Nanà a Milano
ENTRATURA
Gli svegliarini critici dei nostri giorni sono tanto scorbellati, che se l'autore
d'un libro non ha la precauzione di spiegarsi un poco, su ciò che ha inteso
di dire e di fare, va a rischio di sentirsene a dir delle belle.
Per prima questione s'affaccia quella della scuola o del genere. Che ormai
le panzane romantiche "fra il didascalico e il rompiscatole" a situazioni in
sospeso, a caratteri tirati a pomice, e a personaggi tirati pe' capegli siano
andate giù di moda e non piacciano più neppure ai ragazzi non ci sarà forse
a negarlo altro barbassoro, fuorchè un professore famoso per un certo suo
grido.
grido.Dunque, se voi signori, che state per leggere siete di quelli che nei racconti
dei fatti contemporanei amano i babau della sospensione romantica
e si compiacciono di non tirare il fiato se non dopo d'essersi bene assicurati
che il
fratello del figlio, del nipote, della cognata, del protagonista è appunto il
padre dello zio, del genero del cugino, dell'eroina, e vogliono che
l'intreccio incominci, si complichi e si sciolga col finale trionfo di tutte
quante le virtù e col suo bravo castigo di tutte quante le colpe, se voi, dico,
avete di queste fisime felice notte.
Oggidì, mi duole il dirlo, tutto va a rovescio di quella conclusione, giacchè
le virtù che trionfano e le colpe che si castigano sono cose lasciate tutte
all'altro mondo.
Dunque realismo!
realismo!E realismo vuol dire verità, vuol dire ricerca di ciò che veramente succede,
sia pur doloroso e brutto; vivisezione, fisiologia palpitante, studio della
vita quale essa si mostra, senza rispetti umani e senza reticenze.
Chi scrive Nanà a Milano ormai non ammette in arte che il
realismo; giacchè egli segue il suo tempo e nelle cose dell'oggi vede
appunto la inesorabile verità, che fattasi iconoclasta, abbatte dovunque le
imagini della finzione romantica: il cattolicismo è distrutto dal libero
pensiero, la bibbia è annientata dalla scienza, la filosofia è sconfitta del
positivismo, la pittura dalla fotografia, la scultura dalla galvanoplastica, la
musica dall'aritmetica. Vedete persino sul palcoscenico le illusioni che
bastavano ai nonni come cedono il posto ai simulacri della realtà: ai
gabinetti e ai salotti dipinti a prospettive ed a scorci si sostituirono
dei gabinetti e dei salotti reali, per mezzo delle scene parapettate; alle
cascate d'acqua fatte, una volta, di tela d'argento girante sul ròtolo, si
sostituisce l'acqua vera, cadente dall'alto e spruzzante le gambe delle
ballerine... che magari non sono reali del tutto!
Se non che è noto che ci sono due modi molto diversi di fare del realismo:
c'è il realismo decente e c'è l'indecente. C'è il realismo decente nella forma,
indecente nella sostanza, e c'è il realismo decente tanto nell'una che
nell'altra. Tutta quanta la morale femminile della nostra società frolla e
senza convinzioni molto fisse, risiede ormai nella decenza. In questa
parola sta appunto anche l'avvenire della nuova scuola naturalista, tanto
osteggiata da chi non l'ha ancora capita, e tanto compromessa da chi nella
forma non ha saputo trovare il giusto mezzo fra la verità nuda e cruda e la
desiderata decenza.
Le trivialità, le bassezze, le turpitudini, le laidezze e le miserie umane - le
quali in passato furono lasciate indietro da tutti i romantici, come cose da
non svelarsi - devono essere portate in pubblico, chiarite, discusse,
sviscerate una buona volta, perchè servano di leva al rimedio di
ammaestramento, agli ingenui, di castigo e di flagello ai viziosi.
Tutto sta dunque a saperle svelare con decenza.
Emilio Zola, che è pur sempre decente nella
nellaforma ci presentò in Nanà una donna che nella sostanza non lo
poteva essere del certo. Puttana sbracata, rotta ad ogni turpitudine, in un
ambiente di cinismo e di depravazione, per conservarsi vera, e reale
doveva riuscire per forza molto indecente.
Ora se, partita da Parigi e capitata per caso a Milano sullo scorcio del
1869, la Nanà di Zola si fosse conservata tale e quale ce l'ha presentata il
romanziere francese, io dal canto mio non avrei fatta certamente la fatica
di ricominciarne la storia da lui lasciata a quel punto in sospeso.
Non l'avrei fatto, ancorchè avessi potuto pensare che per quanto essa fosse
rimasta la stessa sgualdrina, pure le differenze di ambiente, di influssi, di
contorni di conoscenze dovevano dar luogo ad altrettante differenze di
linee, di tinte, di chiaroscuri e di avvenimenti.
Ma Nanà giunta a Milano non era più nè poteva essere più la stessa donna
ch'ella era a Parigi. Io l'ho conosciuta nei pochi mesi che stette nella mia
città, l'ho studiata e ho trovato che il mutamento avvenuto in lei era cosa
degnissima di studio attento e profondo, e che il mondo milanese, che
s'aggirava intorno a lei sarebbe stato un vero peccato mortale se lo si fosse
trascurato e non si fosse pensato da alcuno a portarlo innanzi ai lettori
fotografato e caldo in una fisiologia di costumi contemporanei.
Quella cocotte francese, sfinge non egiziana
metteva tanta suddizione e pur tanta concupiscenza nel cuore di certi nostri
giovani i quali colle dame e colle crestaie concittadine si mostravano
audacissimi, e ha dato una tinta così speciale ai fatti, della vita milanese e
ai caratteri delle persone colle quali ebbe a che fare, nei pochi mesi di sua
residenza, che bisognerebbe essere proprio un balordo per non cavarne un
libro interessante.
In quanto a lei, chi avrebbe detto che nel nuovo ambiente milanese,
dovesse apparire assai diversa da quello che ce l'ha descritta e tramandata
lo Zola!
Nessuna donna forse ebbe più di Nanà le doti che si attribuiscono al
camaleonte; nessuna più di lei sapeva trasmutarsi da un giorno all'altro, e
da abbietta cortigiana diventar magari una signora rispettata e superba.
Ed ecco perchè a me è venuto il grillo di ripigliar da Zola istesso questa
donna stranissima, che riuscì a miei occhi un tipo unico di figlia di Eva del
nostro tempo, un problema di isterismo a freddo, una personificazione
dello spirito scacciapensieri, una sintesi di puttanesimo rapace, un'epopea:
di calcolato disinteresse, un campo aperto di capricci, di estri, di fantasie,
di voglie, di brame, di vanità, di ambizioni, di vaneggiamenti, di simpatie,
di antipatie, di libidini, di freddezze, di affetti, di passioni in continua
contraddizione con sè stessi; anzi in continua ribellione fra loro, un tipo di
avarizia,
un mostro di prodigalità, un ecatombe di toilettes, un entusiasta del
risparmiare, un apoteosi di poltroneria, un prodigio di attività, un iperbole
di egoismo, un miracolo di buon cuore, una iena pazza di ferocia,
un'incapace di veder soffrire una formica, una capace di ripetere con
Brillat Savarin che in una tal salsa avrebbe mangiato volentieri suo padre!
Un ultimo avvertimento, perchè io bramo sopratutto di essere sincero.
Qualche lettore, in questo mio nuovo studio della vita milanese
contemporanea, troverà delle scene che non gli giungeranno sconosciute.
Un episodio infatti di Nanà a Milano mi servì già a scrivere una
commedia che ebbe lieto successo sul teatro milanese. Alcuni altri
frammenti io pubblicai prima d'ora, in qualche giornale italiano e non
riusciranno nuovissimi a chi per caso li avesse già letti in que' periodici. Io
non saprei dir a questi signori se non che oggi li ritroveranno, se non
foss'altro, sotto la loro vera luce e al loro posto preciso.
Chi poi credesse di trovare in questo libro, un dramma giudiziario con
consimulazione di parto che levò rumore grandissimo in questi giorni, si
pulisca la bocca.
CLETTO ARRIGHI.
Milano, 20 giugno 1880.
I.
Nell'ottobre del 1866, moriva in Milano di pneumonite il vedovo conte
Guglielmo O'Stiary dopo una fiera malattia di cinque giorni. Lasciava un
milione al suo unico figlio Enrico, di passa vent'anni, col patto espresso nel
testamento, ch'egli non potesse andar in possesso assoluto e dispotico della
sostanza se non compiuti i ventiquattro, come portava la legge che vigeva
al tempo degli Austriaci.
In caso che l'erede avesse voluto fare opposizione al testamento il severo
babbo lo privava di tutto, e sostituiva nella eredità: il Sacro Cuore di
Gesù
GesùI titoli per diseredare suo figlio Enrico, secondo lui, non mancavano. Egli
era fuggito dal collegio dei Barnabiti, adolescente ancora, per correre a
combattere gli Austriaci con Garibaldi. Egli si mostrava irreligioso e
liberale. Egli sarebbe riuscito, senza alcun dubbio, prodigo e dissoluto.
Il conte Guglielmo O'Stiary discendeva da una famiglia irlandese molto
cattolica, stabilitasi a Milano nel secolo decimosesto.
Enrico O'Stiary ricevette la notizia della malattia mortale del babbo,
quando questi era già spirato. La campagna contro gli Austriaci era finita.
Chiese
ed ottenne il congedo e partì, sperando di rivedere ancor vivo l'autore de'
suoi giorni, che egli amava in cuor suo di grande e profondo affetto,
malgrado la di lui severità piuttosto unica che rara. Quando giunse a
Milano trovò che suo padre era già stato seppellito da una settimana.
E intanto l'esecutore testamentario, don Ignazio Martelli, di lui zio
materno, aveva già pensato in fretta ed in furia a praticare certe operazioni
e certe riduzioni nell'appartamento, nella cucina e nella scuderia, dalle
quali si riprometteva di aumentare il reddito del pupillo di una mezza
dozzina di mille lire all'anno. Il conte padre, anche dopo la morte della
contessa sua moglie, e la partenza di Enrico per il collegio, non aveva
mutati d'un pelo l'ordine e l'ampiezza dell'aristocratica magione. Ma ora?
Che cosa avrebbe dovuto farne l'Enrico di sedici stanze? "Troppa grazia a
sant'Antonio!", Fece dunque appiccar all'imposta del portone il suo bravo
cartello col da affittarsi al presente e dopo sei ore ebbe, il piacere di
vedere, come disse lui, bruciato via l'appartamento e invaso da
stranieri.
La creatura, che si dava maggiore affanno in palazzo, era la guardarobiera:
una vecchia che chiamavano la balia che aveva allattato il conte
Guglielmo e portato in braccio il contino. Oh il suo non era certo
l'affacendato ozio dei Ritratti Umani Con che amore la
buona donna mise in ordine il quartierino, che il tutore spilorcio aveva
lasciato al di lei caro Enrico! Con che cura gli preparò la biancheria e fece
rimetter le cortine alle finestre e gli fornì dell'occorrente la teletta, e
dispose qua e là nelle camere dei fiori appena colti.
- Le pare, marchese, ch'egli sia alloggiato come
un principino? - disse la signora Eugenia Martelli al marchese d'Arco,
uscendo insieme dalle stanze destinate al giovine ereditiero. - Per dire la
verità queste sono le camere migliori del vecchio appartamento. Che ne
dici tu Elisa?
La Elisa, una fanciulla di poco più che quindici anni, una rosa thea appena
sbucciata, una bellezzina molto distinta, con occhioni e denti da
sbalordire, rispose con una piccola smorfia, un umh! che voleva
come dire "per l'Enrico ci sarebbe voluto ben di più!"
- Io sono certo però, - disse il marchese d'Arco, - che l'Enrico avrà gran
dispiacere di vedere affittate così subito e a della gente ignota, le camere
dove tien raccolte le memorie della sua infanzia....
- Se sapesse quante volte ho detto anch'io questa cosa a mio marito! Non è
vero Elisa?
- Sì, certo; ma il babbo non vedeva che la necessità di cavare di più dal
palazzo.
- La casa de' suoi maggiori, - riprese con grande nobiltà il marchese d'Arco
- va tenuta da conto e il lasciarla invadere dal primo che capita è un
mancarle di riguardo.
- Che vuole marchese? Lei sa bene che mio marito non le ha mai capite
certe delicatezze.
- Come! - domandò questa volta ingenuamente l'Elisa. - Il babbo non ha
mai capite le delicatezze?
- Zitta Elisa - disse la madre stringendo, nel suo il braccio di sua figlia. Poi
di nuovo al marchese:
- Del resto l'Enrico sarà, come si dice, in famiglia. Tra il suo quartierino e
il nostro non c'è di mezzo che l'anticamera e questa sala in comune.
- E noi per far tutto questo tramestìo, - disse la Elisa mostrando un gran
dispiacere nella voce - abbiam dovuto cambiare alloggio anche noi e
andare verso il giardino.
- Povera ragazza, guarda mò, - fece ridendo il marchese d'Arco - dover
cambiare alloggio!
- E non abbiamo tenuta neppur una straccia di finestra verso strada.
- Ah capisco ora! Neppur una straccia di finestra verso strada!
- Stare sul Corso e non poter andare al balcone, la mi concederà marchese
che è una condanna.... Io non ho che il giardino da vedere.
- Ma il giardino ha anch'esso i suoi meriti! replicò il marchese sorridendo.
- Questa primavera vedrai a sbucciar i fiori, a spuntar l'erba, a fiorire i
tulipani.
- È vero, - sclamò la Elisa, - ma a me sarebbe piaciuto di più il poter
vedere fiorir le rose in giardino....
- E spuntar i tulipani sul Corso? - domandò ridendo il marchese.
E, quasi per farsi perdonare la facezia un po' ardita, soggiunse subito:
- Basta! Non vedo l'ora di abbracciarlo quel caro ragazzo!
- Oh marchese! - sclamò la fanciulla. - Ora non è più tanto un ragazzo. Ha
quasi ventun anni ora. Cinque più di me.
- È vero! Sono tre anni ormai ch'io non lo vedo più.
- E che ne dice marchese di quel barocco d'un testamento di suo padre?
domandò la signora Martelli.
- Che vuole mai che le dica, cara signora? Quel povero conte Guglielmo
era fatto così. Una testa debole, che non calcolava mai gli effetti delle sue
azioni; pur di assecondare i moti dell'animo dispotico e pieno di ghiribizzi
egli non badava a nulla.
- Ah, lei lo deve sapere, che fu tanto amico della povera contessa!
Il marchese mise un sospiro, e quasi per stornar l'attenzione da quella
frase, ripigliò:
- A che ora crede lei che potrà arrivare l'Enrico?
- Io dico che sta per arrivare fra mezz'ora - sclamò la fanciulla. - Lo sento
quì! - E posò la destra sul cuore.
- Ma zitto Elisa!
- La lasci dire. È così bella l'ingenuità a quindici anni.
- E quattro mesi! - sclamò la Elisa.
- Oh, ma non la creda poi tanto ingenua, sa? - fece ridendo la madre. - È un
capetto, mah!
- Senti Elisa? Tua madre dice che sei un capetto.... mah!
- Miracolo che questa volta non abbia aggiunto anche l'ameno!
Il marchese rideva.
- Dunque io ripasserò stasera, - soggiunse egli - e se l'Enrico arrivasse
prima, gli dica di venir subito da me a farsi vedere. Sans adieux E
tu Elisa ricordati di voler un po' di bene anche a questo povero vecchio che
te ne vuol tanto!
- Oh, anch'io, anch'io, caro marchese, - rispose con espansione sincera la
fanciulla.
- Ora andiamo a vestirci subito, - disse la madre quando il d'Arco fu uscito,
- che non abbiamo
tempo da perdere se non vogliamo saltare la messa.
La Elisa era un capetto davvero.
Un tipo di fanciulla più simpatica, più piccante, più piacente di lei non lo si
potrebbe imaginare facilmente.
Dove diamine la signora Eugenia ed il notaio Martelli fossero andati a
pescar tanto spirito, per dare vita a quella loro creatura, è un mistero! La
signora Eugenia era infatti una eccellente madre, una buonissima donnetta,
una moglie irriprovevole, ma sgraziatamente peccava assai nel fisico;
quanto al padre era sgraziato nel fisico e nel morale.
La Elisa appariva come la perfetta antitesi de' suoi genitori. Sua madre era
piuttosto piccola e tozza, Elisa era slanciata e svelta come un giunco
odorato. Sua madre era scarsa d'ingegno; sua figlia un genietto. Suo padre
era taccagno e di idee ristrette; la Elisa era una socialista spiegata senza
sapere di esserlo. Forse di lei s'avrebbe potuto dire, come della maggior
parte dei figli unici, ch'era un enfant gatè La mamma, le aveva
sempre voluto troppo bene, le aveva fatte buone le innumerevoli fantasie,
l'aveva sempre accontentata in ogni capriccio e baciucchiata troppo. Ma le
madri che amano assai non ci sentono da questo orecchio. Quanto non si è
detto contro il soverchio amore di certe madri? Ai fanciulli esse parlano
incessantemente e quasi esclusivamente del bel musino, del bel vestitino,
delle belle scarpette, e li baciano tutto il santo giorno con tali frenesie di
tenerezza, che spesso i bimbi ne scoppiano
in pianto. Cari e santi baci quei delle madri! Ma non pensano desse che, a
lungo andare, anche quei baci riescono fatali, giacchè stimolando senza
posa nei bimbi la delicata innervazione, sviluppano in essi una, per quanto
inavvertita, troppo precoce sensualità. Amorevole, ma fatale stupro
materno, che già rende colpevole l'adolescenza prima che essa abbia
cessato di esser innocente!
Le madri romane si guardavano bene dall'insegnare la voluttà del bacio
alle loro figliuoline. E quando alcuno lodava la bellezza d'una loro figlia in
faccia a lei stessa, quelle madri nobilissime usavano di metter la punta del
dito medio sulla lingua e di toccar con quella la guancia dell'adulata quasi
a purgarla col materno amore da un maleficio straniero.
La Elisa aveva tra le altre cose una voce che agiva voluttuosamente sulla
corda sensibile dell'udito. Nessuno ha mai ascoltato le arpe eolie, ma chi
ha sentita la voce di Elisa Martelli, giura che non la cambierebbe con
quella di un'arpa eolia.
E il sorriso?
S'ha un bel dire, ma dinanzi al realismo della bellezza e della gioventù
restano eterne e immutabili anche le ispirazioni romantiche, alle quali
fummo allevati. Elisa quando rideva, rideva tutta, come disse il Dossi, e
s'avrebbe detto che facesse una luce maggiore intorno a sè, giacchè, il di
lei sorriso alleandosi al nitor dei denti e lampeggiando nelle pozzette delle
guancie e raggiando fuori collo splendor degli occhi pareva davvero la
circondasse di una gioiosa aureola, che è luce appunto e delle più lucenti!
Queste doti, già s'intende, preziose per tutti erano
difetti per quella lesina di suo padre. Egli avrebbe amato tanto una figlia
belloccia sì... non dico! ma che avesse avuto il suo quietismo nel sangue,
che andasse in cucina a sorvegliar la cuoca, che facesse tutti i rimendi alla
biancheria e rivedesse i libretti della spesa. Ma non c'era verso, e la
mamma su questo la difendeva a spada tratta e qualche volta la si
permetteva di ricordare al marito una certa loro speranza, sorta si può dire
il giorno stesso della nascita della bambina e nutrita religiosamente in
famiglia:
- Pensa poi che la Elisa deve essere contessa e milionaria!
Era la frase sacramentale, che metteva ogni pace e ogni buon umore in
quella casa.
Il contino arrivò, come aveva presentito la Elisa, mezz'ora dopo, mentre le
donne erano a messa.
Montò quattro a quattro i gradini dello scalone, che non aveva riveduto da
circa tre anni e tirò il campanello all'uscio di casa sua.
Il servitore che venne ad aprirgli non lo conosceva punto.
- Chi cerca di grazia il signore?
- Il notaio Martelli è in casa? - domandò Enrico con un mesto sorriso.
- No signore, - rispose l'altro, - il signor cavaliere Martelli è uscito.
Enrico si fece conoscere. Entrò, andò difilato alla camera dove era morto
suo padre, e vi si rinchiuse. Poi mezz'ora dopo cogli occhi rossi di pianto,
si fece portar nascosto in una carrozza al cimitero per visitare il luogo
dov'era stato sepolto.
Di ritorno a casa Enrico trovò il notaio Martelli suo tutore, che lo aspettava
per abbracciarlo.
Prima che questi tornasse a casa dal cimitero, il notaio avendo udito dal
portiere, come il contino fosse arrivato, era salito frettoloso le scale, ed
entrato in anticamera:
- Dov'è dov'è questo ragazzo? - aveva sclamato, non pensando che il
ragazzo s'era fatto ormai un uomo di quasi ventun'anni.
- È andato al cimitero - gli rispose il servitore.
- Ah, povero figliuolo!... È vero! Bravo, bravo!
Così dicendo, attraversò l'anticamera ed entrò in uno studio attiguo, dove
era solito stare qualche ora del giorno a sbrigare le faccende della tutela.
- Dì un po' - ruppe a dir egli quando fu seduto allo scrittoio rivolto al
Leopoldo - sei stato dal Saulino?
- Sì, signor cavaliere.
- Cosa ti disse?
- Che verrà qui lui dopo pranzo.
- E dal Sala?
- Anche.
- E quello che cosa ti rispose?
- Mi disse che ora non ha voglia di comperare carrozze usate. Ma
stamattina è stato qui un signore a vederle in rimessa e ha fatto un'offerta.
- Quanto?
- Mille lire.
- Non c'è male. Si può cederle a questo prezzo, mi pare.
- La scusi signor cavaliere se metto il naso anch'io in questa materia. È
solo per avvertirla che lo steage è quasi nuovo, perchè l'ha fatto fare
l'anno scorso il signor conte e l'ha adoperato non più di otto volte in tutto
l'anno.
- Ebbene?
- Ebbene dico che si potrebbe tenerlo, ora che è arrivato il signor contino.
È un legno del buon genere.
- Che cosa? Buon genere? Bagattelle! Quest'è una parola inventata adesso.
A' miei tempi non si parlava punto del buon genere.
"Sicuro. Quando regnava Carlo V" pensò tra sè il Leopoldo.
- Io di carrozza non me ne intendo una maledetta - continuò il notaio - ma
se questo steage è quel demonio di un carrozzone coi sedili fin
sull'imperiale come una diligenza....
- Sì, sì, proprio quello!
- Allora ti dico addirittura di mettere da parte il pensiero, perchè a
trascinare quella macchina non ci vorranno meno di due cavalli....
- Come due! La dica pur quattro.
- Figuratevi! No, no, no, vendiamolo subito.
- Lei signor cavaliere vorrebbe forse che il signor contino tenesse meno di
quattro cavalli in scuderia?
- Ma che quattro, ma che tre, ma che due! - sclamò il notaio vivamente.
Adesso so che è di gran moda un legnettino leggero da un cavallo solo.
Tanto più per un giovinetto della sua età. Bagattelle, anche troppo!
- La mi scusi don Ignazio - disse il palafreniere con voce insinuante - ma
anche volendo tenere un cavallo solo da tiro ce ne vorrà sempre almeno
uno di cambio e uno da sella.
- Ma che cambio, ma che sella! - sclamò il notaio inviperito. - Il cambio è
perfettamente inutile, perchè se quell'altro fa il suo servizio bene, il cambio
resterebbe in stalla a mangiar fieno e biada a tradimento. E quanto a quello
da sella si può scusare con un cavallo a doppio uso.
"Bazzica!" pensò il Leopoldo. "Come il curato di Cilavegna!"
E non disse più nulla, giacchè cominciò a mulinare come qualmente per
rubare la biada ad un cavallo solo non gli sarebbe più convenuto di star in
quella casa,
- Dunque? - domandò il notaio.
- Ma ecco, se il signor cavaliere mi permette di parlare.
- Te lo permetto.
- Le faccio presente che se il cavallo a doppio uso si ammalasse....
- Oh, allora poi, bagattelle, si va un po' anche a piedi... pedibus
pedibuscalcantibus
pedibuscalcantibus"Ah sicuro!" pensava fra sè quello scorbellato di Leopoldo, "un bel paio
di scarpe nuove e avanti."
- Io sono bene andato a piedi tutta la mia vita! - riprese il notaio.
"E sì, che è un cavaliere!" pensava l'altro.
- Se poi il mio signor pupillo non volesse proprio degnarsi di andar a piedi
ci sono sempre dei buoni omnibus a dieci centesimi.
"Ma sì, guarda me! Non ci pensavo. Ci sono questi omnibus?
Adoperiamoli."
- Qualche volta ci vado anch'io in omnibus; non però quando non ho fretta,
perchè allora arrivo prima colle mie gambe.
- Lei è il padrone! - conchiuse Leopoldo. - Faccia lei.
- Sicuro che debbo far io - sclamò il notaio. - Anzi, ti avviso di non
mettergli in testa all'Enrico delle fisime inutili. L'economia è la madre di
tutte le virtù, e quando un solo cavallo può far il servizio di tre, non saprei
come possa venir in testa ad un cristiano di tenerne tre invece di un solo.
Questi cavalli a doppio uso ci sono o non ci sono? Saranno ben stati
inventati per qualche cosa, io credo? Adesso chiama la balia, che mi deve
dar la nota della spesa della guardaroba.
Chi era la balia?
Poco prima che il notaio arrivasse a casa, una vecchia sbacando fuori da
una scaletta interna, che metteva nelle cucine del palazzo, aveva sclamato
tutta intenerita:
- Oh, ch'io lo veda questo mio signor contino, ch'io lo stringa ancora una
volta al seno prima di morire.
Il palafreniere, che aveva condotto il padroncino nella camera del conte
padre, pose l'indice attraverso le labbra e additando alla balia la stanza
dove era entrato Enrico, aveva risposto:
- È là dentro e non vuol essere disturbato. Piange.
- Povero ragazzo! - sclamò la balia con amore. - Starò qui ad aspettarlo.
Così detto si adagiò, trasse di tasca la corona e cominciò a biascicare
orazioni.
Ma il palafreniere non le lasciò il tempo di finire il panem nostrum
quotidianum che le domandò:
- Voi balia che dovete esser vecchia di casa....
- Altro che vecchia di casa! - interruppe questa. - Io sono nata nel castello
dei conti O'Stiary, ed erano già sessantanove anni che ci stavo prima di
venir giù a Milano. Io ho allattato il povero conte Guglielmo che è morto
or ora; e sono stata la balia secca del contino Enrico.
- Tanto meglio! Io volevo domandarvi conto di questo signor marchese,
che è venuto un'ora fa a a vedere se il contino era arrivato.
- Il marchese d'Arco?
- Sicuro. Mi pare di aver capito ch'egli abbia un grande attacco pel
giovinetto che deve arrivare, e m'è passato per la testa, così per dire a dire,
che egli fosse stato l'amante della mamma.... Si sa bene!
La balia levò lentamente la testa canuta, con un fiero rimprovero negli
occhi:
- Dica, signor Leopoldo; la si ricordi che non è di moda in questa casa il
fare dei giudizii temerarii. La contessa Irene era una santa donna e il bene
che il signor marchese le voleva era come quello che noi altri cristiani
vogliamo alla Madonna.
- Tanto peggio per lui! - rispose cinicamente il palafreniere.
Leopoldo fece entrare la vecchia e don Ignazio stava per interrogarla,
quando s'intese il campanello dell'uscio d'ingresso e poco stante comparve
sulla soglia dello studio il giovinetto conte.
Vedendo la balia, la quale si era voltata al rumor dell'uscio che s'apriva,
Enrico le corse incontro, colle braccia tese e le saltò al collo.
- Oh Teresa, la mia buona Teresa, quanto tempo che non t'ho abbracciata!
Ma poi vedendo il suo tutore, che s'era levato dallo scrittoio e gli si
avvicinava colle braccia protese, si staccò dalla balia e andò con premura
verso di lui.
- Scusami, caro zio, se il mio primo saluto fu per la Teresa, che mi ha
veduto nascere e che mi ha portato tanto in braccio.
La balia si asciugava col lembo del grembiale i luciconi.
- È naturale, caro Enrico - disse il tutore - Guarda che l'hai perfino fatta
piangere di consolazione.
- La m'ha scusare - fece la balia, colla voce ancora fra le lagrime - ma non
avrei potuto far di meno, e ora posso morire contenta. Avevo tanta paura di
morire prima di poterla rivedere.
- Ma ho da sentir di peggio? - disse Enrico alla vecchia. - Dammi subito
del tu come mi hai sempre dato in castello.
- Ah caro lei, adesso è impossibile signor conte. Adesso lei è un uomo.
- No, no, non importa. Ti comando espressamente di trattarmi ancora come
pel passato.
Poi si volse al tutore.
- Ma sicuro che mi sei diventato un uomo! - sclamò questi, - tu mi mangi
la torta in capo ora. Bravo, bravo! Bene bene! E dimmi un poco. Hai già
vedute le mie donne?
- No, - rispose Enrico, - non mi ero ancora mosso dalla camera del povero
babbo.
- Sono andate a messa, - disse la balia. - La signorina Elisa non vede l'ora
di vederla,
aggiunse ella sottovoce, mentre il notaio s'era voltato.
- A proposito, - ripigliò questi - tu l'avrai già sentita la santa messa?
- La messa? Ma no, a dirti la verità. Sono arrivato di buon mattino, ho
viaggiato tutta notte... non saprei neanche dove avrei potuto averla sentita.
- Bene, bene, per questa volta...! Oh, dimmi un poco, tu forse non avrai
con te altri abiti che questi che hai indosso, non è vero? In ogni modo ti
abbisogna un vestito di lutto.
- Sicuro! Quando il colonnello mi disse che il babbo era moribondo e mi
lasciò partire, fu tale la mia fretta che non ho neppure fatta la valigia della
biancheria. Ora bisognerà provvedere subito a tutto, altrimenti non potrei
uscir di casa.
- Leopoldo, - disse il tutore al palafreniere, - andate ad avvisare il mio
sarto che venga qui subito.
- Il suo sarto? - domandò Leopoldo con ironia. - Il portinaio di casa...?
- Ma sì, ma sì, il mio sarto, - replicò don Ignazio, - ci vuol tanto? Andate.
Poi, rivolgendosi all'Enrico continuava:
- Non è certamente uno dei primi sarti di Milano, ma è bravino e mi è tanto
raccomandato dal preposto della parrocchia. E poi, è tanto discreto nei
prezzi. Vedi quest'abito? - Così dicendo voltava al contino le spalle per
mostrargli una palandra, verdolina sgualcita sui gomiti, che gli faceva delle
pieghe da tutte le parti. - Mi sta abbastanza bene, n'è vero? Ebbene,
indovina un po' quanto me lo ha messo fuori, compreso stoffa, fodere,
bottoni, guarnizioni, spedizioni, tutto insomma?
Enrico conosceva a un dipresso l'umore di suo
zio e non fu sorpreso da quella domanda. Si die' a ridere; però rispose:
- Caro il mio zio, non me ne intendo davvero.
- Ma perchè ridi? Sono cose molto più serie di quello che tu imagini. Me lo
ha fatto pagare ventinove franchi. E nota che l'ho già fatto voltare e
rivoltare.
Enrico era un po' sulle spine. Tutta questa roba gretta, spilorcia, sordida gli
faceva provare una specie di angoscia nervosa. S'intese il campanello.
- Saranno le mie donne, - disse il notaio. - Vedrai, vedrai anche la mia
Elisa che hai lasciata colle vesti al ginocchio, come si è fatta grande e
donna.
Enrico arrossì. Il nome di Elisa gli aveva dato un tuffo nel sangue.
Erano infatti la signora Eugenia Martelli e la Elisa che tornavano dalla
messa.
Enrico ed Elisa, primi cugini per parte della madre, erano cresciuti insieme
e si erano anche picchiati qualche garontolino giuocando a moscacieca
nelle anticamere dell'avito palazzo. Enrico quasi non la riconosceva più,
tanto s'era fatta grande, bella e vistosa uscendo dall'età ingrata.
I saluti, le condoglianze, le frasi scambiate fra di loro son tutte cose che il
lettore intelligente imagina da sè. Elisa negli occhi, nel sorriso, nel colorito
del viso, bello e innocente, mostrava una felicità così sincera e grande, che
non c'era da sbagliarsi. Povera fanciulla! Ella s'era avvezzata già da
qualche tempo a considerare
apertamente il contino come il suo amante, come il suo futuro sposo. Era
una cosa quasi convenuta in famiglia. Sua madre e la balia glielo
ripetevano spesso. La balia qualche volta, non ridendo, la chiamava
contessina. La mente dell'Elisa, per non dir ancora il suo cuore, era piena
dell'imagine di Enrico, bello, giovine, conte, simpatico, ricco. Perchè non
l'avrebbe essa desiderato per marito?
Del resto l'Elisa non ne sapeva nulla più in là!
Dopo una mezz'ora di condoglianze, di domande, di risposte, di progetti, di
spiegazioni la signora, Martelli fece all'Enrico l'ambasciata del marchese
d'Arco.
- Ci vado subito dal povero vecchio. Mi vuol sempre tanto bene?
- Oh sì, - disse la Elisa, - come tutti, del resto.
La madre diede a sua figlia uno sguardo significante.
Di lì a poco la signora Martelli domandò a suo marito se aveva pensato di
invitare l'Enrico a pranzo.
- C'è anche Aldo Rubieri, che desidera di conoscerlo.
- Non faceva però bisogno d'invitarlo, - rispose don Ignazio, - dove vuoi
che vada a pranzare oggi se non è con noi?
- Aldo Rubieri, il bravo scultore? - domandò Enrico.
- Lui! Io gli faccio tutti i suoi affari, - rispose il notaio.
- Oh! bravo, bravo, pranziamo insieme - aveva sclamato intanto l'Elisa
battendo le palme una contro l'altra.
Ma l'esplosione di gioia erasi troncata di botto perchè ella aveva incontrato
di nuovo lo sguardo severo di sua madre.
- Non vuoi proprio dunque imparare a dissimulare un poco i tuoi
sentimenti? - le diss'ella quando furono sole.
- Ma che cosa ho fatto poi? Non m'hai detto tu stessa qualche volta che
sono destinata ad essere la sua sposa?
- Certo - disse la madre - ma se vuoi che egli prenda molta stima di te, è
necessario....
- Ch'io finga di non volergli bene? - interruppe l'Elisa.
- Non dico questo.... Tu sei sempre estrema nelle tue frasi. E poi pensa che
c'è tempo. Egli non ha che ventun'anni. Figurati quanti ne devono passare
ancora prima ch'egli abbia l'età conveniente per sposarti.
- Ah, non troppo poi! - sclamò l'Elisa con un adorabile atto di sorpresa - io
ne ho quasi sedici, sai mamma, e fra quattro anni sarò già vecchia perchè
ne avrò venti.
- Oh! - sospirò la madre alzando gli occhi alla soffitta, - esse credono di
esser già vecchie a venti anni!
Un lungo colloquio ebbe luogo più tardi fra il marchese d'Arco e il giovine
conte, che era andato in quella stessa giornata a cercare di lui.
- Tu sai come ti ha trattato tuo padre? - gli
domandò il marchese fissando negli occhi il giovine con molta attenzione.
Enrico piegò leggermente il capo sul petto e rispose:
- Sì.
- E quali sono le tue intenzioni in proposito? - domandò il marchese con
una leggerissima emozione nella voce. Tu fra poco in faccia alla legge
sarai maggiorenne.
E il suo sguardo nelle pupille di Enrico raddoppiava d'intensità. Era
ansioso.
- Io voglio rispettare religiosamente la volontà di mio padre, - rispose il
giovane alzando la testa con molta naturalezza.
Il viso pallido del marchese, si illuminò; gli occhi gli si inumidirono.
Allungò le braccia e attirò al petto il giovine conte, che non sapeva
spiegarsi bene il perchè di tanta tenerezza.
A lui pareva una cosa tanto naturale quella di rispettare l'ultima volontà di
suo padre!
"Bisogna dire - pensò fra sè - che la cosa a Milano non sia creduta molto
facile."
Anche il tutore il giorno dopo abbordò la questione del testamento.
Don Ignazio, più ancora, del marchese, temeva che l'Enrico si ribellasse
alla protratta maggior età e volesse tentare la lite, la quale aveva
certamente assai probabilità di essere vinta, ma non la certezza. E
s'ingannava!
A lui pure l'Enrico dichiarò quello che il giorno prima aveva risposto al
marchese, intendere cioè di rispettare il testamento, quantunque fosse
persuaso che legalmente parlando quella clausola non avrebbe avuta una
sanzione!
Il cavaliere Martelli era fuori di sè per la gioia.
- Che bravo figliolo! Chi l'avrebbe detto! Che bravo figliolo! Allora
discorriamo un poco del tuo avvenire - soggiunse egli col suo miglior
sorriso.
Il ribollimento del suo dolore, fece scoppiar l'Enrico in nuovo pianto.
- Via Enrico - disse il tutore tra l'ammirazione e il compatimento - non
rammaricarti poi troppo colle tristi memorie. Tuo padre, come pure la tua
povera mamma, erano due degne e sante creature che ti stanno guardando
di lassù e che ti proteggeranno contro i pericoli della vita.
- Son qua, se lo crede necessario, - disse il giovinetto.
- Hai tu pensato qualche volta a quello che vorrai farne della tua vita?
cominciò a bruciapelo don Ignazio.
- Quello che vorrò farne della mia vita? - ripetè Enrico - -ma credo che
farò anch'io nè più nè meno di quello che fanno tutti gli altri.
- Gli altri, gli altri! - sclamò il tutore con una smorfia - chi sarebbero
secondo te questi altri?
Enrico fu un poco sorpreso di questa specie di interrogatorio, ma
dissimulando rispose:
- I miei amici d'infanzia, i giovani della mia età, i miei compagni di
collegio... non saprei io... quelli che conoscerò in società... per esempio,
mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Ferdinando Sappia che sono maggiori
di me, ma che mi volevano tanto bene, e Alfonso Sant'Albano, che veniva
sempre a trovarmi, con la sua mamma e con cui giuocavo... ti ricordi zio?
precisamente in questo salotto, prima di andar in collegio....
- Ascolta, caro il mio figliolo; questo già non è il momento di farti un
predicozzo sui cattivi compagni, però....
- Come! - interruppe Enrico - mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e
Santalbano sarebbero cattivi compagni?
- Non dico questo... non faccio il nome a nessuno io... parlo in generale. Ti
basti di sapere che acqua torbida non fa bel specchio. Qui a Milano ci sono
dei giovani, così detti del buon genere, che buttano via il tempo, la salute e
i quattrini in cavalli, in cene, in ball... in baldorie, in frascherie insomma, e
che so io.
- Io non ho davvero queste intenzioni - disse Enrico seriamente. - In
collegio mi hanno insegnato che cosa si deve fare per diventare un uomo
che possa far onore al proprio paese.
- Tu mi consoli, caro Enrico - sclamò con giubilo don Ignazio. - Mi piace
sentirti a parlare così dei Barnabiti!
Enrico sorrise.
- Dunque siamo intesi. Ora veniamo alla morale. Tu già non avrai più
nessun danaro di quello che ti ho spedito per fare il viaggio.
- Non solo non ne ho più di quello, ma siccome, fatto il conto all'ingrosso,
quello che tu mi hai mandato non sarebbe stato sufficiente per venire fino
a Milano....
- Come! come! Ti sbagli,
- Io non volevo farmi vedere a piangere e ho preso un cuppè tutto per me,
caro zio. Tu mi hai mandato il denaro misurato per viaggiare nei secondi
posti.
- Io viaggio sempre nei secondi.
- Io no; sempre nei primi. Mi feci dunque prestare duecento franchi da un
compagno a cui bisogna li rimandi subito.
- Cominciamo male! - disse il tutore grattandosi in capo. - Dunque non hai
più neppur un centesimo?
- Ma no, caro zio; l'ultima lira l'ho data al facchino, che portò le mie
valigie sul legno, tanto è vero che il cocchiere l'ha pagato la portinaia a cui
debbo un altro paio di franchi.
- Ma caro Enrico, dovevi sapere che non si dà un franco al facchino della
stazione.
- Non avevo altro. Non potevo farmi dar indietro il resto in spiccioli.
- Io ai facchini do sempre dieci centesimi e sono contentoni.
- Sarà benissimo.
- E poi che necessità di prendere un legno? C'è l'omnibus della stazione,
che passa qui davanti alla porta.
Enrico cominciava sul serio a inquietarsi.
- Ti dicevo dunque - continuava il tutore - che per metterti nella società
che conviene al tuo rango e alla tua educazione ci vuole un po' di denaro in
tasca.
- Lo credo io!
- Però, tu non devi aver bisogno di molto. Qui hai il tuo bell'appartamento
di sei camere. Hai la balia per la guardaroba e il palafreniere come
cameriere e per la scuderia. Colazione, pranzo e vestiario tutto pagato. È
un lusso asiatico. Veniamo dunque al concreto e fissiamo questa benedetta
cifra dei minuti piaceri, che è lo scoglio più difficile da sorpassare coi
pupilli. Quanto ti pare che
- È bello?
- Sì, è bellino, ma quello che più importa si è che costa poco. Sono quasi
certo di portarglielo via per un tozzo di pane.
- A chi di grazia?
- Ad un mio amico, che è uno dei primi sensali di zucchero e di cacao di
Milano. E nota che è a doppio uso.
- Chi, il sensale?
- No, il cavallo. Egli lo monta e lo attacca alla carrettella.
- Mi pare che sarà un po' difficile che lo possa montar io.
- Ma perchè? Il mio amico lo montava tutti i dopo pranzo sul bastione, e
bisognava vedere che brio. Adesso, povero diavolo, deve come aver
sofferto delle disgrazie nel cacao, e gli tocca di vendere il cavallo per
pagare i debiti.
- Ma è impossibile!
- Si può sapere il perchè?
- Caro zio, un cavallo che costa un tozzo di pane o è una gran rozza di
figura, oppure è tanto vizioso, che mi farà rompere l'osso del collo in meno
di quella.
- Tutt'altro invece. Vedi come sbagli - sclamò il tutore credendo aver
trovata una gran ragione in contrario. - Quel mio amico non si è mai rotto
l'osso del collo, quantunque siano già diciotto o vent'anni che lo monta.
Enrico scoppiò in una grande risata. Il tutore capì d'aver detta
senz'accorgersi una minchioneria.
- Venti, e tre di puledro, ventitre per lo meno. Tu dunque zio vorresti
darmi il cavallo dell'Apocalisse?
Sarebbe più vecchio di me. Se lo montassi mancherei di rispetto al Luogo
Pio Trivulzio!
- Bene, bene insomma, al cavallo ci penseremo più tardi, - disse don
Ignazio levandosi - Oggi siamo intesi; aspettami qui che ti porterò la prima
quindicina dei minuti piaceri.
- Cento franchi?
- Cento franchi.
- Basta! Io penso poi che se non mi basteranno tu zio non vorrai mostrarti
crudele verso di me.
- Crudele no, mio caro Enrico, ma neppur troppo corrente. Ricordati che
c'è un limite a tutto e che il mio dovere di tutore e di esecutore
testamentario è quello, non solo di conservarti intatta la sostanza, che tuo
padre morendo ha affidata alle mie cure, ma anche di aumentarla; perchè
devi pensare che, per uscire dalla minorità fissata da tuo padre nel
testamento, ti mancano ancora quasi quattro anni.
Con tale considerazione era terminato fra tutore e pupillo questo
memorabile dialogo, il quale doveva essere, per così dire, la pietra
fondamentale d'un edificio destinato a crollare e a cadere a terra in meno
appunto di quattro anni.
Enrico O'Stiary s'era dato a fantasticare anche lui sul proprio avvenire, e,
cosa non molto strana nella sua posizione, s'era sentito invaso, insieme a
un certo desiderio di gloria artistica, giacchè egli adorava, la pittura, da
una grande voglia di spendere, di brillare, di far la bella vita.
L'avvenire? L'avvenire, pensava lui, come quello della maggior parte dei
mortali, che non hanno una meta fissa e sicura o che non possedono la
forza d'animo che serve a raggiungerla, è in balìa della fortuna; poteva
dipendere dalla prima donna che avesse incontrata sul suo cammino, dalla
prima amicizia che avesse stretta al club, dal primo avvenimento che gli
fosse capitato sulle spalle.
Il tutore dal canto suo non aveva già fatto, senza saperlo, il primo passo
per riuscire alla di lui più deplorabile rovina finanziaria?
Negandogli i mezzi di vivere dignitosamente nella società del suo rango,
obbligandolo a far sicuramente dei debiti, fissandogli nella sua gretta
ignoranza del mondo, i duecento franchi al mese, non gli apriva forse dal
bel principio la strada al disastro?
Qualche volta c'è da pensare volentieri che i Turchi non abbiano così gran
torto di credere nel destino! La nostra sorte, la nostra felicità, la nostra vita
pur anche, non è forse continuamente in balìa del caso? Se il tal dei tali
fosse uscito dalla sua porta il tal giorno, del tale anno, soltanto cinque
minuti più tardi, avrebbe forse incontrata alla svolta della via quella
straniera, che lo colpì di botto, che si fermò a Milano per lui, ch'egli amò
come un pazzo, che lo rovinò miseramente e che lo spinse al suicidio? Se
quell'altro tal dei tali, invece di tirar dritto per un'altra via avesse dato
ascolto all'amico, che lo pregava di svoltare con lui a sinistra e di
accompagnarlo a casa, avrebbe forse trovato quei malandrini che lo
accopparono quella famosa notte per rubargli il portafogli e l'orologio? E
suo figlio, non orfano, sarebbe certo
cresciuto un galantuomo, mentre oggi sta a Procida condannato a vent'anni
di lavori forzati!
Il primo amico in cui s'imbattè il conte Enrico O'Stiary, lo stesso giorno
del suo arrivo a Milano, fu il Marchesino Ferdinando Sappia, che venne a
cercarlo in casa.
- Finalmente! Sai tu che sono ormai più di tre anni che non ci vediamo?
sclamò il Sappia contento di riabbracciare il suo giovine amico d'infanzia.
- Come ti vedo volentieri, - disse a sua volta Enrico con uguale espansione.
Qui il Sappia, vedendo che Enrico era ancora mezzo vestito da
garibaldino, gli domandò se non pensava a mutar d'abito e a uscir di casa.
- Certamente, - rispose Enrico, - sto aspettando che il sarto mi rechi il
vestito nero.
- E chi è mai di grazia il tuo sarto? - domandò il marchese, mentre
arrovesciava indietro sull'omero con ineffabile garbo la rivolta del suo
soprabito da mattino.
- A dirti il vero non lo so bene ancora; ma credo non debba essere gran
cosa perchè mi pare di aver udito, non ridere! che sia un portinaio.
- Un portinaio! - sclamò il Sappia, balzando in piedi come preso da vero
spavento. - Tu conte O'Stiary, discendente...
- Bene lascia stare la genealogia!...
- Vestito da un sarto portinaio come un diurnista del Municipio? Ma è un
tradimento, un disonore, un abbominio!
- Che importa? Tu sai che io sono un artista! Io non faccio conto di andar
attilato come te.
- Prandoni mio caro, - gridò il Sappia, continuando
colla intonazione semienfatica con cui aveva incominciato. - Fuori di
questo non c'è salute.
Il Sappia era un di que' giovani, che quando parlano non ascoltano che sè
stessi, e non rispondono mai direttamente all'interlocutore. Per essi
l'obiezione, l'affermazione e la negazione di quegli con cui stanno a
colloquio non esistono. Si capisce che essi non spezzano mai nella mente il
filo delle proprie idee; talchè la parte abbondantissima che essi mettono
nel dialogo finisce coll'essere un lungo soliloquio, nel quale non trova
posto neppur l'ombra del sentimento altrui.
- Che vuoi caro Nando - disse Enrico appena potè avere la parola - sono
arrivato oggi stesso dopo essere stato per molti anni nei padri barnabiti e
per molti mesi volontario in guerra. Sono ignorante come un pilastro di
queste cose. Da quest'oggi, se vuoi, io mi metto sotto la tua direzione.
Comincerò col licenziare il sarto portinaio.
- Il tuo tutore - ripigliò il Sappia - sarà un bravissimo, notaio, ma non può
avere pratica di mondo. Guai a te se io non arrivavo da Parigi.
- Ah sei stato a Parigi?
- Sono tornato l'altro giorno con Filippo Marliani che è fuggito via dalla
Nanà, perchè temeva di pigliare una potente cotta. Anzi l'aveva già
pigliata! Ma fu bravo e mi diede ascolto.
- Nanà? - domandò Enrico curioso come un fanciullo, udendo quel nome
muliebre esotico, e vedendo schiudersi con esso un inaspettato spiraglio
del mondo delizioso d'amore a cui sognava.
- Sì, un'attrice delle Varietès, una cocotte in gran voga... una
bellezza superlativa.
- Ah una cocotte! - ripetè quasi macchinalmente Enrico.
Il Sappia non fe' caso di quell'esclamazione e tirò via.
- Guai ti dico se io non giungevo in tempo. Chissà come ti conciavano. E
sopratutto non lasciarti abbindolare dalle stupide ragioni di chi ci dà del
leggiero e dell'effeminato, perchè spendiamo qualche migliaio di lire più di
loro nel vestirci, nel pettinarci, nell'andare eleganti. Mummie costoro! Il
vestirsi bene per noi ricchi e nobili è un dovere nè più nè meno di quello
del farci la barba tutti i giorni e del curvarci a raccogliere un ventaglio o
una pezzuola sfuggiti di mano a una signora.
Notisi che tutte queste cose, esposte dal Sappia con una grande volubilità,
non erano che teorie; giacchè, quanto a lui, se lo poteva appena appena,
schivava di curvarsi a terra per raccogliere il ventaglio di una signora.
Enrico cominciava ad ascoltare il Sappia con quel sorriso a mezza strada
fra l'ironia e la sazietà; un sorriso che voleva dire: sono anch'io
perfettamente del tuo avviso; non c'era bisogno che tu ti sfiatassi a dirmi
cose tanto note; sarebbe stato meglio che tu mi avessi risposto qualche
cosa di meglio intorno a quella Nanà....
Il Sappia, dopo un altro paio di tirate su quel gusto, trovando, che Enrico
era presso a poco della sua statura, lo invitò a scender nel brougham che
teneva alla porta per andar da Prandoni a comandar l'abito di lutto.
O'Stiary non se lo fece dir due volte e così uscirono insieme.
Quando furono seduti l'uno accanto all'altro nel legno, Enrico disse:
- Ora tu devi farmi un programma della mia vita. Come passi tu le ore
della tua giornata? Ti diverti o ti annoi a Milano? È bella davvero questa
vita milanese o c'è pericolo di stancarsene?
- Non è certo tutto oro quel che luce; - rispose questa volta il Sappia, che
trovava in quella domanda soddisfatto l'amor proprio. - Si stava meglio a
Parigi! Però con un poco di buona volontà e con molti danari....
"Ahi," pensò Enrico.
- La giornata la si può passare abbastanza bene anche qui senza studiare e
senza far della politica, come vorrebbero che facessimo noi giovani i
parrucconi e i gazzettieri utopisti, che ci rinfacciano continuamente il
dolce far niente. Povera gente! Essi non sanno che non c'è creatura la quale
abbia maggior da fare d'un uomo che non fa niente! E la ragione è chiara;
siccome la sola religione di costoro è l'interesse, siccome il solo idolo
ch'essi adorano è il danaro, così sapendo che in questo paese non si può
guadagnar danaro, che facendo l'avvocato o il notaio o il negoziante, essi
non vedono che queste professioni. Del resto tu sei dilettante di pittura e
questo basta già a darti il diploma di uomo che fa qualche cosa a questo
mondo.
- Tutto sta che io trovi il tempo di dipingere....
- Tu discendi da un'antica prosapia irlandese, ed è naturale che i tuoi istinti
siano più cavallereschi che artistici o letterarii. Ebbene quella tal genìa col
pretesto che a Milano nell'aristocrazia ci furono dei Verri, dei Beccaria, dei
Borromei, dei
Taverna, dei Litta, dei che so io, vorrebbero che tutti noi fossimo scenziati
e letterati e che invece di montare a cavallo, tirar di spada, far delle
scarrozzate, amar le belle donne, e divertirci a cena avessimo a studiar
tutto il giorno e tutta la notte. Non nego che la cosa in massima non sia
eccellente, ma più per tutti gli altri che per noi. Noi abbiamo il dovere di
non rubar il mestiere a chi lavora per vivere. Le tre sole carriere che ci
convengano sono quella delle armi, quella della diplomazia e quella della
chiesa. Ma se si può far a meno!... Capisci. Di diventar arcivescovo, per
esempio, io non mi sento la foia.
- Neppur io. Tu mi consoli - disse O'Stiary.
- Intanto per questa sera tu sei sequestrato - continuò il Sappia.
Comincerò col presentarti alla mia amorosa.
- Chi è?
- Una bella ragazza, che non ha altro difetto che una piccola cicatrice in
fronte. Le ho già parlato di te e desidera di conoscerti.
- Desidera di conoscermi? - sclamò Enrico ridendo. - Sono dunque
diventato già un personaggio in poche ore? Ma no, ti sono obbligato
riprese facendosi serio ad un tratto.
L'imagine casta e nobilissima della sua Elisa gli si era affacciata a un
tratto.
- Capisco - ripigliò - che con una signorina di questo genere sarei ancora
molto imbarazzato e temo di aver l'aria di un collegiale.
- Fidati di me. La è una casa deliziosa. Non perchè gliel'abbia montata io...
ma ella sa fare, parola d'onore. Sans gêne come lei, che in illo
tempore fu barabbina la sua parte. Dopo cinque minuti
ti parrà d'essere in casa tua. La si saluta, poi chi non ha voglia di farle la
corte non pensa più nemmeno che essa esista. Tu ti sdrai, fumi, parli, leggi,
ridi, sfogli degli albums e senti dire delle enormi sciocchezze e dei
calembours impossibili che sono anche quelli che fanno ridere di
più.
- E la ragazza è contenta che la si tratti così?
- Contentissima. L'abbiamo lanciata noi?
- Dimmi un po'.... E questa Nanà chi è?
- Ah Nanà è un prodigio! È una parigina puro sangue! Bella come una
leonessa, matta come una Baccante, calda, piena di spirito. Quel povero
Marliani, s'io non lo strappavo da lei, ci lasciava la sostanza, la salute e le
ossa.
- E tu? - domandò il conte.
- Oh, io non mi lascio pigliare!
Non appena, nel cervello del marchesino Sappia, fu entrata l'idea, che
parlando all'amico di quella gran cocotte di Parigi, il proprio
prestigio di uomo di mondo ne sarebbe ingrandito di cento palmi,
cominciò a lodare e a magnificare Nanà in tutti i sensi. Da sballone
d'ingegno, qual era, inventò su di lei cose inaudite e rare. Parlò delle di lei
bellezze, del suo treno di casa, delle sue scuderie, del suo modo di
ricevere, del suo appartamento. Cose tutte, tranne la prima, che egli non
aveva mai vedute, nè conosciute, che per bocca di Marliani.
- Imagina una testa - disse a Enrico - che avrebbe fatto delirare Tiepolo,
Giorgione e Tiziano insieme; una testa coi capelli color del pomo d'oro
pallido, quando è proprio d'oro, quel colore insomma che la scuola veneta
prediligeva; capelli che quando glieli scioglievi, andavano giù fino a terra
e la celavano
tutta intorno intorno, tanto ne era il profluvio. Imagina tutto ciò che v'ha di
più bianco e di splendido nei toni della carnagione, che, come puoi pensare
dal color dei capelli, è pari a neve, rosata insieme e calda, con dei riflessi
d'oro per la lanugine fulva che la ricopre. Imagina delle linee e delle curve
sode e belle come non le hanno mai imaginate neppure gli scultori greci,
che si crede abbiano dato il non plus ultra della formosità
femminile. Tutte queste bellezze di linee e di curve formano un vero
incantesimo, caro il mio Enrico. In quanto al morale imagina una buona
pasta di fanciulla, piena di cuore, di voglia di far all'amore, allegra,
spensierata, alla mano, una vera bambina di diciannove anni, ma che
conosce la scuola erotica come una parigina ch'ella è, e che sa mandarti in
paradiso o in inferno a tua posta; imagina tutto questo, e avrai una pallida
idea di quello che sia la Nanà di Parigi.
Enrico ascoltava il Sappia con quel lieve sorriso adolescente che vuol dire
un'infinità di cose gravi. In lui esprimeva anche quel non so qual pudore
giovanile, che serve a far vibrare più viva nella fantasia quasi vergine le
corde della curiosità voluttuosa.
Enrico, per conto proprio, avrebbe continuato a parlare tutto il giorno di
questa misteriosa e splendida Nanà.
- Chi è che vi ha presentati a lei? - domandò infatti con voce tenue, quasi
tentasse di non lasciar iscorgere al Sappia ch'egli si interessava
enormemente in quel soggetto.
A questa domanda il Sappia non rispose subito. Se egli avesse avuto voglia
di dire la verità, avrebbe
dovuto rispondere a Enrico che la Nanà, lui e Marliani, l'avevano
conosciuta da madama Tricon. Avrebbe dovuto raccontare molto
volgarmente, che la bella prima sera del loro arrivo a Parigi erano andati a
teatro, e avendo veduta figurare, in una rivista, quella stupenda creatura,
avevano domandato conto di lei, all'albergo. Che il cameriere aveva loro
insegnato di rivolgersi a madame Tricon dove, mediante una
trentina di luigi, avrebbero potuto fare la di lei conoscenza.
Fi donc
doncE avrebbe dovuto soggiungere, che la mattina dopo, da veri viaggiatori
meneghini e sfaccendati che in paese straniero non vedono che donne e
non pensano che alle donne, erano corsi, coi loro trenta luigi in tasca, da
madame Tricon proponendosi di tirare a sorte la primizia di Nanà.
Avrebbe dovuto soggiungere che madame Tricon si rallegrò
immensamente di vederli, e fece loro una festa spietata, quando s'accorse
che erano forestieri:
"Perchè, diceva essa, la Nanà è felice d'essere richiesta da stranieri. Dei
parigini essa non ne vuol più sapere. Sarebbe capace di morir di fame
ormai, piuttosto che venire da me, se io non la assicurassi che chi la cerca
non è francese. Voi siete spagnuoli, non è vero?
"Italiani - aveva risposto il Sappia."
E avrebbe dovuto ricordare che la Tricon, a quella notizia, aveva fatta una
piccola smorfia, punto lusinghiera pel suo paese, e aveva subito
domandato loro se tenevano in tasca i venticinque luigi necessarii; e che
alla loro affermativa aveva soggiunto:
"Debbo avvertirli però che ciascuno di loro due dovrà scegliere un giorno
diverso dall'altro, giacchè Nanà non acconsente mai di posare due volte
nella stessa giornata."
Il lettore che avesse bisogno di maggiori schiarimenti sopra codesta
madame Tricon non avrebbe che a scorrere la Nanà di Zola,
laddove egli accenna di questa signora:
"Zoe - la cameriera di Nanà - aveva veduta una ventina di volte madama
Tricon venir in casa e parlare qualche minuto misteriosamente colla
padrona; ma essa affettava di non conoscerla, e di ignorare completamente
quali fossero i rapporti che esistessero fra questa donna e le signorine che
pativano asciugaggine di tasche."
La povera - dico povera nel senso cristiano - la povera Nanà quando aveva
bisogno urgente di danaro ricorreva alla casa di madame Tricon.
"Va, va, ma fille! diceva essa fra sè - ne compte que sur toi.
Ton corps t'appartient, et il vaut mieux t'en servir que de subir un affront."
"Et sans même appeller Zoè elles s'habillait fievreusement pour courir
chez la Tricon. C'etait sa supréme ressource aux heures de gros embarras.
Trés demandée toujours sollicitée par la vielle dame... elle ètait sûre de
trouver là vincinq louis qui l'attendaient.
l'attendaient.Ma tutto ciò, che sarebbe stata la pura e nuda verità, il marchese Sappia
non poteva nè voleva più dirlo all'Enrico. Egli, per darsi del tono, si era già
compromesso; s'era slanciato a dir mille bugie e mille invenzioni sul conto
di Nanà. S'era ingolfato nelle regioni iperboliche di una splendida
galanteria.
