoncino aureo. Il valore di queste monete è dato però non dalla firma di chi lo spende, ma da quella dell'ottimato, che si legge in basso a destra del cartoncino. Gli ottimati sono i cittadini più onesti, più ricchi e più stimati del paese, ai quali il Consiglio Superiore di Governo ha dato dopo lunga discussione e ponderato esame quel titolo onorifico. Così come vi sono cartoline di diverso valore, così ogni ottimato, secondo la fortuna ch'egli possiede, può firmare una diversa categoria di cartoncini. Come è naturale gli ottimati più ricchi possono firmare anche i cartoncini argentei e aurei, e ve n'ha alcuni, di fama così universale, che la loro firma vale in tutto quanto il pianeta. I più modesti di fortuna, conosciuti soltanto nel loro villaggio o nella loro città, non sono autorizzati che a firmare i cartoncini di somme più esigue. Gli ottimati per dare a quei pezzetti di carta il valore desiderato non hanno bisogno di altre firme oltre la propria, e si può dire, che batton moneta in casa propria. Quando si vuol comperare un oggetto si da al venditore un cartoncino, che corrisponde al suo valore, scrivendovi le cifre intermedie fra quelle che vi sono iscritte, e quando col lungo uso questa moneta di carta è troppo sudicia e troppo sdruscita, si porta alla Cassa centrale dello Stato, dove è cambiata. Unico inconveniente di questa moneta è la sua combustibilità, ma in caso d'incendio chi può presentarsi alla Cassa centrale, raccomandato da quattro ottimati, come onesto, giura sul proprio onore di aver perduto una data somma, e questa gli è puntualmente e subito rimborsata. Se quella sventura colpisce un ottimato, basta la sua parola per dar fede alla propria dichiarazione. Ed ecco come si è incoraggiati nell'anno 3000 ad essere onesti, sinceri, ad essere perfetti galantuomini; dacchè l'onestà dà credito e il credito procura la ricchezza. È inutile dire che due volte all'anno in ogni città e in ogni provincia i consiglieri della finanza si riuniscono per fissare le norme della circolazione, la quale è sempre regolata dalla ricchezza del paese e dalla capacità finanziaria dei singoli ottimati, che firmano i cartoncini. Questa moneta comoda a maneggiarsi e garantita dalla perfetta onestà di chi la firma, corre collo stesso valore in tutti i paesi del mondo, ed ha semplificato d'assai il corso del commercio e l'andamento di tutti gli affari. Il cartoncino, con cui il povero tubercoloso aveva pagato il medico pneumologo, era bianco e vi era scritta la cifra di L. 50; onorario comune in quel tempo di una semplice visita medica. I poveri sono visitati gratuitamente o per essi sono pagati dai ricchi. I nostri viaggiatori percorsero rapidamente le corsie, dove erano curati gli infermi, a cui occorre una pronta e urgente medicazione o che devono subire operazioni chirurgiche difficili o impossibili nelle abitazioni private. Le chiamo corsie, per adoperare una vecchia parola e perchè le camere dei malati erano poste le une dopo le altre e in due file separate da un ampio corridoio, ma ciascun malato ha la propria camera, bastantemente ampia e dove opportuni ventilatori rinnovano l'aria, di giorno e di notte, mantenendovi sempre la temperatura dovuta, secondo la stagione e la natura del male. Inutile dire che pareti e pavimento sono di porcellana azzurrina, onde non offendere la vista, e vengono lavate ogni giorno onde impedire qualunque infezione. - Prima di passare alla sezione degli Igei, - disse il Direttore, - daremo un'occhiata al dipartimento, in cui si curano le malattie traumatiche, cioè le ferite, le bruciature, le fratture e tutte le lesioni prodotte da accidenti meccanici o da violenze esteriori. Pur troppo la civiltà, per quanto avanzata, non può difenderci da queste disgrazie e la chirurgia deve curarle, come la medicina fa delle malattie che si sviluppano spontaneamente. Entrati nella sezione dei traumi, un chirurgo stava appunto medicando una grave ferita in un braccio, con grave perdita di sostanza. - Ecco qui, miei signori, un caso molto interessante. Un tempo questa ferita, anche colla cura antisettica più perfetta, avrebbe lasciato una gran deformità con assoluta impotenza dell'arto ferito. Invece oggi sappiamo produrre artificialmente dei protoplasmi, che appena preparati si applicano dove manca una porzione di pelle o di muscolo. Si fa in questo modo un vero innesto di sostanza germinativa, che messa in contatto dei tessuti vivi, prolifica e riproduce il muscolo che manca; e così il braccio è restituito allo stato normale e riprende le sue funzioni. La parte difficile di quest'operazione consiste nel mettere la quantità precisa di protoplasma che si richiede, e che non deve essere nè scarsa nè eccessiva; ma la pratica del chirurgo riesce a raggiungere lo scopo desiderato. Paolo e Maria videro altri casi di fratture, di lussazioni, che erano medicati senza dolore e colla massima facilità. - Ed ora, - disse il Direttore, - andiamo a visitare la sezione degli Igei. Maria, che aveva udito parlare della soppressione dei bambini inabili alla vita, ma che non ne sapeva altro, era alquanto turbata e incerta, se dovesse entrare in quel dipartimento, ma Paolo le disse: - Noi dobbiamo e vogliamo vedere ogni cosa. Andiamo. Entrarono in una vasta sala, dove si sentiva un confuso guaito di cento bambini, che piangevano fra le braccia delle loro mamme o di altre donne. Era una scena molto triste, perchè il pianto di tante creature innocenti era reso ancora più tristo dalla fisonomia angosciosa di quelle donne, che aspettavano dal medico la sentenza di vita o di morte dei loro figliuolini. - Ecco qui, - disse il Direttore, - tutti questi bambini non hanno più di tre giorni di vita e le loro mamme possono accompagnarli, dacchè ora il parto non è più una malattia, che un tempo obbligava le partorienti a stare a letto per più d'un mese. I progressi dell'igiene hanno reso il parto una funzione naturale, che si compie senza dolore e senza lasciare alcuna triste conseguenza. La donna oggi partorisce come qualunque altro animale e poche ore dopo il parto si alza dal letto per accudire alle proprie faccende e qui, come vedete, quasi tutti i bambini sono condotti dalle loro stesse madri, meno alcune poche, molto sensibili e timorose di lasciare qui per sempre il frutto delle loro viscere, e che li affidano a qualche loro stretta parente. In quel momento fu chiamato il bambino del numero 17. - Avanti il 17. Una mammina giovane, robusta e bella si alzò da sedere col proprio bambino in braccio. Si vedeva nel suo volto, che nessuna trepidazione la tormentava e che era troppo sicura di ritornare a casa colla sua creaturina. L'Igeo prese il bambino, che era già quasi svestito e lo mise nudo affatto sopra una specie di trespolo. Immediatamente un fascio di luce lo innondò, rendendolo trasparente, come se fosse di vetro e il medico, dopo averlo mutato di posizione, guardandolo con un cannocchiale, disse ad alta voce: - Numero 17: Bambino sano, robusto, atto alla vita. E poi si ritirò, mentre un altro medico, un Psicoigeo, lasciando il bambino sullo stesso trespolo, diresse una luce più penetrante sul suo cranio, guardandolo lungamente con un altro cannocchiale, che ingrandiva centinaia di volte le cellule cerebrali. L'esame durò una buona mezz'ora, poi il medico disse: - Cervello normale, nessuna tendenza a delinquere. I due verdetti dei due medici furono ripetuti per iscritto da un segretario, poi firmati dall'Igeo e dal Psicoigeo e consegnati alla madre, che lieta e orgogliosa se ne partì, ringraziando i dottori e gettando intorno a sè nel circolo affollato dalle mamme uno sguardo di trionfatrice e di donna felice. Essa aveva dato al mondo un cittadino sano, robusto e incapace al delitto. - Numero 18! E un nuovo bambino fu sottoposto allo stesso duplice esame del numero 17, riportando questi due verdetti: - Bambino sano, ma non robusto. Atto a vivere, ma bisognoso di un'alimentazione tonica e ricostituente. Cervello normale. Carattere timido e pauroso. Educazione virile e spartana. Il numero 19 era un bambino bellissimo e robusto, ed esso riportò questa doppia sentenza: Bambino sano, robusto, atto alla vita. Cervello normale; ma con una ipertrofia del centro genitale. Disposto alla lussuria. Dirigere l'educazione ad indebolire questa tendenza. Maria sperava che le visite avrebbero avuto tutte un analogo risultato, per cui non avrebbe assistito alla distruzione di nessuna creatura, ma ecco che il numero 20, un bambino gracilissimo e che per di più era nato di otto mesi, sottoposto all'esame dell'Igeo fece aggrottare le sopracciglia al medico, il quale con un campanello chiamò a sè altri due medici consulenti, che stavano in una camera vicina, pronti ad esser chiamati, e l'un dopo l'altro rifecero l'esame del povero bambino, crollando anch'essi il capo con aria compunta e dolorosa. I tre medici si accordarono in questo giudizio: Bambino gracilissimo, tubercoloso, inetto alla vita. Quando la madre ebbe udito questa lugubre sentenza, si mise a singhiozzare, chiedendo ai medici: - Non potrebbe una cura opportuna dare al mio bambino una buona salute? - No, - risposero tre voci ad un tempo. E allora l'Igeo, che per il primo aveva visitato il bambino, rivolto alla madre: - E dunque? La madre raddoppiò i singhiozzi, e restituendo il figliuolo ai medici, con voce appena sensibile rispose: - Sì. Quell'E dunque voleva dire: Permettete dunque che il vostro bambino sia soppresso? E infatti, un inserviente prese il bambino, aprì un usciuolo nero, posto nella parete della sala e ve lo mise, chiudendo la porticina. Fece scattare una molla, si udì un gemito accompagnato da un piccolo scoppio. Il bambino innondato da una vampa di aria calda a 2000 gradi era scomparso e di lui non rimaneva che un pizzico di ceneri. La madre, appena aveva pronunziato il suo disperato sì era scomparsa dalla sala, e l'Igeo, triste in volto ma calmo, aveva chiamato: - Numero 21! Maria piangeva e voleva ad ogni costo lasciare quella sala d'orrore, ma Paolo, che pur sapendo come si sopprimessero i bambini inabili alla vita, non aveva mai voluto assistere a quella crudele insieme e pietosa operazione, era affascinato da quella scena terribile, per cui disse: - Maria, ancora uno, uno soltanto e poi ce n'andremo. Maria gli prese una mano e se la pose al cuore, ne più la lasciò, tenendola stretta stretta, come per attingere coraggio. Non sapeva mai dire di no al suo Paolo e rimase. Il bambino numero 21 era più gracile ancora di quello che lo aveva preceduto, e per di più era livido e chiazzato di macchie rosse nel volto. L'Igeo dopo un brevissimo esame, sentenziò: - Bambino con grave vizio di cuore, inabile alla vita. La madre non piangeva, ma più pallida della morte, esclamò: - No, dottor mio, non può essere, il parto fu lungo e difficile; è per questo che il mio bambino è livido. Guarirà, guarirà di certo. Non ho che lui. Non ne posso aver altri; mio marito è morto. Il dottore era costernato, ma: - No, no, cara donna, questo bambino potrà vivere qualche anno, ma sempre soffrendo e la sua morte sarà dolorosa, straziante. Non abbiamo modo di guarire i vizi di cuore congeniti. E poi: - E dunque? La mamma aveva ripreso il suo figliuolo, e se lo stringeva al seno, come se avesse voluto farlo guarire coi suoi baci ardenti, col suo amore caldissimo. Ma non rispondeva. - E dunque? - riprese il medico.- Voi sapete, che la soppressione non può farsi senza il consenso della madre o senza quello del padre, in caso di morte della madre. Pensate che le vostra pietà sarebbe crudele, perchè consacrereste la vostra creatura a patimenti inauditi, feroci e che potrebbero durare molti anni. Il vostro bambino non ha la coscienza di esistere e la sua soppressione non è nè dolorosa nè lunga. Un minuto lo ridurrà in fumo e in un pizzico di cenere, che potrete conservare. Siete ancora giovane, potrete rimaritarvi ed avere altri figliuoli. Pensate bene a ciò che state per dire. Ma la mamma non rispondeva e da un mutismo di pietra era passata ad un pianto dirotto framezzato da crudeli singhiozzi. Maria, che teneva sempre la mano di Paolo sul suo cuore, piangeva anch'essa e insisteva collo sguardo per partire. - E dunque, e dunque? - ripetè per la terza volta l'Igeo con un leggero accento di impazienza. Fu veduta allora la mamma alzare il capo come in atto di sfida e di disperazione in una volta sola, poi: - E dunque, e dunque? - Dunque no!! E come se fuggisse da un inseguitore, uscì dalla sala col suo bambino stretto fra le sue braccia. L'Igeo guardò Paolo e Maria e poi: - Povera donna! Povera donna! Quante volte essa si pentirà di quel no. Essa si crede una buona madre e invece non è che una madre crudele. La soppressione dei bambini consacrati ai patimenti e a una morte immatura è vera pietà. *** Maria e Paolo profondamente commossi non vollero veder altro e lasciarono l'Igeia col bisogno urgente di essere all'aperto, di cercare il cielo azzurro e le piante verdi e ritemprarsi nell'ammirazione della natura, che però più crudele e più pietosa degli Igei, sopprime ogni giorno migliaia e migliaia di creature, solo perchè son nate male!

