Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassa

Numero di risultati: 39 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Manuale per i dilettanti di pittura a olio, acquerello, miniatura, guazzo, pastello e pittura sul legno (paesaggio, figura e fiori)

259243
Ronchetti, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1902
  • Ulrico Hoepli Editore Libraio della Real Casa
  • Milano
  • manuale di pittura
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Anche l’introduzione del verde smeraldo abbassa tutti gli altri verdi.

Pagina 207

Manuale Seicento-Settecento

259944
Argan, Giulio 1 occorrenze

Nei suoi passi migliori abbassa le tinte, semplifica la composizione, riduce la descrizione a poche note discrete e significative. Ritrae senza falsa pietà od ostentazione dell’orrido morti, morenti, deformità e piaghe: non per fare del realismo, ma per una sorta di intrepidezza morale, di simultaneo rispetto per la verità e per il, prossimo. Lo stesso atteggiamento, ma con più scoperte note di pietismo, si nota nel Morazzone. È coetaneo del Caravaggio e certamente ne vide le opere a Roma, dove dimorò alla fine del secolo: il luminismo del San Francesco in estasi è un’interpretazione benché unilaterale ed espressionistica, del luminismo caravaggesco. Ma la medesima spinta religiosa che nel Caravaggio porta alla rivolta morale porta il Morazzone ad un conformismo devozionale, che non cessa d’essere tale per il fatto di atteggiarsi ad ascetismo fanatico. Tanto artificioso, benché inconscio di esserlo, da poterlo ritrovare tale e quale, o quasi, in un altro pittore, FRANCESCO DEL CAIRO (1607-1665).

Pagina 191

Saggi di critica d'arte

261990
Cantalamessa, Giulio 1 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Combatte risoluto, ma tranquillo, come chi è certo della vittoria, e abbassa lo sguardo sul nemico, che gli si divincola al piede, con un’alterezza olimpica, da farci pensare che il gentil seme latino, con immutato ideale artistico, ricorra sempre per istinto allo stesso linguaggio dei grandi antichi, e che questo sia il più eletto, il definitivo modo di esprimersi. Ma Guido, dipingendo quella figura, non ha potuto, o non ha voluto, deporre del tutto il ricordo del S. Michele che il Calvari avea dipinto per la cappella Barbazzi in San Petronio; quadrò che ha molto sofferto, ma in cui si può anche adesso ravvisare una delle più felici ispirazioni di questo fiammingo devoto all’arte italiana ed a Bologna.

Pagina 123

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266627
Boito, Camillo 2 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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L’altra, più giovine, abbassa gli occhi a terra pudicamente, ma, benché non apra le labbra, pure muove tutto il volto ad un sorrisetto pressoché impercettibile, e s’indovina che non le sfugge una sillaba sola, un solo gesto del poeta. Ma il vecchiotto cavaliero, terzo ascoltatore, non ha di questi rispetti umani; si rovescia indietro e sghignazza, aprendo la bocca e stringendo volpescamente le palpebre, come se il frollo libertino dicesse, con l’acquolina in bocca: ho capito, ho capito!

Pagina 284

La donna s’incurva dinanzi e abbassa il capo per riparare la faccia, e non ostante socchiude gli occhi e raggrinza i muscoli del volto, come si fa quando s’alza un fastidiosissimo polverìo. La fanciullina si copre il viso con il braccio e sgambetta. Le vesti svolazzano. S’indovina che con il vento corre la tempesta. E non di meno questo non pare un gruppo nato così grande, poichè l’impressione è giusta, ma lieve e più adattata ad un perfetto bozzetto che ad un compiuto lavoro.

Pagina 403

Almanacco igienico popolare del dott. Paolo Mantegazza

270016
Mantegazza, Paolo 1 occorrenze
  • 1882
  • Libreria Gaetano Brigola
  • Milano
  • cucina
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«L'oca, egli dice, è il più bell'emblema della prudenza; abbassa il capo per passare sotto un ponte, per quanto alto possa essere l'arco; è pudica e ragionevole al punto da purgarsi da sè quando è malata, senza consultare il medico. Le oche sono così prudenti, che quando passano per il Monte Tauro, che è popolato di aquile, hanno cura di prendere ciascuna nel becco una pietra, per obbligarsi così al silenzio e non farsi scoprire col loro cinguettìo pettegolo.»

Pagina 077

Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l'uso di famiglia

322756
Lazzari Turco, Giulia 1 occorrenze
  • 1904
  • Tipografia Emiliana
  • Venezia
  • cucina
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Pagina 528

Nuovo cuoco milanese economico

326064
Luraschi, Giovanni Felice 3 occorrenze

Montate quattro chiari d'uova, unitevi i suoi rossi, poco sale, un pugno di farina di semola, appena fatta la fiocca servitevene facendola friggere con sveltezza acciò non si abbassi, e quando cuoce volgetela, e preso il bel colore servitevene con salvietta prima che si abbassa.

Pagina 025

69. e) Fate cuocere una libbra di pomi, pelateli e tridateli e tirateli in ziroppo con once 12 di zucchero, pas-sati al sedaccio e unitevi poco marmellata di cedrato, indi sette o otto rossi d’uova e tirateli chiari alla fioc-ca, metteteli in un piatto a cuocere al forno o alla stuffa, cioè fuoco sotto e sopra un testo, e al momento servitelo prima che si abbassa.

Pagina 305

Fate tostare venti grani di caffè, levatelo dal tostino e così bollente versatelo in tre zaine di latte, co-pritelo e lasciatelo nello stesso, passatelo in seguito al sedaccio, mettetelo in una cassarola e fatelo bollire al fornello ponendovi due once zucchero e farina bianca a descrizione, formate una polentina nè troppo dura nè troppo liquida, sbattetela bene con porvi poco cedrato filettato, corteccia di limone e tridato otto rossi d’uova, maneggiate il tutto bene con cucchiajo di legno, indi ponetevi otto chiari d’uova alla fiocca, untate di butirro un piatto d’argento od altro, versatevi il composto, tiratelo col coltello a piramide o come più vi piace, fatelo cuocere al forno temperato, curate il momento che abbia preso un bel colore e servitelo all’istante altrimenti si abbassa.