Si guardò bene dunque di accennare neppur per ombra nè alla Tricon, nè ai
venticinque luigi necessari, nè ad altre simili bagatelle; e invece
impacchiuccò ad Enrico una risposta inventata come tutto il resto, e
continuò a parlargli di presentazioni fatte sul palcoscenico, anzi nel di lei
camerino, da un amico parigino, che aveva entratura nelle coulisses,
coulisses,poi di gite in campagna fatte insieme, e di serate al Mabille, e di cene, e di
orgie in cui non c'era la benchè minima ombra di vero, ma che a lui pareva
lo posassero in faccia ad Enrico su un piedestallo eccelso.
Ciò che v'era poi di più piccante ancora in tutto questo, ciò che costituiva
un fatto relativamente grave e ridicolo, si è che, lui, come lui, proprio lui,
precisamente lui, codesta Nanà non l'aveva proprio mai toccata neppure
colla punta del dito mignolo.
I due giovinetti naturalmente, là dalla Tricon, avevano tirato le buschette.
Se i lettori trovano questo fatto molto choquant non so che farci. E
d'altronde nel caso di Sappia e di Marliani tutti i lettori farebbero lo stesso.
La sorte aveva favorito il Marliani.
La Tricon allora aveva significato al Sappia, che egli avrebbe dovuto
rassegnarsi ad aspettar un altro giorno le grazie di Nanà, perchè quella
benedetta ragazza non avrebbe mai acconsentito a passar dalle braccia
dell'uno in quelli dell'altro.
Il Sappia, di malumore per questo sberleffo della fortuna, pure aveva
aspettata Nanà là nel salotto della Tricon, per vederla arrivare, e sentir da
lei quando fosse stata di comodo di concedergli il rendez vous
vousanche a lui. Essa era venuta infatti, tutta
bella, fresca e voluttuosa; ma quand'egli aveva tentato di farsi promettere
che il giorno dopo sarebbe ritornata per lui, Nanà aveva risposto:
"No, caro signore, domani no. Restate voi a Parigi?"
"Certamente, siamo arrivati ieri. Io ci starò finchè a voi piaccia di non
essere crudele con me."
"Allora vedremo, aveva risposto Nanà, la quale, come si sa, abborriva dal
cedere per danaro, e lo faceva soltanto nei giorni di grande arsura. - Vi farò
avvisare da madame Tricon, se vi piace. Ma non fatemi importunare
troppo dalla vecchia, perchè altrimenti non mi avrete mai più!"
Il Sappia ridendo si rassegnò ad aspettar il di lei capriccio. Aveva capito
che con quella creatura non era il caso di ottener di più, nè colla preghiera,
nè colle offerte.
Per venti giorni egli s'era recato ogni mattina a trovare la Tricon, la quale
dal canto suo andava un paio di volte la settimana a sollecitare la Nanà;
sempre invano. Marliani intanto, senza dir nulla all'amico, c'era riuscito
invece ad ottenere da lei un secondo rendez-vous, in tutt'altro
luogo, e le aveva mandato una bagattella di braccialetto da cinquemila
franchi, i quali se li era dovuti far mandar da Milano.
La Nanà aveva trovato il Marliani molto simpatico e non s'era fatta pregare
molto a concedergli una seconda visita. Quanto a lui, da buon amico,
aveva tentato di dissuadere Nanà a dar ascolto al Sappia. Essa non glielo
aveva promesso formalmente, ma glielo aveva lasciato sperare.
Invece un bel giorno la Tricon mandò un bigliettino al marchese in cui gli
significava che la
Nanà sarebbe venuta a casa sua quel giorno per lui, ma che aveva messo
per condizione il migliaio.
Il marchese, contentone, aveva messo nel suo portamonete il biglietto da
mille, e alle due ore era là tirato come uno stecco, ad aspettare la bella
donna. La sua frègola era al colmo. Il Marliani gli aveva raccontate cose
tali di Nanà che il marchesino ardeva, bruciava, e dopo un quarto d'ora
aveva già indosso l'agonia.
Passarono le due e mezzo, passarono le tre, le tre e un quarto e Nanà non
compariva. Madama Tricon si esibì di andar ella stessa a vedere che cosa
diamine fosse successo. Mezz'ora dopo tornò a contare che Nanà aveva
litigato con Satin, e che non sarebbe venuta; che l'aveva mandata al
diavolo lei, la sua casa, gli Italiani, il biglietto da mille e tutti quanti
insieme.
Il Sappia era dunque partito da Parigi senza poterla biblicamente
conoscere. E siccome aveva conservato pel Marliani in fondo al cuore un
po' di rabbietta, perchè egli potesse vantarsi d'averla trattata e lui no,
giunto in patria gli aveva voltato l'occhio, e dall'arrivo non s'erano più
ritrovati.
Quanto al Marliani aveva seguíto a malincuore il Sappia. Quella fatale
Nanà - quella cocotte da venticinque luigi - lo aveva ammaliato. Le
due o tre volte ch'essa s'era concessa a lui per riconoscenza del
braccialetto, gli ballavano nella fantasia una ridda di tali memori voluttà,
che capiva non l'avrebbero lasciato tranquillo per un bel pezzo.
La carrozza era giunta a casa di Sappia. Montati in camera, questi
intraprese la metamorfosi di Enrico, vestendolo di nero; poi andarono dal
cappellaio, poi dal Mosconi il calzolaio dei nobili, poi dal Prandoni.
Enrico tornò a casa all'ora del desinare e pranzò colla Elisa, la quale di
quando in quando, allorchè egli le sorrideva, alzava i suoi occhioni
innocenti e belli in viso al garibaldino, mentre due altri sguardi, tutt'altro
che indifferenti, andavano spesso a impetrare dalla vergine un amichevol
occhiata, ch'ella quel giorno si ostinava di non conceder loro.
Erano gli sguardi di un altro giovane invitato a pranzo, e che sedeva
accanto alla signora Eugenia, uno scultore, che si era fatto conoscere
favorevolmente nella Esposizione di quell'anno e che rispondeva al nome
di Aldo Rubieri.
Verso le otto e mezza il Sappia venne a riprendere Enrico per andar
insieme dalla Luisa, alla quale il marchesino passava seicento franchi al
mese. Essa abitava un elegante appartamento a primo piano in Via
Solferino.
Chi era la Luisa?
D'onde veniva?
Come aveva conosciuto il Sappia?
Nel nostro tempo, una ragazza di diciotto anni: come la Luisa, con discreto
ingegno, molta malizia, una gran dose di concupiscenza in corpo, e punto
quattrini, se fosse rimasta, quel che si dice,
una fanciulla onorata lo avrebbe dovuto indubbiamente ai propri genitori.
Non è certamente troppo difficile che anche da una famiglia di
galantuomini sorta fuori una ragazzaccia che si butti via; ma sarebbe un
vero miracolo se in una famiglia viziosa, disordinata e miserabile, ci fosse
una creatura che sapesse conservarsi onesta.
La Luisa era nata da un padre briccone e da una madre bigotta e quasi
cretina. Suo padre faceva un mestiere proibito dal codice, e, quel ch'è
peggio, lo faceva colla coscienza tranquilla di chi crede di non commettere
azione disonesta. "Un mestiere come un altro" diceva lui. Egli,
sostraro fallito, s'era acconciato a diventare fabbricatore di falso
coke, che vendeva a certi suoi antichi colleghi, ladri come lui, a non so
quanti centesimi il chilogrammo.
Il falso coke è composto di rottami di fabbrica, di vecchi mattoni, di
calcinacci e di ciottoli fatti cuocere nella pece e simulanti il coke vero. Per
certi venditori di carbone è comodissimo. Fa comparir un quintale di
combustibile, ciò che, in sostanza, non è più di ottanta chilogrammi. Essi
spacciano alle loro pratiche quattro quinti di coke e un quinto di falso coke
fabbricato dal babbo della Luisa, e rubano, con un peso perfetto, il quinto
sulla differenza. A Parigi questi e simili truffatori sono colti e pagano delle
buone multe. A Milano finora nessuno ci ha mai badato, e le stufe a coke
milanesi son tutte piene di mattoni e di calcinacci. I primi col dileguarsi
della pece che li ricopre, diventano rossi dalla vergogna, i secondi bianchi
dalla paura.
Prima che giungesse per la Luisa l'età dei desiderî malfrenati e prima che il
mal esempio paterno entrasse a guastarne l'indole, già discretamente
perversa, la Luisa era un ciuffetto, ma non dava a pensare che sarebbe
diventata la birba che diventò. Ella aveva qualche istinto buono; tant'è vero
che aveva cominciato fin dai nove anni e senza addarsene, a trovarsi in
flagrante contrasto con suo padre per causa di probità.
Una sera - ell'aveva appunto nove anni, e andava come piccina a
scuola di stiratora - stavano raccolti nella lurida stanzaccia, che serviva di
covile a tutti e tre, e il padre si mostrava lieto più del solito.
- Che hai Gana? - domandò la madre.
- Ho tirato su un bischero al prezzo - rispose il marito fregandosi le mani
lorde.
- Che prezzo?
- Al mio uso carbone. Oggi ne ho venduta una partita a dieci centesimi al
quintale più del solito. Ah, fu una gran bella invenzione la mia!
- Babbo! - fece la Luisa.
- Che vuoi, pettegola?
- È vero che il tuo carbone fa peso ma non fa caldo?
- Chi te l'ha detto, stupida marmotta, chi te l'ha detto? - gridò il Gana
arrovvellato. - Quando i mattoni sono roventi fanno caldo anch'essi. Chi te
l'ha detto?
- Me l'ha detto la maestra - rispose la piccina.
- Dirai alla tua maestra che la vada a pigliar....
La frase, per quanto vera, non può essere ripetuta.
Nessuna teoria al mondo potrà fare mai, che essa sia per diventare
artisticamente e umanamente presentabile.
Ma la Luisa ebbe allora il coraggio di replicar un'idea sentita da sua madre.
- Anche la mamma dice, che questo è un rubare alla povera gente.
Non l'avesse mai detto!
Il Gana prese un bicchiere sulla tavola, e lo scagliò contro la bimba. Il
bicchiere si spezzò sulla di lei fronte; uno zampillo di sangue spicciò da un
arteria e andò a bagnar la faccia del feritore, che ne restò sconciamente
intrisa.
La madre svenne di spavento.
Questo era stato il primo grave strapazzo, ma non l'ultimo. Quella bestia di
un fabbricatore di coke batteva a sangue la Luisa tutte le volte che sentiva
di aver torto. Così, imparando da suo padre, già a quattordici anni ella
avrebbe potuto aspirare alla cerchia dove Dante condannò i violenti.
Di lì a poco la Luisa s'era già concessa per semplice curiosità, senza lotta e
senza amore, al primo scapestrato, che le aveva offerto un anellino e una
cena al veglione. Costui veniva spesso dalla maestra stiratora a
raccomandarle di dar l'amido più denso o meno azzurrino ai manichini e ai
solini da collo. Un giorno regalò alla Luisa uno spillone d'acciaio in forma
di stiletto per fermare il profluviante volume de' suoi capegli castagni. La
Luisa aveva usato di quello stiletto per ferire malamente una compagna, di
scuola, spintavi da subitaneo furore di gelosa picca. L'educazione paterna
portava già i suoi frutti cruenti. Quella ferita, fatta in corpo scrofoloso e
affetto da lue ereditaria, aveva tratto
al sepolcro quella misera compagna, e la Luisa era stata condannata a due
anni di carcere in grazia dell'età adolescente e della nessuna
premeditazione.
In carcere essa aveva compiuta la sua educazione di mariuola e quando ne
uscì, ell'era in tutto il rigor del termine, una birba sconsacrata.
Immaginatevi ora una fanciulla di diciasette anni bella, poltrona, lasciva,
scorbellata, che esce di prigione e che non vuole nè può tornare in casa
paterna, dove non è rimasto che un babbo, ancora più briccone, più
scioperato e più lascivo di lei. Sua madre, nel frattempo era morta; le
anime buone, dicevano di crepacuore, le sue più intime amiche dicevano di
catarro.
Dal carcere, finita la pena, alla Luisa era toccato di andar difilato alla
Questura; e più precisamente a quella sezione dell'ufficio, che provvede
alla sanità pubblica e che ha l'incarico di sorvegliare la condotta delle
fanciulle, che non avendo di che vivere, non pensano a mettersi un ditale
sul pollice e un ago fra le dita. Là le venne domandato naturalmente, che
cosa intendesse di fare della sua vita e in qual modo contasse provvedere
alla propria esistenza?
- Me lo dicano loro! - rispose la Luisa. - Io non lo so.
- Noi non possiamo dir niente - rispose il delegato con un sorriso
eloquente. - Noi siamo qui per sentire e non per insegnare. Non facciamo il
maestro di scuola noi. Bisognerebbe però che prima
di tutto tu ti trovassi un qualche galantuomo che venisse qui a rispondere
per te. Allora saresti fuori immediatamente da tutti i fastidî.
"Bravo - pensò la scorbellata - vuole dire ch'io mi faccia mantenere."
- Ma dove vado a pescarlo, così sui due piedi, un galantuomo che voglia
rispondere per una povera tosa che esce di prigione?
- Prima di entrarci in prigione un amante lo avevi pure! - disse il delegato.
- Ma ora non c'è più. Ha pensato bene di buttarsi nel tombone di San
Marco, perchè era troppo contento d'esser venuto al mondo.
- Cerca qualcun altro allora.
- A questo c'avevo già pensato anch' io - riprese la Luisa - ma intanto,
come faccio a vivere?
- Ti sentiresti di poter tornare una buona figliola?
- In che modo buona figliola?
- Mettendoti ancora a lavorare!
- Io sì - rispose la Luisa, mentendo; giacchè nel suo interno era g'ià
scoppiato invece un no risoluto e indiscutibile - Ma dov'è che potrei trovar
da lavorare? Se me lo procurano loro lo piglio, se no, non saprei.
- T'ho già detto, cara mia, che noi non facciamo di questi uffici. Non eri tu
prima da una stiratora?
- Oh, come lo sanno loro?
- Noi si sa tutto. Tu eri già sul nostro libro prima di andar in prigione. Tu
frequentavi le sale da ballo e qualche altro luogo anche peggio. Non è
vero?
"Ho capito" - pensò fra sè la Luisa.
- Va a vedere se la tua antica maestra la ti volesse ripigliare. È una buona
donna.
- Io no, vede, e lei? Mi canzona? Dopo quello che è accaduto là in quella
stanza?
L'imagine della ferita, del sangue, delle grida e di tutto il trambusto ch'ella
aveva suscitato il fatal giorno, le si affacciò con brusco assalto e impallidì.
Il delegato capì e non insistette.
- Vedi che cosa vuol dire a fare delle brutte azioni?
- Ora quel che è stato è stato; la brutta azione me l'hanno anche fatta
pagare carne salata, me l'hanno fatta.
- Ricordati che sarai tenuta d'occhio dalle guardie.
- Questo lo so senza che me lo dica. Se non ha altri moccoli, perch'io
m'aiuti, posso fallare a morir di fame.
- Cercati lavoro e non andar in volta di sera e ben poco anche di giorno.
Capisci?
- Già, e il lavoro verrà da sè stesso a cercarmi a casa mia, n'è vero, il
lavoro? E intanto come farò a vivere?
- Questo ti riguarda, Arràngiati.
Arràngiati.La Luisa continuava a far l'innocentina.
- Cosa vuol dire arràngiati?
arràngiati?- Non so nulla. Ma ricordati di non lasciarti trovar sola a scopar la strada,
specialmente dopo il tramonto, se no le guardie ti arresteranno e ti
condurranno qui da me.
- Me l'ha già detto e ripetuto tre volte a quest'ora.
E nella sua testa la Luisa aveva cominciato a mulinare al mezzo di far
cascare il delegato in
una frase scandalosa. Ella si sentiva in confuso, una gran voglia di far
risaltare la così detta immoralità nella bocca di quell'impiegato dei
Governo. Voleva che fosse proprio lui a dirle di pensare a vendersi senza
tanti scrupoli, e a fare la sgualdrina.
- Io le torno a domandare chi è intanto che mi darà da mangiare?
- Oh! - scoppiò finalmente a dire il delegato che non sospettando non stava
in guardia, ed era anche un po' ammaliato dal bel viso di lei - credi tu che
io sia un imbecille, da venir qui a farmi la bambina, dopo essere stata due
anni in prigione? Chi t'ha a dar da mangiare? Ma, il primo messere che
abbia due occhi in capo, dieci lire al giorno da spendere... sacrr... - e qui
giù una specie di bestemmia da regio impiegato - e a cui piaccia il bel
sesso. E quando il messere sarà deciso a fare sicurtà per te, conducilo qui
che io ti cancellerò subito dal libro.
- Ora sono soddisfatta - sclamò la Luisa che c'era riuscita. - Basta così!
Il delegato, che la guardava con compiacenza, s'accorse allora dal sorriso
maligno di lei, ch'ella era persuasa d'aver riportata su di lui una piccola
vittoria.
Essa c'era riuscita!
E infatti pensava lei a un dipresso: "È il direttore d'una sezione di
Questura, è il rappresentante della morale pubblica, è l'ufficiale del
governo italiano che m'ha detto di andar alla perdizione. Io farò il mestiere
per obbedire al commissario. Se fosse altrimenti, egli penserebbe piuttosto
a procurarmi del lavoro. Egli mi lascia in balìa di me
stessa, e sa pure che io di lavoro nè posso, nè voglio trovarne, mentre egli
sa che di messeri, anche senza il suo parere, ne troverò finchè sarò stufa."
La Luisa, uscita di là, si mise dunque in cammino per obbedire al delegato.
Essa dava ascolto alla legge, essa si uniformava ai regolamenti di
Questura: Non caste sed caute Così che, se fosse anche stato il caso
di dover fare il brutto mestiere contro voglia e contro coscienza - ciò che
non era - la si sarebbe trovata come si dice colle spalle al muro. Se non che
la coscienza e la voce dell'onore nella Luisa era un bel pezzo che tacevano.
Anch'essa, come Nanà, quantunque in un grado molto più volgare e più
perverso, non sentiva più in corpo che tre grandi inclinazioni molto serie e
molto spiccate: quella di non lavorare, quella di far all'amore e quella di
non morir di fame.
E, quanto alla terza, via! non si saprebbe davvero da qual parte farsi per
dare tutto il torto a lei sola. Il diritto non le può essere contestato!
Non aveva mossi un centinaio di passi fuor dall'ufficio di Sanità, eh' ella
s'accorse d'essere pedinata. Non sapeva bene se erano due o tre, perchè
non li vedeva e non si voltò indietro; ma se li sentiva, come per intuizione,
nella schiena.
Si fermò a guardare in una vetrina di modista per lasciarli passare e sapere
almeno se erano gobbi o sciancati, giovani o vecchi. E volgendo il viso per
guardarli, passati che furono, scorse dal canto della via, spuntare una
donna, un'antica conoscenza,
una certa sôra Marianna, la quale teneva sotto il braccio un enorme
fardello e veniva un po' barcollando verso di lei, col sorriso che dava a
vedere come l'avesse già ravvisata da lungi.
Quando le fu d'accosto:
- Centini mundi - sclamò questa; la era una sua esclamazione
particolare. - Finalmente che la possiam rivedere, la possiamo, questa
nostra bellezza! Dove diamine la è stata tutto questo tempo?
Sapeva la vecchia che la Luisa era appena uscita di prigione? Le aveva
fatta la domanda con malizia e per umiliarla, oppure non ne sapeva nulla?
La Luisa, a buon conto, fece la prima supposizione, e rispose non
arrossendo e con una specie di impertinenza:
- Sono stata a Parigi! E lei, dove va con quel fagotto?
- Eh, sa bene! Le solite miserie. Vado a mettere in collegio un po' di roba,
perchè è bene che impari anche lei a stare al mondo.
In lingua il bisticcio della Marianna non regge; in dialetto fece il suo
immancabile effetto, e la Luisa ne sorrise malinconicamente.
In dialetto, monte e mondo hanno lo stesso suono.
- Anche lei! - disse la fanciulla. - Non c'è dunque che miseria a Milano?
- Che vuole, cara Luisa! E lei?
- Io? Io, come la mi vede, non so oggi come pranzare.
- Possibile! - sclamò la signora Marianna coll'accento incredulo. - Una
bella tosa pari sua? Centini mundi S'io fossi in lei, vorrei domandar
se Milano è da vendere. Lei non ha a far altro che metter giù il suo bravo
grembiale e star lì a veder
i merli a fioccarvi dentro colle mani piene di bigliettoni bianchi, rossi e
verdi.
- Me lo disse poc'anzi anche il...
Voleva dire il delegato, ma troncò la frase.
La vecchia però aveva già mangiata la foglia.
- Oh, diamine! Le toccò di andar laggiù?
La Luisa si morse le labbra. Pel gusto di ponzare la sua piccola idea di
ribellione ironica contro le incumbenze del delegato e contro la morale
pubblica, essa aveva svelato il brutto segreto.
- M'ha mandato a chiamare per sapere come faccio a vivere dopo il mio
ritorno da Parigi, perchè ha saputo che vivo sola.
- Io ne avrei uno che sarebbe un portento per lei - disse la vecchia
strizzando l'occhiolino.
- Di che cosa? - domandò la Luisa fingendo di non capire.
- Un messere, centini mundi Chi vuol che sia?
- Chi è desso?
- È un banchiere.
- Giovane?
- Ecco - disse la Marianna - per giovine non è giovine di primo pelo, ma
però è benissimo conservato, e ricco.
- Quanti anni avrà, insomma?
- Io non gli darei più di sessant'anni o sessantadue.
- Oh, che strega! - sclamò la Luisa, scoppiando a ridere. - Mi parla di
primo pelo! Non è nè di primo, nè di secondo!
- È meglio anzi che sia un uomo posato... un uomo che ha già fatta la sua
carovana.
- Sì, sì, non dico, ma quanto al primo pelo... màghero!
màghero!- È capace di farle una posizione.
- Crede lei che vorrebbe rispondere per me là da quel caro direttore?
- Questo poi non lo so, perchè è ammogliato.
- Anche ammogliato! - sclamò la Luisa. Poi riprese: - Meglio allora!
- Sicuro che è meglio. Dà minor fastidio. Lo si può tener in gambe,
comprometterlo, levargliene quanti si vuole. E poi si è più libere di tenersi
il candelliere e il capriccio; si ha sempre il coltello per il....
- Bene, bene, queste cose le penso anch'io - interruppe la Luisa un po'
duramente. Quella benedetta parola di coltello, poco o molto, la faceva
sempre trasalire, anche quando era pronunciata in una figura rettorica.
- Dove si potrebbe vederlo questo banchiere di... terzo pelo?
- In casa mia, se vuole.
- Lei sta ancora laggiù?
- Sì, cara.
- E quando?
- Magari domani. Il tempo di avvisarlo.
- A che ora?
- A mezzogiorno.
- Bene, domani a mezzogiorno sarò da lei.
E si lasciarono.
La Luisa si spiccò di là, e vide sul canto della via che uno de' suoi
pedinatori stava ad aspettarla.
Quand'essa gli passò dinanzi, egli le fe' tanto di cappello. La Luisa rispose
con un modesto chinar
del capo. L'altro, che era appunto il marchesino Sappia, le si mise accanto.
- Si potrebbe aver l'onore di sapere, bellissima creatura, dove siete diretta?
- Lei è ben curioso!
- Io faccio come il dottor Faust con Margherita, e vi domando il permesso
di accompagnarvi a casa.
- Non posso darglielo - rispose la Luisa, che, piena di appetito, aveva già
messo l'occhio sul suo moscone per farsi pagare da pranzo.
- Perchè non può darmelo?
- Se io le ripetessi che lei è assolutamente troppo curioso, che cosa mi
risponderebbe?
- Che la curiosità è la madre della voglia di sapere.
- Lei è forse uno di quelli che scrivono sui giornali?
- No, no - rispose il Sappia ridendo. - Ma perchè questa domanda?
- Perchè lei mi parla molto difficile. Che so io? Poc'anzi era il dottor Faust
e Margherita, e ora è la madre della voglia....
- Bene, parlerò più facile. Come avete nome?
- Ho nome... ho nome Aquilina. Ma non permetto che mi si dia del voi.
- Vi darò del lei. Aquilina, bel nome! Nome superbo, e portato da una
donna adorabile.
- Me l'hanno detto degli altri.
- E se io desiderassi di fare la sua conoscenza, bellissima Aquilina, me ne
darebbe lei il permesso?
- Mi par bene che stiamo facendola....
- Sì, ma io dico... una conoscenza un po' più intima... a quattrocchi.
- Non si rifiuta mai la conoscenza d'una persona educata come lei.
- In casa sua dunque non ci si può venir davvero?
- Per ora no. In seguito non dico. Ora io vado a pranzo. Quest'oggi si
potrebbe tutt'al più trovarsi alla stessa tavola a pranzo.
- E se io la invitassi a pranzare con me fuori di Porta?
- Dove, per esempio?
- Non saprei.... All'Isola Bella.
- No - rispose la Luisa - all'Isola Bella c'è troppa gente; piuttosto al
Giardino d'Italia.
- Allora ci possiamo andar subito. Sono ormai le quattro e mezza.
- Come vuole.
Il Sappia fece un gesto ad un cocchiere di vettura pubblica, che passava col
legno vuoto. Vi montarono, e via pel Giardino d'Italia.
Come si vede, la Luisa obbediva largamente al delegato. Essa coglieva due
piccioni ad un favo.
Aveva trovato un probabile messere e aveva azzeccato il pranzo di quel
giorno.
- Sapete, bella Aquilina - disse il Sappia quando fu seduto a tavola colla
Luisa al Giardino d'Italia - che voi assomigliate in un modo spaventevole
ad un'amante che io ho avuto or ora a Parigi?
- Davvero? Ciò mi rende orgogliosa!
- Naturalmente voi non siete ancora a quel punto....
- Oh, lo credo!
- Quella era una cocotte sì, ma una cocotte gran dama.
- Ho capito!
- Ha nome Teresa, ma tutti a Parigi la chiamano Nanà. Non ha meno di
trentamila franchi al mese, ed è sempre in miseria.
- Vuol dire che li spendeva.
- Sicuro!
- Ah, in questo poi non vorrei assomigliarle.
- Vediamo, Aquilina. Voi mi piacete in modo enorme. Ci sarebbe speranza
di intenderci? Io non v'ho ancora detto il mio nome; sono il marchese
Sappia. Io vorrei fare di voi una seconda Nanà.
- Che non spende trentamila franchi al mese, però.
- Ah, naturale! Tutto dev'essere in proporzione. Milano fa trecento mila
abitanti coi Corpi Santi, Parigi ne fa un milione e mezzo; cinque volte
tanto. A Milano, una fanciulla come voi può col quinto di trentamila
franchi al mese, che sono sei mila far la signora come Nanà a Parigi.
- Questo poi non credo. Sei mila franchi sono una miseria anche a Milano.
- Ah, ah! Avete delle idee in grande, voi.
- Voi ci tenete ad essere solo?
- Perchè questa domanda?
- Ponete che io sia già impegnata con un vecchio, che non vi potrebbe dare
ombra di gelosia. Ponete che io sia qui con voi perchè mi siete simpatico....
- Grazie, Aquilina. Non ne dubitavo.
- Io so bene che voi non vorreste che io fossi vostra amante gratis,
gratis,n'è vero?
- Neppur per sogno.
- Se voi non avete difficoltà che il vecchio continui la mia relazione, voi
diventerete il mio amante di cuore. Mi farete qualche regalo e tutto sarà
detto.
- Accettato.
- Allora vi dirò che io non mi chiamo Aquilina, ma mi chiamo Luisa.
E così era avvenuto il contratto del loro matrimonio morganatico.
Il marchesino uscì dalla casa di Luisa verso le nove del mattino del giorno
dopo. A mezzodì in punto, la fanciulla montava le scale della Marianna.
Il vecchio banchiere non si fece aspettare; dopo mezz'ora di conversazione,
trovò che la Luisa era la creatura che pareva creata apposta pe' suoi fini
reconditi; le fece delle discrete proposte, ed essa le accettò subito anche
quelle, senza farsi pregare: giacchè l'appetito non c'era verso, che non
ritornasse ogni mattina e ogni sera a persuaderla che bisognava dar ascolto
al delegato. Così in breve la scarcerata di fresco fu accasata come una
signora, in mezzo a mobili propri, con due assegni mensili, che uniti ne
facevano uno più grosso di quello d'un consigliere di Cassazione e che le
venivano dal Sappia e dal banchiere, il primo dei quali era l'amante en
entitre l'altro lo spunta-pesi segreto.
Poco prima che Enrico O'Stiary giungesse a Milano, essa aveva finto di
piantare in asso il vecchio banchiere, per farsi maggior merito presso il suo
amante scoperto. Ma in fatti essa era legata al
vecchio peggio di prima e da ben altri legami che non fossero i legami
dell'amore.
- Buona sera, Nando - diss'ella al Sappia, che era entrato con Enrico
O'Stiary.
E intanto aveva diretta un'occhiata curiosa all'amico che stava dietro di lui
un po' in disparte.
- Buona sera, Gigia - rispose il marchesino, e volgendosi tosto verso il
conte, ripigliò:
- T'ho condotto il mio giovine amico, il conte O'Stiary, che farà in tua casa
i primi passi al mal costume.
Enrico strinse la mano che la Luisa gli porse; e l'indispensabile vermiglio,
che accompagna quasi sempre il primo passo al malcostume, si pinse sulla
fronte del giovinetto.
La Luisa lo invitò a sederle accanto.
- Spero bene - cominciò dessa - che Nando le avrà detto, che qui da me
sono banditi i complimenti. Dunque la metta giù il suo cappello, giacchè il
mio motto è sans gêne Ma quasi mi scordavo di presentare a questi
signori; il signor Silvestro Bonaventuri aiutante di... e il signor Paganino di
Genova.
I due nominati s'inchinarono. O'Stiary fece altrettanto.
- Lei è uscito da poco dal collegio, non è vero?
- Ora torna dal campo.
- Dal campo!... A proposito - disse levandosi; ma disse quell'a proposito
precisamente a sproposito, giacchè ciò che stava per metter fuori non
c'entrava per nulla col campo - Cominciate a fare anche
voi altri il vostro dovere qui su questa lista. Vi avviso che non voglio
rovinarvi però. Non accetto meno di venti franchi, ma non accetto neppure
più di cento franchi.
- Così dicendo, la Luisa aveva levato da un tavolino una borsa, una lista,
ed un lapis che presentò colla bocca aperta al Bonaventuri.
- Che cos'è? - domandò questi con aria un poco sorpresa.
- Ho fatto voto, che tutti quelli che i quali metteranno il piede in questa
sala, dal primo all'ultimo del mese, dovranno per una volta almeno
aiutarmi a fare un'opera buona. È una colletta per una povera famiglia che
muore di fame.
- Volontieri - rispose il Bonaventuri. - Che cosa debbo fare?
- Scrivere su questa lista il vostro riverito nome e cognome, colla cifra che
intendete di mettere in questa borsa, per la mia irresponsabilità.
E guardò con un bel sorriso in faccia a O'Stiary.
- Spero la mi permetterà di avere anch'io questo piacere di far del bene in
sua collaborazione - disse Enrico traendo di tasca il portamonete.
- Veramente, per la bella prima volta! - sclamò ridendo la Luisa - è un po'
da sfacciata!
- Faremo dunque il male in mezzo - fece il Bonaventuri parlando forte.
Ecco i miei cinquanta franchi.
- Ed ecco i miei - soggiunse il Paganino da Genova, mettendo i suoi cinque
biglietti da dieci nella borsa.
Il povero Enrico fa sopraffatto da uno sgomento indicibile. Egli aveva
pensato in cuor suo di non dare che venti lire, e capiva che bisognava
metterne cinquanta come gli altri, e temeva di non averli nel suo
portamonete. Dei cento franchi della mezza mesata sborsatagli dal tutore, e
che dovevano servirgli per quindici giorni, gli pareva di averne già spesi in
guanti, in profumerie, in gingilli, in mancie e al caffè, una metà
abbondante. Non sapeva bene quanto gli restasse nel portamonete, ma
temeva d'essere a corto. Guardò trepidando in esso, e con lieta sorpresa vi
trovò appunto i cinquanta franchi che parevano lì apposta contati. Non gli
rimaneva più che un bigliettino sudicio da cinquanta centesimi, che rimase
là unico e vergognoso, come una protesta contro la lèsina del tutore.
- Ed ecco i miei - ripetè anche lui mettendo l'obolo nella borsa di Luisa,
che lo ringraziò col suo più splendido sorriso.
"Spero bene - pensò - che il tutore non mi vorrà mangiare se gli racconterò
che ho dato cinquanta franchi a scopo di beneficenza - pensò Enrico, dopo
che la Luisa lo ebbe ringraziato. - "Io non potevo dar meno di Paganino e
di Bonaventuri, che devono essere meno ricchi di me."
Poco dopo entrarono nuovi visitatori. Erano il signor Ciambelli colla
Romea, un fuseragnolo di donna, con due occhi discreti e una carnagione
che arieggiava la porcellana colorata, per amor dell'intonaco ch'ella si
praticava sul viso.
Ciambelli, suo amante, un pancione nero come un croato, le aveva messa
su una buvette, dove la
Romea troneggiava dal suo banco, chiamando, col desio e colle occhiate
lunghe, i passanti, che non volevano saperne di entrare nella di lei bottega
a bevere l'amaro prima di andare a pranzo.
La Romea era una sgualdrina come tante altre, ma la si teneva
ingenuamente in conto di donna onesta, e parlava delle mantenute col
disprezzo d'una principessa!
Quanto la godevano per questa pretesa le sue poche pratiche!
A un certo punto si parlò di far un piccolo taglio di macao. La Luisa sulle
prime fece finta di opporsi, ma poi, vedendo che tutti erano del parere fece
recar le carte e lasciò che giuocassero.
Enrico, un po' per timidezza, un po' per innata ritrosia, ma sopratutto
perchè non voleva far vedere d'essere corto a quattrini stava in disparte.
Sappia gli andò vicino:
- Non fai conto di giuocare tu?
- Ma... non ho voglia.... Non sapevo che si giuocasse.... È meglio che stia a
vedere...
- Ti pare? Il più giovine della brigata, far la figura del più vecchio? Mi
faresti sfigurare. Ricordati che questa sera comincia a formarsi la tua
riputazione di gentiluomo e di uomo di mondo. Bisogna che tu provi un
po' di tutto, in società, se vorrai starci bene, e se vorrai poter educare con
cognizione di causa i figli che avrai dalla signorina Elisa.
Enrico si fece tutto rosso in viso.
- Che c'entra? Come sai? Chi t'ha detto?
- Noi sappiamo tutto - sclamò con aria di mistero il marchesino.
- Ma io ho ben poco danaro con me... non sapevo.
- Se non è che questo ti servo subito. Figurati! E schiuso il portamonete ne
trasse un biglietto da cinquecento e lo diede a Enrico dicendo:
- Quando non ce n'è più, ce ne sarà ancora.
Avrebbe potuto rifiutarsi ancora il nostro collegiale garibaldino?
Andò al tavolo verde.
Dopo mezz'ora egli aveva perduto fino all'ultimo i suoi cinquecento
franchi.
La Romea gliene aveva beccati fuori la metà.
Sappia gliene prestò subito altri mille.
Il demonio del gioco lo aveva già preso alla strozza.
A mezzanotte il disgraziato aveva perduto i mille e giocava già
disperatamente sulla parola.
Al tocco dopo mezzanotte il Sappia si levò dal tavoliere, e disse:
- Mi pare ora di andarcene.
- Facciamo i conti - gli disse Enrico che appena cessato l'incanto e
l'emozione si trovò di aver indosso una febbre indiavolata.
Fatti i conti trovarono di avere perduto fra tutt'e due seimila e trecentoventi
franchi. Enrico ne doveva mille e cinquecento all'amico, mille e duecento a
Silvestro Bonaventuri, e trecento alla Romea,
Il povero giovinetto era così confuso di dover danaro perfino ad una
donna, era così spaventato, così abbacinato dalla perdita, dal timore di non
poter il giorno dopo farsi onore nelle ventiquatt'ore, dello spavento che il
tutore e la Elisa venissero a
sapere la sua scappata, che quasi quasi ne piangeva a calde lagrime.
Il Sappia dovette scuoterlo più volte.
- Ma domani come si fa? Pensa che debbo trecento franchi anche alla
signora Romea.
- Ci penso io - gli rispose l'amico. - Non seccarti. In ogni caso la Romea ne
deve a me cinquecento da sei mesi, che non me li ha mai restituiti.
Preso poi in disparte il Bonaventuri, che conosceva, per quel tanto che si
conoscono certe persone:
- Favorisca - gli disse - a indicarmi dove ella sta di casa.
- Oh - sclamò il Bonaveuturi, come schermendosi - la si figuri; ha tutto il
tempo; lei è padrone di tutta la mia sostanza...
"Buono a sapersi" pensò il Sappia fra se.
Enrico quella notte non chiuse occhio e fece il più inviolabile
proponimento di non giuocare mai più.
Nella ingenua purezza della sua coscienza di vent'anni, egli sentiva di quel
fatto un rimorso indicibile.
A mattina andò dal tutore e gli spiattellò senza reticenze la sua avventura
della sera innanzi.
La fu una scena di inenarrabile delusione per lui, una tempesta di maggio,
un finimondo.
Il tutore gli fece una parrucca che non finiva più. Egli era un di quegli
uomini che non crederebbero di far il loro dovere se non quando
s'accorgono
d'avere ben tormentata la loro vittima. Essi hanno nelle vene, io credo, un
po' di sangue di Torquemada. Questo modo di educare, essi lo chiamano
saggezza. E certo se facesse l'effetto di render saggio meriterebbe
quel nome; ma siccome non ottengono invece che quello di seccare
dovrebbe esser chiamato seccatura.
seccatura.Allo stringer dei nodi il tutore si rifiutò perfino di pagargli quel primo
debito di giuoco.
Enrico non sapeva più in che mondo si fosse. Corse a trovare il marchese
d'Arco.
Questi ascoltò in silenzio il racconto e le giustificazioni del giovinetto; poi
senza dir motto si levò, andò al suo scrigno, ne abbassò l'imposta, tirò
fuori un cassettino, ne trasse tre bei biglietti da lire mille e li porse al
giovinetto dicendogli questa sola frase:
- Ma cerca di non giuocare mai più se ti è possibile!
Enrico da quel tratto restò assai più confuso che non lo fosse stato prima
dalla lavata di capo e dalle smanie esagerate del suo tutore.
- Oh, marchese, come è buono lei! - sclamò il giovine buttandosi al collo
del vecchio e baciandolo sulle labbra.
- Mi prometti sul tuo onore che non giuocherai più? ripigliò sorridendo di
gioia e dopo un certo silenzio il marchese.
- Sì, glielo prometto in parola d'onore e colla sicurezza di mantenere la mia
promessa.
- Tu devi sapere Enrico, che a' miei tempi ho giuocato molto anch'io.
Allora il giuoco era di bon ton non era proibito, lo si faceva in
pubblico. Il governo straniero usava di questo mezzo per demoralizzarci,
per distoglierci dalle idee di patria e di indipendenza. Vedi dunque che ti
parlo con cognizione di causa. Fin d'allora mi capitava sempre, che
perdendo, io pagava puntualmente entro le ventiquattr'ore il mio debito;
ma se vincevo pochi lo pagavano a me.
- Possibile?
- Possibilissimo mio caro Enrico. Credilo pure; la gente che paga i debiti di
giuoco non è a questo mondo che un decimo di quella che non li paga.
Questa almeno è la statistica della mia dolorosa esperienza! Non so se gli
altri saranno stati più fortunati di me nella loro vita. Ma è così! Ora capisci
bene. Se tu quando perdi sei certo di dover pagare, e quando vinci sei certo
di non essere pagato che dieci volte su cento... la cosa diventa molto seria.
Sarebbe necessario perchè tu restassi almeno in pace che vincessi
novantacinque volte su cento; il che assolutamente non è possibile
avvenga. Hai fatto bene dunque a promettermi che non giuocherai più.
E qui si mise a parlargli di tutt'altro.
Il marchese artista nell'anima tempestava Enrico di domande sulla sua
posizione, sulla pittura, sulle sue idee circa le due scuole, sulle sue
speranze di farsi un nome, sull'avvenire sognato.
Enrico s'accalorò in quel dialogo. Il marchese godeva enormemente a
sentirlo parlare così modesto, così schietto, così sincero e così pieno di
illusioni.
- Ma non credi tu - gli disse a un certo punto - che il positivismo, il
realismo e la democrazia abbiano a uccidere l'arte?
- Ah, marchese, al contrario! L'esaltazione del popolo sarà l'esaltazione
dell'arte.
Il marchese crollava il capo sorridendo.
- Ah, entusiaste!
- Non lo crede lei?
- Io no davvero, - rispondeva il marchese. - Il popolo, e per popolo
m'intendo quella parte della popolazione d'un paese che si stacca
dall'aristocrazia illuminata e dalla borghesia ricca e studiosa, il popolo non
sente bisogno dell'arte, nè la capisce. Mancando assolutamente di
sentimento estetico come vorresti tu ch'essa amasse il bello nelle sue
manifestazioni?
- Eppure se c'è un'esposizione di quadri e di statue vi accorre...!
- Il popolo no, non se ne cura. La statistica della affluenza del pubblico alle
esposizioni parla chiaro. In ogni modo anche i pochi che ci vanno non vi
sono attirati dal bisogno di ammirare il bello, ma dalla curiosità di veder
nei quadri dei fatti interessanti, allegri o pietosi. Il quadro sarà pessimo
come arte, ma rappresenterà qualche fatto ben volgare, ben chiaro, che
squadri al popolo? Sarà il prediletto da lui. Esso non s'accorgerà che
artisticamente parlando il quadro è uno sgorbio, un abbominio. Il popolo
non monta verso l'arte se non quando l'arte discende giù fino al volgo. E il
naturalismo stesso, l'impressionalismo, di cui tu mio caro Enrico, ti
dichiari seguace e cultore, non è forse l'arte che abdica in favore dei grossi
istinti del volgo?
Enrico era impaziente di andar a pagare i debiti fatti la sera prima. Erano i
primi debiti di sua vita e gli rimordevano la coscienza. Diede dunque
ragione
al marchese e se ne andò ringraziandolo di nuovo con espansione.
Prima di spiccarsi dal suo vecchio amico, questi aveva cavato da una
cartella che stava sulla tavola un foglio di carta e accostando alla mano di
Enrico il calamaio gli aveva detto:
- Scrivimi qui la ricevuta e la promessa di non più giuocare.
Enrico si dichiarò debitore delle tremila lire al marchese e promise nella
ricevuta di restituirgliele quando fosse andato in possesso della propria
sostanza.
Della mesata insufficiente fissatagli dal tutore non si fiatò. Non si ricordò
di parlarne.
Il marchese non gli aveva neppur lasciato il tempo di spiegare la cosa, e
quando Enrico s'era trovato esaudito, col danaro in mano, s'era scordato di
entrar in quell'argomento.
Enrico corse a casa di Sappia, a cui raccontò il rabbuffo e la crudeltà del
tutore e il bel tratto del marchese d'Arco. Volle andar egli stesso nella
bottega della Romea, a portarle i suoi trecento franchi, che gli bruciavan le
dita e dovette spenderne un'altra quarantina di giunta, in bottiglie di
dichampagne ch'essa gli appioppò senza che lui, timido ancora, osasse di
rifiutarle.
Poi, con Sappia, ritornò a casa.
- Parlerò io al tuo signor zio antidiluviano - aveva sclamato il Sappia
quando Enrico gli aveva raccontato del fiero rabbuffo avutone. - Lui li
chiama minuti piaceri Altro che minuti! Impercettibili,
microscopici... piaceri!
Il notaio a stento acconsentì di portar l'assegno
di Enrico da duecentocinquanta a trecento franchi al mese.
- Domando io caro signor marchese - gli disse congedandolo, e colla più
profonda convinzione di dir cosa sensata ed onesta - domando io come
potrà mai arrivare a spendere più di otto franchi al giorno fuori di casa?
- Nei mesi di trentun giorni e negli anni bisestili - disse il Sappia con una
finissima ironia che il tutore si guardò bene dal notare - gli otto franchi al
giorno sì può calcolare che diventino soltanto sette e novantadue
centesimi.
- Ho fatto un buco nell'acqua - diss'egli tornato che fu all'Enrico, il quale
non s'aspettava nemmeno i cinquanta franchi d'aumento - Bisogna che tu
faccia la lite al testamento di tuo padre, che ti ha voluto tener sotto a quel
mastodente fino ai ventiquattr'anni; se no finirai, col rovinarti moralmente
e materialmente, te lo dico io!
- No - rispose Enrico. - Prima di tutto io non vorrei fare questa lite,
neppure nel caso che non offendessi l'ultima volontà e la memoria di mio
padre. In ogni modo, dato che il tribunale mi desse torto, io sarei
perfettamente rovinato, giacchè avrei fatta opposizione; e tutta la sostanza
andrebbe ai gesuiti che stanno aspettando al varco la preda. È meglio ch'io
mi stia ai primi danni.
Così erano passati circa due anni, e a dispetto dei trecento franchi al mese,
Enrico O'Stiary era diventato uno dei giovani più brillanti di Milano.
Cavalcate, scarrozzate, scherma, cene, club, ballerine, e pur troppo di
nuovo, il giuoco - nel quale era ricascato con vivo, quantunque inutile
rammarico, con profondo, ma pur vano rimorso - erano le occupazioni
delle sue giornate e delle sue notti. E la povera Elisa trascurata, infelice,
ma orgogliosa nel suo dolore s'era fatta intanto donna.
Il tutore non badava più all'Enrico.
Disperava di cambiargli la testa. "Chiudeva un occhio per non inquietarsi"
come diceva lui.
Il marchese d'Arco dal canto suo, il quale vedeva il suo giovane amico far
la vita del gentiluomo, e non s'era curato mai di sapere quale somma il
tutore gli avesse fissato pei minuti piaceri, era ben lontano dall'idea ch'egli
si stesse rovinando a bagno maria. Egli poi non sospettava che Enrico si
fosse rimesso a giuocare. Gli sarebbe parso fargli uno sfregio pensando
che un'O'Stiary avesse potuto mancare così alla parola d'onore.
Quando si trovavano parlavano d'arte, di cavalli, di politica, e le miserie
umane le lasciavano da parte.
Enrico dal canto suo, si guardò bene dal ricorrere un'altra volta al
marchese per denaro, e lo schivava come un rimorso. Il Sappia pensava
largamente a tutto. Suo padre e sua madre gliene davano in una certa
abbondanza, ed egli aveva un credito grande presso gli usurai! E anche lui
- lo sciagurato - faceva delle orribili operazioni a babbo morto!
Ma era venuto un bel giorno che anche il Sappia erasi trovato nella
necessità di chiedere danaro ad Enrico.
Il povero giovine gli avrebbe data la vita, ma non aveva che i suoi
duecento franchi al mese.
Risolse di farla finita col tutore; di parlargli fuor dei denti, di ottenere
insomma quello a cui gli pareva di aver diritto.
Ci pensò un paio d'ore, poi piuttosto che aver a fare con don Ignazio si
aperse alla balia.
La balia gli aveva detto di avere dodicimila lire alla Cassa di risparmio.
Non lasciò che l'Enrico terminasse la frase; corse per quanto glielo
permettevano i settantanni nella sua camera, e portò al contino le
dodicimila lire in tre bei libretti puliti e fiammanti ch'era un piacere a
vederli.
- Ma no, non voglio, non voglio - diceva Enrico colle lagrime agli occhi.
La balia alzò la destra, e con una specie di entusiasmo, sclamò:
- Ma non è forse roba sua codesta? Quale uso più degno potrei fare di
questo danaro... io che non ho più nessuno al mondo?
Pochi mesi dopo convenne di nuovo rivolgersi altrove.
Il tutore, quand'ebbe messa da parte del tutto la speranza di vedere il conte
far giudizio, pensando al giorno ormai vicino in cui gli sarebbe toccato
rassegnargli la sostanza taglieggiata e forse perduta, intieramente aveva
cominciato a cercarsi dattorno un altro sposo per la sua Elisa, che già
aveva trascorso il diciottesimo anno.
Egli comandò a sua moglie di far di tutto per disingannarla nel caso ch'ella
nutrisse ancora qualche speranza di diventare la moglie del contino e si
mise a sparlare a tavola del suo pupillo e a tentar di metterglielo in mala
vista.
Ma egli non pensava che dieci anni di pensieri e d'illusioni accarezzate non
si distruggono in un giorno!
L'uomo adatto, del resto non tardò a presentarglisi sotto la miglior luce del
mondo. Era Aldo Rubieri - che s'era fatto un bel nome e una bella
sostanza, e che quantunque artista, parve al babbo un modello di uomo
serio e un marito esemplare.
Chi mai avrebbe detto a Enrico O'Stiary che quei cinquanta franchi da lui
con lieto animo versati nella borsa di Luisa a titolo di beneficenza la sera
d'un giorno d'autunno del 1866, dovessero essere il primo anello di una
lunga e disastrosa catena di sagrificî, di spese, di perdite, di debiti, di
rovesci, che lo dovevano condurre tre anni dopo, quando egli era lì lì per
aver la piena disponibilità della propria sostanza, ad essere un uomo
rovinato?
Ma sopratutto chi gli avrebbe detto che la causa principale, la causa
effettiva del suo rovescio, non doveva essere nè l'amico Sappia, non
doveva essere la Luisa, non doveva essere il giuoco, ma piuttosto la gretta
protervia del suo tutore, che aveva negato fin dal principio di fissargli quel
tanto, che nella sua posizione era necessario?
II.
Aldo Rubieri, nel tempo che aveva molti debiti e poche commissioni,
abitava fuori di una porta della città. Si era fatto corpisantino, e là nel
sobborgo, teneva abitazione e studio. Pagava una miseria di affitto, e dalle
sue finestre vedeva d'estate molto verde, e d'inverno, se fosse nevicato,
molto bianco.
Quando poi diventò poco meno di celebre, ed ebbe soddisfatti i suoi
pazienti ed onesti creditori, egli si era talmente affezionato a quella
residenza che non aveva più voluto venir in città, quantunque l'aria assai
democratica, che tirava nel sobborgo non fosse quella delle sue
convinzioni assai moderate.
Comperò dunque la casetta, e in essa si creò il suo nido dell'arte e della
vita.
Lo studio, che solo conservò tal quale, era per lui popolato da tutte le
imagini, da tutte le finzioni, da tutti i progetti della sua geniale fantasia;
memorie imagini, finzioni che gli avevano procacciata l'ambíta fama e la
invidiata agiatezza.
Gli pareva che le vicende della sua vita abbastanza
travagliata, gli dovessero sfumar via d'un tratto, se avesse mutato di casa e
aveva giurato di finire in essa la sua fortunata carriera.
La casetta, dall'umile apparenza, ma tutta leggiadra e artistica di dentro,
era da vari anni visitata dagli stranieri. Aldo Rubieri aveva scritto a
Bedeker di farne un cenno, nella sua nuova Guida d'Italia e
Bedeker infatti nel capitolo che riguardava Milano, parecchi anni or sono,
vi aveva fatte due aggiunte: il vaporino illuminante in circolo la cupola
della Galleria Vittorio Emanuele e lo studio di Aldo Rubieri.
Una piccola carovana, uscita dall'albergo Reale un dopo mezzodì di agosto
del 1869 s'avviò allo studio di Aldo Rubieri. Per risparmio di ciceroni
quella carovana era composta di elementi assai eterogenei. In testa
camminava un Francese con quella noncurante serietà che caratterizza la
gioventù della giovine Francia, più gloriosa ancora dopo i rovesci, uno di
que' Francesi che in Italia stanno sull'occhio per non essere creduti,
brillanti a spasso e che non hanno difetti in fuori di quello di
sprezzar troppo la roba straniera.
Dopo lui scarpinavano, coi loro piedoni piatti, due rappresentanti della
vecchia Albione, un mister ed una mistriss. - Anch'essi non
presentavano alcuno di que' tratti caratteristici e ormai diventati
comunissimi, che si usa di attribuire molto volentieri agli Inglesi in
viaggio. Non enormi guide sotto il braccio, non indecenti spolverine, non
scarpaccie infangate ed eccessivamente lunghe. Di inglese
essi non avevano neppur il colore dei capelli.
Alla retroguardia seguivano altre quattro persone, di cui tre uomini e una
donna. Costoro che avevano veduta la luce sulle sponde del Danubio erano
invece biondissimi.
Il Cicerone dell'albergo chiudeva la marcia.
La zitellona tedesca poteva avere un trentatrè anni; più al di là che al di
qua. A diciotto ella poteva essere stata una bella biondona. Suo padre e suo
zio, mercanti di oggetti artistici, stavano disputandosi in dialetto viennese
sul merito relativo degli scultori italiani, le cui statue era capitato loro
qualche volta di comperare a Milano per cinque e di vendere a Vienna per
cinquanta.
La zitellona camminava in mezzo a loro due. Quello a destra, sosteneva
che al giorno d'oggi non era possibile più il vendere che pattini e quadri di
genere; l'altro, che due giorni prima aveva comperate parecchie tele di stile
classico, negava che il realismo in arte potesse mai avere fortuna.
Entrambi però erano d'avviso che lo stile austriaco non avesse confronti
"quella maniera larga di dipingere in tinta gialla che fa credere tutta roba
da museo anche i quadri di un anno" essi la ritenevano la miglior pittura
che fosse al mondo.
Si sa bene che ognuno ha il suo orgoglio nazionale!
A un certo punto s'interpose il Cicerone. Era costui un personaggio
autorevole in fatti di giudizî di pittura. Lo aveva lodato perfin il povero
Rovani, che certo non abusava della lode. Era costui un Modello incanutito
fra i cavalletti e gli scalpelli che adorava Aldo Rubieri fino alla
esagerazione,
di quell'amore entusiastico e un tantino irragionevole, di cui non sono
capaci che i figli d'Italia:
- Scusino, signori - diss'egli in tedesco - nessuno dei giovinetti che
cominciano ora ad esporre promette di giungere alla grandezza di Aldo
Rubieri.
E nel pronunciare questo nome il suo occhio semispento brillò di un
insolito guizzo di luce.
- Da quanto tempo è diventato celebre il nostro bravo Aldo? - chiese uno
dei due viennesi, il padre della zitellona.
All'udire quella frase confidenziale il Cicerone ne fu quasi scandalizzato.
Guardò l'austriaco con una inenarrabile occhiata di compatimento, e disse:
- Conoscete forse mein herr il grande scultore Aldo Rubieri?
- Se lo conosciamo? Altro che! - rispose l'Austriaco, guardando a sua figlia
che si fe' un poco ciliegia, e che sorrise misteriosamente.
- Ed è perciò che vi domandavamo da quanti anni sia diventato celebre,
giacchè noi sono ormai più di dieci anni che non l'abbiamo più veduto, e
quando l'abbiamo conosciuto noi non lo era ancora.
- Dal primo suo gruppo, che fu premiato dall'Accademia e venduto per
quarantamila franchi - rispose il Cicerone.
- Bella somma! - sclamò lo zio.
- Un gruppo alto un metro - aggiunse il Cicerone. - Ma la sua fama il
signor Aldo la deve ancora più al suo modo originale di trattare cogli eroi
della democrazia che per altro. Le opere, si sa bene, finchè un artista è
vivo, saranno sempre criticate;
ma la indipendenza del suo carattere e il suo magnifico disinteresse
faranno sempre sul popolo un grandissimo effetto. Egli è capace, se non gli
garba il soggetto, di rifiutare una commissione, che gli frutterebbe molto
danaro. Dopo l'immenso successo del suo ultimo gruppo, il generale
Garibaldi gli ordinò, un gruppo di soggetto repubblicano che un Inglese gli
avrebbe pagato cento mila lire. Credete voi che egli abbia accettata la
commissione? Neppur per ombra. Io ero presente quando Aldo Rubieri
rispose al messo di Garibaldi, che era venuto là in studio a portargli la
ordinazione, credendo di fargli un grande onore:
"Dite al generale, che cento mila lire per un gruppo alto un metro e mezzo
è troppo! E che io non ho tempo per un simile lavoro."
- Ciò è bello! - sclamò la zitellona.
- Ciò è stupido! - disse il padre.
- Ciò è assurdo! - osservò lo zio....
- Un'altra volta, sarà una settimana, cacciò fuori dal suo studio un principe
russo che voleva sforzare la porta per correr dietro alla signora Nanà.
Al nome di Nanà, tre esclamazioni contemporanee uscirono dalle bocche
austriache.
- Ah!
- Ih!
- Oh!
Il Cicerone, sorpreso, si arrestò di botto.
- Chi è la signora Nanà? - fu prima a parlare la zitellona.
- Chi è la signora Nanà? - disse quasi contemporaneamente, il padre.
- Chi è la signora Nanà? - stava dicendo lo zio
a sua volta; ma si tacque, udendo che la domanda veniva già fatta dagli
altri due.
- Nanà è la più bella donna del mondo - rispose enfaticamente il Cicerone.
- Nanà è un'artista francese, che ora serve di modella per la Venere
Venerecontemporanea
Venerecontemporanea- Venere contemporanea? - sclamò Leopoldina - cosa vuol dire?
- Vuol dire una Venere decente - rispose il Cicerone - una Venere
non del tutto ignuda; una Venere della quale si vedano e si indovinino le
forme divine in quelle parti decenti, che sono divinamente formate dalla
natura e si dissimulino le parti che le donne del giorno d'oggi hanno meno
belle, e che non si devono rappresentare.
- In tal caso - osservò con un certo acume uno dei due Tedeschi - non
arrivo a capire il perchè si parli di Venere, che viceversa è il nome di una
Deità molto classica e interamente nuda.
- È vero! - sclamò il Cicerone, colpito da questa osservazione. - Ma debbo
dire che in caso l'errore è tutto mio. Io sono vecchio e non ho potuto
ancora svestirmi totalmente dei pregiudizi classici. La statua del mio
maestro sarà un'opera d'arte che protesti energicamente contro l'invasione
moderna dell'impressionismo, del realismo e della sprezzatura esagerata
nella divina arte scultoria, che deve essere liscia e finita e non brizzolata e
rugosa come la robaccia della scuola nuova.
I forestieri capivano e non capivano.
Il Cicerone era come invaso da un santo sdegno.
- Ma dunque - uscì finalmente a dire il padre - il signor Aldo crede ancora
possibile una Venere, dopo tante che ce ne lasciò l'antichità?
- Perchè no? - proruppe il Cicerone. - La bellezza non è forse eterna? La
bellezza del nudo non tramonta mai!
- È tanto bella? - domandò di nuovo la donna - questa signora Nanà?
- Bella è, secondo me, una parola un poco insignificante per esprimere che
cosa sia la signora Nanà. Essa è un portento.
- Dicevate dunque - disse il padre austriaco, quasi volesse stornar il
discorso dalle imagini troppo estetiche....
- Io stavo dunque dicendo - ripigliò il Cicerone - che Aldo Rubieri è
ancora più in voga pel suo carattere che pe' suoi lavori, e raccontavo che
aveva cacciato fuor dallo studio il principe russo, mentre il giorno dopo
aveva spalancata la porta del suo più segreto penetrale ad un povero
pittorello di Roma, che viaggiava per istruzione col sacco in spalla; egli
fece colazione con lui nel giardino incantato.
- Ah, c'è anche un giardino incantato? - domandò la matura fanciulla
spalancando gli occhi grigi.
- Incantato, per modo di dire - rispose il Cicerone - ma è tanto più
incantato dopo che lo frequenta la signora Nanà, giacchè, secondo me, un
luogo dove regna e dove respira, foss'anche una mezz'ora al giorno, una
creatura come la signora Nanà, quello diventa per forza un luogo
incantevole.
I sei occhi dei tre personaggi austriaci s'incontrarono.
Parvero dire colla loro espressione desolata, il volgare "siam fott... o
regina"
regina"- Continuate - ripetè il padre.