Noi abbiam copiato ciò che fa la natura, quando plasma gli organismi del mondo vegetale e del mondo animale. "Forse che il braccio o un dito del piede o uno dei tanti nostri visceri si lamenta del lavoro che gli spetta nel grande travaglio della vita? No di certo: ognuno dei nostri organi lavora per sè e per gli altri e vive nello stesso tempo della vita propria e della vita collettiva. Voi altri, individualizzatori fanatici, potete salire in alto finchè volete; potete sentirvi potenti, ricchissimi; ma siete sempre unità. Io invece, vedete, sento fremere in me la vita di tutti i 30000 fratelli, che per ora costituiscono la Repubblica sociale di Turazia, come se la coscienza del mio Io fosse grande come quella di tutti i miei concittadini." Molte altre e belle cose disse quel socialista, e anche a lui non ebbi il coraggio di gettare in faccia una sola delle tante obbiezioni, che mi venivano al labbro. Mi accontentai di stringergli forte la mano, dicendogli: "Vi ammiro e vi invidio, benchè sia di opposto parere sulla forma di governo sociale che vi siete data. Ogni entusiasmo, ogni fede ardente è sempre un fenomeno del pensiero, che sorprende e che per di più fa felice chi ne è capace." *** Da Turazia i nostri pellegrini, viaggiando nell'interno dell'Isola, si recarono a Logopoli, o città della parola; una nuova ricostruzione di un antico Stato parlamentare. Vi trovarono poco di nuovo e di interessante. Logopoli è una copia perfetta dell'antica Inghilterra, quando era uno Stato indipendente retto da un governo parlamentare. Di diverso non c'è che questo; che il Re non è un capo ereditario, ma elettivo. Ogni cinque anni Camera e Senato si riuniscono in una sola assemblea per dare il loro voto nell'elezione del Re. Questo Capo dello Stato è però un Re travicello, che non fa che firmare i decreti e a cui hanno tolto anche il diritto di grazia. Ha un ricco appannaggio e porta intorno la maestà e gli orpelli del suo alto posto. Del resto ministri, deputati e senatori, come negli antichi Stati a regime parlamentare. Gli stessi intrighi, le stesse corruzioni per essere eletti membri dell'una o dell'altra Camera, essendo a Logopoli elettivi anche i senatori. Pagati gli uni e gli altri profumatamente, ma esclusi da ogni impiego. Così pure esclusi tutti gli avvocati e quelli che abbiano interessi comuni colle imprese dello Stato. La rappresentanza del popolo però è divenuta un po' più sincera e seria; dacchè ad ogni votazione importante, ad ogni atto politico di grande gravità, sia pur di un ministro, di un deputato o di un senatore, gli elettori del Collegio hanno diritto di riunirsi in comizio straordinario e di dare un voto di disapprovazione al loro rappresentante. Questi cessa da quel momento di essere membro del Parlamento o del Gabinetto e dev'essere sostituito per via di una nuova elezione. Questa ed altre riforme di minor conto hanno migliorato in Logopoli l'antica forma parlamentare, ma vi rimangono sempre queste due infermità organiche:... Quella di fabbricar le leggi con una commissione di troppi individui, facendole mutevoli ad ogni accidente od incidente di persone o di cose. E l'altra di mutar sempre al capriccio vagabondo degli elettori coloro che devono dettar le leggi e reggere il timone dello Stato. *** I nostri compagni non visitarono tutti gli Stati dell'Isola degli esperimenti, ma soltanto i principali. Oltre gli egualitarii, oltre Tirannopoli, Turazia e Logopoli, vi sono altre genti e altri paesi governati diversamente. Basta che un centinaio di uomini pensino un'utopia sociale nuova o ne ripensino una antica già sepolta da secoli, ed essi sanno che nell'Isola di Ceilan si trova sempre un piccolo o grande territorio vergine, dove possono fondare la nuova Repubblica o la nuova Teocrazia. E così si fanno e rifanno gli esperimenti: così sorgono e muoiono città e falansteri e organismi nuovi e bizzarri; che servono poi di svago ed anche di scuola agli uomini politici degli Stati Uniti planetarii. Paolo e Maria seppero infatti, che Ceilan possiede oltre gli Stati da essi visitati: Poligamo, staterello a governo semidispotico, dove ogni uomo ha molte mogli. Poliandra, altro Stato, dove invece ogni donna ha molti mariti. Cenobia, una immensa città ieratica, da cui sono escluse le donne e gli uomini vivono in un ascetismo continuo. Monachia, piccola città tutta di monache date al culto di Saffo. Peruvia, uno Stato comunista, dove si ricopia l'antico regime socialista dell'Impero degli Incas; e dove la proprietà, essendo tutta dello Stato, si presta a ciascuno secondo i suoi bisogni, allargandone la frontiera secondo il numero dei figli. Così pure il lavoro, vien distribuito nei diversi giorni della settimana per sè, per i poveri e i malati, per il re e i principi e per le spese del culto.

Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Io ti rifaccio a modo mio questo dialogo, ma sono sicura che aggiungo molte parole che noi non abbiam detto. S'era in tre: ma ci intendevamo a mezze parole, e i sorrisi e i segni entravano nei nostri discorsi più che le parole. - Io vi manderò a Londra un libriccino manoscritto che porterete con voi a Madera: sarà il vostro medico. Vi darò anche una lettera per il mio amico, il dottor Sonthey, ma non la si presenterà che quando aveste la disgrazia di essere obbligata a stare a letto; e spero che ciò non avverrà mai in quell'aria di latte tiepido. E con chi andate a Madera? - Con me -, rispose la zia Anna. Avrei voluto che tu fossi presente a quella scena, mio William; avrei voluto che tu sentissi quanta bontà era nascosta nell'accento semplice, naturale, tenero con cui la zia Anna pronunciò quelle parole: con me La bontà di mia zia è così profonda, così uniforme nella sua tenerezza, e così intimamente fusa colla sua natura, che i giorni e i mesi passano, senza che io abbia tempo o luogo a pensare ch'ella è buona; ma quando in un'occasione come è questa si getta lo scandaglio in quel suo carattere così infinitamente buono, si rimane sorpresi dinanzi a tanta serenità limpidissima. La sua bontà è un cielo eternamente sereno, e non lo sa apprezzare che chi ha conosciuto in altre terre la nebbia, la pioggia e gli uragani. Anche il dottor Thom rimase commosso dall'accento dolcissimo, dalla sublime naturalezza con cui la zia Anna aveva pronunciato quelle due parole, e dando al suo sorriso un'espressione calda e riconoscente, le disse: - Voi già siete sempre la stessa Anna di ora è mezzo secolo: neppur gli anni v'hanno potuto dare un pochino d'egoismo; morrete impenitente. Il dottor Thom era buono, era dolce: ma non amava molto arrestarsi sulla tenerezza. - È affar finito, dunque; verrò io stesso a Londra per salutarvi prima della vostra partenza. Venite a vedere il mio giardino, e voi, Emma, venite a visitare la mia nuova serra: vi farò conoscere molte piante che io qui tengo prigioniere, e che a Madera vedrete fiorire lussureggianti a cielo sereno. Oh, venite, venite; ho ricevuto da quindici giorni un solanum del Brasile che è di una rara bellezza. In Inghilterra non siamo che io e il duca di Devonshire che abbiamo questo solanum. Si rimase ancora un'ora a Brompton, ma ti confesso che lungo le aiuole linde linde del giardino e nell'aria calda della serra del dottor Thom io pensavo sempre a te e a Madera; e la nuova fase in cui stava per entrare la mia vita mi pareva un sogno. La speranza, la paura, il terrore dell'ignoto, l'affetto per te si facevano così aspra guerra nel mio cuoricino, ch'io di quando in quando udiva le parole del dottore e di mia zia senza intenderle e non sapeva in qual mondo mi fossi. Vieni a trovarmi, mio William; ora dobbiamo vederci tutti i giorni, finché io rimango ancora in Inghilterra. Verrà pur troppo presto l'oceano a separarci per mesi ed anni. Mio William, mio solo William, la tua Emma ti aspetta. WILLIAM AD EMMA. Londra, 8 agosto. Tu mi hai promesso, Emma, che porterai con te questa mia lettera e che non la leggerai che a Madera. Qualche cosa di mio ti sarà compagno nel tuo viaggio, e appena sbarcata in un paese straniero, una mia parola ti darà il primo saluto. Oh perché non posso io chiudere in questo foglio fortunato tutto me stesso? Perché mai la fantasia umana che ha creato gli spiriti, le ombre, i fantasmi, non ha tanta potenza da trasformare i corpi viventi in questi spiriti invisibili? Perché mai i medici non possono conservare un uomo vivo e addormentato per anni ed anni? Perché mai il pensiero corre sempre più in là della mano? Perché tanta sproporzione fra il pensiero e l'azione? In questa mia lettera il mio spirito ti saluta, o Emma, e aleggiandoti intorno, vuole che l'isola su cui hai posto il piede sia per te un giardino, un paradiso; vuole che il suolo di Madera sia per te una terra benedetta che ti dia la salute, la pace, la gioia. Io avrò il coraggio di amare quell'isola che mi ha tolto la mia Emma per tanto tempo, avrò il coraggio di benedire Madera. E tu mi hai scacciato dalla tua isola, come Dio scacciava i nostri padri dal primo paradiso, né mi hai concesso di venirti a trovare una sola volta, un'ora sola. Hai voluto far segnare la mia condanna colla penna di un medico per te venerando, ma tu fosti il giudice crudele e maliziosamente ti sei nascosta dietro la toga di un magistrato inappellabile. E colla tua solita grazia, col tuo pennello d'artista, nelle tue lettere e nelle nostre conversazioni interminabili degli ultimi giorni, mi hai voluto fare un quadro molto lusinghiero del tuo dottor Thom; me ne hai fatto un tipo del medico filosofo, dell'uomo di cuore saldato insieme all'uomo di scienza; me l'hai fatto un tipo di sublime bontà; ma non sei però riuscita a farmelo amare. Per me il dottor Thom è pur sempre il giudice che ti ha esiliata dall'Inghilterra e ha scacciato il tuo William dalla terra promessa, dove egli possiede tutti i suoi tesori. Io non l'amo punto il tuo Franklin divenuto medico, il tuo dottor Thom. In mezzo al mio dolore ho un'immensa consolazione. Io so di sicuro che a Madera qualche cosa ti mancherà; ti mancherà tutto quello che manca a me. Né l'aria imbalsamata, né i fiori, né le valli ridenti della tua isola, né la bontà della zia Anna potranno riempire quel vuoto. Guai a me se a Madera ti sapessi completamente felice. Vedi Emma, io ti amo troppo, e tanta superbia ho del mio amore, che non ho mai concepito l'idea che io potessi divenir geloso di un altr'uomo. E chi sarebbe tanto temerario d'amarti come io; qual luce oserebbe brillare dinanzi al sole del nostro amore? Chi mai avrebbe il diritto in questo mondo di alzare il capo e di dire: - Io amo Emma più di William? - Io dunque non sono geloso di alcun uomo su questa terra; e se Dio scendesse sotto la forma d'un uomo, io non sarei geloso di Dio. Il tuo William, invece, è geloso della natura e d'ogni cosa bella che ti sta intorno. Io temo sempre che nel contemplare il mare azzurro e il cielo stellato, che nel folleggiare tra i prati fioriti e profumati, tu debba rivolgere un pensiero d'amore a quelle belle cose, e senza che io abbia la mia parte in quel pensiero. Tu ami tanto le belle cose! T'ho udito più volte parlare lungamente, con vera passione, d'una farfalla o d'uno scoglio coperto di muschio; t'ho udita discorrere con entusiasmo d'una quercia su cui si arrampicava un'edera e che avevamo veduta insieme nei giardini di Kent. Ecco, tu dicevi, una creatura che possiamo amare senza rimorsi e senza dolori, la possiamo amare con passione, anche senza che sia cosa nostra. L'amore per la natura è una passione sempre vergine, e nessuno ha potuto chiudere tutta quanta la natura dietro le pareti di un serraglio o le inferriate d'un carcere: ve n'ha per tutti, anche per l'uomo più povero del mondo. Ora, mia Emma, tu sei in un paese cento volte più bello dell'Inghilterra, dicono più bello dell'Italia ed io son geloso di Madera. Quanti volumi non ho io letto in questa ultima settimana su quella tua isola! E per mia fortuna non ho potuto trovare a Londra tutte le opere che parlano di Madera: per cui posso tormentare ancora il mio libraio; posso ancora aspettare nuovi libri dagli Stati Uniti, dalla Germania, dal Portogallo. Ho fatto scolpire dietro un mio disegno una piccola biblioteca, dove non collocherò che opere che parlano della tua isola. Ho già saputo però che è l'isola dei fiori, che gli eliotropii si mietono come l'avena, perché invaderebbero i campi; ho saputo che si passeggia all'ombra delle passiflore, e che i boschi son pieni di lauri, di alberetti sempre verdi, di eriche alte come un uomo. Tu che ami tanto le eriche e le hai vedute nelle nostre serre alte un palmo, potrai passeggiare e perderti in un bosco di erica arborea Ti ricordi quando mi dicevi che le mimose e le eriche erano i merletti d'Inghilterra nel mondo delle piante, ed io, ridendo, ti diceva una secentista, un poeta barocco? Ebbene, tu vedrai ora i merletti giganteschi di Madera. Il primo pensiero di William che tu trovi nell'isola è dunque un pensiero di gelosia, d'immensa gelosia per quella bella natura che ti possederà tutta quanta per chi sa quanti mesi; è un'invidia infinita per quei fiori che andrai cogliendo a piene mani, che ti inebrieranno coi loro profumi. Come troverai fredde e nuvolose le mie lettere che