Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbasso

Numero di risultati: 174 in 4 pagine

  • Pagina 1 di 4

Personaggi e vicende dell'arte moderna

260585
Venturoli, Marcello 1 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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Pagina 222

Scritti giovanili 1912-1922

262151
Longhi, Roberto 1 occorrenze

Viva le ideologie di Gustavo Moreau, abbasso l'impressionismo, che sorgeva allora. In fine, e i «Maîtres»? Vero. E molto che abbiam visto fin qui come deprimente, negativo dell'attività lirica di quest'uomo, è addirittura formativo della sua critica.

Pagina 18

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266347
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Come l’arte storica è andata abbasso, così sono andate abbasso l’arte religiosa e l’arte monumentale. Il popolo e gli artisti non si sentono più ispirati dalla fede; e in fatto di monumenti v’è l’eclettismo che ci rovina. A Milano in due grandiosi e ricchi edificii pubblici, la Stazione della ferrovia e la Galleria nuova, fu trovata maniera di acconciare qualche pittura a buon fresco e qualche quadro a tempera. Lo stile degli edificii è sbrigliato e ampolloso, quello delle pitture castigato e raccolto. Gli edificii non sono brutti, e le pitture son belle; ma quelli stanno da sè, e queste anche.

Pagina 296

La cucina futurista

303871
Marinetti, Filippo Tommaso - Fillia 2 occorrenze

Abbasso la "cucina-museo"

Pagina 135

Infatti, si è levata a parlare la medaglia d'oro Onida, quindi il dottor Magli ha espresso i sentimenti dei «tagliatellisti», mentre un anonimo inviava un telegramma in cui si diceva testualmente: «Abbasso la pastasciutta, va bene, ma le tagliatelle sono un altro paio di maniche!».

Pagina 135

Nuovo cuoco milanese economico

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Luraschi, Giovanni Felice 2 occorrenze

Fate un fondo di poco butirro, poca grassa, delle fette di cipolle, carotte e selleri in una cassarola ovale, il tutto coprite con fette di lardo e di giambone, uniteci una cipolla isteccata di garofani, mettete dentro l'anitra col petto abbasso, all'intorno metteteci le caponette falsile, coprite il tutto con fette di lardo e fette di giambone, fatelo gratinare un poco, bagnatela con buon brodo, che sia a galla tanto dell'anitra come delle caponette visite, lasciate il tutto cuocere lentamente; cotta mettete la verdura intorno al piatto e nel mezzo metteteci l'anitra, versateci sopra una salsa fatta metà di coulì, poco sugo e poco aglasse; prima glassarete tanto l'anitra, come le caponette e servitala con crostoni.

Pagina 094

103. a) Pigliate otto pomi di terra, cotti, pelati e passati al sedaccio, due once di butirro appena liquefatto, once tre di zucchero in polvere, il tutto mischiate e unitevi un cucchiale di rame, il sugo d’un limone e poca scorza di limone rapata, quasi un mezzo bicchiere di pannera doppia, due uovi interi e due rossi, poco sale, il tutto foettato per mezz’ora, pronto un piatto d’argento o di rame, fatelo cuocere al forno temperato e servitelo al momento prima che venga abbasso.

Pagina 319

IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

656362
Boito, Camillo 1 occorrenze

SI CONTA E SI RACCONTA - Fiabe Minime

661841
Capuana, Luigi 1 occorrenze

GIACINTA

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

- Abbasso i ladri! ... Vogliamo il sangue nostro! - Signori, un po' di calma! Il delegato gesticolava, si sgolava, mentre le guardie, un po' con le buone un po' con gli spintoni, facevano indietreggiare la gente. - Calma, calma, signori! E tentava di persuaderli che forse si allarmavano a torto: - La cassa verrà aperta all'ora solita. Non dubitate ... Fate coda, a due, a tre, gli uni dietro gli altri. Vorreste rovesciarvi dentro tutti ad una volta? Calma, signori! Al secondo piano, nel salotto della Marulli, era un andare e venire di amici che entravano pel cancello del giardino, dalla parte di dietro. Il Porati, bianco come un cencio lavato, col pancione che scoppiava fuor della poltrona, si asciugava continuamente il sudore e guardava attorno come un ebete: - Ah, questa volta finiva male! ... Se il Savani avesse dato retta a lui! Aveva voluto fare di sua testa! Anche la signora Teresa si mostrava abbattuta. - Sfido io! - disse Ratti al Villa in un orecchio. - La Banca era una bella poppa! L'ingegnere scoppiò a ridere: l'idea della poppa gli parve buffa. Molti si voltarono a guardarlo. - Che c'era da ridere in quel frangente? Quel Villa era un cretino! Che ne capiva del credito e degli affari che andavano giú a rotta di collo? - Vi confondete? L'importante è che la Banca paga, da tre ore. Duri un'altra oretta, e sarà salva. - Pare lo facciano apposta! La maggior parte dei libretti di depositi presentati alla riscossione sono con cifre grosse. - Meglio. Infatti, vedendo che si continua a pagare, l'effervescenza è scemata. Entrò il giovane Porati, che andò difilato da suo padre e cominciò a parlargli sotto voce. Il signor Ottavio scrollava la testa, passandosi il fazzoletto sulle labbra asciutte, rianimandosi un pochino. E quando Ernesto ebbe finito, tutti lo circondarono fra una tempesta di domande. - Le cose andavano bene. Quel povero diavolo del cassiere si batteva come un eroe, freddo, imperterrito, tirando le operazioni in lungo, più che poteva, con gli occhi all'orologio. La Banca nazionale aveva mandato dei soccorsi. Giú c'era un contabile di essa e il Gerace in conferenza col commendatore. S'aspettava il direttore della Banca popolare. Bella questa solidarietà dei diversi istituti di credito! Marietta trasse in disparte la signora Marulli per avvisarla che il signor commendatore l'attendeva nel salotto della signora contessa. - Vengo subito. Ma continuò altri cinque minuti a ragionare col cavalier Mochi e con due azionisti della Banca, per non insospettir questi; poi uscí. Giacinta, in piedi, appoggiata alla spalliera di una seggiola, seguiva con lo sguardo il commendatore che andava su e giú pel salotto, tirandosi nervosamente le fedine grigie, lanciando delle torve occhiate di traverso. - Pover'uomo! Le faceva compassione. Senza la compra della palazzina ... Ma già, forse, avrebbe fatto una grossa corbelleria. All'arrivo della mamma, Giacinta si accostò alla finestra dove il conte Giulio stava a guardare la folla, dietro la persiana, divertendosi come un ragazzo. - Teresa, - disse Savani concitato, andandole incontro e prendendola familiarmente per una mano; - Teresa, quelle trenta mila lire? Ricorro a voi proprio all'ultimo. - Quali? - rispose la Marulli. Savani capí il vero significato di quell'accento di sorpresa, e disse subito: - Oh, non le perderete! ... Uno, due giorni soltanto ... Ve lo giuro. - Ma, ecco ... - Non le perderete! Manca un quarto d'ora alla chiusura. Venticinque, trenta mila lire possono salvar la banca da un disastro. Abbiamo fatto miracoli. Ho buttato tutto il mio nell'abisso; lo ripescherò piú tardi. Se oggi si chiudesse la cassa senza arrestare i pagamenti ... Teresa, quelle trenta mila lire! Ve ne prego! - Non le ho piú, da tre giorni. - Non le avete piú? Il commendatore la guardò fisso, incredulo. Ma quella alzò fieramente la testa, mostrandosi offesa dal sospetto: - Domandatene al Porati. Ho fatto un'operazione con lui. Volevo anzi consultarvi. Ma in questi giorni siete stato così occupato! ... Savani sentì mancarsi il terreno sotto i piedi. - Non le avreste perdute! - mormorò, lasciandosi cadere sopra una poltrona. La signora Teresa si guardava le punte delle dita, impassibile: - Ha buttato il suo nell'abisso? - pensava. - Una ragione di piú per non buttarvi anche il mio. - E cosí? - domandò Savani, affannosamente, al Gerace comparso sull'uscio. - Si è chiuso pagando. Il commendatore, levatosi in piedi, diè una occhiata di rimprovero alla Marulli, e uscí come un lampo dal salotto. - Il pericolo è dunque scongiurato? - domandò la signora Teresa. - Tutt'altro - rispose Andrea. - Domani è domenica. Un giorno, in questi casi, è un enorme guadagno. Ma, che amministrazione! Un vero caos. Temo che il marcio sia troppo. - Ah! - ella esclamò dandosi ragione. Giacinta e Andrea s'erano scambiata una stretta di mano. - Ha chiesto del denaro anche a te? - domandò la Marulli alla figlia. - Povero commendatore! Mi fa pietà. Se non avessi comprata la palazzina ... - Ma è il fallimento! - le diè sulla voce la madre. Entrava dalla finestra il confuso rumore della folla che cominciava a disperdersi. - Verrai domani? - disse Andrea, appena la signora Teresa fu andata via. - Sí. - C'è qualcosa per aria. - Che mai? - Oh! finora, dei sospetti soltanto. - Sospettino pure! - Ti fidi troppo. - Eh, via! Giacinta sorrideva. Quelle paure di Andrea solleticavano, eccitavano il suo orgoglio di donna. - Bravo! Benone! - esclamò il conte all'improvviso. I due amanti trasalirono. Egli applaudiva una guardia di questura che dava, a diritta e a manca, scappellotti ai ragazzi. - Oh! tu? - disse, scorgendo Andrea. - Che congiurate costí? Vorreste spartirvi i milioni della Banca ... fallita? E rideva.

Il Drago e cinque altre Novelle per fanciulli

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

PROFUMO

662652
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Racconti 1

662655
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Racconti 2

662725
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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STORIE ALLEGRE

662821
Collodi, Carlo 2 occorrenze

Se no, abbasso l'imperatore! ... ". "Amici miei", disse Pipì affacciandosi al balcone e parlando alla folla delle scimmie radunate in piazza. "Amici miei; come volete che io faccia a darvi il sole e il bel tempo, finché dura quest'acquazzone che pare un diluvio?" "No, no! Vogliamo il sole a ogni costo, e lo vogliamo subito!" "Confidate in me!", soggiunse Pipì. "Appena la pioggia cesserà e il tempo si rimetterà al buono, io prometto di darvi il sole e il bel tempo." Poche ore dopo, neanche a farlo apposta, la pioggia cessò e venne fuori un bellissimo sole. Ma quando gli scimmiotti si accorsero che il sole scottava troppo, chiamarono le fanfare e recatisi dinanzi al palazzo dell'imperatore, presero a gridare: "Vogliamo l'acqua! Vogliamo la pioggia!". Pipì, annoiato da questa storia, aveva fatto giuro di non affacciarsi: ma poi sentendo che gli urli raddoppiavano sempre più, cacciò fuori il capo e disse: "Volete proprio la pioggia?". "Sì, sì! Vogliamo la pioggia, se no, abbasso l'imperatore!" "Aspettatemi allora costì, e fra un minuto vi manderò la pioggia desiderata." A queste parole tenne dietro un gran battìo di mani e il suono della marcia imperiale. Detto fatto, dopo pochi minuti, Pipì si affacciò novamente al balcone, gridando: "Eccovi la pioggia: e chi ne vuol di più, se la vada a prendere alla fontana!". E nel dir così, rovesciò sul capo dei dimostranti una gran catinella d'acqua. Impossibile immaginarsi il tumulto che ne avvenne. Il palazzo fu invaso e preso d'assalto. Si cercò l'imperatore per tutte le stanze: ma non si riuscì a trovarlo. Che cosa rimaneva da fare? Non trovando l'imperatore, la folla dové contentarsi di bastonare il gran cerimoniere. È sempre così! Nelle cose di questo mondo ne soffre sempre il giusto per il peccatore! Intanto Pipì, scappato di nascosto da una porticciola segreta, che restava dietro il palazzo, si era dato a correre per le viottole della boscaglia, come se avesse avute le ali ai piedi. E dopo aver corso due giornate intere, trovò in mezzo agli alberi una piccola casa senza finestre. Sulla porta della casa c'era seduto un bel coniglio che aveva il pelame turchino (come i capelli della Fata): il quale, vedendo Pipì, si alzò da sedere e lo salutò garbatamente, portandosi la zampa destra all'altezza del capo, a uso del saluto militare. "Che cosa fai costì, mio bellissimo coniglio?", gli domandò lo scimmiottino. "Stavo appunto aspettando Vostra Signoria." "Chi è questa Vostra Signoria ?" "È lei." "Sono io? Ah intendo, intendo! Compatiscimi, amico; perché i poveri, come me, quando sentono darsi di Vostra Signoria, credono sempre che si parli di qualcun altro. Non avresti per caso da offrirmi un po' da mangiare e un po' da dormire?" "Si degni di passar dentro, e troverà l'uno e l'altro." Pipì, com'è facile figurarselo, accettò di gran cuore l'invito: e appena messo il piede sulla soglia di casa, vide nella stanza terrena una tavola apparecchiata e una materassina ripiena di penne di uccello, distesa per terra. Senza far complimenti, si pose subito a tavola, e dopo aver divorato in un attimo un piatto intero di nespole e di fichi verdini, principiò a dire sospirando: "Ho sofferto tanto, amico mio! La mia vita è tutta un'iliade ... ". "Che cosa vuol dire iliade ?" "Non so nemmen'io e non m'importa di saperlo. Io sono come certi ragazzi figlioli degli uomini: ripeto a caso quel che sento dire e non mi curo d'altro." "Non mi pare una cosa fatta bene." "Pazienza! Cercherò di correggermi! Se tu conoscessi però tutte le mie disgrazie! ... " "Le conosco." "Come fai a conoscerle?", domandò lo scimmiottino maravigliato. "Le ho lette nel Giornalino dei Bambini , che si stampa a Roma. Scusi, signor Pipì, la mia curiosità: ma lei non aveva promesso al padroncino Alfredo di tenergli compagnia in un gran viaggio intorno al mondo?" "Mi spiego: gliel'avevo promesso ... e non glielo avevo promesso ... " "Come sarebbe a dire?" "Mi spiegherò più chiaro. Devi sapere che io fui tentato a far quella promessa ... lo sai da chi? dalla gola." "Cioè?" "Il signor Alfredo, per sedurmi, mi fece portare in tavola delle frutta così belle e così saporite ... che io, a quella vista ... " "Ho capito, ho capito", disse il coniglio ridendo. "Lei fece su per giù come fanno certi ragazzi figliuoli degli uomini, i quali, pur di ottenere dai loro babbi e dalle loro mamme qualche ghiottoneria o qualche balocco, promettono di esser buoni, di studiare e di farsi onore alla scuola ... e poi? E poi, appena ottenuta la grazia, dimenticano subito le belle promesse fatte e chi s'è visto, s'è visto: non è vero?" "Ho paura, mio caro amico, che tu l'abbia indovinata." "Vuol sapere, signor Pipì, come diceva il mio nonno? Il mio nonno diceva sempre che "quando si promette una cosa, bisogna mantenerla, e che quelli che mancano alle promesse fatte, non meritano di essere rispettati dagli altri, né assistiti dalla fortuna". Ha capito? Arrivedella, signor Pipì." E il coniglio, dopo queste parole, fuggì via come un baleno.

ARABELLA

663063
De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Con tanta ressa di gente che ingombrava la scala e il portico la povera vecchia Ratta stentò a farsi strada, quando la portarono abbasso nel suo ultimo vestito di legno bianco. Intanto la processione dei preti e dei chierici colla croce, preso in mezzo Lorenzo Maccagno, lo trascinò, rimorchiandolo fin presso le ruote del carro, tenendolo imprigionato in un cerchio di candele accese. I preti cominciarono a brontolare orazioni. Lorenzo, chiuso in mezzo dalle cotte, cercò di salvare il cappello nuovo dalle sgocciolature, e se ne servì come di scudo per difendersi dagli occhi maliziosi della zia Sidonia, che rideva dietro le spalle massiccie del cavalier marito. Nell'andar via cogli occhi da quella tentazione, ne incontrò un'altra, a una finestra del secondo piano, dove la bella Olimpia, ancora spettinata, stava spiando nello spiraglio tra due gelosie. Il brontolamento dei preti rimescolò subito le viscere del cavalier Borrola, libero pensatore e framasson padovan, che non poté trattener anche lui il suo rosario contro il botteghin e il bottegon, contro una razza di mangiapan, che vivono alle spalle dei credenzoni... Il bravo fallito, gonfiando gli occhi, esprimeva questi suoi sentimenti con una voce di moscone irritato, movendo la punta dei baffi come gli indici d'un grosso orologio. Un poco di più avrebbe fatto nascere uno scandalo, se a un tratto la voce stizzosa e chiara del sor Tognino in cima alla scala e lo scalpitare dei cavalli, che menavan via la morta, non avessero sviata l'attenzione dei dolenti per così chiamarli. Una donna, certa Angiolina, ortolana di professione, parente anche lei della defunta, essendo venuta in cognizione che la vecchia Ratta aveva lasciato delle disposizioni a favore dei parenti poveri, sgusciando tra la folla in coda ai becchini, aveva colto il bravo sor Tognino sulla soglia dell'appartamento e pretendeva avere da lui qualche notizia positiva. Il sor Tognino la fermò sull'uscio e cercò mostrarle che non era proprio il momento più opportuno di parlar di affari, per bacco! Le carte erano nelle mani del notaio Baltresca... "Baltresca o Baltrosca..." ribatté la donna, che dalle voci era indotta a creder poco al bravo parente, "vuol dire che ci saremo anche noi." E usando la metafora che in verziere è come un manico d'avorio infilato sopra una lama ordinaria, seguitò, alzando la voce: "Badiamo a non fare il gatto, perché noi ai gatti che allungano troppo lo zampino tagliamo la coda e se non basta la coda tagliamo anche gli orecchi..." Il sor Tognino colse un buon momento e chiuse l'uscio sul muso alla pettegola. Il corteo, infilato l'androne della porta piegò a sinistra e si distese come una vera biscia lungo il corso di Porta Ticinese, verso la parrocchiale di San Lorenzo. Ai cordoni si trovarono, un po' per caso, un po' per accordi presi, Sidonia Maccagno maritata al cavalier Borrola, Celestina maritata a Michele Ratta lattivendolo, Paolina Bianconi maritata a un Maccagno, orefice all'insegna dell'àncora, e Arabella Pianelli, da tre mesi sposa a Lorenzo Maccagno. Casa Maccagno su tutta la linea. Nel via vai delle vetture, dei carri, dei tram, della folla che brulica in quel popoloso quartiere, il funerale si allungò nel piacicchiccio sudicio della strada, dove il fango affogava la neve, passando a sinistra delle antiche colonne romane, che sfidano nella loro marmorea indifferenza l'indifferenza più che marmorea che i cinquemila bottegai della parrocchia dimostrano per la loro classica antichità. La gente si arrestava a guardare un poco, sbadatamente, a questo fatto così comune del morto che passa, che nelle grandi città non suscita più in chi vede se non il fastidio di aspettare che passi. Quindi la folla si rimescola e seguita a scorrere nel declivio dolce e potente della vita. Il sor Tognino aspettò che tutti fossero usciti e, chiuso l'appartamento, tenne dietro al funerale col suo passetto corto e strisciato, mentre andava infilando un paio di guanti di pelle. Raggiunto il corteo si accostò a Lorenzo e gli disse: "Perché hai permesso ad Arabella d'uscire con questo tempo? Non avete proprio nessun giudizio". "Se tu sai persuadere le donne quando si fissano un'idea..." osservò sorridendo il giovine. "Nel suo stato è giusto prudenza uscir di casa e il cacciarsi nella folla!" "Bravo, diglielo..." Il vecchio Maccagno aspettò il momento che la morta stava per entrare in chiesa, chiamò in disparte la nuora, e le disse: "Non voglio che lei resti a prender altro freddo. Dia ascolto a me, torni a casa..." "Mi sento bene..." "Oggi si sente bene e domani potrebbe sentirsi male. Venga con me, abbia pazienza. Passa il tram, torni a casa, e si faccia dare una bell'acqua calda dall'Augusta. E cambi subito le scarpe. Nel suo stato non deve esporsi agli strapazzi." "Obbedirò..." disse Arabella con un leggiero sorriso. "Brava, venga con me." Il suocero tornò dieci passi indietro, fece arrestare un tram, accompagnò la nuora fino al carrozzone, ne pagò il posto, osservando che non fosse sulla corrente dell'aria, e tornò a dire: "Faccia fermare davanti alla porta". E rivoltosi al conduttore, soggiunse: "Fermati in via Torino, alla porta del dentista..." "Lo so" disse il conduttore, salutando il signor Maccagno come persona conosciuta. Il vecchietto seguitò cogli occhi un pezzo la carrozza, e indicando colla mano le scarpe, raccomandò ancora una volta all'Arabella di cambiare le sue appena a casa. Quindi tornò in chiesa, mentre i preti intonavano il "Beati mortui", e andò a collocarsi vicino al Botola, un suo vecchio amico d'infanzia, col quale cominciò un discorso molto vivo. Tre passi dietro di lui l'ortolana, alzando la voce come se fosse in verziere, ripeteva al Boffa e ad Aquilino Ratta: "Per me, se non vedo le cose chiare, l'ho dichiarato a questo impostore: faccio un altro quarantotto".