- L'avere ricevuto così intimamente lo scolaro povero, dopo aver cacciato,
senza complimenti, un principe arcimilionario, fece chiasso. Tanto più
quando i giornali liberali, nemici di Aldo Rubieri, raccontarono che il
supposto studente di pittura di Roma non era altro che un povero
imbianchino di stanze. Allora egli fece una risposta che chiuse la bocca a
tutti. Egli dimostrò come un imbianchino valga sempre più di certi
giornalisti, per la ragione che questi, sporcando della carta
bianca, le toglievano ogni valore commerciale; mentre quello,
imbiancando pareti sporche, ridonava ad esse molto valore
commerciale.
Quando poi lo scolaro andò a scusarsi d'essere stato causa involontaria
della polemica, egli lo consolò dicendogli: "Lasciate scrivere. Sono i
pittori invidiosi, che ispirano i cattivi giornalisti. Ma io conosco degli
imbianchini che valgono molto più di quei pittori. Giacchè gli imbianchini
raggiungono sempre e bene il loro scopo, che è quello di pulire e render
lieti i locali, mentre certi pittori, non solo non lo raggiungono mai, ma lo
tradiscono e lo deturpano, sporcando delle candide tele. Del resto, che gran
differenza c'è fra un pittore e un imbianchino? La sola, veramente grande,
è che il pittore adopera un pennello a manico breve e la tavolozza, mentre
voi altri adoperate il pennello a manico lungo e la secchia. L'ingegno solo
fa la grande distinzione; ed io, fra un imbianchino d'ingegno e un pittore
asino, scelgo subito l'imbianchino.
- Parlateci ancora di questo giardino misterioso e incantato - disse la
zitellona, crollando il caposorridente per le sortite del vecchio Cicerone.
- Oh, molto misterioso! - sciamò questi alzando gli occhi al cielo. - Si può
dire che dopo me non vi siano a Milano che tre persone, le quali abbiano
avuto la immensa fortuna di spingere lo sguardo in quel sacrario dell'arte
viva.
- E voi siete del numero?
- Io sono del numero - rispose il vecchio sollevando orgogliosamente la
bella testa di Cristo invecchiato.
- C'è speranza che noi, colla vostra autorità, e come amici vecchi di Aldo
Rubieri, possiamo essere introdotti?
- Voi, amici vecchi? - sclamò il Cicerone.
- Non sapete forse che Aldo, quando aveva 20 anni, era a Vienna con suo
padre?
- Ah, è vero! - sclamò il Cicerone, portando la mano alla fronte. - Non mi
ricordavo più che egli è figlio di un colonello di stato maggiore al servizio
di casa d'Austria.
- Dunque?
- Dunque che cosa?
- Potremo noi vedere il giardino incantato?
- Oh, impossibile!
- Potreste voi almeno descrivercelo?
- Impossibile anche questo. Ho data la mia sacra parola d'onore al maestro,
che non avrei tradito mai il segreto della sua dimora.
I tre Viennesi tacquero e ciascuno si mise a mulinar a suo modo.
Ma in quel punto erano arrivati dinanzi alla casetta di Aldo Rubieri, e
s'arrestarono.
A Milano, come dovunque, ci sono delle abitazioni dove tutto va male,
tutto dà noia, tutto vi sta a disagio; e ve n'ha delle altre, dove tutto gioisce,
tutto dà piacere, tutto risplende.
Entrando nelle prime, trovi un portinaio ciabattino, che vive in un
bugigattolo buio ed infetto. Il tanfo vi è nauseante; sui gradini della scala
vi si scivola; gli usci si direbbe si lamentino di dover girare sui cardini; le
persiane, spalancate, si rinchiudono sgarbatamente in faccia; gli scarafaggi
ed i topi sono padroni della cucina; i cimici, del letto; le faine, del solaio;
le lumache e gli scorpioni della cantina; il pozzo dà l'acqua cattiva; un
cane rinchiuso guaisce tutte le notti; un ragazzo caparbio vi strilla ogni
mattina; un suonatore di tromba vi studia ogni mezzogiorno; delle
casigliane pettegole vi si picchiano ad ogni calar della sera; il padron di
casa usa mandar delle lettere insolenti; il ragioniere ha il fiato che
ammorba... e via dicendo.
Entrando nelle seconde, il cuore si allarga. Tutto vi spira l'ordine, la
pulizia, la pace, il benessere. Si direbbe che queste case benedette furono
costruite da operai intelligenti, e siano abitate da gente di buon gusto.
Tale apparve ai viaggiatori la dimora di Aldo Rubieri.
Appena giunte, la zitellona alzò la testa e s'imbattè in una scena graziosa.
Sotto un portichetto, lieto di verdura in un angolo, una rondine aveva
costruito il suo nido e giungeva volando alla pensile capannina, nel
momento
che i viaggiatori si arrestavano dinanzi alla porta della casa. Spaventata nel
veder tanta gente, la rondine svolazzava trissando intorno al nido quasi
volesse attirare a sè tutta l'attenzione di quegli stranieri per distrarla dai
suoi cari implumi.
La zitellona si fece malinconica. Forse un assalto di nostalgia l'aveva
presa.
Non c'è come la rondine per ridestar nel cuore la memoria della casa
lontana.
In quel punto un colpo di martello fece trasalire la Tedesca.
Il Cicerone aveva picchiato alla porta chiusa col battente di bronzo.
In una delle imposte si vedeva inchiodata una placca di terso ottone su cui
stava scolpito un Rubieri, senz'altro.
Doveva bastare!
Il Cicerone dato il colpo si volse a' suoi compagni e disse:
- Ora ci toccherà forse di aspettare un quarto d'ora; ma guai se io
rinnovassi il colpo; potremmo star qui due ore, che nessuno più verrebbe
ad aprirci.
- Perchè?
- Perchè la signora Marietta pretende di non essere sorda, ma confessa di
essere molto pigra.
Questa volta però il fatto smentì il pronostico. La porta si schiuse poco
stante, e una donna s'affacciò al varco, domandando:
- Chi è?
- Forestieri che desiderano di visitare lo studio e parlare al maestro
rispose il Cicerone.
E lanciò alla donna un'occhiata espressiva che voleva dire: "Gente per
bene, bisogna esser gentile."
La donna aperse il battente, si ritrasse, e pronunciò il sacramentale:
- Restino serviti.
La carovana attraversò un atrio pompeiano, dove sul muro videro graffite
delle figure bellissime di fanciulli ricciuti, di vergini con anfore in mano e
di satiri con tirsi inghirlandati di pampini, saltellanti e festosi.
Il Francese che fu il primo a vederle, ristette; e il Cicerone cominciò la sua
spiegazione:
- Questo atrio venne terminato soltanto l'altro giorno. Questo genere di
pittura a chiaroscuri e con linee profonde comuni a Pompei, si chiama
graffito. Questo pattino che vedono, è il ritratto del figlio della signora
Nanà, sopra fotografia, giacchè il Louiset è rimasto a Parigi colla zia.
Questo nome scosse nuovamente la zitellona e i due Ausriaci. Ma nessuno
dei tre osò fare una domanda sul figlio della signora Nanà, che non era
punto bello, ma che era maestrevolmente disegnato.
Ammirato che l'ebbero, s'avviarono verso il viridario contornato di portici,
precisamente come si usava nell'antica Roma. Una vaschetta di marmo
bianco, con zampilli uscenti dal corno di faunetti di bronzo, sorgeva nel
mezzo del giardinetto spandendo intorno una grata frescura.
- Questo lo vedremo meglio dopo, uscendo per di là - disse il Cicerone
svoltando a destra in coda alla signora Marietta, che aveva schiuso un
uscio.
Sulla soglia del quale gli stranieri lessero il classico Salve, poi
entrarono.
La scena mutava d'aspetto.
Pompei cedeva il campo al più ferreo dei medî evî risuscitati.
Come una di quelle dimore di Fata, che sorgono dal suolo nei sogni che
seguono la lettura dei romanzi di Scott o della Radeliffe, così il salotto
dove erano entrati gli stranieri parve ad essi la viva e reale imagine d'una
stanza di antichissimo castello feudale.
Il presente scomparve ai loro occhi come per incanto. Si guardarono l'un
l'altro, quasi fossero sorpresi di trovarsi vestiti di panno e col cappello a
tuba in mano. Una specie di estasi medioevale li invase, e provarono
nell'anima un ridestarsi confuso di tutte le memorie romantiche della
lontana gioventù. Parte a parte non c'era moltissimo da ammirare.
Appiccicati alle pareti, non ricchi trofei di armi in simetria, come è l'uso
comune delle odierne sale d'armi. Ma si sarebbe detto da una certa
rastelliera e da certi cappucietti come dimenticati sul davanzale d'una
finestra, che un falconiere fosse uscito di là poco prima, dopo aver
addestrato il falco; si sarebbe detto che il giullare avesse lasciato su una
sedia il suo berretto a sonagli; che l'armigero e il balestriere avessero
deposta poco prima in un canto, uno la picca, l'altro la balestra; che la
castellana passando, avesse profumato quell'aura cogli aromi che il marito
crociato le aveva recati dall'oriente.
Ciascuno di quei viaggiatori ebbe la propria impressione storica.
Al Francese parve di respirar un'aria tutta pregna di effluvi merovingi.
Alla zitellona sembrò di calpestar la polvere dei seguaci dell'interessante
giovinetto svevo, venuto a morire in Italia sotto la mannaia di Carlo
d'Angiò.
Gli Inglesi credettero sentir un bisbiglio di voci dei guerrieri di Riccardo
Cuor di Leone.
Chi non provò nulla di tutto questo, furono i due Austriaci. Non avevano
l'incornatura romantica loro!
La carovana, ammirando in religioso silenzio, passò ed entrò in una
seconda camera tutta parata di giallo, in stile moderno. Quelle fisonomie
già pallide soffuse dal colore delle cortine e delle tappezzerie si fecero
cadaveriche.
L'artista aveva il capriccio di vedere sulle linee faciali de' suoi visitatori
questo effetto di tinte, non già pel gusto di trovare il genere umano più
brutto di quello che esso sia realmente, ma per studiare il cambiamento di
linee, di toni e di riflessi, allorchè dal giallo i visitatori passavano allo
scarlatto dell'attiguo salotto.
- Si fermino qui un momento che io vado ad avvisare il maestro della loro
venuta - disse Mattia il Cicerone, mentre la signora Marietta era scivolata
fuori dalla camera da un uscio di fianco.
Mattia Corvino - tale era il nome del vecchio - s'accostò ad un uscio di
contro a quello per cui era entrata la comitiva, piegò l'indice della mano
destra con una specie di religioso raccoglimento e colla nocca picchiò un
colpetto discreto, tendendo l'orecchio.
Egli era compunto. Egli stava per comunicare coi due idoli del suo cuore, e
l'atteggiamento della sua persona, pigliava un'apparenza di devozione.
Nessuna risposta dal di dentro.
Tornò a picchiare più forte, tornò ad origliare, e nulla ancora.
Allora alzò con una certa soavità la mano alla maniglia dell'uscio, lo
aperse e scomparve per esso, dicendo con voce flebile l'indispensabile:
- È permesso?
Mattia Corvino era entrato nel gabinetto di lettura di Aldo Rubieri.
Lo scultore infatti non aveva soltanto uno studio, ma anche uno scrittoio.
In faccia a qualche suo collega scapigliato Aldo aveva un gran torto quello
di non odiare la coltura e la letteratura.
La stanzina parata di rosso conteneva una bella libreria tutta piena di libri
d'arte, di romanzi, e di poesie. Una magnifica scrivania - come non se ne
vedono certo in casa dei letterati - oronava in fondo al gabinetto di
fianco alla finestra. Intorno intorno sulle pareti dei piccoli capolavori di
pittura e di scultura.
Questo nido della intelligenza gli aveva meritato da alcuni colleghi, il
sopranome di aristocratico. Dico alcuni, che per fortuna si possono
contar sulle dita; e non sono neanche da confondersi costoro, con quei
molti, che detestano la letteratura soltanto in apparenza, e non tengono in
casa nè libri, nè calamai, nè penne, ma conoscono i letterati e li ascoltano,
e ne sono amici.
La è piuttosto un'abitudine e una jattanza che un'antipatia; giacchè modesti
e avidi di sapere,
vivono talvolta cogli uomini di lettere e di scienza meglio e più a lungo
che coi loro stessi colleghi.
I pochi invece che davano dell'aristocratico a Rubieri nutrono un vero e
alto disprezzo per tutto ciò che non è colore o scalpello; negano che l'arte
abbia bisogno di coltura, giacchè per essi l'intenzione è tutto; chiamano
imbrattacarte gli scrittori ed i critici, e disprezzano e odiano la letteratura e
anche l'acqua, tanto per uso interno come per uso esterno.
Aldo Rubieri che aveva fatto anche lui la sua carovana artistica ed era stato
assai povero, per ispirito di reazione, aveva forse esagerato il tipo opposto.
Appena uscito dalle angustie egli si era rifatto gentiluomo perfetto. Il
cappello a tuba in capo, la cravatta nera, le mani guantate, spesso gli stivali
lucidissimi; in casa poi aveva accomodato il suo studio letterario con
infinita cura e lo aveva affidato alle sollecitudini, allo strofinone e al
pennacchio della signora Marietta, che lo teneva lindo e splendido come
un gioiello.
- Non c'è - sclamò Mattia Corvino, dopo essersi guardato intorno. - Sarà
dunque nello studio.
E ristette un poco pensieroso.
Mattia Corvino, lo sappiamo già, aveva per Aldo Rubieri e da pochi giorni
per la signora Nanà, una di quelle adorazioni che in certe anime foggiate a
bella posta, possono elevarsi fino al sagrificio della vita. Quando entrava
in quelle camere egli si sentiva preso da un senso di altissima venerazione,
come si dice che Mosè lo provasse sull'Orebbo, quando s'accorse che il suo
piede stava per calcare il sacro suolo. Mattia era tale che se lo scultore
glielo avesse permesso, si sarebbe volentieri cavate le scarpe per entrare là
dentro.
- Forse egli è là con quella tentazione di sant'Antonio - pensò Mattia prima
di ricominciare sul nuovo uscio la stessa manovra di poco prima.
Egli chiamava a suo modo Nanà: la tentazione di sant'Antonio.
- Alla fine si decise e diè un altro picchietto sull'imposta.
- Una voce maschia e sonora rispose di dentro:
- Chi è?
- Mattia - rispose il vecchio trattenendo il respiro.
Un bisbiglio di voci, accompagnato da un melodioso e fresco scroscio di
riso accompagnò la risposta del Cicerone.
- È lei! - pensò.
E dovette sedersi per l'emozione.
- Dio fa ch'ella posi - continuò in cuor suo e che essa non abbia oggi il
capriccio di considerarmi come un uomo di questo mondo.
Questa frase di Mattia giungerà forse oscura a qualcuno.
Mattia Corvino s'era infiammato di Nanà come s'infiammano talvolta certi
vecchi artisti dopo averla veduta a posare nuda nello studio del suo
scultore.
La artistica nudità femminile al giorno d'oggi ha perduto - per colpa de'
gesuiti - tutta la famosa ingenuità del mondo antico. Noi non sappiamo più
imaginarci un corpo di donna bella, quale pur fu creato da madre natura,
senza dei sussulti peccatori. Le innocenti nudità sono un mito per noi.
Nei boschi della Grecia le Driadi, e le Nereidi sulle rive del mare, noi non
sappiamo più imaginarcele; come non sappiamo più vedere nè Veneri, nè
Ninfe, negli studi dei nostri scultori. Le Driadi e le Nereidi del giorno
d'oggi tutt'al più si chiamano forosette e bagnanti e osservano
fior di regolamenti della scuola di nuoto e pagano fior di multe se li
trasgrediscono. Quanto alle Ninfe e alle Veneri negli studi degli artisti
oggidì si chiamano semplicemente Modelle.
Modelle.- Entra Mattia - disse la voce - dopo un breve silenzio, durante il quale il
Corvino era stato ad aspettare origliando all'uscio, coll'ansia istessa con cui
un imputato sta ascoltando il presidente che gli legge la sentenza di
assoluzione.
All'invito il vecchio sprigionò dal petto un sospirone, schiuse l'uscio ed
entrò.
Lo spettacolo che s'offerse agli occhi di Mattia non era nuovo per lui ma
era solenne.
Nondimeno Nanà con un moto istintivo, aveva rilevato fino all'anca il
lembo dell'arazzo che le stava a larghe pieghe posato sotto i piedi nudi, e
aveva guardato placidamente, e come se nulla fosse, in viso a Mattia
Corvino che entrava.
È assioma che la mano, la quale pudicamente rialza o abbassa un velo, fa
pensare assai più a ciò che essa vuol nascondere che al pudore che
nasconde. Nondimeno se ciò paresse strano a qualche lettore, che si
ricorda come Nanà quando a Parigi Labordette le aveva detto ch'ella
avrebbe posato per la testa e per le spalle dinanzi allo scultore che
doveva modellarle la Notte pel suo nuovo letto avesse risposto:
"Je me fiche pas mal du sculpteur qui me prendra" Se quel moto di
pudore, ripeto, paresse strano al lettore io non saprei dargli torto, giacchè
egli non conosce ancor nulla della piccola trasformazione morale che Nanà
aveva subita nei pochi giorni di sua dimora a Milano.
Nell'ambiente serio e sconosciuto nel quale s'era messa "la bonne fille"
subiva un cambiamento ne' suoi istinti di donna, la quale non sarebbe
apparsa tanto corrotta neppur a Parigi se il cinismo degli uomini non
l'avesse resa tale.
- Che c'è? - domandò Aldo Rubieri.
Mattia distaccò a stento gli sguardi dal tesoro di formosità, che dall'anca in
su gli si presentava di contro e rispose con voce commossa:
- Forestieri... seccature che vorrebbero parlare con lei. Ecco il biglietto di
visita d'una signora.
Aldo lo prese:
- Leopoldina Rickherwenzel! - sclamò con grandissimo stupore. - Chi
vedo! Che fosse colei? A Milano? Possibile! Dimmi Mattia, che figura ha?
- Bionda..., magra, alta....
- È lei, è lei!
- Che età?
- Io le darei dai trenta ai trentaquattro anni....
- È lei! Non c'è dubbio!
- Dev'essere stata bella, da ragazza - aggiunse Mattia coll'aria d'un
conoscitore.
- Dovrò io riceverla? - pensava intanto lo scultore.
- Chi è questa donna che cerca di voi? - domandò Nanà in discreto italiano.
- Oh, una vecchia conoscenza di Vienna.
- Una antica amante?
- Pressapoco.
E qui successe un poco di silenzio.
- Se io vi pregassi di non ricevere questa vostra antica fiamma, cosa direste
di me? - fece Nanà questa volta in francese.
- Davvero? - sclamò Rubieri con una punta di ironia nella voce e nello
sguardo. - Chi l'avrebbe detto!
- Chi l'avrebbe detto? - ripeto Nanà. - Sapete che questo mi ha l'aria di una
impertinenza?
- No - rispose lo scultore - è semplicemente un'esclamazione.
- Ebbene - ripigliò Nanà - senza tanti discorsi, ditemi francamente se mi
fate o se non mi fate il sagrificio che vi chiedo.
- È impossibile!
- Perchè?
- Ma perchè la sarebbe una specie di furfanteria se rifiutassi di rivedere
una donna alla quale tra le altre cose ho promesso di sposarla e che è
venuta a Milano, dopo dieci anni, per rivedermi.
- Ma tanto più! - sclamò Nanà ridendo - Assolutamente mio caro Aldo, se
voi la rivedete potete star certo che io non metterò più il piede in questo
studio.
Lo scultore fu colpito vivamente da questa uscita così perentoria di Nanà.
La guardò con malcelato stupore. Poi le si accostò e le prese la mano.
- Nanà - disse - spiegatevi allora. Questo vostro capriccio ha bisogno di un
poco di luce.
- Ecco gli uomini! - gridò Nanà sempre ridendo. I suoi denti, eran tali da
non permetterle di parlare sul serio. - Non si può avere un suggerimento
dei nervi senza che essi subito ci vogliano vedere un capriccio di...
tutt'altra cosa.
Rubieri vedendo di essere stato capito al di là di quello che supponeva e
che desiderava, abbandonò la mano di Nanà e restò un pochino interdetto.
Nanà continuò:
- Voi non mi conoscete Aldo, che da otto giorni, e sta bene; se staremo
insieme da buoni amici come spero per un pezzo vi toccherà di udirne e di
vederne di quelle anche più strane e non per mia colpa, ve lo giuro.
Persuadetevi di una cosa sola, ed è che in fondo io sono una buona
figliuola, che non faccio apposta, che non è un partito preso il mio di
sembrare qualche volta stravagante, ma è una cosa più forte di me stessa.
Io vi sembrerò fors'anche una matta gloriosa. Chissà? M'han creata così. È
la qualità del legno - proseguì in italiano- come diceva la Sarah, a Firenze.
È la colpa del fattore, come diceva Bigio Diotallevi.
- Dunque che cosa dovrò dire ai forestieri? - si permise di interrogare
Mattia Corvino che, aspettava da cinque minuti la risposta.
- Dì loro che se ne vadano pe' fatti loro - rispose Nanà.
- No aspetta - interruppe Aldo. Poi voltosi alla donna,
- Via non siate irragionevole. Vorreste che quegli Austriaci pensassero di
me che son diventato un mascalzone?
- Gli Austriaci pensino di voi, quello che loro
più pare e piace, ma io non voglio che voi riceviate quella donna. Ve l'ho
detto; non sono io che comando sono i miei nervi.
- Bene bene - disse Aldo accostandosi a Mattia. - Dirai loro che io non
posso riceverli. - E più sottovoce soggiunse - dille che andrò io al suo
albergo domani.
Nanà si lamentò di quella frase detta a bassa voce.
- Ho capito. Gli avrete detto che tornino domani quand'io non ci sarò.
- No - disse Aldo.
- Che cosa gli avete detto dunque sottovoce?
- Nulla.
- Bugiardo. Nulla non è una risposta. Rubieri ascoltatemi - diss'ella seria
se io so che voi, mi avete disobbedita non mi vedete più nè viva, nè morta,
e anche la Venere resterebbe a mezzo.
- Ah questo è proprio assolutamente troppo.
- Mi promettete di non andarla a trovare?
- Ma che v'importa, Nanà, che v'importa? - domandava ansiosamente lo
scultore che non giungeva ancor a spiegar a sè stesso quel fenomeno.
- Nulla, ma non voglio. È un puntiglio. Voi dovete cedere. Io non sono
avvezza a non veder cedere. Sono otto giorni che noi ci conosciamo. Se
non cedete nei primi otto giorni, quand'è che vorreste cominciare? Me lo
promettete?
E fra sè pensava "Ces fichus d'Italiens"
d'Italiens"- Bene ve lo prometto - disse Aldo per troncare il diverbio.
In quella, Mattia rientrò.
- Il signor conte sindaco è in salotto che avrebbe a dirle due parole.
- Il sindaco benvenuto - sclamò Rubieri deponendo gli utensili del lavoro.
Per oggi basta Nanà. Ci rivedremo domani. Addio.
E uscì.
Dal canto suo, la dilettante di nudo, calzate sui piedini le pianelle, se ne
andò a vestirsi dietro certi arazzi che formavano in un angolo
l'appartamentino per le modelle.
Che cosa veniva a fare da Rubieri il conte sindaco? Chi era il conte
sindaco?
Egli era un ometto, così; nè bello, nè brutto, fra i cinquanta e i sessant'anni,
grassottello e nello stesso tempo arzillo e svelto come un pesce; il che
implica una certa contraddizione, che invece non esiste. O se la esiste, si
può dire che questa contraddizione fisica sia appunto la caratteristica del
nuovo personaggio.
Tutto infatti, nel conte sindaco, sentiva di contraddizione lontano un
miglio. Nato povero, era ricco; nato plebeo, era stato fatto conte; aveva
degli istinti liberali ed era un gran conservatore; aveva dello spirito, ed era
senatore; aveva sortito da natura le inclinazioni del viveur e del
barzellettista e come senatore, banchiere, sindaco e conte, gli
toccava di essere l'uomo più lavoratore e più serio dell'universo.
A chi gli avesse fatta osservare quest'ultima contraddizione - e cioè, ch'egli
fosse sortito da natura per essere piuttosto quello che i Francesi chiamano
un homme de loisir che un gran lavoratore - egli avrebbe
recisamente negato, e gli
avrebbe risposto che nessuno forse, a questo mondo, s'era meno divertito
di lui, e nessuno poteva vantarsi di avere lavorato più di lui. E bisognava
credergli. Ma è da notare che, prima la spinta della necessità, poi quella
dell'interesse, poi l'ambizione, poi il dovere gli avevano messa indosso fin
dalla puerizia un'abitudine di lavoro a tal segno, che fugando la nativa
spensieratezza, era divenuta in lui una seconda natura e poteva esser tenuta
da lui stesso in conto di vera inclinazione. Ma in fondo in fondo, no;
perchè il nostro ometto era nato scansafatica, e questo lo si poteva arguire
dalla sensualità e dalla voluttà ch'egli metteva in tutte le azioni, minori
della sua vita. Quando parlava, per esempio e che poteva ridere di qualche
sconsigliato consigliere del Municipio, egli godeva mezzo mondo.
Mangiava poco, ma avrebbe dato dei punti a Brillat Savarin, come buon
gustaio, anzi come buon gustatore. E fra le ballerine del palcoscenico del
teatro della Scala come si sgranavano que' suoi occhietti verdognoli e
arguti alla vista della grazia di Dio. Come era eloquente il suo sorriso, pur
restando sempre un sorriso da sindaco, da conte, da banchiere e da
senatore!
Nella sua qualità di capo dell'amministrazione comunale, egli era
indubbiamente tenuto come uno dei meno peggio d'Italia, così ricca di
sindaci balordi. Dove diamine, lui, così poco istruito in gioventù e lontano
dal mondo diplomatico, avesse attinta quella finezza moderna, quell'arte
del barcamenare, quella dissimulazione preziosa, che sono indispensabili a
chiunque si trovi nella di lui posizione, nessuno lo saprebbe dire. Egli non
aveva avuto maestri di tali discipline. Pochi uomini possedevano come lui
quella
dote utilissima ai governanti, la quale consiste nel non dimostrare mai al
prossimo nè troppa simpatia, nè troppa antipatia. Anche lui le provava
talvolta fierissime in cuor suo, ma sapeva dissimularle così bene, sapeva
reprimere con tanta disinvoltura i moti del proprio animo, sapeva far tacere
così costantemente ogni eccitazione personale, sapeva dividere in così
giusta misura le proprie inclinazioni e le proprie declinazioni, da meritarsi
da ambe le partì il soprannome di sindaco trampolino, il quale
sembra un'offesa, mentre è il brevetto della sua più grande imparzialità.
Riusciva dunque difficile il dire se egli fosse un conservatore o un liberale.
Egli non aveva preferenze pei due partiti, in cui - come in politica - si
divideva il Municipio della sua città. Stando a cavallo, ei si serviva ora
della opposizione dei conservatori, ora di quella dei rompicolli, a
seconda ch'egli aveva bisogno di questa o di quella, e ne usciva sempre
ilare e trionfante, ch'era un piacere a vederlo.
- Sono venuto io stesso - diss'egli a Rubieri, che si scusava di riceverlo in
abito da lavoro - sono venuto io stesso a darle una buona notizia. Ella è
nominato assessore, e io sono certo che ella accetterà.
- Oh! - sclamò il Rubieri, fingendo una grande sorpresa. - Non si potrebbe
dispensarmi?
- No, no, tutti lo desiderano - rispose il sindaco. - C'è bisogno d'un artista
in Consiglio.
- La avverto caro signor sindaco che io sono corpisantino e che mi metterò
nell'opposizione.
- Non lo credo! Io non gliene darò mai l'appiglio. Io conosco il di lei
criterio abbastanza, per sapere che invece noi andremo perfettamente
d'accordo.
- Se lei mi parla così a me tocca d'accettare - disse Aldo al sindaco
stringendogli la mano.
- Bravo! Così mi piace, senza tante smorfie. Del resto - soggiunse tosto - io
non credo che lei avrebbe ugualmente la possibilità di farmi l'opposizione
ancorchè si mettesse colla montagna. Io sono proprio stanco, e non per
convenzionalismo, come si usa ormai di dirlo da tutti gli uomini, ma
stanco di buono e vedrei di buon occhio un successore. Provino, provino
quanto sia facile far il sindaco di Milano!
Il dialogo tra il sindaco e Rubieri andò per le lunghe e divagò poi in cento
argomenti.
Ma noi crediamo di far bene ad arrestarci avendo riferito di esso quello che
importa alla nostra storia.
Ora sarà bene che vediamo in che modo c'entrassero con Aldo Rubieri gli
Austriaci che erano venuti a trovarlo prima del conte sindaco.
Bisogna dunque sapere che il padre di Aldo Rubieri era stato colonnello di
stato maggiore al servizio dell'Austria.
Nel 1850, quando Aldo non aveva che dodici anni, ed era accasato con suo
padre a Vienna, il rinnegato italiano godeva settemila fiorini annui come
impiegato nel ministero della guerra.
Suo padre aveva sposato una baronessa polacca. Si capisce facilmente
quale potesse essere stata l'educazione
politica e patriottica del giovinetto Aldo fino al 1859.
Sua madre gli era morta in quell'età.
Quand'egli cominciò a provar nel cuore il bisogno di voler bene a una
creatura di diverso sesso, gli capitò di innamorarsi come si usa a 19 anni,
di una fanciulla di famiglia borghese, ch'egli aveva veduta per la prima
volta al Prater.
Una di quelle lunghe occhiate reciproche dalle quali i fisiologi dicono
emani del fluido magnetico, era corsa fra loro; e due giorni dopo, mentre
entrambi stavano credendo di udire la messa nella cattedrale, una seconda
occhiata ancora più lunga e più reciproca aveva suggellato il loro amore.
L'effetto di quello sguardo era stato decisivo per entrambi.
Poco stante era cominciata la corrispondenza. In tre pagine di quelle
proteste e di quei giuramenti senza fine, che scaturiscono tanto spontanei
dalla punta di una penna di 19 anni, Aldo parlava alla sua Leopoldina di
futuro matrimonio.
Leopoldina aveva allora 21 anni, tre o quattro più del giovanetto.
Pochi giorni dopo la signorina viennese e il figlio del rinnegato Italiano,
s'abboccavano al passeggio e si giuravano anche a voce eterno amore.
- Mio padre non mi permetterebbe certamente di sposarti ora; - disse Aldo
- avrai tu pazienza di aspettare che io sia uscito di minor età?
- Oh te lo giuro, Aldo - rispondeva la bionda figlia del Danubio, alzando i
suoi occhi grigi e innamorati in viso del bell'Italiano. - Io non sarò che tua
o della morte!
Quando fu soddisfatto, Aldo trovò di non avere più voglia di sposare la
Leopoldina.
Essa non gli era stata crudele; il matrimonio, ai desideri di Aldo,
compariva superfluo.
Ma quando il padre di Leopoldina s'accorse dello scapuccio di sua figlia,
manovrò come manovrano tutti i padri viennesi in tale circostanza.
Egli era un furbo matricolato. Capì che da quel giovinetto avrebbe potuto
cavare, un giorno o l'altro, molto profitto e aveva lavorato a questo scopo.
Il Rubieri s'era lasciato andare a firmare un atto di donazione alla figlia
Leopoldina, nel caso che avesse mancato alla promessa di sposarla. Una
bagatella di venti mila fiorini in testa al nascituro.
Poco dopo venne il 1859. Aldo Rubieri non era certo da giovinetto, quel
fino calcolatore, che coll'età e coll'esperienza s'era fatto poi; ma aveva fin
d'allora l'istinto delle proprie convenienze. Egli sentiva tutta la umiliazione
d'essere figlio di un rinnegato, sospetto, malveduto in paese straniero e
nemico, senza avvenire possibile; sognava in nube la probabilità della
riabilitazione. In questa idea l'amore di patria c'entrava fino a un certo
punto; l'amore di sè stesso in gran parte. Egli andava pensando che se il
figlio del generale italiano al servizio dell'Austria fosse disceso in Italia
con grande fracasso ad arrolarsi, tutta Milano ne avrebbe parlato e la sua
sorte sarebbe stata fatta senza grandi sforzi.
La imprudente promessa di quella somma, strappatagli
dal padre di Leopoldina in un momento di abberrazione, lo decise sempre
più.
Fece la risoluzione di lasciar Vienna, di abbandonare la Leopoldina e suo
padre, e di venir in Italia per entrar volontario nelle regie truppe. Raccolse
quanto più potè di danaro e un bel giorno partì nascostamente e venne a
Milano; fece la campagna del 1859, poi mise studio di scultore e si fece
nome.
Aldo Rubieri si ricordava benissimo di avere lasciato alla Leopoldina di
Vienna quell'atto di donazione; temendone le conseguenze, andò a
trovarla, mancando di parola a Nanà. Come fosse ricevuto cordialmente e
gioiosamente si può imaginarlo.
La prima cosa che Leopoldina gli confidò fu che il loro figlio era morto, e
Rubieri tirò un lungo fiato.
Quando la fase sentimentale del richiamo delle memorie fu cessata, e
Rubieri si disponeva già a congedarsi, colla speranza che gli Austriaci
avessero deposto ogni altro pensiero, il buon babbo, accostatoglisi colla
grazia un po' grifagna che si direbbe tutti gli Austriaci abbiano ereditata
dalla loro acquila bicipite, gli disse sottovoce col più tedesco dei sorrisi
possibili:
- Per l'affare poi che lei sa, e che riguarda mia figlia, potremo parlare più
tardi... un'altra volta... n'è vero.
- Che affare? - domandò Aldo Rubieri come uomo che caschi dalle nuvole.
- Come! Ma la scrittura... di donazione... alla mia Leopoldina nel caso...
che non fosse accaduto il suo matrimonio.
- Ah, bene, bene - disse Aldo per pigliar tempo. - Più tardi, ci rivedremo.
E s'accomiatò.
Gli Austriaci lo aspettarono al domani, poi al posdomani, tre, otto giorni,
finchè il padre risolvette di ritornare lui stesso in cerca di Rubieri.
Naturalmente non fu ricevuto.
Ma la sera istessa la signora Leopoldina ebbe una lettera nella quale il suo
ex-innamorato le diceva chiaro e tondo come egli non volesse più essere
importunato e le ricordava senza complimenti come in tutti i codici della
terra esista la legge che dichiara non valida la promessa di matrimonio, nè
di un qualsiasi indennizzo....
I tre Austriaci, testardi come sono gli Austriaci quando hanno ragione,
fissarono di spuntarla.
Leopoldina avrebbe rinunciato. Ma il padre e lo zio erano feroci, e la
persuadettero che si doveva ricorrere alla legge per farlo pagare per forza.
Risolvettero di consultare un avvocato per sapere se l'atto fosse in piena
regola e se con esso si potesse sperar di vincere una causa.
L'albergatore indicò loro il primo avvocato che gli si parò alla mente.
Ed essi andarono difilati dall'avvocato Delguasto.
Quando furono sul pianerottolo dinanzi all'uscio il padre e lo zio ristettero
per rifiatare e per consultarsi. Il primo poi stava per tirar il cordone del
campanello, quando Leopoldina gli trattenne il braccio, additando ciò che
stava, scritto sull'uscio:
- Che c'è? - domandò il padre in tedesco.
- Avanti - disse la zitellona, che sapeva un poco di italiano. - Avanti,
vuol dire:
Allora spinsero l'uscio ed entrarono.
Nell'anticamera, seduto dinanzi ad una scrivania stava un giovinetto, dalla
faccia di furfantello, che s'avrebbe detto fosse stato messo là dall'avvocato
per schizzare la caricatura a tutti i clienti che entravano.
Lo zio, vedendo quel piccolo Mefistofele, disse a suo fratello una frase in
tedesco.
Quello smaliziato d'uno scritturale, che stava col capo sullo scrittoio,
intento, l'alzò repente, aggrottò le ciglia, e con un accento pieno di ironia e
di insolenza, fingendo che quelle parole esotiche fossero state dirette a lui,
disse:
- Non potrebbero farmi la finezza di parlare in italiano? - disse - La sua
lingua a Milano, signori belli, non è di moda. È antipatica.
- Parlare noi molto malissimo - rispose il babbo, che non aveva capita la
portata dell'insolenza di quel monello seduto allo scrittoio.
- Non fa niente. Capirò lo stesso. Per quanti strafalcioni lei dica in italiano
farà sempre più bel sentire che a parlarmi benissimo il suo tedesco.
- Mia figlia parlare piccolo poco.
- Tanto meglio. Allora ho l'onore di domandar alla signora a che cosa il
signor avvocato dovrà aver la fortuna della loro visita?
Non è da credere che Ernesto Cantis, galloppino dell'avvocato Delguasto,
trattasse con tanta disinvoltura tutti i clienti del suo padrone. Guai a lui se
così fosse stato. Ma egli aveva udito farlinzottare in tedesco, s'era accorto
dall'aspetto che quei tre signori dovevano esserlo puro sangue, e non
aveva potuto trattenersi dalla smania di mostrar loro la sua innata antipatia.
Egli amava i Tedeschi in genere come... l'olio di ricino, e gli Austriaci in
ispecie come il tartaro emetico.
- Noi voler parlare con herr avvocato - disse Leopoldina.
- È impedito. Si accomodino pure.
E senza dir altro, abbassò la testa sullo scrittoio e si rimise a scrivere.
Ecco che cosa stava scrivendo Ernesto Cantis, mentre i tre Tedeschi si
accomodavano per aspettare l'avvocato.
"Signora.
"Io credo che una donna non debba mai essere offesa nel sapere che c'è un
uomo al quale il cuore batte per lei cento battute al minuto di più di quello
che gli batteva prima di averla veduta. Ieri al teatro Milanese lei mi
apparve per la seconda volta, e il fascino de' di lei occhi posati ne' miei fu
tale che a costo di diventar ridicolo io non ho potuto trattenermi dal
farglielo sapere. A me parve, sarà forse superbia, ma a me parve di non
esserle riuscito antipatico. Lei ebbe la bontà di rivolgere verso di me
spesse volte que' suoi occhi immensamente belli, ed io sono in un tale stato
di esaltazione da non poterlo descrivere. Io non ho che vent'anni, e non
sono ricco. Ma se malgrado ciò lei credesse che io non debba gettare
lontano da me ogni più lontana speranza io la scongiuro me lo faccia
capire questa sera o quella sera che a lei parrà tempo di vedermi il suo
schiavo più affezionato e più fedele. Io sarò anche questa sera al Milanese
e avrò nell'occhiello del mio abito un garofano.
Quando la vedrò porterò il mio fazzoletto alla bocca, deh, faccia altrettanto
per dimostrarmi che io non debbo disperare affatto.
"ERNESTO CANTIS."
Riletto il foglio, lo piegò accuratamente, lo mise in una busta su cui scrisse
l'indirizzo di Nanà. Avvolse la lettera in un foglio di nitida carta, poi si
alzò e andò ad una sedia su cui stava un manicotto di martora e, come se i
tre stranieri non fossero stati, presenti a quell'operazione, vi infilò la sua
letterina.
Comparve l'avvocato accompagnando una signora fin sulla soglia
dell'anticamera.
Il giovane balzò all'uscio impallidendo visibilmente.
La signora era Nanà, la quale aveva posato il suo manicotto su quella sedia
poco prima di entrare nello studio.
- A rivederla, dunque, caro Delguasto; noi siamo intesi - disse Nanà - poi
volse il capo come cercando qualche cosa intorno.
- Il suo manicotto è qui - disse il giovinetto precedendola all'uscio della
anticamera.
Nanà strinse la mano all'avvocato ed uscì. Ernesto, quand'ella gli ebbe
volte le spalle, si fe' sentir a dire: che angelo!
- In che cosa posso servirli? - disse l'avvocato ai tre Austriaci, che s'erano
levati in piedi duri come stoccafissi in estate...
- Noi essere fenuti da voi per avere bisogno
di vostri consigli - rispose Leopoldina. - Restino serviti.
E li fece entrare nel suo studio.
- Loro sono dunque venuti? - cominciò l'avvocato.
- Ecco herr avvocato... Tocca parlare io, perchè mio padre e mio
zio non conoscere italiano.
- Dica pure... dica pure, tanto meglio! - sclamò con una punta di galanteria
l'avvocato.
- Lei dovere sapere che io avere un documento con promessa di donazione
di un uomo che doveva sposare me, e che poi non ha sposato per sua
colpa.
- Una promessa di donazione? - ripetè l'avvocato. - In regola?
- Noi credere essere perfettamente in regola.
- Si può vederla?
- Certamente. Ecco.
- E la signora Leopoldina cavò di tasca una carta la quale, col lungo passar
di mani in mani austriache, non si poteva dire del certo gareggiasse per
candidezza colla neve caduta di fresco.
L'avvocato gettò gli occhi su quel pappiè e sclamò sorridendo:
- Ma questo è in tedesco!
- Lei, herr avvocato non conosce nostro bello linguaggio neanche in
scrittura?
- Io no, signora. Ne faccio senza, e non ho mai pensato ad impararlo.
- Posso io tentare traduzioni! - domandò la zitellona.
- Sicuro!
Leopoldina cominciò:
"In questo giorno, 6 novembre, dell'anno di grazia 1864, io sottoscritto, di
mia piena e spontanea volontà, nè spinto da altri riguardi se non da quelli
di una sincera affezione per la signorina Leopolda Ernesta Federica, la
quale trovasi in istato interessante per mia colpa, prometto di farle
donazione di fiorini trentamila, nel caso che giunto all'età di ventiquattro
anni io non dovessi mantenere la parola data a lei di essere suo sposo.
"Per fede
"ALDO RUBIERI.
"Vienna, 6 novembre, 1864."
- Aldo Rubieri! - sclamò con una certa sorpresa l'avvocato. - Il nostro
bravo scultore?
- Ya mein herr, ya - rispose il babbo che aveva capito a lume di
naso
naso- Sarebbe ella compiacente di spiegarmi come e in quali circostanze sia
avvenuta questa donazione?
Leopoldina con molta fatica e con molto rossore cominciò a raccontare
all'avvocato quello che noi già sappiamo.
- E quanti anni aveva il signor Aldo Rubieri quando la fece?
- Come italiano egli era maggiorenne o quasi.
- Suo padre era italiano o austriaco?
- Suo patre non aveva perduta sua nazionalità italiana, quando stare in
Vienna colonello di Stato Maggiore.
- Allora si può benissimo far causa - disse l'avvocato.
- Essere noi fenuti per questo.
- Hanno già parlato loro col signor Aldo Rubieri?
- Sì, otto o dieci giorni fa.
- E che cosa ha detto?
- Detto nulla, ma avere scritto di non essere intenzionato mantenere suo
promesso.
E gli porse da leggere la lettera con cui Aldo si schermiva di pagare la
somma promessa.
- Herr avvocato - disse la zitellona - Credere lei che vinceremo?
Negli occhi dell'uomo di legge passò un lampo d'ironia.
- Sicuro che vinceremo. Sono loro pronti a fare le spese necessarie?
- Quanto volere?
- Il deposito da farsi subito è di tremila franchi non un quattrino di meno.
I tre Austriaci si guardarono in viso esterefatti.
- Tremila franchi! Senti? Più di mille fiorini soltanto di deposito? - sclamò
in tedesco lo zio.
- Non si può far a meno. La giustizia costa assai in Italia - osservò ridendo
sotto i baffi l'avvocato che godeva di veder gli Austriaci in ansia.
- Bene - disse il padre a Leopoldina - spiega all'avvocato che vogliamo
avere il tempo di pensarci sopra.
Ma poi ravvisandosi:
- No. Prima domandagli quanto verrà poi a costare la causa finita.
Leopoldina tradusse questa domanda all'avvocato.
- Ma secondo che la si vinca o che la si perda. Vincendola può darsi ch'io
riesca ad affibbiar le spese all'avversario. Può darsi anche che il tribunale
dichiari di far a metà le spese. In caso contrario, sta il viceversa.
- Domandagli ora - ripigliò il padre dopo che Leopoldina gli ebbe tradotta
la risposta dell'avvocato - quanto ci potrebbe toccar di spese nel caso che
vincessimo, ma che dovessimo pagare a metà.
- Dai dieci a dodicimila franchi colle mie competenze - rispose l'avvocato
con grande franchezza.
- Farflucter - sclamò lo zio, che aveva capita la cifra. - Pene, pene,
allora gli comunicherai quello che ti dicevo - conchiuse il padre.
- Come vogliono! Io sarò sempre ai loro comandi. Quando loro si saranno
decisi, non avranno che a ritornare da me.
E così s'accomiatarono.
Il giovinetto scritturale non s'alzò questa volta ad aprir loro gli usci come
aveva fatto con Nanà.
III.
Sulla fine dell'ammirabile istoria naturale di quella sua Nanà, - della quale
non amo credere esistano troppi esemplari nemmeno a Parigi - Emilio Zola
racconta che arrivò un momento in cui la sua posizione a Parigi le divenne
insoffribile. Sopraffatta dai fantasmi miserabili e cruenti della sua opera di
ruina e di morte; trovando che il suo appartamento era divenuto troppo
idiota e troppo ristretto in urto col suo impresario, che la voleva
troppo sfruttare, un bel giorno aveva venduto ogni cosa, ed era scomparsa
senza dire me ne vado, neppure alle più intime amiche.
Scomparve così segretamente, che a Parigi, durante parecchi mesi, nessuno
potè dire con sicurezza dov'ella fosse andata a finire.
" Nanà - scrisse lo Zola - brusquement disparut; un nouveau
plongeon, une fugue, une envolèe dans des pays baroques.
"Des mois se passèrent. On l'oubliait. Lorsque son nom, retenait parmi ces
messieurs et ces dames, les plus étranges histoires circulaient; chacun
donnait des reinseignements opposés et étonnants. Elle avait fait la
conquête du viceroi d'Egypte, elle regnait
au fond d'un palais.... Pas du tout! Elle s'était ruinée avec un grand Nègre,
une sale passion qui la laissait sans une chemise. Quinze jours plus tard ce
fut un étonnement; quelqu'un jurait l'avoir rencontrée en Russie. Une
légende se formait; elle était la maîtresse d'un prince.... on parlait de ses
diamants.
"Maintenant on la nommait sérieusement, avec le respect réveur de cette
fortune faite chez les barbares
barbaresCome capita spesso in queste cose, tutto ciò che si diceva a Parigi di Nanà
scomparsa, conteneva qualche poco di vero e conteneva assaissimo di
falso.
Ella non era andata al Cairo e non era ancora stata in Russia. Ella non
regnava menomamente in fondo di un palazzo saraceno; ella non s'era
innamorata pazzamente di un gran Negro, che l'avrebbe lasciata senza
neppur una camicia.
Era però vero all'incontro ch'ella s'era incapricciata di un grande biondo,
incontrato a Montecarlo, dove s'era lasciata alleggerire un poco dei
seicentomila franchi ricavati dalla vendita dei mobili fatta a Parigi.
Sarebbe arduo assai l'affermare in quale giorno preciso Nanà sia entrata in
Italia da Marsiglia, dov'ella era andata direttamente partendo da Parigi. A
Marsiglia un giorno s'erano perdute le traccie di lei e la cronologia stessa
non ci è venuta in soccorso. Nulla toglie adunque, che prima di comparire
alle Cascine di Firenze, un bel giorno di maggio del 1869, ella avesse fatto
davvero una corsa nei paesi barocchi come disse lo Zola. Chi lo sa?
Certo è che prima di entrare nella classica
terra delle arti, della musica e dei fiori, ella aveva arrischiata come
dicemmo una gita a Monaco, dove aveva trovato chi le aveva fatto mutare
itinerario.
E allora ella era stata presa da una grande curiosità di vedere questa
Firenze e questa Milano di cui aveva inteso parlare qualche volta da suoi
amici di Parigi, i quali non c'erano mai stati.
L'indubitato si è che ai primi di maggio del 1869, Nanà arrivò sola a
Firenze, dove si mise a spendere e a spandere come la moglie d'un nabab,
seguendo certi nuovi capricci della sua vita sfrenata e avventurosa.
Il soggiorno di Nanà a Firenze si lega strettamente ad uno dei periodi più
funesti e più interessante dell'istoria sociale ed economica d'Italia. Esso
non potrebbe essere tralasciato nella storia di Nanà, la quale prese una
parte abbastanza viva nel guazzabuglio di quell'epoca, ancora oggi tutta
piena di curiosi misteri per gli ingenui e per i moderati.
Certo non è nostra intenzione di rimestare politicamente il fango della
Regia Cointeressata. Noi non scriviamo un periodo di storia
contemporanea, ma siamo pur tenuti a dirne quel tanto che basti a quei
lettori, a cui ora sorride la più bella età della vita ed erano allora
spensierati adolescenti. Questi non possono avere idea di quell'incredibile
avvenimento, sul quale con molta generosità i liberali hanno steso un velo
pietoso di oblio. Esso servirà a mostrar chiaro come luce di sole una verità
fin d'allora soffocata nel silenzio, negata con albagia anche oggi da chi l'ha
negata allora, e
nella quale la bellissima Nanà avrebbe potuto dire una parola molto
persuadente.
Nei giorni in cui Nanà arrivava a Firenze un temporale si addensava
mormoreggiando sull'orizzonte. Un vergognoso segreto - da pochi saputo e
dissimulato gelosamente alle turbe - gettava gli animi, schiettamente
innamorati del loro paese e della monarchia, nella sfiducia e nello schifo
della vita pubblica.
Si cominciava appena appena a dimenticare la strage di Mentana; i
prudenti, gli addormentatori ripigliavano a cantare la nina nanna alle
aspirazioni verso Roma e domandavano con una convinzione profonda e
sincera che cosa ci avessero mai guadagnato quei poveri figliuoli, che
erano rimasti sul campo sotto le palle dei chassepots di Francia.
Nanà francese adunque non giungeva certo a Firenze in buon punto, se ella
fosse stata una donna portata a conoscere i rompicolli e i liberali.
Fortunatamente per lei, mentre i rompicolli, feriti, perseguitati, nascosti
scontavano la pena delle loro impazienze e della loro piccola fede nei
mezzi morali, la mania degli affaristi e le orgie dell'agiotaggio erano al
colmo. I giornali onesti in que' giorni non parlavano che di crisi, di
carrozzini, di apostasie, di coscienze vendute, di tradimenti, di debiti non
pagati, e di altre cose molto concludenti per la felicità e per la grandezza
della patria.
Il ministero era in quel tempo un sinedrio eteroclito e pazzo di personaggi
spostati, ripugnanti fra loro ed assurdi; un cibreo, un baragozzo, una
mascherata degna di giovedì grasso. Oggi ancora, chiunque con animo
pacato si volge a giudicare quel ministero colla indifferenza filosofica di
chi è sfuggito al danno e alla vergogna, non può far a meno che sentir
nell'animo una grande amarezza mista a una compassione badiale. Quel
ministero, di cui non si darà forse più l'eguale, era formato da un generale
devoto a Santa Caterina, da un avvocato permanente, da un democratico
rifatto, da un conte fallito, da un prodittatore di Garibaldi a spasso, da un
impiegato della Gresham e da un marinaio che ne sapeva di politica
come un ippopotamo.
A compiere la baraonda eterogenea s'era trovato perfino un eterno
eternobimbo il quale aveva accettato il portafogli di agricoltura e commercio
da lui e da suoi amici, spesse volte dichiarato inutile e degno di abolizione.
La ragione di tanto aborto stava in parecchie cause segrete e complesse,
alcune d'ordine politico, altre d'ordine finanziario.
Alle prime, ho già accennato; alle seconde vengo ora.
Tre o quattro giorni dopo l'arrivo di Nanà a Firenze, ella, nella sua
vittoria a due cavalli, s'era incontrata alle Cascine col phaeton
phaetond'un personaggio, il quale, alla vista della cocotte parigina, s'era
levato a sedere curiosamente e l'aveva seguita collo sguardo fino a perdita
di vista.
La mattina seguente, a Nanà, che stava alla sua teletta, fu recato dal
cameriere dell'albergo un biglietto di visita.
Lesse: Il cav. Bonaventuri, con quel che segue.
"C'è cascato!" pensò Nanà, e disse al cameriere di lasciar entrare la visita.
Il cav. Bonaventuri era un aiutante... di alcova. È assolutamente inutile,
che noi ripetiamo qui il dialogo che accadde fra Nanà e quel signore, nè le
proposte e le accettazioni che ne seguirono sotto il suggello del più alto
segreto.
Il fatto è che il gran personaggio, dopo quindici giorni che conosceva
Nanà, si trovò di essere più che mai in estremo bisogno di danaro.
A chi si sarebbe egli rivolto se non al conte di Schifanoja, ministro delle
finanze, che, come Marco Minghetti, aveva accettato il portafogli per
ispirito di annegazione?
L'incontro di Nanà alle Cascine aveva fatto traboccare nel personaggio la
necessità di ottener una somma da un banchiere compiacente. E giacchè si
doveva pensar al rimedio, si voleva che fosse radicale. Il bisogno era
vecchio, ma Nanà gli dava l'ultima spinta; la domanda insistente cominciò
a diventare un aculeo potente nelle costole del ministro delle finanze.
Fu allora che il conte di Schifanoja venne autorizzato dalla Camera ad
emettere in favore della Regia Cointeressata dei Tabacchi tante
obbligazioni quante ne occorrevano, perchè entrassero nelle casse dello
Stato cento ottanta milioni.
Ora avvenne che lo Schifanoja ne emettesse invece per duecento sette
milioni; e allora ci fu chi cominciò a domandare dove mai fossero andati a
finire i milioni che crescevano.
Nanà avrebbe saputo fin d'allora dirne qualche cosa.
Di lì a qualche tempo avvenne un fatto che gettò nel pubblico italiano un
nuovo lievito di curiosità e aumentò i misteri di quella nuova Eleusi. Fu
uno scandaloso e inesplicabile voltamento di giubba. Un onorevole, fra i
più baldi campioni di democrazia, un pubblicista che aveva passata la sua
vita a dir male di Dio e dei santi, della corte e dei cortigiani, del sistema
monarchico e di chi ne fa le spese, a un tratto, senza una scusa al mondo,
senza ragione apparente, senza un appiglio palese, si era dato piedi e mani
legate in balìa dei conservatori e dai banchi di estrema sinistra era passato
con armi e bagaglio a sedersi in quelli da lui per sì lungo tempo vituperati.
Allora ci fu anche chi stette perplesso se più meritasse disprezzo il
disertore o quei vigliacchi che lo accoglievano a braccia aperte dopo aver
ricevuto da lui tanti schiaffi.
Ma i conservatori facevano il loro mestiere; il disertore invece appariva tre
volte infame. Della fede lungamente ed efficacemente espressa da parecchi
anni in molti giornali egli aveva fatto getto in un giorno solo; e con una
disinvoltura ineffabile aveva compiuto uno dei più spudorati voltafaccia di
cui s'abbia mai avuto esempio negli annali dei Parlamenti di questo
mondo.
Costui era stato presentato a Nanà pochi giorni prima, e con lei aveva
complottato molte cose.
Quella incredibile apostasia trovò un mondo di commentatori e di
detrattori. Chi la scusava erano i nuovi amici della giubba voltata.
"Imparino i signori democratici - dicevano essi - a trattare come trattano i
loro uomini di merito!"
Ma tutta la gente onesta e senza ambizioni politiche
provò per quel traditore uno sterminato disprezzo. Chiunque sa che cosa
sia la nausea che nasce nel vedere, per esempio, degli ingordi invitati far a
pugni per giungere a dare il sacco a un buffè, oppure nel veder un
giovinetto povero ma aitante vivere alle spalle di una vecchia grima può
farsi oggi un'idea del sentimento disgustoso die suscitò in Italia il
voltafaccia di quel miserabile deputato.
Il mistero aumentava. La coscienza pubblica protestava, ruggiva, cercava
la luce. A Firenze già parecchi segnavano a dito Nanà colla quale qualche
volta il deputato traditore si mostrava in pubblico. Si voleva sapere come
potesse accadere che ella già rovinata dalla roulette di Montecarlo
pure spendesse dieci o dodici mila franchi al mese e il perchè, lui, il
giubbarivolta, dopo avere per molti anni gridato contro il sistema di
governo consorte e i carrozzini, si fosse di repente fatto sostenitore,
oratore, paladino e complice di quelle brutte cose.
Allora venne proposta alla Camera una inchiesta parlamentare.
Veramente una inchiesta, fatta in mezzo a della gente, che a grande
maggioranza non voleva saperne e che non dissimulava punto l'agonia in
cui la si trovava a sentir menzionare quella fatale parola, che già una volta
aveva macchiato in fronte il partito - non parve agli Italiani il mezzo più
efficace per venir a capo di qualche cosa. Ma questa - si potrebbe ripetere
col Manzoni - è una di quelle sottigliezze metafisiche a cui non si arriva
facilmente.
Si capiva già prima che l'inchiesta si aprisse che
ben poco sugo se ne avrebbe potuto cavare. La maggioranza aveva
interesse a conservare il buio, e avrebbe fatto ogni sforzo per salvare i
ladri. Che i milioni di messer di Schifanoja mancassero al conto tutti lo
sapevano; dove fossero andati a finire, molti lo sospettavano, ma ben pochi
lo dicevano perchè si andava anche a rischio di farsi far un brutto tiro. E i
giorni passarono, e Nanà aumentava il suo lusso, le sue stranezze e le sue
prodigalità.
Quanto alla giubba voltata, la sua condotta ormai interessava ben pochi.
Era desso un voto comperato per far passare quel benedetto carrozzino
della Regia cointeressata dei tabacchi? Chi non lo vedeva? Ma si diceva.
Credete forse che l'inchiesta - ancorchè si faccia - metterà in sodo il
mercato di quella coscienza? Neppur per sogno. I rei son tutti d'accordo e
sono i più. Anche quelli che non son ladri davvero, non vorranno tradire i
consorti che lo sono. Dove mai trovar delle prove? Non si lasciano fuori le
prove di tali brutture. Tutt'al più ci saranno degli indizi; ma che cosa
provano gli indizi per chi non li vuoi calcolare?
Questi e altrettali erano i ragionamenti della gente liberale e disinteressata.
Nondimeno gli amici della giubba voltata - che nomavasi il sor Civinini
fecero degli sforzi sovrumani perchè l'inchiesta non avesse luogo, perchè
non si tentasse neppure di fare uno spiraglio di luce, e si mettesse tutto nel
dimenticatoio. I Burgravi italiani hanno nel sangue quella stessa
annegazione che fece dire alla vecchia guardia di Napoleone: "la garde
meurt mais elle ne se rend pas.
pas.Ciò che essi fecero per scongiurare la vergogna
dal capo della giubba voltata e da' suoi complici di cui si sussurravano i
nomi alla sordina supera ogni umano credere. E con quanta annegazione si
mettessero in questo còmpito, con quanto coraggio adempissero il loro
vergognoso mandato, con quanto accanimento combattessero allo scopo di
impedire si stenebrasse il laido mistero, basterà a capirlo quando si pensi,
che allorchè ricacciati fin negli ultimi baluardi furono costretti ad accettar
la inchiesta, perchè non accadesse di peggio, indovinate chi accettò di
esserne il presidente?
Incredibile a credersi!
Incredibile a riferirsi!
Fu l'onorevole che nella Camera parlò più di tutti per farla abortire, fu lo
stesso avvocato ufficioso del voltacasacca, uno sfregiato napoletano; fu
l'uomo che aveva dichiarato pubblicamente essere la inchiesta una pazzia,
un delitto, un obbrobrio; fu colui che le aveva dato contro il voto di
biasimo più fiero e più solenne.
Nella storia parlamentare del mondo intero non crediamo che ci sia un'altra
nota di infamia pari a codesta, che la Consorteria non ebbe riguardo
di lasciar scrivere sul libro nero delle sue brutture.
L'incarico di nominare i commissarî della inchiesta era stato lasciato
all'onorevole presidente della Camera. Dovere di imparzialità, rispetto di
sè stesso, riguardo alla carica, deferenza verso i colleghi avrebbero
imposto a costui di nominare a commissarî uomini indipendenti,
spregiudicati, fuor di ogni sospetto e non coinvolti nella turpe lega!