ti giungeranno ancora imbevute della nostra nebbia inglese! Con quanta compassione penserai a noi poveretti che viviamo per cinque mesi dell'anno senza foglie sugli alberi, senza fiori nei prati! Vedi, mia Emma, prima di gettarti in braccio della bella natura che ti circonda e di cui non hai sentito fino ad ora che il profumo lontano, tu mi devi fare una promessa. Tu mi hai a promettere di lasciarmi un posticino, fosse pur piccolissimo, in ogni tuo fiore, in ogni tua ammirazione per Madera. Soltanto in questo modo potrò amare anch'io la tua isola. Quando, portata sul dorso del tuo cavallo, dall'alto di una rupe nera nera guarderai giù nella valle e vedrai fra le canne ondeggianti dello zucchero i cespugli fioriti delle rose, e il vento te ne porterà gli odori inebrianti; quando tutt'all'intorno ti vedrai un mare sereno e tranquillo e non saprai dove fermare il tuo occhio innamorato in mezzo a tutto quel mare di bellezze, tu hai a dire:- Che cosa penserebbe William, se mi fosse qui accanto? E quando ti porterai trionfante a casa nel tuo canestro tutto un bottino di fiori, tutto un diluvio di fiori, di gelsomini, di eriche, di ramoscelli di mirto; e quando nella tua cameretta sospirerai profondamente, respirando tutta quell'aria profumata, m'hai a dire: - Non senti, William, questa voluttà che rassomiglia tanto alle gioie dell'anima? E quando alla sera porterai alla spiaggia il tuo scialle, e là sdraiata, coi tuoi piccoli piedi presso all'onda del mare, ti perderai nel profondo di un cielo trasparente come lo zaffiro, accompagnando i tuoi sogni e i tuoi pensieri coll'alterna carezza dell'onda, anche allora, Emma, pensa subito:- Come sarebbe felice William, se fosse qui con me, coricato anch'egli sulla fresca arena! Vedi, mia Emma, non mi chiamare esigente: no, chiamami soltanto innamorato. L'amore è la vita intiera divenuta un desiderio, è la vita tutta quanta, con tutta la sua forza, con tutto il suo caldo, con tutti i suoi misteri trasformati in una cosa sola, in un desiderio insaziabile, onnipotente, infinito. Intendi, Emma, che cosa voglia dire un uomo tutto trasformato in un desiderio? intendi che cosa voglia dire avere in un pugno solo la bellezza, la gioventù, l'ingegno, l'ardore dei sensi, l'ambizione, l'odio, il pensiero, la poesia, tutte le forze umane e sentirle tutte quante consumarsi in una sola scintilla, bruciare dello stesso fuoco? E sentirsi pronto da un minuto all'altro a gettar tutta quella forza, tutta la vita ai piedi di una creatura per averne un sorriso, e amar la vita, soltanto per poter dire ad una donna: - Io posso morire per te? - E dopo tanto ardore e dopo tanto vulcano, sentir sempre nelle viscere, eterno, insaziabile, infinito quel desiderio, che è poi la vita intera, che è tutto l'amore? Il fiato di Dio nella creta dell'uomo è l'amore; l'infinito del futuro legato alla creatura d'un giorno è l'amore; la scintilla strappata al cielo da Prometeo è l'amore; o almeno tutto questo è l'amore ch'io sento per te. E la parola è ancora ben povera cosa per dirti quel che sento, per circondarti di un'atmosfera che per tutto il tempo che vivrai a Madera ti dica sempre, in ogni ora del giorno e della notte: William è qui. William è sempre qui con me. La parole è il segno che nel deserto mostra al pellegrino la via; ma la via si conquista sulle ali della fantasia e sul dorso d'un cavallo ardente. Se è vero che con venti lettere noi possiamo esprimere tutti i nostri pensieri; se è vero che il genio con sette note ci trasporta nei mondi sconfinati dell'armonia; se è vero che la natura colle tavolozze di sette colori basta all'impresa di dipingerci l'universo; è pur sempre vero che al di là del pensiero scritto, al di là dell'armonia del maestro, al di là della tela del quadro vi ha un mondo misterioso che la nostra mente chiama suo e che non fu ancora acquistato dal poeta, dal maestro, dal pittore. È questa la nostra grandezza, che vi sia un mondo dove lo spirito non trova frontiere, dove non lo arresta alcun doganiere; dove la fantasia e il sentimento spaziano senza battere il capo impaziente contro le pareti della forma, contro le inferriate della scienza. L'uomo sente assai più di quel che possa dire, e tutte le lingue parlate e tutte le forme strappate dalla mano temeraria del poeta al mondo dell'infinito, non bastano ad esprimere quel che l'uomo può sentire in un istante solo d'odio o di amore, di voluttà o di dolore. O mia Emma, dove mi sono io smarrito! Voleva darti il benvenuto al tuo arrivo a Madera; e ti ho parlato di gelosia e fors'anche t'ho fatto della metafisica. Tu che mi intendi, anche quando non parlo, m'avrai inteso anche questa volta. Tu avrai inteso e perdonato la mia gelosia, in cui non sento ombra d'amarezza; in cui credo non si nasconde la più piccola vanità, il più innocente egoismo. Tu sei una cosa mia, come sono miei i miei pensieri, i miei occhi: tu sei mia come son mie le mie mani; tu sei più che la metà di me stesso e ora che sei lontana mi sento avvinto più ancora di quando mi sei vicina; e pensando a te con infinito dolore, mi pare che una parte di me stesso sia in me malata, sicché io di essa sola mi occupo: per essa sola mi tormento e mi cruccio. La gelosia di un'anima onesta è il bisogno di volere che il nostro calore riscaldi tutte le nostre membra, che nelle nostre viscere non entri che il nostro sangue. La gelosia, così com'io l'intendo, è la coscienza piena di sé stesso, è l'amore di sé stesso, è l'istinto della propria conservazione, è il più santo dei diritti naturali. La massima parte di me stesso è a Madera ed io l'accompagno con immenso amore ed io la circondo d'un fiato che me la conservi, che me l'accarezzi, sicché quel ch'è mio rimanga mio soltanto e mio sempre e innanzi a morire non m'abbia a veder dilaniate le membra e sanguinanti escirmi le viscere da un'ampia ferita. L'uomo solo non esiste, te l'ho pur detto le cento volte; non esiste la donna sola; ma solo io conosco un uomo- donna vivente, vivente di quella ch'io soltanto chiamo vita. Fa dunque, mia Emma, di serbarmi il mio posticino sui basalti muschioso dell'isola e alla spiaggia del mare e nel tuo canestro di fiori. E che l'aria imbalsamata di Madera ti accarezzi soavemente le chiome, e ti entri mollemente nel petto e ti risani e ti ritorni a me presto presto. Che sotto i tuoi piedi fioriscano i prati e sul tuo capo facciano cadere una pioggia di fiori anche gli alberi della foresta; che intorno a te Madera divenga un paradiso di armonia, di profumi e di dolcezza e che in quel paradiso tu abbia a serbare un posticino per il tuo William innamorato. EMMA A WILLIAM. Madera, 3 ottobre 18... Già da parecchi giorni, mio William, io mi sentiva languida e oppressa: ogni movimento mi dava pena e l'ozio non mi riposava. Passava le ore alla mia finestra, quasi sdraiata sul seggiolone e leggeva e rileggeva le tue lettere; mia primissima gioia quando sono lieta, mio unico conforto quando sono triste. Fra l'una e l'altra lettera, guardava fisso il mare, questo eterno compagno della meditazione e il mio occhio, per lente oscillazioni, passava senza saperlo dalla scena della vita presente e vicina all'ultima linea sfumata e incerta dell'avvenire. Prima il porto solcato dalle bianche vele, rotto dai remi numerosi, increspato dalle mille onde che io potevo distinguere e numerare: la vita in azione col suo chiasso, coi suoi mille movimenti, coi suoi contorni netti e recisi. Più in là il mare era azzurro e senza rumori: una vela lontana si perdeva in quell'orizzonte più sereno, e pareva un'ala di uccello marino. Là era la vita del pensiero, che attinge ancora la lena dall'azione, ma che già si solleva nei campi dell'infinito, non più confini precisi, non più chiasso; ma il fluido eterno che mai non posa e sempre si muove. E poi giù, nel fondo, l'occhio faceva ancora un passo e si trovava di nuovo in un mare grigio che si perdeva fra le nebbie dell'orizzonte: là né il chiasso che distrae, né il sereno che riposa od eleva, ma un quadro incerto e sconfinato, ma l'infinito deserto del mistero, entro cui l'uomo si smarrisce e si confonde. Era in quella parte del quadro che il mio pensiero triste e vagabondo amava meglio perdersi e divagare. Ora la linea bigia rimaneva immota, ed ora, sollevandosi lenta lenta in fiocchi di fumo, pareva plasmare una terra lontana, la terra delle eterne speranze, e dei sogni senza fine: quella terra di nubi che tante volte strappò un grido di gioia ai compagni disperati di Colombo. Là in quell'abisso di deserti nebbiosi, nessun colore, nessuna forma; ma il caos infinito da cui Dio trasse l'ordine e l'uomo la poesia; là un'eternità di movimento, là un'onda che, eternamente eguale a sé stessa, alimenta il crostaceo microscopico e la balena gigante; che eternamente impassibile copre e lambe le ossa di un pescecane morto decrepito e le reliquie di due sposi che, naufraghi e moribondi, si strinsero in un ultimo amplesso e lasciarono le loro ossa intrecciate sul piano dell'arena profonda. Là un bigio immenso che non rallegra, che non riposa, ma che affascina l'uomo perché egli lo desidera sempre senza mai abbracciarlo, perché sempre lo studia senza mai intenderlo; che affascina l'uomo perché rimane eternamente vergine innanzi alle sue braccia innamorate. Dopo aver passato più giorni a questo modo, senza aver fiato a far altro, ricordai le tue parole, o William, ricordai che l'ozio è una delle colpe maggiori; e fattami forte, coraggiosa in un momento, chiesi a mia zia che mi accompagnasse ad una gita a Machico. Aveva udito parlare vagamente di una triste storia avvenuta in quel luogo, uno dei più pittoreschi dell'isola: e voleva farvi un triste pellegrinaggio. La mia buona zia, felicissima di vedermi uscire da quel letargo mortale in cui era piombata, disse subito allegramente di sì: fece sellare una buona mula per lei e apprestare un'amàca da viaggio per me. Ti ho già scritto altre volte che questo modo di viaggiare così comune in quest'isola, mi ripugna assai, perché ad ogni movimento penso che due uomini si affaticano e sudano per me, e mi domando subito: - Perché mai Dio ha fatto gli uomini di modo che una metà abbia a servir l'altra? La zia calma alquanto i miei scrupoli, mostrandomi i due bruni e robusti arrieiros; pei quali la tua Emma sottile e smilza sarebbe stata più leggera d'una canna. Si va a Machico per una valle tutta verde e tutta ridente, e le fanno cornice basalti neri, acuti, profondamente lacerati come merli d'un antico castello che si confondono coi crepacci serpentini aperti dal tempo nelle sue pareti. I campi di Madera così piccoli e ridenti e tranquilli in mezzo a quella natura di neri giganti mi sembrano nidi d'usignuoli sospesi al cratere d'uno spento vulcano. Fra quelle masse rozze, ciclopiche di roccie, alza il capo più alto il Picco Castanho. Il moto oscillante e lento dell'amàca mi cullava per modo che di quando in quando io sonnecchiava e allora sognava di essere imbalsamata in un'amàca del Perù, fra due palme ove due neri avvoltoi venivano a cantarmi l'inno funebre, appoggiati simmetricamente con una gamba sola sulle due corde della mia amàca. L'acre saliva mi scendeva intanto giù per la gola, e un colpo dure e secco di tosse veniva a svegliarmi improvvisamente, ed io, spaventata, cercava gli avvoltoi e non vedevo dinnanzi a me che la caramuza ridicola del mio arrieiro che mi scacciava d'improvviso i tristi pensieri. Era Arlecchino che veniva col suo bastone a scacciare dalla scena un direttore di pompe funebri. Saltai lesta dall'amàca appena giunti a Machico, e mi sentii ben diversa da quando era partita da Funchal. Poche ore di moto, e un soffio d'aria diversa da quella che soglio respirare, mi cambian d'un tratto e mi sento un'altra donna. Machico è un povero, è un poverissimo villaggio; ma sembra venirti incontro sorridendo e vorresti subito collocarvi un romanzo e un'elegia, e l'elegia ve la trovai senza bisogno d'inventarla. Dopo aver ammirata la spiaggia larga ed estesa e la piccola fortezza che sta sul mare e che chiamano desembarcadouro, andai alla chiesa, e là mi si narrò dal sagrestano questa semplice storia: In un anno del 1300, non si sa quale, una piccola nave giunse dall'Inghilterra su questa spiaggia e sbarcò un uomo e una donna, due bellissimi giovani inglesi, condannati a vivere e a morire nell'Isola di Madera. Si chiamavano Machim ed Anna. Si ignora qual delitto avessero commesso quei giovani, ma di certo il peccato deve essere stato ben lieve o il giudice molto pietoso, dacché furon puniti col dover vivere e col morire insieme in un luogo di paradiso. A pochi passi dalla spiaggia si innalzava un cedro antico quanto l'isola, una vera foresta, una cupola di nera verdura, un labirinto di rami e di foglie che filtrava il sole e rompeva l'urlo delle procelle. Nel suo seno ospitale, il caldo dell'estate diveniva languido tepore, l'aquilone dell'inverno una fresca brezza. Là i due amanti reietti dall'Inghilterra si fecero una capanna, il loro nido d'amore, e là vissero felici, chi sa quanti anni e senza figliuoli. La tradizione dice che essi non si muovessero mai da Machico. Senza figliuoli, senza amici, senza nemici, non ebbero altro tempio che la volta sempre verde del loro cedro; non