Demetrio Pianelli

663141
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Quando il Bianconi, collo zuccone basso, mormorava una facezia sul conto di qualcuno o di qualche cosa, il Caravaggio, che schizava l'elettricità dagli occhiali, usciva a ridere con tali scoppiettii di pollo d'India che piú di una volta i magnati piegarono il capo per vedere quel che succedeva "là abbasso". Il Bianconi diventava rosso fin sotto alla radice de’ suoi capelli infarinati, e cercava di nascondere la faccia col cartellino del menu , ch'egli leggeva per la quarta volta senza capir nulla di quel francese stampato in oro. "Almeno i piatti dovrebbero stamparli in ambrosiano!" disse al suo vicino, quando fu passata la tempesta. "Cosí non si sa nemmeno quel che si mangia: è come pranzare al buio. Sai tu, per esempio, che cosa sono i cornichons ... ?" "Cornicioni ... " disse il Caravaggio, scoppiettando come un legno secco sul fuoco. "Cornicioni in insalata. Eccellenti! Scommetto che son lumache: qualche cosa coi corni dev'essere ... ." Venne in tavola un gran piatto di marbré con decorazione di gelatina, burro e tartufi, un vero monumento da far risuscitare il martire che se l'avesse meritato sulla sua tomba. "Se invece di tante statue di bronzo e di marmo," disse l'archivista al suo vicino "si innalzassero sulle piazze di questi monumenti ... ." "E fosse permesso al popolo di tirarne via di tanto in tanto una bella fetta" continuò il Bianconi. " Cristianino! faccio il martire anch'io." Visto che a casa sua di queste polente non ne mangiava mai, si fece coraggio e tirò sul piatto un bel poligono, mentre il Caravaggio, sgambettando sotto la tavola, lo raccomandava alla speciale protezione di santa Lucia, che conserva la vista agli uomini di buona volontà, et hominibus bonae voluntatis ... "Parla latino adesso, che mi farai sciogliere la gelatina ... ." "Peh, peh, peh ... " rideva co’ suoi scoppiettii di pollo d'India il Caravaggio. "Ci vuol dell'iniziativa a questo mondo" disse il Bianconi, a cui il barolo dava quasi un'aureola di bontà. "Poteva esser qui anche quel testardo di un Pianelli" esclamò con sincero rincrescimento, quando scoprí che in mezzo alla polenta di gelatina c'erano dei fegatini di pollo. "Com'è stata questa faccenda?" "È stata ... è stata ... ." Il Bianconi lanciò un'occhiata fino all'altro lato della tavola, dove il suo capo gustava anche lui i suoi fegatini di pollo, e soggiunse: "Non parliamo di morti a tavola." "È vero," continuò l'archivista in mezzo al crescente frastuono delle ciarle e delle posate "è vero che il ... andava in casa della ... ." "Guarda, anche i pistacchi ... " disse il Bianconi, che non voleva quei discorsi. "Che lei sia andata piú volte da lui ... in via Velasca ... ." "Guarda, anche un chiodo di garofani." "Pare poi che non s'intendessero sul conto ... Bolletta non quitanzata ... peh! peh! peh! ... " "Ehi, là abbasso, è uno scandalo ... " gridò quel del catasto, che aveva già votate tre bottiglie. "Brutto maccabeo!" grugní il buon Bianconaccio col viso in brace, dando un pizzicotto alla coscia del compagno. "Va a stuzzicare l'eco, animale!" "I napolitani, i napolitani, caro commendatore," gridava il commendator Ranacchi bel rosso in faccia rivolto al barone delle Ipoteche, "i napolitani ebbero sempre una posizione privilegiata nel catasto, e si può dire che non hanno pagato mai niente." "Niente è troppo" obbiettò il commendatore Balzalotti che non voleva che un'affermazione cosí recisa a tavola offendesse il chiarissimo collega delle Ipoteche. Costui avvolto nel tovagliolo, come in una toga, spianò le trecento rughe che solcavano il testone torbido e nero, e mormorò in mezzo al frastuono qualche cosa di cui il Bianconi non poté afferrare che una "gongrua bereguazione." "Senza un buon catasto non sarà mai possibile nemmeno una congrua perequazione." "Basterebbe un'imposta reddituale." "Baie sonore! vediamo quel che ci costa già l'esazione della ricchezza mobile." "È un altro paio di maniche. La terra non si può nascondere." "Ci vorrebbe un sistema di tassazione ... ." "Ma che sistema!" "Sicuro, un sistema in ragione della presunta produttività del terreno." "Mancherebbe anche questa, oltre al flagello della concorrenza americana." "Che concorrenza d'Egitto!" "Americana e non d'Egitto." "Ah, ah! oh, oh!" Le parole s'incontravano, s'intrecciavano al di sopra dei bicchieri e delle bottiglie, scoppiando in calde risate, in cui tutte le opinioni politico-amministrative di quei bravi signori si conciliavano in una piena soddisfazione reciproca. Solo il barone delle Ipoteche pareva annuvolarsi e sprofondarsi sempre piú in mezzo al baccanale, e gonfiava certi occhi bianchi, movendo il capo ora a destra ora a sinistra come volesse dire: "adesso vi mangio tutti ... " "Signori!" sorse improvvisamente a dire il Quintina colla sua voce squillante. Si fece subito un gran silenzio. "Signori! questa non è una cerimonia ufficiale di adulazione, ma una lieta e viva testimonianza di stima e di rispetto verso un uomo, il quale ... , verso un uomo, che sua eccellenza il ministro Depretis ha voluto in questi giorni onorare di un attestato speciale, concedendogli le insegne di commendatore della Corona d'Italia. Propongo quindi un brindisi al commendatore Balzalotti." "Viva, bravo, bene!" I bicchieri si alzarono, si toccarono, si vuotarono. Il commendatore si alzò. Di nuovo un gran silenzio. S'inchinò a destra, a sinistra, passò un momento il fazzoletto sugli occhi, e dando un'occhiata al suo pellicano imbalsamato, incominciò a dire: "Se dovessi, amici e colleghi, rispondere adeguatamente alle espressioni vostre, io non potrei trovare nessuna parola che sapesse esprimere il pensier mio. Avvegnaché, come ben disse pur dianzi il mio buon amico cavalier Quintina — con quella cortesia che lo distingue e della quale sento il dovere di ringraziarlo — qui non si tratta della solita cerimonia ufficiale che al levar delle mense non lascia dietro di sé alcun ricordo. No: qui voi volete non tanto onorare in me il capo d'ufficio, che fa debolmente e come può il dover suo, quanto il vostro compagno di lavoro ... ." "Benissimo!" dissero tutti insieme con quel bisbiglio di esse , che vuol approvare senza interrompere. "Laonde io vi ringrazio non come pubblico funzionario, ma, dirò cosí, come vostro collaboratore, come vostro commilitone." "Bene!" "Sua eccellenza il Ministro non ha certo voluto premiare una persona che, per quanto zelante e volonterosa, non ha ottenuto dalla natura né doti straordinarie d'ingegno ... ." "Oh ... " protestò il pubblico. " ... né ha recato alla pubblica amministrazione servigi straordinari: ma io sono persuaso che ha voluto premiare in me — e con me anche voi — la fedeltà a quei principii d'ordine e di progresso che informano lo spirito delle nostre istituzioni liberali ... ." "Bravo!" gridarono a una voce con una salva di applausi. "Bbenne!" soggiunse dopo gli altri il barone delle Ipoteche, colla cupa sonorità d'un trombone in ritardo. Il commendatore, dolcemente acceso e sorridente, brandí il coltellino del formaggio e alzandolo in aria soggiunse: "Imperciocché, o signori, non è né la forza degli eserciti, né i baluardi delle fortezze, né le difese alpine, né le trincere ferrate dei nostri porti che potranno mantenere la pace, salvare il paese, favorire il miglioramento delle classi meno abbienti, diffondere i lumi della pubblica istruzione, ecc.; ma bensí l'unità, la concordia, l'ordine nei principii, l'ordine nelle amministrazioni locali, il disinteresse dei funzionari ... ." " Un po' anca mo' ... ." Tutti si voltarono a questa brusca interruzione, molti risero, e cercarono chi aveva parlato. La frase poco rispettosa era sfuggita dalla bocca del Bianconi, che credeva in coscienza di sussurrarla in un orecchio al Caravaggio. Ma fosse l'allegria, fosse il vino bianco, fosse il diavolo, che ha sempre gusto di rovinare un galantuomo, uscí una voce falsa, a contrattempo, che tutti poterono sentire. Rosso, infocato in viso, colle orecchie scarlatte, il povero Bianconi si rannicchiò sulla sedia e avrebbe voluto sprofondare in cantina. L'oratore, turbato un momento, non si smarrí, ma alzando un po' la voce rincalzò: "La giustizia nei superiori, il rispetto nei subalterni, in una parola un'armonia di sentimenti in quell'unico ideale, in cima al quale siede il benessere del paese ... ." "..issimo." "Nel ringraziarvi, adunque, cari amici e colleghi, permettete che unisca agli auguri per voi e per le vostre famiglie un augurio anche a quell'illustre magistrato che regge questa provincia, il quale si è compiaciuto di mandare un suo rappresentante nella persona del mio buono e vecchio amico, il commendator Ranacchi, un vecchio avanzo delle patrie battaglie ... ." Il Ranacchi si mosse sulla sedia e fece molti gesti pieni di modestia. " ... e a quell'alta mente, a quell'integro statista, a quel veterano delle lotte parlamentari che regge con prudenza antica il timone degli affari interni: per arrivare infine ove arrivano sempre i voti di tutti gli italiani, che non sanno distinguere piú il trionfo del progresso da quello della dinastia che ne tien alta la bandiera ... ." "Viva, viva!" "Bravissimo!" "Molto bene! Proprio toccata la nota giusta." "M'è piaciuto quell'appello ai principii." "Mi congratulo, bravo!" Il commendatore ricevette tutti questi mirallegri, stringendo tutte le mani che lo assalivano, sorridendo a tutti ringraziando; poi la conversazione continuò animata fino ad ora tarda. Il povero Bianconi non aspettò il caffè per prender l'uscio. Quando mai era venuto! il pranzo gli si cambiava in tossico. Tanta prudenza, tanta cautela, tante umiliazioni per non contraddire, per non compromettere quella piccola gratificazione a Natale, e ora una frase, due parole, una sciocchezza gli faceva forse perdere il frutto di tre anni di buoni servigi. "Aspetta ora che ti aggiusti nel nuovo organico" seguitava a brontolare dentro di sé, mentre andava verso casa grondon grondoni, "non ti manderà mica in Sardegna per questo, ma se speri di maritare le tue figlie cogli avanzamenti, stai fresco. Non ti ha risparmiata la sassata, e come ha sottolineata quella frase: il rispetto dei subalterni ... Se quell'asino di Pianelli fosse venuto, forse avrei avuto un altro posto, avrei bevuto un bicchiere di meno ... ." E voltando nella porta di casa, salendo le scale, cacciandosi in letto, non cessò mai di pigliarsela con qualcuno, che non era sempre il Bianconi; anzi spesso confondeva sé stesso con quell'asino, che egli considerava quasi come la causa involontaria della sua disgrazia. Al telegramma ministeriale tenne dietro una lettera, in cui si diceva che, "avendo avuto riguardo ai precedenti incensurati dell'applicato Demetrio Pianelli, accogliendo le generose insistenze della parte offesa, S.E. il Ministro si limitava a traslocare il nominato Pianelli, senza promozione, all'ufficio del Bollo e Registro di Grosseto (Maremma toscana) a cominciare dal primo agosto prossimo venturo, col qual giorno avrebbe datata pure la decorrenza dell'assegno mensile". In parole meno solenni era un castigo di due mesi di sospensione dall'impiego, durante i quali il nominato Pianelli avrebbe dovuto vivere con qualche economia, vendere qualche superfluità, preparare il baule e riflettere sulla necessità che un regio impiegato abbia in ogni circostanza a conservare un contegno corretto e come si deve. Il Caramella, che gli portò la lettera, lasciò anche il fagotto delle sue poche robe. Non mancava nulla, né il boccaletto, né il bicchiere, né il paio di manichette di tela; mancavano soltanto le cento lire della sua mesata di maggio. "Andremo a Grosseto!" declamò Demetrio, dopo aver letto e riletto il ministeriale documento, accompagnando la lettura con molti tentennamenti del capo. "Grosseto, Maremma toscana: sarà aria buona ... Bisognerà mettere nel baule anche una buona dose di chinino. Impareremo cosí anche il bel linguaggio toscano." E crollando la testa, gli venne voglia di ridere. Sí, gli venne voglia di ridere, non capiva perché. In un altro momento, in altro stato d'animo forse avrebbe sofferto atrocemente di quella punizione: ora, gli veniva da ridere, come di una commedia. Che male, infine? morir qui, morir là, tanto per lui, adesso, era la stessa cosa. Era questa anche un'occasione per vedere un po' di mondo, al di là dei suoi prati ... Che gl'importava ora di Milano e delle sue magnificenze? Fino i suoi dintorni, fin anche quei prati verdi che formavano la sua delizia, oggi gli erano diventati antipatici. "Andiamo a Grosseto!" ripeteva tra sé, nella quieta solitudine della sua stanzetta, mentre a Sant'Antonio ribattevano le nove, le dieci, le undici, mentre tutti i suoi colleghi erano già in ufficio a lavorare, ciascuno al suo posto; ed egli invece, pacifico e beato come un signore che vive d'entrata, se ne stava a casa a fumare i piccoli mozziconi di sigaro, che andava pescando in fondo alle tasche, a far il conto di quel che avrebbe dovuto vendere per tirar là quei due mesi con ventidue lire e centesimi, e poi un altro mese a Grosseto prima della scadenza, oltre alle spese del viaggio, e a qualche debituccio arretrato ... "Andiamo a vedere Grosseto! ... " Se egli fosse stato pittore, oh! che bei quadrettini da dipingere! Meglio ancora se avesse dovuto scrivere un romanzetto. I letterati vanno alle volte a cercare argomenti inverosimili e strani nel mondo delle nuvole e non si accorgono che hanno sottomano dei casetti curiosi da far morire la gente dalle risa ... e anche da far piangere. Piangeva egli forse? mai piú. Gli passava soltanto per gli occhi una nube di malinconia. È una sciocchezza piangere perché il signor Ministro si compiace di traslocarti a Grosseto. Poteva forse per un giorno o due far dispiacere di romperla cosí bruscamente colle vecchie abitudini; il vedere il cappello attaccato al chiodo, il bastone appoggiato al muro, in un cantone, coll'aria di roba stufa di stare in casa; ma non c'erano motivi per piangere. Ci si fa l'osso anche al far niente. Non dava nemmeno torto al suo superiore. Guai se un capo d’ufficio non provvedesse energicamente a salvaguardare — come dicono — il prestigio dell'autorità! Come mai un Pianelli, di natura cosí impacciato e scontroso e cosí duro di lingua, avesse potuto cantare a quel bravo signore delle cose che non si devono mai dire a un superiore, specialmente quando sono vere, era un mistero anche per lui. Non sapeva ripensare neppure quello che gli era uscito di bocca in quel momento. S'era frenato un pezzo colle corde e colle catene: ma quando quel bravo signore osò insultare Beatrice e chiamarla pettegola, allora il cuore scattò come una molla. Non era dunque morta del tutto quella donna nel suo cuore; o non era morto del tutto il suo cuore per lei? Misteri, misteri. Se un resto d'illusione si muoveva ancora in lui, il Ministro provvedeva ora energicamente a togliergli fin l'ultima speranza. La bella storia era finita del tutto. T-o-tto ... finito. Ora aveva piú tempo di far delle belle passeggiate sui bastioni e in piazza Castello, e di stare a sentire le cicalate delle sonnambule e dei venditori di mastice. Aveva anche il tempo di leggere un giornale e di occuparsi di politica, come un uomo che vive di rendita, colla differenza che per vivere e tirar là tutto il tempo stabilito dal signor Ministro bisognava vendere qualche cosa. E cominciò dall'orologio. Era un vecchio orologio d'argento, di quelli che diconsi a cipolla, grande come uno scaldaletto, ma d'una solidità e precisione che gli orologini moderni, intisichiti anche loro come i padroni, non conoscono piú. Pà Vincenzo l'aveva ereditato dal padre suo, che l'aveva ricevuto in pagamento da un delegato austriaco, il quale alla sua volta ... , insomma era un magnifico orologio tedesco, che dopo aver segnate molte ore belle e brutte ai vecchi di casa, continuava a segnare al nuovo e ultimo padrone un tempo inutile. Dopo aver tentato due volte di venderlo come orologio, spaventato del poco o nulla che gli offrivano nelle botteghe, provò a spacciarlo come oggetto antico e fu piú fortunato. Un rigattiere che sta di casa in San Vito al Pasquirolo, che forse era sulla traccia d'un oggetto simile, dopo un lungo tirare si rassegnò a dare trentacinque lire, una somma favolosa in confronto di ciò che gli offrivano gli altri, ma lo acquistò come roba fuori d'uso, non come orologio. Demetrio nel venir via provò un senso di rincrescimento e di dolore, che finí, a furia di pensarci, in un altro senso piú profondo e misterioso di mortificazione. Si paragonò al suo vecchio orologio di Vienna e si accorse che anche lui era un oggetto fuori d'uso, colla differenza — sempre qualche differenza! — che per trentacinque lire nessuno l'avrebbe voluto. La grossa cipolla riempiva di solito un taschino del panciotto, premendo sulle costole a sinistra, facendo un grosso e un duro che il corpo era abituato a sentire, come una parte di sé stesso. Ora quel taschino vuoto e floscio che pendeva giú, dava un senso di freddo e di mancante, come se coll'orologio avesse levata una costola; e piú volte nei movimenti di distrazione le due mani andarono a frugare sull'orlo della tasca, irritate di non trovar subito la chiavetta di ottone, che sporgeva attaccata a due cordicelle di seta. Piú melanconico di notte. Nelle ore di veglia — e adesso gli capitava spesso di non poter dormire — era solito sentire il tic tac del vecchio amico, che vegliava con lui nell'alta e oscura solitudine sopra i tetti e che gli teneva una cara compagnia. Non è il caso di dire che in quel tic tac, ingrossato dalla cassa armonica del tavolino, egli sentisse la voce dei vecchi che avevano scaldato l'orologio col calore del loro corpo e che avevano da un pezzo finito di battere il loro tempo: questo potrebbe essere della poesia e del romanticismo. Ma è certo che egli vegliava volentieri colla sua "vecchia cipolla", e nell'accordo dei palpiti tornava a rivivere, guardando nel buio, molte pagine della sua vita passata, risuscitando immagini lontane, che davano quasi il senso d'una vita vissuta in un altro mondo. Anche questo: t-o-to ... finito! Eppure in fondo a questa catastrofe, benché si sentisse quasi schiacciato dalle sue stesse rovine, — va a spiegare anche questi misteri ... — non gli dispiaceva d'aver cantato, almeno una volta, una bella verità a un potente. Gli era cara, dolce, consolante l'idea d'aver osato alzare la voce —lui solo in mezzo ad una bega di ipocriti e di maliziosi — per difendere l'onestà di una povera donna. — Egli solo aveva avuto il coraggio di rispondere alle perfide malvagità del Quintina, alle offese del commendatore, parlando chiaro, chiamando gobbo il gobbo, vile il vile, sollevando di peso, quasi sulle sue braccia l'onestà di Beatrice al di sopra del fango. Cesarino non era uscito dalla sua fossa ad aiutarlo; e nemmeno il signor Paolino delle Cascine s'era fatto vivo in quel momento. Di quell'opera buona e di coscienza il merito spettava a lui solo; nulla di piú giusto quindi che ne godesse egli solo l'intima e gelosa consolazione. A questa coscienza si appoggiava come a un bastone, e se ne faceva quasi uno scudo. No, non avrebbe cambiata la sua coscienza orgogliosa con quella del suo superiore e de' suoi adulatori. Paolino, piú fortunato di lui al di fuori, di dentro non era né capace, né degno di certe convinzioni. Egli sí; c'è il suo tornaconto anche a soffrire per la giustizia. Con questa orgogliosa sicurezza di sé, qualche giorno dopo la burrasca, come se nulla fosse accaduto, andò passino passino in Carrobio, montò le note scale, suonò il campanello. Sentí un passo piú greve del solito, la chiave girò nella toppa, e i due cugini si trovarono in faccia l'uno all'altro. "O Demetrio!" esclamò Paolino, aprendo le braccia e stringendo poi la testa del cugino nelle mani grandi come foglie di zucca. "Beato chi ti può vedere, Paolino!" "Vuoi dire che merito d'essere bastonato? Hai ragione. Tu sei stato molto malato e non mi son lasciato mai vedere. Ma se sapessi quante cose in questa testa ... ." "Sappiamo tutto." Demetrio, mentre deponeva il cappello e il bastone, diede ascolto al cuore e si rallegrò di sentirlo quieto e rassegnato. Il passo piú difficile è quello della soglia, dice il proverbio: ed egli l'aveva fatto "C'è Beatrice?" "È di là. È venuta in questo momento la sua sarta." "E i ragazzi?" "Son presso la signora Grissini. Aspettano Ferruccio che oggi s'è vestito da prete." "Son venuto a disturbarvi?" "Birbante, tu fai delle maligne supposizioni." Paolino prese il buon cugino sotto il braccio e lo trascinò nel salotto, dov'era ancora stesa la tovaglia. "Qui si pranza." "Abbiamo finito. Sono scappato a Milano per combinare la faccenda del domicilio legale. È necessario che Beatrice, per non perder tempo, si stabilisca subito in campagna. Abbiamo scelto Chiaravalle." "Lei dunque ci ruba la signora Beatrice" disse Demetrio con un tono di recitativo d'opera. Ascoltò di nuovo il suo cuore: e gli parve di non sentirlo piú, come l'orologio. "Questo andare e venire è noioso per tutti. La voce del matrimonio è corsa, e i vicini vogliono dire ciascuno la sua. Un po' di campagna farà bene anche ai ragazzi." "Va bene, va bene." Sedettero davanti alla tavola dov'erano rimasti gli avanzi del pranzo. Non era piú il piatto di carne bollita o di pesce stantío, o il pezzo di vecchio formaggio che un certo Demetrio soleva portare a casa nella cesta, lesinando sul quattrino: ma si vedevano molte bottiglie in tavola, dei piatti non troppo puliti, dei cartocci di dolci, e un mezzo panettone. L'abbondanza cacciata dall'uscio era tornata dalla finestra. "E dunque, sei proprio contento, Paolino?" "Se io sono contento?" ripeté il cugino, come se tornasse indietro per prendere la corsa. "Bevi, Demetrio." "Non bevo, grazie." "Un gocciolino ... ." "Mi farebbe male." "È un vino bianco dolce che faccio io." "Un'altra volta ... " insisté Demetrio, voltando di sotto in su il bicchiere, per non voler assaggiare il vino dell'altrui felicità. "Verrai un giorno alle Cascine. Sento anch'io che sono un mostro d'ingratitudine. Tu mi dimandi se io sono contento ... , capisco: è un rimprovero." "Che rimprovero!" "È un rimprovero giusto e meritato, perché io avrei dovuto darti subito questa notizia, scriverti una parola, farmi vivo una volta. Ma se ti dicessi che ho perduto la testa?" "Capisco ... del resto ... ." "Dopo che ho sofferto tutte le pene del purgatorio — come ti ho contato — dopo che senza Beatrice mi pareva che sarei morto asfissiato, quel giorno che la Carolina tornò a casa colla fausta notizia che tutto era combinato, che essa aveva detto di sí, che era contenta, eccetera, eccetera, crederesti che io son rimasto freddo e indifferente come questa bottiglia?" Paolino prese la bottiglia, la collocò con un colpo in mezzo alla tavola, indicandola col dito. I due cugini rimasero un momento immobili a contemplarla. "Misteri del cuore umano!" esclamò Demetrio, usando una frase di un suo vecchio ragionamento. "E cosí fu per due o tre giorni. Uscivo di casa la mattina, andavo in campagna, per istinto, come un cieco, che ha gli occhi aperti e non ci vede, scorgevo gli uomini alla lontana, ma non capivo quel che mi dicevano. Tratto tratto mi arrestavo di botto per chiedermi se ero io che dovevo sposare Beatrice — alle Cascine la chiamavano la bella vedovina. — Non poteva essere che un sogno anche questo come ne avevo fatti altre volte, che poi sfumavano al cantare del gallo? Per accertarmi che non era un sogno, toccavo colla mano i sassi, le piante, mi davo dei pizzicotti, facevo fin dei salti al sole per vedere se con me si moveva anche l'ombra del mio corpo ... ." "Ah! ah! ah!" proruppe Demetrio con una risata larga, aperta, esagerata apposta per spaventare qualche cosa che si moveva in lui. "Bevi, Demetrio ... ." "No, caro ... , e poi?" "E poi cominciai a capire qualche cosa. La Carolina anche in questa faccenda mi aiutò come si aiuta un bambino da latte. Se avessi dovuto muovermi e fare da me, morivo vergine e martire, caro Demetrio." Paolino vuotò il bicchiere del suo vin bianco dolce. "La Carolina mi condusse a Milano una volta per la presentazione, — tu eri malato con una gran febbre quel giorno — mi insegnò quel che dovevo dire, precisamente come si fa alla dottrina cristiana: "Chi vi ha creato e messo al mondo?" scelse lei dall'orefice il primo regalo, e mi tirò su per queste scale come si tira — scusa il paragone — un vitello per le orecchie ... ." "Ah! ah!" tornò a ridere Demetrio. "E poi?" "Una volta seduto vicino alla sposa mi pareva di essere un campanile in suo confronto: io non sentivo che sonar campane nelle orecchie. Parlò sempre la Carolina, che ha tutte le chiavi delle guardarobe e anche quella del mio cuore. Per me, se mi facevano un salasso, giuro che non mi veniva una goccia di sangue. A poco a poco la lingua si snodò. Due giorni dopo venne lei alle Cascine ... ." "Ah sí?" "A casa mia sono piú a posto. L'ho condotta a vedere gli asparagi, i meloni novelli, il molino, il torchio dell'olio e cosí ho potuto salvare l'onore delle armi. Un'altra volta son venuto solo a Milano — tu cominciavi a star meglio — e a furia di mescolare le carte il gioco s'impara. Ah, Demetrio!.." soggiunse lasciando cadere un gran colpo di mano sulle spalle del cugino "quando verrà quel giorno, tu vedrai Paolino volare come una farfalla. Giugno, luglio, agosto: s'è fissato per il matrimonio il 24, giorno di san Bartolomeo." Paolino, colto da una improvvisa tenerezza, alzò gli occhi al soffitto, e non li abbassò finché fu sicuro di essere un uomo e non un ragazzo piagnulone. Demetrio, rannicchiato in sé stesso, quasi rimpicciolito nelle spalle, — fatte sottili dalla malattia — andava grattando coll'unghia dell'indice il tessuto della tovaglia. Passò un momento di silenzio, nel quale scoppiò come un fuoco di festa una risata di donna allegra. L'uscio della stanza si aprí e Beatrice, con indosso un magnifico vestito di seta color ulivo, appuntato con spilli, corse di qua a prendere le forbici, chiedendo scusa alla bella compagnia; entrò e scomparve come una visione nel morbido fruscío del lungo strascico fosforescente. Paolino abbassò gli occhi. Demetrio sollevò i suoi. Quei quattro occhi s'incontrarono, si fissarono, si parlarono. Quelli di Paolino parevano dire: "Hai visto? ho ragione di perdere la testa?" Gli occhi di Demetrio avevano invece un'espressione acuta di invidia e di gelosia. La bocca gli si riempí di un fiotto di saliva amara, che si sforzò di inghiottire. Si spaventò come se gli venisse addosso il mal caduco. Abbassò in fretta gli occhi, che sentí asciutti e quasi bruciati nell'orbita, e gli parve di vedere una chiazza sanguigna scorrere come una macchia di vino sul bianco della tovaglia. Paolino non era tal uomo da accorgersi di questi piccoli fenomeni psicologici, e tutto pieno de' suoi pensieri non aveva posto per i pensieri degli altri. Il caso aiutò l'uno e l'altro a levarsi da quel silenzioso imbarazzo. I due maschietti entrarono in furia ad annunciare che Ferruccio, vestito da pretino, veniva su per le scale. I voti del Berretta erano compiuti, e il piccolo ricciolone, tosato come una pecorella e vestito di roba larga e regalata, veniva a farsi vedere, a salutare i vicini prima di entrare in seminario. Il Berretta, piú felice egli del papa, andava mostrando quel suo figliuolo in nicchio e in veste talare a tutti gli inquilini, che, a seconda degli umori, gliene dicevano di belle e di brutte. La signora Grissini, tutta commossa, Arabella, Mario, Naldo, un po' mortificati, Beatrice, l'Elisa sarta, Demetrio stesso in curiosità, e, in fondo, mezzo nascosto dall'uscio, anche Paolino, uscirono a vedere questo nuovo chiamato da Dio, che col ciuffo tagliato, coi capelli rasi dietro le orecchie, veniva su coperto da un enorme e peloso cappello a tre punte, non suo, col passo impacciato nelle pieghe della veste, colla bocca aperta, colle mani ancor nere d'inchiostro di stampa, che non sapeva dove collocare. Il Berretta, nel suo solito panciotto di fustagno sparso di filaccie, esprimeva la sua paterna contentezza, ridendo in faccia a tutti e alzando ora una mano ora l'altra, come una marionetta. Arabella per un po' fu presa anche lei dalla curiosità e non tolse gli occhi da quel gran cappello: ma assalita a un tratto da una strana commozione, si attaccò al braccio dello zio Demetrio. Ferruccio, il bel ricciolone che essa aveva istruito nel catechismo, il suo piccolo cavalier servente, quando fu in cima alla scala si levò il cappellaccio e si atteggiò in una posizione stanca e umiliata di brutto martire in vergogna. Pareva un uccello spennacchiato. Quella sua testa rasa, quasi ignuda, da cui uscivano le orecchie come due manichi d'una marmitta, quell'annientamento morale e fisico di un bel ragazzo, trasse dal petto della fanciulla un tale scoppio d'ilarità, che per vergogna essa nascose il volto nel panciotto dello zio Demetrio. Questi la trasse in un cantuccio dell'anticamera, e stava per dirle che non bisognava ridere: ma quando le sollevò la testa, vide che invece erano singhiozzi, e che la faccia era un torrente di lagrime. "Ah poverina!" balbettò lo zio Demetrio. "Cominci male anche tu ... ." La curiosità della gente fu in quel momento sviata da un altro grande personaggio, che montava le scale, con un catafalco in testa. I ragazzi, guardando tra i ferri del pianerottolo, non potevano discernere chi fosse e che cosa fosse. "Chi è?" "Che roba è?" "È Giovann dell'Orghen ." "Che cosa porta sul capo?" "Guarda ... che diavoleria ... !" Demetrio si avvicinò a Beatrice e le disse con una voce di umiltà e di preghiera: "L'altro giorno mi avete manifestato il desiderio che fosse vostra: l'ho fatta aggiustare alla meglio, e non potendo regalarvi altro per la circostanza ... ." Giovann dell'Orghen veniva su col passo pesante del sordo, portando sulle spalle e sul capo come un'enorme cuffia la vecchia poltrona di vacchetta a grosse borchie, l'ultima memoria della mamma, salvata dal naufragio di ca' Pianelli. Il piú felice uomo del mondo rideva sotto quel catafalco, come un santo nello splendore della beatitudine. L'Elisa dovette fuggire in camera a buttarsi colla bocca sul cuscino per non farsi sentire. E fece ridere anche la signora Pianelli sulla magnifica idea di regalare a una sposa una poltrona di arcivescovo.