E sopratutto una volta decisa l'inchiesta, la imparzialità ed il buon senso gli
avrebbero dovuto
imporre il dovere di far sì che la fossa fatta al più presto possibile.
Per ottemperare a questi due doveri, il presidente della Camera, avvocato
Mari, nominò a commissarî dell'inchiesta quelli fra i deputati che si erano
mostrati i più accaniti avversarî di essa, e perchè poi la venisse definita più
prestamente, nominò due assenti e di ignota dimora.
Stavano così le cose quando si cominciò a spargere a Firenze la voce che
due deputati, appartenenti alla camarilla degli affaristi, fossero stati colti
colla mano nel sacco, dai democratici. Si parlava d'una certa lettera
intercettata da questi, in cui ci era la confessione esplicita del furto di que'
bricconi; si citavano certe frasi di essa, che se fossero state vere, pareva
allora, avrebbero dovuto far sprofondare l'autore, il cognato, la Camera, il
sistema costituzionale, la monarchia e tutti quanti.
Ma siccome nessuno aveva veduta questa lettera di cui pochissimi
parlavano segretamente, da tutti si cominciava a gridar: calunnia, calunnia.
Quand'ecco un bel mattino un giornale coraggioso di Firenze rende di
pubblica ragione quella lettera, e in tutta Italia si ripete una frase
incredibile di essa: facciamo quattrini colle immancabili
speculazioni e tutti i fogli liberali la commentano e lo scandalo si
diffonde, si fa colossale, enorme, incredibile, e si chiede ad altissime grida
che l'inchiesta parlamentare sia fatta immantinente.
E qui cominciò per l'Italia una iliade di vergogne
tali che la penna istessa par si sdegni dallo scriverle.
Fu allora che Nanà intorno a cui la voce pubblica mormorava sempre più
feroce, un bel giorno fu pregata di levarsi da Firenze e di cercare fortuna in
altri lidi.
Essa arrivò dunque a Milano, da Firenze, quasi rovinata, un po' indisposta,
un po' dimagrata, cogli occhi leggermente cerchiati, ma sempre bellissima,
più bella forse che mai, giacchè quell'aria sofferente dava un nuovo risalto
alla sua fisonomia e alla sua taglia, prima forse un po' troppo rotonda,
troppo sensuale, troppo soddisfatta.
Essa non era più la cortigiana di Parigi. Essa aveva modificati
immensamente i suoi slanci, le sue voglie, le sue idee. S'era moralmente e
fisicamente mutata nella nuova vita di Firenze. E non poteva essere
altrimenti. Una frase di Zola fa chiaramente presentire questa
trasformazione. Il grande realista, come se avesse presentito che un
Italiano avrebbe risuscitato questa donna in un nuovo ambiente per
ripresentarla vivente a' proprî lettori, dice espressamente che essa già fin
da Parigi sognava una vita diversa, qualche cosa di nuovo, qualche cosa di
meglio.
" Elle revait quelque chose de mieux"
mieux"Ma questo meglio l'aveva dessa ben definito nella sua testa, o non era
piuttosto che un'aspirazione vaga, un desiderio indistinto?
Aveva dessa un progetto già pronto prima della sua partenza da Parigi nel
suo cervello da enfant
enfantgatè oppure ella si cullava in un nuovo sogno dorato colla arditezza
sovrana di una donna che conosce la sua potente irresistibilità?
Eccola nel oupè tutta sola, che la porta da Firenze a Milano.
"Anche questa illusione è svanita - pensava. Oh, i grandi della terra come
sono instabili nelle loro simpatie! Non pensiamoci più."
Allora la sua fantasia tornò a Parigi e alla vita di pochi mesi prima.
"Addio, mio bel Parigi! Forse ti rivedrò presto! Per ora resta dove sei,
maledetta città!"
Fa questo un affettuoso addio alla patria come disse il Manzoni.
Ella si trovava sola, finalmente; cosa che non le era quasi mai capitato di
sua vita. Sola, coll'amica più cara del suo cuore, sola colla creatura più
idolatrata che avesse al mondo: sola con sè stessa.
La felicità che provò nelle prime ore del suo viaggio fu schietta e piena di
sconosciuti incanti. Essa rideva forte da sè, come un fanciullo, mandava
dei piccoli gridi di gioia, si agitava sul sedile e correva ora di qua, ora di là
agli sportelli, si fregava le mani convulsivamente e stirava la persona,
socchiudendo gli occhi con voluttà, come se le fosse capitata una grande
fortuna.
Ed era stata, si può dire invece, messa alla porta da chi ella credeva di aver
soggiogato per sempre!
Chi l'avrebbe capita in quel punto? Eppure ella tripudiava di sentirsi libera,
d'essere uscita da una nuova pozzanghera, di non avere più intorno a sè
della gente antipatica.
Si riadagiò nel canto del vagone cogli occhi fissati nel nulla, e cominciò a
pensare... a pensare...
A che cosa?
Alla vita a cui andava incontro a Milano. All'ignoto.
La fantasticheria durò parecchie ore, e fu feconda di un'idea nuovissima in
lei, insospettata sino allora, incredibile, che la colpì a un tratto, come una
rivelazione dall'alto.
Quand'essa si trovò sola, come uno schifo abbandonato in mezzo
all'Oceano, quando il cinismo e la depravazione di Parigi e della
provvisoria italiana ebbero cessato di agire come un influsso sui di lei
nervi, sui di lei appetiti, sulle di lei passioni; quando non avendo più
occasione di confidarsi agli adoratori, alle amiche, ai lenoni, fu obbligata
di rientrar in sè stessa, di ascoltarsi, di frugare nei ripostigli più segreti del
suo cuore inesplorato, ella sentì con non poca sorpresa sorgere in cuore un
desiderio, un'idea, che fino allora le era sempre sembrata molto barocca ed
assurda, ed alla quale aveva date tante volte la baia quand'erano gli altri
che gliela proponevano.
Il lettore ha capito.
Le offerte di matrimonio fattele tante volte a Parigi ora portavano il loro
postumo frutto.
Nanà era stata assalita ad un tratto dalle idee di faire une fin di
maritarsi con qualche ricco milanese, per vivere tranquilla e riabilitata agli
occhi del mondo. Poco a poco quest'idea, che le era entrata in testa senza
saper d'onde le fosse venuta, la invadeva tutta e faceva un cammino
enorme nel suo cervello e l'avviluppava tutta in una specie di felicità, di
cui non aveva gustato mai fino allora neppur il sospetto.
"Sì - pensava - io voglio, tornando a Parigi,
che si dica, ecco la signora contessa di... quel che sarà, oppure, ecco la
principessa di San... qualche cosa. Quel mio povero Mufe come sarà
dannato quando lo saprà. E Satin dunque? E tutte quelle bougresses
bougressesdi mie amiche, come creperanno di gelosia e di rabbia quando mi vedranno
sdraiata in un landau a fianco di mio marito, e sullo sportello tanto
di blasone vero ed autentico!
A questi pensieri, in cui splendeva la bontà cristiana di quel cuore di donna
parigina, ella sentì dei fremiti di felicità inarrivabile.
Poi fa assalita da un certo scoraggiamento.
"Maritata! Ma e poi? - pensava - Se mio marito fosse geloso? Se esigesse
che io mi conservassi casta e tutta per lui?
Nanà si conosceva. Ella sapeva bene che di quando la sua natura ardente,
le sue lubriche tendenze, i suoi capricci di donna dissoluta, avrebbero
preso il sopravvento e le avrebbero fatto commettere dei famosi scarti.
Ma allora promise di cuore a sè stessa di essere se non casta almeno cauta,
nè più nè meno di un buon curato di campagna. E dopo questa specie di
giuramento si trovò la coscienza soddisfatta, incantata di sè stessa e
circondata da una gioia viva e di buon augurio.
Poco dopo tornava in campo qualche dubbio.
"Ma troverò a Milano l'uomo che mi conviene ora che sono io a
desiderarlo? Egli vorrà conoscere il mio passato... vorrà sapere... scrutare.
E se qui in questa capital morale d'Italia, come ho sentito dire,
non trovassi nessuno che s'innamorasse di me al punto da farmi la
proposta, che laggiù a Parigi tutti mi ripetevano?..."
Stette a pensare mestamente; poi soggiunse parlando fra sè ad alta voce:
"E me la fecero tanto seriamente, che si uccisero quand'io negai! È
orribile! Bisogna che io vendichi l'ombra di quel povero Giorgio, che mi
amava in quel modo! È impossibile che io non faccia il solito effetto su...
codesti Milanesi... per quanto m'abbiano detto che sono seri egoisti e
scorbellati. Noi vedremo."
Quel nous verrons fu una specie di sfida alla gioventù dorata di
Milano. I moti di modestia che talvolta sorgevano in Nanà finivano sempre
con una sfida all'insensibilità mascolina. Ella si trovava tosto assai stupida
e assai stupita di avere potuto concepire un dubbio sulla propria
irresistibilità e mostrava immantinenti la nuova certezza nelle proprie forze
conquistatrici, con un sorriso leggiadriasimo, in cui c'entrava però un poco
d'amarezza e una gran dose di fatuità. Ella aveva sempre - e a ragione - una
grandissima stima delle proprie attrattive e della flessibilità prodigiosa de'
suoi mezzi uccellatori; ella si rammentava quante volte a Parigi degli
uomini seri che pur conoscevano la sua origine bassa, e le sue pazzie
sfrenate, e la sua vita vergognosa, si erano rotolati a' suoi piedi supplicanti,
a mani giunte, per chiederle la mano di sposa... e si teneva certa di far il
suo partito a Milano.
L'idea di accasarsi nobilmente, la speranza di poter entrare nel gran
mondo, il pensiero di trattar al tu per tu le dame che l'avevano tanto
disprezzata,
la soggiogavano. Le difficoltà stesse ch'ella prevedeva dovessero insorgere
per giungere alla stretta dei nodi, aguzzavano smisuratamente quel suo
nuovo desiderio e gli davano una spinta poderosa. Ella stessa si
maravigliava, a certi punti, di trovarsi così salda in un proposito e di
scoprire ancora in sè stessa, tanto lievito di volontà, di speranza e di
entusiasmo.
Giunta a Milano di notte, Nanà senza aver pensato a farsi dare a Firenze
una indicazione di albergo, disse al cocchiere del calesse di condurla al
primo hôtel, al più chic!
chic!- E i bauli? - domandò questi.
- Li manderemo a prender domani! Sono dieciotto!
Il cocchiere naturalmente la condusse all'albergo della Ville
VilleOra avvenne che seduti agli ultimi due tavolini del caffè dell'Europa, verso
la porta dell'albergo, si trovassero in quel punto Enrico O'Stiary e il
marchese Sappia, che eran usciti in quel punto dalla Luisa e pigliavano un
grog. Un po' discosto da loro Ernesto Cantis, il giovane di avvocato,
beveva una birra.
O'Stiary e Cantis videro prima passar dinanzi nel calesse Nanà, poi videro
il legno arrestarsi lì accanto all'albergo. Il conte mandò una piccola
esclamazione, che fè volger il capo al Sappia. Ma il Sappia, lì per lì, non
ravvisò nella bella viaggiatrice la donna, che tre anni prima egli aveva con
tanta ansia aspettata invano per tanto tempo,
dalla Tricon! Il Sappia aveva la luce delle lanterne negli occhi e non
poteva veder bene nelle tenebre. Ma O'Stiary e Cantis, che la luce
l'avevano a ridosso, scorsero abbastanza per restarne molto colpiti
entrambi. Era l'effetto che faceva sempre Nanà a chi la vedeva per la prima
volta.
Fu allora che Nanà per discendere dal legno mentre allungava sulla
predella il suo piedino, quale a Milano se ne vedono di rado, scoccò
senz'accorgersi un'occhiata curiosa, che parve assassina, e scomparve nella
porta della Ville accompagnata dal guarda portone che era venuto
ad aprirle lo sportello.
Cantis balzato in piedi era andato dinanzi alla porta dell'albergo e aveva
accompagnata Nanà fin sotto il portico, collo sguardo; e gli era parso, al
poverino, di vedere che la bellissima sconosciuta si fosse voltata indietro
quasi a salutarlo di nuovo prima di montar le scale.
Quella notte aveva creduto bene non di dormire un solo minuto.
Una ventina di giorni dopo, il Cantis aveva riveduta Nanà al teatro
Milanese.
Figuratevi come restasse poi quando il giorno appresso la vide venir dal
suo avvocato.
Egli le aveva scritta la lettera famosa!
Anche Enrico era rimasto assai colpito della bellezza della sconosciuta
viaggiatrice e il giorno dopo era ritornato alla Ville a chiederne
notizia; aveva saputo il di lei vero nome e cognome e l'aveva riveduta al
balcone dell'albergo più bella e più elegante che mai.
Lo credereste?
Dopo pochi giorni di residenza a Milano, Nanà si accorse senza grande
maraviglia, d'essere già desiderata alla follia e contemporaneamente da
nove persone molto diverse fra loro di età e di condizione: dal pubescente
liceista al vecchio libertino di sessant'anni, dal signor conte di vieille
vieilleroche al galloppino dell'albergo che le serviva il pranzo, dal banchiere
milionario al parrucchiere che la pettinava ogni mattina.
Nove dichiarazioni, delle quali otto in iscritto, ed una col mezzo d'un
paraninfo e tutte nello stesso giorno, e in venerdì, era proprio la prima
volta che le capitavano!
A Parigi non le era mai successa una cosa simile.
" C'est l'embarras des richesses pensò Nanà.
Essa non potè a meno di riderne.
Tanto più che in ciascuna di esse Nanà scoprì un certo non so che, da
doverle trovare eccessivamente strane. Quelle nove proteste di amore, o
piuttosto di desiderio, che per combinazione le giungevano in frotta come
una volata di passeri, e in venerdì per giunta, erano tutte impregnate dalla
più deplorabile fatuità.
fatuità.Ella si accorgeva che quei nove individui nutrivano già in cuor loro una
grande speranza di essere corrisposti e subito; dalla loro protesta d'amore
trapelava una certa persuasione di esserle già molto simpatici. Nessuno
naturalmente le aveva scritto o detto o lasciato capire chiaramente una
tanta immodestia, ma la trapelava, ed essa la subodorava
in tutti. Quei nove - non uno eccettuato - alludevano o parlavano
chiaramente di una certa sua maniera di guardarli... di una certa sua
occhiata assassina... ah, quell'occhiata! Mio Dio! chi non darebbe la vita
per una simile occhiata?
Nanà aveva un bel rammentarsi le proprie occhiate non giungeva a
raccappezzarne una sola che avesse voluto dire qualche cosa di serio. In
sostanza però, ella doveva persuadersi che que' suoi nove adoratori
credevano tutti di essere stati quasi invitati, accalappiati, fulminati da una
di lei occhiata.
Ed essa sapeva di non averne data neppure una sola da cui spirasse, o che
potesse ispirare la benchè minima simpatia.
Questo fenomeno a dir vero non era la prima volta che capitava a Nanà.
Ma sopra nove persone, in un colpo solo, le pareva proprio un po' troppo!
"Bisogna dire che a Milano le donne abbiano lo sguardo delle Arpie
quando fissano gli uomini" pensò Nanà.
Le sventure passate, il rimorso e la superstizione le avevano messo nella
guardatura e nel muovere delle pupille una particolarità degna di
attenzione. Que' suoi occhi, più grandi del vero, a prima vista parevano
supplicanti e desiosi.
Voi credevate in buona fede che ella vi avesse fissato in quel modo, perchè
la vi trovasse bello o piacente, perchè la vi desiderasse, perchè forse... oh
Dio! già segretamente la fosse presa delle vostre fattezze. E allora mille
fuochi e speranze avvampavano o scattavano nel vostro interno.
Avvampavano se avevate il temperamento sulfureo, scattavano se lo
avevate fatto a molla.
Ebbene?
Quand'essa distaccava da voi lentamente le sue pupille, se voi eravate
filosofo, se nello sguardo altrui sapevate discernere il vero sentimento che
lo ispirava, vi sareste accorto che ella, non che fissarvi, nè desiderarvi, nè
amarvi già in segreto, non la vi aveva nemmanco notato, non la si era
neppure accorta di voi, non la vi aveva veduto passare che tampoco.
Nanà non aveva sguardi che vedessero davvero, se non per le cose che
appetiva o per le persone che odiava.
Non parlo di quelle che essa amava, per una ragione semplicissima.
Che ella, come non aveva amato mai davvero, così non amava nessuno
ancora.
Fontan lo aveva subito più che amato. Era stato piuttosto un bestiale istinto
che una pena di cuore la sua.
All'oggetto desiderato o alla persona odiata nessuna creatura al mondo
sapeva guardare meglio di Nanà. Ma gli indifferenti? Essa non li vedeva. I
suoi occhi difficilmente si occupavano del mondo esteriore, se non per
raccogliere alla sfuggita e all'ingrosso i taciti omaggi dei passanti.
L'orgasmo continuo e febbrile della sua ambizione non le permetteva di
discernere se non quello che premeva a' suoi istinti felini di donna e alla
sua smisurata vanità.
Nanà ormai guardava più spesso all'indentro di sè stessa che non al di
fuori. Le imagini sanguinose, i fantasmi della sua vita passata non erano
scomparsi mai dalla sua fantasia. Essa portava con sè la catena d'un
rimorso non vivo, nè salutare
certamente, ma molesto e perenne. Talchè giammai quella sua plastica
bellezza era stata così pericolosa e più procace!
Una delle otto lettere d'amore noi la conosciamo già. Nanà l'aveva trovata
nel manicotto uscendo dall'avvocato Delguasto, dov'era andata a consulto,
per una certa coda di processo ch'è inutile richiamare in questo punto.
Nanà ebbe un bel domandare a sè stessa come mai quella lettera avesse
potuto capitare nel suo manicotto, e non trovò la risposta. Ella non s'era
nemmeno accorta di Ernesto Cantis, non l'aveva veduto, o per meglio dire,
non l'aveva osservato. E lui credeva, il povero ragazzo, ch'ella nutrisse già
per lui una segreta simpatia!
IV.
In casa Martelli la conversazione, tanto più se presente don Ignazio, era la
cosa più gaia e più spiritosa che si possa imaginare. E, sopratutto, libera
assai. Bastava infatti, che non si parlasse in alcun modo di donne, nè di
romanzi, nè di santa Chiesa; bastava non si parlasse male nè del sistema di
governo, nè dei preti, nè dei carabinieri, nè della Banca nazionale, nè della
Perseveranza bastava non si parlasse bene nè dei repubblicani, nè
di Garibaldi, nè di Vittor Hugo, del resto si era perfettamente liberi di
ragionar di tutto, e d'altre cose ancora.
La Elisa era la sola a cui suo padre, volere o non volere, aveva dovuto fare
qualche concessione. Non c'era stato verso di farle dire, nè di farle tacere
molte cose che certa gente seria crede si debbano dire o si debbano tacere,
dalle fanciulle bene educate. Essa - che pur toccava ormai i 18 anni
parlava sempre con una verginità di impressioni e con una schiettezza di
frasi, che talvolta rasentavano la crudità, anche per sua madre, che era pure
infatuata di lei. Questa non rifiniva mai di dirle
che ella era troppo franca. Non c'era verso. Il di lui modo di esprimersi,
quantunque scevro di malizia o di ironia, era sempre così vivo e così
sentito, che gli amici di casa, gente avvezza a tutte le ipocrisie, a tutte le
smorzature, a tutte le banalità delle solite conversazioni, ne
restavano scossi e abbagliati. Perfino Aldo Rubieri, che era pur un artista
di vaglia, non approvava sempre certe uscite della Elisa, quantunque
ammirasse in lei l'ingegno originale e coraggioso, che gliele suggeriva.
Suo padre, non pargliamone! Suo padre, in cuor suo, deplorava di avere
contribuito a dar in luce una pazzarella di quel carattere, dal quale,
secondo lui, un marito non avrebbe cavato nulla di buono.
"Figuratevi! - pensava - alludendo all'antico progetto - Testa falsa lei, testa
falsa lui. No, no, no; cento volte no!
Non c'erano che l'Enrico e il marchese d'Arco, i quali la capissero pel suo
verso e l'applaudissero. Essi davano sempre ragione alla Elisa, il che
talvolta faceva arrabbiare il notaio fino all'escandescenza. Sua madre
taceva e ne gioiva in segreto.
Spieghiamoci bene però anche su questo punto. S'intende acqua e non
tempesta! Quella facoltà molto decisa di dir sempre le cose schiette e senza
smorzature, non escludeva però nella Luisa un'altra facoltà, senza della
quale essa avrebbe potuto qualche volta sembrar una scema in faccia a chi
non l'apprezzava. Essa aveva molta schiettezza in cuore, ma aveva pur
anche molto criterio e molta finezza in cervello, e sapeva a suo tempo e
quando le conveniva, metter in pratica tutte le graziose astuzie della
diplomazia femminile.
Giacchè altra cosa è saper simulare e altra cosa
è saper dissimulare. La Elisa, incapace di simulazione, era forse a tempo e
luogo maestra di dissimulazione. Tanto è vero che se le avesser dato un
segreto da serbare, si sarebbe lasciata uccidere prima di svelarlo. Tutte le
arti, le grazie, le disinvolture, le furberie, le moinerie, le capestrerie che il
cuore detta istintivamente alle ragazze d'ingegno, essa le possedeva per
istinto. Poche fanciulle, pur senza scuola materna e senza buon esempio in
casa, sapevano acconciarsi stupendamente, mostrar, senza farsi scorgere, il
piede e la mano bellissimi, muovere il ventaglio, dar il colpetto di mano
allo strascico della veste, guardar in viso agli uomini con un sorriso
modesto, alzarsi e sedersi, comparire e scomparire, quanto lei.
Il fatto è che a dieciott'anni l'Elisa era considerata da tutti come la testa più
forte della famiglia. L'era una idea codesta che stava nell'aria. La si capiva
chiaramente senza che nessuno l'avesse mai notata o lasciata supporre.
Se qualcuno, a tavola o seduto in circolo, diceva qualche cosa d'insolito o
di bello, guardava in faccia alla Elisa. Il sorriso di lei era il premio
certissimo al buon senso o allo spirito spiegato. Ella, dal canto suo, senza
far mostra di accorgersi d'essere stata consultata o preferita, dava uno
sguardo repentino a sua madre, e se questa non le diceva col cipiglio di
tacere, si era certi di udirla esprimere la sua opinione talvolta perfino
tagliente e frizzante, come quella di un piccolo Tayllerand in gonnella.
Alcuni allora ridevano e commentavano l'arguzia della fanciulla; altri
tacevano, come sopraffatti, e si trovavano quasi a disagio nel nuovo
ambiente, che l'idea spiritosa dell'Elisa aveva
formato intorno ad essi. Un leggero, un lontano, un vago sospetto li
prendeva: quello di poter sembrare per avventura un pochino imbecilli in
faccia a lei.
Un giorno, tra gli altri, il babbo notaio ricevette la lettera d'un pretendente
alla mano di lei; un giovinetto della buona società, un conoscente di casa
che da più mesi faceva una corte tacita e modesta alla fanciulla, senza aver
avuto da lei la benchè minima lusinga.
Costui aveva sentito dire che ogni idea di matrimonio fra l'Elisa e il conte
Enrico O'Stiary era andata in fumo. La dote e le speranze in fieri avevangli
dunque dato il coraggio di chiedere la mano della vergine bellezza.
La lettera giunse dopo pranzo, mentre don Ignazio, colle due donne e il
marchese d'Arco, stavano aspettando il caffè nel salotto. Il notaio, dopo
aver letto il foglio, lo depose sulla tavola con un'aria fra il serio e il
soddisfatto, ed espose ai presenti l'inaspettata domanda.
- Diamine! - sclamò la madre. - Non si usa, mi pare, a domandar la mano
di una fanciulla per lettera. Si manda un amico a far la proposta.
- Non ne avrà! - osservò la Elisa.
- C'è della gente che, temendo il rifiuto, non ama che altri lo sappiano
osservò il marchese.
La Elisa intanto aveva messo, da lontano, lo sguardo sulla lettera, quasi per
indovinare chi potesse essere quel pover'uomo, che veniva a chiederla in
moglie, e aveva veduto in testa di quella lettera una cosa che l'aveva fatta
sorridere; e foggiò subito in testa la risposta che avrebbe data a suo padre,
se fosse stata interrogata sulla sua intenzione. In mancanza di un'arma
gentilizia, lo scrivente
usava dei fogli di carta, che portavano per cifra un ferro di cavallo.
- Che ne dici tu, Elisa? - le domandò suo padre.
- Ma, io dico la verità - rispose coll'accento più umile che potè trovare
nella voce armoniosa la fanciulla - io non mi sento voglia di sposare un
maniscalco.
Il babbo, il marchese e la signora Eugenia ruppero a ridere saporitamente.
Supposero che ella credesse sul serio che quella lettera col ferro di cavallo
venisse da un maniscalco.
La disingannarono....
Elisa li lasciò dire.
- Ma - riprese ella, che sapeva benissimo il fatto suo - perchè dunque
questo signore mette in testa delle sue lettere quell'insegna di maniscalco?
- È la moda del giorno - disse la madre.
- L'insegna dei maniscalchi non è così. È un ferro contornato da un'aureola
di chiodi - osservò il marchese.
- E questa invece che cosa esprime? - domandò la Elisa.
- È un mezzo qualunque per esprimere la propria passione pei cavalli
soggiunse il marchese.
- Ah, se è così - disse la Elisa - io temerei ch'egli dovesse amare più i
cavalli di sua moglie.
Quel motto del maniscalco fece il giro delle conversazioni milanesi. Per
qualche tempo i cartolai che tenevano della carta da lettera col ferro di
cavallo per cifra, stupirono di non vedersene più cercata da nessuno.
Oggi la voga ripiglia.
Fortunati cartolai!
Fra le convinzioni più ferme di Elisa, quella che sovrastava a tutte, la
dominante, la sovrana, la inespugnabile nel suo cuore, era quella di non
poter essere felice al mondo che unita al suo Enrico. L'affetto della
impubere si era mutato, nei tre anni, in sentimento gagliardo ora ch'ella
s'era fatta donna. Già fin da bambina, del resto, quand'essa aveva inteso
per la prima volta il grido di Roma o Morte, si ricordava che per
associazione di idee nella sua testolina era risuonato un altro grido
consimile, essa aveva balbettato in cuor suo: Enrico o morte.
La Elisa aveva anch'essa, come Madame Aubray le sue idee, innate
od acquisite, poco importa. Diversamente della maggior parte delle nostre
fanciulle di buona famiglia, dacchè aveva cominciato a pensare al mistero
della vita, non era rimasta indifferente agli innumerevoli quesiti, che le si
presentavano alla curiosità della mente. Voleva saper tutto continuamente
e tormentava sua madre, che talvolta, messa tra l'uscio e il muro, le
rispondeva frottole da non dirsi. Quanto più essa la pregava di non farle
certe domande, tanto più la Elisa si sentiva presa dalla smania di fargliene
un sacco. Su molti punti, specialmente del mistero immenso, essa dubitava
ancora; era scettica, non incredula; su altri, essa si era formata un'opinione
tutta propria ed incrollabile. In fondo, ell'era socialista senza saperlo. Nè
quelle sue verginali certezze erano frutto di lunghi pensamenti fra sè stessa
o di ragionamenti con altri; erano intuizioni lucide, portate dal buon senso
e dal criterio, che la inducevano
a pensare certi veri nobilissimi, da nessuno rivelati, ma dai quali le pareva
che non si sarebbe scostata, ancorchè le avessero inflitto il martirio.
Fanciulle siffatte sono rare a Milano. Non tanto quanto si potrebbe credere,
ma rare.
Certo, e forse a ragione, si dice che un'Eulalia romana, al giorno d'oggi,
non sia più possibile. Pure la Elisa era proprio della stoffa di Eulalia
romana. Eulalia, sapete bene, fattasi cristiana a sedici anni, quando fu
accusata e trascinata dinanzi al pretore, avrebbe potuto avere salva la vita,
soltanto che avesse consentito a metter un granello d'incenso sul tripode,
che ardeva dinanzi all'abiurato idolo pagano. Ella era così giovinetta e così
bella, che il pretore, estasiato, avrebbe voluto, forse a suo malcosto,
salvarla. Egli le offerse lo scampo. Eulalia diede uno schiaffo all'idolo,
sputò in faccia al pretore e fu mandata alla croce, il patibolo dei cristiani.
La Elisa teneva di questa tempra diamantina. Per una di quelle inesplicabili
contraddizioni femminili, che formano la disperazione dei fisiologi, ella
era timidissima e arrossiva tutta e quasi tremava se si trattava di mettersi in
vista, di presentarsi in un salone a spalle nude, vestita da ballo, o di entrare
in un caffè affollato di gente, che al suo apparire spalancavano gli occhi e
la mangiavano cogli sguardi, sussurrandosi all'orecchio le ammirazioni
desiose e le frasi procaci. Ma se si trattava di un pericolo serio, fosse pur
stato imminente e misterioso, dinanzi al quale tanti uomini smarriscono il
sangue freddo, ella si mostrava calma ed intrepida.
Suo padre le aveva severamente proibito - non se ne parla - di leggere
romanzi.
- Neppure i Promessi Sposi e il Marco Visconti - aveva
domandato lei.
- No, neppur quelli!
Questa proibizione le aveva messo indosso una smania cocentissima di
leggerne assai più di quello che ne avrebbe letti naturalmente, se suo padre
non avesse parlato. Enrico era il di lei complice, che le forniva
nascostamente il pasto desiato. Nondimeno spesso la Elisa trovava molto
noiosi i romanzi troppo morali che Enrico le portava. Egli era assai
puritano in questo; aveva escluso tutti i moderni realisti, e, de' vecchi,
anche il Balzac.
Una sera l'Elisa mostrò a Enrico desiderio di leggere l' Assommoir
Assommoirdi Zola.
Enrico si rifiutò di portarglielo.
- Ho già fatto troppo - disse - a concederti l'altro giorno: L'homme qui
rit
rit- Gran che! - sclamò la Elisa.
E la terribile fanciulla si mise a sparlare di Vittor Hugo.
Enrico la pregò di non farsi sentire da altri. Era come dire a un usignuolo
di non cantar in primavera.
- Avrò torto - diceva la Elisa al conte - ma a me Vittor Hugo qualche volta
fa l'effetto di un uomo che sia lì lì per diventar pazzo. Il marchese mi disse
un giorno che questo è il carattere del genio. Sarà! lo sfido a non ridere
qualche volta di certe frasi di Vittor Hugo. Per esempio mi ricordo questa:
"Un profondo rumore soffiava nella regione inaccessibile."
Se invece di essere Vittor Hugo che ha scritto questa frase fossi io, a
quest'ora mi avrebbero condotta al manicomio. Un profondo rumore che
soffia? E nella regione inaccessibile? Ma cosa vuol dire? La si capisce così
a occhio e croce; ma è genio codesto? Il genio, mi pare a me, dovrebbe
consistere nel dir chiaramente le cose più difficili ad essere pensate da
altri, non nel paccucchiare delle frasi con delle parole assurde. Il Rubieri
per spiegarmi la cosa mi diceva che i romanzi di Vittor Hugo vogliono
essere tutti poemi cosmici, e che egli crede in buona fede di essere il
nuovo Cristo delle miserie umane; ma se è così egli è un Cristo che ritiene
i suoi discepoli e i suoi lettori altrettanti badaux, che lo devono
capire a lume di naso.
La Elisa a dicianove anni era dunque riuscita una piccola enciclopedia
ambulante. Si guardava bene dal farne sfoggio, ma lo era. Tutte le arti
graziose essa le aveva imparate con una rapidità sorprendente, quantunque
sentisse che tutto questo attiraglio di cognizioni superflue non le avrebbe
servito a nulla nei suoi rapporti col giovane al quale la si era votata.
Quanto agli altri che cosa importava a lei di comparire più o meno istrutta?
Sciaguratamente l'Enrico diceva di amarla, ma non l'apprezzava. Egli era
freddo, preoccupato, distratto, sviato. Egli era altrove co' suoi pensieri, co'
suoi desideri, coll'anima, e pur troppo spesso anche col corpo. Elisa capiva
tutto questo, e ne soffriva, pur dissimulando con dignità il suo dolore.
L'allegria del conte quand'era con lei era forzata. Le sue stesse espansioni,
i ricordi, le tenerezze erano tutte superficiali. Si capiva che dopo un'ora che
era stato con lei il giovinetto cominciava a trovarsi sulle spine, e
desideroso di prender il volo. Altre passioni, altre illusioni lo chiamavano
altrove.
Egli aveva veduta Nanà.
La Elisa ne era mortificatissima; ma non lasciava trapelar nulla neppur a
sua madre.
Al marchese una volta aveva lasciato capire qualche cosa del suo
cordoglio. Ne era stata consolata con una frase francese: " Il faut que
jeunesse se passe"
passe"Stavano dunque radunati nel salotto attiguo alla sala da pranzo il notaio, le
due donne e il marchese, che era venuto come il solito, verso le otto a far
la sua visita per trovarsi fra gli amici di casa e per vedere l'Enrico.
Il babbo schiacciava un sonnellino.
Il marchese parlava colle due donne di cose indifferenti. Elisa era distratta.
La Elisa quel giorno s'era levata con un grande progetto in testa. Un
progetto che le si era presentato come un'enormità, ma che sentiva esser
diventato necessario. Lo aveva pensato la notte dopo avere sparso sul
vergine origliere alquante lagrime di dolore, al solo pensiero di trovarsi
obbligata a metterlo in pratica, l'aveva covato tutto il giorno, l'aveva
rifiutato e riaccettato venti volte.
Il progetto era di mostrarsi molto gentile con
Aldo Rubieri, per vedere se Enrico se ne risentisse, per scuotere quella
mortale indifferenza in cui egli era immerso e che la faceva morire di
segreto cordoglio; per suscitare insomma nel suo amante un poco di
gelosia. Ella sapeva bene che questa piccola commedia le sarebbe costato
un grandissimo sforzo. Fingere? Lei? Eppure non le rimaneva altra
speranza che quella. Se l'Enrico si fosse mostrato insensibile anche a quel
tratto, ella sarebbe andata a farsi suora di carità.
È lecito pensare che lo sforzo del far un po' la civettuola con Aldo Rubieri
non fosse poi tanto sovrumano, neppure per lei.
Aldo non era un uomo ordinario; ed era bello, forse più bello del conte.
E poi la donna ha in sè un istinto di civetteria così spontaneo, che nulla
nulla se ne immischi il bisogno o se ne presenti il pretesto, essa lo mette in
opera quasi senza addarsene, forse suo malgrado. C'è nella donna come un
fuoco sacro, che non si spegne mai, ed è quello sopratutto di piacere a tutti,
per piacere di più ad un solo.
Quando Aldo si presentò - prima del conte - la Elisa stava passeggiando al
braccio del marchese il quale era beato anche lui di sentire il braccio della
giovinetta che doveva formare la felicità del suo Enrico, pesare sul suo.
Ella gli stava parlando appunto del conte.
Il marchese a dir vero - uomo di studio che aveva il capo ne' suoi incurabili
e nelle sue medaglie - non sapeva nulla della vita di Enrico. Questi per
coprire ai di lui occhi i suoi errori, gli aveva restituiti dopo pochi mesi i
tremila franchi
che il marchese gli aveva prestati, dicendogli una piccola bugia per giunta.
Vedendo dunque entrare lo scultore, la Elisa premette sul braccio del
marchese e gli fece fare una mezza girivolta.
- Come va la vostra Venere contemporanea domandò a Rubieri
andandogli incontro.
- La creta o la creatura? - domandò Rubieri.
- Ma la creta! - rispose la Elisa - di una modella che non conosco io non mi
curo certamente.
Ella non sapeva la povera Elisa, che a quella modella di cui non si voleva
curare, il suo Enrico aveva scritta una lettera di fuoco.
Ella non sapeva d'essere tradita per colei.
- La creta è quasi diventata una creatura - rispose Aldo Rubieri. - Ne sono
contento.
Egli andò poi a salutare donna Eugenia e il notaio che s'era messo a
leggere il Corriere della Sera crollando spesso il capo, e
dichiarando che alla fine del trimestre avrebbe lasciato l'abbonamento,
perchè quel foglio da qualche tempo tirava al liberale.
Aldo ritornò verso la Elisa che lo aspettava. Ella lo fece sedere accanto,
per domandargli se era vero ciò che le aveva contato la mattina suo padre...
- Cioè?
Che il sindaco gli avesse annunciata la sua nomina ad assessore
municipale.
Aldo annuì. La Elisa sostenne la conversazione variata, saltellante, frivola
fino al momento in cui dal campanello capì che chi entrava era il suo
Enrico.
Allora ell'ebbe un movimento sublime di civetteria; disse tutt'a un tratto a
Rubieri:
- Lei non s'è neppur accorta che quest'oggi io ho cambiata pettinatura.
- Altro che me ne sono accorto - rispondeva Rubieri mentre il conte si
presentava sulla soglia dell'uscio della sala.
- Come la mi trova dunque? Le piaccio così?
- Ah, Elisa, lei è adorabile ancora più del solito - rispose Aldo che volgeva
le spalle all'uscio e non poteva accorgersi che Enrico era entrato.
Infatti la Elisa quella mattina s'era fatta tagliar i capelli alla Vallière, sulla
fronte, e stava superbamente bene.
Aldo se n'era accorto, ma la fanciulla lo aveva talmente coperto di
domande nel frattempo che egli non aveva avuto neppur l'agio di muoverle
un complimento.
Ora trovandosi così interrogato con voce più viva del solito aveva risposto:
- Oh, Elisa, lei è adorabile più del solito.
Era tutto quello che la fanciulla potesse desiderare. Mentre l'Aldo diceva
questa frase Enrico gli passava rasente e la udiva. La Elisa non guardò in
viso al conte. Finse di essere tutta intenta a quello che le diceva Rubieri.
Il conte passò fingendo di non udire le parole di costui. La Elisa ne fu
piccata in modo che raddoppiò i graziosi atteggiamenti in faccia allo
scultore, e la più glaciale indifferenza pel suo adorato.
Era la prima volta che a Rubieri succedesse di veder una cosa simile.
Enrico, salutata la madre e il notaio, venne a stringer la mano a Elisa e ad
Aldo Rubieri.
- Buona sera, Enrico - disse la Elisa sorridente disinvolta.
Poi senz'altro si volse a parlare di nuovo allo scultore, che nel frattempo
aveva corrisposto alla stretta di mano di Enrico.
Il quale, per non aver l'aria di ascoltare il colloquio fra la Elisa e Aldo, si
ritrasse colpito dal nuovissimo contegno della fanciulla. Il marchese in
quella lo abbordò parlandogli di cose indifferenti. Egli lo ascoltava e gli
rispondeva macchinalmente, ma colla coda dell'occhio andava spiando le
mosse di Elisa che proseguiva con Rubieri la sua piccola manovra da figlia
di Eva.
Ella si accorse di avere destato in Enrico qualche cosa di insolito, senza
mai far mostra di accorgersi di lui; ma pur strisciando, collo sguardo
girante, sullo sguardo del conte, s'accorse ch'egli la studiava ed era
sorpreso. Essa continuò ripromettendosi il trionfo finale.
Ma per quella sera non vi fu spiegazione alcuna fra loro.
V.
La sera dopo al teatro Milanese si dava una rappresentazione mista in
dialetto ed in francese.
La nascente compagnia ambrosiana lasciava il posto ad una troupe
troupefrançaise che pigliava possesso di quel palcoscenico. L'impresario
aveva combinato per le ultime serate delle recite internazionali metà di
dilettanti milanesi metà di comici francesi.
Per lever de rideau la Giannella recitava una farsa del Duroni, a cui
faceva seguito una commedia in due atti di Scribe jouèe par madame
Blanche et par monsieur Babil
BabilLa sala allora non era com'è adesso. Non c'erano palchi. Una loggia
sostenuta da colonne aggettava in mezzo della parete dicontro al
palcoscenico e accoglieva un centinaio di spettatori.
Quella sera non ce n'erano più di venti sparsi quà e là al parapetto.
Verso le nove e mezzo Nanà fece il suo ingresso in quella loggia
accompagnata da un'amica e da un cavaliere.
Il sipario era calato.
- No - rispose Nanà - ti dirò poi.
- E che cosa dici della mia lettera?
Nanà lasciò scappare una di quelle sue risate sonore, che fece volgere il
capo a tutto il teatro.
- Perchè ridi?
- Perchè insieme alla tua ne ho ricevuto altre sette.
- Sette!
- Sette?
- Chi sono?
- Ah, se tu volessi farmi dire tutti que' nomi, saresti bravo. Mi ricordo di
quello di un solo: del conte Enrico O'Stiary. Lo conosci?
- Di vista, - rispose Marliani, - eccolo là.
- L'avrei giurato che era lui - sclamò Nanà.
- E dimmi un po', chi è quel signore che ti accompagna, che era qui
poc'anzi?
- Oh, sans consequence È il cugino del mio albergatore; l'ho
pregato io stessa di accompagnarci.
- Ti fa la corte?
- Ma neppur per ombra.
- E mi risponderai alla lettera?
- Perchè no? Dove stai? Debbo parlarti.
Marliani cavò un biglietto di visita, sul quale, in calce, stava l'indirizzo.
- Debbo parlarti di cose serie. Ma guai a te se tu dici qualcosa sul conto
mio... sai. A Parigi tu non mi hai conosciuta.
- Mi credi un mascalzone?
Nanà fu rassicurata. Allora cominciò gradatamente ad alzar la voce,
parlando di tutt'altro e volgendo la parola anche all'amica che le sedeva
accanto.
- Oggi ho fatto conoscenza con madame Blanche che è alloggiata
nel mio albergo. - disse Nanà. - Fu lei che m'indusse a venir qui stasera.
- È piuttosto brava - disse Marliani tanto per dir qualche cosa.
- Anzi - soggiunse Nanà levandosi; giacchè in lei la risoluzione era sempre
contemporanea all'idea che le scattava in testa e non usava mettere fra
l'azione e il pensiero il benchè minimo intervallo. - Voglio andar sul palco
a trovarla. Accompagnami.
Nanà dava assai facilmente del tu a' suoi amici. Chi non sapeva nulla di
questo vezzo, aveva talvolta delle sorprese singolari. Capitava di doversi
domandare se ella avesse tanti amanti o tanti fratelli, o tanti cugini quanti
si trovavano in una sala in cui ci fossero, per esempio, una trentina di
giovinotti.
A ventinove di essi, essa dava del tu, con magnifica disinvoltura.
- Mi lasci qui sola? - disse la signora Fanny.
- Vieni anche tu.
Nanà diè il braccio a Marliani, e si mossero verso il palcoscenico.
Sul palco trovarono per prima la Giannella, a cui un collega burlone stava
dando a intendere che quella mattina una donna aveva partorito, uno dopo
l'altro, dieci figli tutti maschi e tutti vivi.
A tale notizia, la Giannella aveva spalancati i suoi occhi grigi e aveva
sclamato:
- Tu mi sgonfii!
- Ma no; è un fenomeno rarissimo, ma non è la prima volta che succede.
- Fino a quattro, l'ho già sentito dire anch'io... ma dieci poi... mi par troppo.
- Eppure è un fatto!
- Oh, guarda mo', povera disgraziata! - sclamò allora la Gianella, che s'era
data subito a credere al barzellettatore. - Ed è viva ancora?
- Altro che viva! Si dice anzi che ieri, dopo soli tre giorni, sia andata dal
Cabrino a ballare.
Un barlume di sospetto che il suo compagno d'arte si burlasse di lei, passò
negli occhi sorridenti della Gianella.
- Per bacco! Dieci? Saranno ben piccini.
- Ma che! - rispose l'altro colla più imperturbabile serietà - sono tutti
grossi, al contrario, come bimbi di un mese.
- Ma bisogna dire allora che essa sia una gran macchina di donna.
- Lei? Non è più grossa di te.
La Giannella portò le due mani sul grembo, come per assicurarsi che in
esso non ci avrebbero potuto stare dieci marmocchi.
In quel punto gli astanti che non potevano più reggere, scoppiarono in una
fragorosa unanime risata.
- Ah! Voleva ben dir io! - sclamò la buona Giannella, guardandosi intorno
ramminchionita e sorridente. - Che cosa ne so io? Se ne sentono tanti
adesso di felòmeni!
felòmeni!Nanà e i suoi due compagni s'erano fermati presso la Giannella e avevano
udito quel singolare diverbio:
"Ma è la Tatan Nenè sputata" pensò Nanà.
In questo il direttore le si accostò:
- Vorrei parlare a madama Blanche - disse quello.
Il direttore le additò il camerino e ve l'accompagnò.
Nel camerino di madama Blanche Nanà trovò Aldo Rubieri e il marchese
Sappia, i quali avendola veduta andar sul palcoscenico dalla parte di
destra, l'avevano preceduta dall'altro ingresso a sinistra.
Aldo Rubieri e Sappia non si conoscevano; madama Blanche li aveva
presentati uno all'altro.
- Di nome è un pezzo ch'ella è conosciuta da me - gli disse il marchese.
- Posso dire anch'io che il di lei nome non mi è nuovo. Ell'è grande amico
di un mio amico, il conte O'Stiary.
- Di Enrico? Ma sì, diavolo! L'ho lasciato appunto in platea.
Nanà entrò.
Dopo gli abbracci, i saluti, le congratulazioni colla artista cominciarono i
complimenti da parte di Sappia e di Rubieri che madama Blanche le
presentò.
Questi da vero artista, che ha il diritto di rilevare più che altri, le bellezze
formose nella donna, scoccò a Nanà un complimento così plastico, che
questa ne restò colpita ed estatica.
Allora ella gli parlò subito del desiderio di avere da lui un ritratto in
marmo. Gli domandò il permesso di andar il giorno dopo a visitare il suo
studio.
Quanto al marchesino Sappia egli era così commosso dalla vicinanza di
Nanà che balbettava, e per mostrar disinvoltura faceva invece la corte a
madama Blanche.
Madama Blanche, che aveva mangiata subito la foglia, accettava quella
corte di ripiego con molta ironía. Ella si era messa allo specchio e
truccandosi faceva mostra di non sentir le lodi che Rubieri profondeva a
Nanà, perchè quelle lodi... fatte a un'altra, nel suo camerino, la seccavano
enormemente.
Finalmente il Sappia interpellato da Nanà dovette volgersi anche a lei. E
allora si capì perfettamente che quelle due creature, le quali pareva proprio
si vedessero per la prima volta, s'erano conosciute altrove... di sfuggita,
misteriosamente, da un gran pezzo forse, ma s'erano già vedute in qualche
altro luogo di questo mondo.
Una frase di Nanà tolse ogni dubbio a Rubieri e a madama Blanche.
- Voi siete sempre un gentiluomo, non è vero? - domandò Nanà a Sappia,
accomiatandosi e stringendogli la mano molto inglesamente. A cui Sappia
aveva risposto:
- Ne potete dubitare? Non temete nulla da me.
Nanà quando fu nello studio dello scultore fu presa dalla sua solita smania
di far valere la sua immensa bellezza plastica. A Rubieri era bastato uno
sguardo per accorgersi di essa e non avrebbe potuto desiderar di meglio
che di averla per modella. Ma naturalmente non osava. Fu Nanà che gli
disse essere pronta a lasciarsi far il ritratto ignuda, e allora Rubieri per
idealizzare l'opera sua aveva trovato un'idea che gli era parsa luminosa, e
che Nanà aveva accettata con entusiasmo.
- Io farò di voi la Venere contemporanea.
E così s'era fatto. In meno di quindici giorni, dal blocco informe di creta,
era già sortita come un giorno dalle spume del mare somigliante e
stupenda la statua-ritratto della Nanà.
VI.
Filippo Marliani abitava in una camera di venticinque lire al mese in via
Solferino.
Era una stanza che pareva creata apposta per designare il carattere e
l'ingegno di chi l'abitava. Per quanto preoccupato, per quanto al verde, per
quanto disgraziato un uomo di buon gusto, non può vivere in certe camere
mobiliate milanesi, ancorchè gentile ne sia la padrona che la rigoverna
soffice il letto e a buon mercato la pigione. C'è in molt'uomini un
sentimento delicato, ombroso, superiore ad ogni idea di risparmio,
inavvertito spesso, ma sempre vigile e tiranno per conto proprio, il quale si
ribella continuamente all'aspetto delle cose volgari o anche soltanto
sgraziate e brutte.
Filippo Marliani, che era pure quel che si dice un bel giovane, e che era
stato anche ricco, aveva il difetto di essere assolutamente privo di ogni
idea estetica, non sognava che a questo mondo esistesse il sentir fine, non
aveva alcuna nozione nè innata nè acquisita del buon gusto.
Filippo, da parecchi mesi, trovavasi in una terribile crisi finanziaria. Aveva
fatte delle perdite
grosse al giuoco, e s'era ridotto in quella camera da venticinque lire al
mese, dopo d'aver venduto a poco a poco tutto ciò che teneva di bello e di
ricco nel suo antico quartierino da scapolo agiato.
Il giorno dopo della sera che Filippo rivide Nanà a teatro - era un sabato
si trovava possessore dell'ultimo, unico, estremo suo biglietto da mille lire;
con ottocento di esse doveva soddisfare a un debito di giuoco rimastogli
della sera innanzi, col resto tentare per l'ultima volta la sorte. Se questa gli
fosse stata avversa si sarebbe fatto saltar le cervella. Lo aveva fissato e gli
pareva di aver il coraggio di non mancare al proposito.
L'incontro di Nanà a Milano era un fatto che doveva influire grandemente
su questo progetto. Egli non si accorse di desiderare ancora ardentemente
quella donna. La miseria è tal cosa che tronca ogni desiderio superfluo. La
galanteria all'aspetto di questa si spaventa e fugge.
Nanà s'era accorta ch'egli doveva essere in miseria. Le donne in questo
hanno un fiuto straordinario. Essa che lo aveva conosciuto a Parigi soltanto
tre anni prima splendido e prodigo, vestito assai bene, lindo, profumato,
aveva capito a prima vista la differenza.
Era di poco battuto il tocco quando Nanà entrò nella camera di Filippo.
Essa entrò sorridendo e mostrando fra le labbra le sue mirabili due fila di
denti, coll'aria trionfante di una donna la quale sa di render all'uomo che
essa va a trovare uno degli onori più grandi che creatura umana possa fare
ad un suo simile.
Ma dato un rapidissimo sguardo intorno in quella camera di Filippo fece
una smorfia colle labbra e cogli occhi, nella quale si sarebbe veduto
chiaramente un senso spiegatissimo di delusione e di disgusto.
Filippo voltava le spalle all'uscio pel quale Nanà era entrata, e stava tutto
assorto, sotto ad una finestra, in una operazione discretamente eteroclita.
L'aspetto di quella camera aveva dato di botto sui nervi a Nanà. Eppure la
era una stanzetta ordinata, pulita, ammodo. La stiratrice che era venuta
poco prima a recar a Filippo la sua scarsa biancheria della settimana non
rifiniva di lodarla. Ella trovava che ci si sarebbe stati bene anche in due.
Non un filo fuori di posto; non una macchia, non uno sdrucito.
Ma agli occhi di Nanà c'era del superfluo che guastava ogni cosa.
Sulle pareti, per esempio, in cornici di finto ebano stavano appese quattro
stampe rappresentanti quattro episodi del vecchio testamento: abbominî di
disegno, di composizione e di colorito. E Filippo non se n'era mai accorto!
C'era un caminetto. A chiudere la bocca di quel caminetto c'era un
paracamino. Uno sciagurato imbianchino sulla carta di quel telaio aveva
dipinto un paesaggio al cader del sole così obbrobrioso, da far venire in
uggia la campagna ed il cader del sole.
E Filippo non se n'era mai accorto.
Sul piano del caminetto Nanà scorse tre oggetti
nefandi. Al posto del pèndolo, una grossa scatola col coperchio tutto
incrostato di conchiglie terrestri e fluviatili, e, da una parte e dall'altra, due
vasi barocchi con dei fiori di velo, sotto la loro brava campana di vetro
colla rispettiva ciniglia verdesporco, che ne cingeva la base sul piedestallo
di legno dorato.
Quei quadri, quel paracamino, quella scatola colle conchiglie e quei vasi
erano certo la parte caratteristica, dirò così, di quella ignobile stanza, ma
non erano ancora tutto. Intorno intorno Nanà, con quell'ammirabile
rapidità di sguardo ch'ella possedeva quando voleva vedere, pari alla
supina inerzia ond'era presa quando non le importava nulla di sapere, ebbe
un'altra impressione molesta; quella che alla Francese si direbbe
choquante.
choquante.Fu la presenza di un oggetto preparato su una sedia a piè del letto, accanto
ad una camicia di bucato: un bel paio cioè di bretelle ricamate.
Le bretelle all'imaginazione delle donne rappresentano la vecchiaia
dell'uomo che le porta. Eppure quelle bretelle di Filippo erano bellissime
per quanto logore e macchiate dal sudore. Erano un avanzo dei giorni
agiati e felici. Si capiva lontano un miglio che dovevano essere state un
dono di qualche umile e molto borghese amante. Le liste maggiori erano
minutamente ricamate in seta con leggiadro lavoro. Esse facevano capo da
una parte e dall'altra a degli anelli, da cui si biforcavano i minori straccali
di pelle liscia, che terminavano cogli occhielli, i coniugi legittimi dei
rispettivi bottoni dei pantaloni.
Filippo stava, come fu detto, colle spalle rivolte all'uscio d'ingresso,
intento in un'operazione alquanto misteriosa. Teneva piegata la testa e
lavorava attento a due mani intorno ad un oggetto che Nanà non poteva
discernere.
Nanà, accortasi che egli non l'aveva udita entrare, tossì.
Filippo si volse come sgomento, e vedendo la bella donna lì sul limitare,
arrossì tutto e portò le due mani dietro la schiena.
Non ci riuscì a nascondere il proprio delitto. Nanà aveva già veduto, aveva
capito tutto ed era scoppiata in un irrefrenabile riso.
Filippo nella destra teneva una forbice inditata, e nella sinistra un solino da
collo inamidato, al quale stava facendo la barba.
Il far la barba ai solini da collo che perdono la bava dall'orlo, è
un'operazione che le stiratore non si attentano di fare per loro conto, e che
spetta a que' poveri diavoli, i quali non pensano a provvedere dei solini
nuovi, quando i vecchi sono logori. Certo è che codesta operazione è fra le
più gelose della vita, tanto che chi è costretto di farla, si lascia vedere il
meno possibile che può e tanto meno poi da una donna, e tanto meno poi
da una donna bellissima, alla quale già altra volta si è protestato
ardentissimo amore.
Nanà trattenne l'ilarità, che mortificava Filippo e fu la prima ad aprir
bocca, e senza il più piccolo preambolo gli disse a bruciapelo:
- Cosa diamine è successo di te? Sei dunque rovinato?
- Perchè? - balbettò Filippo.
- Ma lo si capisce. Sei venuto a stare in una camera, dove io non ci starei
nemmeno dipinta, e ti tocca, a quel che sembra, di refilare i tuoi colli per
poter uscire.
Filippo non rispose.
- Dunque non mi dici nulla a vedere che io mi sono incomodata per te?
diss'ella che si era seduta frattanto nell'unica sedia a braccioli che fosse
nella camera.
E sdraiandosi in essa Nanà non aveva mancato, come al solito, di scoprire
per un buon palmo, con un colpetto di mano, la stupenda gamba a Marliani
già nota.
Filippo non aveva buon gusto; ma contava, prima di tutto, soli ventisei
anni, possedeva una salute di ferro e una concupiscenza d'oro. Il suo
temperamento sanguigno, irritabilissimo al solletico del senso, era già stato
scosso potentemente al primo incontro degli occhioni di Nanà; Potete
figurarvi cosa ne nacque alla vista del piede e della calza di seta ond'era
coperta la gamba della donna già amata alla follia....
Lasciò cadere a terra solino e forbice, si avventò per così dire contro Nanà,
con un moto di caldissima tenerezza, e fece per stringerla al seno.
- Un momento! - sclamò Nanà ritraendosi colla sedia; la quale avendo le
rotelle scivolò indietro un bel tratto. Filippo che s'era curvato innanzi,
perdette l'equilibrio e stette quasi per stramazzare al suolo. Lo scappuccio
che egli fece mancandogli il centro di gravità fu così comico che
Nanà dovette malgrado dar fuori in un'altra grande risata.
Nè faceva bisogno d'essere una cocotte parigina per questo!
Filippo questa volta era mortificato sul serio.
Nanà godeva immensamente in cuor suo di riuscir con così poco a
mortificare un pover'uomo! Anzi parendole venuto il tratto per aumentar la
dose di quella confusione, si volse, prese in mano gli sciagurati straccali,
che stavan sul dossale della sedia e presentandoli a Filippo:
- Tu dunque - disse - ti sei messo a tirar su i pantaloni con queste
carrucole?
A Filippo s'affacciò per risposta e per giustificazione una bugia.
- Li usai per montar a cavallo - voleva dirle.
Ma pensò che Nanà se ne intendeva e che nei bei tempi andati l'aveva
veduto vestirsi una volta per montar a cavallo, senza bisogno di quei
tiranti. S'accontentò di rispondere:
- Il sarto m'ha fatto i calzoni troppo larghi.
Per poco ancora stettero in silenzio. Filippo divorava cogli occhi Nanà, che
guardava altrove e diceva fra sè: che grullo!
- E dunque? - ricominciò Nanà.
- Dunque, che cosa?
- Non mi conti nulla?
- Io nulla.
- Sei in collera?
- No, ma capisci bene.
- Che cos'è che debbo capire?
- Io avrei voluto abbracciarti e farti un bacio e tu ti ritiri, che quasi mi
facevi cadere e poi invece mi domandi se tiro su i calzoni colle carrucole.
- Mi piace tanto a veder gli uomini arrabbiare!
- Ancora?
Se Filippo non avesse avuto in corpo quell'orgogliuzzo da dozzina, quel
ticchio permalosamente goffo, che è pure la caratteristica di tanti bei
giovani di Milano e di altri luoghi, in questo punto avrebbe trionfato
immediatamente.
Ho detto che in fatto di sensualismo Nanà non aveva ritegni.
Contraddizione costante anche in questo. Essa era a momenti una donna
fredda come marmo o magari, a momenti, la più sfrenata baccante della
terra. Da madre natura ella pareva creata indubbiamente e mollemente
lasciva; i suoi occhi e le sue rotondità troppo chiaramente parlavano; non
si poteva pigliar abbaglio.
Quel giorno, dopo tanto erotico digiuno, ella sarebbe stata in gran vena di
pazzie; e se Filippo avesse saputo fare, ella sarebbe tornata sua amante
d'un giorno, con entusiasmo, malgrado la manifesta arsura di lui.
Povero Filippo Marliani!
Egli non s'accorse di essere un uomo perduto. Il presentimento non gli
disse che fra il suo suscitato ardentissimo desiderio e la pur evidente
condiscenza di Nanà, due elementi che sarebbero stati lì lì per intendersi
tanto bene, si era elevato un ostacolo insormontabile nella mente e per ciò
nei sensi di lei: il sentimento del ridicolo. Gli è in questo senso che i
Francesi dicono che il ridicolo uccide.
Egli non vedeva in quel punto che la difficoltà di rompere di nuovo il
ghiaccio.
Ebbe una sciagurata ispirazione.
Si mosse verso l'uscio.
- Che fai? - gli domandò Nanà.
- Chiudo l'uscio - rispose Filippo con un sorriso tra l'ebete, il compiacente
e il fatuo.
- A chiave?
- Sicuro a chiave.
- Non voglio.
- Perchè?
- Perchè m'hanno veduta entrare e non voglio si dica che fui chiusa dentro
a chiave con te. E poi del resto sai, debbo andarmene subito.
- Che cosa sei venuta qui a fare allora se vuoi andartene subito?
- Oh bella! Prima per domandarti un parere per un'idea che m'è venuta,
cioè per una proposta che mi fu fatta da un impresario, che vorrebbe ch'io
diventassi artista... poi per raccomandarti di non parlar di me a nessuno...
poi....