Pagina 311

Antropologia soprannaturale Vol.II

626836
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Or l' essere infinito non può conoscersi realmente se egli non si comunica alla creatura intelligente dandosi a lei da percepire: e questa è graziosa comunicazione, la quale non si acquista dalle creature colle loro forze, ma sì perchè Dio stesso spontaneamente si abbassa e si avvicina ad esse creature e in esse si manifesta, producendovi il sentimento di sè. L' ultima perfezione adunque d' ogni creatura intelligente non si può far che per grazia, mediante la congiunzione reale di Dio ad essa per l' intelletto; e senza questo la natura intellettiva ha una possibilità di conoscere e di volere, la quale si rimane sempre indietro dall' essere appieno saziata o esaurita, se non relativamente al soggetto, certo relativamente al mezzo conoscitivo che egli possiede. La creatura umana appartiene al genere delle intelligenze, ma si trova in essa una speciale limitazione. Anch' essa ha l' essere per mezzo conoscitivo, dacchè non può darsi nessun ente che intenda per altro mezzo, perchè sarebbe assurdo che si desse cognizione senza ciò che forma l' essenza della cognizione. Ma l' essere ideale nello spirito umano si trova per natura in uno stato il più indeterminato, giacchè l' uomo non vede in esso nessuna determinazione di cosa veruna senza l' aiuto delle sensazioni. Di maniera che questa luce, che irraggia lo spirito dell' uomo, gli risplende nel modo più tenue e rimoto che dir si possa, sicchè affissandosi in essa senza aiuto di specie sensibili o sentimenti non vede nulla di distinto. L' uomo adunque della natura è il più limitato e imperfetto degli esseri conoscitivi per la tenuità della luce, nella quale possiede il mezzo di conoscere, cioè l' essere possibile. Di che viene la conseguenza che aver non vi può alcun altro essere più bisognoso di lui di educazione e di società. Di qui la perfettibilità umana, cioè quell' attitudine che ha lo spirito umano di essere condotto a gradi sempre maggiori di cognizioni reali, e ad un operare consentaneo a questo crescere continuo di cognizioni. Il complesso dei mezzi onde l' uomo riceve questo successivo sviluppamento è ciò che chiamo, in un senso assai generale, educazione . Questi mezzi però, per quanti sieno nel complesso delle cose create che formano l' universo e che circondano l' uomo, non giungono mai a essere infiniti nè di numero nè di qualità; e però non possono essi soli, come dicevamo, corrispondere adequatamente all' estensione del mezzo conoscitivo che ha l' uomo, il quale è al tutto illimitato, e però riman sempre di pensare come cosa possibile, che, dopo aver l' uomo conosciuto un certo numero di oggetti reali qualunque, ne conosca altri e altri ancora, indefinitamente. Quindi la perfettibilità della umana specie è, sotto questo aspetto, indefinita: sentenza che non viene poi finalmente a dir altro che l' uomo, finchè si considera ristretto nel circolo della natura, può sempre progredire bensì, ma non giungere giammai all' ultima e completa sua perfezione. Conviene dunque, per dirlo di nuovo, che dal di fuori del circolo delle cose create, dal seno dell' infinito proceda l' umana perfezione piena e assoluta. Ma se tutto il complesso delle create cose fra le quali l' uomo fu posto, non possono dargli la perfezione sua finale, ma solo una cotal perfezione graduata, la quale si lontana da questa un tratto infinito; e se pur ch' abbia l' uomo ottenuta l' ultima sua perfezione, di null' altro abbisogna; ond' è adunque che egli fu messo al contatto con altre creature? che a lui fu data altresì quella perfettibilità progressiva nell' ordine delle cose naturali, che pur nol conduce al pieno suo perfezionamento? Conviene considerare che ciò era richiesto dalla stessa natura umana, la quale voleva che il progresso naturale non si rimanesse già solo e privo di relazione colla perfezione soprannaturale; ma che egli anzi servisse di mezzo e di occasione a questa. Il che per intendere chiaramente convien richiamarsi ciò che abbiam detto sullo stato in cui è uscito dalle mani di Dio l' uomo primitivo. La sede del perfezionamento dell' uomo come persona è lo spirito intelligente. Nello spirito intelligente non possono operare e produrvi perfezione o imperfezione se non due cause, Iddio e l' attività dello stesso spirito. Tutte le creature hanno bensì un' azione sulle altre parti e potenze dell' uomo, ma non immediatamente nella stessa intelligenza. Iddio opera nello spirito rendendolo intelligente; ma questa operazione non è diversa dalla stessa creazione dello spirito: Iddio con essa crea, costituisce lo spirito, pone in una parola la natura intelligente. Posta questa natura, ella può usare la sua attività colla condizione però che le altre creature agendo in lei vi producano dei sentimenti: dati questi sentimenti, essa, l' attività dello spirito, accresce il suo conoscere, servendole quei sentimenti di materia che ella informa coll' essere ideale e indeterminato che possiede. In tal modo l' attività dello spirito (data la condizione esterna dell' azione delle creature) è la causa della perfettibilità, o anzi perfezione indefinita della umana natura. All' incontro Iddio solo può essere la causa della perfezione assoluta di questa natura; poichè egli solo è un essere reale infinito che corrisponde a pieno alla latitudine del mezzo di conoscere, cioè all' essere ideale, infinito anch' egli. E` dunque necessario acciocchè l' uomo acquisti l' assoluta sua perfezione che Iddio operi nel suo spirito intelligente come essere reale, la quale operazione produce quella comunicazione d' Iddio che abbiamo nominata soprannaturale o graziosa . Or non ripugna, egli è vero, alla nozione della divina potenza, che Iddio si comunicasse all' uomo pienamente di prima giunta: ma ciò non converrebbe bene nè colla natura umana, nè colla stessa bontà e sapienza di Dio. Non colla natura umana, perocchè in tal caso tutte le altri parti dell' uomo, fuori della pura intelligenza, sarebbero state perdute e a niun bene usate; e non era in mano di Dio il formare l' uomo senza queste parti all' uomo essenziali. Nè il tralasciare di creare Uomini per questo e crear solo Angeli possiamo dire che fosse migliore: perocchè stando anche a quel poco che noi veggiamo nel fare sì grandi ragioni, egli è manifesto che il non creare uomini non gli cresce mica a Dio la potenza di crear angeli, mentre egli può creare di questi quanti gli pare e crear tuttavia uomini. Sicchè il non crear questi null' altro sarebbe stato che l' avervi una natura di meno nella università delle cose, e però di meno tutti quei beni che questa natura rinserra e che da essa provengono. Non si affarebbe nè pure colla bontà di Dio, poichè quella troppo grande generosità torrebbe all' uomo molte specie di meriti, pei quali vien ricevendo i doni in mercede, e l' averseli così guadagnati aggiunge all' uomo una nobilissima morale dignità che per lui sarebbe altramente perduta. Non finalmente colla sua sapienza perocchè è proprio del sapiente il non adoperare, a ottenere de' fini, de' mezzi maggiori di quello che gli stessi fini addimandino, facendo spreco e inutile profusione di essi. E così farebbe Iddio, se in luogo di servirsi delle cagioni secondarie e subordinate, volesse far tutto immediatamente da sè solo. Convenevole cosa era dunque, che l' uomo venisse sviluppandosi e adducendosi al suo ultimo perfezionamento per uso delle sue stesse potenze: il che è quanto dire per quei mezzi che sono proprii della sua natura; e che Iddio non facesse se non quello che le sue potenze sole far non potevano. Due cose le potenze di cui la natura umana è fornita far non potevano: 1. esse non potevano da sè sole trovare un oggetto reale infinito che le completasse; 2. non potevano nè pure dare a sè stesse alcun oggetto finito nel quale terminare e pel quale svilupparsi. Conveniva adunque che queste due cose facesse Iddio, cioè che egli non lasciasse la natura umana isolata, ma la circondasse di tutti quegli oggetti finiti che formassero, per così dire, il pascolo delle sue potenze e pei quali esse potessero adoperare e svilupparsi: e questa cosa Iddio la fece creando l' universo. Iddio doveva in secondo luogo comunicar sè stesso essere reale infinito allo spirito umano e comunicarsi in una maniera proporzionata e corrispondente all' uso delle umane potenze. Veggiamo adunque quali leggi conveniva che presiedessero alla perfezione dell' uomo, acciocchè questa nascesse con proporzione e corrispondenza al suo stesso naturale sviluppo. La legge fondamentale, secondo la quale l' uomo doveva esser condotto all' ultima sua perfezione, era questa: - Che le cognizioni che l' uomo naturalmente acquistava fossero atte a dargli una cognizione sempre più perfetta del Creatore; e che questa cognizione fosse insieme sentimento efficace, e per ciò una incipiente percezione del Creatore stesso. Questo sentimento, questa iniziale percezione del Creatore appartiene alla grazia, ed è ciò che si sopraggiunge alla naturale cognizione. Così la natural cognizione e la grazia si trovavano intimamente congiunte a formare un lume solo dell' anima, e si può dire che la grazia era come un calore che esce dalla luce e che accresce la luce medesima (1). Ora rimane a vedere come egli doveva essere l' ordine delle cognizioni che l' uomo veniva naturalmente acquistando, acciocchè tutte servissero a innalzare la sua mente al Creatore e quindi a dargli del Creatore una conoscenza sempre maggiore. Le cognizioni naturali dell' uomo tutte avevano l' origine dall' universo esteriore che operava sopra i suoi sensi. L' esser dunque queste cognizioni di tal natura e ordine che avessero attitudine a sollevare la mente dell' uomo al Creatore dipendeva dalla conformazione dell' universo. Qui adunque si debbe cercare il principio dal quale è partita la sapienza di Dio, perchè le naturali cognizioni dell' uomo dovessero continuamente recarlo a una cognizione via sempre maggiore del suo Creatore. Ecco adunque quale fu questo principio seguìto dalla divina Sapienza nel dare educazione all' umana specie. Questo principio dee trovarsi nella creazione stessa e può esprimersi nel modo seguente: - Iddio creò e ordinò l' universo per forma che nel tempo stesso che porgeva all' umana natura ciò ond' ella aveva bisogno per conservarsi, riprodursi e svilupparsi nella vita animale, fosse non solo un vestigio , ma ben anche un simbolo sensibile dell' universo interiore e soprassensibile, o dell' universo tutto sensibile e soprassensibile. Secondo questo principio l' universo materiale che circonda l' uomo, ha tre fini che sono altrettante regole secondo le quali è formato. Perciocchè: 1. Egli è fatto e ordinato per modo che soddisfa a tutti i bisogni dell' animalità umana, acciocchè gli uomini che pur sono animali possano sussistere, riprodursi e percorrere tutti quegli stadii che sono proprii della vita animale. 2. Esso è fatto e ordinato in modo da poter essere vestigio della divina natura per la potenza, sapienza e bontà che in lui risplende, riconoscendo gli attributi divini nella contemplazione dell' universo per quella maniera di argomentare che procede dall' effetto alla causa. 3. Ma oltre di tutto ciò l' universo materiale è fatto e ordinato per forma ch' egli servir debba di simbolo e quasi di rappresentazione visibile dell' universo invisibile, acciocchè l' umano intelletto ascenda per esso al Creatore per quella argomentazione onde si contempla nel segno la cosa segnata. Egli è principalmente per questa ultima via, cioè per la via dei segni, che l' uomo viene ammaestrato. E se si vuol prendere la parola segno nella sua massima generalità, si può veramente affermare che fuori del Creatore non si percepiscono che dei segni, che Lui segnano e manifestano; sebbene questi segni sieno di varia natura e altri il significhino più espressamente e altri meno. Sicchè tutta la cognizione dell' uomo finalmente termini, chi bene osserva, o nell' essere stesso, o in alcuni segni e espressioni dell' essere. Facciamone brevemente l' analisi e apparirà più chiaro il nostro pensiero. La prima e fondamentale cognizione naturale dell' uomo è quella delle sostanze crate. Ma chi considera ben addentro questa cognizione trova, che l' uomo non percepisce se non se solo dei sentimenti e che non si forma il concetto di sostanze, se non se considerando questi sentimenti come altrettanti segni e espressioni dell' essere che vede interiormente. Il qual essere non è a dir vero Iddio, ma è però, come altrove abbiamo detto, una appartenenza della divina natura. La seconda naturale e fondamentale cognizione dell' uomo secondo la natura è quella delle cause. Ma queste non sono che sostanze produttrici di qualche effetto. Che cosa è conoscere la causa, se non considerare l' effetto come un segno ed espressione di quella sostanza che lo ha prodotto? La quale sostanza serve a noi essa stessa di espressione viva di quell' essere universale che per intuito naturale veggiamo. Le nostre fondamentali cognizioni adunque si può dire che si riducano a vedere sempre il segnato nel segno, l' espresso nella espressione; a vedere da per tutto l' essere, che è sempre la sola cosa che viene in ogni segno e in ogni espressione manifestata. Ora l' essere, come dicevamo, appartiene a Dio. Egli è per questa via della serie delle sostanze e delle cause che si perviene alla sostanza prima, alla causa prima e quindi al primo essere. Ma questo progresso è così intrinseco alla nostra mente e alla natura degli oggetti creati, che in qualunque modo fosse stato formato l' universo, purchè fosse potuto venir da noi percepito, sempre una tale argomentazione avrebbe avuto luogo. Non poteva dunque essere [che] questa la regola che la divina Sapienza si fosse proposto a seguire nella conformazione dell' universo. Senza chè non sarebbe bastato all' uomo conoscere Iddio come prima sostanza e come prima causa, giacchè come tale il conoscerebbe solamente sotto quel rapporto comune che ha il primo essere con tutte egualmente le sue creature. Doveva l' uomo conoscere Iddio nelle speciali relazioni che ha coll' uomo. E perchè l' uomo fosse avviato a questo conoscimento dalla stessa natura delle cose, faceva uopo, come dicemmo, che il complesso delle cose visibili che lo circondano potesse essere un cotal simbolo, in cui contemplasse, la mente umana, quasi in ispecchio, il complesso delle cose invisibili, le quali consistono appunto nelle relazioni fra Dio e le anime: o certo almeno, che ella nell' universo materiale vedesse quasi segnato e rappresentato il sistema universale delle cose (1). Ma questa traccia e rappresentazione, che l' uomo trovar doveva nell' universo materiale del sistema universale delle cose, non era al tutto arbitraria, di guisa che Iddio potesse rimanersi interamente dal porcela. Perchè io possa aprire chiaramente questo mio concetto mi conviene fissare prima il valore in che io soglio usare queste tre parole analogia, similitudine e imagine . Ho già detto che l' essere ideale nelle menti nostre ha tre maniere di forme, meno o più estese, le quali sono l' idea specifica , l' idea generica e l' idea universale . Ciò che con queste tre maniere di forme la mente nostra conosce si chiama pure l' essenza specifica, l' essenza generica e l' essenza universale (2). Ora le cose tutte che si conoscono coll' idea universale, io le chiamo analoghe fra di loro: le cose che si conoscono coll' idea generica, io le chiamo simili: le cose che si conoscono coll' idea specifica, io le chiamo imagini le une delle altre. Ciò posto egli è manifesto che non si possono dar cose, le quali non abbiano analogia fra di loro, perocchè non si possono dar cose che non sieno conoscibili coll' idea universale. Conciossiacchè l' idea universale è l' essere, e tutte le cose convengono nell' essere; poichè se non avessero in qualche modo l' essere, non sarebbero cose. Nè si creda che una tale analogia sia piccolissima cosa e per poco un nulla: che anzi basterà accingersi a una analisi sottile dell' essere per riconoscere che oltremodo si estende una tale analogia. Le cose, appunto perchè convengono nell' essere, devono convenire in tutte le proprietà, le condizioni e l' ordine intrinseco dell' essere stesso. Per ciò devono partecipare della unità che è proprietà dell' essere; e non possono avere alcuna contraddizione in sè, e quindi partecipare della verità; devono avere un principio, un mezzo e un fine, e quindi racchiudere una trinità in sè medesime e, come dice S. Agostino, devono aver tutte un modo, una specie e un ordine. Le categorie della quantità, della qualità, della modalità, e della relazione cominciano ad aver luogo nelle cose create. Troppo a lungo io qui mi estenderei se volessi metter mano a dichiarare tutti i capi di questa analogia: il che, concedendomelo il supremo Signore, ho in animo di fare nella Ontologia . Ma mi basta di cavare dal detto una conseguenza, che l' analogia delle cose tutte fra loro è una proprietà necessaria, e quindi Iddio stesso creandole non poteva a meno dal farle analoghe fra loro e coll' essere stesso e col sistema universale di tutte le cose (1). Di che ne viene che non era questa analogia l' oggetto di quella divina Sapienza per la quale Dio componeva l' universo materiale, per forma che fosse all' uomo come una tavola tutta segnata e scritta delle relazioni sue col suo Creatore. I generi delle cose le rendevano simili, e le specie le rendevano imagini o ritratti una dell' altra. Non era ancor questo solo l' oggetto della Sapienza creatrice: perocchè il far che fossero de' generi e delle specie, non era più che il far esistere delle similitudini e delle imagini parziali, e la scienza salutare dell' uomo doveva essere quella che gli rendea manifesto il sistema universale delle cose e l' Essere assoluto. Ora il sistema universale delle cose e l' Essere assoluto non poteva conoscersi se non pei segni analoghi , perocchè la sola analogia si distende alle cose tutte; mentre le similitudini e le imagini sono rinserrate nei generi e nelle specie alle quali appartengono. Le similitudini e le imagini adunque non potevano far altro ufficio che di fiancheggiare le analogie, rendendo queste parzialmente più evidenti. E però la Sapienza creatrice aveva per fine di far esistere nell' universo materiale tali nature di cose, tali generi e tali specie, e un tale collegamento fra loro, che questo insieme, che era una parte del tutto, cioè la parte materiale, rappresentasse lo stesso tutto, risultante dal visibile e dall' invisibile, e così aiutasse l' uomo a concepire in questo tutto l' invisibile, e in questo invisibile principalmente Iddio, capo e fine o ultima perfezione delle cose. Or questo era l' alto intendimento della divina Sapienza nell' immenso disegno della creazione. La natura umana adunque doveva essere istruita per via di segni, e l' universo intero non era che un complesso di segni presentati dal Creatore ai sensi dell' uomo, acciocchè da questi egli cavasse la [cognizione] e di sè e del Creatore e del gran sistema nel quale egli si trovava esistere. E l' uomo primitivo vide questi segni e l' intese, e questa è la ragione per la quale quanto più si rimonta addietro nella cupa antichità, tanto più si ritrova essere le dottrine popolari, non meno che le filosofie, un complesso di simboli; di guisa tale che l' antichissima dottrina può dirsi a tutta ragione null' altro essere che una simbolica ossia dottrina de' segni. E questi segni o simboli, sotto i quali si nascondevano o piuttosto pei quali si esprimevano le verità più sublimi intorno a Dio e intorno all' uomo, erano tutti tolti dagli oggetti che compongono il sensibile universo (1). Ma veniamo toccando la cosa più da vicino. Dissi che Iddio non aveva similitudini o imagini nell' universo materiale, ma solo certe analogie; e che parimente il sistema universale delle cose in nessun oggetto dell' universo materiale trovava similitudine o ritratto: che perciò l' uomo dovendo essere istruito intorno a queste cose per via di segni, nol poteva essere che per via di segni analoghi: e finalmente che le similitudini e le imagini non potevano prestare che un parzial servigio, colorando qua e colà e rendendo più vive e risaltanti le analogie (1). Or per veder questo più chiaramente si consideri che all' essere universale, fondamento delle analogie, appartiene il numero, e quindi anco ogni ordine che possono ricevere e formare i numeri. Da questo è evidente che tutte quelle rappresentazioni che si formano mediante una serie di cose variamente ordinate, appartengono ai segni analoghi; perocchè la corrispondenza non istà che in distribuzione e ripetizione di varie cose, il che è quanto dire in un numero ordinato. Ora in questa maniera si è che le lingue umane esprimono le idee. Conciossiacchè se prendiamo una parola isolatamente dall' altra, non mostra veruna similitudine coll' idea che per essa si esprime, essendo di natura interamente diversa, l' una un suono, l' altra un pensiero, e non convenendo per ciò nella specie nè in alcun genere. Ma all' incontro pigliando l' intero discorso, cioè una serie di parole avvedutamente ordinate, trovasi tosto una corrispondenza colla serie de' pensieri, modificandosi la parola ogni qualvolta si modifica il pensiero, e ripetendosi la parola ogni qualvolta si ripete lo stesso pensiero: sicchè l' andamento dell' una serie e dell' altra va d' accordo, e però si corrispondono come due serie di numeri egualmente distribuite e ordinate. Da questo nasce che, associate queste due serie nella mente nostra, quando l' una ci si presenta, ella serve a richiamarci in memoria l' altra, e così la serie de' suoni ci fa l' ufficio di risvegliarci i pensieri. Ed avviene per tal modo che non l' uno o l' altro suono pigliato solo da sè, ma tutto il contesto de' suoni insieme legati, ci renda chiaro il significato di ciascheduno. Egli è per questo che le lingue sono sistemi di segni così eccellenti che possono esprimere tutte le cose, perchè il loro fondamento è l' analogia , che a tutte le cose si estende. Ma la serie de' suoni, abbiam detto, deve essere associata alla serie delle idee, perchè quella ci possa servire a rammentarci di questa. Ora che cosa è che produce questa associazione? Se l' oggetto è reale e presente, la parola che lo esprime si associa facilmente coll' idea dell' oggetto con l' intermezzo della sensazione del medesimo che diventa mediatrice fra la parola e l' idea: e a fissare la relazione dell' una coll' altra conducono tutti quelli eccitamenti che fanno riporre l' attenzione all' oggetto sensibilmente percepito e al suono contemporaneo alla percezione. Così quando la madre coi gesti eccita il bambino a mirare il padre e gli dice contemporaneamente: questo è il papà; il bambino che percepisce cogli occhi suoi e colle altre sue sensazioni il genitore che lo bacia e lo accarezza, ritiene nella sua mente la parola papà legata insieme col sembiante di lui percepito dagli occhi suoi e accompagnato dal complesso di tutte le grate sensazioni da lui avute. Se poi l' oggetto sensibile e reale è assente, mediatrice (se non nella prima istituzione della parola, almeno nell' uso posteriore) è l' imagine o il ritratto del medesimo oggetto. Così il bambino dopo aver già veduto il sembiante di molti uomini, se la madre gli mostra il ritratto del padre cui le vicende han lontanato di casa, od egli vide mai, dicendogli: questi è il papà; il bambino vien conoscendo, che quel ritratto rappresenta un uomo; secondo, che un uomo di tali fattezze cui il ritratto dimostra, si chiama papà: associando così la parola all' idea. Se poi l' idea è di cosa astratta, o essa si riferisce a un sentimento, o no. Per esempio la parola male comprende anche tutti i dolori sensibili, e però ha relazione con questi sentimenti. Or la mediazione fra questa parola e la sua idea corrispondente viene appunto fatta dai sentimenti e da tutte le espressioni o effetti sensibili che accompagnano il sentimento. Così quando la madre vuol disvezzare il fanciullo dal toccare tutte le cose, come egli è inclinato a fare, acciocchè toccando cose a lui dannose non gli noccia, essa gli dice: non toccare questa cosa che fa male; e se il fanciullo la tocca, gli batte sulle mani per avvertirlo col dolore che egli non deve toccarla. Così parimente se egli cade in terra o urta in alcun oggetto o tocca alcuna cosa che gli noccia, gli dice: tu ti se' fatto male. Sicchè egli ode sempre nominar questa parola male ogni qualvolta sofferisce qualche dolore, e si avezza a generalizzare questa parola in tal modo ad ogni cosa dolorosa che gli accada, per quanto varia sia la dolorosa sensazione che egli riceve. Così la parola male si generalizza per lui, che è quanto dire si astrae, di maniera che egli coll' aiuto del segno di quella parola giunge a dirigere l' attenzione della sua mente, non più sopra l' uno o l' altro dolore che egli soffra, ma su tutti i varii dolori che egli soffrir possa. Il che è quanto dire che si forma l' idea astratta del dolore aiutato dalla parola male, il significato della qual parola viene poscia estendendolo anche ai dolori dell' animo e fino alle cause dei dolori, e giunge a formarsi l' idea universale di male. Aiuta a principio il bambino in questo fatto qualche specie di sensazione delle più comuni e forti che egli soffra, e la universalizzazione delle sue idee comincia dall' idea specifica di queste sensazioni, alla quale viene aggiunta una tal parola, che poscia generalizza. Per questo le madri a principio usano dire al fanciullo« male« non in italiano, ma in greco «kakon». Se poi la parola astratta non esprime un sentimento, o un oggetto cagione a noi di sentimento, sicchè l' effetto sensibile possa essere mediatore tra il suono e l' idea di quell' oggetto; in tal caso l' astratto o s' estende alle sole cose materiali, o comprende anche le immateriali. Per esempio, l' idea di grandezza estesa si estende alle sole cose materiali o estese; mentre all' opposto l' idea di grandezza in genere, come pure quelle di qualità, di quantità e di modalità, sono idee astratte che si estendono anche agli esseri immateriali. Or quanto alle prime, mediatrici fra le idee e le parole, sono le similitudini. A ragion di esempio, quando quelli che parlano, pronunciano la parola grandezza per indicare la grandezza di una scodella o di una botte, e nell' atto che pronunciano questa parola, rallargando le braccia in arco, mettono sott' occhio quanto si allarghi la rotonda bocca di quella scodella o di quell' ordigno qualsivoglia; essi in tal modo usano di una similitudine che fa intendere agli uditori la capacità di quell' ordigno. Veggendo adunque assai volte, che insieme col suono della parola grande viene additato e proposto all' attenzione con cenni un oggetto più grande degli altri, s' avvezza la mente del fanciullo ad associare alla parola grandezza l' idea di oggetti grandi. E perchè questi non sono sempre i medesimi che vengono a lui indicati, egli è indotto a porre attenzione in conoscere qual sia quella qualità comune di tutti quei varii oggetti che vede indicati contemporaneamente al pronunciarsi del suono grandezza , e qual cosa sia ciò che li renda simili: e trovando che in nulla si rassomigliano fuorchè nell' esser grandi, egli si accorge che è per questa similitudine che hanno fra loro, che a tutti viene egualmente applicata la parola di grandezza. Or egli è così che coll' aiuto di questa parola il fanciullo si forma l' idea astratta della grandezza estesa; qualità che può convenire a ogni oggetto materiale. Procedendo poi innanzi la sua osservazione, egli si accorge che come un corpo è tre, quattro o più volte grande di un altro della stessa natura, così un sentimento è molte volte più intenso di un altro della stessa natura. E per questa somiglianza di proporzione fra la grandezza delle cose materiali e dei sentimenti egli giunge a generalizzare il significato della parola grandezza estendendolo anche a cose immateriali, e così rendendosi l' idea di grandezza via più generale e più astratta. Rimane a vedere come possa nascere l' associazione richiesta fra le parole e le idee che rappresentano attributi divini, e ogni altro vero appartenente alla divina sostanza, la quale, come dicevamo, non ha vere similitudini nè imagini nell' universo materiale. Egli è dunque da sapere, che quantunque tutte le similitudini e imagini che trovar si possono della divina natura siano imperfette, di maniera che essa divina natura non può venire assomigliata e ritratta se non da sè stessa, tuttavia v' hanno fra la natura divina e le cose create delle relazioni, le quali costituiscono, come abbiam detto, una cotale analogia: ed ecco la natura di questa. Le creature, in quanto partecipano l' essere, partecipano altresì di tutte le proprietà e condizioni dell' essere; e per questa partecipazione hanno tutto ciò che hanno di buono. Perciò tutto il bene che hanno, è innanzi nell' Essere primo, e in esse trovasi solo circondato da limitazioni. Tutto il bene adunque che vi ha nella natura diventa similitudine di Dio, tostochè si tolgono da quello le limitazioni. Egli è vero che noi non possiamo torle via [che] colla mente nostra, nè sapere che cosa questo bene diventi allorquando si tolgono via. Ma ciò non fa che non veniamo ad avere una cotale espressione di Dio, quasi direi in cifra: perocchè il dire,« Dio è un bene illimitato«, è una espressione rassomigliante a quella che rende l' impianto di una formola algebrica di cui non si avesse ancora trovato lo sviluppo, la quale racchiude in sè il risultamento nei dati che vengono espressi e sui quali è piantata. Ma questo risultamento non è trovato in un modo esplicito, perchè il calcolo non fu fatto. Così il dire, che Dio è un bene illimitato, non dice che cosa sia, perchè resta a sapere, che cosa è il bene illimitato, e non si può fare altra risposta se non questa: levaci i limiti e saprai che è; la quale è del tutto pari a quest' altra: fa il conto e saprai il risultato. Or dunque egli rimane però che tutti i beni creati sieno non già similitudini, ma cifre di Dio, le quali lo rappresentano implicitamente e sotto la condizione relativa di t“r via i loro limiti. Ciò posto tutti i pregi della natura da noi sensibilmente percepiti possono essere i mediatori fra le parole e le idee delle cose divine; e tanto più quanto questi pregi si considerano in una grandezza la maggiore che per noi si possa. Quando adunque si tratta di significare colle parole cose divine, delle quali non abbiamo nella vita presente la percezione, ciò che ci conduce ad affiggere il significato a quei vocaboli non sono già gli oggetti sensibili che vengono sottoposti a' nostri sensi, nel medesimo tempo che ci si fa udire il suono delle voci, perchè questi abbiano similitudine colle cose significate; ma solo perchè esse hanno una cotale analogia. Di modo che qui avviene, che le parole siano analoghe alle cose divine che esprimono, e nulla più che una nuova analogia sia quella che si intromette mediatrice a farci intendere il significato delle parole. E ciò basta, trattandosi d' idee di oggetti divini, le quali, per dirlo con una denominazione acconciamente trovata dal Falletti, sono idee di semplice indicazione. Ora considerando l' uomo primitivo, manifesta cosa, è che le più grandiose impressioni sensibili che egli riceveva dallo spettacolo dell' universo materiale, erano quelle dell' ampiezza de' cieli, della immensità delle terre, della profondità dei mari, del giorno e della notte. E sono appunto queste solenni impressioni, le prime da cui era colpito, quelle che meglio potevano prestare a lui il servigio d' intendere una lingua la qual gli parlasse della divinità e delle relazioni di questa coll' uomo. E io sono di quest' avviso che una tale osservazione ci può indicare una traccia che ci conduca a formarci qualche idea della lingua primitiva, ben diversa, a mio parere, dalla ebraica e da ogni altra lingua vivente. Le grandi parti dell' universo materiale da me accennate, che prime e più profondamente ferirono i sensi dell' uomo, esser dovevano a lui altrettanti emblemi del Creatore e rivelarne al suo sentimento la potenza e la maestà. Ma a far ciò conveniva, che in queste grandi parti dell' universo non figgesse già un' attenzione quasi direi materiale che tutta in esse sole si occupasse, ma nobile e spirituale, che in esse vedesse e cercasse cose ancor maggiori di quelle che contenevano, per quella facoltà dell' anima umana che dagli effetti si rileva velocissima alla causa, e che ho denominata facoltà integratrice . Al qual passaggio dalle grandezze dell' universo alle grandezze del Creatore faceva mestieri che l' uomo usasse dell' astrazione, cioè che astraesse la grandiosità e sublimità di tali cose sensibili dalla loro materialità; e quella grandezza e sublimità astratta gli servisse poscia alla contemplazione di un ente invisibile Creatore del tutto, applicandola a questo: giacchè non si possono applicare le qualità di un oggetto a un altro in quanto sono concrete, ma solo in quanto sono da noi astratte. Ora le parole appunto potevano essere solo quelle che lo eccitassero a formare questi astratti, nel tempo stesso che gli esprimevano gli oggetti divini. Sicchè supponendo che Dio abbia il primo parlato all' uomo primitivo e parlatogli di sè e delle relazioni dell' uomo con lui, i vocaboli che componevano il discorso divino, percuotendo le orecchie dell' uomo, dovevano eccitare e condurre l' anima sua a due riflessioni successive, la prima delle quali spianava l' intelligenza di que' vocaboli, e la seconda era l' intelligenza stessa della significazione de' medesimi. E perchè s' intenda meglio quanto qui voglio dire, si consideri che Iddio parlante all' uomo, di recente uscito dalle sue mani, sotto una forma sensibile, nello stesso tempo che pronunciava la parola che doveva significare l' immensità della divina natura, faceva atto che spingesse l' uomo a mirare l' immensità degli spazi celesti, venendo quasi a dirgli: l' attributo che io esprimo con questo vocabolo è pari alla indefinita estensione degli spazi luminosi de' cieli che tu contempli. Suppongo adunque che uno stesso vocabolo fosse adoperato e a significare il cielo e a significare l' attributo divino, e che questo vocabolo fosse un astratto, la cui significazione si rendesse concreta solo allorquando si applicava a un oggetto particolare: applicazione che si faceva mediante quell' atto esterno e sensibile che si aggiungeva alla pronunziazione del vocabolo e che chiamava l' attenzione sopra l' oggetto significato. Supponiamo, in ragione di esempio, che la parola cielo secondo la primitiva sua significazione valesse quanto dire l' esteso . Ora al pronunciare di questo vocabolo alcun atto esterno, come il braccio elevato colla palma stesa si aggiungesse, tale che richiamasse gli occhi e l' attenzione al cielo, e che il contesto del discorso e tutte le circostanze esterne concomitanti al medesimo a così intenderlo persuadessero l' uomo, di facoltà svegliatissimo e perfetto. Egli era facile dopo di ciò, che la parola esteso , applicata a significare il cielo, si traesse a significare Dio immenso , come se quel Dio che parlava sensibilmente avesse poscia detto all' uomo: Io sono il cielo, ossia l' esteso. La parola dunque in primissimo principio doveva servire a due usi, cioè primo alla formazione degli astratti, secondo a significarli. E con queste dottrine alla mano conviene mettersi dentro nella ricerca della lingua primitiva (1). Nella qual opera il più prezioso monumento che noi abbiamo sono certamente le divine Scritture, e fra le parti che le compongono, quelle che sono scritte in lingua simbolica. Perocchè v' ha, a non dubitarsene, nella divina Scrittura in alcune parti una lingua simbolica, la quale contiene le traccie della lingua primitiva. Conciossiachè simbolica io chiamo quella lingua, la quale denomina le cose sussistenti con un vocabolo astratto, applicando questo vocabolo a due oggetti sussistenti, l' uno de' quali sensibile e materiale, e l' altro insensibile, e facendo intendere questo secondo col mezzo del primo, che ne è come il simbolo. E tale, come noi abbiamo detto, doveva essere la lingua primitiva: e ora la chiave di questa lingua simbolica e primitiva deve massimamente cercarsi nel primo capitolo della Genesi che narra i principii di tutte le umane cose. E con queste avvertenze ponendosi a leggere quella sacra pagina che ragiona la generazione del cielo e della terra, avviene che, non senza scoprirvi delle sublimi dottrine, ci abbatteremo a quel racconto ove Dio stesso si fa a imporre i nomi alle maggiori parti dell' universo e agli accidenti più solenni della natura, denominando, egli, il primo parlante, la luce e le tenebre, il cielo, la terra e gli abissi: cinque grandi oggetti, che, se l' intendimento mio in questa trattazione il permettesse, vorrei mostrare esser gli elementi primi della prima favella, come i cinque suoni vocali sono gli elementi di ogni particolare discorso. Ma qui mi conviene p“r modo al mio desiderio che a spaziare in questo argomento bellissimo largamente mi chiamerebbe, e mi contenterò solo di aggiungere un' osservazione. Iddio imponendo un nome astratto e comune alle maggiori parti dell' universo insegnò all' uomo parimenti a fare il medesimo. E l' uomo che impose il nome alle parti minori dello stesso universo, serbò il metodo imparato da Dio di denominare le cose, e appellò gli animali con vocaboli astratti o comuni: il che viene a indicare assai chiaramente il sacro testo dicendo: Che il nome posto da Adamo a ogni animale, è il nome suo proprio, ossia il nome che gli conviene. Per la quale osservazione si fanno manifeste due cose: 1. che la lingua primitiva è parte divina e parte umana; 2. che ell' era una lingua simbolica. Il perchè ritornando adunque al proposto, onde fu mosso tutto questo nostro ragionamento intorno ai principi della lingua primitiva, possiamo conchiudere che e la natura umana e l' ordine stesso della divina Provvidenza vollero, che l' uomo sviluppasse le sue facoltà e venisse acquistando le sue cognizioni mediante l' uso di simboli o segni: massime trattandosi delle cose divine che non cadono sotto ai suoi sensi e a esprimer le quali furono formate tutte le cose materiali quasi altrettante ombre, come disse sublimemente Platone, di quelle che son sole vere cose. Ma l' acquisto delle cognizioni naturali non è ancora l' ultimo perfezionamento dell' uomo. La limitazione speciale della natura umana abbiamo veduto consistere nell' essere essa vuota di cognizioni, e nel doversele procacciare coll' uso de' sensi: e tale limitazione viene rimovendosi collo sviluppamento delle facoltà umane che abbiamo descritto, mediante i segni sensibili. Ma l' uomo oltre questa limitazione speciale, tiene in sè la limitazione universale a tutte le creature, la quale rimuover non si può, come detto è, con alcun mezzo naturale, ma solo colla congiunzione e unificazione coll' Essere infinito. Ora non havvi alcun mezzo naturale che possa congiungere e unificare la creatura col Creatore, ma è necessario che il Creatore stesso si avvicini e riveli alla sua creatura e ad essa ineffabilmente si congiunga. Questa è quella comunicazione della divina natura che si chiama di grazia e di gloria . Abbiamo già veduto, che il termine di siffatta comunicazione consiste in un sentimento deiforme che acquista l' uomo, pel quale sentesi informato da Dio medesimo. Ora in produrre questo sentimento, che amplifica la natura umana e la fa consorte dell' infinita, Iddio, seguendo le leggi della sua sapienza, procede gradatamente e ordinatamente, e si continua, per così dire, alla umana natura, riprendendo l' opera sua colà dove l' ha lasciata per condurla alla perfezione a cui è ordinata. E però egli non fa che aggiungere efficacia e lume alle stesse cognizioni naturali dell' uomo e ai mezzi pe' quali egli acquista queste cognizioni, cioè ai segni o simboli naturali. Or qui ci giova alquanto trattenerci, ricercando in che modo questa grande opera di Dio far si possa. Tutta la perfezione ultima dell' uomo ha per fondamento e principio la concezione di Dio, e questa in forma soprannaturale cioè positiva, reale, efficace. Ora veggiamo adunque in che modo questa possa suscitarsi nell' uomo mediante i segni. Quando l' uomo percepisce coi sensi animali le sensazioni e i fatti o simboli di qualsivoglia specie, egli passa da questi alle cognizioni in virtù dell' applicazione dell' essere. Ora quest' essere o è in istato puramente naturale, che è quanto dire è l' essere al tutto ideale e possibile; ovvero è l' essere in istato anche soprannaturale, cioè congiunto ad un sentimento deiforme. Ciò posto, allorquando i segni o simboli esteriori son tali di lor natura che valgano a significare o indicare le cose divine, allora l' uomo, che ne intende il significato, o usa a intenderli e interpretarli l' essere come puramente lume naturale (non avendo che questo), e formasi in tal modo delle cognizioni di Dio naturali: od usa l' essere come lume anche soprannaturale (se anche questo possiede), e allora le cognizioni naturali d' Iddio che egli si forma, ricevono e hanno congiunta anch' esse una cotal luce deiforme che le rende operative e vive nell' uomo, il quale vi vede dentro un abisso di maestà e vi adora il profondo mistero della divina natura, nel che ha luogo la fede. Conviene considerare attentamente una sì mirabile operazione. Supponendo che l' uomo sia costituito dal primo istante di sua esistenza nello stato di grazia, la forma intellettiva di lui non è puramente naturale, ma ella è anche soprannaturale; ed è da questa che scaturisce quell' elemento soprannaturale, che accompagna tutte le cognizioni acquisite dell' uomo, che involge, per così dire, tutto l' uomo e tutte le sue potenze, e che dà una virtù soprannaturale alle stesse animali sensazioni. Ella è certamente così, fino a tanto che si tratta di sensazioni provenienti da oggetti puramente naturali, i quali non sono informati e, per così dire, mescolati con alcun soprannaturale principio. In questo caso egli è manifesto che le sensazioni non possono per sè stesse mettere nell' uomo niente di soprannaturale, perocchè sono effetti di oggetti della natura. Ma bensì possono nell' uomo stesso, nel quale si producono, per la grazia di cui egli è in possesso, trovare una cotal forma o virtù soprannaturale che, quasi direi, le soprannaturalizzi. Egli è con ciò che si spiega quel fatto pel quale i Santi veggono e contemplano con sì grande facilità il Creatore nelle creature, e ogni cosa che cade sotto i loro sensi vale a levare il loro spirito a Dio, e stupiscono che gli altri uomini così poco pensino all' Essere supremo, quando da per tutto risplende più chiara del sole la gloria di lui e più dolce di ogni melodioso strumento si fa sentire la sua voce. La grazia, in quanto si considera aderente alla forma della ragione umana e opera per essa, perfeziona la persona . In quanto poi questa grazia si considera come quella che stende i suoi benefici influssi nelle altre facoltà inferiori dell' uomo perfeziona la natura umana. In questo secondo caso, nel quale si vede la grazia perfezionare la natura umana e per essa la persona, il fatto che poi spieghiamo deve succedere in un modo inverso da quello in che succede nel primo caso, che la grazia perfeziona la persona e da questa procede la perfezione della natura. Nel primo caso la grazia si considera, come in sua propria sede, nella forma della ragione; e le sensazioni degli oggetti naturali vengono da essa, per così dire, sublimate, illuminate, fatte servire insomma a mezzo di soprannaturale cognizione. Nel secondo caso non è per nulla assurdo il credere che alle sensazioni stesse si congiunga una cotal virtù proporzionata alla loro natura, comunicante all' uomo che le riceve gli effetti della grazia. Ma perchè si possa ciò intendere, quegli oggetti da cui procedono queste sensazioni efficaci in un cotal modo soprannaturale, non possono essere puramente naturali, ma devono essere congiunti con un principio soprannaturale e divino, il quale operi in compagnia di essi e possa formare con essi un solo agente e una sola causa. Così la sensazione del toccamento che portò alla donna del Vangelo l' effetto soprannaturale della guarigione dal flusso di sangue che ella pativa, provenne dall' avere ricevuto quella sensazione non da un corpo puramente naturale, ma dal corpo divino di Cristo, il quale disse che virtù era uscita di lui. E il medesimo si dica delle guarigioni operate da Cristo col toccamento, e con altri sensibili segni. Alle quali guarigioni del corpo è da credersi che si accompagnasse sempre anche la guarigione dell' anima, procedendo così la grazia dalla parte inferiore alla superiore dell' uomo, dalla natura alla persona (1). In questi fatti però, nei quali le sensazioni producono primieramente un bene fisico, esse non operano come segni nè come materia di cognizione, ma come agenti ciechi accompagnati da una virtù straniera ad esse. E non è nostro ufficio di qui ricercare in che maniera questa virtù straniera si congiunga ad esse e con esse operi; bastandoci il dire, che come lo spirito si unisce al corpo e con esso opera, così può intendersi in qualche modo che anche la virtù soprannaturale si congiunga alle sensazioni naturali e operi con esse rese a lei quasi concausa. Nè tampoco è ufficio nostro l' indagare, per qual ordine di effetti la guarigione soprannaturale del corpo si accompagni alla guarigione soprannaturale dell' anima; restringendoci a dire, che egli sembra dovere una tale grazia che accompagna un agente cieco, operare in modo da produrre nell' anima non tanto nuovo lume, quanto piuttosto un nuovo sentimento che inclini l' animo a aderire al lume già in essa esistente (2) o sopravveniente, e però una nuova soprannaturale abitudine, la quale porta poi il pieno e compiuto effetto ove l' uomo, che per la fede ha ottenuta la grazia, riflette sopra la medesima e ne viene lodando Iddio. Ma consideriamo le sensazioni come segni o come materia di cognizione. Dico che aver si possono delle sensazioni prodotte da oggetti non puramente naturali, nelle quali troviamo qualche cosa di soprannaturale e divino, e le quali per ciò ci prestino una cognizione efficacissima di Dio, se non altro, essendo l' uomo ben disposto, un principio di percezione. Egli è ciò che avviene a chi mira nei volti degli uomini santi, nei quali è sparso un cotal splendore che non viene dalla natura, ma che è l' effetto soprannaturale di una vita possente, cioè dell' anima viva per la presenza di Dio. Chi volesse negar questo fatto, gli converrebbe tòr fede a tutte le umane istorie, torla a' suoi proprii occhi, se pure egli si abbattè mai nella vita sua in alcun uomo di straordinaria santità e unione grande con Dio. Certo a me concesse la Provvidenza più volte di vedere questa luce ineffabile di cui parlo, di cui la faccia dell' uomo santo è soffusa e come dorata. E di recente, or sono soli tre dì che di tanto mi fu cortese il cielo, che io dover vedessi con questi occhi miei l' estasi mirabilissima e per poco continua, alla quale in questi nostri giorni sì scarsi di fede è sollevata da Dio una donzella di angelica vita per nome Maria Moerl abitante nel borgo di Caldaro, i cui meravigliosi doni non possono capire in questo libro; ma di cui pur non tacerò che in quel volto contemplante, da cui l' anima è peregrina, tutti veggono Iddio che si trastulla colla mente di quella sua sposa, che rapisce a tutte le impressioni esteriori, e tiene a sè ineffabilmente abbracciata. E dirò che tanto si percepisce di divinità da quell' aspetto, che basta a trarre quelle migliaia e migliaia di persone che anche da lontane terre passano a vederla, in tali affetti e considerazioni e lacrime, che apportano in gran parte di esse la conversione da' loro peccati, e in tutti una somma edificazione; sicchè appena havvi anima sì fattamente sciagurata, che non ne parta almeno con una scossa di terrore, o col senso di una voce possente che a miglior vita interiormente la richiama. Or io voglio ben credere sieno pure in parte cagionati tali effetti dalle notizie che rendono venerabile quella persona, ma è egli nè pur a un millesimo pari l' effetto che prova chi ne sente ragionare a quello di chi la vede cogli occhi suoi? o l' aria celeste e lo spirito divino di cui quel volto è luccicante, e la beatitudine che sì maestosa e tranquilla vi siede, può egli indurre nell' animo di chi lo miri altre idee e pensieri, che di Dio? ebbevi mai imagine che dimostrasse ad occhio mortale come sia l' Angelo, che desidera di affissarsi nel volto dell' Unigenito di Dio? Or ben io credo che questo solo fatto, a chi ne fu testimonio oculare, debba bastare anche troppo a indurgli nell' animo una fermissima persuasione di ciò che dico, cioè che Iddio congiunto all' anima di un uomo può produrre nello stesso corpo tali effetti della sua presenza, i quali manifestamente dimostrino abitar ivi Iddio medesimo, come quelli a produrre i quali non v' ha forza finita che basti, sicchè essi dànno segno in sè indubitabile dell' infinita cagione che li produce (1). E tali sono le doti del corpo glorioso, delle quali un cotal principio ne fa Iddio vedere talora nei santi anche intanto che sono tuttavia in questa vita mortale. E per ciò dico, che le sensazioni che noi riceviamo da corpi messi in questo stato possono essere a noi convenientissimi segni coi quali sollevarci alla cognizione di Dio e alla cognizione soprannaturale, quando voglia servirsi Iddio di essi a introdurre in noi la sua grazia, e noi non la rifiutiamo. Fin qui abbiamo ragionato di sensazioni che nulla significano e a cui pure fu annessa una virtù soprannaturale. E dissi sensazioni che significano o sono materia di cognizione e che in tanto appunto hanno congiunta la grazia, in quanto che l' uomo intende il loro significato o che le informa e le illumina, acquistando per esse la cognizione. Ora fra queste due specie di sensazioni colle quali la grazia opera, ve ne ha una terza intermedia alla qual pure si accompagna una operazione soprannaturale. E a questa terza specie quelle sensazioni appartengono o sensibili segni, i quali per la virtù soprannaturale che hanno congiunta fanno nell' uomo un' operazione deiforme, senza però averci bisogno che l' uomo ne intenda il loro significato, sebbene l' operazione che fanno sia corrispondente a ciò che significano. Nei quali segni (a cui come ognun vede appartengono i Sacramenti della Chiesa) manifestamente si vede, che la significazione loro si ha più relazione col principio soprannaturale operante, che coll' uomo che riceve l' operazione. Io voglio dire cioè, che il principio operante, che è Dio stesso, essendo intelligente, si compiace di operare in un modo significativo, ossia con una cotal favella, essendo proprio l' operare in virtù della parola, degli esseri dotati di intelligenza; e massime della prima e suprema intelligenza che ha fatte tutte le cose per la sua parola. Riassumendo adunque, vi hanno due maniere di sensibili impressioni, nelle quali l' uomo viene naturalmente istruito, e in compagnia delle quali riceve anche la grazia: 1. Quelle impressioni sensibili, le quali di lor natura sono puramente naturali, e che tuttavia ricevendosi dall' uomo, che già la grazia possiede, servono a lui di mezzo ad aumentare la grazia stessa e accrescere in sè i gradi della cognizione di Dio; 2. Quelle impressioni sensibili le quali non sono puramente naturali, ma che sono accompagnate da qualche principio soprannaturale, e provengono non puramente da oggetti materiali, ma da oggetti che, sebbene materiali, sono però informati da virtù divina. Or di queste ultime impressioni sensibili noi abbiamo distinte tre classi, cioè a dire: 1. di quelle impressioni sensibili che hanno congiunta una cotal virtù soprannaturale, non già in quanto sono segni, ma in quanto sono pure sensazioni. E considerate in questo stato, il loro effetto immediato non può esser quello d' illustrare e di comunicare la grazia alla mente umana, ma sol quello di produrrre qualche effetto prodigioso nella natura materiale e animale: come avveniva al toccamento di Cristo che guariva i ciechi e i sordi, o dall' esser toccato, come fu nel caso della Emorroissa. Ove però queste operazioni prodigiose avvengano in esseri ragionevoli, come sono gli uomini, convenevole cosa è che si traggano dietro la santificazione dell' anima, quando però l' uomo non la ricusi. Ma questa conseguenza deve nascere come effetto successivo, e per essa esigesi che giunga la sanazione dell' uomo sino alla parte intellettiva. Il che non si fa se non colla infusione di qualche lume o di qualche abitudine della volontà che al lume acconsente: come se l' uomo, riflettendo in sulla grazia ricevuta, levi il suo cuore a dar lode a Dio, percependone nel fatto avvenuto più vivamente la bontà. Ed allora quella impressione sensibile, che nulla significava, è divenuta anch' essa parola possente a illustrare la mente dell' uomo; 2. di quelle impressioni sensibili che hanno congiunta una virtù e grazia soprannaturale in quanto non sono segni solo, ma ben ancora in quanto son conosciuti dall' uomo per segni; perchè la grazia opera mediante il concepimento della cosa significata; 3. E finalmente di quelle impressioni sensibili le quali hanno congiunta una virtù e grazia soprannaturale, in quanto sono segni, sebbene non v' ha nessun bisogno che l' uomo li conosca come tali e ne intenda il significato. Questi ultimi hanno la forma di segni principalmente perchè l' essere che li adopera a produrre l' effetto soprannaturale è intelligente e vuol come tale operare, sebbene rispettivamente all' uomo essi adoperino in modo non dissimile dalle prime di queste tre specie d' impressioni, le quali nulla significano; non avendovi altra differenza da queste nel loro modo di operare, se non che l' effetto immediato di queste è nei corpi, di quelle nell' anime, e quelle producono ciò che significano, il che non fan queste perchè nulla significano. Nè il significato di questa terza specie d' impressioni è inutile all' uomo che il conosce: perchè quantunque il non conoscerlo non privi l' uomo dell' effetto soprannaturale lor proprio e peculiare, tuttavia, conoscerlo, può molto vantaggiar l' uomo di questa cognizione per una cotale grazia accessoria che si sopraggiunge e opera per via della significazione stessa di quei segni. Or questi quattro modi d' impressioni sensibili o segni possono dare o accrescere nell' uomo la luce soprannaturale e però la cognizione divina. Egli è poi manifesto che a questo aumento di cognizione deve rispondere una volontà e un' operazione umana di pari eccellenza, le quali dal perfezionamento del principio conoscitivo ricevono la possibilità della propria perfezione (1). E` così che tutto l' uomo morale si ammigliora e perfeziona. Per le quali cose saviamente dice S. Tommaso: [...OMISSIS...] . E di segni sensibili, pei quali veniva comunicata a un tempo la cognizione e la grazia, era fatto quel sistema onde Iddio disponeva di promuovere lo sviluppamento della umana natura da lui perfettamente costituita e di condurre a ogni perfezione i primi uomini Adamo ed Eva. All' aiuto de' quali io non so se dovessero servire anche dei segni del primo genere, cioè delle sensazioni puramente naturali: poichè non so, se nello stato primitivo vi avesse cosa alcuna nell' universo la quale appartenesse al solo ordine naturale, e non forse tutte le cose avvolgesse una energia divina e soprannaturale, la quale imprimesse nella natura di esse un atto di vita e di incorruzione, perdutosi colla introduzione nel mondo del male morale che divise il Creatore dal creato. Ma comechessia di ciò, certo che ove anche gli uomini primitivi avessero dovuto ricevere delle sensazioni puramente naturali, avrebbero però essi vestite queste sensazioni medesime della propria santità e della grazia della quale abbondavano, e le avrebbero rese a sè stessi scala per la quale ascendere non solo al Fattore come principio della natura visibile, ma al Dio vivo e vero come autore del tutto, di cui l' ordine naturale è il principio, e l' ordine soprannaturale il compimento. Perocchè quelle sensazioni erano però sempre passioni di esseri che niente aver potevano in sè il qual non fosse dalla vital virtù della grazia accompagnato. Gli altri tre generi d' impressioni e di segni erano sicuramente adoperati dal Creatore a sviluppare gli uomini primitivi e far loro copia di sè sempre maggiore. Non piglierebbe però a far leggera opera chi cercasse di trattare di questi tre generi d' impressioni a parte, determinando quali fossero nel primo stato degli uomini quelle che appartenessero al primo, e quali al secondo, e quali al terzo; dovendo anzi trovarsi tutti mescolati e contemperati insieme mirabilmente. Solo per toccare brevemente di alcuni che primi alla mente mi si offeriscono, enumererò i seguenti. 1. Tutto l' universo materiale, come detto è, era un simbolo o un complesso di simboli dell' universo spirituale o certo del sistema del gran tutto. 2. Questo poi veniva, quasi direi, interpretato dalla lingua simbolica, divina e umana: la prima appartiene alle grandi parti dell' universo, e la seconda alle piccole. 3. Fra le parti dell' universo minori, in quanto alla grandezza materiale, vi aveva in primo luogo quel cotal simulacro o visibile figura, di qualsivoglia fatta ella fosse, ma assai probabilmente umana (1), dentro alla quale il Creatore si rappresentava sensibilmente agli uomini e alla natura tutta e comunicava i suoi precetti e emetteva divine influenze. 4. In secondo luogo era la prima coppia degli uomini. Il loro accoppiamento maritale simboleggiava particolarmente l' unione della natura umana colla divina: e questo è uno di que' simboli solenni che sono passati per tradizione e che si trovano presso tutte le nazioni, specialmente quelle che mostrano più altamente impresse le vestigia dell' antichità, chè veramente non è solo nella Cantica di Salomone che occorra questo mito, nè egli è invenzione di questo Re; ma egli il trovò presso gli Ebrei, come si trova frequentissimo in quei vetusti monumenti delle Indie che furono pubblicati per opera della società Inglese di Calcutta (2). E perciocchè l' unione della divina e della umana natura doveva rendersi perfettissima e assoluta in un uomo che fosse insieme Dio, secondo il consiglio del Creatore per ciò quell' accoppiamento simboleggiava massimamente questa grande opera della divina e eterna Provvidenza. E quand' anche non si voglia abbracciare la sentenza degli Scotisti, che l' incarnazione del Verbo succeder dovesse anche ove non fosse intervenuto il peccato, come quel gran fatto nel qual solo l' eccesso della sapienza, bontà e onnipotenza divina nelle opere sue toccavano l' ultimo termine; tuttavia vero è che questa incarnazione trovò cagione per la quale si effettuasse, la quale fu la redenzione del mondo. E però quando venne il Cristo a salvare la umanità a un tempo e a recarla alla massima sua dignità, dichiarò e fece del matrimonio un Sacramento (3) della nuova sua legge. Il perchè S. Paolo citando quelle parole dette da Dio nella prima istituzione del matrimonio fatta in Adamo e Eva [...OMISSIS...] . E anco S. Agostino, riguardando questa rappresentazione del futuro Cristo che si disposerebbe misticamente alla Chiesa, non dubitò di chiamar Sacramento quel connubio de' primi e ancor innocenti nostri progenitori (1). 5. L' opera della generazione era tutta volta a simboleggiare i mezzi più arcani riguardanti la divinità, e tali simboli formano ancora la base della Indiana sapienza e della indiana religione. Se non che essi furono usurpati dai filosofi e applicati da essi ai proprii sistemi, ristretti talora a una teoria generale della natura delle cose e talora macchiati ancora di empietà (2). 6. L' albero della scienza del bene e del male e quello della vita piantati nel mezzo dell' Eden erano simboli sensibili delle due primigenie forme dell' essere, cioè dell' essere ideale fonte e oggetto formale di tutte le umane scienze, e dell' essere reale principio della sussistenza e della vita, e perciò ancora della grazia, che non è se non una comunicazione di vita più abbondante, immortale, soprannaturale e assoluta (3). Egli è per ciò che l' albero della vita, come un simbolo generale di tutto ciò che dà o cresce all' uomo la viva sussistenza, viene adoperato nelle Scritture quale efficace espressione di ogni cosa che ricrea l' uomo e il conforta: come, a ragion di esempio, nei Proverbii si legge: [...OMISSIS...] . Medesimamente volendo dire che la giustizia viene premiata coi godimenti che mantengono e accrescono la vita, si dice: « Il frutto dell' uomo giusto è il legno della vita« (6). » Ma perciocchè la vita più nobile di cui l' uomo goder possa, è quella che nasce a lui dalla partecipazione della sapienza , cioè di una scienza vitale e pratica, e non di una pura scienza speculativa e astratta che nell' albero della scienza rappresentavasi, perciò è massimamente della sapienza che dicesi esser l' albero della vita, come si legge nei Proverbi: [...OMISSIS...] . Ora secondo gli insegnamenti della cristiana dottrina la sapienza essenziale, la sapienza in un senso completo e assoluto, è una vera sussistenza , una delle tre persone divine, la quale si chiama anco Verbo Divino. Perciò l' albero della vita adunque, sebbene sia atto a simboleggiare ogni grado minore di bene sostanziale e di vita, tuttavia egli simboleggiar deve eminentemente e nel senso più proprio e peculiare il Verbo di Dio e medesimamente Cristo che di sè ha detto: « Io sono la via, la verità e la vita« (2). » Conciossiacchè è il Verbo che, comunicando sè stesso agli uomini, dà loro la vera e sostanziale sapienza, la vita e la immortalità. Egli è per ciò che da S. Giovanni si dice che anche nella celeste Gerusalemme è piantato l' albero della vita: [...OMISSIS...] . Di maniera che, quei simboli che Dio pose a principio nel terreno paradiso avevano virtù di significare maravigliosamente quanto doveva trovarsi nella fine delle cose, ed erano l' esemplare di quel gran concetto che Dio intendeva di effettuare colla sua provvidenza mediante il corso di tutti i secoli da lui preordinati. E` quest' albero, dice il medesimo S. Giovanni, che va producendo dodici frutti, i quali egregiamente simboleggiano quei dodici effetti dello spirito di Gesù Cristo cui enumera S. Paolo e chiama appunto « frutti dello spirito« (4). » Ed è da osservarsi, che per la significazione generale di questo meraviglioso simbolo, egli non è meno atto a significar Cristo nell' ultimo stato di gloria e beatificatore de' Santi a cui si comunica in cielo, che nello stato onde comunica sè stesso agli uomini per la grazia: e singolarmente poi sotto la forma di cibo nella divina Eucarestia, che con tutta proprietà e verità un pio autore chiama « legno di vita« (5). » E v' ha di più. Cristo non solo vive in sè, ma vive anche ne' suoi santi, e per la costoro operazione si comunica e trasfonde in altri uomini: il perchè anche tutti gli uomini santi sono legni di vita; e quindi S. Giovanni dice aver veduto la fiumana dell' acqua viva che feconda la celeste città aver le sponde tutte fornite di alberi che non sono altro che il legno della vita: [...OMISSIS...] . Dice il legno in singolare, perchè è sempre il solo Cristo che vive e opera in tutti i santi, e dice che questi legni hanno foglie saluberrime in sanità delle nazioni, perchè queste si convertono, e sananano appunto per quella grazia che dai santi comuni ed apostolici, o in cielo per la loro intercessione e ministero, o in terra per la loro predicazione e esempio, viene in esse trasfusa: nè v' ha in cielo albero di altra specie che di questa, del legno della vita. Per la qual cosa dice S. Agostino sapientemente, che Dio non volle che l' uomo vivesse nè pure nel paradiso senza misteri di cose spirituali corporalmente rappresentategli: il perchè negli altri legni si aveva il nutrimento, e in questo della vita il Sacramento (1). 7. Vi aveva ancora nel terren paradiso un altro simbolo solenne e magnifico in quel lago o mare che pullulando dal mezzo del paradiso e irrigandolo tutto d' intorno poi riversavasi per quattro gran fiumi che percorrevano da quattro bande la terra: il quale pure fu riconosciuto per simbolo dall' antichità più rimota. Quell' acqua è anch' essa acqua viva o acqua di vita; ed è di quei simboli costanti, coi quali Iddio non parlò solo allora agli uomini, ma sempre anche di poi, e fino alla fine, trovandosi ripetuto nelle Scritture dall' un capo all' altro, dal Genesi all' Apocalisse, dal principio della creazione al termine delle cose in cielo. Questo tipo è rinnovellato nelle acque del diluvio (2). Quivi un nuovo ufficio sono chiamate a fare le acque, cioè a purificare il mondo dalle immondizie: dove i Padri riconoscono concordemente il simbolo del lavacro di rigenerazione. Torna nel deserto lo stesso simbolo nel mar rosso dove perisce Faraone e si salva il popolo di Dio: e nel deserto in quella rupe figurativa di Cristo, secondo l' Apostolo, che percossa sgorga una fiumana d' acque in tal copia che scorrendo accompagna gli Israeliti in tutto il lor viaggio. Nel tempio di Gerusalemme, che rappresentava appunto il tempio del cielo, come faceva il terren paradiso, si aveva questo simbolo, uscendo le acque dal disotto delle are, delle quali acque misteriosamente parla Ezechiello così: [...OMISSIS...] . E tutta la descrizione, che fa di quest' acque il profeta, è tal che non lascia punto dubitare voler egli nascondervi sotto degli alti misterii, e la sua narrazione aver tutta un intendimento assai di là del solo letterale e materiale concetto delle parole. Il che prova anche manifestamente il confronto che far si può con questo luogo di Ezechiello e quell' altro dell' Apocalisse di S. Giovanni, il quale apertamente fa allusione e richiama quel dell' autore profeta, e di questo mostra di esser interpretazione e dilucidazione. Or S. Giovanni vide pure queste acque nella città celeste, ed elle scaturivano dal trono dell' Agnello: [...OMISSIS...] . Or quest' acqua che sortiva dai sotterranei del tempio, quest' acqua che emana dalla sede di Dio e dell' Agnello acconciamente S. Ambrogio la crede simbolo dello Spirito Santo che procede da Cristo (2); e perchè procede da Cristo come Dio, dice S. Giovanni, che scaturisce dalla sede di Dio e dell' Agnello, cioè da quella sede dell' Agnello che è la stessa sede di Dio, appunto perchè l' Agnello è Dio. E di quest' acque parlò Cristo colla donna di Samaria, dicendo: [...OMISSIS...] . E volle Cristo conservare e perpetuare questo simbolo primitivo nella sua Chiesa, elevandolo colla istituzione del santo battesimo alla dignità di Sacramento della nuova sua legge. Perciocchè poi lo Spirito Santo e le sue grazie sono quelle che alimentano e tengono vivi i Santi, per ciò esse trascorrono queste acque vive della celeste Gerusalemme vicino a quelle piante del legno della vita, che figurano i santi e ne bagnano il pedale e le radici. E perciò non pure S. Giovanni, ma ancora Ezechiello vide che nella ripa del torrente di quest' acque erano molte piante del legno della vita da ambe le parti (4). Sicchè l' acqua è indivisibile dal legno che inaffia e feconda. Il perchè le acque che pose a Iddio a principio nel piacevol giardino ove collocò i primi padri degli uomini erano simbolo proprio e peculiare della terza persona della santissima Trinità: e ove si voglia solo prendere in un senso generale e astratto, [simbolo] dell' essere morale. Così i principii di tutte le cose eran simboleggiate agli occhi del primo uomo in quelle due piante e in quelle acque, perocchè questi tre oggetti rendevano bellissima rappresentanza della trina forma dell' essere, cioè dell' essere ideale, reale e morale; i quali tre elementi erano i segni di tutto l' umano sviluppamento. E perciò a chi dimandasse se nel tempo dell' uomo innocente fossero istituiti i Sacramenti, cioè segni di cose sacre, potrebbesi convenientemente negarlo, poichè non l' una o l' altra cosa era esclusivamente costituita in simbolo peculiare di qualche spirituale verità o grazia, ma le cose tutte grandi e piccole dell' universo non erano che un cotal massimo magnifico Sacramento. A questa dottrina si opporrà, che ella sta contro al sentimento del maggior numero de' teologi cattolici, e, ciò che è più, di S. Tommaso d' Aquino. A cui io potrei rispondere che egli è vero non darsi Sacramento, in senso stretto, nel primitivo stato dell' innocenza: ma che la parola Sacramento si prende anco in un cotal senso più largo, nel quale i teologi stessi accordano che in quel primo tempo v' avevano Sacramenti. E anzi egli è con questa distinzione che vengono interpretando e spiegando quei varii passi di S. Agostino, nei quali questo grande Dottore attribuisce de' Sacramenti anche all' età del mondo innocente. Ora io non affermo che in quel tempo vi avessero altri Sacramenti che di questi presi in significato assai largo. E tale risposta basterebbe all' uopo di trovarmi in accordo colla mente dei rispettabili teologi precitati. Ma ella non basta però a me nè al mio lettore, perocchè non meno egli che io, se mal non avviso, desideriamo una più chiara spiegazione di questo vario significato che può ricevere il vocabolo Sacramento, dalla quale vedere, come può dirsi veramente, che nel primo tempo non v' avevano Sacramenti, sebbene v' avesse quel mirabile complesso di simboli parlanti e efficaci di cui fatta menzione. E a trovare questa spiegazione ci farà la via quel luogo di S. Tommaso col quale egli toglie a provare che, avanti il peccato dell' uomo, non erano necessarii i Sacramenti: dietro alla qual prova trassero poi, come detto è, quasi tutti i teologi. La ragione per la quale avanti il peccato non furono necessarii i Sacramenti, « può pigliarsi dalla rettitudine di quello stato, nel quale le superiori potenze signoreggiavano le inferiori e in nessun modo dipendevano da queste. » [...OMISSIS...] Nel qual passo si vede che la ragione per la quale l' angelico Dottore esclude i Sacramenti dallo stato primitivo della innocenza, si è, che non conveniva che l' uomo in quello stato ricevesse la santità dalle cose corporee, quando questa santità gli veniva infusa nell' anima e in lui dall' anima discendeva a santificare lo stesso corpo. Or ad intender bene questa ragione convien sapere, che i Sacramenti della nuova legge, che pur sono cose corporee e segni sensibili, hanno una tale efficacia e virtù, che portano nell' anima la grazia anche senza il mezzo di un atto precedente della volontà dell' uomo che riceve il Sacramento, come vedesi nel battesimo de' fanciulli, il quale infonde la grazia nelle anime loro sebbene le loro anime non abbiano fatto precedentemente nessun atto col quale meritarsela. Egli è dunque proprio de' Sacramenti, preso il vocabolo in senso stretto, di produrre la grazia nell' anima stessa dell' uomo: il perchè S. Tommaso li definisce per un segno di cosa sacra in quanto questo segno è santificatore dell' uomo (1): cioè in quanto pongono la santità nell' uomo, la quale santità abita nella parte suprema intellettiva e volitiva. Non potrebbesi adunque chiamar Sacramento, in questo significato stretto e proprio, quei segni sensibili, i quali avessero bensì virtù di disporre le inferiori potenze dell' uomo alla santità, per modo che esse non solo diritte fossero e niente ripugnanti a quell' uso che far volesse di esse un' anima santa, ma ben ancora giovassero a quest' anima stessa a nutrire atti e affetti di santità. Perciocchè è da osservare con diligenza quel nesso strettissimo che legano le potenze inferiori alla suprema e il servizio che a lei prestano, il quale è tale e tanto che a lei facilitano quegli atti stessi che ella pur fa da sè anche indipendentemente da esse; come al contrario malamente disposte la impediscono e aggravano in porre tali suoi atti. Chi non sa, a ragion d' esempio, che i fantasmi della imaginativa inclinano, se non anche tirano l' anima a una piuttosto che a un' altra serie di pensieri? I sentimenti che ha virtù di eccitare una musica, non trapassano di lor propria efficacia la sfera dell' anima sensitiva: e pure chi non ha sperimentato quanto inclinevole secondi l' anima intellettiva, quasi per una cotal legge di armonia a cui deve ubbidire, quei movimenti animali? E come certi suoni duri, aspri, e ferini hanno affinità colla passione dell' ira o dell' audacia, i cui moti vengono da quei suoni eccitati, e come dietro a questi movimenti animali tragga eziandio lo sdegno dell' anima intellettiva e, se la causa è sacra, fino lo zelo ardente e divoratore? Ed e converso i suoni leni e molli inducano prima nell' animalità stessa le più dolci passioni, da cui l' anima razionale sentesi invitata a sperare o ad amare dell' affetto suo più puro e intellettuale? Sicchè indubitatamente vi ha una mirabile corrispondenza fra lo stato e la disposizione della parte più sublime dell' anima, e la disposizione e lo stato delle parti inferiori di lei: e dove la disposizione di queste sia contraria alla disposizione e volontà di quella, quella procede a ritroso nel suo cammino e con eccedente fatica, se pur non dà volta e non si aggiusta alle disposizioni di questa. E se questa legge di corrispondenza è certa, come la sperienza ne fa indubitabile prova, pur certo è che dunque anche allo stato di santità, in cui l' anima si trova colla suprema sua parte, deve corrispondere uno stato armonico delle parti inferiori, le quali sieno acconcie non a impedire, anzi ad aiutare e secondare le sante voglie della parte superiore. Or non è punto assurdo l' imaginare che vi abbiano dei segni sensibili, i quali, per virtù soprannaturale aggiunta loro da Dio, abbiano efficacia di disporre le parti inferiori dell' uomo in un modo acconcissimo alla santità della parte superiore; sicchè una tale disposizione inviti ed ecciti l' anima a santi pensieri e voleri, e non che la impedisca, ma anzi mirabilmente in essi la giovi e la provochi. Or questi, sebbene sarebber segni di cose sacre e disporebber l' anima alla santità, tuttavia secondo la dottrina dell' angelico Dottore, non potrebbero dirsi in senso stretto e proprio Sacramenti . Perocchè, dice egli, la cosa si denomina dal fine e dal compimento; e la disposizione non è fine nè perfezione. E però quelle cose che significano disposizione alla santità, non si dicono Sacramenti, ma solo quelle che significano perfezione di santità umana (1). I segni sensibili dati agli uomini nello stato d' innocenza avevano bensì una cotal virtù soprannaturale seco congiunta, ma tale che non influiva immediatamente, se non nelle parti inferiori dell' uomo e giovavano a disporre ed acconciare queste parti nel modo più perfetto, perchè si accordassero ottimamente e servissero alla parte suprema e già santa. Il perchè sebbene tutte le cose sensibili e l' universo materiale fosse un complesso di segni di cose sacre, che giovassero alla santità dell' uomo per un' ottima disposizione che in lui mettevano ad essa, tuttavia non si potevano chiamare in senso stretto e proprio, secondo la mente dell' Angelico, Sacramenti perchè non erano facitori e produttori della stessa santità. Può considerarsi l' uomo in quel primo tempo come un tutto complesso di molti elementi più o meno spirituali; e parimenti Iddio e l' universo può considerarsi come un tutto complesso, la cui parte più sublime era Dio stesso e la più materiale i corpi. Or questo secondo tutto operava sul primo e si toccavano per così dire le parti corrispondenti quasi membro a membro ed elemento ad elemento, i più spirituali affettavano i più spirituali, e i più materiali i più materiali. E però Iddio affettava e toccava immediatamente l' anima intellettiva, e le altre parti materiali dell' universo affettavano e toccavano le corrispondenti parti materiali dell' uomo. E poichè questi due tutti avevano una mirabile armonia nei loro elementi e ciascun elemento aveva stato conveniente a tutti gli altri, avveniva che ciascuno fosse dagli altri giovato e che gli inferiori sentissero la signoria ed utilissima influenza del supremo. E però l' universo materiale era in un senso influito e vivificato da Dio, come il corpo era influito e vivificato dall' anima; e il tocco dell' universo materiale dava al corpo dell' uomo quella vita e virtù che egli da Dio partecipava, per la quale metteva il corpo umano in atto, onde questo mirabilmente giovasse e si confacesse alla perfezione dell' anima, onde pendeva, come da principio, la perfezione del tutto. E` in questo senso, come diceva, che tutto l' universo sensibile era all' uomo innocente quasi un solo immenso e solennissimo Sacramento, e che Iddio aveva dato questo mezzo delle sensibili cose, dalla sua virtù confortate, perchè l' uomo venisse per esse sviluppandosi e crescendo in cognizione e in virtù. Non è difficile rispondere dopo di ciò, in modo atto a persuadere, a coloro i quali credono poter dimostrare la necessità de' Sacramenti anche nello stato degli uomini innocenti (1), mediante quelle ragioni colle quali si suol provare la necessità de' Sacramenti in generale. E queste sono: 1. che gli uomini non si possono unire in società religiosa senza qualche segno esterno che li distingua, mostrandoli per uomini appartenenti a quella religione (2). E 2. che essendo l' uomo fornito di corpo ha bisogno di segni esterni per crescere in cognizione e quindi in virtù (3). Perocchè questi due argomenti non provano già la necessità di Sacramento in senso stretto, ma solo in senso lato. Conciossiacchè egli è evidente che per unirsi in una società religiosa o in una società qualunque, fa bisogno bensì qualche segno esterno col quale si distinguano i professori di quella religione; ma non è uopo che questo segno esterno produca la santità nell' anima e però che sia, in senso stretto e proprio Sacramento. E così parimenti l' uomo ha bensì bisogno di segni esterni per accrescere le sue cognizioni: ma quando si considera la natura umana perfetta, vedesi che l' anima nell' intellettiva sua parte non comunica col mondo materiale, ma solo con Dio. E però che i segni del mondo materiale sono solamente ordinati a disporre le parti inferiori dell' uomo, ma non a mettere la santità nella parte superiore di esso, quando a ciò non sieno ordinati da una straordinaria disposizione del Creatore. Tali erano i mezzi di santificazione dati all' uomo innocente: tale il sistema primitivo in cui era posta l' umanità. Un fatto memorabile sopra ogni altro avvenne e alterò quel sistema così mirabile e perfetto; e questo fu il peccato di Adamo, la descrizione del quale diede materia al libro precedente. Or riepilogando noi quanto ivi fu detto e tenendo in questo fatto una nuova via, perchè non sazii una servile ripetizione delle stesse cose, dico che il sistema dell' uomo primitivo componevasi di due quasi elementi, la creatura e il Creatore, l' uomo e Dio. E` dunque a vedersi l' alterazione che produsse il fatto accennato tanto per rispetto all' uomo che per rispetto a Dio. Col peccato perì l' ordine soprannaturale, e l' uomo rimase colle sole forze della natura. Quindi nell' intelletto non risplendette più se non l' essere ideale con tenue lume, il quale non afforza l' uomo di tanta virtù che possa resistere o alla lusinga di un bene reale, o alla violenza di un male per amore della giustizia. Sicchè, perchè l' uomo lasciato colle pure forze della natura, quando anche questa fosse incorrotta, avrebbe bisogno per conservarsi virtuoso di una tal provvidenza vegliante al governo di lui e delle cose che lo circondano, per modo che non permettesse giammai che egli venisse posto in grave tentazione, e questa provvidenza speciale manca a colui che ha rifiutato malamente l' amicizia di Dio; come l' uomo fu privato della grazia, che è quanto dire di tutto ciò che apparteneva all' ordine soprannaturale, così pur la natura fu segregata da ogni soprannaturale influenza e abbandonata alle sole sue forze. In questo abbandono ella fu soggetta a tutta quella vicenda di alterazioni e disordinati mutamenti a cui necessariamente la espone la natura delle proprie limitazioni e il disordine introdotto in essa dagli atti disordinati della creatura intelligente peccatrice; quindi la natura non ebbe più alcuna virtù nè di significare nè di produrre alcun effetto soprannaturale nello spirito dell' uomo. Non le rimase se non l' attitudine degli effetti naturali, e quella di significare un cotal ordine misterioso, di cui appena con delle idee negative rimaneva traccia nella umana intelligenza. Di più: non rimase all' uomo nè anco la natura intatta, ma vulnerata in tutte le sue potenze. La ragione fu offuscata e perturbata dalla sensualità e la volontà resa tarda al bene insensibile. Dimodochè l' uomo è sempre accompagnato da que' mali gravissimi che S. Agostino ridusse all' ignoranza e alla difficoltà di fare il bene, e che il Divin Redentore espresse in quelle parole: «O stolti e tardi di cuore (2) »: nelle quali cose la stoltezza risguarda l' intelletto, e la tardezza del cuore la volontà impedita. La sensualità rapì a sè per tal modo le forze anche più nobili dell' anima, che ad essa è fatta vilmente ubbidiente, e che fino per potere fare il bene deve spesso dipendere dall' aiuto di quella. Così fu dissipata e guasta la mirabile armonia che era fra il Creatore e la creatura, come pur quella che subordinava fra di loro le varie potenze e facoltà di [cui] l' umana natura era fornita. Non basta ancora. L' uomo privato della grazia di Dio non ebbe altre forze che le sue proprie. Egli rimase adunque abbandonato agli esseri malevoli più forti di lui. Il demonio trovò il modo di entrare nella natura non più protetta da Dio e di operare nell' uomo per mezzo delle cose corporee, di cui era entrato in balìa. Circa il modo onde il demonio si rese padrone de' corpi ho già toccato una conghiettura, nel libro precedente. Comechessia, la dottrina tradizionale ci assicura della signorìa dei demonii circa i corpi e mediante i corpi ancora sulle anime degli uomini. E poichè i corpi comunicano colle anime mediante la vita e la sensibilità, quindi nella vita animale e massime nella fantasia si mostrò più funesto e crudele l' impero del demonio, sia col tormentare gli uomini mediante de' mali, sia colle suggestioni della immaginazione, dietro la quale l' umanità, senza Cristo, venne e viene deplorabilmente aggirata. Iddio ha in sè originalmente e essenzialmente la forma ideale e la forma reale dell' essere. Considerato secondo la forma ideale egli è la giustizia: considerato secondo la forma reale egli è la causa efficiente e il signore di tutte le cose. L' effetto del peccato relativamente a Dio come giustizia, fu il debito che l' uomo contrasse, la natura del qual debito è questa. Secondo la giustizia Iddio doveva essere onorato senza modo dalla creatura intelligente, la volontà della quale doveva subordinarsi appieno e assimilarsi alla volontà divina. Un atto solo della volontà umana opposto alla divina era un disordine infinito: perocchè l' obbligazione nasce dall' oggetto, come dimostra la scienza morale, e però tale è l' obbligazione quale l' oggetto, e se l' oggetto è infinito, egli induce una obbligazione infinitamente grave. Ora infinita è la natura divina, e però l' obbligazione dell' onore dovutole è di una gravezza infinita, e infinito disordine perciò è il violare detta obbligazione. Violata poi che sia e prodotto questo infinito disordine, egli è manifesto che alla creatura, che ne fu cagione, agli altri doveri suoi si sopraggiunse il debito di risarcire la divinità dello scematole onore; e questo nuovo debito è pur esso obbligatorio con forza infinita, come son tutti gli altri doveri che si riferiscono ad un infinito oggetto. Perocchè l' onore dovuto a Dio uscendo come necessaria conseguenza dalla stessa natura divina, e questa pure essendo immutabile e necessaria, conviene che anche il debito sia necessario e immutabile, cioè che non venga mai meno sino a tanto che non sia pagato e soddisfatto. Ora da ciò appar manifesto che è impossibile alla creatura, che ha incontrato questo debito col peccato verso la divinità, pagarlo e conguagliare le ragioni. E ciò: 1. Perchè la creatura, lasciata sola colle proprie forze e spogliata dalla grazia, ciò che succede pure per lo peccato, non ha alcuna possibilità di levarsi fino a Dio, e però nè pure di fare un atto infinito di ossequio verso la natura divina, che egli non percepisce più e non conosce se non negativamente; 2. Perocchè tutti gli atti che egli far potesse in questo stato ad ossequio della divinità già non sarebbero più di quanto essa divinità si merita per sè stessa, anche senza il nuovo debito, ma bensì si terrebbero sempre al disotto del giusto. Sicchè computando e sommando tutta la serie degli atti di onore che questa creatura desse al Creatore si troverebbe sempre, ragguagliata alla somma del debito, mancante di una differenza infinita, per cagione che tutti gli atti di onore non potrebbero levar via quella lacuna che lascia il peccato commesso e fare che la disonorata divinità non fosse stata disonorata. Conciossiacchè la creatura doveva con tutta sè stessa e in tutti i tempi servire al Creatore. Se dunque in tutto il corso dell' esistenza della creatura trovasi un momento in cui sia mancato l' onore a Dio, egli è di natura sua irreparabile: nè gli altri momenti in cui Dio fu onorato valgono a risarcire quel momento vuoto della debita onoranza; ma resta difettoso tutto il complesso della vita morale della creatura, e questa soggetta a tale obbligazione a cui non ha onde soddisfare; 3. Perchè la creatura dopo il disordine commesso rimane ella stessa disordinata e indebolita; sicchè le è troppo difficile il solo sostenere il passo che non precipiti in nuove rovine e che non aggiunga altri disordini al primo. Havvi dunque un ordine di giustizia eterno, immutabile e indipendente dallo stato della creatura, il quale non può essere alterato; e se viene alterato deve essere ristabilito. Sicchè quando anche si potesse pensare che la creatura, dopo essere scorsa al peccato, ella in sè stessa fosse riformata e ritornasse come prima cogli affetti ordinati, ciò non basterebbe ancora. Perocchè l' ordine della giustizia non sarebbe con questo solo ristabilito, il qual ordine consiste in questo: 1. che sia dato a Dio tutto l' onore che si merita di presente; e 2. che gli sia restituito anche quello che gli fu tolto in passato. E questo secondo sarebbe sempre stato ciò che avrebbe soverchiato le forze della creatura. Che se consideriamo Iddio sotto la forma di essere reale e sotto questa forma il consideriamo nella relazione coll' uomo, l' effetto del peccato è doppio, cioè: 1. Una remozione di Dio dall' uomo come da persona resasi incapace e indegna del suo consorzio: il quale effetto è proprio del peccato come violazione della legge naturale. 2. Lo sdegno di Dio, ossia la disposizione di Dio a punire l' uomo: il quale effetto è proprio del peccato considerato come violazione della legge positiva, ossia della positiva volontà di Dio. Riepilogando adunque quanto fu detto fin qui intorno all' alterazione che nacque nel sistema primitivo dell' uomo mediante il peccato, noi l' abbiamo considerata sì relativamente a ciò che soffrì di mutazione lo stato dell' uomo, come relativamente a ciò che soffrì di mutamento il rapporto di Dio coll' uomo. Abbiamo detto che lo stato dell' uomo fu alterato per l' accidente sopravvenuto del peccato, in due punti, cioè: 1. l' uomo fu privato di tutte le forze sopra natura e limitato alle sole forze della natura; 2. nella sua stessa natura furono alterate le singole potenze e dissipata quella mirabile armonia che le teneva accordate fra loro, e messa in esse l' inordinazione. A ciò s' aggiunse che anche tutte le forze della natura esterna furono private di ogni influsso soprannaturale, alterate e disordinate; e mancò quella speciale provvidenza che dirigeva le loro forze e tutti i loro movimenti al bene dell' uomo come dell' amico di Dio; 3. e così l' uomo privato della divina protezione e la natura caddero in balìa degli esseri malefici più forti di lui. Abbiamo detto ancora che fu alterato il rapporto di Dio coll' uomo: 1. perchè fu violato l' ordine eterno della giustizia, di che ne venne un infinito debito all' uomo di ristorare un tale ordine, e, non potendolo ristorare, la necessità di una punizione senza fine vendicatrice della giustizia offesa; 2. l' allontanamento di Dio dall' uomo; 3. lo sdegno di Dio, ossia la punizione effettiva. Sei adunque sono i punti nei quali venne alterato il sistema primitivo col fatto della prima colpa: tre consistenti in mutazioni successe nella natura umana, e tre in mutazioni successe nei rapporti con Dio. L' uomo adunque era perduto irreparabilmente, se non si riparavano questi mali effetti del peccato, e, solo rimossi questi, poteva essere ristorato dal suo ricadimento. Acciocchè adunque l' uomo tornasse a stato di salute, egli doveva cansare la vendetta dell' onnipotente e doveva ottenere che questo di bel nuovo gli si avvicinasse. Ma questo non poteva essere, se prima non si ristabilisce l' ordine della giustizia: il quale ordine è necessario, e Dio, che è la giustizia per l' essenza medesima non può altro voler che lui, cioè sè stesso. E però dice S. Agostino: [...OMISSIS...] . Ma era impossibile alla umanità ristabilire l' ordine della giustizia, come fu detto. Perocchè a ristabilire il detto ordine conveniva che l' uomo desse a Dio non pure tutto l' onore che merita la divina natura per sè, ma oltre a ciò anche un culto di onore di più di quello che a lei fosse dovuto per sè sola considerata, il qual valesse a risarcirla dell' onore prima sottrattole, pagandole così quel credito che ella s' era acquistato presso all' uomo che le aveva tolto il suo. Or poi l' uomo non aveva neppure tanto da dare a Dio quello che egli per sè meritava, perciocchè dando a Dio tutto sè stesso, non gli dava ancor nulla di ciò che fosse pari alla divina maestà e di lei degno, ed era scusato dal dare di più solo perchè di più non aveva che dare: la qual ragione del non avere nè aver mai avuto in sè di più che potesse dare a Dio faceva sì che il solo dare tutto sè stesso non fosse imputato ad ingiustizia. Col peccato all' incontro aveva pure una volta sottratto sè stesso a Dio: e però, checchè si facesse, non si poteva più avverare che egli onorasse il suo Creatore con tutto sè stesso, perocchè non è più un onorarlo con tutto sè stesso quando anche un momento solo dell' esistenza venne furato al culto divino; chè quando si dice tutto , non si esclude nulla dell' essere che sussiste e del tempo in cui sussiste. La natura umana adunque era, come si diceva, irreparabilmente perduta, poichè non aveva più in sè stessa onde ristabilire l' ordine dell' eterna giustizia da lei perturbato. Ora non potendosi quest' ordine ristabilire dalla natura umana, dalla parte di Dio non poteva più essere placato il suo sdegno, cioè evitata una implacabile punizione; nè Iddio avvicinarsi all' uomo soggetto della sua punizione. E dalla parte dell' uomo non poteva nè ricomporsi l' armonia disgregata delle sue potenze, e togliersi il guasto introdotto in esse; nè che riacquistasse la comunicazione coll' ordine soprannaturale e quelle facoltà o attitudini che ad esso ordine di grazia si riferiscono. Il principio adunque della ristorazione dell' uomo non era nella umana natura. E se a noi non ci fosse noto, nati e allevati come siamo nel cristianesimo, e però se non conoscessimo il sistema della redenzione, non ci potrebbe cadere in animo che ci rimanesse pur una via, per la quale potesse ancor salvarsi l' umanità. Conciossiacchè sarebbe stato assai facile il dire a noi stessi: Nella umana natura non ci ha più principio di salute per le ragioni dette; in Dio neppure ci ha, perciocchè è lontanato dall' uomo e sdegnato con lui, cioè mosso dalla sua giustizia a punirlo: dunque manca al tutto il rimedio, e l' uomo è interamente sfidato di salute. Pure la umana natura fu salva, e il sistema della redenzione che noi troviamo nel cristianesimo è quello stupendo mistero della bontà e della sapienza di Dio, che risponde mirabilmente a quelle terribili difficoltà della ragione umana, per le quali non si vedeva più modo come l' uomo potesse con Dio nuovamente riconciliarsi. In questo sistema la redenzione del mondo nasce, quasi direi, per accidente. L' oggetto delle compiacenze del Padre non è per sè l' uomo, ma il Verbo divino. In questo non vi ha peccato nè difetto; egli è la giustizia stessa, perchè è Dio come il Padre. Or l' eterno disegno si fu che questo Diletto del Padre si unisse coll' umanità, per modo che con essa formasse una sola persona. Ma egli non poteva assumere l' umanità corrotta dal peccato, e tuttavia doveva prendere quell' umanità stessa che da Adamo peccatore si propaginava, giacchè l' eterno disegno esigeva che l' umanità che doveva prendere il Verbo fosse identica coll' umanità di Adamo. Però fu trovato lo spediente che il Verbo pigliasse l' umana natura dalle viscere di una figliuola di Adamo, ma che in questa generazione non intervenisse concorso di uomo, giacchè è per questo concorso che si corrompe l' umana natura in propaginandosi. Ora è da osservare qui che questo è un fatto nuovo, come dice il Profeta: « Creò il Signore una cosa nuova sopra la terra« (1) »: ella è una nuova creazione. Come era libero Iddio di creare e di non creare, così era libero di far nascere un uomo senza opera d' uomo e che fosse una persona col Verbo. Niente vi aveva nella natura o nella umanità che potesse produrre o cagionare un tal fatto; nè il peccato dell' uomo impediva Dio dal fare una cosa che non aveva per sè alcuna relazione con esso peccato. E questo fatto del tutto nuovo prodotto spontaneamente da Dio fu quello che rese possibile la salute dell' umanità, mentre senza questo nuovo fatto non era più in essa umanità nè in tutta la natura delle cose alcun principio di riparazione e di salute. Ed è da osservarsi che quel fatto solenne dell' Incarnazione sta da sè ed è compito in sè medesimo: solo si rappicca a lui, quasi per un soprappiù e un accidente, la salute del mondo. Se non fosse così, sarebbe paruto che Dio si fosse abbassato, e che, in grazia dell' uomo peccatore, quasi cedendo nel conflitto, egli avesse operato. All' opposto egli fece tutto per amore del suo Figliuolo Unigenito, senza un risguardo diretto e primario all' uomo: ma l' uomo fu racquistato e salvato appunto perchè così esigeva l' amore del Figliuol suo, che era pur uomo. Conciossiacchè è proprio dell' uomo amare la propria natura anche negli altri soggetti che la partecipano, e quindi Cristo per un amore naturale amò gli altri uomini e li desiderò salvi, e il suo Padre nessun suo desiderio poteva negargli. Nè questo desiderio di Cristo cozzava coll' ordine della giustizia, perchè il Verbo incarnato aveva tal possa da soddisfare appieno il debito contratto dall' uomo, e anche soprabbondantemente. Conciossiacchè egli stesso era Dio, e gli atti suoi di culto erano per questo adeguati alla divina maestà. Ma oltre a ciò egli potè dare a Dio un culto maggiore che non gli si spettava in ordine di giustizia. Perocchè la giustizia voleva che Cristo, come innocentissimo e santissimo, fosse al tutto beato e nessuna pena soffrisse. Ora Egli invece, fu abbandonato dal Padre al dolore e fino alla morte, e parve che Iddio peccasse quasi contro quest' uomo, come un altro uomo aveva peccato contro Dio. Certo è che Iddio contrasse un debito infinito verso di Cristo, quando essendo questo infinitamente giusto e degno di ogni protezione e cura, pure in quel cambio il lasciò fra le angustie, e fino lasciò distruggere l' umanità di lui; ed egli si sottopose obbediente a così crudele decreto, che aveva tutta l' apparenza di essere ingiusto, e che il sarebbe stato, se la volontà stessa di Cristo non l' avesse accettato, rinunziando per amore di Dio Padre al proprio diritto. Allora si trovarono adunque due partite aperte: dall' un canto gli uomini avevano un infinito debito con Dio: dall' altro eravi fra gli uomini uno, che aveva con Dio un credito infinito. Questi però era il ricco, questi poteva essere il Redentore de' suoi simili: e gli riscattò difatti e ricomperò col suo credito, col quale ebbe di ritorno il chirografo del debito di quelli, e lo stracciò, affiggendolo alla croce. Così nel desiderio e nella mano del Cristo pendette la salute del mondo, perchè in lui solo stava la possibilità che ristabilito fosse l' ordine turbato della giustizia. E la salvezza però di ciascuno è un dono del Redentore. Ristabilito pertanto quest' ordine della giustizia, non erano più posti confini alla comunicazione della bontà di Dio: niente più impediva che Dio: 1. si ravvicinasse di nuovo all' uomo e il riducesse ancora colla comunicazione della grazia nell' ordine di perfezione soprannaturale; e 2. che quindi sanasse e riformasse tutta la sua pervertita natura. Cristo cioè ebbe potestà di comunicare ai suoi simili di quello spirito che aveva in sè e che usciva di sè, perocchè egli aveva tolto via ciò che vietava il far ciò, vale a dire il debito dell' uomo, cui Cristo col prezzo di sè stesso largamente pagò. Ora potendo Cristo fare questa comunicazione del proprio Spirito divino all' uomo, e volendolo in un modo sapiente e per varii gradi secondochè gli dettò la sua sapienza e bontà, in ciò usò pur egli dei segni, come que' mezzi che erano convenienti alla umana natura e fino dalla prima istituzione dell' uomo adoperati da Dio. E di questo modo, di questi gradi e dell' ufficio e natura di questi segni ora ci cade qui di dover brevemente ragionare. [I segni adoperati da Cristo per salvare e perfezionare l' umanità redenta da lui, sono di due specie, cioè altri sono istruttivi , e altri effettivi o Sacramenti. Parliamo prima di questi, rimettendo al capitolo seguente il ragionare degli altri] (1). L' uffizio adunque dei segni dati da Dio all' uomo, perchè con essi si perfezionasse dopo il peccato, era diverso dall' uffizio de' segni dati all' uomo avanti il peccato. Avanti il peccato l' uomo era santo e quella parte dell' umana natura, ove come in propria sede abita la santità, era in comunicazione diretta con Dio e da lui immediatamente attingeva la grazia. Sicchè essi non potevano avere altra incombenza che di disporre convenientemente le parti inferiori dell' uomo acciocchè bene si accordassero in servigio della suprema. L' uomo peccatore all' opposto non poteva essere perfezionato se prima non riacquistava la giustizia. E però i segni deputati a mezzi di sua perfezione dovevano essere cotali che avessero efficacia e virtù di dare ad esso la stessa santità, almeno in certa speranza e promissione. Il che mirabilmente si accordava alla condizione della natura umana già guasta dal peccato. Poichè il guasto di essa natura principalmente in questo effetto si manifesta, che l' anima spirituale nelle sue operazioni si trovò legata e fatta schiava ai movimenti del corpo: sicchè ella non ha più in balia di sè, come prima, il corpo animale, ma anzi questo si muove senza sentire il freno di quella, e di più trascina l' anima stessa dietro alle sue proprie operazioni, e la sforza ad operare in un modo consentaneo ai suoi sentimenti e fantasmi. Il che è una servitù lagrimevole dell' anima, e un dimostramento dell' alterazione sofferta dal peccato. L' anima adunque nell' umanità peccatrice è influita dal corpo. Or che restava se non di fare che questa influenza del corpo tornasse a bene dell' anima stessa? E così ordinò la sapienza divina, la quale si servì di certi segni sensibili a riformare l' uomo, che per la via del corpo dovessero giungere col loro effetto fino all' anima, tirando questa stessa alla dirittura della giustizia e infondendole per la medesima via la grazia e la santificazione. Per le quali cose sapientemente l' angelico Maestro insegna: [...OMISSIS...] . - Ma all' incontro dopo il peccato, anche rispetto alla parte superiore, l' uomo abbisogna di ricevere alcun che dalle cose corporee pel proprio perfezionamento (1). Vero è però che la maniera onde per la via de' segni sensibili e però delle sensazioni corporee l' anima riceve la grazia è misteriosa e del tutto incognita (2). Tuttavia se fosse lecito in cosa sì arcana formare qualche congettura, a me sembrerebbe non improbabile, che quelle sensazioni, che eccitano i segni sensibili a ciò destinati da Dio o certo quelle impressioni che essi fanno, avessero cotale efficacia congiunta da rendere la parte superiore dell' anima più indipendente che prima non era dal corpo, e porgere alcuno interiore e soprannaturale eccitamento al soggetto umano che il movesse alla contemplazione di Dio e quindi alla percezione di questo; venendo il soggetto a ciò sollevato da quella virtù divina che accompagna quelle sensazioni. Giacchè Iddio è sempre tutto presente a tutte le cose e vuole riempirle di sè e santificarle: ed è solo difetto delle cose se nol veggano e nol percepiscano. Sicchè rinforzata la creatura intellettiva e toltole questo difetto che prima aveva, pel quale non vedeva Iddio soprannaturalmente, già per questo solo ella viene a vederlo, senza che in Dio sia nata alcuna mutazione di avvicinamento o allontanamento da parte sua, se non riguardo all' effetto ch' egli produce. E` adunque l' identità del soggetto umano, sensitivo a un tempo e intellettivo, che può spiegare come ciò che nasce nel senso ridondi a migliorare la volontà intellettiva: tanto più che nel senso sta propriamente la radice della natura umana, e, informata di soprannaturale virtù questa radice, indi viene l' elevazione di tutto l' uomo a Dio. E in questo sistema si vedrebbe, perchè il corpo non venga riformato, sebbene per un movimento che comincia da lui nasca la riformazione dello spirito. Tanto più che questo movimento del corpo non ha luogo che nella via delle parti più delicate e sottili del corpo che immediatamente servono alle sensazioni; e gli altri sistemi, di cui è il corpo umano composto, non ne sono immediatamente affetti, e per conseguente nè pure riformati. Ora questa maniera di spiegare l' azione de' Sacramenti sull' anima, che è il gran quesito di S. Agostino: « Come l' acqua tocchi il corpo e lavi il cuore« (1) »; converrebbe a capello, se non mi inganno, con ciò che dice il grande Basilio nell' opera che scrisse dello Spirito Santo. Parlando egli del battesimo, un effetto egli assegna all' acqua santificata, un altro allo Spirito Santo, dei quali due effetti risulta il frutto intero del battesimo. Ora l' effetto che egli assegna all' acqua [è] di togliere il peccato cioè di mortificare l' uomo vecchio: laddove allo Spirito attribuisce l' effetto di vivificare l' uomo nuovo. E così anche noi diciamo, che l' effetto dell' acqua informata dalle sacre parole, è quello di tòrre la corruzione originale, che ha sua sede originaria nel corpo, il quale aggrava lo spirito, e quindi di levare dall' anima, cioè dalla suprema parte della volontà, quella tendenza che è un abituale consenso nel male: e l' anima sollevata da una tale schiavitù, libera da tali ceppi, rettificata e ben disposta alle cose divine, può allora ricevere il lume dello Spirito Santo, che influisce in essa senza ostacolo pei meriti della passione di Cristo. Ora si oda quanto convenientemente insegni tutto ciò il gran Padre che abbiamo nominato. [...OMISSIS...] In questo bellissimo passo adunque il santo Dottore non attribuisce all' acqua, come quella che è cosa corporea, se non un effetto nel corpo, soprannaturale però e tale che ridonda nell' anima. Giacchè il corpo, come dicevamo, mosso da una virtù divina può dare all' anima tal movimento e quasi tal guizzo da farla atta a toccare poi lo Spirito divino che le si fa incontro. A questo Spirito poi attribuisce l' operazione di avvivare egli solo quest' anima colla sua virtù tutta spirituale e non immersa, se mi è lecito così parlare, in materia alcuna. E veramente la grazia risiede nell' intelletto, e questo non opera per mezzo di alcun organo materiale (2). Quindi una sola virtù immateriale può esser quella che infonda direttamente la grazia: ma come le sensazioni nell' ordine naturale aiutano e dispongono l' anima intellettiva a formare le intellezioni, così nell' ordine soprannaturale l' elemento materiale, avvalorato dalla parola, dispone l' uomo a ricevere la vita della grazia intellettuale. Concludiamo da tutto ciò, che la prima differenza dei segni dati all' uomo peccatore, da quelli dati all' uomo innocente, si è, che questi secondi dovevano essere un rimedio contro il peccato e però aver virtù di dare all' uomo la santità; quando quei primi non prestavano all' uomo che disposizioni alla santità. Or veduto l' ufficio dei segni deputati da Dio a dover ristorare la umanità peccatrice, gioverà che noi veggiamo o richiamiamo il modo altrove indicato e l' ordine onde l' umanità per via di segni si ristora e ripristina alla salute. Il quale ordine procede così: che la grazia conferita per via del segno sensibile vada a terminare mediante il corpo nella personalità umana, e questa sia ristorata la prima, restando ancora la natura umana nelle sue parti inferiori soggetta alle funeste conseguenze del peccato, e però corrotta e pervertita: che la persona poi così riguadagnata e risarcita salvi e rigeneri anche la natura, ma non però ad altra condizione che a quella della morte e distruzione di essa natura. Perocchè ogni uomo è abbandonato alla dissoluzione della morte, dopo la quale venuto il tempo prestabilito, egli deve risorgere e ricomporsi a una compiuta perfezione; e ciò in virtù dell' anima salva, ossia di Cristo che abita in lei immortalmente. Sicchè l' anima perfetta trae dietro a sè la perfezione del corpo, e la persona trae a sè la perfezione della umana natura. Questa ristorazione, della persona dapprima e poi per essa anco della natura, è manifestamente insegnata in tutte le divine Scritture; ma ella è la chiave questa dottrina massimamente colla quale aprire il senso di molti luoghi della sublime lettera di S. Paolo ai Romani, la quale spesso tocca e si fonda su questa distinzione della ristorazione della persona umana e della natura (1). Quando la grazia di Gesù Cristo opera la rigenerazione dell' uomo peccatore produce in lui una mutazione nel principio personale, come abbiamo detto altrove, il quale è il principio attivo più elevato che nell' uomo si trovi. Conciossiacchè come nell' uomo privo di grazia il supremo principio della sua attività è la volontà naturale, serva all' errore ed alle passioni; così nell' uomo rigenerato dalla grazia il principio supremo di agire è la stessa grazia divina informatrice della sua volontà. E quindi S. Paolo vuole che si distinguano i figliuoli di Dio, secondo quelle parole: « Tutti quelli che sono spinti a operare dallo Spirito di Dio, questi sono i figliuoli di Dio« (3) »: ecco il nuovo principio attivo introdotto nell' uomo. Sicchè a tutta ragione si può dire, che un' altra persona è nata nell' uomo per la grazia da quella di prima, sebbene la natura umana non siasi mutata e anche il soggetto sia restato il medesimo (4). Ella è questa dottrina che fa intendere tutta la forza e la verità di quella parola, già consacrata nell' uso ecclesiastico, di rigenerazione a indicare il rinnovellamento dell' uomo che si fa per Cristo; del quale parlò Cristo a Nicodemo quelle celebri parole: « In verità, in verità ti dico, chi non sarà rinato di nuovo, non potrà vedere il regno di Dio« (5). » Delle quali parole stupì quel maestro della legge e non ne poteva intendere il significato, il quale era però assai meno traslato che non paresse. E consuonano a questo stesso modo di dire quelle altre maniere che occorrono assai frequenti nelle divine Scritture: nascere di Dio, essere figliuoli di Dio (1) ed altre tali, che si riferiscono alla persona rinnovellata; conciossiacchè acconciamente si dice nascere la persona e essere figlia di quel principio da cui riceve la sussistenza come persona. Di maniera che l' angelico Maestro, della riunione dell' uomo peccatore con Dio, ebbe a dire così: [...OMISSIS...] . E di qui è la similitudine vera con Dio che si mette nell' uomo per opera della grazia: similitudine la quale consiste in un consorzio della natura divina; ciò che compisce appunto il concetto di generazione, che vale trasfusione o comunicazione della natura di un soggetto in un altro. E perchè, come dicevamo, questa natura divina comunicata all' uomo non è tutta la natura costituente l' uomo, ma solo una parte, il principio supremo di lui; perciò convenevolmente si dice essere la persona che viene mutata col sopraggiungersi all' umanità dell' elemento divino. Quindi l' uomo nuovo e l' uomo vecchio, in quelle parole dell' Apostolo: « Rinnovellatevi nello spirito della mente vostra, e vestite l' uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità« (3). » Dove la parola uomo nuovo e quella creato dimostra il rinnovellamento della persona (4): là dove la parola vestire indica la conservazione della natura umana sopra cui la nuova persona si veste e si depone (5). Le fasi poi: nello spirito della mente vostra; e quell' altra: nella giustizia e nella santità della verità; dichiarano, quale sia la parte dell' uomo rinnovellata, cioè la suprema, col rinnovellarsi della quale nasce la nuova persona. Le medesime osservazioni si possono fare su quell' altro passo dell' Apostolo ai Colossesi: « Non vogliate mentire fra voi, spogliandovi l' uomo vecchio cogli atti suoi e vestendo il nuovo, quello che si rinnova nel conoscimento, secondo l' imagine di lui che lo creò« (1). » Dove dicendo, che si rinnova nel conoscimento , dimostra che questa rinnovazione si fa nella parte suprema, e dicendo che lo creò , dimostra che non è una mutazione che solamente succeda, ma l' aggiunta di cosa nuova; e dicendo secondo l' imagine, dimostra che l' uomo si fa a imagine di Dio per la grazia, cioè per Dio stesso che abita nell' uomo: e convenevolmente si dice, che Dio è simile a sè stesso, quando nessun' altra cosa senza Dio può essere in alcun modo a Dio somigliante. Vedesi che questa maniera di parlare non è a caso, nè solo usata l' una o l' altra volta nelle Scritture, ma ella è propria e costante nei sacri libri e massime nelle lettere di S. Paolo. Egli è coerentemente alla stessa dottrina che l' Apostolo dice, che quando nasce l' uomo nuovo, muore il vecchio e che non si deve il vecchio far rivivere: [...OMISSIS...] . E dice: il corpo del peccato essere distrutto; volendo dire che questo corpo pieno di concupiscenza non ha più quella forza che aveva di regnare colle sue voglie sottomettendosi la volontà, e che però questo corpo, relativamente alla volontà e alla persona, è già come morto, chè nulla più può e nulla conta; come poco appresso dicendo: « Stimatevi essere morti al peccato, e vivi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro. E però non REGNI il peccato nel vostro corpo mortale, sicchè ubbidiate alle sue concupiscenze« (4). » Il qual regnare del peccato è appunto l' influire e muovere la volontà umana. E quindi dà all' uomo, considerato come persona, due esistenze, l' una nella carne e l' altra nello spirito; che è quanto dire l' esistenza della persona priva di grazia e al peccato soggetta, e la persona nuova informata dalla grazia e da lei mossa: « Quando ERAVAMO NELLA CARNE » (ecco le sue parole) «le passioni de' peccati operavano » (ecco i principii operanti) «nelle nostre membra, acciocchè fruttificassero alla morte. Ora poi siamo sciolti dalla legge della morte » (cioè della carne destinata alla morte), «nella quale eravamo legati, dimodochè serviamo nella novità dello spirito e non nella vetustà della lettera« (5). » Egli è vero che anche nell' uomo nuovo rimane la concupiscenza, giacchè non si risana la parte inferiore ma solo la suprema, e però avviene che la carne disubbidisca allo spirito. E S. Paolo ciò non dissimula: ma dice tuttavia francamente, che non vi ha nulla di condannevole in quelli che hanno l' esistenza in Cristo (1); intendendo col pronome quelli le loro persone; giacchè le nature loro non sono ancora esenti dalla corruzione che le danna alla morte. E ciò perchè non sono più essi (la persona) quelli che operano i moti della concupiscenza, ma è il guasto che nella loro natura rimane, cioè un principio inferiore al supremo, che appartiene bensì alla natura, ma non alla persona: « Or poi già non IO opero ciò, ma quel peccato che abita in me« (2). » Nelle quali parole il pronome personale IO significa la persona, e il peccato che abita in me è una frase che equivale a quest' altra: quel peccato che sebbene sia cessato formalmente, pure materialmente preso abita ancora nella mia natura. E quell' in me è da intendersi detto non in modo che significhi propriamente la persona, ma la natura; conciossiacchè nel discorso comune tutto ciò che è della natura si suole attribuire alla persona, per la cognazione e strettezza che ha quella con questa, e perchè la persona è nata a reggere la natura e questa è fatta per uso di quella. E perchè non nascesse equivoco S. Paolo diede egli stesso l' interpretazione di questo ME usato per natura, dicendo: « Io so che non abita IN ME, cioè NELLA MIA CARNE alcun bene« (3). » Colla quale aggiunta, cioè nella mia carne , dimostra di avere sentito il bisogno di spiegare quell' uso del pronome ME, acciocchè qui non si prenda a significare la persona, ma la parte inferiore della natura umana. E da questi due usi del pronome IO, coll' uno de' quali si prende a indicare in senso proprio e rigoroso la persona, coll' altro per figura di sinˆddoche a indicare ciò che è annesso alla persona e ne costituisce la natura, cioè la parte inferiore dell' uomo, nasce quel che introduce S. Paolo tosto appresso, il qual ragiona così:« Perocchè a ME (persona) sta congiunto il volere, ma non trovo come condurre l' opera voluta al suo intero effetto (per difetto delle potenze che dovrebbero ubbidire alla volontà e nol fanno). Conciossiachè non faccio (io persona) quel bene che voglio; ma faccio (cioè la mia natura fa), quel male che IO (persona) non voglio«. E da ciò appunto che fa quel che non vuole, deduce che non è la sua persona che il fa, ma la sua natura, argomentando così:« Ma se io faccio quel che non voglio, dunque non sono già IO (persona) che il faccio, ma quel peccato che abita in me. Trovo adunque una legge che a ME (persona) che vuol fare il bene, stia il male congiunto: poichè IO (persona) trovo il mio diletto nella legge di Dio SECONDO L' UOMO INTERIORE (cioè la persona nuova rigenerata), e poi veggo un' altra legge della mia mente e captiva ME nella legge del peccato che è nelle mie membra«. Dove egli dice che la legge delle membra captiva e assuddita lui, volendo dire che tiene legata e impedita la sua volontà superiore e personale, perchè al buon volere non corrisponde l' ubbidienza pronta e fedele delle membra o inferiori potenze. Conciossiacchè il debito ordine sarebbe che la natura ubbidisse alla persona, il qual ordine venne già espresso fin da principio nelle divine Scritture in quelle parole di Dio a Caino: « Sotto di TE » (pronome personale che viene a suonare quanto sotto la tua persona) «sarà il tuo appetito« (1), » che è la parte inferiore della natura umana. Quello adunque che i segni, istituiti da Dio al perfezionamento dell' uomo peccatore, mirano a fare, si è di guadagnare la persona riformandola e rigenerandola; e non badano a riformare così tosto il corpo, il quale verrà poi rigenerato a suo tempo, cioè nella risurrezione dei corpi, tirandolsi dietro l' anima in grazia, nella quale abita lo Spirito Santo (2). Il perchè S. Agostino egregiamente disse: « Il regno de' cieli non cerca altro prezzo che TE stesso » (cioè la tua persona e non il resto della tua natura). «Tanto egli vale quanto sei tu. Dà TE e avrai quello« (3). » E nei pii libri viene inculcato di dare SE stesso a Dio. Si possono vedere le belle cose che ha il celebre libro della Imitazione di Cristo in conformità di questo sentimento. In un luogo egli fa parlare Cristo così al discepolo suo: [...OMISSIS...] . Concludiamo adunque, che il secondo carattere de' segni dati al perfezionamento dell' uomo peccatore e la differenza da quelli dati all' uomo innocente, si è il modo onde i primi santificano l' uomo, il quale consiste« nell' indurre la santità nella persona umana per via di sensazioni corporee, rinnovellando così la persona, senza però rinnovellare al tempo stesso il corpo che a essa è congiunto«. Da ciò che abbiamo detto nei due capitoli precedenti consegue, che quei segni sensibili, i quali sono deputati alla ristorazione dell' uomo peccatore, devono essere una cerimonia religiosa determinata e istituita peculiarmente da Dio medesimo, autore della santificazione. E questo è il terzo carattere di quei segni che possono avere valore da santificare l' uomo dopo il peccato; è la terza differenza che li separa dai segni con cui il Creatore perfezionava a principio gli uomini innocenti. Perocchè i segni nell' età innocente dell' uomo non era bisogno che avessero tanta virtù da infondere nell' uomo la grazia stessa e la santità, ma solo da disporlo e dargli occasione da doversi conservare questi beni e accrescerlisi (1). Quando i nuovi segni dovevano ricevere da Dio medesimo una efficacia straordinaria, al tutto straniera alla loro natura, colla quale operando nel soggetto umano lo sollevassero fino alla congiunzione con Dio medesimo. E all' opposto mediante il peccato tutta la natura era stata privata di ogni soprannaturale virtù, e di più nelle cose dell' universo era già entrata la corruzione. Ora tutti gli oggetti naturali che compongono l' universo non possono produrre nell' uomo che effetti naturali per sè medesimi, e anche questi in gran parte funesti pel guasto entrato in essi. Tutto al più possono valere a significare o simboleggiare cose spirituali, ma non a produrle: e anche quelle significazioni sarebbero sterili per l' uomo, che privo di lume soprannaturale non le intenderebbe. Volendo dunque Iddio con dei segni sensibili significare la grazia e la salvazione che egli intendeva di dare all' uomo peccatore, per modo che l' uomo intendesse in que' segni l' ordine sublime di detta grazia e di detta salvazione, e volendo altresì che i medesimi segni avessero efficacia e virtù di produrre o almeno di occasionare, o per sè o per la fede loro annessa, le cose che significavano; era al tutto necessario che egli manifestasse la sua volontà e che determinasse quali fra tutti gli oggetti sensibili, atti a significare, egli trascegliesse all' ufficio di detti segni, comunicando loro quella virtù e quel valore. Questo era quanto dire, che Dio [doveva] istituire questi segni e dichiarargli agli uomini: e da quel punto che si fossero da Dio istituiti e dichiarati, quei segni diventarono una religiosa cerimonia, e sono questi i segni a cui, per contraddistinguerli da tutti gli altri, si applicò peculiarmente il nome di Sacramenti. Egli è manifesto che i Sacramenti per tal modo istituiti diventano, oltre la cagione o l' occasione della salute, altresì un culto che a Dio si presta e una cotale consacrazione dell' uomo all' onore e culto divino (2). Egli è dunque il terzo carattere, dei segni dati da Dio all' uomo pel suo perfezionamento,« l' essere Sacramenti, ossia cerimonie religiose, che significano e producono od occasionano la salute dell' uomo e il suo consacramento al culto divino«. Ma questi segni istituiti espressamente da Dio in cerimonie religiose a lui grate, con che acquistavano la natura di Sacramenti, non impedivano però che la divina Provvidenza usasse ancora molti altri segni o simboli naturali a istruire l' uomo, ammonirlo, eccitarlo: sicchè continuarono i segni primitivi, e solo si sopraggiunse la determinazione di alcuni speciali [segni] in cerimonie di culto. Il perchè divideremo i segni, dei quali Iddio si servì in beneficio degli uomini, in due classi, chiamando quelli della prima segni istruttivi , quelli della seconda segni effettivi o Sacramenti. Una natura nemica di Dio, fonte della esistenza, non può sussistere: e se ella dura, non è per rispetto di lei che il Creatore la mantiene, ma sì in grazia di altra natura di lui amica. Il peccato adunque ha per naturale conseguenza la distruzione di chi pecca. Se gli Angeli dopo il peccato non furono annichilati, fu solamente che essi dovevano servire ai disegni di Dio, ad accrescere la gloria di Cristo e la santità degli eletti, e ad essere un monumento perpetuo della sua giustizia insieme e della sua bontà conservatrice in cospetto a tutte le create intelligenze e a Dio stesso. L' uomo potè essere distrutto senza venire annichilato, perchè l' uomo risulta dalla unione di due elementi, il corpo e l' anima, tolta la quale unione l' uomo non è più, sebbene esistano ancora gli elementi de' quali egli si componeva. Nell' ordine della divina giustizia e della divina bontà fu trovato che una tale distruzione dell' uomo, che non portava annichilamento, ma lasciava soprastare gli elementi, non opponevasi alla massima glorificazione di Dio e santificazione della creatura, presa questa nel suo complesso; e però la natura umana peccatrice fu abbandonata alla sua sorte naturale, cioè alla morte. L' ordine del divino consiglio nella redenzione dell' uomo era appunto quello, che per mezzo della morte si ristorassero tutte le cose rovinate dal peccato. Così davasi corso alla giustizia, e col soddisfarsi pur della giustizia facevasi luogo alla divina misericordia. In tal modo tutto si conciliava, non derogavasi nè all' uno nè all' altro dei due sommi attributi della divina natura, giustizia e bontà, e operavasi in un modo ammirando ciò che dice il Salmo: [...OMISSIS...] . La morte per sè stessa o è una conseguenza naturale della limitazione della creatura, o è un suicidio di essa creatura, o finalmente una giusta vendetta del Creatore. Se vi potesse essere una creatura corruttibile, come l' uomo, nello stato di natura pura, ella sarebbe stata mortale, sebbene non avesse peccato: e in questo rispetto la morte non è che una naturale conseguenza della creatura limitata nelle sue forze e nella sua azione. Se poi si considera che il peccato porta anco fisicamente un' alterazione nella natura umana, capace a produrre in essa o certo ad accelerare la sua distruzione, in questo aspetto la morte si può chiamare un suicidio della creatura. Se poi si riguarda la morte dell' uomo come una cotal punizione del peccato, ella in quest' ordine di giustizia è giusta vendetta del Nume ingiuriato. Ma la morte considerata in qualsivoglia di questi tre aspetti, ella non si presenta ancora menomamente come un mezzo di placare Iddio e di riconquistare la sua misericordia. Acciocchè la morte potesse essere un tratto di giustizia il quale facesse la via alla misericordia, conveniva che ella fosse un sacrificio e un sacrificio grato al Signore. Ora perchè la morte acquistasse la natura di sacrificio era uopo, che chi la sosteneva la pigliasse volontariamente e per amore di giustizia; era uopo insomma che alla morte si aggiungesse l' oblazione e che questa oblazione fosse accettata da Dio . Nessuno degli uomini che ereditavano il peccato di Adamo poteva tanto; nessuno amava tanto la giustizia; nessuno aveva il coraggio di morire per essa, perchè non conosceva, non aveva alcuna esperienza dei beni che stanno al di là della morte: avesse anco saputo e potuto morire per la giustizia, la sua offerta era ancora troppo scarsa a dover poter pagare l' immenso debito della natura umana con Dio, e il suo sacrificio [sarebbe stato] perduto. Non c' era che la morte di Cristo che potesse [esser] valida a tanto officio; era la morte di un innocente che offeriva sè stesso, che dava più che non doveva, un prezzo infinito ed atto a pagare pienamente e con soperchio il debito della umana natura. Così l' Uomo7Dio potè essere sacerdote facendosi vittima. Questo fatto pertanto della incarnazione del Verbo fu il fatto, come abbiamo detto innanzi, che rese possibile la salute dell' uomo peccatore. Del merito della passione dell' Uomo7Dio i Sacramenti scaturirono: essi dunque nascono tutti dal sacrificio e hanno questo intrinseco carattere di portare l' effetto di questo sacrificio in se medesimi. Laonde dice S. Tommaso, che Cristo per la sua passione [...OMISSIS...] . Egli è per questo, che coi Sacramenti della nuova legge si rappresenta e rinnova in imagine la morte di Cristo e però quasi si vede questa sott' occhio operante in essi. Questa dottrina è dell' Apostolo, il quale nella lettera ai Romani la applica al battesimo, mostrando in lui effigiata la passione di Cristo: [...OMISSIS...] . Le quali parole alludono al battesimo che si faceva ordinariamente per immersione della persona nell' acqua, che era figura del seppellire e del risorgere poi, estraendosi dall' acqua la persona. La medesima rappresentazione del sacrificio di Cristo ed anzi rinnovazione è dimostrata nella Eucarestia, della quale dice: [...OMISSIS...] . E degli altri Sacramenti soggiunge il Cardinale Bellarmino, non così noto, ma tuttavia certo è che significano tutte quelle cose almeno implicitamente; perocchè significando tutti la grazia, di conseguente significano altresì il principio e il fine di essa grazia (4). Nè solo i Sacramenti della legge nuova, ma anche quelli dell' antica avevano per così dire l' impronta della distruzione in sè e della morte, come si vede particolarmente in tutti i sacrificii. E però S. Tommaso dice che [...OMISSIS...] . I segni dunque destinati da Dio a dover perfezionare l' uomo dopo il peccato dovevano essere, per così dire, altrettanti atti di quel sacrificio che era richiesto dalla giustizia offesa, e col quale questa veniva placata, e però quasi espressioni della passione di Cristo e di quella morte altresì degli uomini tutti, la quale unita a quella del Redentore prende anch' essa forma e natura di sacrificio accettevole. Ora anche in questo differivano dai segni perfezionatori dell' uomo innocente, al quale non era necessaria alcuna vittima di propiziazione, nè che la umanità fosse colla morte realmente distrutta. Fin qui de' segni destinati a risarcire e riformare l' umanità peccatrice. Ora egli è da por mente a quello che abbiamo di sopra toccato (1), cioè che sebbene fosse necessario, a tenore della legge della divina Provvidenza circa il perfezionamento della creatura umana, che Iddio fornisse l' uomo peccatore di alcuni segni di un' indole particolare, i quali chiamiam Sacramenti, di cui al tempo della innocenza non era bisogno, ciò che anco fece la divina bontà; tuttavia non cessò però punto l' ordine primitivo, col quale Iddio aiutava lo sviluppo dell' umanità, circondandola di segni e per questi rivelandole le verità, di cui ella vieppiù si ammaestrasse: ma l' istituzione de' Sacramenti non fu se non dalla serie dei segni coi quali Iddio parlava all' uomo, un trarne alcuni e questi elevarli a dover essere sacre cerimonie e per grazia speciale aggiunta loro sopra gli altri efficaci. E il torne alcuni pochi a cui aggiunger Dio questa sua virtù era massimamente necessario alla umanità peccatrice; perchè, divisa questa da Dio e con essa la natura, avveniva che tutto ciò che ella operava e tutte le cose, colle quali comunicava immediatamente, erano rimaste puramente naturali, perduto quell' adombramento di soprannaturale e divina forza che involgeva le cose tutte del mondo innocente, quando la divina natura era congiunta e aderente alle sue creature anche in modo grazioso e con effetti soprannaturali, come detto è. Sicchè se all' uomo non fossero rimasti che segni puramente naturali, questi non potevano in modo alcuno aiutarlo a nulla che appartenesse alla sua eterna salute e all' opera della grazia. Continuò dunque l' ordine dei segni primitivi (senonchè resi ad esser puramente naturali), e a questi Iddio ne aggiunse alcuni pochi speciali deputati da lui a dover aiutare l' uomo come religiose cerimonie al suo soprannaturale destino. Quei primi sebbene puramente naturali, tuttavia erano istruttivi appunto perchè significavano: e a tal fine li volgeva la Provvidenza, a rivelare cioè alla mente dell' uomo sempre più le verità salutifere. I Sacramenti all' incontro erano atti di culto, e non avevano a solo fine d' illustrare la mente umana, ma di salvare l' uomo stesso. I segni però, che chiamammo semplicemente istruttivi e che erano il mezzo della divina rivelazione, sebbene di loro natura fossero puramente naturali e ad essi non fosse aderente alcuna virtù dello Spirito Santo, sicchè Iddio l' usava come provvisore e non propriamente come santificatore; tuttavia per indiretto giovavano l' uomo anche quanto allo stato suo soprannaturale. E ciò avveniva quando l' uomo avesse già in virtù della fede ottenuta la riconciliazione con Dio e la grazia divina; conciossiacchè allora cominciavano ad appartenere alla prima di quelle quattro classi di segni che abbiamo distinte (1), cioè a quelli che, sebbene puramente naturali tuttavia dall' uomo in possesso della grazia vengono usati e volti a proprio merito e lume maggiore; conciossiacchè investito l' uomo dalla grazia, tutto in lui può essere da questa vivificato, e però anche quegli effetti che in lui sono prodotti da cagioni naturali. Conviene poi distinguere due tempi, nei quali la divina Provvidenza fece uso coll' uman genere di questi segni istruttivi: il primo da Adamo fino ad Abramo, il secondo dalla vocazione di questo Patriarca in poi. Nel primo tempo Iddio comunicò la rivelazione delle salutifere verità a tutta la umana famiglia: nel secondo tempo alla sola casa di Abramo propagginata per Isacco e Giacobbe. Ragione dell' aver Iddio cessato dal comunicare al corpo della umanità le sue rivelazioni, si fu la corruzione di questa: la quale sviata dietro le sensibili cose, in esse finiva il lume di sua intelligenza, e però non riceveva più con rispetto le comunicazioni di Dio, nè aveva intendimento a capirne i cenni, nè grazia a giovarsene. La distrusse col diluvio, rinnovellandola colla famiglia di Noè: ma i discendenti di questo patriarca moltiplicati perdettero il senno dietro ai diletti delle cose materiali e non rivolsero più l' animo a udire Iddio che pur parlava loro; e perciò Iddio non udito cessò dal loro parlare, e trascelse di tutti un uomo fedele per rivelarsi indi in poi a lui e alla sua stirpe, escludendo le altre generazioni da questa speciale sua cura. E in ciò fare la divina pietà mirava tuttavia al bene universale degli uomini (2). Perocchè il grande scopo della scelta che faceva della stirpe Abramitica era di fare che al mondo non venisse meno chi ricevesse e conservasse il deposito delle verità, a cui conservare diligentemente si esigeva oggimai che fosse deputata una società di persone, la quale ne avesse speciale incombenza e venisse a quest' uopo di speciale provvidenza soccorsa, fino a tanto che il Cristo venuto al mondo colla sua onnipotente virtù riguadagnasse di nuovo l' umanità tutta e la rimettesse a parte delle verità al mondo conservatesi e della pienezza della salute. Conciossiacchè senza l' istituzione di quest' ordine di persone incaricate del ministero di conservare il sacro deposito, questo lasciato in balìa degli uomini, sarebbe in breve tempo perito e ogni luce spentasi sopra la terra. Sicchè come nelle comunanze numerose è necessario stabilire certi ordini e deputare certe persone a speciali ministeri; così nella comunanza delle nazioni la nazione ebraica era quella che Dio deputò a mantenere il magistero delle verità salutifere (1). Questa disposizione benefica della Provvidenza, che mirava alla salute di tutta la terra pur sembrando di restringere la sua cura alla famiglia de' Patriarchi, è ciò che pone in vista S. Paolo nella Lettera ai Romani, ove mostra che la legge non valse a salvare gli ebrei, i quali furono riprovati, e questa riprovazione diede anzi occasione alla salute dei gentili: [...OMISSIS...] . Nè però furono abbandonati gli Ebrei, le reliquie dei quali saranno pure salvate, il qual salvamento ridonderà pure in vantaggio del mondo intero: [...OMISSIS...] . Conciossiacchè è da dire che la nazione ebraica venne coltivata e sviluppata bensì negli iniziamenti dello spirito, e tuttavia fu immatura alla piena luce di Cristo: laddove le genti maturarono prima a ricevere la luce di Cristo, sebbene non fossero atte alla luce minore e preparatoria della legge e della rivelazione iniziatrice alla venuta del Messia. E però dice pure l' Apostolo [...OMISSIS...] . Ora il preciso tempo in cui Dio cominciò a dare a una famiglia particolare i segni istruttivi che prima dava al corpo intero degli uomini, si fu allora che venne istituita la circoncisione e promesso Isacco, o l' anno appresso in cui questi nacque: dopo che erano passati dal diluvio più di quattro secoli e mezzo (4), durante i quali il mondo era tornato a corrompersi. Perocchè prima Iddio chiamò il santo Patriarca Abramo fuori della sua patria, che era Ur città di Caldea e ne uscì venendo col suo padre Thare in Haran dove dimorò alquanto. Spacciato poi del padre, cui sepellì in Haran, fu nuovamente da Dio chiamato, perchè se ne andasse nella Cananea. E di qui cominciano le promesse divine del seme eletto, che avrebbe posseduto quel paese di Canaan. Il nascimento però del figliuolo della promissione era troppo ancora lontano: fu solamente ventiquattro anni di poi che la nascita d' Isacco come prossima si annunzia: e allora si istituisce la circoncisione a suggello che doveva contrassegnare e distinguere da tutte (5) la schiatta prescelta a dover ricevere in deposito le rivelazioni che da quell' ora innanzi Dio avrebbe fatto agli uomini. Fin qui adunque Abramo non aveva fatto per così dire che il noviziato a ciò che doveva poi essere. Ma dopo tant' anni di tal noviziato, toccando quel santo Patriarca già l' anno centesimo, Iddio pose mano a mantenergli il promesso facendogli nascere Isacco che fu circonciso a riprova del patto: dal che comincia, a mio parere, l' istituzione piena di quella stirpe designata a ricevere e conservare le divine comunicazioni. Il perchè anche S. Paolo unisce insieme l' essere il popolo Ebreo destinato a ricevere le comunicazioni divine e l' essere circonciso: [...OMISSIS...] . Ecco qui l' essere gli Ebrei depositari dei divini eloquii fatto un conseguente della circoncisione che Abramo ricevette, come dicemmo, quando gli fu promesso e gli doveva già tosto nascere quell' Isacco la cui discendenza avrebbe posseduta la terra della santità e della fecondità (2). Quale fu poi il tempo preciso nel quale cessò quella serie di segni istruttivi, coi quali Iddio comunicò al seme eletto di Abramo la verità che voleva rivelare agli uomini? Quanto durò lo svolgimento intero di quelle verità che si dovevano a mano a mano consegnare da Dio alla casa eletta de' Patriarchi? Io credo non errare se affermo che il fine delle antiche rivelazioni destinate alla casa di Giacobbe si può porre nell' anno 453 avanti la venuta di Gesù Cristo, o in quel torno, che risponde all' anno del mondo 3551 (3). Egli è in quest' anno che Neemia rinnovella l' alleanza del popolo d' Israello col Signore. Questa nuova alleanza celebrata solennemente per opera di questo grand' uomo era assai manifesta figura della nuova alleanza che doveva farsi pel Cristo, e dimostrava l' alleanza antica già pervenuta al suo termine. Lo stesso veniva significato dal nuovo fuoco sacro riacceso miracolosamente dall' acqua crassa trovata dai Leviti in quel luogo ove era stato nascosto l' antico: la quale acqua, di cui Neemia aveva fatto aspergere le legne e le vittime preparate in sull' altare, si levò in fiamme all' entrare dei raggi del sol nascente, perpetua imagine nelle divine Scritture di Cristo. Il secondo tempio rifabbricatosi e dedicatosi pur or di nuovo, quel tempio che doveva essere più grande del primo, secondo le predizioni dei profeti, non per la mole e ricchezza dell' edificio, ma perchè destinato ad accogliervi il Messia; accennava pure con bella imagine la nuova Chiesa spirituale che già doveva essere fondata dal Redentore, passata e distrutta interamente l' antica. Insomma cadono in quest' epoca tutti i segni, che l' ordine antico è oggimai finito e che non si fa che aspettare l' ordine nuovo a cui preparare quell' antico era rivolto. Non lasciano dubitare di ciò lo circostanze tutte che accompagnano una tal' epoca e che si devono attentamente considerare. Qui finiscono i Profeti, l' ultimo de' quali è Malachia, di cui pure è la profezia del secondo tempio visitato dal Messia, della oblazione monda che si offerirà in tutta la terra, e del dover essere il veniente Messia un fuoco ardente che purifica e monda. Nel tempo medesimo che si chiudono per tal modo le profezie, cominciano le settanta settimane di Daniello, predizione mirabile che appalesa il tempo preciso della venuta dell' aspettato Legislatore, e il cui principio cade appunto nell' anno indicato della nuova alleanza celebrata da Neemia, il 453 avanti il nascimento di Cristo. Seguendo questa legge la serie successiva delle profezie intorno a Cristo, che le anteriori profeteggiano le cose del Cristo più in generale, e le posteriori meglio particolareggiano; doveva quella delle LXX settimane appartenere alle ultime fra tutte le profezie, conciossiacchè nulla restava oggimai a dirsi di più preciso e di più determinato (1). Daniele ebbe questa grande rivelazione in sulla fine della cattività Babilonese: e il fine di questa celebre cattività di settanta anni predetta già da Geremia (2), è appunto una nuova figura della liberazione del mondo che doveva essere fatta pel Messia, e del fine di quell' antico popolo che serviva sotto il peso importabile della legge. Chi bene osserva nelle divine Scritture troverà che questo solenne tipo della schiavitù babilonese e della francagione da essa del popolo eletto è come il costante segno a cui mirano le predizioni precedenti appartenenti all' antico patto; ed egli pare questa grande sciagura del popolo ebraico l' ultimo colpo, col quale la divina Provvidenza avesse decretato di dargli forma e di compire la sua educazione. L' antico patto doveva preparare il nuovo. La dottrina fondamentale del nuovo era di fare conoscere agli uomini e adorare la Trinità delle divine persone: qui parava la missione di Gesù Cristo (3). Ma la Trinità delle persone non poteva essere conosciuta e adorata dagli uomini prima che questi non avessero conosciuta e adorata l' unità della divina sostanza. La dottrina adunque dell' unità di Dio era la preparazione che doveva precedere quella della Trinità. Egli è per questo che tutte le antiche Scritture che riguardano il popolo ebraico, e per parlare ancor più generalmente, tutti i segni istruttivi dati successivamente a questo popolo, tendono costantemente ad abbattere l' idolatria, verso la quale tutta la umanità incredibilmente aggravavasi, e stabilire la cognizione e il culto del solo vero Dio Creatore del cielo e della terra. Qui tendono costantemente le prime e le ultime parole delle antiche carte: qui convergono e parano tutte le linee dell' istoria maravigliosa dell' Ebreo popolo. Ora questo scopo fisso alla educazione del popolo ebreo fu da Dio intieramente ottenuto e compito al tempo in cui Israello tornò dalla schiavitù babilonica, riedificò Gerusalemme, le mura, la piazza e il tempio. La seconda alleanza che celebrò Neemia col popolo, non fu, come la prima, infranta ognora e manomessa col peccato dell' idolatria, ma fu stabile e immune da sì fatta abbominazione, come doveva essere a rappresentare vivamente la perpetua e vera alleanza, che Cristo e il popolo da lui francato, avrebbe stretto con Dio (1). Per ciò nel Profeta Zaccaria è chiamata la nuova Gerusalemme città della verità, cioè fedele: [...OMISSIS...] . E nel tempo stesso che queste cose annunzia Geremia nella Giudea, le medesime cose prediceva Ezechiele in Babilonia a' suoi concaptivi. Questi vide il Signore portato dai Cherubini uscire dal vecchio tempio poco prima che fosse distrutto da Nabucodonosor, e vide lo stesso Signore sui Cherubini rientrare nel tempio di nuovo edificato, colla promessa di sua stabile dimora in quel luogo: [...OMISSIS...] . Veramente l' allontanamento costante dell' idolatria da questo tempo in poi fu tale nel popolo Ebreo, che nè pure le più atroci persecuzioni come fu quella di Antioco Epifane, non poterono più crollare e smovere dal culto dell' unico vero Dio e dall' aspettazione del Messia, che solo restava a recare la pienezza delle rivelazioni. [...OMISSIS...] Il tempo adunque entro cui furono dati da Dio i segni istruttivi alla stirpe d' Israello abbraccia un corso di oltre ai quattordici secoli. Nei quattro primi questa stirpe trovasi ancora nello stato di società familiare. Il Signore la trae dall' Egitto, e al Sinai la costituisce nazione, 405 anni dopo il nascimento d' Isacco. La educazione di questa schiatta, come nazione, dura dieci secoli: i quattro primi colla legge mosaica, confortata dagli avvenimenti; gli altri sei, che cominciano con Davidde, che 443 anni dopo la legge pubblicata sul Sinai è riconosciuto Re dalla tribù di Giuda, acquistano un ampliamento di luce da quanto Dio rivelò a' suoi eletti e che fu scritto nei Salmi, nei libri Sapienzali e in quelli dei Profeti. Può dimandarsi, perchè tardò il Cristo ancor quattro secoli e mezzo, dopo che erano comunicate alla casa di Giacobbe tutte le rivelazioni destinatele, e resa al tutto salda nella dottrina dell' unità di Dio e del suo culto? Non lice agli uomini entrare curiosamente investigando i divini consigli; pure egli par probabile, che fra le molte ragioni a cui poteva riguardare la divina Provvidenza in così facendo, queste due non mancassero: la prima, che non bastava la rivelazione dell' antico patto essersi tutta comunicata, ma conveniva altresì che fosse studiata e meditata e penetrata ben addentro negli animi, e conformate altresì ad essa le operazioni, acciocchè la plebe del Signore riuscisse per essa preparata e matura al ricevimento del Messia: e a un tal lavoro bisognava non poco tempo (3). La seconda [fu] che, come dicevamo, l' elezione del popolo Ebraico, non fu solo a suo vantaggio, ma in servigio degli altri uomini altresì. Il perchè era necessario, che due cose operasse la divina Provvidenza per esso popolo, cioè che a lui terminasse di dare la rivelazione, e che poscia ne facesse brillare il lume dalla Giudea anche all' altre nazioni, acciocchè queste se ne giovassero come di un preparamento che le acconciasse a ben accogliere il sole del Vangelo. E la schiavitù stessa dell' ebraico popolo in Babilonia aveva questi due fini ad un tempo, e di correggere col castigo l' infedeltà e durezza d' Israele, e di spargere presso l' altre genti i divini oracoli, di cui l' israelitico popolo era il depositario. Quasi per intero le dieci tribù rimasero, anche dopo la riedificazione di Gerusalemme, disperse fra le nazioni. I primi che tornarono da Babilonia, uscito il decreto di Ciro, non oltrepassavano il numero di cinquemila, e delle ventiquattro famiglie sacerdotali non fecero ritorno che quattro. E benchè in più tempi poscia troppo più ritornassero, che quei primi, tuttavia rimasero da quel tempo assai Ebrei disseminati per tutto il mondo: e quello che è maraviglioso, tutti costanti nella fede e nel culto del vero Dio, senza che più traboccassero nelle idolatriche superstizioni dei popoli fra cui vivevano. Ora di ciò quei popoli idolatri ricevevano la notizia dell' unità di Dio e della vera religione. Questo consiglio della divina Provvidenza era noto anche ad essi medesimi. [...OMISSIS...] Dopo due secoli e mezzo che colla dispersione degli Ebrei e colle molte relazioni di questi colle nazioni idolatriche si proseguiva quest' opera di far conoscere il vero Dio al mondo tutto (2), Iddio provvide altresì d' un altro mezzo questo suo grande e benefico consiglio, cioè del volgarizzamento delle divine Scritture in greco, lingua comune allora a tutti i popoli colti, fatto dagli interpreti che mandò il Sommo Pontefice Eleazaro a Tolomeo Filadelfo in Alessandria e che si fa cadere l' anno 176 avanti la venuta di Cristo. Così non solo per la viva voce, mezzo proprio delle società familiari, ma finalmente anche per la scrittura, mezzo proprio delle società nazionali, le dottrine rivelate furono aperte e pronte a tutto il mondo, che doveva essere conquista della verità Incarnata. Quindi è, che come il Precursore fu mandato a dare l' ultima mano alla formazione del popolo santo, apparecchiando, come dice il Vangelo, al Signore una plebe perfetta (1); così pure poteva dire Cristo anco per risguardo ai gentili che « le regioni già biancheggiano per la ricolta« (2). » Ora facendoci noi a divisare quelli che abbiamo chiamati segni istruttivi in classi, primieramente due principali generi ci si presentano, quello delle parole e quello delle cose. Ora le parole segnano le idee e le richiamano per una associazione di memoria fra la parola udita e l' idea; e anche per una analogia che passa fra l' ordine delle parole e quello delle idee, come prima fu detto (3). Quindi se una lingua qualunque si parlasse a un uomo che non avesse mai avuto sensazione di sorta alcuna e per ciò stesso non idee fattizie; quest' uomo nè intenderebbe cosa alcuna di quelle voci di cui componesi la lingua parlatagli, nè verrebbe mai a capo d' impararne l' uso per quantunque tempo la udisse. Le sensazioni adunque che dànno le percezioni e quindi le idee prime delle cose sono indispensabili all' uso delle lingue vocali, le quali ricevono da esse il loro valore e uso, o certo la loro possibilità. Or poi se le percezioni sensibili e le idee prime che da esse si hanno, recano questa luce alle lingue vocali, senza la quale queste nulla notizia potrebbero comunicare; molto più era necessario che delle percezioni sensibili accompagnassero i discorsi divini coi quali il Creatore voleva comunicare all' uomo la cognizione di sè e in generale delle cose soprasensibili. Questo vero risulta da ciò che ragionammo di sopra (1) e conviene qui averlo chiaramente presente. Lo sviluppo naturale dell' uomo tiene quest' ordine: che 1. percepisca co' sensi suoi le cose materiali e se ne formi mediante tale percezione le imagini e le idee; 2. quindi che colla lingua possa comunicare le idee ricevute pei sensi, cioè altrui risovvenirle e disporre queste idee variamente, cioè far di esse diverse sezioni (astratti) e varii accoppiamenti (giudizii raziocinii e ragionamenti); 3. nelle imagini e idee delle cose materiali e nei prodotti avuti da queste coll' uso della lingua trovare delle analogie colle cose insensibili e divine; 4. e ciò principalmente mediante la lingua o il discorso che chiama l' attenzione sopra quelle analogie e le fissa in mente e le richiama e moltiplica. Tutto questo ragionamento dimostra che Iddio non poteva ammaestrare gli uomini primitivi nelle cose divine che non cadono sotto i sensi, con delle sole parole vocali (2); ma che conveniva a dar corpo e senso a queste parole, e far che elle non suonassero vanamente agli orecchi umani, ch' esse primieramente significassero oggetti materiali e sensibili, e in secondo luogo, che in questi oggetti fossero emblemi delle cose insensibili per una cotale analogia di esse a quelle, e questo emblema analogico venisse fatto osservare. Ciò posto, le cose materiali si percepiscono da noi primieramente col senso esteriore. In secondo luogo esse ci vengono rappresentate anco dalla imaginazione, essendo il senso già a lei preceduto. Per ciò tutti si riducono finalmente a dover essere percezioni e imagini . Ora due cose possono essere percepite dal senso: 1. i fatti esterni che avvengono; 2. dei segni o cerimonie espressamente istituite acciocchè vengano percepite, e per esse noi veniamo a conoscere quello che esse cerimonie vogliono rappresentare. Queste due specie di segni emblematici appartengono alle percezioni. Anche le imagini possono farci l' ufficio di segni istruttivi emblematici per due modi. Perocchè l' imaginazione può essere scossa e eccitata a ricevere le impressioni: 1. da delle visioni , che così noi le chiameremo, o in sogno o in veglia; 2. ovvero da delle locuzioni metaforiche , da parabole, allegorie e da ogni maniera insomma di traslato che cade nel discorso: il che è ciò che alcuni chiamano parlare enigmatico delle sacre Scritture. Perciò a quattro specie si riducono i segni emblematici istruttivi, cioè 1. fatti o avvenimenti esterni; 2. cerimonie; 3. visioni; 4. lingua enigmatica. E tale doveva essere e fu il sistema de' segni istruttivi coi quali Iddio rivelò agli uomini la serie delle divine verità. Noi ne faremo prima l' enumerazione di alcune delle tre prime specie; e poi diremo alcuna cosa di quelli che appartengono all' ultima, cioè alla lingua enigmatica. Già abbiamo veduto che tutto l' universo materiale fu da Dio imaginato e creato con tale sapienza ch' egli fosse emblema dell' universo spirituale (1). Or quella stessa divina Sapienza e Provvidenza ordinò siffattamente gli avvenimenti o mutazioni che succeder dovevano sì nel mondo esterno come nella società umana, che questi avvenimenti e mutazioni dovessero appunto essere un continuato emblema di quella dottrina religiosa che veniva così di mano in mano agli uomini comunicata: la quale per ciò procedeva sviluppandosi e ingrandendosi di pari passo colla storia dell' umanità. Tutto adunque era rappresentativo in quel primo tempo, cose, persone, fatti. Ed egli sarebbe pur bellissimo e utilissimo lavoro il trar fuori per ordine, secondo una fine critica, tutti quei tanti emblemi coi quali Dio parlò agli uomini. Ma a noi non è conceduto qui di far tanto; non possiamo che darne dei principali un brevissimo cenno. Nel tempo anteriore all' elezione della famiglia dei Patriarchi i principali emblemi che seguitarono ai primi, posti nella prima creazione delle cose e nella prima istituzione dell' uomo innocente, da noi già indicati, furono i seguenti: 1. Il Cherubino colla spada versatile e fiammeggiante posto alla parte orientale dell' Eden, che impedisce la via che reca al legno della vita ai primi uomini scacciati dal luogo delle delizie e della immortalità. Questo tipo fu rinnovellato nella rivelazione data alla famiglia de' Patriarchi coll' essersi stabilita quella porta orientale del tempio di Gerusalemme, che doveva essere sempre chiusa, e per la quale il Profeta Ezechiello vide uscire ed entrare quel misterioso Cherubino quadriforme e fiammante (1): [...OMISSIS...] . L' uno e l' altro di questi tipi rappresentava la porta del cielo (la carità, la grazia), chiusa dopo il peccato, e per la quale Dio solo poteva passare, e non l' uomo senza Dio. Ma l' uomo vi entrava avvolto e rapito dalla divinità, come il Profeta Ezechiello che viene dall' impeto del carro dei Cherubini trasportato dentro quella porta (2). Così Cristo uomo e quelli che sono incorporati in Cristo, sono portati dentro dalla divinità che li circonda e assume seco: gli altri non possono sostenere il fuoco del Cherubino, ma ne rimangon consunti (3). Il terzo tipo di questa porta celeste della santità, chiusa a tutti fuorchè a Dio, fu dato nel tempo della nuova legge nell' utero di Maria, cui per consenso di tutti i Padri e gl' interpreti figuravano i due tipi precedenti; perocchè ivi il solo Dio entrò e ne uscì il Dio uomo. 2. Abele tipo del Messia. 3. I figliuoli di Dio e i figliuoli degli uomini, che colla loro divisione marcavano e rendevano più evidente l' inconciliabilità dei due principii, il bene e il male morale; e come la creatura non si poteva accostare al Creatore senza che egli il primo si accostasse: ciò che ricade all' emblema primo del Paradiso chiuso, secondo quel detto dell' Apostolo che « Iddio abita una luce inaccessibile« (4). » 4. La distinzione degli animali mondi e immondi rappresentò pure la stessa divisione del bene e del male morale, degli uomini buoni e dei cattivi. Questo è un tipo antico. Al tempo poi del popolo eletto fu rinnovato lo stesso tipo colla separazione di questo popolo dalle altre nazioni. E questo secondo tipo era rappresentato da quel primo: perciò gli animali mondi rappresentavano gli Ebrei come Santi (rappresentanti dei Santi); e gli immondi, i Gentili. Tale è la chiara spiegazione di questo tipo che si ha nella visione che ebbe S. Pietro in Ioppe riferita negli Atti apostolici, dove per fare intendere al santo Apostolo di dover predicare il Vangelo e battezzare non meno i Gentili che gli Ebrei, gli è mostrato in sogno il lenzuolo pieno di quadrupedi, di serpenti e di volatili, e gli è detto: « Sorgi, o Pietro, uccidi e mangia« (1). » Nel nuovo Testamento una simile separazione è rappresentata coi tipi degli agnelli e dei capretti, dei pesci buoni e non buoni, del frumento e della zizzania. E qui conviene riflettere in generale, che gli animali sono stati presi per emblema degli uomini, e nei varii costumi di quelli fu espresso e significato il vario costume di questi. Ciò conveniva specialmente agli uomini primitivi nei quali prevaleva la parte animale e non conoscevano sè stessi tanto da astrarre la parte intelligente e riconoscerla per principale e veramente umana. Usavano bensì di questa ma per così dire senza saperlo, perchè senza riflessione; e per la stessa ragione negli animali bruti immaginavano che avvenisse quello che in essi e che i principii di operare fossero uguali e per ciò non operassero senza ragione (2). Questo errore era delle masse, sebbene alcuni pochi si sollevassero talora a conoscere che il cavallo e il mulo non ha intelletto (3). Ora la divina Provvidenza mirava principalmente alla massa degli uomini, e non aveva per iscopo principale di t“rre loro uno o un altro errore materiale, ma di condurli al bene morale. Questo ottenuto, gli errori materiali svanirebbero da sè, perocchè sono i progressi che fa l' uomo nella moralità quelli che il mettono a segno da potere poscia progredire anco intellettivamente. Quest' ordine col quale la divina Provvidenza guida innanzi la perfezione dell' umanità, è l' opposto di quello della filosofia. Questa fa gran caso di qualche errore materiale e perde di mira la perfezione morale. Non solo è ciò ingiusto, anteponendosi il bene minore al maggiore, ma è anche contro natura. Perocchè l' ordine della natura umana esige e chiede di tendere prima a ciò che è immediatamente morale, e allora questa ha prese forze e agio di rettificare con pace e frutto gli errori puramente intellettivi. Conosciuto questo essere l' ordine proprio e legittimo del progresso della perfezione umana, non sarà maraviglia di vedere la divina Provvidenza che, non contrariando punto l' uomo nel credere che fa i bruti simili a sè nell' operare, tolga anzi questi per emblemi co' quali ammaestrarlo: appunto in un modo simile a quello che faceva quel filosofo greco che inventò più tardi le favole (Esopo). Ecco pertanto alcune prescrizioni emblematiche che Dio fece agli uomini de' primi tempi intorno agli animali bruti, acciocchè fossero segno e specchio di ciò che dovevano fare gli uomini fra di loro. Agli uomini usciti dall' arca proibisce di mangiare la carne col sangue: e ciò per rimuoverli dalla ferocia e dal metter le mani nel sangue umano: [...OMISSIS...] . Un altro ammaestramento voleva Iddio dare agli uomini con questo precetto, ed era di inculcargli il rispetto all' anima dell' uomo, e così chiamarli a riflettere alla dignità di quest' anima intelligente e fatta a similitudine di Dio, alla quale l' uomo animalesco non sapeva anco p“r mente. E per far ciò metteva innanzi agli uomini quest' anima come principio della vita animale, giacchè in quest' atto era più facile a quegli antichi poter fissare colla mente quest' anima e riconoscerla per qualche cosa. E conciossiachè la vita animale comincia nel sangue, per ciò s' inculca il rispetto al sangue, appunto come alla sede dell' anima (3). Laonde prosegue a dire Iddio in conferma del precetto di non mangiare carne col sangue: [...OMISSIS...] . Egli vi ha qui un' altra cosa a riflettere. Iddio a Noè uscito dall' arca dà la potestà di ammazzare e di mangiare gli animali: [...OMISSIS...] . Or non esclude dal potersi mangiare se non la carne col sangue. Si manifesta dunque chiaramente che questo rispetto al sangue delle bestie è puramente emblematico, non per sè, ma per ragione del sangue dell' uomo, che solo dicesi fatto a imagine di Dio. Ove si consideri questo vero, che le bestie in questa antica e primitiva scuola che dà Dio agli uomini, sono prese per emblema a significare uomini, verso cui sono i doveri morali, si vedrà come falsamente il Calmet ed altri assai vogliano indurre da siffatti luoghi dei divini libri la conseguenza: che la Scrittura supponga nelle bestie qualche parte d' intelligenza (2). Per altro lo stesso permesso, che Dio dà alla famiglia di Noè dopo il diluvio di ammazzare gli animali, è emblematico. E in quegli animali (di cui si fa pure rispettare emblematicamente il sangue), si ravvisano gli empi condannati da Dio a morte, e però indegni di vivere: tipo rinnovellato nello sterminio, che da Dio fu comandato agli Ebrei, dei Cananei e di que' varii popoli idolatri coi quali ebbe guerra il popol di Dio. E dove si rifletta che la famiglia di Noè rappresentava l' umanità rinnovellata da Cristo, perseguitata e martoriata che dimanda a Dio vendetta del suo sangue, verrà agevolmente alla memoria il Salmo che dice: [...OMISSIS...] . Insomma si viene a significare per quel permesso, che l' uomo non ha diritto alla vita se non per Iddio e per l' imagine che di Dio ne porta in sè stesso; e che l' uomo empio è abbandonato alla morte. Per ciò egli sembra, che a Noè e alla sua famiglia sia stato dato altresì il diritto della pena di morte da infliggersi pel delitto di omicidio, secondo quelle parole: « Chiunque effonderà il sangue umano, il sangue di lui sarà sparso« (4). » Dove si vede che l' imagine di Dio su cui è fatta l' anima umana varrebbe a riparare i buoni dall' essere uccisi, ma non gli uccisori perchè cattivi e da Dio alla propria ventura lasciati. Questo tipo viene illuminato da diverse osservazioni. Alla umanità antidiluviana, tipo dei peccatori, fu diniegato di far vendetta di Caino, di Lamec e degli altri micidiali. Voleva insegnarsi con questo, che Dio solo è il padrone della vita degli uomini; e che per far vendetta dei malvagi, siccome gli uccisori sono, egli non cede il suo diritto di morte agli stessi malvagi: ma incarica di fare questa sua giustizia i buoni, che vengono così a rappresentare la persona di Dio stesso. Conciossiacchè Iddio ha dominio della vita non solo perchè Creatore, ma, rispetto ai peccatori, anche perchè giudice e vindice della giustizia; e se conserva loro la vita, ne è anche per ciò sempre padrone. Or la divina giustizia non si può placare se non colla distruzione del peccatore, e però colla effusione del sangue, sede e simbolo della vita di lui: indi il Signore aveva riserbato a sè il sangue nei sacrifizii, per additare questo suo diritto sovrano di vendetta e di conquista. Il dir poi che egli fa che col sangue effuso nei sacrifizii si sarebbe placato, era un tipo del sangue di Cristo, solo atto a placarlo: [...OMISSIS...] . Che gli uomini attribuissero alle bestie intelligenza, ciò è facile di spiegare coll' ignoranza loro. Ma parlando Iddio, non si può assegnar questa causa al dare che egli fa ragione alle bestie, e convien prendersi ciò per un emblema volto a significare ben altro. Con quest' avvertenza medesima si deve intendere quello stringere che fa Iddio alleanza dopo il diluvio non solo cogli uomini ma colle bestie ancora: [...OMISSIS...] . Che questo parlare sia simbolico e venga a dire: io risparmierò d' ora innanzi tanto quelli che vivono da uomini come quelli che han costume di bestia, pare manifesto (3): massime raffrontando insieme tutti i diversi luoghi della Scrittura che dànno luce a queste maniere di parlare. La Scrittura si spiega da sè stessa. L' Apostolo S. Paolo, a ragion d' esempio, ci dichiara nascondersi una legge simbolica in quella nella quale si proibisce di mettersi la musoliera al bue che tritura, e dice il Santo: « Forse che Iddio si dà cura de' buoi?« (1) » trovando chiarissimo che con quella legge si voleva provvedere di cibo l' operaio evangelico che ha cura delle anime, e che nel bue triturante veniva rappresentato (2). Sarei infinito ove io volessi discendere a divisare il simbolo che si traeva da tutte le specie di animali, e mi rimetto all' opera de' Principii discussi dalla società Ebrea7Clementina, dove si traggono fuori i diversi enimmi che la divina Scrittura toglie dagli animali bruti (3). 5. I giganti, emblema dell' umana superbia e impotenza (4). 6. La famiglia di Noè nell' arca, tipo della Chiesa di Gesù Cristo salvata pel legno della croce (5). 7. Cogli usciti dall' arca uomini e bruti, Dio fa un' alleanza sempiterna. Ella era il tipo di quella alleanza che doveva farsi fra Dio e il popolo nuovo redento da Cristo (1). L' eternità e immobilità del patto con Noè e suoi discendenti non poteva avere altra ragione che questa tipica. Indi è l' efficacia delle parole che usa Dio ad annunziare quest' alleanza. Egli odora la fragranza del nuovo sacrificio che gli offerisce Noè: egli ripete più volte la formola dell' alleanza: [...OMISSIS...] . Pone per segno di questa alleanza l' arco celeste che avrà tale ufficio per tutte le generazioni avvenire (2): [...OMISSIS...] . Certo non vi ha patto sempiterno, secondo i dogmi cristiani, fra Dio e l' umanità se non quello del mediatore Gesù Cristo (4). E quando così si descrive il Figliuol dell' uomo che verrà sulle nubi, le quali sono l' emblema degli Angeli (5), apparisce assai chiaro, che l' arco celeste è un' acconcissima figura del Verbo incarnato che congiunge la terra al cielo. Ora il tipo del nuovo patto, del patto sempiterno venne più volte rinnovellato di poi presso il popolo Ebreo (6). Il Deuteronomio, che significa seconda o nuova legge, il patto rinnovato da Giosuè con Dio dopo entrati gli Ebrei nel possesso della terra promessa, e principalmente l' alleanza rinnovata da Neemia dopo il ritorno dalla schiavitù di Babilonia, come detto è innanzi, sono altrettante figure di una verità così importante, che non era mai abbastanza rammemorata e impressa negli uomini, perchè la fondamentale a cui tutte le altre si riferivano. .. La torre di Babele tipo delle opere dei malvagi che cominciano con grandi e superbe speranze, ma che restano imperfette e confuse. Questa maniera d' istruire gli uomini da Dio tenuta non è semplicemente una nostra opinione: ella è una verità positiva insegnataci dalla stessa Scrittura, la quale a un tempo registra i simboli e li spiega, mette innanzi gli enimmi e ci dice che sono tali, chiamandoci a penetrarne il senso nascosto. Tutta la storia ebraica, secondo l' Apostolo, è una serie di segni e di figure colle quali Iddio venivasi formando e ammaestrando quel popolo (1): e i Padri della Chiesa sono così uniformi in questa sentenza, sicchè ella si può dire a tutta ragione essere dottrina cattolica. Iddio scelse dal genere umano l' individuo Abramo: a questo suo eletto fece una famiglia in Isacco: questa famiglia la cangiò in nazione al monte Sinai, quando le diede la legge e strinse il patto solenne con essa col quale si faceva suo Re (2): questa nazione fu cangiata nella umanità tutta mediante il Messia. Il titolo di Dio di Abramo, d' Isacco e di Giacobbe che prese, è un titolo che esprime un Dio adorato da degli individui (3). Quando egli è per trarne i discendenti dall' Egitto, assume il titolo di Dio degli Ebrei, denominazione di un Dio nazionale, cioè coltivato da una nazione (4). Il Messia all' incontro si chiama Dio di tutta la terra (1). Quel tempo che passò dalla morte di Giacobbe in Egitto (2) fino al tempo della liberazione, è un anello di mezzo fra lo stato di società domestica e quello di società nazionale; e propriamente si può dire una continuazione della società familiare che si prepara a divenir nazione. Iddio si acconciò alla limitazione umana, e i segni istruttivi emblematici che diede al suo popolo furono corrispondenti a questi diversi stati nei quali la riflessione di lui e particolarmente la facoltà di astrarre si andava in lui sviluppando e perfezionando (3). 1. L' abbandono della propria casa . - L' abbandono comandato ad Abramo della propria casa e della patria era un simbolo del distacco spirituale dalle cose terrene, condizione necessaria della virtù soprannaturale. Egli spicca questo simbolo nella efficacia delle parole che usa Iddio per separarlo dagli altri uomini: [...OMISSIS...] . Questa separazione influiva anco allo sviluppo delle naturali facoltà di Abramo: conduceva la mente di questo Patriarca a formare una grande astrazione, a metter da una parte Iddio, la fede alla sua parola, la virtù; dall' altra tutto ciò che più piace al cuore umano, il luogo natale, le abitudini, i parenti, i familiari; e a scegliere fra queste due cose, infra loro partite e contrapposte (5). 2. Il seme promesso . - Il seme promesso ad Abramo era un simbolo del Messia che doveva appagare pienamente la umana natura, nutrendola di virtù e di felicità. 3. La terra promessa . - Venuto Abramo nella Cananea dove l' aveva chiamato Iddio apparendogli (6), promette di dare al seme di lui quella terra, simbolo della Chiesa di Gesù Cristo e del cielo (7). 4. Melchisedecco - e il suo sacrificio di pane e di vino è quel simbolo del Messia che viene spiegato da San Paolo nella lettera agli Ebrei. 5. Il primo patto stretto da Dio con Abramo . - Passò non poco tempo dopo le promesse fatte da Dio ad Abramo, e questo indugio era un' occasione di esercizio alla fede del santo Patriarca e giocava mirabilmente a condurre la sua mente a pensare più spiritualmente, più in grande, venendo ad apprezzare non solo il presente, ma più ancora il futuro. Avvicinandosi però il tempo in cui le promesse dovevano cominciare ad avverarsi, Iddio conforta Abramo nella sua aspettazione, dicendogli: [...OMISSIS...] . Ma il santo Patriarca non sapeva ancora colla sua mente fare astrazione da tutte le cose sensibili e terrene e massime dalla felicità familiare: non poteva concepire una felicità al tutto spirituale, come gli veniva proposta, da trovarsi in Dio solo, anche soprabbondantemente. Perciò come Iddio non gli avesse ancor promesso nulla con avergli promesso sè stesso, soggiunge Abramo: [...OMISSIS...] . Il Signore lo condusse fuori a cielo scoperto e facendogli guardar le stelle, gli disse: « Così sarà il seme tuo«. » E dice la Scrittura, che qui Abramo credette e il creder suo gli fu riputato a giustizia: [...OMISSIS...] . La cerimonia che sacrò questo patto di alleanza si fu da parte di Abramo un sacrificio solenne; e da parte di Dio una fornace fumante e una lampa di fuoco che apparì nella caligine della notte passando fra le vittime divise in due parti, e una orrenda visione che ebbe Abramo caduto in profondo sopore, nella quale gli fu mostrato che egli sarebbe morto in buona vecchiezza e il suo seme peregrino per quattrocento anni, solo dopo i quali doveva divenir possessore di quella terra. Con questi segni Iddio istruiva Abramo, che pur non era tutto la felicità di questa vita e lo sollevava a pensieri più ampii che si stendessero fin oltre il sepolcro, degni di un' anima che sopravvive alla distruzione del corpo. 6. Il patto sempiterno e la circoncisione . - Passarono quindici anni e ad Abramo nasceva la figliuolanza promessa: indugio che sforzava Abramo a sostenersi e a operare vie più con virtù spirituale, staccandosi dalle cose della terra. Quando fu giunto il sant' uomo all' età di novantanove anni, il Signore rinnovò il patto col suo seme, e ciò con parole più alte e magnifiche che non aveva fatto; perocchè allora gli promise che quel patto sarebbe sempiterno (1) tanto con lui che col suo seme; il che supponeva l' immortalità dell' anima, e dimostrava che il patto era nell' ordine delle cose non transitorie, ma che non passano, nell' ordine che riguarda l' uomo nella sua parte immortale. E acciocchè meglio apparisca la diversità delle promesse temporali dalle eterne, dice Iddio ad Abramo di averlo esaudito anche nei suoi prieghi in favore di Ismaele e che gli benedirà anche questo figlio, ma il suo patto sempiterno sarà con solo Isacco (2), chè da questo doveva nascere il Messia. A questa alleanza e protezione dalla parte di Dio doveva rispondere da parte di Abramo la perfezione morale, che Iddio gli intima fino a principio: « Io sono Dio onnipotente: cammina dinanzi a me e sii perfetto« (3). » E segno di questa giustizia morale, che colla fede nella parola di Dio doveva rinunziare e quasi toglier da sè il male della carne venuto per origine, si fu la circoncisione allora appunto data al santo Patriarca. 7. Simboli della Santissima Trinità . - I tre Angeli, fra i quali parla un solo e un solo è adorato da Abramo a cui dànno l' annunzio del prossimo nascimento d' Isacco, sono riconosciuti da' Padri per simbolo della Trinità. Il numero tre è con frequenza ripetuto negli avvenimenti e nei riti (4), appunto perchè gli uomini si assuefacessero a congiungere a questo numero qualche cosa di misterioso e divino, e così si apparecchiassero a ricevere poi il dogma della Santissima Trinità che il Messia doveva chiaramente annunziare al mondo. Gli stessi tre Patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe sono emblemi delle tre divine persone. 