Giacomo l'idealista

663181
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Sentendosi abbastanza sicuro sulle gambe, provò a scendere le scale, e quando fu abbasso, nella cucina, si accostò al camino, dove bolliva sommessamente un caldano, e sedette nella poltrona di legno del pà, che era stata la poltrona dei vecchi, sempre davanti a quel medesimo camino dalle panchette logorate, dagli alari consunti, dagli oscuri ripostigli, che contenevano le cose dei morti. Ogni generazione vi aveva dimenticato qualche cosa, chi una pipa, chi una scatola di fiammiferi, chi una tabacchiera, chi una moneta, chi un cartoccio di tabacco, chi un libro da messa o un rosario, o un bastone, o un falcetto; e si sa che ogni cosa lasciata indietro ha dentro di sè un poco dell'anima di chi è partito, come resta il calore della vita per breve tempo anche dopo che la vita ha cessato di battere nel corpo. Molta cenere era stata portata via e dispersa dal giorno che davanti alla pietra scolpita del camino era stata accesa la prima fiamma; e ogni cenere morta contiene un pugno delle nostre speranze! Ma nessuno de' suoi era stato avvilito e amareggiato come avevano avvilito e amareggiato il filosofo di casa, il grand'uomo, che intorno a quell'affumicato edificio di casa sua aveva creduto d'innalzare un tempio ideale ricco di pietre preziose. Non era passato un mese dal dí che aveva sognato di far sedere Celestina al suo fianco, lí davanti a quel camino, e di rinnovare con lei nella casa dei Lanzavecchia un nuovo patto; ma intanto ch'egli costruiva i sogni suoi nella cenere, c'era chi faceva di lei e dell'onore di tutti e due il piú orribile strazio. No, no, nessuno dei vecchi padri era passato per queste verghe; nessuno avrebbe saputo immaginare per sé una simile ignominia. Questi era riservata al discendente filosofo, al raffinato analizzatore della vita, perché avesse con comodo a scriverne un bel libro. Questo gli andavano ripetendo con ironico aspetto le sedie, le casse, gli utensili accostati al muro, la polverosa cicogna, che alzava il collo dimezzo ai trespoli consunti sull'armadio, questo gli suggeriva ogni altra apparenza, a cui l'occhio, l'abitudine, la memoria avvessero attaccato un po' della sua vita. Che stava egli a tener in conto questa sua miserabile esistenza senza bene, senza coraggio e senza rassegnazione? L'odio, che gli stillava dal cuore, non faceva che corrodere come un acre veleno le sue viscere, senza infondergli l'ardimento d'una vendetta o di una qualunque azione vigorosa, che giovasse alla sua dignità. Il suo posto nel mondo non poteva essere che un oscuro nascondiglio, come si riserva agli arnesi scassinati; e allora che giovava il vivere? Ancora una volta si mosse e girò intorno alla tavola, non potendo star fermo su questi aculei; ma nell'alzare gli occhi, un cupo pensiero si fermò sullo schioppo da caccia a due canne, attaccato per la bandoliera lungo il muro sulla cappa del camino. Era un vecchio schioppo di buona fabbrica bresciana d'un calibro solido e pesante, che nelle mani del pà non aveva mai sbagliato un colpo. Giacomo osservò che uno dei cani aveva la capsula, segno che c'era dentro una carica. Con un braccio appoggiato alla sponda della tavola, a cui cercava di reggere il corpo affievolito, si domandò con terrore se il caso ha i suoi suggerimenti, socchiuse gli occhi, volò con l'immaginazione a quel che poteva essere di lui al di là d'un gesto fatale. Un gran picchio di cuore gli fece sentire il rombo della schioppettata e si rimirò disteso col petto squarciato attraverso la pietra del camino. Cedendo al fiero invito, montò sopra una sedia, distaccò il fucile, alzò il cane sulla capsula girò gli occhi intorno. Proprio in quell'istante presero a suonare le campane del Sanctus della messa. - Povera donna .! - mormorò: e buttò la capsula nella cenere. La notte, ebbe un breve ritorno di febbre; tanto che il dottore gli consigliò, anche in vista della brutta stagione, di restare a letto qualche giorno di piú.