- Poi che cosa?
- Poi per vedere se tu mi potevi prestare un migliaio di franchi.
Filippo si sentì come fulminato. Ma non si tradì.
- E se io potessi prestartelo il migliaio di franchi che faresti tu per me?
disse con voce leggermente tremula di emozione.
- Nulla... cioè ti ringrazierei.
- In che modo?
- Colla bocca.
- Null'altro?
- Null'altro.
- Perchè?
- Perchè - rispose Nanà - non vorrei che tu credessi ch'io voglia ripagarti
del favore che mi faresti.
- Neppur un bacio?
- No. Un mio bacio o non deve valer denaro o deve valere dei milioni.
- Poumh?
Filippo dalle sortite di Nanà era continuamente disorientato. Quello spirito
pieno d'ordine, abitudinario, limitato e timido non capiva le eccentricità di
Nanà. Lo facevano ammutolire.
Allora quello sventurato, che teneva nel portamonete il danaro, col quale
doveva pagare nelle ventiquattro ore il suo debito di giuoco della notte
prima, trasse di tasca il portamonete e fece atto di cavarne il biglietto da
mille.
- No - disse Nanà alzando la mano verso di lui. - Ora non li voglio più.
- Perchè non li vuoi più? - domandò con crescente esterefazione Filippo.
- Sei sfortunato oggi - sclamò Nanà sorgendo in piedi e ridendo un poco
sforzata. - Se tu mi avessi dati que' mille franchi senza dir parola, se invece
di pensare al compenso tu mi avessi fatto vedere che non pensavi ad altro
che a rendermi un servizio, puoi star sicuro che.... Capisci bene; tu mi
conosci già! Così me ne vado. Addio.
Filippo mise in tasca il portamonete.
Lo sguardo con cui Nanà accompagnò quella ritirata nelle tasche, mentre
stava per volgere le spalle al giovane, fu una piccola iliade di ironia e di
disprezzo.
- Nanà, fermati - le disse Filippo prendendole una mano.
Ella si volse.
- Io non ci capisco un bel nulla, di questi tuoi capricci.
- Lo so bene che non capisci nulla. Se tu li avessi capiti, non ci saremmo
annoiati l'uno dell'altro in soli otto giorni... ti ricordi, a Parigi. Oppure a
quest'ora io sarei già stata tua di nuovo.
- Ammetterai però d'esser un grande originale!
- Sarà benissimo!
Filippo le recinse la vita colle braccia, e Nanà le lasciò fare. La mossa, il
gesto del giovane erano stati fatti abbastanza bene, e ciò era bastato perchè
Nanà non se ne fosse schermita. Filippo curvò la testa sulla guancia di
Nanà, la baciò ardentemente poi le disse in orecchio:
- Che cosa dovrei fare per ridiventarti simpatico?
Nanà ruppe a ridere. Filippo, abbassando lo sguardo sul seno turgido e
semicoperto della voluttuosa creatura si sentì nelle vene un fenomeno,
come se in esse fosse corso, non del sangue, ma della lava incandescente.
- Che cosa dovresti fare per diventarmi simpatico? - rispose Nanà
svincolandosi da lui. - È più facile ch'io ti dica quello che non dovresti
fare. Vedi, Filippo, per me il cedere non è questione come per tante altre,
nè di tempo, nè di fatti, nè di gratitudine, nè di compassione. A me gli
uomini sono simpatici o sono antipatici a prima vista. Dopo due minuti che
li ho veduti o che li ho intesi a parlare, io potrei dirti: di questo non sarò
mai l'amante, di quello lo sarei stata in tre ore, s'egli mi avesse voluta.
- Ma tu di me lo fosti già una volta!
- Appunto perchè allora mi apparisti amabile.
- Ed oggi no?
- No.
- Perchè?
Nanà, parlando girandolava per la camera ed era giunta dinanzi al camino.
- Ecco, per esempio - diss'ella alzando il coperchio della scatola fatta di
lumachine e di conchigliette - ecco qua. A me sarebbe impossibile
l'innamorarmi di un uomo, il quale tiene in casa sua di queste porcherie.
- Che ne so io? C'era, l'ho lasciata e la mi serve.
Nella scatola, Nanà vide delle fotografie. Ne levò una, la guardò con un
sorriso pieno di ironia, poi domandò:
- Chi è questa?
- È la mia amorosa - rispose Filippo con un'alzata d'ingegno.
- Davvero? Te ne faccio i miei complimenti. È molto bella.
- Ti pare?
- C'è mai pericolo che essa mi trovi qui?
- No. Essa non viene qui. Vado io da lei.
- Perchè non me l'hai detto subito che avevi un'amante di questa forza?
- Perchè essa ama me, ma io non amo lei.
- Chi ami tu?
- Lo sai bene.
- Vorresti darmi ad intendere che tu sei innamorato ancora di me?
- Ora che ti ho riveduta, sono certo di esserlo, perchè tu sei sempre per me
la più bella donna dell'universo.
Nanà vibrò al giovine uno di que' suoi sguardi ben intenzionati, che
avrebbero avuto la potenza di far rizzare i capelli in capo a un morto.
Filippo spasimava.
- Nanà, sii buona - le disse egli; e prendendole le mani se la attirò sul petto,
la recinse col braccio, le disse all'orecchio parecchie frasi insensate e senza
sintassi, ma che volevano dir tutte chiaramente la stessa cosa.
Nanà lasciava fare e udiva con voluttà quel vaniloquio.
Ad un tratto sclamò:
- Mi hai detto che essa è innamorata di te?
- Molto.
- E soffrirebbe se tu la dovessi lasciare?
- Credo che ne soffrirebbe assai.
- Vuoi tu lasciarla per amor mio?
- Me lo domandi? - rispose come gemendo lo sciagurato Filippo.
- Me lo giuri?
- Te lo giuro.
- Che pegno, che sicurtà mi puoi dare che lo farai?
- Quella che tu vorrai impormi.
- Se io esigessi che tu non l'avessi a vedere mai più?
- Obbedirei.
- Se io volessi che tu stracciassi in mille pezzi questo suo ritratto?
- Ecco - disse Marliani facendo il ritratto in pezzi.
- Se io volessi che tu gettassi dalla finestra queste lumachine?
- Ecco.
E afferrata la scatola Marliani aperse le imposte, diè un'occhiata di sotto
nel cortile e vi scaraventò la scatola.
- Se io esigessi che tu non avessi più mai a portar le bretelle?
- Ecco!
E Marliani, raccolte le forbici che stavano a terra, e presi in mano i tiranti,
li tagliuzzò in varî pezzi.
- Sei contenta?
- Sì.
- Vuoi altro?
- No. Adesso che sono persuasa, va pure a chiudere l'uscio a chiave.
La mattina seguente al bel primo svegliarsi si affacciarono alla mente di
Filippo Marliani due imagini e due idee importantissime, di cui l'una
voluttuosamente splendida, l'altra sgarbatamente molesta.
La prima era Nanà. Quella donna che tutti desideravano, che aveva
prodotta nella gioventù dorata di Milano una insolita effervescenza, per
posseder la quale molti avrebbero dato, se non la vita, gran parte dei loro
averi, era ridivenuta senza farlo basire, la sua amorosa.
La seconda idea, che attraversava e che smorzava quella superba gioia era
la ripetizione di un fastidio e di un rimorso che già egli aveva risentito il dì
prima, non appena Nanà lo aveva lasciato solo nella sua cameretta. Era
prodotta da due fatti egualmente gravi e umilianti: quello di trovarsi senza
più il becco d'un quattrino indosso, e quello di non aver potuto pagare nelle
ventiquattr'ore
il debito di giuoco di ottocento franchi, contratto la notte dianzi.
Egli, infatti, di nascosto di Nanà, la quale - credeva. - non avrebbe voluto
più accettare il suo dono le aveva scivolato nel portamonete il suo ultimo
biglietto da mille franchi, che avrebbe dovuto servire a quell'ufficio
indispensabile per chi voglia comparire ancora in una sala di giucco.
E si trovava perfettamente al verde. E - ciò che non è indifferente a notarsi
- non teneva più in casa neppur un filo con cui far danaro. L'abbiamo
veduto fare la barba ai solini da collo sfilacciati. Segno di grande arsura!
Se non che l'anima umana è così avida di felicità e si sottrae così volentieri
al dolore e all'umiliazione, che sulle prime il pensiero di Filippo figgendosi
ardentemente nell'imagine di Nanà gli fe' riprovare soltanto la gioia e
l'estasi vivissima d'averla ancora posseduta.
- Nanà, mia Nanà, bella Nanà terribile - andava egli dicendo mentre si
vestiva; e non si saziava di ripetere quel nome come per tener occupata la
mente e ributtar indietro le idee importune. - Che splendida creatura! Che
occhi, che capelli, che denti, che profumo di donna sana! Ma l'orgasmo
erotico durò poco.
Bisognava pensar all'avvenire, e provvedere alla vita. Quell'ultimo
biglietto da mille, che avrebbe dovuto servire, per tre quarti a pagar un
debito di giucco, e pel resto ad essere arrischiato, e a produrre chissà che
risorsa, sfumato in quel modo gli toglieva la speranza di potere la
sera tentare di nuovo la sorte. Ad ogni modo in bisca egli non ci sarebbe
andato che di sera. Ma intanto? I due piccoli problemi
della giornata: la colazione ed il pranzo, come si risolveranno?
"Potrei - cominciò passando in rassegna i mezzi leciti - potrei andar in
cerca d'un amico e farmi invitare da lui dicendo di avere dimenticato a
casa il portamonete. O potrei anche fingere al restaurant di averlo
lasciato a casa. Ma questo stratagemma andrà bene un paio di volte! E poi?
Chi me ne darà?
Erano però i due espedienti più ragionevoli pel momento; risolse di metter
in pratica l'uno o l'altro a seconda del caso, e uscì.
Non trovando l'amico da cui farsi invitare fece colazione come il solito al
suo caffè, ordinò al cameriere di fargli il conto, poi frugando in tasca colla
più gran disinvoltura del mondo, finse d'aver lasciati a casa dei biglietti da
mille, che ci avrebbero dovuto esser dentro, e si levò tutto turbato per
paura che... la donna che rigoverna la camera... non si sa mai!...
- Si figuri! - gli aveva già detto il cameriere, prima ch'ei fingesse quelle
smanie. - Pagherà domani!
Anche quel pagherà domani fece a Filippo un effetto singolare...
"Chi è che mi insegna come si fa a guadagnar danaro?" - pensava
avviandosi senza saper dove. - Domani se non pesco danaro non potrò
neppur tornar qui a far colazione. Gli amici li ho già gonfiati tutti. Non c'è
più da cavarne nulla. È terribile!"
La farsa del portamonete lasciato a casa fu ripetuto da lui per il pranzo in
altro luogo.
Ma venne il vero punto tòpico, anche per Filippo
Marliani; quello cioè di non poter più passare dinanzi a certi caffè nè a
certe trattorie per non farsi vedere, e di non saper più quale albergo
scegliere ancora da mistificare.
Per capir bene questa situazione in tutta la sua verità, in tutti i suoi
spaventevoli particolari, in tutti i suoi segreti inesplorati, è necessario saper
bene che cosa voglia dire patir la fame per mancanza fin di un paio di soldi
da comperarsi almeno del pane.
E si badi! A questa fame, per mancanza di pane, non vanno soggetti che gli
uomini della condizione di Filippo Marliani, a cui è vietato il guadagnar
sia pure due soldi. Il miserabile, che vuol lavorare, non sa che cosa sia. Se
non trova da guadagnar i due soldi, stende magari la mano all'elemosina e
li raccatta. Marliani no. Per capir bene, ripeto, questa situazione, è
necessario l'essere andato qualche volta a letto verso il tramonto, quando la
fame più assaetta lo stomaco, a tentar di dormire per non provar gli
spasimi e l'umiliazione. È necessario sapere qual grado di carattere e di
probità abbisogni ad un uomo che veste di panno per affrontare e cacciare
indietro le idee invadenti, che fanno ressa e rivolta in faccia al senso
morale, protestando rabbioso contro la ingiustizia distributiva, contro il
sistema sociale, contro tutto ciò che i politici chiamano l'ordine stabilito.
Filippo Marliani però non pensava che del suo trovarsi in quell'orrendo
disagio aveva colpa lui stesso.
Amava meglio prendersela contro l'ordine stabilito.
Camminando alla ventura delle ore intere, resistendo
all'idea di andar a trovare Nanà, alla quale non voleva presentarsi a mani e
a tasche vuote, egli andava facendo, senz'accorgersi, una quantità di
ragionamenti nuovi e di piccole operazioni strane, inusate, senza senso
comune. Era capace di tener dei quarti d'ora gli occhi a terra, sperando di
trovare sul cammino un biglietto da mille, smarrito da qualche banchiere
distratto, o un brillante uscito fuori da un orecchino di donna, o una
borsetta piena d'oro, perduta da qualche inglese in viaggio. E in quel
momento l'idea dell'obbligo di portar queste cose al Municipio, non gli era
nemmeno apparsa in ombra. Nella sua testa non sbucciavano che idee
malsane, come in un campo sterile e dimenticato non germogliano che
male erbaccie. Disperando a un tratto di trovare pe' sassi qualche oggetto
di valore, alzò gli occhi a caso e si trovò accanto alla vetrina di un
cambiavalute. Si fermò di botto ed ebbe anche la stupidità di credere che
questo fosse un buon augurio. Là dinanzi, cogli occhi intenti sulle monete
d'oro e sui biglietti di banca sciorinati nell'interno della vetrina, il povero
affamato sentì svilupparsi nel capo dei miasmi di cupidigia morbosa, e nel
pugno una smania di sferrar un colpo nella lastra di vetro. Cose tutte che
non aveva mai provate di sua vita. "Se si potesse far un buco senza che
nessuno se ne accorgesse? Lì c'è appunto un biglietto da mille. Andrei a
pranzo, poi stasera pagherei il debito, poi cogli altri dugento... chissà!"
Guardossi intorno come trasognato. Rinsavì; ebbe vergogna de' proprî
pensieri; odiò quelle tentazioni; pure il suo sguardo, tra lo spaventato e il
suppligante,
pareva dire ancora: Chi mi dà un biglietto da mille?
Si staccò da quella vetrina - già, per la intenzione, ladro! - proseguì il suo
cammino sempre intontito e in preda al più desolante scoraggiamento. La
fame aumentava. Intorno a' suoi pensieri scattavano, ondeggiando come in
nebbia opaca, delle fantasticherie di delitto e di rapina. A un certo punto
fece anche improvvisa comparsa l'idea del suicidio, ed ei l'accolse di fronte
come un ospite che non si attende, ma che fa piacere a vederlo.
"No - diss'egli dopo averci pensato su qualche poco - sono sempre in
tempo per questo."
"E Nanà?"
Questo nome ch'egli aveva dimenticato dacchè il pùngolo della fame era
incominciato e il suo amor proprio era stato messo a così dura prova dalla
necessità di fingere parecchie volte la scena del portamonete dimenticato
in tre o quattro restaurants dov'era conosciuto - gli portò al cuore
un'angoscia intollerabile.
"Ah, bisogna uscirne a ogni costo - pensò. - Io non posso lasciare Nanà.
Essa mi abbisogna più che il pane da sfamarmi. Non vivo così! È troppo
tormento! È necessario ch'io abbia molto danaro. Essa non mi ama al
punto da volermi gratuitamente, per me solo. Essa fu mia ancora... senza
interesse... è vero. Ma chissà... per temperamento forse. Ma non vorrei io
stesso!"
La risultante di tale ragionamento fu questa frase:
"È necessario aver danaro."
E fra tutte le mariuolerie di cui potesse avere
in testa un'idea, andò cercandone qualcuna da metter subito in pratica.
Tutt'a un tratto un'idea luminosa lo colpì. Gli tornarono in mente certe
parole misteriose che aveva udite per caso, alcuni mesi prima... da un certo
tale... parole a cui allora non aveva posto la più piccola attenzione e che
ora gli comparivano, come ad un brick che naufraga, l'ancora di salvezza.
Fu per lui un momento d'immenso sollievo; la speranza, la meretrice
dell'anima, illuminò il suo volto che era divenuto a poco a poco emaciato,
e senza pensarci sopra più che tanto, s'avviò.
"Chissà che non sia in tempo io stesso a pigliar quel posto" - diceva fra sè.
- "Il signor Giacomino me ne saprà dire qualche cosa."
Andò difilato in piazza del Duomo. Là cercò l'omnibus per Porta
Garibaldi, e tutto infervorato nella sua idea, senza pensare che non teneva
in tasca neppur il becco d'un quattrino, vi si cacciò dentro.
L'omnibus si mosse e il conduttore gli stese la mano per avere il prezzo
della corsa. Fu allora che Marliani si ricordò di non aver danaro. Ma
avvezzo ormai a fingere quella manovra del portamonete, mise bravamente
la mano destra nella tasca interna dell'abito, poi frugò di qua, frugò di là,
fingendo una crescente inquietudine, e finì collo sclamare:
- Cristo! M'han rubato il portafogli!
- Màghero allora! - disse il conduttore dell'omnibus.
- Sicuro. O me l'han rubato o l'ho lasciato in... quella bottega.... Oh povero
me!
- Scenda, scenda... non importa. Pagherà un'altra volta.
Filippo non se lo fece dire due volte. Discese, fe' mostra di rifar la strada
verso quella bottega, poi, quando l'omnibus fu scomparso, svoltò di nuovo
verso Porta Garibaldi.
Giunto a un centinaio di passi oltre il teatro Fossati, entrò in una bottega di
parrucchiere - che oggi non c'è più - e ad un figuro di vecchietto che stava
là seduto su uno sgabello col sedile a vite, ad aspettare forse qualche
pratica, disse:
- Lei è il signor Giovannino, non è vero?
- Per servirla. Vuol fare la barba?
- No, per ora. La faremo dopo, in caso. Io sono venuto da lei per vedere
se.... Si ricorda lei di avermi veduto, sarà un paio di mesi, col signor
Silvestre Bonaventuri?
- Mi ricordo. Lei è il signor Filippo Marliani.
- Bravo! Allora ella disse al mio amico che non gli era ancora riuscito di
trovare un giovine un po' educato e vestito bene, che volesse assumersi
quell'incarico, ancorchè avesse offerto cinquecento franchi al mese.... Si
ricorda?
- Altro che ricordarmi.
- Ebbene, l'ha trovato? - domandò il Marliani col cuore in sospeso; giacchè
quella risposta poteva forse decidere della sua vita.
- No - rispose il signor Giovannino. - Tutti hanno paura di cader in
trappola.
- Si può sapere di che si tratta? Se si tratta di avere del coraggio, sono qua.
Il signor Giovannino espose la faccenda a Marliani. Questi domandò se si
poteva parlare coi signori che proponevano l'affare.
- Sicuro che si può. Me ne parlarono giusto anche stamattina. La signora
Bibiana sopratutti è scaldata e vorrebbe trovare un giovine come dice lei,
che sarebbe certo di far fortuna.
- Chi è la signora Bibiana?
- È quella che ha il morto. Una vedovona, che ce ne voglion tre di noi per
abbracciarla.
- Potrei parlare a questi signori?
- Lei? È pronto lei ad accettare?
- Sì - rispose secco il Marliani.
- È giusto l'ora che son riuniti in bottega - soggiunse il parrucchiere.
- Andiamoci allora.
- Andiamo pure. Cecco, dove sei?
Cecco uscì dalla
retro-bottega- Io vado un momento con questo signore, e torno subito.
Così detto, uscì seguito da Marliani.
Dati una ventina di passi parlando fra loro sottovoce, il parrucchiere svoltò
dentro in una bottega da rigattiere.
Una donnicciuola che se ne stava ebetamente seduta in un canto di quella
uggiosa camera all'avvicinarsi dei due sconosciuti allungò il collo e
ravvisato il signor Giovannino tornò a raggomitolarsi nella sua cretina
immobilità.
Il parrucchiere si avvicinò ad un uscio a due battenti socchiusi, che s'apriva
nella parte di faccia all'entrata e che metteva in una tetanzuccia o
retrobottega e fe' cenno a Marliani di fermarsi.
Mise l'occhio allo spiraglio e pronunciò a voce melliflua:
- È permesso?
- Avanti - s'intese rispondere una voce secca; e sgarbata dal didentro.
Il vecchietto si volse al suo compagno gli fè cenno di venir innanzi e
schiuse l'uscio.
Nella stanza dove erano per entrare il parrucchiere e Filippo Marliani
stavano raccolte tre persone due uomini e una donna.
Gli uomini erano entrambi in quell'età che non è giovinezza ma che non si
potrebbe ancor dire maturità.
La donna nei quarant'anni, che vestiva con volgare eleganza e mostrava un
viso campagnuolo e rubicondo da farla giudicare per una fittavola o per la
moglie d'un pizzicagnolo, era la signora Bibiana.
Quelle persone se ne stavano sedute in silenzio a ridosso della luce che
entrava da due finestre a vetri smerigliati, a destra e a sinistra d'un altro
uscio, che metteva nel cortile. In tal modo i tratti del loro viso restavano in
ombra mentre essi avevano il destro di vedere perfettamente rischiarato il
volto di chi fosse venuto a parlar con loro. Facevano come certe donne sul
tramonto che vogliono nascondere le grinze ai loro visitatori.
- Venga avanti signor Giovannino - disse un di coloro al parrucchiere, che
aveva domandato licenza di entrare.
Questi si fermò accanto all'uscio lasciando il passo a Filippo Marliani.
Gli occhi dei radunati si fissarono curiosamente; nelle sembianze del
giovane sconosciuto.
- La chiuda l'uscio - disse la signora Bibiana al signor Giovannino. - E lei
ripigliò volgendosi
a Filippo con un sorriso - la tenga pure il suo cappello in capo e
s'accomodi.
- Comodissimo - rispose questi sedendosi sulla prima sedia che si trovò
d'accanto.
In questa il parrucchiere domandò licenza di andarsene, ma venne
trattenuto dalla donna.
- Che fretta! Stia qui un pò anche lei a sentire. Poi voltasi al Marliani:
- Lei sarà già informato spero della cosa.
- Gli ho spiegato io l'affare all'ingrosso - rispose il signor Giovannino.
Egli è pronto a firmare il contratto basta che entro domani gli sieno
sborsate due mila lire.
- Andiamo adagio - sclamò uno dei tre uomini levando la mano verso il
vecchio - una cosa per volta e senza alzar la voce che nessuno qui è sordo.
La donna volgendosi allora al giovine riprese.
- Capirà anche lei... signor... signor?
- Marliani - rispose questi.
- Signor Marliani, che prima di stringere un contratto importante come
questo, bisogna conoscersi un poco, perchè dove c'è da obbligarsi in faccia
ai terzi; le cautele dei galantuomi non sono mai bastanti.
- Troppo giusto - disse Marliani piegando il capo in segno di assentimento.
Ma i suoi occhi si socchiusero nello stesso tempo con una espressione di
ironica malizia.
Quel sorriso non isfuggì all'occhio della donna la quale dissimulando
riprese.
- Dica dunque lei le sue intenzioni su quello che già le comunicò il signor
Giovannino.
- Il signor Giovannino mi propose di entrare
come socio e col mio nome in una ditta commerciale senza esposizione da
parte mia di alcun capitale - rispose Marliani.
- Va bene - rispose la signora Bibiana. - I signori che lei vede qui riuniti
sarebbero appunto i soci fondatori di una casa in pannine, di cui ella
assumerebbe la gerenza alle condizioni che forse già conosce.
- Le condizioni sarebbero di firmare col mio nome le cambiali della ditta.
- Primo.
- Nel caso di fallimento ch'io sia pronto a subire tutte le conseguenze
conservando il massimo segreto sugli affari della casa.
- Va bene.
- Che in caso fosse necessario per salvare la ditta di far in prigione l'anno
ed il giorno, io debbo esser pronto a prestarmi, e nel caso invece che la
ditta credesse meglio, ch'io sia pronto a fuggire.
Il giovine si fermò per avere un segno di assentimento. Le tre persone che
gli stavano di contro erano immobili come cariatidi.
- Non credo si esigano da me altri sacrifizi - rispose il giovine con una
espressione di mal celata amarezza.
Uno dei due uomini che non aveva ancora aperta bocca, alla nuova
intonazione con cui il Marliani aveva pronunciate le ultime parole gli ficcò
in viso gli occhi e disse:
- Non sono sagrifizî codesti; sono condizioni naturalissime in chiunque si
assume obblighi di questa specie. Non c'è nulla che sia fuori del consueto,
anzi non faceva neppur bisogno di parlarne,
giacchè poi si spera di non aver bisogno di fallire o di andar in prigione o
di scappare.
- Ho voluto enumerarli! - rispose il Marliani per mostrare a loro signori
che io conosco le eventualità a cui posso andare incontro mettendomi in
questo affare e per togliere loro il sospetto che io possa essere un novizio o
un guastamestiere.
- Ora parliamo delle condizioni in favore - disse la signora Bibiana. - Il
signor Giovannino ha parlato di due mila lire subito.
- Mi sono indispensabili.
- Due mila lire è una bella somma - sclamò uno dei tre - ci vorrebbe una
piccola garanzia.
Marliani si alzò in piedi.
- Cari signori - disse - se avessi una garanzia non sarei venuto a esporre il
mio nome ai pericoli d'una gerenza commerciale di cui non dovrò tenere la
cassa, nè avere neppure una piccola parte nell'amministrazione. Se avessi
una garanzia andrei a levar i denari al dieci o al dodici per cento dal primo
onesto banchiere che passa in strada, e il signor Giovannino non sarebbe
venuto ad offrirmi di fare il prestanome.
- Lei s'inganna - rispose la signora Bibiana con voce insinuante. - Io le dirò
che prima di tutto non è vero che lei dovrà servire soltanto di prestanome
perchè invece dovrà trattare in persona con me gli affari della ditta, far
qualche viaggio e avere la sua brava parte di utili nei dividendi.
- Se ce ne saranno - osservò uno dei tre.
- Sicuro già, se ce ne saranno! - sclamò la donna stizzosamente. - In
secondo luogo lei s'inganna se al giorno d'oggi crede di poter trovar
danaro al dieci o al dodici per cento, a mena che non porga la garanzia di
un proprietario.
- Vedo insomma che lor signori non sono disposti a sborsarmi le duemila
lire di cui ho bisogno - disse il Marliani.
- Caro signore - rispose la donna sempre più dolce. - Il commercio è
arenato. Per vivere col decoro che porterà la di lei posizione di
rappresentante la ditta Marliani e C. bisognerà che noi le fissiamo anche
una bella mesata. Vede bene che farle oggi una anticipazione di due mila
lire ci sarebbe impossibile.
- Di quanto sarebbe questa mesata? - domandò il Marliani. - Di trecento
franchi - rispose la donna. Marliani si alzò e mosse un passo verso la porta
lisciando il pelo del suo cappello a tuba e disse:
- Siccome i patti non sono quelli che m'aveva lasciato sperare il signor
Giovannino, che mi parlò di cinquecento franchi al mese, così mi duole di
non poter accettare, e mi tocca di rivolgermi ad altre offerte.
- A un'altra volta - rispose uno dei due uomini. - E nel caso che la ditta si
risolvesse a fare maggiori sacrifizî il signor Giovannino lo avviserà.
Marliani uscì lasciando l'uscio socchiuso.
Si capiva che la signora Bibiana era desolata.
Un bel giovine di quella fatta!
- La chiuda quell'uscio, Giovannino - disse ella. Poi voltasi ai compagni
proruppe: - Non bisogna
lasciarlo scappare. Sembra fatto a posta pel nostro affare.
- Ritornerà. Scommettiamo che ritorna da sè senza mandarlo a chiamare?
- Ora una notizia - riprese la signora Bibiana. Sapete che in casa O'Stiary
ci ho messo il Giacomo come palafreniere. Egli mi ha dato nuove
informazioni sullo stato delle sostanze del conte Enrico suo padrone, che
ha firmata ieri un'altra cambiale di diecimila a fine novembre.
- Sono buone queste notizie?
- Eccellenti. I fondi valgono circa mezzo milione, il palazzo trecentomila,
la rendita altri duecentomila. Con Bonaventuri a tutt'oggi è compromesso
per quattrocentomila franchi, dei quali fatto il calcolo, gliene avremo
sborsati a dir molto duecento. Egli ha poi perduto molto al giuoco dalla
Luisa! È sfortunato! In casa della Luisa de' suoi danari ne saranno rimasti
per circa cinquantamila. A noi di questi è toccata la metà, dunque bisogna
detrarla dai duecento mila. Restano centosettantacinquemila. Sono dunque
duecento venticinquemila lire nette in tre anni! Faccio il calcolo che in un
paio d'anni ancora, lavorando con prudenza e con disinvoltura potremo
portargli via il milione netto come il pomo di Tell.
- Tanto meglio.
- Ecco dunque il da farsi per domani. Lei Giovannino la cerchi di rivedere
il signor Marliani e di indurlo ad accettare la rappresentanza della ditta. Gli
dica che ci ha persuasi di portare la cifra della mesata a quattrocento. Gli
dica anche che per garanzia della sua riputazione commerciale la ditta è
pronta a depositare presso la Banca nazionale o presso la Banca Spagliardi
una trentina di mila lire. Lei, signor Bonaventuri - continuò volgendosi ad
uno dei due seduti - domani andrà a combinar l'affare con questa signora
francese, che chiede cinquemila franchi a tre mesi. Si faccia mostrare le
gioie, e se può cerchi di far il pegno. Lei, signor Paolino - ripigliò la
signora Bibiana volgendosi all'altro, un uomo sui trentacinque anni, anche
lui bene in arnese, con anelli di brillanti al dito mignolo e un catenone
d'oro al farsetto - lei, stasera, come siamo intesi, andrà in conversazione
dalla Luisa, dove so che ci deve essere anche il conte O'Stiary e comincerà
a parlare della vincita fatta in Borsa dal Marliani, e della sua intenzione di
mettersi in commercio. Per ora non ho altro a dire. Io debbo andarmene. A
domani qui, verso le due.
Al domani il signor Giovannino andò a trovare il Marliani che si lasciò
persuadere a tornar nel luogo infetto.
La signora Bibiana, facendogli già l'occhio pio, trasse di tasca un foglio e
cominciò a leggerlo sottovoce al giovane e a' suoi compagni. Era il
contratto per la fondazione della società di commercio sotto la ditta
Marliani e C..
C..Poi mise sul tavolo un biglietto da mille e una cambiale che il Marliani
firmò.
Furono fatte poche parole.
Quando anche l'atto fu approvato e sottoscritto colla più grande serietà,
come se fosse il più regolare
e santo contratto del mondo, il signore dai brillanti in dito riprese la parola.
- Andremo poi dal notaio per le altre formalità di legge. Prima però la
permetta che le esponga qualche cosa. Lei non è un ragazzo e deve avere
una certa pratica di mondo; sapere perciò che le parole sono parole e i fatti
sono fatti. Noi facciamo sagrifizio di lire mille e le presentiamo inoltre un
avvenire. Naturalmente la cambiale è in nostre mani e sarà rinnovata alla
scadenza fino a che a lei non piaccia di pagarla... e basta così.
Marliani strinse le labbra.
- Dal canto suo lei dovrà informarsi alle nostre istruzioni. Prima di tutto
ella dovrà sempre andar vestito all'ultima moda, come si conviene al
gerente della ditta Marliani e C., che avrà depositato un capitale di
trentamila lire presso la Banca. In secondo luogo è necessario che ella
cominci a mettersi in buona vista presso i negozianti e presso i banchieri; e
che non dia menomamente a supporre di conoscerci e di essere nostro
socio, giacchè siccome, glielo dico francamente, noi tutti qui, qual più,
qual meno siamo rimasti sotto a delle disgrazie, così è bene che alla
Camera di Commercio e in piazza non si sospettino legami fra noi.
- Ma - osservò Marliani - il contratto sottoscritto poc'anzi non deve essere
noto?
- No signore; questo sarà un contratto inter nos per garantire i nostri
reciproci diritti e doveri in caso di contestazioni che speriamo non abbiano
a sorgere mai. Per la Camera di Commercio v'è un'altra modula a cui
penseremo più tardi; del resto lei deve persuadersi che adesso per fare e
per ottenere tutto a questo mondo non c'è che l'apparenza.
Per l'apparenza dunque le ripeto, ella ha bisogno di vestirai molto bene, di
frequentare le migliori società, e se è possibile, di farsi credere conte, o per
lo meno nobile. Marliani è un bel nome. Faccia stampare dei biglietti di
visita colla corona di conte. Conte... il suo nome di battesimo è?
- Filippo.
- Conte Filippo Marliani andrebbe a maraviglia.
- Le faccio osservare che io sono già molto conosciuto a Milano.
- Bene, abbandoniamo la contea e lasciamo supporre che lei abbia fatta
una vincita in lotto.
- Ma io non mi presterò mai a gabbare il mondo così - disse il Marliani.
- Lei non deve che lasciarlo credere - saltò su la Bibiana. - Ci penseremo
noi a propalare la notizia come si deve. Lei non dovrà far altro che
dissimulare e non dire di no. Questo è facile.
- Manco male! - biascicò il Marliani che di transazione in transazione si
lasciava persuadere a diventar un fior di briccone.
- Fra quindici giorni esporremo la ditta al pubblico e cominceremo gli
affari. Intanto dirameremo al commercio le circolari e scriveremo le lettere
firmate da lei a tutti i corrispondenti. Il locale della ditta è già preso. È in
via Valpetrosa. Se crede adesso possiamo andarvi insieme a vederlo.
Su questo invito della signora Bibiana la congrega si sciolse e Marliani,
colla grassona, entrarono in un brougham e a cortine calate si fecero
portar in via Valpetrosa. Esaminato il locale, il Marliani corse difilato a
pagar il suo debito di giuoco col biglietto da mille, per avere il quale aveva
venduta la coscienza di galantuomo.
VII.
Fra le otto dichiarazioni d'amore, ricevute da Nanà quel tale venerdì, non
ce ne furono che due fortunate e degne di risposta: quella del Marliani e
quella del conte Enrico O' Stiary.
A lui Nanà rispose così:
" Signore
Signore"Voi desiderate essermi presentato? Io straniera, libera di me stessa,
venuta in questa vostra bella Italia per dimorarvi forse a lungo, trovandovi
un'aria confacente alla mia salute e al mio appetito, sul punto di rimettermi
al teatro, avrei cattiva grazia se rifiutassi l'onore di fare la vostra
conoscenza.
"Avendo stabilito adunque di riunire in casa mia i signori ai quali fui
raccomandata e che ebbi il bene di conoscere in questi giorni di mia
residenza in Milano, vi esprimo il piacere, signor conte, che avrei di
vedervi da me a pranzo domani, sabato, alle sei e mezza, nel mio nuovo
alloggio di Via Rastrelli.
"TERESA."
Fu uno de' non meno strani capricci da cocotte parigina codesto, di
vedere riuniti a tavola tutti i suoi adoratori di Milano. - Anzi ella spinse il
capriccio fino a trovar modo di averci presente anche uno dei non
presentabili, il cameriere dell'albergo, che l'aveva servita a tavola ne' primi
giorni, il quale, come già dissi, le aveva confessato, che se ella gli avesse
comandato di buttarsi giù dalla finestra, le avrebbe obbedito sull'istante. Lo
volle presente anche lui, e lo chiese in prestito all'albergatore per servire la
tavola.
Nanà si riprometteva da quello spettacolo un gran divertimento tutto
intimo. S'imaginava che nessuno di quegli otto o dieci signori sapesse
dell'amore dell'altro, e godeva di vedere che muso si sarebbero fatto
reciprocamente. Si ricordava della famosa cena data a Parigi, per
festeggiare il successo delle Varietès e contando sulle dita
gl'innamorati presenti allora, trovò che a Milano erano aumentati di
numero.
Il pretesto per quell'invito era trovato. Ella voleva posarsi come artista
della Compagnia Blanche et Babil. Dopo pranzo, ella avrebbe cantati dei
couplets e avrebbe fatta una scena a monologo per mostrar al
direttore della Compagnia francese, che ella non era un'oca, come pur
qualcuno insolente le aveva detto a Parigi.
Era dunque necessario un pubblico.
Quale pubblico migliore di coloro che le avevano già protestato
ammirazione ed amore?
Il difficile era d'invitare i quattro spasimanti che non conosceva ancora.
Ella non voleva disseminare in Milano i poulets. Le convenienze del
resto non erano il forte di Nanà. Ad un'artista, dopo tutto, le eccentricità
stanno così bene! Quanto più ella avesse fatte le cose fuor delle regole,
tanto più ell'era certa di farsi della rèclame.
rèclame."Incaricherò quelli che conosco già, di invitare i quattro che non conosco
ancora" pensò dessa. Dirò che un redattore del Figaro ed altri miei
amici di Parigi mi hanno dato delle lettere di raccomandazione presso
questi signori; che a me secca di andarli a trovare, ma che desiderando
pure di essere a loro raccomandata, per non far torto a' miei amici di
Parigi, li invito a pranzo. Così raggiungo il mio scopo e faccio buona
figura."
Andò ella stessa ad invitare madame Blanche Questa le domandò:
- Ci saranno altre signore?
- Finora non potrei dirvi altra signora che la mia padrona di casa... una
vedova coll'amante - rispose Nanà. - Io non conosco altre donne a Milano.
Voi ne conoscete?
- Se volete, vi presenterò la prima amorosa e la grande coquette
prémièr rôle
rôleNanà accettò e invitò a pranzo anche la prima amorosa e la grande
grandecoquette prémièr rôle
rôleAldo Rubieri e Sappia, a cui s'indirizzò pe' primi, si schermirono di fare
degli inviti per lei. Essi non conoscevano nessuno dei quattro signori che
Nanà aveva loro nominati.
Allora ella mise tutto sulle spalle di Marliani, che quantunque le avesse
lasciato credere d'aver fatta una grossa vincita in Borsa e che era comparso
da Nanà vestito a nuovo ed elegante come nei giorni di abbondanza - era
stato messo un poco da parte.
- Saremo in tanti uomini quante donne? - domandò il Marliani, che
soffriva fremendo la nuova freddezza di Nanà.
- Non mi pare. Mancano ancora due donne.
- Ci penso io.
- Ma quali donne, di grazia?
- Non saranno principesse del sangue... ma via, demi-monde più o
meno legittimo.
- E con chi verranno?
- Con me.
- Chi saranno?
- La Romea, che è libera perchè fu lasciata appunto la settimana scorsa dal
suo Tizio; è una donna divisa dal marito, che ha una buvette molto
chic sul Corso... e la signora Marco Polo.
- Mi fido?
- Fidati.
- Sono belle? Perchè io di brutte non ne voglio.
- Sono belle.
- Più di me?
- Farçeuse
Farçeuse"Il mio divertimento così sarà completo - pensò Nanà. - Esse non sapranno
magari parlar il francese e diranno spropositi da cavallo. Io godrò di
vedere queste bellezze milanesi trascurate in un canto per me. In ogni caso,
esse mi serviranno di rifugio quando fossi troppo assediata o stufa dei
complimenti degli uomini."
Alle sei e mezzo Enrico arrivò e trovò già molte persone radunate in sala.
Alle sette gli invitati erano a tavola. Nanà aveva fatto il suo dovere di
padrona di casa con un garbo perfetto. Si avrebbe detto che ella fosse stata
allevata nel palazzo dell'Eliseo. Nessuno degli invitati certo - tranne il
Marliani ed il Sappia - che però non l'avevan detto ad anima viva, avrebbe
imaginato che quella Francese, la quale sapeva ricevere in quel modo,
fosse stata un'allieva di madame Tricon
TriconDa una parte della tavola oblunga Nanà stava seduta in mezzo a O'Stiary
ed a Sappia; a sinistra del marchesino c'era la Giannella che mangiava a
quattro palmenti; poi veniva monsieur Babil, il direttore della
Compagnia francese - poi la Luisa, amante del Sappia, - Marliani e
madama Bianche.
Dall'altra parte, a destra del conte Enrico, sedeva la Romea, più
imbellettata, infarinata e stupida che mai - quindi il Bonaventuri aiutante,
la padrona della casa, - il conte di vieille roche - poi la coquette
coquettepremière rôle - poi Ernesto Cantis, lo scrivano dell'avvocato Delguasto,
- la prima amorosa - e finalmente il banchiere Strunzinweill, di Francoforte
sul Meno, che compiva il giro accanto a madama Bianche.
In tutto sedici persone, otto uomini e otto donne.
Il cameriere dell'albergo che serviva la tavola,
gettando spesso degli sguardi inquieti sotto di essa, tentava di scoprire il
segreto lavorìo de' piedi di O'Stiary e di Sappia, e andava con ansia
affannosa cercando di indovinare quale fosse fra quegli invitati il preferito
da Nanà. Ma essa era impenetrabile; rideva con tutti e faceva bella ciera a
tutti nello stesso modo.
Degli altri convitati nessuno sarebbe stato in grado di far quello studio del
cameriere. Ciascuno era così occupato di sè stesso, così attento a
dissimulare agli occhi di tutti gli altri, tranne che a quelli di Nanà, la
propria cotta, che non aveva tempo di fare delle osservazioni fisiologiche
sugli altri.
La grande faccenda per essi era di non lasciarsi scorgere preoccupati, e di
cercar tutti i mezzi per comparire spigliati e brillanti in faccia a Nanà.
Enrico O'Stiary solo era serio e riservato. Egli non aveva ancora diretto un
complimento a Nanà nè alcuna allusione alla propria lettera.
- Voi, conte, siete anche pittore, non è vero? - domandò Nanà ad Enrico
sulla fine del pranzo, mentre girando la manovella a vite sgretolava nel
casse-noisettes i gusci delle noci di cui era ghiottissima.
- Dilettante?
- Sì, signora.
- Di figura?
- Di tutto. Studio la figura e studio il paesaggio. Amo però la figura assai
più del paesaggio.
- Sapete che Rubieri mi fa il ritratto?
- Altro che, e l'ho veduto.
- Come vi pare?
- Stupendo! Fortunato Rubieri!
"Finalmente!" - pensò Nanà.
E domandò come un'ingenua:
- Perchè fortunato?
- Perchè egli ha trovato da ispirarsi ad un corpo di donna come oggidì non
se ne vedono quasi più... a Milano.
Egli si arrestò; ma Nanà questa volta non gli porse la replica. Voleva
vederlo venir a lei con qualche frase sentita, espressiva, infuocata, e non ci
riusciva.
Sappia poco dopo si interpose, parlando di tutt'altro, e Nanà restò colla sua
voglia in corpo.
Poco dopo un immenso scoppio di riso si fece intendere dall'altra parte
della tavola.
Bonaventuri stava dando ad intendere un'enorme frottola alla Giannella,
che era cascata, come sempre, nella ragna.
Il Cantis poco prima aveva per caso nominati i volontarî di un anno.
- Volontarî di un anno? - aveva chiesto la Giannella a bocca piena
Possibile? Già volontarî a un solo anno?
Tutti avevano capito che essa stava per fare una delle sue solite confusioni
famose.
- Sicuro! sicuro! - sclamò Bonaventuri, prima che altri pensasse a
disingannarla. - È una trovata di Marco Minghetti, ministro di agricoltura e
commercio. Ora abbiamo dei volontarî di un anno di fanteria e di
cavalleria.
- Faccia piacere! - sclamò la Giannella.
- Ma come, non lo sa? Tutti gli Italiani devon
esser soldati, d'ora innanzi, appena usciti dalle braccia della balia.
- È possibile? - ripetè la Giannella.
- Così è; il nostro Governo vuole che tutti gli Italiani imparino gli esercizi
dal giorno che sanno reggersi in piedi. Si chiamano i volontarî di un anno
per questo.
La povera Giannella in fondo non aveva tutti i torti di capir male il senso
di quella frase. Essa è sbagliata di pianta. Infatti per esprimere quella idea
la logica e la sintassi insegnerebbero a dire volontarî per un anno e
non volontarî di un anno
anno- Il vostro bambino che età ha? - le domandò serio serio il Bonaventuri.
- Nove mesi.
- Bene, fra tre mesi egli entrerà nel volontariato.
- Chi me l'avrebbe detto! - sclamò la Giannella guardandosi sospettosa
intorno e parendole di vedere sulle faccie degli astanti un sorrisetto tra
carne e pelle... che tradiva la burla.
- Ma che cosa gli insegnano poi? - domandò perplessa.
- Gli insegnano la manovra, la tattica, e....
- Anche la balistica - aggiunse Sappia.
- Ma mi faccia piacere!
- Come! Voi dunque non sapevate che c'erano i volontarî d'un anno?
- Sì, li ho sentiti a luminare, ma non credevo poi che dovessero
cominciar la manova a quell'età. Credevo che non la fosse altro che una
iscrizione che facesse il Governo... per sapere poi... e che so io?
- Eppure è così come io ve lo dico, cara Giannella.
S'è veduto che cominciando a istruire militarmente i bambini appena che
sono spoppati diventano poi eccellenti coscritti.
Uno degli astanti non potè più reggere a star serio e tutti scoppiarono nella
risata.
La Giannella, avvezza a queste cose, alzò le spalle, mescè un bel bicchiere
di vino e se lo trangugiò in un fiato in santa pace.
Allora la conversazione si fece generale, varia, moltiforme, intrecciata, da
un capo all'altro della tavola. E le frasi, e i motti e gli scherzi venivano
mandati e rimandati nel frastuono come il sughero pennuto colle racchette
nel giucco del volante.
- Si dice infatti che Gounod voglia scimmiottare List ma non ci credo.
- Io conosco Gounod - sclamava Nanà - e vi so dire ch'egli è un libertino di
prima forza, altro che prete.
Correva in que' giorni la voce che l'autore del Faust volesse farsi uomo di
chiesa.
- Ma certo - rispondeva dall'altro lato il giovine di avvocato - che la causa
Nunziante Antonelli farà un grande scandalo....
- Certe donne - sclamava a sua volta il Bonaventuri, parlando alla Romea
sono come le costolette. Quanto più le si battono tanto più diventano
tenere.
- Stenterello spera bene nel contatore - si udiva uscir la voce fessa di un
altro, che ciarlava col conte vielle roche - Ne ha comperati mille in
Francia
e centoventi lire, mentre poteva averli qui in Italia a settanta.
Costui dava il sopranome di Stenterello al ministro Cambrai-Digny, che
teneva allora il portafogli delle finanze.
- Oh la donna indovina se è amata assai prima che glielo si dica!
Questo aforismo era uscito dalle labbra della prima amorosa che parlava
col banchiere Strunzinweill.
- Ma che genio, che genio! Lo ha fatto vedere or ora nello
Spiritismo se ha genio. Egli deve accontentarsi di scrivere degli idilli...
d'un atto e non tentar la grande drammatica.
- Eh già! Talvolta chi sa far delle conquiste colle madamine fa poi delle
tòpiche colle grandame.
- Io ho in bottega del famoso Marsala Ingham - strillava la Romea che
pensava a far la reclamé alla sua buvette.
buvette.- Ora che la valigia delle Indie passerà per Brindisi noi saremo salvi.
- Eppure - gridò Bonaventuri, già leggermente brillo - l'anno scorso a
Montecarlo io coll'ultimo scudo, ho guadagnato otto mila franchi!
A questo punto Nanà si levò e tutti passarono nella sala a bevere il caffè.
Que' signori avrebbero desiderato allora di mettersi un poco accanto a
Nanà; ma tranne due arrischiati e positivi, il conte di vieille roche e
Bonaventuri che la stringevano ai panni, gli altri quasi per timore di farsi
scorgere troppo premurosi le stavano
lontani. Da noi questa specie di spavento semi-fanciullesco è per così
dire contagioso, tantochè lo subivano in quel punto perfino il Sappia e il
banchiere di Francoforte che non erano poi novellini.
Anzi vi fu un momento in cui Nanà stupì di essere lasciata sola. Ella
vedeva bene che gli occhi dei suoi adoratori, le erano continuamente tutti
addosso e strisciavano continuamente su di lei, sfuggevoli, furtivi, come
pavidi di essere colti in flagrante dagli altri. Ma tutti facevano il disinvolto;
ella dal canto suo aveva un gran da fare a non mostrare predilezione per
nessuno e a lasciar supporre a ciascuno di potersi credere il preferito.
Intanto però cominciava a provare un principio di dispetto che quel solo,
ch'ella preferiva davvero, non si curasse di lei.
Enrico infatti s'era seduto in un angolo della sala, aveva acceso un avana e
fingeva di stare guardando attentamente un album di fotografie. In
sostanza spiava anch'egli Nanà.
A un certo punto questa s'attaccò al braccio di Sappia e lo condusse nella
strombatura d'una finestra.
- Ascoltate - gli disse. - L'altra sera in teatro non potevo dirvi chiaramente
quello che mi preme di dirvi ora. Voi, per mia sventura, mi avete
conosciuta a Parigi in un luogo dove, Dio mi è testimonio, io c'era andata
due o tre sole volte... per ragioni che se le sapeste mi compatireste assai...
- Lo credo - disse il Sappia con una certa convinzione.
- Mi giurate voi marchese che sarete abbastanza gentiluomo, per non dir a
nessuno, almeno finchè
starò in Milano, che voi mi avete conosciuta in quel luogo?
- Io ve l'ho già promesso una volta ed ora vi ripeto se volete il giuramento.
- Mi basta e vi ringrazio, - disse Nanà stendendogli la mano. - Voi avrete
sempre in me una amica devota.
E stava per staccarsi da lui; ma il Sappia la trattenne.
- Ricordatevi però che fra i presenti io non ero solo a quel convegno, e che
non fui nemmeno il fortunato.
- Lo so. Volete parlare di Marliani?
- Sicuro.
- Egli non dirà nulla. Me ne ha dato anche lui la parola d'onore. Egli mi
ama ancora.
- Ora ditemi almeno che cosa posso io sperare da voi?
- Niente e tutto - rispose Nanà col suo più incantevole sorriso.
- Spiegatevi.
- Vi dirò; io non sono più la donna che voi avete conosciuta a Parigi, in un
momento di crisi terribile. Io sono assai migliore. Sono diventata
immensamente difficile e rangée. Ora è necessario conquistarmi per
possedermi; sappiate conquistarmi e chissà ch'io non diventi la vostra
amante.
- Ah! - sclamò il Sappia spiegando nella frase che stava per dire, un lato
caratteristico dell'indole meneghina. - Volete farmi fare tanta fatica?
- Ma no! Voi siete uno dei giovani più simpatici e più ammodo ch'io abbia
conosciuti. Non dovreste far tanta fatica! Vi basta? A rivederci.
Non vorrei che la vostra Luisa si insospettisse di me.
E si allontanò.
Mezzo minuto dopo la Luisa domandava a Sappia.
- Che cosa ti ha detto quell'antipatica pettegola?
- La mi ha detto, che il direttore le ha offerto mille franchi al mese per le
parti di grande moquette E la mi domandava se doveva accettare.
- E tu?
- Io le ho detto di accettare.
Spiccatasi da Sappia, Nanà, s'incontrò in Ernesto Cantis, che la stava
aspettando al varco con aria sorridente ma coll'agonia nel cuore.
Quel colloquio serrato e segreto col marchesino, avevano destate nel petto
del povero giovinetto certe furie della gelosia che non aveva ancora
provate in sua vita.
Era fatto così!
- Caro signor Cantis, che cosa mi contate di bello? - domandò Nanà.
- Che io muoio d'amore per voi - s'arrischiò di balbettare il giovinetto.
- Lo so, lo vedo.
- E null'altro?
- Ma che cosa vorreste vi rispondessi, mio Dio! - rispose Nanà sottovoce.
Io ci tengo che voi abbiate di me una buona opinione. Io sento che
verrà forse un giorno in cui io potrò essere infelice, e voglio farmi dei veri
amici, i quali abbiano per me dell'affezione calma e della stima. Se io vi
dessi delle speranze, e che poi non dovessi esaudirle, mi farei un nemico di
voi. È meglio che ci fermiamo qui.
E s'allontanò anche da lui.
- Oh Nanà! - sclamò il giovinetto vedendola staccarsi così presto. E disse
quel Nanà come un uomo che s'annega e che cerca soccorso alla sponda.
Nanà comprese quello spasimo, e sorrise fra sè, beata. Essa lo considerava
come un piccolo tributo dovutole, e ne godeva. L'idolo, sotto al cui naso si
brucia tutto il giorno dell'incenso, ne sentirebbe forse ancora il profumo,
per quanto avesse narici per sentirlo? Ormai ell'era troppo avvezza a
vedere uomini agonizzanti di amore a' suoi piedi.
"Tutti fanno lo stesso a Milano come a Parigi! - pensa Nanà - Sarei quasi
per desiderare che Enrico facesse diverso del solito! S'io giungessi a farmi
sposare da lui a furia di amor vero, di amor sincero, che mi facesse redenta
a' miei occhi... ed anche a' suoi, quando venisse a sapere il mio passato?
Qualcuno in quel mentre si fece udire a parlare di Garibaldi e della guerra
sui monti.
Nanà sapeva che Enrico vi aveva preso parte.
- Sì, sì - gridò. E tutti udendo la voce di lei tacquero come per incanto.
Conte raccontateci
qualche aneddoto della guerra. A me piacciono le storie di guerra.
Enrico si schermiva. Il Sappia si alzò a magnificare un certo aneddoto dei
piedi gelati, che secondo lui era una bellezza.
Non si è mai traditi tanto bene, come da' proprî amici.
- Ha un aneddoto che è delizioso - gridò il Sappia... - Racconta Enrico
l'aneddoto dei piedi gelati.
- Sì, sì, vogliamo i piedi gelati - si gridò da ogni parte.
O'Stiary s'arrese.
- La cosa è semplicissima - disse. - Eravamo in distaccamento avanzato in
cima a una montagna tutta coperta di neve. Faceva un freddo da lupi, e io
lo pativo tanto ai piedi da veder le stelle anche di giorno. Non c'era nè
bevere acquavite o rhum, nè portar doppie calze di lana, nè camminare e
saltare, io li avevo sempre gelati. Un giorno mi lamentavo di questo
incomodo con un vecchio garibaldino d'un altro battaglione, un povero
diavolo, contadino di origine, che mi aveva reso qualche servigio, ma non
mi conosceva più che tanto. Lo vedo spalancar gli occhi e dirmi:
"Ma diavolo! Perchè non l'ha detto prima a me?
"Che! Voi avreste un rimedio contro il freddo a' piedi? gli domandai io.
"Altro che! mi risponde. Un vero tocchesana, un rimedio infallibile, caro
camerata.
Io lo invitai a parlare. E lui cominciava:
"La si figuri che io appena venuto a far il volontario, specialmente
d'inverno, pativo anch'io un tal freddo ai piedi, che.....
Io lo interrompevo spingendolo alla conclusione, e lui invece:
"Un poco di pazienza, mi diceva; bisogna prima che io vi faccia la storia
del rimedio.
"No, non m'importa di sapere la storia; vorrei la pratica, replicavo io, ma
non c'era verso. Da vero contadino zuccone, lui voleva andare per le
lunghe.
"Dicono l'acquavite. sì, l'acquavite non dico. Se se ne ha, è buona
anch'essa, ma quand'è passata fuori, lascia i piedi più freddi di prima.
"E dunque?" chiedevo io.
"Dunque invece io l'ho trovato il vero rimedio.
"Su dunque. Che cosa avete fatto?
"Una cosa di nulla, a pensarci sopra. Eppure è eccellente. Bisogna sapere
prima di tutto, che io prima non avevo mai usato di portare le calze....
"Sì. Ebbene?
"Dal giorno che misi un paio di calze di cotone sotto alle scarpe, il freddo
è passato come per incanto. Provate, camerata, e vedrete."
L'aneddoto era buono e si rise. Allora Nanà si mise a magnificare il modo
di raccontare del conte, e tutti o quasi tutti si diedero a raccontar il loro
piccolo aneddoto. Fu una confusione da non dirsi. Tutti raccontavano e
nessuno ascoltava.
- Come mi trovate? - non potè trattenersi dal dire, a Enrico, Nanà, dopo
d'essersi congratulata con lui della sua storiella.
- Io vi trovo degna di Vandick e di Tiziano. Nanà gli domandò chi fosse
Tiziano.
E dopo:
- Io, partendo da Parigi, avevo idea di far questo viaggio in Italia, paese
dell'arte, specialmente nella speranza di trovar un pittore che mi sapesse
ritrarre come dico io....
L'invito era troppo diretto per non accoglierlo.
- Volete, Nanà, che io mi provi a dipingere questa vostra magnifica
testolina?
- Provarvi in che modo? - domandò Nanà. E volgendosi repente a un
invitato che s'era messo al pianoforte e vi traeva degli accordi, gli gridò:
- Ma volete finirla voi?
- Io vi propongo di farvi il ritratto, mezza figura, nel mio piccolo studio.
L'emozione di Enrico, mentre faceva a Nanà questa proposta, era
grandissima. Egli sembrava di marmo, tanto s'era fatto pallido ed immobile
aspettando la risposta di Nanà. La sua voce era tremolante.
Nanà sorridendo, cogli occhi abbassati, che si sarebbero fin detti modesti
in quel punto, faceva saltar sul palmo la nappetta d'un cuscino che le stava
accanto. E non rispondeva. Essa cominciava a trionfare e assaporava con
voluttà il piacere della vittoria.
Enrico ripetè:
- Non volete?
Nanà gli stese la mano, e rispose:
- Ci si può riflettere.
E lo piantò là, perchè... forse... qualcuno l'aveva chiamata.
Nessuno assolutamente l'aveva chiamata.
Tutti però segretamente la reclamavano. La conversazione, dove non era
lei, languiva. Non per quello che ci mettesse lei, ma per quello ch'essa,
senza volerlo, ispirava agli altri.
Un ah! generale fra gli uomini l'accolse dunque quand'ella si staccò da
Enrico e venne a sedere fra la Romea e la grande coquette prémièr
rôle
rôleAllora la conversazione si rifece generale.
- L'assenza dell'oggetto che si ama - sclamò Bonaventuri che non faceva
segreti delle sue ammirazioni per Nanà - l'assenza dell'oggetto amato fa lo
stesso effetto del vento sulle fiamme: spegne le fiamme deboli e aumenta
le forti.
- Che filosofo!
- Non sono io. È Larochefoucauld.
- Voleva ben dir io!
- Che cos'è l'adulterio? Ne ho letta una definizione nuova non so dove...
aspettate... Non mi ricordo. L'adulterio è una bancarotta fraudolenta della
moglie a cui il marito resta sotto col proprio capitale. Va bene?
- Sì, e poi?
- Soltanto che invece di essere disonorato chi ha fatto fallimento resta
disonorato chi ci resta sotto.
Verso le undici venne il thè.
thè.Nanà aveva dichiarato a' suoi amici che avrebbe recitata la sua scena e
cantati i couplets dopo il thè, per tenerli tutti riuniti fino ad
ora tarda.
Nel porgere la tazza ad Enrico gli disse sotto voce:
- Ora mi vedrete nel mio costumino di Parigi, pettinata alla greca; e se mi
direte che ho proprio una testa artistica forse... forse mi deciderò a venire
da voi.
Di lì a poco Nanà entrò nel suo penetral più sacro a travestirsi.
Comparve mezz'ora dopo in un delizioso costumino di fantasia che faceva
risaltar in modo mirabile le forme opime.
Un applauso entusiastico l'accolse. Battevan palma a palma anche le
donne, che pur fremevano di rabbia nel loro interno.
Nanà era così innamorata di sè e degli applausi che non s'accorgeva o non
pensava al dolore che essa procacciava alle proprie amiche, alle quali
toccava assistere a' di lei trionfi intimi.
Nessuna donna è più nemica di colei che si mostra seducente e adorata in
sua presenza.
Guardate in una festa da ballo, dove compaia a un tratto qualche astro, e
vedrete le occhiate bieche, e gli sguardi di traverso, in tutte le altre donne
che prima comparivano sciolte, sorridenti e felici.
La Romea, per esempio, che si sapeva tanto diseredata di curve, arrabbiò
come una dannata al mostrarsi di quella maravigliosa figlia di Eva,
sfolgorante di gioventù e di bellezza, e si sentì presa a un tratto da
un'immensa voglia di piangere. Fu la sola che non ebbe l'ipocrisia di
battere le mani. Ben inteso che le altre fingevano di battere; ma
accostavano adagino palma a palma per non aumentar il fracasso.