1. Agar e Sara . - Agar e Sara, l' una serva e l' altra libera, sono tipi della Sinagoga e della Chiesa. E` l' apostolo che ne dà l' interpretazione (1) e accusa d' ignoranza gli Ebrei che non intendessero questo tipo. [...OMISSIS...] Anche in Rebecca si può ravvisare un tipo della Chiesa dei Gentili (3). Lo stesso tipo trovano i Padri nelle due mogli di Giacobbe Lia e Rachele (4). Lo stesso di nuovo nel nascimento di Fares e di Zara, figliuoli gemelli di Tamar; quegli che prima aveva sporto il braccio e che pur nacque dopo, simbolo della Sinagoga; questi che nacque innanzi, della Chiesa che prevalse alla Sinagoga (5). 2. Sacrificio d' Isacco . - Il tipo del sacrificio di Isacco, sì efficace a significare il sacrificio di Cristo, non è solo spiegato nelle divine Scritture, ma è uno di quelli altresì di cui par che dica l' Apostolo che allora stesso furono intesi e conosciuti per tipi quando furono dati. Conciossiacchè dice che per la fede Abramo l' offerse e lo ebbe per una parabola (6). 3. Giuramento colla mano sotto il femore . - Non vi è traccia di questa cerimonia presso altri popoli: e nella Scrittura non si narra usata se non due volte dai due santi Patriarchi Abramo e Giacobbe (7). Egli è manifesto che vi si nasconde un mistero, spiegato da S. Agostino e altri Padri, cioè che con quel segno si voleva additare il Cristo che doveva uscire dai lombi di quei Patriarchi, pel qual Cristo si faceva il giuramento (.). 4. Giacobbe e Esaù . - Questi due figliuoli furono un tipo dei predestinati e dei presciti, spiegatoci dall' Apostolo (1). Giacobbe uomo semplice rappresenta il giusto del Vangelo che coll' umiltà e colla mansuetudine giunge a soverchiare gli uomini feroci: e però è tipo principale di Gesù Cristo. Le pelli caprine di cui egli si copre per ottenere la benedizione paterna, sono un tipo, secondo S. Agostino, dei peccati degli uomini di cui apparve Gesù caricato (2). 5. La scala di Giacobbe . - Questa era un bellissimo emblema del mediatore che congiunger doveva il cielo colla terra e che doveva discendere da Giacobbe. Gli angeli che ascendevano e discendevano possono significare le anime sante che per Cristo ascendono in cielo, e le grazie che di colassù i ministri di Dio ci riportano. 6. Lotta coll' angelo . - Giacobbe, che lotta coll' angelo e rimane vincitore e solo ratratto il nervo del femore, è un tipo di Cristo che pugna col suo Padre sdegnato contro l' uman genere peccatore, e disarma la sua giustizia sol col sofferire la morte nella sua umanità, che è rappresentata nel femore di Giacobbe: di che acquista il nome di gran principe, che è il significato della parola Israele. 7. Giuseppe venduto . - Questo tipo di Gesù Cristo è mirabilmente dichiarato da tutti i Padri ed interpreti. .. Schiavitù di Egitto e liberazione . - La schiavitù del popolo Ebreo sotto i Re Egiziani è il tipo della schiavitù del demonio da cui ci libera Gesù Cristo figurato in Mosè. Già ho accennato come il Mar Rosso indica, per testimonio di S. Paolo, le acque battesimali tinte della virtù del sangue di Cristo. 9. Pasqua . 1. Peregrinazione pel deserto . - L' uomo, dopo liberato dal peccato per Cristo colle acque del battesimo, si mette per questa vita piena di tentazioni e di pericoli viaggiando alla patria del cielo. Il viaggio del popolo di Dio che fa pel deserto dopo passato il Mar Rosso, era il tipo di tutto ciò. Non c' è avvenimento in questo mirabile peregrinaggio che non sia un emblema o segno istruttivo, come insegna S. Paolo. 2. Legge morale . - Iddio fu Re di questo popolo, la cui forma di governo da Giuseppe Ebreo fu chiamata acconciamente Teocrazia (1). Il Signore pubblicò una triplice legge, cioè morale, giudiciale e cerimoniale (2): e in tutte queste tre parti della legge ebraica si trovano moltissimi precetti emblematici, anche fra le stesse leggi morali. Eccone alcuni (3): a ) Il Sabbato in cui ogni uomo si doveva astenere dalle opere servili, rappresentava la libertà e la pace dei figliuoli di Dio, cui pienamente goderebbero nella requie eterna. Questo è uno dei primissimi emblemi, giacchè si trova nella narrazione della creazione fatta da Dio, il quale, riposatosi dopo creato il mondo, è modello ai giusti che, dopo le fatiche sostenute a conseguir la virtù, vi riposano, fatti simili a Dio (4). b ) La legge, comandata di portarsi scritta sul braccio e innanzi la fronte, indicava come essa doveva dirigere le azioni e i pensieri nostri. Lo scriversi poi sopra la soglia delle porte delle case mostrava, il non doversi vergognar punto l' Israelita di lei; ma pregiarla come il più caro ornamento (5). c ) Molte cose, come fu accennato innanzi, furono prescritte verso gli animali, a emblema di ciò che doveva farsi verso gli uomini. Si proibisce di cuocere il capretto nel latte della sua madre (6); di non pigliare i pulcini mentre sono ancora nel nido (7); di non uccidere la pecora cogli agnellini; di non legare la bocca al bue che tritura (.); di non mutilare gli animali (9): coi quali precetti si comanda di rispettare le affezioni naturali; di coltivare l' umanità, la dolcezza, la gratitudine, e la consideratezza in tutto ciò che si fa. d ) E` legge di non vestir vestimento contessuto di lana insieme e di lino; di non seminare la vigna di due specie di sementi (1). Il decreto è emblematico, e dimostra la schiettezza e semplicità che deve usare l' Israelita nelle sue parole e nell' operare. e ) Non arerai col bue accoppiato insieme coll' asino (2). S. Paolo medesimo ci spiega l' emblema di questa legge dicendo ai Corinti: [...OMISSIS...] . Torna a un medesimo lo spiegarla coi santi Basilio e Agostino (4) degli operai evangelici, de' quali non si deve congiungere nella vigna del Signore un sapiente con un insipiente. Dell' una e dell' altra interpretazione la sostanza è, che non si deve mescolare il sacro e il profano e evitare la compagnia dei malvagi. f ) La donna non vestirà veste di uomo, nè l' uomo userà veste di donna (5). Che qui si nasconda un simbolo si scuopre dal dirsi, che è abbominevole innanzi al Signore chi fa tali cose. Le quali forti parole appalesano, che si intende coprirsi sotto quella legge un più grave delitto che non il vestire vestimento di altro sesso, a rendere odioso ed abbominato il quale delitto mira quella terribile dichiarazione. g ) Colla proibizione di far sì che animali di diverso genere non fossero accoppiati insieme per la generazione, emblematicamente si condannano i vizii contro natura (6). Finalmente i Padri della Chiesa dicono in generale che tutti i precetti della legge mosaica significavano la giustizia di Cristo, a cui disponevano altresì gli uomini (7). 3. Legge cerimoniale . - E` dottrina dell' Apostolo che la legge cerimoniale fosse emblematica. Basti recar qui un solo luogo delle sue Epistole. Ai Colossesi egli scriveva: [...OMISSIS...] . Egli non sarebbe bisogno recare tante prove di questa verità di cui tratta tutto il presente libro, se degli eruditi, o più veramente grammatici de' nostri tempi, non mostrassero un' avversione incredibile a trovare emblemi e figure negli avvenimenti registrati nelle Scritture e nelle ebraiche leggi. Io credo che costoro si mostrano assai lontani dal conoscere lo stato intellettuale e il genio degli antichi popoli che nell' Oriente tuttora si conserva; e dall' aver fede in quella divina Provvidenza che, regolando le cose tutte con materno affetto, alla condizione degli uomini cui voleva istruire e abbonire si accomodava. Ma non è mio intendimento di entrare con cotestoro in una lotta erudita (la quale però non temerei, attesa la bontà della causa e gl' immensi monumenti a mio favore che gli studii critici, fatti modernamente intorno alle antichità e il genio di tutti i popoli, mi somministerebbero). Mia intenzione e fine di queste carte è solo di esporre la dottrina della Chiesa cattolica: e credo un fatto innegabile questo, che in tutti i secoli, massime i più antichi, i Padri e scrittori della Chiesa con grande unanimità riconoscono le antiche Scritture essere tutte piene de' segni istruttivi emblematici , di cui parliamo. A suggellare un tal fatto sostenga il lettore che io aggiunga un testimonio di somma autorità nella Chiesa quale è l' Aquinate, che come è noto raccolse il succo di tutta la tradizione e la midolla per così dire della dottrina cattolica sparsa negli innumerabili monumenti dell' antichità. Così adunque epiloga il grand' uomo la dottrina tradizionale della Chiesa intorno alle figure contenute nella legge cerimoniale di Mosè e alla natura di queste figure paragonate con quelle che si trovano nella legge nuova. [...OMISSIS...] Da queste ultime parole si vede il filosofo che parla. Egli è lo stato intellettivo dell' umanità nei diversi tempi che si deve meditare e dal quale solo si può conoscere quale maniera di insegnamento fosse acconcia nei diversi periodi della vita del genere umano; e massime dal diverso grado di sviluppo che venne conseguendo negli uomini la facoltà di astrarre. Il santo Dottore prosegue dunque a determinare due stati della cognizione umana così: [...OMISSIS...] . Fin qui l' Aquinate. Venendo poi a divisare le varie parti della legge cerimoniale, ella si compone di due parti cioè di segni istruttivi emblematici (3), e di Sacramenti . Di questi secondi ragioneremo in appresso: ora il nostro discorso non si volge che intorno ai primi. I segni istruttivi emblematici contenuti nella legge sono di tre specie, vale a dire: 1. i sacrificii ; 2. le cose sacre , come sarebbero il tempio, i vasi sacri, le vesti sacerdotali; e 3. le osservanze . I primi formano il culto dovuto a Dio, le ultime determinano la conversazione e la vita dell' uomo, e le seconde sono strumenti e mezzi che servono tanto al culto come alla vita. Diremo qualche cosa di tutte tre queste maniere di segni istruttivi emblematici. Giusta la dottrina del Cristianesimo due sono le vite dell' uomo, la presente e l' eterna: nella presente l' uomo è imperfetto e si perfeziona nell' eterna. Ma l' una è simile all' altra, perciocchè quelle stesse cose che quaggiù credute per fede formano la santità, colassù vedute nel proprio loro essere formano la gloria. Sicchè ciò che è emblema della vita santa deve essere per sua natura anco emblema della gloriosa. Dell' una poi e dell' altra vita il modello è Cristo, nel quale è espressa la perfezione delle due vite. Non deve adunque far maraviglia se gli antichi emblemi esprimessero, secondo i Padri, tutte due queste cose a un tempo, conciossiacchè non poteva essere diversamente, giacchè se aver dovevano similitudine con una di quelle cose, per la ragione stessa dovevano averla colle correlative (1). Laonde anche i sacrifici ebraici sono a un tempo figure della santità della vita e figure della celeste gloria e figure di Cristo che quelle due vite in un modo perfetto ebbe in sè medesimo. Gli animali immolati a Dio sono emblema degli uomini che devono essere tanto in questa vita che nella futura a Dio dedicati con intero e perenne sacrificio: particolarmente poi rappresentano tutti il sacrificio dell' eterno Sacerdote Gesù Cristo. Di tre specie di sacrificii erano nell' antica legge, l' olocausto, il sacrificio per lo peccato, e il sacrificio pacifico. Nell' olocausto, dice l' Angelico, si bruciava tutto per significare che come tutto l' animale risoluto in vapore si alzava in alto, così tutto l' uomo e le cose sue erano soggette al dominio di Dio ed a lui da offerirsi. Nel sacrificio per lo peccato una parte della vittima si bruciava, e un' altra cadeva in uso dei Sacerdoti; e ciò a significare che l' espiazione dei peccati si faceva da Dio pel ministero dei Sacerdoti. Nell' ostia pacifica che si offeriva, o in rendimento di grazie, pei beneficii ricevuti, o per ottenerne di nuovi, una parte si bruciava in onore di Dio, un' altra cadeva in uso de' Sacerdoti, e una terza in uso degli offerenti: e ciò a significare che la salute dell' uomo procede da Dio secondo la direzione de' suoi ministri e colla cooperazione degli stessi uomini che si salvano. I primogeniti dovevano essere tutti offerti al Signore in segno della sua signoria tanto come Creatore, sì come per la qualità di vendicatore dei peccati. Ma gli animali immondi dovevano essere riscattati con certo prezzo e i mondi dovevano essere immolati senza riscatto. E ciò a significare che a Dio non è grato se non il sacrificio di cose monde. Or poi il primogenito dell' uomo riscattavasi collo stesso prezzo onde si riscattava l' asino, animale immondo, che era di cinque sicli: efficace modo di significare la immondezza dall' uomo contratta col peccato originale, e la necessità del nascere un giusto il quale potesse essere sacrificato in odore di accettevole sacrificio; il quale non poteva essere che Cristo. Tutto era figurativo negli istrumenti e utensili delle sacre funzioni del popolo Ebreo. Ecco alcune di queste figure. a ) Il tabernacolo è in piccolo il tempio: e l' uno e l' altro rappresentavano la Chiesa, o certo il corpo dell' umanità nelle sue relazioni con Dio. E` l' Apostolo S. Paolo che chiama Cristo « il ministro della santità e del vero tabernacolo cui ha formato il Signore e non l' uomo« (1). » L' antico tabernacolo adunque non era il vero, ma una figura del vero. Questo vero tabernacolo non è terreno ma celeste, cioè tutto spirituale (2): non si tratta di un luogo santo materiale ma della santità stessa, dell' essenza della santità. Perciò continua a dire: [...OMISSIS...] . Cristo adunque era quel Sacerdote che offeriva un dono celeste, un sacrificio spirituale: laddove i discendenti di Aronne non offerivano che doni terreni ed erano simboli, secondo l' Apostolo, dello spiritual sacrificio (3). L' entrare che faceva una sola volta all' anno il solo sommo Sacerdote nel santuario, secondo l' Apostolo, era il tipo dello entrare che doveva far Cristo in cielo una sola volta per sempre, pel sacrificio della sua morte: un solo sacrificio, la sua morte; un solo gran Sacerdote in cielo vivente in perpetuo. E si osservi che lo stesso sacrificio eucaristico è più veramente celeste che terreno, poichè la vittima è ivi nascosta agli occhi terreni e non si parte dal cielo; sicchè tanto la vittima quanto il Sacerdote anche nella Eucaristica è veramente in ciel; e in questo gran rito può dirsi veramente che è il cielo che comunica colla terra. Aperto poi il cielo per Cristo, è tolto quel divieto che non entrasse che il solo Sacerdote in quel verace Santuario: e perciò l' antico rito è abolito perchè oggimai a tutti è aperto l' adito nel Santuario (1): [...OMISSIS...] . b ) I monti santi erano due, il Sion ed il Moria. Il monte di Sion, sopra il quale era edificato il palagio di Davidde, figura del Cristo, rappresentava la giustizia nella quale è fondata la Chiesa. Basta confrontare fra loro i varii luoghi della Scrittura per accertarsene. Giacchè in essi or si dice che Gerusalemme ha i suoi fondamenti sopra Sionne, come nel Salmo LXXXVI, 1: [...OMISSIS...] . E or che è fondata nella giustizia, come nel profeta Isaia che della nuova Gerusalemme dice con parole proprie e non enigmatiche: « Tu sarai fondata nella giustizia« (3). » Dai quali due luoghi confrontati insieme si vede che i monti santi e la giustizia sono sinonimi significando la stessa cosa, quelli in enigma e questa fuor di ogni velo (4). I Salmi esprimono la stessa cosa non in forma di enigma solamente, ma anche di espressa similitudine, là dove dicono: « La tua giustizia è come i monti di Dio« (5). » Egli è a questo fondamento solidissimo che attribuiscono le Scritture Sante l' immobile fermezza della casa del Signore. Cristo dice colla stessa maniera di parlare, che la sua Chiesa non può essere scossa dall' inferno, perchè fondata sopra la pietra (1) e i Salmi dicono che egli « prepara i monti della sua potenza (2). » Per questo ancora Davidde e in lui Gesù Cristo disse [...OMISSIS...] . c ) In generale il Re del popolo di Dio era l' emblema del vero Re del popolo eletto, Gesù Cristo. Per ciò era stato ordinato nel Deuteronomio, che questo Re dopo che sarà assiso nel solio del suo regno si trascriverà il Deuteronomio di questa legge in un volume, ricevendone l' esemplare dai Sacerdoti della tribù di Levi (4). I Re di Giuda seduti sopra una cattedra di legno nell' atrio principale del tempio (5) leggevano nell' anno sabbatico a tutto il popolo la legge nuova, ossia il Deuteronomio: e così leggiamo che faceva il santo Re Giosia (6). d ) Anche il monte Moria su cui era edificato il tempio, era uno de' monti santi. I quali erano due, [come due] sono i principii della giustizia (7) e della legge, cioè la ragione e la rivelazione, la natura e la grazia, la giustizia ideale e la giustizia reale: e due sono parimente gli oggetti della giustizia, cioè Iddio e la creatura ragionevole; inde i due precetti della carità. e ) La giustizia ideale non eccede l' ordine delle idee, ma la giustizia reale appartiene all' ordine delle cose: questa tocca il sentimento, quella la sola norma dell' operare: questa seconda è il lume, e quella è la forza di operare secondo questo lume. Appartengono queste due cose ai due modi dell' essere, l' uno ideale e l' altro reale. Queste due giustizie, se così mi lice chiamarle, sono egualmente necessarie all' uomo, perchè l' uomo ha bisogno di un lume per conoscere i suoi doveri e di una attività che il faccia capace di eseguirli. Que' due santi monti, su l' uno de' quali era la casa del Re che comunica al popolo la scienza della legge, sull' altro la casa di Dio che comunica la grazia la quale muove la volontà, sono gli emblemi delle due parti della giustizia di cui parliamo. Poichè questi sono i due perni di tutto l' universo morale, non è maraviglia che l' emblema di essi sia ripetuto sì di frequente nelle divine Scritture. Già l' abbiamo trovato al principio delle cose in quelle due piante della vita e della scienza del bene e del male (1) locate nel mezzo del paradiso. Entro il tabernacolo e il tempio avevaci lo stesso emblema, e questo era ripetuto nel sancta e nel sancta sanctorum . Perocchè nel sancta vi aveva il candelabro, simbolo della luce che illumina l' intendimento, e appartiene alla scienza, e i pani della proposizione, simbolo della vita e della forza che avvalora la volontà, ciò che appartiene alla grazia. Medesimamente nel sancta sanctorum v' avevano le tavole della legge o la scienza, ordine ideale: e la manna o cibo vitale, ordine reale. Questi due elementi sono della natura delle cose; e quindi la spiegazione che io do di tali [simboli] non può sembrare in conto alcuno ricercata e speculativa al lettore sensato. E perchè si vegga che questa dottrina appartiene anzi al deposito delle più comuni tradizioni cristiane, io citerò un brano di un pio libro, dove si contiene quanto ho detto. Il celebre autore dell' Imitazione dice appunto così: [...OMISSIS...] . (Ecco le due cose di cui parliamo, l' una appartenente all' essere reale e all' ideale l' altra. Seguita in questo modo toccando come queste due cose si abbiano nella legge nuova). [...OMISSIS...] (Or ecco come accenna dopo di ciò il tipo di queste due cose nella legge antica). [...OMISSIS...] f ) Gerusalemme, o città santa (4), era l' emblema della Chiesa di Cristo per l' unione degli eletti nel mezzo de' quali abita il loro Re. g ) La terra promessa significa il medesimo dal lato dell' abbondanza di tutti i beni di cui godono i Santi che compongono la Chiesa, massime nella consumazione della loro predestinazione in cielo. E però quella è detta la terra che scorre latte e miele, con una espressione che sarebbe soverchia a pigliarsi alla lettera e non trasportandosi al significato traslato che viene sempre indicato da quelle espressioni che nella divina Scrittura mostrano di eccedere prese materialmente. h ) La lunghezza della vita promessa ai mantenitori della legge era simbolo dell' immortalità, e tutti gli altri beni terreni simboleggiavano i celesti (1). i ) Le feste degli Ebrei erano sette temporanee e una continua: perocchè, dice S. Tommaso, era come una continua festa pel popolo di Dio, perocchè ogni giorno la mattina e la sera s' immolava l' agnello. E per quella continua festività del perenne sacrificio si rappresentava la perpetuità della divina beatitudine: come anche più prossimamente il perpetuo sacrificio di Cristo che sempre è vivo a interpellare per noi. Le sette feste erano le seguenti: 1. Il Sabbato, in memoria della creazione, simbolo della vita spacciata dalle cose terrene. 2. La festa della nuova luna, in memoria della conservazione e del governo divino dell' universo: e rappresenta la Chiesa di Gesù Cristo e Maria che a questa presiede. 3. La Pasqua era in memoria della liberazione degli Ebrei dall' Egitto, e rappresentava l' agnello che toglie i peccati del mondo, immolato appunto nell' anniversario dell' agnello mangiato dagli Ebrei in Egitto. 4. La Pentecoste che celebravasi, cinquanta giorni dopo Pasqua, in memoria della legge data al Sinai, e rappresentava lo Spirito Santo che doveva discendere in quel giorno appunto sopra gli Apostoli. 5. La festa delle trombe nel primo giorno del settimo mese, in memoria della liberazione d' Isacco quando Abramo trovò l' ariete intricato colle corna nella siepe: e questa significava la predicazione degli Apostoli. 6. La festa dell' espiazione il decimo dì del settimo mese, alla quale la festa delle trombe era come l' invito, in memoria dell' essersi Iddio placato alle preghiere di Mosè, quando il popolo Ebreo ebbe adorato il vitello d' oro: e rappresenta l' emendazione del popolo Cristiano dai peccati. 7. La scenopegia o festa de' tabernacoli, in memoria della protezione da Dio accordata al popolo nel deserto, l' ottavo dì della quale era la festa della Colletta, in cui mettevasi a parte ciò che il popolo voleva offerire per mantenimento del pubblico culto, e ciò in memoria dell' unione, pace e abbondanza del popolo di Dio nella terra promessa dove erano dopo la peregrinazione: le quali feste figuravano la peregrinazione dei fedeli pel deserto di questo mondo e la loro unione in cielo. a ) Gli animali figuravano i Gentili e nella varietà di questi animali erano significati i varii vizii di cui i Gentili erano macchiati. Il mangiare nelle sacre Scritture è l' emblema del congiungersi intimamente, acquistare la stessa natura e ripor[vi] la propria felicità. Era dunque vietato con quell' osservanza agli Ebrei di addomesticarsi coi Gentili, pigliare la natura ossia i costumi di questi, e riporre la propria felicità non in Dio ma nei beni sensibili nei quali gli incirconcisi (i viziosi) ponevan la loro. L' immondezza legale era figura della immondezza spirituale: pena di tale immondezza era la scomunica, cioè la separazione dal popolo puro e mondo, acciocchè questo non contraesse pure la stessa macchia. b ) Le frutta dei tre primi anni erano immonde; e ciò a significare il peccato originale per il quale le cose tutte di questa terra sono infette sino a tanto che Cristo non le purifichi. Per ciò quel lasciarsi dei primi frutti è detto circoncisione nelle Scritture, poichè come questa richiamava alla mente l' original peccato, così quei frutti de' primi tre anni; dopo il quale venivan quelli del quarto anno che si offerivano al Signore, e così si purificava la pianta che produceva negli anni seguenti frutti puri, di cui potevano raccogliere e mangiare i figliuoli d' Israello. Ecco come è espressa questa legge nel sacro Testo: [...OMISSIS...] . c ) Le fimbrie poste nei quattro angoli del pallio, e le bende color celeste che indi pendevano, erano simboli della purità degli occhi, che dovevano allontanare lo sguardo dalle cose seducenti e impure, e dar opera alla contemplazione delle celesti. Anche questa spiegazione risulta manifesta dalla lettera del sacro Testo: [...OMISSIS...] . d ) Nel Deuteronomio (3) è comandato: [...OMISSIS...] . I Farisei secondo la lettera scrivevano in membrane la legge e le si tenevano legate alle mani e alla fronte le appendevano, acciocchè si muovessero innanzi agli occhi loro. Ma il precetto era simbolico, e per le mani significavasi l' operazione e per gli occhi la contemplazione, volendo dire che la legge si doveva meditare colla mente ed eseguire coll' opera e così averla del continuo presente allo spirito. e ) Molte poi osservanze erano volte a conservare la politezza esteriore de' corpi, la quale significava la mondezza interiore dello spirito. 4. Legge giudiziale o politica . - Anche le leggi politiche degli Ebrei non erano senza figure. S. Tommaso non fa altra distinzione da queste leggi alle cerimoniali, quanto al contenere figure, se non che le cerimoniali osserva essere state istituite direttamente e principalmente a dover essere figure, e « i precetti giudiziali sono figurativi, non in primo luogo e per sè, ma per un cotal conseguente. » [...OMISSIS...] . 5. Sangue delle vittime, nell' alleanza contratta ai piedi del Sinai . - Mosè, che disceso dal Sinai per ratificare l' alleanza innalza i dodici altari e fa sacrificio, usa fra gli altri riti quello di aspergere col sangue delle vittime non solo il popolo ma ancora il libro dell' alleanza. Ciò rappresenta il doppio effetto dell' applicazione del sangue di Cristo che salva i fedeli e rende possente la parola di Dio, ossia la lettera della legge collo Spirito Santo. 6. Tavole della legge spezzate . - Le prime tavole della legge spezzate da Mosè rappresentano l' antica legge che doveva essere abolita e rinnovellata. 7. Serpente di bronzo e altri simboli nel deserto . - Notissima immagine di Gesù Cristo è quella del serpente di bronzo. E così pure il legno che indolcisce le acque amare, la pietra percossa colla verga di Mosè, la manna e altri tali sono troppo noti simboli del Messia o dei fatti della sua vita. .. Uomini grandi del popolo Ebreo . - Tutti gli uomini grandi del popolo Ebreo, come Mosè, Giosuè, Sansone, Davide, Salomone e i Profeti furono parimenti tutte figure di Gesù Cristo. I simboli enumerati fin qui vogliono essere altrettanti esempi che mi valgano a provare la verità generale, che Iddio usò ad ammaestramento degli uomini questo mezzo delle sensibili rappresentazioni. Or raccogliendoci a contemplare quei simboli in massa, non ci sarà difficile il conoscere quali maniere di cognizioni essi miravano a far entrare nelle menti degli uomini. Due specie di cognizioni sono insensibili, cioè le astratte e le negative . Queste ultime hanno bensì per oggetto qualche cosa di sussistente e di reale, ma questo ci è piuttosto indicato al vedere della mente che offerto da percepire (1). Per ciò non potendo questi due oggetti cadere sotto i sensi corporei, ai quali l' uomo è condizionato, hanno bisogno di simboli per essere dall' uomo ricevuti nello spirito e impressivi con qualche efficacia, cioè di rappresentazioni sensibili che abbiano con essi una cotale similitudine, analogia, relazione, come già fu detto. Lumeggiamo via meglio la cosa con qualche esempio: pigliamo l' idea della giustizia, la quale è un' idea astratta che non cade punto sotto i sensi. Gli uomini avevano bisogno di ben fissare un' idea sì importante, di fissarla in modo che l' avessero nel loro spirito netta, spiccata dalle altre cose che a lei non pertengono e possente in modo che prevalesse in forza alle stesse idee delle cose sensibili. Ora gli uomini primitivi erano tutto senso, non percepivano che pel senso, non credevano che al senso, perciocchè non essendo ancora formate in loro le grandi astrazioni, queste nulla operavano sullo spirito. Come adunque poteva il divino istruttore condurre tali uomini a formarsi l' astrazione della giustizia e renderla questa nelle menti lucente, cioè rendere atte le menti a vedere e quindi gustare l' ineffabile bellezza della giustizia, che di sua natura sfugge ai sensi corporei? (2). Questo era il primo problema che si era proposto di sciorre il gran Maestro degli uomini; ed ecco in che modo lo sciolse ed operò dietro ad un tale scioglimento. Egli cominciò dal far andare unite insieme la felicità temporale e la virtù, il vizio e la temporale infelicità, promettendo dei premi temporali a quelli che avessero operato secondo le norme della sua legge, e delle pene temporali a quelli che avesser violati i suoi comandamenti. Or posciachè i beni e i mali sensibili e terreni erano i soli ben conosciuti dagli uomini primitivi, e però i soli che fossero sopra loro efficaci e possenti, col fare Iddio questa congiunzione aveva resa importante la virtù e il vizio anche agli occhi di quegli uomini non atti che a percepire le cose sensibili. Se la virtù e il vizio fossero stati al tutto sciolti dai beni e dai mali temporali, non era possibile agli uomini primitivi di mettere in tali oggetti una grande importanza: tali oggetti non potevano chiamare la loro attenzione, col solo lungo affissare della quale solamente le idee astratte acquistano vita ed efficacia nell' animo degli uomini e prendono per così dire un corpo. Ma con quella congiunzione avvenne, che tutto l' amor degli uomini posto ai beni sensibili e tutto il timore dei mali serviva alla virtù e alla giustizia come al solo mezzo unico di ottenere quei beni desiderati e di schivare quei mali temuti. Furono dunque gli uomini per tal modo condotti a dire seco medesimi: « Or ella deve essere pure la bella cosa questa giustizia se essa sola trae con sè tutta l' abbondanza dei beni desiderabili; egli deve essere pure brutto e deforme il vizio, s' egli arreca tutti i mali temibili, se in odio di lui l' essere supremo castiga così severamente i viziosi«. Qui si vede eccitata l' attenzione umana a riflettere seriamente sulla natura della virtù e del vizio, del giusto e dell' ingiusto: qui si vede gli uomini stimolati di continuo a vigilare e spiare se nelle proprie azioni si intromettesse furtivo quel peccato che li renderebbe subitamente sventurati, e fatti anzi tutti solleciti e industriosi a dover conoscere e introdurre nella maniera del loro vivere quella virtù che aveva possa di far stillare il cielo in ubertose rugiade, e dare la pinguezza alle biade della loro terra e la fertilità ai loro armenti. Con ciò si era fatto il primo passo, ed era un gran passo quello di far conoscere agli uomini tre cose. 1. che la giustizia valeva almeno altrettanto di tutti i beni terreni di cui era madre; 2. che questa giustizia sebbene insensibile meritava pure una grande attenzione e doveva nascondere in sè stessa qualche cosa di misterioso e di sublime; 3. che la natura divina era sommamente amante di questa giustizia, dal momento che distribuiva i beni in ragione di lei. Ma pervenuta la mente umana a questa istruzione, ella già doveva salire più alto, e aveva acquistato il punto di appoggio, per così dire, dal quale spingersi al di là di tutte le cose terrene e pervenire al concetto puro della giustizia. E veramente Iddio con quella congiunzione del bene e del male morale al bene e al male temporale aveva per così dire resa sensibile la giustizia, le aveva aggiunto un corpo, era, se mi lice usare questa similitudine, l' anima tutta spirituale che si vede mediante un corpo da lei animato. Trovato così il modo di far vedere all' uomo sensibile la virtù e la giustizia, questa era già entrata nel pensiero dell' uomo. Or non restava altro se non spogliarla di ciò che non le apparteneva, e così ridurre a perfetta purezza quell' idea che era bensì formata, ma che si trovava ancora grossolana e materiale, quasi come l' oro non appurato nella miniera. La materia dunque su cui esercitare l' estrazione non mancava più: era posto da Dio un gran fatto esterno, sensibile, dal quale era contrassegnata e marcata la giustizia, come da un segno luminoso, che non permetteva che ella non fuggisse più dall' occhio spirituale dell' uomo. Ma Iddio doveva ancora aiutare l' uomo a fare una tale separazione del concetto della giustizia da ogni altro concetto. Questo era il secondo problema dell' educazione umana; ed ecco anche di questo problema, la divina soluzione. Prima Iddio aveva congiunta la giustizia coi beni terreni, e con questo artificio trasse gli uomini a porre la loro attenzione sulla giustizia come cosa di molta importanza. Poscia divise questi beni terreni dalla giustizia e lasciò questa sola, e con tale artificio ridusse nella mente dell' uomo la giustizia isolata, la pura astrazione di giustizia; ciò fu la soluzione del secondo problema. Per tal modo fece Iddio nascere nelle menti umane un' operazione simile a quelle che fanno i chimici quando vogliono isolare qualche sostanza, che prima la congiungono a un' altra che poi separano per la maggiore affinità che ha questa seconda con una terza. Col congiungere la giustizia coi beni temporali Iddio indusse gli uomini a fissare col pensiero questa giustizia. Fissata bene che l' avessero, ella non aveva più bisogno dell' accompagnatura dei beni temporali; e però questi furono staccati da lei ed ella rimastasi sola reggentesi da se stessa come una volta a cui si tolgano di sotto le armature e le centine. Ora tutto il tempo che precedette la venuta di Cristo fu speso principalmente nella prima operazione (1): al nuovo Testamento appartiene la perfezione della seconda. Per questo nell' antico patto sono sempre promessi ai giusti dei beni temporali e nel nuovo è detto che la mercede loro copiosa è nei cieli. Nulladimeno anche nell' antico si cominciò la seconda opera che dal Messia si doveva al tutto perfezionare (2). Per ciò si vede quanti patimenti fossero dati anche in quel tempo a Giobbe e a Tobia, uomini giusti: ma furono però patimenti che ebbero fine con un esito buono anche temporalmente. Vi aveva un amore del luogo natale; e Iddio per ammaestrare Abramo che qui non istà il vero bene, chiama quel Patriarca fuori della Caldea. Vi aveva un istinto alla figliuolanza; e Iddio nol contraria in tutto, ma rende sterili le donne più sante (1), e fa che i genitori debbano spesso aspettare i figliuoli fino all' ultima vecchiaia e ad averli come suo dono, acciocchè lo servano lungamente anche senza mercede temporale, e così imparino a pregiare la giustizia per sè stessa e a riconoscere Iddio come datore de' beni: il che mirava a fissare nelle menti questa idea per sè negativa di Dio (2). Abramo è tentato fino ad esigere da lui il sacrificio di quel figliuolo, natogli in vecchiezza, sul quale era appoggiata tutta la speranza della sua gran discendenza. Il santo uomo messo in quella prova, aveva da una parte l' amore del figlio, dall' altra la giustizia: doveva scegliere, e per scegliere doveva riflettere al valore delle due cose fra cui cadeva la scelta. Preferendo la giustizia al figlio, egli aveva pronunciato seco medesimo questo giudizio:« la giustizia è una cosa tanto preziosa che va anteposta agli stessi figliuoli«. Di più aveva giudicato:« Iddio che mi comanda tal cosa è un essere così grande e buono che mi può riccamente compensare della mia perdita«: ed essendo costretto di dover formare colla sua mente questo giudizio, egli veniva a fissare la potenza, la fedeltà e la bontà di Dio. Così queste idee negative s' imprimevano e scolpivano nella sua mente, condotta dalle circostanze, guidate dal supremo maestro a dover fare somiglianti riflessioni. Non c' è forse un solo bene temporale che Iddio già nell' antico tempo non l' abbia fatto venire in collisione colla giustizia e di cui non abbia richiesto il sacrificio (3). Grande era l' amor naturale della ricchezza temporale e del dominio. Iddio promette tutto ciò ai Patriarchi, promette loro la Cananea, vasto e reale possedimento, se a lui saranno fedeli e ubbidienti. Ecco la prima operazione colla quale Iddio impegnava quegli uomini a porre tutta la loro attenzione nella giustizia. Dopo di ciò egli fa che vivano tutta la loro vita pellegrinando in paese straniero, senza possedere pure un palmo di terra e che si contentino di una parola, di una promessa da eseguirsi solo molto tempo dopo la loro morte, quattrocento anni dalla chiamata di Abramo (1). Quest' era la seconda operazione colla quale li teneva staccati dai beni temporali e faceva loro riflettere che vera ricchezza è solo il timore di Dio, la vita giusta e il fidarsi della sua parola: tutte idee astratte e negative. Ora convien qui porre una osservazione. Le idee astratte possono formarsi nella mente umana coll' aiuto de' simboli naturali. Ma per condurre la mente bambina dell' uomo a fissare e bene imprimersi le idee negative appartenenti alla natura divina e ai suoi attributi, ciò non era egualmente acconcio: e la ragione ne è manifesta a chi considera la differenza fra le idee astratte e le idee negative di Dio. Il principio di ogni astrazione si trova naturalmente nella mente umana, che ha in proprio l' idea dell' essere, l' astrattissima di tutte le idee; e le altre idee astratte non sono che la stessa idea dell' essere limitata, circoscritta, applicata. A ragion d' esempio, l' idea della giustizia è l' essere applicato a giudicare del prezzo delle cose poste in relazione colla volontà che sente di doversi accomodare a tali giudizii. Questi giudizii si fanno in tutte le azioni: e l' astrarli dalle azioni e il ridurli ad una formula generale è il medesimo che formarsi gli astratti del giusto e dell' ingiusto. La materia adunque da cui si toglie l' idea della giustizia è data nell' ordine della natura, come è pur dato il principio dell' astrazione (l' idea dell' essere). Non si richiede adunque altro acciocchè la mente si formi tali idee, se non di rendergliele importanti, sicchè ella dal bisogno che n' ha sia stimolata e mossa a fissarle e formarsele, contemplandole anche con diligente attenzione. Al che la provvidenza usò della industria sopra descritta, di congiungere la giustizia colle prosperità temporali, e poi da queste spartirla. Ma le idee negative di Dio non hanno alcuna materia nell' ordine naturale; hanno solo delle analogie. Non si poteva dunque con dei simboli puramente naturali condurre il pensiero umano a formarsi accurate idee della divinità; chè anzi tali simboli, se fossero stati puramente naturali, l' avrebbero agevolmente ingannato, facendogli credere che Dio fosse simile alle cose naturali. Per condurre adunque il pensiero degli uomini a Dio, dovevasi sollevarlo sopra tutta la natura e fargli intendere, che Dio era un Essere principio di tutte le cose, il quale da queste interamente differiva e la cui natura era tanto grande e levata che da mente umana concepire non si poteva perchè non vi avevano cose dall' uomo percette che rendessero di lui similitudine. Ora a far questo Iddio tolse a divietare agli Ebrei tutte le imagini delle divinità (1), per pericolo appunto di confondere la natura con Dio, attribuendo o le divine proprietà alla natura o a Dio le proprietà naturali; il che era stato larghissima fonte d' idolatria, massime presso gli Egiziani, fra i quali gli Ebrei avevano lungamente abitato e non lasciatili senza andarne tinti di loro costumanze. [...OMISSIS...] Veramente di nessuna cosa sono più sollecite le divine Scritture quanto di far conoscere Dio incomprensibile: di che è ragione contenersi nella incomprensibilità quel più e quel tutto che può conoscere l' uomo di un tal essere; e a significar questo para anche il nome ineffabile, conciossiacchè quel non potersi pronunziare un tal nome doveva significare non potersi comprendere un sì grande Ente. Chiamasi anche Dio nascosto e che abita una luce inaccessibile (3). Per sì grande concetto non usavansi dunque più i simboli, ma solo il linguaggio proprio, e l' esclusione di ogni simbolo, la quale esclusione essa stessa significava, e potrebbesi chiamare un efficacissimo simbolo. Questo esser però di natura incomprensibile doveva esser conosciuto dagli uomini colla indicazione de' suoi effetti. Tutto l' universo era effetto che indicava questa causa prima: ma la mente umana doveva essere eccitata a fissarla principalmente col nuovo e collo straordinario; e quindi la necessità de' portenti. Non che questi disvelassero la natura divina o a pieno ne esprimessero gli attributi, ma determinavano però meglio l' Ente supremo, il quale per essi acquistava un nome. A ragione di esempio, egli si chiama il Dio di Bethel (1) per la visione che ebbe in questo luogo Giacobbe. Egli si dice il Dio che ha tratto gli Ebrei dall' Egitto con mano forte (2): il Dio che ha parlato dal Sinai (3): e così di tutti gli altri grandi e straordinarii avvenimenti. Quando anche la lingua che esprimeva Iddio non avesse guadagnato con questi fatti un nome o una espressione di più, doveva però imprimersi nelle menti e contrassegnarsi con quel fatto Iddio, ciò che era un aiutare l' umano intendimento ne' suoi primi sviluppi a fissarsi e aderire a Dio e alle cose divine e insensibili. E l' uomo pur coll' essere condotto a vedere Iddio negli avvenimenti straordinarii e mirabili come invisibile cagione, veniva a imparare in che modo il doveva vedere anche negli ordinarii e comuni, sebbene questi non lo scuotessero e quasi dire svegliassero come quelli. Sebbene nelle età prime quando l' uomo era nuovo e nuova era la natura, questa aveva una cotal forza maggiore di farsi considerare come opera stupenda e di levare a Dio le menti collo stupore (1). Perchè adunque l' uman genere ancor fanciullo e vuoto di cognizioni si conducesse a formarsi e ben imprimersi le idee negative di Dio , si richiedeva un magistero maggiore della provvidenza che non sia per condurlo a formarsi le astrazioni. A condurlo a queste bastava il linguaggio e i simboli naturali: ma per le idee negative di Dio voleva anzi la cassazione di ogni simbolo od imagine, ed in una la considerazione degli effetti divini, in tra' quali vi dovevano apparire di quelli che si togliessero al tutto dal corso regolare e ordinario della natura. Ma un altro spediente messo in opera dalla sapienza di Dio per maggiormente scolpire nella mente all' uomo quelle idee negative che gli bisognavano e che nella natura non avevano ritratto alcuno, furono i simboli moltiplici e mostruosi . Non servivano già questi a esprimere la natura divina. Come abbiamo veduto, erano divietate tutte le rappresentazioni, o naturali o anche artificiali di essa divina natura in sè stessa considerata. E che il divieto delle imagini non fosse universale ma si restringesse a quelle che si ordinavano a significare la divina essenza, mi par provarsi anche con quel luogo della Scrittura dove si parla di Dio disceso sul Sinai a dar la legge. [...OMISSIS...] . Per tal modo col non mostrarsi Dio sotto figura alcuna volle insegnare, che la sua essenza è cosa al tutto diversa da quanto si trova nella natura; e quindi proibì che non l' effiggiassero. Qui è manifesto che la proibizione delle imagini e sculture si restringe a quelle che si facevano per rappresentare la natura divina; l' uso delle quali avrebbe rovesciati gli Ebrei nella idolatria, come era avvenuto sotto il velo delle imagini. Ragione che dà lo stesso sacro Testo, del non essersi Iddio mostrato figurato sul Sinai: [...OMISSIS...] . Ma altro è a considerarsi Iddio nella sua recondita maestà e pura essenza, e altro nelle comunicazioni che di sè fa alle sue creature. La maggiore di queste, la più solenne, quella che regola tutte le altre è la divina Incarnazione. Or la natura divina circoscritta per così dire e velata dall' umanità è il principale soggetto dei simboli mostruosi che si scontrano nelle sacre pagine. La ragione di questi accozzamenti di varie figure che non sono in natura è questa. Iddio anche circondato dalla carne è però cosa così augusta e così lontana dal trovare in tutte le altre cose acconcie similitudini, che non si può altramente avvicinarsi a simboleggiare i suoi molti e singolari pregi, che col pigliare a simbolo di lei, non già alcun essere naturale, ma un qualche ente imaginario e artificiale che congiunga in sè le membra e le proprietà di molti. Con un tal simbolo mostruoso si viene a significare, che la cosa che si rappresenta eccede i confini degli esseri che sono nella natura, e unisce in sè medesima le qualità e virtù separate in molte e varie nature. Per chiarir meglio questa sapientissima economia che tenne Iddio nell' ammaestramento degli uomini, scegliamo fra i simboli moltiplici e mostruosi usati nelle Scritture il più solenne di tutti, che abbiamo già accennato, ma che gioverà un po' più distesamente descrivere, voglio dire il carro di Dio . Questo carro è un simbolo costante nelle divine Scritture. Egli rappresenta la Provvidenza, colla quale Iddio conduce le creature tutte, ma una Provvidenza trionfatrice; rappresenta la Provvidenza nell' atto che trionfa de' suoi nemici e li disperde; egli è perciò principalmente un carro terribile di battaglia. Per ciò si dice ch' egli porta « la gloria del Signore« (2), » ossia il Signore glorioso. Essendo poi Gesù Cristo quegli dalle cui mani è condotta la Provvidenza del mondo, secondo il detto d' Isaia, che « la volontà del Signore sarà diretta nella sua mano« (3); » per ciò Gesù Cristo è altresì l' auriga di questo carro maraviglioso. Chè la Scrittura fa espressamente menzione di questo auriga, come si può vedere nelle parole dette da Eliseo quando Elia fu rapito, il quale sclamò: [...OMISSIS...] . Questo carro dicono le divine Scritture va circondato da dieci milioni di spiriti esultanti e beati (1), ed è carro di fuoco (2). Con questo fuoco Iddio incarnato accende, vivifica e immortala i suoi santi e incenerisce altresì gli empi: egli è un carro di guerra e ne sono l' armi le fiamme; i Cherubini l' attirano, o anzi il portano (3). La prima visione di questo misterioso carro, terribile e trionfale sembra quella che ebbe Adamo (4), quando s' avvide dei Cherubini stanti alla custodia della porta orientale dell' Eden (5) minaccevoli di morte contro chi si attentasse di inoltrare il passo oltre a quella soglia (6). Dice la Scrittura che essi custodivano « il legno della vita« (7), » al quale non va l' uomo se non passando per le fiamme, e non può passarvi illeso, quando prima non abbia ricevuto da Dio quella tempera al tutto divina che resiste a tali fiamme, anzi che innatura l' uomo con esse e il fa in esse vivere la vita immortale. Perocchè queste fiamme sono quella potenza misteriosa e irresistibile, colla quale Dio brucia e distrugge nell' uomo tutti i godimenti de' beni creati e naturali; di che avviene che essa distruzione sia intollerabile a quelle anime che non hanno null' altro per bene se non le creature, anime che diventano miserissime pur coll' essere spogliate a forza di tutti i beni lor cari, ed è in cotal modo un annientarle, un crucciarle d' indicibili affanni: e non altro fa il fuoco dell' inferno e del purgatorio (1). La tradizione di questa terribile forza di cui va Dio circondato passò a tutte le genti; ed è per questo che si reputava anche dalle nazioni idolatre che la visione di Dio fosse insostenibile all' uomo, e che l' uomo il quale vedesse Iddio, morrebbe di tratto: sentiva il genere umano l' alienazione che egli aveva dalla divinità; era la profonda coscienza della colpa originale che in lui parlava (2). Un' altra insigne visione di questo carro divino fu quella che ebbe il solo Mosè e non il popolo sul Sinai medesimo. [...OMISSIS...] Nei Salmi si dice espressamente che si mostrò a Mosè il carro di Dio (4). Questo carro di vittoria fu l' esemplare veduto dal Santo Legislatore in quel monte a cui similitudine fece poi l' arca (5), perpetuo trofeo della sconfitta degli Egiziani: e perchè quest' arca era appunto rappresentativa di quel carro di vittoria e trono di gloria ove Iddio siede e vola sui Cherubini; perciò il Salmo LXVII dice che il carro di Dio è nel Sinai e nel Santuario, cioè nel Tabernacolo dove fu riposta poi l' arca (6). L' incarnazione e l' ascensione al cielo viene simboleggiata da questo carro. Il Verbo di Dio discende e si mostra sopra la terra terribile a' suoi nemici per l' infallibile effetto della sua volontà: egli riascende in cielo trionfatore sul carro medesimo e si trae dietro i vinti captivi (7). Egli viene in soccorso dei suoi eletti sbattuti e perseguitati dagli empi e seco traendoli li campa da tutti i pericoli (1). Sta alla testa come capitano del popol suo e lo conduce siccome un pastore (2). Ma la visione di questo mobile trono ossia carro di Dio provisore e del Verbo incarnato più manifesta e più compiuta, fu quella che ebbe Ezechiello nel quinto anno della trasmigrazione del Re Joachino sei anni innanzi la distruzione di Gerusalemme. Iddio mostrava di dovere uscire del tempio profanato e della città santa, non più santa, in cui abitava, abbandonandola in preda a nemici ministri dell' ira sua. Veniva il bellico carro dell' Onnipotente da Babilonia quasi alla testa non più delle armate del suo popolo, ma bensì degli eserciti dei Caldei che sotto la sua guida dovevano fare scempio e rovina della infedele Gerusalemme (3). Or quest' azione del giustissimo sdegno dell' Eterno era pure un tratto di sua provvidenza e faceva parte del grande ordine secondo il quale Iddio con un solo pensiero governa tutte le cose sia nei momenti della sua misericordia, sia in quelli del suo furore. Questa unità di pensiero è manifestamente espressa nella visione di Ezechiello. In quella non si figura già Iddio occupato di un atto solo e passeggiero, ma sì bene quell' Ente sapientissimo che quando si occupa di un fatto non perde la memoria degli altri; che non si lascia assorbire come fa l' uomo da una passione di iracondia o di benevolenza per modo che nol guidi sempre la considerazione di tutta la serie degli avvenimenti che formano una indisgiungibile catena; insomma quel Dio che da Babilonia viene guerriero a oppugnare Gerusalemme è il Dio provisore, è quel Dio che governa insieme le cose tutte dell' universo. Ciò è quanto si rileva dall' analisi della visione. La visione del figliuolo di Buzi (1) ha tre parti. Nella parte superiore è il firmamento, simbolo della immobilità di Colui che muove tutte le cose. « E sul firmamento era come un trono di pietra zaffiro (altro simbolo d' immobilità e durevolezza) e su quella figura di trono era la figura come dell' aspetto di un uomo« (2). » Quest' uomo era l' auriga, cioè, Gesù Cristo, il Verbo, vero Dio che doveva rendersi vero uomo. La parte di mezzo erano i Cherubini, simbolo degli spiriti celestiali e beati della Chiesa trionfante (3). Essi portano gli stemmi del Figliuolo di Dio, che è il loro Signore e l' auriga loro, cioè hanno forma di uomo nel tutto insieme, perchè fu l' umanità che Dio volle innalzare al di sopra degli Angeli coll' unirla alla persona del Verbo. L' auriga, il guidatore della Provvidenza è finalmente un uomo divinizzato, un uomo Dio, così piacendo all' Eterno di sollevare sopra tutte le nobilissime creature quella che per sè fra le intelligenti occupa il più basso luogo, cioè la creatura umana. Ma quest' uomo è tanto innalzato perchè è anche Dio (4): e però quei Cherubini sono anche aquile, avendone la testa e le ali. Ed essi hanno ancora il capo di leone e il capo e i piedi di vitello, stemmi delle due qualità del Signor loro, che sono l' esser egli Re di tutte le cose e unico sempiterno Sacerdote. Conviene dire, che i celesti spiriti sieno santi e beati appunto pel profondo conoscere di tanto mistero e pel continuo ammirar che fanno un sì profondo senno di Dio nell' incarnazione; sicchè portano di tutte queste cose l' impronta nelle loro anime, indi deducendo la loro vita e il loro movimento, devotissimi sì come sono a servire a effettuazione e consumazione di un tale disegno, superiore a quanto può stendersi il pensiero della finita intelligenza. Ma la parte inferiore di quella grande visione erano le ruote le quali toccavano terra (1), e simboleggiavano il mondo delle cose mobili e esteriori nel quale ciò che è formale è propriamente quella parte che costituisce la Chiesa che milita nella presente vita, e colla quale Iddio e Cristo in cima ai beati comunica per mezzo di essi spiriti angelici e delle anime già pervenute a stato di angelo (2), che sono le cagioni medie per le quali opera Iddio e Cristo in sulla terra. Nè questo ministerio dei celesti, anello di mezzo fra Dio e gli uomini in istato di via, toglie punto, nè impedisce che lo stesso Dio operi anche immediatamente nella Chiesa militante collo spirito suo che tutto penetra, e tutto accende, ed avviva: di che il Profeta: [...OMISSIS...] . Ma questo spirito spira da Cristo, e non fa che imprimere Cristo nelle anime (4): e però anche le ruote portano gli stessi stemmi de' Cherubini e hanno quattro faccie (5), di uomo, di leone, di bue, e di aquila, impresse nei dossi de' due cerchi di cui ciascuna è composta, incrocicchiati l' un nell' altro e formante come una sfera rivolubile da ogni parte: conciossiacchè anche la Chiesa militante non ha altre insegne che quelle di Cristo, alla cui similitudine si deve volgere tutta e conformare e per lo spirito parteciparne le sublimissime qualità. Fin qui noi abbiamo parlato dei tre primi generi di segni istruttivi, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Ci rimane a dire del quarto genere, ossia della « lingua simbolica (1). » La lingua per sè stessa non è rappresentativa se non in una piccola parte, cioè nelle parole e costrutti onomatopeici. Ed essendo ella un aggregato di suoni, manifesto è che non può imitare se non cose sonore e che però questa sua imitazione si restringe a una minima parte degli innumerevoli oggetti segnati dalle parole. Ora il nostro discorso non si volge a questa minima parte, ma ha in mira l' uso della lingua in generale. La lingua richiama le idee e le idee richiamano le imagini; le imagini sono somministrate da quei tre fonti che ho toccato, gli avvenimenti, le cerimonie, le visioni. Sotto la parola di avvenimenti abbiamo voluto raccogliere tanto 1. le cose esistenti nella natura come 2. i fatti che vi succedono. Sotto quella di cerimonie tutti i fatti che sono stati posti dall' uomo in pruova all' uomo di significare e perciò 1. tanto le cerimonie stabili, quali son quelle stabilite da Mosè pel culto divino, 2. come quelle azioni che venivano fatte dai Profeti a intendimento di significare le cose avvenire, verbigrazia il maritaggio del Profeta Osea colla donna peccatrice e i nomi imposti ai figliuoli che ne nascono (2). Sotto la parola di visioni finalmente intendiamo tutte le [visioni] imaginarie che dipingono alcuna cosa sensibile alla fantasia del veggente, gli si presentino esse in sogno o in veglia, palesi a tutti, o visibili a lui solo. Ora le parole possono richiamare e risuscitare nella fantasia le imagini ricevute in queste varie maniere, cioè: 1. esse possono significare un oggetto sensibile nella natura esistente; 2. un fatto avvenuto; 3. una cerimonia sacra; 4. un' azione cerimoniale o significativa; 5. una visione avutasi. In tutti questi casi le parole significano una cosa significativa. Non sono esse stesse le imagini sensibili, ma bensì le cose da loro significate sono queste imagini e simboli di idee astratte o negative. Ma le parole prestano di più un altro servigio. Quando anco non sia avvenuta una visione (la quale consiste sempre in accozzamenti di oggetti sensibili già da noi percepiti in separato), le parole possono tracciare e comporre una specie di visione nella nostra fantasia. E ciò esse fanno col risuscitare nel nostro spirito degli oggetti sensibili componendoli variamente in modo che essi rappresentino al nostro pensiero alcun che appunto per la loro composizione o per l' accordo che hanno colle circostanze presenti. Così fa il linguaggio nelle allegorie e nelle parabole. Ora questi sono i due fonti di tutta la lingua simbolica: ella o annunzia una cosa reale sensibile e rappresentativa, o eccita nello spirito delle imagini variamente accozzate dalla efficacia della lingua stessa in modo che pel loro accozzamento quelle vengano a rappresentare o indicare l' oggetto insensibile che è lo scopo del ragionamento. Discendiamo più al particolare. La parola terra non è già per sè stessa simbolica se non significa altro che la terra: ma se questa terra stessa si considera come un simbolo o segno di altra cosa, allora la parola terra è simbolica. Sicchè non è già che una lingua possa essere mai simbolica per sè stessa, ma bensì, tale si appella perchè ella segna ed esprime degli oggetti che sono dei simboli (1). E ciò che si dice di un oggetto particolare simbolico si può dire di un complesso di oggetti i quali uniti insieme formano una storia, una cerimonia, una serie di azioni, una visione o un prospetto d' imaginazione, secondo la classificazione che noi abbiamo data de' simboli (2). Quando la lingua esprime un oggetto che egli stesso è preso per segno di qualche altro oggetto, ella si chiama simbolica (3). Ma questo oggetto7segno non può essere sempre così atto a segnarne un altro che al tutto ed esclusivamente lo determini; anzi quasi mai avviene, e le più volte, per non dir sempre, un oggetto stesso può usarsi a segnare più e più oggetti, cioè tutti quelli che hanno con lui qualche somiglianza, o qualche rapporto qualunque si voglia. A ragion di esempio se io prendo per simbolo un fiume che si rigonfia e minaccia di rovesciare le città co' suoi flutti, quale sarebbe l' Eufrate, il mio simbolo potrà significare l' impeto e la superbia di un conquistatore: e in tal caso il dire l' Eufrate minacciò colle sue onde sterminio, in lingua simbolica significherà, il Re o l' esercito nemico che si accosta con empito. Ma questa parola Eufrate potrebbe esser simbolo egualmente atto a esprimere i popoli abitatori delle sue sponde pel rapporto di vicinanza che ha con questi; e quindi dicendo l' Eufrate esultò di gioia, in lingua simbolica può significare il tripudio degli abitatori di Babilonia. Ora questa indeterminazione, che ha il simbolo, si deve rimuovere in qualche maniera, perchè la lingua simbolica si possa interpretare con sicurezza; altrimenti ella non presenterebbe se non dei discorsi equivoci e sempre incerti. Ora questa via d' interpretare la lingua simbolica ora è più, ora meno difficile. Indi avviene alla lingua simbolica primitiva ben sovente una certa oscurità , non assoluta ma relativa, ed è allora quando vi si trova questa oscurità, che ella viene nominata enimmatica . In che modo si può dunque giungere alla determinazione sicura del significato del simbolo? Or dissi che la oscurità della lingua enimmatica primitiva non è assoluta, cioè non nasce della perplessità della stessa lingua, ma relativa alle cognizioni e all' abilità dell' interprete, poichè vi ha sempre una via che conduce alla sua piena e certa intelligenza. Ma qual' è questa via? Questo si fa in sette maniere, ed ecco quali sono: 1. Coll' aggiungere al simbolo la spiegazione in parole proprie. Così Ezechiello nel capo XVII narra quello che due aquile operavano. Ora esse non erano che simboli di due Re. Ma come saperlo? E come indovinare quali Re fossero? Il profeta stesso spiega il suo simbolo dicendo, che per quelle due aquile intendeva figurare il Re di Babilonia e il Re di Egitto. 2. Coll' intrameschiare alle parole simboliche tali parole proprie che mostrino le prime esser simboliche e a che significare ordinate. A ragione di esempio Osea (II) parla di una vigna di cui spianterà le viti e le ficaie. Ma egli è facile d' intendere che questa vigna è simbolica e segna il suo popolo, se si considerano le parole proprie che seguono alquanto dopo, ove il Profeta dice, che una tal vigna rientrata a Dio in amore « canterà come a' giorni della sua gioventù e come a' giorni della sua uscita dalla terra di Egitto« (1). » 3. Talora il discorso simbolico si rende chiaro e determinato in virtù delle circostanze di chi parla e di quelli a cui parla. Sapendosi che chi parla è un inviato dal cielo a minacciare di castighi sopravenienti le scelleratezze del suo popolo, questo solo già mette sulla strada a intendere i simbolici detti del Profeta: per lo meno il sapere ciò, esclude una quantità d' interpretazioni che potrebbero forse avere luogo non sapendosi al tutto la qualità dell' uomo che parla e de' suoi uditori. Ridotto così il numero de' sensi possibili assai minore, viene fra questi stessi determinato l' unico ammissibile dal considerare tutte le altre circostanze. Quando Isaia minaccia che il Signore chiamerà con un fischio la mosca che è nelle estremità dei fiumi di Egitto, e l' ape che è nel paese di Assur (1), è facile l' intendere che la mosca e l' ape qui sono due simboli e che voglia segnare il Re di Egitto e quello di Babilonia: e ciò dal sapersi la circostanza che la Giudea era collocata fra questi due Re potenti, e che erano essi i nemici più formidabili da cui aveva essa a temere. 4. Può togliersi l' incertezza del simbolo da una circostanza storica straniera a quelle di chi parla e di chi ascolta. Poniamo esser noto che la colomba era lo stemma di Babilonia: si farà chiaro con ciò che la colomba nominata nel Salmo LXVI è un simbolo di quel potente impero. 5. Può il simbolo rendersi chiaro e certo per convenzione. Se la convenzione è privata, la lingua diventa un gergo , e questo non ha mai luogo nella Scrittura. Una metafora venuta in tant' uso che si è fatta proprietà di una lingua, sicchè appena ritiene più qualità di metafora, ma corre come parola che fosse propria, giacchè non si bada quasi più al suo primo senso, egli si può dire un simbolo chiaro e palese per convenzione comune e pubblica (2). Non però è questa una convenzione al tutto arbitraria, ma è sempre fondata nella similitudine o in qualche altra relazione che passa fra il significato primitivo e proprio della parola, e quello che le fu dato traslatamente. Così nella lingua ebraica un legame materiale è simbolo di una legge, e però stringere vale il medesimo che comandare , per un traslato comunemente usato presso gli Ebrei. Nel primo libro de' Paralipomeni, ciò che la volgata traduce « praecepit Dominus Moysi » dovendosi tradurre il testo ebraico alla lettera, riuscirebbe: Iddio strinse Mosè (3). 6. Il simbolo si rende ancor chiaro per la notizia storica della sua istituzione. Dovendosi tenere il nostro discorso entro i limiti della lingua simbolica, ed essendo ordinato solo a porgere un chiaro concetto di quella lingua primitiva colla quale Iddio doveva venire istruendo il genere umano bambino, non faremo parola che della istituzione di parole simboliche. Già ne abbiamo veduta la necessità per l' uman genere bambino: ne abbiamo veduto anche il modo onde queste parole dovevano stabilirsi. Non faremo dunque qui che riassumerci, ma secondo il nostro solito non colle stesse parole colle quali abbiamo esposte tali dottrine altrove, ma dando loro un aspetto nuovo e una nuova luce. A venire a capo di ciò noi dobbiamo in primo luogo schierare sott' occhio del nostro lettore gli aiuti che prestò il linguaggio allo sviluppo della umana intelligenza. In secondo luogo sarà nostro carico il dimostrare che tali aiuti non poteva il linguaggio prestargli allo spirito se non avesse ammesso in sè stesso i simboli, e così non si fosse reso simbolico. Ecco adunque il riassunto dei diversi vantaggi che dà la parola allo spirito nel suo intellettivo sviluppamento. I. La parola: 1. completa , 2. fissa la percezione. Dico che la completa. Quando l' uomo privo d' altre idee percepisce un oggetto sussistente, egli se ne forma una cotale idea ma imperfetta. Solo quando gli pone il nome a questo oggetto percepito, la sua idea di lui è completa. La ragione di ciò si è, che la percezione è un atto molteplice dello spirito, cioè composto di più parti, è un prodotto di più facoltà, come il prova l' analisi di essa percezione. Ora ciò che dà unità a queste molteplici operazioni dello spirito, ciò che unisce quelle varie parti è un segno a cui se le attacca. Questo segno, cioè la parola, acquista virtù per una cotale associazione di risvegliare a un tempo 1. l' imagine sensibile (materia dell' idea), 2. l' essere (sua forma) e 3. la veduta dello spirito che nell' imagine vede l' essere. Per questa parola l' essere per sè indeterminato viene meglio determinato, precisato; e lo spirito con tale guida è volto a cogliere per così dire l' oggetto reale scopo di tale operazione, e quello che viene propriamente nominato nella intenzione dello spirito col nome proprio . Dico ancora che la parola fissa la percezione. Una percezione innominata è tenue, e svanisce tosto dalla mente. Ma quando il suo oggetto ha acquistato un nome, questo nome gli lega, per così dire, le ali, e nol lascia sfuggire, il tien fermo nella presenza della mente, il richiama presente quando se ne è partito e il rende atto a poter venir colto quando si voglia dall' attenzione, che col mezzo del nome suo si rivolge a lui e il contempla e il lavora con quante riflessioni meglio gli piace. II. La parola relativamente alle idee positive , che sono il fondamento della classificazione specifica delle cose, ritiene innanzi allo spirito la specie e la richiama: il che fanno i nomi comuni . III. Relativamente alle idee negative la parola 1. fissa un sussistente nel comune , mediante la facoltà del verbo: 2. rapporta a questo sussistente esse idee, che diventano altrettante indicazioni di quel sussistente fissato nel comune, con una operazione che si può acconciamente nominare una cotale creazione intellettuale; e 3. ciò che è il più, fissa un sussistente nell' universale , il che è quanto dire sostantivizza l' ente, la verità, la giustizia e la bontà, e così ascende alla più grande e perfetta idea di Dio che a lui sia possibile di avere nel presente, congiungendosi in questa mirabile operazione il comunissimo (l' ente possibile) e il particolarissimo (il sussistente). IV Finalmente rispetto alle astrazioni generiche è la parola quella 1. che eccita la veduta dello spirito, 2. che la dirige questa veduta, e 3. che la limita e determina; senza le quali tre condizioni non potrebbe lo spirito nè muoversi, nè procedere, nè quietarsi nella visione di que' rapporti o caratteri, che costituiscono appunto la natura delle idee generiche. Veduti e classificati i vantaggi che la parola presta allo spirito nella formazione e nel perfezionamento delle idee, non ci sarà difficile d' intendere come la parola, a poter prestare sì nobili servigi, non poteva non essere stata nella prima sua istituzione simbolica. E veramente riprendiamo in mano questi vantaggi nell' ordine in cui gli abbiamo registrati; cominciamo dalla percezione, a cui corrisponde l' istituzione de' nomi proprii . Ho detto che il nome proprio che esprime l' oggetto della percezione unisce insieme diversi elementi e ne fa risultare un solo oggetto d' intelletto, e che questi elementi sono: 1. l' essere universale, 2. l' imagine o percezione sensitiva, 3. la veduta dello spirito. Ma in tutto ciò non c' è ancora la sussistenza , ed è solamente quando il nome si riferisce a un oggetto reale, individuo, sussistente, che si dice nome proprio. Pigliamo un esempio: il nome del primo uomo era un nome proprio: analizziamolo insieme, cerchiamo di scoprirne l' intima natura. Quale è dunque la natura di questo nome ADAM? Guardiamo che cosa significa: egli per sè non significa che terra , ossia soggetto composto di terra. Questo nome, dice la divina Scrittura, fu imposto da Dio ad Adamo per esprimere con esso che Adamo era stato formato dalla terra. Ma un nome che significa un oggetto composto di terra, per sè considerato, è egli un nome proprio o un nome comune ? Non più che un nome comune, poichè egli non restringe il suo significato a solo il primo uomo, ma significa egualmente qualunque oggetto composto di terra. Tanto è vero che lo stesso nome, che fu preso a dover significare il primo uomo che fu al mondo, si usa anche a significare UOMO in genere, pigliandosi nell' ebraica favella questa voce ADAM tanto come nome proprio di Adamo, quanto come nome comune della specie umana. La natura adunque degli antichissimi nomi propri è tale, che essi siano per sè veramente nomi comuni , ma che vengano appropriati a un individuo sussistente, non per la loro intrinseca natura, ma per qualche mezzo a loro estrinseco. Noi esamineremo fra poco quale possa essere questo mezzo o circostanza estrinseca che riduce un nome comune e lo coarta nella significazione di nome proprio. Intanto tornando alla nostra analisi del nome Adam diciamo, che l' oggetto da lui espresso, un composto di terra, dovendo essere un oggetto percepito dalla mente ed espresso con quel nome in quel modo appunto che la mente il concepisce, egli si compone e risulta, questo oggetto intellettivo, dei tre elementi indicati, cioè 1. dell' essere, 2. della percezione sensibile della terra, la quale si presenta al nostro senso coi suoi caratteri fisici, e 3. della veduta dello spirito, colla quale veduta questo fissa un aggregato di terra (materia) possibile a sussistere. Ma questo aggregato di terra non è indicato ancora come hic et nunc attualmente sussistente, e in tutto determinato e ristretto a una sussistenza individuale e propria. La sussistenza adunque, la quale sola dà al nome il carattere di proprio, non è compresa negli antichissimi nomi proprii, ma questi sono nomi comuni applicati a un essere sussistente e resi così suoi proprii da qualche mezzo o industria estrinseca e straniera ai nomi stessi. Qual è dunque questo mezzo, industria o circostanza, che fa capire un individuo reale e sussistente, al sentirsi pronunciare un nome comune? Questo mezzo non è sempre il medesimo: talora è un' altra voce che viene aggiunta al nome comune e che lo fa proprio attaccandolo a un individuo sussistente: talora è una tacita disposizione dello spirito di coloro che usano di quel nome. A. Dico che una voce talora ferma il nome comune a significare un individuo sussistente. Questa voce è comunemente un pronome: 1. Alcuna volta è il pronome dimostrativo questo ; ma rimanendo un tal pronome separato da esso nome comune cui determina, non ne cangia la natura. Così se io dico: quest' uomo; sebbene una tale locuzione determini il nome comune uomo a significare l' uomo che è presente e forse anco da me indicato coi cenni, o l' uomo nominato più sopra nel discorso, tuttavia il vocabolo uomo resta nome comune che fa, solo per quel caso, l' ufficio che farebbe il proprio; 2. Più spesso fan proprii i nomi comuni nelle lingue antichissime i pronomi personali che si affiggono al nome comune e fanno con esso lui un solo vocabolo. Per non prendere gli esempi se non dalla lingua ebraica, molti sono i nomi a cui è affisso dal loro istitutore il pronome possessivo mio : così Rachele impose a Beniamino, il cui parto difficile la fece morire, il nome di BEN7ON7I, che vuol dire figlio del mio dolore (1). Il nome che aveva Sara prima che Iddio glielo mutasse, era SARA7I, cioè signora mia (2). Il nome ISA7I, vuol dire mio uomo (3). A Dio stesso per dargli un nome proprio e contraddistinguerlo dagli dei degli idolatri, talora da chi lo invocava si aggiungeva il pronome possessivo mio , come in Adona7i Signor mio (1); e in quella appellazione che gli diede Agar, quando ebbe la visione nella solitudine, che li nominò il Dio che vede me (2). Egli è manifesto che per quel primo che impone un tal nome, esso nome ha forza di proprio, perchè determina una relazione unica e stabile dell' oggetto nominato colla persona che il nomina, e però quell' oggetto non può esser più vago nè accomunarsi ad altro, che a quella cosa sussistente che ha la relazione indicata coll' imponitore del nome. Ma per gli altri uomini in che maniera quel nome conserverà la vece e l' ufficio di nome proprio? (3). Non [in] altra certamente che in virtù della memoria che dura dalla prima sua istituzione: sicchè anche un nome così determinato dal pronome possessivo mio , per conservarsi nel suo vigore di nome proprio, ha bisogno che per tale passi a esser ricevuto dal comune degli uomini. 3 Talora il nome comune prende la forza di proprio dall' aggiungervi che vi si fa un nome per proprio antecedentemente ricevuto. Così dicendo il Dio di Abramo, è il nome proprio di Abramo che determina a far l' ufficio di proprio il nome comune di Dio. B. La seconda maniera, onde un nome per sè stesso comune si fa correre per proprio, è una tacita disposizione e operazione dello spirito di chi parla e di chi ascolta (la quale operazione appartiene alla facoltà del verbo) per la quale operazione chi pronunzia od ode quel nome comune subito vi attacca l' oggetto individuale e sussistente. La sussistenza dunque non è espressa, ma viene supplita dallo spirito. Per esempio, tornando a un esempio recato avanti, nella parola Adam non è punto nè poco espressa la sussistenza individua del primo uomo che fu; e pure al suono di questo nome tosto si presenta allo spirito non già solo le qualità comuni di ciò che è terra, suo vero significato, non già solo l' uomo in genere, nella quale prima restrizione di significato lo spirito aggiunge qualche cosa da sè; ma sì bene il primo padre di tutta l' umana specie, che è la restrizione somma del senso che può ricevere quel vocabolo, restrizione che da comune il rende al tutto proprio. Questa operazione che fa lo spirito colla quale all' udire un suono intende più di quello che il suono esprime, si opera non per la virtù che quel suono ha come segno, la quale virtù non si potrebbe estendere oltre la cosa significata, ma per una associazione fra la cosa significata da quel suono e la cosa supplita dallo spirito (4). La cosa non è nuova nella lingua. Non si deve credere che la lingua esprima tutto ciò che noi intendiamo per essa: vi ha un' infinità di cose che sono supplite dallo spirito di quelli che parlano e che ascoltano, e che non sono punto segnate coi suoni. Sarebbe lungo l' entrare in questa materia per altro molto importante a essere trattata in una filosofia delle lingue. Noi osserveremo solo che questi sottointendimenti sono specialmente innumerevoli nelle lingue antichissime, e si può in generale stabilire questo principio che i primi uomini esprimevano il menomo possibile di quanto bisognava perchè i loro sensi fossero intesi. Mi rimetto intorno a ciò al trattato delle elissi e delle reticenze che si trova nei grammatici. E dico, ora che cosa è che induce lo spirito nostro a supplire nel nome comune la sussistenza individuale , sicchè noi veggiamo il particolare nel comune? Ciò nasce da molte cagioni: ma la principale è certamente l' uso positivo della lingua da noi appresa fin dall' infanzia, il che è quanto dire la primitiva istituzione del nome passata di padre in figlio, di bocca in bocca fino a noi. Fin qui ancora non apparisce la necessità de' simboli, ma quello che abbiamo detto ci lastrica la via di giungere a conoscere questa necessità. Intanto si può conchiudere da ciò che abbiamo detto che in questa specie di nomi il comune si congiunge e lega col proprio e si fa servire come di segno a dover segnare questo proprio sussistente. Andiamo innanzi. Questa idea comune che risveglia in noi la persuasione della sussistenza di un oggetto, quanto si estende ella? E` una idea specifica o generica? Ella è una idea specifica . Questo ha bisogno di spiegazione. Quando noi percepiamo coi sensi un oggetto sensibile, non percipiamo mica tutta la natura e proprietà di quell' oggetto: no, è vero che noi crediamo di averlo percepito tutto e fedelmente; questo è un errore comune (1). In quella vece noi non abbiamo percepito dell' oggetto se non quel tanto che la capacità del nostro senso fu atta a ricevere, e in un modo al tutto conformato, per non dire sformato, alla qualità del senso medesimo. Di più fra le varie sensazioni che noi riceviamo da un oggetto medesimo all' atto della sua percezione e delle quali l' intero della percezione stessa si compone e risulta, ve ne ha solitamente una che primeggia sull' altre, che più ci colpisce e tira tutta a sè la nostra attenzione: e suol essere quella a cui rivolgiamo il nome che imponiamo all' oggetto. Così a ragione di esempio, nella percezione del sole non sarà la sua grandezza, la sua forma o altra qualità quella che più ci muove, ma l' acutezza della sua luce. Indi denominandolo, il sole non sarà già chiamato cosa rotonda o con altro nome, ma sì bene cosa ossia oggetto luminoso. Nella percezione del firmamento l' uomo non sarà già ferito tanto dal suo colore quanto dalla sua estensione; il firmamento sarà quindi nominato oggetto esteso, o anche semplicemente l' esteso (1). Qui pertanto si vede che il fondamento de' primi nomi proprii doveva essere una qualità sensibile, quella che nei diversi oggetti spiccava fuori dell' altre (2). Ora che idea è quella di una qualità sensibile? ella è una idea specifica accidentale. Ma non come accidente si poteva prendere dall' uomo questa qualità: l' uomo era costretto dall' indole della sua mente di sostantivare la sua percezione: quella qualità dunque veniva sostantivata, presa come una sostanza. Tale concetto appunto è ciò che dà queste denominazioni, il luminoso, l' esteso. Questi nomi che in latino riescono neutri, equivalgono a dire una sostanza luminosa, una sostanza estesa. Tali erano i nomi comuni che in origine servivano per nomi proprii in virtù dell' istituzione e dell' uso. Or si consideri la differenza che passa fra le idee significate da questi vocaboli l' esteso e l' estensione, il luminoso e la luce o luminosità (3). Si vedrà assai agevolmente che l' estensione e la luminosità sono pure astrazioni: all' incontro l' esteso e il luminoso sono astratti sostantivati. Ora questi astratti sostantivati sono il primo passo che fa lo spirito umano onde pervenire alle astrazioni. Sebbene gli astratti sostantivati sieno più complessi e le pure astrazioni più semplici, tuttavia lo spirito umano si forma prima quelli che queste. E la ragione di ciò si è che lo stesso spirito umano è un complesso di facoltà, non una sola facoltà; per ciò i primi passi dello spirito sono complessi, operando più facoltà insieme; e i semplici sono gli ultimi. Ciò che dico non è una pura conghiettura, ma un fatto. Mi appello a coloro che conoscono le lingue antiche nelle quali si vede un' abbondanza straordinaria di astratti sostantivati posti in luogo di astratti puri. A ragion di esempio nella ebrea, in quel luogo del Genesi, in cui la Volgata dice che la terra era inane e vuota (4); altri tradussero che era inanità e nullità (5). Ma l' Ebreo dice all' incontro coll' astratto sostantivato, che era « l' inane e il vuoto« (6). » Isaia dice secondo la Volgata che « il Signor Iddio verrà nella fortezza« (7); » ma l' Ebreo dice all' incontro « veniet in forti «. » Nel salmo CXVIII (137), si dicono retti i giudizii del Signore, ma l' Ebreo lo esprime coll' astratto, che noi tradurremmo « i giudizii del Signore sono rettitudine«: » ma la lettera dell' Ebreo sostantiva l' astratto di rettitudine come il latino direbbe neutralmente rectum , cosa retta. E ad ogni piè sospinto si trovano di tali esempi nelle lingue tutte più vetuste. I due ultimi esempi che ho recati non sono astrazioni specifiche sostantivate, ma sì bene generiche; e li ho addotti perchè si veda che lo spirito umano sostantiva non solo la specie ma anco il genere, quando a questo è pervenuto. Ma questa osservazione sia toccata di passaggio. Ritorniamo al filo del nostro ragionamento. Gli uomini primitivi nominavan dunque gli oggetti sensibili e sussistenti con de' veri nomi comuni, i quali diventavano in tal modo proprii nello spaccio che avevano; sicchè« l' esteso« era il nome proprio del cielo,« il luminoso« era il nome proprio del sole, e così via. Ma lo spirito umano non potea fermarsi in ciò, egli avea bisogno altresì di astrazioni pure, di nomi che fossero puramente comuni e non proprii. Ora che avvenne? quel che dovea avvenire, cioè che essendo avvezzi gli uomini a dare il nome di« esteso« al firmamento, di« luminoso« al sole, non si poteano poi applicar questi nomi comuni ad altri oggetti senza che venisse in mente, a chi li usava, il sole, il firmamento, ecc., il che è quanto dire, stante l' accettazione universale di questi nomi per proprii, che tutte le cose solennemente luminose si chiamavano soli, tutte le cose estese e grandi si chiamavano firmamento, ecc.: o sia, che è il medesimo, che il firmamento divenne« il simbolo« dell' estensione, il sole della luminosità, e così via. In tal modo gli astratti puri che sono idee insensibili furono concepiti nelle menti degli uomini mediante altrettanti loro« simboli« che mirabilmente aiutavano la mente a dar corpo per così dire e sostanza a tali idee. Così l' istituzione de' simboli ebbe origine dalla natura stessa e dalla prima istituzione della lingua primitiva. Ed egli è evidente che se« i simboli« aiutarono in tal modo lo spirito umano alla formazione degli astratti puri, molto più il dovettero aiutare alla formazione delle idee negative di Dio e degli spiriti trascendenti. Concludiamo da tutto questo discorso che la lingua primitiva doveva esser simbolica, e che questi simboli aveano la chiara loro intelligenza dalla notizia tradizionale della loro istituzione, che trapassava di generazione in generazione coll' uso della lingua stessa (1). 7 Finalmente v' ha un' altra via onde il simbolo si rende determinato e chiaro, e questa è il complesso armonico di più simboli insieme presi. Quella ambiguità e incertezza che avrebbe un simbolo solo preso isolatamente viene levata da degli altri simboli che insieme con lui si presentano nel discorso. Conviene però qui osservare che se si tratta di effigiare in questo complesso di simboli un avvenimento futuro, esso può rimanersi nell' oscurità fino a tanto che non riceve luce dall' avvenimento medesimo, e ciò non già perchè egli non valga ad esprimere quell' avvenimento nel modo il più fedele e preciso; ma perchè non può necessariamente che rappresentarlo in alcuni suoi termini ed estremi senza potere metterne sott' occhio il nesso. Il medesimo avviene in quelle profezie nelle quali si predicono gli avvenimenti descrivendoli dalle loro circostanze, le quali insieme prese non possono convenire che a quegli eventi predetti, ma che prima di vederle avverate sembrano fino inconciliabili fra di loro. E chi poteva a ragion d' esempio trovare prima dell' avvenimento il nesso fra quelle due profezie sopra Sedecia (1): delle quali l' una diceva che non avrebbe veduto Babilonia, e l' altra che Nabucodonosor non l' avrebbe ucciso ma l' avrebbe condotto in Babilonia? Il fatto mostrò come tali predizioni si conciliavano quando Sedecia non fu ucciso ma accecato, ed entrò in Babilonia senza vederla. Così parimente come conciliare queste tre predizioni sopra il Messia: l' una diceva che sarebbe stato chiamato Nazareno, l' altra che sarebbe nato in Betlemme, la terza che Iddio l' avrebbe fatto venir dall' Egitto? Il fatto è che nato in Betlemme per puro accidente fu ritenuto esser di Nazaret patria dei suoi abitatori (sic) e dov' egli pure condusse con essi molta parte della sua vita, e che fuggito ancor tenerello in Egitto di là fu chiamato da Dio nella Giudea. Da tutto quello che abbiamo detto si può intendere facilmente che la lingua simbolica istituita a principio non può essere stata al tutto stazionaria; ella dee avere avuto un progresso, dee avere sofferto delle vicissitudini. E` ciò una conseguenza della natura dell' uomo inclinata a trovar nuovi simboli di paro che a trovar nuove idee; come pure a ciò si presta la natura di un simbolo stesso che può passare dal significare uno al significare un altro oggetto, e l' oggetto significato dal simbolo può essere un altro simbolo egli stesso. La storia pertanto de' simboli è un argomento di ricerche erudite immense, e che sola potrebbe deciferare la storia della umanità: ma come ella non può esser a pieno trattata nell' opera presente, così pure ella non può essere proporzionata alle nostre piccole forze, nè manco al picciol tempo che ci rimane da dedicare agli studii. Noi non porremo qui pertanto se non una sola osservazione, che tocca la base che dar si dovrebbe a questa storia de' simboli. Diciamo che la base di una tale storia dovrebbe essere la simbolica primitiva, quella che veramente ebbe in parte una origine divina come abbiamo innanzi dichiarato. Questa pertanto dovrà essere la prima ricerca di chi si accinge ad una tale storia« quale fu la simbolica primitiva?« ricerca nella quale i documenti storici di tutto l' Oriente, l' antichità di tutte le nazioni, e di tutte le lingue raffrontate insieme potranno dare, come io spero, una piena luce. Trovato questo fondamento, e come regola suprema della storia indicata rimarrà a dimandare« quali furono le alterazioni che sofferì la simbolica primitiva?« che cosa fu dimenticato di lei, che cosa aggiunto, che cosa permutato? Nel qual buio reca chiarezza, siccome face luminosa che dee precedere, quella parte della filosofia delle lingue che insegna come di mano in mano l' uomo inventò i nomi e qual parte del linguaggio fu prima e qual dopo. Ne darò qui un solo esempio preso da due sole parole, cielo e terra. Io mi persuado che nella lingua primitiva il cielo e la terra fossero nominati con de' nomi comuni sostantivi, il quale è, come abbiamo veduto, il primo modo, onde gli uomini dovettero denominare le cose (2). Fu dunque il cielo denominato dall' altezza sua, la terra dalla sua bassezza in rispetto al cielo, cioè il nome proprio del cielo si fu l' alto , il nome proprio della terra si fu« il basso « (3). Fin qui de' segni istruttivi dati da Dio all' uomo dopo il peccato perchè gli fossero mezzi di perfezione. Ora ci bisogna parlare de' segni effettivi o sia de' Sacramenti; e di questi pure dobbiamo tracciare la storia, e render palese il progresso in che vennero crescendodo nelle varie età, fino a Cristo dal quale ricevettero loro intera perfezione. A tal uopo si dee prima conoscere la differenza che divide i Sacramenti che ebbero gli uomini prima della venuta e passione del Redentore, da quelli che ebbero dopo; e questa è la ricerca a cui noi ora poniam mano. La differenza de' Sacramenti si dee dedurre primieramente dal differente stato soprannaturale degli uomini pe' quali essi sono istituiti: il quale stato viene determinato dalla natura della grazia da cui sono illustrati. Conviene adunque rammentare ciò che noi abbiamo detto circa la differenza della grazia dell' antico Testamento, e quella del nuovo (1), la qual differenza noi l' abbiamo ridotta a questa parola, che l' antica grazia era deiforme , e la nuova triniforme (2). Abbiamo ancora detto che il principio della rivelazione, dietro la quale conseguitava la grazia nell' antico Testamento era il Verbo occulto, nel nuovo il Verbo manifesto (3). Al fine poi di spiegare in che maniera nell' antico Testamento il Verbo potesse essere principio della rivelazione, abbiamo fatto osservare, che ogni rivelazione si attribuisce al Verbo, come dicono i teologi, per appropriazione di parlare; il che non importa già un dire che sola la persona del Verbo operasse nelle antiche rivelazioni, le quali come opere esterne competono alla divina natura, e però a tutte e tre indistintamente le persone; ma quella maniera di parlare non viene a dire altro se non passare una cotale simiglianza o analogia fra le cose rivelate e il Verbo generato dal Padre, quasi con un pronunziare che fa l' intelletto una parola interiore. Nel che vedesi ancora come si dica rimanersi il Verbo occulto in quell' antica rivelazione, poichè ciò che si rivelava non era tanto, che bastasse a dare alle anime una, tuttochè imperfetta, percezione del Verbo. Il Verbo divino adunque era principio dell' antica rivelazione a quel modo che la parola di un precettore è principio della scienza del discepolo; similitudine che non quadra però al tutto; perocchè la parola del maestro umano è materiale e distinta dalle verità spirituali, che vede il discepolo colla sua mente. Si pensi dunque un maestro la cui parola sieno le verità stesse senz' altro segno; sicchè egli abbia virtù di presentarle immediatamente alla mente di quelli che insegna: queste verità si direbbero il principio della scienza del discepolo. Ora ciò non toglie che sotto altro aspetto si possa dire principio della scienza del discepolo anche il maestro stesso che ha virtù di comunicare quelle verità. E però nell' antico Testamento le verità comunicate interiormente allo spirito degli uomini erano il Verbo (per appropriazione); e tuttavia il maestro che comunicava queste verità era il Padre. Perciò l' essere stato nell' antico Testamento principio della rivelazione e della grazia il Verbo, non toglie punto il potersi dire anche il Padre principio di quelle antiche rivelazioni. E consideriamo un po' attentamente come il Padre fosse principio dell' antica rivelazione. Ciò che si voleva con questa era d' infondere nelle menti delle traccie, e quasi un abbozzo del Verbo: il quale abbozzo preparasse la tavola per così dire a riceverne poi a suo tempo la perfetta imagine. Or dunque il termine di questa interna operazione era il Verbo, ma il principio era il Padre. Conciossiacchè essendo il Padre quegli che genera e manda di sè il Verbo, a lui compete altresì il disegnare nelle menti le prime linee per così dire o vestigi del Verbo medesimo. Questo è ciò che viene a dir Cristo dove afferma che il Padre è quegli, che tira gli uomini a lui. « Nessuno può venire a me, se il Padre che mi ha mandato non l' avrà tirato« (1). » Non si contenta di dire semplicemente« il Padre«, ma dice« il Padre che mi ha mandato« cioè che mi ha generato e mandato altresì nelle menti coll' atto stesso che mi ha generato; esprimendo in tali parole acconciamente il modo onde il Padre tira gli uomini al Verbo, che è quello di mandare il Verbo stesso, o le traccie di lui, nelle loro intelligenze. Distinguasi adunque negli uomini due stati, in rispetto alla relazione soprannaturale con Dio; l' uno è di quelli uomini i quali conoscono già il Verbo; l' altro stato di quelli che non lo conoscono ancora, ma a ricever la cognizione e percezione di lui si dispongono. Questa disposizione vien loro a gradi pei quali l' uomo si avvicina sempre più al Verbo, di cui riceve un cotal riflesso di luce che cresce fino a che è degno di denominarsi percezione del Verbo stesso. Or dunque innanzi che questa percezione sia formata, il Verbo come tale propriamente parlando non opera in essi: il qual Verbo in essi opera tosto che in essi è formato (1). Da qual principio viene loro quel lume o più tosto quel barlume che è come l' aurora del sole che gli tien dietro? questo è appunto quel tirare che il Padre fa gli uomini al Verbo. Al Padre si attribuiscono adunque tutte le disposizioni che precedettero o che precedono la venuta del Verbo nell' uomo, e rimote e prossime. Così il Padre fu quello che mandò il Verbo al mondo nella incarnazione, e tutto il disegno di questa grande opera al Padre si attribuisce (2). Venuto poi il Verbo, il Padre cede a lui il lavoro di compir l' opera della salute umana; e questa è quella grande opera di cui sì spesso parla Cristo aver ricevuta dal Padre, [...OMISSIS...] . Dice d' essere stato mandato dal Padre: questo è quello che fece il Padre; e l' esser mandato dal Padre negli uomini è una espressione che equivale a quest' altra« il Padre trae gli uomini a me«. Dice che fu mandato perchè faccia« l' opera sua«, cioè l' opera del Padre, quell' opera che il Padre ha cominciato col mandare il Verbo negli uomini, e che perciò rettamente opera del Padre si dee nominare. Ora quest' opera che il Padre ha imposto al Figliuolo è che egli facesse conoscere agli uomini il Padre suo, perchè il Padre operando non si è reso visibile agli uomini, ai quali non ha comunicato se non le vestigia del Figlio, e il Figlio. Questa opera ricevuta a farsi dal Padre, Cristo l' annunzia in quelle parole [...OMISSIS...] . Perciò il Padre fu come uno che favella senza esser veduto. « Ciascuno che udì dal Padre e imparò, viene a me« (6). » E non dice che udì il Padre, ma che udì dal Padre; perciocchè l' uomo percepì i vestigi del Verbo nel suo spirito, ma senza conoscere il principio che glieli comunicava. Il perchè le profezie dicevano che « nessuno saprebbe onde il Cristo venisse« (1), » e Gesù dopo aver detto che chi udì e imparò dal Padre viene a lui, soggiunge: [...OMISSIS...] . L' opera adunque dell' umana santificazione nascer doveva per la comunicazione del Verbo divino, il quale dovea far conoscere agli uomini il Padre celeste pel suo sermone e pel suo spirito. Or l' uomo essendo un essere fornito di corpo, datogli per istrumento da percepire ed attingere le cognizioni di cui è privo in nascendo; conveniva che il Verbo a rendersi palese all' uomo s' incarnasse e per la via de' sensi comunicasse la sua virtù e sapienza allo spirito umano. Il Verbo incarnato fu Cristo che predicò, operò e patì per compire la grande opera commessagli dal Padre. Così la rivelazione esterna fu compita, a cui rispose il compimento dell' interna, cioè la grazia data sempre in misura di quella (3). Però l' umanità di Cristo fu il mezzo pel quale venne alle anime umane rivelato il Verbo divino, e la pienezza della grazia in lui contenuta. Laonde se l' umanità di Gesù Cristo fosse stata sempre presente agli uomini, non sarebbe bisognato l' istituire de' Sacramenti. La vista di quella santissima umanità, le sue parole, il contatto delle divine carni erano altrettanti mezzi sensibili pe' quali da Cristo poteva passare negli uomini ogni maggiore abbondanza di grazia. Al tatto delle sacratissime mani di Cristo era annessa virtù non solo di sanare tutti i morbi del corpo, ma anco quelli dell' anima, e così di « sanar tutto l' uomo intero« (4) » in corpo e in anima: le parole sue erano « spirito e vita« (5) » e il suo sermone « mondava« » l' uomo da ogni macchia di peccato (6); la vista dell' umanità sacratissima di Cristo aveva efficacia di innalzare l' anima di chi la vedeva alla cognizione e contemplazione del Verbo e per esso del Padre (1). Perciò l' umanità di G. Cristo era quel mezzo sensibile, che agendo sui sensi dell' uomo valeva soprabbondantemente a ristorarlo e santificarlo. Ma questa umanità non dovea restar sempre palese e sensibile fra gli uomini, ma da essi occultarsi; doveva ascendere alla destra del Padre (2). Era dunque necessario di lasciare al mondo qualche altro mezzo o segno sensibile, acciocchè per l' azione di cose sensibili l' uomo racquistasse la salute, e questo mezzo furono i Sacramenti. Egli è a questo che allude Gesù Cristo quando in sul partire dal mondo diceva quelle parole: « Padre Santo - fino a tanto che io era con essi, io li conservava nel nome tuo (3), » e ancora «« conservali tu nel nome tuo - santificali nella verità« (4), » attribuendo al Padre la virtù santificatrice de' Sacramenti, come fontale origine dello Spirito Santo, il quale però procedendo per via del Figlio dice che « li santifichi nella verità, » che viene a dire nel Figlio che disse «« io sono la verità« (5). » Il più augusto di questi Sacramenti è quello della Eucaristia. Per esso Gesù trovò il modo di far rimanere sopra la terra in occulto la sua sacratissima umanità nello stesso tempo che è palese in cielo in istato glorioso: e questa umanità, mediante un tal Sacramento, si trova contemporaneamente in qualsivoglia luogo del mondo e vicina a tutti gli uomini. Mentre fu visibile in terra comunicò della propria autorità e virtù a' suoi Apostoli, acciocchè potessero consecrare ed amministrare gli altri Sacramenti (6). Egli prescrisse loro l' uso di alcune parole, in virtù delle quali in suo nome e come suoi istrumenti amministrassero i Sacramenti. Determinò loro altresì l' uso di alcune materie cioè dell' acqua e dell' olio, di alcuni riti come dell' imposizione delle mani, alle quali cose debitamente adoperate aggiunse la virtù santificatrice uscente dal suo corpo (1). La sua umana presenza consacrò parimente il matrimonio in Sacramento. Perciò egregiamente S. Tommaso scrive che [...OMISSIS...] . Si chiederà, in qual maniera l' umanità di Cristo possa comunicare della virtù alla materia de' Sacramenti? Di quell' acqua o di quell' olio ch' egli toccò nel Giordano o in altra occasione mentre era su questa terra, può in qualche modo concepirsi, ma della materia che si usa nella Chiesa dopo la sua salita al cielo come si può dire altrettanto? Rispondo direttamente alla questione, che in più modi, a noi del tutto incogniti, l' umanità sacratissima di Cristo può comunicare di sua virtù all' acqua del battesimo, e all' olio della Cresima e dell' Estrema unzione; e fra questi modi non è punto assurdo, anzi egli è cosa probabile e pia, il concepire che l' umanità santissima in un modo invisibile ed ineffabile si metta al contatto con quelle materie al pronunciarsi delle parole mistiche da chi amministra il Sacramento. E qual maraviglia di ciò, se nella consecrazione del pane e del vino, avviene invisibilmente non solo il contatto dell' umanità di Cristo con quelle sostanze, ma ben anco quel fatto degno d' ogni stupore che l' umanità dell' Uomo7Dio assuma la sostanza del pane e del vino in sè e la tramuti in sè stesso? Se in questo che è il massimo de' Sacramenti l' umanità di Cristo unisce a sè sì fattamente quel cibo e quella bevanda fino a transustanziarla, quanto più è facile a credersi che l' umanità medesima di Cristo possa venire, in proferendosi delle parole, a un invisibil contatto con quelle altre sostanze, il che sarebbe pur tanto meno di quel che crediamo fermissimamente avvenire nel Sacramento eucaristico! (3). E non viene rinforzata questa opinione dall' insegnarsi comunemente nella cristiana teologia, che la facoltà del benedire e consecrare il pane eucaristico contiene in sè anche quella di amministrare i tre Sacramenti sopra toccati, e in universale la facoltà di benedire tutte le cose? Egli è poi manifesto che ne' Sacramenti dell' ordine, della penitenza e del matrimonio la virtù santificatrice della divina umanità si dee comunicare in altro modo. In questi Sacramenti non è la carne ma l' anima dell' Uomo7Dio che immediatamente opera: conciossiachè si effettuano que' Sacramenti mediante atti di potestà giudiziaria o sacerdotale, o finalmente mediante un atto di amore; e gli atti di potestà e di amore vengono dall' anima a dirittura. Egli è Cristo giudice che opera nel Sacramento della penitenza, Cristo sacerdote in quello dell' ordine, Cristo sposo nel matrimonio. Ma ci tornerà ancora il bisogno di ritoccare quanto qui vogliamo solo avere accennato. Veramente i Sacramenti della nuova legge non sono già puri elementi sensibili e materiali, ma ciò che è sensibile in essi non è che l' esterno e questo esterno in un senso assai vero potrebbesi chiamare tutto insieme la materia del Sacramento (1). Ad esso va congiunto una parte invisibile che è lo Spirito Santo, il quale veramente è la forma di tutto il Sacramento. Queste due parti l' una esterna e l' altra interna son espresse in quelle parole che Cristo disse del Battesimo: « Se alcuno non sarà rinato dall' ACQUA, e dallo SPIRITO SANTO non può entrare nel regno di Dio« (2). » Nè si contentò Cristo d' indicare con tutta distinzione queste due parti, di cui è formato il Sacramento; ma volle anche fare intendere che la parte principale ed attiva, il che è quanto dire la parte formale, in esso è propriamente lo Spirito invisibile, al che fare soggiunge: « ciò che è nato di carne è carne, e ciò che è nato di spirito è spirito« (1). » Non dice più ciò che è nato dall' acqua e dallo spirito; ma a dirittura ciò che è nato di spirito. E` dunque uopo di considerare la parte esterna e la parte interna del Sacramento, il sensibile e lo Spirito Santo, come due cose congiunte insieme in un modo ineffabile e formanti un solo Sacramento, appunto a quel modo, come innanzi dissi, dovea essere allo stato innocente del mondo congiunto Iddio colla natura e come una cosa con questa operare (2). A quella similitudine, per giovarmi di un pensiero di S. Tommaso (3), che nella favella umana opera congiuntamente qualche cosa di materiale, cioè la voce, e qualche cosa di spirituale, cioè un' intelligenza, che dirige e cagiona quella serie di suoni; sicchè la favella è una sola produzione di due cagioni, che opera congiuntamente; così anco il Sacramento risulta e dall' esterna operazione dell' uomo, e da quella interna del Santo Spirito che s' accompagna all' operazione esteriore. E questa non è, secondo la mente dell' Angelico, un solo accompagnamento (4). Ma Iddio con quel congiungersi che fa alla parte sensibile ed esteriore del Sacramento è come l' anima per così dire che avviva e avvalora essa parte materiale del Sacramento. Vero è che nella similitudine della lingua, ciò che fa intendere il significato delle parole non è solamente l' esser esse disposte e regolate dall' intelligenza che le pronunzia, ma bensì l' esser ricevute da una intelligenza che ha in sè stessa il lume della verità e la facoltà di ragionare cioè di applicare quel lume alle sensazioni (5). Sicchè nel mirabil fatto della intelligenza delle lingue, tutto il formale dell' intendere procede dal lume interno di chi intende, e le parole non sono che suoni materiali che diventano segni appunto in virtù di quel lume. Il perchè ritenendoci a questa similitudine di S. Tommaso e volendo usare il parlare teologico, la parte esterna del Sacramento non sarebbe più che una causa istrumentale e fisica, ma di quelle che operano indirettamente alla consecuzione dell' effetto (6). E questo conviene con ciò che abbiamo più sopra esposto circa il modo di operare de' Sacramenti (1). Ma se noi non usiamo la parola Sacramento a solo significare la parte esteriore di lui, ma tutto insieme essa e lo spirito che è come l' anima sua; senza alcuna esitazione noi affermeremo allora, che il Sacramento è non solo causa fisica, ma ben anco causa fisica7diretta (2). E con queste distinzioni crediamo agevole il comporre insieme i diversi pareri de' teologi cattolici, e i vari luoghi delle Scritture e de' Padri che sembrano fra loro contrari e ripugnanti. E tuttavia aggiungerò una parola su quel mirabile modo di agire della materia de' Sacramenti santificata dalla forma. Io non parlo che del pane e del vino consecrato, dell' acqua del battesimo e dell' olio della cresima e della estrema unzione. E di queste corporali sostanze o qualità domando io: in che modo esercitano esse sull' uomo quell' azione, che le rendono, come detto abbiamo, cagioni istrumentali indirette della grazia? (1) operano esse per la via delle sensazioni? Rispondo che non per la sola via delle sensazioni, ma sì bene per un principio anteriore a quello della sensazione, voglio dire pel principio della vita. Noi abbiamo veduto che la vita è qualche cosa che precede il sentire, il quale è una funzione della vita (2): abbiamo veduto ancora come il principio vitale presiede sì fattamente a tutta l' animalità, che qualsivoglia modificazione nasca in esso, l' animalità tutta si risente e modifica secondo certe leggi, il che si appalesa ne' nuovi fenomeni che, secondo certe leggi, compaiono nelle diverse facoltà e funzioni ed atti dell' essere animato. Che se la modificazione che risente il principio vitale è buona, tutto nell' animale si ristora e si rallegra: se per opposto è mala, nascono in lui variatissimi sintomi morbosi. Ora io avviso che la virtù della materia santificata ne' Sacramenti operi ineffabilmente sul principio animale; e per questa via modifichi salutarmente l' animalità, in quelle sue parti più sottili e delicate, che inservono agli istinti migliori; e indi avvenga che l' uomo cominci in questa parte ad essere acconciato e disposto all' ultima e tutta spirituale azione che contemporaneamente e congiuntamente viene operata dalla grazia. Per tal modo è bensì necessario il contatto alla valida collazione de' Sacramenti indicati, ma non è punto uopo che questo contatto generi un' avvertita sensazione. Questa maniera di operare si renderà ancora meno difficile a spiegarsi in qualche modo, quando si pensi che la comunicazione di Dio coll' uomo non avviene già mediante qualche modificazione che sostenga la natura divina, ma sì mediante una modificazione della natura umana. Perocchè Iddio è immutabile; è presente in ogni luogo, in ogni cosa. Acciocchè dunque l' uomo il percepisca, non si richiede se non che l' uomo riceva la facoltà di percepirlo; come a vedersi una luce diffusa ovunque non si addimanda se non una virtù visiva: conciassiochè ai ciechi quella luce splendente in ogni luogo parrebbe che non fosse. Si tratta dunque nella rigenerazione soprannaturale dell' uomo di dare a questo un principio di vita nuova contenente virtù di vedere Iddio presentissimo a tutte cose (1). Ora egli è meno difficile a intendere come all' uomo possa essere aggiunto questo nuovo principio vitale senza alcuna mutazione da parte di Dio, che non sia l' intendere come Dio stesso potesse essere comunicato pel veicolo dei sensi. Questa virtù o vita nuova, onde l' uomo si fa potente di vedere Iddio, verrebbe in tal modo a sussister nell' uomo in una maniera molto analoga a quella onde comincia in esso l' intelligenza. Questa, che è la facoltà di veder l' essere iniziale, viene prodotta nell' uomo all' atto della generazione in quella maniera che abbiamo altrove descritta. Ora a quella foggia che organizzandosi l' animalità dell' uomo mediante la generazione carnale vien dato a questo contemporaneo il lume dell' intelligenza, perchè la carne viva ch' egli riceve è porzione e propaggine della carne del primo uomo, a cui il lume d' intelligenza è stato affisso, così essendo stato affisso all' umanità di Gesù Cristo il lume divino o anzi Dio stesso, non è meraviglia che [a] quel contatto delle carni divine colle carni degli altri uomini questo divino lume pure si comunichi, cioè ricevano gli uomini la virtù soprannaturale di vedere Iddio, quasi, voleva dire, come un corpo riscaldato ne scalda un altro al suo contatto, o quasi come un ferro magnetizzato ne magnetizza un altro che a lui si strofina, o più veramente a quel modo che le particelle inanimate del cibo intromesse per le vie dello stomaco nei meati sottilissimi del corpo umano, ricevono per quella elaborazione e vicinanza di parti vive anch' esse la vita. La ragione poi per la quale questo discorso non si può applicare a' tre Sacramenti della penitenza, dell' ordine e del matrimonio è la seguente: Il fine essenziale al Sacramento della Penitenza è l' assoluzione da' peccati, e il sacerdote amministrandolo fa un atto di giudice. Ora un tal atto non si fa coll' applicare all' uomo alcuna medicina, ma col pronunciare la sentenza: il perchè non è bisogno d' altro in questo Sacramento che delle disposizioni del penitente, e del proferimento dell' assoluzione. Il fine essenziale al Sacramento dell' Ordine è di conferire una potestà sul corpo reale e mistico di Cristo, non di guarire o migliorare direttamente l' uomo che lo riceve. Ora la potestà viene conferita semplicemente dalla volontà di chi la possiede e ne può disporre, e può conferirla in quel modo che a lui ne pare. Ella passa dunque dal Vescovo negli ordinandi come passò da Cristo ne' Vescovi, senza bisogno che venga applicata al corpo umano alcuna sostanza medicinale per così esprimermi, se non come segno stabilito a manifestare la volontà di Cristo; dalla qual sola quella potestà si trasferisce. Finalmente il Sacramento del Matrimonio ha per fine di santificare l' amore che unisce gli uomini, e ciò si ottiene per l' imitazione dell' amore ch' ebbe Cristo verso gli uomini. Ora l' unione dell' uomo e della donna è attissima a rappresentare appunto l' indissolubile unione di Cristo colla sua Chiesa. Ora Cristo comunica appunto dell' amor suo agli sposi battezzati, che osservano nelle loro nozze quanto stabilisce la Chiesa a fine di riconoscerle per Sacramento. Conciossiachè se la Chiesa vede in quelle nozze l' imagine dell' unione sua con Cristo, anche Cristo ivi parimente la ravvisa e se ne piace, e così comunica loro della grazia del suo amore. Riepilogando tutto ciò che abbiamo detto, la perfezione della grazia non si potea comunicare agli uomini che colla comunicazione del Verbo pel quale solo potevano conoscere il Padre, e dal quale ricevere lo Spirito Santo, e quindi edificarsi nelle loro anime la rivelazione e la grazia triniforme. Ma il Verbo si dovea comunicare mediante l' umanità da lui assunta. Questa umanità assunta dal Verbo, cioè l' umanità di Cristo era piena di grazia e aveva potenza di trasfonderla negli altri, non pure perchè inabitata e retta da Dio, ma perchè coi patimenti soddisfaceva alla giustizia e pagava il debito della redenzione, e a Dio rendeva un ossequio infinito, e da lui di poter tutto in vantaggio degli uomini si meritava (1). Era ella adunque strumento acconcissimo a comunicare agli uomini la cognizione del Verbo da cui era informata, e la pienezza della grazia. Ma ciò potea fare non solo immediatamente per sè stessa quella umanità, ma comunicando altresì la stessa virtù ad ogni altra cosa sensibile (2). Ora queste comunicazioni di virtù e di santità che si riversa per così dire e travasa dal Verbo nell' umanità assunta da questa, nelle cose sensibili, materia de' Sacramenti, al proferirsi delle parole, e dalle cose nelle persone che ricevono i Sacramenti, sono altrettante azioni reali che non potevano aver luogo in modo alcuno prima della reale incarnazione di Gesù Cristo. Però degli antichi Sacramenti non si potea dire ciò, che tanto acconciamente si dice de' nuovi, cioè che per essi l' uomo S' INCORPORA a Cristo (1): la qual maniera prende luce di evidentissima verità dalla dottrina da noi esposta sul modo onde l' umanità di Cristo opera ne' Sacramenti. E perciò quelli che si chiamano Sacramenti dell' antico Testamento non potevano in alcun modo avere la virtù di quelli del nuovo, e convenevolmente sono detti da S. Paolo « elementi infermi e poveri« (2). » I Sacramenti di Cristo adunque operano nell' uomo con un' azione reale e necessaria. Conviene rammentarsi de' due principii che abbiamo stabiliti nel sistema della perfezione umana, l' uno il principio della morale naturale, e l' altro il principio della religione soprannaturale (1), quello consiste in un' idea dietro la quale opera la volontà, questo consiste in una percezione che muove istintivamente l' uomo anteriormente ad una deliberazione volontaria. La grazia de' Sacramenti è un principio antecedente alla volontà, opera nella essenza dell' anima prima che nelle potenze (2) ed è perciò che la sua azione è da parte di sè necessaria (3). Egli è per questo che S. Paolo avvisa l' uomo di non gloriarsi del suo operare, perocchè con solo questo egli non ha la salute, ma egli l' ha per l' operazione che fa in lui Cristo; il che è quanto dire che non è il principio morale che lo salva, ma il principio religioso . La potenza e la necessità con cui opera questo principio è tale, che l' atto e l' effetto suo viene paragonato alla creazione, e l' uomo che riceve una tanta azione è una nuova creatura, nel qual senso disse l' Apostolo: « Niente vale la circoncisione nè il prepuzio, ma la nuova creatura« (4), » la qual nuova creatura non si fa per alcuna morale naturale, ma per la mistica e ineffabile operazione de' Sacramenti di Cristo nell' anima di quelli che li ricevono. E nella lettera a' Romani, è l' Apostolo quasi solo inteso a dimostrare pur questo, che la morale dell' uomo è un principio insufficiente alla salute dell' uomo, che la volontà è così debole che è incapace di mantenere la legge; ma che all' uomo fa bisogno l' altro principio religioso, che opera in lui, prevenendo la sua volontà, per la potenza di Cristo, e così il fa rinascere, e l' avvalora a mantener poi anche la legge morale, sicchè tutto ciò che l' uomo può avere di salute in sè il trae dall' abbandonarsi a Cristo, o dalla fede in lui, nella sua potenza e virtù salutifera « per le opere della legge nessuna carne si giustificherà in faccia sua« (5) » perchè tutti hanno peccato e sono impotenti a mantenere la giustizia, avendo l' ingiustizia aderente a sè stessi per natura: [...OMISSIS...] . Che resta dunque a salvamento? Non la umana, ma la giustizia di Dio, cioè quella che infonde Iddio pe' Sacramenti e che ha per base la fede: [...OMISSIS...] . E sono i Sacramenti quelli che infondono la fede, di cui tante cose dice S. Paolo, massime il Battesimo, il quale è ordinato appunto a rigenerar l' uomo colla infusione dell' abito della fede (3). Or dunque, se questo è l' operare de' Sacramenti della nuova legge, se la loro è un' azione reale, se il poter fare quest' azione reale viene loro comunicato dalla reale umanità di Cristo, che restava adunque di virtù a que' riti che si chiamano Sacramenti dell' antica legge, quando Cristo non era ancora realmente venuto al mondo e non aveva patito, e perciò non potea da lui derivarsi una tanta virtù? Nessuna azione reale poteva ad essi derivarsi, come più sopra abbiam detto. Nulla di meno anche allora non mancava il mezzo della salute, ed essi stessi que' riti a ciò non poco giovavano. Se Cristo allora non era nell' ordine delle cose , poteva però essere nell' ordine delle idee ; e come dopo Cristo gli uomini sono salvati dalla sua reale azione, così avanti Cristo erano salvati, se mi è lecito così esprimermi, dalla sua azione ideale . Che cosa è l' idea di una cosa? egli è il principio della cosa (4). Cristo dunque coll' essere nelle menti degli antichi cominciava per essi ad esistere e ad operare. Il principio adunque da cui dedurre la differente virtù degli antichi e de' nuovi Sacramenti è la distinzione fra l' ordine ideale e l' ordine reale (5): gli antichi Sacramenti appartenevano al primo di questi due ordini, e i nuovi appartengono al secondo. Perciò egli basta considerare la natura del primo di questi due ordini e paragonarla colla natura del secondo a dover poter conoscere qual fosse l' indole e la virtù de' Sacramenti antichi messi a paragone de' nuovi. Come l' ordine ideale non è che un primo elemento dell' ordine reale; così gli antichi non potevano essere che primi elementi de' nuovi Sacramenti; ed è perciò che con questo nome di elementi li chiama S. Paolo (1). Per la ragione contraria, come l' ordine reale è il compimento e la perfezione dell' ordine ideale, così i nuovi Sacramenti sono il compimento e la perfezione degli antichi. E però disse S. Paolo che « la legge non avea condotto nulla a perfezione« (2). » L' idea ancora è il tipo esemplare della cosa, e perciò gli antichi Sacramenti stavano a' nuovi come la rappresentazione sta al rappresentato. Ed è questo che S. Paolo dice chiamandoli ombra delle cose future, della qual ombra il corpo è Cristo (3). L' idea non ha alcuna azione reale sull' uomo, e la grazia consiste in una azione reale (4). Gli antichi Sacramenti adunque non potevano contenere la grazia, e però S. Giovanni dice: « la legge è stata data per Mosè, ma la grazia e la verità è stata fatta per Gesù Cristo« (5). » Nelle quali parole è da osservare la proprietà di quello« è stata fatta« e non data, come la legge, indicando così l' energia e l' efficienza della grazia, a differenza della legge che si comunica in parole senza cangiar nulla nell' uomo. L' idee e la cognizione rappresentativa delle cose può aver congiunta la promessa e la predizione di esse, e quest' ufficio prestavano appunto gli antichi Sacramenti. Per ciò distinguendo gli antichi Sacramenti da quelli del nuovo S. Agostino dice: [...OMISSIS...] . A cui consuona quanto il Sommo Pontefice Eugenio IV scriveva agli Armeni: [...OMISSIS...] . Un altro ufficio, ed il più nobile, a cui furono destinati i Sacramenti dell' antica legge era di eccitare la fede nelle promesse del venturo Messia, e la certa speranza del Redentore. Al quale ufficio è acconcissimo l' ordine ideale, che rappresenta la cosa futura all' intelletto, massime s' egli sia aiutato e sorretto da imagini le quali colorano e incarnano, per così dire, le idee traducendo sotto i sensi le cose ideate. E questo appunto facevano i Sacramenti antichi, i quali nel mentre che pubblicavano continuamente le promesse rivelate dal Redentore, le fermavano e le scolpivano nelle menti. Indi nasceva o certo si manteneva, e s' avvigoriva la fede nel Cristo futuro, la brama della sua venuta, e la grande aspettazione di lui; e questo era atto della volontà meritorio; perocchè per questa fede l' uomo si riconosceva misero e bisognoso di chi il giustificasse, e si fidava di Dio e di Cristo, che avrebbe egli operata quella giustificazione, che l' uomo non potea dare a sè stesso. E l' uomo che a Dio così s' abbandonava non poteva non essere da lui sostenuto e soccorso. Ora Cristo in tal modo nelle menti degli antichi esistente in idea operava, la quale operazione è una cotale emissione del suo spirito, di cui dice S. Pietro [...OMISSIS...] . E S. Giovanni osa ancor più, e dice che « l' agnello è stato ucciso fino dall' origine del mondo« (2) » per indicare che è stata rivelata la sua morte, conosciuta, creduta, e così resa operativa a salute degli uomini. S. Paolo poi si stende nella lettera agli Ebrei (3) a lungo a mostrare come tutti gli antichi Padri ebbero ogni loro salute e virtù dalla fede, e dice che di questa fede era « autore« » Gesù, quegli stesso che ne fu anche il « consumatore« (4) »: autore della fede antica, consumatore della nuova: non che Gesù, come figliuolo dell' uomo, esistesse realmente nell' antico tempo, ma egli esistea nelle menti e nella fede, e così operava, e dirigeva le loro operazioni (5). Finalmente i Sacramenti antichi non pure giovavano a mantenere o fomentare la fede di generazione in generazione; ma in quelli che li ricevevano erano« segni protestativi« della fede già ne' loro animi concepita. Perciò dice S. Tommaso che « i Sacramenti della vecchia legge erano certe protestazioni di quella fede, in quanto significavano la passione di Cristo e i suoi effetti« (1). » Tanto più che que' Sacramenti sotto la legge di Mosè vennero da Dio comandati, sicchè inchiudevano ad un tempo un atto di fede e un atto di ubbidienza: con che divenivano condizioni a dover piacere a Dio, al quale non può piacere il disubbidiente. La salute avanti Cristo non veniva che dalla fede in Cristo. Perciò egregiamente dice l' Angelico: [...OMISSIS...] . Or se la fede nell' antico tempo era il principio della giustificazione vedesi come questa giustificazione potea seguire talora senza i Sacramenti, come presso le nazioni, talora co' Sacramenti, come presso gli Ebrei, essendo questi Sacramenti da loro richiesti da Dio per segni della loro fede (3). Di qui si vede ragione perchè in Abramo la giustificazione precedette la circoncisione; fu perchè alla circoncisione precedette la fede. V' ebbe nel santo Patriarca prima la fede, poi la giustificazione, finalmente la circoncisione suggello di quella giustificazione che aveva ottenuta per la fede. Perciò il Genesi attribuisce alla fede la giustificazione di Abramo, dicendo « Abramo credette a Dio, e gli fu riputato a giustizia« (1). » Commentando il qual passo l' Apostolo soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma questa fede che giustificava dovea essere effettiva ed operativa; chè non sarebbe stata vera fede alla parola di Dio quella che fosse disubbidiente. Perciò, dopo istituiti i Sacramenti come atti protestativi della fede, si doveano questi praticare per ubbidire a Dio che gli avea comandati e non vi potea essere vero fedele che li trascurasse. I Sacramenti adunque mettevano il suggello alla fede, e la completavano, la rendevano meritoria col renderla ubbidiente e perciò effettiva (3). Indi è che S. Giacopo attribuisce la giustificazione di Abramo alla ubbidienza, cioè alla fede ubbidiente, dicendo: [...OMISSIS...] : le quali parole fanno la dichiarazione di quelle sovra recate di S. Paolo, anzi che loro contraddire. Per tal modo i Sacramenti antichi giustificavano l' uomo non in virtù loro propria, come quelli del nuovo patto, ma della fede di quelli che li ricevevano in quanto erano atti consumativi di questa fede (5). Da tutto ciò che abbiamo detto fin qui si può raccogliere quale è la legge, secondo la quale crescer dovea la perfezione umana soprannaturale, e in che stato si trovava questa perfezione innanzi alla venuta di Cristo, in che dopo questa venuta. Ritorniamo un po' sui nostri passi, giacchè un argomento sì rilevante richiede che sia illuminato con ogni più diligente dichiarazione. Abbiamo già toccato altre volte questo vero, che« la dottrina della perfettibilità umana« come la presentano i filosofi, è in contraddizione alla dottrina cattolica. I filosofi e propriamente parlando i sofisti vogliono che« l' uman genere considerato nelle sole sue forze naturali abbia una tendenza e un movimento reale verso una sempre crescente perfezione«. La dottrina del cristianesimo all' incontro intorno alla perfettibilità della specie umana consiste ne' capi seguenti: 1. L' uomo fu creato da Dio innocente. In questo primitivo stato all' umanità presiedeva la felicissima legge della perfettibilità e l' uomo avea tanto la tendenza quanto il reale movimento incessante verso una maggior perfezione. 2. L' uomo si corruppe mediante la colpa. In questo stato di scadimento l' uomo non perdette una cotale tendenza alla perfezione, poichè questa è a lui naturale, giacchè la sua natura è come un germe destinato a svilupparsi; ma perdette il reale movimento verso la perfezione, perchè a cagione del peccato sono entrate in lui delle altre tendenze verso il male più forti di quelle verso il bene, che però isterilirono e al tutto oppressero la tendenza alla perfezione. Di più. Inserito nell' uomo un germe di corruzione più forte del germe nativo di perfezionamento, quello dovette crescere e vegetare più rigoglioso e soffocar questo, e per ciò nel genere umano corrotto, ove si considera abbandonato alle sue sole forze, secondo lo spirito della cristiana dottrina« vi ha una sterile tendenza al bene e un reale continuo movimento verso il male«, ciò che è quanto dire, che non è la legge di perfettibilità che domini, ma la legge di degradamento . S. Tommaso, questo autorevolissimo compendiatore dell' ecclesiastica tradizione, insegna in più luoghi avervi una degradazione continua dell' umana specie abbandonata a sè stessa, a cui riparare dovette Iddio, venir crescendo successivamente i lumi della sua rivelazione. Ecco uno di questi luoghi assai chiari del santo Dottore: [...OMISSIS...] . 3 L' uomo che aggravato dal peso della propria corruzione precipitava nel male fu soccorso da Dio, colla rivelazione e colla grazia. Questo elemento divino è un nuovo principio, un nuovo germe che pur egli deve svilupparsi e crescere, ed è più vigoroso dello stesso germe del male. Esso per ciò dà origine ad una« nuova legge di perfettibilità« a cui è avventuratamente soggetta non l' umanità abbandonata a sè stessa, ma solo l' umanità aiutata da Dio. Da tali verità S. Paolo deduce per corollario, che la salute e la perfezione umana è superiore alle sole forze naturali dell' uomo. Conciossiachè l' uomo avendo un principio prevalente di degradazione conosce il bene e non ha le forze di seguirlo. Per riferire compendiate le sue parole egli dice che [...OMISSIS...] . Di che avveniva che eran perduti, per giudizio lor proprio, perocchè il conoscere il vero era la condannazione del male che operavano (2). Nè più valse a salute degli uomini la legge mosaica. Poichè anche questa non faceva che dar la notizia delle cose a farsi, non la virtù di farle. Ed ora « non sono giusti appresso Dio gli uditori della legge, ma sono giustificati solo quelli che la eseguiscono« (3). » In quanto alla cognizione della presente legge, dice S. Paolo, « i Gentili avevano il lume naturale, e però erano legge a sè stessi« (4) » e mostravano talora di conoscere il bene anche ponendo alcune opere buone, o disputandone (5). Ma come non valse loro il conoscere il bene, se non a condanna maggiore, così non valse a' Giudei l' aver la legge se non ad aumento di condannazione non praticandola (6). Nè nella natura adunque, nè nella legge esterna, la quale nel suo stato di legge esterna nulla conteneva di soprannaturale, poteva l' uomo trovare virtù e forza che riparasse alla corruzione originale: egli era infermo, egli era impotente sì a seguire la ragione che ad osservare la legge, ed era fatta la sentenza « tutti quelli che senza legge peccarono, senza legge periranno, e tutti quelli che peccarono nella legge, secondo la legge saranno giudicati« (1). » Iddio adunque diceva all' uomo, che « renderà a ciascuno secondo le sue opere« (2). » Ma l' uomo per questa via di giustizia non poteva salvarsi perchè le sue opere non potevano esser buone. Il principio morale (il volontario) era guasto nell' uomo, e quinci non era da sperare salute: tutti secondo un tal principio erano rei: rei li dichiararono le divine Scritture senza eccezione da Giudei a Gentili (3). Ci voleva adunque un altro principio, argomenta S. Paolo, da cui venisse la salute umana. E questo principio qual poteva essere se non era il morale? Risponde l' Apostolo: questo principio è « la virtù di Dio che dà salute ad ognuno che crede; al Giudeo prima ed al Greco« (4). » Non la giustizia può salvar l' uomo, ma la gratuita misericordia di Dio, che salva i suoi stessi nemici. E però dice, che la « giustizia di Dio (cioè la sua santa misericordia) si è manifestata senza la legge - che questa giustizia di Dio (e non dell' uomo) si è manifestata per la fede di Gesù Cristo (la qual sola può salvare) poichè tutti peccarono e però tutti abbisognan della gloria di Dio« » che risplende in una misericordia così preveniente. E conchiude che dunque siamo « giustificati gratis per la grazia di lui per la redenzione che è in Cristo Gesù - che però l' uomo non si può gloriare menomamente« (5). » Egli reca l' esempio di Abramo, la cui giustificazione provenne anch' essa da una gratuita misericordia in conseguenza della sua fede, non per una giustizia dovuta alle sue opere. [...OMISSIS...] . Da questa frase S. Paolo argomenta che per la fede fu giustificato Abramo non perchè ciò meritasse secondo una stretta giustizia, ma per un dono della grazia di Dio. Perchè la Scrittura dice: « gli fu riputato il suo credere a giustizia«. » Quel « gli fu riputato« » viene a dire che non gli era dovuta strettamente da Dio una tale giustificazione: [...OMISSIS...] . E questa è quella beatitudine che Davidde commenda in coloro a cui furono rimesse le colpe (2): erano colpevoli, ma sono tuttavia beati perchè Iddio ha loro perdonato, e gli ha resi salvi senza loro merito di propria virtù. Se la giustificazione di Abramo fosse stata dovuta per giustizia, la Scrittura l' ascriverebbe alle sue buone opere; ma nulla di ciò; l' ascrive tutta alla sua fede, senza le opere. Ella dunque fu e non poteva essere che gratuita (3). Ma per un' altra ragione, secondo l' Apostolo, era necessario il principio extra7morale, oltre per quella della impotenza dell' uomo ad operare il bene. Quando anco le forze morali dell' uomo fossero intere, egli non avrebbe potuto eseguire una perfetta giustizia, che al tutto il salvasse. Rimaneva certo intatto il principio della giustizia; perocchè Iddio è giusto [...OMISSIS...] . Ma che? qual è il codice, secondo il quale si dee giudicare e distinguere quelli che operano il bene? quelli che operano il male? forse la legge naturale? forse la sola legge mosaica? No, dice S. Paolo; ma l' Evangelio: [...OMISSIS...] . Alla somma giustizia e perfezione di Dio partiene di giudicare secondo una legge perfetta; ma la legge naturale non è che incipiente, la legge mosaica non è che legale. La legge perfetta è una legge interiore e soprannaturale a cui non giungono le forze della volontà naturale, se non sorrette dalla grazia. Egli è dunque questo principio extra7volontario in ogni caso necessario alla salute dell' uomo. Forse, dice S. Paolo, che Iddio non renda giustizia ai Gentili se fanno il bene? se mostrano l' opera della legge scritta nei loro cuori? (1). No; ma questo preteso bene che fanno dee subire la prova del giudizio divino, che sarà fatto secondo la legge perfetta. Forse che Iddio non rende giustizia agli Ebrei che operano le loro cerimonie? No; ma la circoncisione anzi giova, purchè « vi sia la condizione aggiunta che osservi la legge« (2). » E che questa legge sia non la lettera, ma veramente « le giustizie della legge« (3)« la consumazione o perfezione della legge« (4),« la legge spirituale«, » che è il carattere della legge evangelica. Perocchè non è vero Giudeo quegli che è tale al di fuori, nè vera circoncisione quella« che è al di fuori nella carne; [...OMISSIS...] . Tutte le opere dell' uomo non arrivano a tanto, se Iddio stesso non solleva l' uomo a quest' ordine di perfezione. Perciò quando anco « Abramo fosse giustificato in virtù delle opere sue, che potrebbe esser ciò? avrebbe gloria, ma non presso Dio« (6). » Avrebbe potuto soddisfare gli uomini, che giudicano con una norma imperfetta, quale è il lume della ragion naturale; ma non avrebbe mai soddisfatto Dio, il qual giudica con una norma perfetta, col lume del suo Verbo, nel Vangelo fatto a noi manifesto. Ogni operazione umana adunque qualunque ella possa essere, rimansi imperfetta, e incapace di giustificare pienamente l' uomo nel divino cospetto; e non havvi altro fonte perciò di salvamento se non l' operazione di Dio stesso; sì fattamente che il solo Dio sia in ultimo glorificato. Ora se questo è l' ordine dell' umano salvamento e perfezionamento; se questo non si può ottenere se non per quella via che umilii l' uomo, e Dio solo esalti; qual sarà quella strada legittima che a tanto lieto fine ci scorga? forse quella de' fatti nostri? non già, ma quella della fede nella sua misericordia: [...OMISSIS...] . A questa dunque dee l' uomo ripararsi come a solo asilo di suo salvamento. Ma forse che facendo dipendere la salute umana da un principio estraneo all' umana volontà (1), si viene con ciò ad escludere l' uso di quella potenza e però l' esercizio delle buone opere? Non già, dice l' Apostolo, perchè il principio extra7morale, che è la virtù di Dio ed aiuta l' uomo credente, opera anzi sulla volontà e la fortifica, la rende capace di adempire la legge, che prima non era. [...OMISSIS...] . Ella è questa efficacia operativa della fede che S. Paolo chiama ora « giustizia della fede (4) » ora «« obbedienza della fede« (5). » Ed egli pare che l' ordine della giustificazione e santificazione dell' uomo secondo S. Paolo fosse il seguente: Cominciò l' uomo negli antichi tempi dopo il peccato a prestare a Dio una fede che almeno in quanto alla sua materia era naturale, cioè aveva per oggetti cose di questo mondo, e non invisibili e soprannaturali. Ora questa fede è al tutto sproporzionata al prezzo della santità giacchè quella è di cosa naturale, questa è soprannaturale. Iddio non di meno concedette all' uomo la giustificazione in vista di quella sua fede; ma non gliela potea concedere per giustizia, sì bene per pura grazia senza verun merito precedente (1). E veramente la fede di Abramo a bel principio fu di cosa naturale, cioè egli credette alla paternità promessagli contro tutte le apparenze umane quando il suo corpo era spento per poco e mezzo morta la vulva di Sara« per estrema vecchiezza«: e tenne tuttavia per fermissimo che quello che Iddio prometteva egli poteva ancora mantenere. Non ebbe adunque per oggetto di sua fede la divina santità, ma la divina potenza: [...OMISSIS...] e questa in cosa della presente vita « quale è un' amplissima discendenza, e perciò, dice l' Apostolo, gli fu riputato a giustizia« (3) » non secondo il debito ma secondo la grazia. Così avvenne la giustificazione gratuita di Abramo e degli antichi Santi. Ma come una grazia ne trae seco un' altra, così dopo avere Iddio giustificato Abramo, strinse con lui un' alleanza, la quale era una ripruova della giustificazione ottenuta da Abramo. Conciossiachè Iddio non fa alleanza se non co' giusti, come dicono le Scritture. Inoltre gli dà la circoncisione per segnacolo non meno di questa alleanza (4), che della giustificazione donatagli (5). Per conseguente di ciò avvenne in quinto luogo che Iddio consegnasse alla famiglia del Patriarca le sue rivelazioni: dicendo S. Paolo [...OMISSIS...] . Ora questi eloquii divini costituivano una materia soprannaturale alla fede, e così questa fede diveniva soprannaturale per cagione della sua stessa materia; ed ella si disviluppava, e rendeva sempre più esplicita, più che veniva crescendo il lume della rivelazione, cioè più che si veniva rivelando e svolgendo la gran tela dell' economia della umana salute e deificazione. Conviene adunque nel progresso della perfezione religiosa dell' uomo distinguere due fedi, l' una che precede la giustificazione, l' altra che la sussegue; l' una che ha per sua materia oggetti di questa vita, l' altra che ha per sua materia« gli eloquii divini « cioè le rivelazioni intorno alla comunicazione spirituale della divinità coll' uomo. Colla giustificazione comincia propriamente la grazia, anzi la giustificazione stessa è la prima grazia abituale e stabile; e questa grazia vien crescendo di mano in mano col crescere delle rivelazioni, e fa crescer la fede alle medesime. Ma giova ancora un po' più addentro ricercare la natura di questa fede, donata agli uomini da Dio medesimo colla sua grazia, e vedere in quale stato ella trovar si dovesse ne' giusti dell' antico Testamento. Già abbiamo distinta la reale comunicazione che fa Iddio di sè stesso all' uomo, dagli effetti o doni ch' egli produce nell' uomo senza tuttavia comunicare sè medesimo (3). E veramente altra cosa è che un agente produca un effetto restando egli stesso nascosto, e altro è che l' agente stesso si mostri operante. Colui che, stando dietro ad una tela o ad un muro, in virtù di certe sue macchinette fa comparire su questa tela o su quella scena qualsivogliano diverse rappresentazioni di figure che variamente si muovono; questi produce e dà vedere al di fuori i suoi effetti, ma sè stesso ancora non appalesa. Vero è che da questi effetti si può conghietturare e in alcun modo conoscere il giocoliere nascosto, il qual pure non si percepisce. Così parimente è a dirsi delle operazioni divine negli animi degli uomini. In alcune di esse Iddio produce mirabili effetti, senza però comunicare realmente e pienamente sè medesimo, in alcune altre dà sè medesimo a percepire. Nelle prime operazioni si può però ascendere coll' argomento della mente ad una causa al tutto divina, apparendo l' effetto così eccellente o difficile a prodursi, che nessuna causa finita il potrebbe. Ora la reale e piena manifestazione e comunicazione che Dio fece di sè agli uomini fu solo nella incarnazione (1). Prima di Cristo adunque vi aveano bensì delle operazioni divine nelle anime degli uomini, degli effetti e doni di Dio, ma Dio stesso non era ancora sostanzialmente e pienamente comunicato all' umanità. Nulla di meno Iddio7incarnato veniva rivelato. E questa ideale comunicazione di Dio era quella, che veniva dalla grazia illustrata e vivificata. Ma questa era una comunicazione tenuissima e al tutto iniziale; senza il lume della grazia poi era impossibile cosa che fosse intesa perocchè Iddio non si può intendere per via di sole idee (2), ma per atto di percezione. Nulla di meno l' ideale concetto unito alla grazia, che è una virtù reale, diede agli uomini una idea7percezione; o sia una tenue iniziale percezione della divinità, sì che non abbiamo dubitato di chiamare anche quella grazia dell' Antico Testamento deiforme . Questa idea7percezione di Dio e di Dio7Uomo era la materia della fede soprannaturale dell' antico Testamento (3). Conviene considerare attentamente la diversa maniera onde Iddio operava nell' uomo in antico, e quella onde Iddio opera dopo la unione ipostatica di Dio coll' umana natura in Cristo. Nell' antico Testamento tutta l' operazione di Dio nell' uomo era mentale , ma nel nuovo non opera per la sola via della mente, ma sì bene anche per la via della natura sensibile, perchè essendosi il Verbo fatto carne, la sua sacratissima umanità è divenuta istrumento atto ad operare anche sulla corporea natura degli uomini e purificar questa e santificarla a quella guisa che abbiamo dichiarato poc' anzi, sottraendola massimamente dalla potestà de' demoni (4). Ora la natura umana è cotalmente ordinata che riceve per gli organi vitali e sensitivi la materia delle cognizioni. Non essendoci adunque prima della venuta di Cristo una operazione per la quale Iddio si facesse sentire all' anima dell' uomo per la via dell' animalità, conveniva che tutta quell' idea di Dio, che formava come abbiam detto la materia della fede nell' antico Testamento, fosse negativa, e che la percezione che vi aggiungeva la grazia, non in altro consistesse se non in una cotale energia divina data a quella idea sebbene di forma puramente negativa. Di che apparisce via meglio come si potesse chiamare deiforme quella percezione; cioè non punto per ciò che rappresentava (essendo al tutto negativa l' idea), ma per la forza o energia da cui era accompagnata, il che spiega medesimamente come ciò che si comunicava nella rappresentazione non tanto dir si potesse Iddio medesimo immediatamente, ma un suo effetto, un suo dono (1). Si distingua adunque nella materia della fede dell' antico Testamento la parte rappresentativa dall' energia annessa. Quella prima parte era veramente nulla, perchè le idee negative non hanno rappresentazione alcuna , e per questo appunto si chiamano negative. Esse però hanno un' indicazione della cosa non rappresentata, la quale indicazione serve a determinare la cosa, unica maniera di conoscerla. Iddio e Iddio7incarnato non era rappresentato propriamente nelle anime degli antichi, ma indicato ; e questa indicazione per la virtù della grazia annessavi bastava però a dominar l' uomo; cioè l' idea negativa del Creatore potea aver tanta forza da prevalere a tutte le altre idee e percezioni (2). All' incontro nel nuovo Testamento Iddio7incarnato si è comunicato realmente e pienamente all' umana natura, e si comunica continuamente; e quindi l' anima dell' uomo ne sente e percepisce la real forma e natura, e quindi ne ha un' interna positiva rappresentazione , o intuizione. Ora il non conoscersi una cosa per sè medesima e l' aversi di lei una semplice indicazione viene a dire che quella cosa la si conosce per mezzo di altre cose da noi percepite le quali significano, simboleggiano o indicano essa cosa per una qualsivoglia relazione a noi cognita che con essa si hanno. Il perchè se di Dio7incarnato nell' antico tempo non s' aveva che quella idea negativa di cui toccammo, egli è manifesto che questa idea non poteva reggere nella mente senza quelle altre cose che fossero appunto gl' indizii di Dio, e però non senza simboli, figure e segni di ogni maniera. All' incontro nel nuovo Testamento si ha una percezione dell' uomo7Dio, e però ella è un' idea che ha corpo, è un' idea positiva; la quale può reggersi da sè, senza bisogno di quegli indizii che facevano uopo nell' antico Testamento. Questi indizii , vestigi umani, o traccie indicative di Dio e delle cose divine non fanno bisogno nel nuovo Testamento, se non per quel tanto della divina notizia, che non s' acquista per grazia ma solo per gloria. Laonde nella condizione della gloria, quando Iddio si vede e contempla al tutto svelatamente, cessa ogni simbolo ed ogni figura. [...OMISSIS...] Tre stati adunque si distinguano relativamente al bisogno de' simboli instruttivi e d' indizii: 1 quello in cui si percepisce interamente la cosa reale, nel quale cessa ogni bisogno di segni, e parlando della divina cognizione è lo stato de' comprensori; 2 quello in cui si percepisce in parte la cosa reale e in parte non si percepisce, e in questo non v' è bisogno di segni per quella parte che si percepisce, ma per l' altra che ci rimane impercetta. Tale è lo stato del' uomo in grazia nel nuovo Testamento indicato da S. Paolo in quelle parole « in parte conosciamo, e in parte profetiamo« (2) » cioè conosciamo come i Profeti dell' antico Testamento per via di figure. E poichè quella parte che noi quaggiù ignoriamo risguarda la vita futura del cielo, perciò i simboli misteriosi non si trovano nel nuovo Testamento se non nel libro dell' Apocalisse, che tratta della intera rivelazione che farà di sè Gesù Cristo, o in quegli altri luoghi nei quali a questa compiuta rivelazione di Dio, e di Cristo glorioso si accenna; 3 finalmente quello in cui la cosa reale punto nè poco si percepisce, nel quale stato i segni o indizii sono indispensabili, e senz' essi non si potrebbe avere pensiero alcuno della cosa. E questo è lo stato degli uomini dell' antico tempo, che S. Pietro chiama « luogo caliginoso« » dove non il sole ma solo splendeva la lucerna de' Profeti (3). L' antico tempo adunque era quello de' simboli o indizii della divinità, il nuovo è tempo misto, parte di percezione e parte d' indizii ; il futuro è tempo solo di percezione . Questa è la ragione per la quale venendo Cristo cadde e fu tolto quell' ammasso di riti, cerimonie e legalità che trovasi nell' antica Chiesa [...OMISSIS...] L' uomo nell' antico Testamento necessariamente dovea dunque essere legato e per così dire oppresso da un gran numero di pratiche e di simboli esterni e materiali, perchè senza di queste non potea sostenersi, e lumeggiarsi nella sua mente il concetto di Dio. Quello era un giogo, come dicono le Scritture stesse, insopportabile (2) e tuttavia necessario. Bastò poi un solo lume accresciuto nella mente dell' uomo, perchè tutto quel fascio di osservanze si rendesse inutile (3), nè più necessaria quella servile condizione; bastò che Iddio si comunicasse realmente agli uomini, il che fece il Verbo incarnandosi: indi la libertà de' cristiani; e perchè il Verbo è la stessa verità sostanziale, perciò egli disse [...OMISSIS...] Ma nel nuovo Testamento i segni prendono un altro ufficio che aver non potevano nell' antico. In questo non facevano che istruire, che sorreggere la mente a Dio; ma nel nuovo Testamento essi diventano i veicoli dell' azione reale, che il Verbo esercita su di noi e colla quale si comunicano; perocchè, come detto è, partecipano dalla reale umanità di Cristo una reale virtù di comunicarci ineffabilmente Dio medesimo. Ora poichè la fede è delle cose che non si veggono, apparisce da ciò che è detto, che il regno della fede era propriamente l' antico Testamento. Questa è la ragione perchè quel personaggio che rappresenta il Padre de' credenti (1) si trovi non nel nuovo, ma nell' antico Testamento, quando la cognizione della persona del Verbo era tutta negativa, e perciò tutta fede. Nel nuovo all' incontro regge la fede bensì, ma mista con una cotal luce « in parte veggiamo, e in parte profetiamo« (2) » come gli antichi. E tuttavia, sebbene la cognizione del Dio incarnato che venne data nell' antico Testamento fosse puramente negativa, ella però aveva un progresso ed uno sviluppamento. Questo progresso consisteva nell' aumento successivo delle indicazioni , colle quali Iddio determinava nella mente degli uomini le verità riguardanti il Dio Redentore. La prima rivelazione fu fatta subito dopo il peccato. Il demonio fu conosciuto come un essere malefico sotto l' indicazione di un serpente; Gesù Cristo sotto l' indicazione del seme della donna . La rivelazione è concepita in queste parole: Iddio dice al serpente: [...OMISSIS...] . Egli è manifesto, che con delle indicazioni al tutto naturali qui si determina degli oggetti soprannaturali. Però una tal maniera di parlare non potea mettere nelle menti degli uomini altro concetto che solo negativo di questi oggetti, quando le menti stesse non fossero interiormente illustrate colla comunicazione reale delle cose divine così indicate; il che fu fatto solo nel nuovo Testamento. Tali indicazioni di Dio Redentore crebbero di mano in mano: in Melchisedecco fu conosciuto come sacerdote, in Mosè come legislatore, in Giosuè come conquistatore, in Davidde come re; ma tutti questi personaggi erano uomini, puri uomini, ed esprimevano delle dignità appartenenti alla società umana; le quali non potevano per ciò realmente far conoscere Cristo, ma solo indicarlo ; con delle attribuzioni non uguali, o simili alle sue, ma in qualche modo analoghe. Così si sviluppava, crescendo le figure, la cognizione di Cristo; ma ella rimanevasi sempre però essenzialmente negativa. Ora in tutta l' antica legge si dee distinguere adunque: 1. le indicazioni e 2. la cosa indicata. Le prime erano materiali, esterne, naturali: ma la seconda cioè la cosa indicata, la quale era il fine di tutta la legge, era cosa spirituale, interiore principalmente, soprannaturale. Indi nasce la distinzione che fa S. Paolo fra la lettera e lo spirito della legge: la lettera conteneva le indicazioni ; ma la cosa indicata dovea cogliersi collo spirito , con un lume interno che la lettera nè conteneva in sè medesima, nè somministrava. La cosa spirituale , oggetto ultimo della legge, non essendo rappresentata ma solamente indicata , rimanevasi nell' ombra e nell' oscurità. Il percepirla era dunque impossibile nell' antico Testamento. Questa è la ragione per la quale gli Ebrei medesimi non intesero la legge nella sua profonda e spirituale verità, ma solo nella sua scorza, e per la quale dicono le Scritture ed i Padri, che l' intelligenza vera delle Scritture non si ebbe se non quando il Verbo prese carne umana [...OMISSIS...] . Cristo mostrò d' esser egli la luce che illuminava le antiche Scritture quando dopo la sua risurrezione « aprì il senso agli Apostoli a poter intendere le Scritture« (2). » S. Pietro non dubita di affermare, che gli antichi Profeti non a sè stessi, ma a' Cristiani porsero le divine rivelazioni, come a quelli che soli potevano a pieno intendere, dopo essere venuto di cielo lo Spirito Santo (3). S. Paolo attribuisce all' ignoranza dello spirito della legge l' aver gli Ebrei rifiutato il Vangelo « i quali, dice, ignorano la giustizia di Dio » (cioè la giustizia spirituale e soprannaturale che si fonda nella fede) «e la lor propria giustizia cercano di stabilire - e però alla giustizia di Dio » (che è tutto spirito) « non sono soggetti. Perocchè il fine della legge è Cristo a giustificazione di ogni credente« (4) » e però ignorando Cristo ignorano il fine e lo spirito della legge « hanno zelo ma non secondo la scienza« (5). » E perchè gli Ebrei del riputarli così ignoranti e non intelligenti della legge non si tenessero per oltraggiati, prova la loro ignoranza collo stesso Mosè. [...OMISSIS...] , cioè anteporrò i Gentili a Israello, a quelli darò più intelligenza che a questo. Ma di ciò è forse in colpa la legge, no, dice l' Apostolo, non dipendette dalla legge la materialità colla quale fu intesa; ella nel suo intimo fondo era spirituale; ma mancava il lume che scorgesse a cogliere quello scopo così alto della legge, perchè l' uomo non era ancora rinato per Cristo e resosi spirituale, ma era rozzo e materiale. [...OMISSIS...] Per questo conchiude che gli Ebrei, « andando dietro ad una legge di giustizia, non entrarono nella legge della giustizia« (3) » cioè nel Vangelo, ma rimasero al di fuori a differenza de' Gentili, i quali « non seguivano la giustizia (della legge), eppure appresero la giustizia (del Vangelo)« (4). » S. Paolo osa ancor più. Non solo la legge antica mancava della luce dello Spirito Santo (della percezione di Dio) e però lasciava l' uomo nella oscurità, non presentandogli che un corpo di precetti nudi di osservanze esterne, e di esterne temporali promesse; ma per questo suo difetto essa si rendeva anche occasione di peccati e di errori. Ella non poteva munire di esterna sanzione i peccati interiori dello spirito, come sono i mali pensieri, che Iddio solo vede e punisce. Ora questo Dio non era percepito vivamente nella sua santità, e come giudice spirituale, ma solo negativamente come un legislatore e re temporale. Sebbene adunque proibisse la legge i mali desiderii, tuttavia non valeva quella legge [a far] conoscere agli uomini la malizia e reità di questi e molto meno a far che li evitassero (5). Tanto la notizia di Dio influisce nella moralità! Gli uomini che non percepiscono vivamente quest' essere in sè stesso come invisibile e santo; non possono in alcun modo intendere a pieno l' iniquità de' peccati che si commettono col solo spirito (1). La legge mosaica adunque era incapace di dare agli uomini una tale nozione, come pure era incapace di somministrar loro nulla di perfetto nella morale; e quando ella precettava o di sfuggire le male intenzioni, o di amare i nemici, od altro tale precetto, che non si regge nell' uomo se non in virtù della percezione di Dio; ella non faceva che mettere un inciampo, una occasione di maggiormente peccare. Questo è quello che vuol dire l' Apostolo quando insegna che « non ha conosciuto il peccato se non per la legge. Perocchè io ignorava la concupiscenza se la legge non mi diceva: non volere malamente desiderare« (2); » la legge mi ha illuminato a conoscere la reità dello spirito, ma non dava forza di evitarla, e però « presane l' occasione, il peccato (cioè il fomite del peccato originale) per cagione del comandamento (che mi ha maliziato) ha operato in me ogni mal desiderio - esso toltane l' occasione dal precetto mi ha sedotto ed ucciso per mezzo della legge« (3). » Questo è il significato nel quale dice l' Apostolo che « la lettera (della legge) uccide, e lo spirito solo vivifica« (4). » In questo senso non dubita l' Apostolo di chiamare l' antica legge « legge di morte« (5) » e di esortare i Cristiani a seguirne il solo spirito colle seguenti parole: [...OMISSIS...] . I Farisei si attenevano alla lettera della legge ed è noto per ciò come da Cristo sono chiamati « ciechi e condottieri di ciechi« (1); » è noto quanti errori avevano in morale (2) e quanto a ragione Cristo ebbe a dire al popolo a cui predicava: [...OMISSIS...] . E per mostrare che quella perfezione di virtù che Cristo predicava era conseguente al lume interiore, col quale potevano conoscere Iddio per la sua grazia, dopo aver Cristo enumerati i precetti più spirituali e più perfetti conchiude richiamandoli all' imitazione appunto di suo Padre « siate voi dunque perfetti, come anche il Padre vostro celeste è perfetto« (4). » Riassumendo, la legge antica, e intendiamo con questo nome il complesso delle antiche rivelazioni, risguardava la dottrina intorno a Dio e la morale. La dottrina intorno a Dio era un complesso d' indicazioni di Dio, e nulla più. Gli uomini non avevano a quel tempo il lume ch' ebbero poscia per Cristo, col quale percepivano Dio7incarnato positivamente. Questo Dio7incarnato, in una tenebra allora, fu rivelato solo nella pienezza de' tempi quando si eseguì veramente l' incarnazione. La dottrina morale rispondeva all' imperfezione in cui era la cognizione di Dio presso gli uomini. Non avendo ricevuto lo spirito di questi la percezione di Dio, esso spirito poco era veggente, dominava il senso esteriore e non poteva l' uomo in alcun modo elevarsi a quella morale che si vede in Dio, come in un esemplare da imitare, appunto perchè questo Dio non si vedeva. Restringevasi pertanto la legge nei confini delle esteriorità, e col gran numero di queste occupava gli uomini, a intendimento d' una parte di riscuotere degli ossequii morali almeno nelle cose più gravi e più sensibili, e d' altra di tenere ben segnato nello spirito il fine occulto, e a questo diretto lo spirito, come verso un essere nascosto dietro una parete. Non mancava insieme la legge di accennare anche le cose spirituali, ma queste non avevano efficacia, come le prime, sugli uomini così rozzi come erano quelli della natura. Queste perciò restavano inadempite; e le leggi materiali erano anch' esse tante, che non giungeva mai l' uomo a pienamente osservarle. Imperfetto adunque nell' osservanza delle materialità della legge; molto più imperfetto era lo stato dell' umanità nel mantenere lo spirito di essa legge appunto proposta oscuramente e ravvolta in enimmi; ma nel nuovo è data la stessa verità: però convenne che si aggiungessero le parole che chiarissero ogni oscuro; e che da esse venisse la forza della santificazione, per significare che ogni santità nel nuovo patto procede dalla rivelazione e fede nel Verbo manifesto. E se ancora si tiene in una colle parole l' enimma del rito, egli è perchè, come dice l' Angelico seguendo le vestigia dei Padri, [...OMISSIS...] . Mediante queste considerazioni s' intendono quelle parole di Cristo, il quale dice generalmente di tutti gli antichi maestri: « Tutti, quanti vennero, sono ladri e assassini, e le pecore non li hanno uditi« (1). » Perocchè essi non davano lo spirito, e per ciò non davano la facoltà di udirli; « l' udito è per la parola di Cristo« » come dice l' Apostolo (2). All' incontro Cristo aprì gli orecchi e gli occhi spirituali degli uomini, del qual fatto erano simboli i miracoli pe' quali risanava i sordi ed i ciechi. Egli mostrò Dio in sè stesso e così dice che egli solo è la porta che conduce a Dio. [...OMISSIS...] A questa dottrina risponde quella che S. Paolo espone nella lettera a' Romani. Egli attribuisce al Battesimo e alla grazia di Cristo la reale giustificazione, e prima di questo dichiara tanto i Gentili come gli Ebrei colpevoli. [...OMISSIS...] L' Apostolo dice che gli Ebrei prima di convertirsi al Vangelo erano non solo « infermi ma empi« (1), » che Cristo è morto per essi « mentre erano ancora peccatori« (2) » e quindi non giustificati nella legge; che « essendo inimici sono stati riconciliati con Dio per la morte del suo figliuolo« (3) » e che per questa morte Cristo riparò anche a quelle colpe, a cui la legge avea data occasione (4), che solo dopo la morte reale di Cristo in una parola furono tratti di sotto la schiavitù del peccato (5) e fu compita in noi « la giustificazione della legge« (6). » Ma se nell' antico Testamento, secondo queste dottrine e sotto la legge e fuori della legge tutti gli uomini erano peccatori, i quali furono riconciliati con Dio solo allora che Cristo realmente morì, come poi in altri luoghi delle divine Scritture si afferma di Abramo e di altri personaggi che possedettero la giustificazione? In primo luogo rispondo, che nelle divine Scritture si parla di due maniere di giustificazione, l' una propria dell' antico Testamento, e l' altra propria del nuovo, e che questa del nuovo è tanto eccellente e perfetta che quando quella dell' antico Testamento si mette a petto di questa, quella perde quasi il nome di giustificazione. Quando S. Giacopo dice « Abramo nostro padre non fu egli giustificato mercè le opere?« (7), » egli parla della giustificazione dell' antico Testamento. Quando all' incontro S. Paolo, ebreo e osservatore della legge, dice di sè e de' suoi correligionari che « Cristo risorse per la loro giustificazione (.) » e che per Cristo furono «« giustificati« (9), » allora parla della giustificazione del nuovo Testamento, parla come se non fossero stati prima giustificati; per ciò come se l' antica giustificazione verso la nuova fosse nulla (1). E la ragione di questa nullità della giustificazione antica quando si mette a paragone della novella si mostrerà evidente dalle verità già per noi esposte. Gli uomini tutti erano peccatori per natura; e non potevano essere giustificati se non a patto che Iddio si riconciliasse e si unisse realmente con essi. Ora qual mezzo vi potea essere di ciò prima di Cristo? La legge mosaica non era in sè stessa che un ammasso di precetti che avevano per oggetto cose esterne, materiali, o finalmente nulla più che naturali. Questo ammasso però di cose naturali aveva un fine soprannaturale, a cui cercava di rivolgere la mente e lo spirito degli uomini, ma non mostrandolo visibile nella propria sussistenza, ma indicandolo futuro , e promettendo solo che si sarebbe conosciuto a suo tempo questo fine sublime. Questo fine adunque nella sua essenza divina rimaneva del tutto nascosto agli antichi, e pure egli solo era la loro giustificazione (2). Considerata adunque quella legge in sè stessa, nulla aveva che potesse rendere l' uomo veramente giusto; e per la sua difficoltà ad eseguirla il rendeva anzi più peccatore. Questa è la giustizia che nasce dalla legge, della quale S. Paolo mette fuor di speranza gli Ebrei, sì perchè non la poteano mai conseguire, incapaci com' erano di osservar la legge; sì perchè, anche conseguita, essa non valeva veramente a giustificarli agli occhi di Dio; ma solo tutto al più a quelli degli uomini (3). Che restava dunque ad essi? ove porre la loro speranza? essi doveano volger gli occhi al fine della legge (che era Cristo), e da questo aspettare la giustificazione e la salute. Questa è quella giustificazione che S. Paolo dice nascere non dalle opere della legge, ma dalla fede (4). Or qual sentimento involgeva la fede in Cristo degli antichi Padri? Il sentimento di credersi e di confessarsi peccatori, senza potere colle proprie forze conseguire mai la giustificazione; e tuttavia nutrire in sè la certa fiducia di venir salvati, non per proprio merito, ma gratuitamente da Gesù Cristo venturo. Dovevano adunque, dice S. Paolo, credere in Cristo come in quello che giustifica il peccatore (5). Or questo atto profondo di umiltà, questo abbandono a Dio, questa fiducia nella bontà e potenza di Cristo, era tal cosa agli occhi di Dio, che non gli permetteva di abbandonare uomini, peccatori sì ma che a lui ricorrevano, in lui pienamente si confidavano. E questo non abbandonarli di Dio era la giustificazione degli antichi (1). Ora poi, giacchè una tale giustificazione è piuttosto un' aspettazione ferma di quel Cristo che giustifica comunicando sè stesso agli uomini; egli è manifesto che ella era piuttosto una giustificazione promessa e sperata che una giustificazione attuale e presente; e quindi che ove si paragona alla giustificazione de' Cristiani , i quali hanno aderente a sè « la vita « cioè Cristo, chiamato vita nelle Scritture (2), ella non è giustificazione come la cosa promessa, non è ancora essa medesima cosa; e però rettamente le divine Scritture dicono che Cristo colla sua morte salvò e giustificò realmente anche tutti gli antichi Patriarchi (3). Conosciuta la natura della giustificazione propria dell' antico Testamento, non riesce più difficile intendere la ragione degli effetti, che alla medesima attribuisce la divina Scrittura. Parte di questi effetti risguardavano la vita presente, parte la futura. I tre principali sono poi i seguenti: Il primo si era che a que' giusti aderiva ancora lo spirito di timore e di servitù; mentre a' giusti del nuovo Testamento aderisce lo spirito di figliuolanza e di amore. Sicchè l' Apostolo a' convertiti al Vangelo dicea: [...OMISSIS...] . E la ragione di ciò si è perchè Cristo (principalmente dopo essere asceso al cielo) mandò il suo Spirito e congiunse per esso realmente gli uomini a Dio, dicendo l' Apostolo che « figliuoli di Dio sono tutti quelli che sono mossi dallo spirito di Dio« (2). » Tutto ciò s' intenderà facilmente, ove si tenga ben presente il gran principio da cui muovono tutte le nostre parole. Nell' antico Testamento Dio non era realmente comunicato agli uomini, non era percepito; ma solo indicato con delle indicazioni e segni naturali. Queste indicazioni non il luminavano l' uomo, non lo afforzavano, nol rendevano partecipe della natura divina, e però nol facevano figliuolo di Dio, nel senso del nuovo Testamento . Egli adunque non poteva essere incoraggiato dentro e rinforzato; ma veggendosi peccatore nelle tenebre, escluso dal sancta sanctorum , non potea che temere, e questo era il sentimento che dovea dominare negli antichi santi. Nel nuovo Testamento surse il sole della giustizia, illuminò, incoraggiò le menti: l' uomo si sentì pieno di Dio, e partecipe della divinità allettò in sè un amore e una confidenza di figliuolo. E` Gesù Cristo stesso che distingue la condizione servile degli Ebrei, e la condizione di amici in che erano i discepoli suoi, appunto dalla percezione data a questi di Dio ed a quelli non data. [...OMISSIS...] Ecco la condizione de' servi caratterizzata dall' ignoranza e dalle tenebre in cui i servi sono lasciati dal padrone, come avveniva appunto nell' antico Testamento. E dicendo che « il servo non sa quello che faccia il suo padrone« » accenna una cognizione dell' operare del padrone, che trasportata a Dio viene a significare la sua santità, giacchè lo spirito di Cristo fa conoscere Dio appunto come Santo, che è il suo nome solenne. Prosiegue: « voi poi ho chiamati amici; perocchè tutte quelle cose che ho udite dal Padre mio le feci note a voi« (4). » Si sa che l' udire che fa Cristo dal Padre è il proceder suo dal Padre. Il dire adunque di aver comunicato loro quanto udì dal Padre è un dire che comunicò loro la propria processione dal Padre; e questa non può venire comunicata se non per la percezione interiore. Altramente, sarebbe egli possibile che Cristo avesse comunicate a' suoi Apostoli le cose tutte per singolo udite dal Padre? e chi non sa che queste sono infinite? Ma come il Padre gliele comunicò tutte senza successione, con quell' atto solo col quale lo generò; così Cristo le comunicò pure a' suoi discepoli con quell' atto appunto col quale li generò col suo spirito; perchè nella percezione, che diede loro di sè, tutte le cose veramente si comprendono, giacchè nel Verbo divino sono le cose tutte. Il secondo effetto, o carattere dell' antica giustificazione, si fu che il regno del peccato non era però ancora interamente distrutto, e i giusti stessi soggiacevano ad una cotal servitù di esso peccato. Perciò S. Paolo agli Ebrei convertiti dice: « Il peccato non vi dominerà, perocchè non siete sotto la legge ma sotto la grazia« (1) » facendo intendere così che sotto la legge dominava il peccato. E ancora facendo il paragone dell' antico Testamento e del nuovo, ed attribuendo all' antico la legge, e al nuovo la grazia, dice: [...OMISSIS...] E tosto dopo toglie a mostrare che l' uomo del peccato visse fino alla morte di Cristo, che da Cristo fu crocifisso sulla croce, e viene crocifisso in noi nel Battesimo che ci applica il merito della passione di Cristo: [...OMISSIS...] Questa dominazione poi del peccato non importa mica che quei santi personaggi non fossero veramenti giustificati nel modo detto più sopra, cioè che non avessero una dirittura di volontà e di fede: ma importa ben altro. Quegli antichi nel loro spirito non avevano ancora la percezione di Dio, non avevano la Divinità in se stessi; questa Divinità era l' oggetto della loro fede, come cosa che doveva comunicarsi loro in futuro. Ora dalla percezione della Divinità scaturisce la nuova vita, l' uomo nuovo: da quella percezione esce la grazia onnipotente contro tutti gli assalti dell' inimico. Tutta la grazia degli antichi si riduceva ad una fermezza di volontà contro il peccato, in virtù di quella fede che non dava loro la vita ma la prometteva: questo bastava per non cadere più giù, ma non per ascendere fino a Dio; come quegli che rovinato nel profondo di una valle ombrosa e fermato sulla pendice non ha forza da ritornare alla cima del colle ove vede il sole; ma pur solo di abbrancarsi a' cespugli tenendosi sospeso fin tanto che gli viene recato conforto e tirato da quel profondo. Non essendo adunque nell' uomo Iddio dominatore colla sua propria ed essenzial luce, il peccato si poteva dire ancora regnante; perocchè non era scacciato dall' uomo realmente, ma solo in isperanza. Che poi sia il solo Verbo quegli che libera l' uomo dal dominio del peccato col comunicarsi internamente, si ha espresso in quelle parole: « Se voi vi terrete nel mio discorso, sarete miei discepoli. E conoscerete la verità (cioè il Verbo), e la verità vi libererà« (1) » dal peccato, come spiega tosto appresso (2). Laonde la giustificazione dell' antico tempo non liberava interamente dal peccato, ma avea bisogno di essere completata e perfezionata colla reale incarnazione e morte di Cristo (3). Per ciò l' Apostolo afferma che « la giustificazione della legge si completava in noi , i quali non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito« (4) » per Gesù Cristo; di che fare la legge era incapace (5); sicchè quella antica era una giustificazione quasi direbbesi in potenza ed in germe, la quale dalla reale venuta di Cristo doveva essere attuata e addotta a perfezione. E questo ci prepara la strada a dichiarare il terzo carattere ed effetto di quell' antica giustificazione. Ella nasceva tutta dalla fede. Si formava con questo sentimento che l' uomo formava dentro di sè: [...OMISSIS...] . Iddio non poteva abbandonare un tal uomo, il quale prometteva di « soddisfare non da sè, ma mediante il Redentore promesso«. » Che dunque faceva Iddio? quello che fa un creditore, a cui venga dimandato dilazione al pagamento dal suo debitore. Iddio diceva: [...OMISSIS...] . Non poteva essere più equa e benigna la sentenza: perciò gli antichi giusti non erano condannati, morendo, alla dannazione; ma sospesi nel limbo, fino a tanto che venisse colui che pagasse per essi, e comunicasse loro quel lume, quella vista di sè, che li congiungeva realmente con Dio, e gli ammetteva ad un tempo stesso alla grazia del Redentore e alla gloria. Tale era l' effetto dell' antica giustizia nascente dalla fede in Cristo venturo. Perciò S. Paolo dopo aver mostrato che la giustificazione non viene dalla legge ma dalla fede, dice che « la legge è stata posta per trasgredirla fino a tanto che venisse quel SEME a cui era stato promesso« (6). » Questa fede poi che pienamente giustifica è la fede cristiana secondo S. Paolo [...OMISSIS...] - E la Scrittura ci mostra esser serrate tutte le cose sotto « il peccato, acciocchè ciò che fu promesso si desse a quelli che credono in virtù della fede di Gesù Cristo« (1). » E ancora più manifestamente apparisce, come l' Apostolo per quella fede che salva intende quella in Cristo venuto, non essendo l' antica fede che una fiducia nella fede che doveva venire e salvare, dalle parole che sieguono: [...OMISSIS...] . La fede che dovea rivelarsi era quella di Gesù Cristo venuto. [...OMISSIS...] Perciò acconciamente dice S. Paolo, che quelle parole scritte di Abramo « che la sua fede gli fu riputata a giustizia« » non sono solamente scritte per lui, ma per noi altresì, come in quei suoi figliuoli ne' quali s' è pienamente avverata quella parola (4). Laonde come ne' Sacramenti della nuova legge (cose, azioni, parole) si possono chiamare la parte materiale del Sacramento, e l' invisibile grazia si può chiamare la parte formale (5); così nell' antica legge v' avevano pure queste due parti: ma in luogo della grazia costituiva la forma di que' Sacramenti la fede di quelli che li ricevevano e li amministravano. Dalla fede poi annessa al Sacramento nasceva la giustificazione, la quale era proporzionata alla natura di quella fede, che abbiamo descritta (6). Si può dunque dire che nel popolo peculiare sceltosi da Dio, la fede avea bisogno de' Sacramenti perchè da Dio positivamente voluti (7), e che i Sacramenti avvivati dalla fede erano concausa della giustificazione. Questa giustificazione poi abbracciava due elementi, cioè la sospensione del pagamento del debito del peccato, e l' addirizzamento della volontà. Il Sacramento avvivato dalla fede otteneva innanzi a Dio la sospensione del pagamento; ma la fede era quella che dirizzava la volontà, spingendo questa al di là di tutte le cose naturali, fino all' esser divino, sebbene in un modo implicito, sicchè era sola la punta dell' anima che a Dio volgevasi per quella fede (1). Duplice era dunque la causa operante, duplice l' effetto. La causa operante era la fede col Sacramento; l' effetto era l' addirizzamento della volontà colla sospensione dell' esigenza del debito (2). Ma poichè questo dirizzamento di volontà non avea un oggetto esplicito e positivo, ma era come l' occhio guardante bensì in dirittura del segno, ma non veggente chiaramente ancora il segno, troppo lontano, per ciò dovea la volontà umana acquistare più alti gradi di perfezione, innanzi di poter passare alla visione beatifica; e i fedeli che allora morivano non vedevano per ciò immediatamente Iddio. E questo dà ragione perchè l' effetto de' Sacramenti dell' antica legge non si possa chiamare un cotal cominciamento della futura gloria, come S. Tommaso co' Padri chiama la legge nuova (3): conciossiachè quell' effetto degli antichi Sacramenti non congiunge l' uomo immediatamente con Dio, ma lo dispone all' immediata e positiva congiunzione. Perchè Eucherio di Leone dica che i Sacramenti della nuova legge dànno la vita , che sta nella percezione di Dio, e gli antichi mostravano solo la vita (4); perchè Innocenzo III scriva la circoncisione non dare l' ingresso al regno di Dio (5); verissimo detto ove pel regno di Dio s' intenda il regno de' Santi che già percepiscono Dio; e Giovanni lo Scoto riprovi l' espressione, che la circoncisione aprisse la porta del cielo (6). L' uomo è creatura di Dio: dunque è fatto all' onore di Dio (1). Iddio è creatore dell' uomo, e non poteva avere altro fine che sè stesso nella creazione: « tutte cose, dice la Scrittura, il Signore le ha operate per sè« (2). » L' uomo dunque è ordinato al divino servizio. La legge evangelica, che è la morale nella sua più alta perfezione, riduce tutti i doveri alla carità di Dio, nel qual nome di carità ella comprende ogni servigio e ogni amore. E lo stesso amore del prossimo il fa venire come un ramo dal pedale del divino amore: imponendo all' uomo che di tutte sue potenze ami il Signore, ella non lascia in libertà dell' uomo cosa alcuna dell' uomo, ma ogni suo elemento, per così dire, il consacra al divino culto. Di più, il divino culto nella perfezione della morale evangelica va preferito alla stessa vita; e quando la distruzione di questa possa accrescere a Dio onore e culto, anch' essa dee essere sacrificata. Indi l' origine de' sacrificii: indi il sacrificio accettevole, onde Cristo immolò sè stesso all' eterno Padre. Ogni cristiano è chiamato dietro a Cristo: e però ogni cristiano, colla disposizione almeno di sua volontà, dee aver sacrificato sè stesso: [...OMISSIS...] . Ora se chi sacrifica è sacerdote; la perfezione della morale evangelica importa che ogni cristiano sia sacerdote come fu Cristo, e tal sacerdote che abbia la vittima in sè medesimo (5). Nello stato d' innocenza l' uomo aveva questo spirito sacerdotale. La chiarezza di sua ragione gli mostrava che tutto doveva a Dio, e che in servire e glorificare il suo Creatore si conteneva tutta la sua morale perfezione. La rettitudine di sua volontà, la grazia che la confortava aggiungendole forze divine, avrebbe disposto l' uomo a sacrificare effettivamente sè stesso per la causa dell' onore e del culto di Dio, ove ne fosse stato bisogno. E sebbene questo bisogno non si sarebbe forse avverato, tuttavia non sarebbe mancato quella perfetta disposizione di animo per la quale il santo uomo ama più Dio di sè stesso. In tale stato non era uopo che fra Dio e l' uomo seguisse un cotal contratto positivo ed esterno, pel quale questi promettesse a Dio di servirlo fedele, e Dio gli promettesse proteggerlo. La cosa andava da sè: i rapporti della creatura e del Creatore eran chiari, manifestissimi: nè poteva dar materia ad alcuna convenzione, conciossiachè questa è inutile, ove la natura delle cose parla chiaro e di forza. Ma la mente oscurata dell' uomo peccatore, e il cuore corrotto non sapea legger più distintamente il dettato della ragione, nè udire quanto la natura e la grazia favellavano: disconobbe l' uomo il suo dovere, smarrì di vista il bene morale, cercando sua perfezione e sua grandezza nel fisico e nell' intellettuale; allora ignorò quanto doveva a Dio: e per riannodare la sua corrispondenza col Creatore, fu bisogno che intervenisse un contratto positivo mediante il quale gli si ricordasse ciò che avea tanto obbrobriosamente dimenticato, cioè che egli esisteva pel culto e per l' onore di Dio. In tal modo venìa riseminata nell' uomo la morale e la stessa perfezione della morale, che nasce da Dio comunicante coll' uomo. Per un' altra ragione poi rendevasi necessario un contratto positivo fra Dio e l' uomo dopo il peccato. La coscienza dell' uomo mostravagli dover essere Iddio irato a lui peccatore, e Dio stesso gliel fece conoscere da principio con positive rivelazioni. L' adito adunque a Dio per l' uomo era chiuso. Come poteva questi riavvicinarsi al Creatore, se Dio stesso non gli faceva conoscere di voler deporre lo sdegno, entrando così in qualche trattativa coll' uomo? E rinnovandosi l' alleanza fra il Creatore irato e la creatura colpevole, questa non potea essere che positiva, dipendendo da un atto non necessario ma gratuito della divina Misericorda di tornar l' uomo nel divino favore. Però la prima alleanza espressa che nelle divine Scritture si rammenta è quella fatta in occasione del diluvio colla quale Iddio, vendicatosi dell' umanità pervertita, rassicura la famiglia di Noè e con essa stringe alleanza: [...OMISSIS...] . Ecco il patto positivo di Dio coll' uomo, occasionato dall' infrazione del patto naturale. Ora un contratto positivo in cui entri l' uomo, conviene che abbia delle forme esterne che lo manifestino. Vi dee essere altresì un segno durevole di questo patto, acciocchè gli uomini se ne possano ricordare col venir loro, o tener sott' occhio, quel segno. E però del patto che Iddio strinse con Noè, pose Iddio questo segno: [...OMISSIS...] . Cotal segno dovea ricordare continuamente all' uomo i suoi doveri verso Dio e la stretta alleanza. E perchè efficacemente parlasse e giovasse al disegno della Provvidenza di venir crescendo fra gli uomini la apprensione della verità e la perfezione morale, dovea quel segno essere acconcio allo stato intellettuale dell' uman genere, e però col variare di questo stato doveva variare altresì quel segno e le forme onde il patto fra Dio e l' uomo si rivestiva. Diamo un cenno dello sviluppamento della umanità, al quale Iddio temperava quella sua amorevole provvidenza, onde conduceva l' uomo alla santità. Lo sviluppamento dell' uomo può considerarsi secondo le mutazioni che subiscono le facoltà dell' uomo in ciascun individuo, e secondo i rapporti sociali. Lo stato di ciascun individuo si sviluppa di mano in mano in tutte le parti seguenti: 1. Le facoltà dell' uomo a principio operano tutte simultaneamente, purchè abbiano materia ed oggetto in cui occuparsi, e ciò per istinto. L' uomo acquista più tardi, e un po' alla volta il potere sulle proprie facoltà, pel quale comanda ad alcune di operare, e ad altre di tenersi quiete, e giunge a metterne in movimento una sola alla volta. Fino a tanto che non acquista questa libera direzione delle sue facoltà, l' operare dell' uomo è complessivo, è tutto l' uomo intero che agisce; e questo carattere si ravvisa nelle opere de' primi uomini. Tale osservazione spiega come gli antichi Patriarchi nominati nella Scrittura, mescolavano colle idee religiose quelle della terra. Se le loro facoltà intellettuali avessero potuto operar sole, essi si avrebbero formato delle idee pure della divinità, cioè scevre dagl' integumenti per così dire de' sensi. 