VECCHIE STORIE

663202
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

663224
Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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UNA SERENATA AI MORTI

663951
Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Rosina vieni abbasso È un'ora che son qui, Già la luna sen va a spasso E succede chiaro il dì. - Indispettito il padre di Rosina… ? continuò con voce da tiranno il dottore... - Ma io ho sete ? conchiuse Ambrogione: ? Ghita porta dei peperoni, del formaggio e mezza brenta di vino... Ho sete, ho fame... Spazzacamino... Quasi tutti assaggiarono il formaggio pro forma, e solo per rendersi più abili a bere. Alcuni non poterono mandar giù un boccone. Solo Protaso e Gregorio ne fecero un buon striscio. - Cantiamo... La serva va in cantina.. E il prete... - Auff... Andiamo a fare la serenata... Non si resiste più qua dentro ? esclamò il bel Rolando. Rosina vieni abbasso È un'ora che son qui... - Andiamo! - concesse Ambrogione - ma si portino con noi i viveri. Uscì nel cortile; sollevò una carrettella di sotto la travata, vi aggiogò il carbonaio e il fabbroferraio. Vi caricò la spinetta, un canestro di bottiglie, un altro di vivande, una mezza tinozza di vino... Allons! marchons - Partons pour la gloire et pour la Syrie. Il denso silenzio campagnuolo era rotto da quel carriaggio di briaconi notturni. Tutti si guardavano le pance illuminate dal chiarore della luna. Arrivati sul sagrato, videro la piazza colma, bianca, di quell'uniforme luce lunare, a cui faceva da nera sponda l'ombra dei tetti e dei balconi. Ambrogione si fermò a pensare, inorecchito come presentisse dell'acqua, e poi disse: - Io non ho paura, so nuotare. In un baleno si spogliò; e tenendo in bocca il fagotto degli abiti, traversò la piazza a nuoto asciutto. Il seguito col carro gli corse dietro come a Faraone nel Mar Rosso. Infatti il grido del dottore fu: - Viva Mosè in Egitto! Raggiuntolo dall'altra parte, il bel Rolando si permise di dirgli: - Signor Ambrogione, sarà meglio andare a casa... - Vai tu, piccirillo!... Va' a pigliare la poppa... Con qualche fatica il gigante cotto riuscì a rivestirsi, dopo aver provato invano a mettersi uno stivale in testa. Trasse in disparte il bel Rolando, gli pose in mano una chiave, e gli sussurrò: - Va' tu con mia moglie. Al giovinotto la voglia di profittarne fu cacciata dalla certezza che l'indomani sarebbe stato pugnalato. Balbettò: - No... no... grazie! - ...Come? Grazie!... Il bel Rolando si sentì livido da una guardata velenosa nel collo... - Ho sete! - ricominciò Ambrogione... E faceva stappare delle bottiglie... Era il tocco dopo la mezzanotte; al rumore dei tappi che saltavano via, si unirono i ventiquattro rintocchi dei morti. Passò per la testa di Ambrogione più chiara una torbida idea. Il medico disse: - Adunque facciamola questa serenata. Allora tutti si volsero verso il balcone della stanza, dove dormiva la figliuola del Sindaco. Il medico salì sul carretto a martellare la spinetta... Ambrogione allargava e rinchiudeva poderosamente il mantice della fisarmonica, l'organista inviperiva sul violino, il bel Rolando faceva vibrare mestamente la chitarra. Tutti cantavano il coro della Mascherata dei quaranta pagliacci, che si adattava da per tutto: E la bella Borghezzese Sarà sempre il mio sospir. - Adesso andiamo in barca - sentenziò Ambrogione, come un lucido dirizzone l'avesse preso; e avviò i due bipedi aggiogati al carretto sulla strada che conduce al torrente Borghera. Quando si trovarono un po' dilungati dalla piazza, si accorsero che il dottore ed i suoi partitanti si erano squagliati. - Vigliacchi! - borbottò Ambrogione... - Ma, tanto d'avanzato!... Berremo tutto noi. - È vero! - approvò l'organista, tremolando fra la paura e il freddo. Quando giunsero in riva alla Borghera, Ambrogione sventrò come un bombardone un interminabile euhpp! per svegliare il barcaiuolo nella chiatta. Impaziente, assaltò egli stesso una barca e snodò la fune che la legava ad un piantone. Quindi invitò i suoi seguaci ad accompagnarlo in barca. Vedendo che il barcaiuolo, svegliatosi, si era messo al governo del timone, molti si affidarono di accettare l'invito. Ma l'organista rifiutossi. Ambrogione lo scosse e ordinò ai bipedi del carretto: - Bipedi, gettatelo nell'acqua. L'organista s'inginocchiò sul ghiareto. Pareva una scena di sacrifizio umano. Dove l'onda era crespa, la luna faceva succedere un movimento di carta dorata, e inargentata; e dove l'acqua spaziava liscia, si appozzavano splendori. Qua e là guizzavano larghi nereggiamenti, come schizzi immani di seppia. Nevicavano i fili d'erba sulla riva; la ghiaia imbruniva nei contorni morbidi dell'ombra, e mandava qua e là scintillamenti ossei. Ambrogione si mise a ridere, e si contentò che l'organista rimanesse a terra, purché suonasse il violino in ginocchione. La brigata in barca si versò da bere; e poi cominciò a cantare e a suonare. Dalla sponda l'organista la accompagnava raspando il violino, genuflesso come un condannato a morte. La musica sull'acqua faceva un effetto magico; diventava più fina, più trasparente, più godibile... Pareva trasmessa per mezzo del telefono da un paradiso incarcerato nel centro della terra. La ripercussione delle onde sonore sulle onde liquide era un incanto... Le fantasie logore dei poeti avrebbero ridetto che i venti, i quali passeggiano sui fiumi, sostavano innamorati sull'ali ad ascoltare, e i pesci boccheggiavano le armonie a fior d'acqua. Ambrogione spicciativo, brutale nei suoi capricci, quietò appena cinque minuti in barca, poi fissando un nero cespo di ontani sulla riva lontana, ordinò che si ritornasse a terra. Là annunziò solennemente: - Andiamo a fare una serenata ai morti. Poi verrete a casa mia a mangiare il cardo con la salsa calda e i tartufi. Nessuno gli rispose di sì. Anzi l'organista, assunto un coraggio apostolico, da uomo di chiesa con annesso stipendio, disse: - No... Non va bene... È una profanazione... I nostri vecchi... Ma Ambrogione minacciò: - Vi dico che verrete con me, dovessi spingervi innanzi a colpi di revolver. Protaso, al pari del resto della brigata, ammutolì. Tutti camminavano, come la biscia all'incanto. L'organista non vedeva più splendere la luna, fuorché sulla punta delle sue scarpe. Ruminava in mente il modo di evadersi: pensava e ripeteva: - Ah! se fossi rimasto a casa, chiuso col chiavistello... Ritrovandosi sulla piazza considerò che poteva con una stranezza minore evitare la maggior pazzia di Ambrogione, e gli propose: - Se andassimo a far la serenata sulla punta del campanile! - L'idea non è cattiva... - Io so dove sta la chiave... È qui. - Pigliala subito. L'organista, tosto levato un mattone da una buca presso la finestra del campanaio, vi trovò la chiave del campanile. Ambrogione si caricò sulle spalle la cesta colle bottiglie rimaste, e cacciandosi innanzi il bel Rolando e l'organista cogli strumenti, salì poderosamente le numerose e ripide scale legate l'una in vetta all'altra nell'interno della torre. Egli era così rigoglioso che pareva il succhio sanguigno di quell'albero in muratura. Giunti nel castello delle campane si affacciarono al firmamento. Che dominazione! Alcuni cortili di case, che da basso figurano in lontananza fra loro, qui parevano essere proprio riuniti sotto gli sputi dal campanile. Ambrogione guardò fieramente nel cortile di sua casa, quasi schiodando colle pupille le impannate della stanza coniugale. Era scuro; sua moglie dormiva... Egli rapidamente si tranquillizzò. - Ho sete... Come si deve bere bene qui sopra in excelsis Deo!... Ci deve essere ancora nel canestro un'ala di pollo... Adesso... soniamo... Le ondate sonore si diffondevano spaziose, quasi arricchivano di forza i lombi dei suonatori; e ad un tempo un senso di benessere igienico, estetico, alleggeriva, sollevava, rassicurava tutti. Finita la prima suonata, l'organista si accorse che gli altri della banda non lo avevano seguito. Ambrogione guardò in giù, e vide ch'era sparito anche il carretto colla spinetta. - Manigoldi! Poi si ritornò a suonare... Un ampio fremito ondeggiava intorno. Sbucò un gufo spaventato e strisciò come un velluto ombroso sulla testa di Ambrogione. - Alt! - disse egli con voce da capitano di nave. Quindi con entusiasmo d'oratore ubbriaco: - Andiamo al cimitero. L'organista, scendendo per le scale, avrebbe voluto rompersi il collo, pur di non seguire Ambrogione nella sacrilega impresa. Ma, a farlo apposta, si trovò in istrada saldo e netto sulle gambe. Si ricordò un'altra volta, che gli altri si erano discostati; e questa solitudine gli aumentò il terrore. Ambrogione se lo cacciava dinanzi a piattonate nella schiena e a pizzicotti nei fianchi. Osava persino minacciarlo barzellettando: - Se non trottate, vi rovescio addosso il campanile, e vi... schiaccio... Il bel Rolando andava di per sé di buon portante. Quando si fu fuori del paese, all'organista si piegarono le gambe. Camminava ginocchino come un prigioniero sfinito. Comparve il viale del camposanto. Protaso assalito da un brivido non trovò altra ripresa fuorché addossarsi ad un albero colla testa penzoloni. Ambrogione vincendo la ripugnanza di accostarsegli, si mosse ferocemente per ghermirlo, e staccarlo dall'albero: - Troio! L'organista si difese col sonare il violino, traccheggiando in tutta la persona. Ambrogione ne fu disarmato, colpito da un'idea. - Pitocco! Sta' pure lì; e suona. Ma non cessa dal suonare... se no, ti fulmino con la pistola. Protaso seguitò a suonare, come l'avesse morso la tarantola. Sfregacciava con l'archetto nell'impugnatura, e quando arrivava le corde sul cavo armonico, mandava raspature gemebonde, sdruccioli, guizzi di note che facevano rizzare i capelli: sonava ripiegando a pancia, come un soffietto, rompendosi, curvandosi, aprendosi come un compasso; si alzava, si torceva come uno spirale, traboccava in singulti, come se recesse secco sopra un invisibile leggio. Ambrogione e il bel Rolando continuarono il cammino da soli. Ad un tratto quest'ultimo si sedette sopra un paracarro. - Che? anche tu?... ti ballano i morticini davanti li occhi?... O temi che venga Caterina dalla Maternità di Torino a tirarti i piedi, o la bionda Nina al cimitero di Vercelli?... Piangi?... Devi suonare, suonare... su, via, alzati! dico... Veniamo ai voti fra voi due. Che dici? Bestia! pari e dispari... Non ti muovi? Sei freddo come un marmo? Devo seppellirti...? Su, gratta la chitarra... Il bel Rolando con la mano tronca, febbrile, trovò i1 coraggio di straziare un accordo. Ambrogione tranquillossi. - Bravo! stai lì... lascerò dietro due colonne vive, di musicanti, dico musi... cani... Fermi...! Olà! Quindi con l'impeto di un masnadiero e collo sgarbo di un orso prese d'assalto il muro del cimitero. Ritto sulla vetta, quel truce gradasso dominava nella notte. Dentro il camposanto scintillavano le croci intagliate nel chiarore lunare, quasi armi apparecchiate per combatterlo. Egli allargò spaventosamente la fisarmonica con un muggito interminabile, come se aprisse un abisso di sonorità sotto il pedale di un organo stregato. Quindi la rinchiuse con un soffio da smorzare la luna e l'intelligenza. Poi si diede ad agitarla, divincolarla con una frequenza di movimenti di su, di giù, nel mezzo, cagionando tremolii concentrici, cicalecci di vecchie sdentate, civetterie rabbiose, sospiri strozzati, lordure musicali, stomachevoli. In un punto si sentì passare un cane vicino all'orecchio, e poi sollevarsi un cespo nero dentro il camposanto. Saltò a capo fitto nell'agone. Era una mischia orribile. Aveva contro di sé tutti i morti... C'erano le nonne che lo minacciavano con le rocche; tutti i parroci, di cui si legge l'iscrizione nel corridoio della parrocchia, lo allontanavano coll'aspersorio. Don Beltrame Coraglia gli buttava gocce roventi... Contadini, spose di duecento anni fa, gli si avventarono contro colle unghie ricurve... Gli innocenti tentavano di fustigarlo colle verghe. Si chiudevano vecchie tabacchiere; sentì scricchiolare il pettine della sua povera mamma sotto la pesta sanguinosa. Scoppiavano fragorosamente i cadaveri nelle tombe... Colonne di fuoco gli ballonzolavano attorno, ed egli, orribile clown funereo, combatteva contro tutti col soffio della fisarmonica. Correva, rinculava, avanzavasi all'impazzata, spingendo, ritraendo, agitando lo strumento, come dovesse purgare ogni angolo col vento e collo strazio della sua musica. Ma fu sopraffatto... Gli furono addosso le conocchie, gli aspersori, le unghie... lo ardevano i fuochi... lo strozzava il fetore, lo impacciavano le vesti, lo impauriva, assordava il fragore tumultuante degli scoppi cadaverici... tutto lo toccava, lo forava, lo opprimeva... Sentì sotto le piante il petto tenero di un bambino mortogli nelle fasce. Balzò in aria, e si scatenò verso il muricciuolo. Ne guadagnò la cima, lasciandovi l'impronta di due guanti sanguigni. Ululava, ululava così tremendamente, che i boari levatisi alle due antimeridiane per dare il fieno nelle stalle, recitarono un De profundis. Nessuno seppe precisare quanto egli abbia corso. Lo si poté congetturare il giorno dopo, quando si trovò l'impugnatura della fisarmonica dentro il cimitero e la carta rossa del mantice a un miglio di distanza, e un vaccaro scoperse poi le linguette e le molle d'acciaio, e i bottoni di porcellana sotto il fogliame in un bosco a un altro mezzo miglio di lontananza. Egli fu rinvenuto al mattino sull'orlo di un fosso, coi calzoni spalmati di fango, la giacca a brandelli, il petto scoperto, scalfitto e intriso d'erba fra la neraggine irsuta della pelle, la faccia chiazzata e logora come invecchiata, la schiuma alla bocca, gli occhi lividi e ingigantiti, i capelli pesti e insafardati di letame, ma tuttavia con un anelito da Mongibello. L'organista venne immediatamente licenziato con un motivato verbale del Consiglio comunale e della Fabbriceria della parrocchia, e dovette risalire in un paesello di montagna per raccattarvi polenta e castagne tanto da poter campacchiare senza la sicurezza di scoprire un altro tesoretto musicale del maestro Caronti. Stavolta anche il bel Rolando fu proprio costretto a sloggiare dal suo nido; ossia venne esiliato dal paese, come ne ragionano le vecchie, quando fanno il pane al forno. I maldicenti invidiosi suppongono, che egli faccia da forza armata e protettrice a una famosa mondana d'ambasciatori. Invece i suoi parenti annunziano (ed è la verità) che, dopo avere lavorato al Gottardo è disegnatore in un'officina a Londra, e si fa onore e manda giù buone notizie con vaglia internazionali. Perciò la compagnia del Santo Cordone assicura che egli ritornerà presto in paese per erigervi una nuova cappella in suffragio delle Anime. Il dottore dovette penare per guarire Ambrogione, molto più che non abbia faticato allora, quando il camallo si era rotta una gamba sullo stradone. Non potendo il grosso cottimista pei suoi interessi e per la famiglia abbandonare il paese, sentì con molta amarezza sopratutto per riguardo alla moglie e alle sue creature una terribile notificazione fattagli dal Parroco: "Ambrogione, siete irregolare! Siete incorso nella scomunica maggiore!". Per farsela togliere, il cottimista spinto dalla moglie, egli già così fiero, accettò la penitenza canonica di girare a porte chiuse quattro volte intorno all'altare, come un ciuco stangato e ricevette poi veramente, dal Prevosto, parecchie bastonate sulla testa e sulle spalle con accompagnamento di parole latine ed acqua benedetta. Il suo personone di orso domato soffrì un gran ribasso; non frequenta quasi più l'osteria, dove il dottore per un po' di tempo imperò esclusivamente, e poi scadde anche lui di moda essendosi sbandata anche la sua clientela dei frottolisti. Appena si parla di musica e di morti, al povero Ambrogione si imbrusca e si intenebra la faccia.

Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Parecchi urlano: "abbasso!" senza sapere chi vogliano giù. Ed ecco da capo i grandi cappelli dei carabinieri, da capo le guardie. Invano i sei si sgolano a protestare, le grida di abbasso e di morte ne coprono la voce. Un delegato fa dare gli squilli. Al terzo succede un fuggi fuggi. Fugge anche la Deputazione col tabaccaio a capo; ma, fuggendo, i sei riescono a trar con sé chi l'uno e chi l'altro dei popolani meno infuriati, con la promessa di dare in un luogo opportuno spiegazioni che non si possono gridare in piazza. Riparano in un deposito di materiali da fabbrica, cinto di un assito. Parecchi li seguono, filtrano, a uno a uno, per l'uscio dell'assito; e il tabaccaio, pensando avere nel petto cose da far crollare il mondo, parla in cospetto della piramide di Caio Cestio, che aspetta indifferente il passar dei secoli fino al silenzio, alle rovine, alla Selva. Il tabaccaio parla, con voce misurata, fra una trentina di facce attente. Dice che il Santo di Jenne non è sicuramente in prigione, che non si sa dove sia, ma che si sanno altre cose, pur troppo. E dice le altre cose. Se le avesse dette alle turbe scendendo dal tram, lo avrebbero fatto a brani. In Questura ridono del Santo e di chi gli crede. Raccontano ch'egli ha un amante, una signora molto ricca; che nella notte è stato interrogato dal Direttore generale della P. S. per ragioni non tanto belle; che quando è uscito del ministero, ha trovato l'amante che lo attendeva in carrozza ed è partito con lei. "Io non volevo credere" conchiude il tabaccaio "ma ecco! Adesso dica lui." Uno dei sei, oste a Santa Sabina, si fece a raccontare che sua moglie aveva udito nel cuore della notte una carrozza fermarsi presso l'osteria; che si era alzata e aveva veduta la carrozza, un legno signorile, con il cocchiere e il domestico in tuba; che il domestico stava allo sportello e aiutava una persona a scendere; che la persona scesa di carrozza era passata a piedi sotto la finestra andando verso Sant' Anselmo e ch'ella aveva riconosciuto il Santo di Jenne. L'oste soggiunse che non aveva creduto al riconoscimento perché non c'era luna ed era piovuto fin dopo le undici, per cui la notte doveva essere stata molto buia; che non avendo creduto neppure aveva parlato; ma che poi, all'udire il racconto della Questura, si era dovuto persuadere. E sua moglie aveva dell'altro a raccontare. Si era alzata alle sei. Fra le sette e le otto era passata una botte andando verso Sant' Anselmo. Poco dopo, la botte era ripassata. Questa volta sua moglie ci aveva veduto dentro il Santo di Jenne. Era pronta ad attestarlo con giuramento. Qui, alcuni fra gli uditori sgattaiolarono dal recinto, corsero a sussurrare le notizie nel quartiere. Ne successe che mentre il tabaccaio e l'oste e i loro amici stavano ancora nel recinto, si fece gente sulla strada di Santa Sabina e un grosso gruppo salì, seguito da due guardie, verso l'osteria. Entrarono nel cortile. L'ostessa ciarlava con un cliente, sotto il pergolato. La interrogarono ed essa rifece il racconto che aveva fatto al marito. La interrogarono ancora, volevano sapere questo e quello, tanti particolari. La donna finì con rispondere di non ricordar bene. Avrebbe portato da bere, da rinfrescare ad essi l'ugola, a sé la memoria. Che! Quelli non erano venuti per bere, glielo dissero bruscamente. Due ferrovieri, attavolati sotto il pergolato, poco discosto, si seccarono di quell'interrogatorio. Uno di essi chiamò l'ostessa, le parlò a voce alta: "Che voglion sapere? L'ho veduto io l'uomo che cercano. è partito stamattina alle otto, con una ragazza, per la linea di Pisa." La gente si volse a lui, lo interrogò e quegli giurò incollerito che aveva detto la Verità, che il loro Santo di Jenne era partito alle otto in una vettura di seconda classe con una bella bionda, conosciutissima. Allora coloro, mogi mogi, se n'andarono. Usciti che furono tutti, una guardia travestita si avvicinò al ferroviere, gli domandò alla sua volta se fosse ben certo di quello che aveva detto. "Io?" rispose colui. "Se sono certo? Che si ammazzino! Non so nulla di nulla, io. Le ho fatte chetare, le ho fatte andare al diavolo, quelle bestiacce. Corrano almeno fino a Civitavecchia, adesso, e affoghino tutti in mare, loro e il loro Santo!" "E allora?" fece l'ostessa. "Dove sarà andato?" "Vada a cercarlo in cantina" rispose il ferroviere "che il fiasco è vuoto e noi si ha sete ancora."

Malombra

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Edith preferiva guardare i prati macchiati dalle ombre di grossi nuvoloni, i tetti neri del paesello, quasi appiattiti fra gelsi e noci; a sinistra e più abbasso della canonica, il lembo di lago che di colà si vede, come lamina d'acciaio brunito, mordere il verde chiaro delle praterie. "Che Le pare, signorina, di questa Italia?" disse il curato. "Non lo so" rispose Edith "ne avevo in mente un'altra, più diversa dal mio paese. Ho veduto in Germania molti paesaggi italiani di pittori nostri, ma i soggetti eran presi sempre a Roma o a Venezia o a Napoli. I viaggi di Goethe o di Heine non me li hanno lasciati leggere. Mi vergogno a dirlo; la più profonda impressione me l'ha lasciata un pessimo acquerello, la prima cosa che mi colpì in una casa dove sono stata dodici anni. Rappresentava il Vesuvio e v'era scritto sotto Scene d'Italia. Era come una picco la macchia rossa sopra una grande macchia azzurra. Solo guardando ben da vicino si potevano discernere le linee della montagna, il mare e una barca piena di figure stranamente vestite. Per lunghissimo tempo non ho potuto figurarmi l'Italia né gli italiani diversi da quella pittura." "È naturale" disse don Innocenzo, che entrava avidamente in tutti gli argomenti curiosi di conversazione. "Guardi; a ragazzi d'ingegno molto acuto io non farei mai vedere negli anni più teneri immagine alcuna di Dio né di Santi, perché quelle immagini possono restar loro profondamente, ostinatamente impresse nella fantasia, a segno, in qualche caso, da rendere assai difficile, più tardi, lo sviluppo di una elevata fede religiosa. Quel vecchione barbuto appiccicato all'idea di Dio, aiuta molto, senza che se ne accorgano, il loro razionalismo nascente. V'ha chi diffida del culto dei Santi per non poterli affatto concepire come spiriti puri, operanti nell'universo; e questo in grazia delle impressioni riportate in fanciullezza dalle immagini che li rappresentano spesso brutti e mal vestiti, seduti sulle nuvole a guardar per aria. Non crede, signore?" Steinegge costretto a ragionar di Santi e non osando scusarsene, stava per dire qualche grossa corbelleria; ma Edith si affrettò a parlare. "Pure" diss'ella "se tutte le immagini fossero di Dürer o del Suo Luino! Colla impressione dei sensi resterebbe una impressione religiosa." "Non lo credo, signorina" rispose don Innocenzo sorridendo e arrossendo. Edith indovinò subito il suo pensiero. Ella riconobbe che in Germania il sentimento artistico era retaggio di pochi, ma soggiunse che lo credeva comune in Italia, benché da quando aveva passato le Alpi fossero apparsi più volte indizi del contrario. Don Innocenzo le confessò ch'egli stesso non ne aveva punto. Il suo Luino gli dava sicuramente gran piacere, ma questo gli accadeva pure davanti ad altri dipinti mediocrissimi. "Non sarà così" osservò Edith "ma se fosse così, Le mancherebbe il buon giudizio artistico e non il sentimento. Sarebbe un fuoco senza luce." Don Innocenzo non conosceva la grazia delicata dell'ingegno femminile colto. A prima giunta Edith non gli era piaciuta moltissimo; gli pareva un po' fredda nella sua affabilità. Conversando con lei mutò presto, come sogliono gli uomini della sua tempra, il primo giudizio. Adesso era ammirato di quella sua parola sempre corretta e semplice ma viva di un sentimento riposto, di un'intelligenza molto fine, molto ardita. "S'Ella venisse al Palazzo, signor curato" disse Steinegge "vedrebbe molti quadri, oh moltissimi belli quadri che ha il signor conte." "Ci vado un paio di volte l'anno e mi pare d'averla veduta anche Lei, colà! ci andrei più spesso, ma so che il signor conte non ama molto i preti..." Steinegge diventò rosso; gli dispiacque d'aver provocate queste parole. "Eh" disse don Innocenzo facendosi alla sua volta di bragia "eh, cosa importa? Non li amo neppure io i preti, sa!" "Ah" esclamò Steinegge stendendogli le braccia come se il curato gli avesse dato una notizia più lieta che credibile. "Non si scandolezzi, signorina" continuò questi. "Parlo degl'italiani. In Italia i preti" (don Innocenzo, con gli occhi accesi, co' denti stretti, faceva suonar l'erre come trombe di guerra) "non tutti, ma molti sa, e i giovani specialmente, sono una trista genìa, ignoranti, fanatici, ministri di odio..." "Si capisce che ne fu seminato" disse Edith, severa, mentre Steinegge metteva la sua gioia in gesti. "Lo hanno seminato e lo seminano" rispose don Innocenzo "e ci cresce intorno a tutti, dico intorno a tutti che portiamo quest'abito; e si perdono anime ogni giorno. Basta, basta, basta!" Guai quando il curato toccava questo tasto; la collera gli saliva alla testa, le parole gli uscivano aspre e violente oltre ogni misura. Ad irritarlo così bastava poco: un numero di qualche giornale clericale che il vicario foraneo, gesuita di tre cotte, gli mandasse facendo lo gnorri, con dei segni ammirativi a fianco degli articoli più acri; una lettera fremebonda di qualche collega bandito dalla curia a parole e perseguitato a fatti per opinioni politiche. Allora cominciava a soffiare, a bollire, a ringh iare sinché rompeva tutti i freni con queste sfuriate gagliarde e finiva come aveva cominciato, buttando fuori frasi rotte, invettive stroncate, stritolate dai denti. Si rasserenava poi subito e rideva con gli amici presenti della propria collera. "Non è mica sempre così cattivo. La vede, signorina" disse piano a Edith, in dialetto, la vecchia serva di don Innocenzo, portando via il vassoio del caffè. Edith non capì. "Dice che sono cattivo, ed è purtroppo vero. Non posso frenarmi. Spero che mi compatiranno. Si fermano qualche tempo al Palazzo?" "Non sappiamo" rispose Edith. "Non sappiamo" ripeté a caso Steinegge. "Scusino; è perché spererei di poter trovarmi con Loro qualche altra volta." Steinegge, conquistato, si confuse in complimenti. "Mio amico, io spero" diss'egli stendendo la mano. "Certo, certissimo" rispose il prete, stringendogliela forte. "Ma prima di partire vengano a vedere i miei fiori." Questi famosi fiori erano due pelottoni di gerani e di vaniglie schierati lungo il muro della casa; oltre alle dalie, rosai e ai begliuomini disseminati per l'orto. "Belli, non è vero?" disse don Innocenzo. "Bellissimi" rispose Steinegge. "Prenda una vaniglia per la Sua signorina." "Oooh!" "Prenda, via, andiamo, ch'io non le so fare, no, queste cose." "Edith, il signor parroco..." Così dicendo Steinegge, con la vaniglia in mano, si avvicinò a sua figlia, che stava un po' discosto presso il muricciuolo. Edith ringraziò sorridendo, prese la vaniglia, l'odorò, ne guardò il gambo spezzato, e sussurrò: "Questo è mite di cuore." Don Innocenzo capì. "Ha ragione" diss'egli umilmente. "Oh no" esclamò Edith, dolente d'aver dette quelle parole e d'essere stata subito intesa. "Mi dica, dove sta Milano?" "Milano... Milano..." rispose don Innocenzo schermendosi gli occhi dal sole con la mano destra. "Milano è laggiù a mezzogiorno, un po' verso ponente, dritto oltre quel gruppo di colline." "Signori" gridò la fantesca da una finestra "se vogliono andare al Palazzo, sarà meglio che facciano presto, perché vuol piovere." Piovere! Splendeva il sole, nessuno s'era accorto di minacce. Pure la vecchia Marta aveva ragione. Dalle montagne del lago venivan su certi nuvoloni più densi e più neri dei soliti che il vento meridiano vi porta in giro. "Marta!" chiamò il curato. "Un ombrello per i signori." Steinegge protestò. Marta fece al padrone un cenno che l'ingenuo uomo non intese. "Cosa c'è? Un ombrello, dico!" Marta fece un altro segno più visibile, ma in vano. "Eh? Che avete?" Marta, indispettita, lasciò la finestra brontolando contro gli uomini di talento che non capiscono niente. Poi comparve in orto con un coso verde in mano e lo porse sgarbatamente al curato, dicendogli: "A Lei! Che tolga! Bella roba da offrire! Cosa hanno a dire di noi al Palazzo?" "Cos'han da dire? Che non ne ho altri. Gran cosa! Ecco, quod habeo tibi do." Infatti don Innocenzo aveva più cuor che ombrello. Quello sconquassato arnese di tela verde non ne meritava più il nome. Marta non si tenne da dire piano a Edith: "Ne aveva uno di bello. L'ha dato via. Dà via tutto!" Gli Steinegge scesero per un viottolo che gira nei prati intorno al paese, tocca il lago e risale un poco sino a raggiungere la stradicciuola del Palazzo. Intanto Marta sfogava il suo corruccio col padrone, che rispondeva mansueto: "Ho fatto male? Bene, sì, via, tacete, avete ragione". Egli era contento della nuova amicizia e pensava che per via degli Steinegge gli si aprirebbero forse più spontaneamente le porte del Palazzo secondo il suo vivo desiderio; perché quella casa smarrita fuor del gregge gli stav a più a cuore delle altre novantanove raccolte sotto la chiesa. Il cielo rideva ancora alle spalle degli Steinegge e li minacciava in viso. Ad una volta del sentiero Edith si fermò a guardare indietro. "Vedi, papà" diss'ella sorridendo "andiamo dall'idillio nella tragedia." "Oh, no, no, non c'è tragedia: Drauss ist alles so prächtig Und es ist mir so wohl!" "Ancora ti ricordi le nostre canzoni, papà?" Egli si mise a cantare: Aennchen von Tharau hat wieder ihr Herz Auf mich gerichtet in Freud, und in Schmerz, Aennchen von Tharau, mein Reichtum, mein Gut. Du meine Seele, mein Fleish und mein Blut. Cantava con gli occhi pieni di riso e di lagrime, camminando due passi avanti a Edith per non lasciarsi vedere in viso da lei. Pareva un ragazzo ubbriacato dall'aria odorosa dei prati e dalla libertà. Edith non pensò più alla tragedia, malgrado la faccia scura dei monti e qualche grosso gocciolone che cadeva sul fogliame dei pioppi presso al lago e segnava di grandi cerchi le acque tranquille. Ella fu presa dall'allegria commossa di suo padre. La piova rara e tepida, suscitando intorno ad essi una fragranza di vegetazione, li eccitava. Chi avrebbe riconosciuto la Edith del giorno prima? Ella coglieva fiori, li gettava a suo padre, correva, cantava, come una bambina. Si fermò ad un tratto guardando il lago e cominciò una canzone triste: Am Aarensee, am Aarensee. "No, no" gridò Suo padre, e corse a lei. Ella fuggì ridendo e ripigliò più lontano: Da rauschet der vielgrüne Wald. Si compiaceva che suo padre non le permettesse quella canzone triste e si divertiva a stuzzicarlo. Inseguita da lui continuò fuggendo: "Da geht die Jungfrau". Rallentò la corsa e la voce sulle parole "Und klagt", si lasciò raggiungere prima di dire "ihr Weh" e baciò la mano che le chiudeva la bocca. "Mai, mai, papà" diss'ella poi "sin che mi tieni con te. Non sai che siamo un po' matti tutti e due? Piove!" Steinegge non se n'era accorto. Aperse a grande stento lo sgangherato ombrello verde che brontolò sotto la piova, fra il sussurro dei prati e il bisbiglio degli alberi, sullo stesso tono, presso a poco, della vecchia Marta. Pure poteva esser contento di quello che udiva sul conto del suo padrone. Steinegge singolarmente non rifiniva di lodarne l'aspetto e le parole oneste, a segno che Edith gli domandò se l'onestà fosse tanto rara in Italia. Egli protestò con un fiume d'eloquenza per togliere ogni sospetto che potesse pensar male degli italiani, ai quali professava gratitudine sincera perché, in fin dei conti, erano i soli stranieri da cui avesse ricevuto benefici. Da tutte le sue calde parole usciva questo, che egli non credeva rara l'onestà fra gl'italiani, ma fra i preti. Questa conclusione non la disse, o gli parve, nella sua ingenuità, Edith non l'avesse a capire. S'affrettò di soggiungere che sperava poter vedere presto il signor curato. "Ma, papà" disse Edith fermandosi su' due piedi e fissando i suoi begli occhi gravi in quelli di suo padre "possiamo noi restar qui?" Steinegge cadde dalle nuvole. Non aveva ancora pensato a questo. La felicità d'aver seco sua figlia oscurava nella sua mente ogni pensiero dell'avvenire. Edith, col suo delicato e acuto senso delle cose, dovette ricondurlo dalle nuvole in terra, fargli comprendere com'ella non potesse lungamente approfittare della ospitalità del conte, presa prima che offerta. Disse che le doleva essergli causa di questo e forse di altri sacrifici ancora; e rise dolcemente nel vedere a questo punto suo padre gittar l'ombrel lo ed afferrarle, stringerle le mani senza poter articolar parola. "Hai ragione, caro papà", diss'ella "temo di essere una giovane ipocrita." Allora gli raccontò che quel signore della Legazione prussiana le aveva consigliato di por dimora a Milano, dove c'era una numerosa colonia tedesca molto ricca e legata alla cittadinanza. Affiderebbero a una buona banca il tesoro dei Nibelunghi, come chiamava la sua eredità; ella darebbe lezioni di tedesco e il signor papà vivrebbe come un caro vecchio Kammerrath, col locato a pipare dopo lunghe fatiche. Piglierebbe un quartierino lontano dai rumori, alto se occorre, ma tutto aria e luce. Si farebbe cucina tedesca e il signor Kammerrath avrebbe ogni giorno a pranzo la sua birra di Vienna o di Monaco. Steinegge diventò rosso rosso e diede in un grande scoppio di riso agitando l'ombrello e gridando: "no, ah no, questo no". Edith non sapeva che suo padre era un antico dispregiatore di tutte le birre più famose della gran patria tedesca. Intese quindi male quell'esclamazione e insistette, dicendo che si darebbero ben altri sfoggi d'opulenza. Nelle domeniche della buona stagione si uscirebbe di città, si farebbero delle corse bizzarre attraverso i campi per finire in qualche solitario paesello silenzioso. Chi sa? Se gli affari prosperassero molto, il signor capitano potrebbe tre o quattro volte l'anno uscire a cavallo con la signorina sua figlia. "Tu cavalchi?" disse Steinegge stupefatto. Edith sorrise. "Sai, caro papà" diss'ella "da bambina che passione avevo per i cavalli! Quando i miei cugini imparavano a cavalcare, il povero nonno ha voluto che insegnassero anche a me. Ho imparato subito. Sa cosa mi diceva, quando mi vedeva a cavallo, il mio maestro di musica?" "Tu sai la musica?" esclamò Steinegge ancora più stupefatto. "Ma, papà, non ho mica più otto anni, sai! Mi diceva che si vedeva ben di chi ero figlia. E del mio italiano non mi parli? Sai che l'ho imparato in questi ultimi sei mesi?" Appunto di questo suo padre non s'era ancora ben persuaso; ch'ella non avesse più otto anni. E del vario sapere che veniva sorprendendo in lei si sorprendeva come d'un miracolo, si inteneriva, con quel senso di timida ammirazione che aveva provato insieme alla gioia del rivederla! Povero Steinegge! Al cancello del Palazzo si trasse da banda per lasciar passare Edith e si tolse involontariamente il cappello. "Papà!" disse Edith ridendo. "Che?" Steinegge non capiva. "Ma, il cappello?" "Ah!.... Oh... Sì!" Il pover'uomo se lo ripose in testa, proprio mentre il conte Cesare salutava Edith e le veniva incontro nel cortile col sorriso più benevolo che abbia illuminato una faccia severa.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676029
Ghislanzoni, Antonio 5 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Colgo questa occasione per fare un po' di réclame al mio Stabilimento, e augurando a tutti il miglior appetito, vi abbasso le mie salutazioni più affettuose. - No! no! - grida una voce dalla platea; - nessun cittadino onesto metterà il piede nel tuo negozio; nessun onesto mangerà il salame della questura! - Mi importa assai degli onesti! - mormora il Torresani riabbassando il velario riparatore. - Purché i ladri onorino la mia bottega, in due mesi diverrò milionario. Così parlando, il sarcastico vecchietto sovrappose al proprio volto una maschera-guttaperca al sembiante del drammaturgo Scalvoni, e lanciandosi destramente nell'atrio, si fece largo tra la folla plaudente fino alla volante che lo attendeva sulla piazza. Lasciamo che egli se ne vada pe' fatti suoi, e poniamoci sulle orme di altri personaggi più meritevoli e simpatici.