ebbero altro orizzonte che l'orizzonte sempre azzurro del mare; non ebbero altro amore che il loro amore. Anna morì prima di Machim, e Machim la seppellì sotto quel cedro; ne tagliò un ramo e con esso scolpì una croce, la più bella che mai si fosse veduta. Piantò la croce, ne fece un'altra perfettamente eguale, e scavò accanto alla prima fossa un'altra fossa. Appena l'ebbe finita morì. Nessuno dei vicini udì una parola escire dalle labbra di Machim dopo la morte di Anna. Un mattino lo trovarono morto, steso al suolo, colle braccia avvinghiate intorno alla croce che lo copriva. Convenne distaccarlo a forza, e lo si seppellì accanto alla compagna. Per molti e molti anni quel cedro fu creduto sacro all'amore, gli amanti traditi andavano a piangervi la loro sventura; gli amanti sventurati andavano ad implorarvi la gioia di essere amati; forse ancora gli amanti felici vi andavano a mormorare parole di amore felice. I venti sussurravano sempre dolcemente fra i rami del cedro, e le onde del mare mormoravano soavemente ai piedi di quelle croci. Un giorno il governatore Tristâo Vaz Teixeira, quello stesso che insieme a Zarco colonizzò Madera, con una scure crudele stramazzò quel cedro, e vi trovò tanto legno da farne una chiesa; e fu edificata appunto sulla tomba dei due amanti inglesi. Il tempio del Signore si innalzò sopra un tempio d'amore, e una santa poesia si appoggiò sopra un'altra poesia tutta tenerezza. Di Machim e di Anna, dopo cinque secoli, rimangono due reliquie. Rimane il nome di Machico dato ad un povero villaggio; rimane un frammento della croce che Machim aveva scolpita per la tomba di Anna, e che il sagrestano mostra al viaggiatore pellegrino. Caro William, ho baciato quel pezzo di cedro e ho domandato a me stessa, se anche noi, quando saremo morti, non saremo messi l'uno accanto all'altro. Il moto dell'amàca mi aveva stancato e il mare era tranquillo come lo specchio d'un lago. A Machico si prese un guscio, si giunse a Canical: poche capanne e una chiesa più brutta e più triste delle capanne; si visitò la cappella di Nossa Senhora da Piedade e si ritornò per mare a Funchal. Il mio letargo s'era cambiato in una soave e tranquilla malinconia; il mio respiro era più libero ed io era contenta di aver scoperto una gemma di poesia, perché la poteva mandare al mio William. EMMA A WILLIAM. Madera, 19 ottobre 18... Ho vissuto per quindici giorni nella poesia raccolta a Machico: avrei voluto essere un poeta per poter deporre anch'io sulla tomba di Machim e di Anna la mia corona di fiori; avrei voluto il genio per rendere immortali quei due fortunati esuli che riposano da cinque secoli fra le radici di quel cedro che fu il nido d'un amore senza nubi e senza procelle. Sopra tutto poi avrei voluto essere Anna e avrei voluto che tu fossi Machim. Perché tanta poesia doveva sfumare a un tratto dinanzi a un quadro desolante e d'una dura realtà? Perché l'azzurra poesia del passato doveva esser coperta brutalmente dal drappo nero d'un funerale? Ti ho promesso di non esserti avara della più piccola delle mie gioie, di non risparmiarti nessuno dei miei dolori: or vedi con quanto scrupolo mantengo la parola. E poi mio William il dolore che ho sentito quest'oggi mi ucciderebbe se non l'avessi a dividere teco e poi è un dolore che ci ammaestra e ci eleva: devo essergliene grata. Quando il dolore bruscamente ci piglia per il braccio e ci guida sulla via del dovere, noi dobbiamo ringraziarlo. È un medico che taglia e brucia, ma guarisce. Ah! dovere, dovere, tu sei un Dio di ferro, ma ci tempri l'anima ad alte cose; tu sei crudele, ma tu solo ci dai il santo orgoglio di esser qualcosa più d'una creatura che nasce, mangia e muore, qualcosa più d'un verme che, dopo aver divorato tante creature vive, dà alla sua volta le proprie carni in pasto di altri vermi minori. Se qualcosa d'immortale è in noi, è l'esempio che i nati lasciano ai nascituri e il nostro dovere è il palladio della dignità umana che le generazioni si trasmettono l'una all'altra, e tutti dobbiamo esserne gelosi custodi, sacerdoti incorrotti. Se tutti prestassero a questo Dio il culto ardente che io gli presto fin dalla prima fanciullezza, qual paradiso non sarebbe il mondo! Or stà a sentire, mio William. Ieri io mi ero svegliata piena d'energia e per tutta la notte non aveva tossito che una volta sola. Son così avida della mia saluta, son così ardente di conquistar nuove forze per far piacere a te, che volli subito mettermi alla prova; e sola sola, col mio ombrellino che voleva adoperare non contro il sole ma per farne un alleato pietoso dei miei piedini ancora deboli, escii di casa presto presto e prima ancora che la mia buona zia Anna si fosse svegliata; e mi mossi arditamente verso la strada più ripida che da Funchal si dirige verso il nord e conduce al piccolo Curral. Quei di Madera chiamano questa strada con parola molto felice e poetica caminho do foguete o strada dei razzi. Or bene la tua Emma voleva far arrampicare i suoi polmoni su per il caminho de foguete ed ogni passo affaticato dedicava al mio William. Come si diventa egoisti, quando si ama; quanto si diventa egoisti, quando il nostro amore ha bisogno della nostra salute! Io guardai all'erta del cammino e mi spaventai; ma poi subito dopo chinai gli occhi, misurai i passi coll'alternar del respiro e lentamente, ma sicuramente, riuscii ad ascendere forse cento passi senza stancarmi e senza tossire. Come era felice di quella mia bravura, quanto era superba della mia conquista del caminho de foguete! E tutta la mia bravura, le mie conquiste erano per te, mio William. Dopo quei cento passi la strada si faceva piana; due muricciuoli la stringevano, quasi un torrente pieno di sassi e chiuso da dighe; ma giù per quei muricciuoli cadevano cespugli di eliotropii profumati d'un violetto oscuro, così belli che la mia mano correva impaziente a volervi far bottino. Tu conosci però le mie abitudini: non so sciegliere il fiore d'un prato, il ramoscello di una foresta senza chiederne licenza al padrone del prato, al padrone della foresta. Non è ancora questo un nostro dovere? Qui il proprietario non poteva esser lontano; feci ancora pochi passi, vidi che il muricciuolo si apriva per un cancello verde, basso e socchiuso, si entrava in un campo di ignami e di maiz. Un viale tutto fiancheggiato da alte banane conduceva ad una modesta e linda casetta colle persiane d'un verde vivissimo e le pareti d'un bianco bigio. Dinanzi alla casa vidi un cortiletto, dove alcune galline beccavano avidamente la loro colazione, e ad un lato un alto fico che faceva ombra densa e fresca a quel luogo modestamente pulito. Appoggiata al muricciuolo del cancello, mi alzai sulla punta dei piedi per spiare se vi fosse in tutto quel verde un'anima viva, e la scopersi subito. Sotto al fico stava seduto sopra una sedia di paglia un uomo robusto; in manica di camicia, e che mi dava le spalle. Pareva guardar fisso a qualcosa che avesse in grembo e ch'io non poteva distinguere. Se l'avessi veduto di faccia, avrei subito letto nel suo volto se potessi chiedergli un fiore, ma né sulle sue spalle, né sul colore de' suoi calzoni, né nella forma delle sue ciabatte poteva trovare elementi per giudicare della sua cortesia, e segnando colla punta del mio ombrellino sull'arena del viale molti W, or grandi, or piccini, esitava, sperando che quella creatura viva mi avrebbe presto mostrato il volto, che mi avrebbe veduto. Ma quegli eliotropii eran troppo belli: ed io era lieta e petulante come una fanciulletta, tanto mi avevano rallegrato l'aria mattutina e la salita dell'erta. In cattivo portoghese e colla voce tremante osai indirizzar la parola a quelle spalle ostinate nel loro silenzio: - Signore, mi perdoni ... - Chi è là? E dicendo questo, l'uomo dalle spalle ostinate, si rivolse e mi guardò. Aveva sulle ginocchia una fanciullina sui dieci anni che pareva dormisse. - Signore, voi avete sul muricciuolo del vostro orto degli eliotropii così odorosi e belli che mi hanno tentata e son venuta a chiedervi licenza di coglierne alcuni. - Signora mia, son tutti vostri, non sapeva che fossero fioriti: coglietene quanti ne volete. Intanto io guardava quell'uomo e quella fanciullina, e la mia allegrezza petulante andava rapidamente passando nella tristezza più cupa. Io avevo di certo dinanzi a me il quadro di una grande sventura. Il padrone degli eliotropii era un campagnolo di Madera, dalle spalle tarchiate, e il volto bruno faceva contrasto con un collo ancor più bruno. Non aveva cravatta, e la camicia ampiamente aperta mostrava che quel collo non aveva mai avuto paura del sole. Il volto allungato, con barba nera, naso aquilino, faccia franca rozza, più rughe in volto, e sopratutto sulla fronte, che capelli bianchi in capo. Sul fondo d'una giovialità ingenua ed un cuore espansivo si leggevano le tracce d'un profondo dolore. Neppure per parlare quell'uomo poteva riposare le rughe che dalle sue sopracciglia si arrampicavano lungo un solco profondo scavato in mezzo alla fronte, là dove se ne spicca il naso. Né quel solco, né quelle rughe procellose, però, gli impedivano di essere cortese. - Accomodatevi su questa sedia, signora, voi siete stanca, avete il respiro affannoso; non avete voi il petto gracile? E pareva che, mano mano egli s'andava accorgendo ch'io era malata, il suo accento si raddolcisse e le sue sollecitudini per me andassero crescendo. Mi porse egli stesso una sedia vuota che stava accanto alla sua, senza posar per questo la bambina che le sue braccia robuste e vellose portavano come una pagliuzza. Dove vedo un uomo che soffre, dove sospetto un dolore, io senza volerlo, senza saperlo mi arresto, affascinata da un'irresistibile attrazione. Mi sedetti e dimenticai gli eliotropi, che, pur senza ch'io li vedessi, mi andavano imbalsamando l'aria all'intorno. - Sì, mio buon signore, son malata di petto, son venuta a Madera per guarire, vi son da un anno e sto assai meglio. Quell'uomo non aveva ascoltato di certo le mie ultime parole. Colla palma della mano sinistra, ampiamente aperta, si picchiò sulla fronte, sicché tutta la coperse, e più che parlare, gridò: - Ah maledetta, maledettissima malattia! Sempre e dappertutto dei tisici. Perché mai Domeneddio, onnipotente, e onniscente, ha mai fatto dei polmoni più fragili della carta asciugante? Voi, mia signora, guarirete, guarirete senza dubbio; ma io ... ma io ... E sospirava e guardava la fanciullina che allora osservai anch'io. Era in camicia; era pallida, magra: aveva una mano bianca appoggiata sul petto che si alzava e si abbassava nei moti alterni di un respiro affannoso. Il volto era quello d'un angelo e aveva in sé la bellezza della razza latina e dell'inglese; un ovale perfetto, un mento piccino e rotondetto, come una nocciuola ancor verde; due labbra rosee, ma secche e socchiuse; un nasino affilato grazioso, sopracciglia nere nere e stranamente folte; ciglia lunghe e nere e palpebre grandi che coprivano due occhi neri che vagavano fra i crepuscoli d'un sonno febbrile. Dalla fronte reclinata all'indietro cadeva un torrente di capelli biondi con vene castane, dorate, rosse; tutta una tavolozza di tinte che con un disordine di rara bellezza fermavano l'occhio lungamente. - Vedete questa mia Dolores, è l'ultima che mi resta, e l'ho chiamata Dolores, perché è nata pochi giorni prima della morte di sua madre. Sì, mia signora, ho perduto la moglie, ho perduto tre maschi e due bambine, tutti tisici. Ed io, soggiunse ridendo in un modo crudele, non posso mandare i miei figli a Madera, perché guariscano; in casa mia si nasce a Madera, ma si muore anche a Madera. Allora Dolores, svegliandosi improvvisamente, si mise a sedere sulle ginocchia del padre e a tossire; e tossiva così forte che le guancie le divennero porporine e sudanti, e gli occhi lagrimosi. - Vedete, vedete, anche questa farà come gli altri. Maledizione! Maledizione! Quel dolore però era troppo grande, perché potesse a lungo mescersi coll'ira: e quel pover'uomo, chinando il capo su quel volto d'angelo, lo baciò, lo ribaciò cento volte, e quando lo rialzò, i suoi occhi eran rossi, gonfi di lagrime. - Sono un uomo rozzo io, sono un villano tirato su a piantar viti e patate, ma son vent'anni che ho malati e morti in casa; e il cuore per Dio (e qui col grosso pugno peloso stretto stretto batteva sul cuore fino a far rimbombare il petto) non mi si è fatto ancora di pietra, piango ancora io. - Caro signore, voi siete infelice, ma Dolores guarirà. In una famiglia di tubercolosi non muoiono mai tutti. Anch'io, sapete, ebbi undici fratelli e sorelle e tutti son morti tisici, ma ho già venticinque anni e vivo e penso di guarire. Dolores sarà delicata, avrà spesso la tosse, ma guarirà, guarirà sicuramente. - Lo spero anch'io: sarebbe troppo crudeltà lasciarmi solo. Se avessi a seppellire anche questa, darei - fuoco alla mia casa e me n'andrei a imbarcarmi come marinaio sulla prima nave che partisse per l'America, per il Portogallo, per la casa del diavolo ... scusatemi, signora. - Ma come mai, voi nato qui, in un paese dove la tisi è rara, specialmente fra gli agiati, avete tanta sventura? - L'è una storia ben triste, mia buona signora; e, vedete, la racconto a tutti, perché almeno abbia a giovare