2. La materia o gli oggetti sensibili delle facoltà umane vanno sempre crescendo, il che dee variare necessariamente lo stato intellettivo dell' uomo. Convien riflettere che la materia, ossia gli oggetti sensibili, si presenta da prima complessivamente, di poi partitamente, con infinite variazioni. Il presentarsi gli oggetti sensibili partitamente fa sì che operino nell' uomo le parziali facoltà, standosi quiete le altre; e questo è il primo aiuto che presta la natura all' uomo, a poter acquistar egli il dominio sulle sue facoltà, accennato al numero primo. Perocchè egli s' accorge con tale sperienza involontaria di poter operare in due modi, cioè complessivamente con tutte le facoltà, o partitamente con poche alla volta, o con una sola: e accorto di questo, egli studia poi il modo di poter muoverle ad arbitrio o tutte, o parte, o l' una alla volta. Fra gli oggetti sensibili che si presentano alle facoltà dell' individuo, entrano altresì i suoi simili co' quali egli conversa, e onde gli nascono i rapporti sociali. 3. Si aumentano, variano, si spezzano, si adunano anche gli oggetti puramente intellettivi. Indi nasce il progresso delle varie riflessioni, le quali dividono la scienza umana in altrettanti ordini secondochè le riflessioni sono più o meno elevate (1). In ciascun ordine poi la riflessione è più o meno generale, ond' ha le tre seguenti funzioni: 1. mera contemplazione, 2. analisi, 3. sintesi. 4. Finalmente ad ogni stato intellettivo risponde uno stato dell' animo, divenendo ogni oggetto dell' intelletto segno alle affezioni del cuore. 5. Come poi l' uomo acquistò il libero dominio delle sue potenze, l' arbitrio suo è un principio novello che influisce nell' umano sviluppamento, e che se non ne muta le leggi certo ne accresce o diminuisce la celerità. Rispetto poi ai rapporti sociali questi sono successivamente causa ed effetto dello sviluppo individuale, e lo sviluppo che ne nasce dell' umanità procede in quest' ordine: che vi sia 1. la società domestica, 2. la relazione de' servi e de' padroni, 3. la società civile, 4. [la] società fra più nazioni che finisce nella società universale. La divina Provvidenza che ha per termine fisso il condur l' uomo alla perfezione morale, diresse nella sua sapienza le operazioni di lei a seconda degli sviluppamenti naturali dell' umanità; i quali però venivano influiti e aiutati da quelle stesse divine operazioni. Di che è ragione questa, che l' ordine soprannaturale s' innesta su quello della natura, di cui è compimento. E poichè l' ordine della natura era guasto, però insieme colle facoltà umane doveva svilupparsi altresì il seme di peccato giacente nella natura, e coll' aumentare le operazioni umane crescere altresì l' umana perversità. Due adunque sono gli sviluppi simultanei dell' uman genere: 1. quello delle facoltà naturali, e 2. quello del germe vizioso che nell' uomo caduto si chiude. E secondo questi due sviluppamenti la misericordia di Dio ordinava altresì lo sviluppo dell' ordine soprannaturale, acciocchè le facoltà sviluppate potessero di mano in mano tendere a Dio, e crescesse altresì la virtù del rimedio contro il peccato. Per ciò di pari passo con ambo gl' indicati sviluppamenti delle facoltà naturali e della perversione dell' umanità procede: 1. L' incremento della rivelazione, 2. La fede de' Santi si rende sempre più esplicita, 3. Ad una fede più esplicita corrisponde nuova specie di grazia, 4. La rettitudine della volontà corrispondente alla grazia, viene negli uomini Santi sempre più dimostrandosi mediante una intenzione più pura e spoglia di vedute terrene. Or la rivelazione facevasi in parte mediante i segni istruttivi, e però abbiam veduto di questi un continuo progresso, e particolarmente abbiam distinto i segni familiari dai segni istruttivi nazionali. Ora in aiuto della volontà umana e in eccitamento dell' attenzione che dovea p“r l' uomo a' suoi doveri verso Dio, furono altresì stabiliti i segni durevoli che ricordassero i patti positivi fra Dio e lui intervenuti. E però anche questi segni variarono appunto a tenore dello stato dell' umanità (6), del grado di suo sviluppo (7) e del bisogno che avea l' uomo di rimedii contro l' inondazione della crescente corruttela (.). Alcuni di questi segni durevoli volti a rammemorare il patto positivo strettosi fra Dio e l' uomo, furono delle cerimonie religiose. Tali sono i Sacramenti. Per ciò S. Tommaso togliendo a classificare tutte quelle cose che si riferiscono al culto di Dio le divide in quattro parti, mettendo in primo luogo i sacrificii ne' quali il culto di Dio consiste; in secondo luogo gli strumenti del culto o cose sacre ( sacra ), siccom' era il tabernacolo, i vasi e gli altri utensili che si adoperavano nel tempio; in terzo luogo la dedicazione delle persone al culto divino, e qui mette i Sacramenti; e in quarto luogo le osservanze che regolano la conversazione di quelli che sono al culto di Dio dedicati distinguendoli da quei che non sono (1). Nel qual luogo e in altri l' angelico Dottore fa consistere la nozione de' Sacramenti in atto che dedicano la persona al culto di Dio (2): il che è quanto dire, in altrettanti segni esteriori, pe' quali consta del patto onde l' uomo a Dio si consacra, e Dio promette all' uomo protezione. E poichè le ragioni di un patto positivo fra Dio e l' uomo sono due, l' ignoranza dell' uomo, per la quale non conosce che languidamente la sua relazione col Creatore, e lo stato di peccato pel quale ha bisogno che Iddio positivamente gli si avvicini (3); però S. Tommaso dà due fini ai Sacramenti, l' uno di perfezionar l' uomo in quelle cose che riguardano il culto divino, l' altro di rimediare al peccato (4). Adunque perchè l' uomo fosse aiutato contro il peccato crescente, e sempre più a Dio si consacrasse, i Sacramenti avanti Cristo ebbero un progresso. Conciossiachè da principio l' uomo peccatore faceva de' sacrifizii al Signore, e il Signore in varie maniere gli mostrava il suo gradimento. Questi sacrifizii però non erano Sacramenti, perchè non segnavano alcun patto fra Dio e l' uomo; ma erano solamente un atto religioso dell' uomo, col quale cercava di ottenere il divino favore, nè disponevano l' uomo al culto, ma erano atti di culto. Non pare improbabile tuttavia, che fino ab antico quelli che facevano sacrifizii, o quelli per cui si facevano, partecipassero delle cose offerte al Signore; rito che significa assai bene l' unione dell' uomo con Dio, mostrando di aver quegli una mensa ed un cibo comune con questo. E però tal rito poteva essere un Sacramento del tempo così detto della legge di natura (1). Così parimente egli è verosimile che assai per tempo s' introducesse qualche rito onde si consecrassero i sacerdoti, i quali erano in primo luogo i padri di famiglia, fino a tanto che non v' ebbero se non società familiari divise l' una dall' altra; ma quando più famiglie si unirono in un corpo e cominciò la tribù e la nazione, allora fra i padri di famiglia si designarono alcuni de' più cospicui i quali offerissero de' pubblici sacrifizii: nello stato monarchico è poi certo che i re congiungevano questa dignità: tale era Melchisedecco re e sacerdote di Salem (2). Anche questo rito della consacrazione sacerdotale può forse annoverarsi fra i Sacramenti della legge di natura. Finalmente antichissime sono le esterne purificazioni ed espiazioni, le quali potrebbero anch' esse essere appartenenti a quegli antichi Sacramenti (3). Ma non si trova nella sacra Scrittura l' instituzione positiva divina di queste sacre cerimonie, la quale è necessaria a costituire propriamente de' Sacramenti (4). Nè basterebbe per potersi chiamar Sacramenti che fossero stati istituiti dall' uomo mosso da quel sentimento religioso che è proprio della natura umana (1): bensì la loro origine divina si riputerebbe a ragione ove l' istinto dello Spirito Santo gli avesse agli antichi santi suggeriti. E questo tiene essere avvenuto l' Angelico Dottore: [...OMISSIS...] . Nella quale sentenza, che questi antichi riti fosser venuti da Dio, mi conferma il vedere come Dio stesso riconosce i sacerdoti precedenti all' instituzione del sacerdozio levitico (3), e le purificazioni precedenti a quelle per Mosè instituite (4). Ma si sviluppa ognor più il germe del peccato disseminato nell' umanità; e crescendo l' intelligenza ne' figliuoli di Noè, l' affetto alle cose terrene, e i vincoli che li stringeva fra loro e con esse, Iddio nella sua provvidenza separò Abramo dal rimanente del mondo, e in lui cominciò un nuovo contratto; una peculiare educazione dispose dare a quella famiglia, e alla nazione in che si sarebbe sviluppata, acciocchè abbandonati gli uomini a sè e non soccorsi di special provvidenza non ispegnessero il regno di Dio sopra la terra. Allora col nuovo patto cominciarono de' nuovi Sacramenti che fossero segni di lui; e il primo di questi segni, co' quali attestavano gli uomini di essere dedicati al divino culto fu la circoncisione (1). La Scrittura ci rappresenta espressamente la circoncisione come segno del patto strettosi fra Dio ed Abramo. Ecco come narra la sua istituzione: [...OMISSIS...] . Questo Sacramento appartiene nella sua origine alla società familiare; e la parte circoncisa contrassegnava l' unità della stirpe eletta da tutte le altre. Tuttavia egli era destinato a diventare un Sacramento nazionale, e tale divenne quando gli Ebrei uscirono d' Egitto o certo quando entrarono al possesso della terra promessa, tempo in cui si costituirono in nazione (1): di che all' entrare in quella terra la circoncisione, intralasciata durante il viaggio del deserto, fu ripresa (2). Il tempo che passarono nell' Egitto fu per gli Ebrei stato di tribù, che è lo stato di mezzo fra il familiare e il nazionale. Che poi la circoncisione fosse destinata a dover essere Sacramento nazionale, vedesi dalle parole del contratto seguito fra Dio ed Abramo, nelle quali il patto è fermato non solo con quel Patriarca, ma ben anco col suo seme dopo di lui nelle generazioni future in sempiterna alleanza (3); e si vuole che tutti i bambini maschi sieno circoncisi da una generazione all' altra, e anco il servo o nato in casa, o comperato (4). Questo sapersi che la circoncisione è Sacramento famigliare e nazionale, e non puramente individuale, vale a farci conoscere perchè la circoncisione non si desse alle femmine. Bastava che l' avessero gli uomini, perchè questi erano sufficienti a rappresentare la famiglia e la nazione; e le femmine partecipavano dell' alleanza perchè parti di quel corpo o di quella società che insolidariamente era legata con Dio, e perchè si consideravano formanti una sola cosa coll' uomo, per cagione dell' unione maritale, nodo della società domestica, dove la donna e l' uomo sono una carne (5). Per la stessa ragione il bambino che moriva prima dell' ottavo giorno, in cui solo era prescritto la circoncisione non è a riputarsi diviso dal popolo santo, ma sì partecipante dell' alleanza stretta da Dio col corpo di sua nazione. E però dal Sacramento de' Padri riceveva anch' egli la sospensione del pagamento che a' Padri suoi era concessa (6). Ora vediamo le condizioni di questa alleanza. In primo luogo ella fu promessa ad Abramo, e promessa gli fu, perchè uomo fedele e perfetto. [...OMISSIS...] Precedette dunque al patto, ed alla circoncisione che n' è il segno, la fede e la giustizia di Abramo. Abramo assentì a voler esser perfetto: « si gettò Abramo boccone per terra« (1): » così diede il suo assenso. Allora fu conchiuso il patto con queste condizioni: che Iddio fosse onorato e riconosciuto per Dio da Abramo e da tutta la sua discendenza (2). E Iddio all' incontro prometteva ad Abramo, per dargli prova di suo potere e di sua bontà e così dar nuova materia a sua fede, 1 di farlo padre di molte genti e di far da lui uscire dei re; 2 di dare in possesso ai suoi discendenti tutta la terra di Canaan nella quale allora peregrinava (3). Dove si osservi come ciò che promette Dio ad Abramo sieno cose temporali, esigendo però da Abramo un culto veramente spirituale; il che era un proporzionare l' educazione religiosa allo stato dell' umanità: conciossiachè era ben facile conoscere come fosse giusto il dar culto a Dio; e questo il conobbero gli uomini fino da principio; ma il riconoscere nello stesso culto ed onore di Dio la propria felicità, questo era difficilissimo, e non pervennero gli uomini a intenderlo innanzi a Cristo (4). Si esigeva uno stato intellettuale molto elevato a poter fare astrazione da tutte le cose terrene e fissare la mente nella sola giustizia come nel solo vero bene. Tanto non potea l' uomo per natura: bisognava la grazia del Redentore, come appar chiaro da quanto abbiamo detto della natura di questa grazia. Perocchè questa sola grazia dà una percezione viva delle cose spirituali e divine per l' infusione dello Spirito Santo; e in questa viva percezione di Dio, verità e giustizia sussistente, l' uomo si sazia e vede il suo vero ed unico bene. Alla quale altezza di lume non potevano arrivare quegli antichi Patriarchi: e Iddio, parlando ad essi in modo proporzionato allo stato di loro intendimento non pervenuto a riflessione d' alto grado e allo stato di loro grazia corrispondente, provò ad essi i suoi attributi di potenza, di giustizia e di bontà col proteggerli possentemente e regalarli abbondantemente di cose temporali. Frammezzo però a queste cose temporali proporzionate all' intelligenza degli uomini, Iddio prometteva qualche cosa di più: un non so che di misterioso e di recondito: dal seme di Abramo non dovevano uscire solamente dei re terreni, ma un re al tutto singolare e di una grandezza degna di Dio, per ciò spirituale e divina. E attentamente sguardando all' istituzione della circoncisione, apparisce come un doppio patto o una doppia promessa fatta da Dio ad Abramo: la prima generale e risguardante tutti i discendenti di quel Patriarca: per ciò Iddio comandò che fosse circonciso Ismaele, e senza eccezione alcuna tutti i bambini maschi di otto giorni (1). [...OMISSIS...] E Isacco non era ancor nato. Or il patto era generale, e riguardava tutti i discendenti di Abramo. Ma una condizione di questo patto generale era questa che Iddio avrebbe poi fatto un patto speciale con Isacco che dovea nascere: [...OMISSIS...] . Questo è un patto futuro e sempiterno che promette Iddio di far poi col figliuolo nascituro Isacco (5). Non solo adunque Isacco non era circonciso, ma nè pur nato quando il patto spirituale ed eterno fu promesso, e però non in virtù della circoncisione, ma della predestinazione di Dio fu scelto; e quella scelta si dovette alla fede di Abramo, che occasionò il primo patto. Conciossiachè veggendo Iddio Abramo esser fedele, propose a lui di stringere un patto, col quale Abramo e i suoi discendenti promettevano la continuazione di quella piena fede che aveva quel patto occasionato. E in segno di questa fede stabile e continua si commisero alla circoncisione, che però è chiamata da S. Paolo « segnacolo di quella giustizia che viene dalla fede« (1). » E col rito del circoncidersi, tutti gli Ebrei protestavano di volere aver quella fede stessa del loro padre Abramo (2). Or in tal modo l' atto della fede era reso facile a tutti egualmente anche a quelli che non potevano sollevarsi a intendere le cose più alte e spirituali del Redentore. Ad Abramo era stata data luce di percepirla: in quel recondito patto che Iddio avea promesso di stringere con Isacco, il santo Patriarca per lume soprannaturale avea veduto la promessa del Cristo futuro: ciò si ha espressamente nel Vangelo: « Abramo vostro padre vide il mio giorno (cioè vide me nella gloria); lo vide e ne giubilò« (3). » Ma non tutti gli Ebrei potevano avere una grazia sì straordinaria: tutti però potevano avere una fede implicita nel Redentore in quanto che essi si riferivano e protestavano di credere a tutto ciò che aveva creduto il loro padre Abramo. Egli è per questo che fu chiamato Abramo il padre dei credenti. E S. Paolo spiega in un modo sublime e spirituale la promessa fatta da Dio ad Abramo di esser padre di molte genti, intendendo per queste genti non pure quelle che sono nate da lui secondo la carne, ma quelle che partecipano della sua fede, credendo in ciò che ha creduto Abramo, e a tutte queste dice che si riferisce la promessa fatta da Dio (4). Per la medesima ragione il luogo dove andavano le anime degli Ebrei che santamente morivano prima di Cristo si chiamava il seno di Abramo (5). Era la fede di Abramo, a cui si riferivano, che le salvava. Secondo la maniera di dire scritturale il figlio esce dal seno del padre: tornar nel seno del padre significava adunque ricongiungersi al padre, e vivere della sua vita. Le anime de' giusti adunque nell' altra vita vivevano della fede di Abramo, ed è credibile che loro fosse nel limbo esplicitamente rivelato ciò che Abramo credette, e che esse nella vita presente non intesero e non credettero se non implicitamente, cioè nella fede di Abramo (1). La fede adunque significata dalla circoncisione era la fede in Cristo, e l' esser fatta in quella parte del corpo significava il dovere Cristo discender da Abramo per generazione. E Cristo veniva a redimere il mondo e p“r rimedio al peccato originale. Or questo peccato corruppe principalmente il fonte della vita. Il che significava la circoncisione pel doloroso taglio in quella parte dell' uomo, e il recidersi di quella pelle era rito idoneo a significare come doveva essere tolta e da noi rigettata la vetustà del peccato e rinunziato alla concupiscenza. Significava adunque la circoncisione una purificazione dell' uomo: l' uomo vecchio mortificato (2). E perchè l' uomo vecchio fu mortificato nella passione di Cristo, perciò quelle gocciole di sangue che in tal rito si spargevano, ottimamente segnavano la morte di Cristo, e il darsi nell' ottavo giorno al bambino accennava alla risurrezione dell' uomo nuovo in Cristo che avvenne l' ottavo giorno (3). Tanta materia di fede contenevasi nel rito della circoncisione simile nel significato al Battesimo nel quale pure la morte dell' uomo vecchio e la resurrezione del nuovo si rappresenta (1). E questa fede promettevano a Dio e protestavano gli Ebrei con tal rito, non tutti sapendo queste cose, ma riferendo la loro fede ai lumi ricevuti dal loro santo padre Abramo. Nè in questa fede finiva il culto che a Dio promettevano col circoncidersi. Essi protestavano al Signore che riguardandolo per loro padre e re si sarebbero sommessi a tutte le leggi anche politiche e cerimoniali che avesse lor promulgato, e a tutti i suoi voleri. Perciò S. Paolo dice « Io dichiaro ad ogni uomo che si circoncide che con tal rito egli si obbliga ad osservare la legge« (2) » e quindi dissuade i primi fedeli dal circoncidersi, mostrando loro che vanno con ciò a sottomettersi a un peso servile, importevole e inutile dopo Cristo (3). E in corrispondenza di una tal fede e promessa degli Ebrei, Iddio prometteva da parte sua che ad essi soli avrebbe consegnate le sue divine rivelazioni, e fu così che quel popolo il depositario de' sacri libri (4). Tali erano le condizioni spirituali del patto; di cui le condizioni temporali non erano che figure e sostegni dati alla limitazione umana (5). Or le promesse divine contenute in quel patto doveano esser condotte a compimento col succeder de' tempi. L' ultimo scopo di queste promesse era il recar l' uomo alla morale perfezione, la quale dovea effettuarsi di mano in mano per una serie di avvenimenti. L' uomo era peccatore per natura; laonde la prima cosa che convenia farsi a dargli perfezione morale era il redimerlo dal peccato e dalla pena di morte che di conseguente meritava. Ma perchè l' uomo traesse profitto dalla redenzione dovea credere nel Redentore, umiliando sè stesso incapace di venire a salute e sperando la salute sua da colui che l' avrebbe redento. Il primo patto era adunque generale e Iddio prometteva con esso di prender l' uomo in protezione, l' uomo di dar culto a Dio. Questo patto generale ne conteneva un altro particolare riguardante il mezzo di eseguire quel primo, col quale Iddio prometteva all' uomo il Redentore necessario a salvarlo, e l' uomo a Dio di credere fiduciosamente in questo Redentore, e sperar da lui solo la sua salute. Acciocchè all' uomo ancora poco sviluppato nelle sue facoltà intellettive, si scolpisse in mente la necessità che egli aveva di esser liberato dal peccato mediante un Redentore, Iddio figurò innanzi agli occhi degli Ebrei questa grande verità con un avvenimento solenne e nazionale, cioè colla schiavitù di Egitto e colla liberazione da questa schiavitù che rappresentava quella spirituale del peccato; e acciocchè apparisse la necessità del Redentore perchè fossero salvi nell' anima e nel corpo, ordinò in quell' occasione la cerimonia dell' agnello pasquale, secondo Sacramento dell' Ebraico popolo (1). Conviene osservare, come passando l' Angiolo del Signore a dar morte a' primogeniti Egiziani, salvò dalla strage le case degli Ebrei tinte col sangue dell' agnello. Quel sangue era sommamente acconcio a rappresentare quello di Cristo, che venendo immolato placava Iddio nell' ora della sua giustizia, che è l' ora del passaggio dell' Angelo. Ora in quel passaggio l' Angelo del Signore non recava agli Ebrei alcun bene, ma solo li esentava dalla morte; il che acconciamente dimostrava qual fosse l' effetto della fede nella morte futura e non ancora seguita di Cristo, cioè di apportare a' fedeli la sospensione del pagamento o castigo, non però ancora il bene positivo della gloria eterna data dagli uomini solo in virtù del prezzo già sborsato del sangue di Cristo. Ma perciocchè Cristo sacrificato sulla croce dovea esser dato anche in cibo a' suoi discepoli, per ciò l' agnello svenato dagli Ebrei dovette esser da lor mangiato, e ciò in fretta per sommo desiderio di uscir dall' Egitto e fuggire la celeste vendetta di Dio (1), cotto nel fuoco della carità col pane azimo della pura conversazione, e coll' amaro delle lattughe agresti simbolo di penitenza, cinte le reni di castità, ed i piedi calzati di opere buone (2). E per indicare l' unione de' fedeli partenenti ad una sola famiglia della quale il Padre è Dio, dovea mangiarsi in ogni casa, e niuna parte della vittima poteasi portare al di fuori (3). Ora questo secondo Sacramento consacrava di nuovo il popolo Ebreo al culto di Dio più esplicitamente e specificamente: prometteva questo popolo di credere che da Dio dovea venire la sua salute mediante il Redentore e la passione di questo, in virtù della quale liberati dalla morte del peccato dovevano pervenire al cielo significato dalla terra promessa verso cui uscendo dall' Egitto si rivolgevano. Or questo Sacramento dell' agnello pasquale è detto SEGNO nella Scrittura: [...OMISSIS...] . Ecco la promessa e il patto di Dio, ed ecco il segno del patto. [...OMISSIS...] Ecco il culto che da parte loro doveano prestare gli Ebrei. Or il segno di questo patto era una cerimonia permanente: [...OMISSIS...] . E acciocchè più vivamente si scolpisse negli Ebrei l' obbligo di questo culto che doveano dare al Signore, ritenne il Signore in ispecial suo dominio i primogeniti salvati dall' Angelo: [...OMISSIS...] . E questo pure dovea essere in segno perpetuo agli Ebrei: [...OMISSIS...] . Or poscia Iddio continuò a dare effetto al patto da lui stretto con Abramo ed Isacco, del quale l' uscita dall' Egitto era un cominciamento. Come Dio in virtù di quel patto dovea salvare Israello, essergli buon re e scorgerlo alla perfezione morale, però tolse nel deserto a dargli sue leggi. Gli pubblicò da prima la legge morale; poi la legge civile o giudiziale; e finalmente le cerimonie religiose; e in tale occasione volle rinnovato solennemente l' antico patto (4). E disse al popolo d' Israele: [...OMISSIS...] . Or in questa occasione fu istituito un nuovo Sacramento, cioè l' ordinazione de' sacerdoti (6). Come tutto il popolo era stato consacrato al culto divino e n' era segno la circoncisione, così fu peculiarmente stretto da Dio un patto colla famiglia di Aronne, mediante il quale questa famiglia si obbligava di servire in un modo speciale al divino culto, e Dio da parte sua prometteva a questa famiglia una special protezione, e di essere egli stesso la sua porzione e la sua eredità (1). Della quale eredità il mantenimento temporale de' sacerdoti che ricevevano dall' altare, avendo parte delle vittime che si offerivano per lo peccato o per impetrare e render grazia, era niente più che un simbolo. Or la consecrazione era il segno di questo patto peculiare fra Dio e gli Aronnici sacerdoti. Ed è di questo patto colla tribù di Levi che si parla in Malachia, ove Iddio dice a' sacerdoti [...OMISSIS...] . Qui parla del comando che Iddio fece a' sacerdoti di occuparsi nel culto di Dio e nelle sacre funzioni. Nè questo patto risguardava solamente le cerimonie esteriori, ma si riferiva al primo patto generale e morale: doveano i sacerdoti cercare veramente la divina gloria (4), esser santi e ministri di santità (5). E però dice: [...OMISSIS...] . Una delle cerimonie della consecrazione sacerdotale consisteva in vestire il sommo sacerdote di abiti che indicavano le virtù che il dovevano ornare. Quattro vesti vestiva; la prima di bianco lino (7), sopra questa la tunica azzurra, atte a significare la perfezione rispetto a sè, cioè la purità della vita significata nella bianchezza, e la grazia divina significata nel color celeste che sopraggiunta all' anima perfezionava la naturale onestà. Le due altre erano l' Efod, e sopra questo il Razionale atte a significare le virtù rispetto al popolo: simboleggiandosi la carità nell' Efod, e la giustizia che il sacerdote dovea amministrare nel Razionale. Per ciò sì nell' Efod come nel Razionale erano scritti i nomi delle dodici tribù che dovea abbracciare colla carità e con una imparziale giustizia. E le due pietre dell' Efod o sopraumerale chiamansi per questo memoriale de' figliuoli d' Israello; poichè la carità non si scorda degli amati (1); e il Razionale dicesi Razionale del giudizio, perchè rammentava quel ragionevole e giusto giudizio che il Sacerdote come primo giudice dovea pronunciare nelle occorrenze del popolo (2). E il Razionale e l' Efod erano congiunti insieme con uncini e catene d' oro perchè dimostrassero che le due virtù della carità e della giustizia non si dovevano mai dividere (3). Sul Razionale poi del giudicio stavano scritte le due parole Dottrina e Verità, significatrici della cognizione della legge necessaria a ben giudicare e della rettitudine del giudice che applica con verità la legge (4). La lamina d' oro poi pendente dalla mitra sacerdotale con su la scritta:« Santità del Signore« dimostra come tutte le virtù discendono dalla contemplazione continua della divina santità (5). E il cingolo cingeva il sacerdote in emblema di quella discrezione onde le virtù si debbono esercitare (1). I sacerdoti avevano parte delle cose sacrificate al Signore, e vivevan con esse. Questo è considerato da S. Tommaso come un altro Sacramento dell' antica legge (2). Egli era una condizione, come abbiamo veduto ed un segno del patto stretto dal Signore con Levi (3). I Leviti erano mantenuti dal Signore cioè colle offerte a lui fatte; e questi cibi ceduti da Dio a' sacerdoti rappresentavano il cibo spirituale e divino onde Iddio nutrisce quelli che sono peculiarmente dedicati al suo culto: il quale cibo è Dio stesso che però si chiama porzione de' sacerdoti. Come adunque l' agnello pasquale e parte delle vittime pacifiche si mangiavano dal popolo ed erano segno del patto onde questo voleva a Dio essere dedicato ed unito; così i cibi sacerdotali erano parimente segno della consumazione o realizzazione del patto speciale onde i sacerdoti a Dio si univano al culto suo dedicati (4). S. Tommaso annovera fra i Sacramenti dell' antica legge anche le purificazioni ed espiazioni legali. Poichè erano cerimonie, le quali appurando l' uomo, lo disponevano al culto di Dio (5). E come erano due i gradi della consecrazione al culto divino, l' uno comune a tutto il popolo che si otteneva nella circoncisione, l' altro speciale de' sacerdoti che si poneva in atto nella ordinazione sacerdotale; come eran due altresì i cibi sacri l' uno comune a tutto il popolo, l' agnello pasquale, l' altro proprio de' sacerdoti, la parte loro spettante delle vittime immolate e degli altri commestibili offerti al Signore; così parimenti corrispondevano a questi due gradi di sacerdozio (1) due maniere di mondarsi e purificarsi, quanto al popolo cioè le purificazioni propriamente dette da certe impurità esteriori, e le espiazioni da' peccati, e quanto a' sacerdoti e Leviti le lavande delle mani e de' piedi e la rasura di tutti i peli del corpo. Laonde volendo or noi riassumere dando uno sguardo generale su questi antichi Sacramenti diciamo: Che due erano i gradi di sacerdozio o di consecrazione a Dio dell' ebraico popolo: il primo de' quali si faceva per la circoncisione, e con esso il popolo prometteva di osservare tutte le leggi morali, giudiciali e cerimoniali da Dio intimate, dando in tal modo a Dio ossequio e culto; il secondo consisteva nella consecrazione de' sacerdoti, e per esso promettevano che oltre di osservare per sè le leggi avrebbero altresì promosso il divino culto in altrui, adoperandosi a porre in atto le esteriori religiose cerimonie, e aiutando il popolo anche al culto interiore coll' ammaestramento nella legge ed eccitarlo ad osservarla. Che a questi due gradi di sacerdozio rispondevano due cibi consecrati, l' uno pel popolo l' altro pei Leviti; i quali cibi erano come una conseguenza di que' due gradi di sacerdozio, una consumazione di quella prima consecrazione e una caparra che voleva Iddio data a quelli che a lui si dedicavano del mantenimento di sue promesse, e del comunicarsi all' umanità che avrebbe lor fatto. Queste comestioni di cibi sacri non erano dunque nuove consecrazioni propriamente, ma una continuazione delle prime; il perchè queste si replicavano; ma le prime fatte una volta, non più era uopo ripeterle. Che finalmente v' avevano le purificazioni ed espiazioni, colle quali pure il popolo, e i sacerdoti a Dio consecrati confessavano la loro indegnità e come erano male acconci al patto di Dio; come anco a questo patto eran venuti meno coll' infedeltà del peccato. Questi perciò convenivano rinnovarsi ogni qualvolta cadevano in peccato o nella immondezza legale; co' quali riti non forma[va]no già una nuova consecrazione di sè a Dio; ma si rendevano degni della consecrazione di sè al Signore, o dal popolo circonciso o da' sacerdoti consecrati. Abbiamo fin qui veduto come cominciò e progredì il patto positivo dell' uomo con Dio. Cominciò colla famiglia di Adamo peccatore e fu violato dagli uomini. Fu rinnovellato colla famiglia di Noè, e i suoi discendenti il violarono di nuovo. Allora fu scelta la famiglia di Abramo, e per segni di questo patto Abramitico furono stabiliti de' Sacramenti più determinati. Il patto con Abramo racchiudeva da parte di Dio delle promesse temporali e spirituali: queste seconde erano le principali e le prime erano figure delle seconde, atte a far intendere agli uomini il prezzo di esse. Iddio pose mano ad effettuare le sue promesse ed ogni passo che diede in ridurle ad effetto fu a lui occasione di rinnovare il patto antico e di stabilire un nuovo segno di questo patto, già in parte da Dio effettuato, affine di restringere vieppiù e consacrare a sè gli uomini colla memoria di ciò che egli fedele al promesso faceva per loro. Così istituì il Sacramento dell' agnello pasquale quando li liberò dall' Egitto per istabilirli nella Cananea promessa nel patto Abramitico; così indusse la consacrazione de' sacerdoti quando al Sinai organizzò il popolo Ebreo in nazione; diede a lui come re un Codice di leggi, stabilì tribunali, e con esso popolo, qual già vera e perfetta nazione, rinnovò l' alleanza e costituì l' aronnico sacerdozio. Nella quale occasione il Sacramento della consecrazione sacerdotale fu istituito a segno e memoria perenne di quel benefizio di Dio e a stimolo dato al popolo di via più promuovere il culto del suo divino dominatore (1). E tutti questi segni del patto che consecrava l' uomo al culto divino procedevano di pari passo, come abbiamo veduto, collo sviluppamento della divina rivelazione e della fede sempre più esplicita degli uomini. Questa fede però mancava sempre della comunicazione all' anima del Verbo, poichè il Verbo non erasi ancor vestito dell' umanità, che è il mezzo ond' egli si comunica agli altri uomini. Perciò la fede si rendeva sempre più esplicita solamente in quanto alla cognizione di Dio ideale ed in quanto a quelle circostanze dell' Incarnazione che a percepirle si chiede altro più che le facoltà naturali. Per ciò poi chè spetta allo spirituale e soprannaturale della fede, questo non l' avevano gli Ebrei comunemente se non implicito nella fede di Abramo; eccetto quei Santi privilegiati a cui dava Iddio delle particolari illustrazioni, attuali il più, e non mai tali che si potesse dire aver essi veramente e abitualmente il Verbo percepito. La natura per ciò di una tal fede implicita nella sua parte soprannaturale o divina esigeva che il patto con Dio stesso fosse esterno e che vi avessero molti esterni segni che di frequente il richiamassero alla memoria degli uomini. Ma posciachè il Verbo s' incarnò, esso Verbo fu comunicato all' umanità tutta. In questo consisteva la consumazione del patto di Abramo; le promesse spirituali di Dio che conteneva quel patto con ciò erano pienamente adempite: le promesse temporali che servivano di sostegno alle spirituali e di caparra cessavano dall' avere uno scopo, come l' armatura e le centine di una fabbrica quando questa è condotta a fine; e anch' esse s' erano già compite. Or come Iddio ogniqualvolta avea eseguito l' una o l' altra delle sue promesse contenute nel patto Abramitico avea rinnovato il patto medesimo cogli uomini, così fece pure quando vestì il suo Verbo di carne umana, adempiendo così l' ultima sua promessa, la massima delle promesse, quella promessa a cui le altre tutte erano ordinate come mezzi e apparecchiamenti e che sola per ciò formava propriamente la sostanza del patto medesimo. Per ciò dice Isaia del futuro Redentore: [...OMISSIS...] . In questo gran fatto pertanto, in cui Iddio da parte sua liberava la sua fede agli uomini, conveniva che quasi chiamando gli uomini loro dicesse così: [...OMISSIS...] . Questo è il patto nuovo che consuma l' antico, la nuova alleanza, il nuovo Testamento. Or hassi a considerare la natura di questo nuovo patto nel quale sta il compimento delle promesse fatte ad Abramo. Col Redentore donato in esecuzione di quella promessa il debito dell' uman genere venne realmente pagato, non fu già dilazionato il pagamento, il che solo otteneva l' antica fede dei giusti che speravano nel Salvatore. Di più il Verbo stesso comunicavasi allo spirito umano, e non era più sola aspettazione di una futura comunicazione. Per ciò l' uomo non parlava già più a Dio per mezzi naturali ed esterni, ma senza alcuno intermediario l' uomo e Dio si abboccavano insieme, per così dire, nella grazia del Redentore. L' essenza adunque del nuovo patto a differenza dell' Abramitico è tutta interiore, egli non si stringe con apparizioni esteriori ed esteriori dimostrazioni di potenza e maestà come sul Sinai; ma sì bene nel segreto dello spirito fu stretto col reale e personale congiungimento del Verbo e della umana natura da prima, poscia colla comunicazione del Verbo agli altri uomini per grazia (1). Tutto l' esteriore adunque nella nuova alleanza è un effetto ed effusione di questa alleanza già stretta e pienamente verificata, e per ciò è cosa questa posteriore, quando l' antiche esteriorità erano anteriori e conduttive all' alleanza medesima. Quindi consegue, che col nuovo patto l' individuo si ricongiunge veramente a Dio. In tal modo l' uomo è ricondotto allo stato primitivo della perfezione morale, nel quale egli era dedicato al culto divino per sua costituzione e lo conosceva senza bisogno di alcun patto positivo ed esterno (1) che glielo ricordasse; egli era per così dire nel culto stesso costituito, perchè il culto era in lui già in atto, perchè in atto era in lui l' unione sostanziale ed intrinseca con Dio: egli la sentiva questa unione, nella quale egli attingeva la similitudine col Creatore (2). Per la ragione medesima il nuovo patto è universale, perchè è nell' interiore dell' individuo che si consuma. Il patto con Abramo potea essere famigliare e nazionale, perchè era esteriore e positivo: potea cioè stingersi col corpo della famiglia o della nazione rappresentata da alcuni: ma nel nuovo, trattandosi che il commercio di Dio coll' uomo avviene nell' interiore dell' individuo, egli è manifesto che a tal fatto l' individuo non può delegare un altro nè essere in modo alcuno rappresentato; ma è solo al tutto opera personale. Ora quello che è personale è anche universale, perchè a ciò è chiamata ogni persona, e non una singola casa od un singolo popolo. Un' altra conseguenza dello stringersi questo patto con Dio nell' interiore dell' anima di ciascun uomo è questa, che un tal patto non ha quel bisogno di un segno esteriore che aveva l' antico; dico di un segno che fosse come solennità essenziale al contratto; sebbene anche il nuovo patto ha bisogno di quei mezzi esterni che il formano, e che sono i Sacramenti di Cristo. Il perchè ai nuovi Sacramenti è più essenziale l' essere mezzi efficaci produttori del patto che di essere segni di lui come gli antichi, i quali niente nell' anima producevano. E se anche significano i nuovi Sacramenti, ciò fanno per la volontà di Cristo, che li ha istituiti, e che ha giudicato ciò conveniente, non già per una loro intrinseca necessità, cioè perchè il patto sia di tal natura che negli esterni segni si assolva. Tuttavia havvi anche un segno necessario del nuovo patto; ma questo è tutto interiore: e come il patto si opera nell' intimo dell' animo così anche il segno suo necessario s' imprime nell' anima stessa (1) ed è ciò che le divine Scritture chiamano or segno, or sigillo, or signacolo, e che S. Agostino chiamò carattere indelebile, e dopo di lui la Chiesa tutta (2). Questo segno interiore che dovea imprimere nell' anima Cristo era adombrato nell' antico tempo e dai Profeti promesso. [...OMISSIS...] Or venendo a ricercare che sia questo segno che Cristo co' suoi Sacramenti imprime nell' anima è uopo a noi rammemorare ciò che abbiam detto intorno alla grazia del Redentore. Questa grazia l' abbiamo deffinita una comunicazione intellettiva del Verbo siffattamente che il Verbo si rivela all' anima, e questa vista del Verbo che l' anima ne riceve è il lume soprannaturale onde cominciano tutte le soprannaturali operazioni. Or la comunicazione intellettiva del Verbo altra è passeggiera, ed altra è stabile per fissa legge e se si vuol così chiamarla abituale. Di più, volendo noi analizzare questa comunicazione, ella si può considerare rispetto all' impressione che lascia nell' anima la qual viene dal Verbo stabilmente informata; o rispetto alla potenza ch' ella suscita o produce nell' uomo; o finalmente rispetto al perfezionamento della volontà a cui la santità si riferisce. Conciossiachè certa cosa è che il Verbo risplendente nell' anima vi imprime la sua forma o similitudine, e questa è quella luce secondo la quale l' uomo che opera soprannaturalmente si guida. E questa impronta del Verbo può dirsi acconciamente sigillo o segno. Ella però non è ancora santità, poichè all' esser tale conviene che la volontà umana a quella luce ubbidisca, o sia almeno pronta ad ubbidire. Or dunque essendo la grazia quella che produce e forma la santità, alla nozione della grazia non basta ogni impressione del Verbo posta unicamente nella parte intellettiva dell' anima; ma conviene che la volontà non ripugni a quella luminosa impressione. Sicchè quella luce del Verbo impressa nell' anima acquista nome di grazia solamente quando influisce nella volontà, ma non allora che in essa non influisce spingendola o movendola alla carità. Or tuttavia l' impressione del Verbo può rimanersi nell' anima ristretta nella sola parte intellettiva di lei eziandio che la volontà ricalcitri e respinga da sè ogni sua benigna e santa influenza. E questa stabile e ferma impressione del Verbo nella sola parte intellettiva dell' anima, a dispetto della volontà perversa che si rifiuta assecondarla, viene appunto operata ne' tre Sacramenti cristiani del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine, i quali con una tale impressione che si opera da Dio per ferma legge senza rispetto alla cooperazione dell' uomo pongono il divino fondamento dell' universo soprannaturale. Or egli è però ad avvertire che congiungendosi il Verbo in tal modo coll' uomo egli ne prende il possesso come di cosa sua, e che la prava umana volontà non impedisce punto che dall' esser nell' anima la luce e l' impressione del Verbo non iscaturiscano nuovi doveri all' uomo e altresì nuovo potere. Egli a cagione di quella unione col Verbo che lo possiede è consecrato al Verbo stesso: nuovo suo dovere è quello di riconoscere il Verbo siccome degno di ogni culto e di darglielo. Epperò quella impressione che ha in sè del Verbo importa il venir egli per essa ordinato e chiamato al culto soprannaturale di Dio. E perciocchè se non avesse quella luce non conoscerebbe quel suo dovere, nè avrebbe virtù in sè di elevarsi sopra all' ordine soprannaturale; laddove riconoscendo egli il Verbo in sè e amandolo come è degno di buona volontà trae da esso Verbo ogni aiuto e grazia maggiore; però convenientemente si può dire che quella impressione, quel segno, quel carattere indelebile di Cristo sia la potenza di culto soprannaturale che all' uomo viene aggiunta coi toccati Sacramenti. E tutto ciò vogliamo ora provar noi coi documenti che ci somministra l' ecclesiastica tradizione. I. Il carattere viene impresso nell' anima dallo Spirito Santo. S. Paolo parlando del carattere dice: « che in Gesù Cristo dopo aver creduto (1) siete stati segnati nel Santo Spirito di promissione« (2). » E altrove dice parlando di questo segnacolo o carattere: « Non vogliate contristare lo spirito di Dio, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (3) » cioè del vostro Battesimo. E` dunque una operazione dello Spirito Santo, secondo l' Apostolo l' impronta che in noi si fa del carattere indelebile. E all' azione dello Spirito Santo nell' anima l' attribuiscono pure costantemente i Padri della Chiesa. Udiamo S. Cirillo: [...OMISSIS...] . Giovanni Grisostomo parimente dice: [...OMISSIS...] . Ove si vede chiaramente espressa la differenza fra il segno esterno del patto stretto da Dio cogli Ebrei, e il segno interno e spirituale de' cristiani. Perocchè non essendo ancor dato innanzi a Cristo lo Spirito Santo non potevano gli antichi Sacramenti imprimere il carattere indelebile de' nostri. Dal che si conchiude che la grazia e il carattere indelebile sebbene cose distinte, come abbiam detto, tuttavia procedono dallo stesso principio, dallo Spirito Santo (.). II. Il carattere è l' impressione del Verbo fatta nell' anima. Ho già dimostrato che è proprio dello Spirito Santo l' imprimere il Verbo nell' anima, il qual Verbo è sempre il termine dell' operazione del Santo Spirito (9). Perciò dice S. Paolo, parlando del carattere battesimale ricevuto da' primi fedeli, che essi erano stati segnati dallo Spirito Santo nel Verbo della verità (10). Perciò il carattere si chiama dai Padri segnacolo di Cristo (11), e gli si attribuisce come suo effetto speciale il configurarci a Cristo. E poichè Cristo, o sia il Verbo è l' imagine del Padre (12) perciò afferma l' ecclesiastica tradizione che nel carattere indelebile riceviamo noi l' immagine di Dio. [...OMISSIS...] Per la medesima ragione avviene che i Teologi dànno allo stesso carattere il nome di Sacramento, appunto perchè è segno di cosa sacra, come quello che è segno e impressione del Verbo (3). III. Il carattere è luce o splendore. Se il carattere è un' impressione del Verbo, come abbiamo dimostrato, forz' è ch' egli sia luce e splendore, perocchè il Verbo all' anima a cui si comunica non è che luce. E questo dice S. Ambrogio nel passo ultimamente recato. Il medesimo insegna l' antico autore dell' ecclesiastica gerarchia: [...OMISSIS...] . Nè questa luce di cui si parla è altro che intellettiva, la qual dà all' anima conoscimento. Per questa osservazione si spiegano chiaramente que' passi de' Padri ne' quali si dice che col Battesimo viene impresso nell' anima il nome di Dio, volendo dire che viene impresso il carattere (2); conciossiachè come abbiamo altrove osservato, il nome di una cosa equivale, secondo la frase scritturale, alla cognizione di quella. IV. Il carattere è nella sostanza dell' anima. E` proprio del Verbo il congiungersi coll' essenza dell' anima intellettiva. E però se il carattere è una impressione del Verbo, come abbiam provato, egli deve aver sua sede nell' essenza o sostanza dell' anima nostra. Questa sentenza si può conciliare con quella di S. Tommaso che ripone il carattere nella potenza intellettiva dell' anima (3); poichè esso carattere si può risguardare da due lati, cioè in quanto segna , e in quanto opera . In quanto opera egli è potenza (e certo che la luce del Verbo impresso nell' animo, non è inattiva); ma in quanto segna (4), egli non è potenza, ma è impressione, una modificazione dell' anima, la qual riceve un lume nuovo, e in tanto giace nella sua essenza (5). Vero è, che la parola carattere nomina propriamente il segno e non la potenza; come pure egli è vero che antecedentemente alla potenza v' ha l' impressione della luce, fondamento e principio della potenza stessa: e però ragionevolmente, dice il Cardinal Bellarmino, toccando le diverse opinioni de' Teologi intorno alla sede del carattere, queste parole: [...OMISSIS...] . Di qui è, che i Concilii di Firenze e di Trento, parlando del carattere, non dissero già che questo sia in alcuna potenza, ma sì bene puramente e semplicemente nell' anima. V. Il carattere distingue il cristiano dai non cristiani. S. Anselmo dice: [...OMISSIS...] . S. Giovanni Grisostomo osserva come i chiamati alla gloria fino a tanto che erano solamente nella prescienza di Dio non potevano conoscersi e distinguersi se non da Dio: come Iddio volle poi anche contraddistinguerli con un segno che li rendesse manifesti alle creature; e presso gli Ebrei questo segno fu esterno e carnale, la circoncisione, ma presso noi fu posto nell' anima stessa, e suggellatovi dallo Spirito Santo (3). Or essendo questo segno invisibile agli occhi della carne, a' quali non luce se non il segno esterno dell' acqua battesimale, manifesta cosa è che l' anima nostra non è distinta da quelle degli infedeli mediante un tal segno spirituale, se non alla vista di quegli esseri che hanno virtù di percepire le anime, i quali sono, oltre Dio, gli Angeli beati e i demonii. E questo è quello che insegnano i Padri, come si vedrà più sotto, ove saranno addotti i luoghi de' Padri che affermano quel segnacolo indelebile dare alle pure intelligenze notizia di quali anime sieno a Cristo consecrate. L' impressione del Verbo nell' anima intellettiva non può essere mai oziosa, e, come dicono i santi Padri, è anzi attivissima in tutte le potenze dell' uomo. Però l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia , parlando del carattere che imprime il Battesimo dice: [...OMISSIS...] . Ma l' azione che esercita in noi il carattere che riceviamo in alcuni Sacramenti, non ha per oggetto solamente gli abiti animali de' quali parla il citato Padre. Egli ha un' attività e produce degli effetti nella parte più nobile dell' uomo; ed è relativamente a questi effetti che pel carattere si aggiunge all' uomo una nuova potenza soprannaturale. Cerchiamo di chiarire la natura di questi effetti, di questa potenza. Due sono principalmente questi effetti; l' uno è l' attitudine che acquista l' anima e il diritto di ricevere o di amministrare gli altri Sacramenti: l' altro è la potenza di partecipare della grazia di Gesù Cristo. Parliamo del primo di questi due effetti. Col carattere indelebile che imprime il Battesimo, l' anima vien posta in tal condizione, che ricevendo gli altri Sacramenti, ella ne possa ricevere tutti i loro effetti. La Confermazione non fa che avvalorare e confermare, come mostra il suo nome, lo stesso carattere nel Battesimo ricevuto (2). Col carattere del Sacramento dell' Ordine poi l' uomo acquista una nuova potenza per la quale egli consacra l' Eucaristia, rimette i peccati ne' Sacramenti della Penitenza e dell' estrema Unzione, e amministra validamente i Sacramenti altresì della Cresima e dell' Ordine stesso. La potenza per ciò che acquista l' uomo relativamente agli altri Sacramenti è passiva od attiva . Passiva è quella del carattere del Battesimo e della Confermazione; attiva poi quella dell' Ordine, onde può l' uomo dare all' altr' uomo con certi riti il carattere e la grazia, o sia [di] amministrare con validi effetti i Sacramenti. Egli è difficile poi il diffinire se questa potenza spirituale che vien data all' uomo in conseguenza dell' impressione del Verbo nell' anima sua sia un effetto spontaneo e necessario di detta impressione come io credo almeno probabile, ovvero sia egli solamente susseguente, senza nesso di causa e d' effetto fra l' impressione del Verbo o carattere e detta potenza, come crede il Bellarmino, che vede in questo come un vero patto positivo fra l' anima e Dio; e però la chiama potenza morale e non fisica. [...OMISSIS...] Noi non veggiamo perchè il carattere non possa toccare il suo effetto, come dice qui il Bellarmino. Che se il carattere è luce del Verbo, fulgente nell' anima (3), chi può limitare la forza di un tale splendore? A quali effetti non può giungere la virtù del Verbo stesso? Però noi non veggiamo improbabile, a ragion d' esempio, che il carattere del Battesimo per un suo spontaneo e fisico effetto renda l' anima capace di ricevere il carattere della Confermazione. A quel modo appunto come nell' ordine naturale, il lume della ragione che sta nell' anima quando nasciamo, ci fa capaci di ricevere qualsivoglia altra cognizione che ci venga da un maestro insegnata; o a quel modo onde il lume primo della ragione, ci fa capaci di riflettere poi sopra lo stesso lume e per essa riflessione renderlo a noi più luminoso. Così nell' ordine soprannaturale, il carattere battesimale è un primo lume, e il carattere della Confermazione è un altro lume che ci sopraggiunge. Come dunque non intenderebbe un discorso pieno di luminose verità colui che non avesse intelligenza, ma quel discorso sarebbe a lui inutile e nulla significante; così invano si opererebbe il rito della Confermazione in chi non avesse ricevuto il Battesimo, poichè questi non sarebbe capace di percepire quel lume maggiore che nel carattere della Confermazione s' imprime. Ugualmente a niuna verità ripugna il credere che, coll' ordine sacerdotale, l' uomo che già pel Battesimo ha il Verbo in sè stesso acquisti una nuova potenza; cioè che il Verbo già impresso nell' uomo operi di guisa che mediante i riti necessarii usati da quest' uomo s' imprima in altrui il carattere della Confermazione, o si dia la rimession de' peccati, o il pane e il vino si consacri. A quella guisa appunto che chi ha la ragione ha altresì una nuova forza volontaria di operare, e di ammaestrare altri che hanno la ragione; così colui nel quale il Verbo diventa operante per la consecrazione sacerdotale, può trasfondere e comunicare in altrui della propria virtù e della propria luce secondo certe leggi e riti dalla volontà di Cristo costituiti. Or dovremmo parlare come il carattere sia anche la potenza della grazia, cioè in qual modo la grazia conseguiti al carattere per natural conseguenza, ove l' uomo colla volontà sua non vi ponga ostacolo. Ma di questo dobbiamo parlare più sotto distesamente; e qui fermiamoci un poco a trarre qualche conseguenza dal vero esposto, che il carattere sia potenza aggiunta all' anima, la quale per esso diviene atta a ricevere in sè gli effetti de' Sacramenti o a produrre questi effetti in altrui. Come nell' ordine della natura l' intelligenza è data all' uomo pel dono della luce dell' essere, così è data all' uomo una intelligenza soprannaturale pel dono della luce del Verbo che costituisce il carattere sacramentale. Come l' aggiungersi a noi la luce dell' essere è un crearci nell' ordine della natura, così l' aggiungere a noi pe' Sacramenti la luce del Verbo è un crearci nell' ordine della grazia. E come tutto ciò che fa Dio per via di creazione non lo distrugge più mai, poichè è egli solo che lo fa, senza il concorso della creatura, secondo ciò che sta scritto: « Non hai odiato nulla di tutto ciò che tu hai fatto« (1), » così nè l' uomo può più perder giammai l' intelligenza (2); nè può perder più mai il carattere, il quale per questa ragione si chiama indelebile. I Teologi della perpetua durata del carattere adducono appunto questa ragione, che egli è impresso in un soggetto incorruttibile, cioè nell' anima (1), la quale ragione ha tutta sua forza ove si tenga la sentenza nostra che egli giaccia nella stessa sostanza dell' anima, la quale viene modificata o piuttosto accresciuta con esso carattere. Di qui ancora s' intende che la generazione spirituale dell' uomo nuovo si fa pel carattere. Rechiamone alcune prove teologiche. Gesù Cristo diceva a Nicodemo: [...OMISSIS...] . Or qui Cristo al nascimento spirituale dell' uomo non richiede altro se non il Battesimo. Non è dunque la grazia che dà questa prima rigenerazione all' uomo, poichè il Battesimo può stare senza l' effetto della grazia, ma è desso il carattere, perocchè questo è un effetto necessario del Battesimo e ne forma la propria natura (3), conciossiachè quando il rito battesimale non imprimesse il carattere ei non sarebbe più il Battesimo di Cristo, ma un altro. Si noti ancora che il nascere non è mai opera della volontà di chi nasce, ma della natura (4). Ora la grazia non si può dare senza che la volontà ne venga piegata al bene dalla sua presenza, e questo è essenziale alla grazia, sicchè la rigenerazione della grazia non si fa mai se non per qualche cooperazione di volontà. S. Agostino da quelle parole di Gesù Cristo prova assai acconciamente che il Battesimo non si può iterare. Perocchè, dice: [...OMISSIS...] . Or su questa maniera di argomentare, che usa il gran Dottore, così ragioniamo:« Non può ripetersi il Battesimo, secondo S. Agostino, perchè è la nascita spirituale, perchè ripugna al concetto della nascita di una cosa o di una persona che ella si ripeta. Or qual è la vera e intrinseca ragione sola adotta dai Concilii di Firenze e di Trento, per la quale il Battesimo non può ripetersi? Non altra che il carattere indelebile (2). Dunque, conchiudo io, il carattere indelebile è quello che forma la nascita spirituale dell' uomo«. In tal modo (vogliam dirlo con sommo rispetto al gravissimo teologo che egli è) noi ci discostiamo dall' opinione del venerabile Bellarmino, il quale nega che sia al tutto solida e concludente l' argomentazione di S. Agostino da noi recata; la quale all' acutissimo Aquinate par anzi degna di collocarsi in primo luogo fra tutte quelle che provano il Battesimo non potersi ripetere (3). E questo scostarsi alquanto che fa qui l' Eminentissimo Bellarmino da due sì gran lumi procede, pare a noi, manifestamente dal non aver chiaro osservato o tenuto presente, come il nascer dell' uomo [cristiano] non sia altro che ricever il carattere del Verbo, trovando anch' egli solidissima la ragione del non potersi iterare il Battesimo nell' indelebilità del carattere (4). Si consideri che sino a tanto che non viene affetta la volontà il lume del Verbo non può chiamarsi grazia. Ora quando questo lume influisce a santificare la volontà prima di fare quest' atto egli irraggia necessariamente l' intelletto, poichè l' intelletto è anteriore alla volontà e la volontà non si piega se non dietro a ciò che è conosciuto. Dunque il lume del Verbo prima di tutto luce nell' uomo in uno stato nel quale non è ancor grazia e questa viene appresso. Ma la generazione è il primo passo onde comincia una persona. Onde la generazione propriamente parlando non si può attribuire alla grazia che appartiene all' uomo generato, ma sì bene alla primissima impressione del Verbo che si chiama carattere. Nè noi neghiamo per questo che possa dirsi generazione spirituale dell' uomo anche il primo ricevere ch' egli fa della grazia per una cotal similitudine. Perocchè come il figlio somiglia al padre, così l' uomo che ha la grazia somiglia a Iddio, e in questo senso Gesù Cristo diceva che gli Ebrei sono figli del demonio. Altra da questa è la figliuolanza di Dio che nasce dall' impressione del carattere. Chiamasi questa figliuolanza, perchè come mediante la generazione l' uomo comincia ad essere acquistando la sostanza di uomo, e però PUO` fare poscia gli atti da uomo; così colla luce del Verbo l' anima riceve la potenza degli atti soprannaturali, e colla sua sostanza è veramente nell' ordine soprannaturale, cioè congiunta al Verbo che l' ordine soprannaturale constituisce. Si può dire che col carattere sia data all' uomo una nuova natura; non so però se una nuova persona; poichè a questa si esige la volontà. Però parmi che col carattere la persona nuova sia già in potenza; ma che colla grazia si tragga quella potenza all' atto; quasi maritandosi la volontà al carattere : due generanti dell' uomo nuovo. Di questa generazione che si opera pel carattere si oda per tanto S. Giovanni Grisostomo. [...OMISSIS...] Or a conferma del detto recherò un bel passo di Ugone da Prato, nel quale questo scrittore ecclesiastico chiaramente attribuisce al carattere la generazione spirituale che nel Battesimo avviene. Enumerando egli le varie differenze che separano il Battesimo dalla circoncisione, venuto alla quarta differenza dice così: [...OMISSIS...] . Farò anche osservare finalmente, come in molti luoghi del Vangelo si rassomiglia Iddio a un padre, il quale ha de' figliuoli scapestrati e perduti, che egli poi anche ricupera. Or di questi figliuoli disubbidienti e ribelli al padre, non si dice però che cessino con questo da essere figliuoli. Ciò si vede principalmente nella parabola del figliuol prodigo, che propriamente è simbolo del cristiano dissipato e partito dalla casa paterna; il quale però è riconosciuto dal padre per suo, appena che a lui ritorna; perchè ha in sè la fisionomia e i segni a' quali il riconosce per figliuolo sebbene in cenci e coperto di lurida sordidezza, pallido e scarno di fame. Anche il battezzato in egual modo, per iniquo che e' sia al Padre celeste, non perde la figura di figliuolo, datagli nella prima generazione coll' impronta dello spirituale carattere e per suo suddito e figliuolo la Chiesa sempre li riconosce (2). Adunque come la circoncisione distingueva e segnava la famiglia di Abramo, così il carattere contrassegna e distingue la famiglia di Dio. Cristo è solo figliuolo di Dio per natura: i battezzati per questo si chiamano figliuoli di Dio, perchè hanno Cristo seco congiunto, perchè alle loro anime è immobilmente annesso il Verbo che costituisce appunto il« carattere« o segno pel quale Iddio gli riconosce essere della sua famiglia, perchè il Verbo innaturato in essi, per così dire, è suo vero figliuolo. In tal modo il Verbo nelle Scritture si chiama anche« SEGNO«. [...OMISSIS...] Nel capo LXVI d' Isaia Iddio parla manifestamente della generazione spirituale degli uomini, e dice alludendo a' tempi della venuta del Messia: [...OMISSIS...] e dopo vien subito a descrivere le glorie e la felicità della Chiesa, e dopo aver detto che le genti verranno e vedranno la sua gloria soggiunge: [...OMISSIS...] . Or questo segno è quel vessillo nominato tante volte in Isaia, cioè il venturo Messia (3). Cristo adunque è quello che« segna« gli uomini colla impressione di sè in essi e in tal modo dà loro l' adozione di figliuoli. Di qui s' intende chiaro perchè si dica da' Teologi, che Cristo non ha il carattere (4). Gli altri uomini hanno bisogno di essere segnati da lui, ma egli che è quello che segna non è segnato da altri, non può aver bisogno di esser segnato: gli altri uomini ricevendo l' impressione di Cristo partecipano la figliuolanza di Dio, ma Cristo è figliuolo di Dio per natura e non ha bisogno di partecipare della detta figliuolanza (5). Laonde quando Cristo è chiamato nelle Scritture« patto« egli si considera in sè come l' oggetto dell' alleanza di Abramo; quando è chiamato « segno« egli si considera ne' Cristiani ne' quali viene congiunto col Battesimo. La circoncisione all' opposto era bensì« segno« del patto; ma non il« patto stesso« come Cristo si appella (6). E quindi ancora apparisce ragione perchè i Teologi chiamino il carattere una consecrazione dell' anima (7). Consecrare una cosa è destinarla al culto divino, deputarla all' onore di Dio, a lui offerirla, acciocchè egli se ne serva a suo piacimento maggiore. Or io dico di più, che questa sola è vera consacrazione: perocchè interiore. Il Verbo stesso prende il possesso dell' anima, e mette in essa la sua fede, e l' anima così è nelle mani del Verbo consegnata. Or tutti i riti esterni non possono che significare la volontà degli uomini di destinare un oggetto qualunque al culto di Dio; ma non valgono a far sì che Iddio veramente ne prenda uno speciale possesso; o certo que' riti non costituiscono questo possesso stesso. All' incontro l' anima, ricevuto il carattere, è così al Verbo unita, che non può più scongiungersi; e però è veramente e perpetuamente al Verbo e dal Verbo consecrata (1). Anche per tal modo ha dato un verace e reale fondamento alla religione: ella non si assolve più in simboli esterni, ma ha per base una vera consecrazione. Di qui ugualmente si vedrà perchè S. Tommaso, seguito da tutti i Teologi, dica, che « i caratteri Sacramentali sono puramente altrettante partecipazioni del sacerdozio di Cristo, da Cristo medesimo derivate« (2). » Il sacerdozio di Cristo non terminava in offerire solamente degli esterni sacrifizii, senza propria virtù; offeriva un sacrificio interno, infinito, che era il massimo atto di culto e l' esaurimento di ogni morale perfezione. Egli avea una virtù propria, infinita, e il suo effetto non potea mancare; lucrava le anime degli altri uomini e le santificava. Questa virtù, che avea Cristo come sacerdote, di placare Iddio e tirarlo per così dire ad abitare nell' anime a cui si applicava l' effetto di quel sacerdozio, viene partecipata ai cristiani e forma il carattere indelebile. Dice il Bellarmino, come abbiamo anche di sopra notato, che in virtù del carattere viene stretto fra l' uomo e Dio un patto, pel qual patto Iddio si obbliga di concorrere alle azioni sacramentali, cioè a dire a tutti i mistici effetti de' Sacramenti (3). Noi abbiamo osservato, che non è propriamente un patto positivo la ragione per la quale Dio concorre agli effetti de' Sacramenti amministrati e ricevuti da chi ha il carattere; ma che la ragione di ciò è la virtù sacerdotale del Verbo impresso nell' animo (1). Perocchè Cristo fece ritornare, come accennammo, la condizione del primo stato d' innocenza, in cui non erano d' uopo de' patti positivi fra l' uomo e Dio (2). Di che Cristo ridusse al suo vero effetto ciò che al popolo Ebreo non era stato che promesso, ed esteriormente in varii simboli rappresentato: cioè di rendere il popolo « un regale sacerdozio, una gente santa« (3), » che viene a dire consecrata al divino culto. Cristo adunque potea solo essere un sacerdote verace, potente di chiamare Dio dal cielo e farlo amico dell' uomo; e di questa virtù sacerdotale comunicò all' uomo comunicandogli sè stesso. Tale è la natura del carattere. Noi abbiamo considerato in primo luogo il carattere in sè stesso, cioè nella sua qualità di carattere, e come tale l' abbiamo diffinito una unione permanente del Verbo colla essenza dell' anima intellettiva, per la quale l' anima percepisce il Verbo e se ne informa. Di poi l' abbiamo considerato come potenza, perocchè questa forma nuova dell' anima le aggiunge un potere soprannaturale che non avea prima; e questo potere la fa atta a due altissime e al tutto divine operazioni, cioè ad esercitare il culto del sacerdozio di Cristo e a partecipare della grazia (1). Abbiamo parlato della potenza che si riferisce agli atti sacerdotali o sacramentali; ora dobbiamo parlare della potenza che si riferisce alla grazia e alla santificazione dell' uomo. L' ordine in che stanno fra loro questi tre aspetti, in cui il carattere può considerarsi, è appunto questo accennato, che prima sta il carattere come carattere dell' anima, di poi viene il carattere come potenza del sacerdozio, e in terzo luogo il carattere apparisce come potenza della grazia. Rispetto all' ordine in che stanno questo due potenze che procedono dal carattere, l' angelico Dottore dice così: [...OMISSIS...] . Qui S. Tommaso mostra di considerare la disposizione o potenza dell' anima ad eseguire le cose appartenenti al culto come una conseguenza del carattere, e però non come carattere stesso: la nozione dunque di carattere, come carattere, precede a quella di potenza. Prosegue poi: [...OMISSIS...] . E in queste parole l' Angelico conferma ciò che abbiamo di sopra dimostrato, cioè, che il culto cristiano essendo principalmente interiore s' immedesima, rispetto a questa sua principal parte, colla santità. Vedesi ancora nelle stesse parole, come il potere di ricever la grazia venga dopo il potere di esercitare gli atti di culto, come il potere di esercitare gli atti di culto viene dopo il carattere preso nella sua propria nozione. Per questo medesimo la grazia è chiamata dal Maestro delle scuole « l' ultimo effetto del Sacramento« (1) » ed il carattere è detto il «« segno della grazia« (2). » Indi è che tutte le scuole convengono nell' affermare che il carattere precede alla grazia (3). Io dirò di più: il carattere precede alla grazia come la causa all' effetto. Questo essere intrinseco pensiero delle scuole cristiane vedesi da ciò, che il carattere si appella da esse concordemente« Sacramento«, nè così potrebbe appellarsi propriamente, ove segnando la grazia, non valesse altresì di sua natura a produrla, perocchè i Sacramenti della nuova legge hanno questo di proprio, che sono segni al tutto efficaci, ove non sia posto alcun obice volontario a questo loro effetto di santificazione. S. Paolo favellando del carattere dice: « Non vogliate contristare lo Spirito Santo, nel quale siete stati segnati nel giorno della redenzione« (4), » cioè del vostro Battesimo (5). Che vuol dire contristare lo Spirito Santo? Non altro che perdere la grazia colla commissione del peccato. Dunque lo Spirito Santo, nel quale siamo segnati, segnandoci, cioè imprimendoci il carattere, ci avea donata altresì la grazia. Egli è manifesto che S. Paolo in questo passo unisce il carattere e la grazia di una cosa sola, e considera queste due cose come effetti di una sola operazione dello spirito de' quali il principale e fondamentale è il carattere; e non pone che questa differenza fra l' esservi o non esservi la grazia, che nel primo caso lo Spirito Santo che segna l' anima è lieto ed amico, nell' altro caso egli è contristato. Anche in altri luoghi l' Apostolo unisce il carattere e la grazia come venienti dallo stesso fonte dello Spirito Santo, e come effetti di una sola operazione di lui (6). S. Paolo chiama altresì lo Spirito Santo che ci ha segnati, secondo la Volgata, « pegno della celeste eredità , » e secondo la forza della parola greca, « arra della elezione nostra (7): » il che viene a dire parte della gloria futura: giacchè l' arra è parte della cosa promessa che si anticipa in pegno del tutto, e ciò non si può intendere che nella grazia. I Padri della Chiesa tengono la stessa maniera di parlare, S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Qui dà il santo Vescovo per ragione dell' esser noi segnati questa, che un tal segno ci fa possenti a mantenere la grazia; il che mostra appunto come il carattere si possa chiamare la potenza della grazia, cioè la potenza di partecipare stabilmente della grazia del Redentore. In altro luogo dice il medesimo Dottore della Chiesa: [...OMISSIS...] . Qui congiunge al segnacolo spirituale i doni dello Spirito Santo, e mostra come dipende dalla buona volontà nostra il mantenerne gli effetti. Non poteva però far dipendere dalla volontà nostra il mantenimento del segnacolo stesso, che questo santo Padre in più luoghi dimostra al tutto indelebile. Questo segnacolo è chiamato« santo« (3) comunemente da' Padri, il che non sarebbe propriamente detto quando non aggiungesse all' anima alcuna santità. Però un celebre scrittore ecclesiastico dice, che il peccato di un battezzato, è simile a quello di un vassallo che falsificasse il sigillo del principe, e che al carattere indelebile dee susseguire la santità (4). Finalmente osservò che il Battesimo opera in virtù della passione di Cristo, e anche per questa cagione prova S. Tommaso che non si può rinnovare (5). Ora la ragione assegnata da' Concilii del non potersi rinnovare il Battesimo è quella dell' impressione del carattere indelebile. Ciò posto odasi il ragionamento di S. Tommaso: [...OMISSIS...] il che viene a dire, che tolto l' obice del peccato colla Penitenza, la virtù del Battesimo che rimane riproduce nell' anima la grazia battesimale. Ora perchè lo stesso ragionamento non si può applicare al Sacramento della Penitenza? Non per altro, dico io, se non perchè il Sacramento della Penitenza oltre la grazia non produce altro effetto, e però chi pecca dopo l' assoluzione sacramentale perde tutto l' effetto del Sacramento. Non così nel Battesimo, perocchè questo lascia il carattere anche dopo perduta la grazia, e questo carattere è radice sempre viva dalla quale, levato il peccato che la impediva, pullula e fiorisce l' ultimo effetto del Sacramento, cioè la grazia battesimale (1). Lo stesso si dica della grazia del Sacramento della Confermazione e dell' Ordine, che perduta col peccato, risuscita di bel nuovo tostochè il peccato sia tolto: perocchè rimane il carattere, il quale è quel fonte descritto da Gesù Cristo, che pullula un' acqua saliente in vita eternale (2). Il naturale effetto adunque del carattere è di santificare gli uomini colla emanazione di sè della grazia, e quando questa emanazione è impedita dalla perversa volontà, riman però viva nel carattere la potenza di riprodurla. Per questa natural congiunzione colla grazia santificante, di cui il carattere è come un fonte, viene altresì che i Padri attribuiscono al carattere l' essere segno di distinzione fra quelli di cui Cristo ha preso il possesso e fatti suoi, e gli altri da Cristo non posseduti; al qual segno gli Angeli li riconoscono e li difendono dalle nemiche insidie, o li separano e mettono, al tempo della messe, alla parte de' salvi. Di ciò credere v' è fondamento nelle Scritture. Perocchè di Cristo propriamente sta scritto, che [...OMISSIS...] . Ora se il carattere è appunto Cristo congiunto immobilmente coll' uomo nella sua parte intellettiva, ne viene che gli Angeli debbano esercitar quell' officio anche verso dell' uomo così segnato, che è come a dire Cristo per partecipazione. Però S. Basilio coerentemente al parlare delle Scritture dice, che Iddio dà le tessere a chi milita sotto di sè, soggiungendo: [...OMISSIS...] . Però io non vedo come alcuni teologi nieghino di conoscere a figura del carattere indelebile il sangue onde furono segnate le soglie delle porte de' figliuoli d' Israello in Egitto, quando passò l' Angelo uccidente i primogeniti; perocchè anzi non veggo cosa più acconcia di quel segno a significare il carattere di Cristo. Questo carattere viene impresso in virtù della passione di Cristo, per la quale operano i Sacramenti cristiani, ed è segno che difende i segnati dalla morte (1). Nè nuoce alla verità della similitudine, che il carattere non difenda i cristiani peccatori dalla dannazione; perocchè questo è accidentale impedimento posto al carattere, che per sè conseguirebbe indubitatamente quel salutevole effetto. Quindi anzichè con tali teologi, io me ne sto co' Padri più antichi della Chiesa a' quali non isfuggì la manifesta similitudine fra il segno del sangue nelle superliminari imposte degli Ebrei, e il carattere di Cristo ucciso, sulla cima dell' anima che è la sua parte intellettiva. E a conferma di ciò basti questo luogo di Gregorio Nazianzeno sopranomato il teologo per l' eccellente esattezza di sua dottrina: [...OMISSIS...] . Per la medesima ragione a me pare dover intendere del carattere quel T onde Ezechiele (3) predisse doversi segnare le fronti di que' che gemono e piangono, e onde nell' Apocalisse si affermano segnati gli eletti (4). Non è già che il Tau non significhi acconciamente la croce di Cristo, come oppongono quelli che negano esser egli figura del carattere. Ma appunto perchè egli è il segno della croce, sembrami acconcissimo a indicare il carattere che viene impresso in virtù della passione di Cristo (1). E si vorrà sostenere che le fronti di tutti gli eletti sieno improntate di una croce materiale? Il rito del segno della croce usato nella Chiesa non lascia nissuna impronta nella fronte corporalmente presa; ed Ezechiele parla di un segno che rimane nella fronte, scrittovi con inchiostro mistico, non dalla persona segnata, ma da un uomo biancovestito, che si descrive dal Profeta (2) e che si chiama espressamente un Angelo nell' Apocalisse « il quale ha il segno del Dio vivo« (3). » La fronte poi è acconcissima a indicare la parte suprema dell' anima in cui viene impresso il carattere. Solamente si può aggiungere, che il segno di cui parla l' Apocalisse, non è il carattere solo, ma unito colla grazia, poichè è quello di cui sono segnati gli eletti. E per la medesima ragione, onde al carattere gli Angeli conoscono quelli cui difendono, i demonii conoscono quelli da cui hanno a temere: [...OMISSIS...] . S' intende anche da ciò che è detto, perchè i Padri della Chiesa veggano nel carattere una caparra della celeste gloria: egli è quella luce del Verbo che rivelatasi interamente forma la celeste gloria. Spiegando quelle parole di S. Paolo « quegli che ci unse e segnò« (1) » Teofilatto dice, che [...OMISSIS...] . Il carattere, come abbiamo detto, è una cotal percezione del Verbo. Il Verbo lucente nell' anima produce varii effetti, che a due classi si riferiscono: la prima al potere del culto divino che nelle azioni sacramentali principalmente consiste; la seconda nel potere di partecipare stabilmente alla grazia del Redentore, ove non sia posto obice alcuno dalla volontà. Il Sacramento della Penitenza e quello dell' estrema Unzione ha per iscopo di levare dall' anima il peccato che è appunto l' obice che impedisce la infusione della grazia dal carattere di natura sua promanante; però questi due Sacramenti non imprimono carattere, ma lo suppongono. Il Matrimonio è un sacramento la cui essenza consiste in un contratto consumato e indissolubile. Lo scopo è di rappresentare l' unione di Cristo colla Chiesa, e però di santificare l' unione maritale a quel modo che è santa l' unione di Cristo. Perciò egli suppone bensì che ne' singoli contraenti sia già impresso il carattere, fonte della santificazione; ma egli nol dà questo carattere, non avendo un tal Sacramento di mira tanto la santificazione dei singoli in generale, quanto la santificazione dell' atto della loro unione particolare. E come l' unione maritale non è che una unione particolare delle persone, perciò essa non può che aggiunger loro un grado di santità speciale e grazia, ove le persone stesse si suppongano esser già nella grazia. Finalmente l' Eucaristia è l' unione di Cristo all' uomo per via della sua umanità in forma di cibo. Sono i corpi che si congiungono, di Cristo e del cristiano. Ora il carattere risiede nella parte intellettiva dell' uomo e non ne' corpi. Perciò l' Eucaristia non imprime il carattere. Ella è l' ultima finale santificazione dell' uomo che abbia il carattere e la grazia; perocchè come il carattere risiede nella parte intellettiva, così l' Eucaristia opera nella parte corporea e da questi due fonti procede la grazia nel cristiano acconciamente disposto. E avviene per la grazia che nella volontà risiede principalmente, che tutto l' uomo sia santificato tanto la parte spirituale che la corporale. Rimangono i tre Sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell' Ordine che imprimono il carattere, come detto abbiamo, imprimendo il Verbo nell' anima coi descritti effetti. [...OMISSIS...] Di ciascuno de' Sacramenti della nuova legge noi vogliamo parlare del modo ond' egli opera, e degli effetti che produce. Cinque sono i modi di operare de' Sacramenti della nuova legge. Perocchè operano o in modo simile a quello onde opera una medicina, o simile a quello onde opera il cibo, ovvero a quella maniera onde si comunica una potestà, o a quella onde si pronunzia dal giudice una sentenza, o finalmente a quella onde si stringe ed effettua un contratto. Per modo di medicina operano i tre Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell' estrema Unzione, i quali hanno una materia propriamente detta che applicano al corpo umano, come s' applica un rimedio alle corporali infermità, e quella materia è l' acqua del Battesimo e l' olio della Cresima e dell' estrema Unzione: per modo di cibo opera la SS. Eucaristia: per modo di comunicazione che altrui si fa di una potestà opera l' Ordine, nel quale la imposizione delle mani affigura la congiunzione dell' ordinante e dell' ordinato: per modo di giudizio opera il Sacramento della Penitenza assolvendo o ritenendo i peccati: per modo di contratto finalmente opera il Matrimonio che è un sacro contratto fra gli sposi. Poniam dunque mano a trattar brevemente di ciascuno de' sette Sacramenti della nuova legge; e prima del Battesimo, che è principio e porta di tutti gli altri. Non mi sta nell' animo di tenere su questo primo Sacramento del Battesimo lungo ragionamento, perocchè bastano al fine nostro le cose dette qua e là in quest' opera, che raccolte insieme, sufficientemente dichiarano la natura e gli effetti di questo lavacro di rigenerazione. Le raccorremo dunque tutte insieme ordinatamente e brevemente: e con questa recapitolazione ci studieremo di aggiungere qualche nuovo lume alle medesime. Osservammo adunque, che l' umanità di Cristo è il veicolo della santificazione degli altri uomini (1). Però prima che comparisse al mondo questa sacratissima umanità non vi poteva avere compiuta e reale santificazione. « La legge fu data per Mosè, la grazia, la verità fu fatta per Gesù Cristo« » disse Giovanni Battista, il quale confessava di avere ricevuto « dalla pienezza di Cristo« (2). » Il modo onde l' umanità di Cristo comunica la santità all' umanità degli altri uomini, non potea essere che pel contatto delle sue sacratissime carni da cui usciva virtù di sanare non meno il corpo che l' anima (3): purchè in quelli che toccavano il sacratissimo corpo, non vi avesse mala disposizione (4). Il contatto però delle carni sacratissime di Gesù Cristo vivente in questo mondo non potea essere che di pochi; e l' amore di Cristo voleva che la santificazione dovesse potersi comunicare agli uomini di tutti i luoghi, di tutti i tempi. A sì grande uopo egli comunicò la virtù che usciva dalle proprie carni a degli elementi materiali, e così istituì i Sacramenti. E questa comunicazione medesima noi crediamo venir fatta mediante un mistico ed ineffabile contatto del corpo glorioso e invisibile di Gesù Cristo cogli elementi costitutivi delle materie sacramentali. Perocchè la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo è tale, che non pur santifica l' umanità degli altri uomini immediatamente al contatto con essa, ma dà la virtù santificante anche a quegli elementi inanimati che ella a sè congiunge e tocca, i quali elementi dagli uomini toccati producono in essi santificazione. Come ciò avvenga, non vogliamo noi perscrutare troppo curiosamente; basti il cenno fattone innanzi (1). Osserveremo solo, che la virtù santificatrice uscente dal corpo di Cristo unito al Verbo, era però sempre soggetta e dipendente dalla volontà di Cristo; la quale poteva, secondo ciò che sapienza esigeva, variamente temperarla, raffrenarla, sommetterla a certe leggi e ben parse condizioni (2). Però appena che Cristo fu concepito e che nacque, non tutta si fece manifesta questa stupendissima virtù del suo corpo; parte a dir vero per la disposizione manchevole degli uomini (3), ma parte altresì pel consiglio della sua sapientissima e ordinatissima volontà. Or circa trent' anni si rattenne Cristo all' oscurità della vita privata: poi cominciò il divino suo pubblico ministero. Al cominciamento fu battezzato da Giovanni, e i Padri della Chiesa attribuiscono al contatto delle divine carni la virtù che ricevette l' acqua di mondare le anime degli uomini da' peccati (1). Ma perciocchè solo un po' di quell' acqua ebbe toccato veramente il divino corpo di Gesù Cristo (2); convien dire, che quel primo contatto dell' acqua del Giordano, in cui s' immerse il Redentore, fosse fatto, non tanto a comunicare effettivamente a tutte l' acque che non toccarono in quell' occasione il suo corpo la virtù di mondare i peccati, quanto a dimostrare la grande verità, che dall' umanità sua sacratissima usciva la virtù santificante e comunicavasi alle cose inanimate e materiali; e fosse fatto altresì a determinare il momento, in cui alla volontà sua piaceva di lasciare uscir libera di suo corpo quella virtù, il momento cioè dell' istituzione del Battesimo; e finalmente fosse fatto a indicare e significare il mistico e invisibile contatto reale di suo corpo coll' acque della rigenerazione (3). Nè il Battesimo così istituito traeva meno virtù dal sacrificio della croce, sebbene non ancora consumato. Perocchè un tal sacrificio era già consumato nel cuore di Cristo, i cui patimenti d' infinito valore erano già incominciati. Tuttavia il Battesimo in tal momento istituito dal divino Redentore non produceva ancora tutti quegli effetti, che da lui uscir doveano dopo la venuta dello Spirito Santo. In primo luogo egli non era ancora necessario alla salute, primieramente perchè non era ancora abrogata la legge Mosaica, che rimase estinta solo nella morte di Cristo; poscia perchè non era solennemente promulgata la legge Evangelica, che fu solo il dì della Pentecoste (1). Potrebbesi domandare, se il Battesimo da Cristo istituito, se non alla salute, fosse necessario almeno a riceverne i due essenziali effetti del carattere e della grazia abituale. Rispondo, vivente Cristo, il contatto delle sue sacratissime carni aver potuto a ciò supplire pienamente; quelli però che non erano a Cristo vicini e toccar nol potevano, aver avuto bisogno del Battesimo non alla salute, ma sì al conseguimento in questa vita di quei due mirabili doni. E facendoci più vicini a ricercare la differente virtù del Battesimo di Cristo appena istituito nel Giordano, e amministrato dopo la venuta del Spirito Santo, dico da prima non esser mancato nulla di ciò che appartiene all' essenza del Battesimo di Cristo appena ch' egli fu istituito; perocchè produceva i due effetti del carattere e della grazia. In che il carattere consista, l' abbiamo veduto, e così pure la grazia. E col carattere e colla grazia da lui uscente nasce l' uomo novello, l' uomo soprannaturale (2). Il primo concepimento di quest' uomo si fa mediante il carattere; ma il compimento di questa nascita non si ottiene che per la grazia. Conciossiachè essendo la persona un principio d' azione, e anzi il più sublime principio d' azione che sia nell' umana natura (3), apparisce che in alcun modo può dirsi col carattere nascer l' uomo, ma compiutamente non nascer che colla grazia. Cioè non può negarsi, che tosto che l' uomo riceve il carattere non abbia una nuova potenza in sè medesimo soprannaturale; ma essendo contraria la volontà, non v' ha ancor nell' uomo un principio volitivo soprannaturale, e nel principio volitivo è solo il principio d' azione compito. L' uomo che ha solo il carattere si potrebbe adunque dire aver in sua balìa la potenza di nascere soprannaturalmente, anzichè la nascita stessa (1). Perocchè il principio d' azione soprannaturale dell' uomo non è ancora posto in atto. Solo può essere all' atto ridotto, se la volontà si approfitta della luce del carattere ad operazione soprannaturale (2). Tostochè dunque il Battesimo fu da Cristo instituito, esso fu suo Battesimo, potente a rigenerar l' uomo col carattere e colla grazia. Tuttavia questi due effetti poterono sofferire diverse modificazioni ne' diversi tempi che corsero dal Battesimo di Cristo nel Giordano fino alla venuta dello Spirito Santo nel dì della Pentecoste: ed ecco in che modo. Il carattere è Cristo unito coll' anima, come abbiamo veduto. E Cristo non poteva unirsi coll' anima se non a quel modo in cui veramente si trovava essere. Dunque Cristo ancora vivente doveva unirsi coll' anima vivo; Cristo morto doveva unirsi coll' anima morto; Cristo glorioso doveva unirsi coll' anima glorioso. Nella gloria poi Cristo ebbe due stati, conversante in terra co' discepoli dopo la Resurrezione, e salito al cielo alla destra del Padre invisibile a' viatori e mandante di là lo Spirito Santo. In questi diversi periodi di tempo il Battesimo congiungeva all' anima del battezzato Cristo, in quello stato in cui si ritrovava. Or abbiamo detto, che dalla volontà di Cristo dipendevano gli effetti della virtù ineffabile della sua divina umanità; e che egli moderava e temperava questi effetti ordinatissimamente secondo che esigeva la infinita sua sapienza. E questa sapienza richiese, che a' diversi stati della sua umanità egli riserbasse certi effetti; e però che certi determinati doni e grazie provenissero dalla sua umanità ancora vivente in questo mondo, certi altri scaturissero dalla sua morte; certi dal suo corpo risorto, e finalmente certi dall' umanità sua già posta nell' altissimo trono de' cieli alla destra del Padre. Laonde il Battesimo acquistò virtù successivamente dall' umanità di Cristo a produrre tutti que' diversi effetti. S. Paolo parlando del Battesimo, amministrato a' fedeli dopo che gli Apostoli ebbero ricevuto lo Spirito Santo, attribuisce gli effetti di questo Sacramento appunto ai varii misterii o stati di Cristo. [...OMISSIS...] Qui l' effetto della giustificazione viene attribuito alla giustizia di Cristo senza farsi ancor menzione di sua morte. Prosegue l' Apostolo: « Ignorate forse, che tutti voi quanti siete battezzati in Cristo Gesù siete stati battezzati nella morte di lui?« (2). » Di che trae questa conseguenza. « Noi che siamo morti al peccato in che maniera vivremo ancora in esso?« (3); » attribuendo così alla morte di Cristo l' effetto della perseveranza nella grazia di lui e l' esser morti interamente al peccato. Però il Battesimo dopo la morte di Cristo dovea una virtù maggiore manifestare aggiungendo all' uomo forza di vincere la concupiscenza, che S. Paolo dice crocifissa in Cristo, e tal forza, per la quale l' uomo, che ad essa debitamente risponda, può vivere come morto al peccato, vivendo di una vita al tutto spirituale, secondo ciò che dice l' Apostolo: « Voi poi non siete più nella carne, ma nello spirito« (4). » Come poi dalla vita di Cristo veniva la giustificazione, e dalla morte il fermo proposito di non più peccare; così dalla Risurrezione l' Apostolo stesso deduce l' effetto di una luce maggiore data all' anima, la quale intende e comincia a partecipare le gioie della vita gloriosa. Il qual effetto non potea produrre il Battesimo, se non dopo la resurrezione: [...OMISSIS...] . E dice alla similitudine della sua morte e della sua risurrezione. Perocchè tutto l' operare di Cristo tende mai sempre a render simili i suoi redenti a sè stesso causa esemplare; e però non è credibile cosa che partecipasse ad essi quanto in sè non era proprio pienamente compito. E si osservi come la causa esemplare non è altro che una rappresentazione o effettuazione di ciò a cui altri si dee conformare; è una norma, un' immagine e quasi una pittura originale onde debbono ritrarre le copie. Ciò dunque che Cristo esprime in sè stesso quale esemplare, è ciò che produce volontariamente ne' suoi santi tali cose: nello stato suo viene significato ed espresso quello stato che dee esser prodotto e che produce in questi. Di qui la ragione perchè anche i Sacramenti sieno segni ed espressioni di ciò che producono. Ma ciò che esprimono e significano, non è condotto ad effettuazione se non dal corpo di Cristo, come istrumento della divinità; e però si richiede che lo stato di questo corpo sia acconcio a tali effetti: e questa è la perpetua dottrina di S. Paolo. [...OMISSIS...] Parole che assai acconciamente esprimono come dalla morte di Cristo scaturisca qual proprio effetto la piena vittoria dell' uomo sulla sua concupiscenza: per la qual vittoria l' uomo non pregia più il corpo presente e i desiderii di lui, ma il tiene per morto e alla morte volentieri l' abbandona: il che è quanto dire, proprio effetto della morte di Cristo è il distacco da tutte le cose umane. Della risurrezione all' incontro proprio effetto è l' unione e la percezione sensibile delle cose divine: « Se poi siamo morti in Cristo, crediamo che vivremo anche insieme con Cristo« (3). » Dalla costanza poi della vita nuova di Cristo viene la costanza della percezione delle cose divine. [...OMISSIS...] Alla Ascensione poi di Cristo appartiene lo Spirito Santo che dalla destra del Padre Cristo mandò sulla terra: « Dio è che giustifica, chi è che condanna? Cristo Gesù che è morto, anzi che è risorto, che sta alla destra di Dio, che anche interpella per noi« (1): » cioè che prega e ottiene dal Padre lo Spirito Santo e i doni per gli uomini. E dopo la venuta dello Spirito Santo sopra gli Apostoli questo stesso s' infonde nel santo Battesimo. Già abbiamo veduto che cosa voglia dire propriamente l' espressione biblica del « ricevere lo Spirito Santo« (2). » Or a me pare, che con questa dottrina si possa conciliare colla sentenza degli altri Padri quel celebre passo di S. Leone, nel quale questo Sommo Pontefice e accuratissimo Dottore sembra di volere insegnare, che il Battesimo di Gesù Cristo sia stato istituito solamente dopo la sua risurrezione. Secondo noi il sommo uomo volgeva allora nell' animo quell' effetto particolare, che cominciò al Battesimo solo dopo la risurrezione di Cristo, come pure l' istituzione espressa della forma da usarsi nel Battesimo; non precisamente la prima istituzione di questo Sacramento. Si ascolti come parla il santo Dottore e veggasi come le sue parole possano ricevere il significato che noi loro attribuiamo. Egli scrive a' Vescovi di Sicilia, che il dì di Pasqua è il più conveniente ad amministrarsi il Battesimo, e il prova con queste parole: [...OMISSIS...] . Ora perchè mai questa virtù del Battesimo, di cui parla S. Leone, non si può intendere di quella, che anche noi diciamo essersi aggiunta a questo Sacramento colla divina Risurrezione? La specie poi dell' azione nacque al Battesimo dall' aver in quel dì fatta Cristo espressa menzione della forma onde egli voleva che indi in poi il Battesimo suo fosse amministrato, cioè coll' espressa menzione della santissima Trinità. Ma non potea per innanzi amministrarsi ugualmente il Battesimo colla nuncupazione del solo Cristo? il tener ciò non è punto sentenza dalla Chiesa riprovata (4). D' altra parte, egli pare più conveniente, che così passar dovesse la cosa; perocchè il Verbo erasi bensì comunicato agli uomini ma non ancora lo Spirito Santo, come espressamente dice S. Giovanni: « Lo spirito non era ancor dato, perocchè Cristo non era ancora glorificato« (1). » Or non essendo dato ancora lo Spirito Santo, nè per conseguente quella che noi abbiamo chiamata grazia triniforme , pare assai probabile secondo noi, che la Trinità non potesse essere nominata e invocata pel conferimento del Battesimo, ma solo il Verbo; ricevendosi con tale Sacramento allora solo la grazia chiamata da noi verbiforme . Si dirà che lo Spirito Santo non era ancor dato subito dopo la Risurrezione, essendo venuto sugli Apostoli il dì di Pentecoste. Rispondo, che, in questo dì venne [lo Spirito Santo] sugli Apostoli con ogni pienezza, secondo le parole degli Atti apostolici « furono tutti ripieni di Spirito Santo (2) » e ancora «« riempì tutta la casa dove stavano a sedere« (3); » ma che però erasi cominciato dare agli Apostoli subito dopo la Risurrezione, come quando soffiò Cristo verso gli Apostoli, e disse: « Ricevete lo Spirito Santo« (4), » e come allora che disse in presente « ed io mando il promesso del Padre mio in voi« (5), » volendo significare che già glorioso com' era poteva da sè mandarlo, se non che attendeva di salire al Padre, per mandarlo di là pienamente. Ed è degno di osservarsi altresì, che sebbene agli Apostoli fosse, solo dopo la Risurrezione, ordinato di battezzare tutti gli uomini, e da quell' ora ne avessero ogni potestà, fatti veri e ordinarii ministri di questo Sacramento (6); tuttavia era loro ordinato di aspettare la venuta piena e solenne del Santo Spirito prima che ponessero mano a esercitare un tanto ufficio di battezzare il mondo tutto. Il perchè dopo accordatagli una tale facoltà, Cristo soggiunse però ancora: « Voi poi sedete nella città fino a tanto che siate rivestiti dall' alto di fortezza« (7) » venendo così loro a dire: sostenete però a esercitare questo vostro grande ministero fino a che riceviate lo Spirito Santo, e possiate allora comunicare la pienezza degli effetti del Battesimo. Al quale sentimento pare anco alludere il Redentore, quando chiamò la venuta dello Spirito Santo Battesimo , Battesimo suo proprio, e tutt' altro da quel di Giovanni. [...OMISSIS...] E allora battezzati voi pienamente col Battesimo mio, il potrete conferire anco agli altri uomini; essendo già il cielo apertosi e disceso sul mondo il mio Spirito, onde viene al Battesimo dell' acqua ogni sua forza. Sì, dopo la Risurrezione gli Apostoli ricevettero, come dice S. Leone, la forma del Battesimo che poi si usò nella Chiesa; e la potestà di esercitarlo, essendo da quell' ora costituiti ministri ordinarii di questo Sacramento; ma la ricevettero questa potestà e quest' ordine di battezzare il mondo, perchè ne facessero uso solo dopo il dì della Pentecoste (1). Nè questo toglie punto che il Battesimo di Cristo forse instituito già prima, atto a produrre tutti i suoi essenziali effetti; sebbene poscia vi si aggiungessero degli effetti maggiori e nuovi secondo i misteri diversi che si succedevano e adempivano nel Salvatore. Nè in tal caso era bisogno che il battezzato avanti la morte di Cristo, si ribattezzasse dopo di questa, perocchè egli aveva il germe di tutti gli effetti futuri, i quali venivano in lui sviluppandosi più tardi all' occasione che Cristo mutava di stato e rendeva più efficace il carattere e la grazia già ricevuta (2). Or proseguiamo. Fin qui abbiamo parlato dei diversi effetti del Battesimo corrispondenti agli stati diversi del corpo di Cristo quanto all' ordine della grazia nella vita presente: ora tocchiamo la diversità degli effetti del Battesimo quanto alla futura. Il battezzato che fosse morto prima di Cristo, sebbene non potea essere ammesso alla gloria, perchè Cristo era ancora sofferente in terra; tuttavia dovea a differenza de' giusti morti senza Battesimo ritenere l' impressione del carattere e della grazia di Cristo come nobilissima e gloriosa insegna e certa caparra di futura gloria, e per tal marchio dovea avere una mistica comunicazione con Cristo ancora vivente e di essa non poco godere. Dopo la morte di Cristo poi l' anima battezzata e senza peccato era ammessa alla visione di Dio per la visione del Verbo e dell' anima di Cristo già gloriosa. Imperciocchè Cristo avea finito di patire e meritato tutto: sicchè l' anima di Cristo, scevra oggimai di ogni molestia, abbandonavasi volontariamente nelle delizie della unione ipostatica senz' altro affanno, benchè il corpo non fosse ancora surto alla gloria. L' anima del battezzato però sebbene già beata non dimoravasi per questo in cielo, ma là dove era Cristo, a cui stavasi unita; l' essere in cielo è aggiunta di maggior gloria e felicitazione. Nella parola però detta da Cristo al ladrone: « Oggi tu sarai meco in Paradiso« (1), » questa voce di Paradiso pigliasi per la stessa visione beatifica, venendo a significare che Paradiso è ogni luogo per l' anima che vede Dio (2). Dice però meco facendo conoscere che la beata visione quel ladro acquistavala per la unione con Cristo. Dal corpo poi risuscitato del Redentore il Battesimo acquistava virtù di ravvicinare e risuscitare il corpo degli altri uomini; venendo dato all' anima, con esso il Battesimo, quello spirito potente che ha virtù di aggiungere vita alla materia inanimata, e di cui parla S. Paolo, ove dice: [...OMISSIS...] il quale spirito secondo l' Apostolo rivela, cioè mostra con esteriori segni di gloria quali siano i figliuoli di Dio (4). E qui non sarà utile aggiungere parola del Battesimo considerato come segno. Definizione di S. Agostino è questa: « Sacramento è segno di cosa sacra« (5). » Ma che è poi questa cosa sacra significata ne' Sacramenti? Il Catechismo del Concilio di Trento risponde: [...OMISSIS...] . Si potrebbe anco aggiungere che per la cosa sacra significata ne' Sacramenti si comprende non meno la grazia che il carattere, potendosi anche questo contenere sotto il significato generale di grazia, essendo anche il carattere una grazia o dono gratuito di Dio, e il fonte, come detto è, dell' acqua viva della grazia. Or a significare la grazia non era altra via che rappresentare la causa prossima della grazia e i suoi effetti ; perocchè essa grazia propriamente non può essere effigiata, come quella che niente ha che fare colle sensibili cose. Però l' Eucarestia, a ragion d' esempio, significa ad un tempo il corpo ed il sangue di Cristo commestibile, che è la causa prossima e il fonte di quella grazia che nell' augustissimo de' Sacramenti si contiene, e per esso corpo, sotto la specie di pane e di vino, la grazia nel suo effetto della nutrizione e incorporazione spirituale (2). Applicando la stessa dottrina al Battesimo apparrà chiaramente, perchè egli significhi ad un tempo la morte , la sepoltura e la risurrezione di Cristo; essendo Cristo morto, seppellito e risorto la cagione prossima de' diversi gradi di grazia, che nel Battesimo vengono conferiti: e nello stesso tempo rappresentano la grazia medesima per mezzo degli effetti che in noi produce, configurandoci al nostro esemplare Gesù Cristo. Così appariscono connessi insieme e ridotti ad unità tutti i diversi significati da' Padri e Scrittori ecclesiastici al Battesimo attribuiti (3). Diciamo grazia sacramentale a quella che è proprio e peculiare effetto di un Sacramento. Non è più difficile definire qual sia la grazia sacramentale del Battesimo, dopo tutto ciò che abbiamo ragionato intorno a questo Sacramento. La grazia sacramentale del Battesimo consiste nella comunicazione della vita soprannaturale di Gesù Cristo. Gesù Cristo possiede la pienezza della vita soprannaturale in proprio e per primordiale costituzione a cagione dell' unione ipostatica in lui avverata fra la natura umana e divina. Perocchè la vita soprannaturale consiste nell' unione reale fra l' uomo e Dio (1). Cristo ottenne dal Padre di comunicare della propria vita agli altri col merito della sua passione: l' ottenne per giustizia, e non per grazia. In conseguenza di che nacque ciò che disse S. Giovanni: [...OMISSIS...] . La comunicazione della vita di Cristo agli altri uomini si fa in un modo simile a quello della comunicazione della vita naturale alle particelle inanimate del cibo. Queste particelle non hanno la vita prima d' essere accostate strettamente alle parti vive del corpo, come accade nella nutrizione: accostate nel modo debito alle parti vive, ricevono la vita divenendo carne e sangue vivo. Così abbiamo detto che il corpo di Cristo comunica la vita spirituale a questi uomini che unisce a sè, e la comunica non solo per l' immediato contatto, ma ben anco con dei mezzi, il primo dei quali è l' acqua. Convien riflettere a quello che fu già detto altrove, cioè che quando l' uomo acquista la vita soprannaturale, o visione incipiente di Dio, non nasce già alcuna mutazione in Se stesso, che è immutabile, onnipresente e conoscibile per sè stesso; ma nasce solo una mutazione nell' uomo che acquista la virtù visiva a quel modo come se si desse vita ed occhi ad una pianta in sul pieno meriggio; la qual pianta comincerebbe pur allora a vedere il sole senza che fosse nata alcuna mutazione nel sole. E volendo parlare ancora più accuratamente, dovrebbesi dire, che l' uomo rigenerato soprannaturalmente, riceve non tanto la virtù visiva quanto la stessa visione. L' uomo dunque pel Battesimo s' incorpora a Cristo, secondo la frase consacrata dalla Chiesa, e così partecipa , in Cristo, della visione di Dio che ha Cristo. Che questa incorporazione poi dell' uomo colla umanità sacratissima di Cristo, la quale si opera ineffabilmente nel Battesimo, sia un' unione sostanziale comunicante la stessa vita, e non una unione puramente accidentale, apparisce da quelle diverse similitudini usate da Cristo a significare l' unione di sè coi discepoli suoi. Perocchè ora rappresenta sè come una vite, e i discepoli come tralci che escono dalla vite, onde ricevono la nutrizione e tutta la vegetazione (1); talora egli è il capo di un corpo del quale i discepoli suoi formano le membra (2); altra volta egli è il seme marcito sotterra dalla sostanza del quale sbuccia l' albero rappresentante la Chiesa (3): e non di rado Egli è il cibo che si converte nelle carni e nel Sangue dei suoi diletti; tutte similitudini tolte da unioni sostanziali che avvengono nella natura. Dice ancora Cristo di sè stesso, che egli è la vita (4): di che apparisce, che gli uomini non possono avere la vita se non hanno Cristo, cioè se a lui non sono congiunti in una cosa sola, sicchè una stessa vita sia quella che a tutti si comunica, come una sola vita è quella di un solo corpo, una sola vita è quella che ricevono le particelle del cibo cangiato in carne e in sangue in un uomo vivo. Questa sostanziale e vitale unione adunque degli altri uomini con Cristo si opera nel Battesimo; e innanzi al Battesimo, la vita non è immanente nell' uomo. Abbiamo distinto l' effetto della santificazione dell' uomo, dall' unione sostanziale con Cristo, e abbiamo detto che in questa unione consiste il carattere. Acciocchè questa unione produca la vita compiuta dell' uomo è necessario che influisca a bene sulla volontà dell' uomo, inclinandola e convertendola a Dio. Questo avviene ove la volontà stessa non resista e ponga ostacolo col vigore suo proprio che si chiama libertà. In questo caso, nel quale la volontà ricalcitra (ciò che non può avvenire che nell' adulto) havvi nell' uomo la potenza, il principio, il germe della vita (l' unione sostanziale): ma non la vita nel compiuto suo atto, che solo nella volontà del bene si spiega. Dato adunque il carattere o unione con Cristo, primo effetto del Battesimo, potendo questo produr fuori le sue conseguenze, avviene: 1. La remissione del debito dell' uomo con Dio, quello del peccato originale, e quello del peccato attuale commesso avanti il Battesimo. Questo è ciò che si chiama nelle Scritture la morte dell' uomo vecchio (1). 2. La inclinazione buona della volontà proveniente da una luce nell' intelletto, nel che consiste propriamente la grazia positiva santificante. Questo è ciò che nelle Scritture suol dirsi la risurrezione dell' uomo nuovo (2), e che da' Padri è attribuita allo Spirito Santo. Questa prima grazia santificante, abituale, immanente nell' uomo è adunque la grazia sacramentale del Battesimo. Questa grazia del Battesimo differisce dalle grazie attuali e transeunti principalmente per la sua immanenza nell' uomo; perocchè essendo stabilmente dato all' uomo il fonte della grazia (il carattere), anche la grazia che da quello rigurgita è continua, ove ostacoli non vi si frappongano. Questa grazia battesimale è triniforme per le ragioni dette: i vestigi della Trinità che mette nell' anima sono: 1. un sentimento di Dio in Cristo (forza infinita), 2. una luce intellettiva, e 3. un amore al bene: tre elementi contemporanei dello stato di santità in cui l' uomo viene costituito. E qui ci sia permesso aggiungere a conclusione di quanto esponemmo sul Battesimo la dichiarazione di quel celebre passo di S. Giovanni: [...OMISSIS...] . Quanto ne pare a me, questo passo risguarda il Battesimo. S. Giovanni parla di quelli che sono nati da Dio, e dice: « Tutto ciò che è nato da Dio, vince il mondo« (3). » Ora secondo la dottrina cattolica, l' uomo nasce da Dio pel Battesimo. Il nascimento dell' uomo pel Battesimo poi si fa mediante la fede che viene infusa nel Battesimo (4); cioè mediante quel lume datoci nel Battesimo, per lo quale noi cominciamo a percepire Iddio, e veggiamo che è degno di fede, e a lui crediamo e aderiamo colla nostra volontà. Quindi soggiunge S. Giovanni: « E questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede« (1). » Ma qual è l' oggetto immediato della nostra fede? Abbiamo veduto che nel Battesimo l' uomo viene congiunto immediatamente a Cristo, e per Cristo a Dio. Per ciò S. Giovanni proseguendo a dichiarare la nostra fede che vince il mondo ne fissa l' oggetto appunto in Cristo, dicendo immediatamente: [...OMISSIS...] . Ma resta a cercare: come è poi che Cristo si congiunge con noi, si fa sentire a noi, e così diviene l' oggetto immediato della nostra fede? Egli è qui che S. Giovanni tocca i mezzi adoperati da Cristo per congiungersi a noi, e dice che furono tre; cioè: 1. il suo sangue, pel quale si acquistò dall' eterno Padre il diritto e la piena libertà di poter comunicare agli uomini la percezione di Dio che era in lui piena e compita; 2. l' acqua che egli scelse perchè fosse il veicolo onde passasse negli uomini la vita soprannaturale; e finalmente 3 lo Spirito Santo che al tempo stesso che l' acqua monda il corpo viene infuso nell' anima di chi è battezzato. Descrive adunque S. Giovanni il modo onde Cristo produsse negli uomini la fede in lui: [...OMISSIS...] . Queste ultime parole spiegano la connessione del discorso di S. Giovanni. Lo Spirito testifica che Cristo è verità: è quanto dire, che Cristo è degno a cui si creda. Perocchè se noi veggiamo la verità, noi non possiamo a meno di crederle; sicchè per infondersi in noi la fede verso Cristo Gesù, basta che infonda in noi quel lume pel quale veniamo a conoscere che egli è la verità. Dice poi: Non nell' acqua sola; perocchè l' acqua sola non basta a salvarci; ma dovea ricevere la sua virtù dal sangue di Cristo, altrimenti sarebbe stata come l' acqua di S. Giovanni Battista o de' Battesimi dell' antica legge: conciossiachè Cristo solo coll' aver patito e sparso il suo sangue, come detto è, si acquistò dal Padre la signoria del genere umano. Ma il Battesimo non c' infonde solamente la grazia verbi7forme, cioè quella che ci fa conoscer Cristo; ma sì bene la grazia triniforme, come abbiamo veduto; conciossiachè in Cristo conosciamo il Padre che è principio di lui, e da Cristo riceviamo lo Spirito Santo, che procede dal Padre pel Figlio. Così la nostra mente è irraggiata da un trino raggio, il quale vieppiù ci attacca a Cristo, dal quale a noi venne. S. Giovanni adunque distingue quelli che non sono ancora rigenerati da quelli che già hanno avuto la soprannaturale generazione. Quelli che già sono generati e nati di Dio, avendo in sè la grazia triniforme, sono confermati da essa nella loro fede e unione con Cristo; ma quelli che non sono ancora rigenerati col Battesimo non possono esser condotti alla fede e all' unione di Cristo se non dall' acqua del Battesimo, che per la virtù del sangue del Redentore comunica loro lo Spirito. Per indicare i primi, usa S. Giovanni, secondo lo stile delle Scritture, la parola cielo , e per indicare i secondi usa S. Giovanni la parola terra e dice così: « Poichè tre sono quelli che danno testimonio (a Cristo) in cielo » (cioè nelle anime rigenerate dal Battesimo), «il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, e questi tre sono una cosa. E tre sono quelli che dànno testimonio (a Cristo) in terra » (cioè agli uomini non ancora rigenerati dal Battesimo), «lo spirito e l' acqua e il sangue, e questi tre sono una cosa«, » o come dice il greco, sono volti a un solo fine (1). E chi ha meditato sulla lingua enigmatica delle Scritture, non troverà difficoltà alcuna sull' interpretazione de' vocaboli cielo e terra , il primo de' quali è spiegato da Cristo, come abbiamo detto altrove, quando disse che è il trono di Dio, e nissun trono ha Dio migliore delle anime sante; e così pure la voce terra , quando disse che è lo sgabello de' suoi piedi, similitudine tolta da' re d' Oriente, che facevano servire di loro sgabello il dorso de' principi captivati in battaglia e fatti schiavi, a cui ben si assomigliano gli uomini non rigenerati che servono colla loro soggezione alla maestà di Dio. Si consideri che sarebbe assurdo, se non erro, interpretare la parola cielo per lo stato de' beati, quasichè nella vita presente la Santissima Trinità non desse nessuna testimonianza a Cristo, quando anzi Cristo stesso adduce, parlando agli Ebrei, la testimonianza che gli rende il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo (1), e adduce contro essi il testo della legge, che « nella bocca di due o tre testimonii sta ogni parola« (2). » Conchiude poi S. Giovanni, che « chi crede nel Figliuolo di Dio » (cioè che è unito a lui nel Battesimo) «ha il testimonio di Dio in sè« » (cioè ha il testimonio in sè della Santissima Trinità) (3). E spiegando vieppiù la natura di questa testimonianza interiore, dice che per tale testimonianza si sente che Iddio ci ha dato la vita eterna (la quale comincia nel Battesimo), e che questa vita è nel suo Figliuolo, il quale disse di esser la vita; sicchè la vita nostra soprannaturale non è che una partecipazione della vita divina di Cristo. [...OMISSIS...] Quanto poi a' Battesimi di sangue e di desiderio essi non sono Sacramenti. E sebbene convengano col Sacramento del Battesimo nell' effetto che apportano all' uomo di salvarlo, tuttavia essi differiscono principalmente nel modo onde lo salvano. Conciossiachè il martirio e il voto del Battesimo non hanno loro effetto fino a tanto che l' uomo vive; giacchè fino che vive egli non è ancora martire, nè ancora è impossibile ch' egli venga battezzato. Perciò questi due mezzi di salute non possono imprimere nella vita presente il carattere indelebile che imprime il Battesimo, e non incorporano l' uomo ancor vivente abitualmente e stabilmente con Cristo; sebbene quest' uomo possa ricevere da Dio delle grazie attuali anche prima d' avere consumato il martirio, o comechessia prima di essere passato all' altra vita. Tutto ciò che abbiamo detto dimostra, il Battesimo produrre due effetti nell' uomo, l' uno negativo, cioè la remissione del debito del peccato, e l' altro positivo, cioè l' incorporazione con Cristo, e la partecipazione della sua grazia. E sebbene questo secondo sia il proprio ed immediato effetto del Battesimo, e sia il primo una conseguenza di questo che incontanente avviene; tuttavia niente ci proibisce di considerare l' effetto negativo e poscia il positivo, giacchè relativamente all' uomo che viene perfezionato e all' ordine di idee, prima viene il toglimento del peccato, e poscia il dono della grazia. Così anche l' Apostolo prima pone per effetto del Battesimo la morte dell' uomo vecchio, e appresso la risurrezione del nuovo. Or però l' efficacia del Sacramento del Battesimo ha quel limite che gli ha voluto p“r Cristo nella sua instituzione: limite che è determinato dallo stesso suo fine. Il fine di lui è l' incorporazione dell' uomo con Cristo, come detto è. Or convien distinguere l' incorporazione, o l' unione dell' uomo con Cristo, e le conseguenze che procedono a bene dell' uomo da tale unione; come si dee distinguere il seme dalla pianta che esce da quello, e la generazione del corpicciuolo d' un bambino, dall' incremento che succede dopo la generazione. V' ha adunque un effetto essenziale nel Battesimo, e v' hanno molti effetti che procedono da quel primo. A spiegar meglio la cosa conviene considerare la costituzione dell' uomo. Questo è un essere semplice, ma delle molte sue parti che formano la sua natura, una sola è quella che costituisce la base della sua personalità (1). L' effetto essenziale del Battesimo risguarda la personalità dell' uomo, come abbiam detto, cioè unisce la parte più nobile dell' uomo con Dio, e crea in tal modo un uomo nuovo: gli altri effetti che sortono da questo primo, sono quelli che santificano le altri parti dell' uomo stesso costituenti la sua natura. Mediante questi effetti successivi, che escono tutti come da loro radice dall' effetto primo ed essenziale del Battesimo, la formazione di questo si completa nell' uomo, e l' uomo acquista diverse virtù ed attitudini. Or in che maniera ciò accade? In due maniere, cioè o per operazione dell' uomo o per operazione di Dio. E veramente quando Iddio è unito coll' uomo mediante il Battesimo, l' uomo possiede in sè stesso un tesoro di cui può più o meno usare e cavar profitto secondo il libero arbitrio che possiede. Imperocchè l' unione stessa con Dio lo fa atto agli atti soprannaturali e a meritar soprannaturalmente. E prima ancora di ricevere il Battesimo, l' uomo può avere la volontà più o meno disposta a cavarne profitto, o sia che s' intenda di grazia attuale che talora Iddio concede straordinariamente anche ai non Battezzati, o sia che s' intenda d' una disposizione negativa, cioè alienazione dal peccato. Però i Teologi insegnano, che i Sacramenti conferiscono ex opere operato una grazia ineguale a quelli che sono inegualmente disposti: della qual tesi Onorato Tournely dà questa ragione: [...OMISSIS...] . Si accresce dunque la santificazione che all' uomo nasce dal Battesimo per la cooperazione dell' uomo stesso. Ma dicemmo ch' ella s' accresce ancora per l' opera di Dio, mediante la quale Iddio s' unisce all' uomo e agisce in lui più intensamente, avvolgendo in tale operazione e avvalorando le altre potenze dell' uomo. E questo avviene negli altri Sacramenti, i quali lavorano sul fondamento postosi nel Battesimo, e compiscono l' edifizio spirituale: di che s' intende, perchè si dica che il Battesimo è la porta degli altri Sacramenti, e perchè gli altri Sacramenti non producono verun effetto in chi non è battezzato: conciossiachè il lor fine è solo di perfezionare ciò che il Battesimo comincia, e di dedurre in più copia acque salutari di grazia da quella prima sorgente che secondo le profezie doveva innondare e mondare tutta la terra (2). Or come due dicemmo essere gli effetti del Battesimo, negativo l' uno, cioè la remissione del debito, e positivo l' altro, cioè la percezione di Dio; così da prima veggiamo essere istituiti due Sacramenti volti a condurre a perfezione questi due effetti. Questi due Sacramenti sono l' estrema Unzione, che rimuove dall' uomo le reliquie de' peccati, e la Confermazione che aumenta la grazia ricevuta nel Battesimo, e rende per così dire adulto l' uomo nuovo uscito bambino dal battesimale lavacro. Tutti e due questi Sacramenti si effettuano con una unzione, quasi medicina all' umana infermità. Tutti e due ne' loro effetti influiscono anche sul corpo, o certo sulle potenze inferiori della natura umana; il primo alleggerisce fin anco il fisico morbo che aggrava l' infermo: il secondo infonde all' uomo coraggio, il quale dipende in gran parte dalla fisica disposizione, conciossiachè il timore è anche passione animale. E veramente il Battesimo non è istituito, come fu per noi detto, se non a fine di santificare la punta dell' anima, la facoltà suprema, producendo nell' uomo una nuova personalità: egli però non rigenera il corpo, nè le potenze inferiori. Queste dunque aveano bisogno di essere confortate e munite colla grazia di altri Sacramenti: e assai acconciamente questi doveano poter conferirsi in forma medicinale, quasi per sanare una infermità. E l' olio era idoneo a rappresentare una medicina. Or parleremo a suo luogo dell' estrema unzione, cominciando qui a dir qualche cosa della Cresima. Della quale dimostreremo in primo luogo com' ella renda adulto l' uomo uscito bambino dal Battesimo, che cosa sia quell' infanzia spirituale, che cosa questa età perfetta; al che tosto poniam mano. Abbiamo mostrato, che in due modi si comunica la grazia del Redentore: l' uno per l' immediata comunicazione del Verbo: l' altra per l' immediata comunicazione dello Spirito Santo. Il Verbo si percepisce quando esso si comunica con un' azione diretta all' anima. Lo Spirito Santo è quello che muove la riflessione ed opera mediante operazione riflessa dell' anima medesima. Questo noi l' abbiamo osservato là dove dichiarammo quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Parlò dunque primo il Verbo; lo Spirito Santo suggerì di nuovo le cose dette dal Verbo; e suggerendo le cose che altri ebbe già udite, questo non è che un muovere vivacemente la riflessione sopra le cose udite. Lo Spirito Santo adunque a cui Cristo attribuisce di suggerire le cose da lui insegnate, opera mediante la riflessione dell' anima, dando però a questa riflessione una vista soprannaturale. Ora il Verbo aveva impresso sè stesso nell' anime de' suoi discepoli col suo aspetto sensibile, che avea virtù, come dicemmo, d' illuminar soprannaturalmente l' anima, e colle sue parole, e così avea dato a' suoi quella grazia che chiamasi Verbiforme, colla quale l' anima percepisce immediatamente il Verbo. Tutti due questi mezzi dell' aspetto di Cristo e delle sue parole sono indicati da Cristo stesso nel colloquio ch' egli tenne con Filippo. Alla chiara intelligenza del qual colloquio non è bisogno che d' una sola avvertenza, e tutto si rende chiaro; e questa è che la persona del Verbo non si conosce se non conoscasi la relazione di generato e di generante che ha col Padre: perocchè questa relazione è quella che costituisce la distinzione di una persona dall' altra. Or si odano le parole di Cristo. Dimandato da Filippo che gli volesse mostrare il Padre, risponde: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre« (2). » Nelle quali parole tocca il primo mezzo, cioè il suo aspetto visibile che avea virtù di far conoscere il Verbo, e però il Padre, giacchè l' una persona senza l' altra non si conosce. Tocca poi il secondo mezzo, che era la virtù delle sue parole, dicendo: « Non credete che io sia nel Padre, e il Padre in me?« » che viene a dire: Non conoscete il Verbo e conseguentemente il Padre? [...OMISSIS...] E alle parole aggiunge un terzo mezzo, che erano le sue opere, dicendo: « Se non altro credete per le stesse opere« (4); » una delle quali opere erano i Sacramenti. In questi modi adunque il Verbo imprime sè stesso nell' anime, dando loro a vedere la propria luce divina rifulgente nel suo aspetto, nelle sue parole e nelle sue opere. Ma tutto ciò ancora prima che lo Spirito Santo fosse dato personalmente. Che cosa rimaneva dunque a fare allo Spirito Santo? La luce del Verbo era la luce prima che riceveva l' anima. Su questa luce doveva riflettersi, e con un occhio al tutto spirituale vagheggiandola, innamorarsene, e sempre più penetrarne l' intima forza e bellezza, e in tal modo ridurla all' uso pratico. Ella è questa l' opera dello Spirito Santo nell' anime (1), di cui parla sì lungamente Gesù Cristo nei capitoli XIV e XV di S. Giovanni. Dopo aver parlato Cristo della cognizione di sè e del Padre egli aggiunge, che questa dee essere operativa, che dee consistere nell' amore e nell' osservanza de' suoi precetti: [...OMISSIS...] . Ma in qual modo chi crede in Cristo potrà far le opere fatte da lui? « Perchè, dice, io vado al Padre«, » a mandar lo Spirito Santo: « E io pregherò il Padre, e darà a voi un altro consolatore che rimanga con voi in eterno« ». Questo consolatore 1 farà conoscere il Verbo più vivamente; 2 renderà operativa questa cognizione. « In quel giorno (nel quale riceverete lo Spirito Santo) voi conoscerete che io sono nel Padre«: » ecco la cognizione del Verbo per l' impressione fattale dallo Spirito Santo: « e voi in me, ed io in voi«: » ecco la riflessione che lo Spirito Santo ci fa fare sopra noi stessi, e ci fa intendere come noi siamo nel Verbo, e il Verbo in noi: « Chi ha i miei comandamenti e gli osserva, quegli è che mi ama«: » ecco la pratica osservanza de' comandamenti procedente dallo Spirito Santo. « E chi mi ama, è amato dal Padre mio, e io lo amerò e manifesterò a lui me stesso«. » Dice manifesterò a lui me stesso, perocchè è egli che manda lo Spirito Santo che lo manifesta, lo manda in maggiore copia quanto è più l' amore. E dice che sarà amato dal Padre suo, perocchè anche il Padre suo manda lo Spirito Santo colla medesima spirazione, sicchè dice anche di poi, che « lo Spirito della verità, che dal Padre procede, darà testimonianza di lui« (2). » Sicchè lo Spirito Santo rende luminosa, esplicita, possente e operativa nell' uomo la vista del Verbo, appunto a quel modo come nell' ordine della natura la meditazione e la riflessione aggiunge luce, distinzione, consapevolezza maggiore, e potenza di muover l' uomo ad operare il pensiero spontaneo e diretto. Di tutte queste cose abbiamo già altrove più a lungo ragionato. Or venendo al proposito nostro sarà facile diffinire in che consista propriamente quell' infanzia spirituale che viene attribuita all' uomo appena uscito dall' acque del Battesimo, e per la quale il progresso della vita spirituale ne' Sacramenti viene paragonato al progresso della vita naturale (3). L' uomo è nell' infanzia spirituale, quando sebbene abbia ricevuto il Verbo nella parte suprema dell' anima; tuttavia gli manca ancora lo Spirito Santo, che quella luce del Verbo maggiormente discopra ed imprima nell' anima stessa, e la faccia operare in tutte l' altre potenze, rendendo l' uomo per essa robusto e valoroso a poter anche resistere agli assalti degl' inimici. Or il Battesimo ha di proprio, come abbiam detto, di congiungere l' uomo a Cristo invisibilmente, e di fargli percepire il Verbo; all' incontro è proprio ed essenziale effetto della Confermazione il dare lo Spirito Santo. Perciò egli è proprio del Battesimo far nascere l' uomo spiritualmente, ma egli è ancora nell' infanzia; è proprio della Confermazione il renderlo adulto « alla misura dell' età della pienezza di Cristo« (1). » E che cosa è la pienezza di Cristo se non la pienezza dello Spirito Santo? Il principio adunque dell' operazione battesimale è Cristo o il Verbo; il principio all' incontro dell' operazione del Sacramento della Cresima è lo Spirito Santo: il termine sì dell' una che nell' altra operazione è sempre il Verbo. Confrontiamo con questa dottrina i passi delle Scritture e della tradizione, e troveremo quanto sieno coerenti tra di sè e consentanei alla medesima. Primieramente la teologia cattolica insegna che nel Battesimo l' uomo spirituale nasce, ma è ancora bambino (2), il quale, cresce e si fa adulto nella Confermazione (3). Spiegando poi la natura di quest' ultimo Sacramento essa dice che è quello che conferisce all' uomo lo Spirito Santo. Si deve dunque conchiudere che il ricevimento dello Spirito Santo, che s' ha mediante il Sacramento della Cresima, è ciò per cui l' uomo spirituale diviene da pargoletto grande e perfetto. Proviamo prima che alla Confermazione si attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale. Al che in vece di molti testimonii ci valga colui che si può chiamare il Teologo per eccellenza, e l' abbreviatore della cristiana tradizione. Egli attribuisce l' incremento dell' uomo spirituale alla Confermazione, come il nascimento al Battesimo in questo modo: [...OMISSIS...] . Proviamo di poi che alla Confermazione si attribuisce il conferimento dello Spirito Santo ad esclusione del Battesimo; il che dimostra che nel Battesimo propriamente vengono conferiti de' doni del Santo Spirito, anzichè il Santo Spirito medesimo. S. Paolo chiama i confirmati « quelli che hanno gustato il dono celeste, e che sono stati fatti partecipi dello Spirito Santo« » a differenza de' battezzati che li chiama solo « illuminati« (2). » Negli Atti degli Apostoli si distingue fra l' essere battezzati, e l' aver ricevuto lo Spirito Santo, anzi si dice espressamente, che ne' battezzati lo Spirito non era ancor venuto, e che fu mestieri confermarli acciocchè venisse in essi (3). Quando adunque si parla dello Spirito Santo in questo modo, per esclusione del modo onde viene col Battesimo, convien dire che nella Cresima sola lo Spirito Santo venga personalmente , mentre nel Battesimo viene con alcuni doni ed effetti e non colla persona (1). Altramente non reggerebbe la proposizione che « ne' battezzati lo Spirito Santo non era venuto«. » Ben è vero però, come fu detto, che se lo Spirito Santo vien dato nella Confermazione, ciò nasce in conseguenza del Battesimo, che ha resa questa venuta possibile, e ne ha messo il principio. S. Cornelio parimente (2) in una lettera a Fabio Antiocheno, parlando di Novato che in una infermità avuta avea ricevuto il Battesimo ma non la Confermazione, dice: « In che maniera potè ricevere lo Spirito Santo, se non ebbe questo signacolo (3) della Confermazione?« » colle quali parole viene a negare che lo Spirito Santo (cioè la persona) nel Battesimo si conferisca. Finalmente questo è parlare di tutta la tradizione, che amministrare il Sacramento della Cresima venga detto un darsi lo Spirito Santo (4). Se adunque d' una parte il Sacramento della Confermazione è quello che conferisce lo Spirito Santo ad esclusione del Battesimo, cioè in un modo pieno e personale, e se d' altro lato questo Sacramento è quello che rende adulto l' uomo spirituale, convien dire per giusta illazione, che l' età adulta, nel linguaggio cristiano, significa la partecipazione del Santo Spirito, e l' infanzia significa quello stato dell' uomo in cui è ben nato per l' unione del Verbo, ma non ha ricevuto ancora la grazia spiriti7forme. Ma a provar maggiormente la verità di questa dottrina, rechiamo in terzo luogo quei passi de' venerabili scrittori antichi, ne' quali non si dice già solo l' una di queste due cose staccata dall' altra, cioè o che la Confermazione renda l' uomo adulto e perfetto, o che la conferisca il Santo Spirito; ma ambedue si affermano nel tempo stesso, attribuendosi appunto allo Spirito Santo il perfezionamento dell' uomo rigenerato. Ho già detto che il Santo Spirito da' Padri greci massimamente si chiama « virtù o forza perfezionatrice« (1), » appunto perchè a lui appartiene di perfezionar l' uomo spiritualmente. S. Clemente Papa I dice, che niuno può essere « perfetto cristiano« » se oltre il Battesimo non abbia ricevuto nella Confermazione la settiforme grazia dello Spirito (2), attribuendosi così al ricevimento del Santo Spirito la perfezione del cristiano. S. Cirillo di Gerusalemme deduce dal Crisma il nome del cristiano, e dice, che non si può in certo modo nè pur dire che alcuno sia cristiano se non ha ricevuto lo Spirito Santo coll' unzione della Cresima (3). S. Urbano nella sua lettera decretale dice espressamente, che ciò che ci rende pieni cristiani è lo Spirito Santo che noi riceviamo dopo il Battesimo per l' impostazione delle mani dei Vescovi (4). Nell' antichissimo Concilio Eliberitano dicesi, che è necessaria al battezzato l' imposizione della mano del Vescovo, acciocchè egli si possa perfezionare (5). [...OMISSIS...] Egli è poi questa dottrina medesima, che allo Spirito Santo attribuisce la perfezione dell' uomo cristiano, con istile sublime esposta in più luoghi del celebre e antico libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Vi si legge, a ragion d' esempio, chiamata « perfezionatrice« » quella unzione che si usa nel Sacramento della Cresima (2), la si dice quella che congiunge al divino Spirito le cose che debbono esser perfette (3), e così « compisce la divina rigenerazione (4). » Vi si legge pure che «« il segnacolo di quell' unguento fa partecipe della comunione sacratissima« (5), » la qual comunione sacratissima è quella del Santo Spirito. [...OMISSIS...] ; le quali ultime parole si osservi che non sarebbero state necessarie ove non si parlasse della comunicazione della persona stessa del Santo Spirito; ma trattandosi della comunicazione dello Spirito, era convenevol cosa notarsi, come fa questo acuto scrittore, che lo Spirito Santo comunicandosi a noi, non sofferiva però alcuna mutazione nella sua divina natura. Finalmente addurrò ancora S. Cipriano, il quale alla Cresima ad un tempo attribuisce e il conferimento dello Spirito Santo, e l' essere il cristiano consumato e perfezionato col signacolo del Signore (.). Da tutti i quali luoghi apparisce, come la perfezione, e però l' età adulta, del cristiano consiste nel ricevimento del Santo Spirito, e che il Sacramento della Cresima fa crescer l' uomo spirituale all' età adulta che infonde lo Spirito Santo. E perchè è cosa molto notevole a ben intendere le Scritture e le Tradizioni quella distinzione fra il ricevere lo Spirito Santo in qualche suo dono particolare, ciò che avviene nel Battesimo, e il riceverlo nella stessa persona, io mostrerò ancora con qualche passo degli ecclesiastici scrittori che nella Confermazione si riceve personalmente, e non solo ne' doni suoi. E da prima ho già osservato, che provano questa dottrina tutti que' luoghi de' Padri ne' quali si dice che lo Spirito Santo si riceve nella Cresima ad esclusione del Battesimo. Il dirsi semplicemente di alcuna persona che viene o va in un luogo, non può intendersi che vi va co' suoi doni, ma sì che vi va ella stessa, altrimenti non sarebbe esatta e chiara quella maniera di dire. Tanto più che essendo certo, che nel Battesimo lo Spirito Santo viene co' suoi doni, l' affermar poi ch' egli nel Battesimo non ci viene non può avere altro significato che quello di voler dire che non ci viene colla persona. E pel contrario affermando che viene nella Cresima, pure in quella che si esclude dal Battesimo, si dee intendere che nella Cresima viene appunto in quel modo nel quale dal Battesimo si esclude, cioè personalmente. Di poi non possono indicare se non una unione della persona coll' anima quelle maniere che usa l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, quando dice del Sacramento della Confermazione che ci fa partecipi della sacratissima comunione, la quale è quella dello Spirito Santo, che ci congiunge al divino Spirito, che ci fa percepire nell' anima la santa e deifica società del medesimo Spirito divino e che consuma in noi la venuta del Santo Spirito. Come può esser consumata e perfezionata la venuta del Santo Spirito meglio che comunicandosi egli a noi personalmente? La comunicazione personale ha in sè stessa necessariamente i doni tutti del Santo Spirito implicitamente cioè in causa, perchè ha l' autore stesso dei doni; nè si può dare la pienezza dei doni se non colla persona, perchè questi separatamente presi sono infiniti. Però quando i Padri vogliono significare il conferimento personale dello Spirito all' anima, il chiamano la pienezza dello Spirito, e descrivono i sette doni come rappresentanti di questa pienezza che chiamano anche grazia settiforme (2). S. Ambrogio non si contenta di attribuire al Sacramento della Confermazione i sette doni, ma dice che questi non sono che i principali. [...OMISSIS...] Ma io non ho sott' occhio nissun passo di antichi scrittori i quali parlando del Sacramento della Confermazione, parlino più esplicitamente della comunicazione personale dello Spirito Santo, e la distinguano più chiaramente dalla comunicazione de' suoi doni, di quello che faccia in un luogo il celebre Rabano Mauro nell' opera dell' istituzione del clero. Egli distingue due unzioni che si fanno col santo Crisma, l' una dal sacerdote subito dopo il Battesimo, e l' altra dal Vescovo nella Confermazione; colla prima, dice, non si fa che preparare e consecrare la casa, ma nella seconda si riceve lo stesso ospite divino: il che è quanto dire che nella prima non si ricevono che alcuni doni del Santo Spirito; ma nella seconda lo stesso Spirito Santo colla pienezza de' suoi doni. Gioverà che qui io rechi le proprie parole di questo scrittore: [...OMISSIS...] . Qui chiaramente è distinta la preparazione dell' uomo a ricever lo Spirito, dalla discesa dello Spirito stesso; la venuta parziale dalla venuta intera di esso Spirito; nè può darsi intiera comunicazione senza comunicazion personale, o comunicazion personale senza ch' ella sia intera e piena, di maniera che può stabilirsi questo canone nell' interpretazione delle Scritture e de' Padri, che ogni qual volta si parla di venuta totale o pienezza dello Spirito Santo, il discorso si volge intorno alla venuta personale, e dove non è espressa la pienezza o la totalità del Santo Spirito o de' suoi doni, non si parla della venuta personale. Il perchè solo nella Confermazione si completa la grazia triniforme del cristiano; e però possiamo conchiudere colle parole di uno scrittore ecclesiastico del secolo X: [...OMISSIS...] . E quanto abbiamo detto dà chiarezza a molti altri insegnamenti de' Padri, i quali insegnamenti formano alla lor volta una riprova di quanto fu detto. A ragion d' esempio S. Giovanni Grisostomo in una delle sue omelie viene cercando in che consista l' infanzia spirituale, e in che la perfezione; e conchiude che l' infanzia consiste nella fede, e la perfezione nelle opere della vita santa (2). Ora la fede appartiene all' intelletto, e al cuore la carità. La fede viene a noi impressa colla luce del Verbo, e la carità viene in noi diffusa dallo Spirito Santo. Ancora, viene attribuito al Battesimo il darci la luce e la fede, ed alla Confermazione il diffondere in noi la carità. Per conseguente egli è questo un dire, che il Battesimo ci genera infatti e la Cresima ci fa adulti e perfetti. Quindi è che« illuminazione« (1) si chiamò il Battesimo fino dai tempi apostolici, e« illuminati« nel linguaggio di S. Paolo equivale a battezzati (2). All' incontro della Confermazione l' Apostolo dice: [...OMISSIS...] . Consuona all' Apostolo S. Agostino che attribuisce propriamente la carità alla Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Egli è parimente un detto comune de' Padri quello che attribuisce al Battesimo la purgazione de' peccati, che è il primo grado della vita spirituale, e alla Confermazione all' incontro la grazia, la pienezza dei doni lo Spirito Santo (5) che ne è il compimento. Nè tutto ciò detrae punto al Battesimo, la grazia del quale è piena anch' essa. Ma si dee spiegare in che modo dicasi pienezza di grazia quella del Battesimo, e in che modo dicasi pienezza di grazia quella della Confermazione: come l' infanzia spirituale possa stare con quella prima pienezza e non punto colla seconda. L' ufficio dello Spirito Santo nelle anime nostre di sopra da noi dichiarato, dà piena luce a questa materia. Tale ufficio noi vedemmo significato da Cristo in quelle parole: « Egli insegnerà tutte le cose, e vi suggerirà tutte le cose che io avrò dette a voi« (1). » Nelle quali parole appar chiaro, che tanto il Verbo come lo Spirito insegnano tutte le cose, ma lo Spirito Santo ha ufficio di suggerire all' animo le cose già insegnate dal Verbo e di ricalcarle nella mente e renderle operative: primo dunque è il Verbo a operare, secondo viene lo Spirito Santo: il Verbo dà la cognizione diretta delle cose divine, ma lo Spirito Santo muove ed accende la riflessione. Però s' intende come l' uno e l' altro operi in noi con pienezza, giacchè l' uno e l' altro ci comunica tutte le cose. Il Verbo dice: « Io vi ho fatto note tutte le cose che ho udite dal Padre mio (2). » Dello Spirito pure è detto: «« quando verrà quello Spirito di verità insegnerà a voi ogni verità« (3). » E la ragione di ciò si è « perocchè non parlerà da sè stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà« (4) » cioè che udirà dal Verbo. Quindi s' intende come la grazia del Battesimo sia piena, e sia piena pure quella della Confermazione (5). Nel Battesimo si riceve il Verbo, e in lui la notizia di tutte cose divine: nella Confermazione si riceve lo Spirito Santo, e in esso la viva riflessione delle cose medesime. Quindi è che S. Giovanni attribuisce all' unzione, cioè alla Cresima, quello che Cristo attribuisce allo Spirito Santo, cioè di far conoscere tutte le cose: « Ma voi, dice, avete l' unzione dal Santo » (cioè dal Verbo pel quale è la spirazione dello Spirito Santo) «e conoscete tutte le cose« (6). » [...OMISSIS...] Quindi acconciamente Clemente Alessandrino, riferendo l' istoria di un giovane affidato da S. Giovanni alla cura di un Vescovo novello, parla de' due Sacramenti del Battesimo e della Confermazione in questo modo: [...OMISSIS...] . Or il sigillo che si mette sopra un tesoro vale a custodire tutto il tesoro intiero; e così la grazia della Confermazione è piena, perchè custodisce tutto ciò che si ha ricevuto nel Battesimo. Simile a questa idea è quella di alcuni Padri che rassomigliano lo Spirito che ricevesi nella Confermazione a un tutore e difensore della grazia battesimale. Tra i luoghi che potremmo addurre preferiremo uno del celebre Abate Ruperto, sebben non sia de' più antichi (2), il quale dice così: [...OMISSIS...] : similitudine acconcissima; perchè il tutore assai acconciamente rappresenta l' occhio della riflessione, che vigila e contempla la grazia prima ricevuta, e sente il pregio di essa, e così s' infiamma a difenderla. Dal medesimo principio, che lo Spirito Santo ricalca nell' anima la notizia del Verbo, ravviva la fede, vi deduce la carità che fassi operativa, scendono quai naturali conseguenze gli effetti speciali che si sogliono attribuisce alla Confermazione, cioè la fortezza dell' animo cristiano, il coraggio di confessar Cristo e di combatter qual valoroso milite per la fede da lui ricevuta. Dalle quali cose apparisce, che la Confermazione non dà già all' uomo qualche cosa del tutto nuova, ma, come dice il Catechismo Romano, conferma ciò che il Battesimo ha cominciato ad operare (1). Ora il Battesimo dà la grazia ed imprime il carattere; e queste due cose perfeziona la Confermazione. Di che si vede che il carattere della Confermazione essenzialmente considerato, non è che un aumento del carattere del Battesimo; ed è da questo principio che S. Tommaso toglie a provare come il carattere della Confermazione presuppone quello del Battesimo. [...OMISSIS...] E veramente, noi abbiamo veduto il carattere consistere in una impressione stabile del Verbo nella parte intellettiva dell' anima; questa è la definizione generica del carattere, nella quale uopo è che convengano i tre caratteri del Battesimo, della Cresima e dell' Ordine, i quali sono radicalmente uno; perocchè sono sempre una comunicazione del Verbo all' intelletto. Ma da questa comunicazione nascono all' uomo diverse potenze ; cioè nel Battesimo la potenza passiva di ricevere gli altri Sacramenti, come pure la grazia prima o potenza di operare soprannaturalmente; nella Confermazione la potenza attiva di resistere alle tentazioni nell' operare il bene, confessando Cristo assai coraggiosamente; e nell' Ordine la potenza di esercitare pienamente il sacerdozio di Cristo. Per questo si è, che i Padri dicono costantemente, tanto parlando del Battesimo, quanto parlando della Confermazione, che il carattere è il segno di Cristo, e che l' ufficio dello Spirito Santo è quello di imprimere nelle anime il Verbo. Così S. Ambrogio parlando di chi fu confermato, dice: [...OMISSIS...] . Per questo l' unguento si chiama Crisma di Cristo (1). E S. Cirillo d' Alessandria dice: [...OMISSIS...] . Lo stesso apparisce da un' altra maniera di parlare de' Padri specialmente de' più antichi, i quali ragionando ad un tempo del Battesimo e della Confermazione come di due Sacramenti che si amministravano nel tempo stesso l' un dopo l' altro, non distinguono però due caratteri, ma sempre favellano di un carattere o di un segnacolo solo; e par che l' attribuiscano più alla Confermazione come quella che il compisce ed integra. A ragione d' esempio Teodoreto dice così: [...OMISSIS...] . Al qual passo risponde a capello ciò che dice un greco scrittore del secolo XVI, che può servire di commentario e schiarimento a quel di Teodoreto; perocchè in questo greco scrittore non riman punto dubbio che si parli della Confermazione, come potrebbe nascere in quello del Vescovo Cirense. [...OMISSIS...] Qui parlasi chiaramente del carattere, che ci segna col segno del Cristo e ci mette nel dominio di Cristo. Più ancora si rende manifesto che si parla del carattere, e di quello della Confermazione, da ciò che segue: « Il sacerdote che unge il battezzato dice: Segnacolo del dono dello Spirito Santo, Amen«. » (Questa è la forma della Confermazione presso i Greci). [...OMISSIS...] L' unione stessa usata antichissimamente, e tuttavia presso i Greci, del Battesimo e della Confermazione, mostra l' unità del carattere che imprime: e l' attribuirsi il carattere al secondo Sacramento, anzi chè al primo, che fanno i Padri antichi, non toglie già la verità cattolica che anche nel Battesimo il carattere s' imprima, ma mostra bensì, che solo colla Cresima venìa consumato e non eran due ma uno. Quindi il sangue dell' agnello, di cui tinsero gli Ebrei le imposte delle loro case, serve ai Padri di figura tanto del carattere del Battesimo come di quello della Confermazione, che considerano come uno, a quel modo che è una la figura. [...OMISSIS...] : parole che il Santo dice in una sua orazione sul Battesimo, dal quale trapassa a parlare della Confermazione come a lui congiunta, e del carattere che questa imprime senza menzionare il carattere del Battesimo, perchè già in quello contenuto. Il Sacramento della Confermazione negli antichi scrittori ecclesiastici viene denominato solitamente in quattro maniere, o egli si chiama orazione, invocazione, o imposizione delle mani, o segnacolo, o unzione. Queste quattro denominazioni nascono dalle quattro parti di cui il Sacramento della Confermazione si compone; e si spiegano l' una coll' altra. Per esempio S. Agostino dice: « Che cosa è l' imposizione delle mani se non l' orazione che si fa sull' uomo?« (2). » Quasi voglia dire l' imposizione delle mani è quel Sacramento che si chiama anche orazione che si fa sull' uomo. Sebbene adunque nella denominazione di « imposizione delle mani« non si contenga espressa alcuna invocazione od orazione, tuttavia con tal denominazione s' intende espressa e significata anche l' orazione che si fa contemporaneamente all' imporsi delle mani, e che è un' altra parte dell' amministrazione del Sacramento. Talora poi le due parti indicate sono espresse distintamente nel parlare de' Padri e non l' una nell' altra sottintesa. Così dice S. Cipriano: [...OMISSIS...] . Medesimamente Innocenzo III spiega la parola« unzione o crismazione« con quell' altra di« imposizione delle mani« scrivendo, che « per la crismazione della fronte vien significata l' imposizione della mano degli Apostoli« (2). » Questo è quanto dire che le due appellazioni di« crismazione o unzione« e di« imposizione delle mani« si usurpano ad indicare lo stesso Sacramento, che si denomina ugualmente dall' una o dall' altra di quelle due parti principali. Talora però negli scrittori ecclesiastici si esprimono tutte e due queste parti. Così Amalario scrive: [...OMISSIS...] . Non di rado anco tacendosi l' unzione si esprimono l' imposizione delle mani e l' orazione, ciò che si fa negli stessi Atti degli Apostoli, dove si legge [...OMISSIS...] . E come l' esprimersi una sola cosa non esclude l' altra, ma è una maniera che si usa per brevità; così non è a credersi che esprimendosi« l' unzione e la imposizione delle mani« s' intendano escluse le parole che accompagnano queste azioni, e che« orazione o invocazione« furon dette. Chè anzi talora tutte e tre queste parti vennero dagli scrittori ecclesiastici espresse, come si esprimono a ragione d' esempio da Aimone ove dice: [...OMISSIS...] . Clemente Alessandrino chiama finalmente la Confermazione « il beato segnacolo (3) » o anco «« il sigillo del Signore« (4), » perchè lo Spirito Santo imprime Cristo nell' anima, come abbiamo veduto. Ciò si rappresenta anche col segno esteriore, giacchè si unge la fronte del fedele che si conferma col segno della croce. Di che Dionigio Areopagita, o chicchessia l' autore del libro dell' Ecclesiastica Gerarchia, porge quest' altra buona ragione, che dandosi lo Spirito Santo nel Sacramento della Confermazione, e questo procedendo dal Verbo, e venendoci dato dal Verbo pel merito della sua passione, assai ben convenìa che nell' atto che si riceveva questo Spirito venisse segnata in sulla nostra fronte la croce (5). Ma se il Sacramento di cui parliamo è bene spesso chiamato « il segnacolo« o« il sigillo di Cristo« non dee intendersi questa appellazione così strettamente che si vogliano escludere da essa le altre tre cose, che formano il tutto di questo Sacramento. Ciò si rende manifesto osservando che talora l' espressione di segnacolo si congiunge con alcuna delle altre tre. Con quella di unzione o di crisma è congiunta per sè, conciossiachè il segno di croce non in altro modo s' intende descritto in fronte se non ungendo in qualche modo la fronte stessa (6): di che parmi potersi trarre nuovo argomento da credere che gli Apostoli usavano del sacro crisma, appunto perciò che si parla come di cosa apostolica segnare in fronte i fedeli per esprimere la Confermazione (1). S. Clemente papa discepolo di S. Pietro dice, che [...OMISSIS...] . Nel libro delle Costituzioni apostoliche non si fa menzione solamente del segno, ma anco dell' unguento col quale si fa il segno. « Prima, vi si dice, ungerai coll' olio santo » (questa è l' unzione preparatoria al Battesimo) «poscia battezzerai coll' acqua, finalmente SEGNERAI coll' UNGUENTO del crisma » (questo è il Sacramento della Confermazione)« (1). S. Ambrogio unisce insieme le due parti dell' invocazione del Santo Spirito e del segnacolo in queste parole: [...OMISSIS...] . San Leone in quella vece fa espressa menzione del segnare e dell' imporre le mani, come in quel luogo ove dice: [...OMISSIS...] . Vedesi adunque, che se talora chiamasi la Confermazione semplicemente « segnacolo« ciò non si fa per escludere l' altre parti di cui questo Sacramento si compone, ma per la comodità di avere alle mani una breve e semplice appellazione di questo Sacramento. Conciossiachè in altri luoghi de' Padri si esprimono anche l' altre parti sott' intese, e indifferentemente si congiunge la cerimonia del« segnare« la fronte con quella dell' ungere, o con quella dell' invocare lo Spirito Santo, o con quella dell' imporre le mani. Che se si vorrà più diligentemente cercare le maniere ecclesiastiche di favellare, sarà facile altresì rinvenire de' testi autorevoli, ne' quali il segnare sia espresso non pure con una sola delle altre parti, ma con due qualsivogliano di esse. E veramente si brama un luogo in cui si faccia menzione ad un tempo del segno, dell' unzione, e dell' imposizione delle mani? Odasi Tertulliano: [...OMISSIS...] . Ecco espresse tre parti della Confermazione. Bramasi invece un luogo nel quale oltre il segnacolo sieno esplicitamente accennate le due parti dell' imposizione delle mani e dell' orazione o invocazione del Santo Spirito? Aprasi S. Cipriano, e si legga: [...OMISSIS...] . Vuolsi ancora un altro luogo dove al signacolo siano in quella vece congiunte le due parti dell' unzione e dell' invocazione? Considerisi l' invocazione od orazione che sta nell' Ordine Romano, dove si veggono espresse le tre parti di cui parliamo. Ella è la seguente: [...OMISSIS...] . Ecco l' orazione, l' unzione ed il segnacolo. Che se finalmente si vogliano ancora vedere espresse tutte e quattro le parti da noi toccate potremo trovarle nell' Ordine Romano ora citato o nel sacramentario di Gregorio il grande, o nel rituale che tuttavia è in uso presso di noi. Solo dopo avere io scritto questo articolo mi accorsi essermi sfuggito nel Bellarmino quel lungo tratto, nel quale il venerabile uomo dice altrettanto e più di quanto io dissi. Tuttavia non volli cancellare l' articolo, ma sì bene colla somma autorità del Bellarmino, che qui in nota riferisco, confermarlo. Egli risponde all' eretico Kemnizio, che per escludere l' unzione del crisma reca i luoghi degli Atti degli Apostoli (VIII, 17; XIX, 6), dove è fatta bensì menzione dell' imposizione delle mani ma non del crisma, e dice così: [...OMISSIS...] . Poscia il Bellarmino si propone l' obbiezione delle parole d' Innocenzo III, e di Eugenio IV nel Concilio di Firenze, le quali sembran dire, che il crisma ora tenga il luogo dell' imposizione delle mani usata dagli Apostoli e risponde: [...OMISSIS...] . Fissata così la maniera di parlare della tradizione, cadono tutte le obbiezioni contro il Sacramento della Confermazione, e apparisce assai chiaro che questo rito si compone di quattro parti, 1. le parole, 2. l' imposizione della mano, 3. l' unzione, 4. il segno di croce. Fermata questa verità è sciolta da sè la questione: « Qual sia l' imposizione della mano necessaria in questo Sacramento«; » ella è quella che si fa nell' atto stesso dell' unzione e indivisibilmente da quest' atto: perocchè i Greci non ne hanno altra; e tuttavia la Chiesa riconosce per valido il loro rito della Confermazione. Dunque o la Chiesa erra, o l' imposizione delle mani non è necessaria. Ma l' una e l' altra cosa è falsa. Dunque è il contrario, cioè che l' imposizione delle mani necessaria alla Confermazione è quella che fa il Vescovo elevando la mano sulla fronte per ungerla e non altra. Può riuscire di conferma a ciò l' osservarsi, che questa cerimonia si chiama spessissimo dagli scrittori antichi imposizione della mano e non delle mani, e che si dice farsi a' singoli e non a tutti ( « quod nunc in confirmandis neophytis, manus impositio tribuit singulis », dice la celebre Omilia in die Pentec. attribuita da alcuni ad Eucherio di Lione): come pure l' obbiezione che fa Benedetto XIV (2), contro la prima imposizione delle mani: [...OMISSIS...] . Se dunque il P. Iacopo Sirmondo trova degna di riso una tal dottrina, egli è da attribuirsi un tal riso all' intemperanza della critica, che rende presontuosi ben sovente i dotti, e che insegna loro a sorridere delle opinioni più rispettabili. Io mi accosto poi al P. Merlin (1) in quanto le sue osservazioni provano che l' imposizione delle mani è indivisa dall' unzione del crisma; non convengo però nella sua opinione che gli Apostoli conferissero il Sacramento colla sola imposizione delle mani senza Crisma. Tale mi sembra l' intimo e vero sentimento di tutta la cristiana antichità. Può essere ancora che qualche autore greco, sentendo tanto nominata nella Scrittura l' imposizione delle mani e non osservando che nel segnare la fronte la mano necessariamente s' impone, si persuadesse che il crisma sia stato sostituito all' imposizione delle mani apostoliche, ma ciò dee attribuirsi a mancanza di riflessione di uno o d' altro autore; fra questi parmi di poter citare Simone di Tessalonica, che nel secolo XII scrive: [...OMISSIS...] . Quanto poi all' opinione di coloro che sostengono negli antichi tempi l' imposizion delle mani essere stata distinta dall' unzione, ma poscia forse nel secolo VII essersi unita e fatta una cosa con essa, parmi almeno frivola e inetta. Perocchè se riconoscono che alla validità del Sacramento nei secoli posteriori al VII, e massime presso i Greci, non si richiedesse imposizion delle mani distinta dalla stessa unzione, perchè mai ne' primi secoli sarà stata essenziale al Sacramento un' altra imposizione distinta da quella che il Vescovo fa necessariamente ungendo la fronte? Non è piuttosto assai naturale il dire, che se oltre l' unzione della fronte si faceva allora una distinta imposizione delle mani, questa non era cerimonia essenziale, come non è essenziale quella distinta imposizion delle mani, che si usa ancora nella Chiesa latina e che la greca ommette senza rendere perciò invalido il Sacramento? La parte indicata anticamente colla denominazione di« orazione« o« d' invocazione« è la forma del Sacramento; il Crisma è la materia remota, l' imposizione delle mani e il segno di croce determina il modo onde la materia rimota viene applicata e si fa materia prossima. Delle quali affermazioni potrebbe incontrare qualche difficoltà la prima, che la parte del Sacramento indicato colla parola« invocazione«, od« orazione«, significasse la forma, come quella che dee essere fatta di parole consecratorie e non impetratorie. Ma sebbene ciò sia vero, niente vieta che unitamente alle parole consecratorie si proferissero delle invocazioni e delle orazioni, dalle quali si denominasse il Sacramento più tosto che dalle stesse parole consecratorie, tenute sempre nascoste gelosamente dall' antica disciplina della Chiesa (1). In fatti così fu: avanti e dopo la unzione s' invocava lo Spirito Santo, e nell' antichissimo Ordine Romano la stessa forma della Confermazione comincia con una particella impetratoria la quale è questa: « Signa eos, Domine, signo crucis « » seguitando però in stile consecratorio nell' atto dell' ugnere: « Ego te confirmo in nomine Patris, etc.« » La parola« invocazione« può essere oltracciò dichiarata con altri passi analoghi. In ragione d' esempio il passo di S. Clemente Papa o sia delle Costituzioni Apostoliche da noi citato di sopra « l' invocazione è la VIRTU` (2) dell' imposizione della mano « (3) » viene chiarito quando si riscontra a quest' altro, che si trova in un Commentario degli Atti Apostolici attribuito a S. Ambrogio « la imposizione della mano sono le parole mistiche« (4), » le quali parole mistiche voglion significare indubitatamente quelle della forma. Il P. Merlin nel suo trattato sulle forme de' Sacramenti non dubita punto di ciò che S. Clemente chiama« invocazione« non sieno che « le parole della forma« (5). Finalmente molti Teologi e di gran vaglia sostengono, che la forma adeguata e totale del Sacramento della Confermazione è ad un tempo l' orazione e le parole che seguono a quella, e il provano con assai validi documenti; de' quali Teologi nominerò due, cioè Onorato Tournely, e Natale Alessandro, a' quali valentuomini rimetto il lettore (1). Quanto poi alle altre tre parti del Sacramento della Confermazione, cioè l' unzione, il segno della croce e l' imposizione delle mani, esse simboleggiano, secondo la Scrittura e i Padri, i tre effetti di questo Sacramento. S. Paolo nel primo capitolo della seconda lettera a' Corinti parla manifestamente, a mio avviso, del Sacramento della Confermazione, ed accenna queste tre parti di lui. Egli dice a que' di Corinto, che veniva ad essi affinchè avessero« la seconda grazia« la quale vien data dal Sacramento della Confermazione, essendo il Battesimo quello che conferisce la prima (2). Dice che Dio era quegli che li confermava in Cristo (3). E poi soggiunge che Dio pure li ungeva e li segnava e dava lor il pegno dello Spirito ne' cuori (4). Ecco l' unzione, il segnacolo, e il pegno dello Spirito, che s' attribuisce da' Padri all' imposizione delle mani. Tertulliano commenta questo passo di S. Paolo accennando i tre effetti del Sacramento della Confermazione con queste parole: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è manifesto, che questo Padre del secondo secolo della Chiesa non intese mica quell' unzione che nomina S. Paolo, di un' unzione metaforica e puramente spirituale, ma l' intese dell' unzione esterna della carne; e lo stesso dicasi del segno di croce, che nomina l' Apostolo; il che dee aver gran forza contro quelli che abbandonano il senso letterale di questo e d' altri passi simili, e che non li vogliono intesi se non in un senso spirituale. E alla stessa guisa di Tertulliano spiega il passo dell' Apostolo S. Ambrogio, il quale attribuisce l' effetto dell' unzione al Padre, l' effetto del segno di croce al Figliuolo, e l' effetto dell' imposizione delle mani allo Spirito Santo; di maniera che, secondo questo santo Padre, i tre elementi costituenti la materia del Sacramento della Confermazione si riferiscono alle tre persone della Santissima Trinità che operano in questo Sacramento, il quale conferisce, come abbiamo detto, all' anima la grazia triniforme. [...OMISSIS...] Anche in alcuni luoghi delle Scritture l' unzione è attribuita al Padre. Negli Atti degli Apostoli si legge che Cristo fu unto dal Padre (2), e S. Paolo spiega di Cristo il Salmo che dice: « perciò te unse Iddio, il Dio tuo coll' olio dell' esultanza« (3). » Il segno poi è stato attribuito a Cristo avendo forma di croce, ed essendo effetto suo la fortezza, appartiene a Cristo altresì, perchè la croce è l' arma che vince il diavolo, e perchè Cristo è la virtù e la forza e il braccio del Padre. Però la parola confermare viene propriamente da questo effetto dell' armare e fortificare colla croce di Cristo: sicchè S. Ambrogio in altro luogo invece di dire ti segnò Cristo, dice: « Cristo ti confirmò« (4). » Il pegno poi dello Spirito è la carità e il gaudio spirituale, caparra dell' eterna eredità attribuita allo Spirito Santo, che per ciò si chiama Spirito di promissione, e l' effetto suo« pegno dell' eredità nostra« (5). Questi tre effetti poi sono la santità, la fortezza e il gaudio. Il secondo vien dal primo, e l' ultimo dai due precedenti, sebbene la fortezza per quanto dipende dall' uso delle potenze diverse dalla volontà non sia necessariamente connessa colla santità di sua natura; come pure il gaudio per quanto egli scaturisce dalle potenze minori non va di sua natura congiunto a que' due primi effetti; e però giustamente questi tre effetti si distinguono, giacchè la nozione dell' uno non è quella dell' altro e la lor natura permetterebbe che stessero fra di sè separati. Ma tutti uniti dànno perfezione all' uomo, e di perfezionar l' uomo è appunto ciò che intende il Sacramento della Confermazione. L' angelico Dottore cercando in che maniera sia stato istituito il Sacramento della Confermazione, dice che [...OMISSIS...] ; e rende ragione del non essersi potuto conferire questo Sacramento prima della Risurrezione di Cristo, soggiungendo così: [...OMISSIS...] . Cercando poi lo stesso santo Dottore, se gli Apostoli abbiano ricevuto questo Sacramento risponde di no, e ne dà la ragione seguente: [...OMISSIS...] . La soluzione di questa questione, seguìta da tutto il meglio de' Teologi, trae qui a pensare all' altra del Battesimo degli Apostoli. Comunemente or si tiene da' Teologi, che sieno stati battezzati da Cristo, ma ella è però cosa incerta e controversa (4), e non ispregevoli mi sembrano quelle ragioni, che si possono addurre per l' opinione contraria. Perocchè se poteron essi ricevere lo Spirito Santo senza Sacramento mandandol loro Cristo dal cielo, come non poterono ricevere la grazia del Verbo, che si dà nel Battesimo conversando essi col Verbo in terra? In tal modo ne verrebbe meglio chiarito il passo di S. Paolo, che « ricevettero le primizie dello Spirito«, » e gli Apostoli, immediati discepoli di Cristo e riceventi dalla sua bocca le parole della vita, avrebbero ricevuto immediatamente nell' anima loro il Verbo e lo Spirito; e gli altri fedeli avrebbero ricevute queste grazie mediante i Sacramenti conferiti dagli Apostoli e lor successori. Ho già dimostrato, che Cristo non avea bisogno d' alcun mezzo per comunicare le sue grazie, e che se Cristo fosse potuto essere al contatto di tutti gli uomini non ci avea bisogno alcuno di Sacramenti; i quali sono istituiti come anelli, o canali intermedi fra Cristo e quegli uomini, che non possono con lui immediatamente conversare (1). Egli è vero, che Cristo dice positivamente: « non può entrare nel regno di Dio niuno, che non sia rinato di acqua e di Spirito Santo« (2), » ma certa cosa è, che questa sentenza ammette una ragionevole interpretazione in quanto all' acqua materiale, il bisogno della quale non è assoluto per tutti gli uomini. Tanto è vero che ne sono eccettuati per comune consenso tutti quelli che morirono prima del dì della Pentecoste; e da quel dì tutti quelli che si salvarono col Battesimo di penitenza o di sangue. Or Cristo dava immediatamente quell' acqua viva di cui egli parla alla Samaritana « saliente in vita eterna« (3), » la quale non era già un' acqua materiale, sebbene l' acqua materiale sia stata istituita a simbolo dell' acqua spirituale. S. Giovanni Battista fu ripieno di Spirito Santo col solo avvicinarsegli Gesù nell' utero di Maria; non ebbe questi il Battesimo prima di nascere? Gesù diceva a Filippo: « Io sono tanto tempo con voi e non mi conoscete? Filippo chi vede me, vede me e il Padre mio« (4), » indicando con ciò, che la sola vista di Cristo dava la grazia e la percezione di Dio. La Scrittura dice che l' uomo vive di ogni parola, che esce dalla bocca di Dio (5); e le parole di Cristo avranno forse avuto minor efficacia del Battesimo quando anche al Battesimo non proviene la forza sua se non dalla parola del Verbo? (6) non sono chiamate parole di vita quelle di Cristo? (7) non ha detto Cristo agli Apostoli, ch' erano mondi per cagione del sermone che avevano udito da lui? (1) E al presentarsi che facevano a Cristo gl' infermi non diceva loro tostochè vedeva in essi la fede e la contrizione: « i tuoi peccati ti sono rimessi«, » senza far loro parola di Battesimo? (2) e se i peccati loro eran rimessi avevano già ottenuto l' effetto del Battesimo senza più. Non disse a Zaccheo che « la salute di quella casa era in quel giorno avvenuta« (3) » appunto perchè l' avea santificato coll' aspetto suo e colla sua visita? E se appresso tutti i Teologi si conviene, che la necessità del Battesimo non cominciò se non dopo la Pentecoste, questa necessità non ci fu mai per gli Apostoli, perocchè dopo aver ricevuto lo Spirito Santo non poteano aver bisogno del Battesimo, e prima necessità non ce ne aveva per alcuno. Ora noi dobbiam favellare del più compiuto e del più ineffabile de' Sacramenti, voglio dire dell' Eucaristia. Il verremo prima considerando in sè stesso, trattando della confezione del corpo e del sangue di Cristo; poscia rispetto ai battezzati di cui egli è soprasostanziale nutrimento; e finalmente rispetto all' ordine stesso della santificazione umana. Il divino Autore di tanto mistero illustri a noi la mente e ci conduca la penna, acciocchè collo scrivere nostro fedele possiamo conseguire quello che solo è bene, desiderando noi di non mescolare in queste pagine nulla di nostro a quanto da lui medesimo e dalla sua chiesa noi abbiamo imparato. E prima mi si conceda di sporre il modo del trasmutamento del pane e del vino nel corpo e nel sangue di nostro Signor Gesù Cristo, a quel modo che io il concepisco contenersi nel deposito delle verità della fede, nelle Scritture e nella Tradizione. Dico in prima, che questa trasmutazione si fa in un modo assai somigliante (1) a quello onde in noi si converte il cibo, mediante la nutrizione, nel corpo nostro e nel nostro sangue. Conviene attentamente osservare ciò che avviene nel fenomeno della nutrizione. Delle particelle inanimate vengono ricevute nel nostro stomaco, e indi distribuite pe' meati del corpo e ravvicinate sì fattamente, assimilate, inserite, contemperate, fuse nella nostra carne viva e nel nostro sangue vivo, che anch' esse in un modo ammirando ricevon la vita e si fanno animate, sensitive; in una parola diventano vera nostra carne e vero nostro sangue. Ora in un modo somigliante, come dicevo, io intendo che Gesù Cristo comunichi la vita propria alle particelle del pane e del vino, e in tal guisa le renda suo vero corpo e suo vero sangue. E ove in tal modo si concepisca la transustanziazione del pane e del vino si rendono assai chiare alcune parole di Cristo che altramente possono parere oscure ed inesplicabili. Così leggiamo in S. Luca, che dopo aver detto il divino Redentore giacente co' suoi discepoli nel cenacolo: [...OMISSIS...] . Dove quella maniera« dico io a voi« dico enim vobis , annunzia che egli vuole comunicar loro qualche gran cosa. Il regno di Dio poi consiste propriamente nella glorificazione di Cristo; perocchè Cristo glorioso a pieno regna « m' è stata data ogni potestà in cielo ed in terra«, » e Dio regna in Cristo. Volea dunque dire, che non mangerà più la pasqua prima della sua Risurrezione, nella quale Risurrezione la pasqua sarà pienamente adempita: perocchè l' agnello pasquale rappresentava il vero agnello ucciso, e fatto salute e cibo vitale de' veri israeliti, cioè Cristo ucciso e fatto glorioso, potente perciò a comunicare vita e pienezza di vita, a cui se ne ciba vivendo. E nello stesso significato soggiunse del calice del suo sangue: « prendete e dividete fra voi: imperocchè vi dico, che non berrò della generazione della vite, fino che non venga il regno di Dio« (3), » cioè la mia Risurrezione. Nè si può muover dubbio per cagione della particella« fino che« donec , la quale nella maniera d' usarla che fa la Scrittura indica sovente ciò che non fu fatto fino a quel momento, non ciò che far si deva in appresso. Benchè ciò sia vero, e valga per intendere altri luoghi delle Scritture; pure qui il testo di S. Matteo e di S. Marco non ci permettono tale interpretazione, leggendosi espressamente, che Cristo non solo non berrà più vino fino alla Risurrezione, ma che « berrà un vino nuovo nel suo regno«, «cioè fatto glorioso. [...OMISSIS...] Le quali parole sono chiarissime, nè ammettono una facile interpretazione altrimenti che coll' intenderle dell' Eucarestia che dovevano i suoi Apostoli celebrare, lui già risorto. Perocchè dicendo Cristo « di questo figliuolo della vite« » esclude ogni spiegazione spirituale, che dar si volesse a quelle parole; giacchè quel vino a cui alludeva era cosa reale e non puramente allegorico e figurato, e dove s' intendesse che un vino figurato sarà quello che berrà dopo la sua Resurrezione dovrebbe necessariamente intendersi che un vino figurato beveva allora, il che sarebbe contrario alla fede; perocchè l' identità di natura fra il vino che allora beveva e quello che dice di dover bere nuovo dopo la Risurrezione è chiaramente espressa in quelle parole: « io non berrò più di questo figliuolo della vite«. » Dice adunque, che nel regno del Padre suo, cioè dopo risorto, berrà del vino, ma non d' ogni vino, ma di quello appunto che tenea allora in mano, ed era il vino consacrato; e di più dice, che lo berrà con essi « lo berrò nuovo con esso voi«. » Aggiunge poi che sarà « un vino nuovo« » per indicare che il vino consecrato dopo la Risurrezione non era più un sangue passibile e che si potesse veramente spargere; ma un sangue impassibile, e immortale, e meglio che un vino nuovo, di recente e inestinguibile vita potente. Tutte queste circostanze mirabilmente si avverano nell' Eucarestia, se a quel modo si spieghi che abbiam toccato. Conciossiachè in tal caso veramente avverrebbe, che Cristo glorioso, banchettasse continuamente, per così dire, avvivando della sua vita divina il pane ed il vino, e convertendolo tutto nelle divine carni e nel divino suo sangue. Che se attentamente si considerano le parole di Cristo non si troveranno capaci di alcun' altra interpretazione. Perocchè Cristo stesso lo espone dell' Eucaristia. « Di gran desiderio ho desiderato, dice, di mangiare con voi questa pasqua innanzi che io patisca«. » Che vuol dire questo « innanzi che io patisca?