Scendiamo abbasso, lumacone! ... Lascia in pace quel l'ordigno maledetto ... Dire che i primati dell'ottica non hanno ancora trovato il modo di fornirci un aereoscopio, che si possa nascondere fra i polpastrelli delle dita ... Non importa! Abbiamo altre risorse ... I birboni della scienza favoriscono le ladrerie e le truffe: ma fortunatamente ci porgono mille mezzi per discoprirle e punirle ... C'è progresso da ambe le parti, signori garbatissimi! Peccato che gli statuti dell'Unione non ci permettano di violentare i cittadini! ... Le manette, la prigione, la forca, quelli erano espedienti efficacissimi per tutelare l'ordine pubblico! ... Nondimeno, parola da Torresani, fra pochi minuti io farò vedere a quei pirati di alto cielo, che anche noi siamo in grado di far rispettare le leggi e di imporre alla canaglia! ... Così parlando, il Capo di Sorveglianza giunse nella sala di diramazione, dove, appena entrato, fece scattare una molla, la quale, per varii fili elettrici, era in comunicazione coi principali dipartimenti del palazzo. Le pareti oscillarono, e dopo alcuni minuti, si apersero nei quattro lati della sala parecchie porticelle numerizzate, e a ciascuna porticella affacciossi un individuo, portante la divisa dei subalterni di sorveglianza. Il Torresani salì sovra un pulpito e prese a diramare i suoi ordini. - Numero uno: convocare i duecento nella sala di magnetismo, e arrestare nel termine di dieci minuti la nave sospetta. - Numero due: recarsi da Duroni, e far ritrarre la nave in ventiquattro copie, dodici a fotografia colorata, dodici a fotografia ponderabile.

Egli è disceso stamattina prima dell'albeggiare; non è improbabile che la sua gondola abbia portato abbasso uno di quei gabbamondo ... E noi lo conosceremo ... perdio! E s'io riesco a pigliar in mano un filo della matassa ... giuro districarla in pochi giorni ... e vi prometto che quella galera di birboni non farà, quindi innanzi, un lungo viaggio! ... Il Torresani accennò col dito a diversi subalterni, i quali immediatamente gli si fecero appresso, per ricevere alcuni ordini segreti. Poco dopo, entrò nella sala il Bigino, conduttore di gondole.

Abbasso l'unione forzosa! evviva il libero amore! viva la selezione! Ottenuta l'abolizione del matrimonio, noi potremo rallegrarci di aver raggiunto il massimo grado di felicità alla quale miriamo; la nostra emancipazione non potrà dirsi completa, ma sarà spezzato il più solido anello della nostra catena. Non si tratta, consorelle amatissime, di redigere vane proteste. Conviene tradurre in azione l'idea. Il matrimonio, nelle forzose repressioni degli istinti più simpatici, era per noi l'unica valvola di salvezza. Gli uomini legislatori ci avevano imposta la dura condizione di non poter amare se non a patto di costringere i nostri affetti in un vincolo assurdo. Essi han gridato ad ogni coppia di amanti: Voi non avete diritto di amarvi oggi, se prima non vi obbligate ad amarvi sempre. Illusoria parola il sempre degli innamorati; ma, via! tanto dolce a profferirsi! Che due innamorati credano alla eternità delle reciproche simpatie, è naturale, è conforme alle esigenze della fantasia sovreccitata dal desiderio. Ciò che è mostruoso, abbominevole, nefando, è che la forza delle leggi intervenga per istabilire, sulla vanità di un'illusione, un contratto indissolubile. Una coppia di amanti! quale spettacolo più bello, più giocondo, più degno di rispetto e di ammirazione? Nel ricambio di uno sguardo, di un sorriso, di una stretta di mano, si è sviluppato da due esseri simpatici il fluido dell'attrazione. I cuori sussultano, le labbra inumidite anelano di baciarsi, il sangue sì agita, i due corpi vorrebbero confondersi. Alto là! grida un bramino, un levita, un sindaco od un assessore del palazzo di petizione: le vostre estasi deliziose sono un abbominio, se io bramino, se io prete, se io sindaco, non intervengo a legittimarle con una cerimonia religiosa, con un atto notarile. Siete voi disposti ad impegnare la vostra fede per sempre, a rendere obbligatoria fra voi la convivenza fino a quando la morte dell'uno o dell'altra non abbia sciolto il vostro patto? - Sì! Sì! rispondono ad una voce i due illusi. Sotto l'impero della passione, quei due si lancierebbero abbracciati tra le fiamme di un rogo. Orbene: quel sì, strappato dal prete o dal sindaco a due creature innamorate, incoscienti dell'avvenire, non segna forse, nella più parte dei casi, una condanna peggiore dei lavori forzati a vita? Cosa accadrà? Ciò che deve necessariamente accadere. Converrebbe disconoscere le leggi di evoluzione che governano il cosmos ed ogni atomo vivente, per contare su altri risultati. Ammettiamo pure, a consolazione degli ipocriti e dei casisti, qualche eccezione; ma il fatto più costante sarà sempre codesto. Dopo un lustro, dopo un anno, dopo un mese; qualche volta, più spesso che non si creda, dopo una notte di godimenti coniugali, la deliziosa attrazione reciproca andrà svanita. Comincieranno le svogliatezze, più tardi le ripugnanze insormontabili. Via! dissimulate! fatevi animo! Siete marito e moglie; a termini di legge, dovete ricoricarvi sul talamo e ricambiarvi delle carezze. Che importa se non vi amate? Forse più tardi vi abborrirete; la vostra conversazione diverrà un ricambio di ingiurie e di minacce; godetevela! è la porzione di felicità domestica che vi siete assicurata per la vita segnando il grazioso contratto. L'amore vi ha illusi, la legge vi ha gabbati; in nome della giustizia e della moralità, voi dovete alla notte accoppiarvi detestandovi, per trascinare durante il giorno la catena del forzato, imprecandovi con tutte le energie della disperazione. Ma, questi matrimonii creati dall'amore furono rari in ogni tempo. La fanciulla vessata dalle leggi, dalle ipocrisie sociali, dalle volgari cupidigie dei parenti, dalle imperiose necessità dell'esistenza, dalla astinenza sessuale imposta alle nubili, si abbandonò, per un errore di calcolo, alla china dell'abisso. Ella accettò il matrimonio vagheggiando l'adulterio; si fece moglie per esercitare con minor pericolo i suoi diritti di amante. Doveva essa, la martire derelitta, abdicare completamente a' suoi istinti più imperiosi e geniali? Ed ecco il sopravvento dei matrimonii di menzogna, ecco il primo passo della schiava verso l'emancipazione: ingannare un uomo per conquistare l'impunità nell'amore, ripararsi dietro un'istituzione balorda e vessatoria, dalle ipocrisie sociali ugualmente stolide e spietate. Vi sembra morale? Noi stesse ne conveniamo: è abbominevole. Può mai scaturire da una impura sorgente la limpida linfa? Lapidiamo l'adultera! gridarono i feroci legislatori. Ma, sciagurati! non siete voi, non è ancora la barbara proscrizione dell'amor libero, che ci ha trascinato su questa via obliqua dello spergiuro e dell'inganno? Ci avete imposto di segnare un contratto ripugnante alla umana natura, e poi fingeste inorridire ogni qual volta noi fummo indotte a violarlo. Ma, infine, quali erano le vostre pretese? Credevate schiacciarci rincarendo sulla nostra colpabilità; otteneste, a forza di cavilli e di sofismi, di stabilire una diversa misura di responsabilità fra le vostre turpitudini e i nostri irresistibili bisogni. Mentre noi, trascinate dall'amore, ansanti, inquiete, trepide del pericolo, correvamo furtivamente, col velo sugli occhi, al convegno desiderato di chi potea darci l'amore; che facevate voi, allora, o grotteschi Otelli da commedia, per affermare la legittimità dei vostri furori gelosi, delle vostre tiranniche rappresaglie? Ciò che voi facevate è scritto nelle statistiche delle antiche e delle nuove Questure. Voi fornivate alle case di tolleranza ed alle alcove delle Immolate il più grosso contingente; voi spendevate dei patrimoni per alimentare il lusso delle etére che vi sputavano in viso. Avete mai dato prova di comprendere l'amore? La tirannia che esercitate su noi non è che stupido orgoglio. Non permettete che si rechi onta al vostro nome, e frattanto oltraggiate ogni giorno la donna che deve portarlo, posponendola alle più vili meretrici. La società non vi disprezza per questo. A voi è lecito menar vanto della vostra abbiettezza; vi terreste piuttosto disonorati, temereste di apparire ridicoli dichiarandovi fedeli al contratto coniugale. Ma non è tutto. Quali furono, nel secolo scorso, quali sono oggi i criteri che vi dirigono nella scelta di una sposa? Le attrattive della gioventù, della bellezza, dello spirito, della bontà, non esercitano verun fascino sui vostri sensi e sul vostro intelletto. Signorina: a quanto ammonta la vostra dote? Mi occorrono trecentomila lussi per riparare a' miei dissesti: li avete? In caso affermativo, mi onorerò di darvi il mio nome, obbligandomi con atto notarile ad amarvi per la vita. - Non li avete! Darò il mio nome ad un'altra qualsiasi, meglio fornita di numerario, imponendomi di abbracciarla con trasporto ad ogni scadenza di cambiale. È questa la santità del vincolo indissolubile? Voi pagate le prostitute, e vi fate pagare dalla moglie; questo si chiama pareggio! Meravigliatevi poi se avviene che qualche povera fanciulla, uscita dalle famiglie nullabbienti, riesca ad accalappiare un ricco merlo, e a farsi pagare da lui tutte le agiatezze della vita, l'amante compreso! Sotto qualunque aspetto lo si consideri, il matrimonio è un'assurdità, un'ingiustizia, un fomite di corruzione, un incentivo al delitto. Dalla disperazione non può generarsi che il male, e la disperazione è in ogni casa dove convivono un marito ed una moglie. I meno ottusi alla percezione del vero definirono il matrimonio una calamità necessaria alla tutela della prole. Un sofisma per giustificare una assurdità! Non sono i figli abbastanza protetti da quella forza di amore che la natura ha posto nel cuore dei parenti? Non è questa forza d'amore, il più nobile istinto di ogni essere animato? Se la femmina dell'uomo ha mostrato talvolta di ribellarsi, le ragioni del fatto mostruoso convien ripeterle dal matrimonio. Ogni violazione della legge naturale genera un mostro; i genitori che abbandonano i figli, che li odiano, che gioiscono nel tormentarli, sono le orribili anomalie prodotte dall'orribile istituzione. La madre che insevisce contro il nato dalle sue viscere, è, nella più parte dei casi, una schiava ribelle, la quale disfoga sul debole le sue rappresaglie contro il forte che la opprime. Ella percuote il figlio, perché non le è dato di sbranare il marito. Tutti gli affetti svaniscono, tutti i nobili istinti si corrompono in quell'ambiente di tedio e di avversioni che si suol formare nel così detto santuario domestico. Qui abbiamo le vendette della madre legittima, come altrove, fuori dal consorzio coniugale, si hanno gli infanticidii perpetrati, in un accesso di disperazione o di demenza, dalle scomunicate, dalle maledette, le quali osarono concepire senza autorizzazione del prete o del sindaco. Ma, via! oggimai ogni scrupolo è soverchio. Non ci hanno più diseredati, nè derelitti, sotto le leggi che ci governano. Il diritto all'esistenza è sancito dai nuovi codici; dal giorno della nascita sino all'ora di estinzione ogni cittadino dell'Unione è nutrito, alloggiato, vestito a spese del Comune. Se oggidì esistessero dei genitori capaci di abbandonare la prole, il governo, questo padre legittimo di tutti, provvederebbe. Che più si tarda? Affermiamo i nostri diritti, realizziamo il nostro splendido programma! Non più riti religiosi! via le formalità che intorpidiscono i sensi e mettono il ghiaccio nei cuori! Il Dio è in noi quando amiamo; non è più mestieri di invocarlo. Fra due che si amano nessuno ha diritto di intervenire. Cosa significa questa legge di dilazione, che ci obbliga a discostarci quando il torrente della passione irrompe da noi coll'impeto massimo? Ogni unione generata dal libero amore è legittima; fuori di là, tutto è prostituzione e delitto. Viva l'amore che giustifica ogni audacia, che santifica ogni lussuria! Abbasso il matrimonio, che contrista, che abbrutisce! Opponiamo ad ogni petizione civile un assoluto diniego. Sciolte dalla servitù coniugale, qual freno potrà ancora trattenerci dal marciare rapidamente alla meta? L'uguaglianza morale e civile sarà in breve raggiunta dalla donna; chi oserà resisterci? Accarezzato dall'amore spontaneo, il nostro maschio diverrà arrendevole e mite, quanto ostinato e crudele fin qui lo avean reso le nostre riluttanze di moglie e i nostri abborrimenti da schiava. Egli dovrà comprendere che la infelicità da lui imposta al nostro sesso si è mai sempre riflessa su lui. Questo insensato, che dopo aver trascorsa metà della vita nel corrompere fanciulle, nell'irridere ad ogni virtù d'amore, pretendeva, esausto e abbrutito, di sposare una vergine per farne una schiava, dovrà alfine riconoscere i propri torti. Egli griderà con meraviglia e dolore: noi fummo stolti, noi fummo barbari! abbiamo creduto vincolare la fedeltà, e abbiamo scatenato l'adulterio, ci siamo illusi di poter combattere la natura con quattro articoli del codice; ma la natura si è vendicata delle nostre repressioni, immergendoci in un abisso di tenebre e di miserie; benediciamo al libero amore, che ci ha rigenerati!» Alla fine della calorosa allocuzione, un uragano di applausi insorse dalla folla. I giovani coscritti e le donne gridarono ad una voce: - Viva Clara Michel! Viva la selezione! Viva l'uguaglianza morale e civile! - No! No! - rispondeva una debole minoranza di oppositori: - Abbasso la cortigiana! Rispetto alle istituzioni! Viva il matrimonio! - Ah! vi sono ancora - riprese con impeto la bella presidentessa delle emancipate; - vi sono ancora degli zotici, dei bruti, che ardiscono ribellarsi alla evidenza della verità? Vediamoli un poco alla prova della tentazione, questi falsi apostoli della fedeltà obbligatoria e del vincolo santo! Alzate gli occhi, o mamalucchi, e guardatemi bene! Così parlando, la Michel aveva dato un balzo, e levandosi in piedi sulla sella, aveva esposto all'attonita folla tutte le formosità delle sue membra rigogliose, leggermente accarezzate da un velo trasparentissìmo. Un urlo di entusiasmo maschile si sollevò dall'area. Tutte le pupille si dilatarono per tuffarsi in quel bagliore di bellezza. - Orbene - ripigliò la Michel sempre più animata; - mi vedete? vi paio bella? Io mi dono a quello di voi, che essendo stretto ad una donna dal vincolo coniugale, nullameno salirà in groppa del mio cavallo, e riuscirà pel primo a baciarmi la punta d'uno stivaletto! In un attimo quella immensa moltitudine di gente fu veduta agitarsi come un mare in tempesta. Gli uomini si spingevano innanzi, urlando, manovrando coi pugni e coi bastoni, dilaniandosi l'un l'altro i vestimenti e le carni. Le sbarre che difendevano il padiglione caddero rovesciate ed infrante in quell'impeto erotico di maschio calore. L'eroina del congresso, sgomentata, diede l'allarme alle compagne; i cavalli nitrirono scalpitando ... Ma ... ecco ... il ruggito della folla echeggia più gagliardo e minaccioso. Cos'è avvenuto? Un uomo contuso, sanguinolento è riuscito a farsi innanzi ... ha sorpassato la barriera frantumata ... si è spinto fino al proscenio del padiglione ... e salito sul destriero della vezzosa cavalcatrice ... ha stretto al labbro il profilato piedino ch'ella ha vibrato nell'aria ... Clara Michel dà il segnale della partenza; la comitiva equestre si slancia a briglia sciolta sullo stradone sportheno(34)