Gli uomini invece pareva volessero impazzire di gioia e di ammirazione. E
avevano perfettamente ragione. Chi non si scuote all'idea della bellezza
artistica è un ciuco. Inebbriati da quella apparizione essi perdevano perfino
la misura delle manifestazioni decenti e scordavano appunto che in mezzo
a loro stavano sette infelici creature, che sorridendo si mordevano le labbra
a sangue e soffrivano per quegli omaggi e per quei gridi, come se
ricevessero in viso le più mortali ingiurie.
Ma è così.
Certi giovinetti non sanno dissimulare e mentire se non precisamente
quando farebbero invece assai meglio a dire la verità.
Un "zitto, silenzio, basta" s'elevò da ogni parte quando Nanà fè' cenno che
avrebbe incominciata la scena.
Ella si mise dunque a recitare abbastanza male un monologo che la si era
fatta scrivere per un'occasione consimile, tutto pieno di motti a due tagli e
di idee lascive.
Gli spettatori, tranne O'Stiary, giubilavano. Le donne facevano mostra
qualche volta di scandolezzarsi onde aver il diritto di dire poi di Nanà cose
oscene, per ringraziarla del pranzo.
Quel monologo era una birbonata qualunque, intermezzato da
couplets, che Marliani accompagnava al piano.
Gli applausi scoppiavano fragorosi, pazzi, ad ogni refrain.
refrain.E le donne intanto sussurravano sottovoce agli
uomini di condurle a casa. Una aveva l'emicrania, l'altra male al petto. La
Romea protestava mal di denti.
Non c'erano, che la buona Giannella e la signora Fanny, che avessero
pigliato il loro partito e che lodassero schiettamente l'artista e la donna
bella.
Appena ebbe finito l'ultimo ouplet, Nanà fuggì via con un fare
modesto ed infantile, che piacque immensamente agli uomini, e che fece
sempre più bestemmiar le donne, in petto. Marliani tentò da balordo di
seguirla verso la stanza da letto, ma Nanà gli chiuse bravamente l'uscio in
faccia.
Questo tratto sollevò una salva sterminata di nuovi applausi, e un ridere
saporito e grasso in tutti quanti.
- Che ne dite? - domandò Nanà a Enrico tornando nel salotto vestita come
dianzi.
- Voi siete adorabile, e io vi amo come un pazzo - disse Enrico.
Nanà trasse un lungo e tacito respiro dal petto.
- Verrete voi nel mio studio?
- Domani alle due aspettatemi.
VIII.
Lo studio di Enrico era piccino e modesto, un vero studio da dilettante di
buon gusto; ma quanta luce e quanta bella roba in esso! Il sole vi entrava a
larghe ondate, rischiarandolo tutto in modo uniforme e ricercando gli
àngoli più riposti, dove il conte aveva collocati due capolavori della scuola
moderna, due Meissonnier che gli erano costati ventimila franchi.
Il ritratto di Nanà stava sul cavalletto.
Fate conto che siano passati dieci o dodici giorni da quello del pranzo di
Nanà. Il di lei ritratto era a buon porto, e molto riuscito. L'amore aveva
fatto far miracoli al pennello di Enrico.
Ma che sorta d'amore era il suo? Non amava egli già la sua Elisa?
Ahimè!
Quella sera che Enrico aveva veduta Nanà, per la prima volta, scender dal
brougham sotto i raggi del lampione del caffè dell'Europa ed entrare
nella
porta dell' Hôtel de la Ville aveva dovuto accorgersi che il
sentimento casto, tranquillo, soave e profondo ch'ei provava per la cara
vergine compagna della sua infanzia non era ciò ch'egli aveva imaginato
dover essere l'amore. Il cuore egli se l'era pur sentito battere con forza
anche la prima volta che aveva riveduta la sua Elisa di ritorno dal campo
nel 1866 - ve ne ricorderete. La bella creatura era stata certo il pensiero
costante de' suoi anni giovanili anche in mezzo alle sue scappate da
figliuol prodigo... Ma ora non c'era paragone. Al cospetto di Elisa una
dolcezza sovrana, una confidenza, una tenerezza priva di desiderî e
purissima, una ammirazione della bella persona e del dolce e onesto
sguardo, per così dire, lo ispiravano. Al vedere Nanà un tuffo violento nel
sangue, un calor subitaneo in tutte le membra, una foga di desideri e di
voluttà lo invadevano tutto.
Pure egli con Nanà dissimulava assai bene quel delirio de' sensi. Nessun
diplomatico avrebbe saputo vantarsi di coprire con più lieta disinvoltura i
moti interni dell'anima e del sangue, dinanzi alla terribile francese. Sulle
prime anzi ebbe qualche rimorso di tradire la cara fanciulla a cui da tanto
tempo s'era promesso. Poi a poco a poco, senz'accorgesene stuzzicando
Nanà quella riserva per lei tanto rara ed insolita, il di lui voto sincero di
non tradire la Elisa sfumava, sfumava e il suo avvicinarsi a Nanà pigliava
ogni giorno un andamento più deciso.
Egli subiva il fascino del desiderio di quella donna magnetica, e la Elisa
onesta, pura, più bella, più
giovine, più fresca, più geniale, ma riservata a lui, soltanto col consenso
del sindaco, scompariva a poco a poco a' suoi occhi di ventiquattro anni.
La Nanà si era informata della relazione che esisteva fra Enrico e la
signorina Elisa Martelli, e gliene aveva parlato e la si era messa sul serio e
sul contegnoso. Anzi aveva sgridato severamente l'Enrico perchè avesse
pensato di scrivere a lei una lettera d'amore.
Enrico aveva troppo cuore e troppo carattere per dire a Nanà ch'egli non
amava la Elisa.
Era questo che Nanà voleva udire da lui.
E non la ci riusciva.
Tutt'a un tratto Nanà che stava posando, scoccò al suo pittore questa
domanda a bruciapelo.
- Se voi non foste già impegnato con quella bella signorina, che mi è tanto
simpatica e che finirete a sposare... mi sposereste me?
La domanda era audace.
Enrico non rispose subito, sorrise e pigliò una scorciatoia:
- Bisogna che io sappia prima se voi dal canto vostro sareste pronta a
sposar me.
- Io no davvero - rispose Nanà sforzandosi di ridere,
- Si può saperne il perchè? - domandò Enrico che nascondeva a stento un
crepuscolo di picca.
- Perchè io non vorrei sposare un artista.
- Il solito pregiudizio! Del resto io non sono artista; sono un dilettante.
- Ma peggio! È segno che voi non lo fate per
mestiere ma per passione. Siccome io vorrei essere idolatrata da mio
marito e regnare unico pensiero della sua mente, esigerei che egli
dedicasse a me tutte le sue giornate, e non soffrirei ch'egli tenesse l'arte
come seconda amante, o fors'anche come prima.
- Ah, se è così, è bello!
- Non vi pare? Un artista non può amare una donna per lei stessa. Gli
artisti hanno l'amorosa anteriore alla moglie e della quale alla moglie non è
permesso neppure di essere gelosa, ma che li assorbe, li esalta, li
accontenta e li distoglie da noi donne, peggio che se fosse una rivale in
carne ed ossa.
- Ma e gli affari allora? - osservò il conte - gli uomini d'affari non sono
forse continuamente e peggio di noi colla testa e col cuore, nelle loro
speculazioni?
- Colla testa e col fegato forse - rispose Nanà, - col cuore no. L'uomo
d'affari quando è chiusa la borsa o il banco non è più uomo d'affari. Voi
altri artisti, no. Voi altri restate continuamente artisti in città ed in
campagna, di giorno e di notte, d'inverno e d'estate.
- Dunque voi Nanà sareste gelosa della mia tavolozza?
- Non della tavolozza ma di ciò che ferve nella vostra testa, di quell'ideale
che sta in voi e che è più potente delle mie grazie e del mio cuore.
Enrico naturalmente depose la tavolozza e come attirato verso Nanà fece
due passi verso di lei e si fermò a guardarla in estasi.
Essa era la calamita.
Egli il ferro.
Nanà s'accorse che il suo pittore ricominciava a
perdere la calma impostasi dacchè gli aveva detto sapere ch'egli amava la
Elisa. E volendo gettare un poco di acqua su quella fiamma che si
riaccendeva sotto la cenere, per avere il gusto di ravvivarla più tardi:
- Del resto - disse - una volta che io fossi maritata non penserei più a nulla,
non vorrei avere più nessuna responsabilità... giacchè è questa sopratutto
che mi pesa; starei sdraiata tutto il giorno a leggere o a dormire. Lui
dovrebbe pensare continuamente a volermi bene, a soddisfare i miei
capricci, alla casa e ai figli se ne venissero....
Enrico s'era accostato a lei, e ridendo diceva:
- Non sarebbe un marito, allora sarebbe un intendente, un ragioniere.
- Ah, no, perchè poi io mi lascerei amare, vezzeggiare, importunare,
adorare, malmenare tutto il giorno da mio marito se gli piacesse di stare
molto con me.
Così dicendo Nanà, colla più fredda disinvoltura della terra allungò le
braccia verso il suo pittore, posò la sua bella testolina sulle spalle di Enrico
con una specie di infantile ingenuità, e ne ricinse la vita stringendoselo al
seno, ridendo.
Tutto ciò fu fatto colla più grande noncuranza, come la cosa più naturale
del mondo.
Enrico per la prima volta in otto giorni piegò la faccia per farle un bacio.
- No - disse Nanà sciogliendosi e tentando di coprirsi in fretta come donna
che sorte da un sogno e che è pigliata da un subitaneo pudore. - Enrico,
non facciamo confusioni! Restiamo amici, restiamo quello che dobbiamo
essere.
Per quanto un uomo abbia accortezza o esperienza
in fatto di donne, per quanto in teoria egli sappia di quali istinti siano
dotate certe creature - il cui trionfo, la cui voluttà suprema è quella di
assassinare gli uomini e di spingerli al parossismo del desiderio, anche
senz'ombra di progetti rapaci o ambiziosi, ma proprio soltanto pel gusto di
soggiogare - sembra destino che in causa propria, nel momento critico,
quest'uomo perda il sangue freddo, la coscienza e la sinderesi, vale a
dire quel presentimento che avvisa segretamente come quella donna non
spieghi le proprie arti per affetto e per passione, ma per una innata
ambizione di far delle vittime umane e per smisurato amor proprio.
I sensi, in un giovane di ventiquattro anni, sano, forte, ben costituito
come lo era Enrico - hanno quasi sempre un predominio fatale sulla
ragione la quale dovrebbe essere invece - oh, chi non lo sa? - la regina e la
sovrana del corpo umano. La natura, del resto, creando gli uomini e le
donne così foggiate sapeva bene lei che cosa si faceva. Io credo - e non so
se altri lo abbiano creduto prima di me - che se non esistesse il fenomeno
dell'assalto sensuale contro cui non vale nè ragione, nè morale, nè timore
della pena possibile, nè religione, nè nulla - a quest'ora il mondo sarebbe
rimasto quasi spopolato.
Ormai non sono più che i bigotti e i regnanti che fanno legittimamente
all'amore per dovere o per calcolo.
- Restiamo amici - aveva detto Nanà. - Non guastiamo il nostro bello
idillio artistico con dei desiderî che siano precisamente come quelli di tutto
il mondo. E poi che vale? Io credo di averlo già
un amante, e mi sento ispirata a non tradirlo almeno per ora.
- Chi è? - domandò Enrico che era tornato al suo cavalletto affettando
molta freddezza nella voce.
- Volete proprio saperlo?
- Lo bramo.
- È Filippo Marliani.
- Ah!
- Lui!
- E ne siete innamorata?
- Oh, no, povero Filippo. Non merita punto!
- Come potete dire allora che egli sia il vostro amante?
- Amante vuol dire: uomo che ama ch'io sappia, e non uomo che
è amato Egli mi ama, ne sono certa, e io amo lui, ma non ne sono
innamorata.
- E questo basta per voi?
- Finchè io non mi possa innamorare d'un uomo alla mia volta mi deve
bastare, per forza! Che ho a farci io?
- Credete voi di potervi riuscire ad amarlo questo signor Marliani?
- Neppur per sogno. Manca di due o tre qualità indispensabili...
- È ricco?
- Era ricco. Ora è povero.
- E voi siete ricca?
- Lo era. Oggi sono ricca... di debiti.
- E che cosa pensate dunque di fare della vostra vita?
- Non lo so.
- Non ci pensate?
- No. Confido nella mia stella. Diventerò artista drammatica.
- Ma che idee avete?
- Idee! - sclamò Nanà ridendo. - Mi domanda che idee ho! - proseguì come
parlando a sè stessa. Facciamo una cosa, Enrico, mettetevi ne' miei panni,
nella mia posizione. Sareste capace di fare questa specie di astrazione?
- Altro che.
- Ditemi ora che idee avreste voi se foste me stessa? Sentiamo. Fatemi il
vostro programma.
Enrico si trovò dinanzi a un problema, al quale aveva pensato qualche
volta senza trovarci uno scioglimento onesto.
- M'avete detto che questo signor Marliani non potrebbe pensare a... ai casi
vostri? - diss'egli schivando così di rispondere direttamente alle domande
di Nanà.
- No. Egli è completamente rovinato. Ma vedete che non avete saputo
farmi il programma!
- Quanto abbisogna a voi per vivere, come sarebbe il vostro desiderio?
- Se mi chiedete quanto mi abbisogna per vivere vi potrei rispondere che,
amando, mi basterebbero tre franchi al giorno; se mi domandate quanto mi
abbisogna per vivere secondo il mio gusto ora che sono annoiata e
indifferente, pur troppo vi risponderei che, secondo le mie abitudini, non
mi basterebbe un milione all'anno.
- Se però un galantuomo vi facesse delle proposte serie, le ascoltereste
voi?
- Secondo.
- Se il galantuomo fosse come me, per esempio?
- Allora no.
- Perchè?
- Prima, perchè non vorrei che la signorina
Elisa dovesse odiarmi. E poi perchè non vorrei rovinarvi.
- Che importa a voi in caso che io mi rovini?
Nanà non rispose; s'accontentò di alzar le spalle con una smorfietta, che
poteva essere interpretata in mille sensi.
Poteva voler dire: sicuro che a me non m'importa nulla, come poteva voler
dire benissimo: mi importa più di quel che pensate! Poteva voler dire: che
domanda strana! Come poteva benissimo voler dire: hai indovinato!
Astuzia innata di questa sfinge del secolo decimonono.
Mezz'ora dopo Enrico entrava come un turbine nella camera da letto del
suo amico Sappia che si destava in quel punto e gli diceva:
- Ho bisogno di dieci mila franchi.
- Che cosa vuoi farne?
- Ho paura di essere proprio innamorato.
- Innamorato? Ah, capisco! Hai bisogno di dieci mila franchi per farti
passar l'amore?
- Non per farle un prestito indispensabile...
- Si potrebbe sapere chi è?
- Indovina.
- Non saprei!
- È Nanà.
- Nanà! - gridò il Sappia balzando a sedere sul letto.
- Se non trovo dieci mila franchi per questa sera mi faccio saltar le
cervella.
- Quand'è così ascolta. Vedrò se mi è possibile
di trovare ancora danaro e te lo presterò. Ma sulla mia sola firma ormai
non ho più speranza di trovarne. A mio padre nè a mia madre già non
posso più ricorrere. Li ho stancati troppo. Ti saprò dire qualche cosa
stasera al club.
club.- Ma stasera è già troppo tardi. Se io mi presento a Nanà senza una risposta
certa, prima di sera sono rovinato. Gliel'ho promesso.
- Che ti gira di promettere un prestito senza la certezza di poterlo fare?
- Speravo che tu ne avessi o me li potessi trovar subito.
Sappia si levò, fece attaccare e andarono in cerca di Bonaventuri, il quale,
se il lettore si ricorda, aveva offerto i suoi servigi a Sappia fin da quella
sera, che s'eran trovati in casa della Luisa, dove Enrico aveva fatto il primo
passo al malcostume.
Il Bonaventuri infatti, dal canto suo aveva già fatto prestare più di
duecentomila franchi ai due figli di famiglia, e regolarmente alla scadenza
rinnovava i loro effetti, sui quali s'accumulava lo spaventevole anatocismo.
Di questi, più di centomila li aveva mangiati Enrico O'Stiary.
Questi centomila franchi in due anni e mezzo erano diventati circa
duecentomila, e alle nuove scadenze toccavano quasi i centocinquantamila.
E non erano che la metà de' suoi debiti.
Il Bonaventuri faceva credere ai due giovani di essere compromesso
fieramente anche lui da quelle scadenze, alle quali poneva la girata per
puro favore.
Oh, egli era un gentiluomo! Faceva tutto per la grande simpatia che nutriva
per que' due poveri giovani, che gli avari parenti tenevano tanto a
stecchetto. E si fidava tanto di loro! E sapeva dar loro di quando in quando
dei così buoni consigli. E si spaventava di quando in quando con tanta
cordialità nel veder ingrossare spaventosamente le somme del loro debito!
E si rammaricava con tanta pietà che il padre di O'Stiary avesse messa
quella maledetta clausola nel suo testamento. E domandava loro con tanta
premura notizie della salute del babbo marchese e del tutore notaio quando
li incontrava dalla Luisa!
- Aver ancora danaro dalle solite sorgenti - diss'egli a Sappia - è
impossibile. Bisognerà che tentiamo nuovi mezzi.
- Ne conosce lei?
- Io no, ma ho un amico che se ne intende, quantunque da poco in
commercio.
- Andiamo subito da questo suo amico - disse O'Stiary.
- Per farle vedere la mia buona volontà ci andremo oggi.
- Come si chiama?
- Si chiama Marliani, ed ha lo studio in Valpetrosa.
- Oh, diamine! - sclamò il Sappia. - Che fosse mai Filippo Marliani?
- Filippo appunto. Quello che era a pranzo dalla signora Nanà...!
- Sì, sì. È lui! Come mai s'è dato a vendere pannine?
- Lui non vende. Lui è direttore della ragion sociale.
- Allora siamo a casa! - sclamò il Sappia tutto allegro.
- Ora non è che mezzogiorno - disse O'Stiary. - Troviamoci alle due in
qualche luogo.
- Dove?
- Dica lei.
- Dalla Romea?
- Va bene. Dalla Romea.
E si lasciarono.
IX.
Fra le segrete nemiche di Nanà, la più invidiosa, la più astiosa, la più caina
di tutte era la bella acquavitaia.
Dal giorno del pranzo era partita dalla casa di Nanà con un odio intenso e
furibondo. Esecrava cordialmente quella Francese che era tanto più bella
di lei.
Quand'essa vedeva passare Nanà dinanzi la sua bottega, si sentiva pigliare
la gola da una specie di stringimento nervoso. Lo confessava
ingenuamente ella stessa; e allora non poteva tenersi dall'uscire in qualche
frase molto meno spiritosa dei liquidi che teneva negli scaffali della
bottega.
Ella, come si sa, rispondeva al poco dolce nome di Romea, che è il
femminile dell'amante di Giulietta.
Giulietta.C'è a Milano un proverbio che dice: offellee fà el to mestee
mesteeL'offellaia o l'offellaio, che tralascia di far offelle, per darsi ad altra
occupazione, pare destinato a non far fortuna. La Romea non aveva voluto
dar ascolto al proverbio e s'era messa in capo di arricchire, vendendo
acquavite chic ed altri
gèneri; ma non riusciva ad accozzar la cena col desinare.
Tranne che nel naso, sporgente a triangolo appuntato, come il fiocco d'un
bastimento, la Romea dai capelli alle spalle era una bella creatura; chiome,
occhi, bocca, orecchie, denti, mento, colla sua brava fossetta, tutti belli.
Ma il resto, dal collo in giù, non valeva nulla: un bastone da scopa
abbigliato, senza grazie, nè risalti, nè curve, sia dinanzi che di dietro, che
di fianco. Mani discrete, piedi ignobili.
Peccato che il viso fosse, come dissi, guastato da un mòccolo, che si
spingeva troppo in fuori e che pisciava un tantino in bocca. Veduta di
profilo, infatti, la Romea appariva proprio grandemente antipatica.
Quand'ella era di malumore poi - e lo era otto giorni alla settimana
compariva disgustosa addirittura. Le rughe che partono dai lobi del naso e
scendono giù da una parte e dall'altra della bocca le si disegnavano
profonde sulle guancie, e il labbro inferiore arrovesciato e floscio le
spenzolava allora sulla bazza; gli occhi stessi, che nei giorni rari di lietezza
- se le capitava, per esempio, di vendere una ventina di bottiglie o di far
cento lire di banco - sfolgoravano come due stelle, quand'era dannata,
parevano due grandi buchi da scaldaletto.
Una certa consolazione le veniva dal credersi affascinante e piena di
spirito. Questa doppia certezza le usciva fin dai pori ad ogni dieci frasi. Se
nessuno glielo diceva, lo diceva lei. Nessuno dei suoi pochi avventori si
dava la pena di disingannarla. Anzi, forse senza pensarci, facevano di tutto
per tenerla nella sua beata illusione; e, qual più qual meno, in cuor loro
tutti la godevano.
Ella s'arrabbiava, di vedere, che con tante splendide doti gli affari in
bottega non andassero una maledetta Le pareva impossibile che
tutta Milano non corresse a bevere l'amaro da lei, per ammirarla almeno
una volta al giorno e accender l'appetito. Strabiliava! E per vendicarsene si
ricattava sui pochi, e distribuiva loro la sua merce a gran risparmio,
calcava la penna sui prezzi e rompeva loro continuamente le scatole,
perchè comprassero delle bottiglie di cui non avevano bisogno.
Romea presentava una particolarità molto singolare. Essa era estrema tanto
nel biasimo, come nella lode, e mutava repentinamente questi due termini
con una volubilità, che faceva rider assai alle sue spalle gli avventori.
Per cinque, sei, otto mesi ella era capace di portare alle stelle il tale. Egli
era per lei un gentiluomo perfetto, pieno d'ingegno, affabile, largo,
prudente, saggio. A un tratto lo dipingeva come il più ladro e il più
briccone uomo di questa terra. La poverina non s'accorgeva, che chi la
sentiva a parlare così aveva più memoria di lei, e sorrideva di pietà,
dandole segretamente della scimunita. La vanità ingenita le faceva credere
in buona fede che tutte quelle sue nuove calunnie, nate in un'ora, dovessero
trovare orecchie indulgenti, ed essere prese per oro da trenta carati, e
cancellar d'un tratto la stima sincera ch'essa aveva dimostrata per sì lungo
tempo verso il calunniato.
Col giovane di bottega poi ella era feroce.
Nel momento in cui il signor Bonaventuri entrava in bottega per trovarsi al
fissato appuntamento, la Romea stava appunto apostrofando il fattorino
colla sua solita buona grazia, perchè aveva rotto un bicchiere.
Il povero giovincello, entrato in bottega da soli due giorni - giacchè la
Romea aveva l'abilità di mutare cinque o sei giovani la settimana - era lì
tutto mortificato sotto la gragnuola di ingiurie, che quel cherubino di
donna gli scagliava dal banco.
- Asino, marmotta, imbecille.... Coi bei guadagni che si fanno! Credi tu
che io vada a rubarli i cristalli e arrotati per giunta? Due franchi fra i
quali andati al diavolo anche stamattina. Ma te li farò pagare. Oh se te li
terrò giù!
Il Bonaventuri si siedette.
- Signor Bonaventuri! - disse Romea col suo sorriso stereotipo. - Beato chi
lo può vedere. Come va?
- Bene, grazie - rispose secco il Bonaventuri. Poi, al giovane che era lì lì
per piangere.
- Dammi un Fernet senza Seltz.... Che cos'hai che mi sembri Longino
peccatore?
Quindi, senza aspettare la risposta, di nuovo alla Romea:
- O'Stiary è stato qui?
- Sì - rispose la donna - e mi disse infatti che doveva trovarsi con lei per un
certo non so che, e una cosa e un'altra, e che sarebbe tornato fra un'ora.
Può stare a momenti. A proposito... debbo mandarle a casa una dozzina di
bottiglie di hampagne?
hampagne?- Balorda, chiaccherina! - pensò fra sè Silvestro Bonaventuri. Quanto alle
bottiglie, non diede risposta.
Il Bonaventuri aveva indosso quella specie di cascaggine e di svogliatezza,
che deve significare un
mondo di belle cose sottintese. Non ci sono che gl'ingenui, i quali non ne
capiscano la forza e la portata! Egli aveva una faccia perfettamente
insignificante, floscia, avvizzita, sbasita, tra il giallognolo ed il livido, e la
teneva così con gran cura tutto l'anno. Guai se alcuno avesse potuto
sospettare di lui che la notte dianzi egli fosse andato a casa a dormire come
un bravo figliuolo non ubbriaco, o non fosse uscito da poco da un'orgia, da
una bisca o da un bordello. La sua ambizione era tutta lì!
- Ehi - gli disse la Romea - è passata poc'anzi di qua la Nanà, con quella
sua andatura da gonfianùgoli, ma non ha guardato dentro. Era
accompagnata fra i quali da un giovinotto biondo, che parava
venezievole. Uno nuovo!
Bonaventuri alzò le spalle e disse brutalmente:
- Che me ne frega a me?
La Romea scoppiò a ridere, di quel suo riso amarognolo e forzato, il quale,
a dir vero, faceva contrasto colla bellezza delle sue labbra e dei suoi denti
smaglianti.
- Lei fa il disinvolto - ripigliò - ma noi sappiamo tutto.
- Che cosa sapete? - domandò colla sua voce spenta il Bonaventuri,
cercando di farsi credere annoiato.
- Che lei è innamorato morto della Nanà.
Silvestro alzò le spalle.
Il fattorino intanto gli aveva recato dinanzi il vassoio col bicchiere del
Fernet e aveva mesciuto.
La Romea, quando il fattorino tornò verso il banco, gli scoccò a bruciapelo
un'occhiata furtiva e furibonda, una vera occhiata antropofaga.
Il giovine capì d'aver commesso un altro sproposito
e da buon ragazzo che vuol istruirsi, accostò la faccia a quella della
padrona, la quale sottovoce gli susurrò:
- Asino, marmotta, imbecille, tu ne versi sempre troppo per venti
centesimi. T'ho detto due dita, due dita, due dita, non più!
Silvestro intanto aveva cavato di tasca un libretto di memorie e s'era messo
a far delle annotazioni, come per indurre la Romea a tacere.
Ma ell'era come una mosca cavallina. Non s'accorgeva di riuscire tediosa.
Nella sua candida convinzione, che ogni sua parola tornasse gradita a chi
l'ascoltava, e fors'anche nella necessità in cui era continuamente di
ammazzar la noia sterminata e il rovello che la rodevano, procurando di
importunare gli altri con proprio sollievo, continuava:
- Tutti lo dicono del resto, e anche il Salis fra i quali poc'anzi me lo
ripeteva. E io, non ci volevo credere, perchè stento a persuadermi che lei,
che è così fino conoscitore di donne, voglia perdersi con quella civetta.
Il Bonaventuri continuava a fare degli sgorbi inutili sul suo taccuino, e di
quando in quando alzava la testa, apriva la bocca e fissava il soffitto come
un uomo che cerchi un'ispirazione o tenti di raccappezzare un'idea che gli
sfugge.
La Romea continuava:
- Io non dico che la Nanà sia brutta, giacchè, per dire a dire, brutta non lo
è; ma non è neanche bella, come la vorrebbero fare; e poi quando si è
passati i trentacinque.
- Tre e quattro sette e nove fanno sedici - disse il Bonaventuri ad alta voce;
e sul libretto infatti
disegnò un sedici, che riuscì più rotondo di quello della Romea.
- E poi una donna che si butta via in quel modo! È proprio vero che per far
fortuna bisognerebbe far così, mentre noi povere donne oneste fra i
quali le tireremo sempre verdi in sæcula sæculorum...
- Il tutto diviso per tre, dà precisamente otto franchi e sessanta centesimi a
testa - sclamò Silvestro, fingendosi contento, come se avesse sciolto un
problema di calcolo sublime.
- Se ne contano di belle in questi giorni di quella signora. La storiella della
paraninfa, già la conoscerà. Eppoi il fattorino del negozio là di contro, che
è stato qui a prendere una bottiglia di Seltz, mi disse fra i quali che
il giovine del calzolaio lì in faccia aveva saputo dal suo padrone, al quale
lo aveva raccontato una sua pratica, che era andata a comandargli due
stivali da caccia, che il suo parrucchiere gli aveva raccontato di aver inteso
dal cuoco di casa A... che il cocchiere gli aveva detto, come qualmente un
suo amico, che è nell'Anonima degli omnibus, avesse dovuto stare a
cassetta del legno sei ore di fila e di notte, con dieci gradi di freddo nel
cortile d'un palazzo, ad aspettare la signora Nanà, che era andata a un
rendez vous... mi capisce.
Silvestro questa volta si volse alla Romea e le disse con fine ironia:
- Se vede il fattorino a cui il giovine di calzolaio ha raccontato ciò che ha
udito dal padrone a cui l'ha raccontato il signore degli stivali, che l'ha udito
dal parrucchiere, a cui l'ha raccontato il cuoco di casa A..., che l'ha udito
dall'amico del
cocchiere dell'Anonima... se lo vede, gli dica che io me ne congratulo
proprio tanto tanto!
In questa O'Stiary e Sappia entrarono.
- Due Marsala Ingham - disse il Sappia prima di salutare gli astanti.
- Non quello, non quello, stupido, idiota, mamalucco imbecille - gridò, con
una faccia da Arpia, la buona Romea al giovane che aveva dato mano ai
bicchieri troppo grandi per servire il nuovo arrivato. - T'ho già detto che i
bicchieri pel Marsala sono quelli là più piccoli. Impara una volta.
Bevuto il Marsala i due giovani uscirono con Bonaventuri.
Nello studio della ditta F. Marliani e C. v'erano due persone ad aspettar
l'amico Ciliegia colle vittime. Marliani il prestanome, erasi sdraiato nella
sua poltrona, dinanzi allo scrittoio, colla sua brava penna d'oca infilata
sull'orecchio, - per darsi l'aria di un conservatore che stenta ad accettare le
novità - e in capo una callotta di velluto turchino ricamata intorno intorno
a ghiande d'oro, a dir la verità poco lusinghiere, quantunque
emblemi appropriati alla porca professione del gabbamondo.
Lei, la sôra Bibiana, in piedi, daccanto alla scrivania, un po' curvata
innanzi, teneva le due mani sul bracciuolo del seggiolone, dove stava il suo
Alfonso e lo covava amorosamente co' suoi occhietti grigi e tanto
quanto cisposi.
La callotta gliel'aveva regalata lei; e gliel'aveva ricamata lei, colle sue
manaccie grasse, la procace gallinona; e gliel'aveva imposta lei sul capo,
per
levar a Filippo quella sua aria da scapato, tanto adorabile a quattr'occhi, ma
troppo biricchina in istudio, giacchè la stonava maledettamente colla
gravità della sua nuova posizione commerciale. Infatti non è a dirsi come
quella callotta rinvecchignisse il bel giovane, che aveva ispirato pochi
giorni prima il capriccio - cavolo riscaldato - alla orgogliosa Nanà.
La signora Bibiana era superba di quella sua pensata, a doppio uso:
- Sembri proprio un banchiere così! - gli aveva detto acconciandogli in
testa quella berretta senza tesa. - Che importa a me che tu sembri meno
giovane e meno bello, quando siamo in istudio? Anzi, a me piace questo.
Così le donne, che vengono qui per affari, non ti troveranno troppo
seducente. Per me sarai sempre giovane e bello abbastanza! Ah se mi
vorrai proprio bene, vedrai, vedrai!
Erano nei primi giorni d'una illegittima luna di miele.
Lo sciagurato Marliani - dacchè s'era venduto corpo ed anima alla
Società segreta dell'arte di fallire - era disceso poco a poco la scala della
più abbietta degradazione.
La vergogna di sembrare agli occhi di Nanà un povero diavolo era stata la
prima spinta, la spinta immediata. Nanà, coll'esserglisi concessa di nuovo,
coll'avergli rifatto entrare in corpo mille incendi e mille illusioni aveva
segnata la di lui rovina morale.
Dopo quel capriccio famoso, Nanà, choquée, come
diceva ella stessa, dall'aspetto triviale della camera di Filippo,
choquée di averlo trovato a far la barba ai solini da collo, non aveva
più voluto tornare da lui e se lo teneva buono ed amico in casa, soltanto
per la paura ch'egli svelasse ad O'Stiary la vergogna di madama Tricon.
Il Marliani, che s'era venduto alla ditta briccona, appunto per avere i mezzi
di non comparire miserabile in faccia alla sua rinnovata conquista,
trovandosi messo da parte, arse di indicibile gelosia e fu preso dalla
smania di arricchire, per aver il mezzo di ricomprare a furia d'oro la
francese cocotte. Capiva che Nanà lo disprezzava perchè lo aveva
trovato decaduto e povero; e poi si rodeva pensando a quel migliaio di
franchi, che le aveva fatto accettare di buon cuore, e quasi per forza. Se
avesse saputo! E provava una mortificazione cupa, un'amarezza profonda,
un cordoglio, da cui tentava di sottrarsi accarezzando le illusioni e fissando
l'illuminello dei guadagni grossi, che la signora Bibiana gli faceva balenare
dinanzi agli occhi della fantasia.
La gallinona, tutta piena di erotici grilli, aveva messo il desïo su di lui fin
dal bel primo momento ch'egli s'era presentato alla Società dell'arte del
fallire
fallire"Ah se potessi conquistarlo" pensava la vecchia matta, tutta in frègola, alla
vista dello spigliato e robusto giovinotto, che veniva a mettersi sotto la sua
protezione. "Infine io non ho che quarantasette anni! Se è vero quello che
ho letto non so dove che ci fu una volta una certa Ninos de l'Enclon
lei storpiava così quel nome storico - la quale
c'è riuscita a innamorare un abatino a sessant'anni, per dio, non potrò
arrivarci io, che non ho ancora tocchi i cinquanta?"
Ella era andata dunque tutti i giorni allo studio in via Valpetrosa.
Per tre giorni di seguito, entrando in punta di piedi, come era suo costume,
facendo segno al fattorino di non far rumore, aveva trovato il suo nuovo
gerente, che, colla testa nelle mani e i gomiti appoggiati sullo scrittoio,
piangeva sommessamente a lagrime roventi e aveva fiutato subito in quel
pianto un cordoglio d'amore....
"Ah! come sono vili gli uomini!"
Se il Marliani avesse pianto per lei c'è da scommettere che non l'avrebbe
trovato tanto vile. Ma piangere per un'altra donna?
Curiosa, come una vedova che tiene il pizzicore in corpo, essa volle ad
ogni costo sapere il segreto di quel dolore.
Il Marliani si fece pregare un poco ma poi le aprì il cuore. La signora
Bibiana si intenerì, lo compassionò, decise di consolarlo.
La compassione è sorella carnale dell'amore. Povero giovane! Egli aveva
tanto bisogno di essere consolato. E poi con quello schianto in cuore come
avrebbe potuto attendere alle faccende della ditta? Gli affari della società
sarebbero andati a fascio se lei non pensava a strappargli dal petto
quell'infelice passione. L'azienda birbona ne avrebbe sofferto chi sà che
danno, s'ella non provvedeva a medicare quell'anima ferita.
Dopo tutto era anche un dovere di buona cristiana il suo! Un'opera pia!
La signora Bibiana fece dunque capire un bel giorno, al Marliani, che se si
fosse lasciato consolare ne avrebbe avuto vantaggi enormi....
E lui, canaglia, si lasciò consolare.
Ormai una più una meno che monta? Egli si considerava già come un
furfante, dal giorno che aveva sottoscritto il sudicio contratto. Non poteva
avere più ritegni. Le cose a mezzo a questo mondo non le si fanno che
quando si tratta di far del bene; ma una volta che si è nel brago, a che vale
conservare dei riguardi? Le azioni turpi sono come le ciliegie: una dopo
l'altra si va senz'accorgersi in fondo al paniere.
Mezz'ora prima, adunque, che arrivassero allo studio i due nobili amici col
signor Bonaventuri, la vedova procace, incocciata fino a' capelli nell'amore
del suo drudo, era con lui a strano colloquio nello studio della ditta.
Strano, perchè un miscuglio così fatto, composto di sentimentalismi e di
truffe, di voluttà e di cento per cento, di fantasie lubriche e di cambiali in
scadenza, di baci e di usura, di proteste d'amore e di protesti cambiarî chi
non ne abbia mai udito uno simile, non giungerebbe a farsene un'idea.
- Sei un biricchino - diceva la gallinona, vezzeggiando il suo Fiffo, che se
ne stava sdraiato dissimulando a stento l'interno disgusto. - Io vorrei
guarda, avere un trono d'oro per metterti su te a regnare e me d'accanto.
- M'accontenterei anche d'un trono d'argento - disse filosoficamente il
Marliani.
- A proposito cosa c'è di nuovo dell'affare delle posate?
- Non d'oro nè d'argento quelle!
- Dico bene, di cristophle. Le hanno accettate?
- Altro che.
- Oh racconta perchè non ne so nulla.... Ma prima fammi un altro bacio...
ma lungo... come tu li sai fare tanto bene... anima mia.
Dato il bacio, non tanto lungo quanto quell'altra sconcia lo avrebbe voluto,
il Marliani rispose:
- Come sai erano di cristophle, ma così belle e così pesanti che si poteva
benissimo farle passare per d'argento. Il Bonaventuri ne fece bollare una e
la portò al Monte. Il perito, il nostro amico, gliela stimò il quadruplo del
suo valore di costo. Allora il Bonaventuri le fece bollar tutte e ne cavò due
mila franchi. A lui erano costate cinquecento.
- Che boia! - sclamò tutta ilare la signora Bibiana. - Spero bene che avrà
messo il guadagno in conto sociale! Ma tu poi mi vorrai proprio sempre
bene? Non pensi più, n'è vero, a quell'altra?
- No, no, - rispose il Marliani. - Non sei tu quella che farà la mia fortuna?
Oggi credo che il banchiere acconsentirà che mi siano fissati questi cento
franchi di più al mese.
- Ci penso io! E se lui non lo volesse, la tua Bibò sai che li caverà di
propria saccoccia. Te lo giuro sulla memoria de' miei quattro figli che sono
tutti morti.
- Cara!
- E oggi chi si aspetta?
- Il marchese Sappia e il conte O'Stiary.
- Ci cascano ancora?
- Un'ora fa il Bonaventuri mi ha mandato ad avvisare che sarebbe venuto
qui con loro alle due.
- Mi raccomando. Bisogna scorticarli come rane, questi aristocratici. Ma io
non so il perchè stamattina ti voglio più bene del solito. Cioè forse lo so...
E qui la signora Bibiana cercò di farsi rossa in viso con una smorfia
pudibonda.
- Ah, sei un gran biricchino, ve', quando ti ci metti!
E gli diede una vezzosa spalmatina sulla guancia poi vi tenne la mano a
carezze.
Il Marliani sarebbe apparso nauseato a tutti coloro, che lo avessero veduto
in quel punto, tranne che alla vecchia birbona.
- Bibò, Bibò, basta - diss'egli.
- Come basta? Non sei tu forse il mio Fiffo? Non ti piacciono dunque le
carezze della tua Bibò?
- Sì... mi piacciono ma a suo tempo. Ora possono entrare i merli e se ci
pigliano in frègola addio serietà di affari.
- Si tratta ancora d'un prestito?
- Credo.
- Spero bene che il Bonaventuri si ricorderà che deve far finta di non
conoscerci?
- Diamine! Quello è volpe vecchia che ne può insegnare a tutti noi.
- E stanotte...? Quanto ridere! Ne ho ancora il solletico qui allo stomaco, te
lo assicuro. Sei un gran mostro, ve'! Ah sei un gran mostro!
S'udì nel cortile un rumore di passi.
- Sono loro!
- Qua un bacio in fretta - disse la signora Bibiana - e poi serî!
Il Marliani diè il bacio poi si mise la penna fra le dita e finse di scrivere.
*
* *
Entrò il facchino.
- Tre signori che vogliono parlare con lei - disse a Marliani.
- Chi sono?
- Uno glielo posso dire: è il signor Bonaventuri, perchè lo conosco; gli altri
due non so.
- Falli entrare.
Poi finse di essere tutto assorto nel far delle cifre.
La grossa Bibò sedette in disparte.
Bonaventuri entrò. Lo sguardo ch'egli diede al Marliani e alla signora
Bibiana, sarebbe stato invidiato da un antico aruspice di Delfo.
Il ladro uomo ricompose tosto il ghigno.
- Oh, caro Ferdinando - disse Marliani alzandosi da sedere. - E anche lei
mi par di conoscerlo - disse Marliani - ma quello stupido di un facchino
non è mai capace di dir un nome giusto, e a dir la verità...
Il marchese aveva stretta la mano a Marliani confidenzialmente.
- Io sono Silvestro Bonaventuri - rispose l'altro cavandosi i guanti, e questi
sono il signor marchese Sappia che lei conosce, come vedo, e il signor
conte O'Stiary. Ma dico, non disturbiamo forse? - soggiunse tosto
volgendosi a Bibò, che stava là seduta in un canto.
- La s'imagini! - rispose la signora Bibiana
Io aveva finita la mia faccenda e stava rifiatando un minuto, perchè non ho
potuto agguantar l'omnibus, e m'è toccato di far la strada a
piedibus calcantibus dal borgo fin quaggiù. Ma ora son riposata e
me ne torno pacifica e mollifica nella mia pace della campagna beata e
ridente.
I tre sopravvenuti la lasciarono passare, e Bonaventuri, come se proprio
non l'avesse mai veduta, mandandogli dietro uno sguardo desioso, sclamò:
- È un bel pezzo di Marcantonio!
- S'accomodino!
Cominciò il Bonaventuri:
- Io vengo a nome del signor Carcanetti che lei conosce.
Carcanetti era un nome qualunque, un nome inventato.
- Carcanetti mi comunicò che lei un giorno gli ebbe a dire che se aveva
bisogno del danaro per qualche suo amico solido, si rivolgesse pure a lei
che avrebbe trovato il modo di procurarglielo.
Il Marliani alzò la mano al labbro inferiore, lo strinse fra il pollice e
l'indice, e stette a pensare come un uomo che caschi dalle nuvole.
- Non mi ricordo - rispose.
"Ahimè!" - sclamò in cuor suo l'ingenuo O'Stiary.
"Farà il prezioso" - pensò invece il Sappia che aveva maggior esperienza
di mondo.
E si sbagliavano tutti e due.
- Non mi ricordo bene in quall'epoca io possa
avergli detto questo al Carcanetti - ripigliò il Marliani con un fare
naturalissimo - giacchè oggi non solo è cosa molto difficile il trovar danaro
su cambiali ai prezzi commerciali, ma si può dire che è difficilissimo di
trovarne anche volendo assoggettarsi a grossi premî ed usure. Dopo che si
cominciò a parlare di quella benedetta proposta di legge per l'abolizione
dell'arresto personale nessuno più si fida a prestar danaro se non sopra
buona e solida ipoteca. Io stesso, che pur non faccio mai di questi affari, e
che sono a capo di una ditta solidissima, pure avendo avuto bisogno, per
un capriccio di levar una somma a prestito per tre giorni, ho dovuto pagare
un interesse favoloso.
- Vale a dire?
- Per mille franchi mi hanno trattenuto, in tre giorni, cento franchi. È vero
che in commercio tre giorni e un mese contano lo stesso. In ogni modo è
sempre un interesse enorme. È il dieci per cento al mese.
- Qui si tratterebbe di un'operazione di tutta fiducia. Il mio amico è troppo
onesto, troppo gentiluomo per cercare a chichessia un centesimo senza la
sicurezza.
- Oh signore!...
- ... morale e materiale....
- Non ne dubito!
- ... della restituzione....
- Può imaginarsi!
- ... alla scadenza.
- Non se ne parli! Il signore è inutile domandarlo, è maggiorenne, non è
vero? - domandò Marliani rivolto al conte O'Stiary.
- Ho ventitre anni e dieci mesi - rispose Enrico
Non debbo tacere però che io non andrò in pieno godimento della mia
sostanza che a ventiquattro anni compiuti, e che ho dei debiti.
- Non ci sono dunque che due mesi da aspettare! - sclamò il Marliani.
Quanto ai debiti, chi non ne ha al giorno d'oggi? Ma se nella sostanza c'è
un largo sufficiente, i debiti non contano. Si sa bene. Il faut que
jeunesse se passe!
- Benissimo! - disse Sappia.
- Dunque allora questa sera io potrò darle una risposta; tenterò, parlerò,
vedrò il mezzo migliore. Di quale somma avrebbe bisogno?
- Diecimila franchi.
- Bene, le saprò dire l'esito. Non garantisco nulla ma stasera le dirò
francamente quali furono le mie pratiche e sarò molto onorato di poter
riuscire. E se riesco poi - continuò diretto a O'Stiary - chissà che non venga
da lei a chiederle un favore.
- Ben volentieri - rispose Enrico che senza sapere il perchè si trovava in un
disagio ineffabile.
Quest'ultimi periodi infatti erano stati detti in piedi.
Marliani stese la mano al marchesino Sappia a cui disse: Ciao poi
al contino che inchinò e così si lasciarono.
Appena usciti si schiuse pian piano l'usciolo di contro a quello per cui se
n'erano andati i due giovinetti e ne uscì la faccia da luna piena della
signora Bibiana, che rideva come una donna in gallovia. Essa venne ad
abbracciare il Marliani dicendogli:
- Sei un gran birichino. Ti sei portato da negoziante provetto e consumato.
Se il diavolo non ci
mette la coda, in poco tempo la sostanza del conte O'Stiary, deve essere
tutta nostra!
- Ora che si fa? - domandò Marliani alla Bibò. - S'hanno a dare questi dieci
mila franchi o non s'hanno a dare?
- Tu che ne dici? Sai che io faccio quello che vuoi?
- Ebbene allora bisogna darli.
- Pensa Filippo che siamo già sotto di molto.
- Non importa. Fidati di me. Ho bisogno di far buona figura.
- Sì, sì, - disse Bibò. - E poi egli è pronto a qualunque sacrificio? Se dice
così gli è segno che gli fanno assai bisogno. Se gli fanno di bisogno noi col
fargli il prestito gli facciamo uno di quei servizi che si chiamano
impagabili. Non è vero? Forse gli salviamo l'onore... Forse la vita!
Chi lo sa? Se quelli che ci danno dell'usuraio ragionassero così vedrebbero
che noi siamo i salvatori dell'umanità. Siamo forse noi che andiamo a
cercare i figli di famiglia? O sono essi che vengono a cercar noi. Mettiamo
forse loro le pistole alla gola? No. Essi contrattano liberamente. Oh perchè
mai s'avrà a far pagare poniamo cento mila franchi per puro capriccio, un
brillante che non serve a nulla e non s'avrà a far pagar caro un servizio in
contanti, che può salvar l'onore e la vita?
Alla signora Bibiana codesti argomenti in difesa dell'usura parevan sempre
nuovi di zecca, ogni
volta che li ripeteva. E Dio sa quante volte li aveva già ripetuti di sua vita.
Marliani la lasciò sfogare un poco poi la arrestò, e da uomo pratico tornò
alla sua domanda.
- Dunque mi fai far buona figura? Te ne ringrazio.
- Caro! Questo e altro - disse Bibò intenerita. E scoccò un bacione al suo
bel giovane.
- Vediamo ora le condizioni.
- Il solito! Ormai di firma Sappia e O'Stiary ne abbiamo in portafogli per
circa duecento mila. E so che altri ne tengono altrettante. Con queste
faranno duecento mila e venti. E ricordati Filippo e che se questa
imprudenza enormissima fu da me commessa, è stato tutto per amor tuo. Io
non era mai stata avvezza a prestare a un solo più di cinquanta mila
franchi.
- Ma quando ti dico che sono sicuri.
- Lo voglio credere, ed è perciò che non mi faccio pregare neppure questa
volta. Ma dico per dire. Se morisse?
- Pensa che sulle duecento mila firmate, in fin dei conti tu non ne hai
versate più di ottantamila.
- Questo si sa! Un interdetto, deve ben pagare più degli altri.
Dal canto loro il Sappia e l'O'Stiary usciti dallo studio della ditta Marliani
e C. si rallegrarono fra loro d'aver trovato l'amico divenuto uomo serio
tanto ben disposto per loro. Erano pieni di speranze, e il cento per cento di
interesse, che Marliani aveva lasciato loro intravedere, non dava ad essi il
menomo disturbo. Animi felici! A un dipresso, nella bontà istintiva del
loro cuore giovinetto essi ragionavano a loro danno, cogli stessi argomenti
della signora Bibiana.
- Non il cento per cento - sclamava Enrico - ma il mille per cento io sarei
pronto a pagare per avere quel danaro da presentare a Nanà questa sera.
Per me è questione di vita o di morte. Che vale il danaro se non
rappresenta appunto il valore dei nostri desideri?
Si dica quel si vuole, la è logica anche codesta; logica pericolosa, ruinosa,
da scavezzacollo, da uomo passionato, ma logica. Persuadere un giovane
di ventiquattr'anni, generoso, ardente desioso, innamorato che il prender a
interesse del danaro al cento per cento è una grulleria, una bestialità
economica, una ridicolaggine di cui s'avrà certo a pentire più tardi, è cosa
tanto vana, come sarebbe per esempio il mettersi a persuader i pesci a
vivere fuori dell'acqua, dove noi ci si annega, mentre loro ci stanno a lor
agio, dove anzi non possono a meno di stare per vivere.
Pei giovani il danaro non è - parlo in generale - che il mezzo per soddisfare
i bisogni del cuore, i capricci della mente, le necessità dei sensi, delle
passioni. Quanto più troveranno ostacoli, non naturali, non fatali a
soddisfar queste loro passioni tanto più s'aumenterà in essi la smania di
soddisfarle. Nititur in vetitum L'idea del dissesto finanziario, della
povertà, della rovina, non entra in cervelli giovani privi di esperienza e di
vivere di mondo. L'economia è una parola che ha senso soltanto per coloro
che guadagnano il danaro a stento.
Se i tutori ed i padri pensassero a queste verità forse le pazzie dei figli
sarebbero meno frequenti.
Il fatto è che la stessa sera Enrico potè annunciare a Nanà che fra tre giorni
avrebbe avuti i diecimila franchi.
Dal giorno che Enrico O'Stiary portò a Nanà i diecimila franchi, che
dovevano dare un altro strappo alla sua sostanza, quelle due belle creature
si videro tutti i giorni. Rotto il ghiaccio essi entrarono nel secondo stadio
dell'amore... sentimentale. Enrico non aveva il coraggio di esigere di più
da quella donna, che gli appariva armata di virtù come l'antica Minerva. E
forse se avesse anche saputo chi ella era sarebbe stato troppo tardi lo
stesso. La sua fantasia, l'amor proprio, i nervi, i muscoli il sangue erano
troppo invasi dal magnetico di quella donna per concedergli di desistere
dall'immenso desio. Ogni volta che egli montava le scale di Nanà giurava
di riuscire a conquistarla; dinanzi a lei si trovava di aver il cuore di
coniglio, il cervello di ghiaccio e la lingua mozza. Tutte le ragioni, le
preghiere, le astuzie pensate, come quelle del povero Renzo in presenza
dell'Azzeccagarbugli sfumavano. Non sapeva più che cosa dirle, da dove
incominciare, come pigliarla. Pativa suggezione della Parigina!
Ell'era incantevolmente graziosa con lui; lo riceveva con vera e schietta
gioia; non lo lasciava partire s'egli accennava di volersene andar più presto
del solito. Ma se egli arrischiava un gesto, una frase di desiderio, una
preghiera o non faceva mostra di capirli, o li vietava cogli occhi, colla
mano, col broncio, o si sottraeva alle sue carezze.
Nanà manovrava con lui con una tattica degna d'un generale di genio. Ella
aveva fissato di sposare Enrico, mescendo l'utile al dolce; sposare un
giovane che le piaceva e diventare contessa. Conosceva troppo la regola
più elementare della civetteria femminile, per la quale avviene che gli
amanti stiano legati assai più col rifiutarsi che col concedersi. E la sua
continenza era cosa tanto insolita in lei che ne andava orgogliosa.
Enrico sentiva d'essere stretto nelle spire d'un adorabile serpente e non
sapeva levarsene. Già cento volte Nanà aveva letto negli occhi di Enrico il
poema delle sue sofferenze fisiche e morali, e ne gioiva. C'era in questa
gioia di Nanà un piccolo sentimento di vendetta. Ella faceva pagar cari al
giovane innamorato il tentativo di sottrarsi al suo fascino, spiegato da lui
nella prima sera, quand'essa, non aveva potuto cavargli una sola
dichiarazione, e aveva dovuto ella stessa fare i primi approcci.
X.
Siamo in villa, sul lago di Como. Potevano essere le otto d'un bel giorno di
settembre. Il notaio faceva il suo solito sonnetto del dopo pranzo. La
signora Eugenia era salita a trovare la cameriera, che s'era messa a letto
con un febbrone. Elisa era uscita sul terrazzo, che dava sul lago, e stava là
colle braccia a gomitello sul davanzale a guardar nel vuoto con
quell'abbandono un po' languido e sconfortato di chi soffre un cordoglio
che vuolsi dissimulato a tutti e che nella solitudine si fa sentire con
raddoppiata amarezza.
Povera fanciulla!
Sua madre aveva già tentato qualche volta di dissuaderla dal pensare
ancora a quello scapigliato di Enrico, ed essa faceva di tutto per
compiacere a sua madre e non ci riusciva. Chè anzi, il martello dell'amor
proprio offeso, e il disinganno, e il contrasto raddoppiavano nel suo animo
il dolore e la desolazione.
Stava così volgendo nella sua testolina i mesti progetti dell'avvenire, pur
non disperando ancora
del tutto, quando le parve udire dietro di sè il passo di Enrico.
Essa lo distingueva bene fra tutti quanti.
Enrico, il giorno prima, aveva portato a Nanà i diecimila franchi avuti
dalla ditta Marliani e C., e Nanà li aveva accettati; ma era stata con lui più
fiera che mai. Uscendo da lei, era stato preso per reazione da una specie di
rimorso, da una resipiscenza amorosa per la sua bella Elisa; aveva giurato
di star lontano per qualche giorno da Nanà ed era venuto alla villa Martelli
per riveder la fanciulla come se sperasse in quel dolce e onesto sguardo
trovare la consolazione al disinganno de' sensi.
Le giunse a ridosso credendo di non essere stato udito, e ristette ad
ammirarla; e in quel punto sentì il suo amore per lei moltiplicato dal
dispetto e dal tormento che Nanà gli aveva fatto durare il dì prima; le si
mise accanto.
Essa alzò lentamente le pupille addolorate in viso ad Enrico sorrise e la sua
fisonomia fu come illuminata da un raggio di gioia divina. Stese la mano al
giovine, e gli disse:
- Sei qui, Enrico? Oh, non ti aspettavo più.
Enrico vide negli occhi della fanciulla brillar due lagrime, preziosi gioielli
dell'immeritato tesoro di tenerezza, ch'egli aveva racchiuso in quell'anima
innamorata.
- Che hai Elisa?... Tu sei malinconica - le disse Enrico mettendosi con lei
al davanzale.
- Ti pare? - sclamò sorridendo la fanciulla con molta dignità.
- La balia ieri sera mi parlò di te.
- Che cosa la ti disse?
- Che tu credi che io non ti ami più.
- È vero. - domandò Elisa.
- Ebbene, ti giuro di no - riprese con accento sincero il conte. - Credilo,
Elisa, io ti giuro che sento di non voler bene davvero che a te sola.
Elisa sospirò, ma non disse parola.
- Però, siccome non sono capace di fingere con te, mia buona Elisa, ti dirò
tutto. Forse sì, sono andato a rischio di cadere nei lacci di una donna... una
donna che non vale un tuo capello... ma per puro capriccio, vedi, non per
cuore. Ma quando ti vedo, quando sento la tua voce, quando guardo nei
tuoi occhi tanto belli e sinceri, mi par impossibile di avere avuto un
pensiero per un'altra donna.
- Ah! dunque non mi sono ingannata - disse la Elisa. - Qualche cosa c'è per
cui io non debba più sperare...?
- No, te lo giuro - interruppe Enrico - non c'è nulla. Tu mi credi, n'è vero
Elisa? Tu lo senti che io sono sincero, e che non ti voglio bene proprio di
cuore che a te sola....
- Ebbene sì, ti credo - rispose la fanciulla con infinita grazia - perchè guai a
te se poi tu m'ingannassi. Sarebbe come ingannare un bambino. Io non so
nulla di ciò che voi pensiate, nè che proviate per certe donne... ma so che
tu mi fai soffrire.
Queste parole furono dette dalla vergine, con una ineffabile espansione.
- Ah, se anche tuo padre non fosse l'uomo che egli è - sclamò Enrico quasi
per scusarsi - se non fosse lui che mi sforzò a far la vita che faccio.
- Oh, ma perchè?
- Perchè io sento di essere indipendente e superbo,
ed egli mi trattò sempre come un fanciullo, e non come un uomo di
ventiquattro anni che fra poco sarà padrone del proprio avere. Lui crede
che io debba pensare come lui, far la vita che fa lui, avere le sue abitudini,
le sue idee, le sue spilorcerie. Egli mi ha fino rimproverato un giorno,
perchè avevo fatto un'elemosina. È insoffribile. Non è degno d'essere tuo
padre.
- Ah, Enrico, non dire così!
- È vero, Elisa, scusami - sclamò il conte ridendo. - Ma tu, sarai per me la
più cara creatura di questo mondo. Fin da quando avevo dieci anni e tu non
ne avevi che cinque, il primo pensiero d'amore che passò nella mia testa fu
per te. Io sento di essere tuo e che nessuna donna potrà prendere il tuo
posto qui nel mio cuore.
- Allora giurami - disse la Elisa - che non la vedrai più questa donna.
- Ebbene, te lo giuro - rispose Enrico sincero. Ma poi soggiunse:
- Ti giuro che ci andrò ben di rado e che non le dirò mai più nulla che ti
possa dar ombra.
- Ah no, tu non devi vederla mai più.
- Ma, mia cara, farei una figura molto ridicola co' miei amici.... Si direbbe
ch'ella mi ha messo alla porta. Tu non vuoi, Elisa, ch'io diventi ridicolo.
- No, ma io vorrei che tu mi promettessi almeno di non vederla più da solo
a sola.
- Ebbene, questo te lo posso promettere - rispose Enrico.
In questo s'intese la voce vibrata e severa di donna Eugenia che chiamava:
Elisa.
E la madre comparve sulla soglia della terrazza.
- T'ho pur detto tante volte - ripigliò - che sulla terrazza non amo che tu ci
stia di sera, se non con tua madre; speravo che tu m'avessi a obbedire.
Rientrarono tutti e tre in sala, dove il notaio stava russando ancora
placidamente nel suo seggiolone.
Quella serata fu piena, pe' due giovani amanti, di misteriose dolcezze,
mentre una noia feroce regnava in quella sala, che a poco a poco s'era
andata popolando di visite. Erano i villeggianti dei contorni che venivano,
come al solito, a passar la sera in casa Martelli. La Elisa, prima suonava
qualche pezzo sul piano, poi si giuocava a mercante in fiera fin
verso le undici.
Donna Elena aveva già dato ordine al servitore di far preparare per il conte
una delle camere dei forestieri in una casina attigua alla villa.
- Spero che ti fermerai un po' di giorni - aveva domandato il notaio al
conte.
- Non posso - gli aveva risposto Enrico - sono venuto a far una visita alla
sfuggita. Ma ho sul cavalletto un ritratto che non voglio lasciar
prosciugare.
Il giorno dopo infatti Enrico salutava i suoi ospiti e partiva. E in viaggio
sentiva lievemente, gradatamente andarsene in fumo la promessa data alla
Elisa ad ogni chilometro che si scostava da lei e che si avvicinava a Nanà.
XI.