« » non sembrano parole superflue? non bastava dire:« di gran desiderio ho desiderato di mangiare questa pasqua?« no, perocchè Cristo poteva mangiare quella pasqua avanti patire e dopo aver patito, cioè già risorto. Però egli mostra l' immenso desiderio che avea di mangiare quella pasqua, prima che patisse, quella pasqua nella quale sarebbe morto. Or se quelle parole « innanzi che io patisca«, » alludono assai convenientemente ad una pasqua ch' egli mangiar poteva dopo aver patito, non è egli assai chiaro, che quel pane e quel vino, che dice poi che avrebbe mangiato nuovo nel suo regno, è appunto questa pasqua, di cui così favella fino a principio del suo discorso? e che però per quel pane e per quel vino nuovo non può intendersi convenientemente se non l' Eucarestia che sarebbe stata rinnovata, lui già risorto? Or in tal modo intese seguire la transustanziazione del pane e del vino S. Gregorio Vescovo di Nissa, uno de' Padri del secolo d' oro della Chiesa, e de' più acuti e di tanta fede e venerazione, che in sua vecchiezza chiamavasi il Padre de' Padri (1). Questi nella sua celebre Catechesi si fa a cercare diligentemente, come il corpo di Cristo nella Santissima Eucarestia possa alimentare tanti fedeli, rimanendosi egli intero e in sè perfetto (2). [...OMISSIS...] Così questo grand' uomo trovava opportuno di chiamare la ragione in ossequio e in servigio della fede, non dissociando quello che Iddio ha congiunto. Viene adunque a stabilire 1 che il corpo nostro nello stato presente si mantiene coll' alimento a lui adattato (1), 2 che questo alimento precisamente è il pane ed il vino che si convertono nel corpo (2), 3 che però chi vede del pane e del vino il corpo umano in potenza, cioè tali cose che sono atte a farsi corpo (3). Premessi questi principii egli viene applicandoli all' Eucarestia (4). Ed osserva 1 che il Verbo divino prese un vero corpo umano (5), 2 che anche questo corpo umano preso dal Verbo non si sottrasse mentre era in terra alla legge degli altri corpi, di nutrirsi cioè di pane e di vino (6), 3 che il pane e il vino di cui Cristo si nutriva diventava una cosa stessa col corpo di Cristo, perocchè trapassava alla natura del corpo sebben corpo divino (7), 4 [...OMISSIS...] . Si fa poi l' obbiezione tratta dalla maraviglia che v' ha in una trasmutazione sì maravigliosa per la quale un pezzo di pane ed un calice di vino si trasmuta in un essere divino; e risponde, che se ciò avveniva indubitatamente quando Cristo vivea, niuna maraviglia che avvenga anco di presente; perocchè l' onnipotenza del Verbo, che faceva quella trasmutazione vivendo in terra è la medesima anche ora. [...OMISSIS...] Le quali parole del Nisseno non si possono già considerare, come contenenti una cotal vaga similitudine fra la nutrizione e la consecrazione; ma bensì come una spiegazione ch' egli manifestamente prende a dare di questa mediante di quella. Il secondo testimonio che noi addurremo sarà S. Cirillo Alessandrino, il quale senza nominare la parola nutrizione, dice però il medesimo affermando, che Iddio converte il pane nel proprio corpo, comunicandogli la virtù vitale del proprio corpo; che è appunto quel modo in che noi crediamo avvenire la transustanziazione. Le parole del gran Vescovo sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Può dirsi più propriamente e più espressamente quello che noi diciamo, cioè che la consecrazione consiste in una diffusione e comunicazione della vita divina del corpo di Cristo? E un testimonio maggiore ancora a prova della proposta sentenza possiam forse cavare dal libro dell' Ecclesiastica Gerarchia. Quando anco l' autore di quest' opera si dovesse collocare nel secolo V, fra il Concilio Efesino e il Calcedonese, come vogliono taluni, e però fosse posteriore a Gregorio e a Cirillo, tuttavia l' autorità di quel libro parmi vincer non poco quella de' due grandi Vescovi allegati, non foss' altro perchè vi si descrive la liturgia della Chiesa, che venìa dagli Apostoli. Ora i fedeli che comunicano sono appellati in questo libro« connutrizi « di Cristo: appellazione, come a me sembra, tenerissima ed efficacissima, la qual suppone che nella stessa Eucarestia trovar debbasi un cibo in pari tempo per Cristo e per noi. E veramente se il pane e il vino si converte nelle carni e nel sangue di Cristo per una operazione simigliante, sebben più sublime, di ciò che avviene nella ordinaria nutrizione; veramente i fedeli cibano quel cibo che ha cibato prima Cristo, e sono veri suoi connutrizii. Ella s' avvera in questo caso alla lettera la similitudine usata dagli scrittori ecclesiastici, i quali raffigurano Cristo nell' Eucarestia in una madre che nutrisce i suoi bambolini, del proprio suo cibo convertito in suo latte, convertito in propria sostanza. Dice adunque l' autore dell' Ecclesiastica Gerarchia che « la divinissima partecipazione comune e pacifica di un medesimo pane e di un medesimo calice prescrive a' partecipanti, siccome A CONNUTRIZII (1) una divina conformità di costumi - e che lo stesso autore de' simboli, a meritissimo diritto esclude (dal banchetto) colui che SECO avea frequentata la sacra cena, nè santamente, nè con animo concorde« (2), » cioè Giuda tipo di quelli che indegnamente comunicano. E se l' interpretazione di questo luogo può esser dubbiosa ad alcuni, niuno dubiterà però che con noi non la senta Giovanni di Damasco. Nel IV libro della fede ortodossa (3) egli scrive così: [...OMISSIS...] . Il qual passo è certamente chiarissimo: e conviene osservare, come il Damasceno riconosca come il cibo convertito naturalmente in carne ed in sangue vivo non formi già un corpo diverso, ma l' identico corpo che v' aveva prima: e come la similitudine che usa la crede atta appunto a dimostrare l' unicità e l' identità del corpo di Cristo, sebbene Cristo assuma e transustanzii nelle sue carni e nel suo sangue la sostanza del pane e del vino. Non può adunque dirsi che la similitudine usata dal Damasceno sia in questa parte deficiente: egli almeno la tien per attissima al suo intendimento. Nel secolo seguente Teofilatto, commentando il capo VI di S. Giovanni, così scriveva: [...OMISSIS...] . Le quali parole dice Teofilatto a intendimento di rendere più credibile sì grande mistero a quelli che s' atterivano pensando, che annunziasse cosa impossibile. Ora le sue parole niente varrebbero a tale intendimento quando non v' avesse una vera similitudine fra la nutrizione naturale e la consecrazione, che si può dire una cotale soprannaturale ineffabile e divina nutrizione di Cristo glorioso. E questa conversione in tal modo concepita viene espressa appunto allo stesso modo, ma senza l' uso di alcuna similitudine, da Elia Arcivescovo di Creta scrittore dell' ottavo secolo, a quel modo stesso come vedemmo espressa da Cirillo Alessandrino, dicendo egli, che « Iddio abbassandosi all' infermità nostra immette nelle cose proposte (in su l' altare) una virtù vivificatrice e le trasferisce all' operazione della sua carne« (2) » cioè dà loro l' atto o la natura della propria carne: il che è appunto quello che avviene nelle particelle del cibo, le quali avvolte quasi direi nel vortice della vita vengono anch' esse avvivate e acquistan natura ed atto di verissima carne. Al quale greco scrittore s' accorda un altro che fiorì nello stesso secolo nella Chiesa latina, voglio dire Alcuino, il quale così scrive dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] . Dove si vede manifesto come questo scrittore intendeva che il pane passasse nel corpo di Cristo, e così con lui si mescolasse e immedesimasse. Or sebbene, come dirò appresso, il Durando abusasse del concetto della nutrizione male intendendolo; tuttavia egli si scontra anche ne' teologi cattolici che scrissero dopo di lui, come in Simonate di Gaza, in Giovanni Bromiardo, nel Gersone, nel Sabundio. De' quali non sarà inutile l' addurre i luoghi. Scriveva adunque Simonate Gazeo nel XIII secolo: [...OMISSIS...] , il qual passo veramente non si può storcere a indicare altro che quello che noi vogliamo. Scrive pure il Bromiardo: [...OMISSIS...] : argomentazione che non istringerebbe, quando non si trattasse nella consecrazione di una trasformazione somigliante a quella che avviene veramente nella natural nutrizione. Giovanni Gersone simigliantemente: [...OMISSIS...] . Finalmente udiamo Raimondo Sabundio: [...OMISSIS...] . Il perchè l' errore di Durando non consiste nell' avere paragonato la consecrazione alla nutrizione; ma nell' aver detto che il pane non si converte già tutto nel corpo di Cristo, ma la materia del pane rimanere partendosene la forma sostanziale (3). Sembra che Durando sia caduto in tale errore per non essersi formato un' idea giusta della nutrizione; ed egli pare che credesse rimanere la materia del pane informata dall' anima di Cristo, il che sarebbe una vera impanazione (1). I teologi stessi, e fra questi un sommo, il Bellarmino, se non erro, hanno confuse insieme queste due cose. E veramente basta attentamente considerare con quali decisioni della Chiesa il Bellarmino combatta il Durando, per accorgersi, che l' errore che vien combattuto, non istà propriamente nel considerare la consecrazione come una cotal nutrizione di Cristo glorioso (detratto tutto ciò che nel concetto di nutrizione si trovi d' imperfetto e di difettoso); ma bensì nel supporre che la materia del pane rimanga immutata. Due sono i solenni decreti della Chiesa che il Bellarmino contrappone al Durando: 1. Il capitolo IV e il canone II della Sessione XIII del Concilio di Trento, dove si dichiara mutarsi « tutta la sostanza del pane nel corpo, e tutta la sostanza del vino nella sostanza del sangue«. » Or a questo canone si oppone certamente la dottrina che insegna rimanere la materia del pane, ma non quella che dice tutta la materia del pane si trasmuta nelle carni del Signore; e questo avviene appunto supponendo avvenire nella consecrazione una conversione simile (sebben più sublime) a quella della nutrizione. Imperocchè supponendo la nutrizione perfetta avverrà, che nel pane Eucaristico non vi sia nè pure una particella, nè pure un elemento il più tenue che non sia vera carne di Cristo; nè del vino rimanga un atomo che non sia verissimo sangue; ciò che risponde a capello alla fede cattolica (2). 2. La Sessione VIII del Concilio di Costanza, nella quale si condanna l' errore di Vicleffo, il quale era che « gli accidenti non rimangono senza soggetto«. » Ora se la materia del pane rimane, certo che questa materia è il soggetto proprio degli accidenti, e però gli accidenti non sarebbero senza il loro soggetto, contro a quello che definì il Concilio di Costanza. Ma all' opposto se si afferma, che la materia del pane, soggetto degli accidenti, mediante la soprannaturale nutrizione di cui parliamo siasi cangiata nella vera e viva carne di Cristo, egli è cosa manifesta, che il soggetto degli accidenti non rimane più; e che non restano se non gli accidenti del pane e del vino, senza il pane ed il vino, senza la sostanza loro. Conciossiachè il corpo di Cristo ha ben degli altri accidenti, ma che tiene a noi occulti nell' Eucaristia, celandosi quasi direbbesi sotto gli accidenti altrui, che a noi appariscono. La dottrina nostra adunque è sommamente consentanea alle decisioni del Concilio di Trento e di quello di Basilea. Non v' ha dunque alcuna decisione della Chiesa, che c' impedisca la nostra sentenza, la quale anzi è mirabilmente consentanea ai Concilii di Costanza e di Trento. Non è però, ch' ella non trovi alcune difficoltà non leggiere nell' apparenza, ma che non mi sembrano tali nella sostanza. Oltre di che a portare un retto giudizio conviene raffrontare le difficoltà che porge la sentenza nostra, con quelle che trae seco la sua contraria, le quali a me sembrano oltremodo più gravi. Il perchè io verrò sponendo e ponendo a fronte le une colle altre, e così potrà ciascuno savio con piena cognizione di causa scegliere l' opinione che gli parrà meno involta di nodi e più consentanea alla rivelazione ed alla tradizione. La prima difficoltà dunque, che ci si affaccia, si è quella di non saper comporre la nutrizione collo stato di Cristo glorioso. E certamente, che se noi parlassimo di quella stessa maniera di nutrizione che in noi succede, ella non si potrebbe in modo alcuno avvenire in un corpo glorioso. Ma egli è necessario osservare, che tutto ciò che è conforme alla natura di un uomo (1) può trovare un modo di essere anche nello stato di un uomo comprensore, sebbene noi non sappiamo in qual modo ciò avvenga, perchè non abbiamo esperienza dello stato de' corpi gloriosi, salvo ciò che ce ne dà la rivelazione. E veramente la natura umana col farsi gloriosa non muta l' esser suo, ma ella si nobilita e acquista delle nuove qualità. Il perchè non è da credere, che rimanendo il corpo nostro formato come è al presente e delle stesse membra composto, egli non debba avere altresì un uso delle sue membra, sebbene quest' uso soverchi di presente il nostro pensiero. Quello solo che mi sembra di poter dire si è, che la maniera di nutrizione che può cadere ne' corpi gloriosi deve esser scevra da tutte le imperfezioni che involge la nutrizione nostra. Per esempio, la nutrizione in noi supplisce alle particelle che continuamente si separano dal corpo nostro, e col riparare a queste perdite e co' movimenti annessi all' opera della nutrizione mantiene l' attività, il calore, la vita. Tutto questo appartiene all' imperfezione nostra; la nutrizione considerata come producente tali effetti, necessari al mantenimento del nostro vivere, non può cadere in modo veruno in corpi impassibili immortali. Ma tutto ciò non forma ancora l' essenza della nutrizione, al modo come noi intendiamo questa parola. L' essenza della nutrizione noi la facciamo consistere unicamente, 1. nell' assimilare al corpo vivo della materia non viva, 2. e nel comunicare la vita a questa materia nell' atto stesso che si assimila e inorganizza nel corpo, sicchè con esso diviene un solo e identico corpo. Ora a me sembra, che niente ripugni che questo concetto della nutrizione si applichi anche ad un corpo immortale; io non veggo cosa che a ciò si opponga nella parola di Dio o scritta o tramandata; molte all' incontro che me lo persuadono. E veramente, se il corpo nostro imperfetto com' è ha pur tanto di vita in sè stesso da poterla comunicare a delle particelle di materia inanimata; e come di una tale virtù sarà privo un corpo perfettissimo, che di vita è pienissimo a segno, che non può morire? Convien considerare, che il comunicare la propria vita a materia straniera è cosa che appartiene all' eccellenza di una natura e non a un difetto; che è opera potente, nobilissima. Si richiede solamente svestire quest' alta funzione da quegli accessori, co' quali noi la veggiamo continuamente accompagnata, ma che non le sono necessarii, e che accidentalmente le avvengono per l' imperfezione nostra, cioè per l' imperfezione del soggetto, in ch' ella si forma. Di che avviene, che mutato il soggetto e reso questo al tutto perfetto, anche l' operazione di cui parliamo non delle sue imperfezioni parteciperebbe, ma più tosto de' suoi pregi e delle sue eccelse prerogative. Acciocchè dunque un corpo comunichi ad un altro corpo della propria vita non è necessario 1. ch' egli perda qualche parte della sostanza di cui si compone, come avviene ora in noi, 2. nè che egli abbia bisogno della vita distesa e accomunata ad altri corpi per viver egli, come pure avviene nel corpo mortale, 3. nè ch' egli sofferisca tutte quelle permutazioni successive, colle quali si forma in noi la nutrizione. Tutto questo viene escluso dal corpo glorioso (1). Ma egli rimane però dopo di tutto ciò qualche cosa che al corpo glorioso non ripugna; e questa si è, ch' egli comunichi ad altri corpi la propria vita istantaneamente, e a sè li assuma ed immedesimi; non sè abbassando, ma quelli a sè elevando ed incorporando (2). Ora questo è quello, che anche crediamo avvenire ineffabilmente e soprannaturalmente nella Eucaristia. S. Luca ci descrive Cristo che dopo la Risurrezione mangia co' suoi discepoli, in prova ch' egli non è puro spirito ma anche vero corpo. Egli avea loro mostrate le cicatrici delle sue piaghe, e fattele loro toccare, ma essi tuttavia non credevano: a convincerli ch' egli era anche risorto vero uomo, vuol mangiare con essi. [...OMISSIS...] Ora io so bene, che cosa dicano i Teologi: essi vanno imaginando che quel cibo, che prese Cristo, non siasi convertito nelle sue carni, ma risoluto in aria, come dice il Bellarmino (4). Ma questo non è che una pura imaginazione non fondata punto nelle Scritture, imaginazione proveniente da non sapere come accordare insieme una vera nutrizione collo stato di un corpo glorioso. Per questo lo stesso Aquinate conghiettura, che il cibo preso da Cristo siasi risoluto nella « pregiacente materia«; » ma dice che tuttavia quel prendimento di cibo era una vera comestione « perocchè Cristo aveva un corpo di tal natura, che in esso corpo si poteva il cibo convertire« (1). » Ma questa è puramente teologia non fondata nè nella Scrittura nè nella Tradizione, e proveniente, come diceva, dal non saper essi formarsi della nutrizione un concetto elevato e puro da tutte quelle imperfezioni, ch' ella ha come avviene in noi. Per altro tanto è lontano, che le Scritture ci faccian credere che nella comestione di Cristo risorto il cibo non si convertisse nelle sue carni, che anzi fanno travedere il contrario. Primieramente si descrive quella comestione come ogn' altra. Poi Cristo voleva dar prova a' suoi discepoli che egli aveva un corpo della stessa natura del loro. La visibilità e la solidità di questo corpo l' aveva già loro provata facendosi vedere e toccare. Se il cibo da lui preso non avesse fatto che passare in lui, la prova non era tampoco maggiore del mostramento fatto loro delle cicatrici, e del toccamento di quelle ch' essi avean fatto. Ma volea loro mostrare, che il suo corpo era atto anche alle funzioni della vita, fra le quali è quella di nutrirsi, o sia di comunicare alla materia della propria vita. Per questo fine egli volle mangiare in loro presenza. Se il cibo non si fosse cangiato nelle carni di Cristo, perchè mostrar di mangiare? A che cosa è ordinato il mangiamento del cibo se non alla nutrizione? Conveniva egli che il Redentore facesse una tale azione del prender cibo in bocca, masticarlo, mandarlo nello stomaco, senza ottenere il fine pel quale sono state fatte tutte queste operazioni? tutte queste operazioni sono inutili e vane, quando il cibo non dee cangiarsi in carne e sangue, non dee nutrire; egli veramente non è più cibo. In tal caso in vece di far passare il cibo per la bocca e pe' visceri, bastava che Cristo lo prendesse in mano: perocchè il toccarlo colla mano o con altra parte di corpo è il medesimo quando il cibo non dee trasmutarsi. Oltrecchè non ingeriva egli nelle menti degli Apostoli una cotale erronea opinione, se avesse mangiato senza nutrirsi di ciò che mangiava? perocchè essi, non ricevendo da lui spiegazioni di quell' atto, non doveano pensare se non che il mangiar di Cristo era simile al loro; il che se avvolgeva una gran meraviglia, non rimaneva però men credibile: quando di fatti portentosi e per poco incredibili erano circondati. Certo S. Pietro rimase altamente preso da questo fatto di aver Cristo mangiato dopo la Risurrezione, e nel discorso che fece in occasione del Battesimo di Cornelio lo rammenta dicendo: [...OMISSIS...] . Egli fa notare che Cristo dopo che risorse da morte mangiò e bevette (1), ed essi con lui; nè aggiunge già che questo mangiare e questo bere non era che un trapassare del cibo e della bevanda pel corpo di Cristo; ma non crede che noccia alle doti gloriose di Cristo risorto il lasciar credere che il cibo si tramutasse in Cristo come in noi si trasmuta: anzi questo veramente avvicina maggiormente Cristo a noi, e lo stato glorioso de' nostri corpi al presente, e ci mette in più stretta e famigliare conversazione colle cose eterne. Ma il mangiare di Cristo dopo risorto cogli Apostoli, il mangiare il pane ed il vino Eucaristici, che non dee certo esser mancato in sì sublimi conviti, non solo provava l' umanità di Cristo d' ugual natura alla nostra; ma ben anco la sua divinità per l' avveramento della sua profezia. In vero egli pare che in tali agapi, che Cristo risorto fece co' suoi discepoli, si avverasse quanto disse nell' ultima cena, che non avrebbe mangiato e bevuto con essi se non dopo venuto il regno di Dio, cioè dopo la sua Risurrezione, ma che allora [avrebbe] banchettato in nuova maniera al tutto maravigliosa con essi, e avrebbe con essi bevuto un vino nuovo. E questo vino nuovo, di cui s' era inebriato, rammentava Pietro dicendo, che « aveano mangiato e bevuto con Cristo dopo che era risorto da morte«. » Ed egli era quanto un dire che aveva ricevuto dentro di sè Cristo glorioso, a loro principio e fonte di ogni potestà e d' ogni bene; perocchè Cristo risorto è oltre ogni pensiero vivifico e onnipotente. Sicchè con quelle parole Pietro mostrava qual Cristo erasi loro comunicato, qual potere era il suo, qual dignità, qual tesoro di vita. Può recare qualche maraviglia il riflettere, che se Gesù Cristo glorioso incorpora a sè e comunica la vita sua alla sostanza del pane e del vino; dovrebbe la mole del suo corpo or crescere ed ora scemare. Ma nè pur questo può veramente nuocere all' opinione proposta, ove pure dirittamente s' intenda. E` certo che Gesù Cristo nella Risurrezione ha un corpo, che non perde più alcuna menoma particella, e sarebbe grandissimo errore dire il contrario; così pure certo è che quel corpo non ha bisogno di cosa alcuna. Ma tutto questo fermato, niente poi ripugna che quel corpo possa or ricevere qualche accessione, or deporre l' accessione ricevuta; purchè questo accesso e recesso di materia straniera si faccia senza ch' egli punto nè patisca o soffra, nè per cagione di suo bisogno; anzi forse per suo infinito diletto. Pur troppo egli avviene, che noi ci formiamo de' corpi gloriosi un concetto arbitrario e che gli attribuiamo non quello solo che nelle Scritture e nella tradizione troviamo, ma quello ancora che noi crediamo gli debba convenire per cagione di dignità e di perfezione; quando egli è veramente troppo alta cosa il conoscer dove questa dignità e perfezione consista, e quali cose a lei si convengano, quali sconvengano. Di che accade che il corpo de' comprensori si concepisca per poco senza moto e senza azione. All' opposto io credo, come ho poco sopra toccato, che anzi il corpo glorioso abbia un movimento ed un' azione infinitamente maggiore che non il corruttibile mortale; e che tutte le sue membra giovino a qualche uso, nè sieno inutili: sebben l' uso loro sia d' un modo, di cui non possiam avere esperienza, e scevro da ogni presente difetto. Egli appartiene dunque, a mio parere, alla eccellenza e sublime perfezione del corpo di Gesù Cristo risorto, ch' egli possa assimilare a sè tutto ciò ch' egli vuole, possa a tutto ciò ch' egli vuole accomunar la sua vita (1), e or ricevere crescimento, or il crescimento ricevuto lasciarlo a tutto suo piacimento; senza che menomamente egli con queste azioni e mutazioni o sofferisca, o perda di sua vita, di sua dignità, di sua beatitudine. Credo di più che come tutte le sue azioni, così questa massimamente di cui parliamo conferisca alla pienezza del gaudio che il rende beato. La seconda fra le apparenti difficoltà contro l' esposta dottrina viene cavata da quelle parole di Gesù Cristo: « il pane che io darò è la carne mia per la vita del mondo (2), » e da quell' altre: «« Questo è il mio corpo che per voi sarà dato« (1): » secondo le quali parole il pane Eucaristico è quel corpo di Cristo che ha patito sulla croce. Ora quella carne di Cristo nella quale si converte il pane, posta la precedente teoria, non parrebbe esser quella stessa che sulla croce ha patito. Dunque una tale teoria non si regge in piedi. Ma chi un po' considera anche questa è una difficoltà apparente e non più. Io bramo, che ben si considerino in primo luogo le parole di Cristo: « il pane che io darò è la carne mia che io DARO` per la vita del mondo«:« questo è il mio corpo, che per voi SARA` DATO«. » Queste parole sono del futuro. O si considerano adunque nella bocca di Cristo che aveva ancora da patire, e in tal caso si riferiscono al sacrificio cruento che egli far dovea del suo corpo; e non presentano alcuna difficoltà, perocchè Gesù Cristo nell' ultima cena andò a morire dopo aver celebrato ed essersi nutrito della santissima Eucaristia che distribuì a' suoi discepoli; sicchè potea ben dire, anche in un senso materialmente vero, che il pane Eucaristico che loro dava era quel suo corpo che avrebbe patito. O pure si considerano ripetute dal sacerdote sull' altare, e in tal caso quel tempo futuro SARA` DATO non può riferirsi che al sacrificio incruento; e anche ciò posto, quelle parole si verificano alla lettera e materialmente; imperocchè al sacrificio incruento appartengono appunto quelle particelle, se così mi si lascia dire, del corpo di Cristo, e quelle stille di sangue, in cui si convertì il pane ed il vino. Le parole adunque, che si allegano, un po' considerate, non fanno la minima opposizione a quanto fu proposto. Ma senza di ciò egli è certo che il corpo e il sangue Eucaristico è identico col corpo e col sangue di Gesù Cristo che patì in croce (2). Di più, egli è di fede che il corpo di Cristo che nacque di Maria Vergine, quello col quale Cristo fece tutte le azioni della sua vita privata, quello che fu battezzato da Giovanni, quello che digiunò, predicò, patì, risorse da morte, ascese al cielo e sussiste nell' Eucaristia, è uno stesso e identico corpo, e non più corpi: il dire il contrario sarebbe eresia (1). Per ciò come dicono i Padri, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è il medesimo corpo che ha patito sulla croce, così dicono parimente ch' egli è il medesimo corpo, che è nato da Maria Vergine (2); e le liturgie fanno insieme coll' Eucaristia commemorazione di tutti i misteri (3). Ora in che consiste questa IDENTITA` del corpo di Cristo che il rende quello medesimo nella stalla di Betlemme, sulla croce, nel celeste regno? Può ella forse ritrovarsi in una identità materiale, sicchè nè più nè meno quelle particelle che componevano il corpo di Cristo bambino fossero identiche a quelle che componevano il corpo di Cristo adulto, il corpo di Cristo spirato sulla croce o riposto nel sepolcro, e il corpo di Cristo glorioso? No certamente. E chi non sa, che il corpicciuolo di Cristo appena nato era composto di assai meno materia, che non sia il corpo di Cristo già fatto adulto, il qual pesava forse un sei o un dieci volte di più di quello? chi non sa che il corpo umano durante la vita presente separa continuamente da sè una moltitudine di particelle, che lascian d' essere vive, uscendo in sudore, e in altre naturali secrezioni; e che in compenso di quelle riceve e unisce a sè moltissime altre piccole parti inanimate colla respirazione e colla nutrizione ed altre funzioni vitali, le quali rese vive diventano vere carni? e che però ad ogni certo periodo di anni il corpo nostro o del tutto o certo nella massima sua parte si rifà e si rinnovella? e tuttavia è sempre il medesimo e identico corpo nostro? Però le particelle che componevano il corpo di Cristo nato e morto e risorto non erano tutte identiche; e pure il corpo era identico: l' IDENTITA` adunque di un corpo umano non consiste nell' identità delle particelle che lo compongono (1). Ove adunque consiste l' identità di un corpo umano vivente? Se non consiste nell' aver egli sempre quelle identiche particelle materialmente prese, se il mutare delle particelle onde si compone un corpo non cangia la sua identità e la sua numerica unità; convien dire che il fondamento dell' identità si debba riporre non in altro, ma nella vita, nel sentimento fondamentale (2). Un sentimento identico rimane sempre, il quale si esprime colla particella IO. L' IO è sempre quel medesimo: IO so di essere stato bambino, d' esser cresciuto e d' essere pervenuto, trapassando molte permutazioni, allo stato presente, sono sempre quel medesimo IO. E` celebre il verso che dice: « Tempora mutantur, et nos mutantur in illis » ma tuttavia questo NOS mantiene una identità assoluta, per mezzo a tutte le permutazioni; la quale è tanta, quanta l' incomunicabilità della persona. La persona è incomunicabile per la sua diffinizione (1): ella allo stesso modo è immutabile almeno nella sua radice. E qui si attenda bene, che quando noi facciamo derivare l' identità del corpo dall' identità della vita e del sentimento fondamentale, non parliamo solo del sentimento intellettivo, ma del sentimento animale che informa la materia. Questo sentimento e la vita da cui proviene rimangono sempre gli stessi, cioè egli è sempre uno stesso principio vitale quello che inanima il corpo; ora egli è cosa certa che un principio vitale che inanima alcune particelle di materia organizzate è al tutto indifferente a inanimar più tosto esse che altre particelle materialmente diverse, ma della stessa natura e forma, e componenti in tutto lo stesso organismo: anzi quel principio vitale non potrebbe in alcun modo distinguere la differenza di queste particelle che inanima, quando rispetto a lui sono al tutto uguali sia nella specie, sia nella forma, sia nella posizione, sia nella organizzazione, e non differiscono che nella numerica identità. Questo merita di essere attentamente considerato: l' identità materiale delle particelle inanimate dall' anima nostra è al tutto indipendente e cosa diversissima dall' identità del corpo vivo. Noi abbiamo osservato un fatto che può illustrare questo vero. Il moto nostro assoluto è per noi al tutto impercettibile, cioè il NOI non sofferisce alcuna alterazione dal moto relativo (2). Di qui apparisce manifestamente che l' identità del luogo , e l' identità del corpo vivo sono due identità al tutto indipendenti l' una dall' altra. Or come adunque io sono quell' IO identico tanto in un luogo come in un altro, nè sofferisco col mutar luogo (per moto assoluto) nè pure la più piccola e al tutto accidentale alterazione, così parimente egli è al tutto indifferente all' identità del mio corpo vivente che il mio principio vitale avvivi queste o quelle particelle, bensì differenti quanto all' individualità loro, ma quanto alla specie e nell' altre condizioni perfettamente uguali. Io credo di poter recare a questo proposito le parole di Gesù Cristo il quale disse « lo spirito è quello che vivifica: la carne nulla giova« (3): » quasi volesse dire che lo spirito vivificando la carne è quello che le dà unità, l' essere di uomo; quando senza lo spirito la carne non appartiene più, materialmente presa, all' umana natura, che nello spirito principalmente risiede. Se poi il principio animale è unificato col principio intellettivo e personale in tal caso l' identità del principio intellettivo diviene anch' esso fondamento dell' identità del corpo, di maniera che l' identità della persona costituisce l' identità del corpo da quella persona informato. Or poi in Gesù Cristo conviene ancora più su sollevarsi. Il principio intellettivo umano non costituisce persona in esso, ed è subordinato al Verbo persona divina che tutto il resto governa di ciò che sta nell' uomo7Dio; sicchè finalmente l' ultimo principio dell' identità del corpo di Gesù Cristo conviene cercarla non altrove che nella sua divinità (1) sempre identica, a cui esso corpo appartiene (2). Le particelle adunque che compongono il corpo non sono il corpo; la loro identità non è l' identità del corpo. Ma quando delle particelle sono rapite dallo spirito, per così dire appropriate a sè, accese di vita, incorporate in un corpo vivo, o in somma informate dall' identico spirito; esse non hanno un' esistenza a parte da lui: formano un' unità con quello spirito e con tutto il corpo vivente: non sono due corpi ma un solo: ed è l' identico corpo che esisteva e viveva prima di ricevere in sè quelle nuove molecole. Le quali dottrine ben poste, dico che il corpo di Gesù Cristo nella Santissima Eucaristia è veramente identico con quello spirato sulla croce; perocchè quell' accessione ch' egli riceve coll' Eucaristico ineffabile alimento con esso si perde, confonde, immedesima, diventa una cosa sola fusa con esso; un' anima stessa l' avviva, una medesima vita partecipa, gode d' un medesimo unico impartibile vital sentimento, non venendo nè l' organismo del corpo nè alcun membro rinnovato o mutato. E qui a chiarimento e conferma maggiore delle cose dette osserviamo un' altra espressione che usano i Padri a determinare l' identità del corpo di Cristo nell' Eucaristia. Essi dicono che questo corpo che sta nell' Eucaristia è il corpo proprio del Verbo. [...OMISSIS...] S. Isidoro Pelusiota lo chiama pure corpo « PROPRIO del Verbo incarnato« (3). » Nell' antichissimo rito di amministrare la Santissima Eucaristia riferito da Tertulliano e da altri, diceva il sacro ministro « ricevi il corpo di Cristo » ovvero «« è il VERO E PROPRIO corpo di Cristo« (4). » Ora questa maniera di dire è tale, che per essa si pone nella persona del Verbo il fondamento dell' identità del corpo. Se dunque il Verbo, mediante una soprannaturale operazione, rapisce a sè e s' appropria la sostanza del pane, questa sostanza col corpo permanente di Cristo divien pure corpo vero e proprio del Verbo, non altrimenti che il corpo permanente di lui, perocchè è dallo stesso Verbo assunta, informata e d' una sola vita accesa e una cosa fatta con esso corpo che prima della consecrazione il Verbo si aveva. Questa difficoltà si mostra essere solo apparente e non solida da quello che fu detto di sopra. Le particelle del pane e del vino convertite nelle carni e nel sangue di Cristo non si distinguono già dal rimanente del corpo; ma formano una cosa sola e impartibile col corpo ove s' inseriscono. Nè Cristo già disse:« queste sono quelle particelle di mio corpo che ebbi in nascendo dalla Vergine; ma disse «« questo è il mio corpo« » volendo significare l' identità del corpo, non l' identità delle particelle componenti il corpo. Così non disse già queste sone le particelle che« componevano il mio sangue quando io nacqui«; ma disse bensì « questo è il mio sangue«, » volendo significare l' identità del suo sangue; il quale fu sempre identico anco emettendo o ritenendo quelle particelle divise, perchè fu continuamente informato da una stessa vita o certo da una stessa divina persona (1). Nè si può dire che non si trovi tutto il corpo di Cristo nel Sacramento Eucaristico in virtù delle parole consecratorie, ma per sola concomitanza. Imperciocchè come poteva il corpo di Cristo alimentarsi per così dire delle particelle del pane e del vino se ivi tutto non fosse presente, e non assumesse in sè quelle particelle? Si trova dunque presente nell' Eucaristico pane tutto il corpo di Cristo ex vi Sacramenti, e non per sola concomitanza; perchè non potrebbe succedere l' ineffabile e divina nutrizione, che segue in virtù delle parole, e che le parole, per così dire, comandano, se non fosse ivi tutto il corpo di Cristo, e in sè non assumesse e transustanziasse il pane ed il vino. Laonde acciocchè si avveri, che in virtù e in forza delle parole sacramentali tutto il corpo di Cristo stia nell' Eucaristia, non è mica necessario che il pane ed il vino si cangi in tutto il corpo e il sangue di Cristo, ma solo nel corpo e nel sangue di Cristo, incorporandosi e unificandosi con esso il corpo e con esso il sangue di Cristo; e ciò mediante quella operazione ineffabile, che è fatta da tutto il corpo glorioso del divino trionfatore. Il che conviene a capello colle parole del sacrosanto Concilio di Trento. Perocchè esso assistito dallo Spirito Santo definì bensì che « sotto entrambe le specie e sotto ogni parte di ciascuna specie si contiene tutto ed intero Cristo« (1); » ma parlando della transustanziazione non definì mica che il pane ed il vino, ed ogni particella del pane e del vino si convertisse in TUTTO il corpo e il sangue di Cristo, ma solo che « per la consecrazione del pane e del vino avviene la conversione di TUTTA la sostanza del pane nella sostanza del corpo di Cristo Signor nostro, e di TUTTA la sostanza del vino nella sostanza del sangue di lui« (2): » di maniera che è bensì di fede, che tutta la sostanza del pane e del vino si converta; ma non è già di fede che si converta in tutto il corpo e in tutto il sangue di Cristo; sebbene a tutto il corpo e a tutto il sangue di Cristo si contemperi e s' immedesimi. Il perchè secondo la fede cristiana cattolica è certo: 1. Che tutto il corpo e tutto il sangue di Cristo si trova nella Santissima Eucaristia. 2. Che egli vi si trova in virtù delle sacramentali parole. 3. Che tutta la sostanza del pane e del vino si converte. 4. Ma non che si converte in tutte le parti del corpo e del sangue di Cristo; sebbene si fonda e si unifichi con tutto il corpo e con tutto il sangue. Le quali quattro cose s' accordano a pienissimo colla sentenza da noi dichiarata. La qual sentenza riceve maggior lume e fermezza da quella dottrina teologica la quale insegna che« sotto le specie eucaristiche sta bensì in forza delle parole tutto Cristo quanto alla sostanza, ma non quanto alla dimensione«. Udiamo come una sì fatta dottrina sia spiegata da S. Tommaso: [...OMISSIS...] . E s' attenda bene alla similitudine che adopera il santo Dottore a render chiaro questo concetto: [...OMISSIS...] . Or dunque secondo il santo Dottore, come sotto ogni parte dell' aria non istà tutta la quantità dell' aria, ma quella parte che ci sta è però aria, n' ha la natura e niente manca a questa natura, e però è tutta la natura; e come sotto ogni parte di pane, non istà mica tutto il pane quant' egli ce n' ha al mondo, ma bensì quello che ci sta ha la natura di pane e tutta la natura di pane; così medesimamente sotto la specie del pane e del vino, cioè sotto quella piccola dimensione che da esse specie viene determinata nello spazio, non istà mica tutta la grandezza del corpo di Cristo; ma quello che ci sta è vero corpo di Cristo, e vi ha tutta la natura, ed è congiunto col rimanente del corpo; il quale vi sta per concomitanza, cioè perchè è dalle sue parti inseparabile. Indi è che S. Tommaso spiega come tutto il corpo di Cristo vi abbia intero tanto in tutta l' ostia, come nelle sue parti, sieno queste unite o divise mediante lo spezzamento dell' ostia. Perocchè in ciascuna parte vi è egualmente la natura del corpo di Cristo, non però la stessa quantità di esso corpo; nè tuttavia ci manca cosa alcuna; perocchè quella quantità la quale non ci sarebbe in virtù del Sacramento, non manca mai in virtù della concomitanza. E qui sottilmente osserva il grand' uomo errar quelli i quali dicono esser Cristo tutto in ciascuna parte dell' ostia, quand' è divisa, e non quand' è unita; usando la similitudine dello specchio, che fatto in pezzi, rende ogni pezzo il volto intero dell' uomo che lo riguarda. [...OMISSIS...] : ma qui non è che una consecrazione sola, per la « quale avviene il corpo di Cristo in questo Sacramento« (1). » Non è dunque che ogni particella contenga il corpo di Cristo quanto è lungo e largo; ma contiene la sostanza del corpo di Cristo, le dimensioni del quale, sebbene per sè eccedenti lo spazietto segnato da quelle particelle, vengono ad esserci insensibilmente per una reale concomitanza (2). Quindi è che tanto nelle liturgie, quanto ne' Padri, si paragona la transustanziazione del pane e del vino, alla trasmutazione dell' acqua in vino operata da Cristo nelle nozze di Cana (1). Or quell' acqua fu bensì della natura del vino, ma non fu mutata in un vino determinato e preesistente, e molto meno in tutto il vino che al mondo vi avesse. Come adunque la natura dell' acqua cessò e sopravvenne quella del vino, ma non tutto il vino quanto era quello ch' era nel mondo, ma un vino nuovo che non ci era; così il pane ed il vino si convertì nella sostanza del corpo di Cristo, senza che ci sia bisogno dire, che si convertisse nelle particelle preesistenti che componevano il corpo di Cristo; giacchè si parla di corpo identico e non di particelle identiche nelle parole della consecrazione « questo è il mio corpo«. » Or tali dottrine se non confermano, certo aiutano mirabilmente ad intendere, e rendere assai probabile, almeno, la sentenza nostra, che la transustanziazione avvenga per una cotal nutrizione ineffabile e soprannaturale. Questa difficoltà ci pare aver noi già dissipato quando notammo l' errore di Durando (2). Questo errore consiste nell' aver voluto che nella consecrazione rimanesse il soggetto, sicchè vi avesse un soggetto nella santissima Eucaristia che fosse pane e vino. Questo errore è lontanissimo del nostro sistema, e dal concetto di una vera soprannaturale nutrizione. E veramente nella nutrizione tutta la sostanza del pane e del vino cessa interamente dall' esser sostanza del pane e del vino e diventa sostanza della carne e del sangue di Cristo: il soggetto stesso adunque si cangia e si trasmuta. La qual dottrina riceve maggior evidenza da una dottrina de' moderni fisiologi, i quali mantengono la vita sia una qualità inerente all' intima materia; sicchè la materia stessa elementare ricevendo la vita si cangia e diventa quello che non era prima, essendo divenuto il soggetto stesso in una materia viva diverso da quello di una materia inanimata. Ma nè pur tanto richiede, come noi richiediamo, acciocchè si possa dire il soggetto mutato, il venerabile Bellarmino; imperciocchè egli scrive: [...OMISSIS...] . Dicevamo che nella conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo vivo o certo informato dalla divinità, noi veggiamo un cangiamento totale del soggetto, maggiore che nella trasmutazione del legno nel fuoco e dell' acqua nell' aere: perocchè in queste permutazioni ciò che s' è cangiato è propriamente la forma sostanziale, quando l' elementare materia rimase la stessa; e tuttavia pare, che il Bellarmino s' accontenti della distruzione del soggetto in quel senso che in tali mutazioni naturali si avvera. Egli pare a noi, che assai più perfetta sia la conversione del soggetto che accade nella consecrazione, intesa a quel modo come noi facevamo. Imperocchè al modo nostro le stesse particelle elementari della materia hanno subito cangiamento, la stessa essenza loro è trasmutata, essendosi resa viva: il quale elevamento all' essere vitale è forse il massimo e il più intimo cangiamento possibile, e tale a cui solo pienissimamente conviene il vocabolo consecrato dall' uso della Chiesa di« transustanziazione«. E così si avvera quello che dice S. Tommaso, cioè che sebbene si cangi la forma e la materia, tuttavia [...OMISSIS...] Ma contro l' esposta dottrina sta una sentenza la quale non si contenta, che nell' Eucaristia vi abbia l' identità del corpo e del sangue di Cristo, ma vuole di più che vi sia l' identità delle particelle materialmente prese che compongono il corpo di Cristo; la quale identità è cosa diversa da quella prima, come vedemmo. Questa sentenza volendosi rendere con chiarezza consta di due proposizioni. 1. Il pane e il vino si converte in quelle particelle del corpo e del sangue di Cristo, che prima della consecrazione stanno nel corpo glorioso di Cristo. 2. Queste particelle sono identiche a quelle, che ebbe il corpo di Cristo in nascendo, in tutti i momenti della sua vita, nella morte, nel sepolcro. Si noti qui che io non attribuisco ora una tale sentenza a nessun teologo particolare; perocchè ne' teologi non viene espressa colle parole colle quali io la riferisco; e perciò mi basta di confutarla come una sentenza diversa dalla mia, senza imputarla a nessuno. Dico però che questa sentenza non si trova ne' Padri antichi; ma che ella comincia a comparire, per quanto a me sembra, negli scolastici; e vien riprodotta ne' libri de' moderni. Se non erro però, ella nasce dal non avere abbastanza distinto l' identità delle particelle componenti il corpo: il che mi si mostra dal vedere come essi insistono sulla identità del corpo, e non nominano le particelle di cui questo è composto, se non in ordine alla identità di lui; di che avviene che non mi assicuro nè manco d' imputar loro risolutamente l' accennata sentenza. La quale, avendo noi ridotte a due proposizioni, sì rispetto all' una come all' altra discuteremo; e prima mostreremo della seconda, che non si può mantenere: poi esporremo le gravi e secondo noi insolubili difficoltà, che stanno contro alla prima. Questo risulta manifesto da ciò che è detto. E` cosa certa che il corpo umano nella vita presente perde continuamente delle particelle di cui è composto, le quali separandosi da lui perdon la vita, di cui a lui unite erano informate; come pure è certo ch' egli riceve continuamente delle altre particelle che prima di unirsi con lui erano morte, e cui la vita sua egli comunica. Or questa è legge della natura umana nella vita presente, è conseguenza delle funzioni animali nel presente stato di cose; nè la natura umana in Gesù Cristo si sottrasse a tali leggi, conseguenza delle quali fu pure l' esser nato Cristo bambino, e poi cresciuto fino a perfetta misura. Dunque anche in Cristo vivente quaggiù ebbe luogo la stessa continua permutazione delle particelle di suo corpo: e però le particelle che componevano il suo corpo divino nella presente vita non erano identiche in tutti i momenti del viver suo. Or come questa emanazione di particelle dal corpo di Cristo dovette continuarsi in lui fino all' ultimo sospiro, massime che nella passione oltre il sangue dovette effondere molto sudore e succedere in lui altre tenui separazioni; così il corpo morto di Cristo non dovette constare di tutte quelle identiche particelle di cui constava il corpo vivo. Ma nel corpo morto di Cristo mancava il sangue, mancava il sudore sparso e l' altre materie da lui separatisi prima di morire o morendo; le piaghe erano aperte. A tutto ciò fu riparato nella Risurrezione: perocchè il corpo risorto non potea mancare del sangue conveniente e di tutti gli altri fluidi che ad un corpo perfetto si convengono: le stesse piaghe furono cicatrizzate, il che si suol fare con quel rimettimento di carne col quale si rammargina la ferita e si copre d' una carne e pelle nuova ivi quasi direi rifiorita. Or tutto questo non è verisimile nè concepibile che si facesse senza aggiungere niuna nuova particella al corpo morto di Cristo. Dunque il corpo di Cristo risorto dovea avere più particelle che non il divino cadavere; come questo dovea averne meno, che il corpo vivo e nutrito nell' Eucaristica cena. Egli è adunque assurdo il credere che le particelle che componevano il corpo di Cristo nato, vivuto, morto, risorto fossero tutte identicamente le stesse. E tuttavia è certa l' identità del corpo di Cristo nel presepio, sulla croce, alla destra del Padre; come è certa l' identità del mio corpo in fasce, col presente e con quello che avrò nel sepolcro. Tutto ciò è consentaneo ai principi della naturale filosofia; ed è anco un articolo di fede che Cristo abbia avuto, ed abbia un solo ed identico corpo. Questo consegue da' precedenti. Se le particelle componenti il corpo di Cristo si mutarono, Se il corpo non si mutò mai dalla sua identità, Dunque l' identità di questo non è legata all' identità delle molecole o particelle che lo compongono. Questa proposizione ha dimostrazione fermissima nelle parole di Cristo, che come ho toccato di sopra, dicono: « questo è il mio corpo« » e non disse:« queste sono le particelle identiche di cui il mio corpo è composto«. Ed ella è consentanea altresì alle precedenti proposizioni. Perocchè, se si vuole, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia sia composto delle identiche particelle onde constava il corpo di Cristo; conviene assegnare un momento più tosto che un altro della vita di Cristo, in cui si consideri il suo corpo; perocchè da un momento all' altro le particelle si trovan mutate: e l' assegnamento di questo istante non potrebbe essere che arbitrario. Si dirà, il corpo di Cristo nell' Eucaristia consta di quelle identiche particelle (materialmente prese) di cui consta ora il corpo suo glorioso in cielo nè più nè meno: e se si fosse fatta la consecrazione in altro tempo (come quella dell' ultima cena) consterebbe di quelle particelle, che aveva allora il corpo di Cristo. Rispondo: che il corpo di Cristo che è presente nell' Eucaristia sia in istato glorioso, come quello che è in cielo, questo è fuori d' ogni dubbio: ma che le particelle che compongono il corpo di Cristo nell' Eucaristia sieno nè più nè meno quelle che ebbe nell' atto della sua Risurrezione, questo abbisogna di prova; e come voi mi provate ciò? Nessun' altra prova dar mi potete, se non che l' Eucaristia dee essere l' identico corpo di Cristo; e che voi vedete in questo solo modo verificarsi la perfetta identità. Perocchè il dogma sta tutto nell' identità di questo corpo, espressa in quelle parole: « questo è il mio corpo«. » Ottimamente, ma avvertite, ch' egli è di fede ugualmente, che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo in cielo, e che il corpo di Cristo nell' Eucaristia è identico col corpo di Cristo bambino, col corpo di Cristo adulto, e massimamente col corpo di Cristo paziente in croce, col corpo di Cristo riposto nel sepolcro. Fermiamoci a considerare l' identità necessaria, che dee avere il corpo e il sangue di Cristo nell' Eucaristia col corpo di Cristo morto, col sangue di Cristo sparso per noi. Questa identità è principalmente notata in quelle parole: [...OMISSIS...] . E veramente il sacrificio Eucaristico è l' identico sacrificio della croce che incessantemente si rinnovella; e però il corpo, che si sacrifica, il sangue che misticamente si spande dee essere identico al corpo crocefisso, al sangue effuso nel sacrificio cruento. Per questo i Padri (1) e le liturgie (2) così di frequente parlando dell' Eucaristia toccano questo punto dell' identità del corpo di Cristo sotto le specie del pane e del vino, e del corpo di Cristo in croce. Ora certa cosa è che le particelle che compongono il corpo di Cristo glorioso non sono le identiche numericamente prese con quelle onde si componeva il corpo di Cristo o bambino, o adulto, o vivo ancora sulla croce; perocchè quel corpo divino e perdette e ricevette nuove particelle. Se adunque questa sottrazione e questa addizione di particelle materiali non pregiudica punto, che non vi abbia una verissima identità fra il corpo di Cristo nell' Eucarestia e il corpo di Cristo in fasce, in croce, nel sepolcro; egli è manifesto che l' accessione di alcune particelle al corpo glorioso non toglie punto nè poco la sua identità; nè impedisce che il corpo di Cristo nell' Eucarestia sia identico al corpo di Cristo risorto e sedente alla destra del Padre; perocchè queste particelle, come si diceva, niente mutano di essenziale in esso corpo del Redentore. Il che tanto più facilmente si dee concedere, quanto che si ritiene per fermissimo, che il corpo di Cristo glorioso non perde cosa alcuna di ciò che ha per sè; anzi noi riputeremmo empietà l' affermare, che perdesse qualche cosa di quello che ricevette in risorgendo, eccetto ciò che nell' Eucarestia gli viene aggiunto, il che egli anco depone senza alcuna sua pena o lesione, o diminuzione di sua integrità perfettissima. Egli è dunque certo e dimostrato che non si può sostenere la seconda delle due proposizioni, nella quale facemmo consistere quell' opinione contraria alla nostra che noi combattiamo: [...OMISSIS...] . Ora confesso che questa sentenza conta per sè delle autorità ragguardevolissime, le quali molto mi atterrirono e stolsero sul principio dal sostenere la contraria. Considerando però più maturamente mi rassicurai sulle seguenti tre ragioni: 1. Nessuna autorità io potei rinvenire chiaramente favorevole ad una tale sentenza anteriore agli scolastici. 2. Molte autorità contrarie ad essa a me pare di avere riscontrate ne' Padri più antichi e nella stessa Sacra Scrittura. 3. Quella sentenza involge delle difficoltà insuperabili ad ogni ragione teologica, sempre per quanto a me ne parve. Or avendo io già indicati i luoghi della Scrittura e de' Padri che stanno per la sentenza da me abbracciata (1) torrò qui a metter fuori le gravissime difficoltà, che a me si presentano come invincibili; e mi fanno abbandonare quella sentenza, per seguitar l' altra che ho esposta. E la prima difficoltà mi nasce da questo, che nel sistema degli avversarii il pane ed il vino rimarrebbero annichilati, cosa contro la dottrina comune e contro quella ammessa dagli avversarii medesimi. Or a veder ciò conviene rimuovere ogni vana sottigliezza e definire le parole secondo il senso comune degli uomini. Cominciamo adunque dal porre una vera e semplice definizione dell' annichilamento. Definizione del concetto di annichilamento . - « La cessazione intera dell' essere reale di una cosa si chiama annichilamento«. Osservazioni sull' indicata definizione. - Il nulla è opposto all' essere: la cessazione dell' essere è il nulla. Nelle cose si distingue l' essere e il modo dell' essere. La cessazion di un modo di essere non è ancora annichilamento: deve cessare l' essere stesso, e per conseguente tutti i suoi modi, tutta la possibilità de' suoi modi, perchè una cosa sussistente dicasi annichilita. Per ciò quando si dice che viene annichilito un modo di essere, un accidente, per esempio una forma o un colore, non si parla con tutta proprietà, ma si attribuisce al modo di essere una parola che di natura sua va applicata all' essere stesso. In secondo luogo la parola annichilamento esprime l' effetto di un agente senza relazione alla volontà o al modo di operare dell' agente. Poniamo che Iddio volesse annichilare un essere da lui creato; Iddio solo ha veramente questo potere di annichilare, come egli solo ha quel di creare, sebbene egli usi di questo secondo, e non mai di quel primo. In questa supposizione, l' azione di Dio non sarebbe già limitata a quel solo fatto dell' annichilamento; perocchè in Dio non può cadere che un atto solo e purissimo. Con quello stesso atto adunque egli creerebbe il mondo, collo stesso identico atto lo conserverebbe e governerebbe, e coll' atto pure identicamente il medesimo annichilerebbe quell' ente, che vorrebbe annichilare. Ora sebbene Iddio nell' operare abbia un fine solo e semplicissimo e con una sola azione operi ciò che fa; tuttavia l' effetto che questa azione ottiene in quell' ente che verrebbe annichilato, si chiamerebbe in senso vero e proprio annichilamento; perocchè questa parola, come dicevo, non involge alcuna relazione col modo dell' azione dell' agente, ma si restringe a dimostrare l' effetto quale si ottiene nell' ente che cessa di essere. Che se fosse altramente non potrebbe mai essere possibile l' annichilamento; perocchè è certo, 1. che niuno può annichilare le cose eccetto Dio, 2. è ugualmente certo che se Iddio annichilasse un ente la sua azione non si limiterebbe nè finirebbe in questo solo effetto, poichè l' opera di Dio è semplice, e con un atto solo e purissimo fa tutte le cose. Dunque perchè si trovi il concetto dell' annichilamento non è necessario imaginare un' azione limitata, la quale termini e si restringa nel suo operare in quel solo effetto della distruzione dell' essere, e non proceda punto più innanzi. Indi non posso io a meno di dipartirmi dal sentimento del gran Bellarmino circa il concetto dell' annichilamento. Pretende questo grand' uomo che l' annichilamento esiga che l' azione che fa cessare l' essere di una cosa debba cessare in questo effetto; e che se l' azione stessa, dopo avere annichilato un ente, ne crea un altro, non si abbia più il concetto dell' annichilazione. Ma parlando sempre col più profondo rispetto d' un uomo santo e sapiente io non posso vedere in ciò che una pura sottigliezza d' ingegno, a cui ricorse il Bellarmino nella persuasione che di lei avesse bisogno la sentenza cattolica intorno all' Eucarestia. Ma questa non ha alcun bisogno di ciò; ed anzi ella riceverebbe pregiudizio non leggero dall' ammettere, che il « cessamento dell' essere di una cosa non sia annichilamento per questo solo che l' azione che fa cessare l' essere non termini in questa cessazione, ma produca qualche altro effetto«. » Ogni qualvolta adunque cessa l' essere reale di una cosa interamente ella è annichilata, senza bisogno poi di cercare il modo onde fu annichilata, e se avvenne con un' azione terminante in tale distruzione o procedente a qualche altro effetto. Or di qui viene la conseguenza evidente che non può stare la sentenza de' nostri avversarii. Perocchè dicendo essi che il pane ed il vino si cangiano in quelle identiche particelle, che ha il corpo di Cristo prima della consecrazione; ne seguita ineluttabilmente che il pane ed il vino rimarrebbero annichilati . Ma questo pugna al tutto coi principii della teologia cristiana. Perocchè secondo questi principii è ammesso per certo da tutti e da' nostri avversarii stessi: 1. Che Iddio non distrugge alcuna cosa di tutto ciò che ha creato secondo quelle parole della Scrittura: [...OMISSIS...] . 2. Di che parimente si tiene per certissimo non essere annichilato nè pure il pane ed il vino mediante la consecrazione, ma trasmutato nel corpo e nel sangue di Cristo. Conviene adunque muovere il ragionamento intorno all' Eucarestia da questo principio teologico fuori di controversia:« che il pane ed il vino nella consecrazione non viene annichilato«. Ammesso questo principio, si consideri se v' ha una via da sostenere che il pane ed il vino si converta nelle identiche particelle che compongono il corpo di Cristo innanzi la consecrazione, senza che quel pane e quel vino rimanga per questo annichilato. Il Bellarmino vide che queste due cose non si potevano conciliare insieme. Egli dunque si appose a mutare il concetto dell' annichilazione. [...OMISSIS...] Chi non sente avervi qui una sottigliezza, e nulla più? Sia pure che l' azione non termini al niente; ma il pane ed il vino non rimane ugualmente annichilato, sebbene dopo la loro annichilazione continui l' agente nell' operare? che fa mai al pane e al vino quell' azione che continua, dopo che essi non sono più? L' effetto che avviene nel pane e nel vino è il medesimo o sia che l' azione continui, o che ivi termini: questo effetto è la cessazione intera dell' essere del pane e del vino. Dunque è una vera annichilazione nella opinione difesa dal Bellarmino (2). Questi illustra con un esempio naturale il suo concetto dell' annichilazione dicendo: [...OMISSIS...] . Ma qui sono a farsi più osservazioni; eccone alcune: 1. Le parole« annichilazione, annichilare« ecc., non possono aver luogo con piena proprietà parlandosi di una distruzione di forma, perocchè esse valgono, come abbiam detto, a significare la cessazione dell' essere, anzichè del modo dell' essere. 2. Quando si voglia applicare la parola annichilare ad esprimere la distruzione della forma, vorrei io ben sapere perchè non si potrà dire, che la forma dell' acqua, essendosi ella cangiata in vapore, non sia veramente annichilata? che cosa esprime questa parola, secondo la stessa etimologia, se non ridotta al niente? Se dunque la forma dell' acqua è ridotta al niente, non esiste più del tutto: onde mai non si potrà dire ch' ella siasi annichilata? non è ella una vera sottigliezza scolastica il dire, che sebbene quella forma sia ridotta al niente, tuttavia non è annichilata, perchè l' azione che la ridusse al niente continua, terminando in un' altra forma? che distinzione arbitraria e sottile non è questa, colla quale si vorrebbe stabilire che altro è ridursi al niente una cosa, altro è annichilarsi? 3. Non si dà e non si può dare mai il caso, che venga distrutta la forma di una materia, senza che questa materia non prenda un' altra forma, appunto perchè la materia senza forma non istà; e qui si suppone, che la materia non sia ridotta al niente. Il nostro rispettabile autore introdusse dunque un esempio nel quale, secondo le sue dottrine, l' annichilamento quanto alla forma è impossibile; perocchè è impossibile che si annichili ogni forma, rimanendo la materia. L' esempio adunque non era idoneo a far conoscere la distinzione fra l' annichilare e il ridurre al niente; perocchè non può il Bellarmino indicare quando sia una forma annichilata, non cadendo in esse (secondo lui) l' annichilamento. 4. Nell' esempio recato non sarebbe vero che il cangiamento dell' acqua in aria si farebbe per una azione sola, da un solo agente e rimanendo le stesse disposizioni; anzi è da dire che la trasformazione dell' acqua in aere è una serie di azioni che le une alle altre si succedono, sono più gli agenti, più i modi loro di operare e le disposizioni nelle quali operano. Non può adunque convenire l' esempio addotto ad aggiungere o chiarezza o forza all' opinione che confutiamo. 5. Finalmente, nell' esempio indicato la distruzione di una forma, è il medesimo che la formazione di un' altra forma; conciossiachè senza forma non può stare la materia. Allo stesso modo adunque che si dice l' una distruggersi, l' altra può dirsi prodursi nell' esser suo. All' incontro nell' Eucarestia non potrebbe dirsi nella sentenza degli avversarii, che il corpo di Cristo vien prodotto nello stesso modo e nello stesso senso in cui si dice che il pane ed il vino viene distrutto. L' esempio adunque non va di pari. Ma cerchiamo di mostrare ancora l' inutilità della distinzione, che si vorrebbe introdurre fra l' annichilare e il ridurre al niente . A qual fine si pone una tal distinzione? Per potere evitare lo scoglio, che il pane ed il vino nella consecrazione si annichilino. Ma coll' evitare questa parola si evita però l' inconveniente che con quella parola si esprime? No, perocchè quell' inconveniente sta anche senza quella parola, e con altre parole può essere significato. E veramente i Teologi a provare che niente viene annichilato di tutto ciò che Iddio una volta ha cavato dal nulla usano degli argomenti or cavati dall' autorità della Scrittura, ora dalla ragione teologica; e gli uni e gli altri mostrano qual sia l' inconveniente che si vuol evitare, collo stabilire la durazione sempiterna delle cose create, senza alcun bisogno di adoperare questa parola di annichilazione. A ragion d' esempio, una delle testimonianze scritturali, che provano la durazione degli esseri è questo luogo dell' Ecclesiaste « ho imparato che tutte le opere che ha fatto Iddio perseverano in perpetuo« (1). » Qui non si usa la parola annichilamento; ma il concetto è tuttavia chiarissimo. Sia adunque, se così si vuole, che l' essere del pane e del vino non si annichili, ma si confessa però che dopo la consecrazione quell' essere è ridotto al niente: dunque quest' opera di Dio non persevera in eterno, contro ciò che pone quel luogo chiarissimo delle Scritture. Nel nostro sistema all' incontro sebbene la sostanza sia trasmutata e non sia più sostanza di pane e di vino ma sostanza del corpo di Cristo; tuttavia niun essere creato è perito, ma solo immensamente nobilitato. Ci si dica di grazia, supponiamo si facesse l' inventario di tutti gli esseri da Dio creati. Or nel sistema degli avversarii nostri dopo la consecrazione converrebbe scancellare dal novero di detti esseri il pane ed il vino; perocchè non basta dire che il corpo di Cristo è in una maniera nuova: egli non avrebbe ricevuto alcuna accessione, sarebbe adunque mancante nel novero delle cose un essere sostanziale, e non si sarebbe aggiunto tutto al più che un cotal modo di essere, se pur questo stesso modo nuovo di essere si potesse (in detto sistema) sostenere. Veniamo alla ragion teologica. Ecco come S. Tommaso prova, che Dio non riduce al niente cosa alcuna delle già formate. [...OMISSIS...] Ora il pane ed il vino sarebbero esseri creati, che cesserebbero affatto, come detto è, nella consecrazione; e però non sarebbe in essa dimostramento dell' infinita bontà di Dio. All' opposto quanto la bontà non si dimostra nel sistema nostro, nel quale queste creature divine, voglio dire il pane ed il vino, vengono sublimati sino a mescersi e transustanziarsi veramente nelle carni e nel sangue glorioso di Gesù Cristo? Una seconda difficoltà per me nasce gravissima dal concetto di TRANSUSTANZIAZIONE. Conviene aver presente esser cosa pienamente decisa dal sacro santo Concilio di Trento, che la parola transustanziazione conviene all' Eucarestia in un senso proprio, conveniente, attissimo a significare « la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo « (2). » Or dunque non è lecito d' interpretare questa parola di transustanziazione in un senso lato e non proprio; ma si dee intendere per essa rigorosamente una conversione della sostanza del pane e del vino, nella sostanza del corpo e del sangue. Ora nella nostra sentenza il concetto di transustanziazione si ritrova avverato a rigore. Ma questo concetto io nol ritrovo nella sentenza degli avversari. E veramente essi fanno consistere la transustanziazione in un' operazione, in virtù della quale vien ridotta al niente la sostanza del pane e del vino, e sotto le specie del pane e del vino stesso si colloca il corpo di Cristo. Ma in tutto questo io non veggo che due operazioni successive, cioè 1. l' annichilazione del pane e del vino, del quale non rimangono che gli accidenti, 2. l' adducimento del corpo e del sangue di Cristo nel posto della sostanza del pane e del vino annichilato. Ora gli avversari sostengono all' opposto: 1. Che questa non è che una sola operazione, la qual termina coll' adducimento del corpo e del sangue di Cristo sotto le specie del pane e del vino. 2. Che quest' unica operazione si chiama propriamente e idoneamente transustanziazione (3). Ma io non posso accordare loro, come dicevo, nè l' una nè l' altra di queste due proposizioni, parendomi, che le operazioni o per dir meglio gli effetti sieno due e distintissimi, e che ad essi manchi il vero concetto, che noi dobbiamo gelosamente conservare di TRANSUSTANZIAZIONE, nel quale solo sta la cattolica verità. Vediamo adunque prima se nel sistema degli avversari nella consecrazione interverrebbe una azione sola o due: il Bellarmino ne sente tutta la difficoltà, ed ecco come a sè la propone, e come le risponde: [...OMISSIS...] . Questa obbiezione è fortissima; perocchè avea concesso il Bellarmino stesso che « la conversione in quanto distrugge il pane non è tanto un' azione quanto negazione di azione. Perocchè Dio distrugge il pane cessando dal conservarlo« (2). » Ora negazione di azione ed azione sono opposti come il sì e il no: come due contrarii si potranno [chiamare] una sola e semplice azione? Non trova altro rifugio il Bellarmino, che quello di ricorrere alla unità della volontà divina. [...OMISSIS...] Ciascun uomo spassionato e imparziale giudichi se questa risposta possa soddisfare. Non è egli evidente, che se si vuol ricorrere all' unità della volizione divina non si troverebbe giammai moltiplicità di azioni, perocchè in Dio tutte le azioni ch' egli fa è un' azione sola, ed ha un solo semplicissimo fine di suo operare? ma basterà questo a provare che la transustanziazione sia un' azione sola? Supponiamo che il pane sostenesse mille trasmutazioni diverse, per un miracolo della divina onnipotenza, non sarebbero sempre in Dio operate con una sola azione? Il Bellarmino qui prova troppo; perchè il suo argomento non solo proverebbe, che si dà un' azione sola nella consecrazione, ma in tutto l' universo, e che non si può dare di più che un' azione sola. Non è adunque dal fine di Dio, e dal modo dell' operar suo, che noi dobbiamo rilevare se l' azione sia una o più. Dobbiamo considerarla in sè stessa quest' azione, dobbiamo considerarla in ciò che produce; e se l' effetto è un solo diremo una l' azione, ma diremo che molte azioni si ravvisano in molti effetti distinti interamente fra loro, e l' un de' quali non è causa efficiente dell' altro. Conciossiachè, quando si parla dell' unità di azione che si trova nella transustanziazione non si fa questo discorso per sapere come l' azione avvenga in Dio, ma come si faccia nel soggetto stesso in cui viene l' azione. Il Bellarmino costituisce veramente due soggetti nella transustanziazione interamente diversi anco nell' essere; perocchè dice: « il soggetto nel quale si riceve l' azione divina di questa conversione parte è il pane, parte il corpo di Cristo« (1). » Ora qui si dice« il soggetto« e non dice« i soggetti« per far credere che non vi abbia che un soggetto solo; e l' impegno di far credere ciò mostra che il Bellarmino sentiva la necessità che un solo fosse radicalmente il soggetto della conversione almeno quanto all' essere comune, come sentiva la necessità che una sola azione v' intervenisse. Mi dica ciascuno con semplice e retta mente, se nel pane e nel corpo di Cristo nel sistema del Bellarmino possa notarsi un solo soggetto nè pure in quanto all' essere, e non anzi sieno due distintissimi e incommunicabili; giacchè uno di essi, cioè il pane si annichila, e l' altro, cioè il corpo di Cristo, viene addotto nel luogo del pane annichilato, solamente il pane non è più. Ora se due sono i soggetti assolutamente distinti, e interamente distinti anche quanto all' essere che ricevono, due effetti interamente diversi e successivi, cioè uno negativo la distruzione, l' altro positivo cioè l' adducimento; dica ciascuno se l' azione in quanto si fa e si compie ne' soggetti può essere una sola e non anzi due, e separatissime. All' opposto ammettendo con S. Tommaso che vi abbia di comune nel pane e nel corpo di Cristo l' essere (2), sebbene si cangi il soggetto pane, e diventi soggetto la carne di Cristo; tuttavia la identità della radice di questi due soggetti cangiati, cioè l' essere, fa sì che l' azione possa essere unica e semplicissima. Ma udiamo come il Bellarmino rende ragione del suo soggetto. [...OMISSIS...] Ora che forza hanno queste parole « quell' azione come conversione si riceve nel pane?« » Io non trovo in esse un significato. Intendo bensì che quell' azione come annichilamento si riceva nel pane, ma non come conversione. E veramente il pane si annichila, come mostrammo nel sistema de' nostri avversari; e se non vogliamo che pronunci questa dura parola« si annichila«, dirò quella che usano essi stessi « si distrugge, si riduce al niente, perisce« (2). Or bene quando il pane non c' è più, ha finito di convertirsi; esso cessa di essere, e dopo ciò egli non riceve nè fa altra azione; egli dunque non riceve la conversione, ma solo, come dicevamo, l' annichilazione. E` vero che nella mente di Dio si suppone che stia il fine di annichilar quel pane per condurvi in suo luogo il corpo di Cristo: la intenzione non basta, il dirò ancora, a costituire una azione che sia ricevuta nel pane. Da tutte le cose dette è facile di provare la seconda delle nostre tesi, che nel sistema degli avversari manca il vero e proprio concetto di transustanziazione , a cui voglion supplire interpretando questa parola con vana sottigliezza in un significato diverso da quel che suona. E veramente il Bellarmino pone a prima condizione della conversione d' una cosa in altra, che « qualche cosa cessi di essere, cioè quella cosa che si converte« (3). » Or nel suo sistema si converte l' essere stesso che è nel pane, e però cessa interamente l' essere stesso, il che abbiam detto chiamarsi annichilazione. Or dopo che il pane ha cessato d' essere, allora viene addotto nel luogo del pane il corpo di Cristo. Ma questa seconda operazione non risguarda più il pane (se non fosse nell' intenzione dell' operante) perocchè il pane non esiste più ne può più essere convertito in cosa alcuna. Dunque il pane si annichila bensì, ma non veramente si converte, non diventa egli vero corpo di Cristo, non si transustanzia, ma solo a lui succede il corpo di Cristo quando egli già non è più. E qui appunto il Bellarmino crede che al concetto di una vera conversione e transustanziazione basti che « una cosa succeda nel luogo dell' altra distrutta » purchè però ci sia «« una certa connessione fra il cessare di una e il succedere dell' altra, di maniera che l' una cosa finisca acciocchè l' altra succeda e la successione avvenga per quella forza onde la cosa è cessata« (1). » Ma io domando qual connessione vi può essere fra una cosa quand' è annichilata, ed una che viene in suo luogo? niuna connessione reale vi ha più, e se ci avesse una connessione prima di essere annichilata, nel punto in cui ella s' annichila, s' annichila con lei ogni connessione. Dunque questa connessione sarà nella unità della forza, giacchè una forza stessa che annichila è quella che fa succedere la cosa nel luogo della annichilata. Questo pure è assurdo, perocchè la forza che annichila non sarà mai quella che produce: ci vogliono a queste due azioni forze diverse, o più tosto, come osserva lo stesso Bellarmino, una cessazione dell' azione di Dio che conserva il pane per annichilarlo, e un' opera positiva per addurvi il corpo di Cristo. Dunque l' una cosa non vien fatta per l' identica forza onde vien fatta l' altra, non fit successio vi desitionis : tanto più che quella vis desitionis è una improprietà di parlare, quando non è una forza quella che fa cessare, ma un sottraimento di forza. Non ci può dunque essere connessione alcuna fra l' annichilamento e l' adduzione o produzione, se non l' unità d' intenzione e di fine nell' operante; ma questa connessione si termina tutta nella mente e nell' animo dell' operante, e non passa come abbiam veduto nell' esterno dell' azione, nè può costituire la sua unicità o moltiplicità. Per queste ragioni S. Tommaso riconosce, che ponendo che il pane si riduca veramente al niente, il concetto della transustanziazione non può più rimanere. [...OMISSIS...] Nè può già intendersi, che S. Tommaso insista sulla parola annichilazione presa nel senso del Bellarmino, perocchè il suo argomento vale ogni qual volta il pane avesse interamente cessato in tutto l' essere, e non solo nell' esser di pane (1): conciossiachè quando il pane fosse una volta cessato interamente, anche quanto all' essere, non si potrebbe più convertire, eziandio che nella mente di Dio stesse il pensiero di averlo fatto cessare per sostituire in luogo di lui il corpo di Cristo; nè conversione ci potrebbe essere, ma solo successione, sostituizione o altro simile. Il perchè S. Tommaso s' attiene come a fermissimo punto e articolo di fede a questo, che il pane si debba « propriamente e veramente convertire nel corpo di Cristo« » e non solamente dar luogo a questo col cessare di essere interamente: e mantiene questo dogma sì fermo, che nol rimuove da ciò qualsivoglia difficoltà a spiegarlo; perocchè non è necessario spiegarlo, ma crederlo e conservarlo. Or non si dee interpretare la mente di S. Tommaso con troppa sicurezza, la qual più si dee guardare bensì dov' ella è costretta di più manifestarsi, cioè nell' angustia delle obbiezioni. Il grand' uomo a ragione d' esempio sente assai chiaro, che se dopo la consecrazione la materia che prima era pane non si trovasse in luogo alcuno, non potrebbe fuggirsi dal concederla annichilata e però si fa questa obbiezione: [...OMISSIS...] . Or si oda qual sia la via, che unica trova S. Tommaso per la quale farsi contro a questa obbiezione. Risponde egli: [...OMISSIS...] . E odasi l' esempio onde spiega una tale risposta al sistema nostro acconcissima: [...OMISSIS...] . Il santo Dottore riconosce adunque, che la sostanza del pane non si annichila, perchè si cangia in quella del corpo di Cristo; come non s' annichila l' aere, che nutre il fuoco. Ora l' aere nella conversione non si converte già in particelle di materia, che preesistevano, il che sarebbe impossibile a concepire senza che egli si annichilasse, ma le particelle sue prendono un' altra natura, diventano veramente fuoco e cessano dall' esser aere. Così avviene nel sistema nostro, nel qual solo si salva, pare a noi, una vera TRANSUSTANZIAZIONE del pane e del vino. E però non è una vana sottigliezza quella del Cardinale Gaetano, il quale commentando S. Tommaso (2) concede che dopo la consecrazione non rimanga nessuna parte del pane, e tuttavia insegna rimaner ciò, che fu pane, di guisa che dir si possa veramente: ciò che fu pane, ora è corpo di Cristo (3). Ma anzi egli è tanto necessario potersi dir questo, che se dir non si potesse, in nessuna maniera sarebbe seguìta vera e propria transustanziazione. Però io non posso nè pur qui sentirla col Bellarmino il quale non trova necessario, che rimanga ciò che fu pane, e a provarlo reca delle similitudini naturali dicendo: [...OMISSIS...] . Qui evidentemente prende sbaglio l' uomo grande; perocchè in tali naturali trasformazioni, la materia non perisce, e però può dirsi che rimanga tutto ciò che fu legno ed acqua: e che la materia che rimane sia stata veramente ed acqua e legno. Non conviene adunque far violenza al significato delle parole per sostenere una opinione particolare, tanto più che qui si tratta di cosa che può toccare la fede stessa. Perocchè avendo definito la Chiesa come articolo di fede, che nella consecrazione segue una vera transustanziazione ; non si dee mica credere che la definizione della Chiesa riguardi semplicemente l' autenticazione dell' uso della parola; ma più tosto hassi a dire che la medesima Chiesa ebbe in animo di fissare per dogma ciò che la parola significa e ciò che significa in senso proprio e vero, come apparisce dal Concilio di Trento (1). Il perchè non credo io che si possa alterare il vero e proprio significato della parola transustanziazione , senza che rimanga tocca con ciò qualche cosa che appartiene alla fede. Or il significato delle parole convien desumersi dall' uso. Però chi mai non fa differenza tra il succedere una cosa nel posto di un' altra che perisce, e il transustanziarsi l' una nell' altra? non sono questi due concetti al tutto distinti? e se sono per sè distinti, basterà l' intenzione che ha chi distrugge una cosa di sostituirgliene un' altra per poter dire che la prima cosa fu nell' altra convertita e transmutata? Niuno mai dirà ciò. Nè pure basta a far ciò la distinzione, che fa il Bellarmino fra la conversione che chiama adduttiva , e quella che chiama conservativa . Il termine, così spiega la cosa il Bellarmino, il termine in cui la cosa si trasmuta esiste tanto nella conversione adduttiva , che nella conservativa : e nell' una e nell' altra cessa di essere ciò che si trasmuta; ma nella conservativa la cosa che si trasmuta cangia di luogo, nell' adduttiva non cangia. A cagion d' esempio: [...OMISSIS...] . Ora più cose sono qui da osservarsi. 1. Non si vede perchè la prima specie di conversione si chiami conservativa più tosto che annichilativa ; giacchè non avviene altro di nuovo che l' annichilazione di uno de' due corpi: questo è l' unico fatto nuovo che veramente è intervenuto. 2. Nè la conversione adduttiva nè la conservativa , come le descrive il Bellarmino, sono vere e proprie conversioni, ma solo sono conversioni apparenti, e però tali a cui il nome di conversione non appartiene in proprio, ma solo in senso accomodatizio. E di vero in quelle due pretese conversioni non è avvenuto se non 1. l' annichilazione vera e reale di uno de' due oggetti; 2. la sostituzione dell' altro nel luogo del primo, o sia che si sostituisca facendogli mutare il luogo, o conservando anche il proprio luogo. Ora niente di ciò forma una vera conversione; altrimenti sarebbe conversione e transustanziazione anche quella del giocoliere, il quale sostituisce con un solo tratto di mano, e per così dire con una sola azione, una palla ad un' altra, un soggetto ad un altro (1); egli è una bella e buona sostituzione: nè essa muta punto la sua natura, o che l' oggetto che si sottrae s' annichili, o pure che si conservi; perocchè il conservarsi o l' annichilirsi dell' oggetto in cui luogo si mette un altro è straniero alla natura dell' atto di sostituzione. Da quello che è detto nasce un' altra difficoltà nel sistema degli avversari. E` cosa certa presso i cattolici, ed ammesso dallo stesso Bellarmino, che la transustanziazione non avviene già successivamente, ma in un solo istante (2). Ora nel sistema del Bellarmino questo non può aver luogo. E veramente se si trattasse di una successione di accidenti, si potrebbe in qualche modo intendere che nell' istante medesimo che cessa un accidente, ne venga un altro sostituito: perchè il cessare e il prodursi l' accidente nuovo è il medesimo atto considerato da noi con due relazioni. Così se in un corpo di molle creta io pongo un dito, l' incavo ch' io ci fo è ad un tempo distruzione della precedente figura, e sostituzione della nuova (1): ma questo nasce perchè le figure nel caso nostro non sono che modi di essere, e non esseri: l' essere stesso, il corpo, non si è trasformato, egli ha mutato il suo modo, e questo s' intende farsi in uno istante. Non così quando dovesse cessare non il modo dell' essere, ma l' essere stesso: perocchè la cessazione di un altro essere non è mica cosa identica colla sostituzione di un altro essere, che è indipendente al tutto per sua natura dal primo: quando all' opposto la cessazione di un modo e la sostituzione dell' altro è una ed identica cosa, come si diceva. Però dovendo nel sistema de' nostri avversari prima cessare interamente l' essere, e poi ivi addursi un essere nuovo, è impossibile il non trovarsi per lo meno tre istanti assai distinti fra loro, cioè: 1. quello in cui cessa l' essere; 2. quello in cui è cessato interamente il pane e non ancora addotto il corpo di Cristo; 3. e finalmente quello in cui il corpo di Cristo viene addotto. E veramente il corpo di Cristo non viene addotto se non quando il pane interamente è già cessato; altramente vi sarebbe un istante in cui si troverebbero insieme il pane ed il corpo di Cristo: ciò che saprebbe di eresia. Tutto al più si potrebbero forse questi istanti ridurre a due, cioè all' atto onde il pane viene distrutto e all' altro onde il corpo di Cristo viene addotto, senza notare l' istante di mezzo; ma ad uno istante solo non si può ridurre giammai una tale conversione, che risulta da due operazioni essenzialmente successive. All' incontro nel sistema nostro la transustanziazione s' intende avvenire in un minimo istante; perocchè si tratta di una vera conversione e transustanziazione, di un vero ed unico atto. Secondo noi perisce bensì tutto l' essere del pane, cessa interamente il soggetto pane; ma non per questo cessa ogni essere, non per questo cessa ciò che S. Tommaso chiama l' essere comune (che però solo non mai sussiste), e però nell' atto medesimo che il pane cessa, è già il corpo di Cristo. Questa istantaneità assoluta è, secondo noi, un carattere essenziale e proprio della transustanziazione. Abbiamo provato che nel sistema degli avversarii interviene l' annichilazione (1). Ma quando anco si volesse evitare questa parola, rimarrebbe il senso della medesima gravitante sopra il loro sistema. Il Bellarmino afferma che il pane perisce intieramente, e che perisce perchè Iddio cessa di conservarlo: [...OMISSIS...] . Ora, io osservo, che nel presente fatto Iddio cesserebbe interamente, secondo lo stesso Bellarmino, dal conservare una sua creatura, e cessando dal conservarla la distruggerebbe in tutto l' esser suo. Intralasciando ciò che abbiam notato di sopra della ripugnanza e sconvenienza intrinseca che in ciò si trova, così pure ragiono. Nessun altro caso si può accennare in cui Iddio distrugga una sua creatura cessando dal conservarne l' essere; egli di cui è scritto: [...OMISSIS...] . Ora ciò di cui non v' ha che un caso solo ed unico, è alquanto ripugnante dall' operare divino, che suol esercitare la sua possenza secondo certe stabili leggi, anche allorquando l' adopera in un ordine superiore alla natura. Ma oltrecciò, dove cadrebbe egli questo caso unico, questo fenomeno così isolato, in cui si vedrebbe Iddio divenuto quasi crudele e inimico alle sue creature? giacchè egli sottrarebbe ad esse l' intimo loro essere, che è quanto dire tutto ciò che sono? Nel Sacramento dell' amore, nel Sacramento nel quale ha voluto sfoggiare i portenti della sua liberalità, l' infinita prodigalità, per così dire, de' suoi tesori; nel Sacramento, dove veramente ha preteso di sfoggiare fino all' eccesso l' onnipotenza della sua virtù creatrice. E tutto ciò senza niun bisogno del mondo. Perocchè quando avesse voluto darci sè stesso in cibo, che uopo ci poteva egli avere di distruggere un essere da lui creato, per cavargli gli accidenti quasi fossero una sua camicia, e vestirsene egli? non potea senza più, darsi a noi in cibo sotto forma di pane creando intorno a sè degli accidenti, più tosto che distruggendo una sostanza perchè a suo uso rimanessergli gli accidenti di quella? io per me credo, che quando non avesse Cristo voluto convertire veramente in sè il pane, ma egli fosse piaciuto di darsi a noi in cibo senza questa conversione, era assai più conveniente a' suoi attributi l' essere in tale atto creatore degli accidenti, che non sia distruttore e propriamente vero annichilatore di sostanze. Ma mi si risponde: [...OMISSIS...] . Appunto gli umani ragionamenti debbon cessare rincontro alla parola di Dio: per questo è che dico io, che dovete cessare voi dall' introdurre una cotale annichilazione di un essere nel fatto della consecrazione; perocchè voi ce l' avete introdotta per un ragionamento umano, che non si trova nella parola del Signore. Questo è quello che osserva egregiamente il Dottore angelico, il quale appunto dice: [...OMISSIS...] . Conviene appunto attenersi a queste parole: « Questo è il mio corpo«: » elle esprimono una sola azione positiva di Dio, e non mai nessuna azione negativa, nessuna cessazione di azione: l' uomo adunque non la v' introduca. Questa proposizione viene a dire, che il pane viene assunto dal corpo di Cristo, non viceversa il corpo di Cristo dal pane. Ma nel sistema degli avversari il pane non può venire assunto perchè egli viene interamente distrutto, non solo come pane, ma ben anco come un essere. Però il Bellarmino è costretto di dare una interpretazione alquanto curiosa a quel detto de' Padri dicendo, che egli accorda che nasca la mutazione nel pane, ma una mutazione« deperditiva«: così egli la chiama. Non è però un parlar chiaro cotesto: nessuna propria mutazione nè conversione può nascer nel pane, secondo il sistema del N. A., ma solo la distruzione o annichilazione del pane. Ecco le parole del Bellarmino: [...OMISSIS...] . Ora dall' istante che per mutazione deperditiva s' intende la totale distruzione del pane quanto allo stesso esser comune, questa mutazione non è più tale, che in essa si comprenda il cominciar Cristo ad esser nel Sacramento; però questo nuovo esser di Cristo non s' acchiude nella mutazione del pane intesa, come fa il Bellarmino, ma a quella [che] sussegue senza un vincolo di naturale e necessaria dipendenza. Non è dunque più vero che Cristo vien ad essere nel Sacramento per la mutazione del pane; questa mutazione deperditiva del pane non dà che il luogo dove deve Cristo collocarsi; ma colà vi si colloca Cristo da Dio con un altro atto, non con quello della mutazione del pane. S' oda se nelle parole stesse del Bellarmino tutto ciò non si trova. A quelle che ho ultimamente recate seguono queste altre: [...OMISSIS...] . Ora in questo sistema: 1. Si tiene il giusto e antico linguaggio dicendo sempre che ogni cosa si fa per conversione del pane, « per conversionem panis idem corpus in sacra hostia ponitur », ma questa conversione del pane si spiega per una mutazione deperditiva, « intelligi debet de mutatione deperditiva », che non è altro che la intera cessazione dell' essere del pane stesso. 2. Si pongono due mutazioni separate una nel pane, la distruzione e annichilazione, e l' altra nel corpo di Cristo, l' adduzione; le quali senza un nesso loro intrinseco e fisico non si congiungono se non per una relazione esteriore che sta nella mente di Dio, il qual prima annienta il pane e poi adduce il corpo di Cristo. 3. Finalmente nè nella mutazione del pane nè in quella del corpo di Cristo si trova il concetto della transustanziazione. - Non si trova nella mutazione che avviene nel pane, come di sopra dicemmo, perocchè egli si distrugge, e distrutto interamente che egli sia non può convertirsi in altro: non succede nella mutazione del corpo di Cristo, perocchè il Bellarmino stesso confessa, che una mutazione sì fatta vien ricevuta nel corpo del Signore « non quidem ut conversio sed ut adductio est »: ella è una adduzione, ma non una conversione. Nè in tutte e due queste mutazioni insieme prese si trova; perocchè nel loro esser fisico sono al tutto separate, come dicevamo, e non possono formare una cosa sola, come sola è l' operazione che indica la parola conversione o transustanziazione. Dalle quali cose tutte apparisce, che il Bellarmino ammette questi due dogmi: 1. che tutta la sostanza del pane e del vino cessi interamente nell' Eucarestia; 2. che v' abbia la presenza vera, reale e sostanziale del corpo di Cristo. Quanto poi al terzo, che cessi il pane e si adduca sotto agli accidenti di lui il corpo di Cristo in virtù della conversione o della transustanziazione, questo è un terzo dogma che riconosce a chiare parole il venerabile autore (1), il che basta per collocare la sua fede fuori d' ogni controversia. Ma quando si tratta poi di spiegare in che modo nasce questa transustanziazione in virtù della quale debbono avvenire que' due fatti contemporanei e unificati della cessazione di tutta la sostanza del pane, e della presenza del corpo di Cristo; allora pare a noi, che l' uom grande entri in un sistema che non può stare col principio che egli stesso accorda e fermamente crede, cioè « l' avvenire di que' fatti per l' efficacia della transustanziazione« (1). » E qui voglio avvertire, che a parer mio questo della« transustanziazione« è anzi il dogma cardinale del mistero Eucaristico: di maniera che gli altri due sopra toccati dogmi s' attengono a questo, sono conseguenze necessarie di questo terzo della transustanziazione: perocchè la transustanziazione contiene in sè e la cessazione della sostanza del pane, e il ponimento della carne di Cristo. Per tutte le quali cose sapientissimamente la Bolla Auctorem Fidei condannò nel Sinodo di Pistoia quella proposizione, colla quale voleva restringere le istruzioni popolari de' Parroci sul Sacramento dell' Eucarestia a que' due primi dogmi della presenza reale e della cessazione del pane, ommettendo il terzo principale di tutti, cioè quello della transustanziazione (2). Riassumendo adunque il sistema degli avversarii essi sostengono: 1. Che Iddio fa cessare interamente non solo il pane come sostanza, il che diciamo anche noi, ma ancora come essere , ristando dal conservarne al tutto l' entità. 2. Che distrutto così il pane e conservati solo gli accidenti, Iddio adduca sotto gli accidenti il corpo di Cristo che è in cielo, senza mutar di luogo. 3. Che la distruzione del pane sia fatta da Dio coll' intenzione e col fine di addurre in suo luogo il corpo di Cristo. 4. Che mediante questa intenzione e fine unico che ha Dio, possa convenire alla distruzione del pane, e alla successione del corpo di Cristo il nome di conversione o transustanziazione del pane nel corpo di Cristo. Noi abbiam negato che a tai successioni di cose convenga veramente o propriamente un tal nome, e abbiam detto per ciò che in tal sistema non si può dire che« il pane si converta e si transustanzii« ma solo che cessi per dar luogo al corpo di Cristo. Abbiam detto altresì che non si può dire che sia nel pane più tosto che in Cristo che avvenga la mutazione, o che il pane si converta in meglio, maniere usate da' più autorevoli scrittori della Chiesa. Ora aggiungiamo che nel sistema degli avversarii non [si] saprebbe spiegare come potessero avere la loro chiara verità tante altre maniere di dire consecrate dalla più antica e più costante tradizione: e perchè più tosto non si trovino adoperate tante altre (1). Rechiamo l' esempio di alcune. 1. S. Gaudenzio di Brescia dice del pane Eucaristico: [...OMISSIS...] . Or come si dice qui che il pane è fatto celeste, se egli non fosse veramente cangiato in meglio, ma al tutto annichilato? non può esser fatto celeste quel pane che dopo distrutto non è più atto a diventare cosa alcuna, ma bensì quello che essendo diventato carne di Cristo fu distrutto in questo, e per questo, che fu cangiato in meglio? E si noti il modo onde S. Gaudenzio dice il pane fu trasmutato: « Cristo passò in lui«. » Che vuol dir ciò? non certo che si trasmuta in esso, ma bene lo rivestì colla sua divina vita ed onnipotente, che lo rapì a sè appropriandolsi e veramente cangiandol tutto in carne e sangue suo. Il luogo adunque di S. Gaudenzio mirabilmente esprime il nostro sistema. 2. S. Ambrogio dice « ove s' appone la consecrazione del pane si fa il corpo di Cristo« (2). De pane FIT corpus Christi : » maniera usata pure dal medesimo S. Gaudenzio « De pane EFFICIT proprium corpus « (3). » Con questa frase non volevano già esprimere gli antichi Padri, che il corpo di Cristo si componesse di pane, assurda cosa; ma bensì il pane si convertisse veramente nel corpo di Cristo, cessando così interamente di esser pane. Se ciò non fosse avrebbero essi parlato in modo così equivoco da dire costantemente che « del pane si fa il corpo di Cristo« » per voler dire che il corpo di Cristo succede al pane il quale cessa del tutto di essere? e che costava loro ad adoperare queste ultime parole almeno qualche volta, che non avrebbero dato cagion di errare, se tale fosse stato il loro avviso? 3. Simiglianti alle indicate sono le maniere di dire seguenti: « il pane ed il vino DIVENTA corpo e sangue di Cristo« (1)« mutare o trasmutare le nature« (2); » le quali non potrebbero mai convenire a nature che cessassero dall' essere conservate, come è nel sistema de' nostri avversarii. 4. S. Cipriano per descrivere la transustanziazione dice, che « la divina essenza S' INFONDE ineffabilmente nel visibile Sacramento« (3). » Or niente è in questa maniera di parlare che possa indicare annichilazione, ma bensì un' operazione colla quale Cristo colla sua divinità tocca e si unisce ed infonde nella sostanza del pane penetrandola di guisa da tramutarla in sè medesimo. 5. S. Ireneo pure usa di questa frase, che « il calice misto e il pane spezzato PERCEPISCE LA PAROLA di Dio« (4), » e così si consacra: la quale maniera di dire ha una mirabile verità nel nostro sistema. Ma fermiamoci specialmente a que' passi de' Padri ne' quali descrivono l' operazione che fa il Verbo di Dio transustanziando il pane ed il vino. Noi non troveremo mai in essi, che descrivano una tale operazione come inchiudente una cessazione di conservazione, un atto di distruzione: ma troviamo che lo descrivono sempre come un atto eminentemente positivo, senza nessun elemento negativo in esso racchiuso. Abbiamo già veduto che: 1. S. Cirillo Alessandrino, ed Elia Arcivescovo di Creta, ed altri descrivono l' operazione della transustanziazione come una comunicazione della propria vita che fa Cristo al pane ed al vino (1). 2. Che S. Gaudenzio esprime la stessa cosa dicendo che Cristo passa in tali materie, volendo dire che ad esse comunica l' esser suo (2). 3. Che S. Gregorio Nisseno, S. Giovanni Damasceno, Teofilatto ed altri dicono ancora più espressamente, che quell' operazione è una cotal nutrizione soprannaturale (3). E a questo medesimo si riferisce quel luogo di Teofilatto, di cui hanno abusato gli eretici, dove dice, che « il pane si muta nella virtù del corpo di Cristo« (4); » luogo che altro non tende a significare se non appunto l' investirsi del pane e del vino in un modo ineffabile dalla virtù del corpo di Cristo che in sè li trasforma. 4. Odone Vescovo di Cambray dice che il pane ed il vino sono investiti da una forza spirituale, che li tramuta (5). 5. Aggiungerò questa espressione di S. Giovanni Grisostomo: « Quegli che SANTIFICA e trasmuta questi doni è egli stesso il Cristo« (6). » Ora io intendo sì bene come questi doni del pane e del vino siano sublimemente santificati quando si pone che vengano investiti della virtù e della vita stessa di Cristo; ma non posso all' opposto formarmi alcuna idea di una loro santificazione quando essi sono distrutti, e sono distrutti prima che sia addotto Cristo in loro luogo, di maniera che essi non toccano Cristo, nè sono toccati, nè hanno comunicazione in nessun modo con Cristo, fonte della santificazione, il quale non sopravviene nel sistema degli avversarii, se non quando essi al tutto più non sono. Ma questa maniera che il pane« si santifica« non è solo pronunciata accidentalmente una o l' altra volta da S. Giovanni Crisostomo; ma ella è universale, ella è una di quelle formole solenni, che si trovano in tutte le liturgie, in tutti i Padri e che per conseguente contengono il deposito delle più sacrosante verità come in vasi d' oro incorruttibili. Quindi si chiama costantemente il corpo di Cristo pane santificato, e si prega perchè il pane posto sull' altare si santifichi : il che non potrebbe, come dicevo, ricevere un senso vero e proprio se Cristo nè pur toccasse il pane, ma solo venisse nel luogo del pane dopo che questo ha cessato di essere. Lo stesso dimostrano certi nomi dati dal pane Eucaristico tolti dalla natura dell' operazione, che sopra di lui si esercita, come quello di «eulogia» in latino benedictio veniente da benedire , perchè il consacrare è riputato un benedire (1), secondo un modo di parlare che risale agli Apostoli (2). Or benedire equivale (fatto da Dio) a moltiplicare, ingrandire, migliorare, perfezionare (3), sublimare, e perciò è un sinonimo di santificare nel caso nostro (4). Or il solo venir Cristo nel luogo del pane rimosso, in nessuna maniera potrebbe dirsi che fosse un moltiplicare, ingrandire, perfezionare, sublimare il pane; come se il servitore cede il posto che tiene al suo principe in nessun modo si può dire che per ciò il servitore sia moltiplicato, ingrandito, e molto meno convertito nel principe (5). Or questo miglioramento, santificamento e innalzamento del pane all' esser carne di Cristo è espresso da' Padri in modi diversi, ma che mantengono sempre il concetto stesso. Udiamo come lo esprima S. Fulberto Vescovo di Chartres in una lettera che scrive ad Adeodato: [...OMISSIS...] . Questo convertire nella dignità d' una più eccelsa natura, questo trasfondere nella sostanza del nostro corpo sono frasi assai calzanti, e che mostrano ciò che dicevamo la consecrazione del pane essere risguardata nella cattolica Tradizione come una cotale operazione, non volta a levar via l' essere del pane per collocarvi in suo luogo il corpo di Cristo, ma anzi a innalzare e sublimare quest' essere fino a rifonderlo e immedesimarlo nelle carni divine di Gesù Cristo (2). Gregorio M. pure dice che Cristo fa la conversione del pane e del vino « mediante la santificazione« (3); » S. Giovanni Damasceno pure « per la invocazione e la venuta dello Spirito Santo« (4); » Teofilatto « per la benedizione e l' accessione dello Spirito Santo« (5); » e sarei infinito se raccoglier volessi tutti i passi de' Padri in cui si descrive in questo modo la consecrazione del pane e del vino, come una spirituale benedizione, una santificazione, una virtù che riceve esso pane ed esso vino, virtù sì grande che ha valore di elevarlo ad esser carne di Cristo, non a diminuirgli un solo grado di essere, ma solo ad innalzare infinitamente e ingrandire l' entità da lui posseduta, ingrandirla tanto che il fa uscire di sua natura e non esser più quel ch' era prima (6): questa è transustanziazione. Nella generazione e nella nutrizione lo spirito è quello che interviene ed opera ad informare di vita la materia: nella prima v' ha una materia, che prima dell' atto della generazione appartiene ai generanti; ma staccata da essi forma il nuovo animale, e ciò che il forma è lo spirito proprio di questo che lo avviva. Nella nutrizione parimente è il nostro spirito quello che involge le particelle del cibo, comunicando loro sè stesso e rendendole suo proprio corpo. Ora essendo Cristo persona divina conveniva che tanto l' incarnazione come la consecrazione del pane e del vino venisse attribuita allo spirito di Dio, come la generazione e la nutrizione naturale si fa per lo spirito dell' uomo. Però la consecrazione è molto spesso concepita e descritta da' Padri come la incarnazione e a questa paragonata. S. Giustino dice: [...OMISSIS...] . S. Ambrogio pure: [...OMISSIS...] . Eucherio di Lione: [...OMISSIS...] . Il venerabile Beda: [...OMISSIS...] . Eutimio più tardi (sec. XI) ripeteva lo stesso concetto: [...OMISSIS...] . E qui voglio fare una osservazione volta a dileguare maggiormente il timore di quelli a cui paresse che nel nostro sistema rimanesse qualche cosa della sostanza del pane non mutata nel corpo di Cristo, ai quali dirò così: Il Concilio di Trento definì che tutta la sostanza del pane e del vino si cangia nel corpo e nel sangue di Cristo, e questo a condannazione di quell' errore, che voleva trovarsi nelle sacra ostia oltre il corpo di Cristo qualche altra materia non immutata. Ora non v' ha sistema più lontano da quest' errore del nostro. E a rendere chiaro il concetto appunto ci può valere l' esempio dell' incarnazione del Verbo nel seno di Maria Vergine. Quando l' immacolata Vergine somministrò il suo sangue purissimo a comporre un corpo al Verbo divino; questo sangue che prima era della Vergine non divenne tutto sangue e corpo di Cristo? v' ebbe forse la minima stilla, gocciola o atomo di materia che rimanesse ancora dopo l' incarnazione cosa della Vergine, e non fu più tosto tutto e solo cosa di Cristo, cioè suo proprio corpo? e adorando questo corpo divino s' adorava forse qualche cosa che non fosse divina, o che fosse rimasta semplicemente umana, com' era prima dell' incarnazione quando al corpo della Vergine apparteneva? e pure in quell' operazione nessun essere, nessuna particella di essere cessò, Iddio non si rimase dal conservare ciò che v' avea prima, ma il cangiò solo in cosa infinitamente migliore, il che si può dire bensì un cotal perire della natura (3), ma non un perire inteso a quel modo che l' intendono i nostri avversarii pel quale l' essere si riduce a niente. Simigliantemente adunque nel sistema nostro tutta la sostanza e la stessa materia del pane diventa vero e adorabil corpo di Cristo, nè alcuna particella rimane indietro che non si cangi, sebbene nessuna particella di essere perisca (4). Ma tornando a noi, volevamo provare che l' immutazione che nasce del pane e del vino fu solita la Chiesa di risguardarla come una ineffabile operazione dello Spirito Santo, a quel modo onde si suol dire che Maria concepì per opera dello Spirito Santo. Rechiamo a maggior confermazione ancora alcune venerabili autorità, dove direttamente si esprima che la transustanziazione si fa per opera del Santo Spirito. S. Agostino dice espressamente che la consecrazione è un' opera dello Spirito Santo: [...OMISSIS...] . S. Cirillo Gerosolimitano: [...OMISSIS...] . Nella liturgia di S. Giovanni Grisostomo, alludendo alla conversione del calice, il diacono dice: « Benedici, o Signore«. » Il sacerdote benedicendo con ambo le mani: « IMMUTANDO collo Spirito Santo tuo: IMMUTANS SPIRITU SANCTO TUO« (3). » Nella liturgia allemanica (4) la messa della Domenica V dopo l' Epifania ha un' orazione dove si prega di poter [...OMISSIS...] . Ma udiamo più ampiamente, ma sempre nello stesso concetto, descrivere il gran mistero della consecrazione del pane e del vino S. Giovanni di Damasco. Egli nel quarto de' suoi libri della fede ortodossa (6) dice così: [...OMISSIS...] . Or dopo aver così comparata la consecrazione all' incarnazione viene a spiegare maggiormente quella grand' opera con un' altra similitudine: [...OMISSIS...] . Qui assai chiaro si rilevano due cose che il santo alla virtù dello Spirito Santo attribuisce il cangiamento del pane e del vino, come alla virtù santificatrice, e che questa virtù non distrugge già il pane, ma fa nascere in lui alcuna cosa di somigliante a quello che fa la pioggia che cade sui seminati, la quale bagna e muove i semi onde esce il grano, e così distrugge il seme conducendolo a perfetto stato di maturo sviluppo, ed alla natural sua fruttificazione. Continua ancora a parlare di quest' opera dello Spirito Santo dicendo: [...OMISSIS...] . Niente di più chiaro di questo passo, niente che meglio faccia conoscere come questo grande spositore e difensore della fede ortodossa, concepiva avvenire il mutamento del pane nel corpo del Signore: non intendeva egli che entrasse nel pane una forza distruttrice, ma sì la virtù dello spirito di Cristo, che inviluppandolo e penetrandolo, il convertirà in verissimo corpo di Cristo medesimo; e questo è il modo comune, onde i Padri concepiscono la transustanziazione; di guisa che San Fulberto giunge a dire che lo Spirito Santo in quel pane « compone, ossia compagina il corpo di Cristo« (4). » Sebbene però venga attribuito allo Spirito Santo, cioè allo spirito di Cristo, l' opera della transustanziazione, tuttavia non appartiene meno al Padre, del quale ha detto Cristo: « il Padre mio dà a voi il pane vero dal cielo (5); » od al Figliuolo, che dice: «« Io sono il pane vivo che discesi dal cielo« (1). » Perocchè al Padre appartiene di dare il suo Figliuolo sotto ogni forma, perocchè egli lo genera e il dà generandolo. Al Figliuolo appartiene di dare sè stesso, perocchè nessuno altro che l' amor suo il potrebbe forzare a darcisi in cibo. Finalmente lo Spirito Santo cel dà, perchè esso è l' amabilità del Figliuolo, e ciò che noi partecipiamo e comunichiamo nel Santissimo Sacramento è appunto il Figliuolo nella sua amabilità (2), sicchè esso si chiama il Sacramento dell' amore, e Cristo sotto l' eucaristiche specie, carità incorruttibile (3). Cristo dunque s' asconde sotto il velo delle mistiche specie per un atto d' amore, ed è questo che volle dire l' amoroso Evangelista, quando accingendosi a narrare il pegno dell' infinito affetto che lasciava a' suoi discepoli nell' istituzione della Santissima Eucaristia si fa dicendo che « avendo Cristo amato i suoi ch' eran nel mondo li amò pure sulla fine« (4). » Egli faceva veramente siccome una madre, la qual mangiando delicatamente vuol empire le proprie mammelle di latte per ispremerlo poscia in bocca de' suoi cari bamboli, de' frutti delle sue viscere. E di qui nasce che nell' invocazione dello Spirito Santo, che si rinviene in tutte le sacre liturgie si prega sempre due cose, e che il divino spirito trasmuti il pane ed il vino e che lo trasmuti a noi (5) cioè a nostro profitto; conciossiacchè Cristo viene e sta nell' Eucaristia nell' atto della diffusione e delle unioni amorose, come più largamente diremo appresso. Nè solo l' opera ammiranda della transustanziazione del pane e del vino si fa colla concorrenza di tutta l' augustissima Trinità; ma ben anco colla cooperazione della umanità sacratissima di Cristo. Il perchè fu detto: [...OMISSIS...] . Dunque non pur Cristo come Dio ma come Figliuol dell' uomo altresì dà sè stesso in cibo, e all' uomo sommamente conviene e la preghiera e il rendimento di grazie che il divin Redentore premise all' Eucaristica consecrazione. Il che dà nuovo rincalzo all' opinione nostra; perocchè se non si trattasse che di solo far cessare l' essere del pane, ed ivi render presente Cristo, non si vedrebbe in tutto ciò se non un' opera divina, in cui l' umanità non sarebbe che passiva, e però non sarebbe veramente l' uomo che avrebbe parte attiva nella transustanziazione; ma se si pone che questa grande conversione avvenga per una ineffabile assunzione e incorporazione della sostanza del pane e del vino nel corpo di Cristo, in tal caso anche questo corpo glorioso dee averne parte attiva, e così l' anima, ora che a questo corpo è congiunta, e la divinità medesimamente, che è una natura identica col Padre e collo Spirito Santo: sicchè a pienissimo s' avvera, che quel pane è dato al mondo dal Figliuolo dell' uomo . Da tutte le quali cose apparisce, che se il Padre concorse alla produzione della santissima Eucaristia, generando il Verbo e mandandolo al mondo, se il Verbo vi concorse rendendosi in cibo, e il Padre e il Verbo mandando lo Spirito Santo; il Verbo incarnato però, che mediante l' opera del suo Spirito avea presa carne umana, perchè il prender carne era un rivelarsi amabile agli uomini, ugualmente si rese da sè cibo per l' opera del suo spirito giacchè in questo cibo si compiva la rivelazione dell' amabilità sua massima nell' ordine della fede. Questa amabilità poi del Verbo incarnato adoperava come istrumento la stessa umanità, acciocchè mediante una operazione ineffabile di questa, sempre indivisa dalla divinità, si apparecchiasse e quasi concorresse agli uomini il divino cibo di essa umanità, sicchè Cristo dir potesse « la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda« (2). » Nè l' essere la transustanziazione nel modo descritto opera dell' umanità investita dallo Spirito Santo (3), e congiunta ipostaticamente col Verbo, e mossa dal Verbo con quella onnipotenza che è comune col Padre da cui procede, toglie punto nè poco, che anco negli effetti della divina Eucaristia lo spirito di Gesù Cristo si manifesti e comunichi per varii gradi, e solo dopo salito Cristo al cielo e disceso lo Spirito solennemente sugli Apostoli comunichi sè medesimo nella sua forma massima, e come l' abbiam già detto, personale (1). Intanto l' invocazione dello Spirito Santo in tutte le liturgie massime orientali era così comune e talmente ordinata a impetrare la trasmutazione del pane e del vino (2) che diede origine ad un errore, cioè a credere che la transustanziazione non nascesse in virtù delle parole di Cristo, ma in virtù dell' invocazione dello Spirito Santo: il qual errore i Greci abiurarono l' anno 1493 nel Concilio di Firenze: trovandosi presente il sommo Pontefice Eugenio IV (3). Ma egli è ben facile di conciliare la virtù delle parole consecratorie coll' opera intiera dello Spirito Santo. Queste due cose sono affatto distinte. Perocchè nelle sole parole consecratorie sta il decreto onnipotente, che ordina l' opera: lo Spirito Santo poi entra a dare esecuzione, in certa maniera a tanto decreto: quello Spirito dico che è spirato dal Verbo, e che unge l' umanità di Cristo (4), della quale poi si serve come di strumento e di termine della ineffabile sua operazione. Come adunque Cristo ipostaticamente unito coll' umanità empie questa umanità del suo spirito e così a sè l' adatta e l' appropria (5), in egual modo egli comunica del suo spirito abitante nella sua umanità alla sostanza del pane, e l' assimila al suo corpo, e diventa essa pure corpo, e corpo suo, cioè ipostaticamente unito alla divina sostanza. Che se le mistiche parole non l' avesse Cristo proferite, o non le ripetesse il sacerdote, non si compirebbe una tant' opera che è un cotale estremo d' infinito perfezionamento dell' essere del pane e del vino e che però con somma convenevolezza s' appropria allo Spirito chiamato dagli antichi Padri « forza o virtù perfezionatrice« (1). » Non è dunque necessaria l' invocazione dello Spirito Santo perchè avvenga la consecrazione del pane e del vino: perocchè questa nasce solo in virtù delle parole consecratorie, le quali hanno forza di far venire lo spirito di Cristo che produce il portento. Tuttavia si usò d' invocarlo il divino Spirito in tutte le liturgie; cosa convenientissima, e acconcissima altresì a spiegare il modo, onde invisibilmente si opera la grande e misteriosa opera della transustanziazione. [...OMISSIS...] Che se questa preghiera allo Spirito Santo si fa dopo che già furono proferite le parole della consecrazione, egli è perchè non si potea fare nell' atto stesso; ma debbonsi considerare come formanti una cosa sola, un atto solo coll' atto consecratorio, di cui sono una cotale appendice, non però mai necessaria (1). E a conferma di tutto ciò osserviamo le similitudini e tante e così diverse, che usano i Padri a dichiarare il modo onde avviene la transustanziazione. Non se ne troverà pur una sola la quale s' accomodi col sistema de' nostri avversari; e la quale faccia credere che l' essere della cosa che si converte intieramente si distrugga. Nè vale il dire, che le similitudini recate in questo appunto sono imperfette; perocchè il dir questo è gratuito, e contrario alla mente de' Padri i quali su di ciò tengono il più alto silenzio. E` egli credibile che usando similitudini di tante maniere, niuna n' abbiano arrecato di quelle in cui apparisse un totale annientamento dell' essere della cosa che si converte? è possibile che mancandone nella natura non l' avessero almeno imaginata? o se non ciò, è possibile che non avessero notato, che le similitudini che usavano erano deficienti in un punto sì principale, quando omettendo di notarlo, quelle similitudini dovevano indurre necessariamente ne' fedeli un errore, un falso concetto? Oltre a che se quelle similitudini in questo punto mancavano, a che servivano esse? perfettamente a nulla: perocchè esse non si adoperavano se non per indicare come avveniva o poteva avvenire la transustanziazione; e quando avessero avuto quel difetto non potevano in modo alcuno far concepire o render più facile a concepire questa transustanziazione, di cui non avrebbero più dato alcuno esempio. Sia pur dunque che non v' abbia esempio di una conversione sì mirabile, portentosa, ineffabile come quella del pane e del vino che si consacra; ma altro è che questa sia unica e inconcepibile per le sue circostanze uniche e inconcepibili nelle quali avviene; altro è che la conversione stessa come conversione o transustanziazione debba al tutto essere un fatto solitario, di cui in tutto l' operare divino non apparisca niente di simile. Questo si torrebbe dal solito modo dell' operare divino: Iddio in tutte l' opere sue mantiene certe leggi uguali, immutabili; sebbene i casi nè quali vengono quelle leggi applicate sieno talora novissimi, e tali in cui si perde l' umano intendimento. Certo negli antichi Padri non appare vestigio alcuno, ch' essi riputassero così unico il fatto della transustanziazione, quanto alla sua natura di transustanziazione, che esempio o similitudine alcuna non potesse rinvenirsi nelle altre opere dell' onnipotente: anzi con tutta buona fede ed a fidanza il vengono variamente spiegando, e trovandolo in assai avvenimenti e naturali e soprannaturali ripetuto. Rechiamo alcuna delle similitudini che a tal uopo usavano. 1. Ho già notato, che i Padri rassomigliano la consecrazione del pane e del vino all' incarnazione di Cristo fatta nel seno della Vergine (1). Ora in questa similitudine niente si distrugge, ma solo quella sostanza del corpo della Vergine che era predestinata a dover essere carne di Cristo, si tramuta veramente nel corpo di Cristo: e non ne rimane più minuzzolo che sia della Vergine e non vera carne del Salvatore. E come ciò? per opera dello Spirito Santo, per la quale dicono i Padri avviene pur la consecrazione. Lo Spirito Santo che è spirito del Verbo reca seco il Verbo, col quale ha la natura indivisa, e il Verbo informa l' anima e il corpo nello stesso punto della verginal concezione. Qual similitudine più acconcia ad un tempo al sistema nostro, e ripugnante a quello de' nostri avversari? 2. S. Remigio Antisioderense non pure rassomiglia la consecrazione del pane e del vino a quell' unirsi che fece alla carne umana il Verbo nell' incarnazione, ma ben anco alla trasformazione de' nostri corpi da mortali in immortali dicendo: [...OMISSIS...] . Or chi non vede in questo luogo che le similitudini introdotte non presentano alcuna distruzione, ma solo un perfezionamento, un elevamento delle nature a stato di natura migliore? chi non sente con quanta proprietà sia indicata la consecrazione con dire che la materia del pane e del vino si trasporta nella natura del corpo e del sangue di Cristo? 3. Altri alla similitudine dell' incarnazione aggiungono quella della formazione del primo uomo. Recherò un testimonio non tanto antico, ma nulladimeno opportuno, primieramente perchè non fa egli che ripetere ciò che ha detto l' antichità: in secondo luogo perchè appartenendo alla chiesa orientale dimostra la consentaneità di questa nella maniera di concepire la consecrazione colla latina. E` questo un Vescovo di Amida del secolo XII chiamato Dionigio Bar7salibi perchè figlio di Saliba di rito Jacobita, il quale scrisse un commentario sulla liturgia di S. Giacopo, nel quale dice appunto così del Sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] . Or considerando la similitudine tratta dalla terra di cui Iddio compose il corpo di Adamo, non v' ha qui una materia che si trasforma bensì, ma non che si distrugge? e tuttavia non fu ella al soffio divino convertita tutta quella materia nelle carni e nell' ossa di Adamo? forse che rimase qualche cosa non tramutato? rimase qualche cosa terra? non si cangiò anzi il soggetto medesimo? conciossiachè la carne viva di un uomo è certamente un soggetto diverso dalla polvere sciolta ed inanimata. A simigliante maniera perciò intendevano gli antichi avvenire la transustanziazione del pane e del vino. 4. S. Giovanni Grisostomo, volendo dare in qualche modo meglio ad intendere come Gesù Cristo nell' Eucaristia si propaghi per così dire e si moltiplichi in ogni luogo della terra, usa appunto la comparazione della moltiplicazione del genere umano: [...OMISSIS...] . La qual similitudine è acconcissima, e tutta per noi. Conciossiachè la propagazione dell' uman genere avviene per una cotale comunicazione della vita, e non per alcuna vera distruzione o cessazione di alcun essere. 5. S. Gaudenzio introduce la similitudine della produzione del frumento dalla terra: [...OMISSIS...] . Or chi non vede che quegli elementi della terra o più tosto dell' acqua e dell' aria che si cangiano nel frumento, non s' annientano già; ma solamente cessano di essere quello che erano, per divenire frumento? S. Gaudenzio adunque non pensava a quello strano sistema della cessazione di un essere, che fu introdotto solo da' moderni; per non sapere essi trovar altra via da spiegare il grande fatto della transustanziazione. 6. S. Ireneo molto prima (sec. II) usava di somiglianti similitudini del legno che fruttifica, delle fonti che scaturiscono, del frumento che matura: [...OMISSIS...] . Ora l' albero che frutta e la terra che manda l' erba, la quale spiga e poi grana, non dànno esempio d' altre trasformazioni che solo di quelle dove l' un essere non già si distrugge ma nell' altro si tramuta. 7. Un' altra similitudine usata dagli antichi scrittori a spiegazione dell' opera della conversione del pane e del vino si è quella della legna, che s' infiamma e diventa acceso carbone. Così dice Ildegarde che scriveva nel secolo XII: [...OMISSIS...] . Questo scrittore adunque concepiva la transustanziazione come noi, i quali diciamo, che il Verbo e l' anima e il corpo di Cristo mediante lo Spirito Santo, fuoco divino, avviluppano per così dire le minime particelle del pane, come la fiamma fa d' un fusto di legno, e l' avvilupparle è un appropriarsele, un congiungersele incorporandolesi e facendole divenire parte indivisibile dell' unico corpo di Cristo, cessando quelle interamente per cotale ineffabile operazione da esser sostanza di pane e di vino. .. E` frequente l' incontrare ne' Padri il confronto fra la conversione del pane e del vino, e le altre conversioni, che si narrano avvenute prodigiosamente nelle Divine Scritture; come son quelle del nuovo Testamento, dell' acqua conversa in vino alle nozze di Cana (2), e nell' antico della verga di Mosè cangiata in serpente ed altre tali (3). Or che giammai notassero i Padri una assoluta ed essenzial differenza fra il modo del cangiamento del pane e del vino, ed il modo onde avvenuti sono quegli altri cangiamenti? Ciò che dimostra, ch' egli non concepivano quello come assolutamente e intrinsecamente diverso da questi: perocchè se l' avessero così concepito nè ci aveva ragione di somigliar quello a questi; e tacerne la dissomiglianza non si potea senza indurre i fedeli in error gravissimo toccante cose di fede. S' egli dunque è da credere, che non riputassero la conversione del pane e del vino intrinsecamente e specificamente diversa da quelle altre conversioni avvenute prodigiosamente dell' acqua in vino, della verga in serpente; così si può giustamente ragionare, e ho già di questo ragionamento fatto un cenno di sopra: L' acqua non fu già mutata in un vino particolare preesistente, nè la verga fu mutata in un serpente preesistente: ma solo quella prese natura di vino, questa di serpente: non però l' essere elementare fu essenzialmente annichilato nè dell' acqua nè della verga. Però quando quell' acqua fu convertita in vino, e quella verga in serpente, si trovò al mondo del vino più di prima, e un serpente che prima non era. Qui non ci ha nulla di assurdo e d' inconcepibile. Or è bensì vero che il corpo di Cristo e il sangue preesiste alla consecrazione; e che il pane ed il vino si dee convertire nell' identico sangue. Ma altre sono come abbiam distinto le particelle componenti un corpo ed un sangue; altro sono il corpo ed il sangue. Il pane ed il vino certo è convertirsi nell' identico corpo e nell' identico sangue di Cristo; questo è di fede: ma questo pienissimamente avviene anche ponendo che le particelle sieno diverse; cioè che s' aggiungano al corpo ed al sangue di Cristo delle particelle nuove, le quali non mutano, ma anzi esse pure partecipano l' identità del corpo e del sangue a cui individuamente si congiungono. Per sì fatto modo rimangono chiarissimi, e privi d' ogni oscurità i passi de' Padri, e convenientissime si ritrovano le comparazioni, a cui essi sono ricorsi, per dare in qualche modo convenevole dichiarazione del modo onde avviene il gran fatto della mistica consecrazione. Or a tante autorità dobbiamo continuarci con degli argomenti somministrati dalla ragione teologica. Già abbiamo veduto che gli avversari concedono che nella transustanziazione cessa interamente Iddio dal conservare un essere distruggendo interamente il pane ed il vino. Noi abbiamo detto che il pane ed il vino è quello che si dee trasmutare, e che però, se Iddio lo distrugge non si può trasmutare (1). Ma or non ci basta nè della confessione degli avversari, i quali sostengono che il pane ed il vino quanto all' essere stesso si distrugga, negando però a questa distruzione con una vana sottigliezza il nome di annichilazione; nè ci sta di aver provato, che il concetto di vera transustanziazione non si può avverare tosto che si pone che, in qualsivoglia modo, l' essere che si dee trasmutare cessa interamente diventando nulla. Vogliamo oltreciò considerare la cosa dalla parte del corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire; e provare che anco da questa parte la transustanziazione è impossibile nel sistema degli avversarii. Poniamo adunque innanzi all' animo nostro questi tre punti che sono contenuti nel sistema de' nostri avversari. 1. Il corpo di Cristo, in cui il pane si dee convertire preesiste; 2. Questo corpo di Cristo non può ricevere l' aumento di niuna particella che gli s' aggiunga; 3. Questo corpo di Cristo colla consecrazione si pone nel luogo della sostanza del pane che viene ridotta a nulla. Premessi questi punti de' quali il primo è fuori di controversia così ragiono: Poniamo che un essere qualsivoglia si trasmuti. Qui non consideriamo la forza che lo trasmuta; ma la stessa trasmutazione. Quest' essere dee successivamente passare a tutti quegli stati ne' quali dee trasmutarsi. Ma potrà egli mai entrare nella natura di un altro essere già sussistente? Un individuo sussistente racchiude già nel suo concetto di essere così separato dagli altri individui, di non potersi giammai mescolare, confondere, immedesimare con essi. Nè pure adunque una potenza infinita potrebbe fare che un individuo sussistente ne diventasse un altro pure sussistente: perocchè ciò è ripugnante al concetto d' individuo sussistente, che consiste nella incomunicabilità di suo essere. Se dunque questa parola« individuo sussistente« esprime il medesimo che essere incomunicabile ed essenzialmente uno, ne dee avvenire: 1. Che un individuo sussistente non può divenire un altro individuo sussistente, perocchè per diventare un altro individuo dovrebbe deporre la propria individualità, e questa non può deporla per via di trasmutazione, ma solo per via di annichilazione; 2. Che l' altro individuo pure sussistente, in cui si vuole che il primo si cangi, non può ricevere in sè altra sussistenza che la sua; però non può sofferire nessun cangiamento risguardante il suo essere individuale, se non si voglia che il suo essere individuale e sussistente si annichili egli pure: giacchè l' individuale sussistenza è cosa unica e semplice; chè fra l' essere e il non essere suo niente si trova di mezzo; 3. Che ove vogliamo pure fantasticamente imaginare una conversione di un individuo sussistente in un altro pure sussistente, questo non sarebbe un vero concetto di conversione, ma solo un concetto composto ( a ) di cessazione del primo individuo ( b ) della conservazione del secondo, senza che questo secondo abbia ricevuto niente dal primo. Non potea fuggire tutto ciò alla gran mente del Bellarmino; e però chi lo legge attentamente trova che ei confessa in sostanza tutto ciò che noi abbiam detto, dove viene a parlare della conversione ch' egli chiama conservativa . Perocchè egli descrive la conversione conservativa in questo modo: [...OMISSIS...] . Or noi diciamo che questo fatto sembrerebbe bensì una conversione, ma niuna vera conversione in ciò interverrebbe. Sarebbe un inganno che prenderebbero gli occhi nostri, o la nostra imagine, credendo non che l' un de' due corpi si convertisse nell' altro perchè li vedremmo forse avvicinarsi e l' uno cessare di mano in mano che mostrasse d' immergersi nell' altro, non però si convertirebbe, non però il primo avrebbe subìto altra mutazione che quella dell' annichilamento, e il secondo non avrebbe subito cangiamento di sorte alcuna. Ogni uomo di buon senso, non preoccupato l' animo da una sentenza già imbevuta, può esser giudice in questa parte. Ora fra la conversione meramente conservativa e l' adduttiva (che così chiama il Bellarmino quella che interviene nella consecrazione) non passa alcuna diversità circa la distruzione dell' essere che si converte: non passa sempre diversità quanto al non prodursi nell' una e nell' altra niente di nuovo. V' ha solo diversità in questo che quel corpo in cui l' altro si converte, oltre conservarsi nel suo luogo, vien posto anco in altro luogo. [...OMISSIS...] La conversione adduttiva adunque non differisce dalla conservativa se non in questo, che l' oggetto che si conserva in entrambi, senza che nulla nasca di nuovo, in quella, oltre conservarsi nel suo luogo, viene addotto o condotto, o posto anche in altri luoghi; sicchè ha contemporamente la stessa ed identica esistenza in più luoghi. Ora posto che nulla s' aggiunge alla sostanza di questo corpo, l' essere addotto in più luoghi senza abbandonare il proprio luogo non è ancora ricevere in sè un altro corpo che in lui si converta: però se la conversione conservativa non è conversione: nè pure l' adduttiva può essere conversione: conciossiachè questa aggiunge solo una circostanza, nella quale non si avvera il concetto di conversione alcuna. Il perchè egli sarebbe impossibile nel sistema del Bellarmino evitare quella difficoltà gravissima che si fa egli medesimo, che la conversione terminerebbe in un accidente, anzichè in una sostanza (1). E veramente il corpo di Cristo non avrebbe sofferito nessun cangiamento sostanziale, ma solo accidentale; egli oltre essere in cielo avrebbe un sito di più in cui si troverebbe, cioè sotto le specie del pane e del vino (2): or questo non sarebbe sicuramente nulla di più di un cangiamento accidentale. Nè vale rispondere, come fa il Bellarmino, che [...OMISSIS...] . Nessun uomo di buon senso accorderà questa conclusione. Di poi, si fa che il corpo di Cristo succeda al pane; questo è vero, ma non è mica questo un farsi il corpo di Cristo (4), ma è solamente che al corpo di Cristo succeda la relazione della presenza. Dunque la mutazione che nasce è meramente accidentale e non è vero che nasca un trasmutamento di sostanza in sostanza. Io non veggo in qual maniera possano gli avversarii di buona fede evitare questa gravissima difficoltà. Nè si badi al vocabolo di accidente , che io adopero per indicare la mutazione che avviene nel corpo di Cristo per la consecrazione, perocchè io intendo per accidenti anche le relazioni che acquista un essere; e in una parola tutto ciò che« non tocca, non muta la sostanza dell' essere«. Ora che la mutazione che nasce rispetto al corpo di Cristo, secondo il Bellarmino stesso, sia l' acquisto di una nuova relazione l' abbiamo espressamente da lui confessato. Conciossiachè ricercando egli che mutazione nasca nel corpo di Cristo, risponde: [...OMISSIS...] . Or si congiunga questo luogo con un altro precedente dove nega che il corpo di Cristo che è in cielo muti o la sostanza, o gli accidenti, o il luogo (2). Se dunque non nasce mutazione nè quanto alla sostanza nè quanto agli accidenti, tutta la mutazione si dee ridurre alla relazione nuova che acquista; la quale crediam di poter riporre fra le mutazioni accidentali, appunto perchè non risguardano la sostanza. Laonde dall' avere il Bellarmino avuto ricorso alla sua conversione adduttiva per ispiegare la transustanziazione, due cose si raccolgono: 1. Ch' egli stesso conobbe che l' individualità d' una cosa non può passare nell' individualità di un' altra cosa, il che implica contraddizione, e però ricorse a quella conversione impropria ch' egli denomina adduttiva . 2. Ch' egli non dà una vera spiegazione della transustanziazione, ma più tosto dà il nome di transustanziazione alla successione d' una cosa all' altra che s' annienta; senza però che si converta veramente o si transustanzii. E qui si conviene fare un' osservazione che mette in maggior lume di evidenza l' impossibilità della transustanziazione nel sistema degli avversari; ed è questa: Il Bellarmino descrivendo quella ch' egli chiama conversione conservativa recò in mezzo l' esempio di due corpi che facesser vista di penetrarsi (il che veramente non sarebbe che un distruggersi dell' uno per opera divina, conservandosi l' altro). Ora il venerabile uomo usa di queste parole: [...OMISSIS...] . Quella parola naturalmente vien qui introdotta, perchè il Bellarmino opina non essere cosa ripugnante, e però possibile a Dio la penetrazione de' corpi. Ma ciò ora noi non vogliamo discutere. Ciò che noi vogliamo osservare si è, che supposto che la penetrabilità non implichi contraddizione, quand' anco l' uno de' due corpi non fosse distrutto da Dio, come pone il Bellarmino, ma compenetrato nell' altro; ancora non sarebbe punto seguita la conversione dell' uno nell' altro fin a tanto che i corpi sussistessero nello stesso luogo: ma perchè veramente si potesse dire essere avvenuta la conversione o transustanziazione converrebbe, che l' individualità dell' uno fosse passata nell' individualità dell' altro; cioè che l' uno individuo fosse diventato l' altro individuo. Or questo è manifestamente assurdo; giacchè la propria sussistenza individuale è al tutto incomunicabile, non solo rispetto ai corpi, ma ben anco rispetto a due individui quali si vogliano, anco spirituali: perocchè nel concetto dell' individuo si contiene quello di cosa incomunicabile, però inconvertibile. Non si dee adunque fermarsi solo a considerare le difficoltà che trae seco la penetrazione de' corpi; ma si dee prima sollevarsi alla difficoltà più generale che nasce dall'« incomunicabilità dell' individuo« sussistente: la quale, a mio parere, non può essere dagli avversari nostri in modo alcuno superata. Ma da ciò si deve scendere a considerare altresì se posti i tre principii degli avversari una vera transustanziazione sia consentita dalla natura della sostanza corporea. E qui si dee partire da questo principio che una vera conversione d' una cosa in un' altra non si dà, se non a condizione che la cosa che si converte S' IDENTIFICHI colla cosa in cui si converte (1). Ora questa identificazione non può seguire se non a condizione: 1. Che la cosa che si converte perda la propria identità, quindi cessi di essere quello che era prima, e altresì cessi di essere al tutto, intendendo l' espressione in questo senso, che non può dirsi più dopo la conversione« ella è«: conciossiachè quell' ella esprime la cosa di prima che non è più. 2. Che la cosa in cui si converte non perda la sua identità ma rimanga perfettamente quella di prima. 3. Perciò che le due cose, dopo la conversione dell' una nell' altra, già non siano più due, ma una sola; e non già una mista di tutte e due; ma la sola seconda identica a sè stessa innanzi la conversione; nella quale ha perduto il proprio essere la prima in essa convertitasi. Dopo di ciò dee ancora osservarsi, che acciocchè una cosa entri nella natura dell' altra, fino a lasciare la propria natura e prendere la natura di quella in cui entra, conviene che tutte e due le cose, la trasmutantesi , e la trasmutataria (mi si conceda questa voce) sostengano mutazione: perocchè la prima dee sofferire quell' alterazione che le faccia assumere l' altrui natura, l' altrui essere, lasciando il proprio: e la trasmutataria dee pure sostener mutazione in ricevere l' essere altrui nella propria natura, e nel proprio essere. Or nulla di meno si richiede perchè accada un tale trasmutamento, il quale in senso vero e proprio si possa denominare conversione, transustanziazione, transelementazione ; nomi sacri, e propriissimi nell' uso della Chiesa, che li applica al Sacramento Eucaristico. La conversione adunque vera e propria non è quella che il Bellarmino chiama conservativa , nè quella che chiama adduttiva , e nè pure quella che si chiama produttiva . Perocchè nè conserva semplicemente, nè semplicemente adduce una cosa in altro luogo, come lo spirito che inanima nuova materia, il quale perciò non si trasmuta, nè produce un essere nuovo; perocchè il trasmutatario rimane l' essere identico che era prima che avvenisse la conversione. Nelle tre conversioni adunque distinte dal Bellarmino non si dànno i caratteri proprii della conversione vera, che sono pur quelli che noi abbiamo recati. Ora tutte queste cose ben ritenute, egli è evidente, che un essere ricevendo in sè l' entità di un altro essere che in lui si converte, non mantiene l' identità sua, se non si suppone che tanto prima di divenir trasmutatario, come dopo essere divenuto tale, rimanga uno e semplice come prima. E veramente se coll' accogliere l' entità dell' altro essere egli diventasse due esseri mediante tale aggiunta, già non sarebbe vero che il nuovo essere si fosse in lui convertito, ma solo a lui apposto, avvicinato, appiccicato e nulla più. Or non sarebbe possibile che un essere trasmutatario rimanesse uno e identico, tanto più dopo aver ricevuto in sè l' altro essere, se non supponendo che l' unità sua sia un' unità complessa, cioè risultante di più parti, le quali sono unificate da un principio unico. In tal caso seguitando questo identico principio ad unificare le parti e a costituire la loro unità base dell' identità del loro complesso; egli è evidente che le parti possono crescere e diminuire; senza che nè l' unità, nè l' identità del tutto punto perisca o sofferi alterazione alcuna. All' opposto dove non si trattasse di una unità complessa; dove l' unità non provenisse da principio unificante più parti, le quali vengono da lui compaginate in un tutto unico e semplice; dove non si trattasse dell' identità di questo tutto: sarebbe impossibile concepire una vera e propria conversione. L' impossibilità di questo è manifesta; perocchè ne avremmo questa formola 1 .più . 1 .uguale . 1 E veramente si tratterebbe di rifondere l' entità di un individuo in un altro individuo, che è quanto aggiungere unità ad unità; e di averne per risultato non due individui, nè un individuo maggiore di prima, ma quell' individuo stesso nello stato di prima; cosa assurda come è assurdo che due e due facciano uno. All' opposto se l' individuo in cui l' altro si converte è complesso, egli è facile a sciogliere il nodo. Perocchè sebbene sembra, che venga a dirsi ugualmente che uno ed uno facciano uno; tuttavia è da sapersi che queste unità non sono uguali nei loro elementi ma solo nel loro risultato; sicchè l' unità che ne risulta è uguale nella sostanza, non nella grandezza, sicchè la formula si ridurrebbe a quest' altra 1 .più . 1 .uguale .1 la quale non ha contraddizione alcuna: se non che è da osservare, che questa formola, che varrebbe per la quantità, non varrebbe punto ad esprimere l' identità della sostanza o sia l' unità totale. Or questo è appunto ciò che avviene continuamente in noi. Noi bambini e noi uomini adulti siamo identici; perchè è identico il principio unificante, il principio nostro formale; pure ci sono state aggiunte delle parti, che non avevamo; il nostro corpo è cresciuto. Questo crescimento nelle parti non è crescimento nel tutto unico e identico; questo crescimento nella quantità, non è crescimento nella sostanza o nella individualità. Mediante la nutrizione adunque nasce una vera conversione e transustanziazione del cibo nel corpo nostro vivente. E simile a questa, noi sosteniamo dover essere quella che avviene mediante la consecrazione del pane e del vino. Non hanno alcun modo all' opposto [gli avversari] di mostrare nella conversione da loro descritta i caratteri sopraccennati di una conversione vera. Perocchè posto per principio che al corpo di Cristo non si può aggiungere niuna particella; viene per conseguente che non si consideri l' identità del tutto, ma l' identità delle particelle che compongono il tutto; non il tutto come uno, ma come una collezione di determinate particelle. Quindi se si volesse supporre una vera conversione non si potrebbe in alcun modo evitare quell' assurdo che esprimemmo nella formola, 1 .più . 1 .uguale . 1: il che non può fare nè pure l' onnipotenza divina: perocchè è ripugnante intrinsecamente che uno ed uno faccia uno; come che un' entità fusa nell' altra non accresca o di numero o di grandezza l' altra entità. Ricorreremo per esser brevi a ciò che fu stabilito intorno alla natura del corpo nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee , alla qual opera rimettiamo il lettore che brami più estese prove di ciò che qui affermiamo. Noi abbiam detto che le nostre cognizioni intorno al corpo ci vengono per due modi: 1 pel sentimento fondamentale spontaneo e sue modificazioni, e questo modo l' abbiam chiamato soggettivo ; 2 pel sentimento di resistenza al sentimento fondamentale, e questo l' abbiamo chiamato oggettivo [estrasoggettivo] (1). Or di questi due modi (sebbene ciascun porga un testimonio verace alla intelligenza) quello però che è principale, e fondamentale è il soggettivo; e su questo si fonda l' oggettivo [estrasoggettivo] : però la verità di questo dalla verità di quello interamente dipende (1). Or dunque, o noi non conosciamo cosa alcuna di vero intorno alla sostanza corporea, o pure dobbiamo a quel primo modo far fede. Ciò ha massimamente luogo trattandosi del corpo proprio, che noi percepiamo per un sentimento spontaneo fondamentale. L' unica maniera di conoscere che abbiamo un corpo si è questo sentimento appunto: e questa maniera è infallibile: perocchè l' essenza del corpo sta in questo sentimento, o certo da questo sentimento ci è immediatamente fatta percepire, consistendo questa essenza 1 in un agente; 2 che produce in noi quel sentimento diffuso nella estensione. Or venendo ad applicare questi principii al mistero Eucaristico; io domando se Gesù Cristo sente il proprio corpo nella dimensione di spazio circoscritta dalla specie del pane e del vino. Non si può rispondere, che o sì, o no. Ora se si risponde, che Gesù Cristo in quella dimensione di spazio che dalle specie Eucaristiche è circoscritta non ha il sentimento fondamentale del proprio corpo, in tal caso non si verifica che esista nello spazio disegnato dalle specie consecrate il corpo di Cristo: perchè l' essenza del corpo proprio di ciascuno sta nell' essere materia e confine al sentimento fondamentale. Se poi si risponde di sì; in tal caso convien dire che il sentimento fondamentale di Cristo oltre estendersi a quel luogo, che occupa in cielo, si stenda anche a quegli spazii che vengono dai confini del pane e del vino consecrati determinati. E in tal caso il corpo di Cristo non sarebbe restato quel di prima; ma si sarebbe veramente ingrandito, estendendosi agli spazii che dalle specie sono coperti. Perocchè io ho dimostrato che la vera grandezza del corpo è quella che viene determinata dal sentimento fondamentale, nè può essere altramente (2). Ora nel sistema degli avversarii si pone che il corpo di Cristo colla transustanziazione non acquisti aumento di sorta. Dunque racchiude l' assurdo, perchè d' una parte lo distende il sentimento fondamentale, il che equivale a ingrandire il corpo di Cristo: dall' altra [si] esclude qualunque ingrandimento; il che è contraddizione in terminis . Che se alcuno volesse dire, che v' ha l' estensione del sentimento fondamentale e però l' ingrandimento del corpo; ma che questo ingrandimento non nasce per aggiunta di particelle corporee avvicinate: costui cadrebbe in gravi errori. Perocchè: 1. E` assurdo che v' abbia il sentimento fondamentale corporeo là dove non v' ha materia corporea, che ne è il termine. 2. Questa materia non potrebbe essere creata, perchè non si vuole che niuna materia s' aggiunga al corpo di Cristo. Però si porrebbe la materia col porre il sentimento, ed insieme la si escluderebbe; il che è pure contraddizione. Si negherà forse che l' essenza del corpo di un uomo consista nel sentimento fondamentale del medesimo, o certo che da lui sia determinata? Dove adunque si vuol collocarla? Forse nella potenza non di agire sullo spirito (producendovi il sentimento fondamentale) ma in quella di agire sugli altri corpi esteriori? Io ho dimostrato che ciò implica assurdo, perocchè verrebbe fuori le definizione circolare: il corpo essere una potenza di agire sul corpo « idem per idem «. Ma tralasciando la dimostrazione diretta dalla falsità della dottrina che vorrebbe porre l' essenza del corpo in una potenza di agire sugli altri corpi o di produrre il moto, ecc.; io con argomenti egualmente efficaci, sebbene indiretti, verrò a convincere gli avversarii di rinunziare al loro tentativo. E a far ciò mi basterà osservare. 1. Che il corpo di Cristo nell' Eucarestia non mostra al di fuori nè la propria grandezza o forma, nè i proprii accidenti. 2. Che però l' operar suo è tutto secreto, non operando sul corpo nostro fisicamente colle forze proprie di lui, ma colle forze fisiche del pane e del vino; sebben questi cessino interamente. 3. Che quindi se l' operare all' esterno costituisce l' essenza del corpo; sotto le specie sacramentali non ci sarebbe più il vero e real corpo di Cristo mancandone l' essenza. 4. Chi poi dicesse bastare che abbia la virtù di operare esternamente, sebbene non operi; osserverei che questa virtù di operare non producendo nessun effetto fisico suo proprio non sarebbe però il corpo di Cristo, quando Cristo non n' avesse il sentimento e la consapevolezza; e se questo l' avesse, avrebbe colla consecrazione acquistato ciò che non gli si vuol dare, il sentimento fondamentale: e torneremmo ad osservar quelle cose, che abbiam toccate nell' articolo precedente. Insomma avverrebbe che fosse un corpo che nè avrebbe congiunzione sentita e proprio collo spirito di Cristo, nè con noi, in quanto sta ne' luoghi dalle specie circoscritto: il che distrugge l' idea del corpo. All' incontro bene stabilito il principio che« l' essenza del corpo umano« non consista nella sua azione al di fuori, ma nella sua congiunzione individua collo spirito da cui è informato, e con cui produce insieme il sentimento fondamentale, rimane chiarissima la verità e realtà del corpo di Cristo nella santissima Eucarestia, eziandio che egli non ferisca i nostri sensi, e non sia a noi oggettivamente [estrasoggettivamente] percettibile. Rimane la percezione soggettiva che di lui fa Cristo, e questo è il fondamento della sua verità e realità. Laonde que' filosofi che definirono il corpo un complesso di sensazioni esterne e oggettive, come Berkeley e Condillac, resero impossibile il dogma dell' Eucarestia, dove si crede la verità e realtà del corpo di Cristo, benchè manchino tutte le sensazioni esterne e oggettive [estrasoggettive] sopra di noi. Nè meglio può convenire al dogma Eucaristico il riporre nell' estensione attuale l' essenza de' corpi, come facevano i Cartesiani. Perocchè l' estensione circoscritta dalle specie dell' ostia consacrata, avendo un' altra figura e un' altra grandezza dal corpo umano, non potrebbe esser mai nè contenere il corpo di Cristo (1). Leibnizio vide l' errore di Cartesio, e s' accostò molto al vero ponendo la natura del corpo non già nell' estensione, ma nella « materia e forma sostanziale, cioè nel principio di passione e di azione« (2). » Or il collocare la natura del corpo solo in un principio di passione o di azione è troppo poco; perchè è troppo generale, conciossiachè questo descriverebbe più tosto l' essenza della sostanza in genere, anzichè quella della sostanza corporea. Convien dunque nel descrivere l' essenza del corpo, oltre porre il principio passivo ed attivo comune a tutte le sostanze, determinare altresì che cosa sia ciò che un tal principio sostanziale faccia appartenere più al corpo che ad altro essere, ciò che Leibnizio chiaramente non dice. Prosegue Leibnizio, dopo aver detto che l' essenza del corpo consiste in un principio di azione e di passione, in una facoltà attuale o entelechia primitiva, a dire, che questo sostanzial principo in cui consiste l' identità del corpo esige certe potenze ed atti secondi che sono realmente distinti dall' essenza, e che però dall' onnipotenza di Dio si possono separare interamente dall' essenza senza che questa perisca (1). Queste potenze seconde sono veri accidenti reali, non conseguenti di necessità dall' essenza del corpo, ma più veramente sopraggiunti ad esso, e per sè essenti. Due di queste qualità assolute o accidenti reali egli nota nel corpo, i quali sono la mole o potenza di resistere «pyknotes,» ovvero anche «antitypeia») e il conato o potenza di agire, ed essi son quelli che costituiscono veramente l' estensione de' corpi: il perchè l' estensione, e di conseguenza le dimensioni, e il luogo non sono cose a' corpi essenziali (2). Posta questa distinzione reale fra la sostanza del corpo e l' estensione, egli è manifesto che non solo può cessare l' estensione senza che cessi la sostanza, ma può l' estensione variare, non variando la sostanza: quindi lo stesso corpo può avere contemporaneamente più dimensioni, ovvero la stessa dimensione, lo stesso accidente reale può appartenere a diverse sostanze corporee: finalmente può rimanere la dimensione e la qualità, tolta la sostanza (3). Applicando questa dottrina intorno alla natura del corpo al mistero Eucaristico, ella suppone: 1. Che nel corpo di Cristo non sia avvenuta una mutazione di essenza, ma bensì una mutazione ne' suoi accidenti reali, quali sono la mole, il conato, l' estensione (1). 2. Che nel pane viceversa sia avvenuta una mutazione di essenza o sostanza, essendo questa cessata, rimanendo intatti i suoi accidenti reali, la mole, il conato, l' estensione. 3. Che la mutazione avvenuta nel corpo di Cristo consista in esistere oltre che nell' estensione propria, anche nell' estensione descritta dalle specie del pane: di guisa che l' identica essenza del corpo sia stata fornita di più estensioni. 4. Che la mutazione avvenuta nel pane consista nell' aver perduta la sostanza propria (se pure non si vuol dire che questa sia uscita di luogo, resasi spirituale, ciò che nel sistema Leibniziano potrebbe dirsi) e ricevuta nel luogo stesso della sostanza propria l' estensione del corpo di Cristo. Ora questo sistema difficilmente potrà soddisfare pienamente ed approvarsi da' teologi cattolici. Imperciocchè: 1. Nel mistero Eucaristico si trova sotto le specie del pane consecrato il corpo, l' anima e la divinità di Cristo. Hassi dunque a spiegare non solo come sotto le specie del pane si trovi l' identico corpo di Cristo, ma anche come si trovi lo spirito tutto intero di Gesù Cristo. Ora quel sistema non si occupa che di spiegare la presenza in più luoghi del corpo, e nulla più. 2. Si spiega egli la esistenza del medesimo corpo sotto diverse specie nel Leibniziano sistema? Forte ne dubito. Perocchè avendo distinto l' estensione del corpo dalla essenza del corpo, rimane a dimandare: ciò che voi collocate sotto le specie del pane è la sola estensione, o è anche la sostanza corporea? Se è la sola estensione: dunque sotto le specie del pane non esiste il corpo di Cristo, ma solo un suo accidente reale, che estensione si appella; il che sarebbe contro il dogma. Se poi sotto le specie del pane voi ponete la sola sostanza del corpo di Cristo senza l' estensione, vi rimarrà a spiegare come questa sostanza posta in tanti luoghi diversi non si moltiplichi (1). Di più rimarrà a dimandare, come la stessa identica sostanza di Cristo possa nello stesso tempo essere coll' estensione, e senza l' estensione. Nè vale già il dire, che si pone in due luoghi diversi in cielo, e sotto le specie del pane; perchè si parla della stessa identica sostanza metafisicamente considerata, cioè fuori di ogni luogo; la qual perciò come tale, non può dirsi essere in cielo od in terra; perocchè questo sarebbe già un dire avere determinazione di luogo, il che è contrario al concetto che si vuol formarsi della sostanza. Riman dunque a spiegare che una stessa identica sostanza per sè fuori di luogo debba esser collocata in due luoghi diversi nell' uno de' quali sia estesa, e nell' altro no, senza che perda la sua identità. Che se poi si pone sotto le specie del pane e la sostanza e l' estensione, in tal caso resta di nuovo a spiegarsi: 1. come la sostanza posta in più luoghi non si moltiplichi; 2. come l' estensione, che ha il corpo di Cristo sotto le specie dell' ostia, aggiunta all' estensione che ha il corpo di Cristo in cielo, non produca una sommaria estensione maggiore della prima; nel qual caso il corpo di Cristo si sarebbe ingrandito e disteso; 3 supponendo che sotto le specie sacramentali sussista il corpo di Cristo colla sostanza e colla estensione, che è l' unico sistema che possa convenire alla fede cattolica; rimane nel sistema Leibniziano a dimandare, la sostanza che sta sotto la specie colle sue dimensioni, è ella qualche cosa che fosse aggiunta al corpo di Cristo in cielo, o è nulla? Il Bellarmino dice che il corpo di Cristo in cielo acquistò l' essere sacramentale, il che suppone qualche mutazione essere avvenuta in lui [...OMISSIS...] . Or dunque, se il corpo di Cristo in cielo acquistò qualche cosa, se sotto le specie egli esiste colla sostanza e coll' estensione, se cosa certa è, che queste estensioni sono diverse, e che la somma di estensioni diverse forma un' estensione maggiore di prima, se in tutte queste estensioni opera la forza o sostanza corporea, che ha virtù di effondersi ed operare nell' estensione, altramente non sarebbe; rimangono dunque queste due difficoltà gravissime a superare: 1. Come il corpo di Cristo siasi ampliato. 