Teresa

678495
Neera 2 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Pagina 121

Se passava un organetto, intanto ch'ella cuciva giù abbasso, sul gradino di legno accanto alla finestra, quel suono improvviso la scuoteva tutta, ricordandole emozioni deliziose. Nei caldi pomeriggi di luglio, durante la passeggiata sull'argine, e, piú tardi, in piazza dove i giovani del paese facevano l'olio ella intuiva il segreto di quegli andirivieni, delle fermate, delle parole tronche, dei segni misteriosi. C'era Luzzi, Boccabadati, il tenente dei carabinieri, il farmacista; qualche volta Orlandi, due o tre altri, e in mezzo a tutti, Teresina cercava avidamente, inutilmente. A novembre, nell'occasione della fiera, si aperse il teatro, con una compagnia di canto discreta. Si dava il Rigoletto Carlino che vi era andato una volta, in loggione, dove si pagavano ottanta centesimi, cantarellava i pezzi principali dell'opera. Sua sorella lo stava ascoltando, per ricantarli a bassa voce, senza dimenticare le parole. La dichiarazione d'amore del duca a Maddalena le piaceva, ma piú ancora e soprattutto le piaceva l'aria di Gilda, Tutte le feste al tempio Voleva che Carlino le spiegasse chi era Rigoletto, e chi il giovane che sua figlia incontrava al tempio. Carlino dava qualche particolare, brusco, grossolano; descriveva la faccia terribile di Sparafucile e la gobba ridicola del buffone. - Ma Gilda, Gilda? Faceva spallucce. - Gilda miagola come una gatta; e poi le donne, sai, io non le guardo. Teresina che non si lusingava affatto di poter andare a teatro, provò una gioia come da gran tempo non provava, il giorno in cui la pretora venne a dire alla mamma: - Ho una chiave di palco per questa sera; ci vado io e mia cognata. Mi lascia venire anche Teresina? La signora Soave, per delicatezza, osservò che sarebbero state troppo pigiate, tre donne in un palco. La pretora insistette; ma occorreva persuadere il signor Caccia, perché senza il suo consenso non si faceva nulla. Tra gli argomenti della pretora c'era questo: che Teresina era ormai una giovane fatta e, se volevano maritarla, bisognava pure che si facesse vedere. Il signor Caccia, brontolando, acconsentì. Sorsero ancora alcune piccole difficoltà riguardo all'acconciatura. La signora Soave disse che Teresina non aveva un abito adatto; ma anche qui la moglie del pretore tagliò il nodo, assicurando che una ragazza, quando è pettinata bene, con un paio di guanti freschi e con un fiore, può andare dappertutto. Finché la questione pendeva, Teresina stava come sulle spine; ma quando alla fine ogni intoppo fu levato, ed ebbe la certezza del divertimento che l'aspettava, lasciò libero campo alla gioia. Abbracciò sua madre, abbracciò la pretora; fece le scale tre o quattro volte, di corsa, senza alcun bisogno; andò alla finestra, aperse cassetti, incominciò un lavoro, lo smise. - Quella ragazza si monta la testa, - sentenziò il signor Caccia - guai a incominciare. - Ma è la sua età, Prospero, siamo stati giovani anche noi! La signora Soave guardò partire sua figlia, intenerita come quando era partita per Marcaria, seguendola coll'occhio umido, pieno di tenerezza e di speranza. La pretora, che era una donna molto disinvolta, raccomandò a Teresa un contegno spigliato; e la fanciulla, memore di aver già fatta la sua prima comparsa in società, la assicurò che non era piú novizia. Si sentiva infatti una certa baldanza sicura. Ma fu tutt'altra cosa quando, affacciatasi al palchetto, vide in giro una triplice fila di lumi, e giù abbasso tutte quelle teste, e su in alto tante altre teste ancora. Le sembrava che tutti la guardassero. - Ebbene, Teresina, somigli a una statua. Di' su qualche cosa. La cognata osservò che era meglio lasciarla rinvenire a poco a poco, finché si fosse avvezza all'ambiente. Allora le due signore presero a discorrere tra loro, nel fondo del palco. Teresina, davanti, appoggiata al parapetto, guardava la folla, riconoscendo qua e là volti noti. Ecco in seconda fila le tre sorelle Portalupi, vestite di color canerino, con tre ventagli canerini. Nel palco accanto il sottoprefetto, elegantissimo, distinto, con un paio di polsini che luccicavano come fossero di porcellana, colla sua bella barba da meridionale, divisa in mezzo, e gli occhi miopi impertinenti, che osservavano dappresso le signore. Tutta la famiglia Arese, le donne in abito di velluto, coi brillanti; gli uomini gravi, compassati, con un po' di noia dipinta sul volto. La moglie del sindaco, in abito nero, lo stesso che metteva per andare a messa; venuta per compiacenza, senza intender nulla, sperando che lo spettacolo finisca presto. In un palchetto di prima fila, don Giovanni, solo, sdraiato su due sedie, sbadigliando. - Chi è quel signore? - domanda la cognata, che è nuova al paese. La pretora risponde un tono piú basso: - È Boccabadati, il gallo della Checca. - Non ne ha l'apparenza. - Sicuro, qui! Le conosce tutte. Dicono che venga per il contralto, quella che fa da Maddalena. - È ricco? - Abbastanza; ma le donne non glie ne lasciano molti -. Abbassò la voce un altro tono. - Vedi quella figura alta, pallida, là in platea? - Con un velino in testa? e una rosa rossa? - Appunto. È la modista di piazza. Qualche - anno fa egli l'ha ... - pausa - e dovette sborsare una bella somma. - Sì? - Per il figlio. Teresina ascoltava, ritta, immobile. Non poteva vedere la modista, che le stava a tergo, ma aveva davanti don Giovanni nella sua sibaritica indifferenza, grasso, florido; già invaso dal torpore che aspetta, sulla quarantina, gli uomini che hanno goduto largamente la vita. Quella gran pace, dopo ciò che aveva udito, la turbava; era segretamente irritata da un mistero che le sfuggiva continuamente. Un momento ancora, e la sua attenzione era tutta quanta assorbita dallo spettacolo. Non batteva ciglia, non fiatava; appena un personaggio apriva la bocca, ell'era tutt'orecchi, appena uno si muoveva, i suoi occhi lo seguivano attentamente. Calato il sipario, si voltò di botto verso la pretora. - E Gilda? - Gilda verrà or ora, al secondo atto. - Mi pare cattivo quel buffone. - No, non è cattivo; vedrai in seguito. - E il duca? - Ah! il duca ... vedrai, vedrai. Gilda apparve, vestita di bianco, bruttina, ma abbastanza giovane, e con un'aria modesta che piacque subito a Teresa. Cantò bene, con sentimento in luogo di voce, infiorando d'una malinconia soavissima il racconto de' suoi amori collo studente. Teresina era rapita in estasi; il bello dell'arte si rivelava al suo cuore, già aperto all'amore. Ella seguì con ansia angosciosa lo svolgersi dell'azione drammatica; si spaventò al ratto di Gilda, pianse con Rigoletto, ebbe sdegno e disprezzo per i cortigiani, e attese, palpitante, il ritorno di Gilda sulla scena. Qui tornò a stendersi un velo nella sua mente. Fu tentata di chiedere, perché Gilda si mostrasse tanto disperata per trovarsi in casa del duca; un vago istinto le suggerì che la sua domanda era ridicola, e tacque, meditando. Arse d'ira contro il duca, nella scena del bosco. Maddalena le parve una sguaiataccia, incapace di poter destare amore. Ma la tragica fine di Gilda, intanto che lo scettico passa nel fondo canterellando la sua canzone, quella fine la colpì profondamente. Dovette ritirarsi, nell'ombra, a nascondervi le sue lagrime. - Che fai, bambina, è possibile tanta ingenuità? Non è un fatto vero, sai? Gilda, a momenti, andrà a cena, pienamente d'accordo col suo amante. Così la moglie del pretore tentava di acchetare Teresina, senza riuscirvi, perché la sua commozione aveva un'origine occulta. La passione intensa di quel dramma d'amore trovava una corrispondenza segreta ed intima nell'anima della fanciulla, a cui l'amore si era rivelato con una sofferenza. Le potenti creazioni di Rigoletto e del duca, la soave figura di Gilda erano piú che personaggi; erano sentimenti, erano passioni incarnate e la grandiosità terribile ed umana di tutto quel lavoro si ripercoteva in ogni sua fibra. Sotto i colpi di quella forte commozione, la natura spirituale della fanciulla si temprava, nobilitandosi, afferrando i contorni di un ideale sicuro. Ella fuse, nel suo pensiero, il proprio amore coll'amore di Gilda. I ricordi, che già principiavano a sbiadire, perdettero l'impronta personale, mescendosi a una quantità d'altre impressioni e ad aspirazioni nuove. Da quella sera non pensò piú, direttamente, al giovane che le aveva suscitato il primo palpito. Pensò all'amore, vago, misterioso, sterminato: a tutto un mondo tumultuante, non ancora interamente rivelato, ma che le si svolgeva a gradi, con bagliori improvvisi, con rapide ferite, con intuizioni meravigliose, poggiando fra la canzone beffarda del duca e il rantolo di Gilda morente ...

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CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Quegli evviva irritarono sotto l'impressione delle parole pronunziate dal loro candidato, risposero con gridi di: Abbasso il gesuita! Abbasso lo sfruttatore! Abbasso l'incettatore! Abbasso il libertino! Don Calogero Moltedo e molti altri si affacciarono udendo quelle grida e risposero con parole offensive per l'Orlando. Allora il farmacista Sarno, che era fra quelli che gridavano di più, apostrofò il dottore: Se avete coraggio, uscite! Era una sfida e fu raccolta da molti. In un momento la sala dell' adunanza si vuotò, e gli elettori di Roberto erano giù in piazza, in atteggiamento minaccioso, prima che il Frangipani si fosse accorto di che si trattava. Quando lo seppe, perché gli fu detto dai pochi rimasti intorno a lui, corse alla finestra, ma la zuffa si era già impegnata e volavano pugni e sassi, e i pochi carabinieri, volendosi intromettere, erano sballottati di qua e di là dagli urti di quelle due masse che si attaccavano e si respingevano con furia. Roberto pallido e calmo si fece largo fra i suoi e con la voce potente gridò: Basta! Basta! Egli dominava tutti con l'alta persona e fu ubbidito. In quel momento comparve il Bonaiuto alla testa di una squadra di ragazzi, carichi dei discorsi dell' Orlando, offrendoli a tutti. Alcuni partigiani di Roberto li stracciarono con rabbia, altri prendeva il foglio stampato e si metteva a leggerlo. La presenza di Roberto impedì che il conflitto ricominciasse, poiché nessuno degli avversarj osava ripetere in faccia a lui i gridi che aveva pronunziati poco prima. Si può dire che tutto Castelvetrano fosse su quella piazza, diviso in due campi. Roberto, vedendo così numerosi i suoi partigiani, ebbe un lieve sussulto. Ormai era nella lotta e voleva vincere, però non voleva che si ripetesse la scena di poco prima, che poteva degenerare in battaglia, e indusse i suoi ad andare a casa. Essi ubbidirono, facendogli una nuova dimostrazione di simpatia e a poco a poco la piazza si votava. Alcuni minuti più tardi Roberto traversava il paese in carrozza e non incontrava altro che gruppi di amici e di nemici che leggevano il discorso dell'Orlando. Il Lo Carmine ne aveva una copia in tasca, ma esitava a metterla fuori. Allorché la carrozza fu a una certa distanza dalla città, Roberto gliela chiese e la lesse senza turbarsi. Calunnie che non faranno presa, - disse rendendo il foglio all'amico, - infante cui non merita rispondere; esse non mi strapperanno un voto. L'altro lesse pure, ma si turbò. Era più assuefatto alla vita politica, aveva maggior pratica delle elezioni e conosceva meglio la sospettosa indole del popolo; quella allusione al palazzo di Citerà lo afflisse immensamente. Roberto non conosceva i precedenti attacchi della Trinacria, diretti contro Velleda, non sapeva degli spasimi della povera signora, non aveva letto la biografia di lei, pubblicata quella mattina istessa, nella quale sotto un diluvio di elogi per l'opera letteraria di quell'ingegno eletto, si fingeva di commiserare la sorte toccata alla donna alla moglie, svelando tutte le piaghe della sua vita col pretesto di accennare alle cagioni che l'avevano tolta al mondo delle lettere. Non c'era una parola di cui non fosse stato prima calcolato l'effetto sul lettore ; e siccome il Lo Carmine supponeva, con ragione; che quasi tutti quelli cui era capitato in mano il discorso dell'Orlando avessero pure percorso l'articolo su Velleda, era sicuro che l'allusione agli amori di Roberto non sfuggisse ad alcuno e che il nome di Velleda venisse coperto di motteggi e di onta. In quelle ore passate in carrozza e in casa Moltedo, egli aveva pensato sempre a lei, a lei che doveva soffrire mille strazj e mille torture. Restate a colazione da me, - avevagll detto Roberto quando la carrozza era entrata nel giardino, e mentre il Frangipani saliva in camera sua, il Lo Carmine penetrava nella sala da pranzo già apparecchiata. dove incontrò il Varvaro. Dio mio! - esclamò il direttore appena lo vide; che cosa abbiamo fatto con questa, elezione! Avete letto anche voi? - domandò lo scienziato alludendo all'articolo della Trinacria. Altro che letto! La signora Velleda è stata colpita da una febbre! Da più ore è sul letto e trema senza che si riesca a riscaldarla. Avete chiamato il dottore? No, non avevo la carrozza, che è tornata adesso. Sono un poco medico io stesso e le ho fatto dare il chinino, il cognac e applicare senapismi; ma essa non migliora; Maria non vuole uscir di camera e la chiama incessantemente, Costanza l'assiste. Il Lo Carmine dette allora al Varvaro il discorso dell'Orlando e gli narrò la scena avvenuta in piazza. A che cosa giungeremo? - domandò il direttore sgomentato. - In questi quindici giorni si dibatterà anche il processo contro Alessio al tribunale: avremo altri attacchi dall'OrIando, altre scene ... . Purché non si veda scemare il numero dei partigiani del signor Roberto! - rispose Io scienziato. - Questo discorso mira a ciò. Per ora sono fedeli, - osservò il Varvaro, - ma sono così mobili! Pochi giorni fa gli operai adoravano la signora Velleda come si adora la Madonna; ora rifiutano il pranzo perché è lei che ha istituito le cucine, e la insultano. Il Varvaro tacque, udendo i passi di Roberto sulle scale. Egli scendeva insieme con Maria e aveva scritto sul volto il dolore che lo torturava. Perché mi avete nascosto tante cose? - domandò al Varvaro e al Lo Carmine severamente. - Eicevo ora, insieme con la biografia della signora, due numeri dello stesso giornale che io dovevo aver letti da più giorni! Oggi hanno avuto l'accortezza d'inviarmeli in busta chiusa, se no li ignorerei ancora; chi lotta deve essere informato di tutto. La signora, - rispose il Varvaro per iscusarsi, voleva che le fosse risparmiata questa pena e noi le abbiamo ubbidito. Roberto non parlò quasi mai durante la colazione, ma si vedeva che egli ruminava un pensiero. Prima di alzarsi disse: Sentite, Varvaro: io vi affido una missione delicata o spero la compirete. Andate a Palermo; il treno passa alle tre e minuti da Castelvetrano e giungerete in tempo; a Palermo vi recherete alla dirczione del giornale e sappiate intendete, sappiate farvi dire chi è l'autore dell'articolo. Intanto da Castelvetrano spedite il dottore: la signora Velleda sta male. Il Varvaro andò a preparar le valigie, e il buon Lo Carmine, pentito di essere stato lui la causa involontaria di tanti dolori, rimase a divertire Maria, mentre Roberto risaliva in camera della malata, che era tuttavia scossa dal tremito della febbre.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679337
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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La stampa terza pagina 1986

681497
Levi, Primo 3 occorrenze

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Pagina 0077

È un' occasione per volgere le spalle alla retorica infantile degli evviva e degli abbasso, e per cimentarsi con un problema concreto. Credo che in primo luogo occorra forzarsi di essere imparziali, dirlo e dimostrare di esserlo, anche se questo non è facile. Quando scendiamo nelle piazze e gridiamo di voler imporre ai governi il disarmo atomico, dobbiamo essere chiari. Vogliamo rivolgerci a tutti i governi, e temiamo tutte le testate nucleari. Non ce ne sono di buone e di cattive, sono cattive tutte. Non è facile essere imparziali perché, sotto l' aspetto dell' "imporre" e del "rivolgerci", fra le due metà del mondo non c' è simmetria. Per organizzare un corteo dimostrativo a Roma o a New York basta un accordo fra persone che pensano allo stesso modo; per organizzarlo a Mosca ci vuole l' accordo di Mosca. Il giorno in cui sapremo che a Mosca si è svolta una marcia pacifista spontanea sarà un gran giorno per tutta l' umanità. Non sembra che questo giorno sia vicino, ma convincere i russi che le nostre marce sono spontanee e che il nostro pacifismo è imparziale può contribuire ad avvicinarlo. La frontiera Est-Ovest assorbe fortemente i suoni, ma se avremo voce a sufficienza può darsi che una eco ne pervenga anche laggiù, e spinga quei cittadini (che non sono tutti automi né tutti sordi) a chiedere al loro governo quello che noi chiediamo ai nostri. Credo che occorra una certa dose di ottimismo, senza la quale non si fa nulla e non si vive bene. "Non c' è più niente da fare" è un' affermazione intrinsecamente sospetta, che non ha utilità pratica; serve soltanto, a chi la enuncia, come esorcismo, cioè serve a poco. Non intendo dire con questo che l' olocausto nucleare sia impossibile: le quarantamila bombe pronte per l' uso esistono, purtroppo, immagazzinate quasi tutte negli Stati Uniti e nell' Unione Sovietica. Sono una spada sospesa, ma qualcosa da fare c' è ancora, la condanna non è ancora stata pronunciata. Finché le sorti del mondo saranno decise da vecchi astuti e cinici, ma cauti, quali finora si sono mostrati Breznev e Reagan, le bombe rimarranno probabilmente nei magazzini. A scorno della storiografia marxista e tolstoiana, sembra proprio che nella storia di oggi le masse pesino poco. Che alla Casa Bianca o al Cremlino sieda un uomo o un altro, fa differenza: questi potenti decidono in proprio, e i nostri destini si tessono entro meno di tremila grammi complessivi di materia cerebrale. Tuttavia, prima di decidere essi ascoltano consigli, fiutano l' aria, soppesano i desideri e le minacce interne ed esterne. Non sono impermeabili alle spinte dal basso. Al di fuori di ogni giudizio morale, ci accontenteremmo che possedessero due virtù: che sappiano decidere razionalmente, e che abbiano pieno controllo sui loro sottoposti, i militari in specie. Finché lo saranno, non premeranno il bottone, né lo lasceranno premere, perché sapranno che l' olocausto travolgerà anche il loro potere e la loro vita; e terranno a bada gli alleati irresponsabili e gli emotivi, sia entro i loro confini, sia nei paesi terzi. A questo proposito, è incomprensibile, criminale e suicida che si consenta ai governi (anche al nostro!) di fornire a paesi instabili materiali e tecnologie potenzialmente mortiferi. Credo, infine, che occorra realismo. Chiedere tutto e subito è da ingenui, e gli slogans massimalistici nascono morti. È bene esortare a convertire le lance in falci, lo faceva già Isaia; ma bisogna ricordare che i fabbricanti di "lance" sono potenti e agguerriti. Sarebbe bello costringerli tutti a cambiare mestiere, ma non ci si riuscirebbe in breve tempo. Per restare nell' immagine, proporrei che la conversione fosse graduale: lance in scudi, e poi gli scudi in falci quando la prudenza lo consenta. Insomma, non sarebbe possibile che le somme vertiginose stanziate dai bilanci militari venissero investite prevalentemente (e gradualmente) in armi di difesa? In reti radar anziché in testate nucleari, in missili anticarro anziché in carri, e così via? Sarebbe un segnale non equivoco, per indicare alla controparte che la guardia non si è abbassata, ma che non ci sono intenzioni aggressive. America e Russia si trovano in una costosa situazione di stallo, in cui, per ragioni di antica diffidenza, e anche di prestigio barbarico, sulla via del disarmo nessuno dei due vuole muovere il primo passo. Questo sarebbe un primo passo accettabile anche da chi è ancora sensibile al fascino delle armi. Se lo si attuasse, la sicurezza del mondo farebbe un passo avanti, piccolo ma acquisito. Questa non è altro che la proposta di un incompetente: candida, presuntuosa, o addirittura ridicola, ma è una proposta, non è una interiezione né un ritornello né un sospiro sconsolato. Chi la giudica assurda le deve contrapporre un' altra proposta; dovrebbe essere questa la regola del gioco, ed è un gioco la cui posta è alta. Pare che presto avrà inizio a Ginevra una trattativa globale: noi piccoli uomini ci troviamo costretti a delegare ai due grandi uomini una responsabilità pesante come nessuna è mai stata. Vorremmo che sentissero il ronzio delle nostre voci, e ricordassero che il problema del disarmo nucleare è il problema numero uno; se sarà risolto, non si risolveranno automaticamente tutti gli altri problemi del pianeta, ma se non sarà risolto, nessun altro problema sarà risolto.