a chi può ancora approfittare di una lezione. Avete voi marito? - No. - Ebbene, allora anche a voi la mia storia può esser utile. E poi, vedete, voi avete il petto gracile, voi avete un'aria tanto gentile che subito subito mi avete aperto le cateratte del cuore, che in me stanno chiuse per giorni e settimane e mesi. Più volte mi chiudo in casa tutto solo, coi miei dolori: passeggio per le camere deserte, colla mia Dolores per mano, e più spesso colla mia Dolores fra le braccia. Ho venti camere, capite, in questa mia casa, e son tutte vuote meno una dove dormo e vivo e mangio colla mia figliuola. Capite voi in qual deserto io viva? E mi fa molto bene quando posso trovare una persona come voi a cui raccontare i miei dolori. Io ho quarant'anni soli, sapete, quarant'anni con tanti capelli bianchi e tante rughe, e tutti me ne dànno almeno cinquanta e anche più. Non me ne meraviglio; piuttosto stupisco di esser ancor vivo, ma già è la mia Dolores che non mi lascia morire. Anch'io ebbi i miei vent'anni; anch'io cavalcava sul più ardente dei cavalli di Madera, e senza sella amava gettarmi al galoppo nei sentieri che rasentavano gli abissi più profondi e precipitarmi giù per le chine, con una mano robusta nella criniera e un'altra nella coda, e giù, e giù, sicuro di non distaccarmi mai dal mio cavallo; amava sentirmi intorno l'aria vertiginosa che mi sollevava i capelli e mi fischiava nelle orecchie. Aveva braccia così robuste che più d'una volta andava a strappar la zappa dalle mani dei contadini di mio padre, e mi metteva a zappar profondamente, fortemente, finché non mi sentissi correre il sudore a ruscelletti lungo le spalle giù per il petto infuocato. Aveva ereditato da mio padre la passione della terra: odiava la città e i villaggi; voleva sempre esser fra i campi di maiz o all'ombra dei lauri. Non guardava mai in faccia alle donne: non so perché, ma mi pareva una smorfia da cittadini il fare all'amore. Aveva una febbre nei muscoli che volevano sempre muoversi; aveva una smania nel petto di respirare l'aria più pura, e respirarla a onde e tutti i picchi più alti dell'isola hanno veduto i miei piedi: c'è qualche roccia che io solo e l'aquila abbiamo toccato. L'amore mi prese come un fulmine, come una palla da cannone che vi colpisca in mezzo al petto. Un giorno me n'era andato a Funchal e stava passeggiando sul molo del porto, aspettando un amico con cui dovevo imbarcarmi per Porto Santo. Voleva andare a caccia di conigli. Zufolava, impazientito che il mio amico mi facesse aspettare, quando dinnanzi a me vedo una carrozzina in cui stava una pallidissima creatura che, se non avesse tenuto gli occhi aperti, io avrei giudicata morta. Dietro al carrozzino stava un'altra creatura giovane e bellissima che lo spingeva innanzi e che ad ogni tratto amorosamente si chinava a domandare alla povera signora moribonda che cosa volesse. Quella signora doveva essere una cameriera, ma questo a me non importava nulla: quel ch'io ricordo è che i suoi occhi azzurri, i suoi folti capelli biondi, la sua carnagione di rosa mi innamorarono talmente che quando l'amico mi venne incontro col suo fucile ad armacollo, gli dissi che non partivo più per Porto Santo. Era la prima donna ch'io aveva guardato in volto, ma mi parve subito che non avrei potuto vivere senza di lei, e il mio amore dovette essere così violento, così contagioso, che dopo otto giorni anche Jessy era innamorata di me. Ella era una cameriera, ma una cameriera inglese che parlava tre lingue, che leggeva molto, che scriveva; era un cuore di zucchero innamorato della sua padrona, con cui viveva tutto il giorno, con cui dormiva di notte, di cui era innamorata. Qui si dice che la tisi non è contagiosa, ma io so che la mia Jessy, che era bella e fresca come una rosa, pigliò il male dalla sua padrona, e che quando questa fu morta ed io doveva sposare Jessy, ella fu colta da un male che i medici di Funchal chiamarono bronchite, ma che infine era una tisi bella e buona. Fu malata due mesi, ma la convalescenza non finiva mai. Mangiava, camminava, ma era debole, e la tosse non se n'andava mai ed ella era magra magra. Ad onta di tutto questo Jessy era allegra come un pesce, e mi diceva di esser magra, perché era innamorata di me, e che quando ci fossimo sposati, saremmo guariti. Mio padre mi diceva sempre: - Sebastiano, Sebastiano, quella donna non è per te; è troppo delicata, tu la perderai presto e avrai dei figli malati. Sebastiano, va a Lisbona a trovar tuo zio, dimentica Jessy, io mi sono innamorato dieci volte prima di sposar tua madre e vorrai tu sposare la prima donna che t'è venuta fra i piedi? Mio padre aveva ragione, ma nessun medico mi sconsigliò da quel matrimonio: ma a che servono i medici? Servono a tormentare i malati, ma non a tener sani i sani. Eravamo tanto innamorati! Ci sposammo: Jessy rimase subito incinta e durante la prima gravidanza cessò la tosse, ingrassò un pochino; io mi credeva il più felice degli uomini; ma venne il parto e d'allora in poi la vita di Jessy fu una lenta agonia ed io, ignorante come una bestia, la vedevo migliorare ad ogni gravidanza, e aveva sempre nuovi figli. Nessun medico mi diceva che ad ogni parto mia moglie era più debole di prima, che ogni figliuolo le dava una spinta verso la tomba. Il buon clima di Madera la tenne viva otto anni, che tanti ne durò il nostro matrimonio; in Inghilterra sarebbe morta in pochi mesi. Il cielo della nostra isola le concesse una lunga, una dolorosa agonia. E non solo mi è morta la mia Jessy, ma mi sono morti tutti i miei figliuoli. Tutti rassomigliavano alla mamma; nessuno seppe prendersi le mie spalle, i miei polmoni di ferro. Se li aveste veduti! Com'eran belli! Eran tutti come Dolores, alcuni più belli ancora; biondi rosei intelligenti, amorosi. Son vent'anni che ho preso moglie e per vent'anni la mia casa è stata un ospedale e un cimitero. Io ho fatto da infermiere a Jessy, a Michele, a Sebastiano, ad Antonio, a Lisa, a Robinia; io li ho seppelliti tutti, mia signora. E capite voi cosa voglia dire avere un figliuolo moribondo nel letto, e un altro che sputa sangue e sta coricato sotto gli alberi del giardino, perché non ha fiato di muoversi? Capite voi che cosa vuol dire andare a tavola e leggere coll'occhio ansioso nel volto dei vostri figliuoli i primi segni della fatal malattia? E capite voi che cosa voglia dire svegliarsi di notte e d'improvviso sentir tossire il più robusto dei vostri figli, quello che pareva voler sfuggire alla sorte comune? Capite voi che cosa voglia dire andar errando il mattino di letto in letto a veder le macchie rosee che la saliva insanguinata d'una vostra bambina ha lasciato sul guanciale nel respiro affannoso della notte? E capite voi che cosa voglia dire vivere fra l'agonia dei vivi e l'agonia dei moribondi e dover sorridere per tranquillare i figli sgomenti e dover mentire oggi, mentire domani, mentir sempre, inventando ai malati sempre nuove e più crudeli menzogne, inventando menzogne ai sani che già temono di esser malati? Capite voi tutto questo, avete voi letto nei vecchi libri che vi sia tortura più crudele di questa? Una volta, me lo ricordo ancora, era un dì di dicembre e pioveva e pioveva, e un freddo umido penetrava fin nelle ossa. Si ritornava coi miei figliuoli dal cimitero dove avevamo accompagnato la mia bellissima Lisa, fanciulla di quindici anni. Eravamo allora quattro ancora; io, Robinia, Dolores e Michele. Avevamo tutti i vestiti inzuppati d'acqua fredda e nessuno parlava. Mentre si saliva sull'erta che avete salito voi, pochi momenti or sono, Michele si mette a tossire; una tosse secca, crudele feroce; e poi si avvicina il fazzoletto alla bocca, lo guarda, quindi facendosi pallido e pur sorridendo, lo mostra a Robinia: era tutto insanguinato. Io veniva dietro ai miei figliuoli e vedeva tutto. Robinia si voltò a me improvvisamente, e piangendo e singhiozzando, mi gridava: - Papà, papà, dobbiamo noi morir tutti, proprio tutti? Caddi seduto sul muricciuolo della strada; Robinia, Michele e la piccola Dolores mi si strinsero tutti intorno alle ginocchia. Dolores piangeva senza sapere il perché, e Michele mi accarezzava e diceva: - Papà, papà, non sarà nulla; ho una gengiva ferita; è sangue venuto dalle gengive. - Ma un anno dopo, mia buona signora, si seppelliva anche Michele, e ritornando a casa noi eravamo tre soli. Ch'io sia maledetto, ch'io sia maledetto! Ora non ho più che Dolores, e seppellirò anche questa accanto a Jessy, ed io mi farò seppellir vivo accanto a tutti i miei figliuoli. Ch'io sia maledetto: non si ha il diritto di dare una vita moribonda ai propri figliuoli, no, no, non si ha il diritto di mettere al mondo uomini condannati a morir fanciulli, a morir giovinetti nell'età delle gioie e delle speranze. No, no, ch'io sia maledetto, la vita è un peso: convien dare insieme ad essa forza e salute per sopportarla. La vita non è un dono, è un peso, è una croce. Non siete voi forse, mia buona signora, figlia di un padre o di una madre tisica?» Mio William, io mi alzai a queste parole come una pazza, gridando: - Basta, basta, signore, voi mi uccidete insieme ai vostri figliuoli. E fuggii da quell'orto e fuggii a casa e mi gettai piangendo e singhiozzando fra le braccia della zia, che mi veniva incontro. William, tutto questo t'ho voluto scrivere; mi è sembrato che fosse mio dovere il farlo. MISS ANNA A WILLIAM. Londra, 3 Agosto. William, la nostra Emma è morta; ed io non trovo altra parola, ed io non so immaginare ipocrisia pietosa che valga a farmi tacere. Ah, William, tu che l'hai tanto amata, tu che vivrai eternamente colla memoria di quell'angelo che abbiam perduto, capirai la mia brutalità. Perché tenterei nasconderti l'orrenda novella fra le pieghe di lunghi periodi, perché tenterei nasconderla nell'ultima pagina della mia lettera? Son sicura che nell'aprir questo foglio, tu sentiresti nell'aria l'odore della fossa, ed io non potrei ingannarti. Potrei tacerti ancora per qualche tempo l'orribile parola, ma il mio silenzio sarebbe ancor più crudele. Ella ti aveva giurato di scriverti ad ogni corriere, e tu non avresti più ricevute notizie di Emma. Vi ha qualche cosa peggiore della morte, ed è l'agonia. Son quindici giorni che la nostra Emma riposa nel bosco dei pini, nel parco, vicino al ponticello; e solo perché oggi parte il corriere, dopo una lunga tortura ho potuto prender la penna e scriverti. William, come possono tollerare la vita coloro che non credono in Dio, come possiamo sentirci strappar vivente il cuore a brani a brani, mentre siamo ancor vivi, senza credere che rivedremo un giorno i nostri cari? Ho letto che gli abitanti dell'Abissinia strappano dai bovi brandelli palpitanti di carne che poi fanno cuocere per loro alimento: e così di giorno in giorno macellano e straziano quei poveri animali, finché non rimangono che le ossa e le viscere, mal vive o mal morte. Ma non siamo noi nel corso della nostra vita in tutto eguali ai bovi dell'Abissinia? Non perdiam noi lembo a lembo i nostri più santi affetti, e chi vive a lungo non si trova all'ultimo ridotto ad uno scheletro senza carni e senza gioia, ma che pur cammina, spossato ed esangue per la lunga abitudine di aver vissuto? William, pensa che la tua Emma è morta sicura di rivederti in un mondo migliore, ha chiuso gli occhi tranquilla e serena, confidando che tu saprai resistere al tuo dolore, che tu non affretterai d'un minuto l'orologio della tua vita. Io piangerò finché vivo la mia Emma, che ho amato come una figliuola, ma nel mio pianto avrò sempre la cara speranza di rivederla. E anche tu, William, devi piangerla a questo modo; ritorna in Inghilterra a baciare la sua tomba, ritorna fra noi. Io sono rimasta sola sola, ultimo avanzo d'una famiglia numerosa, spenta in pochi anni. Tu che sei mio figlio d'adozione, vieni ad abitare con me. Vieni a dare qualche conforto ad una povera vecchia che cammina silenziosa in un vasto palazzo, e sente paura nell'udire i suoi passi, solo avanzo di tanta vita, di tanto rumore. Già da molti anni non si udiva il lieto schiamazzo dei bambini, le grida di pianti innocenti, le esclamazioni della vecchia zia Anna; ma da un anno Emma aveva riempito la casa di una vita nuova. Dove si moveva quell'angelo, dove respirava, vi era un giardino sempre fiorito. Non diceva una parola che non fosse una poesia vivente; non aveva un sorriso che non fosse una carezza; malinconica, malata, sofferente, ella non aveva che gioie e benedizioni per le creature che l'avvicinavano. Quanto vuoto lascia in questo mondo una creatura che si ama! Vieni, William, a raccogliere tutta questa eredità di profumi e di passioni. È tua, soltanto tua, nessuno prima di te verrà a profanarla. Ho chiuso la casa ai curiosi, ai parenti lontani, agli amici. La casa dove ha vissuto gli ultimi giorni la tua Emma, è tutta tua, soltanto tua. Permetti a me sola di esserti guardiana del tuo cimitero. Troverai ancora il cembalo aperto, e sul leggìo l'ultima musica che ha suonato. Troverai nel suo bicchiere accanto al letto dove è morta, i suoi fiori inariditi e pur profumati ancora; vedrai il suo orologio che camminò ancora sette ore dopoché ella era morta; troverai ancora vivo il suo canarino. Vedrai sul suo cavalletto un