2. E come siasi ampliato, senza aggiunta di nuova materia, la quantità della quale viene necessariamente determinata dalla estensione. Quest' aggiunta fu creata da Dio? perocchè se non fu prodotta dall' aggiunta di una materia nuova preesistente, nè da materia da Dio creata, ella non fu fatta in modo alcuno: e però cadremmo in contraddizione ponendo una giunta al corpo di Cristo, e negando nello stesso tempo la giunta stessa che noi poniamo. Conviene tutte queste difficoltà, che assai facilmente si superano nel nostro sistema, freddamente considerare e ponderare. Ma passiamo alle particolari difficoltà, che si rinvengono nel sistema del venerando Bellarmino. La sentenza di Leibnizio muove, come vedemmo, dall' aver distinta la sostanza (materia e forma sostanziale) del corpo, dall' estensione di lui prodotta dalla mole o forza di resistere e di impellere. Il Bellarmino all' incontro vide quanto forte cosa era a dire, che il corpo possa starsi privo di ogni estensione; e però immaginò di distinguere due estensioni, l' una essenziale al corpo, della quale egli non può essere spogliato senza che sia distrutto, l' altra a lui non essenziale, della quale può essere spogliato senza che perisca; l' una interna al corpo stesso, e l' altra locale o sia commensurativa al luogo che occupa (1). Ora, sebbene che il Bellarmino arrechi una ragione non solida a provare, che un corpo può trovarsi coll' estensione interna , e tuttavia senza l' estensione esterna che lo adegua al luogo (1); tuttavia la distinzione del Bellarmino trova fermo sostegno nelle dottrine intorno al corpo ed allo spazio, che io ho espresso nel Nuovo Saggio sull' origine delle idee . E veramente io ho dimostrato avervi due modi di percepire l' estensione, l' uno soggettivo , l' altro oggettivo [estrasoggettivo]; di che si può acconciamente distinguere un' estensione soggettiva da una estensione oggettiva [estrasoggettiva] : e questa appunto mi pare che possa corrispondere alla distinzione recata in mezzo dal Bellarmino, la quale, senza intenderla in questo modo, non so qual potrebbe avere significato. E veramente mi dà motivo d' interpretare in sì fatta maniera la distinzione del Bellarmino fra l' estensione interna e l' estensione esterna , un luogo del Bellarmino stesso, dove rispondendo ad una obbiezione chiarisce maggiormente il suo pensiero dicendo: [...OMISSIS...] . Or da queste parole pare potersi conchiudere, che l' estensione che attribuisce al corpo di Cristo nella Eucarestia è quella che noi chiamiamo estensione soggettiva , cioè relativa al soggetto. E certo se così dee intendersi quella che il Bellarmino attribuirebbe al corpo di Cristo nell' Eucarestia sarebbe un' estensione verissima e non già apparente: quando anzi noi abbiamo dimostrato che l' essenza propriamente dell' estensione noi la percipiamo soggettivamente, mediante il sentimento fondamentale e sue modificazioni; di maniera che la sensazione soggettiva è la misura e il fermo criterio de' giudizi che noi facciamo sull' estensione esterna ed estrasoggettiva (1). Nè s' incontra contraddizione alcuna che v' abbia l' estensione soggettiva, senza che v' abbia la oggettiva [estrasoggettiva] corrispondente. Perocchè è manifestamente un atto diverso quello che fa la sostanza corporea ponendo la estensione soggettiva , da quello che fa ponente la estensione oggettiva [estrasoggettiva] . Conciossiachè la estensione soggettiva l' abbiamo noi definita« un modo del nostro sentimento fondamentale« in quanto questo è un sentimento animale. Or questo sentimento è l' effetto di una forma che agisce nel nostro spirito e col nostro spirito; e che ivi lo produce, e lo produce col suo modo dell' estensione soggettiva; di maniera che questa estensione noi la percipiamo immediatamente col sentimento fondamentale; e la forza che la produce, considerata come cosa congiunta col suo effetto esteso, è il corpo nostro proprio. All' incontro l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] è quella che percipiamo quando un corpo esteriore modifica il corpo nostro, e sentiamo non un sentimento spontaneo (come è il sentimento fondamentale), ma un sentimento violento, come è quello che proviamo nell' atto che un oggetto esterno agisce su di noi modificando il sentimento nostro fondamentale, col produrre qualche moto nella sua materia. Or qui è evidente la distinzione essenziale fra l' atto che produce l' estensione soggettiva, e l' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [estrasoggettiva]. L' atto che produce l' estensione soggettiva opera immediatamente sul nostro spirito. L' atto che produce a noi l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] non opera sul nostro spirito (almeno immediatamente), ma opera sulla materia del nostro sentimento fondamentale; e se noi troviamo l' identità delle due estensioni non è per altro se non perchè l' estensione esterna viene da noi commensurata e immedesimata coll' estensione interna, nel modo che ho spiegato nel Nuovo Saggio , e non per altro. Or l' azione sopra uno spirito e l' azione sopra un corpo sono azioni essenzialmente diverse, e però si possono concepire divise. Di più queste due azioni si ravvisano ne' corpi sì come sono nello stato loro naturale; ma l' azione però del corpo sopra il nostro spirito è anteriore all' azione de' corpi esterni sopra il corpo nostro; e quella basta a farci concepire un corpo esteso. Dunque alla vera essenza del corpo esteso non appartiene che la estensione soggettiva, e non involge punto di contraddizione, che rimanga privo dell' estensione oggettiva [estrasoggettiva] a quella posteriore, e da quella essenzialmente distinta. E in vero se il corpo nostro continuasse ad essere da noi sentito col sentimento fondamentale, ma egli cessasse di agire interamente su corpi esterni di guisa che non cadesse più sotto il senso degli altri uomini: questo corpo avrebbe tutta la sua estensione soggettiva, e tuttavia avrebbe perduta la estensione oggettiva [estrasoggettiva]; egli continuerebbe ad agire sull' anima nostra, e avrebbe cessato di agire sul corpo degli altri uomini, azioni e facoltà assai disparate. E questo parmi che molto probabilmente possa essere lo stato del corpo glorioso in quei momenti, ne' quali cessava dal rendersi sensibile esternamente; ne' quai momenti, sebbene non feriva i sensi organici degli Apostoli e de' discepoli, non continuava meno per questo ad essere congiunto coll' anima di Cristo, nè meno continuava ad essere in quest' anima il sentimento del corpo al quale era unito (1). Or sebbene un corpo perda la sua estensione oggettiva [estrasoggettiva] cioè rattenga l' atto di quella forza che il fa operare sugli altri corpi; non perde per questo, come osserva ottimamente il Bellarmino, la stessa facoltà di operare all' esterno (2): di che viene che questa facoltà, nel caso de' corpi gloriosi, possa or porre l' atto suo, or raffrenarlo, e così or apparire visibile, or invisibile, ora tangibile ed ora intangibile. Ma or applichiamo questa dottrina intorno all' estensione al modo onde il corpo di nostro Signore si trova nell' Eucaristia. Primieramente un corpo umano, il quale conservasse l' estensione soggettiva, sarebbe in uno stato il quale sebbene relativamente al soggetto senziente esisterebbe come prima, avrebbe le stesse dimensioni e ogni parte fuori dell' altra; tuttavia relativamente a' corpi esterni sarebbe intieramente come se non fosse, non avrebbe ad essi alcuna abitudine nè di luogo, nè di azione, cioè di quell' azione che costituisce l' estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] od esterna . Ora questo farebbe intendere quello che dice S. Tommaso, che il corpo di Cristo si trova nell' Eucaristia illocalmente , cioè non come una quantità dimensiva; ma come una sostanza (1). Perocchè la sostanza del corpo si mantiene, quand' anco ella non si commisuri a un luogo cioè al suo spazio esterno, la qual commensurazione di S. Tommaso viene a corrispondere a quella che noi chiamiamo estensione oggettiva [ estrasoggettiva ] (2). Sebbene però S. Tommaso insegni che il corpo di Cristo non è in questo Sacramento sì come in luogo, quando anzi non vi potrebbe stare in tal forma, conciossiachè il luogo che presta questo Sacramento al corpo di Cristo è molto più ristretto della dimensione propria di esso corpo di Cristo; sebbene insegni pure, che il corpo di Cristo non sia in questo Sacramento per modo di quantità dimensiva, nè circoscrittivamente; tuttavia il santo Dottore aggiunge, che, se non in forza del Sacramento, tuttavia per ragione della reale concomitanza si trova altresì nell' Eucaristia tutta la quantità dimensiva del corpo di Cristo. Ora egli sembrano queste cose apparentemente contradditorie; giacchè se si adduce per ragione del non essere il corpo di Cristo nel Sacramento come in luogo, quell' essere il luogo del Sacramento assai minore del corpo stesso di Cristo (3), una tal ragione vale per escludere la quantità dimensiva assolutamente, o per virtù del Sacramento, o concomitante. Ma l' angelico Dottore agevolmente si concilierebbe seco medesimo, ammettendo la distinzione suggerita dal Bellarmino, e intendendo che il corpo di Cristo è privo nel Sacramento della quantità dimensiva esterna , ma non della quantità dimensiva interna e a lui essenziale . Or questa, essendo essenziale al corpo, dee esserci in virtù del Sacramento; quella non abbisogna che vi sia se non virtualmente , e però in conseguenza della naturale concomitanza dovrebbe esservi, ma per un modo portentoso soprannaturale vien ritenuta indietro, rimanendo la potenza e non l' atto. O pure può distinguersi nella quantità dimensiva interna, la determinata misura di questa, e intendere che per concomitanza è questa determinata misura che si trova nel Sacramento, non una quantità dimensiva interna qualunque, che pur vi dee essere, come elemento della corporea sostanza. Ma qui comincia tosto a manifestarsi una difficoltà. Se il corpo di Cristo è al tutto privo della estensione oggettiva [ estrasoggettiva ], egli non ha più alcuna relazione cogli altri corpi, o co' luoghi che occupano; come dunque si dirà che il corpo di Cristo sia sotto le specie del pane e del vino? come si dirà ch' egli, se non è circoscritto dalla propria estensione oggettiva [estrasoggettiva] sia però circoscritto dalla estensione esterna e oggettiva [estrasoggettiva] del pane e del vino stesso? (1) non però che quella estensione sia un suo accidente, ma sì il limite del luogo entro il quale egli si trova. Insomma come manca l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del corpo di Cristo, così rimane l' estensione oggettiva [estrasoggettiva] del pane colla quale il corpo di Cristo ha quelle relazioni che aveva il pane prima della transustanziazione, fuor solo che il pane era il soggetto di quella estensione sensibile, quando tale non è il corpo di Cristo. Come dunque si spiega questa relazione, quando la quantità che conserva il corpo di Cristo è al tutto priva di relazione a corpo estraneo o a luogo alcuno? (2). .......... La base del Cristianesimo è il dogma del peccato d' origine. A redimere l' umana famiglia dalla perdizione, in cui l' ebbe rovesciata la disubbidienza del padre suo, disubbidienza da S. Agostino detta « ineffabiliter grande peccatum (1), » il Figliuolo di Dio si fece carne e fu crocifisso. Egli illuminando gli uomini ciechi a conoscere Iddio, e donando loro i mezzi co' quali sollevarsi all' eternal beatitudine, fondò il Cristianesimo. Laonde fu sempre riconosciuto, che l' attentato di distruggere il dogma del peccato originale mira a distruggere tutta intera la cristiana religione; la cui causa, come disse divinamente S. Agostino, si racchiude in due uomini, Adamo e GESU` Cristo. A malgrado tuttavia dell' importanza di questo dogma dell' originale peccato, furon sempre, non solo tra gli infedeli, ma tra i cristiani altresì, alcuni che l' attaccarono, e mossero ogni pietra, ogni ingegno adoprarono affin di distruggerlo. Se cercasi la cagion di una guerra così incessante contro tal verità, la cui tradizione conservossi da tutti i popoli, conviene rinvenirla nella stessa importanza principalissima di quel dogma; contro al quale il demonio fa gli sforzi maggiori; perchè bene intende che smossone il fondamento, l' edifizio, per magnifico e solido ch' egli sia, precipita da sè stesso; onde così lusingasi di crollare agevolmente tutta intera la cristiana religione solo che gli riesca di levarle di sotto il primo fondamento, sul quale ella si erige, quello dell' originale infezione. Tale è l' intendimento costante dell' inimico dell' uman genere, e di tutti i suoi figliuoli. Al quale empio divisamento del primo autore del male apparecchia poi il camino l' umano desiderio di conoscere, e la limitazione ed infermità della mente e la manchevolezza dell' umana virtù; onde l' uomo si appiglia più presto al partito di affermare il falso, che di confessare la propria ignoranza, e piuttosto di dire a sè stesso di non vedere, imagina de' vani fantasmi e dice di vedere. Laonde essendo il peccato di origine uno de' veri i più misteriosi, a tal che ebbe a scrivere S. Agostino: [...OMISSIS...] ; niuna maraviglia è, che gli uomini ripugnino ad aderirvi; come ripugnano sempre a credere quello che non intendono, e che per tante vie eglino tentassero di spacciarsene col proprio ragionare, quanti erano i nodi che vi rinvenivano al loro debol pensiero insolubili. L' uomo in una parola ristretto alle forze della sua mente e dalla grazia non sollevato più su, è agevolmente razionalista; agevolmente ei si persuade di dover ritrovare nella forma della propria ragione ogni scibile. Quest' è il fonte da parte della natura umana degli sforzi fattisi in tutti i tempi affin di distruggere il dogma del peccato originale. Non tutti però quelli, che all' annullamento di questo primo dogma della Religione diedero opera, ebbero egualmente coscienza di tentare con ciò un' impresa criminosa. V' ebbero in prima di quelli, che dichiarandosi di professare il Cristianesimo e d' ammettere tutte le verità rivelate, negarono in pari tempo colle parole e co' concetti loro il peccato d' origine. Furono condannati dalla Chiesa; e dall' istante che la Chiesa definì esplicitamente il vero, e dannò quella loro dottrina, la coscienza del delitto che comettevano, rimanendo pertinaci in tale errore, non potea più loro mancare. Ma il dogma del peccato d' origine non ebbe solo a nemici quegli eretici manifesti. L' astuzia del diavolo primo autor suo, e il razionalismo a cui l' uomo spesso, come dicevamo, si lascia guidare, non cessò mai di dare in lui de' secreti morsi. Ed ecco in che modo si venne a questo dogma pregiudicando, fino a distruggerlo interamente co' concetti, nel tempo stesso che lo si confessava colle parole . Le varie difficoltà, che alla ragione dei singoli uomini presenta il peccato d' origine si vollero ad ogni costo superare. E certamente sarebbesi prestato un servizio grandissimo alla stessa religione coll' appianare quelle apparenti difficoltà. Laonde molti vi lavorarono intorno a buon fine, e con animo reverente e sommesso al sentir della Chiesa; di che nacquero le diverse scuole teologiche, che convenendo tutte in quello che trovavano dalla Chiesa chiaramente ed espressamente definito, e sempre pronte a condannare quel che fosse per condannare la Chiesa, e a difendere quello che la Chiesa fosse per definire; giustamente si meritarono egual protezione dalla Santa Sede, che non di rado con divina sapienza e moderazione difese la libertà di ciascuna, a niuna d' esse permettendo di condannare le altre con quell' autorità che sol si compete al supremo apostolico Magistero. All' opposto ingiustamente gli empi e i profani straziarono le cristiane Scuole, traendone cagione dalle differenti opinioni in cui si dividono. Conciossiacchè la divisione nelle mere opinioni non toglie l' unità concordissima della fede, nè pregiudica necessariamente all' intima carità, la quale semplifica i cuori coll' identità di ciò che cercano tutti, benchè per vie diverse, la verità; e di ciò che tutti amano e per cui tutti egualmente i veri teologi di qualsivoglia Scuola lavorano, Iddio. All' incontro quello sforzo di arrivare allo stesso fine per varie strade, giova non poco alla scienza; che di varie considerazioni, quasi di raggi da diverse parti riffettenti e convergenti, s' illustra. Che se si volessero le ragioni indagare del diverso opinar delle Scuole, forse questa si troverebbe esser una: l' essersi una Scuola allarmata maggiormente di uno degli estremi errori, e un' altra l' essersi maggiormente allarmata d' un altro; onde ciascuna, volendosi provvedere e cautelare principalmente in contro a quell' errore che più prese a temere e a combattere, s' appigliò a quelle sentenze e a quelle espressioni, che dall' odiato errore più le paresser lontane. Di che ben può dirsi, che l' emulazione che mostraron fra loro queste Scuole fosse una cotal gara a chi meglio evitasse gli scogli degli errori e la purezza della dottrina intemerata conservasse. Le quali cose affermando, io non ignoro però, nè dissimulo a quali sconvenevoli modi, a quali imputazioni calunniose si lasciassero talor andare i disputatori, con tanto dolor de' fedeli, e troppo n' ho provato io stesso l' aculeo; ma dico essere questi peccati degli uomini e non delle Scuole, i quali furono già da me nei due libri precedenti sufficientemente ripresi e lagrimati. E però in quest' ultimo reputo tali increscevoli difetti umani lasciar da parte; e della sola dottrina storicamente venir ragionando, senza badare se con modi o decenti o sozzi dagli scienziati ella si maneggiasse. Laonde senza dubitazione ripeto, essere le Scuole tutte della Chiesa cattolica in sè stesse commendabilissime, benchè sieno in opinare diverse; conciossiacchè tutte fanno finalmente una guerra incessante agli errori; benchè non tutte guerreggino gli errori stessi egualmente, ma l' una più questo, e l' altra più il suo opposto. Così, per tornare a noi, nel definire in che consista l' essenza del peccato originale, una Scuola si pose maggiormente in guardia contro all' errore di annientare questo peccato, per non rendersi in quanto a' concetti simile alla setta eretica de' Pelagiani, poco giovando di confessarne nudamente l' esistenza, a chi ne annulli l' essenza; un' altra per lo contrario vegliò contro l' errore opposto, che è quello di collocare il peccato colpevole e demeritorio in qualche cosa indipendente dalla libera volontà, per non accompagnarsi alle sette eretiche de' Calviniani, de' Bajanisti e de' Giansenisti. E chi non dovrà lodare questo studio di evitare e di combattere gli errori opposti dalla Chiesa proscritti? Or non si dee egli dire giustamente, che lo spirito di queste Scuole benchè varie, è finalmente uno solo e il medesimo, se tutte contendono a questo solo, di mantenere intatta la purità della fede? Dividansi adunque, come dicevo, dalla tendenza inerente alle varie Scuole cristiane, la quale è lodevole, i difetti de' singoli uomini, che di esse Scuole si dichiararon campioni; e non s' incarichino le Scuole stesse di questi umani difetti; perocchè non sono essi essenziali alle Scuole, anzi dallo spirito di esse naturalmente son condannati. Colla quale distinzione rimangono le Scuole cattoliche a pieno giustificate; nè ciò, in cui peccarono gli scrittori, benchè non possa a meno di registrarsi nell' istoria delle teologiche discussioni, dee recar ombra alcuna alla gloria delle Scuole medesime, ma solo dar materia di compatimento in verso gli erranti, e servir d' esempio funesto da doversi diligentemente evitare. Che anzi se cotesti difetti trapassano certo segno, quelli che se ne rendon colpevoli, già per ciò solo non appartengono più a campioni delle Scuole cristiane; rifiutandosi queste di riconoscere per loro seguaci coloro che eccedono di sì grave foggia. Perocchè distinguansi tre maniere di peccati, in cui avviene che incappano i difensori dell' una o dell' altra sentenza. La prima sono le maniere ingiuriose che usano contro quelli che opinano da lor diverso; e di questo ho già sopra toccato. La seconda sono le calunnie che gli opinanti reciprocamente s' appongono. Della quale sconcezza, ecco la cagion principale. - Una Scuola, dicemmo, si mette principalmente in sospetto d' uno degli errori estremi proscritti dalla Chiesa: un' altra si mette in sospetto principalmente dell' errore opposto. Indi sorge agevolmente in fra le Scuole una cotale diffidenza; perocchè l' una Scuola non vede che l' altra si allontani tanto da confini dell' errore da essa più aborrito, quant' ella studia di tenersene lontana. Indi una cotal vigilanza de' campioni d' una Scuola, in su' campioni dell' altra tutt' intenti ad osservarsi scambievolmente, se forse chi diversamente opina porga il piede un cenno più là della linea del giusto confine, vicino al quale egli cammina, per sorprenderlo in fallo, ed avvisare il pubblico dello sdrucciolo, se così incontra, sicchè non ne soffra danno la fede. Ma talora l' accusatore, non ne sa abbastanza, od ha l' occhio traballante per umane passioni; ed allora gli avviene, che invece d' accusare, calunnia il suo confratello, che gli pare trascorso, quando pure di quà dal limite ancor si tiene. Onde nel secolo scorso principalmente, non pochi Molinisti furono ingiuriosamente denunziati per Pelagiani ; ed a non pochi Agostiniani o Domenicani s' appose in quella voce, ingiuriosamente del pari, la taccia di Bajanisti e di Giansenisti , con gravissimo scandalo e rumore de' fedeli. Ma la sapienza e giustizia dell' Apostolica Sede venne in soccorso degli ingiustamente vituperati e difese la giusta libertà di opinare, finchè i teologi si contenessero entro la sfera delle scolastiche opinioni, fuor d' essa non punto disorbitando. E questa è la terza maniera appunto di peccati, a cui posson trascorrere; il disorbitar voglio dir da' limiti delle Scuole, talmente impaurendosi d' un errore, di quell' errore che la Scuola maggiormente e più direttamente impugna, da non guardarsi poi abbastanza dall' errore opposto, e inavvedutamente cadervi. Ora io dicevo, che se un campione dell' una o dell' altra delle Scuole, ammesse nella Chiesa cattolica, traboccasse così fattamente nell' errore, questi oggimai cesserebbe dall' esser campione della sua Scuola; perocchè ognuna delle Scuole cattoliche egualmente proscrive gli errori tutti dalla Chiesa proscritti, nè niuna d' esse riconoscerebbe per suo l' errante, quando d' errore, contro una chiara definizione della Chiesa, fosse convinto. Laonde nella mia Risposta ad Eusebio, io dissi, che invano egli sarebbesi lusingato, che una delle Scuole cattoliche gli venisse in aiuto: conciossiachè s' ella è Scuola cattolica non può in alcun modo dar braccio all' errante (1). E però in quello che fin qui io scrissi intorno al peccato d' origine, non ho inteso punto di condannare alcuna opinione tollerata e nelle Scuole difesa; ma solo un' opinione così fattamente esagerata e sformata, che, quanto a me sembra, ella già non può più appartener ad una Scuola cattolica di vero nome, ma solo al novero degli errori. Tale io considerai la sentenza, che« l' essenza del peccato d' origine consiste unicamente nella privazione, in cui nasce l' uomo, della grazia santificante, e che l' uomo ora delle naturali sue forze e facoltà sia provveduto tanto perfettamente quanto sarebbe, se fosse stato creato in questo stato di pura natura, che la Chiesa ha dichiarato, contro Bajo, possibile«. Agli occhi miei questa sentenza contiene il concetto stesso dell' eresia pelagiana; salvochè i difensori moderni di essa si dichiarano sottomessi alla Chiesa; dichiarazione che dovendovi supporre sincera, dimostra che essi la credono dall' eresia pelagiana diversa, il che può escusare davanti a Dio le loro persone, non può migliorare la condizione della loro sentenza. Nel che si osservi, che le menti degli uomini per la naturale loro limitazione ed infermità, mantengono anco nelle cose teologiche quella legge medesima che costantemente si manifesta nella storia dell' altre discipline, massime poi di quelle, in cui le passioni e l' animo umano prende gran parte; legge per la quale l' opinione s' incammina verso uno degli estremi, ma giuntavi nel movimneto suo progressivo e trapassatolo, ritorna indietro, ed all' estremo opposto s' incammina, che pure incautamente trapassa; per oscillar poi di bel nuovo fra i due errori contrarii, rimanendo sul territorio della verità quel tempo che abbisogna a percorrere il cammino intermedio, sia in una, sia nell' altra direzione; ma rompendo interamente e manifestamente all' errore nel fornire del viaggio, quando ella è già tanto andata da trovarsi nell' assurdo così addentro da non poterne più disconvenire e da vergognarsene ella medesima. La qual legge presiede sì fattamente all' incessante moto della mente umana, che nulla vi si sottrae fuor che la divina fede; la quale è immobile come la verità, nè tale ella sarebbe, se fosse sol' opera dell' uomo e non dono di Dio. Laonde havvi questa differenza fra quelli che nella fede teologica dimoran costanti, e quelli che ne van privi o che l' abbandonano; che le menti di quest' ultimi oscillano perpetuamente da uno all' altro estremo errore in ogni cosa; là dove le menti di que' primi si stanno ferme nel vero definito per cosa di fede, e solo oscillano in quelle cose circa le quali l' opinare è permesso. Ma poichè come si dànno de' veri credenti, così si dànno altresì di quelli che cedono alla naturale pendenza dell' inferma e breve loro ragione, anche quando questa li preme e sollecita a distaccarsi dalla fede; così parlandosi dell' università degli uomini, noi possiamo agevolmente additare quella legge come seguita nelle materie sia sol filosofiche, sia anco teologiche. La qual legge è il filo conduttore nel labirinto de' pensamenti umani, troppo necessario a conoscersi da coloro che tolgono a narrare le vicende delle scienze e delle dominanti opinioni; nè tuttavia guari ancor conosciuto da tali istorici. Che se noi ci restringiamo a considerare quai pensieri fece sollevare nelle menti lo spettacolo dell' umana perversità, ci sarà facile rinvenire i due estremi, tra di cui quelli andarono vibrandosi, i quali sono stati, volendo noi designarli con due vocaboli, il fatalismo ed il razionalismo . Definiremo in questo senso il fatalismo quel sistema che toglie a spiegare il male morale ricorrendo a una causa qualsiasi in esclusione della libertà umana: gli uomini fino che trovansi sotto il dominio di questa opinione fanno uno scarso uso del proprio ragionamento; e piuttosto aspettano e vogliono ricevere ogni lume direttamente dalle nature invisibili e superiori, quasi da maestri d' infallibile autorità, e da signori d' insuperabile potenza. L' intelligenza in tale stato è contemplante, la volontà non delibera: segue impetuosamente la propensione. Definiremo all' incontro il razionalismo per quel sistema che a spiegare il bene ed il male morale non ricorre che alla sola ragione e alla libertà. L' uomo cade in tale opinione, quando prima sente con vivezza il proprio sviluppo: lo sorprendono i passi che fa la propria ragione, e lo svolgimento impensato della sua attività è tale che lo inebbria di sè stesso: allora crede d' esser capace di tutto, di poter saper tutto, e di rendersi da sè stesso indipendente da chichessia, o perverso o virtuoso. Il mondo orientale presenta massimamente il dominio del primo sistema; ma la Grecia, la ragione greca, l' attività greca fa comparire in iscena il secondo. Nè questa doppia tendenza dell' umana mente potea distruggersi col sopravvenire del Cristianesimo, perocchè l' uomo non si distrugge; e quella doppia tendenza è una legge costitutiva della umanità. Nella Chiesa adunque videsi lo stesso alterno movimento delle menti: una tendenza al fatalismo (nel senso detto) fino a precipitarvisi; ed una tendenza al razionalismo , fino parimenti a rimanere dal suo vortice assorbiti. Ma di presente, si dimanderà, a quale stadio sono pervenute le menti? verso quale de' due errori camminano? e però qual de' due è oggidì più pericoloso alla fede? Non è difficile il rispondere a queste domande: perchè la cosa è patente; non havvi uomo di buon senso al mondo, che non vegga il male del secol nostro essere il razionalismo , come ho già altrove detto. Ma giova, che noi veggiamo per quali vie poi siamo venuti a questo nostro periodo di tempo; e perciò che tocchiamo della storia degli accennati due errori, a quel modo e in quelle forme, delle quali vestiti essi sursero nel seno stesso della Cattolica Chiesa. All' epoca in cui nacque il Cristianesimo, il fatto umanitario, che riscosse l' attenzione più profonda, fu quello della corruzione dell' uomo. Tutti i secoli e tutte le nazioni concordemente attestavano, che l' uomo soggiace al male non meno morale, che fisico, dal dì che nasce. Questo fatto, da nessuno chiamato in dubbio, volevasi pure spiegare. Il Cristianesimo si presentava appunto al mondo promettendo di sciorre l' enimma. Quelli che si dipartirono dalla spiegazione cristiana produssero le prime eresie (1). I primi di costoro furono de' filosofi Samaritani, Dotiseo, Simone, Menandro; e il fecero in modo che detrassero alla libertà umana: era il sistema orientale del fatalismo. Così il mago Simone non solo considerava l' uomo come soggetto alla tirannide degli Angeli, ma era altresì cotanto alieno dall' imputare la virtù e il vizio all' umana libertà, che egli attribuiva all' opera degli angeli malvagi la persuasione messasi fra gli uomini, che v' abbiano delle buone e delle cattive azioni, degne le prime di ricompensa, le seconde di castigo. Insegnava che niuna azione è buona o rea di sua natura, e che si salvavano gli uomini solamente per la grazia che usciva da lui, non pe' meriti loro (2). L' opinione che attribuiva la creazione del mondo, ed il male a cui l' uomo soggiace, agli angeli, uscita da Samaria, fu propagata nella Siria dall' antiocheno Saturnino, e nell' Egitto da Basilide, entrambi discepoli del Samaritano Menandro. Saturnino aggiunse, creato il mondo da sette angeli, un de' quali essere il Dio degli Ebrei. Basilide e il suo contemporaneo Carpocrate erano d' Alessandria, cioè di quella città dove s' erano unite insieme le tradizioni orientali, le dottrine ebraiche, specialmente mediante la versione in greco de' libri sacri, e le dottrine di Platone; da' quali tre elementi risultava la Scuola di Alessandria. Quindi la dottrina intorno agli angeli come creatori del mondo e autori di tutto il male, vestì in mano di questi due eresiarchi delle forme più filosofiche, e propriamente platoniche : gli angeli ebbero delle genealogie: il mondo fu creato dagli angeli inferiori, il capo de' quali era il Dio degli Ebrei (1). Convien però osservare che in Platone s' eran riunite le due filosofie di Pitagora e di Talete, la tradizionale e la razionale, l' orientale e la greca (2); e che la scuola alessandrina, essenzialmente orientale, avea dal filosofo greco ritolto, per così dire, quello che egli stesso avea tolto all' oriente, assai più che quello ch' egli avea posto di greco e di razionale ne' libri suoi. Laonde la filosofia alessandrina7greca in alcune forme ed espressioni è veramente orientale nel fondo e nella sostanza (1). Cerdone fece fare un passo innanzi all' erronea dottrina de' nominati eretici. [...OMISSIS...] Questi eretici attribuirono agli angeli la creazione del mondo e l' origine del male. Con Cerdone già appariscono i due principii supremi, l' uno del bene e l' altro del male, chiaramente espressi: il principio del male è lo stesso angelo creatore de' precedenti eresiarchi, da lui convertito in un Dio. Il Massuet, dopo avere accennate le dottrine di Cerdone, dice: [...OMISSIS...] . Marcione che gli fu discepolo insegnò la stessa dottrina de' due principii, e via più sviluppolla, via più depravandola. Perocchè se Cerdone avea detto che quel Dio a cui era dovuta l' origine della legge e de' profeti non era buono, confessava però che era giusto; ma Marcione, dice S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Tertulliano di Marcione scrive così: [...OMISSIS...] , donde vedesi, come appoggiava all' autorità delle Scritture inspirate l' empietà dei due principii. E poichè il disordine della carnale concupiscenza è quel sintomo patentissimo dell' umana corrotta natura, che più colpì le menti de' popoli e de' pensatori; perciò quindi appunto venivano a detrarre gli eresiarchi che nominammo, alla bontà del Creatore, perchè il supponevano autore della concupiscenza, la reità della quale rifondevano nella pravità della materia, di cui il corpo umano componesi, e questa concupiscenza disordinata, in cui sentivano il male insito alla natura, traevali ad odiare le nozze, e a molte altre strane e nefande empietà (4). Taziano (5), Bardesane filosofo cristiano d' Edessa (6), Apelle (7), Zarane (.), ed altri abbracciarono gli stessi errori già grandemente diffusi nel secondo secolo della Chiesa. Nello stesso secolo Sciziano (1), il suo discepolo Terebinto (2), divennero i maestri del persiano Manete, la cui nascita sembra doversi collocare nel secolo terzo non molto inoltrato (3). Con Manete la mente umana giunse a toccare quest' ultimo estremo errore che toglie a spiegare il fatto dell' esistenza del mal morale mediante una necessità di natura: il sistema del necessitismo fu compiuto, ebbe forme sistematiche e certe: non gli mancò che di propagarsi e radicarsi: perocchè ogni sistema suol sempre avere due periodi oltre a quelli del decadimento; nel primo de' quali vien formandosi sì quanto al concetto e sì quanto alle forme determinate e alle espressioni tecniche; nel secondo poi vien diffondendosi e stabilendosi nelle menti. Ora il sistema che del male formava una propria natura e sostanza compì, come dicevo, il suo primo periodo in Manete, che perciò appunto divenne il più celebre degli eretici che avevano insegnato un tale errore, e quello che gli lasciò definitivamente il suo nome. Laonde S. Cirillo Gerosolimitano dice acconciamente: [...OMISSIS...] . L' errore di Manete è manifestamente distruttivo della libertà; conciossiacchè per ispiegare l' esistenza del mal morale si dimentica al tutto di questa causa, e ricorre ad un principio eterno che è quell' immaginata sostanza del male, onde riman sottomesso, come osserva S. Agostino, Iddio stesso alla necessità del peccato: [...OMISSIS...] . Dalla qual maniera di fatalismo invano cerca il Beausobre (1) di purgare cotesti eretici; perocchè quantunque accordassero la libertà all' uomo nella stato d' innocenza, tuttavia lo stesso peccato originale, e per esso la perdita della libertà, viene da essi al malo principio e non alla libertà umana come a causa riferito: [...OMISSIS...] . Onde non considerano la concupiscenza come il segno della viziata natura e come un accidente di questa, ma come una cotale sostanza intrinseca rea. [...OMISSIS...] Di che avviene, che la concupiscenza, secondo questi eretici, non è un vizio che si sani, come diciam noi cattolici, ma è una sostanza sola che si separa, e sanno ancora, quegli acuti ingegni, ch' ella prenderà poi alla fine una forma rotonda come in igneo globo racchiusa! [...OMISSIS...] Tale è la teoria manichea portata alla sua perfezione. Questa dottrina fu sempre condannata dalla Chiesa come contraria alla rivelazione: fu anche sempre riprovata dalla ragione, alla quale non fu difficile il dimostrarla generatrice di assurdissime conseguenze. Ma per confutarla non ragionando dall' assurdo, ma dall' erroneità intrinseca del principio dal quale moveva, egli era necessario sci“rre la grande questione dell' origine del male, sulla difficoltà della quale insistevano i Manichei (1). Ora il chiaro ed ineluttabile scioglimento d' una questione sì ardua deesi a S. Agostino. Questo Padre dimostrò chiaramente che il male non è alcuna sostanza, ma solo un' accidentale privazione, e che la sua possibilità giace nella limitazione inerente alle creature tutte (2). Con questa filosofica scoperta l' eresia dei Manichei fu atterrata nel suo principio: fu annullata in teoria per sempre. Ma come accade che l' errore abbia i due periodi accennati della formazione e della propagazione ; così parimente la teoria vera, che contrapposta alla teoria erronea per diretto e per intero l' annulla, ha pur essa i medesimi due periodi dell' invenzione o formazione cioè e della propagazione e convalidazione: e il secondo di questi suol riuscir lungo, allorquando trattasi d' una questione difficile, in cui suol esser più facile intendersi la proposta che la soluzione; come avvien pure di quella del male. Perocchè egli è agevol cosa l' accorgersi che la natura del male difficilmente si scuopre; ma si richiede poi sottile ingegno a ben penetrare com' essa sia una privazione, un accidente della natura che riman priva di ciò che alla sua interezza è richiesto. Di che si spiega come il trovato nobilissimo di S. Agostino che dimostrò il male essere cosa negativa, benchè recidesse la radice della manichea pravità e assicurasse per sempre il trionfo del vero; tuttavia non potè trattenere il Manicheismo dal suo corso, sicchè egli non compiesse il suo secondo periodo, quello della propagazione. Al qual corso venne in aiuto l' ignoranza e barbarie de' tempi di mezzo, ne' quali la società degli uomini ebbe abbandonata quasi del tutto la contemplazione de' veri teoretici, per la vita pratica e bellicosa; sicchè troppo dovea esser difficile in quella notte il sollevarsi fino alla specolazione del dottor d' Ippona intorno alla natura ed origine del male. Io trascriverò qui, acciocchè si vegga di che vita tenace fu l' errore dei Manichei, cominciato co' primi eresiarchi che insorgessero a infestare la Chiesa, voglio dire da Dositeo e Simone, anche dopo che fu teoreticamente distrutto da S. Agostino, quanto si legge nel dizionario delle Eresie stampato dal Contin in Venezia (1) intorno al secondo periodo, che è quello della propagazione, come abbiam detto, di questa eresia. [...OMISSIS...] Tale è la storia del necessitismo apparito sotto questa prima forma de' due principii supremi inventati per dar ragione dell' esistenza del male (1). Veggiamo ora come la ragione umana s' avviò per la via contraria, e giunta all' altro estremo ruppe al razionalismo . Come la prima forma completa che prese nella Chiesa il necessitismo fu l' eresia manichea , così la prima forma completa in cui si manifestò il razionalismo fu l' eresia pelagiana . Se si cercano le traccie di questa eresia nelle antiche opinioni, vedesi d' essa, quello che si vide da noi del manicheismo; cioè ch' essa non si formò già d' improvviso nella mente di un solo individuo, ma cominciata a nascere nelle menti umane fino dalla più remota antichità discese da una mente nell' altra tradizionalmente, s' accrebbe, si sviluppò e finalmente prese il nome da quell' individuo che le diede forma ed espressione determinata e la rese celebre per ostinato conflitto. Richiamisi la riduzione ch' io feci di tutta la storia della filosofia a due grandi Scuole secondo i due metodi tradizionale e razionale: delle quali Scuole furono rappresentanti nell' antichità Pitagora e Talete, l' Italia e la Ionia. Ora la Scuola ed il metodo razionale parve sempre tendere ad escludere le cause soprannaturali influenti sulla volontà umana e però ad esagerare le forze del libero arbitrio (2); onde non senza ragione può rinvenirsi il seme del pelagianesimo nell' elemento razionale dell' antica filosofia. Infatti come l' errore del Manicheismo consiste nell' attribuire il bene ed il male ad una causa al tutto diversa dalla volontà umana e però necessitante; così l' errore opposto, del Pelagianismo, ridotto alla sua ultima espressione, consiste nell' attribuire tutto il bene ed il male morale alla libera volontà dell' individuo in cui esso bene ed esso male si trova; e« in non voler riconoscere che un' anima umana possa venir affetta dal male morale senza che non solo la sua volontà, ma la sua libera volontà vi incorra, sicchè dipende interamente dalla libertà umana l' essere immune da qualsivoglia male morale« e però l' esser giusto. Di che deducevano che non si poteva comunicare il peccato per generazione; non entrando nell' uomo il peccato che per la sua libera volontà; e quindi non potea nascer l' uomo infetto dal peccato d' origine; nè vi potea essere tentazion di peccare così forte, che a vincerla fosse impotente la libertà umana tale quale l' uomo l' ha per natura; alla quale libertà umana riducevano però ogni grazia veniente da Dio. Udiamo S. Agostino ad esporre quest' eresia che sopravenne al necessitismo de' Manichei. [...OMISSIS...] Dal qual luogo chiaramente si vede, che la sostanza dell' eresia pelagiana consisteva nel disconoscere quella specie di moralità buona o malvagia che è nell' uomo non per cagione d' una libera volontà (2), ma per l' influenza che ha sull' umana natura un' altra causa, o rea e introducente nell' uomo il peccato, o buona e introducente nell' uomo la giustizia e la santità; benchè la causa rea non sia il principio cattivo de' Manichei, ma sia il guasto della natura umana, effetto della libera volontà del primo uomo quanto all' origine sua, ma quanto alla comunicazione agli individui che si riproducono nell' umana specie, effetto necessario dell' umana generazione. La causa poi che introduce nell' uomo la moralità buona, la giustizia e la santità, e che non è la libera volontà dell' uomo stesso, altro non è che Iddio stesso che comunica la sua grazia anco a quelli che non sono pervenuti ancora al libero uso delle loro potenze e con essa li santifica, come avviene co' Sacramenti amministrati agli infanti. Il principio adunque e tutta la sostanza della pelagiana eresia consiste in questa proposizione:« Ogni moralità buona o rea d' un individuo umano ha per causa la sua libera volontà, fuor della quale non vi ha altra causa che possa produrre nell' uomo il male od il bene morale« (1). Da questo principio discendevano i due errori capitali de' Pelagiani: 1. Dunque non esiste il peccato originale, cioè un mal morale che si contrae per generazione; 2. Dunque non esiste la grazia con cui Iddio ci santifica, o ci aiuta a' singoli atti della perfetta virtù, cioè un bene morale che viene dall' azione che Iddio fa nell' anima nostra senza la nostra libera volontà, o in aiuto di questa. Due altri errori dovevano del pari provenire da un tal principio eretico ed empio: 1. Che essendo la libertà dell' uomo sola causa del bene e del male morale dell' uomo, dunque non si dànno tentazioni nè sigolarmente prese nè complessivamente irresistibili; ma l' uomo colla sua libera volontà può vincerle tutte e conservare la giustizia; 2. Che il pregare Iddio perchè ci aiuti a vincere le tentazioni e a praticare la giustizia sia superfluo ed assurdo; perocchè non essendo che la nostra libera volontà la causa del bene e del male morale; dataci questa, Iddio non può far altro, giacchè egli è causa estranea al libero nostro volere, e però incompetente alla produzione in noi, sia in tutto sia in parte, della moralità. De' quali due errori così parla S. Agostino, scrivendo al Vescovo Ilario (2): [...OMISSIS...] . Ora se col solo libero arbitrio dalla grazia non aiutato dalla grazia non si può essere perfettamente giusto, nè vincere tutte le tentazioni; dunque il solo libero arbitrio non è l' unica causa che produca nell' uomo l' ingiustizia e la giustizia, il peccato e la santità: conciossiachè vi ha una causa che trascina in peccato senza che il libero arbitrio possa difendersene, se dalla grazia di Cristo non è assistito; e questa stessa grazia colla quale l' uomo acquista la forza di vincere i suoi nemici pienamente e costantemente s' ottiene quando la si domanda; nè solo Gesù Cristo c' insegnò a domandar questa grazia, ma anche a temere santamente e prudentemente con questa, pregando ogni giorno che tuttavia allontani da noi le tentazioni di peccare: [...OMISSIS...] . Laonde di nuovo espone così S. Agostino la pelagiana eresia: [...OMISSIS...] . Laonde se la carità, che è la giustizia soprannaturale, viene immessa nelle anime nostre non dalla libertà nostra, ma dallo Spirito Santo; egli è forza adunque dire che l' unica causa della moralità buona nell' uomo non è la libertà dell' uomo; ma lo Spirito Santo stesso è anch' egli causa, e prima, della giustizia perfetta e soprannaturale. Onde S. Agostino continua: [...OMISSIS...] . I quali argomenti che S. Agostino arreca contro a' Pelagiani, deducendoli da' testi più ovvii delle divine Scritture, sono efficacissimi. Perocchè se la moralità buona o rea dell' uomo non avesse altra causa che la sua libertà, non sarebbe mai soggetto alla necessità del male morale; e però sarebbe superfluo ch' egli pregasse Iddio che non l' adducesse in tentazione, anzi non vi sarebbe tentazione; perocchè il concetto di tentazione suppone una causa esterna che induca al male. Ma se il male non si potesse operare se non col libero arbitrio, niente vi potrebb' essere, non dico che necessitasse, ma nè pure che inducesse e sollecitasse al male. Giacchè chi è sollecitato al male da altra causa che dalla sua libertà, dee riconoscere una forza traente al male; e quindi non può più fare l' arbitrio causa unica del male. E qui si consideri come il principio indicato, cioè« il libero arbitrio (o sia la libertà che i teologi chiamavano d' indifferenza, e che io chiamai bilaterale) è la causa unica di ogni moralità« trae dietro a sè la conseguenza che« il libero arbitrio può da sè solo operare tutte le virtù che la ragione dimostra convenire all' uomo«. Vero è che pare a primo aspetto che quest' ultima proposizione non sia contenuta nella prima; ma la cosa non istà così. Perocchè la prima proposizione suppone che non vi sia moralità possibile se non è prodotta dal libero arbitrio. Dunque quando la ragione dimostra all' uomo qualche opera morale o di dovere o di sopraerogazione; ella altro non fa che mostrargli un effetto del libero arbitrio. Il libero arbitrio adunque dee essere la causa pienamente sufficiente a compiere quell' azione (o complesso di azioni). Altrimenti nell' uomo vi avrebbe lotta: la ragione dichiarerebbe cosa moralmente buona quella che non sarebbe tale, perchè non sarebbe effetto del libero arbitrio. L' onnipotenza adunque del libero arbitrio per esercitare la virtù ed evitare il male è conseguenza irrepugnabile del principio che« la causa della virtù e della innocenza« è il solo libero arbitrio dell' uomo. Laonde chi dicesse, che« il libero arbitrio è la causa di ogni moralità buona o cattiva«, ma ch' egli tuttavia non può fare certe cose imposte dalla ragione come moralmente buone, e che allora queste cose cessano dall' esser morali; sarebbe costretto a riporre fra' caratteri delle cose moralmente buone non solo l' ordine della ragione, ma anco le corrispondenti forze della libertà: il che s' opporrebbe d' una parte al dettame della ragione, che dichiara assolutamente quelle cose moralmente buone; dall' altra al senso comune degli uomini. D' altra parte il dire in generale che« se la nostra volontà fosse piegata al male necessariamente, il male a cui fosse indotta non sarebbe più male morale«, indurrebbe sempre la conseguenza che non ci dovesse esser più bisogno assoluto che tutti gli uomini pregassero Iddio di rimettere loro i debiti, o di non abbandonarli alla tentazione, ma liberarli dall' inimico. Sia dunque che si ammetta l' una o l' altra di queste due opinioni, o che il libero arbitrio possa sempre da sè solo vincere le tentazioni del male morale, o che, non potendo, cessi il male dall' esser morale; ne viene egualmente che quelle preghiere non sieno necessarie a tutti affatto gli uomini. Perocchè nella prima opinione non sarebbe assurdo trovarsi un uomo che essendosi conservato da sè giusto e volendo tuttavia conservarsi tale, non avesse bisogno nè di pregare per la remissione de' suoi debiti, nè d' invocare la protezione divina contro le tentazioni. Egualmente nella seconda opinione, in cui tutto ciò che avviene per necessità e non per arbitrio si suppone non esser morale: conciossiachè potrebbe quell' uomo usare delle forze del suo arbitrio, senza darsi cura che queste fossero molte o poche, giacchè tutto ciò a cui tali forze venisser meno non sarebbe mal morale, nè egli obbligato perciò ad evitarlo: nè si vedrebbe ragione perchè il Signore avesse ordinato di pregare e adoperare altri mezzi; i quali posto anco che fossero utili, non riuscirebbero però mai assolutamente necessarii per mantenersi innocenti e viver giusti (1). Del rimanente, l' opinione che la causa del bene e del male morale sia la sola libertà umana è essenzialmente gentilesca: gli stoici specialmente l' ebbero pronunciata con tutta precisione (2): dall' una parte gli uomini senza esperienza della grazia divina colla sola natura difficilmente potevano sollevarsi a concepire la possibilità d' un aiuto soprannaturale: dall' altra parte considerando l' uomo speculativamente, come suol fare il razionalismo, e non vestito co' suoi accidenti di fatto, riesce spontaneo il pensiero, che la volontà possa tutto ciò che la ragione le dimostra doveroso; tanto più che la volontà operando sempre spontaneamente non può concepire come essa non possa volere in altro tempo praticamente quel bene che di presente vuole speculativamente, sembrandole che il volere sia sempre cosa presta e alla mano. Così come il Manicheismo nacque all' aspetto dell' uomo com' è di fatto per natura servo del mal morale, il pelagianismo nacque alla considerazione dell' uomo com' è in idea, ordinato e costituito pel bene morale. Gli autori del primo errore considerando esclusivamente il fatto del male pretesero ragionarvi sopra (1), e invece di ragionare immaginarono un' ipotesi vana a cui dieder cieca credenza; agli autori del secondo errore considerando esclusivamente l' essenza dell' uomo senza l' accidente del male, pretesero pure di ragionarvi sopra e ne cavarono l' onnipotenza dell' umano arbitrio al bene ed al mal morale. In origine furono razionalisti entrambi, perchè entrambi, scossa la fede alla Chiesa, s' abbandonarono alla sola ragione; ma i primi v' aggiunsero l' osservazione storica, le tradizioni e l' imaginazione: i secondi, esclusi questi dati, alla sola speculazione, o piuttosto all' astrazione della natura umana s' attennero; e però furono costantemente razionalisti. Questo doppio metodo si trovò sempre mescolato nell' antica filosofia; e però niuna meraviglia che non solo del manicheismo, ma ben anco del pelagianismo sieno stati ripetuti i semi fin da Pitagora. Infatti a Pitagora ed a Zenone S. Girolamo riporta l' eresia di Pelagio (1); e più tardi l' opera del filosofo pitagorico Sesto contribuì non poco ad inserirla nelle menti (2). Nella Chiesa però il razionalismo e il conseguente pelagianismo non appare coi primi eretici: è un' eresia che venne introdotta più tardi dalla filosofia Alessandrina. In Origene si è formulata, espressamente manifestata; benchè questo dottore gittò i semi, certamente senz' accorgersene io credo, del razionalismo , non meno che del necessitismo ; che sono i due sommi generi a cui si possono ridurre le eresie tutte, coll' abbracciare, senza troppa considerazione, i dommi della filosofia pagana, che come vedemmo racchiudeva in sè i principii di quelli opposti errori. Onde l' Imperator Giustiniano nelle lettere pubblicate contro Origene in virtù della sentenza del Sinodo, lettere che il Diacono Liberato (3) dice essere state sottoscritte dal Papa Vigilio e dagli altri Patriarchi, chiamò Origene maestro de' pagani, de' manichei e degli ariani (4); e Teofilo Alessandrino l' appella l' idra di tutte ugualmente l' eresie (5). Ma S. Girolamo il fa specialmente precursore e principe (6) de' Pelagiani, di cui il nomina anche l' amoroso (7). E veramente in Origene non solo v' è il principio di Pelagio, che « del male e del bene morale d' un individuo non siavi altra causa che il libero arbitrio dello stesso individuo«; » ma se ne traggono altresì le conseguenze con logica insistenza. In primo luogo osservo, che se il male morale dipende dal solo libero arbitrio, dunque l' uomo col suo libero arbitrio può essere immune da ogni peccato. Da questa conseguenza nacque, che l' eresia pelagiana fu chiamata «anamartesias,» cioè dell' impeccabilità (.), o per dir meglio il poter non peccare si avvera egualmente sia che si consideri il libero arbitrio come capace di tutto il bene, sia che lo si consideri come debole e di molte cose incapace. Perocchè nell' uno e nell' altro caso l' uomo si manterrebbe giusto usando di quelle forze che ha del libero arbitrio; nè potrebbe essere strettamente obbligato ad accrescere queste forze; perocchè non si dà vera obbligazione, se non d' evitare il vero peccato, e il non far quello che eccede le forze del libero arbitrio non è vero peccato (1). Non solo dunque il cristiano, ma ancora l' infedele può essere in un tale sistema giusto da sè medesimo. - Tuttavia Origene, d' alta mente e seco stesso coerente, dava all' umana libertà tutte le forze necessarie al compimento d' ogni virtù e perfezione; perocchè egli vedeva bene che la virtù e la perfezione è tale per sè, e tale perchè tale viene indicata dalla ragione, anche prescindendo dalla considerazione del potere che s' abbia accidentalmente l' umana libertà. Onde quanto la ragione dimostra estendersi la virtù, tanto egli fu costretto d' estendere le forze dell' arbitrio, sola causa di quella; perchè quella non sarebbe stata virtù, se non fossero state queste forze [tali] da produrla. Indi l' error suo fu chiamato non solo dell' impeccabilità «(anamatesias)» ma ben anco dell' impassibilità «(apatheias)» perocchè dava all' arbitrio fin la potenza di rendersi l' uomo immune da ogni commozione e senso del male (2). In secondo luogo, o convien dire che i demonii e l' anime dannate all' inferno non sono in istato di peccato, ovvero che sono in tale stato pel proprio libero arbitrio, pel quale ci vogliono stare. Ma se lo stato di peccato di tali demonii ed anime dannate è prodotto dall' attuale loro libero arbitrio; dunque non sono costretti di stare in un tale stato, ma col medesimo loro libero arbitrio possono abbandonare il peccato. Indi l' errore d' Origene che negava l' eternità delle pene dell' inferno. Certo Origene così scrive: [...OMISSIS...] . In terzo luogo dovea discendere, che il concetto della grazia dovea cangiarsi: non potea più essere un aiuto che accrescesse le forze della volontà e della libertà, ed anzi l' elevasse all' ordine soprannaturale, e così concorresse a produrre il merito soprannaturale; ma una conseguenza, una mercede del merito stesso. Indi l' errore che la grazia non si desse da Dio agli angeli ed agli uomini gratuitamente, ma secondo i meriti colle proprie naturali loro forze ottenuti, che è il primo de' tre principali errori notati da S. Agostino ne' Pelagiani là dove dice: [...OMISSIS...] . Ora Origene toglie a provare che la grazia venne da Dio data agli angeli ed agli uomini secondo i lor meriti nella citata opera de' principii (2). In quarto luogo, se dal solo merito, effetto della libertà sua naturale, procede, che Iddio comunichi la sua grazia all' uomo, come accade poi che nella Scrittura si legga, che certi bambini non ancor giunti all' uso della riflessione ed all' esercizio della loro libertà, si leggano da Dio santificati, poniamo, un S. Giovanni Battista? - Questa riflessione condusse Origene a imaginare co' Platonici, che le anime abbiano esistito prima de' corpi, e in quella vita precedente abbiano meritato o demeritato. Onde del Battista scrive così: [...OMISSIS...] . Ecco qua come questo uomo riputasse cosa ingiusta che Iddio donasse la santità, senza che il libero arbitrio se l' avesse prima meritata; come appunto poi dissero i Pelagiani. Di che veniva che la stessa unione ipostatica di Cristo dovea essere il conseguente effetto de' meriti dell' anima di Cristo precedentemente alla sua Incarnazione; errore che la mente d' Origene conseguente a sè medesima non si stette dal derivare (4). I Pelagiani da prima il ricusarono; ma la logica invitta di S. Agostino stringendoli (5), nè trovandone alcuna uscita; in fine anche quell' errore contenuto nel principio da cui partirono e che non volevano abbandonare dovetter ricevere. In quinto luogo, scorgesi che l' eresia pelagiana contiene nel suo seno la Nestoriana; perchè supponendo che la persona umana di Cristo avesse meritato l' unione colla divina, induce la sussistenza di quella, epperò le due persone; cosa dal dottissimo Cardinal Noris già acutamente osservata: [...OMISSIS...] . Da' quali errori e da tant' altri che dal principio pelagiano derivano ineluttabilmente, si fa manifesto, che come fu detto a ragione del manicheismo che conteneva nel suo seno tutti gli errori, così S. Girolamo potè scrivere la stessa cosa dell' eresia a quella contraria, cioè del pelagianismo, dicendo di questa, [...OMISSIS...] . Dopo Origene vennero i suoi discepoli, in fra i quali fu forse il più celebre Didimo d' Alessandria. Questi aveano già diffusi gli errori in Oriente, quando ancora non si conoscevano nell' Occidente. S. Girolamo fa precursore del Pelagianismo Evagrio da Ibora, Gioviniano Rufino (1): Orosio aggiunge a questi nomi un Priscilliano (2). Evagrio avea pubblicato il libro dell' imperturbabilità «(peri apiaethas)» bevendo sempre al fonte d' Origene; il qual libro fu fatto conoscere alla Chiesa occidentale dalla versione latina lavorata da Rufino (3). Teodoro Vescovo di Mopsuesta avea pur egli nell' Oriente seminato errori alla pelagiana eresia partenenti (4). Insegnò l' errore che Adamo sarebbe morto, eziandiochè non avesse peccato. Mario Mercatore pretende che un tale errore di Teodoro passasse in Rufino, e da Rufino il ricevesse il monaco Pelagio, che diede il suo nome all' eresia. Perocchè dopo accennato quest' ultimo error di Teodoro così soggiunge: [...OMISSIS...] . Scrisse altresì Teodoro cinque libri contro i Pelagiani, e li intitolò Contra asserentes peccare homines natura, non voluntate , libri che esistevano al tempo di Fozio; il quale ne riporta alcuni brani (6). Il brano seguente dimostra chiaro la mente pelagiana di questo celebre Vescovo. Ecco le parole di Teodoro: [...OMISSIS...] Nelle quali parole si nega la trasmissione del peccato d' origine, e ciò pel solito principio di naturalismo di non riconoscer peccato in un individuo nel quale non sia libera la volontà. Scorgesi essere sfuggita a questi eretici la distinzione fra la volontà che opera spontaneamente, e la volontà che opera liberamente; sicchè, disconosciuta quella e osservata sol questa, parve loro assurdo che dar si potesse peccato dove non era libertà, appunto perchè altra volontà non conoscevano, che la libera. Il vero è che senza volontà non si dà peccato; ma senza libertà sì; e però che l' uomo può essere peccatore per natura, giacchè l' esser peccatore per natura non esclude la volontà, ma solo la libertà; conciossiachè l' essere peccatore per natura, non altro vuol dire se non« l' avere per natura una volontà peccatrice«, ed indocile, o sia difficilmente arrendevole all' ordine della legge. All' incontro questi eretici opponevano la natura alla volontà; quasichè tutto che è natura non potesse essere volontario, e niun mezzo ci avesse fra la mera natura irrazionale e la volontà. L' errore dunque della loro mente, che li travolse nell' eresia si fu non aver osservato che fra la natura irrazionale e la libertà vi è la natura razionale, avente cioè ragione e volontà: intralasciato nel loro calcolo questo elemento, dovettero rovesciare necessariamente o nell' assurdo di ammettere un peccato dove non v' ha volontà, o nell' eresia di negare che i bambini nascono col peccato: per evitare quel primo precipitarono in questo secondo (1). .......... 1. A maggiore dilucidazione della dottrina svolta in questa Collezione di Opuscoli che per la terza volta esce in luce aumentata, e nelle altre opere dell' Autore, specialmente per ciò che riguarda il peccato originale e l' umana libertà, e ad evitare che niuno nè per ignoranza nè per malizia possa attribuirle un significato diverso dal suo proprio e naturale, che è quello dell' Autore medesimo, ci par utile di premettere un compendio della dottrina medesima sciolta da quelle questioni incidenti che sono inevitabili nelle lunghe trattazioni polemiche. 2. E per seguire qualche ordine nel riepilogo che ci proponiamo di fare, parleremo in primo luogo dell' origine e dell' esistenza del peccato originale propagato ne' posteri, di poi della sua natura, in terzo luogo delle sue conseguenze, e finalmente del suo rimedio, indicando i principali errori contro alla fede cristiana intorno a ciascuno de' quattro punti indicati. 3. Dobbiamo però avvertire che essendo tali quattro punti intimamente tra loro connessi, non se ne può rigorosamente e al tutto separare la trattazione. Gli errori infatti che furono insegnati intorno alla natura del peccato originale de' posteri per lo più furono una conseguenza degli errori professati intorno alla sua origine e propagazione, o anche viceversa; e così del pari gli errori che furono spacciati intorno alle conseguenze di esso peccato procedettero dagli errori intorno all' origine e alla natura del medesimo, e quindi pure provennero gli errori circa la maniera e la possibilità di rimediare al medesimo, come meglio apparirà nella stessa esposizione. 4. La causa del peccato in universale è, e non può esser altro, che la libera volontà della creatura (1): [...OMISSIS...] . Chi vuole impugnare una verità così chiara, viene di necessità a cadere nell' uno o nell' altro de' due opposti assurdi, o di far che lo stesso Creatore Iddio sia la causa del peccato (3), o di ammettere il sistema de' Manichei, che insegnavano essere esistiti ab aeterno due principii indipendenti, l' uno buono e causa del bene, l' altro malo e causa di ogni male. 5. Discendendo al particolare, il peccato, a cui soggiacque la creatura umana, entrò da principio nel mondo per la libera trasgressione che del divino precetto fece il primo uomo da Dio creato, stipite di tutta l' umana schiatta. 6. Le funeste conseguenze di questa prevaricazione caddero non solamente sopra di lui che la commise, ma ancora sui suoi figliuoli, poichè colla sua disubbidienza Adamo perdette la santità e la giustizia ricevuta da Dio non solo a sè stesso, ma ancora a noi tutti, e come egli, nostro progenitore, rimase macchiato e incorse nell' ira e nell' indignazione del suo Fattore e soggiacque alla morte che gli era stata minacciata ed alla schiavitù del demonio, deteriorato tutto tanto per riguardo al corpo quanto per riguardo all' anima; così pure in noi sua propaggine, insieme colle penalità del corpo, trapassò lo stesso peccato, che è morte dell' anima. Laonde questo peccato, uno nella sua origine, trasfuso nei posteri divenne proprio di ciascun umano individuo, e in esso lui inesistente, e non restò più alcun rimedio che potesse guarire l' uomo e rilevarlo da un tanto male, se non il merito del solo Mediatore Signor nostro GESU` Cristo. Tale è la dottrina cattolica intorno all' origine ed alla propagazione del peccato originale definita dogmaticamente nella sessione V del Sacrosanto Concilio di Trento. 7. Le principali eresie che insorsero contro questo dogma, fondamento di tutto il sistema della cristiana religione, furono due, che, denominate dai più celebri e più noti loro autori e fautori, furono dette Pelagianismo, condannato da più Concilii, tra i quali dal Milevitano (anno 416) e dell' Arausicano II (anno 519) che ottenne autorità di Ecumenico, e dai Santi Pontefici Innocenzo e Zosimo; e il Giansenismo condannato pure colla Costituzione In eminenti , 6 marzo 1642, di Urbano VIII, e colla Bolla Apostolica Cum occasione , 31 maggio 1653, di Innocenzo X, e di nuovo con quella Vineam Domini Sabaoth , 16 luglio 1705, di Clemente XI, che rinnova le precedenti, e da altre bolle e decreti comunemente noti; e lo stesso pravo sistema era stato già anche anteriormente riprovato e dannato in Baio e in altri dottori. .. Ora che Adamo avesse trasgredito il divino comandamento, e così col peccato della sua disubbidienza incorso nell' ira di Dio, su di ciò non v' ebbe questione n`' coi Pelagiani, nè coi Giansenisti che ammisero questo vero della fede cattolica. Ma tutta la controversia versò intorno alla propagazione del peccato adamitico ne' posteri, e intorno alle sue tristi conseguenze in questi prodotte. 9. Quelli che professavano l' eresia pelagiana negarono, ora espressamente, ed ora copertamente e subdolamente, la propagazione e però l' esistenza del peccato originale nei posteri. Il sistema giansenistico per lo contrario, spingendosi all' altro eccesso, non si contentò di asserire colla Chiesa cattolica che il peccato originale si propaga ne' posteri, ma pretende che trapassasse in questi di più di quello che è necessario a costituire il peccato, e principalmente che nell' uomo, quale nasce in istato di natura caduta, rimanesse in conseguenza del peccato, estinto ogni libero arbitrio, ovvero ogni possibilità di farne uso, per operare un bene morale qualunque, necessitato dalla dominante cupidigia a far sempre il male, senza un aiuto di grazia. [...OMISSIS...] 10. Tutto il fondamento delle dispute che queste due schiere opposte di eretici agitarono tra loro e coi dottori della Chiesa cattolica, era la diversa maniera di concepire la natura del peccato. I Pelagiani ragionavano in questo modo:« Tale è la natura del peccato, che al tutto ripugna che un vero peccato trapassi da un uomo in un altro per via di generazione, senza alcun libero consenso da parte di chi lo riceve«. Sono parole di Giuliano di Eclana appresso S. Agostino: [...OMISSIS...] . Quindi riguardavano come un assurdo la trasmissione dell' originale peccato ne' bambini, e con mille cavillazioni cercavano di torcere ed eludere i luoghi della sacra Scrittura, ne' quali s' insegna questo dogma. I Giansenisti per l' opposto sostenevano, che la natura del peccato non è tale che esiga essenzialmente l' esercizio del libero arbitrio nella persona che vi soggiace, bastando a costituire il peccato quel libero arbitrio che esisteva nel capo dell' umana stirpe, e fin qui non dissentivano gran fatto da S. Agostino; ma mentre il santo Dottore applicava un tale principio a quel solo peccato che era nel tempo stesso e peccato e pena d' altro peccato liberamente commesso, cioè dell' originale (2), essi lo estendevano a tutti i peccati che l' adulto commettesse nello stato di natura lapsa, e sostenevano che [...OMISSIS...] : che è la terza proposizione condannata siccome eretica in Giansenio; e che quindi tutti gli atti degli infedeli, o di quelli che non sono in grazia, e i movimenti involontarii della concupiscenza, fossero necessariamente liberi e peccati, perchè fatti senza coazione, benchè per necessità, venendo tutti informati dalla libertà con cui fu commesso da Adamo il primo peccato. Che anzi la dottrina di Baio intorno alla definizione del peccato andava anche al di là di questa di Giansenio: poichè egli asseriva, che all' essenza del peccato non apparteneva nè pure il libero arbitrio che era in Adamo, nè alcun rispetto ad un' altra volontà qualunque, onde tra le proposizioni condannate come sue si annoverano queste: [...OMISSIS...] vero è che Baio soggiungeva, che quando poi si tratta della questione della imputazione del peccato, allora conviene ricorrere alla volontà che ne fu causa: [...OMISSIS...] . Ma nel rispondere appunto a questa nuova dimanda stabilisce il cardine di tutto il suo erroneo sistema; perchè invece di ricorrere a una volontà libera, come fu quella di Adamo, ricorre alla volontà del bambino stesso, privo ancora di libertà, e la dichiara subbietto capace di imputazione: e ciò perchè non fa un atto contrario, che non è in suo potere di fare. [...OMISSIS...] Onde fu giustamente condannata anche quest' altra proposizione: [...OMISSIS...] . Giansenio dunque avendo forse presente la condanna da cui era stato colpito Baio, ricorse alla libera volontà di Adamo per ispiegare come possa aver condizione di peccato quel de' bambini, così scrivendo: [...OMISSIS...] dove si vede che Giansenio rifugge a una volontà, e propriamente alla volontà libera di Adamo, per conservare al peccato originale la ragione ossia la natura di peccato , mentre Baio, ricorre alla volontà del bambino per ispiegare l' imputazione e non la ragione di peccato, per la quale egli accumulando errore sopra errore, non esige l' intervento di alcuna volontà nè libera nè necessitata, nè di quella di Adamo, nè di quella del bambino. 11. Questa breve esposizione intanto basta, acciocchè apparisca, come la questione suscitata da' Pelagiani intorno alla propagazione e all' esistenza del peccato originale nei posteri, si ridusse tutta in quella della natura e della definizione del peccato , e dell' applicazione di questa definizione al peccato che, secondo il dogma cattolico, l' uomo eredita per via di naturale generazione dal primo padre che prevaricò colla disubbidienza al divino precetto, e come questo fu il punto fondamentale, sul quale si accese la controversia sia tra i Pelagiani e i Giansenisti, sia tra queste due eresie opposte, e il cattolico insegnamento. Su di che si possono fare le seguenti considerazioni: a ) Che la controversia prese il carattere di questione filosofica: poichè è proprio del filosofo l' investigare le definizioni e la natura delle cose; e conviene infatti ricorrere all' osservazione e al raziocinio filosofico per iscoprire la natura della volontà umana e i suoi diversi modi di operare, la natura dell' obbligazione morale, del peccato, ecc.. Onde Pelagio ricorre sempre per difesa del suo errore alla filosofia di Aristotile (1). b ) Che qui si trova pure la ragione per la quale S. Agostino dica del peccato originale: [...OMISSIS...] . Per colui che crede alla cattolica Chiesa cessano tutte le difficoltà, e non c' è verità che sia più nota, per la predicazione de' sacerdoti, dell' originale peccato. Ma se taluno desidera di avere di questo peccato, oltre le fede, anche l' intelligenza, allora trova che esso è molto secreto e difficile a penetrarsi, perchè conviene di necessità che la mente di un tal uomo entri nelle più difficili e sottili ricerche filosofiche intorno alla natura intima dell' umana libertà e delle sue relazioni col bene e col male morale, da cui solo si ritrae la natura di ciò che è retto ed onesto, e di ciò che è male e peccato. E i Dottori stessi della cristiana fede furono spinti nel campo di tali ricerche dalla necessità di ribattere e di confutare le eresie, che, malamente filosofando sulla natura del peccato originale, o tentarono di distruggerlo e di dichiararlo impossibile come i Pelagiani, o ne esagerarono e sformarono così fattamente la natura, che il peccato originale che ammettevano non era più quello che la Chiesa proponeva a credere ed annunziava ai popoli per la predicazione, il che fecero i Giansenisti. c ) Che questo pure dà ragione del perchè non vi ebbero forse altre sette che fossero tanto sottili e cavillose e così ricche di scaltrezze e di effugii come queste due de' Pelagiani e de' Giansenisti, perchè nelle materie di raziocinio filosofico, massimamente quando si tratta di una materia difficile come questa, e non accomodata alla intelligenza di tutte le menti, i sofismi e gli equivoci, e le distinzioni, non hanno, per così dire, alcun termine. 12. Come dunque la dottrina cattolica tiene il mezzo fra i due opposti errori del Pelagianismo e del Giansenismo, così il teologo che espone e difende questa dottrina non soddisferà al suo uffizio se non presenta un sistema, nel quale non uno solo di quegli errori, ma entrambi sieno evitati ad un tempo. Non dovrà dunque combattere, a ragion d' esempio, il Pelagianismo in tal modo, che lasci poi nella sua dottrina le radici del Giansenismo: e viceversa dovrà ben guardarsi dal pericolo che per uno zelo troppo esclusivo di abbattere il Giansenismo non iscada egli stesso, come troppe volte è avvenuto, fino a favorire il Pelagianismo. A soddisfare adunque a questo primo uffizio del teologo cattolico è rivolta la dottrina contenuta in questi Opuscoli, di cui qui diamo il compendio. 13. Il secondo uffizio del teologo cattolico (ed è anche un secondo carattere, a cui si può riconoscere la verità e la sufficienza del sistema che si oppone ai detti errori) si è, che il sistema che egli propone sia tale che valga a distruggere entrambi quegli errori sotto tutte le forme di cui possano rivestirsi, cioè che li colpisca nella loro essenza, e non solamente in qualche loro espressione verbale, o forma particolare, a cagione specialmente dell' indole loro sottile e sofistica. Al qual fine si avrà presente la sentenza di S. Ilario, che [...OMISSIS...] . Colle quali parole non solo s' insegna di non sottilizzare sulle parole, quando queste nulla contengano di profana novità, ancorchè nove, ma servano a più chiaramente e precisamente fermare la verità cattolica; ma s' insegna ancora a non perdonare all' errore, ancorchè vestito di parole e frasi cattoliche, ma che nel loro contesto non nascondono meno per questo un senso eretico o certo erroneo. 14. E infatti i detti errori si sono talora accompagnati o coperti con tali espressioni, che alla loro onesta apparenza ingannarono i giudici stessi. Di che per dare qualche esempio tolto dall' eresia pelagiana, a tutti è noto come Pelagio ingannò i Vescovi palestini confessando il peccato originale, mediante subdola restrizione, per la quale intendeva che il peccato di Adamo passasse ai posteri per imitazione e non per la naturale generazione : come impose ancora a Papa Zosimo intendendo sotto il nome di grazia la legge e la dottrina, o una grazia data secondo i meriti: come lo stesso Celestio sorprese del pari il Santo Pontefice Zosimo, con modi e forme che potevano avere un senso ortodosso, ma che, rimanendo indeterminate, ammettevano un altro senso eterodosso, che era quel dell' eretico. E per venire a' sistemi più recenti, si dirà forse che sia un confessare a sufficienza il dogma dell' originale peccato nei bambini, quale lo confessa la Chiesa cattolica, il dire, che esso non è peccato simpliciter , ma secundum quid , e quadantenus solamente, come si esprime un recente teologo? E chi non sa, che ciò che simpliciter non è, si può negare con tutta verità senz' altra restrizione o aggiunta di parole? E non è forse questa l' eresia pelagiana? Del pari, il dire, che il peccato originale ne' bambini non tragga seco alcuna dannazione , non è un negare sostanzialmente il detto peccato? (2). Giacchè come ci può essere un vero peccato senza dannazione, sotto un Dio giusto? E non sembrano parole uscite dalla bocca di Pelagio quell' altre d' un teologo, che ci dimanda: [...OMISSIS...] . Poichè anche Pelagio negava il peccato di origine asserendo essere cosa ingiusta che i bambini fossero puniti senza attuale loro demerito. Ma la Chiesa cattolica insegna tutto il contrario, e chi non può intendere, creda. Ora sarà forse interdetto e non anzi lodevole il difendere la purità della fede anche contro queste forme di pelagianismo? Chi riputerà a colpa il farlo? E d' altri simiglianti sistemi che, sotto il pretesto specialmente di inveire contro il Giansenismo, fomentano l' errore contrario, parleremo in appresso. Passiamo ora adunque a parlare della natura del peccato originale de' bambini, in cui sta, come dicevamo, tutto il nodo della questione. 15. Affine di procedere con lucido ordine e presentare colla maggior chiarezza possibile una dottrina così difficile com' è quella della natura del peccato originale ne' bambini, di cui dice S. Agostino: « quo nihil est ad intelligendum secretius, » conviene che premettiamo alcune nozioni generali, di cui dovremo poi fare nell' applicazione un uso frequente. 16. La moralità buona o cattiva consiste nell' abitudine o relazione in cui sta la volontà dell' uomo inverso alla legge o naturale o positiva (2). 17. Come questa abitudine è varia e di specie e di grado, così lo stato morale dell' uomo ammette altrettante varietà di specie e di grado, quante sono le varietà possibili di essa abitudine. 1.. Una varietà importante dello stato morale dell' uomo nasce dalla doppia attività di cui è fornita la sua volontà, secondo la qual doppia attività ella agisce in due maniere ben distinte. Poichè essa si può considerare come una parte essenziale della natura umana, e, come natura, ella è obbligata a certe leggi naturali, dalle quali non si può mai dipartire nel suo operare, senza distruggere sè stessa. Ma queste leggi non determinano in tutto il modo del suo operare, e però ella è ancora una potenza, alla quale, salve le dette leggi, rimane un' attività di operare liberamente . Tanto poi allorchè la volontà umana opera come natura, quanto allorchè ella opera liberamente, il suo modo di operare è sempre spontaneo , e però è sempre libera dalla coazione: ma non si dice che opera liberamente, se non quando il suo operare non solo è spontaneo, ma indipendente da ogni necessità, appunto per non essere determinata antecedentemente a una cosa piuttosto che ad un' altra dalle leggi di sua natura (1). 19. Di qui nascono due diverse abitudini o relazioni della volontà alla legge, le quali dànno origine a due forme di moralità, l' una delle quali riguarda l' abitudine della volontà all' oggetto della legge come natura, la qual volontà si riferisce ad esso oggetto in un modo spontaneo, ma non libero; l' altro riguarda l' abitudine della volontà come potenza libera al medesimo oggetto. E nell' uno e nell' altro modo c' è un bene od un male morale. Così, a modo d' esempio, la volontà dei celesti comprensori portandosi tutta in Dio spontaneamente, benchè senza alcuna libertà antecedente, possiede il sommo e perfetto bene morale; e i dannati avversando spontaneamente, sebbene non più liberamente, Iddio, soggiacciono a un sommo male morale. I viatori all' opposto, quando liberamente eleggono o il bene o il male, vengono pure in possesso del medesimo e le loro azioni hanno una moralità d' altra forma, poichè dell' acquisto di quel bene e di quel male sono essi medesimi i liberi autori, a cui perciò è congiunto il merito o il demerito, come diremo. Di queste due forme di moralità noi abbiamo parlato con tutta chiarezza ed estensione nella Dottrina del peccato originale (2), nel Trattato della Coscienza (3), nell' Antropologia (4), e ne' Principii della Scienza Morale (5). 20. Dobbiamo ora notare un' altra verità dello stato morale dell' uomo, se vogliamo procedere con chiarezza nel presente argomento. La volontà umana si atteggia e si riferisce verso un oggetto non solo ne' due modi che abbiam detto spontaneo semplice e libero ; ma per ciascuno di essi in due altri, cioè o per un movimento finale , o per un movimento d' inclinazione . Ella si porta in un oggetto o per un abito o per un atto con un movimento finale , quando termina e riposa la sua azione nell' oggetto e subordina al detto oggetto tutti gli altri che non sono fini del suo atto, e vuole questi solo per lui, di modo che in essi non ama altro che la qualità che hanno di mezzi al fine. Si porta in un oggetto con un movimento di semplice inclinazione, quando è bensì propensa e attirata verso un oggetto, ma non si acquieta nè finisce in esso la sua azione; non lo prende a suo fine ultimo e assoluto, nè lo ama come mezzo, perchè esso contrasta con quell' oggetto che ella ha per fine. 21. E` ora da osservarsi, che la volontà che riguarda il fine e che vuole anche le altre cose pel fine, di maniera che ciò che vuole anche nelle altre cose non è altro che il fine (1), dicesi volontà superiore e anche volontà personale, secondo la dottrina della persona da noi data nell' Antropologia (2): la volontà poi di semplice inclinazione, che si trova in contrasto col fine voluto e amato, dicesi volontà inferiore, e non è personale ma naturale, come quando l' uomo sente nelle sue potenze un movimento che egli non vuole, e a cui contrasta colla volontà superiore. 22. Finalmente dobbiamo spiegare in terzo luogo quello che dicevamo, che il movimento finale della volontà (cioè di quella volontà che riposa in un oggetto come in suo fine, e che però dicesi superiore e personale) può essere per un atto ovvero per un abito . Ciò che osta apparentemente a questa sentenza si è la definizione della persona, che dichiara questa« un principio attivo« (3), onde sembra che un abito che non nasca da un suo proprio atto non possa chiamarsi propriamente personale, ma solo naturale. Pure considerandosi attentamente la cosa, si rileva che anche l' attività personale può ammettere modificazioni, le quali non sono e non si dicono certo atti personali, ma bensì sono passioni personali (4), e in questo senso personali si dicono. E questo accade perchè nelle stesse passioni può entrare un' attività di chi le subisce, e però come la persona è il principio supremo di ogni attività nella natura umana, ad esso è uopo attribuirsi anche questa specie di attività che si spiega col cedere all' azione, che qualche causa diversa tende a esercitare sopra la persona, che come tale avrebbe virtù di resistere (5). Poichè se non cedesse ad una tale attività (ceda poi per qualunque ragione o per una legge di spontaneità o per una elezione), se non cedesse dico, ma resistesse alla passione che si vuole esercitare sopra di lei, la detta passione non si potrebbe più dire personale, appunto perchè l' attività della persona non rimarrebbe punto modificata da essa, nè alcun abito contrarrebbe: ma essa passione si conterrebbe in sè e finirebbe nella natura, ritenendo la persona tutta intatta la sua purità e attività e indipendenza. Vero è che ogni passione e ogni debito, se non è l' effetto d' un atto della volontà finale e personale, ma venga imposto altronde all' uomo, comincia nella natura, e però dicesi naturale . E se la volontà ripugna ad esso, rimane puramente naturale, come dicevamo, e non diventa personale. Ma se la volontà, in qualunque condizione ella sia, cede e consente in esso come in suo fine (1), allora essendo sempre personale quella volontà umana che nel fine riposa, come consta dalla definizione, con questo cedere e consentire della persona, la passione e l' abito passa dalla natura ad effettuare anche essa persona, e in questo senso dicesi personale. Il qual abito, se è in sè stesso malvagio, macchia di conseguente la persona: ma qualora il cedere e il consentire che essa fa sia puramente spontaneo e non libero, non è tuttavia colpevole nè demeritorio, come diremo in appresso. 23. Di qui si può dedurre per corollario, che cosa si deva intendere quando si dice che« qualche cosa è propria di una persona«. La proprietà in genere esprime un' unione fisica e morale colla persona, per modo che la cosa propria di una persona dee formare qualche cosa di uno con essa (2). Ma restringendosi il nostro discorso alla proprietà di ciò che è morale, vedemmo che la volontà personale può acquistare una condizione morale per due modi, o per abito impostole, quando cedendo spontaneamente e senza precedente elezione s' acquieta e consente nell' oggetto dell' abito come in suo fine; o quando ella si acquieta in esso come in suo fine per un atto di sua libera volontà (N. precedente). Nell' uno e nell' altro caso, cioè sia che questo suo riposarsi si faccia per un atto di cedevolezza e abbandono spontaneo, il che diremo passione personale, sia che si faccia per un atto libero, o azione personale; la passione o l' azione della persona è sempre con esso lei connessa fisicamente. Una qualità o atto morale dunque non può esser proprio di una persona se non costituisce fisicamente qualche cosa dello stesso suo essere. 24. Pure oltre questo carattere generale di ciò che è proprio d' una persona, è a distinguere le due accennate specie di proprietà: poichè altro è esser proprio d' una persona come una sua azione libera, ed altro esser proprio della persona come una sua passione, nella quale la persona non mette del suo se non l' atto spontaneo del cedere e abbandonare la sua attività propria nell' oggetto della passione o dell' abito. Questi due modi ne' quali un' affezione morale qualunque può esser propria di una persona, vanno ben distinti, affine di evitare gli equivoci. Poichè si potrà dire con verità, che una data affezione morale sia propria di una persona, ritenendo che sia propria di lei come passione o abito personale, e nello stesso tempo si potrà dire che ella non sia propria d' una persona intendendo come azione personale . E con questa distinzione si conciliano delle autorità, che sembrerebbero in contraddizione tra loro, come vedremo in appresso. 25. Premesse queste nozioni sulle diverse abitudini che la volontà umana può aver coll' oggetto della legge, onde nascono i diversi stati morali dell' uomo, nozioni che conviene avere di continuo presenti, possiamo ora passare alla definizione del peccato in genere: e quindi a conoscere in ispecie la natura del peccato originale ne' bambini. Che cosa è dunque il peccato? in che giace la sua essenza? « Il peccato » (parliamo sempre nell' ordine delle cose morali) «è una deviazione della volontà personale dalla legge eterna« » la qual definizione si trova esposta largamente nella Dottrina del Peccato originale (1). 26. Se dunque il peccato è una deviazione della volontà personale, consegue, secondo le cose dette di sopra, che ella sia una deviazione della volontà superiore, di quella volontà che ha per oggetto il fine dell' umana vita. Infatti la legge eterna è quella che stabilisce all' uomo (e lo stesso può dirsi delle altre creature intelligenti), il suo fine e al medesimo lo dirige. Se dunque si trattasse d' una inclinazione della volontà inferiore, che non rimove necessariamente l' uomo dal suo fine, questa inclinazione che sarebbe naturale e non personale, quale è il fomite della concupiscenza ne' renati, potrebbe bensì costituire un male, un' imperfezione nell' ordine morale, ma non avrebbe la natura di peccato. E` per questo che S. Tommaso, sapientemente al suo solito, distingue il male, come concetto più generale, dal peccato, concetto meno generale, scrivendo: [...OMISSIS...] . E segue anche in ciò S. Agostino che contro Giuliano (2) che voleva essere un bene la concupiscenza ne' battezzati scrive: [...OMISSIS...] . 27. E in fatti la data definizione generale del peccato va perfettamente d' accordo colla dottrina costante e universale de' maestri in divinità. Per non eccedere i limiti di un compendio noi la confermeremo solo coll' autorità di S. Tommaso medesimo e di S. Agostino. S. Tommaso dice: [...OMISSIS...] . Ma poichè anche la natura e l' arte hanno un loro fine, non solo la volontà, perciò distingue tre generi di peccati: i peccati della natura, dell' arte e della volontà: viene poi a definire i peccati proprii della volontà di cui noi parliamo, in questo modo: [...OMISSIS...] . E poichè è la legge eterna, come dicevamo, quella che propone all' uomo il suo fine, e subordina a questo l' altre cose, perciò dice ancora così: [...OMISSIS...] . 2.. E in questa l' Angelico segue ancora S. Agostino, della cui autorità si prevale citando la definizione che questo Padre dà del peccato (7) a conferma della sua: [...OMISSIS...] . Dichiarando poi S. Agostino che sia la legge eterna, la definisce così: [...OMISSIS...] . Il qual ordine consiste in anteporre le cose che vanno anteposte pel loro pregio o dignità a quelle che vanno posposte, e però a tutte anteporre Iddio, che è un dire che Iddio dee aversi a solo fine ultimo di tutte. [...OMISSIS...] ; e dimostra che la sola Trinità augustissima è ciò di cui si dee fruire come del solo fine, dell' altre cose poi usare (9) come di altrettanti mezzi. 29. Tale è dunque la vera e propria ragione del peccato, la quale, consistendo in una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, priva l' uomo del suo fine; e però il Sacrosanto Concilio di Trento lo caratterizzò in modo da non poterlo confondere con alcun altro concetto quando disse: « quod mors est animae (1), » poichè l' uomo è morto spiritualmente, quando la sua volontà è così atteggiata che lo priva del suo fine, nel possesso del quale consiste la vita spirituale. Da questa nozione e definizione per tanto del peccato derivano i seguenti corollari: a ) Che ciò che essa contiene è essenziale a costituire il peccato, e ciò che essa non contiene non appartiene all' essenza del peccato. Laonde poichè nella data definizione si contiene bensì una volontà la quale sia il subbietto del peccato, deviando dal suo fine, questa volontà è necessaria a costituire il peccato: ma non contenendosi una volontà che sia ella medesima ad un tempo e subbietto e causa libera del peccato, e bensì sia necessaria una causa libera acciocchè il peccato esista nella sua essenza, già esistendo, non è necessario alla sua essenza, che questa causa libera sia sempre l' identica volontà che n' è il subbietto ; il che negava giustamente S. Agostino ai Pelagiani, che così pretendevano, [...OMISSIS...] . b ) Che contenendosi nella data definizione tutto e solo quello che costituisce l' essenza del peccato, in essa si abbracciano tutte le specie di peccati, e che perciò tutti que' mali morali, ai quali quella definizione conviene, sono semplicemente peccati in senso vero e proprio, e non per un modo traslato o interpretativo, o come sotto un solo rispetto. Perciò quella definizione conviene ugualmente al peccato mortale tanto attuale quanto abituale, poichè se col peccato attuale l' uomo devia dal suo fine, coll' abituale ritiene in sè permanente questa deviazione e perdita del suo fine, in cui consiste la forma del peccato, la morte dell' anima. E così quella definizione è conforme al linguaggio delle divine Scritture, e dell' ecclesiastica tradizione, della quale tradizione vale per ogni altra testimonianza l' autorità del Tridentino, che dà la propria e vera ragione di peccato all' originale ne' bambini, che è puramente abituale, e ne ripone il carattere formale nell' essere« morte dell' anima«, che è quanto dire, deviazione e quindi perdita del fine dell' uomo, in cui sta la sua vita. Per riguardo poi alla maniera di parlare delle Scritture, noi ne abbiamo addotti i testimoni nel Trattato della Coscienza (3), e molti altri se ne potrebbero aggiungere. Così quando GES`u' Cristo parla d' un peccato che rimane [...OMISSIS...] , non può intendere dell' atto della trasgressione che passa, ma di quella detorsione della volontà dal fine che rimane nell' anima. E quando dice: « In peccato vestro moriemini (1) » non vuol dire che morranno nell' atto del peccato, ma nell' abito che resta loro infisso. Laonde vanno sanamente intesi que' luoghi de' Padri, ne' quali sembra che neghino al peccato abituale, o all' originale nei bambini, la ragion propria di peccato, intendendo essi parlare del peccato colpevole e demeritorio, che è quello di cui si suole più di frequente e comunemente tener discorso, il che ad evidenza si vede in questo luogo di S. Agostino: [...OMISSIS...] . Altri luoghi poi, ne' quali i Dottori dicono, che il peccato consiste propriamente nell' atto anzi chè nell' abito, non vanno già intesi per modo che vogliano negare che nel peccato abituale, che rimane dopo l' atto, non si conservi e permanga la forma del peccato che fu messa in essere coll' atto della prevaricazione, ma vogliono dire, che questa forma permanente trasse la sua esistenza dall' atto liberamente peccaminoso, e però a questo conviene la denominazione di peccato per una specie di priorità e all' abituale per una specie di posteriorità, secondo la distinzione che fanno i logici circa la predicazione di un predicato a subbietti diversi (3). c ) Che mediante la definizione data si può discernere il peccato nella sua propria ragione ed essenza dai concetti a lui affini, e dalle diverse denominazioni che gli competono, o gli sono attribuite secondo diversi rispetti ne' quali si considera, alcuni de' quali sempre si trovano al peccato congiunti, altri non sempre. Tali concetti e denominazioni sono a ragion d' esempio quelli di colpa, di demerito, di reato di colpa, di reato di pena, d' iniquità, di macchia, di offesa, di offesa di Dio, di trasgressione, di prevaricazione, disubbidienza, ecc.; che tutti aggiungono qualche concetto di relazione al semplice concetto del peccato. Laonde tutti questi concetti sopravvenienti suppongono prima quello di peccato su cui si fondano. E per modo d' esempio, come dice il Gaetano: [...OMISSIS...] . d ) Che si può del pari colla regola della addotta definizione dimostrare, che il peccato veniale manca della perfetta ragion di peccato, perchè non toglie all' uomo il suo fine, e quindi che come dice S. Tommaso: [...OMISSIS...] . e ) Che finalmente nella stessa definizione si ha una norma sicura per discernere, quando nelle Scritture o nei Dottori si adopera la voce peccato in un senso improprio e traslato. Così il fomite che rimane ne' battezzati si chiama da S. Paolo peccato, perchè viene dal peccato, ed al peccato inclina, ma non ha l' essenza del peccato, perchè non priva l' uomo del suo fine. Lo stesso dicasi dei moti involontarii della concupiscenza, a cui la volontà suprema ripugna. Lo stesso dell' uso della parola peccato che si fa nelle divine Scritture per indicare l' ostia o la vittima espiatrice del peccato, onde S. Paolo (2) dice che Cristo si fece per noi peccato. Onde Giovanni Fischer Vescovo di Rocester che suggellò col suo sangue la cristiana fede, distinguendo questi diversi significati della parola peccato contro Lutero che li confondeva, conchiude dicendo: [...OMISSIS...] , la quale riviene alla definizione da noi posta e a quella del Tridentino « quod mors est animae ». 30. Stabilita dunque la definizione generica del peccato, che ripone la natura di lui« in una deviazione della volontà personale dalla legge eterna«, ossia dal fine dell' umana vita, rimane a farne l' applicazione al peccato originale e vederne la differenza specifica dai peccati attuali, la quale già viene non poco chiarita dalle cose fin qui ragionate. Il peccato originale si può considerare sotto due rispetti, cioè si può ricercare:« che cosa egli sia nel bambino«, e« che cosa egli sia relativamente al primo padre che l' ha commesso, e da cui il bambino per generazione lo ha ricevuto«. Poichè il bambino dee aver ricevuto in sè qualche cosa che abbia ragion di peccato: ma poichè egli n' è divenuto bensì il subbietto, ma non la causa, che sta solo nella libera volontà di Adamo stipite dell' umana schiatta (4), perciò senza riferire il peccato che è nel bambino alla causa, che è in Adamo, non si potrebbe trovare l' imputazione del medesimo, per la quale imputazione il peccato acquista denominazione di colpa . Due sono dunque le cose da spiegarsi, l' una come nel bambino ci sia qualche cosa che abbia ragion di peccato, sebbene questa cosa rea non abbia per causa la libera volontà del bambino stesso, ma di un' altra persona, l' altra come e a chi questo peccato sia imputabile: e ciò per ribattere non meno l' errore pelagiano che l' errore giansenistico. Poichè i Pelagiani, come dicemmo, negavano l' esistenza del peccato nel bambino, perchè non intendevano come potesse darsi in un umano individuo vero peccato senza un atto di sua propria libera volontà; i Giansenisti all' incontro ammettevano non solo il peccato nel bambino, ma anche la imputazione, la colpa, il demerito, riferendo tutte queste cose al bambino stesso, o sostenendo che a essere colpevole e a demeritare bastasse o l' atto libero della volontà di Adamo, come se questa esistesse nel bambino, che è la sentenza di Giansenio (1), o il non farsi dal bambino colla sua volontà alcuna opposizione alla concupiscenza « eo quod non gerit contrarium voluntatis affectum, » quale è la sentenza di Baio, e così venivano a stabilire in generale che l' imputazione, la lode e la colpa, il merito ed il demerito di una persona potesse esistere senza opera della sua libera volontà. 31. Ritenendo dunque noi fermamente colla Chiesa Cattolica, coll' insegnamento della quale s' accorda anche il naturale e filosofico raziocinio, che l' imputazione morale non si può fare se non a chi è causa libera di ciò che le s' imputa, perchè, come abbiamo mostrato nell' Antropologia , la sola causa libera ha natura di vera causa (2), e che però a niuna persona umana si può applicare lode o colpa, merito o demerito di quelle azioni o passioni che non sono da lei liberamente prodotte o acconsentite, il che si oppone all' errore giansenistico, diciamo all' incontro, che senza libera volontà si può dare peccato, cioè si può dare « deviazione della volontà dall' ordine del fine dell' umana vita« nel che, come abbiamo veduto, è riposta la nozione e la definizione del semplice peccato, secondo la dottrina de' Maestri in Divinità: e questo è quello stesso che abbiamo dimostrato più a lungo nell' opuscolo intorno alla distinzione tra le nozioni di peccato e quelle di colpa e altrove; dove tra le altre cose abbiamo notato che Iddio nell' antica legge, per mantenere ben distinte queste due nozioni nelle menti voleva che fossero istituiti due specie di sacrifizii, gli uni per il peccato, gli altri per il delitto (3). Di che cava anche S. Agostino un argomento contro i Pelagiani per dimostrar loro il peccato originale, ove dice: [...OMISSIS...] . Si apre qui dunque il passaggio a rispondere alla prima questione contro i Pelagiani:« Che cosa sia ciò che abbia ragione di peccato ne' bambini?«. Poichè rispondiamo che ciò che ha ragione di peccato ne' bambini è una deviazione della loro volontà dalla legge eterna, ossia dal fine dell' umana vita. E posciachè abbiam detto che questa deviazione può essere o attuale o abituale, ne' bambini, ne' quali non c' è ancora l' atto, altro non è e non può essere che una« declinazione abituale e non attuale«. 32. Ora che la volontà umana possa avere questo mal abito prima di ogni suo atto libero, ciò non involge alcuna ripugnanza, il che solo si può esigere che sia dimostrato. Poichè l' obbiezione che può fare il raziocinio naturale contro le verità della fede è che involgano assurdo, al quale scopo infatti tende il raziocinio che, come vedemmo, fanno i Pelagiani contro il dogma del peccato originale. Contrapposto che abbia dunque l' apologista della fede un altro valido raziocinio che disciolga la apparente contraddizione, rimane intatta la verità da credersi, ancorchè essa continui ad essere o misteriosa, ovvero difficile a intendersi e per molti anche impossibile. Dicevamo dunque che niente ripugna, che la volontà umana si trovi vestita prima d' ogni suo atto accidentale di un mal abito morale, perchè essa volontà indubitatamente prima ancora di emettere alcuno degli atti suoi accidentali e liberi esiste come parte essenziale della natura umana, e l' abito è cosa permanente che dà una certa disposizione alla potenza, non già un atto transeunte; e perchè non ogni abito d' una natura e potenza è necessariamente un effetto lasciato in essa da un atto transuente della medesima, com' anche si vede, volendo prendere un esempio da altre verità cristiane, dagli abiti infusi delle virtù teologiche nel santo battesimo. Sono abiti che si ricevono dalla volontà dell' uomo per generazione anche tutte le buone o cattive disposizioni ereditarie, riconosciute ed ammesse da tutti i filosofi. Che se queste ancorchè sfavorevoli all' acquisto delle virtù non sono peccati, ciò accade perchè non affettano la volontà personale, ma solo la volontà inferiore e naturale; e di ciò si darà ragione tantosto, bastando qui un tale esempio a comprovare questo fatto psicologico, che la volontà è veramente suscettiva di abiti buoni e cattivi, che non sono sempre l' effetto lasciato in essa dalle sue proprie libere operazioni, ma aventi un' altra origine da essa indipendente. 33. Questa dottrina intorno alla natura del peccato, la quale dimostra che tanto i Pelagiani, quanto i Giansenisti erravano ugualmente per non sapere distinguere il peccato dalla colpa, negando i primi il peccato ne' bambini, perchè non sapevano come incolparli di una cosa di cui non era causa il loro libero arbitrio, incolpando gli altri gli stessi bambini perchè non sapevano come potessero senza di ciò confessare in essi il peccato, può dirsi francamente, a nostro avviso, essere sostanzialmente definita dalla stessa Chiesa, o certamente manifesta risultare dalle sue infallibili definizioni. 34. E veramente Alessandro VIII (1) condannò questa proposizione: « Homo debet agere tota vita paenitentiam pro peccato originali », non solo come quella che detrae alla satisfazione di Cristo, e all' efficacia del Sacramento del battesimo, e che contiene l' assurdo, che colui che ha bisogno di essere redento e rinnovato, venendo tolto via da lui il reato del peccato di origine, per poter meritare e soddisfare, possa cooperare co' suoi meriti e colle sue soddisfazioni alla propria redenzione e rinnovazione; ma ancora come quella che suppone che il peccato originale abbia per sua causa la volontà di chi lo riceve, giacchè nessuno si può pentire se non degli atti suoi proprii, di cui egli avesse avuto il libero dominio. In fatti che cosa costituisce la base della penitenza, secondo la stessa etimologia della parola, se non il pentimento di ciò che si è fatto, e che si potea non fare? Laonde nel libro Della vera e della falsa penitenza, che fu attribuito a S. Agostino, si definisce la penitenza così: [...OMISSIS...] . Da questa definizione pertanto della Chiesa noi argomentiamo così:« Il peccato originale esiste: ma egli non ammette penitenza e contrizione, perchè questi affetti non possono cadere se non in colui che fu causa libera del peccato. E appunto perchè il peccato originale è subìto da' posteri senza che la loro libera volontà vi concorra, perciò anche il rimedio al medesimo è dato senza loro libera volontà (3). La Chiesa dunque riconosce colla condanna di quella proposizione bajana e giansenistica che: 1. il peccato originale ha vera ragion di peccato benchè manchi la libera volontà in colui che ne è il subbietto; 2. che esso non è colpa di colui che lo subisce, perchè se fosse sua colpa non potrebbe esser tolto senza che egli se ne contrisca e se ne penta; 3. che esso peccato viene tolto via dalla redenzione e satisfazione di Cristo immediatamente come peccato (tolto il quale non è più la colpa perchè le è tolta ogni sua materia) e non solamente come colpa: cioè esso viene tolto via da noi nella sua ragione di peccato, da Adamo poi, personalmente considerato, venne tolto via immediatamente nella sua ragione di colpa, ossia di peccato colpevole, per la fede in Cristo futuro Redentore. 35. La Chiesa del pari ha definito contro di Bajo e Giansenio, colla condanna di più proposizioni, che non si può dare un peccato imputabile a colpa, e però demeritorio, senza che sia posto dalla libera volontà di quello a cui si imputa, e di novo tra le altre ha condannata questa proposizione: [...OMISSIS...] , che è la prima delle 31 condannate da Alessandro VIII col decreto de' 7 dicembre 1690. Ora se il peccato originale ne' bambini fosse loro colpa, cioè fosse peccato commesso dalla loro libera volontà, le conseguenze di esso (almeno quando avessero potuto e dovuto prevederle) sarebbero pure colpevoli e demeritorie in causa. Dunque l' originale è un vero peccato che sussiste nel bambino, quantunque non entri a costituirlo la volontà libera del bambino. Del pari come puro peccato, senza imputabilità e demerito proprio del bambino, sussiste senza che entri a costituirlo la libertà di Adamo, perchè questa non basta a renderlo libero della libertà del subbietto che lo subisce e non lo commette, onde colla condanna della detta proposizione si dichiara, che non basta a costituire il peccato formale e il demerito nè pure la volontà libera qual' era in Adamo, non essendo essa volontà libera del bambino. 36. Nè faccia difficoltà la parola peccato formale inserita nella proposizione condannata, quasi che il peccato ne' bambini non fosse peccato formale, poichè si usò di dire formale quel peccato che è ad un tempo colpa di chi n' è il subbietto, quando il peccato originale ne' bambini manca rispetto ad essi della forma di colpa, di cui esso è come la materia, ma non manca per questo della forma del peccato , senza la quale non sarebbe vero peccato. Onde il celebre compendio della Teologia che fu attribuito a S. Tommaso e ad altri insigni dottori, dice che il peccato originale: [...OMISSIS...] . 37. Se dunque si considera da una parte che il Sacrosanto Concilio di Trento definì che il peccato originale unicuique inest , differente perciò di numero in ogni uomo, e che l' inesistere non è proprio delle relazioni che non sieno per sè sussistenti, e che esso peccato consiste formalmente nella morte dell' anima , la quale non è una relazione alla causa del detto peccato, ma è una pena che soffre il subbietto di quel peccato che è anche pena, e se si considera dall' altra che è pur definito, per le accennate proposizioni condannate ed altre già conosciute, che il detto peccato morte dell' anima non ha ragione di colpa e di demerito, se non come prodotto dalla libera causa che fu la volontà di Adamo: apparirà chiaro, che si può dire già definita dalla Chiesa, come dicevamo, la dottrina che da una parte riconosce ne' bambini un peccato formale considerato nella sua entità senza uscire dal bambino stesso, e però senza che entri, in questa sua entità che ha nel bambino, alcuna libera volontà, dall' altra parte che un tal peccato, vero peccato, ha bensì ragione di pena, ma non di colpa, la quale sta nella libera causa che l' ha prodotto a principo. 3.. Ora questa dottrina è appunto quella che somministra le armi per combattere i due errori opposti de' Pelagiani e de' Giansenisti; e i principali Dottori della Chiesa la opposero costantemente agli eretici; de' quali Dottori mi restringerò per ragione di brevità a nominare solamente S. Agostino e S. Tommaso. I Pelagiani caduti nell' eresia dall' essersi dati a credere, che il peccato non possa esistere senza un atto di libero arbitrio in colui che ne è il subbietto, abusavano in propria difesa della definizione del peccato che S. Agostino stesso avea dato: « voluntas retinendi vel consequendi quod justitia vetat, et unde liberum est abstinere , » di cui si abusò cotanto anche di poi (1). Che cosa rispose loro Agostino? Che conveniva distinguere due specie di peccato, la prima di quelli che sono peccati e non anche pena di un altro peccato precedente, la seconda specie formata da quel peccato che oltre esser peccato è anche pena di peccato: alla prima sola di queste due specie convenire quella definizione, non alla seconda, a cui appartiene il peccato originale ne' bambini. [...OMISSIS...] . Avendo così dunque il santo Dottore stabilito che il genere del peccato abbia due specie, cioè che ci sono peccati che s' incorrono per una libera trasgressione dei divini precetti, e unde liberum sit abstinere, e che ci sia un' altra specie che si subisce, come pena, per via di generazione senz' atto di libera volontà, non solo abbattea con ciò il pelagianesimo, ma sottraeva anche il peso della sua autorità ai futuri Giansenisti, giacchè mentre egli riconosce nello stato presente dell' uomo, oltre il peccato di origine, anche quello che liberamente e consapevolmente si commette, i Giansenisti che falsamente si dicono suoi discepoli, non riconoscono la specie di peccati che si commettono dalla volontà libera dalla necessità, unde liberum sit abstinere . 39. S. Agostino oltrecciò coll' avere stabilito che il peccato originale ha condizione di pena (il che non gli toglie però la natura di peccato) venne con questo solo a rendere ragione del perchè non possa essere un peccato libero della volontà di chi lo subisce. Poichè la pena è contraria alla libera volontà: [...OMISSIS...] . E come la pena è contraria alla volontà, così è contraria alla colpa. Onde S. Tommaso divide il male nell' ordine delle cose volontarie in queste due specie appunto di: 1 male volontario, cioè liberamente voluto, e questa è la colpa ; 2 male involontario, e questa è la pena (1). Se dunque il peccato originale ne' bambini ha ragione di pena secondo S. Agostino, segue da questo stesso, ch' egli non possa essere per essi il contrario, cioè colpa . Nè vale il dire che talora si vuole anche la pena non come pena, ma come soddisfattoria o come medicinale; perchè il peccato originale non è pena soddisfattoria, ma trae anzi seco, come causa, la necessità di pene soddisfattorie; nè è pena medicinale, che è anzi il morbo che dee essere guarito, ed è ancora più che morbo, perchè è male dell' anima. 40. S. Agostino adunque difende contro i Pelagiani che il peccato originale è vero peccato, benchè sia anche nello stesso tempo pena del peccato precedente commesso da Adamo, distinguendolo così entitativamente da quel di Adamo: [...OMISSIS...] . Con che nello stesso tempo che stabilisce, che la macchia originale ne' bambini è un vero peccato in sè stesso considerato, riconosce però che è l' effetto di una prima causa libera, che fu quella di Adamo, alla quale si riferisce l' imputazione e la colpabilità, rimanendo sempre fermo che l' effetto non sia la causa . Onde non finisce di ripetere, che « origo tamen etiam huius peccati descendit a voluntate peccantis (4), » rimanendo di nuovo distinto l' originale dall' originato. Combatte dunque S. Agostino i Pelagiani da una parte e i Manichei dall' altra coi due aspetti in cui si deve considerare il peccato originale ne' bambini, in sè stesso, nella sua entità propria come puro peccato, cioè come una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, e relativamente alla volontà libera di Adamo che ne fu causa, da cui viene la nozione di colpa. Pe' quali due aspetti, il peccato originale si chiama peccato comune in quanto è un solo nell' origine di cui tutta la massa è stata corrotta e macchiata, è una sola la colpa; e si chiama anche peccato proprio , come lo dichiara il Tridentino, in quanto partecipato ne' singoli è più di numero, benchè uno di specie, avendo ciascuno la sua propria corruzione e macchia, che è non è quella di un altro. S. Agostino in fatti chiama il peccato originale commune , dove dice: [...OMISSIS...] . Ma il santo Dottore lo riconosce anche come proprio de' singoli dove dice: [...OMISSIS...] . 41. Sulle traccie di S. Agostino, e con un linguaggio in alcune cose più scientifico e da scola cammina S. Tommaso. Poichè anche questo santo Dottore, data la definizione del peccato in tutta la sua generalità, si fa a distinguere le due specie di peccato puro e di peccato imputato al libero suo autore. Nel concetto dunque di peccato (nell' ordine morale) altro non si acchiude, secondo l' Aquinate, se non « una deviazione dall' ordine della ragione relativamente al fine comune della vita umana«, » quando nel concetto di colpa si acchiude di più l' imputazione alla causa libera, e però ivi solo propriamente è la colpa, dove è la libertà. Laonde il peccato può essere in un individuo umano secondo la vera nozione di peccato, e la colpa di questo peccato essere, propriamente parlando, non in un modo traslato, in un altro individuo che liberamente ne sia stato causa ed autore. Tali sono le distinte nozioni che ci dà S. Tommaso in queste parole: [...OMISSIS...] . Sulle quali filosofiche definizioni del santo Dottore ragioniamo così:« Solo allora l' atto s' imputa all' agente e diviene colpa, quando è in potestà del medesimo, di modo che questo abbia il dominio del suo atto, cioè possa farlo e non farlo. Ma il bambino ha bensì il peccato originale, ma non ha il dominio del suo atto, e non può colla libera sua volontà evitarlo. Dunque non gli può essere imputato, e però non è sua colpa, ma solo peccato, secondo l' Angelico. Quindi per trovare un modo nel quale si dica che il peccato originale venga imputato al bambino, conviene ricorrere ad un modo non proprio, ma traslato, come fa lo stesso santo Dottore, dicendo che il peccato originale s' imputa al bambino, come s' imputa l' omicidio alla mano di chi l' ha commesso, dicendo che è colpa della mano. Ma è ben chiaro che l' istrumento non è in senso proprio imputabile e colpevole di ciò che fa di bene e di male colui che usa dell' istrumento, perchè l' istrumento non è un agente che abbia il dominio del proprio atto, e non ha neppure la cognizione di ciò che l' agente gli fa fare, o piuttosto di ciò che egli stesso fa per mezzo suo. E` dunque più chiaro del sole, che secondo l' Angelico nel bambino esiste il solo peccato, separato dalla colpa, quel peccato che S. Agostino dichiarava peccato pena di una colpa antecedente; e che la colpa, in senso vero e proprio di un tal peccato, non esistette che in Adamo, che fu il solo agente che avesse il dominio del proprio atto; e che in senso puramente traslato, s' applica poi la colpa di Adamo a tutti i suoi discendenti che ricevono per la generazione il peccato. 42. Ma quantunque la mente dell' Angelico sia così aperta, tuttavia v' hanno di quelli che non arrivano ad intenderla, e gioverà che ci facciamo ad esaminare le loro obbiezioni. Costoro adunque per riconfondere di novo il peccato colla colpa ci oppongono che S. Tommaso al passo da noi citato soggiunge, che [...OMISSIS...] . Ma questo passo appunto lungi dal favorire gli oppositori, conferma apertamente e ribadisce la distinzione che voglio distruggere. Esaminiamone il senso con diligenza. a ) Ammettendo il santo Dottore che il male possa esistere in ogni cosa creata anche inanimata, perchè non è altro che privatio boni , e così pure che possa esistere il peccato in tutti gli agenti, perchè non è altro nella sua definizione generalissima che un atto che tendendo ad un fine devia dal medesimo, « cum non habet debitum ordinem ad finem illum , » perciò distingue tre ordini in cui possa cadere il peccato preso in questa generalità, cioè l' ordine della natura , l' ordine dell' arte , e l' ordine morale . Ora è chiaro che negli agenti naturali, o negli artistici, non ci può essere colpa, e però il male e il peccato non s' identifica in essi colla colpa; ma negli agenti morali cioè nei loro atti volontarii il male, il peccato e la colpa s' identificano, perchè sono agenti suscettivi di lode o di biasimo quando agiscono liberamente. S. Tommaso adunque non intende qui che paragonare gli atti volontarii cogli atti della natura e dell' arte, e in questi soli dice che s' identificano il male, il peccato e la colpa: non paragona una specie di atti della volontà con altri atti, non paragona gli atti necessarii cogli atti liberi, il che fa in altri luoghi. b ) Che poi l' espressione che usa qui S. Tommaso « in actibus voluntariis , » si deva intendere senza dubbio di atti liberi , non solo apparisce dal contesto, attribuendo loro lode e colpa e avendo poche linee avanti già spiegato in che consiste l' imputazione a lode o a colpa, con queste parole: « Tunc enim actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus , » ma si trova di questa maniera di usare la parola« volontario« una ragione intrinseca anche nella stessa dottrina dell' Aquinate. Poichè avendo distinta la volontà come natura, voluntas ut natura , e la volontà come volontà, voluntas ut voluntas, e a questa appartenendo la libertà, a quella la necessità, egli chiama volontarii gli atti che appartengono a questa seconda, riponendo nel numero di atti naturali quelli che appartengono alla volontà operante come natura, benchè riconosca che anche questi appartengono alla stessa volontà, e in questo senso si possono dire« volontarii«. Applicando la qual teoria di S. Tommaso alla questione, così argomentiamo: S. Tommaso dice, che il male, il peccato e la colpa sono il medesimo nei soli atti volontarii, cioè liberi: ma il peccato originale ne' bambini non è un atto volontario libero: dunque, secondo il santo Dottore, in esso peccato non è il medesimo il peccato e la colpa. Il testo che ci si oppone convalida la distinzione. c ) Di più, S. Tommaso nel detto testo parla di atti , dice che ne' soli atti volontarii male, peccato e colpa diventano la stessa cosa. Ma nei bambini non ci sono atti volontari : il peccato da lor contratto non è un atto della loro volontà, ma è un abito della medesima contratto per via di generazione: dunque, secondo S. Tommaso, ne' bambini non è il medesimo il peccato e la colpa , perchè l' identità di queste due cose, secondo lui, cade solamente negli atti volontari, in solis actibus , e però non cade negli abiti : in questi può accadere l' opposto, può accadere che dove c' è l' abito peccaminoso, ivi non ci sia la colpa corrispondente: ed anzi la maggior parte dei teologi sostiene che cogli abiti non si meriti, perchè essi non sono atti liberi, a cui solo il merito è dovuto. Di nuovo dunque il testo citato per distruggere la detta distinzione la conferma mirabilmente. d ) E tutto questo viene espressamente confermato da San Tommaso, che distingue il peccato originale così: [...OMISSIS...] . 43. Con questi stessi principii 1. che volontario comunemente significa libero presso S. Tommaso, per la ragione detta, 2. che egli parla di atti , e non di abiti: (e così per doppia ragione, rimane tagliato fuori il discorso del peccato originale), si disciolgono le difficoltà contro la distinzione sopra mentovata tra peccato e colpa , che altri passi dell' Angelico potrebbero ingerire nell' animo di chi li considera superficialmente, e che noi abbiamo già dissipate nelle varie nostre opere (2), principalmente nella prima e seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa illustrate . Altri luoghi dell' Angelico con facilità pure si spiegano ponendo attenzione al valore delle parole. Così ciò che dice: « ibi incipit genus moris, ubi primum dominium voluntatis invenitur , » è vero tanto se si intende nello stesso senso, in cui S. Agostino aveva detto: « nisi voluntas mala, non est cujusquam ulla ORIGO peccati , » testo da noi citato di sopra, quanto se s' intende di un dominio della volontà potenziale, sebbene non esercitato per accidentali cagioni; quanto finalmente se per genus moris s' intende la moralità che ognuno si procaccia liberamente coi suoi costumi, colle sue proprie operazioni, che è l' uso più consueto che si fa di questa parola. Ma un argomento ugualmente ineluttabile, che non lascia dubitare della mente di S. Tommaso si è, che l' intendere S. Tommaso contro la proprietà del linguaggio da lui usato e fargli dire, a ragion d' esempio, che« il bambino che riceve il peccato originale per generazione con questo sia anche colpevole, e gli si deva imputare a colpa, come s' imputano le male azioni all' uomo che le fa liberamente«, il dir questo, non solo mette S. Tommaso in contraddizione seco stesso e coi principii più inconcussi della sua dottrina, ma lo fa diventare di più Giansenista, giacchè i Giansenisti sono quelli che vogliono appunto, che il peccato originale sia rispetto al bambino imputabile a colpa e a demerito, o perchè egli lo ricevè senza impugnare colla sua volontà, come disse Baio, o perchè basti a costituire la colpa e il demerito d' un individuo, la volontà libera d' un altro individuo, cioè di Adamo, che è la sentenza propria di Giansenio. Se dunque non si vuole calunniare a questo segno il santo Dottore riman fermissimo, che egli distinse nel peccato dei bambini il peccato dalla colpa, confessando quello inesistere in essi come vero peccato, la colpa poi riferirsi in Adamo che ne fu la libera causa: il che ho comprovato in più opere con tanti e sì luminosi testi del santo Dottore, che non mi saprei spiegare, come ancora possa rimanere su di ciò il minimo dubbio. 44. Con questa distinzione adunque, comune nella sostanza a S. Agostino e a S. Tommaso, rimane da una parte atterrato il sofisma de' Pelagiani, dall' altra quello dei Giansenisti. Poichè ai Pelagiani è dimostrata per essi la possibilità, che in un individuo esista realmente un vero peccato che egli non ha commesso con alcun atto di sua libera volontà, il che non si potrebbe loro dimostrare se si trattasse di una colpa: ai Giansenisti del pari è dimostrato, che niun peccato può essere imputato a colpa propria in chi non fu libero a riceverlo o a commetterlo, e che può stare il dogma del peccato originale senza l' imputazione a chi lo subisce, bastando che essa si possa fare alla causa libera che lo commise e commettendolo lo pose in essere, onde risplende manifesta la ragione della condanna che fece Innocenzo X della terza proposizione di Giansenio, e quella d' altre simili proposizioni dalla Santa Sede anatematizzate. Ripeterò qui dunque le parole colle quali ho conchiuso la seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa . « Trattasi di due concetti che sono, quasi voleva dire, i poli su cui si gira l' intiero Cristianesimo: tolta la colpa con Giansenio e Calvino, l' obbligazione, il merito, la pena, il premio è perito: tolto peccato necessario con Pelagio - non è più quello che le Scritture chiamano peccatum mundi : la redenzione, la grazia medicinale, l' efficacia de' Sacramenti ex opere operato , Cristo, le sue promesse, la Chiesa da lui fondata, non hanno più una ragione«. Ammessi quei due concetti e ben distinti, tutto è restituito, le contrarie eresie cadono sotto entrambi, alla luce della dottrina della Chiesa. 45. Ma è necessario, che dimostriamo più specificatamente la necessità di distinguere le due nozioni per poter rispondere con efficacia ai Pelagiani non meno che ai Giansenisti. E alle obbiezioni dei Pelagiani risponderemo in quest' articolo: l' errore de' Giansenisti intorno alla natura del peccato originale, essendo intimamente connesso con altri errori intorno alle conseguenze del peccato stesso, sarà confutato nel paragrafo che segue. Tutti gli argomenti dei Pelagiani a favore della loro eresia come a capo e principio si riducono al seguente:« Il peccato (e così dicasi di tutto ciò che riguarda l' ordine morale) è l' opera della volontà umana propria di ciascun umano individuo, e non l' opera della natura: [...OMISSIS...] . Essendo la volontà di un individuo propria di lui, essa stessa non può passare in un altro individuo, e perciò non può neppure passare in un altro il suo proprio atto buono o reo: quindi il peccato di un individuo non può trasmettersi in un altro. Ma la volontà del bambino non produce con alcun suo atto il peccato originale che dicesi essere in lui: dunque non può darsi esso peccato originale nel bambino. Nè vale il dire, che lo riceve per via di generazione, perchè questa appartiene alla natura e non alla volontà , a cui solo spetta il peccato«. Tanto risulta dai luoghi di S. Agostino, in cui reca la dottrina di Pelagio, e dai propri testi dell' opere di Giuliano Vescovo di Eclana, come si può vedere, oltre ai luoghi citati (2). 46. Ora per rispondere direttamente a quest' argomento è necessario dimostrare che la natura razionale, la natura umana, può soggiacere al peccato senza che concorra nessun atto della libera volontà di quella persona che subisce il peccato medesimo, e poichè questo non si potrebbe mai dimostrare della colpa e del merito , che, come mostrano la ragione e le definizioni della Chiesa, non possono stare in un individuo senza che la sua libera volontà ne sia la causa (e dire il contrario sarebbe l' eresia gianseniana), perciò è necessario separare il peccato dalla colpa e dimostrare che quello, e non però questa, ci può essere in una persona, senz' opera di sua libera volontà, ma per naturale generazione, e che così avviene rispetto al peccato d' origine. 47. Ora alcuni teologi moderni che d' altra parte hanno valorosamente combattuto contro l' eresia gianseniana, avendo abbandonata questa via, non sono sempre stati così cauti da non esporre un fianco indifeso all' eresia pelagiana, di cui credevano non esserci forse gran fatto a temere. Pochi esempi che ne darò, de' molti che me ne somministrerebbe la storia della Teologia, basteranno a dimostrare, per la ragione de' contrari, la solidità del metodo che noi proponemmo, sulla traccia dei più antichi e sicuri maestri, per abbattere non una sola, ma entrambe le eresie opposte ad un tempo. Il dotto e per altro accurato teologo Domenico Viva (e lo stesso professano altri teologi) scrive così dei dannati: [...OMISSIS...] . Ora il Pelagiano non mancherebbe di approfittarsi di questo principio, argomentando in questo modo:« Voi mi accordate che il peccato fisicamente necessario non è peccato formale, ma solo materiale. Ma il peccato, che si dice originale ne' bambini è per essi fisicamente necessario: dunque è per essi puramente un peccato materiale, e non un peccato formale. Ora il peccato materiale non è peccato, mancandogli la forma, che è quella che dà la specie e il nome alle cose. Dunque non esiste alcun peccato originale nei bambini«. La maniera adunque di favellare che usano tali teologi non sembra abbastanza cauta contro la eresia pelagiana. Il dire che il peccato necessario è piuttosto pena che peccato non è conforme alla dottrina di S. Agostino, che trova che i due concetti di pena e di peccato possono stare insieme come accade nell' originale. Che l' odio poi in Dio, in qualunque modo esista in un' anima, sia formalissimo peccato consegue dalla definizione da noi data del peccato sulle vestigia di S. Tommaso e di S. Agostino essere cioè« il peccato una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita«. E qual deviazione maggiore dal fine dell' umana vita dell' odio di Dio? Questo è ciò che vi ha di sommo, di perfettissimo nel suo genere, e male a proposito lo stesso Viva (2) paragona a quest' odio gli atti necessari della concupiscenza, dicendo che il Tridentino nega che sieno peccati, ma sì venienti dal peccato e inclinanti al peccato; poichè tali atti, non voluti dall' uomo rinato, non sono una « deviazione della volontà dal fine«, al quale anzi la volontà del giusto intimamente unita e via più si stringe, lottando contro di essi, e così dando prova di amare Iddio suo fine. Nè pure dunque al peccato originale, sebbene fisicamente necessario per riguardo al bambino, può negarsi la forma di peccato; e il farlo contraddirebbe alle parole del Sacrosanto Concilio di Trento, che dicendo: [...OMISSIS...] , riconosce nell' originale « la vera e propria ragion di peccato« » che equivale a dire la forma vera e propria di peccato. Conviene dunque togliere l' equivoco delle parole, e invece di negare che ci possa essere un peccato formale , necessario, è da negarsi che ci possa essere una colpa formale rispetto alla persona che soggiace alla necessità: con che si chiude la bocca ad un tempo ai Pelagiani e a' Giansenisti. 4.. Nè del pari si cautela abbastanza la dottrina cattolica contro l' eresia pelagiana dicendo col Lugo (2), che il peccato originale ne' bambini è solo « peccatum interpretative proprium ob inclusionem voluntatis propriae in voluntate Adae, tamquam tutoris humani generis ». L' istitutore di un tutore appartiene alla legge positiva civile, e non si può trasportare all' ordine naturale, se non come una vana metafora. Di poi, il tutore non si dà dalla legge civile a quelli che non sono ancora concepiti, e però non esistendo, non hanno diritti da tutelare. In terzo luogo il tutore può bensì rappresentare il pupillo riguardo a' suoi interessi temporali ed esterni, e può produrre degli effetti legali che modificano la condizione del pupillo nel foro esterno, ma non può assorbire in sè la personalità del pupillo, e tutto ciò che appartiene all' interiore moralità del pupillo stesso di maniera che il pupillo sia reo o sia buono in sè stesso solo perchè il suo tutore è reo o è buono: cosa assurda. La personalità d' ogni uomo è incomunicabile, non può essere contenuta in nessun' altra personalità: riguardo alla dignità personale e morale non solo il pupillo è indipendente dal tutore, ma anche il figliuolo dal padre e il servo dal padrone, ed era un enorme abuso di autorità, proprio solo del paganesimo, quello di considerare il figlio o il servo come una cosa , di cui la volontà del padre e del padrone potesse disporre anche per riguardo alla dignità morale, come abbiamo già dimostrato nella Filosofia del Diritto , e specialmente dove abbiam parlato de' diritti connaturali dell' uomo (1). In quarto luogo finalmente nè pure le leggi civili accordano al tutore il potere di abusare della sua autorità a danno del pupillo: e però l' autorità tutoria che si vuole attribuire metaforicamente ad Adamo non si potrebbe mai estendere a rendere tutti i nascituri da lui rei del proprio peccato, nè pure se Adamo avesse voluto, sia per l' intrinseco assurdo che c' è in un tale concetto, sia perchè neppur la legge positiva accorda o può accordare una tale autorità al tutore, sia perchè tutela non ci può essere finochè i pupilli stessi non esistono. In che senso dunque si può mai chiamare un peccato proprio solo interpretativamente quello in cui nascono i bambini? Quale interpretazione arbitraria e crudele volete voi fare a danno dei poveri bambini? Volete voi interpretare che se le volontà di tutti i bambini nascituri da Adamo fossero state presenti quando Adamo trasgredì il divino precetto, avrebbero anch' esse dato il loro consenso? Infatti i teologi chiamano intenzione interpretativa « cum quis nullam habet nec habuit intentionem actualem sed ita est dispositus, ut si adverteret, haberet . » Voi adunque giudicate che tutti i bambini nascituri, prima di essere infetti del peccato originale, sarebbero stati così disposti da consentire nel peccato adamitico. Ora non è questo un giudizio temerario? Che un uomo esista, e che, esistendo, abbia disposizione a consentire in un peccato avendone l' occasione, si potrà forse congetturare da certi segni, che dimostrano quella sua mala disposizione , e quindi si potrà in qualche modo, dire che interpretativamente e per via di mera congettura, è già in peccato. Ma di uomini, che non esistono ancora, e che non hanno nessuna precedente mala disposizione, perchè si suppone che non sieno ancora in peccato (trattandosi di spiegare come vengano a soggiacere al peccato), di uomini dalla libera volontà de' quali in istato ancor buono e perfetto dipende la scelta, si potrà egli dire che siano disposti a consentire nel male stesso, nel quale consentì il loro padre prima di generarli? Delle cose contingenti e molto meno della scelta che farà una volontà perfettamente libera non c' è ancora alcuna determinata certezza (se non davanti agli occhi di Dio che vede anche la scelta, perchè è presente ad ogni tempo): onde è impossibile interpretare , che tutti i milioni di nascituri, non già saranno disposti a scegliere il male (come vuole l' intenzione interpretativa), ma senza essere disposti precedentemente, nè inclinati a scegliere il male, lo sceglieranno liberamente. Attribuire adunque a tutti i bambini non ancora esistenti un peccato interpretativo è un collocare l' interpretazione dove non può esistere, è formare un giudizio temerario e calunnioso, ed è sostituire in fine vane parole al dogma della Chiesa cattolica. Per il che dobbiamo conchiudere, che nè pure in questo sistema la verità del peccato originale rimane sufficientemente difesa contro il Pelagiano che risponderebbe:« Voi difensore del dogma del peccato originale non credete poterlo difendere se non dicendo che è un peccato proprio del bambino solo interpretativamente. Questo ben mostra la debolezza del vostro assunto, perchè un peccato interpretativo, come il fate voi, non è peccato. Convenite adunque con noi che il peccato originale ne' bambini non esiste veramente, e non può esistere«. 49. Agli stessi inconvenienti soggiace il sistema di Vasquez (1) e d' altri teologi che deviarono dalla tradizione scolastica d' accordo con quella de' Padri, affine di rendere più facile l' intelligenza della trasfusione del peccato. Immaginarono essi un patto tra Dio e l' umana natura sussistente in Adamo, in virtù del quale Iddio ripose le volontà de' singoli nascituri in quella di Adamo, di maniera che se Adamo conservasse la giustizia si riputasse che le volontà di tutti l' avessero voluta conservare, se per opposto egli eleggesse l' ingiustizia, anche le volontà di tutti i suoi figliuoli non ancora esistenti si considerassero rei di non averla conservata. E` difficile l' assegnare una differenza veramente sostanziale tra tale pensiero e quello di Giansenio, che diceva bastare la volontà libera di Adamo, acciocchè fossero imputati a' suoi figliuoli i loro atti non liberi: o piuttosto quel patto, se si potesse ammettere, sarebbe un modo di coonestare e giustificare la sentenza gianseniana. Ma in nessuna maniera si può ammettere. Primieramente, perchè la dignità personale, a cui spetta la moralità, non può essere materia di un contratto o di un patto, sia che questo patto lo faccia la stessa persona della cui dignità e moralità si tratta, sia molto meno che lo facciano de' terzi. In secondo luogo, perchè in Adamo c' era bensì la natura umana, ma non la persona de' suoi discendenti, della cui sorte si tratta, giacchè in quella natura non sussisteva che la sola persona di Adamo, e non quella di coloro che non esistevano ancora. In terzo luogo sarebbe un patto inonesto tanto da parte di Dio, quando da parte di Adamo, quanto da parte de' suoi discendenti, il cui consenso si presume. Da parte di Dio, il quale dispone delle sue creature cum magna reverentia , quando con quel patto disporrebbe della giustizia e ingiustizia dei posteri di Adamo, senza loro intervento e senza che nè pure esistessero: e ne disporrebbe preconoscendo con certezza che il patto andrebbe a finire male, cioè che la conseguenza del patto sarebbe stata quella di rendere rei di morte eterna tutti i discendenti del primo padre in virtù di un solo atto di questo, senza alcuna loro partecipazione: quando, se Iddio potesse fare un contratto simile, per la sua infinita bontà, non potrebbe farlo che a loro favore e vantaggio. E dato, per supposizione impossibile, che a Dio fosse stato ignoto l' abuso che Adamo avrebbe fatto della sua libertà; ancora rimarrebbe che lo stato di giustizia o d' ingiustizia de' posteri di Adamo, e quindi la loro eterna sorte, sarebbe stata esposta ad una specie di giuoco di sorte, poichè l' elezione libera di Adamo poteva esser fatta egualmente in senso bono e in senso non bono . Sarebbe stato inonesto dalla parte di Adamo, che non poteva nè avere alcuna autorità di patteggiare della moralità de' suoi futuri discendenti, nè poteva senza presunzione o temerità farla dipendere da un atto suo proprio, sapendo di essere fallibile, sebbene costituito in grazia. Sarebbe stato inonesto dalla parte degli stessi discendenti, volendo attribuir loro non esistenti ancora un assenso interpretativo, giacchè nessun uomo può lecitamente fare che l' esser egli giusto od ingiusto, innocente o peccatore, dipenda da un atto di un altro uomo: non potendo rinunziare alla propria responsabilità in cosa di tanto momento. Al che si aggiunge l' assurdo che si contiene nel pensiero, che la giustizia e l' ingiustizia di una persona umana possa mettersi in essere, non da una loro propria azione o passione, ma dall' azione di un' altra persona; come chi patteggiasse che se un' altro mangierà un cibo avvelenato, sarò avvelenato io che non ne ho mangiato; e chi mangierà un cibo salubre, ne starà bene il mio stomaco al pari del suo. Un sistema pieno di tante difficoltà e assurdi non poteva venire in mente, se non perchè dimenticandosi il concetto di peccato che è quello di disordine inerente alla persona, altro non si cercò di spiegare se non il concetto di colpa senza il substratum del peccato, che è la materia imputabile a colpa, onde si pensò come si potesse applicare la colpa a chi non aveva peccato. Egli è chiaro che anche con questo sistema hanno buon gioco i Pelagiani, i quali possono dire a un teologo che così ragiona:« Voi fate dipendere il peccato originale de' bambini da un patto che altri hanno fatto senza di essi: con questo venite a confessare che essi in sè stessi non hanno peccato alcuno, ma che loro viene imputato l' altrui peccato, pel buon volere di altri, a cui è piaciuto di fare un patto pel quale si obbligarono, in caso che Adamo avesse peccato, di imputar loro questo peccato!«. 50. E non meglio, per quanto io vedo, provvede all' illustrazione e alla difesa del dogma cattolico del peccato originale ne' bambini contro quelli che lo impugnano, il sistema di que' teologi, che fanno consistere questo peccato nella sola privazione dell' ordine soprannaturale, a cui il primo uomo era stato elevato per mezzo della grazia santificante. Essi si persuadono d' essersi con questa invenzione fabbricato un istrumento, dirò così, a due manichi, prendendolo dall' un de' quali possano dimostrare ai Cattolici la loro perfetta ortodossia nell' ammettere il peccato originale, prendendolo dall' altro possano dimostrare agli increduli che spacciano questo dogma contrario alla ragione, che esso non involge nè pur l' ombra o l' apparenza di difficoltà, e che quindi essendo facilissimo a spiegarsi e a dimostrarsi conforme alla ragione, si possa risparmiar loro quello che S. Agostino diceva a Giuliano: « Si potes, intellige; si non potes, crede (1), » e si possano considerare come esagerate quelle altre parole del santo Dottore, che però esprimono il sentimento di tutta la tradizione, prima de' nuovi teologi di cui parliamo: [...OMISSIS...] . 51. Coi Cattolici questi teologi dimostrano il peccato originale così: « La vita dell' anima è la grazia santificante: la privazione di questa grazia è dunque la morte dell' anima, e però in questa consiste il peccato originale ne' bambini. Avvertite però che c' è differenza tra la mancanza ossia carentia della grazia, e la privazione . Il peccato originale consiste nella privazione della grazia e non nella semplice carenzia. La differenza è questa: Iddio poteva crear l' uomo senza la grazia santificante e di conseguenza senza l' ordine soprannaturale: in tal caso gli sarebbe mancata la grazia soprannaturale, ma non sarebbe stato per questo peccatore, nè morto dell' anima, perchè Iddio avrebbe decretato fino a principio di non dargli una cosa che non gli era dovuta. Ma Iddio costituì Adamo nella grazia santificante, e fece a principio il decreto che sarebbe passata a' suoi discendenti s' egli non avesse peccato, benchè ben sapeva che avrebbe peccato. Avendo dunque Adamo perduta colla sua disubbidienza la grazia, i suoi discendenti, benchè non abbiano disubbidito, sono restati privi della grazia, che posto il decreto di Dio era loro dovuta: e però questa mancanza di grazia in essi non è semplice mancanza in essi, ma privazione , e così, atteso quel divino decreto, sono peccatori, morti nell' anima, schiavi del demonio, ecc.«. Così provano l' esistenza del peccato originale ne' bambini. Rivolgendosi poi agli increduli, che dicono essere contrario alla ragione che un bambino che ancora non ha posto alcun atto di sua libera volontà, deva avere in sè un vero peccato che lo renda oggetto dell' ira e dell' indignazione di Dio, parlano loro in questo modo:« Non c' è la menoma repugnanza colla ragione: e voi non siete bene informati che cosa si intenda pel peccato de' bambini. Per questo peccato altro non s' intende se non che viene loro tolto quello che non è per sè stesso dovuto alla loro natura: la natura l' hanno tutta senza lesione o ferita di sorte: ma i doni soprannaturali che non appartengono alla natura, Iddio se li ritiene senza concederli loro: ecco che cosa è il peccato originale. Vedete dunque che non solo qui non c' è assurdo, ma nè pure c' è la minima difficoltà: e il modo della sua propagazione è tanto piano che non può nè manco essere oggetto di una questione, perchè non si vede alcun motivo di dimandare « quomodo propagetur quod non est , » come dice un chiaro teologo« (1). 52. Non so a dir vero che cosa l' incredulo, udendo che il peccato originale non è finalmente altro che questo, non è nulla che pregiudichi veramente all' umana natura che solo rimane per esso spoglia di quello che per sè non le appartiene, sarà per dir poi di tanti lamenti e vituperi, di cui è piena la dottrina e la tradizione cattolica intorno all' originale peccato come a somma calamità e sciagura caduta addosso al genere umano, da volerci la morte di un Uomo7Dio per ripararla: e se egli non riputerà forse di essere ingannato o da nuovi teologi, o dagli antichi, con danno ed onta della cattolica fede. Ma lasciando lo scandalo che possano prendere gli eretici confrontando la nuova espressione del dogma coll' antica e perpetua, noi restringiamoci a confutare il sistema proposto in sè stesso. 53. L' uomo, si dice, poteva essere creato da Dio come nasce al presente non adorno della grazia santificante. L' uomo che fosse stato così creato, e l' uomo qual nasce al presente sono nè più nè meno, per riguardo ad essi, nella stessa condizione della natura umana. Ma in quello la privazione della grazia non sarebbe peccato, e però con quello Iddio non sarebbe irato nè indegnato, in questo la stessa privazione della grazia è peccato e però Iddio con questo è irato e indegnato. Da che nasce questa differenza, per la quale la stessa identica condizione naturale nell' un caso non è peccato, nell' altro è peccato? Rispondono:« Nasce da un decreto di Dio: nel primo caso Iddio non avrebbe fatto il decreto che gli uomini che nascessero da un padre costituito nella grazia santificante, ereditassero anch' essi la grazia: e avrebbe anzi decretato che tanto il padre, quanto i figli rimanessero nello stato naturale. Nell' altro caso Iddio ha decretato che il padre fosse costituito in grazia, e che se la perdesse, la perdesse per tutti i suoi discendenti: perciò questi nascendo senza la grazia hanno il peccato; laddove i primi nascendo senza la grazia non avrebbero il peccato«. In questo sistema dunque il peccato originale de' bambini dipende da un decreto di Dio: secondo che a Dio piacque di fare piuttosto uno che un altro decreto, essi senz' altro, o sarebbero peccatori o nol sarebbero: benchè in quanto ad essi niente è mutato, nell' un caso non hanno in sè nè più nè meno dell' altro: non c' è in essi altro difetto inerente che abbia per sè ragion di peccato: ma quello che non ha per sè ragion di peccato, cioè la mancanza della grazia, diviene tale per un decreto positivo di Dio, che Iddio poteva non fare. Di qui sembrano venirne più assurdi e difficoltà: a ) Che Iddio col suo decreto è il vero autore del peccato ne' bambini, cangiando col detto decreto in peccato ciò che senza il detto decreto non sarebbe peccato. b ) Cresce questo assurdo, quando si consideri che quel decreto di Dio, pel quali stabilì che la giustizia o il peccato del padre Adamo debba passare ai posteri, e così sia loro dovuta l' una o l' altro, non è un decreto condizionato, se non al nostro modo di concepire, nè è un decreto che stabilisca una vera alternativa da parte di Dio: perchè Iddio ben sapeva che Adamo non avrebbe già conservata la giustizia ma avrebbe peccato, e questo stesso peccato era contenuto nel decreto totale di Dio, perchè Iddio non fa già molti decreti, ma con un solo decreto stabilì tutta l' economia del governo dell' umanità e della sua salute. Iddio adunque sapea di certo che Adamo avrebbe peccato, e se egli decretò che il peccato di lui passasse ai posteri, egli non fece un tal decreto sopra una ipotesi, o sopra una vera alternativa come accade degli uomini, ma egli avrebbe con ciò costituiti col suo decreto positivo tutti i discendenti peccatori, privandoli della sua grazia, e attribuendo a questa privazione, secondo tal sistema, ragione di peccato. c ) Un tale sistema contiene ancora questo assurdo, che un decreto positivo cangerebbe la natura delle cose, non dico già un decreto efficace che influisce e cangia colla sua operazione le cose, ma un decreto che lascia la cosa qual' è. Ella non può cangiare certamente di natura solo pel buon volere di chi decreta che sia un' altra, quando la sua natura non diviene un' altra. Così nell' uomo creato nell' ordine naturale, e nel figliuolo generato da Adamo, la mancanza di grazia è e rimane in sè la stessa, ma questa identica senza subire alcuna modificazione, solo perchè nell' un caso Iddio decretò di non voler dare la grazia, non ha natura di peccato, nell' altro caso solo perchè decretò bensì di non volerla dare a' discendenti di Adamo, ma che l' avrebbe loro data se Adamo non avesse peccato, sapendo già egli che avrebbe peccato, questa privazione acquistò la natura di vero peccato, che non aveva prima. d ) In un tale sistema inventato per ovviare le difficoltà nascenti dall' essere il bambino reo di peccato senza aver preso alcuna parte al peccato di Adamo, ritornano in campo, anche con maggior apparenza, rimanendo sempre a spiegare come Iddio potesse, salvi i suoi divini attributi di bontà e di giustizia, rendere il non dare la grazia al bambino (il che dipende unicamente da lui cioè da un suo libero decreto) un peccato del bambino, tale da fare che il bambino per sè innocente diventi un oggetto della sua ira e della sua indegnazione, degno di eterna condanna, morto dell' anima, schiavo del demonio, ecc., cose tutte che sarebbero concertate nel consiglio di Dio, senza intervento alcuno del bambino stesso, della cui sorte nelle mani di Dio si sarebbe così infelicemente disposto. 54. Ma per vedere più chiaramente quanto manchi a un tale sistema a poter vantarsi di rappresentare fedelmente il dogma cattolico e a difenderlo contro l' eresia, gioverà intendere ed esaminare le ragioni de' suoi fautori, o, per meglio dire, quelle vane frasi di parole e distinzioni di cui lo vestono, perchè ora vi dicono che il bambino è peccatore perchè non semplicemente nudo, ma spogliato della grazia santificante; ora che questa mancanza è peccato perchè non è sola mancanza ma privazione; ora perchè la detta grazia non è per lui cosa estranea alla sua natura, ma dovutagli; ora perchè costituisce un' avversione a Dio, ma non positiva, ma solamente negativa ; ora finalmente credono di trovare il saldo fondamento di un tale loro sistema nelle proposizioni condannate in Baio e in Giansenio. E` dunque a esaminare la solidità di queste molteplici e diverse maniere di cui si riconosce aver bisogno il sistema di cui parliamo, affinchè possa essere insinuato nell' altrui persuasione. a ) Se un uomo, dicono, venisse creato da Dio nudo della grazia santificante, questa nudità non costituirebbe per lui alcun peccato: ma se un uomo viene spogliato della grazia e per questo rimane nudo di essa, questa condizione di spogliato lo costituisce in istato di vero peccato, e però il bambino nasce in peccato. Qualunque sia la verità di questa asserzione, essa potrà convenire ad Adamo che fu veramente vestito e poi spogliato della grazia santificante (non però per sempre): ma il bambino che nasce da Adamo non fu mai vestito, e però non fu mai spogliato da Dio. Rispetto poi ad Adamo egli fu spogliato della grazia santificante a cagione del suo peccato. L' aver dunque Iddio tolto ad Adamo la grazia non poteva essere il peccato di Adamo che ne fu la giusta causa, ma solo la pena e la conseguenza del peccato. Che se in Adamo questo spogliamento non costituì il peccato, molto meno può costituirlo ne' bambini, il peccato de' quali è uno solo nella sua origine con quel di Adamo, e della stessa specie del peccato abituale di lui, benchè numericamente diverso. Altramente sarebbe passato ne' posteri solo quello che in Adamo non era peccato, contro il dogma, che, come dice S. Tommaso, « solum primum peccatum primi parentis in posteros traducitur (1), » e non sarebbe più uno di specie. [...OMISSIS...] Ma rispondono, se il bambino non fu spogliato di fatto, fu spogliato di diritto, perchè aveva diritto alla grazia. Ma perchè aveva diritto? pel decreto fatto prima da Dio: senza questo decreto che Iddio, secondo gli avversarii, potea non fare, il bambino non aveva alcun diritto. Il peccato dunque del bambino ha per vera causa quel decreto di Dio: e così tornano in campo le difficoltà precedenti. Che se si dice che il bambino avea diritto non per decreto di Dio, ma per qualche altra ragione, convien dare quest' altra ragione, e torneremo nel ginepraio delle difficoltà. Ma suppongasi che il bambino sia stato spogliato della grazia. L' esser spogliato da altri è egli un peccato? S' intende che lo spogliatore possa essere peccatore se spoglia altrui della veste ingiustamente: ma che colui che viene spogliato, e che non può impedire al più forte di spogliarlo, per questo sia costituito peccatore, chi lo può intendere? O dunque Iddio spogliò il bambino della grazia ingiustamente, e allora il peccato ricade in Dio, o giustamente, e allora bisogna dire qual ragione di giustizia ci aveva di spogliare il bambino innocente di quella veste, e torneranno tutte le difficoltà che si volevano evitare, converrà di nuovo spiegare il detto di S. Paolo in quo omnes peccaverunt , e dopo di ciò ne verrà che il bambino rimarrà spogliato della grazia pel suo proprio peccato, e però lo spogliamento seguirà come pena al peccato, e non sarà il peccato stesso, il quale conterrebbe solo la ragione per cui quello spogliamento sia giusto. b ) Gli argomenti a favore di questo sistema reincidono sempre nel medesimo: i suoi fautori non moltiplicano che le parole e le sottili e puramente logiche distinzioni per darvi credito. Così vi dicono: noi distinguiamo la carenza della grazia santificante dalla privazione della medesima. Se Iddio avesse voluto creare l' uomo nell' ordine della natura, la mancanza della grazia santificante nè sarebbe peccato, nè sarebbe morte dell' anima, benchè prima dicano in universale che la detta grazia sia la vita, e che la mancanza della vita sia la morte dell' anima. Ora non più: non ogni mancanza della grazia è morte dell' anima, ma solo quello che è privazione. Poichè avendo Iddio decretato di dare la grazia a Adamo e a' suoi posteri, non dandogliela, tale mancanza è privazione , e così vogliono che sia morte dell' anima e peccato. Or che Adamo si sia demeritata la grazia, questo è chiaro per la sua prevaricazione, e però che Iddio l' abbia punito col privarlo della sua grazia, questa è necessità e patente giustizia. Ma questa privazione della grazia in Adamo è pena conseguente al suo peccato, e non è il peccato stesso commesso da Adamo. Ma riguardo ai bambini, che non hanno peccato, ci dicano come sia giusto il privarneli. Negano che abbiano in sè alcun peccato? perchè dunque privarli della grazia, perchè pretendere di più che questa stessa privazione sia per essi peccato? Che se dicono avere ereditato il peccato; in tal caso certo è giusto che sieno privati della grazia. Ma allora altro è il peccato da essi ereditato, altro la pena della privazione della grazia. questa pena è giusta perchè dovuta al peccato che è in essi. Rimane dunque sempre a spiegare come in essi sia il peccato; cioè rimane quella difficoltà che si vuole evitare, cangiando quello che è pena del peccato in peccato: e così distruggendo il peccato stesso ne' bambini, ai quali si lascia solo la pena, senza che ne apparisca la giustizia. Di poi la parola privazione in un tale discorso, si prende in un senso largo ed improprio. Poichè privazione in senso proprio è solamente quando manca ad un subbietto ciò che dovrebbe avere per sua propria natura. « Carentia formae in subiecto apto nato . » Ora i nostri teologi sostengono che al bambino che nasce, per sua natura, niente manca, perchè gode della natura umana senza ferita o lesione alcuna. La natura umana adunque in tale stato non ha veramente alcuna privazione , nulla al bambino manca di quello che è nato atto ad avere, poichè esser« nato ad avere«, vuol dire che è atto per sua natura ad avere. Ma i nostri teologi dicono:« Questo è vero se si riguarda la natura umana, ma se si riguarda il disegno che aveva Iddio su di essa, di rivestirla cioè di grazia santificante, questa grazia, in virtù di tal decreto, è divenuta una cosa appartenente alla natura stessa dell' uomo«. Loro si può facilmente rispondere, che Iddio con un suo decreto non può fare che quello che non appartiene a una natura, le appartenga, perchè sarebbe una contraddizione. Rimane dunque, che la natura umana nel bambino abbia tutto quello che essa esige come tale, e più che non abbia alcuna privazione in sè stessa. Replicheranno, che pure il non avere quel più che potrebbe avere, e che avrebbe avuto, se Adamo non avesse peccato, è una specie di privazione, sebbene questo più non sia dimandato dalla natura stessa. Si ricorre dunque al vocabolo di privazione , dando a questa parola un' estensione maggiore di quella che le è propria, per accomodarla al sistema. Ma non si accomoda tuttavia. Poichè questa pretesa privazione consisterebbe in una relazione tra il disegno di Dio e la natura umana oggetto di questo disegno. In tal caso una tal sorta di privazione non sarebbe inerente a ciascun bambino, perchè un estremo della relazione, cioè il decreto di Dio, non è qualche cosa che inesista nel bambino (che anche l' ignora), ma è cosa che esiste solo nella mente e nella volontà di Dio. Mancando dunque nel bambino un estremo della relazione, e le relazioni avendo bisogno per esistere de' due estremi, apparisce che la relazione di cui si tratta, può esistere bensì in una mente che col pensiero abbraccia nello stesso tempo e il bambino, che ha la natura umana senza difetto nè privazione alcuna, e Iddio, che ha in sè concepito il decreto di esaltare questa natura e che mette questi due estremi a confronto; ma non esiste perciò nel bambino stesso, che è un estremo e un estremo che non costituisce neppure nè il fondamento nè il principio della relazione, ma solo il termine. Non è dunque una relazione inesistente nel bambino; e però non si può dire nè pure privazione , poichè i filosofi insegnano, che la privazione deve inesister sempre in un subbietto vero e reale (1). Che se in questa relazione si pone il peccato d' origine, convien dire che questo peccato non esista nel bambino, contro quanto decise il Concilio di Trento, ma che un tal peccato altro non sia che una relazione esterna al bambino medesimo e un ente di ragione. In terzo luogo, dato anche si possa chiamare privazione, in vece di semplice carenzia, la mancanza della grazia santificante nel bambino, è provato con questo che egli sia in peccato? Non ogni privazione è peccato: la pena, a ragion d' esempio, è anch' essa una privazione e non però un peccato. E se volete sostenere che la privazione della grazia nel bambino costituisca il suo peccato, non ricadete con ciò in quelle difficoltà stesse che col vostro sistema credete evitare? Poichè il bambino nulla ha contribuito a una tale privazione che gli si fa subire. Si è forse egli meritata con un atto di suo libero arbitrio questa privazione? Come è egli dunque peccatore, se pur voi intendete ch' egli abbia in sè un vero peccato, come l' intende la Chiesa Cattolica? 55. Di poi S. Tommaso, che questi teologi citano, e a dir vero con poca sincerità, come favorevole alla loro opinione, insegna e dimostra apertamente, che il peccato originale non può consistere in una pura privazione, ma che egli è un abito corrotto: [...OMISSIS...] . E qui si osservi come S. Tommaso distingua nel peccato attuale « ipsam substantiam actus, et rationem culpae (2) » e nel peccato originale in luogo della sostanza dell' atto distingue la sostanza dell' abito della natura, che chiama « quaedam inordinata dispositio ipsius naturae (3), » il che torna alla distinzione tra il peccato entitativamente considerato che è la sostanza dell' abito, e la colpa che è l' imputazione del medesimo « in quantum derivatur ex primo parente . » Ottimamente dunque distingue tra la materia dell' imputabilità, e l' imputabilità stessa. Ma i nostri teologi stabiliscono una imputabilità senza materia, perchè non ammettono nella natura del bambino nessun disordine che si possa imputare, e la privazione della grazia, che è la pena conseguente all' imputabilità stessa, vogliono che sia il peccato ad un tempo imputabile e imputato, il che è antilogico ed assurdo. Laonde se S. Agostino rimprovera giustamente a' Pelagiani di fare ingiusto Iddio perchè puniva i bambini senza che in essi ci avesse alcuna materia d' imputazione: [...OMISSIS...] , che cosa avrebbe poi detto il santo Dottore di un sistema che pretende, che la stessa privazione della grazia con cui sono puniti i bambini, dalla qual privazione provengono tutti gli altri loro mali, costituisca la stessa materia dell' imputazione, lo stesso peccato imputabile? Non vince questo nuovo sistema, almeno in assurdità, lo stesso pelagianismo? Non così certamente S. Tommaso, il quale riconosce che, non volendo fare ingiuria all' infinita bontà e giustizia di Dio, conveniva che la ragione per la quale negava loro la grazia santificante conferita alla natura umana in Adamo, si trovasse ne' bambini stessi, cioè fosse appunto il peccato da essi ricevuto per via di generazione, il quale mettesse ostacolo alla grazia: onde il peccato nel bambino lo chiama contrarium prohibens, dicendo: [...OMISSIS...] . E però dice appresso, che la mancanza della divina visione è pena e del peccato originale che è nei bambini, e dell' attuale di Adamo (2). E però, coerentemente a questa dottrina dice ancora, che la remissione del peccato importa due cose 1. la restituzione della grazia, e 2. la remozione dell' impedimento che impediva la grazia di essere ricevuta nel peccatore: [...OMISSIS...] , laddove i nuovi teologi che fanno consistere il peccato nella sola privazione della grazia, devono ridurre la remissione della colpa alla sola restituzione della grazia, e non all' impedimento che poneva il peccato alla medesima; il che è un nuovo e manifesto errore. 56. c ) L' uomo dunque che fosse creato colla sola natura, e il bambino che ora nasce da Adamo, secondo questo sistema, trovansi nella stessa interezza di natura. Ma nel primo l' assenza della grazia dicesi mancanza o carenza, nel secondo dicesi privazione, perchè al secondo la grazia era dovuta e non al primo. La qual distinzione, quand' anche fosse solida non porterebbe ancora per conseguenza, come vedemmo, che nel secondo ci fosse un peccato, perchè a costituire un peccato non basta una semplice privazione. Ma questo concetto di grazia dovuta merita che non resti nè pur esso un concetto confuso, ma dev' essere chiarito, acciocchè s' intenda bene che cosa vi si contenga. In generale e assolutamente parlando, che la grazia sia dovuta all' uomo non si può dire, « alioquin gratia jam non est gratia (4). » L' averla una volta data al primo uomo, questo solo non costituisce nell' uomo un diritto d' averla anche in appresso: poichè essendo la grazia cosa di Dio, egli può darla e riprendersela senza fare ingiuria a nessuno. Nè pure il proposito che fece Iddio di dare la sua grazia al genere umano, costituisce in questo un diritto di averla, poichè Iddio salva quelli che sono predestinati alla salute « secundum propositum gratiae Dei (1). » E pure questo proposito e disegno misericordioso di Dio, non cangia natura alla sua grazia, rimanendo grazia, e non debito, nè mercede. Ciò dunque che può costituire un titolo di diritto non è che una formale promessa da Dio fatta liberamente all' uomo, come sono le promesse di Cristo ai credenti. Ma ai bambini che nascono non fu fatta alcuna promessa: essi non conoscono quando nascono, che loro sia fatta promessa acuna, nè sono in caso di accettare la promessa che non conoscono, e pure la promessa dee essere in qualche modo accettata acciocchè costituisca un diritto. Per questo anche l' antico Testamento o patto stretto da Dio col suo popolo si fece con solennità tra le due parti contraenti (2); e il nuovo Testamento o patto si fa coi credenti, i quali colla loro fede accettano le promesse di Cristo, e lo stesso conferimento del battesimo, secondo l' ecclesiastica tradizione, prende forma di un patto bilaterale. Se dunque i bambini che nascono non hanno alcuna cognizione del proposito fatto a principio da Dio di conferir loro la grazia, quando il loro stipite avesse conservata la giustizia, qual è il titolo al diritto che si suppone in essi, pel quale la grazia sarebbe stata loro dovuta? Converrà dunque ricorrere a un patto fatto da Dio con Adamo anche in nome loro. Ma primieramente la Scrittura non fa di questo patto espressa menzione, onde rimane un' ipotesi congetturale, su cui non si possono stabilire i dogmi inconcussi della fede cattolica, specialmente a fronte degli eretici: di poi abbiamo già veduto quali e quante difficoltà involga un patto di questa sorte. E` bensì vero, dunque, che i bambini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero nati in grazia, per l' eterna e misericordiosa economia del Creatore, ma che la grazia sarebbe loro stata dovuta in modo che essi ne avessero avuto un vero diritto, questo è quello che non si prova, e solo viene asserito da tali teologi, che obbligati in fine a supporre un patto con Adamo, invece di rendere più facile l' intelligenza del peccato di origine de' bambini, ricadono nelle difficoltà che promettevano facilmente evitare e in altre maggiori. 57. d ) A un' altra distinzione futile di parole i fautori di un tale sistema ricorrono, affinchè non offenda troppo le pie orecchie. Tra la conversione e l' avversione c' è l' indifferenza . Riguardo a una persona che io non conosco, non posso essere nè avverso nè converso coll' animo mio, ma solo indifferente. Ora risulterebbe dal detto sistema che il bambino non fosse avverso a Dio, nè converso al bene commutabile; ma il dir questo s' opporrebbe a tutta la tradizione cattolica. I nostri teologi adunque introducono una distinzione dicendo che c' è un' avversione positiva e un' avversione negativa, e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione. Così mutando il nome a quello stato negativo d' indifferenza, e chiamandolo avversione [ negativa ], e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione, coprono il difetto del sistema, introducendo nella sacra Teologia di quelle distinzioni futili e verbali, che tanto la discreditano presso gli eretici. L' avversione indica sempre qualche cosa di positivo, come pure la conversione , avvertendo anzi S. Tommaso che l' avversione e la conversione sono il medesimo, colla sola differenza di termini verso i quali si riguardano (1). Dal che non ne vengono menomamente le conseguenze gianseniane che se ne vogliono derivare, come diremo in appresso. Laonde S. Agostino riunisce l' avversione e la conversione nella stessa definizione del peccato dove dice, che [...OMISSIS...] . 5.. e ) Finalmente i fautori di questo sistema abusano delle proposizioni condannate in Baio, citandole senza darsi cura di osservare in qual senso furono a ragione condannate. Ne darò due soli esempi. La propos. 47 dice: [...OMISSIS...] . Di qui essi deducono francamente, che il nome di peccato applicato a quel de' bambini deesi intendere di un peccato che sia tale non in sè, « sed quia rationem habet ad peccatum Adami (2). » Ma il dire che il peccato in cui nascono i bambini, e che inest unicuique proprium secondo il Concilio di Trento, non è peccato in sè stesso, è egli conforme al dogma cattolico? Non è lo stesso che negare il peccato originale, riducendolo a una sola relazione esterna tra una cosa che non è peccato ed una cosa che è peccato, cioè al peccato personale di Adamo? Non sarebbe stato contento Pelagio, se gli si avesse conceduto dai campioni della fede che lo combatterono, che ne' bambini che nascono nulla si rinviene che sia peccato in sè, ma che quello che non è in sè peccato si chiama o si considera come peccato (così diceva appunto uno degli autori a cui noi rispondiamo) (3), unicamente perchè fu un effetto della libera trasgressione di Adamo? E` dunque a considerarsi che quella proposizione fu condannata in Baio, perchè questo Dottore parlava dell' imputazione e del merito del peccato de' bambini, e voleva che fosse imputabile e demeritorio, senza riferirla alla libera volontà di Adamo, il che è quanto dire avesse ragione di colpa perchè il bambino non fa un atto contrario, cioè un atto che non può fare; onde ammetteva la colpa e il demerito senza la libertà. S' aggiunga, che se quella proposizione condannata in Baio non s' intenda con discernimento teologico si urta nello scoglio del giansenismo per troppa voglia di evitare il baianismo. Poichè come nel sistema di Baio basta al peccato originale la volontà non libera del bambino, così nel sistema di Giansenio basta la volontà di Adamo, che nel bambino non solo non è libera, ma nè pure esiste. E questo si può vedere nell' Augustinus (1) dove al capo 4 si sostiene appunto che [...OMISSIS...] . I fautori poi del sistema che esaminiamo, citano tanto più a sproposito quella proposizione condannata in Baio, che la vera causa, per la quale la privazione della grazia ne' bambini essi vogliono che sia peccato, non è già propriamente l' atto della libera prevaricazione di Adamo, la quale è soltanto una condizione: ma sì bene il decreto di Dio di dare a tutto il genere umano la grazia, se Adamo fosse stato fedele, e di toglierla se fosse stato infedele, il qual decreto Iddio poteva fare e non fare. In virtù di questo decreto dunque, dicono, che la grazia era dovuta alla natura umana, e che medesimamente in virtù di esso gli fu tolta, ed essendogli tolto ciò che gli era dovuto, questo fece sì che tal privazione si dovesse chiamare peccato . Di che viene indeclinabilmente, come abbiam già osservato, che quella disposizione divina sia ciò che dà forma o piuttosto il nome di privazione e di peccato a tale mancanza di grazia, e non la volontà di Adamo: il che è un collocare in Dio stesso, cioè nel suo decreto, la causa del peccato ne' bambini, e non nella libera disubbidienza del primo padre. Con minore efficacia ancora abusano della proposizione 55: « Deus non potuisset ab initio talem creare hominem, qualis nunc nascitur, » deducendone che dunque al presente l' uomo nasce senza alcuna ferita nella sua natura, e talora dando la taccia di eretici a quelli che professano il contrario. Ma basta conoscere i primi elementi della teologia cattolica per non ignorare che questa è una di quelle proposizioni di cui S. Pio V nella sua Bolla dice, che « aliquo pacto sustineri possunt, » benchè in altro senso da quello di Baio, su di che rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il P. Filippo da Carboneano, uno dei tre teologi che Benedetto XIV solea consultare, nel suo solido trattatello De propositionibus ab ecclesia damnatis (2). Quivi riprende, tra gli altri teologi lo Sporer e Felice Potestà per le spiegazioni date alle dette proposizioni Baiane, [...OMISSIS...] . E dimostra come queste ed altre proposizioni sono sostenute in un senso ben differente da quello di Baio dalle più celebri scuole cattoliche in Roma, sotto gli stessi occhi del Papa, e quanto replicatamente i Sommi Pontefici abbiano vietato, sotto precetto di ubbidienza, d' accusar d' eresia i loro sostenitori. Tali proposizioni baiane dunque nulla provano, se chi le adduce non ne spiega prima il senso nel quale furono dannate e non dimostra che l' autore che accusano le prende in quel senso. Concludiamo adunque da tutto ciò che neppure questo sistema, che ricade in quelli che abbiamo esaminati precedentemente, ha in sè alcun valore per abbattere l' eresia di Pelagio, il quale può dire a tali teologi: « Voi mi concedete che il peccato originale, che i cattolici attribuiscono al bambino, non è peccato in sè stesso, ma che solo così si chiama relativamente a un decreto di Dio che aveva stabilito che così si considerasse qualora Adamo suo padre avesse trasgredito il divino precetto: voi dunque convenite meco nel fondo, dissentite solo nelle parole per salvare le apparenze«. 59. Servano adunque questi esempi di un saggio di que' sistemi inventati modernamente intorno alla dottrina del peccato originale, i quali non hanno virtù d' abbattere ad un tempo le due opposte eresie del pelagianismo e del giansenismo: e di attenersi agli insegnamenti più solidi degli antichi. E per rispetto al pelagianismo (giacchè del giansenismo ci riservammo di parlare all' articolo seguente) dicemmo che tutta la forza dell' obbiezione pelagiana si riduce a sostenere che« l' ordine morale, a cui appartiene il peccato è opera così esclusivamente propria della volontà umana, che non può essere un fatto della natura« come sarebbe il peccato dei bambini, se fosse vero che l' ereditassero insieme colla natura per generazione, e che per confutare direttamente una tale obbiezione conviene dimostrare il contrario, esservi cioè una moralità ed un peccato distinto dalla colpa, che non alla sua volontà, ma alla stessa natura può, senza alcun assurdo, appartenere. 60. E veramente i Pelagiani caddero nell' eresia, perchè vollero filosofare invece di credere, non avendo tanto di filosofia che bastasse a sostenerli dall' errore. Essi posero sempre in opposizione la natura e la volontà , senz' avvedersi che tra queste due cose non passa quella separazione che s' immaginavano (1). Infatti la volontà è una natura anch' essa, e come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Laonde si distinguono due movimenti o modi di operare, della volontà, l' uno che ubbidisce necessariamente alla natura, e s' attribuisce alla volontà come natura, voluntas ut natura, l' altro che è libero, e si attribuisce alla volontà come volontà, voluntas ut voluntas, i quali due modi dagli scolastici, seguendo S. Giovanni Damasceno si chiamarono il primo «thelesis» e il secondo «bulesis» (3), denominazioni atte a segnare la volizione diretta, o intenzione, e il consiglio . Secondo questa distinzione di atti, o, se più piace, di funzioni della volontà, procede S. Tommaso, distinguendo la volontà semplice dal libero arbitrio, osservando che quella corrisponde all' intelletto, e questo alla ragione: [...OMISSIS...] . 61. Questa distinzione fu sconosciuta o trascurata non meno dai Pelagiani che dai Giansenisti, ed è quella, come abbiamo accennato, che tronca con un solo colpo la radice de' due opposti errori. Ma vediamone a bell' agio le conseguenze: a ) Primieramente da essa nasce la distinzione del peccato semplice che ha nozione di peccato astraendo dalla libera volontà, dalla colpa che esige il libero arbitrio: quando i Giansenisti disconobbero la natura di questa seconda, confondendola col primo; i Pelagiani, non tenendo conto che di questa seconda, negarono il primo. b ) Con altre parole, essendo la moralità, secondo la definizione che ne abbiam data,« l' abitudine che ha la volontà cogli oggetti della legge eterna« ne viene, che come è doppio il modo di operare e di essere abitualmente della volontà, l' uno naturale, l' altro elettivo, due devono essere le specie di moralità ben distinte che si manifestano in essa, l' una dipendente dalla natura degli oggetti che essa apprende e a cui aderisce come a fine, e questa specie di moralità non dipende attualmente e necessariamente dall' atto del libero arbitrio, in maniera che quell' atto elettivo entri a costituire la sostanza di quella moralità; l' altra dipendente dalla sua propria libera elezione, per la quale essa stessa tra i diversi oggetti che le sono offerti sceglie l' oggetto buono e ordinato a cui aderire, e rigetta l' oggetto non buono e disordinato: e queste due specie di moralità sono riconosciute, come abbiamo dimostrato nella Dottrina del peccato originale (1), nella cattolica dottrina, e su di esse si fondano diversi dogmi della nostra santa fede. c ) L' oggetto voluto che sia dalla volontà, in qualunque maniera lo voglia, costituisce la forma di questa potenza, e in quanto è buono o cattivo, ordinato o disordinato, dà la specie e la condizione morale al suo atto ed al suo stato, e però se l' oggetto è intrinsecamente cattivo, come abbiamo detto dell' odio di Dio, e lo stesso si può dire dell' odio del prossimo e d' un essere intelligente qualunque, la volontà che ha quest' odio, non può mai essere buona, ancorchè non sia più libera di fare il contrario, perchè dal disordine intrinseco dell' oggetto essa riceve il disordine in sè, come ogni ente che riceva una forma corrotta, anch' egli si corrompe (2). Onde giustamente S. Tommaso dice che « bonitas voluntatis proprie ex objecto dependet (3). » E qui si può riferire un luogo difficile di S. Agostino, in cui dice che si può peccare non solo voluntate peccati, ma anche voluntate facti (4), il che si deve intendere del caso, quando il fatto sia un intrinseco male, e però in sè stesso un peccato. - Poichè chi vuole ciò che è un male intrinseco ed essenziale, con ciò vuole il peccato che è indivisibile dall' essenza di quel fatto, ancorchè chi vuole quel fatto non sappia fare l' astrazione per la quale distingua la ragione del peccato dalla ragione del fatto. Onde viene la regola morale, che niuno può esporsi a far cosa che sia intrinsecamente mala, solo che ne dubiti (5), perchè s' espone con ciò al pericolo di dare a sè stesso di fatto la forma dell' immoralità. d ) Infatti l' oggetto voluto dalla volontà e la volontà che vi aderisce formano qualche cosa di uno, sebbene quest' uno consti di due elementi divisibili colla mente, perchè l' oggetto ha natura di termine e la volontà di principio, ed il principio ed il termine formano una sola entità. Laonde se il termine non è, rispetto al principio, cosa accidentale, ma così essenziale che lo costituisca quello che è, il termine stesso è un elemento che costituisce il principio nel suo essere di ente. Questo avviene primieramente e perfettissimamente in Dio, dove l' oggetto della sua volontà non solo gli è essenziale e uguale e immutabile in modo che non ammette accidenti di sorta, ma di più esso è la stessa essenza divina, come anche la volontà è l' identica essenza. Laonde in Dio la volontà è sempre necessariamente nel suo pieno atto, ed ha sempre lo stesso oggetto, e quest' oggetto è l' identica essenza che è la volontà: onde principio e termine non si possono mai dividere, ma sempre uniti costituiscono una sola semplicissima natura. E questa natura è appunto la moralità e la santità sussistente: dove si vede, che la moralità nella sua prima sede, e nel suo primo fonte, e nella sua perfezione essenziale , è una natura sussistente (la quale considerata come nozione personale è la proprietà del Santo Spirito) e non l' effetto di un atto di volontà libera di eleggere tra il bene e il male. e ) Ed essendo l' uomo creato ad imagine di Dio, niuna maraviglia che si trovi anche nell' uomo qualche vestigio di questa morale natura sussistente. Infatti anteriormente all' elezione libera trovasi nell' uomo quell' atto che i filosofi e teologi morali chiamano intenzione , il quale dà all' uomo un certo essere o natura morale, in cui si radica la stessa potenza della volontà, di maniera che non si potrebbe concepire l' esistenza di questa potenza senza presupporre nell' essenza umana quella morale natura, onde il Gaetano, dichiarando S. Tommaso, dice: [...OMISSIS...] . Ma grandemente differisce la natura morale in Dio, dove è natura completa, dalla natura morale dell' uomo, dov' è solamente iniziale, che ha bisogno poi di ultimarsi con altri atti, e massimamente con quelli della libera elezione. Poichè in Dio l' oggetto naturale così dello intelletto come della volontà è la stessa essenza divina attualissima; laddove l' uomo non ha per oggetto naturale la propria essenza, ma un' altra essenza, laonde da questa è dipendente, carattere comune a tutte le intelligenze create e finite. Di poi il suo oggetto naturale non contiene tutti gli enti attualmente, ma solo virtualmente, onde non è che un lume che gli fa conoscere la moltiplicità degli oggetti, che in appresso gli sono aggiunti in modo accidentale, e il quanto della loro entità e bontà, onde può eleggere fra essi. L' oggetto all' incontro in Dio essendo Dio, tutto attualmente contiene, e non bisogna d' altra aggiunta qualunque: ma la volontà stessa distingue e crea i finiti, e dà loro l' entità reale e ciò che hanno di bene: onde il bene degli enti finiti è posteriore all' atto della volontà divina come l' effetto alla causa, e non preesistono in modo che le possano esser dati sussistenti tra cui eleggere. 62. Dimostrato adunque che ci sono nell' uomo due specie di moralità, l' una dipendente dall' atto del suo libero arbitrio, l' altra anteriore a questa e principio di questa, giacente nella sua natura morale, l' obbiezione de' Pelagiani contro il peccato originale rimane del tutto annichilita, come quella che si fondava sul falso supposto, che tutto l' ordine morale si assolvesse negli atti del libero arbitrio. E veramente se ci può essere una moralità inerente e appartenente alla natura, e se la natura viene trasmessa per via di generazione, dunque è tolto ogni assurdo che ci sia qualche cosa di morale che si possa trasmettere insieme colla natura per la naturale generazione. E questo è quello che insegna la Chiesa Cattolica col dogma del peccato originale, il quale si chiama costantemente e peccatum naturale, e languor naturae . E perciò anche i bambini, come dichiara il Sacrosanto Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . 63. Gli eretici e gli increduli accampano due specie di argomenti contro alla cattolica verità, cogli uni pretendono di trovare qualche dogma da essa insegnato in contraddizione con qualche principio indubitato di ragione, cogli altri non pretendono tanto, ma sono obbiezioni tratte dalla difficoltà di spiegare gli stessi dogmi, e da certe verisimiglianze che deducono da tali verità. Ai primi argomenti è necessario che il teologo risponda direttamente sciogliendo l' apparente assurdo, perchè niuno è obbligato a credere a ciò che si oppone ai primi principii della ragione: ai secondi, basta che esponga e provi i motivi di credibilità, poichè dimostrato, che la cosa è rivelata da Dio, può dire con tutta ragione agli avversarii:« se non potete intendere, credete« (2). L' argomento dei Pelagiani contro la moralità indeliberata della natura era della prima specie, e abbiamo veduto come cada disciolto, quando si approfonda il concetto di moralità e di peccato: gli altri appartengono alla seconda specie, e basta che si combattano coll' autorità della rivelazione e colle definizioni della Chiesa. Tuttavia toccheremo e ragionando abbatteremo anche alcuni di quelli, la cui confutazione giova a far via meglio conoscere la condizione del peccato d' origine, di cui ci siamo proposti trattare in questo paragrafo. 64. a ) Se alla natura si attribuisce l' immoralità si rovescierebbe nel manicheismo, ammettendo una natura malvagia. - Si risponde con S. Agostino e gli altri maestri, che la natura umana è stata creata da Dio da ogni lato buona, ma che l' uomo col suo libero arbitrio l' ha guastata, e l' ha guastata solo ne' suoi accidenti, e non in ciò che costituisce la sua essenza. Ora tal è la limitazione di ogni natura creata (non della sola natura umana, o della sola natura morale), che ella sia corruttibile nella sua parte accidentale: i Manichei all' incontro pretendevano, che ci fosse una natura che non fosse già corruttibile nella sua parte accidentale, ma fosse mala per sè nella sua stessa essenza: [...OMISSIS...] . 65. b ) Essendo la natura umana opera di Dio e non dell' uomo, s' ella potesse essere malvagia, verrebbe a rifondersi in Dio, come in causa, il peccato della medesima. - Si risponde allo stesso modo, che Iddio fu l' autore della natura umana, buona e perfetta, e arricchita di più di doni soprannaturali; ma che l' uomo col suo libero arbitrio, peccando, la guastò nella sua parte accidentale e mutabile; che Iddio fu l' autore della natura umana in Adamo innocente; che uscì dalle sue mani colla creazione; ma che Iddio non è la prossima causa della natura umana ne' discendenti di Adamo: perchè la causa prossima della natura umana in essi esistente è il padre che per via di generazione comunica loro la natura umana, e la comunica quale la ha in sè stesso, cioè disordinata dal peccato commesso da lui col suo libero arbitrio. E qui conviene rimuovere l' equivoco che nasce pe' varii significati che s' attribuiscono alla parola natura, che male a proposito in quest' argomento si prende per l' essenza o ideale o realizzata, laddove deve prendersi per la natura tutt' intera, cioè co' suoi accidenti, generabile, che è il primo significato che Aristotele attribuisce a questa parola natura a nascendo [...OMISSIS...] (2). Dato dunque che la natura umana sia corruttibile ne' suoi accidenti, parte de' quali appartiene all' ordine morale, e che in quest' ordine possa scompaginarla e guastarla il libero arbitrio dell' uomo stesso; e posto che l' autore prossimo di questa natura, in quanto è moltiplicabile, non sia Iddio creatore, ma l' uomo stesso che ha per legge naturale di generare il simile a sè: niente più ripugna, che lo stesso guasto e disordine che l' uomo ha prodotto nella propria natura, lo comunichi insieme colla natura a quegli individui, che egli per opera della generazione fa sussistere, mentre prima non sussistevano. 66. c ) Dato anche che la natura umana possa essere disordinata per effetto dell' atto libero di Adamo, questo non può essere un disordine morale, e molto meno un peccato mortale abituale, che è un disordine personale. - Rispondesi colla dottrina di S. Tommaso, che è quella della tradizione, la qual dottrina nel citato Compendio della Teologia così viene espressa: [...OMISSIS...] . E per intendere come ciò sia, non conviene separare la persona dalla natura, quasi che siano due separati sussistenti, ma considerare, che la persona non è altro che un modo d' esistere della natura, quando questa sia intelligente, è quel modo che ne costituisce l' ultima e più elevata sua attualità, che unifica e contiene sotto di sè tutto il resto che nella natura si trova, come abbiamo dichiarato nella Antropologia, onde gli scolastici solevano anche definire la persona: una sussistenza o ipostasi « distincta proprietate ad dignitatem pertinente . » Se dunque la persona non è che il modo nel quale sussiste a pieno determinata e semplificata la natura tosto che questa sia intelligente, qual meraviglia, che il guasto morale della natura s' estenda al suo modo proprio di sussistere? Vero è, che, come abbiamo detto, la persona non può essere mai del tutto passiva, essendo essa un principio attivo (2); ma da questo non procede altro, se non che la persona non ammette coazione, senza però escludere (parlandosi di persone limitate e create) la spontanea consensione alla piega che le dà la natura, di cui è, come dicevamo, il modo di sussistere. Di che consegue pure, che se il guasto rimanesse nella sola natura, e non ascendesse a pervertire il suo principio supremo, ossia il suo modo di esistere intellettuale e morale, esso non potrebbe ricevere il concetto di peccato mortale. Ma tosto che attrae a sè e seduce il suo principio personale, tosto riceve un tale concetto, come insegnarono, seguendo l' ecclesiastica tradizione, gli scolastici: [...OMISSIS...] . Di che ancora si può inferire che nè le nozze, nè la generazione sono peccato, non producendo immediatamente il peccato, perchè la generazione comunica solo la natura guasta, venendo poi la persona a ricevere da essa l' infezione che si fa morale, perchè si fa personale; la persona viene altronde come diremo. A quel modo dunque che non sono peccati morali i difetti che un pittore o uno scultore lascia nelle opere sue per imperizia dell' arte, o per imperfezione di stromenti, così la generazione lascia un difetto nella carne, che in sè solo non è peccato morale, ma è poi causa del peccato alla persona. 67. d ) Voi dite che la persona viene altronde e non immediatamente dalla generazione, e con questo volete dire certamente che essa viene da Dio che crea e infonde l' anima intellettiva. Ora con questo le difficoltà si aumentano. Se aveste sostenuto che l' anima intellettiva, subbietto, come voi dite, del peccato d' origine, venisse ex traduce, s' intenderebbe in qualche modo che il peccato passasse per generazione, ma venendo creata e infusa da Dio, si fa Iddio autore del peccato. - In nessuna maniera noi ammettiamo che l' anima intellettiva si comunichi ex traduce , il che involgerebbe diversi assurdi, e tra gli altri quello che la persona sia moltiplicabile e comunicabile, quando è essenziale alla persona l' essere incomunicabile, appunto perchè è una natura perfettamente determinata e quindi tutta finita in sè stessa. Ma tuttavia in nessun modo procede che Iddio sia l' autore del peccato. Così sebbene Iddio intervenga e concorra come prima causa nella produzione di tutti gli eventi mondiali, non ne viene che egli concorra come causa a' mali che in essi permette, intervenendo egli solamente come causa e fonte del bene, e il male provenendo dalle cause seconde e deficienti, come abbiamo dichiarato nella Teodicea .