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Lilit

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Levi, Primo 2 occorrenze

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

- Per riprenderlo abbasso? - Sì, capitano. - La vostra idea non mi sembra cattiva, anzi. Gli è che da solo non potrete muovere una tale massa, quantunque siate d'una robustezza eccezionale. - Passate il torrente e venite ad aiutarmi. - Ah! Rokoff! - esclamò Fedoro. - Tu giochi d'astuzia per non fare il terzo bagno. Io però sono pronto a tentare la prova. - Se non sai nuotare! - Hai la corda. - Che noi terremo tesa, signor Rokoff - disse il capitano. - In quanto a me, non ne avrò bisogno. - No - disse il cosacco, con tono risoluto. - Esporre Fedoro ad un simile pericolo mai; d'altronde possiamo spingere egualmente lo jack nel torrente. La corda è solidissima e non si spezzerà! Ora vedrete. Legò le due gambe anteriori dell'animale, esaminò tutti i nodi per accertarsi se erano bene stretti, poi gettò l'altro capo della corda ai compagni, dicendo: - Tirate, mentre io spingo. Vi dico che riusciremo. Doveva possedere una forza più che erculea quel cosacco perché spingendo ora da una parte ed ora dall'altra, riuscì a smuovere l'enorme massa la quale, trovandosi su un pendio ed a soli pochi passi dalla riva, in causa anche delle frequenti scosse del capitano e di Fedoro, finì per rotolare nel fiume. Essendo trattenuta dalla corda, l'acqua la spinse verso la riva opposta, dove il capitano l'attendeva per tagliare alcuni pezzi di carne, prima d'abbandonare l'animale alla corrente. Rokoff intanto era tornato a spogliarsi per intraprendere la sua terza traversata che compì non meno felicemente delle altre due. L'aver appena fatto colazione, non aveva recato alcun disturbo a quell'ercole che sembrava fosse corazzato con lamine d'acciaio. Lo jack intanto, abbandonato a se stesso, veniva travolto dalla corrente impetuosa. Fu veduto girare un momento su se stesso presso la cascata, poi inabissarsi. - Buon viaggio - disse Rokoff, che alimentava il fuoco. - Mentre vi asciugate, io e Fedoro andremo a vedere da qual parte potremo scendere - disse il capitano. - Sono già le due e chissà quanta via dovremo percorrere prima di ritrovare lo "Sparviero". I nostri compagni saranno un po' inquieti per la nostra prolungata assenza. Seguirono la riva del torrente portando con loro la corda e s'arrestarono all'estremità del burrone. Le acque, chissà dopo quanti anni di continuo lavoro, si erano aperte un largo passaggio fra la parete rocciosa e si precipitavano nel sottostante abisso da un'altezza di oltre venticinque metri, con un rombo assordante, che l'eco delle rupi ripercuotevano ed ingrossavano. Le due pareti erano quasi lisce, ma lasciavano ai due lati del torrente un po' di spazio sufficiente a lasciar passare un uomo. - Potremo scendere - disse il capitano. - Prenderemo una doccia gelata, ma bah! Penseremo poi a riscaldarci. - Dove legheremo la corda? - chiese Rokoff. - A quella roccia, che sembra sia stata collocata lì per servire a noi. - Non cadremo in una nuova trappola? - Vi è una gola nel burrone - rispose il capitano, il quale si era spinto fino sull'orlo della cascata. - Speriamo che non sia chiusa. Alcuni passi più indietro vi era uno scoglio aguzzo che s'alzava in forma d'obelisco. Il capitano legò la corda, poi lanciò l'altra estremità parallelamente alla cascata. - Ce n'è a sufficienza - disse. - A me l'onore di tentare pel primo la discesa. Prima che Fedoro avesse potuto rispondere, l'intrepido comandante si era aggrappato alla corda, lasciandosi lentamente scivolare. Ben presto si trovò avvolto in una nube di schiuma e di acqua polverizzata. Degli spruzzi, tratto tratto, gli piombavano addosso accecandolo e quasi soffocandolo, mentre il rombo della cascata lo assordava, pure resisteva tenacemente, tenendosi ben stretto alla corda. Fedoro lo seguiva cogli sguardi, fremendo. Se un nodo si fosse sciolto, quale spaventevole caduta! Il capitano non si sarebbe certamente salvato, il fondo della cateratta essendo irto di rocce sottili come aghi. A un tratto lo vide scomparire dietro l'angolo della parete, poi udì confusamente la sua voce. - Deve aver toccato il fondo - disse Fedoro a Rokoff il quale si era rapidamente svestito. - A te ora - disse il cosacco. - Io scenderò ultimo per tenerti la corda ben tesa. Bada di non lasciarti andare prima del tempo e di non cadere in acqua; nessuno potrebbe salvarti e la corrente ti fracasserebbe subito contro le rocce. Se soffri le vertigini, chiudi gli occhi. - Sì, Rokoff - rispose il russo. Strinse la corda con tutta la forza delle mani e si lasciò scivolare adagio adagio per non scorticarsi le palme e le dita. Quella discesa era veramente terribile, con quella cascata che precipitava a pochi passi, fra tutta quella spuma che gli impediva di vedere la rupe, quel fracasso rimbombante e quei getti d'acqua che lo inondavano, freddi come se fossero di ghiaccio liquido. Due o tre volte, intontito, mezzo soffocato, fu lì lì per perdere la sua energia e lasciarsi andare, non sentendosi più in grado di poter resistere a quella prova tremenda. A un certo punto sentì due braccia robuste afferrarlo ed attirarlo verso la parete. - Qui, mettete i piedi qui! - gli gridò una voce agli orecchi. - La discesa è finita. Era il capitano che lo aspettava su una piccola piattaforma che si trovava a pochi metri dal fondo della cascata. - Aggrappatevi a questi sterpi - disse il comandante dello "Sparviero" - Poco piacevole questa discesa, è vero, signor Fedoro? - Stavo per lasciarmi cadere - rispose il russo, afferrandosi, coll'energia che infonde la disperazione, ad alcune radici che uscivano da un crepaccio della parete. - Vi sareste sfracellato. E Rokoff? - Sta per scendere. - Aspettiamolo, poi andremo a visitare quella gola. Il cosacco non si fece aspettare molto. Quel diavolo d'uomo non aveva provato alcuna vertigine, né un momento di debolezza. Pure non sembrava troppo contento. - Per le steppe del Don! - esclamò, appena mise i piedi sulla piattaforma. - Quasi avrei preferito fare un altro salto nell'abisso. All'inferno gli jacks e anche le cascate! Possiamo almeno uscire? - Ora lo sapremo - rispose il capitano. Saltarono su un'altra piattaforma che si trovava un metro più sotto e scesero nel burrone che era molto più ampio del primo e del pari attraversato in tutta la sua lunghezza dal torrente, il quale si precipitava, con un altro salto, entro un bacino profondo che sboccava in una stretta valle. - Vedete lo jack in qualche luogo? - chiese Rokoff. - No - rispose il capitano. - La corrente l'ha portato via. - In quale stato giungerà abbasso con tutte queste cascate? Lo troveremo a pezzi. - Abbiamo l'altro sull'altipiano - rispose il capitano. - Ecco la gola! Attraversato il burrone giunsero dinanzi ad uno stretto passaggio aperto fra due rupi enormi che s'alzavano fino al piccolo altipiano e così lisce da rendere impossibile una scalata. Il capitano ed i suoi compagni si cacciarono nella gola che descriveva delle curve e dopo dieci minuti giungevano in una valletta la quale scendeva ripidissima fino al deserto. - Urrà'. - gridò Rokoff. - Ecco laggiù lo "Sparviero"! Siamo salvi! Infatti, adagiata sulle sabbie, si scorgeva la macchina volante, colle sue immense ali distese. Una macchietta nera si muoveva sulla sabbia, ora accostandosi e ora allontanandosi dal fuso. - Un nostro compagno che veglia - disse il capitano. - Scendiamo amici. - E il torrente? - chiese Fedoro. - L'odo rumoreggiare sulla nostra destra. - Andremo a cercarlo poi? - Sì, signor Fedoro; preme anche a me lo jack. Si misero a scendere la valletta, fermandosi di quando in quando per tema di fare un altro incontro con quei formidabili animali, incontro che avrebbe potuto avere gravi conseguenze, non avendo più le carabine che erano rimaste in fondo al torrente. Alle sei di sera toccavano le sabbie del deserto. Stavano per dirigersi verso lo "Sparviero", quando Rokoff segnalò uno stormo di grossi uccelli che s'alzava e s'abbassava dietro un ammasso di rocce. - Capitano - disse. - Non sono avvoltoi quei volatili? - Si - rispose l'interrogato, dopo averli osservati qualche istante. - Ci deve essere qualche carogna per averli attirati in così grosso numero. - Che sia il nostro jack? - Pensavo anch'io in questo momento a quell'animale. Forse il torrente o fiume che sia, scorre dietro a quelle rupi. - E lo abbandoneremo a quegli ingordi uccellarci? - No, l'abbiamo cacciato noi e l'avremo. Signor Fedoro, recatevi allo "Sparviero" e dite al macchinista di venire a raggiungerci. Non è che ad un miglio da noi. Mentre il russo si allontanava, il capitano ed il cosacco girarono intorno a quell'ammasso di rupi, che formavano l'ultimo sperone della piccola catena. Il torrente, diventato un largo fiume, scorreva dietro di esse, dirigendosi verso l'est.-Era un affluente del Darja, oppure andava ad alimentare il lago di Tuslik-dung o quello più ampio del Lob-nor? Le sue acque avevano cominciato a fertilizzare le aride terre del deserto. Sulle due sponde si vedevano numerose betulle nane e fitti cespugli. - Ecco là gli avvoltoi - disse Rokoff. - Saccheggiano la nostra selvaggina; vedete che s'innalzano portandosi via dei pezzi di carne sanguinante? I bricconi! Affrettarono il passo e giunsero sulla riva. Non si erano ingannati. Lo jack si era arenato su un banco di sabbia e una quarantina di brutti avvoltoi, col collo spellato e rognoso, le penne oscure ed arruffate, stavano dilaniandolo con ingordigia feroce; ci vollero molte sassate prima di deciderli ad abbandonare l'enorme preda che avevano già intaccata in più parti, aprendo dei buchi considerevoli. Vi era però ancora tanta carne, da assicurare i viveri per un mese intero ai cinque aeronauti. Nelle continue cadute l'animale era stato ridotto in deplorevoli condizioni. Gambe e costole erano state fracassate e la carne in più luoghi sbrindellata. - Sarà più frolla - disse Rokoff. Lo "Sparviero" giungeva volando a pochi metri dal suolo. Si posò a cinquanta passi dalla riva ed il macchinista, e l'uomo silenzioso scesero armati di scuri. Due ore dopo lo jack, ridotto a pezzi, gelava nella ghiacciaia dello "Sparviero".

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682364
Salgari, Emilio 2 occorrenze

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683036
Bertelli, Luigi - Vamba 2 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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… E abbasso le minestre di capellini! Finalmente la pace è tornata in famiglia e tutto per merito mio. Stamattina dunque, come mi ero ripromesso, io stavo all'erta; e quando ho sentito un po' di rumore in casa, zitto zitto mi sono alzato, mi son vestito e sono stato ad aspettare gli eventi. Nessuno pensava a me. Ho sentito il babbo, la mamma, Ada e Virginia che sono scesi giù dalle loro camere; poi è venuto l'avvocato Maralli, e in ultimo ha suonato il campanello il vetturino e tutti sono usciti. Allora io che stavo pronto, lesto come una saetta, sono sbucato dalla mia camera, sono uscito di casa, e via a corsa precipitosa dietro la carrozza che si era appena mossa. L'ho raggiunta poco distante da casa, ho agguantato la traversa di legno che è in fondo, dietro il mantice, e mi son ficcato lì a sedere, come fanno i ragazzi di strada, pensando fra me: - Ecco che ora non potrete più nascondermi dove andate!... - Il più bello poi è questo: che stando lì, udivo tutti i discorsi che facevano dentro la carrozza... E tra l'altro ho sentito il Maralli che diceva: - Per carità, badate che quel tremoto di Gian Burrasca non sappia niente di questa nostra gita... altrimenti lo ridice a mezzo mondo! - Cammina cammina, dopo molto tempo la carrozza s'è fermata e tutti sono scesi. Ho aspettato un poco e poi sono sceso anch' io. Oh maraviglia! Si era davanti a una chiesetta di campagna, nella quale erano entrati i miei genitori, le mie sorelle e il Maralli. - Che chiesa è questa? - ho domandato a un contadino che era lì fuori. - È la chiesa di San Francesco al Monte. - Sono entrato anch'io, e ho visto dinanzi all'altar maggiore inginocchiati davanti al prete l'avvocato Maralli e Virginia, e più indietro Ada, il babbo e la mamma. Io strisciando lungo la parete della chiesa mi sono avvicinato all'altare senza che nessuno si accorgesse di me, e così ho potuto assistere a tutto lo sposalizio, e quando il prete ha domandato a Virginia e al Maralli se erano contenti di sposarsi e che loro hanno risposto di sì, allora sono uscito a un tratto fuori dell'ombra e ho detto: - Sono contento anch'io; e allora perché non mi avete detto niente, brutti cattivi? - Non so perché, ma in quel momento m'è venuto da piangere, perché quell'azione mi era dispiaciuta davvero, e tutti sono rimasti così meravigliati della mia apparizione, che nessuno ha fiatato. Ma subito la mamma si è messa a singhiozzare e mi ha preso tra le braccia e mi ha baciato, domandandomi con voce tremante: - Giannino mio, Giannino mio, ma come hai fatto a venir fin qui? - Il babbo ha borbottato: - Una delle solite! - Anche Virginia, dopo lo sposalizio, piangeva e mi ha abbracciato e baciato, ma il Maralli m'è parso molto malcontento, e presomi per un braccio mi ha detto: - Bada bene, Giannino, che non ti scappi detto a nessuno, in città, quello che hai visto... Hai inteso? - E perché? - Non ti impicciare del perché. Non son cose che possono capire i ragazzi, queste. Sta' zitto e basta. - Ecco dunque un'altra delle tante solite cose che i ragazzi non possono capire! Ed è possibile - domando io - che delle persone grandi credano sul serio che una ragione simile possa soddisfare un ragazzo? Basta. L'interessante per me è che ora tutti mi vogliono bene; siamo tornati a casa, e nel ritorno sono stato a cassetta col vetturino, e ho guidato quasi sempre io; e, quel che più conta, ora non mangerò più minestre di capellini per un pezzo.

Perché mi aveva sorpreso nel corridoio che conduce alla sala di ginnastica mentre scrivevo col carbone sul muro: Abbasso i tiranni Più tardi la direttrice mi disse: - Sei un sudicione e un malvagio. Sudicione perché hai sporcato il muro, e malvagio perché offendi le persone che cercano di farti del bene correggendoti. Chi hai voluto indicare come tiranni? Sentiamo... - Uno è Federigo Barbarossa, - risposi pronto - un altro è Galeazzo Visconti, un altro è il generale Radeschi, e un altro è... - Siete anche un impertinente, ecco tutto! Andate in classe subito! - Questa direttrice non capisce nulla; invece d'aver piacere chi io mi appassioni contro i peggiori personaggi della storia patria, s'è messa in testa, da quella volta, che io la canzoni, e non mi leva mai gli occhi di dosso. La direttrice si chiama la signora Geltrude ed è la moglie del signor Stanislao, ma è un tipo tutto diverso da lui. È bassa bassa e grassa grassa, con un naso rosso rosso, e declama sempre, e fa dei grandi discorsi per delle cose da nulla, e non si cheta mai un minuto, corre per tutto e discorre con tutti e su tutto e su tutti trova a ridire. Gli insegnanti che fanno lezione alle diverse classi sono tutti dipendenti dal direttore e dalla direttrice e paion loro servitori. Il professore di francese arriva perfino a baciare la mano alla signora Geltrude tutte le mattine quando le dà il buon giorno e tutte le sere quando le dà la buona sera; e il professore di matematiche dice sempre al Signor Stanislao quando va via: "Servo suo, signor direttore!" Noi collegiali siamo ventisei in tutti: otto grandi, dodici mezzani e sei piccoli. Io sono il più piccino di tutti. Si dorme in tre camerate, una accanto all'altra, si mangia tutti in un gran salone, due pasti al giorno e la mattina il caffè e latte col pane inzuppato, ma senza burro e sempre con poco zucchero. Il primo giorno a desinare vedendo venir la minestra di riso esclamai: - Meno male! Il riso mi piace moltissimo... - Un ragazzo di quelli grandi che sta di posto accanto a me (perché a tavola ci mettono sempre alternati, uno piccino e uno più grande) e che si chiama Tito Barozzo ed è napoletano, dètte in una gran risata e disse: - Tra una settimana non dirai più così! - Io allora non capii niente, ma ora ho compreso benissimo il significato dì quelle parole. Sono sette giorni che sono qui e, meno l'altro ieri che era venerdì, si è sempre mangiato la minestra di riso due volte al giorno... Mi è venuta così a noia, che l'idea di una minestra di capellini, che prima mi era così antipatica, ora mi manda tutto in solluchero!... Oh mamma mia, cara mammina che mi facevi fare spesso da Caterina gli spaghetti con l'acciugata che mi piacciono tanto, chi sa come ti dispiacerebbe se tu sapessi che il tuo Giannino in collegio è obbligato a mangiare dodici minestre di riso in una settimana!

USI,COSTUMI E PREGIUDIZI DEL POPOLO DI ROMA

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Zanazzo, Giggi 1 occorrenze

Tutti te daveno addosso; e o ccor un soffietto, o ccor una svèntola o cco’ ’na manata o ’na mazzettata te lo smorzaveno in ogni modo, urlanno: — Er móccolo e ssenza er móccolo; abbasso er móccolo! Ma ssiccome ’sto divertimento se lo ricordeno incora guasi tutti, è inutile a stanne a pparlà’ ttanto.