disegno non finito; troverai i suoi vestiti, i suoi libri prediletti: tutto troverai, fuorché la nostra Emma che dorme in pace nel parco accanto al padre. Vieni, William, non morire su terre lontane, fra stranieri che non ti intendono, fra gente che non l'hanno conosciuta; vieni a raccogliere l'ultimo fiato di quell'anima che non ha vissuto che per te e per te solo. Vieni a baciare su questo nido il suo spirito che aleggia intorno intorno, come una farfalla che batte le sue ali tenerelle contro i vetri della finestra per cercare i raggi di un sole che più non tramonta. La nostra Emma sentiva la morte vicina e, ad onta della sua fermezza, ne aveva paura. Già da più giorni non voleva più rimaner sola, e quando aveva presso di lei una cameriera o un'amica, si indispettiva per un nonnulla, e contraddiceva ogni cosa e montava in collera. Ella, sempre pazientissima, sgridava aspramente le sue cameriere, e poi se ne pentiva e chiedeva loro perdono. Diceva di sentirsi bene, ma tossiva più del solito e non aveva appetito; e dopo aver detto poche parole, si stancava; e pochi gradini della scala la facevano ansare orribilmente. Le proposi di far chiamare un medico; ma montò sulle furie a questa mia proposta, e divenne così rossa in volto da farmi credere che una febbre gagliarda l'avesse assalita colla rapidità del fulmine. Irascibile, irrequieta, malcontenta di tutto, si sdraiava sul letto, e poi si metteva a sedere, e poi di nuovo accasciata si gettava col capo fra i cuscini. In un'ora sola faceva cento cose; in un'ora sola leggeva, scriveva, suonava il cembalo, tentava di dipingere, domandava i giornali, frugava la libreria, e tutto la scontentava. Nelle ore più calde della giornata la prostrazione delle forze era tale che non esciva dalla camera. Io la vedeva soffrire e non poteva consolarla. Tentai ogni via per farlo, ma era un dolore profondo, insanabile, che le rodeva le viscere; ed io non insistetti ad importunarla colle mie domande e i miei consigli. Ella che ha sempre saputo leggere nel cuore di chi la circondava, senza bisogno delle parole, mi era grata del mio silenzio rispettoso. Una mattina, e fu l'ultima della sua vita, mi alzai tardi perché mi sentiva malata, e avendo chiesto di Emma, mi fu risposto che si era alzata per tempissimo e che ravvolta nel suo scialle era uscita di casa, dicendo alla cameriera: - Direte a mia zia che sono andata col primo treno a Bath, per fare una visita alla tomba di mio padre, ma che sarò di ritorno all'ora di pranzo. Fui tutto il giorno inquieta, e i miei occhi cercavano impazienti l'orologio e più di una volta mi avvenne di metterlo all'orecchio, perché mi sembrava che dovesse essersi fermato, tanto il tempo mi sembrava lungo. Finalmente alle quattro ella venne: le corsi incontro: era pallida come la morte, non poteva parlare, tanto le era cresciuto l'affanno del respiro per aver montate le scale. Volle sorridermi, quasi col labbro muto volesse rispondere alle cento domande che mi si affollavano alla mente e che esprimeva colla faccia angosciata e il gesto straziante. Si precipitò nella cameretta da letto e si lasciò cadere quasi stramazzone sul suo sofà, senza aver tempo né forza di levarsi lo scialle, il cappello, i guanti. Aveva le mani gelate e non mostrava di esser viva che con brividi ripetuti e con sospiri profondi e affannosi. Tirai il campanello con tanta forza che ne strappai il cordone: gridai che subito si chiamasse il medico di casa, e poi, fuori di me, appoggiandomi alla sedia e alle pareti, credendo di dover cadere svenuta ad ogni passo, e ad ogni passo ripigliando tutta la mia forza di volontà, escii dalla camera per cercare non so che cosa. Voleva fare un mondo di cose in una volta sola; avrei voluto aver senape, fuoco, acqua di Colonia; avrei voluto avere con me tutti i medici, tutti i farmacisti di Londra; ma sopratutto io cercava William. Mi pareva che tu fossi in quel momento la cosa più necessaria alla mia Emma. Rientrai pochi minuti dopo, udii un grido forsennato di Jessy che gridava: La mia padrona è morta! Miss Emma muore! - e si strappava i capelli. Mi avvicinai al letto e vidi la mia figliuola divenuta del color della cera: le sue labbra livide e insanguinate nuotavano sul cuscino in un lago di sangue che innondava anche il letto ed era caduto sul tappeto. E quelle labbra si aprivano e si chiudevano, e l'ultimo fiato gorgogliava nel sangue. Mi gettai sulla mia figliuola, la abbracciai stretto stretto, e le gridai: Emma, Emma! con una forza tale che il mio grido mi spaventò. Ella aperse gli occhi, volle parlare, sollevò una mano e mi fece cenno allo scrittoio e poi, agitandosi e raccogliendosi in uno sforzo supremo, appoggiò le sue labbra al mio orecchio e chiaramente pronunciò il tuo nome, o William; e poi mi cadde a rovescio ed io perdetti i sensi. Mio William, io rimasi fuor di me due giorni e due notti e non riapersi gli occhi che per piangere, tutto quel che mi resta di anni o di mesi in questo mondo, non riapersi gli occhi che per sentirmi infelice e sola. Parecchi giorni dopo la morte della nostra Emma, ricordai quel gesto supremo con cui mi aveva fatto cenno allo scrittoio, e con religiosa paura andai là e apersi il cassetto. Subito mi cadde sotto gli occhi una lettera suggellata e diretta a te. Te la mando, o William, dopo averla baciata cento volte. Io sento che in quelle pagine il nostro angelo deve aver chiuso qualche santo pensiero che sarà un balsamo per te, che l'hai tanto amata. Sento che in quelle pagine tu troverai il coraggio per vivere, la forza per sperare; e non so distaccarmi da quell'ultimo tesoro senza dolore e senza una orribile trepidazione che, in sì lungo viaggio, possa andare smarrita. Possa un angelo accompagnare quel foglio attraverso l'Oceano; possa giungerti intatto ... William, io so di averti dato con questa mia lettera lo strazio più crudele che possa sopportare il cuore di un uomo; ma anch'io piango e soffro e vivo perché t'aspetto: e conterò i giorni e le ore, perché so che col primo postale di Panama tu sarai qui con me. Fin allora io terrò lontano dalla casa dove visse la nostra Emma, ogni curioso, anche gli amici. Nessuno toccherà i suoi libri, i suoi fiori, il suo cembalo, tutto ciò che fu suo. Nessuno porterà i suoi passi profani là, sotto i pini, dove ella riposa accanto al padre. Più d'una volta ella m'aveva detto che là voleva dormire l'ultimo sonno; e là l'ho coricata per sempre. Vieni a piangere colla tua vecchia zia Anna su quella fossa. Vieni William, vieni subito: io ti attendo. Eccovi le ultime parole di una delle più belle e più sante creature che abbian sorriso e pianto sotto i raggi del sole. L'ultima lettera di Emma portava la data del 14 luglio, vigilia della sua morte. Londra, 14 luglio, 18… William, mi sento morire. Non l'ho detto alla buona zia Anna, non l'ho detto al medico, perché sento che tutto sarebbe inutile. Il dolce clima di Madera aveva messo un velo sottile sulla mia piaga, ma le nebbie di Londra me l'hanno riaperta e più crudele che mai. Io non posso più vivere e solo mi duole che morrò senza averti veduto. Guardo ad ogni ora, ad ogni minuto il tuo ritratto, e ti guardo con così intenso desiderio, che mi pare tu m'abbia a rispondere, che tu abbia a venire a vedermi un'ultima volta - Ma tu non morrai. - E poi mi spaventa ancora il pensiero di dover morire improvvisamente. Sento nel mio petto un fuoco ardente; mi par di sentirvi qualcosa che abbia a scoppiare da un momento all'altro. Tutto questo è nulla, mio William, muoiono tutti: deve esser cosa molto facile il morire. Io ho in me una gioia divina che mi dà coraggio, che mi fa superba d'aver vissuto, che mi fa beata d'averti conosciuto, di averti amato, d'esser stata tanto amata da te! Come siamo egoisti; sto per morire e tripudio come una fanciulla nella beata sicurezza che tu non sarai di nessuna donna, che non sei stato e non sarai d'altri che della tua Emma. M'hai troppo amato! Ti lascio troppo ricco tesoro di memorie, troppo splendida eredità di affetti, perché tu possa essere di un'altra. Questo pensiero mi fa delirar di gioia. Ho bisogno di mettermi le due mani al mio povero seno, e stringerle forte forte, perché il cuore mi palpita tanto che sembra volermi soffocare. La mia fede nel tuo amore è così sicura come la mia fede in Dio. Ah, padre mio, ho fatto il mio dovere. Domani andrò a visitare la tua tomba, andrò a mormorare al tuo orecchio che la tua Emma ha tenuto la sua parola, che è degna di te, che ella muore senza aver messo al mondo altri infelici che come lei sarebbero morti, ma che forse avrebbero maledetta la vita e chi glie l'aveva data. Tu, no, mio padre, non hai avuto colpa alcuna di avermi messo al mondo; tu non sapevi di esser malato quando mi davi la vita. Non vedi, mio William? Io aveva ragione di resistere al tuo amore, di resistere alle tue speranze. Il clima di Madera m'aveva cicatrizzata una ferita, non mi aveva guarita. Se t'avessi dato la mano di sposa, avremmo avuto figli maledetti nel grembo della madre. Un rimorso eterno avrebbe avvelenato il nostro amore; io non avrei potuto pensare a mio padre. Sarebbe stato un inferno. Ma tu devi vivere, mio William, tu me l'hai a giurare, mio William; qui al fondo di questo foglio su cui per l'ultima volta si è appoggiata la mano pallida e magra della tua Emma, tu hai a scrivere il tuo giuramento; tu hai a giurare in nome di questa margheritina, di questo primo fiore che mi hai colto nel Parco di Bath, quando tu mi hai detto, senza parole, d'amarmi. Tu me l'hai a giurare su questa ciocca di capelli, dove tu un giorno, in un delirio d'amore hai deposto un bacio. Sono le reliquie della tua Emma. Quando verrà il tuo ultimo giorno, fatti seppellire con esse; fa di serbarmele, finché ci rivedremo in cielo. Mio William, tu non hai soltanto a vivere, ma tu hai a rendere feconda la tua vita di opere coraggiose, di opere grandi. Il tuo splendido ingegno può trovare dappertutto un campo d'attività. Nella scienza, in viaggi, pericolosi e nuovi, nel terreno ardente della politica, tu puoi, tu devi essere un uomo grande, utile, potente. Fa tutto quel bene che non ho potuto fare io stessa, che non abbiam potuto fare insieme. E anch'io non avrò vissuto inutilmente, perché la mia memoria ti accompagnerà nelle tue lotte, nelle tue fatiche, nei tuoi affanni. Io muoio coll'orgoglio di averti ispirato sentimenti elevati, di averti ispirato opere utili e grandi. Quando nel silenzio del tuo studio il tuo ingegno detterà pagine sublimi che insegnino agli uomini ad essere onesti, ricordati che l'ombra della tua Emma ti sta vicino; che ella incrocia le sue mani sottili e pallide nel suo grembo; sappi che ella ti contempla e sorride al lampo del tuo ingegno. E quando, nella lotta delle passioni politiche, tu combatterai per la libertà; quando nel turbine degli affari lampeggeranno i tuoi occhi battaglieri e sublimi, ricordati che nella folla si nasconde l'ombra della tua Emma; ricordati che ella applaude ai tuoi trionfi, che piange di gioia di essere stata amata da un uomo nobile, grande, e generoso. E quando ti recherai nella casa del povero, e quando asciugherai una lagrima, quando studierai i tristi problemi del pauperismo e del dolore, ricordati che io ti vedo, che io ti ascolto, che io piango e m'allegro con te. E quando contemplerai le bellezze della natura, che abbiamo adorato insieme tante volte come due fedeli sacerdoti del bello, e nell'azzurro d'un cielo sereno, e nel raggio mesto della luna, e nel mistico silenzio dei folti boschi, e fra le erbe dei prati profumati, e nell'onda querula dei laghi, e nel muggito del mare, ricordati ch'io son con te; io nascosta, ma tremebonda di amore; muta ma sospirosa, beata di accompagnarti in ogni luogo, di vivere ancora nelle tue speranze, nella tua memoria. Dedica a me ogni tua opera buona, ogni santo proposito, ogni slancio generoso, e la tua Emma sarà superba di tutto il tuo ingegno, di ciò che farai di grande. Ella ti aspetta, sì, t'aspetta sicura di stringerti al cuore con un amplesso eterno, senza cure, senza affanni, senza rimorsi; sitibonda di una sete che avrà durato per secoli infiniti, ma che l'infinito avrà ad appagare. La tua Emma parte e t'attende dove tu pure verrai. Addio. Vivi e sii grande; vivi e sii uomo utile; vivi e non far soffrire anima viva; vivi e mi ama, come io t'amerò eternamente. Tracciato con caratteri convulsi e tremanti sotto a questa pagina si leggono queste linee: Ti giuro, mia Emma, di vivere. Ti giuro di essere uomo utile e laborioso, te lo giuro per amor tuo. Quito, 27 ottobre 18... WILLIAM. Dacché ho ricevuto le reliquie di Emma e di William, ho sempre atteso religiosamente e in silenzio che una lettera mi dicesse qualche cosa del mio sventurato amico e ho sempre atteso invano. Dieci anni son passati ed io ho diritto di pubblicare queste pagine ardenti di due fra le più nobili creature che io abbia conosciute. Ad onta del mio diritto, ho scritto in Inghilterra più volte a William, alla zia Anna, ma non ebbi risposta alcuna. E dopo aver sperato fino all'ultima ora una parola del mio amico, ho pensato di pubblicare i fogli che mi aveva inviato. Ho la ferma convinzione che l'averli letti non farà male ad alcuno, potrà fare bene a molti.