Filosofia della politica. Della naturale costituzione della società civile

631048
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ma nessuno, nè pure i più benefici, credette mai che gl' indigenti che soccorrevano avessero un diritto al loro soccorso, sicchè lo si potessero pigliare per forza: gl' indigenti stessi non hanno mai creduto di averlo, e la natura e la ragione mosse sempre le loro lingue ai ringraziamenti, ed i loro cuori alla riconoscenza dei beneficŒ che ricevevano, poichè sentivano che erano beneficŒ, e non debiti che fossero a lor pagati. 1) Se dunque fin qui i proprietari non ebbero che un dovere d' umanità verso gl' indigenti, e gl' indigenti nessun vero diritto verso i proprietarŒ, non conviene già a questi entrare in una società che muta le naturali relazioni fra gli uomini e che quei poveri che prima beneficavano innalza allo stato di creditori, i beneficanti abbassa a quello dei debitori, che priva questi di quella riconoscenza, venerazione ed amore, che ricevevano da quelli per unico risarcimento dei loro beneficŒ, e che all' incontro indurisce il cuore di questi, ed estinguendo in esso quelle naturali e dolci affezioni che gli avvincolavano coi soccorritori delle loro miserie, li cangia in esattori assidui, e li rende altrettante piante parassite che senza nulla produrre succiano gli umori vitali dal tronco della società. Non è dunque utile tale società che sovverte l' ordine della natura, che sommette i ricchi come debitori ai poveri resi creditori, e che dà a questi un diritto così esteso sopra di quelli quanto è estesa la povertà, la quale non ha confini mentre nessun bene necessariamente la satolla, potendo essere sempre riprodotta dalla volontà stessa degli indigenti. Consiglio adunque, disse, bensì i proprietarŒ a fare una società fra di loro, ma a non entrare in quella che si chiama società civile , e che si propone di fare insieme con tutti gli uomini ed anche perciò coi non proprietarŒ; poichè tale instituzione scioglie i vincoli più dolci che stringe i proprietarŒ ai non proprietarŒ per unirli insieme in quella vece con catene di ferro; scioglie i vincoli della natura per sostituirne di arbitrarŒ, i giusti per sostituirne di ingiusti; e costringe i ricchi a pagare per i poveri, non già col patto che questi li risarciscano mediante delle fatiche che posson prestare, ma col patto che restino poveri; mentre si pianta in principio, che la povertà stessa sia quella che dà loro questo preteso diritto. Se i proprietarŒ fanno un' associazione fra loro, non fanno nessun torto con ciò agli indigenti; poichè a ciascun uomo è lecito di associarsi coi suoi simili, per conseguire colla loro unione qualche fine onesto; e i non proprietarŒ possono parimenti fare se vogliono fra loro una simile associazione; poichè nessuno può loro impedirlo. Nè tampoco è vero che i proprietarŒ con ciò ricusino di riconoscersi simili dei non proprietarŒ. Essi riconoscono benissimo di appartenere ad una stessa società generale qual' è quella in cui sono gli uomini per la comunanza della natura. Ma questa non si dee confondere con altre particolari società. Essi anzi, come dicevo, conservano maggiormente in tal modo coi non proprietarŒ i vincoli delle naturali affezioni, vincoli spirituali che stringono una nobile società fra gli uomini, e che non debbono giammai essere sacrificati a dei vincoli materiali. D' altro lato nella società che io propongo di stringere ai proprietarŒ fra di loro, e che io sono indifferente che si chiami civile o con altro nome, perchè i vocaboli non formano la cosa, è impossibile che entrino i non proprietarŒ: poichè una società non si stringe se non per degli interessi comuni; ed è assurdo che entrino nella stessa società degli uomini, che non hanno dei comuni interessi: così i non proprietarŒ non possono avere interesse comune coi proprietarŒ, e non possono per ciò entrare in una società, il cui scopo è l' amministrazione della proprietà, poichè non avendone non potrebbono metter nulla insieme da amministrare, e l' entrare in essa per acquistarne è un entrarvi solo in apparenza; mentre non sarebbe un entrarvi per lo scopo della società, ma sarebbe un acquistare relazione con detta società per uno scopo a loro soli particolare. La Commissione prese a rispondere alle obbiezioni proposte: che primieramente conveniva con quelli che osservavano essere un errore fondamentale confondere la società generale degli uomini colla società civile; che questo errore tuttavia vigeva in molte menti, e che si era cercato con grave danno d' introdurlo nelle sociali costituzioni; che la società civile non era una società generale ma una società parziale: parziale disse, non pel numero degli uomini che racchiude, quasichè ne escluda dal suo seno qualche classe, ma per gl' interessi che si propone a suo fine immediato. Questi interessi non sono che i diritti nelle singole persone, ed il suo fine è di difendere questi diritti, e di farli fiorire non disponendo di altro che della loro modalità. Il potere civile adunque che si vuole instituire, sebbene debb' essere supremo nel suo genere, tuttavia è limitato nel suo oggetto. Quest' oggetto del potere, diciamolo di nuovo, è il regolamento della modalità dei diritti al doppio fine che sieno conservati ed accresciuti. Egli dunque aggiunge bensì qualche cosa allo stato di natura in cui si trovano presentemente le famiglie, ma non è già che distrugga questo stato di natura, o che lo assorba in sè stesso: si può dire ch' egli non sia altro se non un mezzo per cui si conservi lo stato di natura. I diritti sono nello stato di natura: e questi diritti son quelli che debbono sussistere egualmente nello stato di società. Le relazioni fra gli uomini che nascono da questi diritti, ovvero dalle loro scambievoli spontanee affezioni, appartengono pure allo stato di natura, poichè non hanno già bisogno di una legge civile per essere prodotte o permesse, e queste medesimamente rimangono le stesse nello stato sociale. Nello stato sociale adunque rimane intatto tutto lo stato di natura e non v' è di più che un potere, il quale lo difende e lo aiuta al bene degli uomini. Egli è dunque un grande errore, sebbene frequente, quello di non vedere nella società civile che diritti e relazioni creati dal potere civile, quasichè dipendesse da questo potere civile anche che gli uomini sieno uomini. Dirò di più, poichè il potere civile non è che un mezzo per difendere ed aiutare lo stato naturale, egli avverrà, che sia tanto più perfetto quanto meno apparisca; cioè quanto più insensibile sia la sua azione: poichè il miglior mezzo di ottenere un fine è quello di ottenerlo colla menoma azione. Egli è dunque un' insensatezza degli uomini moderni lo sforzo di distruggere lo stato naturale per non vedere da per tutto che il civile: lo sforzo di distruggere le affezioni ed i vincoli della natura per sostituire ad essi dei patti immaginarŒ: lo sforzo di distruggere il reale per sostituirvi l' ipotetico, e il dettame della giustizia naturale per sostituirvi la sanzione della forza, o sia l' arbitrio che essa dà a quelli che l' ha nelle mani. E` vero che questo errore avvicinò gli uomini necessariamente alla verità; poichè supposto che non vi fossero diritti se non sociali, cioè se non sostenuti dalla forza sociale, vale a dire supposto che i diritti non fossero distribuiti dai titoli naturali, ma dall' arbitrio fornito di forza, era impossibile che non iscorgessero l' assurdità nel sistema, quando quest' arbitrio fosse dato ad una persona particolare: mentre una tale persona sarebbe riuscita il più mostruoso dei tiranni. Quindi necessariamente ricorsero all' arbitrio del popolo, come un arbitrio che veniva tenuto in dovere dall' interesse generale, cioè dall' interesse dei più; ma che non cessava per questo d' essere radicalmente una tirannide, mentre la prima sua conseguenza era il sacrificio dei meno ai più: ed in fatti l' infallibilità del popolo fu proclamata nello stesso tempo che si vide disporre col maggior arbitrio, anzi col più crudele arbitrio, della sostanza e della vita dei più deboli; che si sentì giustificare qualunque eccesso collo specioso titolo del bene generale, e che si vide andare regolarizzandosi questo sistema mostruoso, e, ridotto a termini finanziari, stabilirsi, che le masse dovevano essere tutto, e nulla le individualità, e che un paese produceva in uomini tanta rendita annua da potere spendersi per la gloria dello Stato secondo il capriccio del più forte dei Generali nazionali. Ma la legge naturale è sacra indipendentemente dalla forza che la sanziona e dal potere civile che la promulga: ed essa è quella che fa quello stato di natura, cui il potere civile non può distruggere nè produrre: quello stato di natura umana in cui gli uomini sono legati fra loro per affezioni ad essi naturali, e per diritti e doveri morali. Conviene su questi principŒ definire la questione agitata fra i proprietarŒ ed i non proprietarŒ. Poichè primieramente egli è verissimo, che dalla legittima natura che abbiamo messo in chiaro della società civile risulta, che quand' anche i non proprietarŒ fossero esclusi dall' associazione che insieme facessero i proprietarŒ, non si potrebbono punto chiamare offesi nei loro diritti che hanno comuni con tutti gli altri uomini: perciocchè non sarebbero esclusi per questo dalla società del genere umano, riterrebbero inviolati i diritti dell' uomo, e non sarebbe meno colpevole colui che li violasse in essi dopo l' associazione, di quello che fosse innanzi; conserverebbero le stesse relazioni coi proprietarŒ sociali; parteciperebbero degli stessi beneficŒ, e sarebbero a loro debitori della stessa gratitudine, e senza perder nulla di ciò che avevano come uomini nello stato di natura, non farebbero che non guadagnar nulla dal nuovo stato sociale dei proprietarŒ. Ma sebbene ciò sia vero, come osservò chi ha parlato in favore dei proprietarŒ, non è però da preferirsi la società particolare da lui proposta alla società civile, che per esser tale debbe abbracciare, come siamo convenuti, i diritti di tutti gli uomini. Non è, dico, preferibile rispetto al vantaggio degli stessi proprietarŒ, perocchè primieramente i non proprietarŒ, esclusi che fossero dalla società, non potrebbono essere sottomessi alle leggi della medesima per diritto, nè soggetti a' suoi tribunali se non mediante la forza. Nè potrebbe essere impedita giustamente una loro associazione, la quale verrebbe a formare due poteri egualmente supremi al contatto l' uno dell' altro; nei quali perciò non potrebbe nascere fra l' uno e l' altro che discordia e che l' uno non venisse sottomesso all' altro. Ora in questo caso di chi sarebbe la peggiore? dei proprietarŒ che arrischiano di perdere colle loro sostanze anche la loro libertà, o dei non proprietarŒ che hanno l' avidità e la speranza di diventare ad una girata di ruota ricchi e potenti, e dal più basso luogo che occupavano la sera fra gli uomini svegliarsi la mattina in cima della fortuna? Senzachè, quelli che non sono ancora proprietarŒ possono arricchire, ed essere prosperata anche in tal modo la loro associazione la quale non si potrà più rompere, e si dovrà temere. Egli è dunque meglio per tutti egualmente gli uomini, ma specialmente per li proprietarŒ che si costituisca una vera società civile senza esclusione di persona, nella quale tutti i diritti sieno rappresentati, e la modalità di tutti i diritti sia da un solo potere amministrata. - Ma i proprietarŒ dicono, noi non vogliamo pagare per li non proprietarŒ, ed è in questo che la Commissione dà loro tutta la ragione; mentre se non desse loro ragione in ciò, contraddirebbe a sè stessa, che ha posto come la prima base del potere che si vuole instituire, ch' egli non abbia veruna forza di trasferire i diritti d' una nell' altra persona; ciò che succederebbe se si facesse che i ricchi pagassero per i poveri, mentre con ciò si trasferirebbero i diritti di questi in vantaggio di quelli. Come adunque, voi direte, possono i poveri entrare in simile associazione, mentre non ne possono pagare le spese? Questo è quello che la Commissione si riserva di spiegare quando si tratterà di stabilire il posto che debbono occupare nella società ciascuna delle quattro classi in cui si divisero tutte le persone da associarsi: in tanto si contenta di far osservare che nella proposizione fatta, e sopra cui si rivolge la presente discussione, non fu già detto solo, che ciascuna specie di diritti dovesse ritrovare una rappresentanza conveniente , ma si aggiunse, e possibile; cioè possibile a conciliarsi colla giustizia e colla equità, ossia colla conservazione dei diritti di tutti; ed ancora di assicurare i proprietarŒ che l' associazione dovrà esser tale che essi non ispendano già per i poveri, o secondo la volontà di questi. Queste ragioni tranquillarono i due partiti; ma il delegato dei non proprietarŒ uscì con una nuova obbiezione dicendo che dal momento che si debbe scegliere una amministrazione della modalità dei diritti di tutti gli uomini, non si doveva già tanto cercare che in essa fossero rappresentati i diritti dei socŒ, quanto ch' ella fosse tale che amministrasse bene, e che per tal fine non si doveva aver altra regola nel formarla che quella di scegliere fra tutti le persone superiori alle altre per sapienza e per virtù, o sia di maggior capacità ad ottenere lo scopo proposto; che i ricchi solitamente sono inerti ed incapaci di governare, e che perciò non è utile che abbiano tanto peso nella società; che, se si accresce la loro potenza col dar loro in mano il governo civile, diventeranno più crudi e spietati che non sono colla plebe; che vedendo d' aver in mano tutto il potere lascieranno le cose pubbliche nella maggior dimenticanza, e il bene pubblico sarà immolato a' loro capricci: che il merito solo distingue l' uomo dall' uomo; e che il merito si debbe premiare coi pubblici onori, e colle cariche civili, e che è un indegno spettacolo il veder l' uomo probo e sapiente nella miseria e nell' avvilimento, mentre l' ignoranza fastosa ed il vizio potente si compiace mirarlo avvilito a' suoi piedi. La Commissione rispose che simili osservazioni avevano bensì una speciosa apparenza, ma che disaminate più addentro si trovavano inconcludenti. E di vero se la scienza o anche la stessa probità fosse quella che desse agli uomini il diritto di entrare nelle amministrazioni pubbliche, non ci sarebbe ragione perchè queste eccellenti qualità non dessero ancora a chi le possiede il diritto di entrare nelle amministrazioni private. In tal caso gli uomini savŒ e gli uomini probi, o quelli che tali si tengono, potrebbero giustamente mettersi nelle case dei proprietarŒ e dir loro: A noi spetta l' amministrazione delle vostre ricchezze perchè noi sappiamo meglio amministrarle di voi e con più rettitudine. Ma in tal caso i proprietarŒ li scaccerrebbero o come pazzi o come furfanti, anzichè li credessero probi e sapienti; giacchè non mostrerebbero di sapere che il diritto di proprietà dà il diritto ancora di amministrarla. Che se la sapienza, e la virtù avessero il diritto di amministrare la proprietà, non si potrebbe già negare loro quello sulla proprietà stessa ed allo stesso modo si potrebbe dire: Che indegnità è questa che l' ignorante ed il vizioso si vegga pieno di ricchezza mentre l' uomo dotto e virtuoso pena nella miseria? Le ricchezze appartengono agli uomini di merito, e non agli sciocchi, non ai tristi: si tolgano adunque a questi, ai quali non appartengono, e si distribuiscano meglio che non fece la cieca fortuna, a quelli che hanno il merito di possederle. Non è egli questo il ragionamento medesimo che fa il deputato dei non proprietarŒ a provare che l' amministrazione pubblica debbe essere distribuita anzi secondo il merito che secondo la proprietà? Questo discorso adunque nella sua estensione considerato autorizza la rapina, e distrugge la proprietà, tanto più che se uniti alla sapienza e alla virtù fossero tali privilegŒ nessuno potrebbe formare un giusto giudizio degli uomini, assai meno che ora possa, poichè ciascuno vorrebbe esser più probo e più sapiente degli altri, ed adoprerebbe tutti i suoi mezzi a corrompere quelli che dovessero giudicarlo: se non che il giudice in ultimo appello esser non potrebbe che la forza, e così la sapienza e la virtù dal momento che si sottraggono dalla giustizia distruggono ad un tempo sè medesime, e si mettono alla discrezione della forza materiale. Se si ammette adunque da noi il principio della proprietà; conviene che riconosciamo altresì ch' essa è indipendente dal merito personale, e che essa non è distribuita già secondo questo, ma solo secondo i titoli di giustizia. Supponiamo ancora che vi fosse il modo di rilevare il merito personale con sicurezza, ciò che è impossibile sì perchè molte volte è occulto, sì perchè quelli che debbono giudicarlo sarebbero nello stesso tempo anch' essi parti nella causa che giudicano; il possesso della ricchezza in tal caso dovrebbe variare ad ogni istante, mentre continuamente varia il merito personale, e l' uomo trascorre rapidamente sì le scale del vizio che quelle della virtù; e la ricchezza sempre in mano a nuovi padroni incerti di possederla a lungo rimarrebbe dilapidata anzichè amministrata; sebbene ciascuno che l' avesse una volta in mano, certo non se la lascierebbe più così di leggieri uscire: studierebbe il modo di accordarsi cogli altri proprietarŒ, ond' ottenere sicurezza alle proprie sostanze contro alla rapacità degli uomini di merito, e in tal modo formerebbe quella associazione che testè fu proposta fra i proprietarŒ e che, sebbene meno utile dell' associazione civile, nessuno però convincere la potrebbe d' ingiusta. D' altro lato che cos' è una declamazione generale, e gratuita contro i vizŒ dei proprietarŒ? il sofisma più pazzo del mondo: poichè qual' è il fine di tale declamazione? forse di mostrare che le ricchezze guastano i costumi ed i principŒ degli uomini? egli sembra che ciò sia; ma in tal caso la declamazione va contro le ricchezze: or dunque queste si dovrebbono distruggere ed annientare. E` egli forse questo il vostro parere? non già, anzi voi riponete la prosperità pubblica nel loro aumento. Voi non sostenete adunque se non che le ricchezze debbano mutar padrone: e perchè? perchè i ricchi sono malvagi. Ma togliete voi i ricchi quando avete fatto mutare di luogo alle ricchezze? non già; ma non avete che mutate le persone posseditrici; e fatto che quelle che erano povere divenissero ricche, e così viceversa. E` il merito delle povere, soggiungete voi, che a ciò ne spinge. Avvertite, dall' istante che vi arrogate l' autorità di giudici supremi ed usurpate l' ufficio della divina Provvidenza, avvertite che voi con ciò fate apparire una bene strana compassione verso a queste vostre persone misere ad un tempo e fornite insieme delle più alte virtù: la compassione vostra si occupa adunque tutta per corromperle: si occupa a farle divenire di quelli odiosi ed esecrati proprietarŒ coperti pure agli occhi vostri da capo a fondo di una lebbra la più obbrobriosa e la più insanabile. Allora quando adunque voi avrete rese in questa supposizione proprietarie quelle persone che or giudicate di merito (ed e' resta anco a vedere qual senso aggiungiate a questa parola) egli è ben naturale che sorgeranno immediatamente degli altri avvocati della Classe che rimane povera, i quali come voi col tuono di chi parla in nome della umanità, della virtù e dei lumi prenderanno il discorso stesso che voi fate presentemente e fulmineranno invettive contro gli eccessi obbrobriosi dei vostri nuovi proprietari, cioè contro la classe delle persone di merito da voi innalzata e coperta in tal modo di tutta l' invidia che seco portano le proprietà; la quale classe non è più quella di persone di merito, ma quella dei ricchi. Così distrutto il principio di proprietà, la società civile si rende impossibile. In fatti il suo scopo è appunto la proprietà, ed in primo luogo la difesa della medesima: e se appresso qualche nazione si è introdotto per breve tempo il principio opposto, che il merito dia un diritto sull' altrui proprietà ovvero sull' amministrazione della medesima, questo non s' è introdotto se non perchè le sue conseguenze non furono bastantemente vedute a principio: e solo gli effetti ne resero accorti gli uomini: perciocchè appena che i filosofi pretesero di avere essi il diritto di riformare la loro nazione, questa cadde nell' anarchia; fino a che tali uomini sapienti, il cui merito proclamato da se stessi diede loro la filosofica autorità di rapire l' altrui, si sono resi i proprietarŒ: ed allora, nuovi proprietarŒ, rialzarono la società dissipata in sugli antichi principŒ, lasciando di buon volere ormai il pallio e la barba, di che più non abbisognavano alla riforma dell' umanità. La maggior parte di quelli che formano questa assemblea posseggono qualche cosa del proprio: ora acconsentirete voi che quanto possedete passi in proprietà delle persone di voi più meritevoli? Tale è la assurda condizione che vi si propone: e che pure potè essere un sofisma alle menti di quelli che considerano gli uomini abitatori nelle regioni liberissime della lor fantasia. La logica del principio: l' amministrazione della proprietà debb' essere distribuita secondo il merito: è simile a quella che si ritrova in quest' altro: l' uomo debbe mangiare non in ragione delle forze del suo stomaco, ma di quelle del suo spirito, poichè il suo spirito è preferibile al suo stomaco. Accordo che sia lo spirito preferibile allo stomaco; ma la relazione del cibo è collo stomaco e non è collo spirito, ed è questa relazione che ora si cerca determinare. Così pure: Accordo che il merito personale sia preferibile all' accidentale diritto di proprietà; ma la relazione dell' amministrazione è colla proprietà, e non è col merito: e questa relazione si cerca determinare. Non si confondano adunque insieme due ordini di cose sì diversi fra loro, e volendo cercare le proporzioni dell' uno, non si ricorra alle misure dell' altro. Anche in questo mescolamento degli ordini sociale e morale si ravvisa quella confusione così nocevole della società civile colla società universale del genere umano. La società civile, come diceva, è una società parziale, ed ha uno scopo parziale: la conservazione, cioè, e l' aumento ordinato delle proprietà. La società del genere umano ha uno scopo sommo e generale: la virtù e la perfetta felicità. In questa immensa società dell' umano genere noi veggiamo un ordine di cose ben diverso da quello che è proprio della società civile. L' ordine della società universale abbraccia tutta intera la moralità; l' ordine della società civile è ristretto nel suo scopo immediato a quella parte di moralità che riguarda la giustizia esterna fra gli uomini. Nella società universale lo spirito si eleva a vedere come tutto debbe essere distribuito secondo il vero merito degli uomini; ma questa legge primaria ed inviolabile della società universale non si può già trasportare nella società civile; perchè non è a questa proporzionata e non trova in questa il modo di venire eseguita. Nella società universale essa viene eseguita perchè essa è presieduta da Dio, cioè dal solo giudice capace di giudicare il vero merito degli uomini e alieno necessariamente da ogni interesse in simil giudizio; presieduta ancora dal solo monarca che abbia tutti i mezzi opportuni per render a pieno giustizia a ciascuna delle sue creature. La società civile all' incontro non è che presieduta dall' uomo, cioè non è presieduta da chi giudica ma da chi è giudicato: da chi aspetta il giudizio più favorevole, se questo gli debbe apportare un esterno vantaggio, non da chi è indifferente al risultamento di tal giudizio. Conchiudasi: La società civile è ben altro dalla società universale; essa non è punto altro (bisogna a pieno intenderlo) che l' amministrazione della modalità dei diritti di tutti gli uomini associati nella medesima: non è perciò se non una separazione, che si fa nella amministrazione che ciascuno esercita dei proprŒ beni nello stato naturale, di quella parte d' amministrazione che riguarda i diritti e di quella che riguarda il loro modo di essere; l' amministrazione dei diritti particolari si rimane nell' istituzione della società civile divisa, come prima, nelle mani dei singoli proprietarŒ: la modalità all' incontro dei medesimi viene posta in comune e qui si cerca chi debbe comporre quest' amministrazione in comune. Ora egli è evidente che ognuno dei proprietarŒ ha diritto di concorrere nella medesima per quel tanto che egli pone in mezzo di modalità; e che nessuno può farlo rinunziare a tale diritto nel caso di una associazione spontanea come è la presente. Indarno e fuor di proposito ci si oppone che l' amministrazione anderà male perchè fatta da persone ignoranti e viziose; conciossiacchè, lasciando anche che nissun sapiente in generale vale più nell' amministrazione di quello che valgono i padroni stessi, risponderò: Se un proprietario amministra male il suo, chi potrà dunque rimprocciarlo? Egli fa male, ma solo a sè stesso, e tale sarà di lui, nè altro che un vano nome è il ben pubblico che si piange sacrificato: conciossiacchè il ben pubblico non è che la collezione dei diritti, ed il pubblico non è che la unione di quelli che li posseggono. Quando anco adunque gli amministratori di quella società civile, nella quale tutti i diritti sono rappresentati, l' amministrassero male; non seguirebbe da questo ch' essi facessero torto a persona: perchè amministrerebbono male l' avere loro proprio: la società civile non distruggerebbe già per questo la società universale: e la sua istituzione non impedirebbe che tutti i meriti fossero in questa ricompensati dal suo capo divino; a quel modo medesimo che se il ricco mercatante non si spoglia delle proprie ricchezze per premiare le fatiche del letterato, egli non toglie a lui per questo nè il suo merito nè la sua dottrina nè le sue aspettazioni; egli non impedisce che la sua scienza in altro ordine di cose e in altra società diversa dalla mercantile sia coronata e che rinvenga il mecenate generoso che lo protegga e che lo ricolmi di benefizŒ. Il discorso, onde la Commissione sostenne nella sessione precedente il principio di equità da essa posto come base dell' associazione civile che trattavasi di formare contro ai sofismi di una individuale filosofia, le conciliò l' animo di tutta l' assemblea, la quale conobbe non potersi meglio costituire la società civile che dando in essa a tutti i diritti una rappresentazione conveniente e possibile. Tal principio discendeva immediatamente dall' idea precisa della società civile; ed essendo ben compreso metteva tutte le menti in sicuro contro alle fallacie degli astuti e dei semidotti. Nello stesso tempo era quello che rendeva meno imbarazzante l' esecuzione della società meditata, e che mostrava la via più corta insieme e più naturale per arrivare alla medesima; conciossiacchè formandosi la società in tal modo gli uomini abbandonavano il meno che fosse possibile lo stato di natura; mentre non si spogliavano di nulla, nè pure della direzione della modalità dei loro diritti; ma non venivano a far altro che a variare il modo di dirigerla e regolarla; perocchè mentre prima la regolavano in separato, e ciascuno da sè regolava la propria, mediante la nuova instituzione venivano a regolarla in comune, e a regolare con una comune volontà la somma di tutte le modalità insieme raccolte. Restava dunque di vedere come tal principio si potesse ridurre alla pratica e qual fosse la rappresentazione conveniente e possibile che aver potesse ciascuna delle quattro classi di persone, che comporre dovevano la nuova società. La Commissione prese a trattare con ciascuna a parte; e primieramente colla prima, che fu quella che occupò la quinta sessione dell' assemblea. La prima classe delle persone componenti la società civile era quella delle persone non libere. La Commissione definì le persone non libere per quelle che non avevano diritto sulle proprie operazioni, essendo questo diritto in altrui possesso, e distinse tali persone in tre specie, cioè, 1 i figliuoli, 2 le mogli, 3 i servi perpetui; escludendo da questa classe quelli che avevano alienato il diritto sulle proprie operazioni a tempo, e non illimitatamente, come sono i giornalieri e tutti i mercenarŒ, i quali appartengono alla terza classe di persone componenti la società. Passò in appresso a mostrare le differenze che passano fra le tre specie di persone non libere, stabilendo che il diritto dei padri era il più esteso e più forte, perchè nasceva da un titolo fondato sulla vita stessa dei figliuoli; che poi veniva quello del marito, perchè aveva un titolo fondato sul corpo della moglie; e che finalmente veniva quello del padrone, il cui titolo non riguardava altro che l' operazione del servo a lui obbligato. Dimostrò che il diritto del padre era tale che non rimaneva al figliuolo nessun diritto verso il padre che ammettesse una reazione esterna all' ingiuria ricevuta: che all' incontro alla moglie rimaneva un diritto, ed era quello della vita e della incolumità da poter difendere anche contro il marito; che al servo rimanevano due diritti da poter difendere contro il padrone, cioè a dire quello della vita, e quello del proprio corpo. 1) Dimostrò finalmente che tutti tre questi diritti del padre, del marito, del padrone erano limitati egualmente dalle leggi della onestà universale, le quali leggi obbligavano il padre ad usare il proprio diritto sui figliuoli solo allo scopo della paternità per la quale Dio gliela aveva dato: obbligavano il marito ad usarlo solo allo scopo della coniugale amicizia: ed obbligavano il padrone ad usarlo allo scopo che può rendere onesta ed umana la servitù. Di questa dottrina la Commissione tirò una doppia conseguenza, cioè: 1 Che i figliuoli non avevano alcun diritto a rappresentare nella società civile, fino che il padre non li emancipasse; che le mogli avevano da rappresentare il diritto della vita e della incolumità; e che i servi avevano da rappresentare i due diritti della vita e del corpo. 2 Che dovendo la società civile stabilire l' ottima modalità dei diritti, doveva tuttavia provvedere contro all' abuso che potessero fare i padri della loro autorità sui figliuoli, non già perchè i figliuoli avessero un diritto da rappresentarsi; ma perchè il diritto dei padri doveva bene ammodarsi. Dopo di ciò essa fece osservare, che in tutto questo discorso considerava le tre specie di persone non libere come tali, senza definire però che la mancanza di libertà inabilitasse all' acquisto di altri diritti: mentre anzi la Commissione ammette la capacità dei non liberi all' acquisto di ogni altro diritto compatibile col diritto dei loro superiori, ovvero mediante l' assenso di questi, ovvero ancora di diritti relativi ad altre persone verso delle quali si considerano come liberi. Tutti questi diritti qui però si tralasciano, perciocchè in quanto fossero posseduti dalle persone non libere, queste verrebbero ad entrare in alcuna delle tre classi susseguenti: e di essi si debbe intendere tutto ciò che si dirà più sotto dei membri delle dette tre Classi. Considerando adunque i diritti delle persone non libere come tali non ne troviamo che due: 1 la vita 2 il corpo. Ora l' uomo che fosse solamente fornito di questi due diritti non potrebbe far nulla egli stesso, e dagli altri poi non potrebbe esigere se non se che nissuno violi in lui questi due sacri diritti. La difesa dunque dei medesimi è l' unica modalità che si possa pensare ad essi appartenente; poichè la vita ed il corpo sono due diritti semplici, e che per se stessi hanno un solo modo di esistere, sicchè quando essi fossero pienamente difesi dalle esterne ingiurie, non potrebbono altro desiderare. La rappresentazione adunque conveniente che possono esigere questi due diritti nella civile società non è se non di avere una voce mediante la quale reclamare contro alle ingiurie che vengono loro fatte da chi che sia, e l' aver modo che questa voce sia ascoltata e sia efficace nell' ottenere la giustizia domandata. La stessa voce propose la Commissione che sia conceduta ai figliuoli relativamente ai loro padri come il mezzo di comprimere l' abuso che questi potessero fare di loro autorità. Il Delegato delle persone non libere rispose, esser falso che i diritti della vita e del corpo non possano esigere che di essere guarentiti: la salute corporale si può trovare in uno stato migliore o peggiore secondo le pubbliche disposizioni sanitarie: quelli dunque che hanno diritto che la loro sanità si conservi nel miglior modo, debbono almeno poter pretendere, come tutti gli altri uomini, di avere anche una voce nel Comitato di sanità pubblica. Ma la Commissione rispose che il Comitato di sanità pubblica nulla poteva fare per la medesima se non mediante delle spese; che quindi, perchè si rendesse possibile una rappresentanza in tal Comitato, bisognava dimostrar prima che fossero proprietarŒ, e che in tal caso essi sarebbero entrati in questo Comitato come proprietarŒ, cioè come appartenenti alla quarta Classe; ma non come persone non libere; tanto più che apparendo, come tali, prive di ogni diritto sulle proprie azioni, non potevano neppure contribuire coll' opera a ciò che dar non potessero in denaro. Perciocchè, di nuovo, è un errore credere d' aver diritto d' entrare in una società senz' aver modo di pagarne le spese: e questo discorso vale per qualunque società, nè si debbe immaginarsi qualche cosa di diverso della società civile; non si debbe cioè immaginare, che la società civile abbia dei doveri senz' avere dei diritti, e che sia quasi un essere misterioso che abbia il potere di dare a tutti senza ricevere niente da veruno. D' altro lato il Comitato di sanità pubblica non offende punto le persone non libere, sebbene non le ammetta; anzi non fa che apportar loro gratuita utilità. La sesta sessione si occupò nel ricercare qual posto dovessero avere nella nuova società da istituirsi i poveri, cioè quelle persone che non possedevano alcun bene di fortuna, nè avevano una professione od un' arte che assicurasse il loro mantenimento, secondo il principio stabilito che ogni diritto trovasse nella detta società quella rappresentazione di cui è suscettibile, e che si può accordare colla giustizia. Per trovare questo posto secondo le leggi dell' equità o questa rappresentazione conveniente e possibile dei diritti dei non proprietarŒ erano state già nelle sessioni precedenti gittate le basi necessarie e superate le principali difficoltà. La Commissione proseguì adunque in questa a dimostrare che i non proprietarŒ liberi avevano tre diritti da rappresentare, e questi erano: 1 la vita e l' incolumità; 2 il corpo; 3 la libertà o sia il diritto sulle proprie operazioni. Dimostrò che tutti questi diritti non avevano una modalità che si potesse amministrare in comune tanto quanto l' avevano i beni di fortuna, perchè non si potevano permutare con altri nè si potevano dividere e contribuire parte di essi alla società, spendendoli così ad accrescimento della parte rimanente, e che perciò non era suscettibile la loro modalità di amministrazione propriamente detta, ma solo di difesa: che la società civile non poteva che difenderli da ogni ingiuria; e quindi che la rappresentazione loro conveniente si restringeva ad avere una voce efficace, mediante la quale potessero reclamare ad ogni ingiuria che ricevessero, e reclamare con sicurezza che sarebbe loro fatta giustizia, allo stesso modo come si disse delle persone non libere. Conchiuse che era necessario dare loro questa voce anche perchè essa era l' unico mezzo di tenere in freno i diritti dei proprietarŒ, ciò che era obbligata di fare la società civile, dall' istante ch' essa aveva per iscopo di bene ammodare tutti i diritti dei membri che la componevano. Il delegato per i non proprietarŒ non mancò di ripetere ciò che era stato detto nella sessione precedente dal delegato pei non liberi, cioè che era falso che il diritto della vita e della sanità, come pure gli altri due del corpo e della libertà, ammettessero solo una difesa comune e non una amministrazione comune; che 1 la sanità poteva crescere e diminuire secondo i provvedimenti sanitarŒ della società; 2 la moralità pure poteva ricevere o nocumento o vantaggio dalle disposizioni di pubblica istruzione e di polizia; 3 finalmente che la libertà poteva pure accrescersi, non solo difendersi; poichè quanto un uomo ha una sfera più estesa di agire tanto egli ha più di libertà: il perchè tutto ciò che accresce le abilità e fa andare innanzi l' incivilimento del paese, è sempre un aumento della libertà individuale. Ne può rispondere la Commissione che tutti i diritti dei non proprietarŒ sieno semplici ed indivisibili, sicchè non ne possano contribuire una parte al potere sociale e pagare in tal modo le spese di questo, come rispose al delegato dei non liberi, poichè avendo essi il diritto sulle proprie operazioni, possono pagare le spese necessarie alle suddette disposizioni intorno la sanità, la moralità, e l' incivilimento prestando la loro opera in luogo di denaro, e d' altri beni materiali. Domando adunque, aggiunse, che i non proprietarŒ non solo abbiano una voce onde reclamare efficacemente i torti che loro fossero fatti; ma che abbiano altresì una voce ed una rappresentazione in tutte le disposizioni che il potere civile credesse fare: 1 intorno la sanità; 2 intorno i buoni costumi e 3 intorno tutto ciò che riguarda l' incivilimento. Ma v' ha di più, egli proseguì: Non sono interessati i non proprietarŒ nelle guerre che possono esser mosse contro al paese dai nemici esterni colle loro persone tanto quanto tutti gli altri cittadini? vale forse la loro vita meno che quella degli altri uomini? o non sono forse capaci di portare le armi contro il nemico, e difendere la patria? perchè adunque non avranno anch' essi una voce ossia una rappresentazione in un affare così comune come è l' intimare una guerra od il conchiudere una pace? Anzi son essi, come l' esperienza dimostra, che di solito s' espongono ai maggiori pericoli e sostengono le maggiori fatiche per la salvezza e per la gloria comune nei più stretti frangenti: mentre i pingui ricchi snervati da una educazione ombratile assoldano in propria difesa quelli che hanno meno timore cioè quelli che hanno meno da perdere, e, come sono i non proprietarŒ, che nulla possedendo all' esterno sentono meno di attaccamento alla stessa vita. Finalmente, che ci si propone? di dare solo ai non proprietarŒ una voce, onde reclamino i loro diritti infranti. Ma quai diritti? quelli della vita, della pudicizia, della libertà. Richiameranno adunque la vita, dopo che a loro fu tolta? aspetteranno le figliuole che sia tolto loro l' onore, perchè poscia la società glielo restituisca? e potrà l' uomo libero, a cui è più cara la vita intellettuale della corporea, ritrovare un risarcimento innanzi alla coscienza della sua dignità corrispondente al valore di alcuni giorni di oppressione, o di alcuni atti di viltà? Finalmente, in quanti modi non si lede questa preziosa ricchezza dell' uomo, la libertà? in quanti modi non si diminuisce? in quanti modi non se ne impedisce l' accrescimento? modi talora insensibili, non evidenti e che non si possono perciò provare legalmente, ma che non fanno meno per questo onta e danno all' umana libertà? Egli non è adunque conveniente nè giusto che uomini liberi, sebbene non proprietarŒ, uomini cioè che hanno una vita cui nessun potere può loro restituire dopo tolta e dei costumi più preziosi ancora della vita ed una libertà vitale, avida di aumentarsi e tuttavia così facile ad esser ferita o ad esser compressa, ricevano solo, entrando nella società civile, il singolare diritto di fare delle inutili querimonie sopra la perdita irreparabile delle più care e delle più sacre proprietà dell' uomo; e sia loro assegnato qualche preteso risarcimento che in luogo d' essere veramente tale rassomiglia piuttosto a quei confetti che soglionsi dare ai bambini che piangono onde asciughino le loro lagrimucce fanciullesche, ed attutino le loro voci importune. E` adunque inutile la rappresentazione proposta dalla Commissione, è anche ridicola, perocchè non ottiene neppure lo scopo della difesa dei diritti dei non proprietarŒ, che fa pur vista di proporsi. Si direbbe che è piuttosto un mezzo termine per eliminarli in fatto dalla società, o di ritenerveli in apparenza. Ma senza entrare nelle intenzioni segrete della Commissione, che ciò propose, credo evidente per quanto ho detto che ove la giustizia debba essere la base della nuova nostra Società, i non proprietarŒ per essere tali non si debbano già lasciare spettatori indifferenti di quanto i proprietarŒ dispongono intorno le pubbliche cose, e che solo quando abbiano ricevuto un fiero colpo in sulla testa trovino pieno diritto di essere guariti come i cani percossi; ma bensì che essi sieno chiamati egualmente che gli altri uomini in tutte le pubbliche deliberazioni e possano veder tutto ciò che in esse si tratta, possano ponderarne le conseguenze, e se in esse rinvengono cosa che loro nuoca, possano a tempo impedirla. Laonde concesso ancora, se così si vuole, che non debbano i non proprietarŒ influire positivamente nelle pubbliche deliberazioni, nessuno potrà però negar loro il diritto del veto; quelli stessi che non attribuiscono ad essi se non il diritto politico di difesa. Perciocchè il diritto del veto è, non una troppo tarda voce di richiamo, ma il solo mezzo ad ottenere che i loro diritti sieno di fatto e non solo in apparenza tutelati. Potrei osservare ancora finalmente che non àvvi uomo che possa neppur dirsi veracemente privo al tutto di esterne proprietà. Negherete a quelli che la divina Provvidenza introdusse in questa mirabile abitazione del nostro pianeta l' aria che debbono assorbire per vivere, la luce che più di quello dei ricchi rallegra l' animo dei mendici, e la terra dove ogni corpo che pesa trova suo luogo? Di queste cose e dell' altre che il cielo ha rese comuni a tutte le umane creature, e che la miserabile cupidigia non potè mai rapire alla loro naturale pubblicità, nè sottrarle a tutti onde farle un possesso di pochi, debb' essere altresì comune il governo: e quest' è ch' io chiedo: questo è ciò che vuol la giustizia: che tutti egualmente i membri della civile Società partecipino al potere amministrativo della medesima, perocchè questo potere tratta gli interessi di tutti e a tutti può nuocere s' egli si rende esclusivo, come può a tutti giovare s' egli si conserva comune. La società civile, rispose la Commissione, l' abbiamo già stabilito, non è la società universale; e coll' entrare nella società civile non escono gli uomini dalla universale e non perdono nulla di quei beni che hanno nello stato di natura. Gli uomini debbono entrare nella società civile in quel modo che vi possono entrare, dal punto che abbiamo adottato come principio fondamentale, che nella Società civile ogni diritto debba trovare una rappresentazione conveniente e possibile . Questo principio suppone che non ogni uomo entri a formar parte della società civile in egual modo, ma in modo diverso secondo la indole dei diritti ch' egli possiede: quindi nasce che gli uomini partecipino più o meno allo scopo della società, cioè ai beni che essa si propone di conseguire. Ma se diversi uomini partecipano in diversa misura al bene della società civile, non viene lor fatto torto; poichè questo è conseguenza di quella solida base che abbiamo posta; e perchè finalmente non si tratta con ciò che nissun uomo perda cosa alcuna di quanto già possiede; ma, rimanendogli tutto ciò che possiede, si tratta ch' egli non acquisti in tale instituzione quel soprappiù di vantaggio che acquista un altro perchè non possiede i diritti che possiede un altro. Sebbene adunque la Commissione abbia proposto che i non proprietarŒ non abbiano altra rappresentazione nella società che quella consistente in una voce di difesa, perchè è persuasa che l' indole dei loro diritti non ammette di più; tuttavia non è già vero che per tale associazione i non proprietarŒ vengono a perdere qualche cosa mentre non fanno che un guadagno: cioè acquistano un aumento di sicurezza dei loro diritti che non avevano nello stato di natura, e non perdon nulla di quanto avevano in questo stato. Egli è vero bensì che i loro diritti sono di tal natura, che non si possono, infranti che sieno, a pieno risarcire, ma qualunque sia questo risarcimento, è però sempre un guadagno che loro manca nello stato di natura: è un risarcimento, che, se non restituisce la vita o l' onore, toglie però le funeste conseguenze, che cadrebbero altramente sulla famiglia priva del suo capo e provvede per esempio la zitella oltraggiata d' un collocamento; è un risarcimento in somma che è pur sempre qualche cosa e che è ancor più nel fatto che nella speculazione del nostro obbiettatore. Egli è poi al tutto falso, che una voce efficace di richiamo non giovi se non dopo che è avvenuto il male, e quando non è più riparabile: perocchè egli è solo il timore del castigo, che tien dietro con certezza al commesso delitto, quello che ritrae gli uomini dal commetterlo, e che difende i diritti personali non solo dei non proprietarŒ ma dei proprietarŒ stessi. Può aver forse la Società verun altro mezzo di tener lontani i delitti, e di difendere la vita e la dignità dei cittadini, se non le pene ch' essa stabilisce ai malfattori? Si ripeterà che questa risposta, se vale per le offese che i non proprietarŒ ricever potessero dagli altri membri della Società, non vale egualmente pel Potere supremo della medesima: perocchè questo potere supremo può ben essere costretto ad un risarcimento che, diviso fra i proprietarŒ che lo compongono, è insensibile a ciascheduno, ma non può già essere sottomesso ad un castigo che lo atterisca dall' abusare del suo potere. Ma che? il Potere Civile, o per dir meglio l' Amministrazione della società, si estende forse a disporre della vita o degli altri diritti personali dei membri della medesima? non già: egli non ha in ciò altro diritto di quello, che si abbia una forza fisica e non morale qualunque ella sia; quando ciò facesse egli non sarebbe più potere civile, ma bruta forza. Si pretenderà che la società guarentisca tutti i suoi membri da ogni forza, che, non curato il freno morale, infierisse sopra di essi? è impossibile ad essa di tor via al tutto questo male essenziale dello stato di natura, ma non può che restringerlo: nè pure i membri componenti l' Amministrazione sociale ne sono totalmente al sicuro; perchè il debile non è mai sicuro dal forte; e la minorità dell' Amministrazione sarà sempre a discrezione della maggiorità, se si suppone che questa abusi della sua prevalenza. Ma se di ogni maggiorità o prevalente potestà si potesse esigere d' essere garantiti fisicamente, come ciò si farà se non mediante una forza fisica maggiore? ed in tal caso non si toglie il pericolo che dei diritti vengano violati, ma solo si trasporta a quel modo stesso che si trasporta la forza; sicchè quegli che prima imponeva timore ora lo riceve imposto da quello che prima lo riceveva. Se ragionevole fosse di lagnarsi per ogni nuova forza comparente, per la sola ragione che quella ha la possibilità di nuocerci, noi avremmo occasione di lamento dovunque, la differenza nelle forze corporee, nelle proprietà, nei talenti, tutto sarebbe argomento di invettiva e di querimonia: ogni associazione finalmente sarebbe illegittima, come un atto ostile, perchè ogni associazione è comparizione di nuova forza; ed ogni nuova forza può nuocere 1). Non è dunque lo scopo della società civile, nè può esserlo, difendere i diritti dei membri suoi da tutte le ingiurie ma solo da quante ella può, nè diventa illegittima se non li tutela che dal maggior numero. Chi potrà impedire a ragion d' esempio che i proprietarŒ facciano a parte la loro società? che escludano quindi i non proprietarŒ da quei beneficŒ, che entrando in una società medesima, come la Commissione propone, ottener potrebbono? nessuno: a quel modo stesso che i proprietarŒ non avrebbono diritto, pel semplice pretesto d' una forza temibile che comparisce, d' impedire qualunque altra associazione o fra i non proprietarŒ o fra una parte di proprietarŒ. Ma via: concediamo che la società civile non debba nulla ommettere di suo potere per tutelare i diritti dei non proprietarŒ: concediamo che i diritti personali possano avere di loro natura un' amministrazione comune; concediamo che questa rappresentazione sia conveniente all' indole di tali diritti, ma è ella possibile? Questo è il passo che la Commissione trova al tutto insuperabile. Dico se è possibile, quando si voglia accordare colla stretta giustizia. Bisogna convenire che questa esige che nessun uomo possa sforzare un altro di pagare per lui: che perciò i non proprietarŒ non possono sforzare i proprietarŒ a pagare per essi; perchè non è qui di beneficenza che si tratta, la quale è volontaria, ma di giustizia, la quale può essere anche forzata, perchè non dipende dalla libera volontà ma da un titolo da questa indipendente. Perchè adunque i non proprietarŒ possano partecipare ai beni dell' Amministrazione, debbono corrispondere alle spese della medesima; e non possono esigere che i proprietarŒ contribuiscano per essi; il che, oltre essere ingiusto, sarebbe impossibile ad ottenersi. Poichè, si lascieranno essi i proprietarŒ imporre questo peso? Mai no, nè a questa condizione entreranno in una società così per essi disuguale. Che se mediante qualche sofisma alcuni a ciò si persuadessero, la illusione dura sempre poco ed il falso principio introdotto nella società, essendo contro la natura delle cose perchè trasforma la beneficenza in giustizia, cagionerà gravi mali nella società, la quale non cesserà d' agitarsi fino ch' essa non l' avrà evacuato. Ciò solo che si oppone a questo si è che i non proprietarŒ essendo liberi possono disporre delle loro operazioni e con queste pagare la Società, con queste difenderla dai nemici. Ma come potrà ricevere l' Amministrazione in pagamento l' opera stessa, se il non proprietario abbisogna della stessa per campare la vita? quest' è una derrata sporca, sopra cui nulla si può calcolare fino che non è stata appurata dall' uscita. E chi può fare questo calcolo generale, se il valore dell' opera dei non proprietari varia assaissimo prima in ragione della loro abilità, di poi in ragione della loro salute o delle peculiari circostanze nelle quali si trovano, finalmente in ragione delle ricerche? possono essi assicurarsi di provvedersi costantemente del puro loro mantenimento? non hanno nulla a temere nei tempi di sterilità, nelle calamità a cui può soggiacere l' industria, il commercio, e i mestieri, nello stato di guerra o di altre pubbliche calamità? quale ricchezza, se quella è ricchezza, più incerta e su cui meno debba appoggiarsi il provento di una generale Amministrazione di questa? d' altro lato che farà l' Amministrazione sociale di tanti operai? porrà ella delle fabbriche manufattrici, o pianterà degli stabilimenti di commercio? Non mai: perciocchè devierebbe dal suo scopo; ed entrerebbe nell' ufficio dei privati. Ella non può commettersi a tali incerte speculazioni, dipendenti dallo stato commerciale del mondo: non è già ad arbitrio che si possano instituire nuove fabbriche e nuove case di commercio; perchè non si può arbitrariamente nè mettere limite alla produzione, nè torlo al consumo. La amministrazione sociale adunque non può entrare in simile deviazione dallo scopo suo a particolari imprese. Ella è istituita per diriger la modalità dei diritti; ed ha bisogno di dirigerla con viste generali e calcolate: e per tale scopo ha bisogno altresì d' avere un mezzo generale e sicuro, il quale non può essere altro che la ricchezza materiale , perchè questa si converte con facilità in tutto ciò che le abbisogna. L' operazione stessa che si esibisce dai non proprietarŒ in pagamento (oltre che è una moneta continuamente mutabile di valore, di un valore sporco per cui si debbe detrarre dal medesimo il mantenimento dell' individuo e fors' anco della sua famiglia, a' cui bisogni egli può non bastare nè pure nel tempo del suo maggior prezzo: un valore che può qualche volta annientarsi) è finalmente ancora un valore inesigibile , perchè non garantito od ipotecato sopra nulla: giacchè la persona stessa pel nostro scopo si può contare per nulla. E di fatto, che si può torre all' individuo che ha nulla? Si può punire; ma con ciò invece di coprirsi d' un credito, si fa una spesa di più; giacchè si debbe mantenere il debitore carcerato. Si costringa a lavorare colla forza? ma oltrecchè i lavori forzati poco approdano, le guardie stesse sono nuovo carico alla società, ed il lavoratore rinunzia bene volentieri al diritto di dire la sua opinione nelle pubbliche cose quando ciò gli debba portare la conseguenza di una dura schiavitù. Che se i non proprietarŒ militano per la salute della patria ciò nè fanno nè far possono che ricevendone lo stipendio; giacchè del suo non hanno onde mantenersi; essi non danno dunque alla patria che quanto dà il mercenario al padrone al cui soldo lavora: è un contratto che fa colla sua patria: e se l' affezione vi aggiunge da parte sua, egli n' ha merito alla patria insieme e dovere; ma n' ha ancor la ragione sua propria, che colla patria difende se medesimo, i suoi, le sue speranze. Il diritto ch' egli ha sui beni comuni come l' aria, e la luce nessuno può toglierlo, nessuno può contenderglielo; ma di quanto vien disposto circa il regolamento dei medesimi egli, senza potersene incaricare, può goderne: non può, dico, incaricarsene perchè non ha il mezzo di cui parliamo, ma può goderne perchè l' Amministrazione che se ne incarica non può nè vuole privarlo dei miglioramenti ch' essa procura a tai beni. Finalmente aggiungerò tal ragione alla quale i più difficili dovranno arrendersi, e riconoscere l' equità della proposta che ha creduto fare la Commissione; e la ragione è questa. Su quale supposizione discorrono quelli che ci propongono d' introdurre i non proprietarŒ nell' amministrazione, offerendo in contribuzione l' opera dei medesimi? Sulla supposizione che questi lavorino; che ci sia quindi nella società da lavorare; che perciò questo lavoro abbia un prezzo. Or chi non vede che tale supposizione trasporta i non proprietarŒ strettamente detti, dei quali noi stiamo deliberando, nella classe dei mercenarŒ, della quale avremo a deliberare in appresso? Chi non vede che l' opposizione viene ad ammettere tacitamente con ciò il principio che vuol combattere, cioè che nessuno possa entrare a formare parte dell' amministrazione se non ha onde pagarne le spese? che perciò i non proprietarŒ propriamenti detti rimangono esclusi di loro natura, solo perchè tale rappresentazione è loro impossibile di conciliarla coi principŒ della giustizia, e della equità, cioè impossibile introdurli nell' Amministrazione senza far torto ai proprietarŒ? Rimane adunque che la rappresentazione conveniente e possibile dei non proprietarŒ non possa consistere se non in una voce efficace di reclamare i torti che potessero loro farsi: e questa è la proposta della Commissione; la quale si riserba di stabilire altrove quale altra rappresentazione convenire possa ai medesimi qualora appartengano alla classe dei mercenarŒ. In conseguenza di quanto fu discusso nella sessione precedente l' assemblea addottò un altro principio fondamentale: « Che si riconosceva la ricchezza materiale come l' unico mezzo generale dell' amministrazione della società civile. » La Commissione insistè molto sopra un tale principio, e il rese così evidente che fu generalmente approvato. Una delle ragioni radicali proposte dalla Commissione si fu, che tanto quelle persone che si trovavano prive di libertà, quanto quelle che si ritrovavano al tutto prive di proprietà materiali, non potevano per la loro condizione avere alcun diritto di regolare la modalità degli altrui diritti: poichè non avevano diritto neppure di regolare la modalità dei diritti proprŒ, dall' istante che erano al tutto dipendenti dagli altri uomini. In fatti era stato stabilito che il passaggio dallo stato naturale allo stato civile si facesse in tal modo, che ciascun uomo mettesse in comune la modalità dei proprŒ diritti, e mentre prima la regolava da sè, poscia la regolasse in comune, ritenendo una autorità proporzionale ai suoi diritti, o sia proporzionale a quella modalità che ei porta in comune. Or dunque l' uomo non libero non ha nessuna modalità da mettere in comune; poichè la modalità dei suoi diritti si ritrova interamente nelle mani del suo padrone, il quale non può già toccarlo nei diritti che egli ha, ma bensì far uso di tutte le sue azioni, per cui non resta più al servo alcun modo di provvedere a sè stesso, ma resta solo al padrone il dovere di provvedere al servo. Ed una cosa simile può dirsi di colui che è al tutto privo di proprietà; poichè questi se vuol vivere dipende totalmente da chi ne ha, ed egli è obbligato di dipendere, perchè è obbligato di usare tutti i modi onesti di campar la sua vita. Che cosa adunque porta questi in comune? nulla di certo: e perciò nissuna autorità a lui spetta nell' amministrazione di quel fondo, nel quale nulla egli mette. All' esistenza stessa non appartiene il diritto di usare l' altrui, se non dopo avere esaurito tutti gli onesti mezzi, e rimasto quel solo. Vi fu chi declamò contro la durezza dei proprietarŒ nel solo supporre, che si conservasse in mezzo ad essi una classe di uomini caduta in tanta miseria, e proponeva di votare tantosto di tenernela costantemente sollevata: ma la Commissione dimostrò che quello non era il tempo, che conveniva trattare a parte ciò che apparteneva alla beneficenza, e ciò che apparteneva alla giustizia; poichè, confondendo queste due cose, la stessa beneficenza sarebbe perita; che finalmente simili benefici provvedimenti dovevansi intavolare allorquando la società fosse costituita, e le famiglie della medesima legate insieme componessero un corpo solo. Non mancò chi credette cogliere la Commissione in contraddizione coi suoi principŒ; poichè dal momento che proponeva, che i non liberi ed i non proprietarŒ avessero una rappresentazione consistente in una voce, efficace quanto più esser poteva, di richiamo delle offese ricevute dagli altri membri della società, o dall' amministrazione della medesima; si doveva supporre che avessero il modo di soddisfare alle spese delle loro cause, e se ciò si supponeva, doveva supporsi egualmente, che avessero il modo di contribuire alle spese dell' amministrazione. Ma la Commissione rispose che l' amministrazione aveva l' obbligo di regolare la modalità di tutti i diritti; e che perciò le spese a tal fine necessarie entravano nelle spese amministrative, particolarmente poi in quella parte di offese che potessero provenire dall' amministrazione stessa; mentre essa aveva l' obbligo di non trapassare il confine della sua autorità, e di risarcire quanto poteva il danno, se per isbaglio lo trapassava. D' altro lato non è mai l' offeso che deve pagare le spese ma l' offensore. Che se questi non ne ha il modo, egli diventa uno di quei casi in cui la giustizia non ha il pieno suo effetto, non per mancanza della società, ma per l' impossibilità annessa alla cosa. Il qual caso non può avvenire mai, come dicevamo, riguardo a' richiami contro l' amministrazione; perocchè questa è sempre solvente, ove sia condannata. Appianate così le difficoltà, la Commissione conchiuse facendo osservare qual nuovo incremento di prezzo andava a ricevere la ricchezza materiale nella nuova società, dal momento ch' ella diventava il mezzo generale della sua amministrazione. Per far conoscere l' indole della nuova società civile fece notare la differenza che passava fra essa e la società famigliare, nel quale stato erano ricevute le persone assembrate, dimostrando che il mezzo dell' amministrazione famigliare era il servizio personale: e che il mezzo all' incontro della amministrazione civile era la ricchezza materiale , distinzione caratteristica delle due società. Di poi tirò pure la conseguenza da tutto ciò che era stato fatto, che relativamente alla instituzione della società civile i diritti degli uomini si dividevano in due classi: la 1 dei diritti personali; cioè diritti che l' uomo ha sulla propria persona, o su cose a lui strettamente unite, e questi sono tre: sulla vita, sul corpo, e sull' operazione; la 2 dei diritti reali; cioè sulla ricchezza esterna e materiale. I diritti personali danno a tutti gli uomini egualmente, in quella parte che li posseggono, una rappresentazione consistente in una voce di richiamo principalmente contro tutto ciò che può esser fatto in loro danno dalla amministrazione della società. I diritti reali all' incontro danno a quelli che li possedono una rappresentazione nella società civile consistente in una voce amministrativa , mediante la quale hanno nell' amministrazione della società una parte proporzionale a quella modalità dei diritti che mettono in comune nella medesima. Indi accordando a tutti indistintamente il nome di Cittadini, intendendo con esso di esprimere semplicemente membri della società civile, fece vedere come i cittadini venivano a distinguersi di loro natura in due ordini principali , l' uno dei quali era solamente governato, e l' altro ancora governava, cioè a dire quelli che non avevano se non diritti personali non potevano formare che un ordine governato e non potevano entrare a prender le redini della società: e quelli all' incontro che avevano anche diritti reali, ossia che erano forniti di ricchezza esterna e materiale, potevano e dovevano prendere parte alla stessa amministrazione. Questi due ordini venivano in tal modo costituiti dalle due specie di diritti a cui convenivano due specie di rappresentazione. In ogni specie di diritti si trovavano più diritti, e per ciò i cittadini appartenenti al primo ordine, cioè all' inferiore, avevano voce di richiamo per ciascuno dei tre diritti che possedevano, e i cittadini del secondo ordine cioè del superiore, avevano voce amministrativa proporzionata alla quantità della ricchezza loro esterna o materiale. Tutti egualmente i membri della società civile sono cittadini . A questa parola vien assegnato un nuovo senso dalla Commissione. L' essere cittadino consiste nel diritto di non esser offesi dall' amministrazione della società, e di più nel diritto, venendo offesi, di avere una voce di richiamo , per la quale ottengano risarcimento: voce che forma l' essenziale carattere della cittadinanza, che si adotta dalla società che va ad istituirsi. E prima di passare ad altro la Commissione volle che tutti convenissero nella chiara idea di questa cittadinanza , ossia di questa rappresentazione passiva comune a tutti i membri della società, la quale era ciò che li rendeva cittadini. 2) Fece dunque osservare che la prima base della società era che ogni diritto fosse rappresentato nella medesima, ma quando però potesse essere rappresentato. Or che cosa è ciò che rende rappresentabile un diritto nella società civile? Un diritto vien reso rappresentabile nella società civile da due condizioni. La 1 si è che il diritto che ha una persona sia congiunto alla sua modalità, perchè è la modalità che si porta in comune nella società civile, è questa che dalla società civile propriamente si amministra; nè la società civile viene per altro fine instituita, nè ad altro officio si estende: il perchè quegli che ha bensì un diritto in sua proprietà, ma che ha trasferito in altrui mani la modalità del medesimo, non ha diritto rappresentabile, perocchè non ha veruna cosa che possa consegnare per dir così alla società civile, perchè essa gliela amministri: non pigliando essa ad amministrare che modalità di diritti. La 2 si è che quegli che ha il diritto e insieme la modalità del medesimo, abbia ancora della ricchezza materiale: poichè questa è il mezzo generale dell' amministrazione civile, e però chi non ne ha, rimane privo del modo di pagare la spesa proporzionale che gli toccherebbe in detta amministrazione: senza di che non può ragionevolmente pretendere di essere accettato nella medesima. La mancanza principalmente della prima di queste due condizioni esclude gli uomini non liberi dall' avere una rappresentazione attiva nella società civile, che è quanto dire di aver parte nell' amministrazione della medesima. La mancanza principalmente della seconda condizione esclude dalla rappresentazione attiva i non proprietarŒ. Quelli adunque che possono aver parte nell' amministrazione sociale, o sia che possono avere una rappresentazione attiva nella medesima, sono i proprietarŒ. Or egli è necessario di vedere come la natura di questa rappresentazione attiva , lungi dal segregare i proprietarŒ dagli altri uomini, li congiunga con essi con tal vincolo, pel quale si possono a buon diritto chiamare membri della stessa società. In fatti l' amministrazione sociale si erige per regolare la modalità dei diritti dei suoi membri: e la modalità dei diritti, perchè sia ben regolata, conviene che costantemente si attenga dentro a termini della giustizia. Ora questa giustizia, prima condizione della buona modalità dei diritti, è quella che lega tutti gli uomini insieme, non già per un patto arbitrario, ma per una legge eterna, che gli uomini associati non instituiscono, ma di comune consenso riconoscono, perchè la debbono riconoscere. Or questa legge fa sì, che l' amministrazione sociale non possa giammai trattare esclusivamente i negozi delle persone che entrano in essa, ma debba riconoscere le relazioni, che hanno tali persone con quelle che rimangono fuori della detta amministrazione: debba in queste persone escluse dall' amministrazione, perchè non hanno nulla di proprio che possa essere amministrato, riconoscere e rispettare tutti i diritti che esse hanno: quindi ancora desiderando di realizzare questa debita riverenza pei loro diritti non debbe ricusare che sia messo ad esame tutto il suo operato: che sia ricercato in esso il giusto e l' ingiusto, o che di tutto ciò ch' essa avesse operato d' ingiusto essa renda soddisfazione a quelle persone qualunque sieno sulle quali è caduto il danno dell' ingiustizia. L' amministrazione civile, come persona morale, ha quelli stessi doveri verso le persone individuali che queste hanno fra di loro nello stato di natura. Ora nello stato di natura le persone individuali hanno scambievolmente i seguenti doveri: 1 Quello di non offendersi; 2 quello di esser pronte, nei casi controversi in cui l' una si richiama d' essere stata offesa dall' altra, a sottomettersi al giudicio di arbitri benevisi dalle parti. Quest' è la relazione che nello stato di natura la giustizia mette fra due persone individuali; relazione che avvincola gli uomini, e che li mette fra di loro anche in quello stato in una specie di società. Ora questa stessa relazione rimane nella società civile fra l' amministrazione della medesima e le persone singole comprese in essa o non comprese: ma con questa differenza, che l' amministrazione della società civile riconoscendosi obbligata di adoperar tutti i mezzi per ritener sè stessa nei limiti della giustizia, obbligo comune a qualunque persona, riconosce però insieme un obbligo morale che è proprio suo e non comune alle altre persone. E quest' obbligo nasce dal principio morale « che i mezzi perchè una persona ritenga sè stessa nei limiti della giustizia debbono essere tanto maggiori quanto la persona ha più di forze, cioè quant' essa ha più mezzi di offendere la giustizia. » Non v' ha principio più trascurato dagli uomini di questo, nè più importante per la loro tranquillità, nè di una necessità più fondata nell' esperienza. E` l' esperienza di tutti i secoli e di tutti i tempi che dimostra questa funesta verità « che gli uomini tanto sono più tentati di offendere la giustizia quanto più sentono avere una forza di farlo: »che la forza in mano dell' uomo lo innalza, lo inorgoglia, acuisce quella fierezza omicida, che nel suo cuore giace profonda insieme colla sua originale reità: e dove si crede sicuro nella malvagità, e impunito nella scelleraggine, persuaso che la ragione non gli sia più necessaria, s' abbandona cieco alla sfrenata irritazione che produce in lui il senso d' una potenza che nasconde i suoi limiti. Ma dietro all' esperienza che ognor più rafferma questo lacrimevole fatto, la voce della giustizia ognor più grida agli uomini: « O voi che avete in mano la forza e che amate la giustizia, tremate di voi medesimi: quella forza minaccia la vostra giustizia, e l' atterrerà senza un vostro sforzo di sostenerla: la forza nelle vostre mani tenta di estinguere in voi la ragione; voi siete tanto più obbligati di tenerla viva, e di non rivolgere gli occhi dai lumi suoi; quant' è più grande il pericolo della virtù, tanto maggiore sia il vostro timore, la vigilanza e la cautela per non esserle infedeli. »Secondo questo principio gli uomini, che mediante l' esperienza hanno imparato a conoscer sè stessi, sono in un obbligo morale di agire verso dei loro simili con una delicatezza, con una guardia di sè, e più ancora con una magnanimità che cresce in ragione della potenza che hanno sopra di quelli. Egli è per questo principio morale ed intrinseco insieme all' amministrazione sociale, che questa, come quella che costituisce una grande potenza, debbe riconoscere altresì in sè stessa un dovere morale di agire colla più grande circospezione, col più grande rispetto a ciascuna persona individuale, colla equità più luminosa, con una pubblicità che rimuova fino i sospetti, con una magnanimità che sia capace di abbandonare il proprio giudicio e sottomettersi a quello d' altrui in fatto di giustizia; rinunciando totalmente a quella sognata e crudele infallibilità politica: debbe riconoscere per ciò un dovere di deferire ad un tribunale di giustizia tutti i casi dubbi, che possono intervenire fra lei e ciascuna singola persona più debile di lei, appartenga questa all' amministrazione o no. Sembrerà che conceduta ancora l' esistenza di simile Tribunale, comune all' amministrazione sociale ed a tutti indistintamente i membri della società che hanno onde richiamarsi di lei, non sia bastevole per poter affermare, che tutte le persone individuali entrino veramente in una stessa società civile; ma che quelli della amministrazione formino una società a parte da quelli che rimangono fuori. E in fatti non è la comunanza di questo tribunale il solo vincolo dei membri della società civile; ma v' è un altro vincolo il quale associa gli uomini senza cangiare le loro relazioni anteriori a questo civile associamento: ed ecco qual' è. La società civile consiste nell' instituzione di un potere che regola la modalità di tutti i diritti. Nulla impedisce dall' accordare, che ogni diritto abbia una modalità: ma queste modalità talora sono separate dal diritto come sarebbe nei servi, i quali hanno bensì i due diritti che lor abbiamo accordato, ma non hanno all' incontro in propria mano la modalità dei medesimi, che resta nelle mani dei loro padroni. Ora i servi non avendo in propria mano la modalità dei proprŒ diritti, non possono portarla nella società civile e metterla in comune: all' incontro i padroni nello stato di natura hanno in propria mano tanto la modalità dei proprŒ diritti quanto quella dei diritti dei servi. Quindi sono essi che portano nella società civile da amministrarsi in comune insieme colla modalità dei proprŒ diritti anche la modalità dei diritti dei servi: ed in tal modo la società civile diventa amministratrice della modalità dei diritti di tutti gli uomini, ed anche dei diritti dei servi: ma senza mutare le relazioni che questi hanno coi loro padroni, cioè la società civile amministra la modalità dei diritti dei servi, ma essa facendo ciò non viene già a far le veci dei servi stessi; ma sì bene a far le veci dei padroni dei servi: poichè nello stato di natura non erano già i servi quelli che amministravano la modalità dei proprŒ diritti, ma ciò facevano i loro padroni. Se dunque si facesse che i servi entrassero nell' amministrazione della società, avverrebbe ch' essi facessero ciò che non facevano nello stato di natura: e che all' incontro i padroni venissero privati di fare ciò che facevano nello stato di natura: in tal modo questi entrando nella società verrebbono spogliati di un diritto che avevano nello stato di natura; ed ai servi verrebbe dato gratuitamente un diritto che nello stato di natura non avevano. Il passaggio dunque dallo stato di natura allo stato di società civile non si farebbe più restando intatte le relazioni degli uomini; ma in tal passaggio verrebbero alterate, e mentre ad alcuni uomini si darebbero dei diritti che prima non avevano, ad altri se ne torrebbe di quelli che prima avevano. Conviene adunque perchè la giustizia non venga alterata, come succederebbe se avvenisse trasferimento di diritti, che i servi abbiano coll' amministrazione della società una relazione simile a quella che prima avevano coi loro padroni; che l' amministrazione non sia se non l' unione di quelli che nello stato di natura amministravano, e che le persone escluse dalla medesima non sieno che quelle che nello stato di natura non amministravano. Conviene concepire il piano della società civile non già come una istituzione mediante la quale le persone che non amministravano nello stato di natura passino nel numero di quelle che amministrano; ma bensì come una istituzione mediante la quale le persone, che nello stato di natura amministravano in separato, si uniscano insieme per amministrare in comune. Ora ciò posto non riesce per tutto questo men vero che la società civile si proponga di amministrare la modalità di tutti i diritti, o sia dei diritti di tutti gli uomini. Quindi riesce altresì vero che ella abbraccia nel suo seno gli uomini tutti, sebbene senza alterare le loro relazioni, e che tutti governino: tutti adunque soggetti alla stessa amministrazione con ragione vengono detti membri della società medesima, sebbene non già membri eguali, o, per essere più accurati, non già membri che godano della ugualianza costituente , ma bensì membri che godono della uguaglianza giuridica: membri che convengono tutti nell' essere amministrati da uno stesso potere e che hanno un eguale diritto di non essere dallo stesso offesi, sebbene membri che non hanno eguale diritto di essere da quel potere vantaggiati: membri in somma che si dividono in due ordini, l' uno dei quali non è che amministrato, mentre l' altro è anche amministratore. Quand' anche non si considerasse nei non proprietarŒ l' ostacolo della mancanza della ricchezza materiale, mezzo dell' amministrazione, tuttavia soggiacerebbero allo stesso discorso fatto pei non liberi; poichè non potendo essi sussistere senza trovar il loro nutrimento, dovrebbero o passare alla classe dei mercenari o vivere d' accatto. Nel primo caso toccherà ad essi nella società civile lo stato conveniente ai mercenarŒ, nel secondo caso essi dipendono totalmente dalla volontà degli altri uomini che li beneficano, e che perciò non lasciano loro che quella libertà che loro piace: mentre questi poveri sono obbligati per un diritto naturale di far tutto ciò che è necessario per acquistarsi il vitto, e non può esser loro lecito di torre l' altrui, se non dopo d' avere tutto tentato, e d' esser venuti alle ultime estremità: 1) i poveri adunque sono essenzialmente persone non libere: e quella libertà precaria che godono di fatto non è fondata in alcun loro diritto, ma nella bontà dei loro benefattori, i quali li soccorrono senza esiger da essi servitù. La Commissione si era appianata la via alle cose fino a quest' ora trattate per proporre l' articolo riguardante lo stato che dovevano avere nella società civile i mercenarŒ, e l' articolo che essa propose fu il seguente: « I mercenarŒ che possono provare di esercitare un' arte od un mestiere qualunque, che apporti loro un sufficiente mantenimento senza bisogno di sovvenzioni caritative, non debbono entrare nell' amministrazione della società individualmente come i proprietarŒ che hanno fondi, ma debbono entrarvi mediante una rappresentazione del loro corpo. »Cioè i mercenarŒ non hanno nella società civile una rappresentazione attiva, come persone singole, ma bensì debbe essere rappresentato nell' amministrazione della società il corpo dei mercenarŒ. Quest' articolo incontrò difficoltà dalla parte dei proprietarŒ. Il delegato per questi si sforzò di provare che i mercenarŒ erano di loro natura totalmente dipendenti dai proprietarŒ, perocchè non avendo essi nessun fondo da cui ritrarre con sicurezza il loro mantenimento ed indipendentemente da quelli, essi non potevano vivere, se non lavorando a discrezione dei proprietarŒ. Questi all' incontro come quelli che possedevano un fondo che dava loro onde vivere erano da sè i soli indipendenti e liberi: perciocchè questi avrebbero potuto lavorare da se stessi il fondo e cavare dal medesimo il mantenimento, senza chiamare altri in aiuto. La esistenza dunque dei mercenarŒ è precaria, e dipendente dalla volontà di quelli che li assoldano: da questi dipende totalmente la modalità dei loro diritti; e se questi s' accordassero insieme di non dare a mercenarŒ lavoro, ma di lavorare essi stessi; questo sarebbe forse un atto d' Œnumanità, ma non offenderebbe ancora i diritti dei mercenarŒ; i quali ridotti all' estremo dovrebbero rendersi servi dei proprietarŒ. Ora questa specie di monopolio non fanno nè far debbono i proprietarŒ; ma nol fanno e far nol debbono per altro che per atto d' umanità, e di commiserazione; ciò che nei mercenarŒ non mette diritto alcuno d' aver a forza lavoro, se quelli nol facessero a volontà. Vero è dunque che i mercenarŒ non sono al tutto alla condizione dei servi; ma quella poca libertà ch' essi godono non l' hanno da sè, ma viene loro lasciata dalla generosità dei proprietarŒ: i quali torre gliela potrebbero senza toccarli nei loro diritti: sono adunque i mercenarŒ simili ai poveri o non proprietarŒ, che si contan per liberi fino a che la beneficienza dei ricchi mantiene loro la libertà, ovvero simili a quei servi verso dei quali il padrone non usa il suo diritto di signoria. Non possono adunque aver voce i mercenarŒ nelle pubbliche deliberazioni, ma i loro padroni per essi; quantunque abbiano quelli il diritto di patteggiare nella mercede, che danno loro i padroni, anche la qualità del voto ch' essi debbono portare nella Sociale Amministrazione. La Commissione rispose ch' essa conosceva benissimo, che i mercenarŒ avevano una dipendenza dai benestanti: che aveva esaminata la natura di questa dipendenza: e che avendola trovata tanto lontana dalla servitù , quanto dalla benestanza , aveva stimato che loro convenisse nella società un posto di mezzo fra i servi ed i benestanti; e che perciò nè fossero privati interamente di una rappresentazione attiva come quei primi, nè l' avessero intera come questi secondi: al che avea creduto di soddisfare coll' articolo proposto. Infatti la Commissione riconosce che non v' ha nessun mercenario preso individualmente, la cui esistenza non sia precaria, e la cui libertà non sia dipendente dal corpo dei benestanti, da cui sono pagate le mercedi, sicchè se i benestanti volessero, potrebbero privarlo del lavoro, nel qual caso egli rimarrebbe nello stato dei poveri e successivamente dei non liberi. Egli è per questo che la Commissione ha creduto che nessun mercenario possa individualmente ottenere secondo l' equità una rappresentazione attiva nell' amministrazione sociale; per le stesse ragioni per le quali viene negato ai poveri ed ai servi; cioè perchè il mercenario individuale egualmente che questi non ha una modalità propria e certa da portare in comune nella società, e perchè non ha assicurata ricchezza, mezzo necessario all' amministrazione della medesima. Ma la Commissione all' incontro non giudica allo stesso modo di tutto il corpo dei mercenari, ed anzi sostiene: 1 Che tutto il corpo dei mercenarŒ quale egli esiste nel fatto ha un' esistenza assicurata tanto quanto quella dei benestanti: che detto corpo se ha qualche dipendenza dai proprietarŒ è questa però tale che rimane una semplice dipendenza speculativa, o sia una possibilità di dipendenza che non si esercita nel fatto giammai, e che perciò non può avere un effetto calcolabile. 2 Che i benestanti non hanno punto il diritto di escludere il corpo intero dei mercenarŒ dai lavori che portano loro le mercedi, e che perciò il corpo dei mercenarŒ non può essere senza ingiustizia eliminato per un accordo o per un monopolio che facessero fra di loro i benestanti. A dimostrare la prima di queste due proposizioni basta un fatto, che è uno di quei pochi comunemente ricevuti e sui quali non cade più controversia; cioè che la divisione del lavoro aumenta la ricchezza dei benestanti, appunto perchè perfeziona le arti, cioè migliora la produzione, la rende più celere e meno costosa. Egli fu questo effetto della divisione del lavoro, che venendo vie più sentito ed inteso dagli uomini li persuase a dividere sempre più i lavori, e che così si moltiplicarono le arti. Da ciò nacque, che mentre nell' antichità si esercitavano tutte le arti necessarie nella famiglia stessa, in essa per esempio si mantenevano le greggi, si preparavano le lane, le si filavano, le si tessevano, le si riducevano a vestimenti; si comprese più tardi che era più economico e che rendeva un lavoro più perfetto dividendo tutte queste incombenze fra varie famiglie, alcune delle quali si restringessero per esempio alla cura del gregge, altre alla filatura delle lane, altre alla tessitura, ed altre alla facitura delle vestimenta. Egli fu in tal modo che si moltiplicarono i mercenarŒ: fu in tal modo che una famiglia si rendette dipendente dall' altra di propria volontà. Colla cognizione dell' utile, col gustamento del piacevole si moltiplicarono i desiderŒ ed i bisogni, e questi diedero origine a quel gran numero di arti e mestieri onde presentemente è ricca la società fra le nazioni, che rende la vita umana agiata e soave e fornita di tutti quelli aiuti che sono necessarŒ ad un maggiore sviluppo dello spirito. Egli è vero che il genere umano non sarebbe giammai venuto a tale stato di floridezza nel quale possede tanti mezzi di lieto ed onesto vivere, se in esso la religione non avesse temperato i fieri costumi e la corruzione delle passioni raccendendo nelle menti il lume della verità; ma senza cercare le cagioni di questo stato confortante dell' umanità, basta a conoscere che egli è tale, che l' uomo si trova oggimai sul cammino della propria utilità, e che è divenuta una legge inalterabile dell' umanità, che questa sia sollecita di cercare ciò che le è vantaggioso, e presto o tardi lo ritrovi quasi avesse verso di ciò un' involontaria gravitazione; legge che si è resa così forte ed evidente che è difficile il conoscere che fu introdotta nell' umanità, e di cui non porta in sè medesima la necessaria esecuzione: il conoscere dico, che l' umanità si potesse trovare in tale stato, nel quale incapace fosse di pensare all' acquisto d' un suo bene per poco lontano ch' ei fosse ed impotente di muoversi verso il medesimo, per una inerzia che non riceve movimento se non dai pungoli di un dolore corporeo o di un istinto brutale. Da questo stato di degradazione è già lontanata per sempre l' umanità, e ha ricevuto una spinta che la porta per tutti i veicoli del bene, per così dire, anche più lontano, e non può venire meno il suo movimento. Egli è dunque contro questa legge di perfettibilità che andrebbero gli uomini togliendo via la divisione del lavoro, e per ciò la classe dei mercenarŒ: giacchè, se i padroni si dividessero fra loro le arti, verrebbero ad accumulare in sè due officŒ, o sia due lavori, cioè l' amministrazione della propria sostanza e l' arte prescelta: e si renderebbero in tal modo servi essi stessi senza che a loro restasse il modo nè il tempo di godere i frutti dei beni da loro posseduti, nè quelli dalla loro avidità guadagnati. Il benestante adunque pagando il mercenario redime sè stesso: giacchè egli è libero quando è padrone del suo tempo e della sua opera: quando cioè quest' opera non è occupata dalla necessità di un lavoro determinato. Colla mercede che paga il benestante, cangia un po' della sua ricchezza con altrettanto tempo e fatica, il quale è pur sempre un cambio vantaggioso; mentre fonda in tal modo una forza ed una porzione di vita che egli può occupare alla cultura del suo intelletto e del suo cuore, e al godimento degli onesti piaceri: i quali beni sono di un pregio inestimabile sopra la materiale ricchezza. Il corpo dei mercenarŒ adunque è sommamente utile ai benestanti, e attesi i suoi presenti bisogni necessario: ed essendo gli uomini soggetti alla legge della perfettibilità e da essa inclinati a mantenere ciò che hanno provato per bene e ad accrescerlo, è impossibile che il corpo dei mercenarŒ sia abolito: ed una tale proposizione è così assurda, che il solo enunciarla desta le risa. Nè si può dire che i benestanti con un comune accordo potessero costringere i mercenarŒ a più dure condizioni fino alla servitù; perciocchè questa stessa prostrerebbe le arti, solito effetto della umanità, e le richiamerebbe dentro alle famiglie onde sono uscite, cioè farebbe retrogradare la società: il che, come dicemmo, essa non può fare generalmente parlando, od al meno non può farlo ad occhi aperti; perocchè ad occhi aperti è assurdo che faccia un male a sè stessa. L' esistenza adunque del corpo dei mercenarŒ non è precaria, ma è tanto ben assicurata quant' è assicurata la legge della perfettibilità: e, se non fosse assicurata, noi dovremmo assicurarla con una civile sanzione, mentre la società in costituirsi non debbe far danno a sè medesima, ma mettere tutte quelle basi che da essa il male allontanano. 1) Per la stessa ragione il corpo de' benestanti commetterebbe una ingiustizia cercando di distruggere il corpo dei mercenarŒ: perocchè nessuno ha diritto di restringere l' altrui libertà senza che ciò torni in bene di sè stessa. Ora il corpo dei mercenarŒ è utile, come abbiamo veduto, ai benestanti: dunque oltrechè sarebbe stolto distruggerlo, e di una stoltezza che si è resa impossibile al genere umano, sc“rto sulla via della perfezione, sarebbe anche ingiusto, perciocchè nessuno ha diritto di nuocere altrui senza ragione, nessuno ha diritto al male ed alla stoltezza. La società civile adunque, sì per principio di utilità che per principio di giustizia, debbe riguardare il corpo dei mercenarŒ come fornito di un diritto al mantenimento, e debbe conoscere che il provento del medesimo è assicurato sopra un fondo stabile quanto il provento dei benestanti, mentre è assicurato sul bisogno, sui piaceri, sulla felicità, e sulla moralità degli stessi benestanti. La sola differenza che passa fra il fondo sul quale è assicurato il provento dei benestanti, ed il fondo sul quale è assicurato, per dir così, il provento dei mercenarŒ, si è questa, che ciascun benestante ha in mano il suo fondo, ed è legato colla sua individuale persona: mentre ciascuno dei mercenarŒ non può già dir tanto, poichè il suo travaglio è condizionato alla volontà di chi lo prende al lavoro: e ciascun mercenario non può sempre assicurarsi di trovare questa volontà disposta costantemente ad usare l' opera sua: mentre tutto il corpo dei mercenarŒ può benissimo assicurarsene; giacchè abbiamo fissato per base, che la volontà collettiva dei benestanti non può mai volere lasciare totalmente privo di lavoro il corpo dei mercenarŒ. Alcuno chiese se con ciò s' intendeva che la società civile prendesse l' obbligo di mantenere costantemente un numero fisso di mercenarŒ. A cui la Commissione rispose: che no: che il corpo dei mercenarŒ non poteva mai fissarsi: che questo doveva crescere o scemare, secondo le ricerche dei benestanti; ciascuno dei quali coll' istituzione della nuova società restava libero come prima di prendere o di licenziare i mercenarŒ secondo i suoi interessi ed i suoi bisogni: che se finalmente si potesse suppore il caso di una tale carestia e penuria di tutte le cose più necessarie, che nissun benestante avesse più il modo di mantenere un solo mercenario, supposto questo caso impossibile, ne seguirebbe, che il corpo dei mercenarŒ per qualche tempo disparirebbe; ma senza che questa distruzione dei mercenarŒ fosse punto contraria ai principŒ sopra esposti, perocchè essa non seguiva per un arbitrio stolto dei ricchi, nè per un principio di assurda politica; ciò che solo col discorso precedente si è combattuto. Ma dunque, alcun altro oppose, se il corpo dei mercenarŒ diminuisce ed aumenta, come avrà una rappresentazione stabile? Non fu parlato di una rappresentazione stabile, rispose la Commissione; ma solo di una rappresentazione attiva, la quale certamente debbe cangiare nella stessa proporzione che cambia il corpo dei rappresentati. Il modo poi di questo cangiamento è ciò che la Commissione si riserva di spiegare, quando sarà tempo opportuno; pregando intanto chi avesse da dire contro la medesima, di riservare per allora che se ne farà di proposito trattazione. Ciò che fu detto, e che fu fin qui accordato dalla Assemblea, diede la via alla Commissione di presentare il principio generale, secondo il quale doveva esser formata l' amministrazione della società civile. Il principio fu enunciato così: « Il potere amministrativo debbe esser messo in equilibro colla proprietà materiale di ciascun membro della società civile; »che equivale a quest' altra proposizione: « Ciascun membro della società civile debbe partecipare all' amministrazione della medesima nella proporzione della ricchezza materiale ch' egli possiede. » Tale principio veniva come conseguenza naturale dalle cose dette, o piuttosto era una recapitolazione delle medesime. In fatti egli discendeva da quell' altro più generale già prima adottato, che ogni specie di diritti ed ogni diritto nella stessa specie trovasse nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. Le specie di diritti s' avevano trovate essere due, chiamate de' diritti personali e de' diritti reali. S' era pure trovato ed accordato che a queste due specie di diritti corrispondevano due specie di rappresentazioni; cioè la rappresentazione passiva e la rappresentazione attiva: la prima delle quali, corrispondente ai diritti personali, era formata da una voce efficace di richiamo contro alle offese, e la seconda, corrispondente ai diritti reali, era una voce influente nell' amministrazione della società. Per diritti reali s' era inteso diritti sulla ricchezza materiale, e dopo aver trovato la rappresentazione conveniente a tale specie di diritti, cioè la rappresentazione attiva, conveniva stabilire il principio, che fissasse la rappresentazione conveniente a ciascun diritto della stessa specie, o sia alla quantità proporzionale dei diritti reali: e tal principio era quello enunciato dalla Commissione: « che il potere amministrativo dovesse esser messo in equilibrio colla proprietà materiale di ciascun membro della Società civile. » Non poteva dunque rifiutarsi l' Assemblea dall' ammettere tal principio, se non voleva venire in contraddizione con sè stessa. Ciò ammesso fissò la Commissione l' infimo grado di tale rappresentazione che doveva essere proprio di quelle persone, che avessero tanta ricchezza materiale quanta bastava ad assicurare ai medesimi una vita indipendente dagli altri uomini: in tal modo acquistava una rappresentazione attiva quella persona che aveva dei diritti per se stessi esistenti, giacchè i diritti personali per se stessi non possono esistere nell' uomo se non coll' aiuto di diritti reali: questi due diritti insieme uniti danno alla persona un' esistenza politica garantita in faccia alla società degli altri uomini, i quali ragionevolmente possono entrare con essa in un contratto stabile. I possessori delle terre fecero però sentire che non sembrava loro giusto d' esser messi alla stessa condizione dei possessori di fondi industriali, o commerciali, o bancarŒ, e dissero tutte le ragioni che dir si sogliono dai partigiani dei fondi terrieri: si sforzarono di mostrare principalmente due cose: 1 che tutte le altre ricchezze erano dipendenti dalla terra, e che veramente questa sola, somministrando il nutrimento agli uomini e le materie prime alle arti, era indipendente; 2 che i fondi d' altra specie non erano così assicurati come le terre, le quali non potevano mai esser distrutte nè mancare di prezzo; mentre tutta la ricchezza affidata alla volubile fortuna del commercio poteva da un' ora all' altra perire; e variava mobilissima ad ogni circostanza politica e ad ogni varietà nel costume e nell' opinione degli uomini. La Commissione oppose alla prima difficoltà quello stesso ragionamento, col quale aveva dimostrato che i mercenarŒ dovevano considerarsi come indipendenti dai benestanti: mentre questi non si sarebbero mai indotti ad abbandonarli giacchè ciò non voleva il proprio interesse, il quale interesse non poteva non essere seguito dal corpo dei benestanti perchè l' umanità, di fatto e per una legge a cui irrefragabilmente obbedisce, non può ad occhi aperti nè lasciare un bene nè fare un male a se stessa. Le arti ed il commercio sono di somma utilità ai possessori delle terre: dunque questi quando anco potessero abbandonarli non lo faranno mai; poichè ciò supporrebbe la perdita della ragione, o la perdita dell' amore a' proprŒ vantaggi. Dall' istante adunque che i proprietarŒ delle terre non vogliono nè possono volere rinunziare ai vantaggi che a loro apportano le manifatture ed il commercio, avviene ch' essi si costituiscano di fatto dipendenti da questi rami industriali, come questi rami industriali sono dipendenti da essi. La dipendenza adunque è scambievole, ed è anche pari; poichè, lasciando di considerare se l' agricoltura potesse sussistere priva di qualunque maniera di arti, egli non è più cosa controversa, che l' industria manifattrice ed il commercio aumentano la produzione, e moltiplicano il valore di ciò che rende la terra più volte per se medesimo. Ella è questa moltiplicazione di valore, che produsse le arti ed il commercio. E chi la poteva produrre, se non i possessori delle terre somministrando le materie prime? Le arti dunque ed il commercio vennero ad esistere mediante una loro speculazione: allo stesso modo come il frutto della terra venne a prodursi mediante il lavoro ch' essi fecero della medesima. Come dunque il benestante dipende dalla terra per cavare della ricchezza, allo stesso modo dipende dalle arti e dal commercio per cavare dell' altra ricchezza. Che se potesse darsi il caso, che i benestanti rinunziassero pazzamente a questa seconda ricchezza, forse mossi dall' invidia del guadagno di quelli che si applicano esclusivamente alle arti ed al commercio, e che comperano da essi i prodotti primi, ciò sarebbe un fatto stolto ed ingiusto: sarebbe un abuso del diritto della proprietà, e non dovrebbe essere riguardato come legittimo nella fondazione della civile società: anzi questa dovrebbe proclamare e sancire una dichiarazione in contrario, riguardando i possessori di fondi terrieri, industriali, e commerciali come parti cointeressate nello stesso negozio, come socŒ tendenti allo stesso scopo, dei quali gli uni si aiutano cogli altri scambievolmente dividendosi gli offici dell' azienda comune: perciò tutti egualmente gli uni dagli altri dipendenti, o in un altro senso tutti egualmente indipendenti; indipendenti cioè dato per impossibile che si rompa tal compagnia, e che qualche parte della medesima cessi da' suoi officŒ. Alla seconda obbiezione, colla quale i proprietarŒ delle terre pretendevano che solamente i loro fondi fossero bastevolmente assicurati ed all' incontro i fondi industriali e commerciali fossero abbandonati alla sorte sui quali perciò non si poteva contare, la Commissione fece una risposta convincente presentando i seguenti riflessi. Ella è la legge che regola il prezzo delle cose, quella che può dileguare la difficoltà proposta. Per conoscere la legge che regola il prezzo delle cose bisogna prendere per regola una misura comune del prezzo, una materia che abbia qualche valore a cui paragonare le altre; e il danaro generalmente introdotto nelle società costituite somministra la misura del prezzo più acconcia di tutte. Valutiamo dunque il prezzo delle cose in danaro, o per dir meglio consideriamo la valutazione loro nel fatto. Quali sono dunque gli elementi che costituiscono questo prezzo, o questa valutazione delle cose? Sono due: 1 La ricerca delle medesime corrispondente ai bisogni che si hanno di esse, presa la parola bisogna nel senso più generale, nel quale si comprendono ancora i bisogni fattizŒ, i desiderŒ in somma. 2 L' acconciezza che hanno le cose a soddisfare questi bisogni, calcolando la facilità d' acquistarle, la loro quantità, la loro durata rispettiva ecc. ecc.. Egli bisogna ben intendere che questo prezzo delle cose appunto perch' egli risulta dal rapporto fra la somma de' bisogni delle medesime e la loro acconcezza a soddisfarli, non è già stabilito da qualche persona particolare (escluso il caso di monopolio) ma da tutta la società, nella quale le cose valutate sono in corso. Ciò posto, se i fondi industriali e commerciali sono soggetti al pericolo della sorte, egli è evidente che nella loro valutazione questo viene calcolato: e se non viene calcolato vuol dire ch' egli è realmente compensato dal valore della speranza di guadagno che gli accompagna. Nè i proprietarŒ delle terre possono già dire: che il prezzo che viene loro assegnato, e nel quale resta necessariamente calcolato anche il pericolo della sorte, non abbia che una giustezza approssimativa; poichè ciò ammesso non possono tuttavia cavarne conseguenza in loro favore; giacchè lo stesso si può dire della valutazione dei fondi terrieri e del prezzo di tutte le altre cose mobili e stabili che sono poste in circolazione nella società. Egli è impossibile adunque trovar altra via di valutar la ricchezza se non riportandosi al prezzo relativo delle cose, cioè al prezzo che acquistar possono messe in cambio con altre cose; del quale prezzo per conoscere la proporzione bisogna riportarsi ad una specie sola di cose, fra le quali la più comoda e la più usitata è il denaro. Trovato questo prezzo relativo, non v' ha più luogo a sconto; poichè questo prezzo è il risultato delle qualità stimabili dell' oggetto apprezzato, meno le qualità deterioranti, come sarebbe appunto la sua breve durata, la sua fragilità, la probabilità della sua perdita ecc. ecc.. A tale discorso taluno disse che, dato anche tutto ciò che la Commissione viene ad esporre, non ne seguirebbe punto altra conseguenza pei fondi industriali e commerciali che quella tirata per li mercenarŒ: cioè che dovessero avere una rappresentazione comune e non individuale; conciossiacchè la loro esistenza indipendente si provava collo stesso argomento che s' era usato a provar quella dei mercenarŒ. Ma la Commissione ne dimostrò la differenza; poichè supposto che un mercenario venga abbandonato dai committenti, egli che vive su suoi lavori non ha oggimai più onde vivere; mentre all' incontro, supposto anche lo strano caso che il possessore d' un fondo industriale o commerciale venga abbandonato a tale che debba desistere dalla sua professione, gli rimane ancora il suo fondo, il quale egli può vendere, e tramutare o in un fondo stabile o in un capitale fondato sopra un fondo stabile. Laonde rimane il diritto a ciascuno, che abbia un fondo capace di produrgli un sufficiente mantenimento, di essere rappresentato individualmente nell' amministrazione della civile società. Malgrado che i ragionamenti della Commissione fossero stati riconosciuti per giusti, e le sue proposte fin quì approvate, v' erano nulla ostante molti che si ridevano di ciò che si faceva, e che andavano mettendo in discredito i principŒ stabiliti col dichiararli impossibili di produrre un risultato pratico, i quali perciò sarebbero stati abbandonati ben presto, quando i negoziati si avvicinassero a conchiudere qualche cosa di fatto, e non si trattenessero come finor facevano nelle imaginarie regioni di un' aerea speculazione. Egli fu a costoro, i quali coi loro discorsi indisponevano gli animi dell' Assemblea, che prese a rispondere la Commissione nella sessione presente. Come è possibile, dicevan essi, che ogni menoma ricchezza materiale venga rappresentata nell' amministrazione? In che modo si potrà ottenere una proporzione giusta fra le persone che debbono comporre l' amministrazione? Si vuol forse fare una nuova divisione delle ricchezze materiali in un modo regolare, sicchè una persona abbia precisamente il doppio, il triplo, o il quadruplo dell' altra nè più nè meno? Ovvero (giacchè questo sembra contraddire ai principŒ rigorosi di giustizia stabiliti dalla Commissione) si lascierà da parte le frazioni che sortono nella valutazione della ricchezza? In tal caso la Commissione devierebbe da quello stesso rigore di giustizia che essa vanta fino alla noia. Ma poi, i fondi rimangono sempre gli stessi? Non si pretenderà mica di rendere immobili e stagnanti tutte le ricchezze della società? E se son esse soggette ad un continuo movimento, dovrà soggiacere alle stesse mutazioni anche l' amministrazione della Società? Che governo sarà allora cotesto, che muta tutti i giorni, e che è commesso all' aura della cieca fortuna alla guisa stessa della ricchezza? O vorranno forse quelli, che, essendo in possesso del governo, per qualche sventura impoveriscono, cedere bonariamente il posto a quelli che sulla loro disgrazia si sono arricchiti? Per quanto adunque sieno speciosi i principŒ della Commissione, debbono terminare col partorire del vento. La Commissione contrappose a questi e consimili mormorii un' ampia dottrina del diritto, su cui opinava doversi formare la civile società: disse, che quelle obbiezioni provenivano dall' essere stata l' Assemblea finora informata de' principŒ di naturale giustizia risguardanti il fine propostosi da conseguire, e non de' principŒ di giustizia riguardanti il mezzo onde ottenere quel fine. Riguardo al fine la legge naturale vuole, che gli uomini viventi nello stato di natura si raccolgano in una Società civile, come quella che è utile a tutti, e che perciò ciascuno ha diritto di domandarla agli altri; a quello stesso modo che ciascun uomo ha diritto di domandare agli altri una convenzione ragionevole intorno ai proprŒ interessi ogni qualvolta questi vengano in collisione cogli interessi degli altri e non si possa senza una convenzione cavare giustamente quella utilità che si caverebbe mediante un' equa convenzione. 1) La Società civile dunque è una specie di convenzione generale riguardante tutti gli interessi di tutti gli uomini conviventi; la quale diventa un obbligo della legge naturale ogni qualvolta, sentendone alcuni uomini la utilità, dimandano a' loro compagni che vengano a simile convenzione ed associamento. Ma questo associamento debbe essere posto sopra le basi della equità, e queste basi di equità furono dall' Assemblea riconosciute esser quelle che la Commissione propose. Or dunque si tratta di formare la società sopra queste basi. Ma queste sono impossibili, si risponde. E come, ripete la Commissione, non sono esse necessarie? Rimossa l' equità e la giustizia, che cosa rimane per principio formatore della società, se non l' arbitrio, o la forza, o il caso, quasi formare la società dovesse considerarsi come un gittamento di dadi? Bisogna dunque vedere fino dove si estende l' obbiezione, che il formare la società civile secondo l' equità sia impossibile: mentre finalmente dall' equità non si può recedere, e se l' equità, come si dice, fosse al tutto impossibile da ottenersi, bisognerebbe convenire, che impossibile fosse la società stessa: che questa lungi dall' essere un dovere morale fosse il frutto o del cieco accidente o della prepotenza, o di un inconcepibile accordo nella medesima stoltezza. Ma l' obbiezione stessa non ci si presenta in tal modo. Essa non dice, che le basi dell' equità già proposte sieno al tutto impossibili da praticarsi: dice solamente, che esse non sono possibili a praticarsi con tutto il rigore, e che praticate a rigore assai male conseguenze trarrebbero seco. Or via, qual' è dunque la forza dell' obbiezione? Ella sta in questo; che dovendosi l' equità osservare nella composizione della società civile, debbesi praticare in tutte sue parti: e che se si concede di deviare dalla medesima in qualche parte, non si vede più la ragione perchè medesimamente non possa concedersi di lasciare l' equità anche nelle altre: dall' istante che l' arbitrio è qualche cosa, non si vede la ragione, perchè non possa esser tutto. Se l' equità è la suprema legge, perchè si può in parte abbandonare? Se non è la suprema legge, perchè non si propone a dirittura la legge suprema, e dietro a quella non si forma la società? Ma tutta questa obbiezione non è che apparente; perchè se gli uomini sono obbligati a seguire l' equità, essi non sono però obbligati di seguirla se non in quel tanto, che essi la conoscono, e che hanno il potere di seguirla. Non è già con questo che essi abbandonino una parte della equità; mentre è coll' animo cioè con una vera volontà che essi sono obbligati di seguirla tutta. Se malgrado di questa loro piena volontà, per mancanza di cognizione o di potere, avviene che in qualche sua parte esternamente non la pratichino e non la realizzino; questa non è che una mancanza materiale, e non già morale; non seguono per questo meno tutta intera la equità. Ma v' ha di più. Siccome nissuno uomo è obbligato moralmente all' impossibile, così nissun uomo ha il diritto di chiedere l' impossibile dall' altro uomo. Se due facendo insieme una convenzione non possono trovare il giusto punto dell' equità, non debbono per questo venire a discordia, ma bensì sono obbligati di stringere la convenzione stessa secondo un' equità approssimativa. Questo è ciò che nasce continuamente nella vita umana. Supponete, che più persone debbano dividersi egualmente una grande eredità: egli sarà tante volte impossibile di fare le parti giuste di una esattezza matematica: le stime dei fondi non possono giammai essere che approssimative, perchè sono l' opera degli uomini; il credito dei debitori della massa anche esso non somministra che un dato di approssimazione; e può cagionare dei gravi sbagli. In somma l' eguaglianza matematica non si ha mai, nè si potrebbe conoscerla avendola: il diritto delle parti adunque non si estende ad esigerla; perocchè i diritti debbono essere sempre ragionevoli, e non possono esigere se non ciò che è possibile: e ciò appunto è quello che propriamente si chiama equità, per distinguerla dalla giustizia, colla quale si vede essere da questo esempio intimamente connessa. L' equità dunque si può dire che non sia se non se la giustizia in pratica; giacchè la giustizia speculativa si può rare volte ottenere nella pratica, e non potendo gli uomini d' altra parte chieder giammai l' impossibile, sono obbligati dalla ragionevolezza che debbe accompagnare i loro diritti, e che è pur essa un principio di giustizia, a restringere i medesimi a tutto ciò che è possibile, che è quanto dire, a cangiare ciò che è giusto in ciò che è equo, mentre il sommo diritto cessa d' esser diritto; ma, secondo il proverbio antico, diventa somma ingiuria. Or come nella giustizia propriamente detta consiste ciò che secondo la legge naturale si può prefiggersi per fine , così nella equità viene indicato quel mezzo onde secondo la legge naturale si debbe ottenere quel fine. Giusto è adunque il fine di una giustizia stretta , giusto è il mezzo di una giustizia che propriamente si chiama equità . Gli uomini sono obbligati da una legge morale di prefiggersi nelle loro convenzioni quel fine giusto; e perchè se lo debbono prefiggere efficacemente per ciò sono obbligati altresì di ottenerlo con questo mezzo giusto: la giustizia stretta nel fine: la equità nel mezzo di ottenerlo, ecco ciò che rende possibili fra gli uomini le convenzioni giuste. Applichiamo questi principŒ alla convenzione più estesa di tutte che possano far gli uomini, ossia alla formazione della civile società. Conviene prima di tutto nella formazione della medesima vedere quale sia il diritto che può reclamare in essa qualunque persona che si assembra e tratta insieme per parteciparne. Giacchè nessuna persona può essere costretta senza ragione a rinunziare ai proprŒ vantaggi, quindi è necessario prima di tutto vedere quali sieno i vantaggi che ciascuno può avere in detta società, quale il posto che ciascuno può convenevolmente occupare. Noi abbiamo fatto questa ricerca ed abbiamo riconosciuto che la parte che si può avere in detta società può essere di due specie che abbiamo contrassegnato coi vocaboli di rappresentazione passiva e di rappresentazione attiva: che la rappresentazione passiva conviene indistintamente a tutti gli uomini; mentre ragione vuole che non partecipino della rappresentazione attiva se non quelli che vivono sopra dei fondi di ricchezza materiale e ciò in proporzione di detti fondi. Questo pertanto è il fine giusto della società; fine nel quale debbono ragionevolmente convenire: e dico fine giusto perocchè nessuno dei membri sociali potrebbe esser costretto senza ragione a rinunziare ai vantaggi che a lui apportano le basi soprafissate: conciossiacchè sono ragionevoli e venienti come conseguenze dai diritti di ciascheduno. Questo fine pertanto debbe ciascun membro della società futura prefiggersi di ottenere nella istituzione della medesima, e non perderlo giammai dallo sguardo. Ma debbe tenersi in esso così costante lo sguardo per ottenersi pienamente? Non già: ma per ottenersi quanto più si può: mentre quand' egli si ottiene nel miglior modo che si può, si ottiene pienamente: giacchè la perfezione morale non consiste se non nell' uso di tutte le proprie forze per la consecuzione di ciò che è giusto, non già nell' ottenimento materiale di ciò che è giusto: questo si potrebbe ottenere senza aver fatto la giustizia. E` dunque un dovere della legge naturale la formazione della Convenzione civile nel caso da noi proposto: è un dovere della legge naturale volerla formare secondo le basi della giustizia di sopra da noi stabilite: finalmente è un terzo dovere della Legge naturale recedere dal proprio diritto in quella parte nella quale non si può ragionevolmente esigerlo dagli altri soddisfatto, perchè ciò sarebbe loro impossibile, come è impossibile esigere la esattezza matematica nella divisione di una possessione, di una casa, di uno stato. Ciò solo adunque che possono esigere scambievolmente gli uomini, che vogliono comporre insieme una civile società, si è che sia adoperata la maggiore esattezza possibile nella divisione del potere civile: ma nulla più: e per la maggiore esattezza possibile non altro debbesi intendere che quella che risultar può dai lumi comunicati di tutti i membri, e messi a profitto mediante l' esame dei SavŒ universalmente reputati per forza di mente, per provetto consiglio, e per integrità. Qualunque adunque sieno per essere nella pratica esecuzione degli articoli sopra esposti le deviazioni dai medesimi , queste debbono essere sempre accordate dalla Assemblea dopo che è stato dimostrato: 1 che esse sono necessarie per l' ottima consecuzione del fine sociale, cioè pel comune vantaggio; 2 ch' esse sono le deviazioni menome che far si possano, dati i lumi suggeriti dalle persone, che concorrono nella società civile da istituirsi. La esecuzione del sopraesposto progetto viene pienamente giustificata, quando avendo tutti i sozŒ ampia facoltà di comunicare i loro lumi nessuno di essi ha saputo suggerire di meglio: suggerire cioè degli espedienti che più dappresso s' avvicinassero all' esecuzione delle basi sopra poste di giustizia, e che diminuissero le deviazioni necessarie dalle medesime. Egli è da questo ragionamento che risulta la consolante verità « che l' uomo amatore della giustizia non debbe punto atterirsi dallo stabilire delle regole difficili all' esecuzione, ma che tutto ciò che è giusto per difficile ch' egli sia debbe essere tratto alla luce, ed ampiamente e coraggiosamente esposto: giacchè, perciò che abbiamo detto, tuttociò che è giusto è altresì possibile: purchè l' equità sia quella che s' interponga quasi mediatrice fra esso e gli uomini nell' esecuzione: quell' equità che consiste nel concedere le menome deviazioni da quelle regole: e che coll' accrescimento dei lumi concede sempre meno; perchè ritrova ognora degli espedienti migliori che minorano indefinitivamente quelle deviazioni, e conducono la pratica sempre più vicina indefinitivamente alla teoria. » Riassumendo le cose dette, la Commissione presentò in un nuovo aspetto quella parte di progetto della società civile da istituirsi, che finora aveva presentato all' Assemblea, e che difendendo passo per passo avea fatto adottare dalla medesima. Fece osservare che le due rappresentazioni proposte, cioè la passiva e l' attiva, la prima delle quali corrispondeva alla specie di diritti che è comune a tutti gli uomini, l' altra a quella specie di diritti che è propria dei benestanti, erano d' un' indole totalmente diversa: la prima aveva per iscopo la sicurezza , o difesa dei diritti; la seconda la ricchezza o l' aumento dei diritti, i quali erano quei due scopi a cui finalmente tendeva ogni civile società. Mostrò come la sicurezza o la difesa dei diritti era cosa partenente alla giustizia , e come la ricchezza o l' aumento dei diritti era cosa appartenente all' utilità : giustizia dunque ed utilità erano i due scopi suddetti della società che si trattava di istituire. Un potere adunque che trovasse o difendesse dove che sia la giustizia, ed un potere che cercasse e procacciasse l' utilità, erano i due perni su cui si volgeva tutta la società civile, a quel modo che la Commissione aveva creduto di progettarla. Questi due scopi erano al tutto necessarŒ da conseguirsi, e per l' umana dignità il primo più necessario ancora del secondo: dunque i due poteri che presiedevano a questi scopi erano supremi tutti due, e tutti due dovevano coesistere. Il potere che presiedeva alla giustizia non poteva avere altra forma che quella d' un Tribunale: il potere che presiedeva all' utilità non poteva avere altra forma che quella di un' Amministrazione: un Tribunale politico adunque ed un' Amministrazione erano i due poteri supremi della società; erano le due parti essenziali del governo della medesima. Questi due poteri, queste due parti essenziali del governo, il Tribunale politico e l' Amministrazione, corrispondono ai due modi dell' esistenza umana, cioè al modo di esistere come essere morale e al modo di esistere come essere sensibile: l' uomo esiste in tutti e due questi modi contemporaneamente: la società dunque degli uomini non può che avere anch' essa due modi di esistere, cioè un modo morale, ed un modo materiale e fisico: essa debbe essere mezzo che armonizzi queste due esistenze dell' uomo, e che nel mentre che essa procaccia di fare la felicità di lui come essere sensibile, non lo deteriori come essere morale. L' esistenza morale dell' uomo riguardo alle cose esterne che possono essere oggetto della civile società, viene conservata nella sua integrità mediante la giustizia, e per ciò mediante un Tribunale politico che a questa presiede; l' esistenza sensibile dell' uomo viene conservata e migliorata da una saggia amministrazione dei suoi beni, e perciò anche da una Amministrazione sociale che regola la modalità dei medesimi. L' esistenza risulta da una forza: come adunque v' ha esistenza morale ed esistenza sensibile dell' uomo, così vi ha una forza morale ed una forza sensibile. La forza morale si manifesta nell' uomo dalla reazione ch' essa fa contro tutto ciò che tenta di deteriorare nell' uomo l' esistenza morale: la forza sensibile si manifesta nella reazione che fa a tutto ciò che tenta di nuocere alla sua esistenza sensibile: nella società giocano le stesse forze, e reagiscono in tutte le direzioni: fa dunque bisogno di regolarizzarle perchè non la turbino, e questa regolarizzazione s' ottiene coll' instituire due centri delle medesime, i quali possano agire regolarmente ed ordinatamente: e questi due centri delle due forze elementari dell' uomo e della società sono le due parti elementarŒ del supremo potere: Tribunale politico, centro della forza morale nella società: Amministrazione, centro della forza sensibile o fisica nella medesima: nel primo si esercita ordinatamente, ma colla sua maggior attività la forza morale; nel secondo si esercita colla sua maggior attività la forza sensibile o fisica. Ecco la società civile corrispondente ai bisogni indeclinabili della natura umana. Da ciò la Commissione ne trasse come conseguenza massima: che la maggior cautela dovesse essere conservata, perchè nel Tribunale, centro della forza morale, non si mescolasse di nulla la forza sensibile e fisica: e finalmente credette venuto il punto da presentare all' Assemblea il Progetto del detto Tribunale già precedentemente apparecchiato (Lib. I) il quale progetto diligentemente esaminato da una Giunta apposita e dall' Assemblea stessa, fu finalmente ammesso. L' articolo delle elezioni per la composizione del Tribunale, che si doveva discutere, tornava più difficile a stabilire, che quello sulle elezioni dei membri dell' Amministrazione, poichè per costituire un membro dell' Amministrazione si aveva un dato materiale, qual' era la ricchezza materiale che bastava verificare: all' incontro per eleggere un membro al tribunale politico, nella cui elezione non si doveva riguardare ad altri dati che alla virtù ed alla scienza, non si aveva nulla di esterno, che potesse prestare una certezza fisica, e che escludesse ogni controversia; per cui anzichè ai dati esterni conveniva rimettersi in tali elezioni all' opinione, o sia all' intimo senso degli elettori. Nulla di meno la ricognizione della ricchezza come titolo del diritto di rappresentazione attiva, o sia come titolo al potere amministrativo, ammetteva naturalmente molte frodi, ed eccitava infinite controversie, mentre tutti i benestanti aspiravano ad acquistar la maggior parte possibile del potere civile. Ciò vedendo la Commissione, e dalle dissensioni che nascevano assai chiaramente scorgendo che non era possibile di farli convenire fra di loro, anzi che avanzandosi le discordie minacciava di sciogliersi l' Assemblea senza far nulla, prese il partito di proporre all' Assemblea la seguente proposizione: « Sieno sospesi tutti i negoziati per instituire l' Amministrazione sociale, e si proceda prima all' instituzione del Tribunale politico, innanzi al quale ognuno potrà poscia presentare le ragioni ch' egli ha di partecipare al potere, o sia lo stato della ricchezza ch' egli possiede, e dietro la ricognizione che farà della medesima il Tribunale, ciascuno prenderà il posto che gli spetta nell' Amministrazione sociale. » Essendosi riconosciuta l' equità della proposizione si rivolse l' animo alla composizione del Tribunale politico, che si realizzò secondo il metodo preso dietro alle successive proposte della Commissione. La sola qualificazione che si richiedeva, secondo i principŒ posti, per essere membro del Tribunale politico, consisteva, dopo la libertà, in un grado universalmente riconosciuto come eminente d' integrità e di scienza. In tal modo l' uomo il più misero poteva essere sollevato a quella parte del supremo potere che consisteva in un tal Tribunale. Nè solo tutti i liberi, proprietarŒ e non proprietarŒ, potevano esser chiamati a questo genere di dignità: ma ben ancora questo Tribunale era fatto per tutti egualmente: proteggeva i diritti di tutti, ed in cospetto a lui tutti erano eguali. 1) Ciò premesso, gli elettori dei membri di questo Tribunale doveano dare il loro voto come uomini, e non come ricchi, o come forniti di qualche accidentale differenza dai loro simili; dovevano darlo come esseri morali, e in stretta coscienza, sotto il più grave giuramento. Ma quali dovevano essere questi elettori? Tutti quelli di lor natura che potevano considerarsi come esseri morali, tutti gli uomini giunti all' uso di ragione. Questa fu l' idea generale seguita dalla Commissione, e suggerita dalla natura del detto Tribunale. Ma nel tradurla in una legge fu cauta di non obbliare le relazioni naturali, che legavano insieme gli uomini, e dalle quali, in qualunque circostanza questi si trovassero, non potevano prescindere: che perciò dovevano conservarle anche nello stato di elettori dei membri al politico Tribunale. La legge adunque proposta dalla Commissione sugli elettori del Tribunale politico fu distinta negli articoli o paragrafi seguenti: 1 I voti sono tanti quanti gl' individui nella società: quelli che non sono in possesso dell' uso della ragione lo danno mediante i genitori, od i tutori, o i curatori. 2 Ciascuno che è ammesso a dare da sè il voto elettivo non può delegare alcun altro a questo ufficio, senza stretta necessità. 3 Tutti i capi di famiglia hanno il diritto e il dovere di dare il voto elettivo. 4 Le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei padri: i mariti danno, oltre al proprio, un voto per la moglie; ed i padri e le madri vedove oltre il proprio danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli di qualunque età sieno. 5 Dopo instituito il Tribunale le mogli ed i figliuoli non emancipati possono essere abilitati dal Tribunale medesimo al diritto di voto, quando ciò esigano per giuste cause contro i mariti ed i padri, o le madri vedove. 6 I servi hanno il diritto ma non il dovere del voto. Discutendosi il primo articolo di tal legge taluno disse che sembrava dover essere necessario negli elettori non solo l' uso della ragione, ma l' età maggiore. La Commissione osservò contro tale obbiezione che nell' uomo non si esigeva già egual grado di ragione per qualunque operazione ch' egli facesse: che coll' età maggiore veniva dichiarato abile ad amministrare il suo patrimonio: il che richiedeva maggiore cognizione e capacità che non sia a dare il voto di cui si tratta; poichè lo scopo di questi voti non è solamente quello di ritrovare le persone più scienziate e virtuose, ma oltre di ciò di trovare in particolare le persone più ben amate, le più benevole, le persone cioè che non abbiano particolari avversioni ed inimicizie: quindi il voto si debbe considerare anche come una dichiarazione, che la persona votata si riguarda come benevola e affezionata: su di che può recar giudizio chi che sia in possesso dell' uso della ragione. Fissandosi l' età maggiore per qualificazione dell' elettore si escluderebbero molti arbitrariamente di quelli che pur avrebbero diritto di votare, e la deviazione dalla rigorosa giustizia non sarebbe la menoma: non sarebbe dunque equa tale arbitraria esclusione. In conferma del secondo articolo la Commissione dimostrò il danno che ne avverrebbe, se si rendesse possibile di accumulare arbitrariamente molti voti in una stessa persona: accumulazione contraria all' intima natura della istituzione; poichè essa è basata sul principio che tutti gli uomini sono giuridicamente eguali; cioè che tutti gli uomini sono egualmente esseri morali. Il voto che si dà è fornito di tre caratteri, e fa tre ufficŒ diversi: 1 rappresenta l' essere morale , ossia i diritti essenziali dell' uomo; 2 esprime un giudizio sulla scienza e virtù dei candidati ed esprime insieme il desiderio , o affezione generale dei candidati: affezione che è il segno della mutua loro benevolenza; 3 finalmente è un atto di autorità e di forza morale, che ha le sue conseguenze esterne, nel modo onde segue l' istituzione. Ora egli è da tenersi qual principio fondamentale « che il perdere alcuno di questi tre effetti del voto senza ragione è dannevole alla società, e rende difettosa l' istituzione. » Ciò posto, se non s' impedisce l' accumulazione arbitraria dei voti, si vanno a perdere i due primi ufficŒ del voto e a guastare il terzo. In fatti il primo suo officio, come diceva, è quello di rappresentare l' essere morale , o sieno i diritti essenziali dell' uomo. Ora in quanto a questo officio egli è assurdo che un uomo possa dare due voti; mentre non è che un solo essere morale. Non è dunque possibile che un uomo deleghi un altro a dare il voto per lui; mentre qualunque voto desse questo secondo non sarebbe che l' espressione del proprio giudizio e non quello dell' altrui; egli è dunque necessario che ciascuno che dà il voto lo dia da se stesso; come è necessario che un uomo che pensa, pensi da sè stesso: e sarebbe assurdo affermare che si pensa per la ragione che v' ha un altro che pensa. Medesimamente il voto per delegazione non supplisce al suo secondo ufficio e in quanto a questo ufficio è pure di natura sua inalienabile. Questo voto riguardo al suo secondo effetto è un giudicio che si dà sui candidati. Ora il giudicio di una persona non può essere che uno. Quando io ho ricevuto da una persona il suo consiglio in un affare, è assurdo il pretendere ch' esso me ne dia un altro; mentre sarebbe pur un consiglio solo ripetuto due volte, e non mai due consigli. I voti adunque degli elettori sono tanti consigli o giudicŒ, e perciò niuno di essi può avere il diritto di darne più che un solo; perchè ha una mente sola, una volontà sola, ed è un uomo solo. Finalmente egli è vero che considerati i voti come meri atti di autorità si possono di loro natura accumulare, ciò che la Legge riconosce riguardo ai padri, ai mariti ed ai tutori. Ma questa accumulazione quando fosse arbitraria porterebbe alterazione nella Costituzione sociale; perocchè i ricchi potrebbero comprare in tal modo i voti dei poveri, e gl' ignoranti sacrificare se stessi alla altrui avidità: in tal caso il Tribunale politico non otterrebbe più il sacro suo scopo di opporre una forza morale agli abusi della forza fisica; di difendere cioè tutto ciò che è debole nella società contro tutto ciò che in essa è forte. Il terzo articolo incontrò opposizione in ciò che parve aggravarsi di un peso i capi di famiglia coll' obbligarli a dare il voto. Ognuno, fu detto, debbe poter rinunziare quand' egli voglia al proprio diritto. Rimane forse offeso qualcheduno perchè altri rinunzia al diritto che possiede? Se alcuno rinunzia al proprio diritto, gli altri lungi dal perdere ne guadagnano; perocchè approfittano del diritto abbandonato. Ma quelli che così parlavano non si accorgevano, come fece osservare la Commissione, che non si trattava di una società civile a quel modo ch' ella si trova instituita presso varŒ popoli, in cui vi fossero già delle persone che s' incaricassero di tutte le incombenze che la società civile porta con sè, sicchè il resto dei cittadini ne rimanesse al tutto scarico. Nella società civile all' incontro che volevasi instituire era necessario, che fosse stabilito parimenti fra i membri un corpo di persone che assumessero sopra di sè, come dovere, le incombenze della medesima, perchè queste non fossero lasciate ad arbitrio, o commesse alla ventura. Che riguardo a quest' incombenza particolare di eleggere il Tribunale politico era necessario di stabilire un corpo di elettori stabile: ed era necessario che questi s' obbligassero a ciò: affinchè per una continua titubanza nel numero e nella qualità degli elettori la società stessa non perisse, o almeno il Tribunale politico riuscisse a non essere più l' espressione della volontà di tutti, ma l' espressione della volontà casuale di pochi. In questo secondo caso egli potrebbe fors' anco esistere il diritto, giacchè col non venire all' elezione di molti, questi si rimetterebbero tacitamente al volere dei pochi, quando ciò fosse da principio accordato: ma egli non esisterebbe veracemente di fatto: egli non potrebb' essere nè amato nè venerato; giacchè per esserlo, tutti i cittadini debbono veder in esso l' opera propria. Finalmente che cosa si cerca in tal' elezione? si cerca forse l' instituzione di un Tribunale solamente? non già, ma si cerca di ottenere l' instituzione del Tribunale il più sapiente, il più integro, il più ben voluto, il più autorevole, il più rispettabile. Questo si può egli ottenere, se non mediante il parere della maggior parte al meno della nazione? se adunque vengono a mancare dei voti dei padri di famiglia, vengono a mancare insieme dei lumi per ciò ottenere: vengono a mancare dei pareri e dei voleri; viene a mancare insomma parte dell' opinione pubblica. Ciò nuoce di certo allo scopo dell' instituzione: si rende adunque necessario che la società non sia privata dei voti dei capi di famiglia, e questo è un obbligo che si debbono assumere dal punto che vogliono unirsi in una società civile equamente ordinata, altrimenti sarebbero in contraddizione con se stessi. Si domandò che cosa dovevasi intendere per capo di famiglia; e dopo varie proposte fu convenuto, di estendere la definizione del capo di famiglia a qualunque persona libera che non fosse soggetta all' autorità paterna o materna, maritale, o tutelare o curatoria. 1) Maggiore dibattimento cagionò il quarto articolo, col quale si escludevano dal dare il loro voto a parte le mogli ed i figliuoli, perchè si consideravano i voti di questi compresi in quelli dei mariti e dei padri; e si dava all' incontro al marito il voto della moglie, al padre i voti dei figliuoli. Le ragioni di questo articolo altre riguardano la prima parte, ed altre la seconda del medesimo. Cominciando dalla seconda parte essa dice, che i mariti « oltre il proprio, danno il voto per la moglie, ed i padri, oltre il proprio, danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli. » Il voto, considerato come un atto d' autorità, spiega questa seconda parte, supposto la prima ammessa: poichè non conveniva che una famiglia numerosa avesse un solo grado di potere (giacchè un atto d' autorità è un grado di potere) come una famiglia formata da una sola o da due persone. Poichè nella famiglia numerosa vi sono tanti più diritti da difendere e da rappresentare quanto è maggiore il numero delle persone che la compongono. Perchè adunque gli uomini fossero trattati con quella eguaglianza che richiede la natura della istituzione conviene che i voti stieno in ragione del numero delle persone componenti la famiglia. Si oppose che i padri poveri, i quali non hanno da alimentare i loro figliuoli, non debbano avere il vantaggio di dare i voti pei medesimi. Ma si osservò ancora che ciò che dava al padre simil diritto era l' esser padre, e non l' esser ricco: e che come la società civile non poteva fare che non fosse padre, così non doveva neppure negare al medesimo ciò che nasceva dalla sua paternità; il pieno diritto sopra i suoi figliuoli. La prima parte dell' articolo quarto diceva: « che le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei genitori. » L' opposizione esagerò il pericolo, che i padri e i mariti abusassero di tale autorità, disse che riunendo nei padri e nei mariti i voti dei figliuoli e delle mogli si privava la società di un maggior numero di consigli; e si accumulava in un solo uomo, cioè nel capo di casa, troppa autorità ed inadatta, perchè il Tribunale doveva essere costituito anche contro gli abusi della potestà paterna, e della maritale; che si deviava con ciò dal principio che rispetto a questo Tribunale tutti gli uomini fossero uguali, giacchè con tale accumulazione di voti si considerava il padre fornito di più voti, ed i figliuoli privi di tutti. Ma la Commissione all' incontro: Non si debbe intendere nel modo degli opponenti il principio che il Tribunale considera gli uomini tutti eguali. Questa uguaglianza comincia solo allora che due parti vengono fra di loro in discordia: prima di questo tempo le persone nulla hanno a fare col Tribunale; ed elle sono rispetto al medesimo come se non fossero. Il Tribunale adunque non altera punto le relazioni naturali fra gli uomini: e se li suppone eguali ciò è nel solo punto della discordia, innanzi cioè che si sappia a cui delle due parti appartenga il diritto conteso. Se dunque il Tribunale non altera punto le relazioni naturali degli uomini, che pacificamente si riconoscono e si conservano; ma solo interviene allorquando accade che qualche punto non sia riconosciuto o venga messo in questione, sarà da vedere quale naturale e riconosciuta relazione soglia trovarsi tra i genitori ed i figli, tra le mogli ed i mariti; e secondo il detto d' un savio antico, ciò che è naturale dovrà cercarsi non già nella depravazione, ma anzi nella integrità della natura. 1) Ora considerata l' indole della famiglia non depravata, noi troveremo la volontà dei figliuoli essere al tutto indivisa da quella dei padri, e la volontà delle mogli essere al tutto indivisa da quella dei mariti. E` l' amore che di più volontà ne forma una sola: e questo amore non solo è naturale, ma ben anche è doveroso. La società civile adunque debbe riconoscerlo, la società civile debbe sancirlo: egli è uno stretto dovere del figliuolo di convenire fino agli estremi della onestà col volere dei suoi genitori, come è un dovere della moglie di uniformarsi al volere del marito. D' altro lato i genitori, come fu già osservato, hanno sopra i loro figli un diritto, non già arbitrario, ma tuttavia illimitato, cioè che dalla parte dei figli non ha coazione reattiva. Se dunque viene istituito il Tribunale per tenere nei suoi doveri gli stessi genitori, questo tuttavia non viene ad istituirsi che mediante la ragionevolezza degli stessi genitori: questi sono quelli che da un prudente timore della propria fragilità sono indotti a sottomettersi a un Tribunale: prendendo nel tempo di calma una tale risoluzione, che può raffrenarli nel tempo dell' agitazione, e contenerli dagli eccessi. Egli è dunque conforme alla natura della cosa che i voti dei figliuoli sieno dati dai padri, il qual discorso, sebbene non si possa applicare con tutto rigore alla condizione dei mariti, perchè le mogli hanno almeno il diritto sulla propria vita, tuttavia può applicarsi in parte per la strettezza del nodo maritale. Che se i padri ed i mariti operando contro la loro naturale relazione tiranneggiassero i figliuoli e le mogli, questi dopo l' instituzione del Tribunale potrebbero secondo il quinto articolo far riconoscere dal medesimo la propria causa ed acquistare il diritto di voto separato: poichè in questo caso di disunione comincierebbe l' azione del Tribunale, e dall' istante che comincia quest' azione le persone legate insieme diventano relativamente alla medesima uguali. Egli è vero che ciò non può aver luogo nella prima instituzione del Tribunale, nel qual tempo il Tribunale ancora non esiste a cui richiamare; ma questa piccola irregolarità, di natura sua inevitabile, non è che una di quelle deviazioni che si fanno dalla rigorosa giustizia per mezzo della equità, la quale, come dicevamo, è la sola giustizia pratica. La proposizione all' incontro fatta dagli opponenti, che i padri raccogliessero i voti dei loro figliuoli ed i mariti quel delle mogli, costituirebbe e autorizzerebbe legalmente una falsa posizione dei padri rispetto a' figliuoli, e dei mariti rispetto alle mogli: perocchè i figliuoli che vedono costantemente il padre aver bisogno de' loro voti, si formerebbero e con ragione, un' idea di eguaglianza fra sè ed il padre, e la moglie fra sè ed il marito, mentre l' idea che i figliuoli debbono avere del padre è, come dicevamo, quella di una superiorità, arbitraria no, ma sì illimitata: cioè tale che non vi sia nessun caso in cui essi credano: d' avere all' esterno qualche diritto, qualunque egli sia, indipendentemente dal padre: e così pure l' idea che la moglie debbe formarsi del marito si è di un' autorità amorevole, dalla quale essa non avvenga che mai dissenta in nessuna delle esterne relazioni. Coll' introdurre adunque nella famiglia un tal simbolo di eguaglianza fra il padre ed i figliuoli, la moglie ed il marito, si altererebbe la costituzione naturale della famiglia, si introdurrebbe in essa una eguaglianza costitutiva in luogo dell' eguaglianza giuridica: e l' elemento democratico, che nel Tribunale politico debbe apparire soltanto in quel punto che nascendo una discussione o dissensione fra due parti, queste debbono comparire al suo cospetto per riceverne la sentenza, ciò che è quanto dire, che debbe comparire soltanto nelle accidentali irregolarità, si trasporterebbe e pianterebbe nello stesso corso regolare alterando in tal modo l' ordine legittimo e naturale. A mal grado di tutto questo ragionamento il principio che fosse meglio prevenire i disordini anzichè emendarli dopo avvenuti, faceva impressione sull' Assemblea, e la inclinava dalla parte degli opponenti; giacchè pareva che col dare a' figliuoli ed alle mogli un voto separato, si evitasse l' abuso che potevano fare i mariti ed i padri della loro autorità. Per il che la Commissione, movendo da più alti principŒ il suo discorso: Pretenderete voi, disse, di esser più savŒ o più potenti dell' autore della natura, il quale stabilendo l' autorità paterna e la maritale le ha fatte di una tanta estensione di quanta voi essere la scorgete? si è egli trattenuto dal concedere ai padri ed ai mariti tanta autorità quanta essi hanno pel timore che ne facessero abuso? E se a malgrado del pericolo che v' era di questo abuso, tale e tanta la diede loro, non è ciò segno che doveva più giovare assai questo forte grado di autorità, che non nuocere tutta quanta la possibilità degli abusi? sì, nuocono gli abusi: ma nuoce anche diminuire il grado dell' autorità di cui s' abusa: conviene ricercare quale più nuoca. Dio l' ha deciso: ha permesso gli abusi anzi che togliere l' autorità. Questa l' ha lasciata in tutta la forza del suo diritto: quelli li ha raffrenati con una legge morale, ma non giuridica. Imitate dunque l' autore della natura. Potrete anzi non imitarlo? avrete autorità di derogare a ciò che egli ha stabilito? Non sapete voi che contro alla legge naturale tutta la legislazione umana è nulla e irrita per sè stessa? Orsù accingetevi della vostra autorità, e fate se potete, che il padre non sia padre, e il marito non sia marito. Se voi convenite insieme di dichiararli decaduti dai loro diritti, la vostra dichiarazione arbitraria varrà al più al più fino che voi vivrete: i padri ed i mariti che succederanno dopo di voi, riprenderanno il loro potere, e non si crederanno, con ragione a dir vero, obbligati ad una disposizione arbitraria dei loro precessori. Introducendo adunque una tale disposizione contro natura nella costituzione della società, non fareste che render fragile questa costituzione, e di una esistenza momentanea, come è momentaneo l' arbitrio degli uomini, mentre dovete procacciare di renderla ferma e stabile quanto è stabile la natura. Non gettate adunque nella costituzione sociale quei semi che fruttano la dissensione fra i vostri posteri e le turbazioni dello Stato. Per quello che voi dite, che i mali si debbono anzi prevenire che emendare dopo avvenuti, questo è vero fino che si può: ma havvi un limite oltre al quale non si può. Vorreste voi prevenire i mali col fare voi stessi dei mali, o almeno coll' occasionarne degli altri in futuro? Ecco il limite che aver debbe la vostra proposizione, che sia meglio prevenire colle istituzioni i mali, che emendarli dopo avvenuti. Le istituzioni sociali, che non hanno di lor natura altro scopo che di prevenire i mali, sono eccellenti; perchè lo scopo loro è lodevolissimo, e tali sono le leggi, ed i Tribunali criminali. Ma quando si vuol piegare al fine di prevenire i mali quelle istituzioni che di loro natura hanno anche un altro scopo, allora si va bene spesso a pericolo, che volendo con queste ottener due fini, non se ne ottenga nè pur uno, e che lusingato l' autore di quella instituzione da questo fine accessorio di evitare tutti i mali che l' instituzione può nel suo andamento produrre, perda interamente di vista lo scopo stesso della instituzione. Le instituzioni civili di questo secondo genere sono tutte quelle che si propongono di regolare i diritti scambievoli degli uomini pel massimo vantaggio possibile dei medesimi. Il maggior vantaggio possibile che ciascuno può trarre dai suoi diritti è lo scopo naturale di tale instituzione. Ora se il legislatore troppo minuto o troppo materiale in luogo di tener sempre fisso col pensiero questo scopo si ferma ad ogni istante a considerare tutti i pericoli possibili che l' instituzione trae seco, e se vuole a tutti mettervi un riparo, egli avverrà indubitatamente che un poco alla volta leghi i diritti di tutti gli uomini, ed anzi continuamente li diminuisca e li distrugga; perocchè non v' è nè pure un diritto che non porti seco il pericolo del suo abuso. Le instituzioni di un tale legislatore riescono tutte false: alterano tutta la naturale posizione degli uomini, e la società civile acquista un organizzazione complicata, e tutta angustiata da vincoli inesplicabili; le leggi si moltiplicano immensamente senza necessità; perocchè ciascuna legge ne chiama delle altre all' infinito, giacchè nel mentre ch' essa vuol rimediare ad un disordine, contorce il naturale stato delle cose, e ne produce infiniti altri. Questo disordine nell' organizzazione sociale, questa falsità nelle istituzioni si scorge da per tutto dove la società sia caduta in una grande corruzione. In tal caso la corruzione sociale strascina lo stesso legislatore, per quanto avveduto egli sia, a delle instituzioni totalmente false; perocchè non v' ha uomo d' ingegno, che posto in una posizione falsa, non sia costretto di fare dei passi falsi. Nella società corrotta gli abusi che gli uomini fanno dei loro diritti si rendono assai frequenti, sì che chiamano con gran forza a sè il legislatore; la loro frequenza arriva a segno che se non viene compressa, minaccia di sovvertire la stessa società, ed è allora il caso che richiama a sè la principale sollecitudine del legislatore: allora è il caso in cui il legislatore concentra il suo studio nel prevenire mediante le sue instituzioni gli abusi, e crede di aver toccato l' apice della sapienza politica, quando è arrivato a persuadersi che il suo ingegnoso ritrovato soddisfi a questo fine. Egli è però impossibile che vi soddisfi pienamente; perciocchè quel mezzo ingegnoso con cui egli ha pensato di ovviare ai disordini, quelle sue instituzioni, che ha tutte ad un simile fine ordinate, sebbene partano dal principio che gli uomini per cui sono fatte sieno cattivi, tuttavia non possono mai supporre una perversità illimitata; tutta la loro lode consiste nell' esser formate da un uomo esperimentato che ha saputo ben conoscere fino al fondo gli uomini del suo tempo, e che ha vedute e calcolate tutte le loro malizie. Non poteva però vedere né immaginare quelle malizie che gli uomini non avevano ancora inventate, giacché il germe che produce tali frutti è di una fecondità inesausta. Egli è per questo che non v' ha istituzione o legge che non possa essere ben presto elusa da un maggior grado di corruzione. Ed egli è da attribuirsi a questa crescente corrutela in gran parte il continuo assottigliarsi dei politici dei nostri tempi, ed il continuo mutar di sistema, condotti da una speranza che continuamente gl' inganna, di giungere all' invenzione di un' organizzazione sociale, che antivegga e preoccupi tutta l' umana perversità. I sistemi politici foggiati su tale principio relativi al tempo in cui sono fatti, ed al grado di corruzione di cui sono arrivati i loro autori a formarsi l' idea, durano un breve tempo, cioè fino che subentra una politica ancora più diffidente, la quale o si rende odiosa, se gli uomini prendendo un andamento favorevole alla moralità trovino infine di vivere sotto instituzioni che li superano nella malignità, ovvero diventa inutile se procedendo gli uomini nella malizia lasciano a dietro in questo miserabile corso la legge che li governa. Ma intanto, come diceva, che le leggi e le istituzioni politiche sono unicamente occupate nel prevenire i mali eventuali che può opporre contro di esse la umana perversità, insensibilmente si snaturano e perdono di vista totalmente lo scopo sostanziale della loro esistenza. Vorrete voi rimediare ai mali eventuali dell' unione maritale? Se soverchiamente siete di ciò solleciti, stabilirete il divorzio, ecco snaturata l' unione maritale. Volete voi prevenire tutti i mali dell' abuso dell' autorità paterna? legherete le mani al padre: ed ecco snaturata la relazione fra padre e figlio. Se un Maestro insegna ai suoi discepoli una scienza, v' è il pericolo ch' essi deferendo troppo alla autorità del maestro apprendano più colla memoria che coll' intelletto. Voi eviterete questo male se ordinerete che ciascuno debba imparare da se stesso senza maestro; ma nello stesso tempo renderete ignoranti tutti gli uomini. Vi dà soverchio timore che il Generale abusi del suo potere sull' esercito? Se voi farete un' instituzione che metta disunione o diffidenza delle armate verso i loro generali distruggerete l' effetto delle militari ordinanze. Il ricco può abusare delle sue ricchezze: prescrivetegli l' uso ch' ei ne debbe fare: voi avete violato il diritto di proprietà: si può dire la stessa cosa analizzando tutti i diritti grandi e piccoli, che sono in mano degli uomini, perchè non ve n' ha alcuno di cui essi non possono abusare. E` dunque da osservare diligentemente qual sia la natura delle instituzioni sociali. Sono esse tali che determinano in se stesse la relazione che hanno gli uomini fra di loro, e determinandola la corroborano, ed è egli questo il loro scopo? In tal caso non si debbono esse contorcere e guastare per ovviare agli abusi a cui sono soggette tali relazioni per altro naturali degli uomini: esse si debbono lasciare intatte, sicchè sieno espressioni fedeli di dette relazioni naturali, e non si alterino punto: e quando ci sia il caso per levare gli abusi delle medesime, si debbono attorniare di altre instituzioni rivolte a questo fine particolare senza che guastino quelle e le contraffacciano. Generalmente parlando adunque sono da distinguere le instituzioni sociali, le quali contengono un' espressione fedele dei diritti naturali, ed hanno per iscopo la prosperità dei medesimi, dalle instituzioni sociali, che sono rivolte unicamente a prevenire i disordini: questi due scopi di far fiorire i naturali diritti fra gli uomini e di prevenirne i disordini, non si debbe congiungerli insieme, non si debbe pretendere di conseguirli con un solo genere di instituzioni, mentre è ben raro che un' instituzione sola possa conseguire ambidue questi scopi, e di solito conviene proporsi di conseguire il primo scopo, cioè quello che sostiene e fa fiorire i diritti naturali degli uomini con un genere di instituzioni, le quali si potrebbero nominare stabilitive: e di conseguire il secondo scopo, cioè di evitare gli abusi dei diritti umani, con un altro genere a parte d' instituzioni le quali si potrebbero chiamare preventive e repressive , che sono d' un carattere totalmente diverso dalle prime. Le instituzioni false dunque nascono allorquando si contorcono le instituzioni stabilitive 1) dal naturale scopo di far fiorire e di dar risalto, anzichè di reprimere i diritti degli uomini, ad ottenere lo scopo proprio delle instituzioni preventive o repressive; cioè a prevenire i delitti degli uomini. Egli è vero, come diceva, che quando la società trovasi estremamente corrotta, il legislatore è costretto di fare delle instituzioni false; 1) è costretto di confondere quei due generi d' instituzioni in un solo: quei due scopi delle medesime in un solo; cioè in quello tendente colla repressione degli abusi a salvare la società. Egli è costretto a ciò perciocché le instituzioni stabilitive sono di loro natura non solo inutili per una tale società, ma ben ancora nocevoli: conciossiacchè esse danno risalto ai diritti degli uomini, e dando risalto ai loro diritti non fanno che accrescer loro le occasioni di abusarne. In una tanto deplorabile posizione gli uomini vengono ad essere giovati coll' esser privati dei loro beni: ed è il tempo in cui la tirannia si proclama come la benefattrice del genere umano! Le instituzioni false esprimono o suppongono che gli uomini sieno in relazioni false fra loro: se gli uomini non hanno fra loro queste false posizioni, le instituzioni false a poco a poco ve le introducono; se queste relazioni false già vi sono fra gli uomini, esse producono a vicenda le false instituzioni e le false leggi. La schiavitù antica era una falsa relazione fra gli uomini: essa doveva produrre tutte quelle false leggi e quelle false instituzioni, che si rendevano necessarie per farla fiorire e per invigorirla: quelle che mettevano in salvo il padrone dalla disperazione dei suoi schiavi: quelle ancora che dalla morte degli schiavi autorizzavano di cavare dei giuochi e delle pubbliche ricreazioni. Non v' ha nessun falso diritto, o sia nessuna falsa relazione degli uomini fra di loro che non abbia portato in conseguenza delle false instituzioni e delle false leggi. All' incontro delle false leggi e delle false instituzioni producono sempre delle relazioni false fra gli uomini, se essi vivono per lungo tempo soggetti alle medesime; ma rare volte sono durevoli, mentre quando la instituzione non va d' accordo colle relazioni fra gli uomini, se questi hanno qualche energia nel loro carattere, si ribellano alle medesime e le distruggono: ed è questo che vi diceva quando avvertiva, che portando voi l' eguaglianza costitutiva nelle famiglie colla legge proposta fareste una instituzione che non poteva durare a lungo, e che avrebbe portato il turbamento nella società, giacchè nissuna instituzione fondamentale viene mutata senza scossa: ma la società stessa vien tirata nella rovina della instituzione che si vuol distruggere fino che sulle proprie rovine di bel nuovo si costruisca. Egli è vero, lo ripeto, che i legislatori sono costretti a delle istituzioni false, allorquando la società è estremamente corrotta; in tal caso tutta l' attenzione del legislatore viene tratta a difendere la società dal suo esterminio, e non a costruirla a norma della sua naturale perfezione: a quello stesso modo che la regola di vita migliore per la salute dell' uomo, nel suo stato naturale, non può esser già quella che si usa con un uomo corroso in più parti da fare cancrene. Ma, se tali instituzioni, che si possono dir false ogni qualvolta si applicano a regolare una società di uomini nel suo stato naturale e non nello stato di corruzione, sono in quest' ultimo stato necessarie, esse però non possono giammai essere che temporanee, cioè fin che dura il morbo della società, il quale nelle nazioni cristiane non è incurabile giammai, conciossiacchè il carattere proprio di queste nazioni è quello di essere sanabili. 1) Ora io spero che non si tratti di fare fra di voi una instituzione temporanea, ma costante com' è l' umana natura. Lo stato di questa gente che si vuole insieme associare non è già quello di corruzione sociale; ma è uno stato di natura in cui gli uomini non sono legati insieme per falsi vincoli: in cui la ragione non è ottenebrata da vizŒ, o non è per una somma ignoranza impotente: 2) in cui finalmente l' onestà e la giustizia non sono voci vane che si usino come mezzi ad ingannare od a tradire, ma sono voci che parlano al cuore di tutti, mediante le venerande idee che in quelli risvegliano. Se adunque i mariti ed i padri abusano della loro autorità, questi abusi non possono essere che accidentali e minori di numero dei casi in cui non abusano: questi casi dunque particolari di abuso non danno diritto alla società civile di legare la stessa autorità (ciò che d' altronde far non potrebbe validamente) ma lasciando quella sussistere, danno il solo diritto di ovviare gli abusi con delle instituzioni particolari ed a tal fine appositamente ordinate. Se delle instituzioni costituissero l' autorità dei padri e dei mariti in un modo diverso da quello che tale autorità è costituita dalla natura, queste sarebbero instituzioni false: cioè sarebbero instituzioni, stabilitive , ossia che stabiliscono una relazione fra gli uomini, le quali si rivolgerebbero ad un altro scopo diverso da quello della loro natura, allo scopo vale a dire di ovviare gli abusi della detta relazione fra gli uomini e così si snaturerebbero, mentre per ottenere un tal fine verrebbero a stabilire la detta relazione fra gli uomini in un modo diverso da quello che la stabilisce la natura: si allontanerebbero in tal modo dal fine proprio per conseguire il fine delle instituzioni di un altro genere cioè delle instituzioni preventive e repressive . Ad ovviare dunque gli abusi dell' autorità paterna e maritale debbono rivolgersi delle instituzioni apposite, le quali non apportino un colpo sopra dette autorità, la cui natura in somma consiste appunto nell' essere preventive e repressive, senza essere stabilitive, o almeno senza stabilire nissuna relazione falsa fra gli uomini, e queste nel caso nostro sarebbono il diritto dato ai figliuoli ed alle mogli di richiamarsi dei loro torti al Tribunale ogni qualvolta li soffrono, e più ancora tutte quelle instituzioni morali che rendendo buoni i padri ed i mariti, li mettono in istato di usare bene il loro potere, seguendo con ciò l' indicazione della natura che ha lasciato questo potere in tutta la sua pienezza dalla parte delle persone soggette, ed all' incontro ha dato ai padri ed ai mariti la legge naturale per moderarlo. Egli è dunque inconveniente e contro la natura delle cose stabilire che il padre abbia il dovere di raccogliere i voti dai proprŒ figliuoli, ed il marito di prenderlo dalla moglie: poichè la natura dei figliuoli richiede che la volontà loro sia quella del padre, e la congiunzione maritale rende il marito capo della moglie: tutto ciò che succede contro queste relazioni non può formare l' ordine, ma non sono che eccezioni dell' ordine. Nè per questo debbesi ridurre ad un voto solo tutti i voti della famiglia, perocchè le famiglie verrebbero costituite con una sproporzione fra di loro; sproporzione cioè di forza politica, mentre il voto, come dicevamo, è anche di sua natura un atto di autorità e quindi un mezzo di difesa. Egli è per questo che si è stabilito il principio, che tanti sieno i voti quante sono le persone componenti la società: al quale coll' articolo che discutiamo non si deroga punto; ma anzi questo articolo non fa che stabilire il modo onde convenevolmente si riduca alla pratica il detto principio: modo che fa sì che si consideri ciascun membro della famiglia compreso virtualmente nel padre, e che perciò in tempo che si riconosce nell' unica volontà del padre tutte le volontà dei membri della famiglia, si fa sì che quest' unica volontà si ripeta per dire così in tanti atti autorevoli, o sia in tanti voti, quanti sono i membri nella famiglia. Dileguate le difficoltà intorno all' articolo quarto, l' articolo quinto dovea venire ammesso come una conseguenza od un perfezionamento del medesimo. Ma diede occasione di maggior dibattimento l' articolo sesto, le ragioni del quale erano le seguenti: Non si potea dare ai padroni il voto dei servi, come si era dato ai padri quello dei figliuoli, o ai mariti quello delle mogli; perocchè mentre questi due vincoli, cioè il paterno ed il maritale, avevano per loro base essenzialmente l' amicizia, il vincolo all' incontro di mera servitù non aveva di sua natura altra base che la utilità: quindi non portava per conseguenza della sua natura che la volontà del servo ordinariamente fosse inchiusa in quella del padrone; anzi piuttosto che fossero due volontà opposte. Oltre di ciò la società paterna e maritale è così stretta che di più esseri se n' ha uno solo, mentre la società che ha il padrone col servo non consiste essenzialmente in alcuna comunanza d' interessi, ma piuttosto in una contrarietà dei medesimi: il vincolo paterno e maritale è tanto fondato in natura che dopo fatto la volontà umana nol può più rompere, il padre nè pur volendo può cessar d' essere padre; mentre il vincolo signorile dipende dall' umana volontà, e il padrone può emancipare quand' egli vuole il suo servo che si rimane d' esser servo. Se dunque è assurdo che l' autorità umana intervenga nei diritti fra padre e figlio, non è ugualmente assurdo ch' ella intervenga nei diritti fra padrone e servo, mentre la volontà dell' uomo può mutare questi, ma non quelli. Le ragioni adunque dell' articolo quarto dove si tratta dei padri e dei mariti non possono applicarsi all' articolo sesto dove si tratta di padroni; e la società debbe ammettere i servi stessi a votare, e se sono mariti anche per le mogli, se sono padri anche per li figliuoli. Non è però necessario che i servi sieno obbligati a dare il loro voto, sì perchè può essere che per essi sia più vantaggioso il non darlo, giacchè tale funzione consuma loro un tempo prezioso se l' hanno in libertà, sì perchè se non l' hanno in libertà, ma l' hanno obbligato a loro padroni, essi non possono disporne, ne possono con facilità aver chi li rappresenti. Finalmente essi non sono necessarŒ, giacchè la società ha un numero di elettori costante e determinato nei padri di famiglia liberi. D' altro lato il caso dei servi non può essere che temporaneo in una società civile cristiana; ed una delle prime cure della medesima, quando sarà instituita, debb' essere di pensare ai modi prudenti onde far passare i servi gradatamente dalla condizione servile a quella di mercenari. Prevedendo la Commissione che in quelli, nelle cui mani veniva a riporsi la pubblica autorità, potevano facilmente entrare dei falsi principŒ per non conoscere ben a fondo le basi su cui si veniva erigendo la civile società, si avvisò di fare adottare il principio del diritto politico imperscrittibile , consistente in questa proposizione: « La rappresentazione politica dei diritti è imperscrittibile. » Essa ben conosceva che ciò che poteva turbare l' ordine sociale si era l' alterazione che poteva esser fatta nella rappresentazione politica dei diritti, non già tanto per prepotenza dei più forti, quanto per un sofisma che facilmente illude le menti dei governanti, e che consiste appunto nella troppa sollecitudine di ovviare ai disordini possibili la quale come era stato dimostrato nella sessione antecedente conduce a fare delle false instituzioni. E che cosa è altro questo sofisma che quello studio che tanto riscalda le menti dei politici per trovare un equilibrio fra i poteri dello Stato? Questo problema che così posto è insolubile, e quando anche fosse solubile non sarebbe che per un istante, per l' istante cioè che dura l' artificioso equilibrio; non ha importanza se non supposto che il principio che debbe determinare la costituzione sociale debb' essere unicamente quello di ovviare a tutti i possibili disordini della medesima: ma la costituzione appartiene alle instituzioni stabilitive, ed il fine proprio delle instituzioni stabilite non è già quello di evitare i disordini ch' esse stesse producono, ma bensì di stabilire le vere relazioni fra gli uomini. Ed in vero, se si vuole che una istituzione si cauteli contro la propria azione, la propria azione dunque è diversa dall' azione con cui si cautela, e questa viene dopo di quella: questa perciò non debbe nè mutar nè distrugger quella. Se dunque volendo dare la costituzione ad uno Stato si propone per iscopo principale di evitare i disordini ch' essa stessa genera, si cade in una specie di contraddizione, e in uno strano circolo; e si va ad alterare l' indole naturale della costituzione facendo ch' essa invece di una instituzione stabilitiva qual debb' essere, diventi una costituzione preventiva o repressiva, quello che non debbe essere, ed in tal modo essa riesce la più mostruosa cosa, e non ottiene il suo fine, nè il fine che si è usurpato, appartenente ad altre instituzioni al tutto d' altra natura dalla sua. Il falso principio adunque che quella sia la costituzione migliore della società, la quale prevenga tutti i mali della propria azione, è quello che produce tante assurde costituzioni degli Stati, ed è quello da cui la Commissione temette con ragione che potesse venir alterata quella forma di società ch' essa avea disegnata, come la più equa e la più perfetta. Condotta da questo timore fece osservare all' Assemblea che conveniva fino d' allora determinarsi a seguire, nel ripartimento dell' autorità politica, l' uno o l' altro dei due principŒ, cioè o seguire il principio della rappresentazione de' diritti, il quale d' altro lato era stato abbracciato dall' Assemblea; o vero lasciando al tutto simigliante principio costituire un governo sopra questo altro principio che fosse quello la cui forza per la divisione ingegnosa della medesima in diverse persone ovviasse al maggior segno gli abusi possibili di se stessa. Noi siamo persuasi, disse la Commissione, che lo scopo di questo secondo principio non si può conseguir meglio che conservandosi perpetuamente fedeli al primo; ma non a tutti parrà così. A costoro pertanto sembrerà che talora possa esser più utile se si devia dalla più rigorosa rappresentazione di tutti i diritti, e che senza badar alla medesima, il solo principio dell' equilibrio dei poteri debba servir di regola a fare od a riformare la costituzione dello Stato. Voi dunque dovete esaminare con diligenza l' opinione di questi Signori, che tali due principŒ sieno diversi fra loro, e che convenga meglio tenere per unica regola il secondo anzi che il primo, affinchè dopo costituito lo Stato non siate forse condotti a fare delle riforme che alterino le prime basi su cui è costituito, o per dir meglio non siate costretti a distruggere ciò che avete edificato, e ad edificare di nuovo. Vi faccio pertanto osservare che l' applicazione del principio dell' equilibrio dei poteri o sia quello d' una costruzione della società, che antiveda tutti gli abusi, non può dipendere che da un calcolo conghietturale di quegli uomini politici ai quali fosse commessa la formazione della società dietro tali principŒ. Il loro calcolo poi è conghietturale, tanto più che precede l' esperienza, e solo questa potrebbe dare al medesimo una prova di qualche valore. Già che dunque si tratta d' un calcolo di estrema difficoltà per li molti elementi, che in sè racchiude, e per la mancanza dell' esperimento, questo non può che riuscire vario, secondo le diverse menti calcolatrici. Havvi però di più. La estrema difficoltà di un tal calcolo debbe far conoscere a priori ch' egli non può essere che adattato a pochi ingegni, e non, di certo, argomento in cui si possa esercitare con isperanza di riuscita la maggior parte degli uomini. Ciò posto ne verrà che nella costruzione della Società civile la maggior parte degli uomini non potrà proferire veruna sentenza; ma dovrà sottomettersi ciecamente a ciò che determinano i pochi sapienti, che sono co' loro intelletti al livello dell' argomento. Nel caso adunque che vorreste adottare un tal principio egli è certo che la maggior parte di voi dovrebbe ritirarsi al tutto dalla deliberazione, ed abbandonare al giudizio dei pochi ingegni più eminenti tutti i vostri interessi. Ma siccome io credo che non v' indurreste giammai a farlo, così pure io non vedo in qual modo si potrebbe convenire nel definire quali sieno questi ingegni più eminenti, mentre ognuno vorrebbe forse esserlo od apparire. E tuttavia supponiamo che l' ingegno si potesse misurare colla canna, e fosse fissata una misura per la menoma grandezza degl' ingegni prescelti a tant' opera: questi ingegni, come dicevamo, non converrebbero fra loro od almeno non avrebbero dovere di convenire, perocchè essendo il calcolo puramente congetturale, nissuno potrebbe dimostrare all' altro con evidenza, che il proprio calcolo va bene e il suo è errato. Il perchè rimarrebbe indeciso quale dei diversi progetti di società si dovesse seguire; e volendone pur seguire alcuno, non si potrebbe che chiamare giudice la sorte. Nondimeno quando ancora questi sapienti convenissero nell' abbracciare un progetto solo, non si avrebbe, come diceva, che un tal risultato di cui nessuno saprebbe il vero valore pratico; mentre nè l' esperienza lo ha provato, nè v' ha ragione di credere, come cosa certa, che l' ingegno di quei politici sia d' una forza proporzionata alla difficoltà dell' argomento; mentre che gl' ingegni sono al tutto accidentali, ed i più o meno forti nascono a caso, e non dipendono punto dalla volontà degli uomini. Ma ciò che merita più osservazione in tale ipotesi si è, che quando ancora ottenuto s' avesse che la maggiorità sottomettesse il proprio giudizio nella instituzione della Società civile, che è quanto dire sopra tutti i proprŒ interessi, alla opinione di alcuni pochi uomini di ingegno, il che non sarà mai; allora si potrebbe dire, che essa si sarebbe già di fatto sottomessa a quei legislatori; e nelle loro mani abbandonata. Quegli uomini, a cui è commesso il progetto di società, non sono solamente forniti di un forte ingegno pel quale certo sarebbero più atti degli altri a trovare la verità; ma sono ancora circondati da tutte le passioni umane: non sono pure menti, sono anch' essi uomini forniti degli stessi interessi degli altri, che desiderano le stesse cose e subiscono le stesse tentazioni. Oltre dunque il dubbio che può ragionevolmente cadere sul grado di forza dei loro ingegni, la comunanza degli uomini dovrebbe assicurarsi della loro volontà. E chi la assicura che nel progetto di società che propongono alla medesima, non abbiano provveduto almeno altrettanto al bene di sè stessi, che a quello della società? Dall' istante che la comunanza degli uomini nell' instituire la Società civile prende una strada così difficile, ch' essa stessa non può seguire quei pochi che la percorrono, essa si è interamente abbandonata all' arbitrio dei medesimi. Ma di più, nel caso che voleste organizzare la Società civile secondo questo principio, quale disposizione d' animo non dovreste voi tutti avere? Voi dovreste esser disposti a commettervi interamente all' altrui direzione. Nel caso che seguiate il principio della rappresentazione politica, siete voi stessi quelli che vi governate; perocchè ognuno di voi ritiene, se l' ha, trapassando alla Società civile, la modalità dei proprŒ diritti, e non fa che amministrarla in comune, mentre prima l' amministrava in separato. Nel caso all' incontro che abbandoniate questo principio, molti di voi debbono spropriarsi della modalità dei proprŒ diritti per metterla in mano di quelli che fossero scelti al governo, costruito secondo il progetto della utilità o dell' equilibrio dei poteri. Io vorrei sapere in tal caso chi di voi dovrà essere spogliato della modalità e chi dovrà ritenerla: vorrei sapere come vi accorderete insieme su questo punto: vorrei sapere come potrà essere utile l' introdurre arbitrariamente questa disuguaglianza nella Società civile: vorrei sapere qual garanzia verrebbe data a quelli che venissero spogliati della modalità dei proprŒ diritti da quelli che la ricevessero da amministrare; e perciò vorrei sapere come si possa progettare un governo capace di ovviare agli abusi, dall' istante che questo governo si diparte dalla rappresentazione politica, il quale dipartirsi è per se stesso un aprire il varco agli abusi, mentre si spoglia una porzione degli uomini della modalità dei proprŒ diritti, per accumularla in mano d' un' altra porzione; mentre in somma molti membri della società si rendono debili, e si danno in balìa di altri resi forti col pretesto di renderli utili. In somma dall' istante che nell' instituzione della Società civile si abbandona il principio della rappresentazione politica , la Società civile non si instituisce più sullo stato di natura; ma si dà agli uomini uno stato arbitrario per instituire sopra il medesimo la civile società pure arbitraria: in tal caso il principio delle instituzioni sociali è l' arbitrio. Egli è vero che si dice, che un tale arbitrio è sapiente e rivolto all' utilità; ma quando anche ciò potesse essere, non si potrebbe provare: un' asserzione sarebbe quella che farebbe passare questo arbitrio per sapiente; una negazione egualmente lo renderebbe stolto: poichè non è ingiuria negare gratuitamente ciò che gratuitamente si afferma. Intanto il principio dell' arbitrio è fecondo, come dimostra l' esperienza, di infinite costituzioni, le quali hanno la vita d' un giorno, cioè durano fino che sorga un altro uomo che abbia l' audacia di spacciarsi per saggio, di negare la precedente costituzione, e di asserirne una seconda. Non vale già il dire, che la massima di fare una costituzione immune dagli abusi è un principio evidentemente buono. Certo: e noi non lo neghiamo. Diciamo solo, che questo non è un principio fecondo se non di chimere: diciamo che egli non è un principio determinato; diciamo che l' adottare questo per unico principio determinante la costruzione sociale è lo stesso, che abbandonare la formazione della medesima all' arbitrio degli uomini; mentre tal principio non può dare che dei risultati congetturali o almeno dei risultati, le prove dei quali non sono a portata del comune degli uomini, intorno ai quali perciò questi bisognerebbe che credessero all' asserzione altrui, il che è propriamente commettersi all' altrui arbitrio. Diciamo perciò ch' egli è necessario per formare la società ricorrere ad un principio più determinante, e capace della necessaria pubblicità, capace d' essere inteso e discusso da tutti, mentre tutti hanno degli interessi da difendere in tale società, e mentre nessuno di quelli che ha degli interessi può essere obbligato dalla legge morale ad entrare ad occhi chiusi nella convenzione la più importante di tutte quale è la convenzione sociale civile, la quale diventerebbe impossibile se gli uomini che vi debbono entrare non fossero in caso d' intenderne le condizioni. Finalmente diciamo che è appunto il principio della rappresentazione politica quel principio luminoso suscettibile della maggiore pubblicità, perchè nissun uomo mediante di esso fa una convenzione inintelligibile, ma sa ciò che fa; e perchè esclude l' arbitrio determinando la parte che tocca a ciascuno del civile potere. Infatti il principio dell' utilità pubblica o dell' equilibrio dei poteri è difficile, perchè mette a calcolo tutte le forze sociali tutte insieme prese, senza aver riguardo alle individualità: il principio all' incontro della rappresentazione politica è facile, perchè nella sua applicazione non racchiude già un calcolo del tutto, ma piuttosto risulta da altrettanti calcoli quanti sono gl' individui. Ciascun individuo che entra nella società, secondo tal principio costituita, non ha già da pensare al tutto, ma solo alla convenzione particolare che egli fa cogli altri uomini; egli vede subito se tal convenzione è giusta od ingiusta, se gli è utile o gli è dannosa: sa ciò che mette e sa ciò che riceve. All' incontro nella società costituita secondo il principio dell' utilità l' individuo che vi entra sa ciò che mette, ma non sa ciò che riceve: egli vede che è spropriato della modalità dei proprŒ diritti; ma egli non è in caso di calcolare il vantaggio che gli viene promesso in compenso; perocchè questo vantaggio gli è promesso come un effetto di tutta la macchina ingegnosamente composta; macchina che va senza di lui, e che è così complicata per la moltitudine delle sue parti che gli riesce impossibile di calcolarne l' azione; ma che però vede essere quest' azione di una forza irresistibile quando prendesse una direzione contro di lui. Finalmente la società civile instituita mediante il principio della rappresentazione politica, edifica senza distruggere: la società civile costruita col principio della utilità distrugge prima, come vi diceva, lo stato di natura in cui siete presentemente, per edificare tal cosa di cui nessuno può prevedere con sicurezza le conseguenze. Or via s' ammetta, che sì coll' uno che con l' altro principio s' instituisca la civile società: lo scopo è il medesimo: mediante quale dei due sistemi s' ottiene tale scopo con una azione minore? Certo con quello della rappresentazione politica: poichè le mutazioni che voi andate a subire per questo sistema le vedete tutte entro confini determinati. All' incontro dove sono i confini del sistema dell' utilità? egli non ne ha veruno. La sua azione è infinita come l' arbitrio: egli suppone, che far si possa una riforma dopo l' altra nella società fino all' infinito, senza però mai sapere di certo se si sia andati avanti o indietro. Dovendo dunque voi fare una mutazione di cui l' esito vi fosse incerto per ottenere un fine, qual' è l' instituzione della società, non sceglierete voi quella che contenga il minor pericolo? E quale conterrà il minor pericolo se non quella che esige una mutazione minore, e che ottiene lo scopo con una azione minore? Tutti s' accordarono pertanto a queste ragioni, che non era prudente d' introdurre una grande alterazione nelle cose, mentre l' esito non poteva esser certo. Che d' altro lato nessuno nè voleva nè poteva esser costretto di rinunziare alla modalità dei proprŒ diritti, e alla parte che questa gli dava diritto di avere nella civile autorità: quindi si confirmava, che la rappresentazione politica già precedentemente adottata, era irrevocabilmente il principio secondo cui doveva la società stessa instituirsi. Quando sia così, proseguì la Commissione, egli è necessario altresì di riconoscere come questo principio sia il più sacro di tutti quelli che esistono nella società civile come tale, perocchè è il principio che determina il modo di esistere della medesima. Siccome la società civile non può esistere che in un dato modo, così il suo modo proprio d' esistere è altrettanto rispettabile quanto la sua esistenza: ed è solamente ciò che indica il modo onde la società civile può esistere quello che dà la esistenza alla società. Ora il principio della rappresentazione politica non è altro che un' attribuzione di diritti ai membri della società, cioè consiste in quella massima « che ogni diritto abbia nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. » Dunque un tal diritto che ricevono i membri della società civile mediante la sua istituzione è così necessario, come è la società stessa, e sarebbe al tutto contradditorio, che si volesse la società, e che si riconoscesse nel tempo stesso potervi aver un caso in cui un diritto dei suoi membri venisse privato della rappresentazione che a lui sarebbe conveniente e possibile. E` necessario adunque dichiarare che la rappresentazione politica è un diritto imperscrittibile ed inalienabile: cioè a dire che chi possiede nello stato di natura la modalità dei diritti debba anche possedere il corrispondente potere: e non debba verificarsi verun caso in cui il potere civile sia scompagnato dal possesso naturale della modalità. L' obbiezione che alcuni fecero, che prima di dichiararsi un tal diritto imprescrittibile bisognava fare la dichiarazione dei diritti dell' uomo naturali, diede occasione alla Commissione di stabilire la distinzione fra il diritto politico ed il diritto naturale, e fra l' imprescrittibilità politica e la imprescrittibilità naturale. La Commissione dimostrò che la comunanza degli uomini, o la civile società dopo instituito il governo, poteva bensì dichiarare validamente i diritti politici imprescrittibili: ma non poteva all' incontro dichiarare validamente i diritti naturali imprescrittibili, ma solo riconoscerli. Supponiamo disse, che la comunanza degli uomini facesse una dichiarazione de' diritti naturali imprescrittibili. Che forza avrebbe tale dichiarazione? quella stessa che avrebbe una carta su cui un uomo qualunque, od anche un fanciullo, avessero scritti quelli che fossero secondo la loro opinione diritti naturalmente imprescrittibili. L' essere scritti o non scritti non toglie né aggiunge autorità a tali diritti, poichè essi ne hanno tanta che non ne possono aver di più; è così ferma che non può essere diminuita. Se la carta riferisce i diritti quali sono, sarà una buona memoria per chi l' ha scritta: se non riferisce i diritti quali sono, non vale nulla: e quando venisse a sostenerla la forza, ciò non sarebbe che un atto di tirannia. La dichiarazione dunque dei diritti naturali dell' uomo fatta dall' autorità civile è inutile, ma bensì l' autorità civile debbe riconoscere i detti diritti e dirigere secondo i medesimi la sua condotta. La differenza fra il riconoscerli e il dichiararli si è che nel primo caso ella fa un atto di sommissione e nel secondo di autorità: e per ciò le conseguenze di questi due atti sono diverse: nel primo caso, ciascun uomo che sia in grado di farlo può recare in mezzo dei lumi che rischiarino la natura di tali diritti: nel secondo caso, sarebbe un delitto parlare contro diritti dichiarati già dalla società; giacchè la dichiarazione di diritti suppone i diritti certi, e l' autorità, che li ha dichiarati, infallibile. Il potere civile dunque non debbe già arrogarsi di essere l' autorevole maestro degli uomini: non debbe innalzarsi ad una sfera che a lui non appartiene; ma lasciare il magisterio della verità morale ad una società morale, ad una società di diversa natura dalla sua, cioè alla Chiesa cristiana, che è la maggiore autorità in simil genere di cose. Egli è vero che le disposizioni civili della società s' appoggiano sui principŒ morali e sui diritti naturali; ma è vero altresì che questi sono anteriori a lei, e da lei indipendenti; essa dunque, rispetto a questi debb' essere discepola e soggetta, non maestra e sovrana. Se poi per dichiarazione di diritti s' intende un promemoria mutabile che si fa da sè ciascuno dei suoi membri o un promemoria di ciò in cui tutti convengono, non contendo di parole: questa dichiarazione sarebbe ciò che io intendo per ricognizione, sarebbe ancora la scienza modesta di un discepolo, e non la sentenza di un' autorità. Dove adunque comincia il magisterio, dove l' autorità del civile potere? Comincia con se stesso: egli ha l' intrinseca autorità e necessità di parlare di se stesso, di dichiarare che sia, e quali diritti e doveri provengano da lui agli uomini. Or egli appunto esiste con un diritto che vien dato agli uomini. Dal momento che questi convenuti insieme dicono: I nostri diritti abbiano una rappresentazione conveniente e possibile, la società civile è formata: questo è quel fiat che la crea. Dunque essa è in necessità di dichiarare imprescrittibile questo primo diritto della rappresentazione politica, tanto quanto è in necessità di esistere, ed ecco quale sia la dichiarazione dei diritti che può fare la comunanza, o la società civile degli uomini; ecco qual sia il diritto politico, dal quale comincia il civile potere. Dopo ciò la Commissione, riassumendo quanto fin qui aveva fatto l' Assemblea, propose alla medesima la seguente Dichiarazione dei diritti politici imprescrittibili dei membri della Società civile. «Il diritto imprescrittibile consiste nella rappresentazione politica dei diritti conveniente e possibile. Art. 1 Ogni uomo ha diritto di dare il voto nella elezione del Tribunale politico. Art. 2 Ogni uomo ha diritto di ricorrere al medesimo. Art. 1 I mercenarŒ hanno diritto d' essere rappresentati nell' Amministrazione sociale in corpo. Art. 2 I benestanti hanno diritto d' essere rappresentati individualmente. Art. 3 La rappresentazione è in ragione della ricchezza materiale, fissando il menomo a quel tanto che è necessario pel mantenimento d' un uomo. La proposta dichiarazione fu ammessa ad unanimità. » Gli elettori stabiliti dalla dichiarazione dei diritti politici (Tit. I art. I) formarono il Tribunale politico a maggioranza di voti. La forma di questo Tribunale, per non dilungare qui il leggitore dall' idea generale della società civile regolare, fu da noi anticipata e descritta nel Libro Primo di quest' opera; dalla quale descrizione apparisce maggiormente la reale possibilità del medesimo. Intanto anche le basi qui dettate sono tali, pare a noi, a cui non si può ripugnare, perchè dedotte dalla rettitudine, e non possono aver contro di esse se non se quella ripugnanza, e quasi incredibilità, che gli uomini portano a cosa che loro par nuova: ma ciò che abbiamo detto all' Art. XI debbe provare a qualunque uomo sia ragionevole, che il piano che proponiamo non è una chimera; mentre v' ha un modo di eseguirlo con quell' approssimazione che ivi abbiamo descritto, che è ciò che richiede appunto quella equità che si può dire a giusto titolo la perfezionatrice della giustizia. Proseguiamo dunque lo sviluppo del medesimo piano, torniamo all' ipotesi della nostra Assemblea, ed alla instituzione che supponiamo fatta dalla medesima, secondo gli ordini voluti dall' equità. Il primo lavoro adunque del Tribunale politico si fu di preparare la via alla formazione dell' Amministrazione sociale, coll' instituzione della quale si compiva l' instituzione della società. Giacchè per la dichiarazione dei diritti politici (Tit. II articolo 3) la rappresentazione amministrativa doveva essere in ragione della ricchezza materiale, il Tribunale politico passò a riconoscere successivamente lo stato di tutti gli individui e di tutte le famiglie, e a tal fine fece le seguenti operazioni. 1 Fece un ruolo di tutte le persone, le quali non potevano dimostrare di possedere dei fondi nè esercitare verun' arte mercenaria. 2 Fece un ruolo di tutte le persone che non avendo fondi esercitavano però un' arte mercenaria che dava loro un sufficiente mantenimento, e fornì le medesime di un brevetto, che le collocava nella classe dei mercenarŒ, e dava loro i diritti politici annessi a questa classe. 3 Finalmente rilevò la sostanza in fondi di tutti i benestanti sulle prove da loro offerte, e consegnò loro pure il brevetto della ricognizione di ciò che possedevano. 1) Con queste tre operazioni fatte dal Tribunale politico venivano determinati i diritti politici di tutti i membri della società. Si trovarono distinti quelli che non possedevano altri diritti politici se non la rappresentazione dei diritti dell' uomo; quelli che oltre la rappresentazione dei diritti dell' uomo avevano ancora la rappresentazione dei diritti reali, ma non essendo questi diritti in fondi, ma nell' opera delle loro mani, l' avevano solo in corpo, e non in individuo quali erano i mercenarŒ; e finalmente quelli, che possedendo dei fondi avevano la rappresentazione dei diritti reali completa quali erano i benestanti. Or dovendo venire alla reale formazione dell' amministrazione, s' incontravano necessariamente molti ostacoli, ed i principali erano i seguenti: 1 Se l' amministrazione avesse ricevuto realmente nel suo seno tutti i benestanti, i quali avevano diritto di entrarvi e di più i delegati del corpo dei mercenarŒ, essa sarebbe divenuta così numerosa che non avrebbe potuto senza confusione, o almeno senza una dannosa tardità, spacciare gli affari. 2 Di poi, ciò supposto, non si vedrebbe modo di rendere il peso dei voti di ciascheduno proporzionale alla ricchezza posseduta. La Commissione, per non confondere l' Assemblea, si restrinse a far osservare alla medesima solo la prima delle due difficoltà sopraddette, e in conseguenza di essa a dimostrare la necessità di restringere il numero degli amministratori. Di che venendo riconosciuto il bisogno evidente, propose come unico mezzo di evitare sì grave inconveniente, che i benestanti ed il corpo dei mercenarŒ non amministrassero già da sè stessi, ma mediante dei loro abili ministri o delegati forniti dei loro poteri e delle loro instruzioni, i quali potevano essere ridotti a quel numero discreto che meglio convenisse alla più spedita ed alla più utile amministrazione degli affari. La proposta di un' Amministrazione delegata ricevuta da principio con favore, aveva poscia eccitato le più gran difficoltà nell' Assemblea, la quale s' era disciolta senza ammetterla nella sessione precedente. Tali difficoltà nascevano perchè sembrava generalmente impossibile, che delegandosi un piccolo numero di persone rispetto a tutti quelli che avevano diritto di entrare nella amministrazione, potesse conservarsi la proporzione fra la forza del voto e la ricchezza. In che modo, si diceva, un delegato il quale rappresenta per necessità molti proprietarŒ di diversa fortuna potrà sostenere così la piccola proprietà come la grande? egli è costretto di trattare la causa di tutto il corpo che rappresenta: nella collisione perciò delle grandi colle piccole proprietà egli non abbandonerà mai quelle per sostener queste; mentre se fossero due i rappresentanti l' uno per esempio piccolo proprietario e l' altro grande, le due cause sarebbero trattate in separato; e sebbene il voto del piccolo proprietario sarebbe più debile, tuttavia unito ad altri piccoli proprietarŒ potrebbe sostenersi anche contro i proprietarŒ più forti, laddove se sì l' uno che l' altro vien rappresentato da un solo delegato questi non potrà giammai essere in contrasto con se stesso, e non potranno perciò formarsi quelle alleanze che sono appunto ciò che garantisce il piccolo contro il grande della società. Tali ragioni erano forti ed erano state prevedute dalla Commissione, la quale nel suo progetto si era proposta di evitare tutte le due summenzionate difficoltà, e s' era riservata di rispondere ai timori dell' Assemblea col progetto che avrebbe presentato nella prossima sessione. Venuta adunque la sessione presente, cominciò dallo stabilire un limite ossia una somma menoma di rendita, la quale considerar si potesse come l' unità nella rappresentazione amministrativa; e ciò a tenore della dichiarazione dei diritti politici. (Tit. II art. 3). Dimostrò che bisognava prendere per quest' unità un termine basso più che si poteva; poichè dovendosi trascurare tutte le frazioni, cioè tutto ciò che era minor di quel termine; questa deviazione dalla rigorosa giustizia doveva esser la minima che si potesse, e l' Assemblea convenne di fissare questo termine alla somma di lire cento. 1) Dimostrò in secondo luogo che ciascun mercenario, qualunque fosse il suo guadagno, si doveva supporre che portasse a lui nè più nè meno di lire cento annuali; perocchè essendo questa la somma menoma, onde si stimi che possa un uomo ordinariamente vivere, qualunque cosa il mercenario guadagna, nulla più guadagna del vitto, che viene ad essere appunto rappresentato nella somma di lire cento. Infatti qualunque sia il guadagno d' un mercenario o lo consuma nel proprio mantenimento o lo mette in fondi. Se lo mette in fondi, egli trapassa ben presto alla classe di benestante; giacchè qualunque suo fondo che gli renda più di cento lire, lo rende anche benestante. Se all' incontro ciò che guadagna lo consuma, egli è alla stessa condizione di quello, rispetto alla ricchezza materiale, che vive con cento lire di entrata; mentre alla fine della giornata, del mese, o dell' anno, ciascuno ha consumato tutto, e sì dell' uno che dell' altro si può dire egualmente, che il loro avanzo è nullo: e che il loro fondo produce il puro vitto senza crescere nè calare. Ciò premesso, la Commissione passò ad indicare il modo, ond' ella credeva che si potesse passare alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la prenotata difficoltà. Disse che conveniva che si congregassero in altrettante Assemblee separate secondo i gradi della ricchezza; che questi gradi potevano essere determinati così: Tutti quelli che possedevano dalle cento fino alle lire mille d' entrata formavano un' Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle lire mille di entrata fino alle dieci mila formavano la seconda Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle dieci mila lire fino alle cento mila lire d' entrata formavano una terza Assemblea. I possessori di cento mila lire d' entrata fino ai possessori d' un milione, formavano una quarta Assemblea. I possessori d' un milione fino ai dieci milioni di lire d' entrata formavano la quinta Assemblea; e così via, se vi fossero persone individuali o morali che possedessero maggior somma. Nella prima Assemblea ogni cento lire si aveva un voto; e il più che una persona potesse avere erano nove voti; tali erano quelle che possedevano dalle novecento fino alle mille lire. Nella seconda Assemblea le mille lire davano un voto; e il maggior numero di voti, che una persona aver potesse era quello di nove; tali erano le persone possidenti dalle nove mila fino alle dieci mila lire d' entrata. Similmente nelle tre altre Assemblee un voto corrispondeva sempre a maggior somma; nella terza a diecimila, nella quarta a centomila, nella quinta a un milione di lire d' entrata, e il maggior numero di voti che una persona in tutte queste Assemblee potesse avere, era medesimamente nove: tali erano le persone che nella terza Assemblea avessero un' entrata dalle novanta fino alle cento mila lire; nella quarta quelle che avessero un' entrata dalle novecento mila lire fino a un milione, nella quinta quelle la cui entrata fosse dai nove fino ai dieci milioni. Ora vedete a che poco nell' ordinamento di tali Assemblee si riduca la irregolarità o deviazione dalla teoretica giustizia; cioè quanto poca sia la proprietà che rimanga senza rappresentazione; ed anche quella poca vi rimane, perchè non è veramente capace del diritto di essere rappresentata. Osservate in fatti che in qualunque fortuna anche enorme, la ricchezza che rimane senza rappresentazione è sempre minore delle lire cento. Supponete in fatti un proprietario di mille e cinquecento lire d' entrata: questi apparterebbe alla seconda Assemblea. Egli è bensì vero che non può avervi che un voto; poichè i voti in tale Assemblea equivalgono a mille lire; ma egli colle sue cinquecento lire ha diritto ancora di farsi rappresentare nella prima Assemblea e di farsi rappresentare con cinque voti; perchè in essa il numero dei voti equivale al numero delle centinaia di lire. Laonde questi non resta senza rappresentazione se non per quella frazione che avesse fra le mille cinquecento e le mille seicento lire. Così parimenti colui che avesse un' entrata di 12 .350 lire entrerebbe nella terza Assemblea con un voto, nella seconda con due voti, e nella prima con tre voti, e ciò che resterebbe senza rappresentazione non sarebbero che le cinquanta lire, le quali non sono rappresentabili, perchè non arrivano a formare il mantenimento di un uomo. Nel medesimo modo ancora colui che avesse d' entrata 123 .450 lire, egli entrerebbe con un voto nella quarta Assemblea, con due nella terza, con tre nella seconda, e con quattro nella prima; e ciò che rimarrebbe anche qui non rappresentato sarebbero le sole lire cinquanta. Finalmente supponiamo che una persona traesse annualmente d' entrata dai suoi fondi 1 .234 .550 lire: questa comparirebbe con un voto nella quinta Assemblea, con due nella quarta, con tre nella terza, con quattro nella seconda, con cinque nella prima e di tutta la sua grande fortuna rimarrebbero necessariamente sole cinquanta lire non rappresentate; giacchè formano una frazione dichiarata irrappresentabile. Distribuiti in tal modo tutti i cittadini che hanno diritto all' amministrazione rappresentativa in altrettante decurie secondo i loro beni di fortuna, e secondo questi assegnato loro il numero proporzionato di voti, ecco in qual modo si potrebbe procedere alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la difficoltà che l' Assemblea ha saviamente preveduto. La prima Assemblea ogni dieci voti, ossia ogni decina di centenaio elegge un delegato alla seconda Assemblea. In fatti dieci voti nella prima Assemblea suppongono la corrispondente somma di mille lire: e mille lire equivalgono ad un voto della seconda Assemblea. La seconda Assemblea parimenti ogni dieci voti elegge un delegato della terza Assemblea; perocchè dieci voti della seconda Assemblea rappresentano dieci mila lire; che equivalgono appunto ad un voto della terza Assemblea. Allo stesso modo ogni dieci voti della terza Assemblea essa ha diritto di eleggere un delegato alla quarta Assemblea; poichè dieci voti della terza Assemblea rappresentano cento mila lire, e cento mila lire è appunto un voto nella quarta. Finalmente ogni dieci voti che la quarta Assemblea abbia in sè medesima, essa manda un delegato nella quinta; perocchè dieci voti della quarta Assemblea, supponendo un milione d' entrata, danno appunto il diritto di aver un voto nella quinta. Vediamo adesso un poco quanta sia l' irregolarità dalla giustizia teoretica, che ammette un tal piano in tale esecuzione pratica quale da noi fu descritta. Ciò che nell' ultima Assemblea rimane privo di voto è tutto ciò che rimane al di sotto di un milione; ma egli è da osservarsi che la somma al di sotto di un milione esercitò però la sua forza nella quarta Assemblea; come nella terza influì quanto stava al di sotto di cento mila; nella seconda quanto stava al di sotto di diecimila e nella prima quanto stava al di sotto di mille. Così parimenti se noi imaginiamo una sesta Assemblea, nella quale ciascun voto rappresenti dieci milioni: egli è vero che rimarrebbero nove e più milioni nella nazione senz' essere rappresentati direttamente in essa: ma questi sono stati tuttavia rappresentati quando si trattò dell' elezione di quest' ultima Assemblea, ed hanno esercitata tutta l' azione che potevano esercitare. D' altro lato la non rappresentanza nell' ultima Assemblea di questi nove milioni non porta nissuna disuguaglianza politica fra i cittadini; poichè questi nove milioni non appartengono già a questa o a quella famiglia determinata, ma solo a tutta la nazione, e perciò in questi nove milioni, non rappresentati, ciascun cittadino ha una rata per così esprimermi proporzionata, sicchè, nessuno sconcio ne nasce alla politica proporzione. Stabilite queste basi, noi vedremo subito quanti saranno i componenti dell' ultima Assemblea, cioè della Delegazione dell' Amministrazione sociale , che viene ad essere la suprema magistratura della nazione. Suppongo che la somma di tutta la rendita rilevata dal Tribunale Politico ascenda a quattro miliardi di lire. Or questi darebbero quattrocento delegati nazionali, ciascuno dei quali rappresenterebbe dieci milioni di lire di rendita. Ecco pertanto formata l' Amministrazione delegata, esistendo la quale sarebbe già instituita la civile società, o sia ridotta alla sua attuale esistenza. Ora considerate di grazia come la formazione di una tale Amministrazione delegata eviti lo scoglio da voi temuto, che le piccole fortune sieno dalle grandi oppresse senza che abbiano nella società alcuna voce distinta. Nel piano proposto le fortune sono tutte distinte l' una dall' altra secondo la loro grandezza mediante i voti. I componenti la prima Assemblea, o sia i voti della medesima, rappresentano tanti proprietarŒ tutti eguali di cento lire l' uno. Il delegato che questi mandano alla seconda Assemblea non rappresenta già fortune di diverse specie, ma rappresenta fortune tutte eguali, giacchè rappresenta una decina di voti della prima Assemblea. Così il delegato che la seconda Assemblea manda alla terza non rappresenta allo stesso modo che fortune eguali, cioè dieci stati tutti di mille lire l' uno: parimenti non vi ha delegato nella quarta, nella quinta, e finalmente nella sesta Assemblea ch' egli rappresenti contemporaneamente grandi e piccole fortune, ma tutte d' una stessa misura le rappresenta. Rimane solo da avvertire primamente che se egli v' avesse taluno nell' ultima assemblea il quale possedesse egli solo i fondi necessari per ritrarre l' entrata dei dieci milioni, egli sarebbe membro della medesima, come rappresentante il proprio, e non come delegato delle Assemblee antecedenti. In tal caso l' Assemblea dei quattrocento, cioè quella che amministra realmente la società, verrebbe ad esser mista, cioè composta parte di rappresentanti di beni proprŒ, parte dei delegati delle Assemblee precedenti, i quali non sono che ministri delle Assemblee stesse. La Commissione propose « che ciascuna Assemblea fosse riconosciuta nelle proprie attribuzioni indipendente dall' altra. » Questa era una conseguenza della imprescrittibilità politica già adottata. In fatti l' imprescrittibilità politica consisteva nel riconoscere annesso ad ogni diritto posseduto dall' uomo nello stato di natura un diritto di rappresentazione nella società civile, il quale doveva essere inviolabile come la stessa società e qualunque attentato contro di lui diventava un delitto di lesa sovranità. Perciò ognuno nel modo di farsi rappresentare nell' Amministrazione rimaneva perfettamente libero a differenza della rappresentazione passiva, il primo diritto della quale, cioè il diritto di elettore al Tribunale, era nello stesso tempo un dovere a cui si obbligavano i padri di famiglia. Nella rappresentazione all' incontro attiva, essendo questa un diritto che non aveva nessuna relazione colla giustizia verso gli altri, ma che conteneva solo una utilità propria, ognuno rimaneva libero di esercitarlo o non esercitarlo, sebbene nessuno poteva alienarlo, appunto perchè l' alienazione sarebbe un contratto invalido trattandosi d' un diritto imprescrittibile. Le Assemblee adunque dovevano rimaner libere nella elezione dei deputati da mandarsi alle Assemblee più elevate, sebbene l' Assemblea più elevata potesse citare al Tribunale politico l' Assemblea meno elevata per negligenza nel mandare i deputati, ogni qualvolta potesse provare che ciò fosse nocevole ai suoi membri: non ammettendo il Tribunale petizioni quando non fossero presentate da un accusatore interessato nella causa. Ciascuna Assemblea inferiore dunque aveva essenzialmente ed imprescrittibilmente i seguenti diritti: 1 Di mandare il numero di delegati, che a lei apparteneva secondo la legge, all' Assemblea prossimamente superiore: e questi delegati poteva sceglierli a suo piacimento, a quel modo stesso che un padrone può scegliere i suoi servi. 2 Di fare il contratto con questi delegati secondo le condizioni da convenirsi fra essa e il delegato, e da esprimersi nel mandato del medesimo: condizioni che potevano riguardare: a) Le istruzioni date al medesimo intorno al modo di eseguire il suo ufficio; b) Il tempo della delegazione in quanto può stare in arbitrio dell' Assemblea; c) Lo stipendio da assegnarsi al delegato. Le cause fra il delegato e le Assemblee sono di competenza del Tribunale politico. Così pure ciascuna persona (morale ed individuale) che potesse dimostrare d' essere realmente danneggiata dal delegato, come sarebbe nel caso, in cui si potesse provare o la intenzione di nuocere col suo potere o il tradimento contro l' Assemblea nell' esercizio del potere ricevuto, può richiamarsi al Tribunale politico ed ottenere la mutazione del delegato. Ogni Assemblea inferiore debbe eleggersi un Ministro, le cui attribuzioni sono le seguenti: 1 di convocare l' Assemblea nei casi prescritti dalla legge; 2 di essere l' organo permanente dell' Assemblea medesima. La Commissione propose, che conveniva stabilire i casi in cui le Assemblee inferiori si dovessero convocare, e fu adottata sopra di ciò la legge seguente: 1 L' Assemblea debb' essere convocata ogni qualvolta muore un suo delegato all' Assemblea superiore per rieleggerne un altro. L' Assemblea superiore è obbligata di dar la notizia della morte al Ministro dell' Assemblea inferiore, il quale appena ricevuta debbe proclamarne la convocazione. 2 Il Ministro debbe pure convocare l' Assemblea ogni qualvolta spira il tempo della delegazione assegnato ad un delegato, perchè sia fatta una nuova elezione. 3 Debbe convocarla ancora ogni qualvolta gli sia dimandata da una maggiorità de' voti componenti l' Assemblea. 4 Finalmente è obbligato di convocarla ogni qualvolta un membro della medesima ottiene dal Tribunale politico, per cagione dei proprŒ interessi, un decreto di convocazione. I membri invitati dal Ministro all' Assemblea, che non compariscono, dichiarano con ciò di assentire ai comparenti: e tuttavia possono essere citati al Tribunale politico se la loro assenza sia pregiudicievole. Rimanevano le difficoltà sull' instabilità dei rappresentanti nelle Assemblee, giacchè il diritto di rappresentazione nelle medesime doveva sempre conservarsi in equilibrio colla ricchezza materiale: la quale è soggetta a continui mutamenti. Ma la Commissione aveva indebolita anche questa difficoltà col principio stabilito, che la giustizia teoretica doveva nelle sue applicazioni pratiche dar luogo all' equità; e tutti gli uomini erano obbligati dalla stessa giustizia a declinare alquanto dal proprio diritto rigoroso, quando ciò era necessario, perchè i diritti di tutti potessero avere contemporaneamente luogo. Essa dunque credette, che si potessero ottenere le deviazioni menome mediante una legge sui mutamenti del numero dei voti a ciascuno appartenenti, esposta nel modo seguente: 1 Ognuno al quale scemino le sue fortune può ricorrere quand' egli voglia al Tribunale politico, perchè gli sia scemata la rappresentazione politica corrispondente. 2 Ogni persona morale o individuale può far una causa simile verso un' altra persona, a cui sieno scemati i beni di fortuna. 3 Ciò che è detto nei paragrafi precedenti per lo scemamento delle fortune, vale anche per il loro aumento; e perciò ciascuno, dato quest' aumento, può domandare per sè o per altri l' aumento corrispondente di rappresentazione politica. 4 L' Assemblea ha diritto e dovere di domandare una nuova ricognizione delle fortune di quelli che sono negligenti nel pagare le imposizioni. 5 I lavori del Tribunale e delle Assemblee sono indipendenti, e quelli dell' uno non possono rallentare quelli dell' altro, per modo che, pendente la causa, ognuno rimane a suo luogo; e nella sentenza è fissato il tempo preciso in cui s' intende cominciata la mutazione. Dopo aver data un' idea del Tribunale politico e dell' Amministrazione, che sono le due parti del Potere Supremo della società civile, mi resterebbe a parlare della Magistratura che è il terzo corpo che forma parte della organizzazione sociale, sebbene egli non sia parte del Supremo Potere. Ma prima di passare a descrivere la Magistratura della società civile, che fingo d' erigere da' suoi fondamenti, mi sembra necessario di chiamar l' attenzione del leggitore sulle traccie del Progetto fin quì da me descritto, sia che si ritrovino negli scrittori antecedenti, o sia nelle costituzioni delle nazioni che fin quì sulla terra sono esistite. Questa digressione, ben comprendo, che travia qualche poco il leggitore dal diritto cammino, e gli ritarda di poter concepire tutta intera l' idea di Società che io prendo a descrivere: ma questo interrompimento, che nuoce invero al filo delle idee, sarà forse compensato da un maggior avvicinamento che prenderà la Teoria esposta alla pratica, e quindi ella forse gli diverrà più reale nella sua mente, e l' indurrà a prestare più agevolmente fede alla possibilità della medesima. In fatti la prima difficoltà che si presenta alla mente, di chi sente proporsi un' astratta teoria si è la seguente. Com' è possibile che ciò non abbiano mai veduto gli uomini precedenti? come sfuggì a tutte le nazioni e a tutti i loro savŒ, che pure hanno posto i più profondi pensieri ad escogitare tutto ciò che giovar potea l' uman genere, se egli fosse cosa possibile od utile? Io non risponderò già, che dove tale obbiezione dovesse aver luogo in tutta la sua estensione, ella supporrebbe, che non fosse oggimai possibile verun ulteriore progresso al genere umano; perocchè io non penso che uomo me la possa proporre a tempi nostri con tanta estensione. Risponderò piuttosto che anch' io concedo dover incontrare con ragione una prevenzione sfavorevole quella istituzione così nuova, di cui nessuna traccia si rinvenga esser stata prima dei tempi nostri nelle menti e nei costumi degli uomini; ma non essere all' incontro ragionevole di credere che ogni egregia cosa dagli uomini traveduta e cominciata nell' opera sia stata già altresì perfettamente conosciuta e in tutta la sua perfezione eseguita. Ed or questo io credo che sia avvenuto del Supremo Potere della società civile da me descritto. Parmi ch' egli sia stato sempre più o meno chiaramente dagli uomini avvertito; parmi che sempre l' abbiano desiderato, come cosa di cui la natura umana provava il bisogno; parmi che egli sia stato lo scopo d' infinite ricerche politiche, d' infiniti sforzi ed agitazioni della società tendente di conformarsi a quella forma regolare. Parmi insomma che tanto la natura delle cose, quanto le menti degli uomini ci si sieno aggirate d' intorno: queste per formarsene l' idea compiuta, quella per trovare in essa la propria naturale posizione e quiete: ma che sì le menti che la natura non abbiano perfettamente asseguito il termine dei loro sforzi; perchè è legge fermissima, a cui le umane forze soggiacciono, che non ottengano la perfezione dello scopo se non dopo gran tempo, grandi errori, grandi urti: dopo una molteplice insomma e dolorosa esperienza. Del Tribunale politico sono minori le traccie istoriche che dell' Amministrazione. La ragione di ciò si è, che egli si può dire l' ultima perfezione della società, e suppone gli uomini già pervenuti a un grado assai grande di coltura. Oltracciò l' ultima riflessione che fa l' uomo è quella sopra sè stesso: egli è di prima giunta portato a pensare agli altri; questa è la direzione naturale della sua mente: il ritorcersi sopra di sè è una conversione difficile: egli opera senza dubitare di sè, senza pure pensare a sè operante. Perciò vi dovevano essere prima le Amministrazioni della società che il Tribunale politico. Poichè il Tribunale politico non può venire che allorquando l' Amministrazione è arrivata a riflettere sopra sè stessa, a dubitare dei suoi proprŒ giudizŒ; sia che questo dubbio ella giunga a fare spontanea per propria sapienza, sia che ella sia costretta di farlo per le scosse che ella riceve dalle reazioni che ritruovano le sue ingiustizie. Così in fatto troviamo nella storia. Questa ci presenta da per tutto Amministrazioni che operano con gran franchezza e fidanza del proprio fatto, che non dubitano punto di errare, che procedono come fossero infallibili; e che sostengono per gran tempo di esserlo, quando viene loro contrastata questa infallibilità. E se un tale contrasto singolare dura per molto tempo, non è già da credersi che ciò nasca dall' opera sola delle passioni degli uomini: egli si prolunga anzi per l' imbecillità umana come per l' umana malizia: perocchè quella è che impedisce agli amministratori della società di riflettere sulla propria incapacità, e sulla fallacità dei loro giudizŒ e delle loro operazioni. Se noi veniamo osservando la storia delle nostre moderne monarchie, cominciando dalle loro origini nei secoli di mezzo, e giù venendo dietro i loro passi; noi veggiamo come il loro potere si sia venuto rendendo sempre più assoluto, ed indipendente: e veggiamo ancora che ciò è avvenuto per opera di molti abili uomini di Stato, che affezionati ai loro Principi gli hanno serviti del loro avvedimento e della loro destrezza nel maneggio delle pubbliche cose. Si grida contro alla costoro improbità: ma, per quanto io sono persuaso, al tutto senza ragione. Io credo in quella vece, che a questa concentrazione del regio potere abbiano contribuito degli uomini sommamente probi, e forniti delle più pure intenzioni. - Ma essi, si dice, hanno rinserrate le catene dell' uman genere. - A bell' agio! Tornate su loro passi: esaminate le intenzioni dei loro fatti, e muterete opinione. Il potere supremo non era fissato; egli ondeggiava in varie mani: lo Stato era per cadere ogni istante nell' anarchia: la morte del principe, l' ambizione offesa di un nobile, l' ardire di un condottiero, un accidente impreveduto, bastava per rovesciare col trono la società. Questi mali cadevano sotto gli occhi, come cadono sotto gli occhi tutti i disordini delle amministrazioni di più persone, sieno grandi o sieno piccole: sieno le sette, nascenti all' elezione di un sovrano, sieno i tumulti dell' elezione popolare di un curato, ed i piccoli partiti, le discussioni, e gli stravizi, che la accompagnano. L' Amministrazione della società, che si credeva incaricata di difendere la società da tutte le turbolenze e da tutti i mali, ai quali può soggiacere, era ben naturale che si credesse ancora, non dirò autorizzata, ma in dovere di riparare a tutte quelle inquietudini. Ora quale era la strada più breve che a questo fine si presentasse? Quella di far guerra a tutte le amministrazioni collettive, e stabilire un sistema di centralizzazione dei poteri; perocchè ridotto il potere nelle mani di uno, e ridottovi così forte a cui nessuno possa resistere, tutti quei disordini son tolti via, che nascevano prima dall' ondeggiar egli incerto nelle mani di più. Ecco pertanto un esempio luminoso dello scambiare che fanno gli uomini le istituzioni stabilitive colle istituzioni preventive e repressive . Quand' essi nell' istituzione che ha una natura stabilitiva scuoprono alcun abuso, non pensano già di metter a lato della medesima un' altra istituzione preventiva o repressiva che corregga quel difetto; ma si mettono piuttosto ad alterare e snaturare la istituzione stessa stabilitiva perch' ella non si presti all' abuso osservato; non accorgendosi in ciò che l' abuso non nasce da essa stessa, ma è alla medesima estrinseco, cioè nasce dalla malvagità degli uomini che di essa abusano, il perchè a questa si dee por rimedio, e non guastare l' istituzione per sè buona e retta. Ma or ecco come il potere dell' Amministrazione sociale andò per mancanza di lumi rinforzandosi, e tendendo alla maggior possibile indipendenza, anzichè pensare di sottomettersi ad un Tribunale; e ciò fece, pensando forse fare cosa necessaria e buona, credendo eseguire la sua missione, quella di difendere la società. - Ma si ripete, chi tolse via quei mali dalla società, rendendo più fermo ed indipendente il poter supremo, rese questo più arbitrario e più insopportabile. - Appunto: ma ciò senza accorgersi. - In che modo? - Perchè l' Amministrazione nel tempo ch' ella vedeva i disordini, che si credeva in debito di torre via; non sospettava menomamente di sè stessa: non rifletteva sulla propria fallacità; gli amministratori insomma della umana società non pensavano d' essere uomini, ma solo d' essere amministratori. - Ma non è questa stessa una colpevole ignoranza? - Piuttosto un inganno della stessa natura umana, che ha bisogno d' essere scossa replicatamente e fortemente prima che dubiti di sè stessa. Gli amministratori della società accorrono a porre rimedio ai mali che veggono cagionarsi da' soggetti, all' incontro i soggetti si lamentano con altrattenta prontezza dei falli degli amministratori. E` facile ai soggetti lamentarsi degli amministratori, appunto perchè essi sono collocati in luogo da vederne i vizŒ altrettanto quanto poco sono in istato da vedere i proprŒ. Per quella stessa ragione che dicevo l' uomo non portare lo sguardo sopra di sè per dubitare di ciò che fa, se non tardi e trattovi quasi a forza. Il perchè è al tutto indiscreta la severità con cui si giudica dei superiori; esigendo ch' essi veggano i proprŒ errori altrettanto come li vede chi è da loro diviso: perocchè ciò è contro le leggi della umana natura. Egli è da ciò stesso che si spiega il seguente fatto. Il soggetto si lamenta dell' amministratore sociale. L' amministratore riguarda questo lamento come una colpa, come un' insubordinazione. Ma il lamento non è già portato contro l' autorità dell' amministratore, ma contro il male ch' egli fa colla medesima. Tuttavia l' amministratore non è disposto a considerarlo sotto questo aspetto, per quella stessa ragione, che non è disposto a considerare sè stesso come un uomo fallibile, essendo per accidente amministratore; ma è anzi disposto a considerarsi solo come amministratore. Qualità questa che astrattamente presa non annette già l' idea di imperfezione e di fallibilità, che resta tutta propria dell' uomo che amministra. Egli è inclinato a considerarsi piuttosto nella sua qualità d' amministratore che nella sua natura di uomo, perchè l' amministrazione è cosa esterna, che termina fuori di lui, per vedere la quale non ha bisogno, dirò così, che di uno sguardo del suo occhio in direzione naturale. Mentre a considerare sè stesso come uomo amministrante ha bisogno di ritorcere lo sguardo quasi contro natura, ed a fissarlo in sè stesso. Il perchè nel lamento dei soggetti contro di lui egli vede più facilmente e più naturalmente una opposizione ed una reazione alla sua autorità, che non sia un' avvertenza dell' errore ch' egli prende come uomo soggetto a fallire. Egli è vero, che le passioni umane, l' amor proprio, e l' avidità si mescolano da per tutto; ma non si può negare che le stesse leggi dello spirito umano conducano l' uomo a dubitare anzi di altrui che di sè stesso. Ed è perciò, che un amministratore della società nello stato naturale può essere inclinato di tutta buona fede ad aumentare ed afforzare l' autorità nelle proprie mani, persuaso di tor via in tal modo molti disordini con un' autorità piena ed assoluta, senza accorgersi nè sospettare de' mali ch' egli stesso per ignoranza o per passione, e quelli che a lui subentreranno nell' Amministrazione, possono produrre colla detta autorità. Vedete quello che nasce nel caso di una rivoluzione: prescindendo dai secondi fini che operano nella medesima. Si dice che il Sovrano era colpevole, che la sua Amministrazione era pessima. Se ne instituisce dunque un' altra, ma ben presto, atterrata anche questa, ne sorge una terza per vendicare i delitti della seconda. Nel fermento delle opinioni e nella prontezza e temerità dei giudicŒ si condanna ben presto la terza, come si condannò le due prime, per instituirne una quarta; e si succedono incessantemente i riformatori della nazione agitata. Ora onde viene questo gioco e questa vicenda, se non da un simile corso d' idee che fa lo intendimento umano, per cui l' uomo assai prima di giudicare di sè stesso giudica degli altri, e trovando sempre i difetti in quelli che amministrano la società non sa neppure dubitare ch' egli stesso trovandosi nel loro posto potrebbe cader negli stessi errori; ma anzi si lusinga che tutte le sue idee sull' Amministrazione sociale sieno giuste, che porterebbero la felicità nazionale, e che corrisponderebbero ai doveri dell' Amministrazione? Si sono veduti sempre quelli che prima di arrivare all' Amministrazione sociale gridavano contro il dispotismo e gli sforzi degli amministranti per aumentare il grado di potere nelle loro mani, pervenuti essi stessi all' Amministrazione aver fatto assai di più, non avere il menomo dubbio di far bene a tirare nelle proprie mani la più gran potenza, ed a comprimere colla più gran forza arbitraria che aver potessero tutti quei movimenti che venissero fatti contro all' Amministrazione. Egli non debbe adunque far meraviglia se si è quasi sempre veduto nelle società cercare da quelli che avevano in mano il potere la più piena indipendenza, mentre ciò non solo è conforme alla passione di dominare, tanto propria dell' uomo; ma all' indole stessa dell' umana natura, per cui l' uomo crede non esserci niente da temere da parte sua, ma solo da parte degli altri; e così gli amministratori nulla credono che vi sia da temere se l' Amministrazione è forte. I Principi nulla credono che vi sia da temere se la loro potenza sempre più si rende indipendente; anzi non la riguardano se non come un mezzo di fare un bene maggiore, senza pensare neppure alla possibilità che essa potesse essere istrumento di male. Per venire a quest' ultima riflessione, che può solo dar luogo al Tribunale politico, si esige dunque non solo che i Principi sieno retti e buoni, ma ben ancora che sieno ammaestrati da una lunga esperienza, la quale li faccia pensare sopra sè stessi. E non fa però meraviglia, se fino a qui solo delle incerte traccie si ravvisino essere state di consimile instituzione. Ed anche queste poche ed incerte traccie dalla parte del popolo si osservano. E così doveva essere, perchè il Tribunale politico è per il popolo; egli è necessario unicamente per difendere il debile contro il forte, la minorità contro la maggiorità. Prego il leggitore di considerare come tutto si trovi legato nel sistema da me proposto, e come i principŒ sieno conformi alla natura delle cose. Io ho cercato un sintomo che ci faccia conoscere quando venga leso il diritto in un uomo; e l' ho trovato nel risentimento morale; il quale risentimento quando gli uomini sono nello stato di natura porta la pretesa di risarcimento, cui l' offeso verifica per le vie di fatto se l' offensore non si muove spontaneamente a dargli soddisfazione. Il risentimento adunque, sintomo del diritto violato, è la ragione per cui gli uomini vogliono che sia resa loro giustizia; egli è dunque la causa movente della giustizia privata nello stato di natura, e della giustizia pubblica o sia dell' istituzione dei Tribunali nello stato di società civile. Applichiamo il risentimento al Tribunale politico; e veggiamo se il popolo risentitosi delle offese degli amministratori abbia chiesto e resosi com' ha potuto contro di essi ragione. Egli è evidente che questa è la cagione vera o pure il pretesto di tutte le ribellioni: queste nascono perchè il popolo si risente delle offese che vengono a lui fatte dagli amministratori della società, o che gli si dà ad intendere che gli vengono fatte: egli chiede giustizia; ma non trovando alcun Tribunale che gliela renda fa al modo stesso che fanno gli individui fra loro fino che si trovano nello stato di natura; decide e si rende ragione da sé. Esiste adunque sempre nel fatto e per la natura delle cose un Tribunale per gli affari politici, come esiste sempre per la natura delle cose un Tribunale per gli affari privati. La sola differenza fra il Tribunale politico istituito appositamente, e il Tribunale politico naturale, per dir così, si è quella che passa fra il Tribunale per gli affari privati nello stato di natura, e lo stesso Tribunale nello stato civile: nel primo stato è l' individuo o la famiglia quella che giudica in propria causa e che eseguisce la sentenza, mentre nel secondo stato il giudice è distinto dall' offeso, è comune a tutti, e dell' esecuzione della sentenza s' incarica la forza comune. Così pure fino che il Tribunale politico non è istituito, il popolo è il giudice di fatto, egli è giudice in propria causa ed esecutore della sentenza: quando s' instituisce un Tribunale politico apposito, allora il giudizio è dato ad un terzo a cui di concordia le parti si rimettono. Un tribunale adunque sempre esistette di fatto, come mostrano tutte le storie per gli affari pubblici; come sempre esistette un Tribunale per gli affari privati, mentre sì l' uno che l' altro è fondato nell' umana natura come in essa è fondato il risentimento all' offesa , risentimento che è un effetto immediato dell' idea di giustizia , così necessaria dell' umana natura come necessaria è ad essa la ragione . Ho già osservato che il governo preso nella sua nozione astratta, è un benificio comune, e non un aggravio, che perciò ciascuno può prenderne il possesso se trova il posto vacuo, alla stessa guisa come ciascuno può occupare un disoccupato terreno. Ma riducendo questo principio alla pratica difficilmente si verifica, perchè nella pratica vi si mescolano le ignoranze e le passioni umane. Perciò sono assai rari i casi di popoli sottomessi all' occupante, senza che questi abbia avuto bisogno della forza. Questa difficoltà a lasciarsi governare, in popoli non guasti ancora da idee filosofiche, ma forniti solo della filosofia della natura, è il risentimento , sintomo dell' offesa ricevuta. Ho ancora osservato nella prima parte la cagione per cui l' antichità amava tanto le Repubbliche. Non si era giunto a distinguere la modalità dei diritti dai diritti stessi: non si conosceva adunque il preciso oggetto del governo: governare la società non era per essi regolare la modalità di tutti i diritti, ma era regolare i diritti di tutti: o almeno queste due cose si confondevano nel fatto; e contribuiva a tale confusione l' estensione che prendeva la modalità stessa dei diritti 2) in un tempo, che il fine delle guerre ognor minacciate era l' esistenza, o la distruzione di un popolo. [...OMISSIS...] Anzi perciò appunto era Sovrano e Legislatore perchè estendendosi tanto la sovranità, 2) questa sarebbe stata insopportabile, concentrata nelle mani di un solo, ad un popolo che ritenesse qualche vita morale: il risentimento morale adunque questo naturale giudice delle offese era quello che determinava la stessa forma repubblicana di governo, e colla forza comune realizzava nel fatto la sua sentenza. Quando un uomo solo si fece arbitro dell' imperio romano, si può dire che la virtù era per annientarsi e con essa la luce della verità. La mancanza della prima rendeva gli uomini atti alla schiavitù, e non erano più suscettibili, si può dire, di offese morali, ma solo di offese fisiche poco diversamente da' bruti. Perduta colla morale la intelligenza, in luogo di un Tribunale e di un giudizio politico, si vede un' atroce irritazione di tutti gli elementi della società, che non tendono nè di fare altrui nè di rendersi a sè giustizia, ma di distruggersi scambievolmente. Ricomparisce il Tribunale politico ancora in uno stato naturale, cioè unito al risentimento della società offesa, all' uscire che fanno dal caos del medio evo le moderne società. Ma la religione ha diminuite le passioni dei governanti, e ha dato, sì ad essi come al popolo, idee più esatte di giustizia. In tal modo diventa possibile la Monarchia: il Cristianesimo solo rese questa forma di governo tollerabile non solo, ma carissima alle nazioni. In che consiste questa mutazione della Monarchia, la quale era tanto odiosa all' età pagana nella sua parte più colta, e tanto cara all' età cristiana nella colta Europa? Un grand' uomo n' ha notata la differenza con gran verità: « « I re abdicavano il potere di giudicare da per se stessi. »1) » Fu questa l' opera della Religione divina. Ed il principio che adoperò questa Religione per operare un tanto mutamento di cose fu quella massima: « « Per me regnano i re: »2) » la massima che fa conoscere avervi sopra tutti i re della terra un Tribunale, una giustizia, un Monarca, a cui rendere il conto delle arbitrarie sentenze. Conviene concedere in fatti che questo è un principio fondamentale della Religione cristiana, che questo principio lo fa sentire incessantemente: che l' ha già impresso in tutti gli uomini di Europa. Ma saremmo assai lontani dal vero, credendo che questo fecondo principio abbia ricevuto tutto il suo sviluppamento, che la sua influenza abbia ottenuto tutto ciò che egli può ottenere. Si può ben dire ch' esso sia ridotto quasi interamente nella pratica dei negozŒ civili, ma siamo ben lontani da ciò nei politici; questo è quanto gli rimane di fare. L' autore citato dopo aver indicato il carattere della presente Monarchia europea nell' abdicazione che fecero i re del potere di giudicare per sè stessi, osserva che i popoli in contracambio dichiararono i re infallibili ed inviolabili. Così è in fatto. E sarà pienamente, quando pienamente i Re avranno abdicato un potere che esclude essenzialmente l' arbitrio; e che è tanto venerabile e divino quant' è più sicuro interprete e sacerdote della giustizia un potere che è augusto non pel ministro che lo esercita, ma per sè stesso. I popoli non avendo da temere più nulla dai re, abdicano anch' essi naturalmente il potere di giudicare da sè e di farsi giustizia: in tal modo i re ed i popoli pienamente cristiani eseguiranno il precetto: «Non giudicate e non sarete giudicati. 