La storia della lotta fra la passione d'Enrico e la calcolata freddezza di
Nanà - è inutile dissimularlo - non potrebbe essere cosa nuova, per la
ragione che essa dura fin dal primo giorno, in cui la mistica coppia,
imaginata dalla Bibbia, sentì il primo palpito, che doveva perpetuar nel
mondo la razza umana. Essa durerà pei secoli dei secoli, e sempre uguale,
finchè su questa pallottola abitata ci sarà un seno di femmina, che
palpitando rifiuti e un petto di maschio che sbuffando, desideri.
Era dunque, come tutte queste battaglie d'amore, combattuta ad armi assai
disuguali; perchè egli amava ed essa calcolava; perchè egli pativa ed essa
godeva.
Quel ruolo di donna onesta non è a dirsi come qualche volta pesasse anche
a Nanà. Ella amava di quando in quando lasciar intravedere al suo amante
di quali pazze delizie, di quali frenesie lo avrebbe inebbriato s'egli avesse
saputo meritare o carpire i di lei favori. Allora Enrico, infiammato,
delirante, furioso si faceva più ardito, ed ella lo
lasciava arrivar fino all'estremo punto, poi lo arrestava negando, con un
sangue freddo e una costanza, che avrebbero fatto onore a Penelope e a
Lucrezia romana.
- No, Enrico, no - gli diceva fingendo di soffrire ella stessa - io non potrei
essere l'amante di un uomo che è già promesso ad altra donna. - Io voglio
che tu non mi disprezzi, nè che tu rida di me co' tuoi amici....
Enrico protestava....
- Io non potrei essere tua che diventando tua moglie. Devi scegliere o me o
lei.
La prima volta che Nanà diede così il fuoco alla bomba, Enrico restò
interdetto.
- Mia moglie? - sclamò.
E per due minuti non aggiunse altro.
Nanà si guardava le unghie e taceva anch'essa.
- Ti ricordi, Nanà - riprese Enrico con calma - d'avermi detto un giorno che
non avresti sposato mai un artista?
- Mi ricordo - rispose ella ridendo - ma allora io non ti conoscevo come ti
conosco adesso e non sapevo che tu mi avessi amata così. Oggi io,
pigliandoti, sposerei un uomo che sono certa non ha per me soltanto un
capriccio, ma un sentimento sincero e profondo.
- Ma io ti volevo molto bene fin d'allora, perchè credo d'essermi invaghito
di te fin dal primo momento che i miei occhi hanno incontrato i tuoi.
- Sempre la stessa cosa! - sclamò volubilmente Nanà.
"Da quel dì che t'ho veduta
Bella come un primo amore"
E come se scordasse sull'istante che in quel punto Eurico le stava parlando
appassionatamente d'amore, ella si mise sul tabourè del piano e
cominciò a cantare la cavatina di Verdi.
Enrico restò come atterrato. Egli non conosceva ancora quella donna. Se
Nanà, quando le era cascato in mente di trarre dai tasti del piano la
cavatina di Carlo V si fosse trattenuta e ne avrebbe fatta una
piccola malattia. È isterismo, dicono i medici. Chi non lo sa?
Quand'ebbe toccati dei tasti, rinchiuse il piano e tornò presso Enrico, che
era rimasto lì abbacinato, credendo ch'ella si burlasse di lui.
- Dunque, che ne dici? - gli domandò.
- Sei decisa a non vedere in me altra stoffa d'uomo, che quella di cui si
fanno fuori i mariti?
- Decisa.
- Mi concederai, Nanà, che la cosa è poco lusinghiera per me.
- Hai torto. Tu calunnii la mia scelta. A Parigi, se io avessi voluto essere
cento volte contessa, duchessa, principessa lo avrei potuto. Come pure se
volessi avere un amante, potrei sceglierne qui a Milano mille più ricchi di
te. Ma come sposo, non ci sei che tu, Enrico, a' miei occhi che mi possa far
felice. E poi assolutamente io non vorrei per amante un uomo che è già
sposo di un'altra. O me, o lei.
- Mi concederai che la è una determinazione gravissima quella che mi
cerchi - disse Enrico, che schivava sempre di alludere alla Elisa.
- Non lo nego. Ma per me essa è meno grave
che decidermi ad una relazione intima quale la vorresti tu... Come mio
marito io avrei interesse a non rovinarti e a non disonorarti; come amante
forse non meriteresti da me questi riguardi. Vedi che ti parlo schietto!
- -E se io acconsentissi e ti promettessi di sposarti? - ripigliò Enrico
saresti tu pronta a raccontarmi il tuo passato?
- Certamente - rispose Nanà franca come una torre.
- E chi dovrà essere il primo a promettere?
- Tu.
- E perchè non tu, piuttosto?
- Perchè sarebbe perfettamente inutile, che io raccontassi la storia della
mia vita ad un uomo, che non dovesse poi essere nulla per me.
- Puoi tu giurarmi fin d'ora che il tuo passato non ha nulla, che sia indegno
di un gentiluomo il quale promettesse di darti il suo nome?
Nanà non arrossì ma non rispose subito. Chiamò a raccolta in un attimo
tutte le facoltà della simulazione e della dissimulazione, poi disse con
calore:
- Tu sai bene, Enrico, che io sono un'artista da teatro, e non una vestale.
- Questo non conta! Io non parlo di errori, parlo di macchie indelebili. Una
volta che tu fossi divenuta la contessa O'Stiary nessuno avrebbe più il
diritto di richiamare il tuo passato, tranne nel caso che fosse un passato
infame. Ciò che io ti domando si è se la tua mano possa mettersi nella mia
senza tremare che un giorno o l'altro un uomo abbia il diritto di dirti una di
quelle frasi che io non potrei lavare che a prezzo della vita dell'uno o
dell'altro.
Nanà lo ascoltava cogli occhi fissati ne' suoi. Ella ripetè la sua scusa.
- Già ti dissi che non fui maritata e che ho un figlio. Il mio povero Louiset
non ha mai conosciuto suo padre. Fu un errore di giovinezza. Se
nondimeno tu hai il coraggio di farmi tua moglie, ti giuro che diventerò il
modello delle spose, giacchè ho conosciuto il mondo e sono certa di poterti
assicurare su quel punto. Se non accetti, Enrico, sarà meglio che non ci
rivediamo. Io ti restituirò, a suo tempo, la somma che mi hai favorita... E
tal sia di noi.
Enrico la interruppe con un gesto...
- Sarà meglio che non ci vediamo più - proseguì Nanà - giacchè la nostra
situazione diventerebbe assurda e pericolosa per entrambi.
Per quanto il giovine fosse appassionato non aveva perduto però fin
l'ultimo lume della ragione e della prudenza. Forse l'imagine sofferente e
bella della Elisa vegliava ancora per lui in un cantuccio del suo cuore.
Si diede a passeggiare pensieroso.
- Dunque? - domandò Nanà poco dopo.
- Se io dovessi promettere, crederesti tu alla mia parola?
- Come a Dio! - rispose Nanà con entusiasmo non finto.
Questa frase diè coraggio ad Enrico. Prese le due mani di Nanà, la attirò a
sè e le disse:
- Mi vuoi tu un po'di bene?
- Come al miglior amico che io mi abbia - rispose la donna.
Enrico la strinse sul petto. Ella si sciolse, scivolando fuori dell'abbraccio, e
dicendo in francese:
- Voyons! Pas de bêtises
bêtisesLa frase fu crudele per Enrico.
Prese il cappello e uscì.
Nanà non lo richiamò.
Ella si conosceva. Temeva che il subitaneo bollor del sangue non le
facesse perdere il frutto della sua lunga resistenza.
Ma Enrico era troppo leale e troppo inesperto per una simile donna.
Del resto, cogli ardimenti della fantasia Nanà aveva risolto il problema di
restare casta, con Enrico, pur non soffrendo. Ella non avrebbe potuto
resistere altrimenti. Trovava il suo amante così timido, così riguardoso e
così bello, che anche con tutta la potenza del calcolo di cui si era armata,
ella era sicura che non avrebbe saputo sempre trovare la virtù della
resistenza, se la fantasia, avvezza a ben altro, non le avesse prestato
spontaneamente collo sfogo, il suo aiuto. Quando Enrico, al colmo della
passione le ricingeva la vita e la copriva di insaziabili baci, ella si
abbandonava per un istante alle voluttà di quell'adorazione e gemeva come
donna a cui pel soverchio piacere sta per mancare la vita; poi si scioglieva
a un tratto da lui, sicura ormai di non cedere. Era l'abbominazione d'una
depravazione parigina, che, se Dio vuole, non è ancora comune fra le
nostre donne!
Questo giuoco andava da più settimane, quando avvenne un caso che diede
una grande rinfiammata alla passione di Enrico.
Nanà in quel tempo stava con lui buona parte del giorno. Essa andava al di
lui studio al mattino e vi stava fino alle due. Al dopo pranzo Enrico
tornava da lei fino a mezzanotte e ne partiva congedato sempre, e sempre
più appassionato.
Ma appena partito lui, un ombra d'uomo, che si spiccava da un angolo
buio, dov'era stato a vedetta, scivolava lungo il muro della casa d'onde era
uscito il sofferente giovine, lo seguiva da lungi per un tratto e quando lo
vedeva bene avviato, e s'era assicurato che non pensava a spiare, tornava
rapido, metteva la chiave nella toppa dello sportello di Nanà e spariva in
esso.
Quell'ombra, che alla luce appariva essere quella del marchesino Sappia,
l'intimo amico di Enrico, usciva poi da quello sportello, verso le cinque del
mattino.
Enrico non aveva pensato ancora di essere geloso. Un'idea fissa lo
consolava dei rifiuti costanti di quella donna, ch'egli amava ormai alla
follia; un'idea che l'amor proprio gli faceva sembrare eminentemente
logica e chiara. Se Nanà era tanto riservata con lui, come avrebbe potuto
egli accogliere il sospetto ch'ella non lo fosse con tutti?
Alle necessità della sua vita dispendiosa egli ci aveva già pensato assai.
Era pronto a rinnovar la dose appena Nanà gli avesse lasciato intendere di
non aver più danaro, e glielo aveva detto esplicitamente. Non le doveva
mancar nulla! Perchè lo avrebbe essa tradito? A che scopo?
Una sera Nanà gli disse:
- Domani non posso venire allo studio.
- Perchè?
- È arrivata da Parigi una mia amica. Debbo passar la giornata con lei.
- Chi è?
- Madame Monrichard - rispose Nanà molto franca.
- Dove stà?
- Non so bene - disse la donna con un poco di impazienza. - Domani verrà
qui e mi farò dire dov'è discesa ad alloggiare.
- A che ora verrà domani da te?
- Non lo so. Potrà venire prima di mezzo giorno e forse potrà venir dopo. È
però necessario ch'io l'aspetti in casa.
- Bene, verrò io da te all'ora che tu avresti dovuto venir da me.
Nanà restò un poco perplessa, poi disse:
- No, non voglio che tu la veda.
- Perchè?
- Perchè è molto bella.
- Che idea!
- Ho paura che la ti piaccia più di me.
- Non c'è pericolo. Via!
- No, non voglio assolutamente.
La mattina dopo Enrico entrava alle dieci nell'andito della porta di Nanà, e
il portinaio gli andava incontro porgendogli una lettera.
Aveva le cifre di Nanà e diceva:
"Caro Enrico"
"Madame Monrichard è venuta alle otto e mezza e mi ha condotto con lei
in campagna a godere
gli ultimi giorni di autunno. Non torneremo a Milano che a notte. Amami.
A rivederci domani al tuo studio."
"LA TUA NANÀ."
- A che ora è uscita stamattina la signora? - domandò Enrico scevro ancora
da vero sospetto, ma col cuore molestato da un vago presentimento di
sciagura...
- È uscita alle nove con una signora.
- Bella molto?
- Oh no, tutt'altro; brutta e vecchia.
- "Brutta e vecchia!" - sclamò fra sè Enrico il quale si ricordava che Nanà
il giorno prima gli aveva detto madame Monrichard essere giovine e
bella.
- È andata in campagna n'è vero?
- Non so. Non m'ha detto nulla.
- Com'era vestita?
- Come al solito, di nero.
- Grazie - rispose Enrico, e uscì turbato.
Era quello il primo attacco di gelosia che risentisse di sua vita.
Ora come assicurarsi? Come avere le traccie di lei? Dove rincorrerla?
Dove sperare di trovarla?
Ricorse anche lui al solito mezzo comune, antico, volgare, come i sospetti
negli innamorati e la cupidigia nelle cameriere, ma sicuro sempre, per
quanto sfruttato da secoli.
Tornò indietro, levò dal portamonete un biglietto da dieci lire, lo pose in
mano al portinaio, che si guardò bene dal ritirarla senza di esso, e gli disse:
- Stasera quand'essa torna a casa ne avrete il doppio se mi saprete dire da
chi è accompagnata e se verrete ad avvisarmene subito.
E gli diè l'indirizzo.
- Signor conte illustrissimo - sclamò il portinaio cavando il berretto fino a
terra - lei sarà servita.
"Guadagnar trenta lire, solo per accontentare un capriccio di innocente
curiosità ad un bel giovane... non c'è male" pensava il portinaio. "A
Milano queste cose si vedono di rado."
Verso la mezzanotte Enrico si vide comparir dinanzi, nel luogo fissato al
convegno, il valentuomo sorridente, che gli narrò come avesse avuta la
pazienza di stare dalle nove fino allora ad aspettar nella via il
brougham, che doveva portar a casa la signora Nanà.
- Ebbene? Con chi tornò?
- È arrivata in un brougham, accompagnata da un signore, che è
rimasto nel legno. Essa discese, senza farsi aiutare da lui, si volse gli disse
À revoir entrò in casa; e il brougham partì di galloppo.
A Enrico si aprivano gli occhi. Nanà lo tradiva.
Diede al portinaio i venti franchi promessi, dicendogli:
- Va bene. State attento che ne guadagnerete degli altri.
E lo congedò con un gesto severo.
Il povero giovane, non sapeva ancora per prova che cosa fosse gelosia.
Non imaginava di quali morsi orrendi sia capace questo egoismo esimio,
questo desiderio violento di conservare tutta per sè la donna che si ama e
di impedire che altri ce la possano togliere. La Elisa, la vergine bella e
pudica, scelta dal suo cuore adolescente, della quale egli aveva creduto per
un pezzo d'essere innamorato, non gli aveva fatto provar mai neppure
l'ombra di quell'uragano, di quella disperazione, che sentiva in quel punto
sorgere nel cuore, e pigliarvi delle proporzioni rapide e spaventose. La
Elisa non gli aveva fatto provare tutt'al più che una leggera puntura
dell'amor proprio, quel giorno ch'ella s'era data a civettare con Aldo
Rubieri, per tentar di smoverlo dalle freddezze, che a sua volta le davano
tanto dolore! E si ricordò di quella leggera velleità di gelosia, e la
paragonò allo spasimo atroce di quel momento in cui il portinaio, che
pensava di poter guadagnare i venti franchi, era venuto sorridente e lieto a
raccontargli il tradimento della sua donna.
Passata la botta però, cominciò il dubbio che in simili casi, è, per così dire,
di prammatica. La gelosia invero non esiste che allo stato di dubbio. Se
fosse certezza non sarebbe più gelosia. La gelosia spinge la creatura alla
ricerca della propria disgrazia, e finchè v'ha ricerca, v'ha dubbio. Quando
la certezza è entrata, la disperazione o la guarigione sono vicine.
Enrico, adunque, cominciò a dubitare e a cercare tutte le ragioni plausibili
per scusare Nanà e per non crederla rea. Perchè, perchè lo avrebbe tradito?
E non trovava risposta al perchè? Era invece così facile il trovarla, s'egli
avesse conosciuto Nanà o avesse avuto soltanto una maggiore esperienza
dell'animo femminile.
Come al solito, dunque il paravento dell'orgoglio gli celò i molti perchè,
dai quali una donna della tempra di Nanà può essere spinta a tradir
un'amante, ch'ella abbia scelto a marito, e decise di aspettar a condannarla
dopo di averla bene interrogata.
La notte gli portò consiglio. Aspettò di piè fermo Nanà nel suo studio,
cercando di nascondere sotto una calma completa la sua immensa
emozione.
Nanà alle dieci fece la sua comparsa più bella e più lieta che mai. Egli
l'accolse, come il solito, andandole incontro e stendendole le due mani;
Nanà gli presentò la fronte da baciare.
Ella s'accorse ch'egli era pallido come un cadavere.
Egli invece fece mostra di non accorgersi del moto gentile di Nanà, e la
fece sedere:
- Dunque ti sei divertita?
- Quando?- domandò la donna col suo sorriso più sincero.
- Ieri in campagna.
- Ah sì, moltissimo.
- A che ora sei tornata a Milano?
- Coll'ultima corsa.
- E chi è che ti accompagnò a casa?
- Monrichard.
- Il marito della tua amica?
- Precisamente.
Poco mancò che Enrico non mandasse un grido di gioia e non si curvasse
ad abbracciare Nanà e a dimandarle scusa de' suoi sospetti. Tutto si
spiegava perfettamente. Egli era stato geloso d'una vana ombra. Come mai
non aveva pensato prima che quell'uomo che aveva accompagnata a casa
la sua Nanà, era, doveva essere, il signor Monrichard? Rise fra sè di aver
sofferto tanto!
La sua gioia però doveva durar poco. Tutt'a un tratto si ricordò che la
portinaia, il giorno prima, gli aveva detto che Nanà quella mattina era
uscita di casa con una vecchia.
Allora le domandò.
- Ieri mattina a che ora è venuta a prenderti questa bellezza che tu non vuoi
che io conosca?
Nanà ebbe dal canto suo un sospetto. Quell'interrogatorio di Enrico, quel
suo fare un po' diverso dal solito, non la lasciava tranquilla.
- Son venuti a prendermi alle nove - rispose stando a cavallo sulle frasi.
- E sei uscita con lei?
Nanà non rispose subito. Il suo sospetto s'accresceva.
- Ma perchè mi fai tante domande quest'oggi? - gli domandò.
- Perchè mi interesso de' fatti tuoi - rispose Enrico colla voce più
indifferente, che gli fu possibile di trovare in gola.
Egli fingeva d'essere tutto intento a preparare la tavolozza.
- Dunque?
- Dunque che cosa? - domandò Nanà.
- T'ho pregata di dirmi se fu madame Monrichard che venne a
prenderti.
- E con chi t'imagini che io sia uscita di casa? - sclamò Nanà levandosi.
- Io non imagino nulla. Domando.
- Ebbene no. Uscii con sua madre che è venuta a prendermi in vece sua.
Enrico fu nuovamente sul punto di saltar al collo di Nanà. Ma ebbe
vergogna di confessarsi reo, e non gliene disse nulla.
E quel giorno passò senz'altri incidenti.
Nell'animo di Enrico però era rimasto un lievito di inquietudine vaga,
un'intuizione dell'inganno,
un presentimento di sventura, che non lo lasciavano quieto.
Tornò dal portinaio della casa di Nanà:
- Questi sono quaranta franchi - disse. - Io ho bisogno di sapere chi viene a
trovare la signora quando io non ci sono.
- Se me l'avesse domandato prima glielo avrei già detto - rispose il
portinaio.
- Parla dunque?
- Quando lei è partito, verso mezzanotte viene un signore che ha la chiave.
Io sono a letto, ma lo sento entrare e montar piano, piano.
- Possibile; - sclamò Enrico. - Ch'ella sia così imprudente?
- Ella spera che io non glielo dica; ma lei è più generoso della signora,
dunque....
- Ah, dunque la signora vi ha fatto dei regali per comperare il vostro
silenzio?
- Oh, no, signore - rispose il portinaio - perchè poi io sono un galantuomo,
e se la signora mi avesse pagato per tacere, io avrei taciuto. Mi ha fatto un
regalo sì, ma un'inezia, e non mi ha detto nulla di tacere, perchè essa spera
forse che io non senta a entrare l'amico Ciliegia.
- E voi siete certo che egli va da Nanà?
- Può figurarsi! Dopo due o tre sere che l'avevo sentito a entrare, mi sono
preparato giù dal letto a piè scalzi, e pian pianino sono uscito fuori e ho
veduto che andava al primo piano.
- Ma a che ora viene egli?
- Un quarto d'ora dopo che lei è partito.
- Non sareste capace di dirmi chi è?
- Credo di saperne il nome.
- Ed è?
- È il signor Aldo Rubieri - rispose il portinaio confondendo un nome con
un altro.
Forse a bella posta?
Chi lo sa!
- Aldo Rubieri; - sciamò Enrico volgendo il dorso al portinaio e
andandosene senza dirgli crepa: - "Lo avrei giurato!" - pensava. - "Ah!
giustizia di Dio, egli dunque mi ha vilmente ingannato quand'io l'ho
scongiurato di dirmi se fra lui e lei erano passate delle intimità?... E
d'altronde?... Non ebbe il coraggio di posare nuda dinanzi a lui? Non ci
sono che le modelle o le amanti che posino nude. Ma modella non è.
Dunque! Stupido, idiota che fui finora a non capirlo."
Enrico a quel punto si sentì assalito da una violentissima smania di
piangere; e per soffocare l'esplosione del dolore che lo soffocava e per non
farsi scorgere per la via coi lucciconi, che nessuna forza umana è valida a
trattenere quando il cordoglio è al colmo, si cacciò in un brougham,
brougham,disse al cocchiere:
- Va a casa del marchese Sappia.
E gli indicò la via calando le cortine.
Ferdinando Sappia era in casa.
Enrico fece irruzione nella sua camera allo stesso modo e peggio di quel
giorno ch'era andato da lui a chiedergli diecimila franchi da prestare a
Nanà.
Vedendolo entrare pallido, cogli occhi rossi, sottosopra, convulso, il
marchese, che in quel punto stava studiando sulla carta geografica un certo
suo progettato viaggio in Europa, si volse, mise le due
mani sui fianchi e stette ad aspettare che Enrico si spiegasse.
Enrico si lasciò cadere, un po' drammaticamente, ma pur senza aria di
posare, in una sedia e taceva.
- Cosa c'è? - domandò il Sappia.
- Nanà è una gran p....! - sclamò Enrico.
Il Sappia capì che si trattava forse di lui stesso e si armò di dissimulazione.
L'autore dei Promessi Sposi scrisse che: l'uomo onesto in faccia
al malvagio piace generalmente imaginarselo con la fronte alta, con
lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguàgnolo bene sciolto.
Il marchese Sappia non era un malvagio, ma sentiva, da quella frase
appassionata di Enrico, di avere verso di lui tutto il torto che un amico può
confessare a sè stesso di avere in faccia all'amico tradito.
Sciaguratamente, in questa nostra vita contemporanea, la morale amorosa
ha create tali e tante leggi in contrasto flagrante fra di loro, che il
raccappezzarne una assoluta e fissa nel caso di Sappia sarebbe opera
superiore ad ogni filosofico criterio.
Sappia tradiva davvero l'amico? Non faceva egli quello che
volgarmente - chiamasi il suo mestiere di uomo elegante? Non
aveva egli un diritto su Nanà, anteriore a quello di Enrico? Poteva egli in
coscienza credersi reo di lesa amicizia? Avrebbe egli avuto il dovere di
raccontare ad Enrico il perchè ed il come Nanà fosse stata obbligata a
riceverlo lui, di notte, mentre s'era mostrata sempre restìa e
inflessibilmente, se non casta, cauta, con lui?
Tutte queste domande si erano affollate nel cervello di Sappia nel breve
spazio di tempo, che scorse
fra l'esclamazione di Enrico e quella che egli fu obbligato di rispondergli,
per non metterlo in sospetto.
- Te l'avevo pur detto di guardarti! - sclamò Sappia. - Ora spiegati.
Enrico gli raccontò tutto sinceramente.
- Ma chi è costui che va da lei di notte? - domandò il Sappia con finta
indifferenza. - Il portinaio ti ha detto chi sia?
- Sì - rispose Enrico - è lo scultore.
- Lo scultore?
- Aldo Rubieri!
Il marchese tirò dai precordi un gran fiato; egli intanto si sentì sollevato da
un bel peso. La tempesta che vedeva scatenarsi sul proprio capo, si
scioglieva in sereno per andar a devastare il campo del vicino. E il
primissimo moto del suo egoismo fu di lietezza.
Ma il secondo, repentissimo, nel suo animo fu di sorpresa e di rabbia.
L'amor proprio pigliò tosto il sopravvento. Così subitaneo, a dir vero, che
si confuse col primo e gli fece sclamare con accento sincero:
- Dici vero? Aldo Rubieri? Ah, canaglia! Non lo sapevo!
Enrico scambiò l'interesse, che la voce, lo sguardo e il gesto del marchese
gli dimostravano come una commiserazione per la propria sventura, e
rispose ingenuamente:
- Ti pare? Tu che sai tutto di me; dimmi che nome merita Nanà? Dillo che
nome merita quella donna infame?
A questo punto la chimica - per modo di dire - amorosa di que' due amici
diventava assai complessa
e confusa. Enrico si credeva di fronte ad un amico senza colpa. Il marchese
che non aveva "il buono testimonio della propria coscienza, nè il
sentimento della giustizia della propria causa" era rimasto leggermente
imbarazzato e silenzioso.
O'Stiary proseguiva:
- Tu che ne dici? Che cosa mi resta a fare? Levarmela dalla mente ora è
impossibile! Non avrei mai creduto che una donna potesse rendermi così
vile e stupido! Lo riconosco.... Ma è più forte di me, è più forte della mia
volontà! Oramai non posso più far senza di lei.
- Non c'è che un viaggio! - disse Sappia - Va via... va a Parigi. Vengo
anch'io.
- Impossibile! Ci ho pensato. Ma ritornerei dopo tre giorni. Che cosa
vorresti facessi in viaggio se ella mi ha come... ammaliato?
- Capisco, capisco! - ripetè il Sappia sopra pensiero. - Ma sai bene, Enrico,
in queste cose non si possono dare consigli. Io non ho mai provato che
cosa sia questo tormento. La mia Luisa io non l'amo abbastanza per
esserne geloso.
E stettero silenziosi entrambi per un cinque minuti.
La conclusione fu che il Sappia non diede altro consiglio ad Enrico e che
Enrico si accontentò per quel giorno d'essersi sfogato coll'amico traditore.
Così, e non altrimenti, corre ai giorni nostri la vita vera E chi
desideroso di non trovarla tanto sconclusionata e smorta volesse
caldeggiarla e idealizzarla, per seguire i dettami di chi odia la pretta verità,
correrebbe rischio di dipingere una società di fantasia, mille e mille altre
volte descritta dai maestri del passato, ma sterile poi e vuota di
ammaestramenti ai filosofi socialisti.
XII.
Nanà riceveva in casa gli amici ai venerdì; quel giorno era appunto di
venerdì, Enrico decise di non lasciarsi vedere. Gli seccava di mostrarsi
presso di lei in faccia a Rubieri, a Sappia, a Marliani, a Salis, a Bianconi,
che forse sapevano del suo attaccamento per Nanà, e avrebbero indovinato
il suo spasimo. Egli era furente contro Aldo Rubieri e gli dava in cuor suo
del traditore, dell'ipocrita e del paltoniere. Giurava non volerlo più
salutare.
Quella sera da Nanà c'era un dramma nell'aria.
Nanà era sdraiata nel suo seggiolone e guardava spesso alle lancette del
pendolo. Erano già le dieci ed Enrico non era comparso ancora. Già due o
tre volte Marliani e Sappia le avevano notato questo ritardo. C'erano quella
sera dalla Nanà oltre i due nominati, la signora Fanny, la padrona di casa,
la Luisa, Bonaventuri e Cantis. I Francesi erano partiti da Milano. Marliani
s'era seduto accanto a Nanà e le parlava sottovoce. Essa non lo udiva;
pensava al conte.
- Mi risponderai una volta? - disse alla fine il giovine molto duramente.
Nanà ne fu scossa e si rizzò sulla vita. Guardò Marliani come donna che si
desti da un sogno e:
- Fiche moi la paix! gli disse; e tornò a sdraiarsi.
- Ascolta Nanà - proseguì Marliani sottovoce. - Così non la può andare. O
tu mi dici che il conte non è nulla per te ed io ti credo, guarda, sulla parola
e ti domando perdono delle insolenze che ti dissi ieri; o tu persisti a
trattarmi così, e allora io ti ripeto che sei la più infame delle sgualdrine che
io abbia conosciuto, e ti giuro che la prima volta che lo trovo, lo provoco e
mi batto con lui all'ultimo sangue; ma prima gli dico il bel mestiere che
facevi a Parigi... bada.
- Oh? - sclamò Nanà; e scoppiò in una risata, perchè gli altri non
s'accorgessero che la tempesta ruggiva. Ma poi pensò che bisognava tener
buono il Marliani e riprese: - Tu sei troppo gentiluomo per fare una simile
vigliaccheria.
- Bada Nanà a non scherzare col fuoco. Tu non sai quello che mi fai
soffrire. Non farti insultare daccapo.
- Ma crè nom de... che siano proprio tutti continuamente uguali
questi signori uomini? - sclamò Nanà quasi parlando a sè stessa. - Io
credevo venendo in Italia di trovare tutt'altra cosa di quello che avevo
trovato a Parigi.... M'accorgo che alla lunga valevano ancora meglio i miei
compatrioti!
- Io voglio una risposta - insisteva Marliani. - Io ti ho avvisata; la colpa di
ciò che accadrà sarà tutta tua Nanà se non mi rispondi.
- Che cosa vuoi che ti risponda, vediamo, maleducato che sei!
- Se tu ami il conte O'Stiary.
- Io non amo nessuno.
- Ma egli è innamorato di te.
- Bella novità! Chi è dei presenti, che non è innamorato di me?
- Tu vuoi sposarlo.
- Chi lo dice?
- Me lo ha detto il Sappia.
- Il Sappia è un asino - disse Nanà senza curarsi di mitigare l'epiteto, che le
venne spontaneo sulle labbra.
- Perchè dunque mi tratti così? Perchè mi hai lusingato di nuovo per farmi
soffire così?
- Com'è che ti tratto? - domandò Nanà. - Tu vorresti dunque che io fossi
continuamente nelle tue braccia? Tu non vuoi assolutamente ammettere
che ho fissato di mutare la mia vita? Siete dunque voi che continuamente
vi opponete a che una donna possa diventare onesta? T'ho io forse detto
qualche volta d'essere innamorata di te? E se io non sono innamorata con
quale diritto pretendi tu che io resti eternamente la tua amante?
- Qui non c'entra il diritto! - disse Marliani. - In amore so benissimo che
non esistono diritti. I diritti non esistono che nel matrimonio. Ebbene! vuoi
tu sposarmi Nanà? Io sono pronto.
- Ma dunque siamo proprio daccapo come laggiù? - gridò Nanà ridendo e
facendosi udire da tutti perchè si credesse che il loro dialogo fosse leggiero
e insignificante.
La Luisa, che stava civettando con Salis, volse il capo e domandò:
- Dove laggiù?
- A Parigi - rispose Nanà. - Figuratevi che
il signor Marliani mi stava offrendo il suo cuore e la sua mano...
Marliani si levò ridendo, sdegnato e andò a suonar una polka al
pianoforte.
Così, signori, così e non altrimenti, si esplica e si mostra la vita
contemporanea. Regina, sovrana, arbitra, dea d'ogni cosa, al giorno d'oggi,
è la santa dissimulazione, giacchè il peggior delitto di cui si possa
macchiare un giovine odierno è quello di farsi vedere innamorato d'una
donna... Ciò che nel medio evo era dovere d'ogni uomo bennato ciò che
costituiva la vita de' cavalieri e dei trovatori oggi è diventato ridicolaggine.
Che cosa volete capir bene de' fatti suoi quando vedete un uomo che ha
come dicono gl'idealisti - la morte nel cuore andar a sedersi dinanzi
a un pianoforte a suonar una polka allegra di Marco Sala o di
Strauss, come l'uomo più spensierato della terra?
Enrico O'Stiary entrò in quel punto.
Egli non aveva potuto tenere la risoluzione di non andar quella sera da
Nanà.
S'era lasciato portare di transazione in transazione dinanzi alla porta di lei,
aveva montate quelle scale maledette, era entrato protestando sempre, ma
trascinato, suo malgrado, da una vera forza irresistibile arcana,
fatale.
Un oh! sincero e prolungato, lo accolse. Egli era simpatico a tutti, tranne
che a Marliani, il quale lo esecrava. La Luisa gli corse incontro e lo
presentò alla società come un figliuol prodigo, che fa ritorno alla magione.
Questa alzata d'ingegno della Luisa non è a dire come dispiacesse
all'Enrico, segretamente. Ma bisognava sopratutto avere del contegno. E lo
ebbe.
Nanà e Sappia furono i soli ad accorgersi che sotto a quel fare in apparenza
ilare e disinvolto covava più fiera la tempesta che mai. Gli altri non
capirono nulla.
Enrico strinse la mano a Nanà dicendole buona sera, senza tradire la
benchè minima emozione, poi si confuse ai crocchi circostanti.
Allora il Marliani si staccò dal pianoforte, andò vicino a Nanà e le disse
sottovoce:
- O tu questa notte mi ricevi o io vado a provocarlo, ti avviso.
- No, non posso.
- Qualunque cosa avvenga Nanà, ricordati che la colpa è tutta tua.
- Bene, finiscila, non seccarmi.
Essa non credeva che Marliani avesse coraggio.
Questi si levò pallido, zuffolando a sordino. Nei momenti più terribili,
nelle crisi più tormentose del cuore, Marliani zuffolava a sordino, col
muso in fuori.
Si avviò verso O'Stiary.
Nanà si volse repentinamente dall'altra parte dove stava Cantis, il
giovinetto d'avvocato, che immemore d'ogni altra cosa che della propria
adorazione concupiscente, stava là a covare cogli occhi il profilo di Nanà e
il profluvio de' suoi capelli d'oro, e l'alabastrina morbidezza di quella sua
pelle indemoniata, e il dolce avvallarsi del seno scoperto fin
quasi ai capezzoli, tutte cose che mettevano nelle vene degli uomini, che
l'avvicinavano così strepitosi fremiti.
Essa gli disse:
- Ernesto, avete voi coraggio per amor mio?
- Oh, lo sapete bene, Nanà - rispose l'adolescente con immensa
convinzione. - Io sono pronto a dar anche la vita per voi.
- Marliani poc'anzi mi ha insultata. Io voglio essere vendicata, ma
sull'istante. Andate là, provocatelo, fatelo uscire con voi dalla sala... Ma
fate presto.... Sarete poi contento di me.
Cantis s'alzò come invasato dal furore di Marte. Si slanciò presso Marliani,
che stava d'accanto ad O'Stiary, e andava battendo colla sinistra un guanto
sulla palma della mano opposta. O'Stiary stava colle spalle a lui rivolte,
parlando colla Luisa e fingendo disinvoltura.
- Caro signor Marliani - disse il giovinetto - avrei a dirle due parole.
- A me? - sclamò il Marliani volgendosi di mala voglia a chi veniva così in
mal punto a interrompere il suo divisamento.
- Sì, a lei, a lei, se le accomoda - rispose forte il Cantis, in modo da essere
inteso da tutti. - Oggi in studio m'è capitato di vedere il di lei riverito nome
come gerente della ditta Marliani e Compagni - proseguì il giovinetto - e
vorrei per suo bene metterla sull'avviso di certe cose, che devono
interessarla assai.
- Ma che cosa c'entra ora?
- C'entra molto. Anzi, se non le è di disturbo, la prego di uscire con me.
- Uscire? Perchè uscire?
- Perchè non vorrei far uno scandalo qui fra questi signori, che hanno il
diritto di non seccarsi per una nostra questione personale. Mi capirà che
non è questo il luogo per certe spiegazioni! La prego di uscire con me.
- Ah! - sclamò il Marliani. - Vedo che lei ha delle idee! - Davvero però che
questo è un bel caso.
Così dicendo diede una squadrata a lui e una squadrata ad Enrico, che
aveva voltata la faccia verso di lui e stava ad ascoltare quel diverbio senza
capire nè sospettare di nulla.
- È davvero un bel caso! parola d'onore! - ripigliò Marliani amaramente
sono a' suoi comandi.
E s'incamminò verso l'uscio, seguito da Ernesto Cantis. Schiuse l'imposta e
mentre stava per oltrepassare la soglia dell'uscio gli venne un'idea. Si volse
e sclamò guardando ferocemente a Nanà:
- Oh, ma forse ho sbagliato a dirlo un caso. Ma riderà bene chi riderà
l'ultimo.
- Cos'è stato?
- È pazzo?
- Che mosca l'ha punto?
- Quel pivello però ha un certo chic di buona compagnia!
- Si vede che è una vecchia ruggine!
- Amerei sapere cosa va a succedere.
- Bisognerebbe tenerli d'occhio...
- Non la può finir liscia.
Queste e altrettanti frasi uscirono dagli astanti appena quei due furono
usciti.
La sola Nanà sapeva tutto ma pregò tutti di star al suo posto. Gli altri si
perdevano in false congetture.
Nessuno dunque si mosse per tener d'occhio i due contendenti. E dopo
cinque minuti tutti li avevano già scordati.
- Che cos'hai stasera, Enrico, che non mi dirigi la parola? - disse Nanà al
conte.
- Non t'ho diretta la parola - rispose il conte coi denti stretti come un
Inglese, lasciandone scivolar fuori le sillabe staccate e sibilanti, tanto era
l'emozione da cui si sentiva preso - perchè avrei avuto voglia di ucciderti.
Ora sono più calmo e ti parlo.
- Uccidermi? Perchè?
- Perchè tu sei la più infame prostituta, la più spudorata sgualdrina, che io
abbia mai conosciuta di mia vita - rispose freddamente O'Stiary.
Nanà impallidì; si volse a cercare colla mano la spalliera d'una sedia e si
lasciò cadere in essa come stanca.
Era, in cinque minuti, il secondo sanguinoso insulto, ch'essa riceveva sul
viso. Ciò che bolliva nella sua anima di cocotte francese, basta
accennarlo per farlo capire.
- Perchè mi dici queste ingiurie? - balbettò. - Che cosa ti ho fatto?
- Che cosa mi hai fatto? Tu hai tanta fronte di domandarmelo? Chi è che è
uscito anche stamattina all'alba da queste camere?
- Nessuno - rispose franca Nanà.
E questa volta diceva il vero.
- Sei bugiarda. Io so tutto.
- Che cosa sai?
- So che madama Monrichard è una invenzione, so che non sei partita da
Milano, so che non sei tornata a casa ieri sera col marito di questa tua
pretesa amica, so insomma che Aldo Rubieri sta con te tutte le notti,
mentre tu mi fai soffrire per comparire onesta e per riuscir a sposarmi.
- Se tutto questo che hai detto fosse un amasso di menzogne e di calunnie?
- disse Nanà - che nome meriteresti tu?
- Se tu sei capace di provarmi che io mi sono ingannato mi assoggetto a
qualunque sagrificio. Ma subito.
- Subito in che modo?
- Mettiti il cappello e andiamo insieme a trovare madama Monrichard con
suo marito e sua madre.
- Ah, questo, per esempio, è impossibile - rispose Nanà sforzandosi di
ridere. - Vorresti ch'io lasciassi qui gli amici? E poi io te l'ho già detto, non
voglio che tu la conosca la Monrichard. È un puntiglio!... Pensa pure tutto
quello che vuoi di me e non seccarmi oltre.
Su questo ultimatum stettero un minuto in silenzio.
- Enrico - disse Nanà ad un tratto - vuoi tu avere la prova la più certa che
io non penso che a te solo, che non ho altri intorno a me, che non desidero
altro che di poter essere tua?
- Parla.
- Partiamo da Milano, conducimi in fondo della terra, su una montagna
dove nessuno sappia che viviamo, senza lasciar a Milano traccie di noi,
senza
che alcuno possa venir a seccarci. Sarai persuaso allora? E per farti vedere
che io non ci ho interesse ma che ti amo non voglio neppure che tu mi dia
la tua parola d'onore, che prima di esigere che io sia tua, mi sposerai... Ma
almeno saprò che anche tu sei lontano dalla tua Elisa.
Nanà non gli aveva mai parlato così.
Enrico fu vinto. Lo spasimo che aveva durato fino allora lo aveva reso
debole come un vigliacco: non diversamente il torturato dai frati
domenicani riusciva dopo il tormento degli stivaletti o dopo lo strazio delle
tanaglie roventi a dichiararsi reo d'un delitto imaginario.
La felicità che gli pioveva a un tratto sul cuore dalle parole di Nanà era
troppo viva, perchè egli ponesse indugio ad accettare la proposta di quella
donna, che lo aveva ammaliato e che si dava anima e corpo in suo potere.
Come avrebbe ella potuto resistergli ancora, una volta, che fossero insieme
notte e giorno fuori di Milano?
La vittoria, finalmente, la sospirata, la agognata vittoria era certa!
In quel momento il desiderio lunghissimo e intenso, l'idea della conquista e
del trionfo non gli lasciarono discernere neppur in ombra tutto quello che
v'era di estremamente grave in una fuga da Milano colla famosa Nanà.
E d'altronde ci avesse anche pensato come avrebbe potuto ritirarsi? Non ne
avrebbe avuto nè la forza, nè la volontà.
Acconsentì. In cinque minuti s'intesero e fissarono il punto della partenza.
Doveva essere pel domani. Enrico non doveva dir ad anima viva che stava
per andarsene da Milano. Avrebbero poi preso in
alla bella donna, aggrottando le sopracciglia, ma beato in cuor suo.
- Tu sarai sorpreso - disse Nanà - di vedermi qui da te, n'è vero?
- Non ti dissimulo....
- Vengo, prima di tutto, a vedere cosa è successo iera sera con Cantis.
- È pazzo quel fanciullo o l'hai aizzato tu stessa contro di me?
- Perchè vorresti ch'io lo avessi aizzato contro di te?
- Per salvare il tuo amante dalla mia vendetta.
- Ma che amante! - disse Nanà sedendosi. - E dunque com'è finita.
- Gli ho mandati i padrini e li aspetto fra poco.
- Io non voglio che vi battiate.
- Vedremo. Non ti posso dir nulla.
- Io sono venuta a salutarti perchè parto.
- Parti? Per dove?
- Per Vienna.
- Col principe?
- Quale principe?
- Il Kuvasoff.
- Che c'entro io col Kuvasoff.
- Via Nanà, non farmi l'innocentina.
- Io ti dico che non parto col principe.
- Con chi dunque?
- Parto con un banchiere ricchissimo... che ha promesso di sposarmi.
- E il conte O'Stiary.
- Lo pianto qui.
- Davvero?
- Non posso partir con due.
- Poverino!
- Lo compiangi?
- È tanto innamorato. Ma però fai benone.
- Ti pare?
- Benone ti dico. Non avresti potuto continuare un mese con lui.
- Perchè? - domandò Nanà con voce molto indifferente.
- Perchè ormai egli è spiantato... peggio di me.
- Spiantato?
- Spiantatissimo.
- Da quando in qua? - domandò Nanà guardandosi le unghie.
- Dacchè cominciò a far debiti.
- Ha dunque molti debiti quel povero ragazzo?
- Ne ha per circa settecento mila franchi.
- È impossibile! Mi avrebbe mentito allora quando mi parlava del
testamento di suo padre.
- Domandalo al marchese Sappia, domandalo a Aldo Rubieri che lo sanno
meglio di me.
- Non ha egli ereditato da suo padre più di un milione?
- Cosa c'entra? Un piccolo, un miserabile milione, che egli sciupò in poco
più di tre anni.
- Sarà molto dunque se riuscirà a conservare duecento o trecentomila
franchi in tutto e per tutto?
- Ma neanche. A poter disporre dell'eredità gli manca ancora un mese a dir
molto. Pagati gli interessi e i debiti plateali egli resterà nudo come il
giorno che è venuto al mondo.
"Avrei fatto un bell'affare, sposandolo" pensò Nanà in cuor suo.
Ma poi riflettè:
"Non sarà vero nulla! Costui parla per gelosia."
- Bene, - diss'ella - queste cose già a me poco importano. Io non sono
venuta da te per questo come puoi imaginarti. Sono venuta da te, portata
da un piccolo rimorso a chiederti un servizio.
- Di danaro? - domandò sollecito il Marliani, colla voce in cui si sentiva il
disinganno.
Nanà pensò di lasciar credere per poco al Marliani ch'essa volesse
chiedergli danaro, per vedere poi accolta con migliore garbo la sua
preghiera, quando gli avesse detto che non si trattava punto di chiedergli
un prestito.
- Danaro! danaro! - diss'ella - sempre questo maledetto danaro!
E si fermò a guardare Marliani nel bianco degli occhi.
- Ebbene, parla - disse il giovine - in ciò che posso.
Nanà, vedendo le buone disposizioni di Marliani, fu lì lì per chiedergliene
subito davvero. Ma poi pensando d'aver qualche cosa di più interessante
pel capo, ripigliò ridendo:
- No, non voglio avere ancora danaro da te, se non me lo sarò meritato.
Dopo se potrai darmi un paio di mille franchi, mi farai gran piacere. Sappi
dunque che io potrò giovarti assai se mi vorrai obbedire... Vedi che in caso
tu non mi daresti che la senseria.
- In fondo sei una gran buona fanciulla! - disse Marliani che cominciava a
intenerirsi.
- Io non voglio lasciare di me brutta memoria
in questa città, che mi è stata tanto gentile e simpatica. Noi forse non ci
vedremo mai più; ma ho bisogno di partire col cuore in pace e sono venuta
come vedi, a congedarmi. Vuoi tu che ci lasciamo in pace?
- Come si fa a negarti una cosa simile? - sclamò il meneghino, che
s'inteneriva sempre più.
- Eppure io so che tu stavi preparando una vendetta.
- Sì..., ti confesserò che io avevo stabilito di scrivere a O'Stiary per
metterlo in guardia contro di te e per raccontargli il tuo passato, come del
resto, te l'ho minacciato ieri sera.
- Vedi dunque che ho fatto bene a venire da te. Io non so quando partirò,
ma nel frattempo tu puoi figurarti quanto io ci tenga che i miei amici non
sappiano nulla di brutto sul conto mio. Noi dunque dobbiamo tornare
amici, almeno fino alla mia partenza. Poi ci scriveremo... È così bello
sapere che si hanno qua e là dei cuori che pensano a noi, che ci vogliono
bene. Accetti?
- T'ho già detto, Nanà, t'ho già detto che a te nulla si nega - rispose il
giovine che sentiva a sfumar dall'animo dolce ogni risentimento verso
quella strega di bellezza.
- Ebbene, ascolta un mio progetto su di te. Dal giorno che ti seppi in
cattiva posizione, io ho pensato di far qualche cosa a tuo vantaggio. Vedi
che io ho cuore. Avrei trovato il modo di farti qui in Milano una buona
posizione.
- Tu?
- L'uomo col quale debbo partire - disse Nanà - tiene qui a Milano
moltissimi interessi bancarî e commerciali. Io ho il potere di farti nominare
suo
rappresentante. Si tratta per te di otto o diecimila franchi di guadagno
all'anno.
Marliani stentava a credere alle proprie orecchie. "Possibile che Nanà
Nanà egoista, Nanà spensierata, Nanà prodiga, Nanà alienissima dagli
affari, - fosse così buona e così provvida per lui?"
- Tu mi colmi - disse egli prendendo una mano della bella e
baciucchiandogliela con passione. Stasera ti porterò i due mila franchi.
Ah, se la Bibò fosse entrata in quel momento!
I baci di Marliani erano espressivi al punto da scrocchiare sulla pelle di
Nanà come la frusta d'un postiglione in grazia divina
divina- Ascolta dunque - ripigliò Nanà ritirando dolcemente le mani da quelle di
Marliani. - Io non posso metterti in relazione qui a Milano con lui, perchè
egli non vuol essere conosciuto. Ma ti fidi di me?
- Come non fidarmi?
- Vieni a trovarmi dopo pranzo, ma non dopo le otto. Saremo soli e
discorreremo. Ti dirò tutto quello che avrò ottenuto per te dal mio nuovo...
grande industriale.
- Come ringraziarti?
- Non voglio ringraziamenti; voglio soltanto essere tua amica e star certa
che tu non mi vuoi far del male.
Nanà si era levata in piedi e aveva stesa la destra a Marliani per
congedarsi.
- Non ne dubitare, angelo mio - disse Marliani ricominciando a imprimere
un'altra sonora dose di baci sulla di lei mano.
E fu in questo punto e sulla frase: "non dubitarne, angelo mio" che Bibò
fece la sua tacita
comparsa dalla fatal porticina di fronte alla scrivania.
Nanà aveva già voltate le spalle a quell'usciolo e non vide Bibò. Soltanto
che, udì il Marliani, il quale, tutt'a un tratto, cambiando perfino il tono di
voce, soggiungeva:
- Questi baci fatti così, e quella frase "angelo mio" detta da lei in tal modo,
sono certo faranno crollare il teatro sotto gli applausi.
Essa si volse indietro come per dirgli: "ma cosa diamine mi vai
farneticando ora?" vide Bibò, terribile, colle mani sui fianchi, la faccia
scarlatta, le furie nello sguardo capì tutto e non potè a meno che scoppiare
in una omerica risata, dicendo a Marliani: addio, addio!
Bibò diè un passo innanzi. Nanà uscì fuori in fretta si cacciò nel suo
brougham e disparve ridendo sempre.
Bibò e Fiffo fecero una lite impiccata e tale, che se ne ricordano
ancora oggi i casigliani.
Il lettore se la imagini.
- "Uno è a posto!" pensò Nanà. Ora al marchese Sappia. Da lui saprò se è
vero che Enrico è rovinato... In tal caso mi attacco definitivamente al
principe; lo obbligo a dividersi da sua moglie e vado in Russia con lui.
Il marchese Ferdinando Sappia aveva le sue entrate notturne da Nanà al
martedì e al sabbato. Questo fatto urterà i nervi e il senso morale di ogni
persona ben nata; urtò anche i miei. Ma ne ha
colpa forse il romanziero se certe donne sono proprio così fatte?
Se le adulate, se nascondete il vero su di esse, dov'è la morale?
Il Sappia era uno dei tre a cui la cortigiana parigina impartiva i suoi favori
- lei credeva in gran segreto, - per soddisfare a' imperiosi bisogni di donna
afrodisiaca, e al suo bilancio eternamente in deficit, come quello del
regno d'Italia; malgrado che a rimpinzarlo ci avessero già pensato in
quattro: Marliani, O'Stiary, Sappia e Kuvasoff.
Quanto al principe Kuvasoff, era ammogliato ad una mongola, brutta e
gelosa come una gatta in aprile, e teneva un appartamentino per gli
appuntamenti con Nanà in una nota via.
Dinanzi alla porta di casa Sappia, Nanà scese dal brougham, entrò
dal portinaio e lo pregò di avvertire il marchese che una signora aveva
urgente bisogno di parlargli.
Il marchese padre e la marchesa madre erano in campagna.
Sappia discese. Essa lo pregò di accompagnarla sin da Rubieri e
rientrarono entrambi in carrozza.
- Che cosa c'è di nuovo?
- Io credevo - disse Nanà - che tu fossi un gentiluomo e temo di dovermi
disingannare.
- Mi farai piacere a spiegarti.
- Ti avevo pregato di non dire al tuo amico O'Stiary in qual luogo a Parigi
tu mi avessi incontrata.
- Ebbene?
- Non è che a me importi del conte O'Stiary o di chiunque altri di questa
terra; ma gli è soltanto che mi dispiace di trovar in te un uomo che dice di
amarmi e che non ha saputo mantener il segreto.
- Enrico ti ha forse detto di aver saputo di madama Tricon?
- No, ma se lo sa non puoi essere stato che tu a dirglielo.
- Se lo sa non può essere stato che Marliani. Io non potevo dirglielo,
neppur volendo, giacchè quando gli parlai di te gli ho inventate cose tali
che ora avrei fatto la figura d'un bugiardo e d'un blagueur, se avessi
dovuto dirgli la verità.
Da questa confessione del Sappia Nanà fu pienamente rassicurata.
- Ebbene ti credo. L'avrà saputo da Marliani. Oh del resto ormai poco
m'importa, giacchè devi sapere, mio caro, che io sono obbligata di partire
da Milano.
- Tu parti? - sclamò il Sappia leggermente commosso da questa notizia.
- Tu non sai ancora un segreto della mia vita, che ho sempre taciuto a tutti.
- Ed è?
- Io sono maritata.
- Tu?
- E amo mio marito.
- Tu?
- Mio marito mi richiama a sè in Francia e mi perdona il mio passato.
- Dov'è ora questo tuo marito?
- A Parigi.
- E tu fai conto di tornar a Parigi?
- Sì - rispose Nanà mestamente.
- È molto tempo che sei maritata?
- Due anni.
- Dunque quando io ti vidi a Parigi non lo eri ancora?
- No.
- Tuo marito è ricco o povero?
- È povero.
- E tu vuoi tornargli insieme?
- Si. Egli riconosce e addotta il mio Louiset.
- E lo ami?
- Sì.
- E quando partirai?
- Non lo so. Aspetto ch'egli mi telegrafi il giorno.
- E di Enrico, del mio povero conte, che ne fai tu?
- Lo lascio.
- Egli ne morrà.
- Oh non si muore più adesso per queste cose - sclamò Nanà. - Egli sposerà
la sua Elisa.
- Ahimè! - disse il Sappia. - Io temo che anche quel suo matrimonio sia
andato a monte.
- Perchè?
- Perchè Enrico è rovinato. E tu certo non puoi vantarti di non esserci
entrata in buona parte.
- Ma è dunque vero, che è rovinato quel povero Enrico? - sclamò Nanà con
voce compassionevole.
E fra sè pensava intanto "Ah il mio petit crevè stai fresco ora."
- Non gli resterà tanto da tenersi un cavallo.
- Io non ne ho colpa. Io non gli ho mai chiesto danaro. I regali già non si
possono rifiutare.
- Oh del resto - notò il Sappia - ti permetto
di non avere rimorsi. Egli era già quasi rovinato prima che tu venissi a
Milano.
"Assolutamente - pensò Nanà fra sè - se lo sposassi ora che posso essere
certa che egli è rovinato, sarei una gran baggea. Bisognerà pensare ad
altro."
- Senti un pò - disse Sappia. - Se io ti accompagnassi a Parigi? Che ne
pensi?
- Impossibile.
- Perchè impossibile?
- Perchè mio marito verrà a levarmi di qui.
Il Sappia si strinse nelle spalle. Che cosa gli restava a dirle di più? Egli non
era l'uomo da far delle pazzie per Nanà. Anzi ond'essere vero sempre, fino
alla feccia, c'è da confessare che tra i pensieri del marchese scattò
spontanea e pronta questa frase che fa onore alla di lui saggezza: "Meglio
così! Tanti risparmiati!"
La confessione però, di quell'amore per un marito qualunque, gli giungeva
così nuova ed eteroclita, che ne dubitò. Si propose di sorvegliare Nanà e di
scoprire l'arcano, che doveva covare sotto l'apparente sincerità della
cocotte.
cocotte.Erano giunti a casa di Aldo Rubieri.
- A rivederci questa sera - disse Nanà. - A proposito, sai che ieri sera
Enrico non è venuto da me?
- Tiene il broncio?
- Sicuro.
Il Sappia tornò col brougham a casa. Nanà trasse di tasca una
piccola chiave, fè il giro dietro la casetta di Rubieri e per una porticina
seminascosta dietro l'edera entrò nel guardino.
Gignous avrebbe delirato di gioia, vedendolo.
Parlo del giardino di Aldo Rubieri, che Mattia Corvino chiamava con
innocente iperbole il giardino incantato
incantatoEra vasto. Ma quantunque chiuso fra quattro mura, sembrava sterminato
intorno intorno. I muri erano tutti coperti di edera folta, e dinanzi ai muri,
stavano piantate tre filari di pini delle Alpi.
Nell'edera, Aldo aveva saputo praticare certi effetti di luce, di chiaroscuri e
di sfondi, da farli scambiare fra le macchie più avanzate, per cannocchiali
di una foresta folta, che contornasse tutt'all'ingiro il giardino.
Un'illusione ottica maravigliosa.
Certo era quello il più bello e il più fresco giardino di Milano. D'onde mai
il Rubieri fosse andato a tirare l'acqua perennemente zampillante dalle tre
fontane e formante la vaga cascatella, tra il tufo e i sempreverdi, nessuno
lo sapeva, tranne Nanà, la signora Marietta e il Cicerone. Il fatto è che
v'era una delizia di frescura e di verde ammirabile.
Nanà aveva dichiarato che ci sarebbe vissuta volentieri tutta la vita.
Rubieri aveva accolta quella
dichiarazione come un complimento al suo buon gusto e null'altro.
- Sei qui, mia splendida bellezza? - disse Aldo vedendola entrare nello
studio.
- Sono qui, e per l'ultima volta. Dopodomani parto - rispose Nanà.
- Dove vai?
- A Napoli.
- A far che?
- A recitare. Sono scritturata a mille franchi al mese.
- Tu?
- Io.
- Ma chi è quell'impresario balordo, che ha il coraggio di darti mille
franchi al mese?
- Come siete sempre grossolano con me, caro Aldo! - disse Nanà.
- Ah, tu sai bene che io non faccio complimenti neppur alle donne belle.
Il Rubieri fin dal primo giorno s'era avvezzo a non subire il fascino
sensuale di Nanà. Egli considerava la sua modella come una bellissima
creazione dal solo punto di vista dell'arte. Tutte le moine e le seduzioni di
lei, non erano riuscite a smuoverlo dalla sua sovrana indifferenza.
Egli aveva altro pel capo.
La trattava come un fanciullo, e Nanà sentiva di lui un poco di soggezione.
Era tutto il rovescio di quello che accadeva cogli altri adoratori, i quali
invece avevano suddizione di lei.
Talvolta Rubieri le parlava seriamente come da
padre. Egli amava di comparire ai di lei occhi un uomo serio. Oltre che,
era portato a questo dal suo carattere, pensava che parlando in francese di
cose serie, egli avrebbe fatto miglior figura.
Pei calembours egli non ci aveva l'incornatura.
Nanà trovava un gusto nuovo a questa, per lei, grandissima novità. Se a
Parigi qualcuno le avesse detto una cosa simile, gli avrebbe dato
dell'idiota. Ella si sentiva come riabilitata ai propri occhi, finchè stava con
Rubieri e ascoltava senza noia il suo Fidia. Spesso, ella si maravigliava
d'essere capace di udire senza sbadigli certe tirate, che era avvezza a
considerare come solenni pedanterie. Ma il segreto di questa nuova
attenzione lo si comprende pensando che ella aveva ormai uno scopo serio
nella sua vita.
- Nanà, ascolta - disse Rubieri sedendosi vicino a lei - io ho bisogno di
sapere da te se il conte O'Stiary ti accompagnerà a Napoli.
Nanà guardò sorpresa in faccia a Rubieri.
- Perchè mi hai fatta questa domanda?
- Perchè ci ho il mio grande interesse a fartela.
- Si può sapere questo interesse?
- Non c'è nulla che mi vieti di dirtelo. Tu sai che Enrico era promesso
sposo della signorina Elisa Martelli.
- Ebbene?
- Da qualche tempo questo matrimonio pericolava assai, perchè Enrico
pensava tanto alla bella Elisa come io penso alla regina di Golconda.
- Lo so.
- Ma se tu riesci a condurlo via con te, gli è
come dire che andrebbe proprio a monte del tutto e definitivamente.
- Ah, ho capito; e allora tu, n'è vero, ti faresti sotto?
- Perchè no? È una delle più belle fanciulle di Milano.
- Con trecentomila lire di dote.
- Non dico di no.
- E se io ci riuscissi a fare questo colpo, quale sarebbe la mia ricompensa?
- Proponi.
- Ma prima di tutto è necessario che io sappia in quali acque si trova oggi il
conte. È vero che è rovinato?
- Non del tutto, ma quasi.
- Capirai Aldo, che il fuggire con un uomo rovinato, di cui non si sia
pazzamente innamorata, non è proprio l'ideale del saper vivere.
- A me basterebbe che tu me lo tenessi lontano un mese. Per questo mese
io penserei a te.
- Io non mi fido.
- E se ti sborsassi il danaro prima di partire?
- Allora sì.