Pagina 25

LA GENTE PER BENE

678065
Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 1893
  • F. A. Brockhaus - A. Asher e C.- Veuve Boyveau - Ernesto Anfossi
  • prosa letteraria
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Ma noi, gente civile, abbiam trovato il pelo nell'ovo. Noi sappiamo che i genitori sono superiori ai loro figli, ed i superiori non portano il lutto per gli inferiori. Superiori? Inferiori? Davanti ad un morto? Ed una madre potrà pensar questo? E non si coprirà tutta di nero! e non si circonderà di un lutto rigoroso, lei che ha nel cuore il più grande dei lutti umani, il più grande degli umani dolori? "Oh mondo bello, tu sei pien d'orror!" Ma mi perdonino questa scappatina di sentimento. Il mio compito era soltanto di dire, che le mamme ed i babbi non hanno nessun dovere di portare il lutto pei loro figli; però, se arbitrariamente volessero portarlo, come molti fanno, i codici non hanno pena speciale per questo delitto. Oltre ai lutti di famiglia vi sono lutti di circostanza. Una signora, invitata alle esequie d'un conoscente, deve andarci tutta vestita di nero, e se la stagione lo permette, col velo invece del cappello. Altrimenti coprirà il cappello con un velo nero. Quando si ha la disgrazia di portare un lutto nazionale, la durata del lutto per una signora dipende in gran parte dalla situazione del marito. Ad ogni modo però, non essendovi una regola prestabilita per queste dolorose circostanze, sarà bene uniformarsi alle disposizioni che sono prese al momento dalla generalità, e peccare piuttosto per eccesso che per difetto. Il lutto quaresimale si porta rigorosamente soltanto nella settimana santa. Vi sono alcune signore che vestono di nero tutta la quaresima. In tal caso però bisogna astenersi dalle feste e dai balli, oppure deporre il lutto in quelle circostanze. Il ballo non è certamente in nessuna epoca una mortificazione quaresimale, e sarebbe assurdo portarvi un abito di penitenza e di divozione, che vi figurerebbe come un arlecchino a servire la Messa. - - - Per le mamme, come pei confessori, vi sono dei casi riservati. Non per tutte, fortunatamente, ma pur troppo per alcune. Cominciano sempre da una scoperta dalla mamma, a cui tiene dietro la recitazione, a porte chiuse, di pochi versi di Molière: " La mamma Le deviez-vous aimer, impertinente? La figliola . . . . . . . . . . . . . . . . Hélas! Est-ce que j'en puis mais? Lui seul en est la cause Et je n'y songeais pas lorsque se fit la chose." Ed intanto una letterina della figliola, o magari la sua fotografia, sono nelle mani d'un giovane che potrebbe essere imprudente, e che, ad ogni modo, se non la domanda in isposa, non ha nessuna ragione di tenerle. E la ragazza ci pensa, e ne soffre per quell'implacabile "Amor che a nullo amato amar perdona." In tal caso una madre veramente ammodo non ne parla a suo marito per non esporlo a quistioni. Non ricorre a terze persone che, per quanto parenti od amiche, sono sempre di troppo in un segreto, in cui è impegnato il decoro di sua figlia "Io della vita nella dubbia via Il peso porterò delle tue pene." È la santa missione della madre. Tocca a lei sola quel peso. Deve scrivere al giovine, parlargli a cuore aperto: "Avete tolta alla mia figliola la pace del cuore. Avete fatto male. E lei pure ha fatto male scrivendovi. Ma voi avete più esperienza di lei. Voi sapete che, senza averla domandata a suo padre, e senza esserle fidanzato non avete diritto a quella corrispondenza. So che non abusereste dell'imprudenza d'una giovinetta per comprometterla; ma una lettera si può perdere, è cosa troppo delicata. Siate generoso. Rendetela a me...." Non bisogna incoraggiarlo (pregarlo sarebbe una enormità) a domandare la fanciulla in isposa. Una madre non offre mai sua figlia a nessuno. Se n'è innamorato davvero, nel restituire la corrispondenza clandestina alla madre, il giovinotto le scriverà delle scuse, una confessione generale, e le chiederà il permesso di domandare a suo marito la mano della figlia; o, se la signora è vedova, la domanderà a lei stessa. Se è innamorato, ed ha cercato d'illudere una giovinetta senza scopo e senza passione, è meglio che se ne vada: un uomo sleale non sarebbe mai un buon marito. Ad ogni modo, il passo fatto dalla mamma non può essere infruttuoso, nè compromettente. Ho conosciuto dei giovani che hanno abusato delle lettere d'una signorina. Non ne ho conosciuto mai nessuno capace di abusare di quella di sua madre. E se un simile essere, per una mostruosa eccezione, esistesse, per fortuna non viviamo tra i barbari; alla prima parola troverebbe un gentiluomo per dargli una buona lezione. Io stessa ebbi qualche volta l'occasione di assumere quel penoso incarico per giovinette amiche prive di madre, e, sia detto ad onore dei nostri giovinotti, fui corrisposta sempre con cortesia, lealtà, rispetto. Dopo un fatto simile, dovunque si scontri col giovine imprudente, una signora dovrà essere la prima a fargli comprendere che è disposta a salutarlo. Nel caso in cui un matrimonio si sciogliesse dopo che la sposa ha già ricevuti i doni, toccherà alla madre il rimandarli allo sposo, con tutti quelli che lui avesse offerti agli altri membri della famiglia, e con un suo biglietto dignitoso, in cui lo dispensa, per riguardi che deve comprendere, da qualunque visita o saluto. Cesserà pure dalle visite alla famiglia ed ai parenti di lui; non manderà più a loro carte, nè annunci in nessuna circostanza, finchè la fanciulla non sarà maritata; però, scontrandoli, non eviterà di salutarli.

FIABE E LEGGENDE

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Tutti abbiam nella vita L'ora fatal che resta, come un negro stilita, sul nostro capo, immobile, finché andiam sottoterra; l'ora in cui l’uom s'accorge che la pugnata guerra, le lagrime versate, le sciagure sofferte, l'ostie fatte coi lembi del cuor, sull'are offerte del suo triste cammino per questa scabra valle, eran peso leggero alle sue scarne spalle, eran foglie di rosa. Da quell’ora (deh! amici di me non vi burlate perché siete felici! Essa vi attende al varco, è il fato universale, il lotto irrevocabile del sempiterno Male) da quell'ora il suo sguardo è confitto alla mota, e la tomba è vicina. Dimmi, pupilla immota, qual fu per te?... Fu l’ora che conoscesti l'Eva, e ti impietrì una vipera che un angelo pareva. E qual per te, fanciulla languente come un'ava? Fu l'ora in cui la povera tua madre agoninava. Qual per te, vecchio curvo come un tronco abbattuto? L'ora che solo, attonito, coi mendichi caduto, come in sogno fra i passi dei cittadini errante, il primo obol sentisti nella mano tremante. E per te, è questa, o Steno!

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683040
Bertelli, Luigi - Vamba 2 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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. - E noi che abbiam creduto a un caso di cleptomania! E quel che è peggio lo abbiam fatto credere anche a suo marito! Che figura!.. - Ma tu, - ripigliava a gridare la mamma - tu, sciagurato, perché non dicesti niente? - E qui le aspettavo. - Io anzi lo volevo dire! - risposi. - Mi ricordo benissimo che incominciai a dirvi che non era per niente un caso di cleptomania, allora saltaste su tutte a gridare che io in queste cose non dovevo metter bocca, che i ragazzi non devono impicciarsi di quel che dicono i grandi, che non posson capire l'importanza delle cose... e via dicendo. Io stetti zitto per obbedienza. - E la nostra ampolliera d'argento che ritrovammo poi in casa della signora Olga? - E i miei fazzoletti ricamati? - Anche questa roba la portai io in casa della signora Olga per divertirmi. - A questo punto s'è avanzato verso di me il babbo, spalancando gli occhi ed esclamando con voce minacciosa: - Ah tu ti diverti così? Ora ti farò vedere come mi diverto io!... - Ma io ho incominciato a girare intorno alla tavola, mentre dicevo le mie ragioni: - Ma è colpa mia se loro s'eran messe in testa l'affare della cleptomania? - Brutto birbante, ora l'hai da pagar tutte! - Ma pensa, babbo, - seguitavo io a dire piagnucolando - pensa che son cose passate... I fuochi li misi nella gola del camino quando prese marito la Luisa... L'affare dell'orologio è dell'ottobre... Capirei che tu mi avessi picchiato allora... Ma ora no, ecco, ora son cose passate, babbo, non me ne ricordo più... - Qui il babbo riuscì ad acciuffarmi, e disse con accento feroce: - Ora, invece, io te ne farò ricordare per un pezzo! - E infatti... mi ha lasciato molti segni nel taccuino! È giusta? Se è giusta mi aspetto un giorno o l'altro d'esser picchiato per le bizze che facevo quando ero piccino di due anni!...

Dirò solo che se quel che abbiamo pensato di fare riuscirà noi saremo finalmente vendicati di tanti bocconi amari che abbiam dovuto ingozzare... compresi quelli della famosa minestra di magro fatta con la rigovernatura dei nostri piatti, e quel che è peggio di quelli del signor Stanislao e della signora Geltrude.

Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

. - Non vi ho raccontato tutto, non abbiam passato una intera notte a ricostruire l'accaduto?.... - Sì, un'intera notte - ripetè Giara. - Una intera notte nella quale non faceste che espormi dei ragionamenti. Per via di ragionamenti, avete dimostrato che il barone era mandante dell'assassino. Ma un fatto, un solo fatto, anche minuscolo, voi non l'avete esposto. Se io avessi avuto sufficiente abilità, in quella notte, per via di ragionamenti, avrei distrutto la vostra cabala, dimostrandovi a fil di logica, che so io? che il mandante, per esempio, eravate voi. Ho ripensato a quella notte, non dubitate, e vado ripensandovi, e ho concluso che siamo stati due pazzi! Voi avevate ancora la febbre; eravate convalescente. Quanto a me, col mio orribile carattere, facile a credere, a infiammarsi, a lasciarsi sviare, son rimasta vittima delle vostre fantasticherie.... E' questa la vostra opinione presente? - domandai, alzandomi. - Sì, è questa! - confermò Clara. - Io non ho nulla da obiettare - conclusi. - Siamo stati due pazzi, come voi dite; ma fortunatamente siete ancora in tempo di riparare alle nostre pazzie. Avete un fidanzato di gomma elastica, che si piega e si accomoda a piacere. Basterà un gesto per farvelo ritornare, scodinzolando ai piedi, come un cucciolo. Seguì un breve silenzio; presso la tavola, mi occupai a toglier la cera che colava dalle candele; ma d'improvviso mi rivolsi. - Dunque - esclamai - avete deciso? Avete deciso di sposarlo? E' riuscito nel suo intento? Ieri l'altro è stato da voi a parlarvi; da quel momento, voi diveniste fiduciosa..... Che cosa vi ha detto? - Non ho deciso niente, per ora, - rispose la giovane. - Soltanto, ho meditato e mi son chiesta che cosa voi mi aveste provato: nulla! Nulla, capite? - ripetè, animandosi. - Mi avete detto: " Il barone ha lasciato assassinare sua moglie ", e io vi ho creduto.... Non sentite che questo è assurdo?... Mi avete detto: " in paese, tutti lo accusano d'aver chiuso gli occhi perché il delitto avvenisse ". Ma dove è il paese nel quale non si accusa, non si mormora, non si sussurra?... Una serva vi ha confidato che quando udì il nome dell'assassino, il barone esclamò: " me l'imaginavo " e su questa frase avete ricamato le vostre più belle deduzioni... Ma l'avete udita, voi, codesta parola? Siete sicuro che essa sia uscita dalla bocca dell'uomo che accusate? Non può essere una invenzione, anche ingenua, della vostra confidente? Poi, quella notte, quando vi domandai di che cosa accusaste il barone, mi avete risposto: " non l'accuso di complicità morale e nemmeno d'aver preparata la morte di sua moglie, ma di non averla difesa contro il pericolo ". E l'accusate di questo delitto imponderabile, perché la vigilia dell'assassinio egli dovette partire e andarsene a Milano!.... " Se la vostra logica avesse fortuna, pochi si salverebbero dall'ergastolo, ve lo assicuro io!... Insomma, io vi chiedeva delle prove, e voi non avete potuto darmene..... Lo so, che ostentate un gran ribrezzo per le prove; ma via, che volete? sono una donna, e a certe altitudini speculative non posso giungere. - Che cosa vi ha detto? - interruppi, chinandomi verso Clara. - Nulla mi ha detto, - ella rispose ritraendosi un poco. - Perché si difendesse, avrei dovuto accusarlo; e voi credete che si possa così, improvvisamente, accusare un uomo d'assassinio? - Pure, se è stato da voi, qualche cosa deve avervi detto...... E' certo. Ha parlato d'amore.... - D'amore?- gridai. Avete ascoltato le sue parole d'amore, voi?.... - Vediamo di non perdere la testa per così poco - osservò Clara, inarcando le sopracciglia. - Se anche avessi ascoltate le sue parole d'amore, non avrei da renderne conto ad alcuno..... Ma non è già venuto a parlarmi dell'amor suo; bensì dell'amor mio per voi, perché l'indegna commedia che io recitava venendo tutti i giorni in casa vostra, egli l'ha creduta.... - Indegna commedia? - ripetei attonito. - E avendola creduta, - seguitò Clara, - ha compreso che a lui non rimaneva se non allontanarsi... - Infatti, - dissi, - è partito per Parigi, stanotte...... - E ha fatto malissimo, - concluse Clara freddamente. - Malissimo? - Senza dubbio..... Ah, voi supponete, dunque, che io abbia confermato i suoi sospetti, che abbia confessato d'essere ancora la vostra amante, quando non lo sono più?.... E perché avrei dovuto accusarmi d'una colpa che non ho commesso?.... Certo, non osando narrargli tutto, le mie visite a voi diventavano inesplicabili, e per ciò non ha potuto prestarmi fede, ed è partito. - Ma voi avete dunque tentato di giustificarvi, gli avete chiesto perdono, gli avete riconosciuto il diritto di giudicare le azioni vostre?.... Clara alzò le spalle. - Sapete pure che non ho da chieder perdono ad alcuno - ella disse. L'ho pregato di credere che le mie visite in casa vostra erano innocenti...... - Ma quest'uomo, pochi giorni addietro, vi faceva orrore. - Sì, quando prestavo fede alle vostre accuse. - Ed ora, dunque? - Ora, ve l'ho detto. Ripensandoci mi sembra d'aver fatto un pessimo sogno, per colpa vostra. In nome di Dio - aggiunse drizzandosi in piedi ella pure, quasi con un balzo - in nome di Dio, recatemi un fatto, una data, qualche cosa di concreto, e avrete vinto: ma i vostri indizi sono falsi. Vi dirò di più: è falsa perfino l'accusa che gli fate d'essere un giuocatore... Io non potei frenare un gesto di meraviglia dolorosa. - Si, sì - insistette Clara. - Voi dite che il barone giuocava e perdeva, perché ve l'hanno detto i suoi servi: voi affermate ch'egli giuoca tuttavia, e la notizia vi vien dalla fonte medesima. Non nego che ciò possa essere: ma tra il giuocare e il rovinarsi c'è differenza. Su, ditemi una cifra: quanto ha perduto a Milano, a Montecarlo, a Nizza, quanto perde qui? Ditemi una cifra, la quale mi dimostri che al momento dell'assassinio egli era rovinato e di quell'assassinio aveva bisogno. Non potete dir niente, è vero? Non sapete niente, non accusate, ma il solo fatto d'esser giuocatore rappresenta per voi il motivo riposto dalla complicità in assassinio. - Ah, non sentite, non sentite, ancora che siamo stati pazzi ad accusare e a condannare, cosi, cervelloticamente, quasi, per un esercizio retorico? Io l'ho sentito, questi giorni; io ho avuto vergogna della mia leggerezza.... - Vi prego - interruppi. - Comprendo troppo i vostri scrupoli per non apprezzarli. E' evidente che se vi lascio continuare per questa via, l'assassinio della povera baronessa finirà per ricadere sulla mia testa. Certo: no[n] sono il giuocatore, io sono l'uomo della disgrazia. Mi son voluto occupare dei fatti altrui, e la dura lezione mi sta benissimo. Del resto, nulla è perduto. Il barone tornerà fra un mese, come ha promesso..... - Oh no! - disse Clara, imprudentemente. - Fra pochi giorni. - Fra pochi giorni? - ripetei subito. - Come potete affermarlo? Clara si morse le labbra, guardandosi in giro. Stavamo di fronte l'uno all'altra, a pochi passi dal divano; alla nostra sinistra era la tavola coi candelabri accesi. - Come lo sapete? - insistetti. - Come sapete che tornerà fra pochi giorni? La donna si strinse nelle spalle, scuotendo il capo, annoiata. - Ditemi, dunque? - seguitai, fremendo di impazienza. - Alla sua villa non sanno niente di sicuro; e voi potete affermare che tra pochi giorni egli sarà qui?..... Vi ha scritto? - Senza dubbio. Io non parlo coi servi e se non mi avesse scritto, ignorerei la sua partenza. - E vi ha scritto che tornerà subito? Clara non rispose. - Insomma non volete parlare? - dissi, avvicinandomi anche di più alla giovane. - Ma non ne ho alcun obbligo, mi sembra - ella rispose. - Perché dirvi ciò che contiene una lettera diretta a me? Non son venuta per questo. Lo scopo della mia visita era di farvi ravvedere alla vostra volta. - Ravvedere? - mormorai - Ravvedere, sì, ravvedere! - concluse Clara. - Volevo dirvi di desistere dalla vigilanza sospettosa che esercitate sopra il barone. Io non credo, non credo più alla sua pretesa colpa; e se non è per convincermi, a che fine seguitare quest'opera indegna di voi e di me? Lasciatelo in pace. - Va bene: lo lascerò in pace - dissi rassegnato. - Vi prometto che lo lascerò in pace, ora e sempre. Ma come sapete che egli ritorna fra pochi giorni? - Daccapo! - esclamò la donna, spazientita. - Ora che ho la vostra promessa, il nostro colloquio è finito. Devo ringraziarvi della vostra lealtà aggiunse stendendo la mano guantata. Afferrai la piccola mano convulsamente. - Il nostro colloquio è finito - ripetei - tutto è finito! Non è vero Clara? Hai deciso di sposarlo. La sua visita ti ha scossa. Che cosa ti avrà detto? Ora comprendo: egli ritorna per sposarti. Egli ritorna perché un tuo telegramma, una tua lettera lo richiama a Firenze. E' così; non può essere che così...,. Clara stette muta. - Ah, ho indovinato! - esclamai. - Lo ami, lo ami: finalmente questa confessione me l'hai fatta, senza parlare. Oh, che cosa orribile! - Amico mio - ella interruppe, usando per la prima volta dopo tanto tempo la dolce parola - pensate quanto l'abbiam fatto soffrire senza ragione! L'abbiam costretto a fuggirsene lontano, con le nostre pazzie.... - E allora, l'hai richiamato presso di te? - conclusi. - Egli accorre, si getta a' tuoi piedi, e fra quindici giorni un bel matrimonio chiuderà la commedia. Abbandonai la mano di Clara e mi misi a passeggiare in lungo e in largo per la camera. - Sì, la commedia, - continuai, ridendo. - E' stata una commedia, una farsa, dalla quale io fui lo zimbello.... Non lo negare.... Io credeva, io voleva salvarti: e tu venivi qua per eccitare la sua gelosia, per provare il suo amore: ecco sciolto l'enigma; e quando hai visto che la bella impresa ha avuto buon fine, metti alla porta me, e ti dai a lui.... Che abile allettatrice! Che donnina a modo! Quanta diplomazia!.... - No! - esclamai, accorrendo e mettendomi innanzi all'uscio. - Non devi partire così. Non ti ho detto tutto..... Voglio chiederti se davvero tu credi il barone innocente? Vi risponderò quando m'avrete lasciato libero il passo, - disse la giovane. Mi risponderai ora, subito! - Ma che cosa è questa violenza? - esclamò Clara con la voce che tremava di collera. - Son caduta in un tranello? Per tutta risposta, mi volsi e chiusi la porta a mandata doppia. - Oh! - disse la giovane con un gesto di disprezzo. - Che cosa fate? Lasciatemi passare! Commettete una vigliaccheria.... - Dimmi che lo ami, e sei libera. - Lasciatemi andare! - ripetè la giovane, facendo un altro passo verso di me. - Dimmi che lo ami; dimmi che lo attendi per essere sua..... Dimmi tutto questo: ho bisogno di udir questo dalla tua bocca. Clara battè i piedi, vibrando d'impazienza. - Aprite! Siete pazzo; non siete che un pazzo! Aprite, via! - Lo ami? - In nome del cielo, lasciatemi passare! - Lo ami, il tuo Lorenzo? Ah, ho visto, sai, il ritratto che gli hai regalato: un bel ritratto, apposta per lui, con un abito fatto apposta per lui! E la scrittura: Clara al suo amico Lorenzo LorenzoLa giovane mi guardò trasognata. - Come sapete? - mormorò. - Avete frugato nelle sue carte? - E' probabile, - dissi. - è probabile anche questo..... - Ora non mi stupisco più che pensate di abusare d'una donna! ella esclamò con la voce quasi sibilante. - Vi introducete in casa altrui per frugar tra le carte e per ascoltar le spie..... - Sì, tutto ciò che vuoi. Ma tu non passi, di qui se non mi avrai prima confessato che intendi sposarlo, che intendi darti a quell'assassino. Egli non è che un assassino, ricordatelo bene: e ricorda pure ch'io te ne avvertii. Egli è un gingillo da forca, una canaglia coi guanti, uno sfruttatore di donne! - Tacete, tacete, tacete! - gridò Clara, alzando istintivamente la mano come per chiudermi la bocca. - Non insultate chi non può rispondervi! - Rispondermi? - esclamai. - Ah tu credi che il tuo eroe mi risponderebbe? Il tuo eroe ha paura, ha paura di me, di tutti: la paura è la sua caratteristica eminente... Ciò che ti dico ora, io non temerei di dirlo a lui. - Mi avete promesso di lasciarlo in pace... - interruppe Clara sollecitamente. - Oh, lo lascerò in pace! Non verrò a turbare la vostra luna di miele. Ma a te voglio dirlo ch'egli è un assassino... - Un assassino? - ripetè Clara, come se quella parola l'avesse sferzata in volto. - Un assassino? Ebbene, io lo amo! Una canaglia coi guanti? Ebbene, io lo amo! Uno sfruttatore di donne? Ebbene, io lo amo! Lo amo, lo amo mille volte! Lo amo: odi bene questa parola: lo amo! Ella s'ergeva di repente innanzi a me, con gli occhi che mandavan fiamme, con le labbra umettate agli angoli da una bava sottile. Furiosa, inviperita, fremebonda, pareva più alta, più snella, gettandomi in volto quella sfida. - Lo amo! - ella continuò. - Lo amo, ricordalo bene! Lo amo, e mi darò a lui. Hai voluto udire questo dalla mia bocca? Ebbene, sì, lo amo, l'ho richiamato a Firenze, e mi darò a lui! Hai voluto bere questo veleno? Ascolta ancora dunque: lo amo, lo amo, lo amo! Clara mi stava così vicina, che le nostre bocche si toccavan quasi; e ad ogni sua parola, io sentiva sul volto l'impressione d'una scudisciata. Allungai le braccia, le avvinsi attorno al busto della donna e la sollevai d'un colpo solo, come si spicca il frutto da un albero. Io la sentii straordinariamente leggiera. - Ah, tu lo ami? - dissi con calma, portandola e adagiandola sul divano. Ella pareva non aver più nozione di ciò che avveniva: mi curvai a viso a viso sulla giovane estenuata. - Ah, tu lo ami? - ripetei ironicamente. - Ebbene, ti ricordi ciò che mi dicevi quando venivi qui? Mi dicevi: "Prendimi, se mi vuoi; prendimi, se questo ti farà piacere; sarò tua, purché tu non soffra! ". E io ho sempre rifiutato! Ma non rifiuto ora: ora sarai mia. Mia, hai capito? Mia, devi essere, prima che di lui! Ella volgeva gli occhi intorno, smarrita, passandosi una mano sul volto come se uscisse da un sogno; ma non appena sentì ch'io ero presso di lei e le cingevo il busto con un braccio, fece un balzo e si ricoverò di là dalla tavola su cui stavano i lumi. - Mia, devi essere! - continuai. - Lo hai promesso cento volte: ora voglio che tu mantenga la tua promessa. E allungando rapidamente la mano, l'afferrai per un braccio: ella si divincolava in silenzio, respirando a fatica, dibattendosi con furia, gettando indietro la testa quando vedeva il mio volto avvicinarsi. Avvinghiati così lottavamo presso la tavola, accanitamente. - Oh vigliacco, vigliacco! - ella mormorò. Sentii che le forze le mancavano a poco a poco e ch'ella non poteva resistere ancora a lungo; ma presso a cadere, ebbe uno sforzo supremo, puntò i piedi a terra, inarcò il busto; e nel divincolarsi urtò contro un candelabro con la mano, violentemente. Il candelabro tentennò un attimo, e le si rovesciò addosso. Vidi una fiammata e udii il lieve crepitìo dei capelli che si bruciavano... Il candelabro cadde pesantemente a terra. Fu un lampo e fu il risveglio. Clara mi stava svenuta fra le braccia. Come pazzo di terrore, l'adagiai di nuovo sul divano: la fiamma le aveva bruci[a]to pochi capelli sull'occipite e le aveva lasciato una lunga striscia rossa sulla parte destra del collo... Ma non osando chiamare, le tolsi il cappellino che ancora aveva in testa e le spruzzai il volto con l'acqua. Ella rinvenne subito, guardò in giro, mi vide inginocchiato presso di lei. - Aprite! Lasciatemi andare! - disse rapidamente. Si portò la mano al collo, e soggiunse con un amaro sorriso: - Non è nulla. E' una piccola bruciatura; non c'è nemmeno il pretesto di chiamare il medico per fare sapere a tutta Firenze ch'io sono in casa vostra. Io mi alzai e le recai uno specchio. - E' una piccola bruciatura, - ella ripetè dopo essersi guardata. Avete voluto lasciarmi le stimmate del vostro amore... Datemi il cappello, ve ne prego. - Oh Clara! - mormorai avvilito. - Io non oso chiedervi perdono. - Perdono? - ella disse. - Ma sì, vi perdono, purché mi lasciate andare, purché la finiamo. E vedendo ch'io non mi muoveva, andò ella medesima a prendere il suo cappello, e se lo acconciò in testa. - Mi perdonate dunque? - Sì, sì, tutto ciò che volete; ma finiamola. - E' sera, ormai; non potete uscire sola a piedi. - Esco sola a piedi. Sapete dove abito; in un lampo sono a casa. Io andai ad aprire l'uscio; ella mi passò vicina. - Non mi potete perdonare a questo modo, con queste parole piene di freddezza - osservai, trattenendola con un gesto. - Vi perdono. Che cosa volete vi dica ancora? Debbo forse ringraziarvi? - Ditemi che ci rivedremo, che mi permetterete di venire da voi... Clara alzò le spalle. - Non so niente, - ella rispose. - Debbo prima riflettere. Si mosse, allontanò la portiera con una mano, e la lasciò ricadere dietro di sé, uscendo con passo tranquillo.

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