- Ti bastano duemila franchi?
- Peuh! Facciamo tre.
Aldo si alzò, e andava difilato allo scrigno, quando un dubbio lo fece
arrestare:
- Tu non ti fidavi di me. Dovrò io fidarmi di te?
- Se non ti fidi tralascia - disse Nanà.
- Non potresti dirmi qualche cosa che mi affidasse che tu saprai davvero
trascinarti dietro il giovinetto?
A Nanà venne un'idea splendida.
- Io l'ho il mezzo.
- Quale?
- Gli scrivo un biglietto qui; egli mi risponderà che è pronto a fuggire con
me, e tu lo leggerai pel primo.
- Se tu sei così brava ti snocciolo subito uno sull'altro i tre biglietti da
mille.
- Dammi da scrivere.
Aldo la condusse nel gabinetto da studio.
Nanà scrisse:
"Mio adorato Enrico,
"M'è nato il dubbio che tu abbia mutato di parere. Assicurami subito che tu
sarai pronto questa sera, per l'ultima corsa di Arona, a partire con me. È
necessario che non ci vediamo prima di quell'ora per non dare sospetti.
Alle dieci io ti aspetto in casa. Sarò pronta. A rivederci. Rispondimi subito.
"Tua NANÀ."
Un'ora dopo il Mattia Corvino, che era stato mandato a portare il biglietto
al conte O'Stiary, recava la risposta:
"Mia Nanà,
"Non dubitare. Alle dieci di questa sera io sarò da te e partiremo insieme.
Io ho già salutato Milano forse per sempre. Ciò che però non ti ho ancora
detto a voce te lo dico in questo estremo momento. Io non sono più ricco e
a te povera Nanà toccherà forse di avere delle privazioni per vivere con
me. È un dovere imprescindibile che mi spinge ora a farti questa
confessione. Mi ami tu abbastanza malgrado ciò? Me lo dirai domani sera
lungi da Milano, quando sarai finalmente nelle mie braccia.
"Tuo ENRICO."
- Che ne dici? - domandò Nanà trionfante. Rubieri era pensieroso.
- A che pensi?
- Penso che voi due vi eravate già intesi di fuggire stasera insieme.
- Può darsi!
- Senza le mie tremila lire, dunque?
- Ero venuta per chiedertele ugualmente.
- E se io te le avessi negate?
- Saresti stato padronissimo. Ma ora mi pare che mancheresti di
delicatezza.
- Ho scherzato. Volevo vedere come la pigliavi.
Aldo andò allo scrigno portò a Nanà i tremila franchi, ch'ella ripose con
grandissima indifferenza e con un semplice merci nel portamonete.
Poi dato uno sguardo all'orologio e col pretesto delle mille faccende che le
restavano da sbrigare per poter partire, s'accomiatò.
"Queste le tengo," pensò Nanà, rincantucciata nel brougham, che la
portava alla palazzina del principe Kuvasoff; e andava palpando e
ripalpando il portamonete con immenso giubilo.
Il principe Kuvasoff aveva i suoi erotici colloqui con Nanà
nell'appartamentino della casa in cui
trovasi oggi la Cronaca Grigia Essa aveva due uscite. Il principe
entrava da una parte, Nanà dall'altra; e quando si lasciavano, Nanà usciva
dalla parte per cui il principe era venuto e viceversa. In tal modo essi
avevano sventate le ricerche assidue della principessa, la quale teneva due
spie sulle traccie di suo marito e non aveva potuto saper nulla ancora di
quel convegno.
- Mio caro principe - disse Nanà - che arrivata prima di lui stava sdraiata
su un'ottomana ad aspettarlo fumando una sigaretta - oggi grandi novità.
C'è chi si è incaricato di rapirmi a voi.
- Ah dev'essere un grande uomo di forza costui! - sclamò il principe
sedendosi vicino a Nanà e cingendole la vita col braccio.
- Egli mi ama come un pazzo - disse Nanà.
- Ed io dunque vi amo forse come un saggio?
- Vediamo dunque. Che cosa sareste pronto a fare voi per me ond'io non
accetti le proposte di quell'altro?
- Tutto quello che vuoi.
- Sareste pronto principe a dividervi dalla principessa e a condurmi in
Russia con voi, come mi avete detto altre volte?
- Sempre. Io già da un pezzo, lo sai, rumino l'idea di liberarmi da
quell'arpia.
- Allora birba chi manca. Toccate.
Il principe diè la mano a Nanà.
- Quando partiamo?
- Anche stanotte se vuoi.
- Sta bene. Io sono pronta.
- Ma non converrà partire insieme.
- È vero partiamo da soli e troviamoci in un'altra città.
- Dove per esempio?
- A Venezia. È sulla strada per andar in Russia.
Furono presi tutti gli accordi più necessari, e il principe le diede cento
napoleoni d'oro per le spese del viaggio da Milano a Venezia.
E Nanà li mise insieme ai tremila franchi di Rubieri.
Il resto del colloquio andò poi co' suoi fiocchi; ma noi è meglio che lo
lasciamo nell'ombra.
Il giorno dopo tutta Milano, - voglio dire la tutta Milano settembrina, che
ha tempo e voglia di occuparsi dei fatti altrui - parlava della sparizione di
Nanà e di quella contemporanea del conte Enrico O'Stiary.
Quanto al principe Kuvasoff egli si fece veder al Corso in coupè
coupèallato di sua moglie, e non lasciò Milano per Venezia che il giorno dopo.
Ma che cosa era capitato ad Enrico O'Stiary?
Due ore prima di quella fissata alla partenza con Nanà egli era andato da
lei, e aveva trovato dal portinaio questo biglietto:
"Caro Enrico,
"Siamo sorvegliati. È impossibile andar via insieme. Io deludo lo
spionaggio di chi potrebbe impedirmi di partire con te e parto subito. Mi
troverai a Torino al Feder, a meno che non mi tocchi di continuare il
viaggio fino a Macon.
"A rivederci.
"TUA NANÀ."
Enrico questa volta non ebbe sospetti gravi; ma sentì una specie di
maraviglia disgustosa, che ci fosse taluno il quale potesse impedire la
partenza di Nanà. La sua mente corse tosto a Aldo Rubieri, ch'egli credeva
suo fortunato rivale, e fu lì lì per andare da lui a chiedergli una
spiegazione. Ma consultato l'orologio capì che non aveva tempo da
perdere; mandò Aldo al diavolo in cuor suo, e giubilando al pensiero che
fra poche ore si sarebbe trovato al fianco della donna adorata, si fece
condurre alla stazione dove pranzò; quindi partì per Torino.
Chi domandasse poi il perchè Nanà si fosse divertita a far anche
quest'ultima burla crudele ad Enrico mostrerebbe di non conoscere di quali
capricci sia fecondo l'isterismo d'una cocotte parigina
XIII.
pariginaSuonavano le nove e mezza di mattino al campanile del villaggio sul
Lario, che sorgeva a un tiro di pistola dalla villa del notaio Martelli.
Egli stava in giardino a potar i suoi fiori, quando il domestico gli annunciò
una visita sbarcata poco prima dal vapore.
- Sarà quel capo scarico d'un mio pupillo, mi imagino - disse don Ignazio.
- No signore. È il signor Aldo Rubieri.
- Ah, tanto meglio! - sclamò il notaio; e deposta la forbice gli corse
incontro tutto lieto.
- Benvenuto, benvenuto - cominciò a gridar da lungi, alzando le due
braccia come un telegrafo - Che buon vento?
- Lei non m'aspettava?
- Ma sì, certo che l'aspettavamo tutti - disse il notaio. - Però credevamo che
lei venisse colla seconda corsa.
- Ho dormito a Como. Ecco perchè sono qui così presto. Ieri sera ho
perduto l'ultimo vapore e non ho avuto il coraggio di fare questo tratto in
barca.
- Sfido io! Le donne poltrone sono ancora a
letto... o tutt'al più alla toilette. Non sanno godere la campagna
quelle pettegole.
- Oh, del resto non sono che le nove.
- Bravo, bravo! - sclamò don Ignazio entrando nel salotto e mettendosi a
sedere. - Oh, giacchè siamo soli, parliamo dunque un poco seriamente dei
nostri affari. Il suo amico che mi fece l'onore di domandarmi in di lei nome
la mano della mia Elisa, le avrà portata la mia risposta.
- Ed io sono venuto incoraggiato appunto da quella risposta - disse
Rubieri.
- Lei può imaginarsi se io non sarei felice. Ma le dirò la verità, noi non
abbiamo ancora avuto occasione di parlarne alla Elisa.
- È naturale! L'amico mi portò la lieta notizia soltanto ieri mattina, ed io
due ore dopo partivo da Milano.
- Mi ascolti, caro Rubieri - disse il notaio invitando lo scultore a seder
dinanzi a sè. - Lei sa che da qualche tempo io vagheggio l'idea di ottenere
dalla Giunta municipale quella tal concessione di cui le ho parlato e che
deve far più ricca d'assai mia figlia che lei mi fa l'onore di chiedermi in
isposa. Mia figlia è unica, e naturalmente... Lei è assessore e mi dicono che
può tutto presso il conte sindaco.
- Oh questo è una esagerazione - sclamò Rubieri.
- Sì sì, m'hanno assicurato che il sindaco la stima assai, e fa tutto quello
che lei gli suggerisce.
- Non negherò che il conte sindaco abbia una certa deferenza per me
rispose Aldo - ma da
questa al far tutto ciò che io desidero ci corre. E poi c'è il Consiglio.
- Ma lei appartiene alla maggioranza....
- Questo è vero! Se il sindaco vuole, del Consiglio ce ne infischiamo.
- Dunque una mano lava l'altra. Io le do mia figlia e lei mi fa ottenere la
concessione.
- Mi spiacerebbe che la signorina Elisa sapesse che....
- La Elisa non deve saper nulla delle nostre faccende - disse il padre.
Siamo intesi?
- Ma dal canto mio - rispose Aldo - lei può imaginarsi se non mi metterò
colle mani e coi piedi perchè questa concessione le sia data... se non che....
- Non è certo di ottenerla?
- Come lei, caro don Ignazio, non è certo di ottenere il consenso di sua
figlia.
- Eh l'otterremo, non la dubiti, l'otterremo - sclamò il notaio scotendo il
capo con un sorriso fra il malizioso e il soddisfatto. - La Elisa è una
testolina sì, che ha le sue idee, non dico, ma che non mi ha mai disobbedito
finora; e credo non vorrà cominciare dal momento che io le proporrò un
giovinotto come lei, un uomo celebre, assessore municipale....
- Basta basta, don Ignazio, non la mi faccia arrossire ora. Piuttosto le
dirò..., caro cavaliere... le esporrò un mio dubbio..., ch'ella potrà
distruggere o avvalorare secondo la verità. Io, come lei può ben pensare,
non vorrei per tutto l'oro del mondo ottenere da sua figlia un consenso che
potesse per avventura essere un po' forzato. Io non sono in confidenza
colla signorina Elisa e non so
come ella stia di cuore. So però, come tutti gli amici di casa, ch'ella ebbe
sempre una grande inclinazione per il suo compagno d'infanzia....
- Vedo dove ella tende - disse don Ignazio - e le risponderò francamente.
La Elisa infatti aveva un certo attaccamento per il conte Enrico, mio
pupillo, ed io e mia moglie certamente saremmo stati felici di vederla
diventare contessa, se quel balordo di un giovinotto non avesse distrutto,
colla sua condotta impossibile, ogni nostra speranza.
- Sta bene - riprese il Rubieri - e non sarò io certo che mi lamenterò di
questo fatto. Soltanto che... lei sa bene... le fanciulle talvolta amano più gli
scavezzacolli che i giovani ordinati e prudenti.
- Oh io spero poi che la mia Elisa sia ormai persuasa che io non le darei
giammai il consenso di sposare il conte.
- Lo credo - disse Rubieri - ma ciò non mi dice ancora ch'essa non ne sia
sempre innamorata.
Il padre a questa uscita di Rubieri stette muto, ma col capo alzato, collo
sguardo fisso e col labbro infuori, pareva chiaramente dicesse:
"Chi va mai a sapere ciò che si cela nel cuore di una fanciulla? Questo
toccherà a lei!"
- Certo che - riprese Aldo - quando la signorina Elisa saprà quello che è
accaduto ieri sera del nostro Enrico...
- Che cos'è accaduto?
- Vedo che lei non sa nulla... e da un lato mi dispiace di dover essere
proprio io il nuncio di nuova disgrazia.
- Cosa diamine gli è capitato? Forse ha perduto qualche altra somma al
giuoco?
- Peggio.
- Peggio di perdere al giuoco? - domandò con sorpresa don Ignazio - La
dica, la dica.
- È partito da Milano con quella sua...
- Ah quella donnaccia francese... forse... la di lei modella?
- Precisamente.
Don Ignazio si gettò sul cordone di un campanello e al servo che comparve
sulla soglia dell'uscio disse:
- La signora è levata?
- Donna Eugenia... sissignore.
- Ditele che venga giù subito, che c'è qui il signor Rubieri.
Poi voltosi a questi:
- Ella è ben certa che sia proprio partito con lei?
- Certissimo.
- Essa ha nome Nanà, n'è vero?
- Nanà appunto.
- Ah, che testa, che testa! - gridò don Ignazio giungendo le mani in atto di
maraviglia. - Ma già fu sempre uno scapestrato! Si poteva aspettar da lui
questo e altro.
Donna Eugenia comparve, e le fu raccontata la cosa.
Ella se ne mostrò altrettanto addolorata quanto suo marito pareva ne
giubilasse.
- Ormai - sclamò egli - spero bene che la ragazza sarà persuasa e convinta,
e non avrà più ragione da opporci. Tocca a te ora, cara Eugenia, a
informarla.
La signora Eugenia protestò che non ne aveva il coraggio.
Ella avrebbe passato il lago a nuoto più volentieri che dar all'Elisa quel
brutto colpo.
Povera donna come sei ammiranda nel tuo materno imbarazzo!
Ella si era prestata spesso a far quello che suo marito le raccomandava di
fare, cioè dissuadere la fanciulla dal voler bene all'Enrico.
La Elisa dal canto suo non aveva mai aperto a sua madre l'animo proprio
ferito nel vedersi trascurata dal suo giovine amante.
Regnava tra madre e figlia una specie di delicatezza, una suggezione
riguardosa su questo argomento. Entrambe temevano di farsi
reciprocamente un dispiacere, e ne tacevano.
"Oh, non c'è argomento - pensava la madre - che valga a distruggere
l'impero di dieci anni di sogni e d'illusioni d'amore."
Ma volere o non volere bisognava spiegarsi. Bisognava aprir gli occhi alla
innocente creatura e raccontarle finalmente la fuga di quell'ingrato.
- Ascolta Elisa... - incominciò - io capisco che tu pensi ancora... Ed io
t'avrei a dire una cosa molto seria quest'oggi. Ti imagini tu, cara, di che
cosa io ti voglia... dire?
- Me lo imagino - rispose la fanciulla con un sorriso tra la speranza e la
malinconia.
- Dimmelo allora.
- Io spero che tu mi voglia parlare di Enrico.
La signora Martelli attirò sua figlia al seno e la baciò passionatamente.
- Oh, perchè piangi? - sclamò Elisa vedendo i lucciconi negli occhi di sua
madre.
- Ascolta Elisa. Se tu dovessi persuaderti che il conte O'Stiary non è degno
di te?
- Tu me lo hai fatto capire altre volte - disse la fanciulla - ma io non voglio
crederlo ancora. Egli è pieno di cuore e di onore. Che cos'avrebbe fatto per
non essere più degno di me?
- S'egli ti avesse miseramente ingannata, dicendoti che ti amava, mentre....
La Elisa si rizzò in piedi come se una molla potente l'avesse sospinta in
alto, e portò istintivamente le due mani sui polsi.
- Mamma, per carità!
- Lo dicevo io - sclamò sua madre spaventata. - No, anima mia, non far
così. Elisa... chissà che non sia una calunnia... quetati.
La fanciulla si era rimessa tosto.
- Ah! - disse con un gran sospiro - non è dunque una cosa certa? E difatti è
impossibile! Io sento che egli non ama che me. Ne sono sicura. Io lo so
ch'egli ha conosciuto un'altra donna. So tutto... ma!
"Oh molte altre donne" pensò fra sè la madre.
- Ma egli non ci ha voluto bene a quella... Me lo confessò lui stesso. Fu
una sorpresa, un capriccio, che so io?
La signora Eugenia ascoltava sua figlia con una specie di sgomento. Essa
non aveva calcolato la portata del colpo che era obbligata di darle. Essa
non credeva che sua figlia fosse capace di tanto affetto.
- Ma - ricominciò la povera donna - se invece ci fosse in lui qualche cosa
di molto serio? Se
egli ti dovesse dare la prova certa del suo tradimento?
- La prova? - sclamò la Elisa sorpresa. Quale prova? Che cosa ha fatto?
Oh, finchè egli stesso non me lo dica colla sua bocca, che ha cessato di
volermi bene a me sola, io non crederò a nessuno.
- E s'egli non potesse più dirtelo?
- Oh mamma! - gridò la Elisa sopraffatta da queste strane parole. - Perchè?
Che cosa gli è accaduto? Per pietà mamma.
- No, non spaventarti così, cuor mio! Oh Elisa la mia Elisa, sia buona, non
far soffrire in questo modo la tua povera mamma... sia ragionevole.
- Ma sei tu mamma che mi fai soffrir me! - disse la fanciulla. - Oh parla, ti
scongiuro.
- Credi tu che se non fosse necessario io non t'avrei risparmiato questo
dolore?
- Ebbene, parla mamma, ti ascolto; vedi, sono ragionevole, parla, sono
buona....
E fu allora che la madre le narrò la fuga scandalosa di Enrico con Nanà.
Elisa che stava in piedi si sedette, pallida molto. A sua madre che la
fissava ansiosamente, sembrava di vederla come a trasformarsi. Non una
esclamazione, non un lamento, non una lagrima.
- Quando successe questo? - domandò la fanciulla con voce ferma.
- Ieri l'altro. Fu Rubieri stesso che venne a dircelo.
- È cosa certa? Rubieri non potrebbe essersi ingannato?
- Ah, pur troppo no; diede tutti i particolari.
E la madre baciò con passione la Elisa.
Allora la povera fanciulla fu presa dall'accoramento; il gruppo del dolore si
sciolse, e scoppiò in lagrime.
- Oh mamma, bisogna che tu mi guidi, se no non so che cosa accadrà di me
- diceva la povera fanciulla singhiozzando.
Così dicendo, ella stringeva convulsivamente le mani di donna Eugenia e
le portava alle labbra per baciarle, come un bimbo che domanda scusa.
- Io lo amo mamma, io lo amo il mio Enrico. Mi pareva che egli fosse così
sincero. Io non vivevo che per lui!
- Elisa, fatti animo - le disse donna Eugenia - bisogna che tu impieghi ogni
mezzo per dimenticarlo. Tu sei troppo esaltata, figlia mia. Oh, credi tu
forse che io non ti comprenda? Credi tu forse che anch'io....
Si arrestò. Un'emozione profonda scuoteva suo malgrado quell'anima, che
pareva a tutti impassibile e fredda. Un segreto di amore stava per cader
dalle labbra della matrona; erano forse più di vent'anni che il suo cuore si
era chiuso alla idea d'amare un'altra creatura che non fosse la sua Elisa; il
dolore di sua figlia aveva risvegliato nel suo cuore la lontana rimembranza.
Una tempesta assai terribile doveva avere durato quel cuore, che da tanto
tempo scordava di avere sofferto, se la nuova passione di sua figlia vi
aveva saputo ridestare tanto eco di dolore e di compianto.
La madre accolse la sua creatura nel braccio
destro; colla mano sinistra le fece appoggiare la testolina sul proprio seno.
E le sue lagrime di madre cadevano sulla bionda testolina di quel suo
angelo sconsolato, e il dolore di entrambe, pur tanto diverso, si confondeva
là su quel seno in un solo dolore.
XIV.
L'anima appassionata ha le sue rivoluzioni come la storia dei popoli. Lo
spirito sotto l'aculeo dei tormenti morali si trasforma a poco a poco,
accogliendo consigli e propositi dianzi sconosciuti.
Elisa all'annuncio della partenza di Enrico con Nanà, sentì d'essere stata
scossa nel più profondo di tutte le sue convinzioni. Ogni sentimento ne fu
stravolto. L'amore così confidente e puro, la speranza che le freddezze di
Enrico fossero passaggere, quella stessa sua verginale indifferenza intorno
al motivo sensuale, che allontanava da lei il suo giovine amante, e la stima
immensa che essa gli conservava pur sempre, malgrado tutto, furono
rovinati in un punto solo nel di lei cuore. Non le restava più dubbio. Enrico
le aveva mentito.
Come fosse violento lo strazio della povera fanciulla, che pure, per istinto
di orgoglio e per delicatezza verso sua madre, lo comprimeva dentro di sè,
sarà chiaro a coloro che avranno capito bene quale fosse il carattere di
Elisa. Forse ad altri parrebbe esagerazione. Essa non aveva neppure come
le anime credenti un rifugio al dolore nella preghiera.
Enrico le aveva insegnato che la preghiera verso lassù è un non senso,
perchè nessuno nel cielo imaginario dei credenti può star ad ascoltare le
querimonie degli afflitti, ed essa gli aveva creduto. La poverina sentiva
dentro di sè qualche cosa che moriva. Essa comprendeva che forse,
ancorchè Enrico fosse tornato a lei subito, non lo avrebbe più amato come
prima, non gli avrebbe più creduto, non si sarebbe più, come moglie, data
a lui con trasporto.
Elisa non aveva precisamente le nozioni, che danno lo schifo alle donne
sapute, che sdegnano di accogliere un uomo che esce colle labbra roride
dei baci d'altra donna. Ma capiva quasi per intuizione questo vero, e si
disperava di sentire in cuore che il suo amore, così bello, era stato spezzato
forse per sempre. Nondimeno, di quando in quando, in Elisa ardeva una
fiamma intensa di sentimento, che si esaltava e che si ostinava a non voler
credere il suo Enrico un traditore. La sua voce era tanto sincera quand'egli
le aveva detto di amarla lei sola! Ella non l'odiava ancora. Essa voleva
riudire le sue espressioni, avere da lui una spiegazione di quella sua
mancanza di fede, essere da lui convinta che aveva mutato. E allora si
sarebbe decisa sulla propria sorte.
Verso la metà d'ottobre, la famiglia Martelli ritornò a Milano. Di Enrico
nessuna notizia.
Un giovedì, nel salotto stavano radunate quattro persone; era una brutta
giornata, piovosa e buia. La signora Martelli, la Elisa presso al camino,
parlavano fra loro sottovoce. Il marchese d'Arco in piedi addossato al
focolare colle mani raccolte dietro la schiena, tacendo pensava. Egli era
arrivato da poco
e non aveva ancora parlato; don Ignazio passeggiava borbottando in su ed
in giù.
- Mancherebbe anche questa - sclamò egli a un tratto - che mi facesse
aspettare questo brigante d'un sor Marliani.
E diede un'occhiata al pendolo confrontandolo col proprio orologio.
- Tre e mezza - disse - e io gli aveva dato appuntamento alle tre.
- Si potrebbe sapere - domandò il marchese - quale sia il suo progetto, don
Ignazio?
- Proporgli la transazione del cinquanta percento.
- Posso mettere anch'io una parola? - soggiunse donna Eugenia.
- Sì, la dica lei - sclamò il marchese - che sono certo non potrà essere che
per bene.
- Volevo dire a mio marito che la transazione col... con quell'uomo che
verrà tra poco è impossibile.
- Perchè impossibile? - sclamò don Ignazio fermandosi sulle gambe aperte.
- Chi lo dice? Io ne ho messi al dovere di quelli peggiori del signor
Marliani, io.
- Non parlo di costui - rispose la signora Eugenia con dolcezza - io parlo
del tuo pupillo, il quale mi ha dichiarato molte volte di voler pagare i suoi
debiti fino all'ultimo centesimo.
- Quand'è che ha dichiarato questo?
- Molte volte.
- Ma è matto da legare - gridava questi. - Egli vorrebbe fare anche quest'
ultima castroneria per giunta?
- Caro il mio cavaliere - disse il marchese con quella sua pacatezza
aristocratica, che non si
smentiva mai. - A me pare che le sue donne abbiano perfettamente
ragione.
- Ma va bene! Anche lei adesso, insieme alle donne. Tutti addosso a me.
La casa abbrucia, diamoci il fuoco. C'è da perderne la testa!
- Andiamo, andiamo - osservò il marchese ridendo non la si riscaldi per
così poco.
- È vero o non è vero, che queste cambiali furono da lui firmate, mentre
non aveva ancora il diritto di firmarle, secondo il testamento di suo padre?
- E così? - domandò il marchese.
- Come, e così? Vuol dire che la sua firma vale quanto quella d'un
minorenne o d'un interdetto, che per legge non valgono nulla.
- Ma che c'entra qui la legge, caro cavaliere? Dall'avere ventitre anni e
trecentosessantaquattro giorni, all'averne ventitre e trecentosessantacinque,
che è come a dire ventiquattro, non scorre che un giorno, anzi, che dico,
un'ora, un minuto. E vorrebbe lei che un uomo d'onore credesse di non
essere un minuto prima quello che la legge gli concede di essere un minuto
dopo?
- Oh, caro marchese - ribattè il notaio - le chiacchere son chiacchere e i
danari son danari. Io sono un uomo positivo, io. Io guardo in faccia alla
legge, alla maestà della legge, e non vado a cercare cinque ruote in un
carro.
- La legge, caro cavaliere, è stata fatta per coloro che non ne hanno un'altra
assai più bella e più forte a questo posto - rispose con molta nobiltà il
marchese, ponendo una mano sulla sinistra del petto. - I galantuomini a
Milano e dovunque hanno una legge che vale più di tutti i Codici di
questa terra, e più di qualunque timore dell'altro mondo e che si chiama il
punto d'onore.
- Sì, il punto d'onore non lo nego è una bella cosa, - disse don Ignazio.
Ma se questi briganti di strozzini si accontentano di pigliar la metà
dovremo dar loro il tutto?
- Si accontentano è un modo di dire. Ma la questione non è lì. Non sono gli
usurai che devono essere contenti, è l'Enrico.
- Dunque egli dovrà proprio esser rovinato di rami e di radici? Venduto
che sia il podere e questa casa all'Enrico non restano più di trenta o
quaranta mila lire.
- C'è stato un re di Francia - disse il marchese - che dopo la battaglia di
Pavia ebbe a dire: tutto è perduto fuor che l'onore.
- Oh ma l'Enrico non è re di Francia e noi non siamo a Pavia - sclamò il
notaio con un certo disprezzo. - Se a Milano si saprà che O'Stiary ha
pagato fino all'ultimo centesimo mentre avrebbe potuto farne di meno
faranno tutto quanti una figura di cioccolattiere.
Nel frattempo la povera Elisa, restava là presso sua madre immobile,
incerta e senza parola.
Quando udì da suo padre il nome del suo Enrico sentì il dolore sgrupparsi
nel petto e si mise a lagrimare sommessa.
Sua madre se ne accorse.
- Non far così Elisa - le disse sottovoce - tu finirai coll'ammalarti, cara la
mia figliuola, se continui ad accorarti in questo modo.
- Oh, magari mi ammalassi, che almeno non sentirei più nulla, non vedrei
più nulla, non mi direbbero più nulla. Io non desidero che di morire.
- Ma che cosa dici Elisa? Non far così dunque, te ne scongiuro.
- Che cosa mi resta a fare a me a questo mondo?
- Oh, ti resta di voler bene a me, che morirei subito se tu mi avessi a
mancare. Vorresti tu forse far morire tua madre?
- Oh, no, mamma - rispose la Elisa abbracciandola con affetto. - Ebbene,
io mi farò suora.
- Ma che suora? - sclamò don Ignazio che aveva colta a volo la frase di sua
figlia. - Ho da sentir di peggio? Non si usa più adesso ad andar monaca.
Non troveresti neppur il monastero.
- Oh, non è vero! Mi sono già informata.
- Bella risorsa! Suora di carità! La prima carità comincia da casa sua. Non
mancherebbe altro che di dover perdere l'unica figlia per quel bel mobile
d'un signor conte.
Il babbo, sbirciava la sua figliuola, come chi sente compassione, e pur non
vorrebbe mostrarla.
- Ma chi doveva andar a pensare una cosa simile? - ripigliò - Anch'io dico
il vero m'ero lusingato che tu saresti diventata la signora contessa, e che
poi colla vostra influenza avrei potuto... basta, castelli in aria!... tutte cose
andate a monte.... Ma io lo so di chi è la colpa.
E così dicendo strisciò un'occhiata rapida sul marchese e sua moglie.
- Lo dici forse per me? - domandò questa.
- No, lo dico per me!
- Scusa, ma avresti torto.
- Lo dico per te, lo dico per il marchese, e lo dico perfino per quella
vecchia minchiona d'una balia, che andò a prestargli i danari che aveva
messi da parte. Tutti quanti contro di me. Pareva fossi io quello che
gettava i danari dalla finestra.
Il marchese s'accontentò di sorridere e di crollare il capo.
La signora Eugenia invece non stette zitta:
- No, no, per te non c'è questo pericolo! Io non ti dicevo altro se non che
non bisognava lasciarlo andar in mano degli strozzini.
- Brava! Perchè non dici addirittura che sono stato io a metterlo in mano
degli strozzini?
- Già è inutile parlare con te - disse come rassegnata la signora Eugenia.
Io dico soltanto che se tu l'avessi preso colle buone quando è venuto la
prima volta a contarti quello che gli era capitato, e se tu gli avessi pagati i
primi debiti egli avessi...
- Brava, benone! I primi debiti erano debiti di giuoco. - Chi gli ha detto di
pagarli?
- Oh ma che dici?
- La legge non li contempla - proseguì il notaio imperterrito.
- Tu sei riuscito perfino a rimproverarlo perchè faceva delle carità - disse
la signora Eugenia.
- Sicuro, e me ne vanto! E lui, che crede di essere un liberale, dovrebbe
sapere che i suoi filosofi, i suoi progressisti, dicono che la carità fatta in
quel modo è una cattiva cosa, perchè fomenta l'ozio che è il padre dei vizi.
Non sono io che ha inventata questa dottrina... E poi se il far la carità è una
soddisfazione dell'amor proprio che si prova, bisogna saper fare un
sagrifizio e privarsene!
Entrò il servo recando una lettera.
Era Aldo Rubieri che annunciava al notaio di aver parlato al sindaco per
quella tal concessione, e d'esser pieno di buone speranze. La lettera
terminava pregando il padre a volergli dire qualche cosa circa la
risoluzione della signorina Elisa a suo riguardo.
"Proviamo un poco" pensò il notaio avvicinandosi alla fanciulla.
E cominciò:
- Senti un poco, Ida. Tu sai che il signor Rubieri, già da qualche tempo
aspetta che tu gli dica che non lo rifiuti per sposo.
La Elisa ebbe come un sobbalzo.
- Non te lo dico - continuò suo padre - per forzare la tua volontà; ma
siccome egli amerebbe sapere da te qualche cosa in proposito, mi volgo a
te.
"Se accettassi?" - pensava intanto la Elisa. - "Ah, Enrico credeva forse di
non esserci che lui a questo mondo?"
- Ormai - continuava suo padre - hai avuto tempo abbastanza di pensarci
sopra, e questa volta se tu persisti a non volerne sapere sarà certo l'ultima
volta che egli rinnoverà la domanda.
"Potrei vendicarmi in questo modo" - continuava nella sua testolina la
fanciulla. - "Potrei fargli vedere che ci sono degli altri che mi cercano e
che mi amano."
- Che ne dici? Tu sai che sarebbe un eccellente partito.
- Ebbene sì, babbo - disse a un tratto la Elisa balzando in piedi. - Lo
accetto.
"È piena di talento!" - pensò il babbo dal canto suo.
La madre invece le susurrava sottovoce:
- Ah, Elisa, non precipitare, pensaci sopra.
- Ecco là! - sclamò stizzosamente il notaio. - Appena a sua figlia viene una
buona ispirazione lei fa di tutto per cacciargliela indietro.
- Guarda quello che fai - ripetè donna Eugenia. - Guarda a non pentirti più
tardi.
- Oh, mamma, basta che io possa uscire da questa posizione orribile, ti
giuro, sono pronta a qualunque sagrificio. Io non voglio che l'Enrico creda
che io mi dispero per lui. Ormai l'ho atteso abbastanza.
- Brava! Che fermezza! Tutta suo padre!
- Sarebbe dunque più un puntiglio che altro? - le domandò sua madre.
- Ma lascia fare a lei una buona volta, o benedetta donna! - gridò il padre.
Poi rivoltosi alla Elisa:
- Tu sei disposta?
- Sono decisa.
- Per carità, Ignazio, non precipitare....
- Oh, che donna! Ha più giudizio lei che tu. Si potrebbe desiderare forse un
migliore partito? È un artista, è vero, ma che artista! Bell'uomo! Ricco...
assessore municipale....
- Va bene; ma non fa bisogno di rispondergli subito.
- Ebbene, faremo così - disse don Ignazio. - Lo inviterò a pranzo e intanto
la Elisa avrà tempo di decidersi; e in fin di tavola gli parlerò io, secondo
che ella avrà deciso.
- E poi se...?
- Oh Dio, e poi e poi, se la Elisa non vorrà assolutamente
lo avremo invitato a pranzo per... pulirgli la bocca...
- No, sono decisa - ripetè la fanciulla. - È necessario ch'io esca da questo
stato umiliante.
- Va benissimo - sclamò il padre. - Tu, Eugenia, pensa a mandarlo ad
invitare a pranzo.
Entrò in questo il servo ed annunciò il signor Marliani.
- S'è degnato, se Dio vuole! - sclamò don Ignazio. - Fallo entrare lì nel
gabinetto e digli che vengo subito.
- Io l'ho mandata a chiamare - disse poi quando l'ebbe raggiunto - per
vedere di aggiustarci per le cambiali del mio pupillo il conte O'Stiary.
- Lei è il procuratore della signora Bibiana Martorelli, n'è vero?
- Per servirla.
- Io spero che anche lei sarà del mio parere, che sia necessario trovare un
mezzo di non lasciare che si venda la possessione e questa casa.
- Ma io credo - osservò il Marliani - che tanto una che l'altra siano già state
vendute stamattina.
- So ben ch'ella mi burla. Io, tutore del conte dovrei saperlo prima di
chiunque.
- Il conte O'Stiary è tornato a Milano oggi stesso, e da due giorni ha
compiti i ventiquattro anni.
- Tutto questo lo so benissimo, ma le assicuro che la vendita delle sue
proprietà non può essere stata fatta senza che io ne sappia nulla, e spero
che lei sarà d'avviso che al giorno d'oggi chi vende
si rovina e chi compera non sa mai neppur lui di aver fatto un buon affare.
Dunque la creditrice sarà più contenta di vedersi pagata alla scadenza con
uno sconto regolare, ma con moneta più o meno sonante.
- Ah, certo. Meno seccature.
- Allora non ci resta che fissare d'amore e d'accordo la cifra del debito del
conte per poter ritirare tutte le sue cambiali.
- Eccola - disse il Marliani - e cavato di tasca il portafogli rimise a don
Ignazio una carta su cui c'era la distinta delle scadenze del figliuol prodigo.
Don Ignazio ne fu spaventato. E sapeva che Marliani non era il solo
creditore.
- Cosa facciamo? - domandò egli dopo alquante geremiadi, che trovarono
un impassibile ascoltatore nel Marliani.
- Come dice? - sclamò egli allungando il collo e fingendo di non aver
capita la domanda del notaio.
- Dico che qui bisogna tagliare, tagliare e accontentarsi.
- Ah, non credo che la mia cliente ci voglia sentire da questo orecchio. Ella
non può assolutamente rinunciare ai proprii diritti.
- Ah, quando lei parla di diritti - sclamò il notaio riscaldandosi - io le farò
memoria che le cambiali del conte sono valevoli quanto quelle di un
minorenne.
- Domando scusa - ribattè freddamente il Marliani. - Noi sapevamo, del
resto, che il conte, minorenne o maggiorenne che fosse, non avrebbe fatto
disonore alla propria firma.
- Qui non si tratta di onore o di disonore - gridò il notaio
si tratta di diritto, e io ho la legge per me e potrei, volendo, rifiutarmi di
pagare.
- La scusi, non la si riscaldi. Le osservo che oggi il conte è uscito
dall'interdetto e lei non è più suo tutore.
- Ma lei non pensa che io ho il mezzo di far causa e di vincerla
sicuramente?
- Mi dorrebbe assai per il signor marchese Sappia, il quale è garante, e a
cui toccherebbe di pagare lo stesso. Del resto lei sa bene che noi potremmo
in caso intaccare il signor conte di truffa, giacchè avrebbe tacciuto di
essere interdetto.
- Ah, malandrini! - gridò il notaio. - Intaccarlo di truffa dopo di averlo così
ridotto alla perdizione?
L'accento e la sprezzante espressione del gesto che accompagnarono quella
frase furono tali che Marliani balzò in piedi:
- Ehi, dico, signor notaio stimatissimo, la stia nei termini, o ch'io.... Le
ripeto che non si vuol perdere un centesimo, e basta così.
- Ah canaglia - mormorò fra i denti don Ignazio. - E fu preso da un accesso
di rabbia. - Io non so chi mi tenga.... Vada fuori, vada fuori subito da
questo luogo se non vuol ch'io faccia uno sproposito... fuori, fuori...
Così dicendo, rovesciando una sedia, quasi per salvar sè stesso dal
commetterlo davvero, uscì dalla sala maledicendo gli usurai, il pupillo, le
cambiali e un poco anche il proprio carattere tanto opposto alla sua
professione.
La Elisa, intanto che suo padre usciva infuriato da un uscio, entrava in quel
gabinetto dall'altro colla balia, che aveva trovata in anticamera, e che
udendo la voce stizzosa e alta del notaio, accorreva per sapere che cosa
fosse accaduto. Ambedue intesero le ultime ingiurie.
Trovarono il Marliani lì ritto in piedi colla testa un po' reclinata verso
l'uscio d'onde era sparito don Ignazio, come un uomo che mastica fra sè
una ingiuria segreta.
- Mio padre forse l'ha offeso - disse la Elisa a occhi bassi. - Io sono sua
figlia e sono quì pronta a domandarle scusa per lui, se ella vorrà
promettermi....
- Prometterle che cosa? - domandò il Marliani un poco sorpreso e molto
lusingato dalle parole di quella soave bellezza.
- Lei è venuto per aggiustare la faccenda del signor conte O'Stiary mio
cugino, non è vero?
- Per servirla.
- Ebbene io le prometto che lei non perderà niente e sarà pagato fino
all'ultimo centesimo. Mia zia mi ha lasciato trecentomila lire e io sono
anche pronta a cederle a lei, se lei mi promette di non far del male a... mio
cugino....
"Ho capito!" pensò fra sè Marliani. "Qui c'è da trafficare il soldo."
Poi soggiunse.
- Lei però la mi pare ben giovine.
- Ho diciott'anni.
- Bella età! - sclamò il Marliani. - Ma più bella assai per lei che per me.
- In che modo?
- Vede. Per essere padrone di disporre del fatto proprio le mancano ancora
tre anni.
- Lo so - rispose la Elisa stringendosi alla balia come per chiederle aiuto e
consiglio... - Lo so. Ma per esempio, se io potessi ottenere il consenso di
chi dovesse diventare mio marito... mi pare.
In questo, Enrico O'Stiary, era comparso sull'uscio aperto non veduto da
alcuno, e si era fermato ritto sulla soglia.
- È necessario allora di provvedere molto presto - disse il Marliani
giacchè domani scade la cambiale più grossa, e il creditore, se non fosse
pagato, sarebbe costretto di fare i suoi passi.
- Domani io credo che si potrà trovare chi si assume di pagarla - disse
Elisa.
Enrico mosse un passo innanzi.
Tutti e tre gli altri si volsero a lui.
- Non fa bisogno che lei si rivolga a questa signorina per essere pagato
disse Enrico con un gesto di disprezzo a Marliani. - I miei fondi e questa
casa furono venduti questa mattina istessa ad un procuratore di una
persona da nominarsi, e lei sarà pagato fin all'ultima lira. E non ho più
altro da dirle.
- Signor conte non ne dubitavo - disse Marliani. - Servo suo.
Ed uscì.
Elisa teneva le palpebre abbassate. Aveva presa una mano della balia e la
teneva stretta nella sua col braccio teso in giù. Pareva di marmo se la vita
non si fosse rivelata dall'affannoso movimento del seno verginale.
La vecchia tremava e teneva i suoi piccoli occhi pieni di amore fissati nelle
sembianze del suo Enrico.
- Ho udito - disse questi senza muoversi dal suo posto - quello che tu
buona Elisa avresti voluto fare per me. Permettimi di ringraziartene e di
domandarti perdono per quello che è passato.
E stette commosso ad aspettare che la fanciulla gli rispondesse una parola,
facesse un atto, gli alzasse gli occhi in fronte.
Questa non disse che:
- La mamma è di là. Debbo andare da lei.
E fece atto di muoversi.
La balia, quasi senza volerlo, la trattenne.
- No - disse Enrico andando a lei e prendendole la mano che restava libera
- per carità Elisa una parola sola di perdono, che non mi lasci partire così
disperato. Fra poche ore io andrò a Firenze dove penso di arrolarmi
nell'esercito. Forse non ci vedremo mai più. Ma per carità, non lasciarmi
andar via così.
- Che cosa importa a te del mio perdono? - disse Elisa con un'aria di
risoluzione tranquilla, ma con una voce in cui si sentivano le lagrime.
Sono forse io ancora qualche cosa per te? Va a
cercare il perdono a quella donna che ha più diritto di me di concederlo.
- Elisa ti supplico, non parlami di quella donna. Io non so più che ella
esista, te lo giuro. Sì, lo confesso, fui un miserabile; ma ti giuro ancora per
tutto ciò che ho di più sacro che io non l'ho amata mai. Ora lo sento con
sicurezza....
- Oh, me l'avevi già detto un'altra volta! - sclamò Elisa. - E invece....
- È vero, ma quando ti dico che se mi guardo indietro ho vergogna di me
stesso! E voi altre due potrete dire d'essere le sole a questo mondo che
hanno potuto sentire da me parole simili. Io che non ho mai chiesto
perdono neppur a mia madre. Si è vero. Io non so quel che sia accaduto di
me. Ero pazzo! Era orgoglio! Ah, se credessi agli incantesimi, direi che la
mi aveva stregato. Io la odiavo e pur non potevo staccarmi da lei. Elisa
perdonami. Non ti chiedo più. Perchè dovrei ingannarti, ora che debbo
partire per espiare i miei errori? Capisco che mi son reso indegno di te e
non ti chiedo di più del perdono. Non ho più il diritto di dirti che io non
amo, che non ho mai amata altra donna fuori di te. Oh, non lasciarmi
partire in collera Elisa. E tu balia, pregala anche tu dunque....
- Ma perchè ora la vuol tornar via da Milano? - sclamò la buona vecchia
scoppiando in lagrime.
- Povera balia! Oh vedo che tu mi vuoi più bene di lei. Che cosa vorresti tu
che io facessi ancora a Milano? Vorresti forse che mi fermassi per vederla
forse diventare la moglie d'un altro? Non vedi che la mi odia?
- Ah Enrico! - sclamò la Elisa con un gran sospiro.
- Mi perdoni? - domandò Enrico ansiosamente.
- No - rispose la fanciulla con un filo di voce - ormai io non ho più nulla a
perdonarti. Io sono promessa ad altri.
- Addio. Tu non mi vedrai più. E se accadrà del male, ricordati Elisa, ora
sarà per colpa tua.
Enrico si volse, e sull'uscio incontrò don Ignazio che entrava.
Mentre questo colloquio accadeva nel gabinetto il domestico era rientrato
in sala dove stavano donna Eugenia e il marchese d'Arco e le aveva detto
sottovoce:
- C'è qui fuori un signore e una signora che domandano di parlare a lei.
- Chi sono?
- Sono forastieri; parlano fra loro in tedesco.
- Bene falli entrare.
- Chi mai saranno? - domandò il marchese.
- Ma! ora vedremo!
Poco stante, duri come stoccafissi, con un'aria fra la compunzione e la
dignità, facevano il loro poco solenne ingresso nella sala il signor
Rikherwenzel e sua figlia Leopoldina, di Vienna.
"Cosa vorranno mai da me questi signori" si domandò fra sè donna
Eugenia, mentre il marchese dopo averli salutati con un cenno di testa si
disponeva ad andarsene.
- No, la si fermi - le disse la signora Eugenia sottovoce.
- Siniora - disse Leopoldina - lei deve scusare nostra venuta da lei. Noi
venire per affare di suo e nostro vantaggio molto importante.
- Ah! - sclamò donna Eugenia - forse mi vogliono parlar in segreto?
- Oh no, siniora. Il siniore può benissimo ascoltare non essendoci niente di
segreto.
- Tanto meglio. E a chi ho l'onore di parlare? - domandò la padrona di casa
facendo ai due forestieri un cenno perchè si accomodassero.
- Questo è mio padre Leopoldo Rikherwenzel che non parla bella lingua
italiana e io sono sua figlia Leopoldina.
Al marchese che si era messo a studiarli passò negli occhi un lampo
umoristico.
"Se quello è suo padre - pensò - questa sarà probabilmente sua figlia."
- S'accomodino - disse donna Eugenia.
- Noi essere venuti - ripigliò la Leopoldina - per scongiurare una sventura
in questa casa. Noi avere saputo sua figlia essere promessa sposa al signor
scultore Aldo Rubieri, non è vero?
La signora Eugenia inarcò le sopracciglia e non rispose subito.
"Cosa mai possono entrarci costoro nei fatti nostri?" pensò.
Ma poi rispose subito:
- A dire la verità nulla è combinato ancora, perchè egli non ha avuto
ancora il nostro consenso.
- Pene, tanto meglio per tutti allora - sclamò la Leopoldina sorridendo
come una scimmia - perchè
noi poter mostrare documenti per provare che sinior Aldo Rubieri non può
sposare sua figlia.
- Documenti! - sclamò un poco sorpresa donna Elena.
- Sissignora. Lei deve sapere che sinior Aldo è mio promesso sposo da
dieci anni e che io ho amato sempre sempre lui e che ho aspettato sempre
lui, e lui non poter mancare a suo promesso senza molto sagrificio di
danaro per contratto in carto pollato, e anche per sua parola d'onore.
Così dicendo l'austriaca zitellona sporgeva alla signora Eugenia la lettera
colla quale il Rubieri s'era impegnato a pagare quella somma, come è già
noto ai lettori.
- Io non leggo il tedesco - disse la signora Eugenia dopo aver dato uno
sguardo su quella lettera. - Ma non conta. Tant'è che la mi dica di che si
tratta e in che cosa possa entrarci io, madre della Elisa.
- Lei sapere certamente - disse la Leopoldina - che sinior Rubieri è figlio di
un generale austriaco al servizio di nostri Kaiser Ferdinando e Franz
Joseph.
- Certo che lo so - rispose donna Eugenia. - Ed è anzi un vanto della vita di
suo figlio l'esser fuggito dalla famiglia per venir a battersi co' suoi
compatrioti.
Leopoldina leggermente imbarazzata a questo punto raccontò il resto della
storia e terminò dicendo:
- Noi in tribunale siamo decisi di fare grosso scandalo perchè avere trovato
finalmente bravo avvocato che farà la nostra causa senza fare spendere a
noi troppi danari, e abbiamo pensato di venire a prevenire la siniora per
suo regolamento.
Donna Eugenia a questo punto stava in forse tra il ridere e lo star seria.
L'eteroclito stile dell'austriaca fanciulla le consigliava l'ilarità, ma la
storiella a carico dell'uomo che ambiva alla mano della sua Elisa l'aveva
un po' turbata.
Ringraziò la signora Leopoldina delle sue buone intenzioni e soggiunse
che avrebbe comunicate quelle notizie a suo marito, il quale avrebbe presa
quella determinazione che fosse del caso. Li congedò con quella cortesia
fredda e cerimoniosa che è più eloquente talvolta di un'insolenza e che a
buon intenditore vuol dire: mi facciano però la finezza di non venirmi più
fra i piedi.
In fondo però la madre provava una segreta contentezza. Ella non s'era
ancora persuasa che la sua Elisa non dovesse diventare la contessa
O'Stiary. E quando aperse l'animo al marchese su questo punto trovò in lui
un certo sorriso e un assentimento che le fu di buonissimo augurio.
- Andiamo dunque a vedere che cosa ne dice mio marito - fece ella dando
il braccio al marchese.
E s'avviarono verso il gabinetto.
- Io non ho più nulla a perdonarti. - Aveva detto la Elisa al conte. - Io sono
promessa ad altri.
- Addio - le aveva risposto Enrico - e se accadrà del male ricordati Elisa
che sarà per tua colpa.
In questo don Ignazio era comparso.
Egli era ancora un poco acceso in volto per la collera di dianzi.
- Come, è qui lei? - disse fermandosi e dando un'occhiata severa alla Elisa
e alla balia.
- Sì, zio - rispose Enrico rimettendosi - non ho voluto andare al mio
destino prima di venire a salutarvi tutti in casa.
- E... dove fai conto di tornare, se è lecito? - domandò il notaio con voce
ironica e quasi stizzosa.
La risposta di Enrico fu interrotta appunto dal comparire di donna Eugenia
e del marchese d'Arco.
Enrico salutò affettuosamente la signora poi mosse incontro al marchese e
gli strinse la mano.
- Ah testolina, testolina! - disse questi metà severo metà sorridente.
Sentiamo un poco che cosa fai conto di fare dunque?
- Sì, vediamo questi progetti fioriti - soggiunse don Ignazio.
- Sono semplicissimi. Io partirò questa sera per Firenze dove mi arrolerò
come volontario in qualche reggimento. Ho delle raccomandazioni pel
ministro della guerra; sono già stato tenuto abile al servizio tre anni sono, e
spero mi accetterà. Il mio amico Sappia è incaricato di venir da te, caro
zio, per aggiustare tutte le mie faccende.
- E dire che gli ho già pagato il cambio! - sclamò il notaio. - Tu vorresti
dunque andar a far il soldato semplice?
- Certo. Non potrei pretendere di più per ora.
- Bel mestiere! Mangiar nella gamella e scopar i cessi.
- Far il soldato per il proprio paese - rispose Enrico - è l'unico mestiere che
convenga a chi ha fatta la vita che ho fatto io finora.
- Eppure - riprese don Ignazio - se tu promettessi di far proprio giudizio
una buona volta, ci sarebbe ancora la speranza di accomodare i tuoi
imbrogli salvandoti parte di sostanza. Io mi impegnerei
di risparmiare un centinaio e più di mille lire.
- Via, non parlarne, caro zio - rispose Enrico con dolcezza. - Ho detto
poc'anzi all'usuraio che i creditori saranno pagati tutti fino all'ultimo
centesimo. Io rispetto troppo la mia firma.
- Insomma non c'è verso di fargli mettere il capo a partito - borbottò il
notaio ponendosi a sedere come sfiduciato. - È una testa falsa... e addio
patria!
Mentre don Ignazio pronunciava questo giudizio sul suo pupillo il
marchese d'Arco, che come il suo solito non aveva ancora aperto bocca,
avvicinatosi a Enrico e messogli una mano sulla spalla gli diceva:
- Bravo Enrico. Hai fatto il tuo dovere d'uomo d'onore e questo deve essere
sempre dinanzi ad ogni cosa.
- Ma sì, ma bravo, ma benone! - sclamava il notaio dimenandosi ne' panni.
- Cara zia - disse Enrico a donna Eugenia prendendole una mano - io ti
ringrazio ancora di tutte le bontà che avesti per me e spero mi perdonerai
se per causa mia hai dovute subir delle... seccature....
- Oh caro Enrico... io vorrei soltanto vederti un po' a posto.
Enrico si valse alla Elisa.
- Addio Elisa... e ricordati qualche volta del tuo compagno d'infanzia....
E siccome sentiva venir un fiume di lagrime agli occhi si volse alla balia.
- E anche tu, povera balia, addio e perdona se qualche volta....
Non potè proseguire. Si sentiva strozzare dal pianto. Stava per fuggir via.
- Enrico vieni qua - disse il marchese. - Io sono il tuo padrino e ora voglio
mettere di esser tuo padre. Se tuo padre fosse qui... forse non sarebbe
accaduto ciò che è accaduto... ma in caso ti direbbe: sì, va a far il soldato
pel tuo paese, giacchè quella scuola di abnegazioni e di sagrifici la ti farà
diventare un uomo come si deve. Ma io non ho il coraggio di lasciarti
partire così; e poi non posso neanche vedere quella cara fanciulla e quella
povera vecchia piangere in quel modo... e poi... e poi, ti dico la santa
verità, non vorrei io stesso....
E per non piangere tentò di ridere.
- La ringrazio marchese di queste buone parole - disse Enrico stringendogli
affettuosamente la mano. - Ma ora tutto è impossibile; non potrei più stare
a Milano lo stesso....
- Andiamo dunque lei, don Ignazio, signor burbero benefico, faccia la pace
col suo pupillo e gli perdoni ogni cosa. Siamo stati giovani anche noi... che
diavolo!
- Oh per il male che ha fatto a me - rispose don Ignazio tirando una presa
di tabacco - io gli ho già bell'è perdonato. Mi duole soltanto che ora sia
troppo tardi in quanto alla morale e che il mio perdono non gli
possa più fare nè caldo nè freddo a quest'ora.
- La guardi quella sua povera Elisa com'è addolorata - riprese sottovoce il
marchese.
- La Elisa? Ah so bene poi che la mi burla, caro marchese - ripigliò don
Ignazio levandosi. - No, no, no. Ha voluto lui essere uno spiantato? Tal
sia di lui! Io non potrei in coscienza rompere il collo a mia figlia col
pretesto che si vogliono bene. Il mal d'amore passa in fretta, ma i
matrimoni sono eterni.
- Vediamo, vediamo - ripigliò il marchese tirando don Ignazio in disparte.
- Bisogna che non lo lasciamo andar a soldato. Io non voglio. Mi secca di
vederlo partire.
- Faccia lei! Trovi lei il mezzo. Che cosa vuol mai che io le dica? Io, se
anche lei m'avesse lasciato fare, m'impegnavo di salvargli una parte di
sostanza. Non ha voluto? Peggio per lui! E non fu anche lei a lodarlo?
- Enrico - ripigliò il marchese volgendosi al giovine - prometti tu sul tuo
onore di far giudizio, di non metter mai più il piede in una bisca e di essere
degno insomma della Elisa?
- Ma che cosa dice, marchese, che cosa dice? - sclamò il notaio con la voce
d'un uomo che è risoluto a farsi intendere seriamente. - Lei dice delle cose
impossibili; a questa cosa non c'è più da pensarci e da un pezzo. Sono suo
padre o non sono suo padre? Benedetto uomo! Vuol dir tutto lui!
- Non dubitare, caro zio - disse l'Enrico con dolcezza malinconica. - Tu sei
esaudito lo stesso. Capisco anch'io che ora non potrei più accettare quello
che avrebbe dovuto essere la mia... quello che dice il marchese. Spero di
riuscire a farmi onore e a cercarmi una posizione indipendente e degna di
un gentiluomo.... E allora... se la Elisa mi avrà perdonato... se non avrà
sposato un altr'uomo....
- Ah questo è un altro paio di maniche! - sclamò don Ignazio.
- Quanto a lei, marchese - ripigliò il giovine
conte volgendosi al d'Arco - la mi permetta di ringraziarla, delle sue buone
parole. Oh io sento che la Elisa sarebbe stata la sola donna al mondo che
avrebbe potuto farmi felice, ma non ho saputo meritarmela ed è giusto che
succeda ciò che deve succedere. Adesso non potrei, dovessi morire di
dolore, aspirare a lei....
- Naturalmente! - osservò don Ignazio.
- Non vorrei si dicesse che dopo avere sprecato in tre anni tutto il mio
avere sono andato ad attaccare il cappello in casa di mia moglie.
- Oh per questo sarebbe il minor male! - sclamò don Ignazio.
- Ho piacere di sentirti a parlare così - disse allora il marchese alzandosi,
d'ond'era seduto, con una specie di risoluzione di buon augurio.
La Elisa, che con le gote irrigate di lagrime stava stretta a sua madre, alzò
gli occhi roridi in faccia al marchese, e vide sulla di lui fisonomia uno di
que' buoni sorrisi arguti, che il d'Arco possedeva quando stava per dire
qualche cosa di molto bello e di molto buono.
- Dunque allora se non è che questo - disse egli con voce posata e chiara
dovete sapere cari miei, che quella persona da nominarsi, la quale ha
trattato questa mattina la compera della possessione di Enrico e di questo
palazzo, sono proprio io. Io non potevo permettere naturalmente, che la
casa O'Stiary e la campagna, dove passai tanti bei giorni de' miei anni
giovanili, andasse in mano di cani e boriani La somma fu già
rimessa al marchese Sappia, che è garante anche pei debiti di Enrico, e che
penserà a pagare ogni cosa. Io sono dunque il nuovo proprietario e credo di
aver fatto
un discreto contratto. Siccome però io sono solo al mondo e non so
davvero che farne del superfluo, così tu, Enrico, mi permetterai di dirti,
che tanto la tenuta quanto questa casa, sono ancora cosa tua.
- Ah, questo è troppo, marchese! - sclamò Enrico.
E rimase interdetto, e non pensò di buttarglisi al collo, come avrebbe fatto
chiunque altri, che non avesse avuto il di lui orgoglio nelle vene.
Il marchese era, lo sappiamo già, un vero filosofo, e non si lasciava mai
influenzare dall'amor proprio.
Anche quella titubanza dignitosa, anzi superba, di Enrico, gli piacque; egli
non s'adontò che il giovine conte fosse restìo ad accettare la sua donazione.
Gli si avvicinò e gli disse:
- Sei tutto tuo padre! Ma pensa che la Elisa ti ama....
E additò la cara fanciulla che stava presso donna Eugenia.
I di lei occhi, maravigliati, pieni di riconoscenza, intenti, inondati da una
gioia che non lasciava più luogo a dubbio, stavano fissi in quelli del
marchese.
Ella si spiccò da sua madre, si slanciò con subitaneo moto verso di lui, gli
prese la mano e sclamò:
- Ah, come l'adoro lei, marchese. Come è buono! E questo valse all'Enrico
come cento perdoni.
Io ho fiducia che il lettore mi dispensi volentieri dal riferire la storia
retrospettiva del viaggetto
affannoso di Enrico verso Parigi, in cerca di Nanà, che viaggiava invece
verso la Piccola Russia, col principe Kuvaloff; come pure che egli non
desideri ch'io gli debba descrivere la delusione di Rubieri, quando venne a
pranzo e si trovò pulita la bocca Nè come sia andata a finir la
faccenda - che restò incruentissima del resto - fra Marliani e Cantis - nè a
raccontargli del fallimento della Romea, inezie tutte che facilmente si
sciolgono coll'imaginazione.
Quanto a Nanà, non stette più di un mese col principe Kuvaloff.
Quand'egli cominciò a trattarla a furia di knout, essa cercò in Kiew
un suo compatriota parrucchiere, che tornava in occidente, e si fece rapire
da lui.
La sua fine è nota.
Zola ci racconta, che essa morì di vaiuolo al Grand Hôtel a Parigi,
in quei giorni in cui i Francesi, ebbri di certezze gloriose, che dovevano
mutarsi in disastri incredibili, passavano in folla sui boulevards
boulevardsgridando in cadenza: à Berlin, à Berlin!
Berlin!Molti lettori hanno il difetto di venir qui in fondo a cercare come vada a
finire la panzana.
Qui panzana vera non c'è stata. In ogni modo
mi permettano di non accontentare questa loro illegittima curiosità.
La contessa O'Stiary è oggi viva ancora? È dessa felice? È infelice?
Chi lo sa? Mettiamo ch'ella sia infelice. L'è questa un'ipotesi che sbaglia di
rado.
Un'ultima preghiera al lettore: Se non l'ha ancora letta, legga l'
l'Entratura Mi farà un gran piacere. FINE.