1) » Ma giova vedere il lento corso pel quale la società cristiana tende a tanta perfezione. Il primo passo fu quello di rendere possibile la Monarchia fondandola sulla giustizia, e restringendola per conseguente a non disporre che della Modalità dei diritti. Ma questa Monarchia ancor bambina doveva essere educata, e fino che nol fosse, doveva ritenere degli antichi costumi. La società parimenti doveva nella stessa ragione tenere presso di sè il Tribunale politico. Vediamo come ne faceva uso nei casi ordinari. Le parti del popolo, dice il Sismondi parlando delle forme di governo dei popoli settentrionali del medio evo « « erano quelle di sanzionare o rigettare le proposizioni del principe colle acclamazioni. »2) » Ecco il passo dall' antica alla nuova forma di governo: nell' antica non poteva essere legislatore che il popolo: nella nuova il popolo non è più legislatore ma il Monarca, egli si riserva solo di approvare le instituzioni se sono tali che non suscitino in lui il risentimento morale; e se all' incontro sono tali che il suscitino, di manifestarlo e di riprovarle. Ed ecco la Monarchia europea nella sua prima età: essa non è propriamente limitata nel suo potere di regolare la modalità dei diritti, che è ciò che forma la sua natura; ma vi intervengono gli abusi; le passioni e le ignoranze operano ancora e spingeranno talora il sovrano a passare il suo confine: il popolo adunque dovea risentirsene. Alcuni teoristi crederebbero che tale costituzione fosse concertata. Niente affatto. Ella nasceva dalla natura della cosa. La società si lascia governare (quand' ella non sia corrotta da false dottrine) ma non si lascia offendere: la sua reazione, adunque, o sia l' esercizio dei giudizŒ politici, è tanto maggiore quanto essa viene più frequentemente offesa; e l' autorità del governante per conseguente è più libera ed indipendente quanto meno offende, e più rigorosamente opera la giustizia. Egli è anche inutile ricercare se la società ha il diritto di reagire contro chi la governa: perchè basta sapere come sta la cosa nel fatto; e si potrà conoscere che così fu sempre, e che sarebbe contro la natura delle cose supporre il contrario. In fatti la natura si risente quando viene offesa: potrebbe egli darsi il caso che un popolo venisse tutto intero distrutto senza ch' egli mostrasse il minimo risentimento? Or non è già questo un caso ipotetico: un popolo naturalmente sta quieto quando può vivere, ma si risente per buttare da sè quelle leggi, e quegli ordini sotto dei quali egli non potrebbe vivere: per quanto possa essere grande il suo eroismo nella tolleranza, quando non possono più andar le cose, debbono cadere. Le modificazioni adunque della Monarchia assoluta cristiana sono tutte da ripetersi dalla sua propria imperfezione; la sua natura rimane sempre la medesima cioè quella di essere un potere supremo ed universale, e per ciò stesso illimitato fino che non esce dal suo oggetto, ed i temperamenti che si trovano posti alla medesima nel medio evo non consistono che nel giudizio popolare ecclesiastico dato in diverse forme; cioè o tumultuosamente o in Assemblee stabilite, o da tutto il popolo, o dalla classe dei Nobili. Sulla bontà della Legge, od istituzione sovrana, si riconobbe con ciò, che l' unico temperamento che poteva ricevere la Monarchia assoluta senza snaturarla non dovea essere già uno smembramento della sua autorità; ma bensì un Tribunale che lasciandola libera di fare quelli atti ch' essa credeva, li giudicasse: giudicasse cioè s' essi si contenevano nell' oggetto del Potere monarchico, o se il trapassava: se si contenevano in quello non era d' aggiungere altro: se feriva all' incontro i diritti, potevasi contro all' atto posto reclamare. 1) Più tardi alcuni s' occuparono del progetto di una pace perpetua che doveva appunto eseguirsi mediante la instituzione di una specie di Tribunale politico: e sono noti i progetti di Enrico IV e dell' abate di Saint7Pierre. Leibnizio che credeva la cosa possibile fece delle eccellenti osservazioni sul progetto di Saint7Pierre. 1) Questi proponeva due modi di fare il Senato cristiano o il Tribunale di cui parliamo; nell' uno l' Imperatore coll' Impero romano allora esistente doveva formare un solo membro ed avervi una voce sola; nell' altro si proponeva di torre via l' Impero romano, e all' Imperatore si dava parte in quel Senato unicamente come Sovrano ereditario, e ciascuno elettore aveva pure la sua voce a parte. Leibnizio ritrova il primo modo più secondo la giustizia, conservandosi per esso i diritti ben fondati dell' Impero. 2) Ognuno però vede che simile progetto è ben altro dal Tribunale politico da me proposto. Egli lo voleva fatto per regolare i negozŒ fra' Principi e togliere le guerre; e non aveva in vista la protezione dei popoli o il miglioramento delle costituzioni degli Stati. Bensì dei due modi proposti, cioè in quello, in cui l' impero veniva conservato, i popoli pure conservavano a cui avere ricorso ne' loro mali, cioè la Camera imperiale; e perciò trovavano qualche specie di Tribunale contro ai loro Sovrani; nuova ragione perchè il buon senso di Leibnizio preferisce questo all' altro piano. 1) E qui è osservabile nuovamente il progresso che aveva effettivamente fatto la società cristiana, coll' istituzione dell' Impero romano7germanico, verso il Tribunale politico di cui parliamo, e che noi grazie alle false teorie politiche dei nuovi tempi abbiamo perduto: voglio dire appunto quel principio di Tribunale politico, che si trovava già presso l' Imperatore in favore dei popoli. Questo era certamente un passo notabile verso l' erezione del politico Tribunale, ed una nuova prova che questo Tribunale lungi d' essere una chimera è anzi quel fermo scopo a cui tende continuamente la cristiana società. Tuttavia nell' Impero, ai nostri giorni estinto, non era ancora il Tribunale voluto. Egli aveva il difetto d' essere un Giudizio posto nelle mani di un uomo che era insieme Amministratore della Società, e fornito di fisica forza; unione contraria, come vedemmo, all' indole del Tribunale proposto. Poichè l' essenza di questo Tribunale è tutta morale; e colla forza morale egli debbe sostenersi; ed i giudizŒ suoi debbono essere puramente regolati dalla religiosa coscienza. Nell' Impero all' opposto gli interessi della famiglia imperiale erano troppo mescolati coll' ufficio di rendere una tanta giustizia. 1) Leibnizio conobbe assai bene quanto era necessario che un simile Tribunale godesse piena libertà, e non dovesse appoggiare i suoi giudizŒ che sulla pura coscienza; e quest' era altra ragione di tenersi fra i due modi difettosi, come al meno imperfetto, piuttosto al Tribunale dell' Impero, che ad una Dieta od Assemblea di Ministri dei Sovrani della cristianità. Anzi questa Dieta non potrebbe essere al tutto un vero Tribunale: non sarebbe che una unione di avvocati, ciascuno dei quali perorerebbe in favore del Principe che lo stipendia; e si converrebbero insieme per accidente, cioè secondo le istruzioni ricevute dai loro mandanti, e secondo il carattere loro personale di difficile o di buona volontà. L' amovibilità pure di tali ministri basterebbe a sconciare ogni buon avviamento; i quali difetti si evitavano col Tribunale della Camera imperiale, almeno in parte; ma essa stessa poi dipendendo dall' Imperatore non si rimaneva dall' essere ragionevolmente sospetta. 1) Fra tutti i concepimenti politici fin qui fatti dagli scrittori o dai Principi, quello che più si avvicina al Tribunale da me proposto, per quanto è a mia notizia, è di Giovammaria Ortes. Non sarà forse discaro ch' io esponga brevemente il pensiero di quest' acuto ingegno, meno forse ch' egli non merita conosciuto. 1) Egli muove il suo ragionamento da una analisi della natura della società civile; ed ecco com' egli ragiona intorno alla medesima. Nell' uomo havvi una ragione comune ed una ragione particolare . La ragione comune risulta dalle verità salutari che tutti gli uomini debbono unanimemente ammettere ed assentire per la comune loro felicità: verità morali, ossia di giustizia, per le quali vengono assicurati i diritti di tutti gli uomini egualmente senza parzialità a veruno: giacchè il vero ed il giusto è cosa comune ed indipendente da' particolari interessi. La ragione particolare all' incontro consiste in quegli ingegni ed argomentŒ che ogni uomo adopra in favore del suo peculiare interesse, giacchè ciascuno per l' innato amor proprio, parte della propria essenza, cerca la propria felicità. 2) Ora la ragione particolare è soggetta a venire in collisione assai volte colla ragione comune: giacchè l' uomo talora per troppo amore di sè stesso cerca il proprio bene senza ricercare quello degli altri uomini, e perciò infrangendo le leggi della giustizia e della ragione comune che i diritti di tutti egualmente protegge. La ragione particolare la quale assaliva in tal modo la ragione comune, faceva ciò con una forza particolare, cioè colla forza dell' individuo che ingiuria i suoi simili, e in essi la comune ragione. Era dunque necessario che si pensasse di riunire insieme le forze particolari e di formare in tal modo una forza comune per venire in sostegno della ragione comune che veniva continuamente assalita e violata dalla forza particolare. Ma dove esiste ella la ragione comune? come si può ella conoscere? non già col giudizio di ciascuno uomo particolare; perocchè non si saprebbe giammai se il suo giudizio provenisse dalla ragione sua particolare o dalla comune: oltre di che i particolari non vanno giammai d' accordo fra loro: e qui trattasi appunto di difendersi contro la ragione particolare. [...OMISSIS...] Ora la difesa della ragione comune è lo scopo della società civile: ella dunque viene formata dalle due parti necessarie per ottenere tale scopo, l' instituzione di un Tribunale che stabilisca la ragione comune, e la instituzione di una forza comune che la difenda. Ma potrebbe darsi un Ministero che simulasse di rappresentare la ragion comune, ed una forza comune, che simulasse difenderla; ma che veramente quel ministero non avesse in vista che di difendere e promuovere la ragione particolare, e abusasse a tal fine della forza comune. In tal caso, dice l' Ortes, non si avrebbe un governo vero ma un governo falso; perocchè simulerebbe di proteggere la ragione comune e non lo farebbe. Che cosa è dunque necessario per assicurarsi quanto è più possibile che il governo sia vero? E` necessario che questi due ministerŒ della ragione e della forza comune sieno divisi l' uno dall' altro, indipendenti l' uno dall' altro, supremi sì l' uno che l' altro. 1) Ma sentiamo come ragiona sopra di ciò l' Ortes medesimo. [...OMISSIS...] Nasce come corollarŒ di questi principŒ, che questi due ministerŒ sieno due parti essenziali del governo civile indipendenti fra loro e supreme egualmente, e che dalla loro concordia solamente possano i popoli giudicare se è vero o falso il governo. E` impossibile tor dal mondo tutte le violenze, tutte le usurpazioni. Quanto mai si può desiderare si è solo di avere un criterio ragionevole e più certo che sia possibile per conoscere quali atti sieno violenze ed usurpazioni: i popoli non possono pretendere di più; e non v' ha mezzo migliore per ottener ciò quanto è possibile, che la dichiarazione di un Tribunale appositamente stabilito per rappresentare e dichiarare la comune ragione. Ammessi tali principŒ passa l' Ortes ad analizzare le varie società civili e conchiude esser questa divisione di potere morale e fisico scopo del vero cristianesimo, e trovarsi ben avviata nelle società cattoliche; retrocessa e distrutta all' incontro nelle protestantiche e nelle altre acattoliche nazioni, dove la Chiesa non è libera o non divisa dal principato, ma ad esso soggetta o con esso incorporata. Perocchè la sua opinione sarebbe, che questo Tribunale politico riconoscer si dovesse nelle mani della Chiesa, la quale sembra fatta a ciò dalla sua stessa natura, mentre la sua natura è certo quella di esser il centro regolatore della forza morale; nè certo v' ha altro corpo a cuì meglio possa convenire tale incombenza che a lei. Egli è per questa natura della Chiesa, assai profondamente da lui intraveduta, che spiega l' occasione di quella calunniosa imputazione che a lei danno i suoi nemici, ch' essa si mostri ambiziosa di dominare e di disporre nelle cose temporali. Egli è vero che la Chiesa per sua natura ha un' influenza nelle cose temporali, ma l' Ortes vuole che accuratamente si distingua in che consista questa tendenza, la quale fu occasione fino dal nascere della Chiesa delle calunnie che a lei diedero i pagani. I cristiani, dice l' Ortes [...OMISSIS...] Egli è mediante quest' osservazione che si può giudicare con equità la condotta tenuta sempre dai Papi verso i Sovrani. Vi sono due partiti divisi nelle opinioni le più contrarie sopra tale condotta. Un partito grida: « l' ambizione e l' avidità dei Papi vorrebbe ingoiare tutti i regni della terra. »Un altro partito grida al contrario: la « magnanimità e il disinteresse dai Papi mostrato costantemente nei negozŒ temporali, che hanno trattato coi principi, è così nobile e sublime che non si può attribuirlo, considerando le occasioni che ebbero d' ingrandirsi, se non alle forze morali di una religione divina. »Onde sì grande differenza di opinioni in giudicare degli stessi fatti? la sola empietà, o il solo fanatismo religioso può acciecar tanto gli uomini? La ragione d' una tanta varietà di giudicŒ sui fatti stessi è la seguente. La sovranità ha riunito in sè medesima o ha voluto ritener uniti i due poteri supremi: 1 di giudicare sulla giustizia nella propria condotta politica; 2 di realizzare quella condotta politica che le sembrava migliore, ossia di amministrare la società. Ora così distinte queste due attribuzioni, o per dir meglio questi due rami del supremo potere, s' instituisca la questione così: « Hanno tentato i Papi di tirare a sè l' Amministrazione delle società civili? »Convien rispondere: « Non mai: egli è in questo che hanno costantemente dimostrato il più grande disinteresse e la più sublime generosità di operare, lasciando ai principi tutta intera la civile loro amministrazione. »Si domandi ancora: « Hanno ì Papi voluto giudicare della giustizia delle azioni politiche, o sia hanno essi voluto entrare in questo ramo del supremo potere politico? »E si risponda: « Sì, lo hanno sempre e costantemente voluto: questo doveva risultare dalla natura della religione cristiana a cui essi presiedono: di una religione cioè che ha fissato un centro della forza morale distinto al tutto dal centro della forza fisica. »Egli è questa distinzione che sparge la più gran luce sulla condotta dei Papi, e che fa giudicare rettamente di essa. [...OMISSIS...] Ecco il carattere naturale in politica del Capo della Chiesa: non è già quello di essere amministratore dei popoli, cosa che i Papi non hanno mai cercata, e spesso rifiutata, o tenuta a studio lontana da sè; ma bensì di essere Giudici dei Principi cristiani. La malignità e la malafede dei nemici della Chiesa può confondere queste due cose l' una coll' altra; ed è mediante questa confusione che diffonde tenebre per coprire agli occhi dei popoli la luminosa condotta dei Papi, e per ingannare i Principi cristiani. Dio voglia che questi ritornino alla sapienza dei loro avi, da cui hanno ricevuto le loro corone gloriose e santificate. Sono poche le verità di pubblico giovamento che non sieno state intravedute dalle nazioni. Ma non basta che sieno intravedute all' occasione di qualche fatto particolare, se non sono ancora generalizzate, e ben distinte per modo che non si possano confondere le une coll' altre. Fino che le utili verità non ottengono questa distinzione, direi quasi questo isolamento dalle altre verità affini, e che non si sollevano dai casi particolari, non possono divenire fondamentali principŒ della Civile Società. Prima di questo stato di distinzione le verità sono percepite dalla mente umana confuse insieme, per modo che di molte si fa una sola percezione oscura e molteplice, la quale però è l' embrione che bel bello si spiega e discioglie in tutte sue parti. Ma fino che più verità sono percepite come fossero una sola, queste si fanno occasion di sofismi e di perniciosi errori attribuendo ad una verità quello che è proprio di un' altra. Di errori prodotti per una simile cagione noi troviamo esempio appunto nel concetto del supremo potere della città, e per una naturale conseguenza ancora nel concetto della cittadinanza . Fino che il supremo potere si percepisce come una potestà sola , si cadrà sempre nei falsi ragionamenti; poichè quando nel caso particolare se lo considererà come giudice nel campo della giustizia politica, allora si attribuirà a questo potere giudiciale ciò che è proprio del potere amministrativo , e viceversa; per cui non s' avrà mai la chiara distinzione fra i due poteri. E da ciò si vedrà come sieno nate le diverse opinioni sulla natura della cittadinanza. Voi sentite alcuni che dicono: « « Le donne, i ragazzi, i servi, gli abitanti a tempo ed i forestieri, non sono cittadini. 1) » » Voi sentite altri all' incontro volere ammesse le femmine alla cittadinanza, ed altri portare tanto innanzi la cosa da volere « che tutto ciò che spira sia rappresentato nella città. »2) La ragione di queste due sentenze non è che questa: quei primi considerano il supremo potere solo come una amministrazione: questi secondi lo considerano solo come un giudizio politico. Ma schiarite un poco l' idee. Dividete i due poteri, giacchè sono essenzialmente distinti; e riconoscete nella società: 1 Un' amministrazione della modalità di tutti i diritti; 2 Un Tribunale politico che giudica fra gli amministratori , e gli amministrati , e che difende la minorità contro la maggiorità . Cessa allora tutto ciò che v' ha di oscuro e di dubbioso in quella questione. Ed in fatti: Per chi è fatto quel Tribunale politico? Per tutti quelli che possono essere offesi. Dunque tutti quelli che possono essere offesi, e che entrano nella convivenza, sieno anche donne o fanciulli, ne hanno interesse, e debbe pender anche da' loro voti, o di chi fa per loro, la formazione del medesimo. All' incontro per chi può esser fatta l' Amministrazione? Non per altro, come abbiamo dimostrato, che per quelli che hanno dei beni amministrabili in comune, e per i quali l' Amministrazione può mantenersi. Dunque nell' Amministrazione non può aver voto che chi possiede di tali beni. Consegue da ciò che come due sono i supremi poteri della Società, così sono parimenti due le specie di cittadinanza, o i modi di entrare nella comunanza civile, alla prima delle quali « tutto ciò che spira, fornito che sia di ragione »appartiene. Noi però lasciando a questa qualità civile, che abbiamo indicata anche col nome di rappresentazione passiva , il titolo di cittadinanza; chiameremo l' altra con quello di Amministrazione; e il membro della medesima potrà dirsi cittadino amministratore . Sembra che Solone abbia traveduta la natura diversa che ha un tribunale di giustizia , ed una Amministrazione; poichè mentre volle che non si potessero eleggere i magistrati che dalle prime tre classi del popolo, nelle quali aveva collocati i cittadini agiati; permise che i giudici si potessero prendere egualmente dalla quarta, nella quale si trovavano i cittadini più poveri. 1) Ma egli non applicò quest' idea a nessun Tribunale politico, perchè egli non era arrivato a concepirlo. I Romani pure non seppero sollevarsi a quest' idea essenzialmente morale, che non poteva essere che suggerita dal Cristianesimo. Dico che l' idea del Tribunale politico è una idea essenzialmente morale; perchè non può essere il frutto che dell' amore della pura giustizia. Perchè gli amministratori e gli amministrati si sottopongano unanimamente ad un Tribunale, bisogna che amino il giusto, e abbiano sinceramente rinunziato a tutto ciò che potrebbe loro approdare la frode, la perfidia la violenza. A tanto non possono pervenire che nazioni rigenerate alla giustizia dell' Evangelio. Tutto ciò a cui si sono potuti elevare i romani si fu di staccare l' elemento intellettuale dall' elemento sensibile e individuale . Ciò fecero collo stabilire un Senato che fosse come la mente della Repubblica: e come tutto ciò che fecero nella Società civile il portarono ancora nella società domestica che era presso di loro secondo Livio una piccola Repubblica 1) così divisero pure le famiglie in patroni , e clienti; perchè quelli aiutassero questi coi loro lumi, e fossero quasi i consiglieri e direttori di questi: ma dopo di ciò non giunsero a staccare l' elemento morale dall' intellettuale; ma il lasciarono confuso coi due primi. 2) Egli è vero che il Senato romano divenne ben presto l' arbitro delle questioni che insorgevano fra i Re; ma quest' era piuttosto un effetto della sua prevalente potenza unita ad una fama ben meritata e sostenuta per gran tempo di naturale giustizia anzi che il Tribunale di cui parliamo: perciocchè il primo scopo del Tribunale di cui parliamo sta tutto nell' interno della Repubblica, essendo il giudizio fra gli amministratori e gli amministrati. Egli è così lungi che i romani pensassero che il governo dovesse essere giudicato, che il riputavano anzi il fonte della giustizia, ed il padrone delle sostanze e di tutti gli altri diritti privati dei quali egli disponeva liberamente, secondo il costume degli antichi governi come fece a ragione d' esempio colla legge Voconia colla quale si privavano le figlie della eredità, eccetto il caso della figlia unica. 1) Ma veniamo all' Amministrazione; cerchiamone le traccie storiche. Spero che queste confermeranno la teoria espressa presso gli spiriti non prevenuti; e la riconosceranno non già come un' aerea fabbrica quale suol uscire da una mente che spazia fra gli immensi campi del possibile senza fermarsi a nulla di reale, ma bensì come un risultato di serie meditazioni portate sulle istorie di tutti i tempi e di tutti i popoli, come un voto, un' intenzione uno scopo della natura, a cui incessantemente tende di condurre gli uomini, e che non si può acquietare fin che ella non vi sia riuscita. La mia teoria è nata dall' osservazione dei fatti; de' fatti completi, fecondi, perchè presi in gran numero ed in una grande estensione e, per quanto può assicurarsi l' uomo di se stesso, da un' osservazione non prevenuta da predilezioni e da pregiudizŒ: da una osservazione finalmente non intesa a rilevare ciò che fu, per adorarlo come l' ottimo, ma a rilevare ciò che fu per conoscere l' umana natura, gli umani bisogni, e quelle tendenze originarie e naturali che senza esser l' ottimo, menano all' ottimo, perchè sono gli avviamenti della natura, contro alla quale niuno può vincer giammai. Potrei dividere in alcuni articoli separati le traccie istoriche che mostrano l' Amministrazione da me esposta essere stata sempre dalle nazioni veduta, e la natura della società e degli uomini che la compongono con una azione incessante avere sospinti verso della medesima i civili governi; la perversità e l' ignoranza umana avere bensì combattuto, rallentato, oppresso a tempo, la forza della natura; ma questa non essere stata giammai distrutta; poichè ciò sarebbe impossibile per quella legge che l' umanità rifugge dalla propria distruzione. Ma dividendo in articoli separati le dette traccie istoriche dovrei interrompere ad ogni istante, minuzzare e soverchiar nei fatti. Preferirò adunque di mettere sott' occhio le dette proposizioni che dalla storia risultano come leggi o fatti costanti, e poscia riferirò le osservazioni che li provano non secondo l' ordine di quelle proposizioni, ma secondo quello che la storia stessa somministra. La storia adunque delle civili società presenta costantemente i fatti generali ossia le leggi seguenti: 1 La Società civile nella sua infanzia rimane alquanto soggetta alla legge della Società domestica 1), ma ben presto si spiega in essa un' altra legge consistente nell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: che diventa la legge prevalente dell' Amministrazione civile. 2 La natura della Società civile mediante la detta legge dell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza ha chiamato a sè l' attenzione dei popoli, i quali per amore della quiete e della sicurezza hanno fatto sempre delle disposizioni favorevoli alla detta legge. 3 Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale, hanno prodotto novità politiche. 4 Quando il potere politico è dato in mano a quelli che non hanno la corrispondente proprietà, allora non è sicura la proprietà, e nasce di frequente, che quella proprietà che realmente non ha l' Amministratore, gliela si attribuisce con una finzione che pure è fonte di disordini. 5 La mancanza del Tribunale politico ha fatto sì che i popoli non potessero avere fin' ora un' Amministrazione dove fosse perfettamente equilibrata la ricchezza ed il potere politico: cioè che la Società civile non sia pervenuta alla sua perfezione. Questi cinque fatti costanti nella storia provano ad evidenza, che lo stato regolare o tranquillo della Società civile consiste nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere, e conferma l' Amministrazione sopra descritta. Il primo fatto segna il tempo che è necessario perchè la ricchezza nella Società civile manifesti la sua prevalenza: il secondo fatto dimostra le nazioni che s' accorgono di tal prevalenza irresistibile, e che o la secondano, e in tal modo perfezionano le costituzioni dello Stato, o vero vogliono cozzare con essa e si gettano in tutti i mali dell' anarchia: il terzo fatto dimostra come ogni grande mutazione nella ricchezza abbia sempre portato una mutazione nel potere, o pure una lotta perpetua col medesimo: il quarto fatto dimostra come se il potere prevale debba portare una mutazione nella distribuzione delle ricchezze; il quinto fatto finalmente dimostrando che non è possibile un perfetto equilibrio fra il potere e la ricchezza fino che il Tribunale politico non è diviso dall' Amministrazione, mette il legislatore in questa alternativa o di dividere il Tribunale politico dall' Amministrazione, o di avere un' Amministrazione in cui ci sia il detto squilibrio, e perciò di conservare nella società un germe necessario d' interna inquietudine ed agitazione che presto o tardi debbe svilupparsi, e sovvertire l' ordine sociale. Mettiamo adunque in luce questi cinque fatti, mentre essi rinserrano le traccie istoriche dell' Amministrazione da noi progettata, ed insieme ne dimostrano la necessità. La società domestica sussiste agiatamente colle ricchezze naturali , ma la società civile è quasi impossibile che sussista agiatamente senza il danaro 1). Le ricchezze naturali apportano delle derrate che non si conservano a lungo, e alle quali perciò non si attacca altro prezzo che il naturale , cioè quello che nasce dal vantaggio che si trae col consumarle: mentre il danaro si conserva, si ammassa facilmente e produce dell' altro danaro che pure si ammassa. Le ricchezze naturali ancora non si trasportano così agevolmente come il danaro, e non possono servire come serve questo al cambio, nè prendere un' eguale acconcezza di rappresentare la misura comune dei valori. Per tutte queste ragioni le ricchezze naturali possono bastare ad una piccola Società come la famigliare, ma per una molto estesa come la civile il danaro è quasi indispensabile. Egli è dunque naturale che nella Società civile si passi ben presto a dare una grande importanza al danaro, come la forza più potente, la forza che ha un' attività più estesa, più celere e più molteplice di tutte le altre. Questa è la modificazione a cui soggiace la Società umana passando dallo stato domestico e ristretto, allo stato civile ed esteso. E quanto più si osserva, tanto più si vedrà, come la forza prevalente nelle Società civili viene ben presto ad essere la ricchezza, mentre nella Società domestica è la forza personale. Non essendo nello stato di Società domestica tanto necessario il danaro, ed essendo la ricchezza, che più vi si conosce, la naturale, non può con tale ricchezza formare la famiglia da sè stessa una forza; ma essa non ha altro prezzo come diceva, che quello che risulta dal mantenimento delle persone. Lo scopo dunque dell' affezione nella Società domestica sono le persone stesse e non v' è già qualche cosa che si possa amar più di esse mentre tutto si ama in quanto serve ad esse. Si attenda a questo progresso importante: Società umana sotto due forme: prima forma; Società domestica: secondo forma; Società civile. Progresso delle forze prevalenti nella Società umana: forza prevalente nella Società domestica, personale, consistente nella robustezza e nel numero degli individui: forza prevalente nella Società civile, reale, consistente nella ricchezza rappresentata dal danaro. Ora si veda lo stesso progresso nello spirito dell' uomo. Quali sono i primi oggetti che vengono sottoposti alla sua attenzione? le persone: il padre, la prima cosa ferma l' attenzione sulla sua famiglia. Qual' è la prima forza che l' uomo trova per difendersi dagli aggressori? la robustezza corporea. La prima forza adunque che trova il padre per difendere la sua famiglia consiste nel numero e nella robustezza dei membri della medesima. Ma questi membri conviene alimentarli: quindi il bisogno della ricchezza naturale, e il desiderio dei molti membri porta il desiderio di molta ricchezza. La forza di questi membri ben presto si conosce che può accrescersi mediante degli instrumenti delle arti; quindi si porta l' attenzione e il desiderio sopra questa nuova specie di ricchezza. Moltiplicando le riflessioni sopra gli usi che presta questa ricchezza, questo mezzo di alimentare molti uomini, di procacciarsi dei comodi e di ben armarsi 1) per difendere il godimento di questi comodi, si viene a mettere un pregio sempre maggiore nella ricchezza, la quale d' altro lato si rende sempre più necessaria quanto più sono cresciuti i bisogni fattizŒ, quanto i membri della Società sono diventati più numerosi, e quanto hanno fatto più di progresso le altre società contro le quali bisogna difendersi. Il prezzo delle ricchezze così va crescendo fino a tale, che la ricchezza che di natura sua non è che un mezzo, acquista la maggiore importanza e viene considerata come la forza prevalente: allora è il caso in cui le contese non hanno più un oggetto personale, ma un oggetto reale, vale a dire in cui non si questiona e non si guerreggia se non per la ricchezza. Tale è lo stato delle Società civili bene avvanzato. 1) Le Società civili all' incontro che non hanno ricevuto tutto questo sviluppo, che non hanno percorso tutta questa gradazione d' idee; che non sono pervenute a conoscere pienamente l' uso della ricchezza, e quindi a conoscere come la ricchezza possa essere realmente la forza prevalente fra tutte le forze fisiche della Società; si possono considerare ancora in uno stato d' infanzia; non ancora escite pienamente dallo stato di Società domestica, e per ciò soggette alla legge della famiglia, che consiste nella forza personale. Perciò le instituzioni delle società civili che non hanno riguardo alla ricchezza, ma bensì alla forza fisica o personale, appartengono alla prima età della Società civile, o sia alla sua infanzia. Le instituzioni all' incontro che hanno riguardo alla ricchezza, e che la considerano come la forza prevalente, appartengono alla seconda età delle Società civili, o sia alla loro virilità. Quasi tutte le Società civili antiche ritengono ancora dello stato di Società domestica, ossia mostrano dei segni della loro infanzia; e ciò tanto più quanto più si considerano nei loro esordŒ. Rousseau stesso ciò travide. Dopo d' aver detto che la sovranità fondata sulle terre è la più ferma, soggiunge: « « vantaggio che non pare fosse ben sentito dagli antichi monarchi, che non appellandosi se non re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, sembravano riguardarsi come i capi degli uomini anzichè come i signori del paese. Quelli d' oggidì s' appellano più accortamente re di Francia, di Spagna, d' Inghilterra ecc.. In tal modo tenendo il terreno sono ben sicuri di tenerne gli abitanti »1) » La division che fece Romolo del popolo romano fu un' istituzione famigliare; poichè essa ebbe riguardo alle persone, o sia alla forza militare, e non alle ricchezze. Egli divise il popolo romano in tre tribù, chiamate i Ramensi, i Taziensi, e i Luceri, che esprimevano, non già quanto possedevano ma la loro origine, cioè gli Albani, i Sabini, e gli Stranieri. Ciascuna tribù fu divisa pure in dieci curie, e ciascuna curia ebbe la sua cappella per la celebrazione dei sacri riti, ciò che pure s' accorda coll' indole della Società domestica. Ogni tribù dava mille pedoni e cento cavalieri, che era la forza regolare dello Stato. Una tale divisione famigliare era tanto più possibile in quanto che non si conosceva ancora diseguaglianza nella ricchezza, ed il terreno acquistato in corpo potè esser diviso regolarmente: la Religione e lo Stato poteva averne una parte per le spese pubbliche senza bisogno delle contribuzioni private; e l' altra parte potè dividersi in trenta parti, come trenta era il numero delle curie. Ma egli era impossibile che questa instituzione famigliare sussistesse a lungo, come a lungo non può conservarsi la perfetta eguaglianza delle ricchezze: doveva manifestarsi ben presto la legge della Società civile, doveva presso i Romani conoscersi ben presto la loro importanza politica: e la manifestazione di questa legge, tosto che fosse successo lo squilibrio delle fortune, avrebbe potuto dare la più grande scossa alla repubblica, e metterne in pericolo la esistenza, s' essa fosse stata guasta dalle passioni delle Società invecchiate e corrotte, e se non avesse avuto degli uomini prudenti capaci di seguire la natura delle cose, e di modificare le antiche instituzioni a tenore delle nuove forze che si manifestavano e si rendevano prevalenti nella Società. L' uomo prudente che seppe accorgersi della legge delle Società civili appena che si manifestò in Roma e che diede delle instituzioni in armonia colla medesima fu Servio Tullio, institutore della divisione del popolo romano in centurie. Dalla divisione di Romolo erano trascorsi centottanta anni circa fino a Servio Tullio sesto re di Roma: nel qual tempo la divisione delle fortune private aveva soggiaciuto a grande varietà. Quindi se i cittadini poveri avessero continuato ad avere nelle pubbliche deliberazioni un suffragio di egual valore de' cittadini ricchi, il diritto avrebbe pugnato col fatto, poichè la maggioranza nelle ricchezze dava di fatto una prevalenza nelle pubbliche deliberazioni: 1) prevalenza che se non veniva legalizzata dalla costituzione dello Stato, era già essa stessa un attentato contro la medesima costituzione, la quale sarebbe forse crollata contro una tal forza con grave pericolo della repubblica. Servio Tullio adunque distribuì in sei classi tutto il popolo romano, secondo i gradi della ricchezza. Il censo sotto di lui non fu solamente la numerazione del popolo: fu ancora l' estimo delle sostanze di ciaschedun cittadino. La prima classe era composta di quelli, i beni dei quali ascendevano al valore almeno di centomila assi, corrispondenti allora a 774. franchi, o intorno. La seconda classe aveva per censo 75 mila assi: la terza classe conteneva i particolari d' una sostanza almeno di 50 mila assi: la quarta quelli che ne avevano 25 mila: la quinta i cittadini di 12 mila e cinquecento assi, e la sesta finalmente abbracciava tutti i rimanenti i quali non avessero sostanze bastevoli per entrare nella quinta, o ne fossero al tutto sprovveduti. Diviso così il popolo romano in sei classi secondo l' estimo della ricchezza si attribuì a ciascuna classe un numero di voti nelle pubbliche deliberazioni, che fosse approssimativamente in equilibrio colle ricchezze che possedevano, e ciò si fece in questo modo. Ciascuna classe si divise in un dato numero di centurie, ed ogni centuria aveva un voto. Ma la prima classe dei più ricchi si partì in ottanta di queste centurie, con più diciotto centurie di cavalieri, che nella somma portava un numero di novantotto centurie, e perciò di novantotto voti. Ora un simil numero di voti non avevano nè pure tutte le altre cinque classi prese insieme; poichè non formavano più fra tutte che novantacinque centurie, e però novantacinque voti: ventidue centurie era la seconda classe, venti centurie la terza, ventidue centurie la quarta, trenta centurie la quinta ed una sola centuria formava la sesta classe. In tal modo, sebbene il popolo romano fosse il sovrano, tuttavia non partecipava già secondo le teste ma bensì secondo le sostanze: le ricchezze venivano rappresentate nella repubblica romana e non le persone. La sesta classe per esempio conteneva un maggior numero di persone che tutte le cinque classi precedenti, e formava perciò più che la metà del popolo romano: e tuttavia non aveva nell' Amministrazione che un voto solo, vale a dire la centonovantatreesima parte di sovranità, o sia d' influenza nella pubblica Amministrazione. Se la prima classe sola rendeva i voti uniformi, la cosa era finita, poichè il numero di voti di tutte le altre cinque classi restava minore dei soli voti della prima classe, ed essendo questa un centesimo circa dell' intera popolazione 1), mentre l' ultima classe era più della metà, si può calcolare che un votante della prima classe aveva un voto equivalente almeno a cinquemila persone dell' ultima classe. Si può dire che questa fosse la più sapiente instituzione che avessero i Romani, com' essa era la più fondamentale di tutte, e quella che diede a Roma una costituzione tanto ammirata pei suoi effetti e così poco nella sua intima natura. Vediamo come questa idea si presenta nei libri dei politici romani; giacchè si può dire formare il nucleo della romana politica. Cicerone non finisce d' ammirarla: ed attribuisce ad essa la grandezza romana. Egli pone come assioma politico, « Quod semper in republica tenendum est; ne plurimum valeant plurimi . » E ne rende la ragione; « « debbe, » egli dice, «prevaler sempre il suffragio di quelli che hanno il maggior interesse, perchè la città si conservi in ottimo stato »2). » Paolo giurisconsulto espone la stessa ragione della politica romana con altre espressioni: « « L' avere, » dice, «e la ricchezza delle famiglie è una specie di ostaggio e di pegno ch' esse danno alla repubblica »3). » E` comune presso a' politici romani ancora quest' altra ragione che « « se si dà potere nella repubblica ai bisognosi, essi fanno preda la repubblica per soddisfare a' propri bisogni: 1) » »ciò che è quanto dire, che il potere che hanno in mano, quasi per una natural forza attiva, rapisce a sè la ricchezza. Il peso che ha la ricchezza nell' Amministrazione sociale è un fatto indipendente dagli ingegni degli uomini. Se adunque esaminando le costituzioni di certi popoli si truova che esse sono foggiate a tenore di questo fatto e di questa forza naturale non si debbe già maravigliarsi della sapienza dei popoli e dei ligislatori, perchè non sono stati condotti a quelle savie disposizioni già per delle teorie, ma per la forza della natura: il loro merito sta nell' essere stati obbedienti alla natura, come la sventura di altre nazioni venne dall' abbandonare temerariamente la guida della natura, ed abbandonarsi ad una speculazione priva dell' appoggio dei fatti. Noi veggiamo adunque che la natura delle cose ha indicato ai popoli la legge da noi indicata che l' Amministrazione sociale sia distribuita in proporzione della ricchezza: e che i popoli docili alla voce della natura hanno fatto delle instituzioni favorevoli ad una tal legge. Ma come noi dicevamo, questa legge non si poteva manifestare al primo stabilirsi del popolo: perchè allora non possede ricchezze se non comuni: bisognava dar tempo perchè le terre si dividessero, perchè le famiglie parte assai moltiplicate, parte poco o nulla, od estinte, e gli altri accidenti producessero una notabile diseguaglianza fra i proprietarŒ, e finalmente bisognava dar tempo perchè questa diseguaglianza passasse nella bilancia del pubblico potere, o sia manifestasse la sua influenza: per ciò non è negli esordi delle nazioni, ma dopo ch' esse sono bastevolmente costituite, che la detta legge si manifesta, che i popoli se ne accorgono, e che la secondano colle istituzioni. La distinzione di questi due tempi delle nazioni non si può veder meglio che tenendo dietro ai passi delle nazioni conquistatrici; perocchè quando esse si stabiliscono sul terreno conquistato, allora si può dire che cominci la loro organizzazione sociale. Sentiamo in che modo riconosce questa verità nella storia dei primi governi Greci un Autore della nazione che ha il governo conformato più che tutte le altre in forma di una Amministrazione, e che perciò era scorto in sulla via del considerare l' instituzione dei governi sotto questo punto di vista importante. 1) [...OMISSIS...] Ciò che nacque ai tempi eroici della Grecia, in cui cominciò l' organizzazione sociale mediante una militare autorità, cioè mediante una prevalenza personale che è la legge della società domestica, cui susseguì la divisione delle terre, e venne ben presto la ricchezza a far sentire la sua preponderanza fra le forze sociali, che è la legge delle Società civili avviate; si rinnovellò nelle nazioni conquistatrici del medio evo, mentre, come diceva, date le stesse cause debbono aversi gli stessi effetti. Consideriamo questo fatto in Francia: vedremo ciò che presso a poco successe in tutta l' Europa; vedremo due tempi del potere personale e del potere reale . La maggiorità degli interessi deve sempre prevalere in quel modo che questi stanno nell' opinione degli uomini, e quindi si fa sempre sentire il bisogno di omologare la volontà del principe colla volontà della nazione stessa: ma nel primo tempo non vi sono che interessi personali , e quindi vediamo che la assemblea nazionale ai tempi di Clodoveo non è che il campo di Marte: un' assemblea di guerrieri che a cavallo deliberano in mezzo ad una vasta campagna sugli affari della nazione. Ma ben presto i conquistatori si dividono a sorte 1) i terreni, e quella parte di popolazione indigena che è sfuggita alla distruzione si fa schiava dei vincitori, la quale col perdere la libertà perde insieme la proprietà, e con questa perde ancora ogni politica esistenza. D' allora comincia a manifestarsi l' equilibrio della proprietà col civile potere: i piccoli proprietari erano scomparsi ed i vincitori poco numerosi in proporzione delle terre divise, erano divenuti possessori di latifondi. Quindi le assemblee nazionali sotto Carlo Magno non compariscono che dei gran proprietari, cioè i due stati della nobiltà e del clero, che erano soli quelli che avevano la ricchezza di un peso sensibile nella sociale amministrazione. La nobiltà non eccedeva forse la quintamillesima parte della nazione, come una quintamillesima parte della nazione si può dire che fosse la prima classe di Servio Tullio; se non che le altre classi nei romani ComizŒ avevano pure un lor voto; mentre ai parlamenti di Carlo Magno non aveva influenza alcuna l' immenso popolo rimaso privo di proprietà. Ma comincino a nascere i piccoli proprietari, comincino queste piccole proprietà tolte insieme a diventare una somma notabile: noi vedremo che insieme con questo acquisto di proprietà verrà ben anco la rappresentazione politica, questo fatto si sviluppò sotto la terza razza. Ed ecco in che modo. La proprietà dei Nobili è quella che mette talora in pericolo la corona la quale ha bisogno di trovare un terzo potere che la sostenti. A tal fine Luigi il Grosso comincia a francare le città dei suoi possedimenti, le quali città erano a punto composte dei vassalli, che è quanto dire di servi; ed i re suoi successori proseguono a moltiplicare gli uomini liberi in ragione che potevano unire ai regii dominii qualche terra dei signori. Filippo Augusto che riunì alla corona la Normandia, l' Anjou, la Maine, la Touraine, il Poitou, il Vermandois, l' Artois, la contea di Gien, concesse il diritto di comune a tutte le città di tali provincie e così le francò, e sul fine dello stesso secolo XIII Filippo il Bello con ordinanza fatta al parlamento d' Ognissanti abolì interamente nella Linguadocca la corporal servitù cangiandola in una imposizione annuale. Questo era creare molti piccoli proprietarŒ; e dar la esistenza a molti piccoli proprietari era introdurre nello stato un nuovo potere politico che tantosto comparve. Nel 1301 fu ammesso per la prima volta agli stati generali della nazione da Filippo III sopranominato l' Ardito, oltre il clero e la nobiltà, l' ordine altresì dei liberi cittadini. Il terzo stato vi comparve realmente a dare il suo consiglio, ma sotto la forma di supplica (requˆte) , che presentava in ginocchio. La tassa annuale che veniva messa ai nuovi liberati, si può dire l' origine dell' imposta. Ma dopo ch' essi furono liberi, i proprietari divennero i soli che portavano il carico dello stato, mentre il clero e la nobiltà rimaneva esente dalle imposizioni, come era prima; e ancora in parte da quei sacrifici straordinari che precedentemente far doveva nei bisogni dello stato; mentre non c' eran altri, che pagar potessero, nè altri interessati nella pubblica Amministrazione. Ma si riconosceva però conforme all' equità di consultarli sulle nuove imposizioni, e che fossero da loro acconsentite. Negli stati generali del 1345, sotto Filippo di Valois essi diedero il consenso alla prima imposta di soccorsi e gabelle , e in quegli del 1355 furono scelti fra essi dei commissarŒ, per la riscossione della pecunia accordata al re in uno coi commissarŒ degli altri due ordini. In tal modo si formò la costituzione francese: fu la proprietà che determinò il governo per una forza della natura, secondata dalla saviezza dei reggitori. Al dividersi della proprietà si divise con essa il governo, e se non si fosse diviso sarebbe nata la turbolenza della Società, ed il monarca per trovare un sostegno contro i nobili non avea che a creare dei piccoli proprietarŒ, poichè con questi creava una forza tendente continuamente da se stessa a prender posto nel governo, al quale scopo presto o tardi sarebbe riuscita o con una concessione savia di quelli che già governavano, o certo in ultimo per un' aperta violenza. Egli è dunque falso ciò che vien comunemente creduto, che il governo francese rappresentasse di sua natura dei principŒ, e non delle cose, a differenza della costituzione inglese rappresentante delle cose e non dei principŒ. Non vogliamo già dire che l' antica costituzione francese avesse perfettamente soddisfatto alla legge dell' Amministrazione, e conseguito un perfetto equilibrio fra il potere civile, e la proprietà: noi diciamo solo che lo ha conseguito approssimativamente: mentre anzi assegniamo per quinto fatto somministrato dall' istoria: « Che la mancanza del Tribunale politico presso tutti i popoli ha impedito ancora l' esistenza di un' Amministrazione perfetta, in cui la proprietà sia perfettamente equilibrata col potere amministrativo. »Per ciò nè pure in Francia la costituzione ebbe mai toccata questa perfezione amministrativa: e si può anche concedere, che si tenne sempre più lontana da ciò che non sia la costituzione inglese; poichè in Francia spiegò maggior forza l' elemento morale che in Inghilterra, come viceversa in Inghilterra spiegò maggior forza l' elemento amministrativo che in Francia: quantunque sì nell' una che nell' altra nazione, prevalse l' elemento amministrativo all' elemento morale. E in fatti l' elemento amministrativo debbe sempre avere maggior forza, nelle costituzioni in cui questi due elementi rimangon confusi, dell' elemento morale: poichè l' elemento morale non riguarda che la difesa della minorità; mentre la maggiorità rimane difesa coll' organizzazione in forma amministrativa. Perciò egli è assurdo il dire che l' antica costituzione francese rappresentasse solo dei principŒ; mentre i principŒ non potevano aver in essa che la minor influenza, e nella sua massima parte doveva esser formata dalla maggiore somma degli interessi, o sia dalla proprietà: idea quanto vera, tanto ripugnante al presente modo del pensare dei francesi. Ma per convincersene essi non avrebbero, che ad osservare quanto avvenne allorquando si dipartirono dalla legge della natura: quando vollero atterrare la loro costituzione che si appoggiava sulle cose, per sostituirne una che rappresentasse dei principŒ: quando in somma violarono la legge dell' equilibrio fra la proprietà e il potere; legge che non si può violare senza che la natura delle cose non ne punisca l' imprudenza severamente, fino che non sia a pieno vendicata, e la sua legge di bel nuovo ristabilita. In fatti i mali della rivoluzione francese non hanno altra cagione prossima che la violazione di una tale legge. Se lo stato delle cose pubbliche era difettoso, se le imposte pesavano soverchiamente sopra quel genere di persone che era più oppresso dalle fatiche, e le odiose esenzioni, il soverchio lusso, e le dilapidazioni della Corte e delle finanze mal disponevano gli animi: qual era il rimedio efficace e sapiente a tali mali? Bisognava formare un più comodo riparto delle proprietà, e quindi appresso una distribuzione dell' Amministrazione governativa equilibrata colle medesime. Un più comodo riparto delle proprietà non si potea far che in due modi: il primo con violenza e con ingiustizia; e questo era celere, se pur non avesse incontrato una reazione che lo rendesse impossibile: il secondo colle instituzioni; e questo era lento verso all' impazienza dei francesi; ma poteva esser giusto. Egli è appunto quel modo, di cui, come abbiamo detto, si servì Luigi il Grosso: egli vide la corona in pericolo, e lo stato stesso straziato dai disordini dei nobili: e cercò di porvi rimedio col promuovere una nuova distribuzione della proprietà in un modo giusto, qual fu quello della francazione delle città appartenenti ai dominŒ della corona, promovendo e creando in tal modo i piccoli proprietarŒ, e dando l' esistenza così ad un terzo stato, che allargasse la base del potere, e collegato colla corona facesse fronte alle soperchieriere della nobiltà. Ma solo con delle instituzioni che avessero messe in esecuzione con maggior esattezza la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, io credo che la Francia sarebbe stata alleggerita dei mali che la aggravavano dopo la metà del secolo scorso: poichè egli è impossibile, che se avesse potuto parlare e in conseguenza prevalere la maggiorità degli interessi, non sarebbero più potute sconcertarsi le cose pubbliche per la prevalenza delle opinioni, o sia dei principŒ, mentre le parole la perdono sempre quando si mettono a fronte delle cose. Ma invece di ciò, che si fece? I mali di cui era aggravata la Francia erano reali: si disse di volervi porre un rimedio: nulla fino quì di male. La sapienza per ritrovare questo rimedio mancava; e quelli che avevano ottenuta celebrità di sapienti erano i filosofi . Poichè i mali erano da tutti sentiti, la necessità del rimedio era pure da tutti sentita: v' era dunque la disposizione degli animi a ricevere ciò che si presentava come rimedio dei mali. E poichè è naturale di cercar sempre il rimedio da quelli che hanno l' opinione d' essere sapienti, così era naturale che i filosofi che avevano saputo usurpare l' opinione di sapienti, fossero anche i legislatori. Questi stolti che riguardavano come « una idea vana e una fatica ingrata lo studio « delle antiche costumanze, »presso i quali tutto ciò che era passato era barbaro, e tutto ciò che si ritrovava nel fatto era ingiusto; si ritrovavano ben lontani dall' esser disposti dall' applicarsi a consultar l' esperienza; ed alla noia di fissare con un lungo studio dei fatti le leggi della natura, preferivano ben volentieri le istantanee creazioni della loro mente, alle cui decisioni con una inconcepibile presunzione e cecità, sembravano persuasi che avrebbe obbedito docilmente l' universo. Con queste disposizioni si aprirono gli stati generali del 5 Maggio 17.9. L' antica legge dell' equilibrio della proprietà col potere fu disconosciuta: la distinzione dei tre stati, che era l' effetto dell' esperienza dei loro antenati, e l' espressione della detta legge, fu tolta: i principŒ furono sostituiti alle cose; e il terzo stato pretese, che non si dessero più i voti nelle tre assemblee divise, come si era fatto per tanti secoli; ma rovesciando queste rancide costumanze, che i poteri si verificassero in comune senza distinzione d' ordini: che l' assemblea fosse una sola, e i voti fossero dati per testa. Invano si resistette alquanto dai due altri ordini, non immuni dalla vertigine delle teorie, e il giorno 17 di Giugno i Comuni, che così si chiamarono quelli del terzo stato, uniti ad alcuni deficienti degli altri due ordini, abolirono ogni distinzione d' ordini e si costituirono in assemblea nazionale; e il 27 di Giugno il Re stesso intimidito, avendo scritto a quella parte del clero e della nobiltà, che non s' era ancor aggiunta ai Comuni, di farlo, tutti i deputati siedono insieme confusi sulle medesime panche. La rivoluzione con quest' atto era già fatta. Il Clero avea 290 Deputati, la Nobiltà 270, il terzo stato 59.. Il terzo stato adunque, avea 40 voti di più. In tal modo il potere si ritrovava nelle mani di quelli che non avevano la proprietà: gli interessi non erano rappresentati, ma le persone: la Società aveva retrogredito al primo stato sociale, con questa differenza, che le Società che sono nel primo stato hanno una rappresentazione personale, perchè la proprietà non è divisa o è divisa equabilmente, mentre le Società avanzate, dove è introdotta la disuguaglianza della proprietà, ricevendo una rappresentanza personale vengono ad avere un fatale squilibrio fra la proprietà ed il potere, che debbe produrre in esse l' agitazione. In tal modo ricevuto nelle mani dei non proprietarŒ il potere, togliendolo dalle mani dei proprietarŒ, essi avevano con ciò assalita la proprietà stessa. Invano molti rivoluzionari protestarono di non voler assalire le proprietà: la rivoluzione le assalì di fatto, dall' istante che il maggior potere fu dato in mano di quelli, che non erano proporzionati proprietarŒ, dall' istante che fu introdotta la teoria della rappresentazione personale. Il potere tira a sè la proprietà, specialmente un potere nuovo e rapito ai proprietarŒ; poichè egli ha bisogno della proprietà per sostenersi. Per ciò egli è verissimo, che nella rivoluzione francese i principŒ non furono che il pretesto: mentre essa si può a pieno definire, chiamandola una guerra fatta alle proprietà. Basta considerarla in tutti i suoi passi perchè si veda continuamente in essa una forza, che si aggrava continuamente adosso degli antichi proprietarŒ; che prima non agisce apertamente che contro i più deboli, e poscia ancora contro i forti: sono i beni del clero quelli che prima vengono divisi; intanto i nobili sono costretti di fuggire spaventati e di lasciare le loro sostanze preda ai nuovi conquistatori: che che si dica contro agli emigrati, qualunque ingegnoso ragionamento s' instituisca, per ritorcere in loro colpa la loro infelicità, non si potrà giammai oscurare il vero, che risplenderà lucido più che il Sole agli occhi della posterità, quantunque annebbiato ai presenti da tante pestifere esalazioni. I nobili non avevano più la forza in mano da poter difendere la loro proprietà: questa forza era in mano dei minori proprietarŒ, da cui avrebbero dovuto temere, quando anche non si fossero stati per gli principŒ dichiarati loro nemici: non restava dunque ai nobili che di lasciar la preda delle lor proprietà, e di mettere in salvo colla fuga le loro persone, eccitando con ciò stesso la commiserazione ed invocando l' aiuto di potenti stranieri. Invano si fa colpa al debile di essere ricorso al forte per sorreggersi contro i colpi degli oppressori: questo non era che una conseguenza naturale della debolezza a cui s' erano ridotti; non fu difficile spogliare i ricchi indeboliti, spaventati, fuggiti. Successo in tal modo un grande squilibrio tra la proprietà e il potere, lo stato delle cose pubbliche era tale, che il diritto al potere non nasceva già dalla proprietà, ma dall' abilità personale. E come questo potere, portava seco il dispotico dominio delle proprietà, poichè non v' era più nessuno che le potesse difendere; per ciò tutti quelli che si credevano d' avere dell' abilità sufficiente, dovevano disputarsi in nome dei principŒ proclamati un governo, che di sua natura era così ricco quanto era ricca la nazione. Di che dovevano nascere quelli accaniti dibattimenti e quelle atrocità orrende che nacquero. A chi si poteva appellare nel contrasto delle abilità personali? alla forza; secondo la legge del primo stato della Società, nel quale prevale la forza fisica. L' anarchia per ciò durar doveva fino che una forza fisica prevalente soggiogasse tutte le altre; cioè fino all' epoca dell' impero. Il comando militare doveva tener il luogo del governo civile; e non è meraviglia se Napoleone che operò questa ultima rivoluzione considerasse la forza militare come l' unico vero sostegno del suo, come di ogni altro potere 1); egli sapeva di quanto andasse debitore a questa forza. Si considerino dunque i progressi della Società nella Francia; e si vedrà, che tutta la storia conferma questa legge uscente dalla natura delle cose; che la proprietà ed il potere tendono ad equilibrarsi: 1 dei conquistatori ascendendo fino all' epoca di Clodoveo, presso il quale prevale la forza fisica, e la abilità personale, primo stato della Società. 2 noi vediamo, la proprietà influire un poco alla volta nella forma del governo civile fino ch' essa diventa una forza prevalente; vediamo il potere civile tener il luogo del potere militare e distribuirsi a quel modo stesso che si distribuisce la proprietà, prima in due stati, e poi in tre, perchè un terzo stato diventa proprietario: quest' è il secondo stato della Società che dura fino alla rivoluzione francese; ed esso è l' opera delle forze della stessa natura. La rivoluzione sostituisce alla natura la teoria, ed ecco ciò che fa: 1 Produce lo squilibrio fra la proprietà ed il potere; cioè a dire rimette in piedi il principio della rappresentazione personale, ed eseguisce questo principio col far sì che il terzo Stato dei minori proprietari acquisti un potere prevalente e quindi sia spogliato del potere civile il clero e la nobiltà, cioè i maggiori proprietarŒ. 2 Il potere civile messo nelle mani del terzo stato, e quindi resi i minori proprietari arbitri delle fortune della nazione, diventa un oggetto della cupidità di ciascuno che vuol arricchire: e d' altro lato non essendovi che una maggiore abilità personale, che fornisca in tale stato di cose un titolo per aver in mano il potere civile, tutti quelli che possono se lo contendono, presumendo di esser più abili, e d' aver teorie migliori da far valere, per le quali ognuno si vanta chiamato dal proprio genio a salvare la patria. 3 L' abilità individuale non avendo nessun tribunale che la determini si appella alla forza fisica, e la forza fisica distrugge il potere civile insieme con tutte le antiche istituzioni, e getta lo stato nell' anarchia. Qui finisce la storia della Società in Francia: la quale ha due periodi: il primo di una Società che si forma, e che comincia dal VI secolo fino all' anno 17.9; il secondo di una società che si distrugge, e che comincia il 13 giugno 17.9 fino al 1. Maggio 1.04. In quest' anno ricomincia un' altra Società, giacchè il potere militare si è legalizzato e stabilito. Ella è nel primo stato tale Società, o più tosto ritiene del primo stato, mentre è ancora prevalente la forza fisica nella Società. Ma la legge del secondo stato si manifestò immediatamente; poichè la distruzione della Società troppo rapida per distruggere le idee morali degli uomini, non era stato tanto una rapina del potere civile, quanto pel rapito potere civile una rapina delle proprietà. Delle grandi fortune erano sorte sulla distruzione delle antiche; e quelli ch' ebbero in mano prima il potere civile e successivamente il militare, non mancarono d' avere ben presto in mano anche le corrispondenti ricchezze. In tale stato di cose le turbolenze dovevano finire di lor natura, perchè era stato restituito l' equilibrio delle proprietà e del potere, ed in tal modo doveva apparire il potere civile allato del militare in equilibrio colla ricchezza e dovevano formare insieme un governo civile bensì, ma che rammentasse ancora un' origine militare. Così la rapina del potere civile fatta ai proprietarŒ avea cagionato la rivoluzione, e la rapina delle proprietà l' aveva finita; perchè aveva restituito l' ordine della natura, sebbene non l' ordine della giustizia: aveva ritornata la Società regolare, sebbene non giusta. Ciò è tanto vero che i nuovi proprietarŒ, i quali avevano cagionato la rivoluzione, erano appunto quelli che rendevano solida la proprietà nel nuovo stato di cose, perchè non si turbasse, come esperimentò Napoleone quando tornò a usare di quelli di cui avea fatte le fortune: tanto è vero, che i proprietarŒ sono quelli che usano del potere che hanno in mano, perchè le cose restino tranquille; mentre volendo fare una rivoluzione, basta prendere il potere dalle mani dei proprietarŒ ed affidarlo ai non proprietarŒ; poichè questi, un poco di mal umore che sieno, saranno tentati di metter lo stato a turbolenza. In pruova di ciò sieno questi passi del Manoscritto del 1.14 pel Baron Fain, segretario di gabinetto a quell' epoca. [...OMISSIS...] Il terzo fatto è il seguente: « Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale hanno prodotte novità politiche. » Gli economisti avendo per oggetto della loro applicazione la ricchezza potevano essere più in grado di tutti gli altri di conoscere e di fissare la legge dell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile. In fatti considerando essi la ricchezza nella sua relazione politica travidero la detta legge, ma non poterono fissarla con nettezza, perchè non era ancora stato diviso il Tribunale politico dall' Amministrazione, e la detta legge quanto vale per questa seconda parte del potere civile, altrettanto male si applica alla prima. Oltre di ciò una parte di essi non videro la cosa che imperfettamente, perchè imperfetto era il loro sistema: parlo di quelli che riguardando per unico fonte di ricchezza il terreno a questa sola specie di proprietà attribuirono i diritti politici. Egli è vero che la ricchezza industriale e commerciale dipende come da suo primo fonte dalla ricchezza territoriale. Ma non è già per questo vero, che i possessori di quelle due specie di ricchezza mobiliare, sieno in una vera dipendenza di fatto dall' arbitrio dei possessori di terreni, poichè questa dipendenza di fatto viene esclusa dall' interesse stesso dei possessori dei terreni. Come a questi non è utile ribassare l' industria ed il commercio, perchè sono i mezzi onde s' accresce il valore di ciò che produce il terreno: quindi l' esistenza della ricchezza mobiliare vien ad essere altrettanto assicurata, quanto l' esistenza della ricchezza territoriale; conciossiacchè tanto è lungi che l' arbitrio dei possessori delle terre voglia distruggere quella ricchezza, che anzi questo arbitrio stesso è quello che la incoraggia e sostiene, mentre per la stessa ragione che il ricco terriere vuol cavar molta entrata dalle sue terre, per la ragione stessa debbe volere che vi sia molta industria e molto commercio. Per ciò contro questi economisti che vorrebbero restringere la rappresentazione civile solamente alla ricchezza terriera, sta la storia delle Società civili, la quale dimostra il fatto qui sopra indicato; cioè che non solo la ricchezza territoriale tende ad equilibrarsi col potere politico, ma ben anche la ricchezza commerciale e la ricchezza industriale. Ciò che dimostrano l' istorie costantemente nelle Società civili si è, che quando esse passano dalla legge famigliare alla nazionale, e perciò dall' avere una rappresentazione personale all' avere una rappresentazione reale, che sono i due stati sopra distinti delle Società, la prima ricchezza che si manifesta è la territoriale; e solamente dopo qualche tempo, migliorando l' agricoltura e aumentando la popolazione, comincia a conoscersi la ricchezza commerciale e industriale. Prendendo a considerare la storia delle nazioni conquistatrici cioè di forse tutte le nazioni, si ritrova di più che la ricchezza commerciale e industriale tarda un buon pezzo a manifestarsi dopo la ricchezza agricola, anche perchè passa alcun tempo fino che sortano i piccoli proprietarŒ, l' origine dei quali, come abbiamo veduto, nasce dagli schiavi messi in libertà, e questi sono quelli che diventano poscia i mercenarŒ, gli uomini d' industria, i commercianti. Il progresso per ciò nelle nazioni conquistatrici è il seguente: 1 conquista, e rappresentanza personale con beni indivisi; 2 divisione di terreni, e degli schiavi fra i vincitori, possessori di latifondi: quindi ricchezza agricola , e rappresentazione della ricchezza agricola mediante i gran proprietarŒ; 3 liberazione degli schiavi, francazione dei borghi, o comuni; e quindi nascita dei piccoli proprietarŒ, e rappresentazione delle proprietà mediante il terzo stato; 4 Comparsa del commercio e dell' industrìa: e quindi della ricchezza commerciale e industriale, specialmente per opera del terzo stato: quindi rappresentazione politica, non solo della ricchezza agricola, ma ben ancora della ricchezza commerciale e industriale mediante il terzo stato , il quale viene ad acquistare con ciò una gran forza nella Società. Chi leggerà le istorie con attenzione vedrà che tutte d' accordo non danno che questi stessi risultati. Di quì avviene che la teoria degli Economisti di attribuire la rappresentazione politica al solo terreno, ha benissimo luogo; ma solo in quell' epoca nella quale non è comparsa ancora nella nazione la ricchezza commerciale ed industriale: ma la sola ricchezza agricola. Sentiamo uno istorico: [...OMISSIS...] Ma come la sola proprietà territoriale viene rappresentata, dovunque ella sola esiste, così dovunque una forte ricchezza commerciale e industriale apparisce, esercita ben tosto un peso nella bilancia politica, e spinge dirò così per intromettersi nel governo, o per altrui consenso o per forza. La proprietà commerciale e industriale viene in mano, come diceva, del terzo stato, e perciò dove questa si rinforza, la plebe acquista maggior grado d' autorità: di che nasce che le città marittime commerciali e industriali inclinino ben tosto ad un reggimento repubblicano. Le prime repubbliche d' Italia furono quelle delle coste del Regno di Napoli, fra le quali è celebre quella d' Amalfi [...OMISSIS...] Le città marittime dell' Istria e dell' Illirico, governate liberamente, Venezia e Genova, provano il medesimo. La ricchezza commerciale tanto potè in Firenze che vi dispose per buon tempo quasi esclusivamente dello stato. La forma di governo stabilita da' Fiorentini nel 12.2, e che sottosopra durò fino alla caduta della repubblica, era democratica, e composta sulla massima « « che d' una repubblica mercantile dovevano avere l' Amministrazione i soli mercanti: i membri di quella magistratura avevano il titolo di priori delle arti » » per indicare, dice il Sismondi, « « che l' assemblea dei primi cittadini d' ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. » » [...OMISSIS...] Da ciò che abbiamo detto si può vedere, che quella stessa ragione per cui la ricchezza terriera viene ad influire nel governo, vale per la ricchezza mobiliare. Il governo si può considerare come una forza, che regolando la modalità dei diritti li difende e li accresce: questo è l' uso legittimo di una tal forza: ma in mano agli uomini havvi di fatto anche un abuso di questa forza, e in tal caso il governo si può considerare come una forza di tirare a sè un maggior numero di diritti. Giacchè questo secondo effetto che si può ottenere dall' autorità governativa è comune egualmente ai ricchi ed ai poveri; perciò rimane che quelli sieno più interessati di tirare a sè il governo, i quali hanno più diritti da difendere e da promuovere. Per ciò i poveri non possono ambire il governo se non per una malvagità, cioè a dire per la voglia di tirare a sè le proprietà, mentre i ricchi vogliono tirare a sè il governo per difendere col medesimo i proprŒ diritti da chi vorrebbe rapirli e per amministrarli utilmente: il qual desiderio è giusto e secondo natura; mentre il primo è ingiusto e contro natura, e perciò non può essere nè così universale nè così forte; tanto più che i poveri non hanno i mezzi da farlo valere. Questo avviene nel fatto; ma considerata la cosa nella teoria si verifica il medesimo. Supponiamo che il Governo sia in mano di persone non proprietarie: in tal caso egli può essere giusto , purchè le persone non proprietarie lo abbiano ottenuto per alcuno di quei titoli giusti che abbiamo enumerati 1); ma egli non sarà tampoco regolare ; poichè non esisterà in esso l' equilibrio tra la proprietà ed il potere. Or avranno essi diritto i proprietari di voler entrare a parte del governo e spogliarne le persone governanti non proprietarie? Non mai: questo è quello che si debbe rispondere se si parla di diritto. Ma se si chiede che cosa avverrà probabilmente nel fatto, si potrà rispondere con una fondata conghiettura, che un tal governo non durerà lungamente: poichè le persone governanti hanno bensì il diritto di governare, ma il loro diritto rimane indifeso e non garantito per mancanza della proprietà. Che cosa dunque succederà? Se le persone governanti vengono prese in sospetto d' ingiustizia e di malvagità, i proprietarŒ si ribelleranno e chiederanno di governar essi. E sebbene sia difficile che un tal sospetto non nasca sulle persone governanti, supponiamo tuttavia, che la loro riputazione sia tale, che le salvi da ogni sospetto d' iniquità. In tal caso le persone governanti saranno imbarazzate a governar con sapienza; poichè ci vuol una sapienza sovraumana a regolare la modalità di tanti diritti nel miglior modo, senza conoscer da vicino l' Amministrazione dei diritti stessi, o per dir meglio senza amministrarli. Non governando adunque con tutta la sapienza avverrà che i proprietarŒ in danno dei quali cadono i difetti dell' Amministrazione, se ne risentano, e sdegnino di essere in tal modo amministrati: e ciò tanto più, quanto più hanno di lumi, per li quali sieno in caso di conoscere i difetti del governo. Ma facciamo una supposizione ancora più larga, cioè supponiamo, che un governo non proprietario (cosa al tutto impossibile) governi con perfetta sapienza. Cercheranno meno per questo i proprietarŒ di entrare nel governo? non già, poichè non basta che il governo operi con tutta sapienza: bisognerebbe che i proprietarŒ fossero di ciò a pieno persuasi. Ora quando sarà mai possibile, che i proprietarŒ si persuadano, che la modalità dei proprŒ diritti sia meglio amministrata da altri che da se stessi? Ma dato anche ciò rispetto ad un particolare governo, non saranno essi solleciti di assicurarsi anche per il futuro? E qual miglior garanzia di quella di essere essi stessi quelli che dispongono delle cose politiche? Il perchè si può ragionevolmente dire, che i proprietarŒ avranno sempre una tendenza ad intrudersi in quel governo dal quale essi fossero esclusi, e che la Società perchè sia quieta conviene non solo che sia giusta , ma ben ancora che sia regolare , altramente il fatto pugnerà col diritto fino che le leggi naturali non si trovano d' accordo colle leggi morali. Noi abbiamo ricapitolato questo argomento per far osservare, che egli si applica ad ogni sorta di proprietà e che non solo la ricchezza terriera, ma ben anche la ricchezza mobiliare, tende di sua natura ad intromettersi nel governo. Egli è quello, come dicevamo, che le istorie mostrano costantemente. Appena che in una nazione comparisce la ricchezza mobiliare, e cresce ad un certo grado si vedono altresì le contese politiche dei mercatanti possessori della ricchezza mobiliare coi nobili possessori della ricchezza territoriale. I nobili sono gli antichi posseditori del governo: i mercatanti sono i nuovi proprietarŒ, la cui esistenza ha reso irregolare la forma del governo: perchè ha introdotto nella società una proprietà non rappresentata: quindi tendono a conseguire la rappresentazione della medesima, perchè la necessità vuol di nuovo regolarizzarsi. - Ma i proprietarŒ delle terre trovandosi già in possesso del governo, se in vece di essere persuasi o trattati con arte dai mercatanti, vengano assaliti violentemente, allora nasce una lizza per la quale l' impulso naturale, che tende a regolarizzare la proprietà si perde di vista: i proprietarŒ delle terre, ossia i nobili 1) credono d' essere ingiuriati dal partito opposto, e sono veramente, o sempre poi ve n' ha tutta l' apparenza. Quindi non si contratta più fra questi due partiti: non si cerca più concordemente il bene dello stato: ma invece di ciò si tende a screditarsi a vicenda: i mercatanti rinfacciano ai nobili il loro orgoglio, i loro vizŒ, la loro ambizione, l' avidità la voglia di dominare, e di tiranneggiare: i nobili all' incontro rinfacciano ai mercatanti l' insubordinazione, la voglia di disordinare la Società, lo spirito sedizioso, il disprezzo delle potestà costituite da Dio, il democratismo, l' empietà. In tal modo non è più la forza naturale delle cose che opera, ma le sollevate passioni, e l' accanimento delle due parti passa ben presto ogni termine. In tale stato di cose nè l' una nè l' altra parte pensa di dare allo stato un equilibrio fondato sull' equità, ma l' una parte non pensa che a divorar l' altra s' ella può; e ciascuna parte maneggia d' avere in mano il governo, non più perchè lo consideri come una forza di proteggere e di promuovere tutti i diritti; ma perchè lo considera come una forza di proteggere e d' accrescere i diritti proprŒ, distruggendo quelli della parte contraria. Tale è la celebre ed infelice istoria delle repubbliche italiane del medio evo. Ascoltiamo ancora qualche passo dell' istorico delle medesime. Abbiamo veduto che la forma di governo stabilita in Firenze nel 12.2 fu interamente mercantile, giacchè i sei Priori delle Arti eran quelli che componevano la signoria. Ma l' esclusione dei gentiluomini ben presto andò più avanti. [...OMISSIS...] Lo stesso caso veggiamo avvenire in Siena. [...OMISSIS...] Qual fu l' effetto di questa forma di governo nella quale non entravano che mercanti, essendo esclusi assolutamente i nobili? Udiamolo: [...OMISSIS...] In Arezzo era successo il medesimo. Ma non durò per una controrivoluzione, che tornò i gentiluomini insieme col partito ghibellino al reggimento della città. [...OMISSIS...] I nobili esclusi dal reggimento dovevano risentirsi; ma in Firenze non avevano forza di reagire per le loro discordie. Non restava loro che disprezzare il nuovo governo, e sdegnare di sottomettersi ai mercanti. Questo disprezzo il manifestarono con un impotente orgoglio, col ricusare di sottomettersi ai Tribunali, di fare ciò che volessero e di proteggere gli scellerati con che non ottennero se non che fosse raggravata l' oppressione sopra di loro, e che nascessero gli ordini posti da quel severo Giano della Bella, che di gentiluomo s' era fatto popolano. Egli arringò il popolo, ed ottenne una commissione per rendere la signoria più forte mediante il potere militare contro dei nobili. [...OMISSIS...] Il Macchiavelli paragona le dissensioni di Firenze fra il popolo ed i nobili a quelle di Roma, e le distingue dai loro diversi fini così: [...OMISSIS...] E chi vorrà sapere la ragione di queste differenze fra le dissensioni di Roma e quelle di Firenze, anzi di tutte le repubbliche del medio evo, le troverà in questo: che il popolo di Roma fino dal principio ebbe proprietà, e parte corrispondente nel governo; sicchè non si trattava in quelle dissensioni che del modo di fare le parti giuste fra due padroni, o di rendersi scambievolmente giustizia. Presso i Romani non si conobbe si può dire altra ricchezza che la territoriale, e per questo prima che cadesse il governo nel dispotismo militare, le tribù rustiche erano le più stimate, e le arti meccaniche vi erano temute: il commercio non vi era promosso 1); e nessuno forse si è accorto della ragione politica di questa umiliazione, in cui si tenevano l' arti e i commerci. Dagli antichi proprietarŒ e governatori della cosa pubblica si temeva che non comparissero dei proprietarŒ di nuova specie, che aspirassero all' Amministrazione dello stato. All' incontro nel medio evo le dissensioni successero così. Le proprietà come pure il governo era interamente in mano dei nobili, e il popolo non esisteva nè come proprietario, ne' come amministratore delle cose pubbliche: egli era schiavo dei nobili. Dopo il mille nacque la sua liberazione per quelle cagioni che abbiamo dette, in tal modo comparve una popolazione libera: il primo passo che fece questa popolazione fu di diventar proprietaria: il secondo passo fu di presentarsi agli antichi padroni, pretendendo di avere anch' essi parte nel governo. La questione adunque non riguardava come a Roma nel doversi fare le parti eque di un bene posseduto in comune: ma si trattava di torre questo bene a chi per innanzi tranquillamente lo possedeva, e di farselo cedere per amore o per forza. Quelli che si presenta per avere la roba altrui non si presume già che si contenti di una sola parte, ma di ottenerne più che può; giacchè non è la giustizia ciò che lo conduce ad operare, ma è l' avidità. La questione in questi termini prendeva nelle opinioni quel carattere che ha la pugna tra il viandante e l' assassino: l' uno e l' altra non mira a meno che a sgozzarsi. Sembra che la popolazione schiava, a fare il primo passo, cioè ad acquistare la libertà e la proprietà, impiegasse due secoli, e che nel secolo XIII, facesse il secondo, cioè pugnasse per l' acquisto del potere politico. 2) [...OMISSIS...] In un secolo si resero prevalenti anche nei governi, sicchè come vedemmo negli ultimi vent' anni del secolo XIII i mercatanti ebbero la somma delle cose pubbliche, esclusa la nobiltà. La lotta delle parti che sostiene, anche presentemente, il governo d' Inghilterra non è parimenti che una lotta d' interessi, la ricchezza industriale che combatte colla ricchezza territoriale. Dovunque le forze della natura hanno libera azione, questa lotta si debbe manifestare, e non può finire se non allorquando tutti i membri della società sieno convenuti nell' equità dell' Amministrazione da noi proposta, nella quale ciascuno si appaghi di avere un voto corrispondente alla sua ricchezza di qualunque genere questa sia, o territoriale o mobiliare. 2) Per altro l' istoria della società civile in Inghilterra presenta gli stessi fatti che l' istoria della società civile in tutti gli altri paesi d' Europa: anche colà si vede passare la società da una rappresentanza personale ad una rappresentanza reale: e datare da questo secondo stato della società l' epoca di una esistenza civile non più solo militare, ma di una costituzione formata: anche colà la rappresentazione reale che dà la forma al governo subisce le stesse modificazioni della ricchezza: prima non esiste che una ricchezza terriera divisa in grandi masse, e quindi non hanno mano nel governo che grandi signori: anche là vengono poi francati gli schiavi e quindi sorgono i piccoli proprietarŒ; quindi ancora s' introduce nelle assemblee politiche il terzo stato: anche là comparisce in appresso accanto della ricchezza territoriale la ricchezza industriale e commerciale: ed anche là questa ricchezza dimanda ben presto ed ottiene di aver parte nel pubblico reggimento, non senza sdegno e reazione della nobiltà, sicchè queste due ricchezze territoriale e mobiliare seguitano a guardarsi pure come due rivali. I recenti democratici francesi come pure i radicali inglesi hanno fatto di tutto per contraffare la storia d' Inghilterra, e per trovare nelle antiche croniche qualche traccia di rappresentazione personale: ma i loro sforzi non hanno fatto che mettere in maggior evidenza la natura della Costituzione Inglese fondata sulla ricchezza. « « Ogni rappresentazione, » dice Arturo Joung, «che ebbe luogo negli antichi tempi, fu una rappresentazione di proprietà non mai di persone »1) » Riguardo all' Inghilterra, a confirmare ciò, egli cita l' opinione dei più riputati scrittori inglesi. Il dottor Squire nel suo esame della Costituzione Inglese dice [...OMISSIS...] Così l' Inghilterra dunque come gli altri stati d' Europa vide i piccoli proprietarŒ ascendere al governo nel secolo XIII ed avere adoperato i due secoli precedenti per acquistare la libertà e la proprietà; giacchè « « dal libro dei registri Doomsday7Boock apparisce che l' Inghilterra era piena di villani e di schiavi al tempo di Odoardo il Confessore (1066). » » Non si può parlare con più mal senso delle modificazioni che Odoardo I ha dato alla Costituzione inglese di quello che abbia fatto il Sig. Raynal nella sua Storia del Parlamento d' Inghilterra . Il suo modo di parlare manifesta la mancanza dei principŒ di una vera politica, se non forse dei principŒ di qualunque politica. Dopo aver detto che montando Odoardo sul trono aveva dissimulato le usurpazioni fatte dai Comuni nella sua assenza, che poi, quando si credette bastevolmente amato e temuto, tolse a ricuperare i diritti del trono, cominciò a regnare senza parlamento, e senza dar bada ai privilegŒ della Gran Carta, impose egli stesso dei sussidŒ straordinarŒ, chiama questo partito, preso dal re, generoso , e non gli fa altra colpa se non ch' egli non avea esaminato innanzi s' egli aveva un carattere abbastanza fermo contro gli ostacoli, le pretensioni orgogliose, e il genio altiero dei suoi popoli. [...OMISSIS...] Non è così che si debba portar giudizio della condotta di Odoardo, dove la si riscontri coi principii d' una savia politica. I diritti del trono di Odoardo saranno stati incontrastabili; ma non è già per questo che egli li dovesse ostinatamente difendere. La costituzione della società era giusta come nel secolo precedente; ma al tempo di Odoardo, rimanendo giusta, cominciava a rendersi irregolare; mentre erano comparsi recentemente dei corpi di persone libere quali erano i Comuni, che pur nel governo politico non erano rappresentate. Non è dunque da chiamar generoso il partito preso di difendere a tutto rigore i diritti del trono: ma piuttosto si debbe lodare Odoardo per la sua moderazione nell' aver desistito dal conservare a rigore l' antica costituzione, nel cedere qualche cosa per rendere regolare la società: è da lodarsi per la sua saviezza nell' avere assecondato la legge della natura e nell' avere riguardato le usurpazioni dei Comuni piuttosto come uno sforzo della società, che voleva rimettersi in equilibrio, che come un peccato dell' umana perversità. Il suo partito fu generoso, perchè rimise dei diritti proprŒ, perchè la costituzione dello stato riuscisse più solida: il suo partito fu anche avveduto, poichè è regola certissima di prudenza di non volere ostinatamente « opporsi ad una resistenza che nasce da una legge della natura delle cose, e non dagli uomini ». Il dire che ciò nacque più da timidità che da saviezza, non toglie la verità delle cose dette, non toglie che se fosse stato sul trono inglese un principe o troppo tenace del sommo diritto, o troppo presuntuoso delle sue forze, non avesse operato assai peggio, e per lo meno ritardata la perfezione della società in Inghilterra. Invano Odoardo più tardi tornò al pensiero di riprendere i diritti ceduti: la legge della natura la vinse, e la costituzione data, appoggiata sulla medesima, vie più si confermò. Il Sig. Raynal fu spettatore delle conseguenze funeste della rivoluzione francese, vide il frutto dei principii ch' egli stesso avea pubblicati, e ne fu inorridito, manifestando il suo orrore colla Lettera che scrisse il 31 maggio 1791 all' Assemblea costituente e coll' opuscolo degli AssassinŒ e Furti politici . In quest' ultimo libretto si riscalda contro le confische e mostra come il toccare la proprietà è lo stesso che il sovvertire la società intera: vede come un fatto generale, attestato da tutte le istorie, « « che le nuove divisioni di terreno quando non sono liberamente fatte e col consenso del primo proprietario, non produssero che dissensioni orrende e guerre civili, sempre collo stabilimento di qualche tirannia terminate: » » parla contro le leggi agrarie, ed espone i sentimenti di Cicerone sulle medesime, che le riguardò sempre come il mezzo dei sediziosi per conturbare l' ordine pubblico. Quest' era quanto vedere la relazione che la proprietà ha costantemente col potere civile, per la quale relazione non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile: questo era un andar vicino a conoscere la natura della società civile. Qual passo mancava per arrivare a ciò? quello d' invertere l' ordine della proposizione: e dopo d' aver detto: non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile; dire parimenti: non si può toccare il potere civile senz' alterare la proprietà. Come alzar la voce contro le confische ed i furti politici, come gridare contro l' alterazione delle proprietà particolari, mentre prima si ha dato licenza, si ha esortato a metter le mani nel potere civile? Ella è una contraddizione quella di voler che il popolo metta le mani nel governo, e che poscia le raffreni dalle ricchezze dei privati: egli è un pretendere una virtù eccessiva e soprannaturale dagli uomini: voi date loro tutte le occasioni e gli incentivi di fare il male, e poi intimate loro la più severa morale. « « Oggi ricompaio come un' ombra di me stesso, » dice il Sig. Raynal, «non per avvertirvi di alcuni errori in politica, ma per rimproverarvi di molti delitti in morale » ». Non è più il tempo di rimproverare i delitti di morale ad una nazione la quale ha precedentemente guastata la sua politica: gli errori in politica sono appunto quelli che tirano seco i più enormi delitti in morale: chi ha predicato quelli si è reso colpevole anche di questi. Così il Sig. Raynal si è dimostrato una testa riscaldata e superficiale più tosto che un uomo cattivo, come tutti quelli che avendo contribuito pei loro falsi principŒ politici alla rivoluzione francese, quando poi videro che tutto andava a ruba, e a sacco, e che la proprietà era altrettanto mal sicura quanto la vita in mano degli assassini, si scusarono con dire ch' essi non avevano punto intenzione che fossero manomesse le proprietà; ed invece di riconoscere la causa di questi mali in un vizio intrinseco degli stessi principŒ politici, si contentarono di trasformarsi subitamente da politici in moralisti, e di declamare contro l' umana perversità: contro questa perversità che essi stessi avevano suscitata. I principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione da noi altrove esaminati mi chiamano a far osservare in fine di quest' articolo, la relazione che passa fra la Legge della società famigliare e la Legge della società civile; e a sciogliere nello stesso tempo l' obiezione che si suol fare contro di questa coll' esempio degli Stati Uniti d' America. La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società famigliare abbiamo detto consistere nell' equilibrio fra la popolazione e la ricchezza . La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società civile diciamo consistere nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile o propriamente parlando il potere amministrativo. Si vegga ora la stretta relazione fra queste due Leggi. La Legge della Società domestica può essere alterata in due modi, per difetto di popolazione, e per eccesso . Se si trova alterata per difetto ne patisce la famiglia ; perchè essa non ha una forza proporzionata alla sua ricchezza sicchè questa è in pericolo. Non così nello stato di Società civile; perchè la società civile s' incarica essa stessa di difendere la ricchezza della famiglia; giacchè le famiglie coll' entrare nella Società Civile hanno mutato le vie di fatto nelle vie di diritto, e se questo non basta hanno rinunziato alla forza privata, prendendo in difesa dei proprŒ diritti una forza comune e pubblica. In tal modo la disuguaglianza proporzionale colle ricchezze della popolazione nelle famiglie è un pericolo di pubblica inquietudine che vien5 tolto o certo scemato coll' Istituzione della Società civile, nella quale non si considera più la forza famigliare, perchè riesce infinitamente piccola rispetto alla forza nazionale istituita per difesa della ragione comune. Ma non si può fare il medesimo discorso dell' alterazione della Legge famigliare che nasce per eccesso di popolazione. Questa popolazione che eccede la ricchezza delle famiglie, e che forma la classe dei poveri, è quella che ricade sulla società civile, come abbiamo veduto nel primo libro, e che la mette in pericolo. Posciachè la popolazione povera cresciuta a gran numero forma una forza considerabile, perciò in ragione che questa popolazione sarà maggiore essa potrà più facilmente assalire quelli che hanno il potere civile e tirarglielo dalle mani. In tal caso la povertà guidata dai facinorosi è quella che spesso altera la Legge della Società civile cioè l' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile . La relazione adunque fra la legge della società domestica e la Legge della Società Civile consiste in questo che se la prima si altera per eccesso di popolazione tale alterazione prepara e facilita l' alterazione della seconda. Ora i principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione sono al tutto falsi: egli non conosce il male dell' eccesso: d' altro canto il suo diritto di natura incoraggia la popolazione povera a nutrirsi colle altrui sostanze, dando per primo diritto all' uomo quello di vivere, senza ben limitarlo colla legge della proprietà che ho sviluppata, la quale obbliga il povero a non vivere dell' altrui se non nell' estremo bisogno, e quand' egli non abbia nè col suo lavoro, nè con altro mezzo onesto, via di procacciarsi l' alimento. Perciò il vero diritto di natura obbliga i poveri dal temperarsi nella generazione dei figliuoli, mentre il principio del Sig. Raynal incoraggia la popolazione senza limite alcuno, e senza riflessione portata sulle sue conseguenze. Il Sig. Raynal dunque con insegnare l' aumento indiscreto della popolazione prepara nella società una turba di gente, che, stimolata dai bisogni, è disposta ad ogni occasione d' impossessarsi del potere civile per impossessarsi quindi delle proprietà. I principii dunque del Sig. Raynal menavano appunto ai furti politici, contro a cui invano ultimamente declamava. Aveva egli diritto quest' uomo alla vista degli orrori della rivoluzione, frutto dei principii che avea predicato in tutta la sua vita, di sostenere ancora il suo tuono di filosofo e di maestro dei popoli scrivendo: [...OMISSIS...] Era passato il tempo degli avvisi: non era più la stagione di moralizzare sulle conseguenze dei proprŒ principŒ: bisognava riconoscere d' avere sbagliato i principŒ stessi, d' essere stato non già un filosofo, lume delle nazioni, ma un cieco caduto nella fossa coi ciechi da lui condotti. Noi abbiamo veduto che i proprietarŒ non sono mai quelli che amino i turbamenti politici, perchè temono di perdere nei medesimi le loro proprietà: che all' incontro quelli che nulla possedono amano che le cose sieno mutate, perchè sperano d' acquistare nella mutazione: che perciò se il potere civile sarà nelle mani dei proprietarŒ essi lo useranno a tener le cose ferme nel loro stato: mentre se sarà in mano dei non proprietarŒ essi lo useranno a mutarle. Contro di questo argomento si accampa un sofisma pernicioso di Rousseau che fu poi messo in bocca dal Sismondi alla parte dei mercatanti aspiranti al civile reggimento: La ricchezza, dice Rousseau, è la madre della schiavitù; poichè i ricchi per non perdere i loro beni si rendono facilmente servi di chi loro comanda. Il Sismondi restringe quest' argomento alla ricchezza territoriale; poichè non potendosi questa specie di ricchezza nascondere e sottrarre agli eserciti, essa, messa in pericolo, rammollisce alla servitù l' animo del padrone che non vuol perderla. Io accordo a Rousseau che il selvaggio privo di bisogni, perchè privo di desiderŒ, preferisca la sua libertà corporale e la sua vita ferina, a tutte le ricchezze del mondo; giacchè nè sente nè conosce i beni di una vita comune e ordinata. Ma mi sia lecito di protestare, non essere mio intendimento di far una teoria sociale per li selvaggi di cui non hanno bisogno. Scrivendo dunque per gli altri uomini tutti come sono, noi veggiamo per un fatto costante ed universale che il povero ama di acquistare della ricchezza, e che è egli che si sottomette alla servitù e fin anco alla più obbrobriosa schiavitù prima per vivere e poscia per arricchire. Il fatto adunque è precisamente l' opposto di quello che Rousseau ci reca in prova della sua teoria; e la differenza sta quì: che egli l' ha osservato nei selvaggi, e noi l' abbiamo osservato in tutti gli altri uomini: nei selvaggŒ cioè nella porzione del genere umano degradata egli ha osservato, che l' amore della libertà individuale fa loro disprezzare la ricchezza, ossia tutti i beni della vita civile: in tutti gli altri uomini noi abbiamo osservato succedere un fatto contrario, cioè che l' amore della ricchezza o sia dei beni della vita civile fa disprezzare e sacrificare la libertà individuale. Quale di queste due specie di uomini ha ragione nel suo giudicio? la specie degradata allo stato quasi dei bruti, o tutto l' altro uman genere colto? Se non vogliamo ricavare la risposta a questo quesito dal confronto delle due autorità che portano sulle cose giudicii così opposti, ricaviamola da un' altra osservazione. E` certo che il selvaggio non è in istato nè di sentire nè di giudicare dei vantaggi della vita colta e civile. Gli altri uomini all' incontro che per godere i beni di questa vita colta e civile sono contenti che venga limitata la loro libertà individuale, possono fare il confronto di tutti due questi stati; poichè tutti due li provano. I due giudicŒ adunque non sono di egual valore, poichè il selvaggio preferisce la libertà individuale, perchè non conosce nè è in caso di conoscere altro; e gli altri uomini preferiscono i beni della vita colta, perchè sono in caso di gustarli e di conoscerli. Ma che giova tutto questo discorso? Nulla monta chi abbia ragione dei due al nostro proposito: si tratta di sapere se tutto il genere umano debbe esortarsi a fare la vita dei selvaggi: si tratta di sapere, se a ciò sarebbe possibile di persuaderlo: si tratta di sapere se nel genere umano, il quale non si sia ancora reso selvaggio, esista questo fatto costante, che preferisca cioè la ricchezza, o sia i beni della vita colta alla libertà individuale. Se questo è un fatto costante ne verrà in conseguenza, che sia altresì un fatto costante, che la gente povera sia assai più arrendevole alla servitù che la gente ricca; che perciò non sono mai i ricchi quelli da cui si debba temere la servitù, ma bensì i poveri, i cui animi sono domati dal bisogno, e comperati con facilità da promissioni di ricchezze. Egli è vero che se un capitano minaccia di devastare le terre dei ricchi, questi prima di venire ad una guerra, nella quale le loro ricchezze vanno a pericolo, accetteranno delle condizioni gravose. Essi ricevono queste condizioni per quel fatto stesso di tutta la parte colta dell' umano genere che dicevamo, cioè perchè preferiscono la ricchezza ad una libertà illimitata: questo fatto non è possibile di mutare, e su questo fatto, come dicevamo, il politico debbe fondare l' organizzazione della società. Or dunque crederassi di evitare a questo supposto disordine col dar in mano il governo alla gente povera? non già: poichè per quello stesso fatto ne verrà che questa gente povera userà del governo per farsi ricca, e per coprire le sue usurpazioni contratterà se fa bisogno anche coll' inimico della patria: lo desidererà, lo chiamerà. Gli usurpatori nell' interno dello stato hanno sempre avuto bisogno dei nemici esterni per sostenersi. D' altro canto se potranno compire la loro usurpazione senza bisogno di esterno soccorso, questa gente povera che governa sarà divenuta la proprietaria: e saremo tornati in sullo stato di prima. Fino che si parla di una nazione che ha dei grandi terreni, questi o bisognerà che restino incolti; il che è tanto impossibile, quant' è impossibile persuadere all' uman genere colto di farsi selvaggio; o pure bisognerà che sieno di qualcheduno; ed in tal caso giova che chi li possiede abbia nelle cose pubbliche proporzionata influenza. Se si parla poi di nazione al tutto povera, essa avrà vantaggio benissimo d' una certa libertà energica che la compenserà della sua povertà. Ella dovrà giovarsi di questo vantaggio; il legislatore suo particolare dovrà farne conto: ma le massime politiche, che varranno per essa non si dovranno giammai credere i fondamenti di una politica generale. Dopo queste considerazioni sulla povertà e sulla ricchezza in un rispetto politico considerate, si può convenire col Sig. Sismondi, che la ricchezza mobiliare si sottrae più facilmente alle minaccie degli inimici della patria: ma non avviene già per questo che sia alla patria una garanzia maggiore, che non i terreni, amore dei proprietarŒ. Dopo di ciò è facile sciogliere l' esempio che ci recano in favore della rappresentanza personale di un recente governo quale è quello d' America. In una nazione che comincia, in cui le proprietà sono presso a poco eguali, come sarebbe in una nazione conquistatrice che divida in porzioni eguali il suo terreno, la rappresentanza reale si confonde colla personale, e perciò essa non fa danno nella nazione. Sebbene nell' America vi sieno delle grandi e delle piccole fortune, tuttavia non v' è quella sproporzione che, come dicevamo, è la più pericolosa, cioè quella che consiste nell' esservi accanto dei proprietarŒ un gran numero di miserabili, come si trova in tutte le nazioni d' Europa; perchè vi è grand' abbondanza di terreni, e relativa scarsezza di popolazione. Il solido pensatore Arturo Joung dopo aver recato un passo dai CommentarŒ sulla Costituzione americana del Sig. Wilson, nel quale dice che in quel governo il popolo può tutto sopra la costituzione, tanto di fatto che di diritto, in questo modo si esprime: [...OMISSIS...] Finalmente osservo che gl' Inglesi si sono più avvicinati di tutti gli altri a conoscere la vera teoria della società civile. Prova ne sia la bilancia territoriale di Harrington, colla quale stabilisce la proporzione de' terreni colle forze della famiglia. Questo politico sarebbe stato in caso di dare la vera idea della società civile, se non si fosse limitato a considerare la sola ricchezza territoriale, se avesse saputo distinguere il Tribunale politico dall' Amministrazione, e se avesse avuto la nostra esperienza. A conferma di ciò che ho detto contro Rousseau circa la relazione della libertà colla proprietà soggiungerò alcuni aforismi di Harrington, che conferma il fatto da me osservato nell' uman genere colto. [...OMISSIS...] La potestà amministrativa della società non è mai affermata nelle mani di quelli che l' hanno ottenuta, se questi non sono i proprietarŒ. V' è però un caso, in cui lo squilibrio fra la proprietà ed il potere amministrativo si mantiene per lungo tempo, e questo è il caso del principato assoluto, unico caso somministrato dalla storia. Per ciò il principato assoluto è il più saldo fra tutti quei reggimenti nei quali si trova squilibrio fra la proprietà ed il potere, per cui lasciando tutti gli altri stati di squilibrio, i quali anzi che veri reggimenti non sono che fluttuazioni della società, mi fermerò a dimostrare il fatto enunciato nel reggimento del principe assoluto. Sembra che le teorie intorno al principato dei giureconsulti, sebbene ancora incerte, si riducano a due. Alcuni considerano il principe come la persona che ha ottenuto il governo della società civile per modo che è divenuto sua proprietà; sicchè nissuno e neppur la nazione stessa può toccarla senza violazione d' un sacro diritto. Alcuni poi considerano il principe come il supremo magistrato della nazione, nel qual caso il diritto di governare resta una proprietà della nazione, ed essa lo esercita mediante il principe come mediante un suo ministro, o vero impiegato. Per quante prerogative riceva questo ministero, quantunque sia egli dichiarato infallibile, inviolabile ecc. egli non muta di natura, ma resta il primo officio dello stato, la prima magistratura. Solo nel primo caso il principato è un potere assoluto, mentre nel secondo è un potere delegato. La questione che si agita fra i giureconsulti, che seguono queste due teorie, sebbene sia antica, duri tuttavia, e vorrà probabilmente ancor durare, tuttavia è una misera questione, che nasce per l' equivoco che produce un vocabolo. Il vocabolo principato è quello che produce l' equivoco; poichè si applica a due sorta di reggimenti diversi, i quali per parlar chiaro e senza fallacia, debbon esser nominati con due parole. Non si debbe dimandare che cosa è il principato, e quindi questionare se egli sia un potere assoluto o delegato. Col proporsi quella dimanda già l' errore è commesso; poichè essa suppone che colla parola principato si esprima una cosa sola. Non si questioni adunque sulla definizione di quella parola equivoca, ma si cominci a stabilire, che in una nazione può accadere che una persona tenga il primo posto e governi di fatto in due maniere; cioè o autorizzata da un diritto proprio, o come esercente un diritto altrui per delegazione del proprietario. Nel primo caso si dica ch' essa è un principe assoluto , nel secondo che essa è un principe delegato . E` vero che nell' un caso come nell' altro nella società non si trova che una persona che governa: ma i poteri di questa persona nell' un caso e nell' altro sono ben diversi. Perciò invece di far una domanda sola: Che cosa è il principe? se ne facciano due: Che cosa è il principe assoluto? Che cosa è il principe delegato? Rispondendo alla questione così divisa, la questione è svanita. Fissate queste due forme di governo, si debbe passar ad applicarle. A tal fine non è bastevole di sapere, che quello stato a cui si vogliono applicare è governato a principe; ma bisogna di più osservare se sia governato a principe assoluto o a principe delegato: e questo rilievo non si fa, che esaminando storicamente i titoli della persona o della casa reggente. Egli è dopo questa verificazione che si possono definire i diritti scambievoli dello stato e del reggitore. Se si fosse proceduto con quest' ordine logico si avrebbero risparmiate innumerevoli dispute e discussioni. Abbiam dovuto fissare l' idea del principato assoluto per chiarezza del discorso: ora dobbiamo noi verificare questo fatto: che « trovandosi nel principato assoluto, unico amministratore della società, lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile; esiste una tendenza di queste due cose a mettersi in equilibrio o col scemare l' autorità politica al principe o coll' accrescergli le sue ricchezze, o finalmente coll' attribuirgli per finzione quella proprietà, che di fatto non possiede, e che gli è necessaria pel sostenimento della sua autorità. Il principato delegato, specialmente fornito di prerogative che lo avvicinano all' assoluto, come sarebbe dire la inviolabilità, e la ereditarietà ecc. sebbene più remotamente dimostra lo stesso fatto che il principato assoluto. Questa fu la prima cosa di cui Dio ammonì gli Ebrei, quand' essi vollero un re. Egli comandò a Samuele di predir loro ciò che porta con se la dignità reale, cioè la tendenza di equilibrare questo potere personale con altrettanta proprietà. Ecco come Samuele si espresse: [...OMISSIS...] Questo non è altro che predir loro la legge della Società civile, cioè l' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: questo non è che un dire « se voi volete concentrare in un uomo solo il potere civile, sappiate che ne verrà per conseguenza che vengano a concentrarsi in un uomo solo anche le ricchezze; perchè queste due cose tendono a mettersi in equilibrio. » Se però questa legge non si verifica tante volte rapidamente, ciò nasce per la virtù e per la giustizia dei principi; i quali resistono all' impulso naturale, e preferiscono il giusto ai più grandi vantaggi: e di questi esempŒ di magnanimità sono piene l' istorie dei principi cristiani; specialmente nei secoli di mezzo quando la religione aveva su loro gran forza, e non era entrata nelle corti quella politica che tutto corrompe, e che ha finito col confondersi nella incredulità. Ma ogni qualvolta il principe assoluto sarà privo di un grado eminente di virtù e di magnanimità, cederà agli impulsi di usare l' Amministrazione che è in sue mani per tirare a sè la ricchezza, cioè preferirà il vantaggio suo proprio, e anderà male l' Amministrazione della maggiorità degli interessi. Non così però sarebbe se egli possedesse più che la metà delle ricchezze della nazione; poichè in tal caso la maggiorità degli interessi sarebbe bene amministrata. E quest' è che osserva Harrington, il quale non considera lo stato che come un' Amministrazione. Ecco due dei suoi aforismi politici. [...OMISSIS...] Egli è certamente falso il dire che ciò formi la monarchia assoluta; ma si rende vero il pensiero di Harrington, quando invece di monarchia o di governo si dice Amministrazione. In fatti supporre che il governo non sia che un' Amministrazione è un materializzarlo di soverchio. Noi crediamo che ci sia a questo proposito due errori opposti assai perniciosi: l' uno dei quali consiste nel materializzare le cose spirituali; e l' altro consiste nello spiritualizzare le cose materiali. Noi abbiamo creduto di evitarli tutti e due col guardarci bene dall' attribuire al governo l' uno solo di questi elementi con esclusione dell' altro; e quindi col considerare il governo risultante dai due poteri essenzialmente distinti, l' uno amministrativo e l' altro giudiciale, l' uno centro della forza fisica, l' altro della morale: l' uno che provede agl' interessi, e l' altro alla dignità dell' uomo, e che provedono insieme ai diritti sì reali che personali. Questa idea che acquisterà maggior luce, mediante ciò che noi diremo sul quinto fatto, è da ritenersi presente, acciocchè non sembri che noi parlando dell' Amministrazione, cadiamo nell' errore tanto comune a' dì nostri di materializzare il governo. La povertà del principe assoluto, rendendolo inetto a sostenere la potestà amministrativa, diventa la sorgente della politica falsa: la quale mette in opera tutti gli artificŒ, le simulazioni, le frodi, le perfidie, e le viltà più obbrobriose per conservare un potere di sua natura vacillante. Non si nega già che di tutti questi neri raggiri, di tutta questa arte di raffinata perversità non sia cagione l' umana malizia: certo la malizia umana è la cagione generale di tutti i mali che fa l' uomo: ma questa malizia opera più o meno secondo le occasioni che si presentano alla medesima. Non basta dunque per render ragione dei mali che avvengono al mondo ricorrere a quella causa generale: bisogna ancora indicare le occasioni per le quali quella causa ora fa più male ed ora ne fa meno. E medesimamente non basta predicare agli uomini la virtù, ma bisogna ancora aiutarli a praticarla col disporre le cose in modo che abbiano meno occasioni di far male, e più che sia possibile occasione di far bene. Ed è per questa ragione che la politica giova alla morale. Se voi provvederete che gli uomini sieno nutriti, voi diminuirete con ciò i furti: se renderete i tribunali così savi e così forti che possano amministrare pubblicamente la giustizia, voi diminuirete le vendette private: se porrete i cittadini in uno stato di avere i loro diritti difesi con modi onesti, essi non penseranno a difenderli con modi inonesti: finalmente se il principe avrà tanta ricchezza da poter sostenere la propria dignità civile, egli lascierà stare la ricchezza dei sudditi, e non avrà più bisogno di una politica tenebrosa, ma si appoggerà ad una politica leale, nobile, ed anche benevola. Il principe assoluto povero, quando anche sia onesto e rifugga da una politica scellerata, se vorrà sostenersi non potrà tuttavia a meno di prendere una politica cavillosa, o finalmente vacillante. La politica dell' equilibrio dei poteri si può dire che sia nata così. Come ella consiste nell' unirsi o coi comuni o coi nobili o col clero per abbassare le altre due classi, ella è obbligata ad avvilirsi con frequenza per mendicare il favore del suo alleato; essa diventa naturalmente sospettosa e trepidante dal momento che è sempre in dubbio di essere abbandonata dalla forza alleata, ed ha sempre da temere che l' opposizione prevalga: finalmente ella è una politica ostile, perocchè lavora sempre una guerra secreta fra i diversi poteri della nazione, ciascuno de' quali spera di soverchiare; non perchè abbia forze bastevoli in sè stesso, ma perchè maneggia un' alleanza colle forze altrui; e nello stesso tempo teme di essere soverchiato; poichè non avendo forze proprie bastevoli da sostenersi, può sempre avvenire che le forze altrui l' abbandonino. Egli è dunque una cattiva costituzione quella nella quale nessuno ha bastevole forza da difendere i proprŒ diritti. Una tale debilezza porta la strana conseguenza che ciascuno per potersi difendere cerca di mettersi sul piede di assalitore; e tutti gli animi timorosi d' essere ad ogni istante spogliati del proprio, facciano di tutto per poter prevenire ed assalire l' altrui. Ciò nasce, come diceva, quando il governo è povero, e debbe adoperare la ricchezza altrui per difendere la propria autorità. Ma all' incontro nel caso in cui il potere civile sia equilibrato colla ricchezza, allora succederà che la maggiorità nel potere civile sia congiunta colla maggiorità della ricchezza: e come la maggiorità di potere civile e di ricchezza forma una forza a cui non ve n' ha nissun' altra che possa tener fronte: quindi questa maggiorità è difesa per sè stessa, e non ha bisogno di cercare delle alleanze per sostenersi, come pure è priva di timore d' essere soverchiata. Ella dunque è priva di quella tentazione d' assalire l' altrui che nasce dal bisogno di difendere il proprio. Ha dunque una tentazione di meno: una occasione di meno da far male: è dunque questa la costituzione da preferirsi. In tutta l' Europa vi fu un tempo in cui il Monarca si unì per sostenersi col terzo stato. 1) Posteriormente in Inghilterra la nobiltà s' unì coi comuni per limitare il sovrano potere: come in Francia i comuni e la corona fecero per lungo tempo fronte alla nobiltà. In Italia dove il sovrano potere fu ben presto annullato, non cessò la pugna tra la nobiltà e la plebe, ed essendo stata di quest' ultima la vittoria, la forza italiana fu divisa in minute parti, mediante il democratismo, e quasi ridotta in polvere, fu dissipata con essa la nazione. La storia politica delle diverse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; Primo, il sovrano: 2 il clero: 3 la nobiltà: 4 il terzo stato. Osservando le diverse alleanze e aggruppamenti di questi poteri, mediante le quali si riducevano sempre a due partiti le mutue pugne, sconfitte, e vittorie; il potere umiliato, sconfitto, distrutto, ed il potere vincitore, e prevalente; si viene a render ragione delle costituzioni dei diversi stati d' Europa. La povertà del principe o sia del governo è ciò che produce tutti questi giochi di politica; poichè se il principe non arriva a sostenersi in tal modo, o pure se non perviene ad arricchirsi, egli rimane in continuo pericolo di cadere. Le costituzioni del medio evo prodotte dalla natura delle cose, e dalla docilità degli uomini nell' arrendersi a ciò che tale natura additava, senza perdersi in vane teorie, e ostinarsi nel volere che la natura obbedisca a' proprŒ sofismi, erano piantate sopra solide basi. Ma non basta che la costituzione sia buona e solida, se le azioni degli uomini non si accordano colla medesima. Perchè la costituzione si formasse bastava quasi direi una prudenza passiva: la costituzione era l' opera del tempo, veniva formata un poco alla volta dalle naturali circostanze. Ma per operare conforme alla costituzione non basta una prudenza passiva, bisogna avere dei principŒ, questi mancavano ai sovrani del medio evo, e questa mancanza portava, che colla loro irregolare condotta, lungi dal cavare i vantaggi che loro offeriva la bontà delle costituzioni, venivano a distruggere le costituzioni stesse. Erano sapienti nel fare le costituzioni, e mancavano di prudenza per conservarle. Come la costituzione veniva loro strappata un poco alla volta dalla natura delle cose, così essi la formavano pezzo per pezzo senza però conoscere i principŒ sui quali tutta intera la medesima s' appoggiava. In fatti l' errore comune dei governi del medio evo era la mancanza d' economia. Per questo errore che andava a ferire le costituzioni ne' loro visceri, cadevano i governi, ed erano frequenti le rivoluzioni. Abbiamo già sentito l' osservazione del Machiavelli, che le guerre in Italia si perpetuavano, perchè non avevano mai cura i condottieri d' impoverir l' inimico, e d' arricchire se stessi. La mancanza d' economia nei sovrani nasceva anche da un principio morale: essi erano tutt' altro che disposti a considerare il governo come un' amministrazione e l' officio di reggere come un officio di computisteria: elevati colle loro idee riguardavano la sovranità come l' officio di render giustizia e di sparger beneficenza, come un' immagine della divinità sulla terra; e quindi non sapevano conoscere degli stretti limiti alla loro generosità: consideravano come la più bella loro prerogativa quella di donar a tutti largamente. S' ingannavano nell' abbracciare questo principio, senza porvi una giusta moderazione e nell' escludere dal loro officio l' Amministrazione economica; giacchè questa avrebbe dovuto formare realmente la forza della costituzione dello stato. L' ultimo dei Carolingi non possedeva più nulla in proprio; e questa fu la ragione, perchè egli non potè più sostenere la sua dignità. I nobili sempre avidi di acquistare de' feudi, o delle donazioni, li sollecitavano continuamente dalla corona. La corona che non era ricca abbastanza per sostenersi contro de' nobili cercava di cattivarseli col dar loro ciò che chiedevano continuamente. In tal modo s' impoveriva sempre di più, e non le restava che la speranza ingannevole di esser difesa dagli altri, anzi che di aver il potere di difendersi da sè stessa. [...OMISSIS...] Si considerino ancora i passi seguenti dell' autore dello spirito delle Leggi: [...OMISSIS...] I feudi resi ereditarŒ, l' introduzione de' suffeudi, pur essi fatti poscia ereditarŒ, s' aggiunsero cagioni pure possenti d' indebolire i diritti della corona sulle proprietà. La sostituzione della terza stirpe alla seconda, non nacque se non per forza della proprietà. Si ascolti ancora Montesquieu: [...OMISSIS...] Nella mutazione della prima stirpe ebbe dunque influenza l' abilità personale, giacchè il Prefetto del palazzo era anche il capo della Milizia; ma la mutazione della seconda stirpe fu operata dalla prevalenza della proprietà. Ugo Capeto era conte di Parigi e d' Orleans; ciò che formava un possedimento molto considerabile, mentre il figlio di Luigi V non aveva nulla se non il ducato della Bassa Lorena posto fuori della Francia ricevuto dalla liberalità dell' imperatore Ottone, di cui s' era con ciò reso vassallo. Egli è ben naturale che i nobili s' attenessero a chi aveva di più che a quello che non potea più donar niente. I successori di Ugo Capeto sostennero la forza e la dignità della corona col migliorare l' economia dello stato, e col riunire i gran feudi alla corona. La stessa ragione della mancanza d' economia si può assegnare alla caduta dell' impero Germanico, il quale appunto per la mala Amministrazione si era reso ultimamente anzi un vano fantasma, che una realità. Leibnizio vedeva questa causa della sua debilezza: [...OMISSIS...] Anche lo stesso presidente Montesquieu osserva l' analogia che passa fra il regno di Francia al fine della seconda stirpe, e l' imperio germanico degli ultimi tempi. Parlando di quello dice: « « Trovossi il regno senza dominio, sì come è al presente l' Impero. Si conferì la corona ad uno de' vassalli più potenti. » » - E a proposito dei Normanni che devastavano in quel tempo il regno di Francia dice altresì: [...OMISSIS...] E` osservabile come gli Elettori dell' Imperio Germanico, dovendo eleggersi un capo, nol volevano mai troppo ricco, e questa fu la ragione per cui dopo il grande interregno si determinarono di dar la corona imperiale a Rodolfo d' Habsburg. La loro era certo una politica falsa, mentre per i privati vantaggi neglessero il bene generale della società cristiana. La caduta dell' Imperio Germanico è dovuta in gran parte ad una tale politica. D' altra parte v' era un vizio radicale nella costituzione: poichè non sono mai buoni elettori d' un principe quelli che si eleggono con ciò uno che limita il loro potere e che non lo può accrescere: quelli insomma che già potenti possono assai più amare l' indipendenza che non la protezione. Per dimostrare compiutamente il fatto enunciato mi resta a mostrare come s' inventò di supplire alla mancanza di proprietà del principe con una finzione che gliela attribuisce: dirò in appresso quanto sieno dannose tutte le istituzioni appoggiate sulla finzione e non sulla realtà. Per altro la finzione di cui parlo fu universale di tutta Europa: e sembrerebbe a dir vero strano che tanti popoli appoggiassero le loro instituzioni sopra una base così falsa se non esistesse una legge nella natura delle cose che ve li spingesse, la legge che il potere civile debb' essere equilibrato colla proprietà. Già ci si accorge che io parlo del feudalismo. Ecco come parla di questa istituzione il Sismondi: [...OMISSIS...] Per conoscere quant' era illusoria la proprietà che si attribuiva al principe sopra le terre dei feudatarŒ, basta osservare la storia de' feudi di ripresa . Si cercava di mutar gli allodi in feudi: il che si faceva donando al re la propria terra, e dal re poscia ricevendola in feudo. Ciò si faceva per i vantaggi e privilegi di cui godevano i feudi rispettivamente ai beni allodiali. Con questa mutazione di allodi in feudi si accrescevano forse le proprietà della corona? si accrescevano in apparenza: ma non già in realtà. E per provar ciò basta osservare che queste mutazioni in Francia furono più frequenti in ragione che la corona era più povera: e la ragione n' è chiara. Quanto era più povera la corona, tanto era più forte la nobiltà feudale, e tanto più perciò i proprietarŒ liberi desideravano di appartenervi. [...OMISSIS...] Il sistema feudale nacque dalla conquista, cioè dalla distribuzione delle terre conquistate fra i vincitori. In alcune nazioni però non vi fu introdotto in questo modo, ma mediante un' istituzione legale. In tal caso tutta la giurisprudenza riposava sul falso, poichè si supponevano essere state le terre in antico conquistate e divise; laddove non erano. In questo modo sembra che si sia introdotto in Inghilterra nel secolo XI. Prima però che tocchiamo questo fatto, procuriamo di render più facile a concepire il modo come una tale finzione di proprietà principesca, potesse dalle circostanze essere suggerita. Se noi consideriamo noi stessi, o vero uno de' nostri popoli colti d' Europa come si trova nello stato presente, noi non potremo già formarci l' idea del modo onde una persona poteva mettersi alla testa di un popolo semplice ancora e rozzo. Le nazioni presenti sono diventate caute e sospettose dall' esperienza, e non sarebbe già facile che ricevessero un capo che loro si presentasse per occupare un trono, o vero una supremazìa vacante, senza molti trattati e condizioni. Ciò nasce perchè la nazione vede tutte le conseguenze che può fare della sua autorità, e vuol garantirsi contro l' abuso. Ma non procede con eguali sospetti una nazione nuova e semplice; e se un uomo stimato e valoroso si mette alla sua testa, essa lo riceve come un benefattore. Essa non sa considerare ancora il governo che come un beneficio: lo considera in se stesso e non nelle sue conseguenze. Così ascesero al governo i condottieri ed i giudici dei popoli, con quella facilità con cui si prende posto in un luogo vacante, o si occupa una proprietà disoccupata. Essi non avevano che ad ispirar confidenza alla nazione col dimostrarsi forniti di eminenti qualità, e la nazione li seguiva, come chi viaggia, e non sa la strada, segue colui che gliela insegna. I due offici che essi esercitavano erano combattere e giudicare: sì per l' uno che per l' altro la nazione li riguardava come persone sommamente utili: trovando chi sapeva guidarla alla vittoria, considerava il suo capitano come l' autore della gloria e della grandezza nazionale, e trovando chi amministrava la giustizia, consideravano il Giudice come quello che conservava la pace interna e la comune sicurezza. Il buon esito delle armi, od anche la speranza del medesimo giustificava la condotta del capitano; e le ingiustizie che commetteva come giudice o per ignoranza o per arbitrio di passione pochi sapevano conoscerle nè il risentimento delle parti per cui era seguita l' ingiusta sentenza poteva muovere la nazione a sdegnare il proprio capo; poichè si trattava d' ingiustizie particolari, e la nazione considerava la pubblica tranquillità che colla amministrazione della giustizia veniva conservata, e che faceva dimenticare tutti i mali particolari. Consideriamo il capo di una nazione conquistatrice esercitante questi due ufficŒ: noi vedremo che la sua potestà è in tale stato illimitata; poichè fino ch' egli non esercita che questi due uffici, la nazione non ha cagione di limitargliela, purchè gli eserciti discretamente bene. La nazione non ha cagione di limitare la potestà governativa di questo capo fino che egli non fa qualche disposizione, la quale: 1 offenda i suoi governanti: 2 sia generale, e perciò gli offenda in massa, e non singolarmente. I due poteri di combattere e di giudicare, che sono, come dicevamo, di una natura da non offendere la nazione in massa, fino che vengono discretamente sostenuti, terminano in due altri poteri, per li quali con assai facilità si può offendere la nazione ed offenderla in massa. E questi due poteri sono: 1 il potere sulle terre conquistate, e 2 il potere legislativo. Sì l' uno che l' altro vanno a toccare le fortune private e a toccarle in un modo generale. Se il condottiere di una nazione conquistatrice, dopo conquistato un paese, avesse detto alla medesima: « Sappiate che queste terre son mie: voi già non le goderete come vostre, ma voi le lavorerete come miei servi, ed io vi manterrò »; la nazione non si sarebbe mai arresa a questi patti; poichè l' autorità del suo condottiere cessava d' allora d' essere un beneficio: egli non avrebbe fin allora governata la nazione, ma usato d' essa come d' un istrumento per formare la propria grandezza. Non era già con questo intendimento ch' ella lo aveva riconosciuto per suo capo e per suo condottiere. Ma all' incontro dicendo: « Voi avete conquistato sotto la mia condotta questo paese: ora egli è tempo che il vostro valore sia premiato: io dividerò con giustizia i terreni a tenore del merito di ciascheduno; »tutti dovevano assentire ad un simil discorso, il quale era secondo l' equità, secondo lo scopo della loro intrapresa, e secondo l' idea ch' essi eransi formata del loro capo. In tal caso egli esercitava un governo, e faceva loro un beneficio, giacchè amministrava la giustizia, metteva ordine colla sua autorità nel riparto dei terreni, e non venivano defraudati delle aspettate ricchezze. Che cosa nasceva mediante una simile operazione? che tutti i compagni d' armi del capitano supremo, e tutti i soldati ricevessero la loro porzione di terra dalle mani del loro duce; giacchè era egli quello che la divideva e che l' assegnava a ciascuno. Egli era naturale ancora che riconoscendosi per una legge conforme all' equità, che i terreni fossero divisi secondo il merito e la dignità di ciascun soldato, secondo che cioè ciascuno aveva influito a conquistarli, così pure ritenessero il concetto d' un premio o di una mercede; e di più che come gli avevano ricevuti dal loro capo, così restasse al medesimo capo la facoltà di ritirarli se si rendessero infedeli e se perdessero con ciò il titolo primitivo di fedeltà e di bravura. Come non bastava aver conquistate le terre se non si continuava a difenderle contro gl' inimici; quindi le terre dovevano ritenere il loro carattere primitivo di esser premio del valore e della fedeltà. Egli è questo che spiega come in principio i feudi fossero amovibili. A confirmar ciò si aggiungono i costumi che i conquistatori del settentrione ritraevano da' loro padri. [...OMISSIS...] Cesare pure dice: [...OMISSIS...] Infatti una nazione, ossia un' aggregazione di famiglie, ha bensì desiderio di vivere agiata, comoda e ricca; ma del rimanente ella lascia ben volentieri a' suoi capi la cura di far le porzioni, purchè creda ch' essi le facciano con equità, e di dirigerla in tutto. Quindi essa non è difficile a lasciar anche a' medesimi ogni onore, a prestare ogni riverenza; a ricevere dalle loro mani le terre, purchè però le ricevano; a riconoscere in essi il diritto di disporre delle medesime in tutto ciò che riguarda la conservazione dell' ordine, della giustizia, della pubblica quiete e tranquillità. Ma sebbene tutto ciò era facilissimo e naturalissimo a supporsi in teoria, tuttavia era altrettanto facile, che in pratica non si restasse contenti della divisione delle terre; e se in ciò succedeva un malcontento, già cominciavano a manifestarsi i limiti dell' autorità principesca. Il ricevere che si faceva le terre dalla mano del principe, ed il diritto che egli aveva di distribuirle secondo la giustizia, faceva supporre ch' egli ne fosse il proprietario. D' altra parte la condizione a cui era soggetto, cioè di non poterle ritenere per sè, e di doverle distribuire con giustizia, rendeva quella proprietà che gli si attribuiva una proprietà di nome e non di fatto: ed è ciò che faceva nascere quella finzione di proprietà di cui parliamo. Ma ben presto ci si accorse che quella finzione di proprietà, che quel diritto di distribuire in premio tali ricchezze era pericoloso: che l' equità a lungo difficilmente veniva conservata. Anche venendo conservata v' erano sempre cagioni di lamentanza, giacchè l' avidità fa credere a tutti di avere un diritto maggiore alle ricompense. In tutti questi casi la nazione cominciava a considerare l' autorità principesca come quella che portava delle conseguenze dannose sulle proprietà private, non custodiva più semplicemente l' ordine generale, non era più un semplice beneficio. La nazione dunque risentendosi di queste conseguenze doveva cercare di porre un limite alla sovrana autorità; e delle terre il principe doveva perciò disporre di consenso della nazione. [...OMISSIS...] E` però osservabile che il principio delle leggi feudali, il quale attribuisce al principe la proprietà delle terre per la ragione detta, non era che una espressione inesatta: non si parlava con precisione, perchè non si era arrivati a pensare con precisione. La mancanza di precisione in quell' idea consisteva in una mancanza di distinzione: non si era arrivati a distinguere col pensiero, e colle parole, il diritto dalla modalità del diritto: e invece di dire che il principe aveva la modalità della proprietà, si diceva che il principe aveva la proprietà delle terre. La cosa però si sentiva ben distinta nel fatto: ed appena che il principe passava dal disporre della modalità al disporre della proprietà , i proprietari subitamente se ne risentivano. Non restava però che quella falsa espressione non producesse dei gran disordini: il principe che poteva mostrar le leggi, che davano a lui la proprietà delle terre, poteva altresì rinfacciare d' infedeltà e d' insubordinazione i proprietari che si lamentavano de' suoi arbitrŒ. Intanto se la lite fosse stata deferita ad un giudizio, e se i giudici avessero avuto l' obbligo di stare alla lettera della legge, il principe avrebbe avuto sempre ragione. I proprietarŒ non avrebbero potuto che opporre la costumanza, e richiedere che a questa si ricorresse per l' interpretazione della legge: ma la costumanza stessa come era venuta a pugnar colla legge? se non perchè la legge era mal espressa? Che se la legge ebbe sempre la costumanza in contrario, ciò mostra che le parole non mutano le cose, e che la ragione comune o sia il buon senso quantunque non sapesse render ragione di sè stesso, tuttavia non si piegava però alle teorie della gente di legge: il che però non toglie che l' inesattezza d' espressione nella legge non incoraggiasse il cattivo principe ad operare con maggior arbitrio, e con minor ritegno. Per tutto ciò non è meraviglia se l' officio che aveva la corona di dirigere la modalità della proprietà feudale mal usata, eccitasse dei nazionali tumulti. In Francia se n' ha esempio già nel secolo VII. Così di nuovo Montesquieu: [...OMISSIS...] Non era già che non si riconoscesse nella corona il diritto di disporre dei feudi, ma questo diritto non si ammetteva in fatto che fosse simile a quello col quale un padrone dispone della sua proprietà, sebbene la legge malamente, come dicevamo, supponesse i feudi proprietà della corona. In fatto, dico, non erano tenuti tali; poichè se fossero stati considerati veramente tali, non vi sarebbero state tante opposizioni sul modo col quale la corona ne disponeva. Si attribuiva alla corona solo la modalità di un tale diritto, solo la disposizione de' medesimi a vantaggio comune. Per ciò con ragione Montesquieu: « « Può darsi che se il motivo della rivocazione dei doni fosse stato il ben pubblico, non si sarebbe aperta bocca; ma si faceva mostra dell' ordine senza occultare la corruttela: reclamavasi il diritto del fisco a talento, e i doni non furono più la ricompensa o la speranza dei servigi. Brunechilde con uno spirito corrotto corregger volle gli abusi della vecchia corruttela: i suoi capricci non erano quelli di uno spirito debile; i feudi ed i grandi officiali si videro rovinati, ed essi se ne disfecero. »1) » Se Montesquieu avesse a pieno conosciuto questa finzione di proprietà, e non fosse restato ingannato dalle parole della legge feudale, egli non avrebbe presa la proprietà della corona sui feudi per un argomento da convalidare il suo sistema sulla conquista dei Franchi. Ecco com' egli argomenta: [...OMISSIS...] Certamente; se la proprietà sulle terre feudali fosse stata vera e non finta dalla legge, ma come dicevamo il re non aveva che la modalità delle proprietà, e non la proprietà stessa: era governatore e non possessore. Nè ci si opponga che noi confondiamo la proprietà di diritto e di fatto. Egli è vero che basterebbe, che la corona fosse priva della proprietà di fatto, perchè ella fosse già debile a sostenersi. Ma noi diciamo che le mancava anche la proprietà di diritto; poichè per esservi questa conviene provare che v' abbia il titolo. Supposta dunque l' occupazione un buon titolo, il capitano della nazione conquistatrice non era stato egli solo l' occupante, ma insieme co' suoi commilitoni 1): la nazione condotta da lui non si era già resa sua serva, ma si era solamente sottomessa a lui per esser diretta nella conquista; perchè il suo moto fosse regolato, e la sua impresa fosse diretta con unità. La proprietà dunque delle terre conquistate apparteneva alla nazione conquistatrice, e non esclusivamente al suo capo. Ma questa come aveva avuto bisogno d' esser diretta nella guerra, così aveva bisogno di un ordine nella divisione delle terre: e questo era naturale, che lo ricevesse dal suo capo. La incombenza dunque e il diritto di questo capo era di governare, di metter ordine, di dirigere il bene comune della nazione: senza che per questo egli acquistasse una vera proprietà sui beni della medesima. Ma si vuole una prova evidente che la nazione non ha mai creduto che i suoi principi avessero una vera proprietà sui terreni? basta osservare che una porzione di terreni divisi rimaneva al principe: (Roberts. 11 .35) la qual porzione sarebbe stato assurdo attribuirgliela, quando già fossero state sue egualmente tutte le altre. La legge dunque che ora parla di una proprietà del principe sulla porzione a lui assegnata: ora parla della proprietà del principe sui feudi, o sia sulle porzioni distribuite agli altri duchi e signori componenti la nazione, usa il nome di proprietà in due sensi totalmente diversi: e solamente nel primo caso si parla di una vera proprietà; mentre negli altri casi con questo nome di proprietà non si debbe intendere che un diritto di regolare per il ben nazionale le proprietà comuni. Quando anche supponessimo adunque che tutti i terreni della nazione fossero feudi amovibili, non ne verrebbe già per questo, che il potere del re fosse assoluto come quello del sultano di Costantinopoli: anzi egli si rimarrebbe ancora troppo scarso di fatto, perchè troppo grande di diritto, cioè a dire il potere civile potrebbe esser di più della proprietà e però darsi lo squilibrio di cui parliamo fra la proprietà ed il potere. E questa debilezza del potere sovrano fu realmente sentita: ed è appunto ciò che ha fatto ritrovare il ripiego di una finta proprietà, come dicevamo, la quale tenga come il luogo della vera, e coll' impressione che può fare sugli animi una tale supposizione, sostenga in qualche modo il trono. Ma si noti bene che la debilezza del trono può manifestarsi in una doppia maniera, poichè o il trono può essere debile relativamente alla nobiltà e all' interna costituzione; o il trono può essere debile per difendere la nazione dai nimici esterni. Nel secondo caso la nazione stessa sente la debilezza del trono, e s' interessa di fortificarlo; ma nel primo caso la nazione non se ne interessa punto, e gli ordini principali della nazione riguardano con piacere la debilezza del trono; giacchè la loro potenza è appunto in ragione di quella debilezza. Il primo caso succede nelle nazioni che hanno a difendersi continuamente dagli inimici esterni; il secondo nelle nazioni già consolidate e pacifiche. Egli è per questo che gli elettori dell' Imperio germanico preferivano un principe debile ad un principe forte: ed è il vizio delle monarchie elettive. La legge adunque feudale, che mise per base la finta proprietà del sovrano su tutte le terre, nacque in tempi ancora pieni di guerre, e la sua estensione è dovuta al bisogno in cui le nazioni si ritrovarono di dar al loro capo una forza valevole, perchè potesse salvare la nazione sì dagli inimici esterni che dagli interni. Poiché non fu già introdotto il feudalismo in tutte le nazioni d' Europa per la stessa causa della conquista, ma in alcune fu introdotto come una instituzione atta a rendere forte la corona. Ci valga a provar ciò l' esempio dell' Inghilterra, nella quale ecco come la legge feudale s' introdusse, secondo il racconto che ne fa il commentatore delle leggi inglesi Blackstone. Egli è d' opinione, che il sistema feudale si conoscesse assai poco in Inghilterra al tempo dei Sassoni, e che vi fosse universalmente introdotto soltanto dopo la conquista dei Normanni. Ma riguardo al modo onde tal sistema s' introdusse, ascoltiamo lui stesso: [...OMISSIS...] Il vizio adunque del sistema feudale era quello di non convenire se non ad una nazione che fosse costretta ad esser sempre sull' armi per defendersi dagli esterni inimici. In tali casi urgenti il diritto che ha il principe di dirigere la modalità nazionale si estende assai, giacchè egli può fare tutto ciò che è necessario per salvar la nazione. Egli è in tali casi che la nazione è ben disposta a fare i più gran sacrifici per sostenersi; e quindi, come abbiamo veduto coll' esempio dell' Inghilterra, anche ad accettare il sistema feudale. Come la nazione andrebbe a perire se il principe non avesse dei soldati fedeli, e stretti d' intorno a lui, o per dir meglio se tutta la nazione non pugnasse ordinata e unita insieme come una persona sola: così si andò in cerca di un' invenzione che obbligasse i guerrieri della nazione, cioè tutti gli uomini capaci di guerreggiare, a trovarsi intimamente legati col principe. Un simile espediente fu suggerito alle nazioni conquistatrici dalla stessa natura della conquista. Nel primo tempo che il popolo conquistatore entrava nel paese di sua conquista, tutto il terreno si ritrovava ancora indiviso, e appartenente ancora tutto intero a tutta la nazione. Non avendo adunque alcuno proprietà particolari, e perciò non avendo nessuno attaccato l' affetto a dei fondi particolarŒ, come nasce in quelli che sono già proprietarŒ, la nazione poteva in quel tempo provvedere comodamente a due scopi cioè al bene de' suoi membri, e al bene di tutta la nazione; ad arricchir bensì quelli coll' attribuir loro i terreni, ma nello stesso tempo a conservar la nazione forte come quando guerreggiava sotto il suo capo. A conseguir insieme questi due scopi non si poteva trovar nulla di meglio, che quanto: 1 far sì che tutti i membri della nazione ricevessero le terre divise dalla mano del loro capo, perchè con ciò si otteneva il primo fine: 2 che le ricevessero coll' obbligo del servizio militare perchè in tal modo si otteneva il secondo fine. Quegli che riceveva il feudo giurava al Signore e dichiarava « « che egli diveniva da quel giorno suo uomo 1) col pericolo della vita, dei membri, e dell' onor temporale. » » In fatti non v' era un modo più efficace per costringere al servizio militare questi nuovi proprietarŒ, quanto col far dipendere dal comandante le loro proprietà: col far che le riconoscessero da lui, e col dar a lui il diritto di privarli delle medesime se non conservassero la dovuta fedeltà. Questa instituzione era un' ottima precauzione colla quale una nazione guerriera, che riconosceva tutto dalla guerra, e che nella guerra sola riponeva la sua forza e la sua sussistenza, cercava d' impedire, che i suoi membri col rendersi proprietarŒ, e coll' adagiarsi in una vita pacifica e comoda non si ammollissero e snervassero, e non diventasse loro impossibile di staccarsi dalle care loro proprietà, quando la salute comune esigesse che corressero a schierarsi sotto le bandiere del loro duca. Per conoscere tuttavia che tanta potestà data al capo della nazione non era altro che il diritto di dirigere la modalità assai esteso quanto richiedeva l' esigenza delle circostanze, basterà che noi traduciamo l' instituzione feudale in parole proprie: e che evitando tutte le espressioni equivoche, la vestiamo delle espressioni che ci verrebbero suggerite da una legislazione più lucida e più conforme al modo di pensare dei tempi moderni. Supponiamo adunque che in un' assemblea, nella quale la nazione conquistatrice trattasse del modo di ripartire il paese di conquista, il condottiero della medesima sorto a parlare avesse detto così: « Miei compagni! voi siete giunti col vostro valore a rendervi padroni di un paese fertile, dove sarete a pieno compensati dei vostri travagli e premiati della vostra bravura. Ma la fertilità del terreno e la dolcezza del clima può snervare la forza del vostro carattere, e farvi perdere la gloria dei vostri antenati e la vostra. D' altro canto voi siete ancora attorniati d' inimici, e genti robuste e numerose portano invidia alla vostra fortuna. Ciò, che finora vi ha fatto trionfare di tutti gli ostacoli, fu il seguire con unanimità il vostro comandante, e disprezzare al suono della sua voce i travagli e la morte. Ma divisi da lui in un vasto paese, e guasti dall' ozio della vita privata e comoda, voi diverete facile preda di qualche altra gente, che sarà forte come voi siete ora, mentre voi sarete deboli come poco fa erano gl' inimici che avete distrutti. Non trovo dunque alcun mezzo perchè voi conserviate il presente stato glorioso e felice, se non quello che vi obblighiate con giuramento a correr tutti sotto l' insegna del vostro capo, quando la nazione è in pericolo. Ma molti di voi più affezionati alla loro vita tranquilla che memori della giurata promessa, resteranno vilmente a casa; onde le promesse che qui tutti siete disposti a fare saranno inutili, se il vostro capo non ha il modo di punire gli spergiuri, e di provvedere che per la inerzia d' alcuni non periate tutti. Or come ciò che seduce costoro ad abbandonare la causa comune è l' amore troppo grande alle proprietà, perciò io propongo che il capo della nazione abbia autorità di privarli delle medesime: io propongo che tutti voi riconosciate di ricevere le proprietà con questa condizione di prender l' armi alla voce del vostro capo: che la porzione di terra che toccherà a ciascuno di voi non sia considerata che come un premio della fedeltà alla voce del vostro condottiere, giacchè questa fedeltà è stata quella che vi ha resi vittoriosi: io propongo che come dal vostro capo ricevete l' ordine della battaglia, così pure riceviate la proprietà dei terreni, come un premio dell' obbedienza di quest' ordine. Voi tutti dunque che riceverete la vostra porzione di proprietà lasciate alla nazione una garanzia della vostra futura obbedienza e fedeltà col ricevere la proprietà sotto una tale condizione. Se voi siete ora degni di aver un premio, perchè col vostro valore avete conquistata questa terra, riconoscete altresì che vi rendete degni di perderla dall' istante che ricusaste difenderla. »1) E` dunque evidente che l' instituzione feudale non è che un' instituzione politica, un mezzo per render forte la nazione costretta di star sulle armi per difendersi da' suoi nimici. Il diritto che ha il principe sulle terre in tali istituzioni, non è che il diritto di punire quelli che non si prestano alla difesa della nazione, e per la colpa dei quali la nazione verrebbe in pericolo di perire. Ella non può esser dunque la costituzione feudale una costituzione stabile; poichè ella non ha riguardo che allo stato di guerra: ad uno stato in cui la nazione o debbe essere forte o debbe perire. In tali circostanze la nazione è disposta di fare i più grandi sacrificŒ ed i proprietarŒ si accontentano di diminuire la forza de' loro diritti sui loro fondi per non perderli intieramente. Egli è il caso, come diceva, in cui la modalità diretta dal principe prende una grande estensione. Ma appunto perchè la modalità, che è l' oggetto del governo si allarga e si restringe secondo le circostanze, perciò è difettosa quella costituzione che vuol dare a tale modalità una misura stabile: e questa costituzione non può durare se non in quel tempo in cui la modalità oggetto del governo, è nè più nè meno della misura fissata. Poichè venendo quel tempo in cui quel governo non abbia bisogno di usare tutta quella misura di modalità per il ben pubblico, se la vorrà usar tutta, si renderà tirannico; ed all' incontro in altro tempo in cui le esigenze del ben pubblico costringano il governo a disposizioni più larghe, le quali trapassino la misura della modalità fissata dalla costituzione, egli non potendo trapassare quella misura, sarà troppo debile per salvare la nazione. Di che per dirlo di passaggio si può cavare questa regola circa la bontà delle costituzioni: « Che la costituzione debbe bensì assegnare tali mezzi per li quali il governo non osi di passare fuori del circolo della modalità, ma nello stesso tempo non debbe stabilire la misura della modalità perchè questa essendo variabile secondo le circostanze della nazione, la costituzione diverrebbe con ciò inopportuna al sopravvenire nella nazione una nuova circostanza. » Per applicare la regola alla costituzione feudale basta osservare come fissando essa al governo una misura di modalità tanto estesa, che era bensì adattata in tempi di guerra, nei quali l' ordine pubblico era ad ogni momento in pericolo, diventava inopportuna tostochè tale circostanza si mutasse, e si venisse a stabilire di più la nazione e a trovarsi in istato di maggior sicurezza e quiete, nel quale stato la influenza del governo, o sia la modalità, meno si doveva estendere. In simile tempo la nazione, che non vuole mai che il governo faccia se non quel tanto che è necessario per la sua salvezza e prosperità, si sforza di tirare in dietro quanto prima aveva troppo liberalmente conceduto, e con ciò viene a distruggere quella costituzione ch' ella stessa prima aveva imprudentemente fondata od acconsentita. E` una cosa molto istruttiva l' osservare come la costituzione feudale che assegnava una modalità tanto estesa al governo da dargli fino il diritto di proprietà sulle terre, venisse bel bello ristretta e così guastata. La nazione cercò sempre di tirare indietro una tale concessione fatta da lei a' suoi capi in tempo di grande pericolo: cercò dìco di tirarla indietro in ragione che l' esperienza le dimostrò, o pure che l' avidità le fece sperare che il governo non avesse bisogno di tanto, o sia in ragione che giudicò che le circostanze del paese non esigessero che il governo avesse a disporre d' una misura sì grande di modalità. L' esperienza a ragione d' esempio fece conoscere alla nazione ciò che non aveva preveduto in principio, non essere ogni maniera di guerre d' un interesse nazionale; ma avervene di quelle che non riguardavano se non l' interesse del loro capo. S' accorse adunque che l' obbligazione del servizio militare stabilita nella costituzione feudale per la guerra in genere, poichè non si aveva idea d' altra guerra che di quella che riguardava la difesa del paese conquistato, era troppo estesa; ed essa cercò quindi di limitarla alla guerra difensiva e nazionale. A quest' avvertenza dieder occasione le guerre insorte tra' figliuoli di Carlo Magno, di cui ecco la disposizione che ne conseguì, e che narrerò colle parole di Montesquieu. [...OMISSIS...] Si rileva da Nitardo che questo trattato fu fatto dalla nobiltà. Fino dunque che il principe poteva esercitare con libertà il diritto feudale di togliere e di dare le terre, cioè fino che la nazione glielo permetteva costretta dalla necessità di sostenersi, la finzione della proprietà del principe sulle terre aveva qualche cosa di reale; poichè se non le faceva coltivare a suo pro, usava però di frequente il diritto di toglierle e di donarle, il quale essendo solitamente un atto di proprietà, faceva si che sembrasse realmente che il principe avesse la proprietà delle terre. E` vero che il togliere ed il donar le terre nel principe non era che un atto del potere governativo, da non confondersi mai con quell' atto, col quale il padrone del campo lo dà altrui in usufrutto. Ma come quell' atto era il medesimo che questo, e non differiva se non dal titolo col quale si faceva; giacchè il principe lo faceva per titolo di governo, ed il padrone per titolo di proprietà, così era ben facile confondere questi due titoli in un titolo solo, o sia scambiare l' uno coll' altro. Ma se la proprietà dura sempre in una misura eguale; il potere governativo all' incontro varia secondo i bisogni del paese. Laonde venendo il tempo in cui non si rendesse più tanto necessario di esercitare con frequenza quel diritto feudale del principe di togliere e di donare le terre; doveva quella finzione di proprietà che la legge dava al principe sempre più apparire come una cosa vana e chimerica, e rendersi tanto più cagione di mali quant' ella più mancava di fondamento. Una tale costituzione pertanto aveva il doppio difetto che rendeva il principe prodigo, e la nazione vie più avida ed avara. Quindi in ragione duplicata cresceva lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile. Giacchè la forza del re era riposta nel donare, egli era messo sopra una strada opposta all' economia, d' altro lato non era già altrettanto facile il togliere ciò che era stato donato giacchè con ciò si formava dei nemici. I Signori all' incontro i quali erano stati avezzi di dare il loro affetto e la loro fedeltà al re sempre in cambio dei doni che ricevevano, erano messi sopra una strada anche troppo economica, giacchè teneva sempre viva la loro avidità. Quindi mentre la corte prendeva un alto e nobile tuono di cortesia e di generosità, rendendosi in sostanza con ciò stesso sempre più debile, i Signori all' incontro praticavano l' arte dell' avere quanto più potevano dal sovrano con raggiri, con bassezze, con dare ora speranza, ed ora con isparger timori, vivendo sopra una continua speculazione di guadagno che li rendeva sostanzialmente più forti. Abbiamo veduto come venne limitato l' aggravio del servizio militare: veggiamo adesso come la nobiltà si venisse assicurando le sue ricchezze, e un grado alla volta spogliando la corona di tutto quel poco di reale, che poteva avere la finzione legale di proprietà sulle terre. Primieramente l' introduzione dei suffeudi indebolí l' autorità del re: [...OMISSIS...] Ma i progressi della nobiltà nel diminuire la potestà feudale del re sulle terre, non si vedon meglio che tenendo dietro alle mutazioni successe nel tempo in cui furono dati i feudi. Carlo Martello, seguendo la conghiettura dell' Abate Mably, fu il primo che invece di darli a tempo come per innanzi, cominciò a darli a vita; poco dopo divennero ereditarŒ. L' anno ..9 Eude di Parigi re di Francia concedette delle terre a Ricabodo suo vassallo pel tempo di sua vita, e di più con questa condizione favorevole, che morendo con un figliuolo, questi pure le godesse a vita. Ciò fu un primo passo dei feudi ereditarŒ in perpetuo. Il secondo passo fu quello di rendere i feudi ereditarŒ in linea retta maschile; il terzo quello di renderli ereditarŒ anche in linea collaterale: il quarto finalmente fu quello di renderli ereditarŒ anche in linea femminile. Ridotti i feudi a quest' ultimo stato la proprietà, che sopra di essi attribuivasi al principe, non aveva più nulla affatto di reale: ed era una finzione vanissima. E tuttavia « « anche dopo ch' ebbero ricevuta quest' ultima forma » - dice Robertson - «i giureconsulti trattando de' feudi continuarono a definirli conformemente alla loro prima instituzione; ma la proprietà non apparteneva più al Signor superiore ed era passata in effetto nelle mani del vassallo. » » Questa servilità pecoreccia de' giureconsulti nell' applicare le parole e le difinizioni antiche alle cose nuove, a cui non sono applicabili, portò sempre un gran male nella società. Il principe dalle parole della legge s' illudeva, e s' imaginava di ritenere in qualche modo una padronanza di cui non gli rimaneva che il nome. I nobili all' incontro che lasciavano ben volentieri al principe tutte le parole ampollose, mantennero sempre il loro costume, cioè la loro industria per tirare a sè l' effettiva ricchezza; tanto la generosità del principe quanto l' avidità dei Nobili più esercitandosi più s' accrescevano, e diventavano senza confini: e, se non vi fossero state le crociate che hanno alquanto abbassato i nobili impoverendoli, e rilevata l' autorità dei principi rimettendoli alla testa delle loro nazioni, probabilmente tutte le società civili d' Europa sarebbero degenerate in funeste oligarchie. Non furono già contenti i nobili di rendersi così assoluti padroni delle terre, ricevendole dal principe a titolo di feudi; ma col gioco d' un simile titolo il quale lasciava ai principi apparentemente la proprietà delle cose, seppero strappare dalle mani principesche anche le rendite casuali dello stato, come i diritti di assisa e di pedaggio i porti dei fiumi, i salari o gli emolumenti degli offici, e gli offici stessi si mutarono in simiglianti feudi ereditari. L' avidità de' nobili che non aveva limiti si impossessò di tutto ciò a cui poteva, sebbene assurdamente, attaccare il comodo titolo di feudo. Chi crederebbe che l' elemosine stesse delle messe dette ad un tale altare, le ottenessero dei Baroni possenti a titolo di feudo, e le partissero come le altre proprietà fra i loro vassalli? 1) Le grandi cariche della Corona divennero ereditarie quasi per una certa necessità proveniente dallo spirito d' usurpazione della nobiltà, a cui i principi erano troppo debili per resistere, sebbene talora facessero qualche sforzo. In fatti si hanno degli esempŒ di principi che obbligavano quelli a cui conferivano qualche carica o dignità, di riconoscere con un atto formale che nè essi nè i loro eredi potevano pretendere di possederla per un titolo ereditario. 1) [...OMISSIS...] Così gl' istorici riflessivi sono condotti dai fatti a riconoscere l' esistenza continua della legge di cui parliamo, dell' equilibrio cioè tra la proprietà ed il potere. Si poteva indicarla con più chiarezza di quello che faccia in questo passo Robertson? Ma perchè dunque, avendola veduta, negligentare poi di applicarla e di cavarne le feconde conseguenze? Blackstone si scaglia con ragione contro delle sottigliezze dei giurisperiti normanni che avevano guasta l' antica costituzione Sassone; rimprovero che molti fecero anche ai Romani, i quali perfezionando il sistema fondato dalla legge regia legalizzarono il dispotismo. Noi abbiamo fatto vedere che anche la legge regia presso i Romani in sostanza non era che una finzione, giacchè essa opponendosi alla costumanza od al fatto si rimaneva scritta sulla carta, dove è pur facile scrivere ciò che si vuole; ma non era altramente nella reale costituzione. L' essere tuttavia scritta in carta bastava per dare al principe il pretesto di fare quanti arbitrii a lui piacesse, e di usare quella potenza ch' egli avea di fatto per alterare la costituzione antica e rendersi al tutto despota. In fatti anche questo vizio ha la legge feudale; poichè come da una parte invita i nobili a carpire le donazioni del principe, così dall' altra invita il principe ad aspirare ad un pieno dispotismo, conciossiacchè gli dà il pretesto in mano poichè gli fa credere ch' egli sia il proprietario delle terre. Dipende dunque solo dall' indole del principe, e dalle circostanze che gli facciano credere più vantaggiosa una condotta che l' altra, di appigliarsi all' uno dei due partiti a cui egualmente lo invita la legge feudale, l' uno dei quali non è meno pernicioso dell' altro, nè meno capace di esercitare scompigli nello stato. Il primo di questi due partiti è quello di cui abbiamo parlato, cioè ch' egli sia inclinato a donare e a satollare l' avidità dei nobili: il fine del qual partito è d' impoverire a segno la corona da non poterla più sostenere, e gli esempi di ciò gli abbiamo trovati nel regno di Francia e nell' Imperio Germanico. Il secondo partito è quello di farsi realmente conto del preteso diritto che gli attribuisce la formula della legge sulla proprietà della terra: ed in tal modo di aspirare ad un dispotismo, che se non trovasse ostacoli diverrebbe ben presto quello del sultano di Costantinopoli, come notammo avvenire nell' antico imperio romano per l' abuso della legge regia: e come sarebbe avvenuto nell' Inghilterra per l' abuso della feudalità normanna, se invece la condotta del principe trovando de' forti ostacoli non avesse fatto cadere la pura costituzione feudale, e nascer da quella una costituzione più vera e più moderata. Dopo avere Blackstone parlato delle conseguenze di un potere esagerato che tiravano gli interpreti normanni dalla costituzione feudale, soggiunge: Ma non era già questa stata l' intenzione dei nostri antichi nell' aver assentito alla legge feudale: [...OMISSIS...] Ma se questa legislazione era di mere parole, fu ella men dannosa allo stato? non bastò essa per dar il modo a' Principi di attribuirsi più autorità che non avevano? Questa falsità di espressioni si potè essa correggere senza che la nazione sofferisse delle pene e degli scompigli di fatto? con sì gravi pene adunque debbono scontare le nazioni una semplice improprietà di parlare? « « Guglielmo, prosegue Blackstone, e il suo figlio Guglielmo il Rosso mantennero imperiosamente tutto il rigore delle dottrine feudali; ma il loro successore Enrico I giudicò utile per appoggiare le sue pretensioni alla corona di promettere il ristabilimento delle leggi del re Edoardo il confessore, o dell' antico sistema Sassone. Per conseguente nel primo anno del suo regno concesse una carta per la quale rinunziava ai carichi più oppressivi, mantenendo tuttavia la finzione della tenuta feudale sempre sotto quell' aspetto militare, che aveva spinto suo padre ad introdurlo. »2) » Col mantenimento di tale finzione si conservava il germe degli stessi mali, cioè il pretesto pel quale il principe potesse ritornare di fatto a quelle pretensioni e a quell' estremità di potere che non gli conveniva già per il suo grado principesco, ma che gli sarebbe bensì convenuto se invece d' esser principe fosse stato padrone, invece d' aver de' sudditi, avesse avuto de' servi; se in una parola la legge feudale non fosse stata una finzione, e il principe avesse realmente avuto la proprietà sulle terre. E in fatti che avvenne della Carta data da Enrico I? « « Questa Carta fu rotta per gradi, e le precedenti oppressioni furono rinnovellate e raggravate da lui stesso, e da' suoi successori fino al re Giovanni: esse divennero sì intollerande nel regno di quest' ultimo, che i suoi principali baroni e feudatarŒ si sollevarono e pigliarono le armi contro di lui; ciò che produsse finalmente la celebre Gran Carta di Runing7mead , confirmata poscia, eccetto qualche modificazione, da Enrico III suo figlio. »1) » E fu l' essersi i re d' Inghilterra e quei di Francia appigliati ai due opposti partiti che loro somministrava la legge feudale, cioè quei di Francia alle donazioni con cui ingrandivano i nobili, e quei d' Inghilterra al dispotismo con cui gli opprimevano, che ne vennero poscia le conseguenze, che i re di Francia avessero bisogno di confederarsi col terzo stato contro dei Nobili; mentre la Nobiltà d' Inghilterra ebbe bisogno di confederarsi col terzo stato contro del Re: nel che si può dire che consista ciò che formò il carattere politico di quei due regni. [...OMISSIS...] Dopo tutto ciò che s' è detto fin quí per provare colla via dell' esperienza, che la legge caratteristica della civile Società, e d' una saggia costituzione, consiste nell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, resta una difficoltà che ci si può fare: Come mai i popoli più saggi che hanno traveduta questa legge, che hanno anche fatte delle instituzioni ad essa consonanti, non hanno poi recato alla perfezione il sistema e non hanno organizzata la Società unicamente su questa legge? La risposta è in pronto: se ciò avessero fatto, si sarebbero potuti benissimo censurare, come quelli che si avrebbero resi schiavi di un sistema, ed avrebbero con ciò abbandonata quella piena e molteplice sapienza che suggerisce la maggior maestra degli uomini, l' esperienza. Dopo le cose dette, a noi riesce facile anche d' indicare con precisione in che sarebbe consistito il loro errore: in che avrebbe peccato di sistema l' organizzazione della società civile fatta unicamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. L' errore di cui parliamo rende ragione del fatto che ci si oppone, ed in questa maniera fa sì che quel fatto si renda una nuova prova della nostra teoria. L' errore sarebbe consistito nel sottomettere alla detta legge tutta la società civile; mentre egli deve essere diviso in due parti, cioè: nel morale e nell' amministrativo; ed è solamente l' amministrativo quello che va organizzato secondo l' equilibrio della proprietà e del potere, e non già il ramo morale o giudiciale, il quale va organizzato nella forma di tribunale. L' organizzare tutto il potere civile a norma della sola legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, produrrebbe due gravi disordini: 1 una parte della società sarebbe sacrificata; disordine contro la felicità comune: 2 la rettitudine sarebbe fatta servire alla ricchezza, disordine contro la moralità e la giustizia. La parte della società sacrificata sarebbero tutti gli uomini privi di beni di fortuna; poichè i diritti personali non vi avrebbero come tali nessuna rappresentanza, nessuna attività, nessuna voce da far intendere la loro ragione, perchè non sieno oppressati. Ora l' organizzazione fatta puramente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere doveva necessariamente incontrare una reazione. Nè solo doveva incontrare una reazione dagli uomini privi di proprietà, ma in generale dall' elemento personale. Per ischiarire la cosa bisogna considerare tutti i diritti, o beni posseduti dagli uomini tutti, congiunti ad una energia o forza, mediante la quale tendono di difendere sè stessi, cioè di conservarsi e di ampliarsi. Or dunque nella società umana come vi sono due specie di diritti, personali e reali, così vi sono due forze o due energie corrispondenti alle due specie di diritti. Queste energie o instinti che ha l' uomo di difendere il suo diritto, porta ciascun uomo ad aspirare al potere politico come ad un mezzo inserviente alla difesa dei proprŒ diritti. Or dunque il potere politico viene come strappato e tirato da due forze: cioè dalla forza veniente dal diritto personale e dalla forza veniente dal diritto reale. Ora siccome il diritto personale è eguale in tutti, così la forza proveniente da questo diritto tende a dividere il potere civile in porzioni eguali fra tutti gli uomini; mentre all' incontro siccome il diritto reale è disuguale negli uomini, così questa forza tende a dividere il potere fra gli uomini in porzioni diseguali. Se non esistesse altro che la forza proveniente dal diritto reale, egli è certo che il potere civile si troverebbe ben presto diviso fra gli uomini allo stesso modo come si trovassero fra essi divise le proprietà e le ricchezze, che formano il detto diritto; nel quale caso la legge dell' equilibrio fra il potere e la ricchezza verrebbe compiutamente a realizzarsi per le sole forze della natura. Se all' incontro non esistesse nell' umana Società altro che la forza veniente dal diritto personale, egli è certo che in breve tempo il potere civile sarebbe diviso egualmente fra gli uomini e verrebbe a realizzarsi rigorosamente colle sole forze della natura il sistema della rappresentazione personale. Ma poichè nella Società umana non esiste già una sola di queste due forze, ma esistono e operano contemporaneamente tutte due; quindi era impossibile che le Società civili prendessero l' una o l' altra di queste due forme semplici: era impossibile che il potere civile si dividesse rigorosamente in ragione delle ricchezze o pure che il potere civile si dividesse con una perfetta eguaglianza fra gli uomini. Invece di ciò che ne doveva seguire? doveva seguire che le società di loro natura prendessero un' organizzazione che fosse media proporzionale fra quelle due estreme, in cui il potere civile nè fosse diviso in parti eguali fra gli uomini, nè fosse perfettamente diviso in ragione delle ricchezze. Dopo di ciò riuscirà facile a spiegare la ragione di certe parti che s' incontrano nelle migliori costituzioni sociali, le quali a primo aspetto sembrano irregolarità, e il primo pensiero che viene è il desiderio che fossero tolte, perchè si rendesse più semplice, più uniforme, più elegante la costituzione. Bisogna osservar ciò nelle costituzioni più eccellenti e specialmente in quelle nelle quali i legislatori hanno spiegato la maggior forza di spirito in ben calcolare le forze della natura, poichè trovando in queste costituzioni stesse delle irregolarità, bisogna dire che i legislatori non le abbiano potute evitare, e che anche volendole, abbiano incontrato un ostacolo insuperabile che veniva loro opposto dalla stessa natura delle cose. Per esempio noi abbiamo veduto quanto bene Servio Tullio abbia veduto la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere e con quanta sapienza abbia cercato di fondare sopra di essa la costituzione romana, instituendo i comizŒ centuriati. Ma perchè poi dopo questa bella instituzione il capolavoro della romana politica, il popolo romano tuttavia si assembrava ancora talvolta a deliberare per ComizŒ curiati e tributi? Queste specie di ComizŒ non sembrano una irregolarità rimasta nella costituzione romana? Un legislatore sistematico e superficiale avrebbe tentato di abolire questi vecchi costumi adattati alla rozzezza dei tempi di Romolo e inopportuni alla cultura dei tempi moderni; ma egli è assai probabile che senza riuscirvi avrebbe messo in grave pericolo la repubblica, o almeno se stesso. In fatti i Comizi per curie e per tribù era la rappresentazione dei diritti personali, come i ComizŒ per centurie era la rappresentazione di diritti reali: e come non era possibile distruggere la forza personale, giacchè esiste in natura: così sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una violenza contro natura l' intera abolizione dei ComizŒ curiati e tributi. Essi hanno preceduti i ComizŒ centuriati, essendo stati instituiti da Romolo, e la ragione di ciò l' abbiamo data quando abbiamo osservato, che nel primo stato di una nazione prevale la forza veniente dai diritti personali, poichè la proprietà ancora non vi è, o se vi è non fu ancora divisa in parti molto diseguali, o finalmente non ha ancora avuto tempo di esercitare la sua influenza. Ma passati quasi due secoli la nazione venuta al secondo stato di proprietà diseguali, vennero secondo la legge da noi esposta, a prevalere i diritti reali ai personali, e fatta l' instituzione dei ComizŒ centuriati, questi subitamente presero la prevalenza, e trattarono di affari maggiori della repubblica. Ma per quanto questi prevalessero non si potè già fare che soli prevalessero, e la rappresentanza reale fatta in questi, dovette essere temperata dalla rappresentanza personale fatta in quelli: così l' equilibrio fra la proprietà ed il potere non si potè già perfettamente conseguire, ma solamente approssimarvisi. Il difetto del sistema consiste nell' esser questo più ristretto che non è la natura: per amore di semplicità e di regolarità si tralascia qualcheduna delle forze della natura; e di ciò viene il detto, che è diversa la teoria dalla pratica. Le maggiori dissensioni esistenti fra i politici si riducono, ridotte agli ultimi termini, a sostenere gli uni la rappresentanza reale, gli altri la rappresentanza personale: gli uni e gli altri non fanno che un sistema: è una teoria che differisce dalla pratica: la teoria che non differisce dalla pratica sarà quella che insegna a far che coesistano queste due rappresentazioni, giacchè esistono in pratica le due forze che le producono. Noi le ritroveremo egualmente, se considereremo le costituzioni inglese e francese; e specialmente la prima, dove sembra che la rappresentazione reale più prevalga. La camera bassa rappresenta i minori proprietarŒ. [...OMISSIS...] Ma non è già questo solo l' officio che presta la Camera bassa. Chi ben considera essa non è solo una rappresentazione di proprietà, ma ben ancora di diritti personali. [...OMISSIS...] Ma per vedere come spetti alla Camera bassa anche la difesa dei diritti personali, basta osservare l' incumbenza che nella costituzione inglese ha di sua natura un deputato alla Camera. [...OMISSIS...] Se la Camera bassa rappresentasse solamente proprietà essa non si sarebbe giammai mostrata in così stretta relazione come è coi fautori della rappresentazione personale: i democratici di tutti i paesi trovano sempre facile l' alleanza colla Camera bassa, e le rivoluzioni democratiche cominciano sempre da lei. Se la Camera bassa rappresentasse mere proprietà, probabilmente dopo la caduta del feudalismo avrebbe trovato il modo di unirsi in una Camera sola colla nobiltà, giacchè non differirebbero essenzialmente riguardo agl' interessi di cui assumono l' avvocazia. A malgrado però che i diritti personali nelle migliori costituzioni abbiano trovato il modo di farsi rappresentare meno o più fortemente, secondochè la società è più o meno avanzata, tuttavia la maggior difesa di questi consiste piuttosto nella rettitudine di quelli che influiscono nel governo, che nella stessa organizzazione del medesimo. Rimossa la rettitudine, non solo i diritti personali sono sempre in pericolo d' essere offesi, ma ben ancora la minorità dei diritti in genere; poichè la minorità è sempre di natura sua inetta a resistere contro la maggiorità. Se gli uomini fossero interamente cattivi, la minorità sarebbe sempre sacrificata: e sacrificando l' una dopo l' altra diverse minorità, gli uomini distruggerebbero in breve se stessi. Ma gli uomini non sono interamente cattivi, ma hanno solamente una parte di cattiveria: la quale ora è più grande ed ora è più piccola: dunque la minorità non viene già interamente distrutta, ma viene bensì attaccata ora con più forza ed ora con minor forza dalla maggiorità. Se la minorità si vede attaccata con molta forza, ma non però tale che perda ogni speranza di fare una valida difesa, allora è il caso in cui lo stato si pone in convulsione, poichè la minorità fa tutto il possibile per acquistare la prevalenza: ed allora le forze che essa naturalmente non avrebbe, le acquista per un' energia sforzata, per un impulso violento che produce in se stessa l' entusiasmo e le passioni sollevate: e questo è appunto il caso in cui il governo italiano nel secolo XIII venne in mano alla minorità, cioè alla plebe od ai commercianti; quella forza non era reale e naturale, ma artatamente prodotta od eccitata: bastevole perciò ad abbattere i principi ed i nobili per il momento, ma non a sostenere se stessa lungamente. Da queste osservazioni nasce che ogni opinione che si abbracci in politica, sia favorevole alla rappresentazione personale o sia alla reale, è cattiva fino che non si è trovato il secreto di eliminare mediante il Tribunale politico la rappresentazione personale; poichè in tal caso non restando nella Società che la rappresentazione reale, questa si può organizzare in un' Amministrazione, seguendo rigorosamente la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. Qualche scrittore meno trasportato da partito, che osservò come la rappresentanza personale perderebbe la società privando di difesa tutti quei diritti che risaltano fuor della linea comune, che sono fondati in natura, e che vengono a formare la somma maggiore dei diritti; e che osservò d' altra parte come la sola influenza delle ricchezze nella rappresentazione reale lascierebbe scoperti e indifesi i diritti personali: non seppe poi giungere ad osservare, come la natura spingeva le nazioni a prendere una costituzione media e quasi spinte da due forze diverse a tenere per così dire la diagonale. In fatti fino che il Tribunale non viene diviso dall' Amministrazione quella costituzione media è la più saggia, come quella che viene suggerita dalla natura. Non essendo però giunto a formarsi questa idea precisa si acquietò in un sistema incerto e determinato, dicendo così: « « Il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agl' individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all' intera nazione, che in nessuna parte trovisi chi potrebbe volere in nome di tutti quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, e imporre a tutti i sacrificŒ che ogni individuo potrebbe acconsentire d' imporsi. »1) » Certo la sovranità giova che appartenga all' intera nazione, ma giacchè questa nazione non è che una persona morale composta di persone individuali; bisogna sapere di più, come questa sovranità debba essere divisa fra dette persone individuali, in che ragione debba essere dalle medesime partecipata: tralasciando di definir questo non si dice ancor nulla coll' affermare che la sovranità debba risiedere nell' intera nazione. D' altro lato in qualunque modo sia divisa fra la nazione, rimane sempre una maggiorità ed una minorità di forze: quindi rimane medesimamente insoluto il gran problema: Come si possa difendere ogni minorità contro ogni maggiorità: problema più interessante che non pare a prima giunta; ma che si vede esser tale dove si supponga fatta astrazione dall' elemento morale, il quale salva in parte la minorità; poichè senza questo scudo una successione di minorità sacrificata come dicevamo condurrebbe l' uman genere intero alla sua distruzione. Vuol forse dire l' illustre autore con quelle parole, che la sovranità debbe risiedere nell' intera nazione, ma che non debb' essere stabilita nessuna stabile regola intorno al modo ond' essa venga divisa fra gl' individui della nazione, acciocchè variando di fatto la ragione onde viene partecipata la sovranità dagli individui, il centro di tutte le forze nazionali sia mobile, ed ora si trovi in un punto ora nell' altro della nazione? Non posso credere che voglia intendere ciò; poichè sarebbe lo stesso che abbandonare le cose pubbliche al caso, o negare che possano essere aiutate dalla saviezza, sarebbe ancora un lasciare la sovranità da rapirsi e straziarsi a vicenda da tutti quelli che hanno più forza. Il secondo disordine, che nascerebbe dalla costituzione civile fatta rigorosamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, sarebbe la rettitudine fatta servire alla ricchezza; poichè tale costituzione organizzata in un modo al tutto amministrativo non curerebbe di sua natura che gl' interessi, e ciò che è morale sarebbe straniero alla medesima, cioè a dire apparterrebbe alle persone singole, ma non alla Amministrazione stessa presa in astratto. Poichè fu sempre impossibile agli uomini lo spogliarsi di ogni idea nobile ed elevata, di ogni principio morale, che trascendesse tutta l' importanza degli interessi sensibili: e poichè mediante la religione cristiana queste idee sublimi e preziose vennero a rilevarsi e rinforzarsi nelle menti degli uomini; perciò egli fu impossibile, che le nazioni specialmente cristiane organizzassero il loro governo unicamente come un' Amministrazione, che è quanto dire realizzassero a tutto rigore la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. « « Si aveva una certa non so quale vergogna » », così uno storico che più volte abbiamo citato parlando della legislazione de' secoli di mezzo « « ad attribuire tanto merito alla ricchezza che sola potesse collocare un uomo nel primo ordine della Società, nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara che è tra gli uomini grandissima delle ricchezze; nè stabilire il principio, che i beni in qualunque modo acquistati da un plebeo gli dessero un giusto titolo da essere rispettato ed obbedito da' suoi eguali. »1) » Il principato e la magistratura, che si confuse col potere assoluto, ebbe sempre con ragione aggiunte nel pensare degli uomini le più eminenti idee, e ciò nasceva perchè i due loro principali officŒ, erano: 1 il render giustizia, officio tutto morale, e che fa vedere in quello che lo esercita il vicario di Dio in terra: 2 ed il combattere, officio che diventa pur morale, quando si combatte per la giustizia, quando si combatte non per sè, ma per la difesa del popolo, che si ha ricevuto in cura dalla provvidenza. Il feudalismo che aveva rimesso il principe sul tuono di una generosità, che tutto fa per gli altri e nulla ritiene per se stesso, aveva rinforzate queste idee. La religione le aveva autenticate e sacrate, ed il principe divenne una venerabile imagine della divinità e della provvidenza, che nulla aveva per così dire di profano e di terreno. A questi alti offici si associava l' officio economico, o amministrativo; ma questo era ecclissato dallo splendore di quei primi, e quasi non si considerava. Poichè questa maniera di pensare è giusta e conforme alla divinità del cristianesimo, perciò fino che questi diversi officŒ restano insieme mescolati e confusi, non è possibile che l' amministrazione sociale abbia la sua perfetta organizzazione, giacchè tale organizzazione nuoce a que' due primi e più rispettabili officŒ. In fatti la perfetta organizzazione è che le ricchezze sieno quelle sole che in essa influiscano. Or come è possibile che la facoltà di amministrar la giustizia, per esempio si distribuisca in ragione della ricchezza? E` forse distribuita in ragione della ricchezza la probità, che è ciò che è necessario per l' amministrazione della giustizia? Non già. Dunque fino che i membri dell' amministrazione debbono anche esser quelli che rendono giustizia, non potrà mai avvenire che s' abbia un' Amministrazione perfetta ed un giudicio perfetto nella nazione: poichè l' amministrazione perfetta esige che sia divisa fra i membri della nazione in ragione delle ricchezze che possedono: ed il giudicio perfetto esige che sia fatto dagli uomini probissimi indipendentemente al tutto dalla loro ricchezza e povertà. L' amministrazione perfetta dunque non si può ottenere se non si divide da essa tutto ciò che nel governo c' è di morale; cioè se non lo si porta tutto nei tribunali e specialmente nel Tribunale Politico. Queste osservazioni spiegano la ragione per cui nei tempi in cui si avevano più nobili idee del governo, e in cui si faceva più conto del suo vero splendore morale e religioso, in que' tempi l' amministrazione fosse più negligentata. Nei nostri tempi all' incontro in cui l' amministrazione si è tanto migliorata, la dignità del governo è caduta e quasi spenta, e quasi tutte le idee morali sono sparite: il materialismo si è communicato per tutte le fibre del governo, e per usare le espressioni d' un grand' uomo: La legge è atea, e le nazioni stesse si mettono in circolazione come cambiali. Si ha dunque ragione di gridare contro al materialismo che corrompe i governi de' nostri tempi, dando loro la forma di un negozio mercantile; ma si farebbe ancor meglio nell' insegnare come si possa dividere l' amministrativo da ciò che è morale, acciocchè per un giusto timore di non perdere il morale, non si tornasse forse nell' amministrativo ai secoli di mezzo. E non è già che io escluda nell' amministrazione la moralità: questa è necessaria in tutto: ciò che dico si è, che la moralità debbe accompagnare l' amministrazione; ma che il giudicio debb' essere la professione stessa della moralità. Come ho dimostrato, che l' amministrazione nazionale non si può render perfetta se non si divide dall' elemento giudiciale o morale, così avrei potuto parimente dimostrare ch' ella non poteva organizzarsi perfettamente, fino che non era divisa dalla magistratura; nella quale non debbe prevalere la ricchezza, ma l' elemento intellettuale. Ma ho creduto bene di ommettere questa osservazione per riservarla al Libro dove parlo della magistratura. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, ovvero chi non pretende, inconseguente con se stesso, che la morale sia bensì qualche cosa ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione se prima non credono ch' ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere debbono aver portato un giudicio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo ne' governi assoluti, ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. - Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono esser riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e della giustizia, e di più sopra la disposizione retta della volontà; ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza de' cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca non v' abbia finalmente un' autorità suprema, ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio assai più che le forze fisiche ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo il persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio; ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova che l' umanità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. In fatti qual può essere la disposizione di quelli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo, ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale che essi oggimai temono più i danni che possono venir loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino di vantaggio dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera di acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: poichè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possan gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fin del conto per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti ad un fondo di moralità benchè imperfetta che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione de' diritti e però de' beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile, ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali, di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' esser verissimo, che il modo onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani e questo vale tanto se il governo è regio, quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancor sarebbe lo stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona dev' essere preceduta da un giudicio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudizio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provare la sua difficoltà ed incertezza: le quali non provano mai che egli non sia necessario: provano tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare mai a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti i casi contro l' umana tristizia. La cosa è al tutto evidente, giacchè niuno è giudice in causa propria. Oltre di ciò egli è più probabile che il giudicio riesca esatto quando vien fatto da persone, le quali non hanno da occuparsi che in questa sola cosa; ed al giudicio vien dato il tempo in tal modo perchè sia fatto con maturità. Gli amministratori della società quando debbono fare una disposizione politica, non guardano che di passaggio, se pure anche ciò è vero, la relazione morale della medesima, non tanto per malvagità, quanto per inavvertenza; poichè la loro attenzione è tutta occupata nel calcolare i vantaggi della disposizione ideata; e la poca importanza che si è sempre dato al giudicio morale nelle disposizioni politiche apparisce dal non esser giammai venuto in mente di dare a tali giudicii una forma regolare. Il giudicio morale adunque sopra ciò che debbe fare l' amministrazione della società debbe riuscire più esatto e più giusto, quando vien fatto da una Commissione apposita diversa dall' amministrazione della società, sì perchè 1 in tal caso la Commissione non giudica in propria causa, come sarebbe se il giudizio fosse portato dall' amministrazione della società. 2 Sì perchè facendosi a parte il giudizio sulla giustizia e quello sull' utilità della disposizione, ed oltre a ciò facendosi da persone diverse e da persone dotte particolarmente nella scienza della giustizia e con esatta procedura, non può non riuscire più perfetto. Di quì ne viene che tutti quegli uomini onesti, i quali non desiderano nella società di usurpare l' altrui, ma unicamente desiderano che i diritti di tutti sieno quant' è possibile difesi e guarentiti, debbano non già temere, ma desiderare l' erezione di una tal Commissione o Tribunale apposito rivolto a mantenere la giustizia nelle disposizioni politiche. Non si debbe già adombrarsi alla considerazione che il detto Tribunale potrà anch' esso esser soggetto alle umane imperfezioni, e potrà esser soggetto alle passioni; perciocchè noi non pretendiamo già, come abbiamo detto anche di sopra, che si possano rendere gli uomini impeccabili, ma il discorso sta nel vedere se si può diminuire il pericolo che nasce dalla loro debilezza o dalla loro malvagità; e diciamo, che dovendosi la società esporre in ogni modo ad un giudicio consimile, che finora venne fatto da quegli stessi che governano la società giudicando in propria causa, egli sarà sempre più probabile che il giudicio riesca giusto fatto da uomini che giudicano in causa altrui, scelti appositamente e costituiti in un Tribunale, che non siano uomini meramente politici che giudicano in causa propria, e che non si danno a dir vero grande impaccio per ritrovare in tale giudicio tutto ciò che è giusto nel senso più vero e più rigoroso. Gli stessi amministratori della società se sono onesti, e se desiderano bensì di conservare il loro potere, ma non di trapassarne i confini e di farne abuso, dovrebbono riguardare come vantaggiosa una simile instituzione. In fatti essi hanno pur l' obbligo fino che non esiste detto Tribunale di fare essi stessi il giudicio: e perciò se hanno una vera volontà di farlo retto (che altramente sarebbono tiranni) debbono e diffidare di sè stessi e non trascurare nessun mezzo per venire alla cognizione del vero e del giusto. Questo Tribunale adunque li discarica d' un peso, gravissimo agli onesti, e mette in tranquillità la loro coscienza: la voce della quale pur grida: non è già ragionevole il timore che venga loro fatto torto, e ristretta la loro autorità. 1 Primieramente, perchè le decisioni del Tribunale non possono giammai portar seco questa conseguenza, come si mostrerà in appresso descrivendo lo stesso Tribunale. 2 Di poi, perchè se questa ragione valesse ogni Tribunale sarebbe al tutto inutile e ciascuna delle parti potrebbe sottrarsi allo stesso, dico ogni Tribunale civile. Poichè son forse men sacri i diritti de' piccoli che de' grandi? Qual' è questa odiosissima tenacità che mostrano i potenti de' loro diritti, e che non mostrano giammai tale i deboli? E` forse che l' uomo in ragione che s' innalza si deprava? in ragione che acquista si irrita la sua fame? Non dieno questo scandalo i possenti ai deboli; perocchè debbono essere a questi maestri di virtù. 3 Perchè qualunque onesto debbe più che di essere offeso, temere di offendere, e temere tanto più quant' egli si trova d' essere più forte: poichè chi ha la forza, qualunque sia la virtù, è sempre per l' umana debilezza tentato di abusare della medesima: sicchè in ragione della forza che l' uomo onesto e generoso si vede aver nelle mani, debb' essere la sua cautela d' usar della stessa, e la sua cura di ben verificare se l' uso che ne fa sia retto ed onesto. 4 Perchè abbiamo dimostrato nella prima parte che ove fra due parti nasca contesa ciascuna ha diritto di esigere dall' altra tutto ciò che è necessario per definirla più equamente che sia possibile, e tutte e due hanno obbligo di convenirsi in ciò cedendo all' equità e non trascurando alcuno di quei mezzi, pei quali si può pervenire più sicuramente al detto fine; e 5 finalmente perchè egli è un troppo angusto e misero calcolo quello che fanno que' capi della società che vogliono tirarla troppo ed assicurar troppo i proprŒ diritti e ricusar un freno alle loro usurpazioni e a quelli che li imiteranno dopo di loro. In fatti, qual può essere la maniera migliore di assicurare i popoli delle loro rette e pure intenzioni, se non quella di mostrarsi essi stessi sottomessi all' imperio della eterna giustizia, di sottomettervisi con dignità, e senza quelli avvilimenti a cui irreparabilmente soggiace il dispotismo, o tutto ciò che n' ha le sembianze, senza diminuire punto del loro potere ma solo legittimandolo? di sottomettersi, dico, a quella somma ed irrefragabile legge sotto cui l' umiliarsi rende l' uomo degno di regnare? quale è e può esser la maniera di assicurare i popoli e rendersi loro rispettabili se non quella di ispiegare una morale grandezza sollevandosi sopra i pregiudizŒ de' contemporanei ed i vizŒ de' trapassati, con cui hanno combattuto i loro secoli, e che vincenti o vinti furono giudicati dalla posterità? se non finir di ostentare giustizia nelle parole e mostrare di desiderarla nel fatto, e di non negligere la via unica a rinvenirla? se non conoscere che alla diffidenza illuminata de' popoli da una parte, alla loro corruzione profonda dall' altra, non basta nè pure far ciò che si crede giusto se non si mostra d' usare tutte le vie per conoscere ciò che è giusto? Non basta, dirò di più, e conoscere ciò che è giusto e scrupolosamente eseguirlo, se ciò non si fa constare pubblicamente, se non se ne dà un pubblico documento; se insomma il giudizio su quanto è giusto non si presenta sì franco e sicuro di sè medesimo che non tema la pubblicità, e assicurato del giudizio de' saggŒ abbia il diritto di dispregiare i cicalamenti de' sciocchi. Perocchè non può il popolo giudicare da sè stesso e non può insieme deporre il sospetto dell' ingiustizia fino che il giudizio è fatto dagli stessi interessati, quantunque retto egli sia, come non rimane, all' opposto, più escusabile se nutre ancora il sospetto, quando sia costituito un Tribunale che quasi voce e mente del popolo stesso giudica a nome della verità che il fatto governativo non lede i diritti di alcun debole, al quale dinanzi ogni debole può stare a fronte del forte purchè pugni con quel marte comune che è la giustizia e la imparzialissima verità. Sì, quando il popolo sarà assicurato pienamente che i principi vogliono la giustizia, egli cesserà dalle sue inquietudini e dai suoi errori. Non è solo l' ingiustizia, è anche l' incertezza della giustizia, che viene sempre vendicata; è l' opinione che il principe faccia qualche cosa d' ingiusto, è il dubbio che il faccia, che stringe insieme i deboli a far causa comune. Il disseminare questi dubbŒ ne' popoli, lo spargere queste opinioni di ingiustizia e d' usurpamenti, fu l' arma dei facinorosi onde sollevarono i popoli contro i principi; il dileguare queste opinioni, questi dubbŒ è il mezzo unico di riconciliare di nuovo i popoli co' lor principi e di sventare l' artificiose insidie dei nemici d' entrambi. Intanto a me pare che basta bene ai principi un assai piccolo fondo d' onestà per riguardare che l' equità resa in tal modo splendida e solenne sia di comune loro vantaggio. L' uomo che stenta nell' indigenza e che non ha nulla da perdere, può essere ingannato a credere che a lui torni meglio il sovvertimento della giustizia: per poco che questo uomo sia dominato dalla passione d' acquistare, ella il moverà a romper le leggi della giustizia perchè non è infrenata dal timore di perder nulla: ma colui che ha molto da perdere debbe essere agitato da una furia di ambizione o di cupidigia perchè stimi bene per sè che la giustizia sia calpestata nel mondo ed ogni onore le sia perduto: mentre perchè egli possa credere a lui dannoso il rispetto della giustizia conviene che la speranza di rapire l' altrui superi il timore di perdere il proprio: speranza a dir vero stolta pur sempre perchè, tolta la giustizia di mezzo, son esposte di nuovo alla libidine di quelli, che mutano l' istante diventan più forti, le rapine stesse del forte. Sicchè tolta dagli uomini la giustizia nessuno potrebbe a lungo godere de' vantaggi che gli desse l' istantanea sua prevalenza sugli altri uomini: la giustizia adunque è quella che tutela a tutti il suo, quella che ne rende costante il possesso; e che mediante questa costanza di possesso rende più prezioso un piccolo avere che si gode con tranquillità per lungo tempo, che un' immensa ricchezza che ci tenga sempre nell' angoscia di perderla, e di cui godiamo tutti gl' istanti con quell' ansietà onde gode il ladro del furto che attende il padrone o la giustizia che lo sorprenda. La giustizia adunque, ed il mezzo per assicurarla, è di comune vantaggio di tutti gli uomini: ma più di quelli che più posseggono; e la speranza delle rapine non vale mai tanto quanto il ragionevol timore di perdere il proprio, e di sostenere una rappresaglia aggravata dalla vendetta che rallegra l' ira degli oltraggiati, e la cui aspettazione contamina la vita degli oltraggiatori. Nè vale il dire che può avervi altro mezzo perchè i regolatori della società vengano, prima di far cosa alcuna, alla cognizione del giusto; ch' essi possono far giudicare la cosa ove ne dubitino, da probe persone atte a scorgere per la via retta la loro coscienza. Vana lusinga! Non varrebbe egli questo argomento per rendere inutili i Tribunali civili? perchè questi si stabiliscono? perchè l' una parte che si crede offesa vi cita l' altra a comparire? perchè non si fa buona risposta alla parte citata quella ch' essa ha operato con consiglio che ha fatto giudicar la cosa d' altrui? Quando la causa versa fra due parti il giudice non debb' essere all' arbitrio dell' una, ma in mezzo di tutte e due; non debbe essere scelto causa per causa, ma debb' essere quello stesso per tutte le cause; non debbe dare il giudizio solo all' orecchio d' una delle due parti, ma debbono tutte due poter dire le loro ragioni innanzi al medesimo, e poterne ricevere la giustizia. O forse ciò che da tutto il mondo si è reputato sempre necessario per ritrovar la giustizia negli interessi piccoli, si renderà egli inutile e superfluo negli interessi più grandi? non debbe anzi crescere la cautela e la diligenza nel rinvenire e nel mettere in piena luce quanto è giusto in ragione che cresce la grandezza e l' importanza degli interessi? Questa osservazione è sì vera che renderebbe inesplicabile come mai gli uomini, che hanno sempre e da per tutto pensato e riconosciuto necessario d' erigere de' Tribunali per giudicare gl' interessi de' privati; non abbiano giammai fatto altrettanto per gli interessi politici: se non si riflettesse alla difficoltà di erigere un Tribunale politico, il quale esige un gran progresso di lumi, ed una moralità assai avanzata nel genere umano; i quai lumi e la quale moralità non si poteva aspettare dagli uomini se non allora che l' influenza del cristianesimo si fosse spiegata per un lungo corso de' secoli in tutti gli aditi dell' uman cuore, ed indi fosse passata in tutti i costumi, in tutte le attitudini della vita. E quest' epoca sentiamo speranza che da noi molto non si dilunghi. Se non che avrà sembrato che prima ancora di mostrare la necessità di questo Tribunale avessimo noi dovuto ricercare se egli era possibile. Ma non abbiamo creduto di tenere quest' ordine; poichè la piena possibilità di detto Tribunale non può a pieno vedersi se non allora quando ne avremo fatta un' esatta descrizione: poichè dal complesso solo di tutte le sue parti e di tutte le sue circostanze si può formarsene quell' idea di lui così determinata, che a mal grado che non abbiamo quasi nulla di simile nelle instituzioni de' popoli, tuttavia ci somministri la confortante speranza che non solo sia possibile, ma ben anco che sia per essere realizzato un tanto beneficio dell' umanità. E il bisogno stesso, che si rende ogni giorno più sensibile di un tal Tribunale, è ciò appunto, che nel mentre lo rende possibile, ne approssima ancora la di lui esecuzione. Perocchè egli è un fatto innegabile che la rapida diffusione dei lumi in tutte le classi della società, ha mutata la condizione del popolo: è un fatto innegabile che il popolo ha una profonda coscienza del proprio stato, e che questa coscienza di sè è la causa generale ne' diversi tempi de' suoi generali movimenti: è un fatto innegabile che il popolo in altri tempi mosso appunto da questa coscienza della propria impotenza intellettuale riconosceva la necessità di lasciarsi ciecamente guidare e dirigere da' suoi capi; che il popolo in quei tempi era come un pupillo che avea bisogno di tutela, e che non era capace di emancipazione (ripetiamo questa frase perchè nulla di ciò che è vero ci dispiace ripetere onde che ne provenga): è un fatto innegabile che il popolo in questi tempi, (cioè una gran parte di persone della massa del popolo) aumentò di lumi e coll' aumento dei lumi acquistò insieme una coscienza di maggior potenza intellettuale, e questa potenza fece sì che non sentisse più il bisogno di abbandonarsi alla cieca alle sue guide, e che fosse in lui risvegliato un desiderio di vedere anche egli o di calcolar anch' egli i propri interessi, al quale calcolo venendo egli ammesso riceve una specie di emancipazione, ma non già per questo una sottrazione dallo stato a lui essenziale di sudditanza; cessa d' esser pupillo, ma non cessa d' esser suddito: è un fatto innegabile finalmente, che la moralità ad un tempo e la corruzione accelerano entrambi questo stato di popolare emancipazione: poichè la moralità lo suggerisce e lo persuade siccome equo, mentre la corruzione accrescendo l' irritabilità fisica degli uomini, rende loro più grave tutto ciò che credono d' ingiustamente soffrire, o che dubitano che sia ingiusto; o di cui abbiano un pretesto di dubitare. Ed ora il solo Tribunale politico è il solo mezzo di togliere alla tristizia degli uomini questo pretesto e questo dubbio, e di dare all' equità una base costante: egli è dunque questo Tribunale che i popoli colle loro inquietudini cercano senza trovarlo, e dimandano senza saperlo indicare: egli è questo Tribunale il rimedio alle inquietudini popolari; rimedio che i monarchi pur tanto desiderano, e che hanno o la sciagura di non vedere, o la pusillanimità di non abbracciare. La necessità adunque di questo Tribunale, sempre crescente, quando diventerà estrema, è quella che non solo lo dimostrerà possibile, ma che contemporaneamente ne condurrà l' esecuzione. Poichè sebbene questa sia lontana assai dalle consuetudini, e sia contrarissima ai più cari ed inveterati pregiudizŒ; sebbene ella esiga una grande superiorità di spirito in quel monarca che prima ne dia l' esempio e in quel popolo che possa esser degno di tal monarca; tuttavia io non dubito punto che perduta la novità di che ella si mostra fornita, ricevuta da alcune menti robuste, e resa splendente da un sapiente e magnanimo esempio, non debba comparire agli uomini come la più preziosa tutela de' loro diritti e come un dono celeste; e ad essa non si convertano a gara maravigliati d' aver conosciuto sì tardi una così semplice insieme e grande instituzione, e di averla i loro padri fino a' loro tempi prima così a lungo obliata, e poscia così a lungo derisa. Egli sarà in cotesto tempo, che dissipate quelle nebbie che spargono nelle menti le tenaci prevenzioni, il Tribunale politico sarà domandato dalla pubblica voce, ed unanimemente dai grandi e dai piccioli della società riconosciuto come la più solida base di quella felicità che si può godere sopra la terra. Allora, quando ognuno sarà arrivato tanto innanzi coi lumi da vedere che la giustizia deve riputarsi più utile dell' usurpazione, e che il poco e sicuro è preferibile al molto e non sicuro; il Tribunale politico avrà la voce di tutti; egli sarà allora inatterrabile, sotto l' egida dell' universale opinione: ed egli non avrà armate da difendersi, perchè avrà l' umanità intera che farà la scolta d' intorno a lui. Egli è appunto questo che debbesi rispondere a coloro, i quali non conoscendo altra maniera di difendere i pubblici istituti che quella della forza fisica, ci facessero l' obbiezione, che tale Tribunale non potrà sussistere perchè impotente in mezzo ai potenti, e quasi un agnello in mezzo ai lupi. Tanto è lungi che questo Tribunale non possa sussistere perchè privo di forza fisica, che anzi appunto perchè ne è privo potrà sussistere, e fino che ne rimarrà privo: poichè appunto questa debolezza fisica darà la prova della sua forza morale: e la forza morale è quella che lo debbe fortificare di quella opinione non pubblica ma universale, contro cui tutto perde sua forza: di quella opinione dico dalla quale sola nasce la forza fisica e senza la quale qualunque esercito non solo non è forte, ma né pure esiste. Ella è questa opinione che non si lascia toccare né offendere senza farne una inevitabil vendetta, quella che verrebbe tocca ed offesa da chi attentasse al detto Tribunale che diverrà come la pupilla dell' umanità. La libertà di questo Tribunale sarà il segno e la caparra della libertà di tutti gli uomini: la incolumità di questo Tribunale sarà il segno della loro incolumità: la prosperità sua sarà la loro: e tutto ciò che nuoce o mostra di nuocere all' esistenza di simile instituzione, muoverà nell' uman genere quell' ira sapiente e però indomabile, che non si ammanserà che coll' esemplar punizione di quel sacrilego e stoltamente audace che si elevasse contro un' instituzione formante la salute e l' onore degli uomini. Ella è la voce pubblica, ella è la pubblica opinione che dimanda questo Tribunale, che saprà ottenerlo, e che ottenuto saprà difenderlo. E quando dico la pubblica opinione, non intendo quella dei più miserabili della società, ma intendo quella di tutti, e più di quelli che più posseggono, e che perciò hanno più diritti da difendere. L' opinione discorde a questa non sarà più che una irregolarità colpita di riprovazione, e riguardata o con quella compassione onde riguardasi la ignoranza e la stessa pazzia, o con quello sdegno onde mirasi il delitto di lesa umanità. Egli è dunque il caso in cui gli uomini si troveranno tutti uniti, non per un legame esterno, ma per la forza della verità a difendere contro l' aggregazione di ciascuno le proprietà di ciascuno. Ciascuno si riconoscerà debile contro di tutti: tutti dunque saranno interessati non più ad assalire la proprietà di ciascuno, ma a difenderla: egli è in questo modo che l' autorità pubblica, la quale di natura sua è temibile perchè è forte, sarà ella stessa quella che rivolgerà la propria fortezza, per dir così, a contenere sè medesima; poichè nessuno abuserà più di simile autorità dal momento ch' egli è giunto a conoscere che ciò non può che nuocergli, e che più assai di bene egli debbe aspettare dall' universale mantenimento della giustizia che dalle proprie infrazioni della medesima: quantunque nel mantenerla egli rinunzi a un momentaneo vantaggio, ma ad un vantaggio non solo incerto egli stesso, ma che con sè trae nella incertezza anche tutto ciò che prima possedeva. Né egli è già questo il primo esempio di una instituzione che sebbene non sostenuta colla forza fisica, si sia sostenuta a lungo e tuttavia si sostenga. Poichè tale è il Cristianesimo: il fondatore del quale non lo fondò già sulla forza pubblica, ma bensì sulla forza morale: e con questa forza morale egli ha trionfato e trionfa della forza fisica: e ciò è tanto vero, che ogni qualvolta la forza fisica è venuta in aiuto del cristianesimo, egli è paruto che gli abbia anzi nociuto che giovato: per cui questa che è la massima la più universale e la più durevole di tutte le instituzioni, è appunto quella che si è francata, dirò così, di più dal bisogno della forza fisica, e che ha fino sparso sopra di questa il più grande disprezzo innalzando gli animi degli uomini ad una grandezza, nella quale fossero capaci di giudicare la forza fisica indegna dell' uomo e di non temerla. Tutti quelli pertanto che non credono al cristianesimo, ma che sono tuttavia costretti di confessare questo fatto, il quale non ha nè luogo nè tempo che lo racchiuda e che lo nasconda, dovranno confessare che è pure una gran forza quella dell' opinione, e che su di essa si può fabbricare con solidità; e quelli che credono a questa religione divina, e che la conoscono indistruttibile, come la parola del suo fondatore, troveranno in essa il punto d' appoggio del Tribunale di cui parliamo. Si consideri che un carattere che questo Tribunale ha comune con essa o con tutte le instituzioni pacifiche prodotte dall' amore di giustizia, si è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere ; poichè essendo appunto privo di forza fisica nessuno può temere che egli assalisca, e la sua forza morale si restringe solamente a raffrenare gli assalimenti altrui; poichè egli è appunto per questo instituito, ed è da questo che ricava la sua forza morale. Non vale il dire che col pretesto di difendere egli può talora offendere; poichè egli sarebbe questo un argomento del genere di quelli che per provare troppo finiscono a nulla provare: un argomento che potrebbesi egualmente fare contro qualunque instituzione e provvedimento per quanto sapiente ed utile fosse; un argomento finalmente che si appoggerebbe sopra un falso supposto cioè che con simile Tribunale s' intendesse di torre tutti i mali del mondo; mentre non si tratta che di diminuirli, ciò appunto che si pretende solo anche da' Tribunali civili i quali sarebbero inutili, se inutile fosse tutto ciò che non rimedia a tutti, ma solo a molti dei mali. Concedo adunque che non possono a lungo sussistere senz' essere fornite di una forza fisica prevalente quelle instituzioni la cui natura porta che sieno armate, e di cui l' intenzione non è palese, sicchè v' ha sempre ragione di temere da esse qualche assalto, concedo che nessuna autorità politica appartenente all' amministrazione della società potrà essere in mezzo a questo mondo, pur sempre sospettoso e che inferocisce alla vista della forza, privata per lungo tempo di un presidio bastevole a sostenerla, mentre ha in se stessa una forza bastevole a farla temibile e ad irritare, e mentre il suo officio è rivolto a cercare ciò che è utile, e non a cercare solo ciò che è giusto. Egli è adunque la pacifica condizione di questo Tribunale privo di ogni aspetto guerriero, ma augusto e venerabile per la sola luce della giustizia e della verità, che il renderà maggiormente amabile agli occhi degli uomini, dopo che l' instruzione diffusa per le nazioni abbia insegnato loro che la conservazione della giustizia è il solo mezzo onde si può aspettare ogni felicità della vita su questa terra e che questa conservazione non s' ha che per un Tribunale che giudichi le pubbliche azioni, e dopo che la religione avrà consacrato questo Tribunale e dato al medesimo una potenza che non può ricevere dagli uomini, ma che viene da Dio. L' esatta determinazione poi dello scopo, a cui debb' essere rivolto questo Tribunale politico nella immediata sua relazione, cioè la determinazione dei suoi speciali uffici, scioglie altre obbiezioni che si possono fare contro di lui. Poichè da alcuno si obbietterà ch' egli vuole riuscire un impaccio all' amministrazione, la quale non può essere ritardata in molte sue urgenti deliberazioni. Da altri si troverà un ostacolo nella spesa ch' egli esige per la trattazione di simili cause, poichè dovendo egli servire per quelli che nella società sono più deboli e perciò per quelli segnatamente che hanno meno beni di fortuna, i diritti dei quali sono quelli che meno si calcolano nelle politiche deliberazioni e che più facilmente si sacrificano; non potrà ottenere lo scopo di difenderli poichè manca ad essi il modo di affrontare la spesa a ciò necessaria: nè torna di alcun vantaggio la difesa di una piccola sostanza quando ad ottenere tal difesa bisogni usarne una grande. Finalmente vi saranno fors' anco di quelli che ci opporranno il segreto di stato; che mediante questo Tribunale si renderebbe impossibile. E riguardo a quest' ultima obbiezione confesso che la sana politica dovendo essere ugualmente innocua (per lo meno) a tutti gli uomini, ed ancora dirò di più verso tutti benevola; non potrà riscuotere giammai l' affetto e l' approvazione universale degli uomini quella che si sforza di tenersi ai più di loro sconosciuta e che pretende di trattare del loro bene nel segreto e nelle tenebre e di celare gl' interessi più cari e più grandi agli occhi di quelli a cui gl' interessi appartengono. Non è ch' io non conosca come talora si sia forzati di occultare momentaneamente agli occhi dei tristi ciò che si prepara in beneficio universale, non è questo che riprovo, ma riprovo una politica che ha il nascondersi per sistema, ed il rendersi misteriosa ed esclusiva per l' unico mezzo di rendersi forte e temibile; mentre questo stesso non può essere lo scopo ed il voto della sana politica. Affermo che la lealtà e l' apertura è anzi solitamente così nell' uomo privato come nel pubblico, così ne' piccoli interessi come assai più ne' grandi, l' effetto di una coscienza pura ed innocente, incapace perciò di temere: che è sempre ingiusto occultare gl' interessi agli occhi di quelli a cui appartengono e a cui vedere perciò n' hanno il diritto: che ciò è sempre tranquillante e sicuro togliendo dagli animi i sospetti: che finalmente quand' anche una politica celata e cupa fosse per un istante diretta dalle più pure e dalle più generose intenzioni, ella mostrerebbe con questo una presunzione soverchia, una troppa confidenza nella propria virtù; una confidenza che l' umana virtù non può giammai aver giustamente di se stessa, ed ella, dirò di più, finirebbe quanto prima a corrompersi insensibilmente, e l' amministrazione generale della società si troverebbe cangiata in una setta pericolosa ed esclusiva che pensa coi propri pregiudizŒ e che opera pei proprŒ interessi. Credo esprimere in queste parole non i miei sentimenti, ma quelli che ha il mondo generalmente: sentimenti d' equità a cui non si può ripugnare senza sedurre prima se stessi: e che sono in armonia cogli avanzamenti dei lumi dell' umanità e col progresso della morale; progresso che sembra essere stato predetto già da principio del cristianesimo dall' autore d' una religione che si dovea predicare nelle piazze e dall' alto dei tetti in quelle parole: « « Non v' ha nulla di coperto che non si debba scoprire, nè va nulla d' occulto che non si debba sapere. »1) » Ma quest' obbiezione, come dicemmo, cade insieme con l' altre due, quando si conosca da vicino l' officio del Tribunale politico. Poichè io considero questo Tribunale solamente in relazione colle deliberazioni interne dello stato. Ora queste deliberazioni interne politiche non portano giammai un effetto che sia istantaneo, e che dopo seguito sia irreparabile; se non nel caso che si tratti di tor la vita ad un cittadino. Ora la vita ad un cittadino non si può torre se non per cagione di delitto, e il delitto debb' essere giudicato dal competente Tribunal criminale. Le conseguenze adunque di quelle deliberazioni che facesse l' amministrazione della società senza l' intervento di un Tribunale, se mai portano qualche ingiusto danno, nol possono portare che di una natura risarcibile: il che dato non è necessario che prima della disposizione stessa pronunzii giudizio il Tribunale politico. I lavori adunque dell' amministrazione non debbono venire menomamente rallentati da quelli del Tribunale politico, come questi non vengono rallentati da quelli dell' amministrazione: e tanto l' Amministrazione quanto il Tribunale operano indipendentemente l' uno dall' altro, e senza che l' una di queste due parti del potere supremo abbia bisogno di sapere ciò che fa l' altra. Ciò si accorda coll' indole di un Tribunale: poichè l' indole di un Tribunale non contiene già un' inquisizione delle cause da giudicare; ma è solo una corte stabile e per così dire passiva, la quale senza darsi cura di ricercare ciò che può alla medesima essere sottomesso, aspetta che vengano ad essa quelli che hanno dei richiami da fare, ed essa si porge pronta all' esame delle ragioni che si presentano e di quelle che contro alle medesime reca la parte contraria. Laonde dovranno essere gli stessi cittadini, o corpi di cittadini, o il governo medesimo quelli che innanzi a questo Tribunale danno moto alle cause. Infatti supponiamo che un cittadino o un corpo di cittadini conosca che l' amministrazione sociale si trova in sul fare tale deliberazione che giudica a sè nocevole e ingiusta; e che recata la causa al Tribunale politico egli riporti favorevole sentenza, cioè una sentenza che riconosce gl' ingiusti danni che apporterebbe tale deliberazione. Potrà egli aver forza una simile deliberazione di ritenere l' amministrazione della società dal prendere quel partito se lo crede utile? Non già, poichè, come noi abbiamo veduto nella prima parte, l' amministrazione della società ha un pieno potere sulla modalità dei diritti di tutte le persone morali e individuali, che formano parte della società; e perciò essa ha ancora un pieno diritto di commutare i diritti delle medesime in altri diritti equivalenti, purchè lo esiga il pubblico bene: e ciascuna di queste persone ha l' obbligo di cedere per tal fine i proprŒ diritti contro un pieno compenso de' medesimi. Laonde la decisione del Tribunale politico non può giammai limitare questo potere dell' amministrazione sociale, e non può perciò impedire che essa faccia tutto ciò che crede utile: ma non ha altro officio od incombenza che di sentenziare se essa sia debitrice di un compenso alle persone componenti la società per qualche danno loro arrecato, e quale debba essere questo compenso perchè sia pieno; mentre l' assicurazione che l' amministrazione sociale non trapassi il confine dei suoi diritti consiste nell' assicurazione che ogni danno da lei cagionato ritrovi un pieno compenso; come all' opposto l' assicurazione che a lei non venga diminuita la pienezza del suo potere consiste appunto nel non avervi alcun' altra autorità che possa ritardare o impedire le sue disposizioni amministrative. La modalità dei diritti è l' oggetto del suo potere, e su questa il suo potere è illimitato: i diritti stessi cioè il loro prezzo reale non è l' oggetto del suo potere, ma ne è il confine: questo è quello che debb' essere assicurato alle persone componenti la società, e quest' è l' unico officio del Tribunale di cui parliamo. Egli è dunque evidente che il secreto di stato, qualunque sia l' opinione che si porti intorno a lui, non può mettere impedimento all' erezione di un Tribunale politico, ed egli è evidente altresì che l' amministrazione non viene dal medesimo ritardata nelle sue più urgenti deliberazioni. Resta a rispondere alla obbiezione della spesa necessaria alla trattazione di tali cause, che sembra dover eccedere le forze di quelli che hanno più frequentemente bisogno di detto Tribunale. L' indole del medesimo scioglie anche questa obbiezione, poichè il Tribunale non è che un ramo del potere supremo, il quale per innanzi fu solito di trovarsi unito in un solo corpo esercitante i due offici: 1 di amministrare la società, 2 di giudicare della giustizia di tale amministrazione: e che ora si suppone diviso in due rami, divisi secondo i detti due offici. L' officio dunque di giudicare commesso ad un apposito Tribunale sarebbe un dovere dell' amministrazione, di cui il Tribunale la scarica. L' amministrazione adunque debbe riguardare il Tribunale come un suo aiuto, come un mezzo necessario perch' essa non esca dai suoi più sacri doveri. Le persone all' incontro componenti la società hanno tutte un diritto di non essere danneggiate dall' amministrazione, nè con certezza, nè con ragionevole dubbio. Ciò considerato vuole la giustizia che le spese per consimile Tribunale entrino nelle spese generali dell' amministrazione, e non sieno menomamente a parte degli attori, se non fosse fatta eccezione a quelli che il Tribunale giudichi evidentemente maliziosi, e senz' apparenza di ragione inquieti. Finalmente non si può neppure dire che le prove in simili materie sieno irreperibili, mentre il rigore delle prove per l' indole d' un tal Tribunale non dovrà essere al tutto pari a quello dei Tribunali civili, ma bensì pari a quello che un' amministrazione delicata nella giustizia debbe prefiggere a sè stessa, mettendo la mano nelle altrui proprietà. Nè la difficultà di giudicare rimarrà sempre la stessa; poichè colle decisioni appunto di questo Tribunale si comincierà appunto a stabilire le basi di giustizia pubblica, che fino a questi tempi mancano interamente e a cui per una inconcepibile spensieratezza degli uomini non si è pensato giammai, ma di cui il mondo sente sempre più il bisogno, e le domanda e le va quasi a tentone cercando: la cui mancanza produce tante dissensioni e tante inimicizie; e gli errori intorno ad esse costano tanto sangue e tanta depravazione: delle basi che non si potranno giammai a pieno ritrovare e fissare senza una lunga esperienza e de' lunghi studŒ; senza che dei giudici integri ed illuminati sottentrino in questo lavoro a de' filosofi corrotti ed insensati; fino a che le decisioni di un gran numero di casi particolari non menino gradatamente a delle sentenze generali, e sgombrino delle teorie imaginarie fondate nell' aria; fino a che insomma il Tribunale politico non porti le sue decisioni, e le decisioni del Tribunale politico non sieno raccolte a norma di altre decisioni; e da queste norme sieno quindi cavate delle leggi e ridotte in un codice: e la giurisprudenza politica non cominci a fare quel corso che la giurisprudenza civile ha quasi compito: unico corso diritto e solido, e tanto più necessario alla politica giurisprudenza in quanto ch' essa ritrova tanti più ostacoli da superare che la civile, tante passioni più vaste e più possenti, tanti interessi più complicati e più rilevanti, e tanti uomini ancora così incapaci di vederne l' importanza e di sentirne il bisogno. Non si esigerà prova per convenire che l' armata nè ha il diritto nè può essere capace di far da giudice nelle vertenze fra l' amministrazione e gli amministrati; mentre la forza fisica non dà alcun diritto ma solo può difenderlo; e l' armata non è che a servigio di quelli che hanno i diritti, e non arbitra de' medesimi, nè le funzioni pacifiche e meditative di giudice possono star bene alla professione avventata e bellicosa del soldato: il quale fornito di una forza fisica insieme e morale a cui niuno potrebbe resistere, si crede facilmente disobbligato dalla fatica paziente della investigazione della verità, ed abbraccia assai più volentieri la strada più corta che gli si presenta del suo arbitrio assoluto: tal' era la condizione del mondo sotto la tirannia de' Cesari la cui dignità non era alla fine, come suona il nome d' Imperatori, che quella di condottieri d' esercito. Il soldato giudice di sua natura è anche principe, e il Tribunale che vogliamo stabilire sarebbe in un istante sparito. Il Parlamento rappresenta la nobiltà ed il popolo; cioè a dire rappresenta gli amministrati: essi non possono dunque esser giudici perchè sono parti, e lo scopo del Tribunale da noi proposto è appunto quello di togliere l' inconveniente che nasce dal trovarsi insieme unito il giudice e la parte; i Parlamenti perciò non possono che trattare la causa de' corpi che rappresentano, ma non mai essere essi medesimi il Tribunale. Se fosse impossibile dividere il giudice dalla parte, e fosse necessario che una delle due parti fosse anche giudice sarebbe sempre preferibile di lasciare il giudicio all' amministrazione della società, alla quale è stato sempre attribuito da tutti i secoli, ed a cui è stato individualmente congiunto; sicchè quando si è voluto a forza strapparlo dalle persone che avevano l' amministrazione, si è strappata dalle loro mani l' amministrazione stessa, o si è gittata la società nell' anarchia. Che l' amministrazione possegga il giudicio sulla giustizia delle sue disposizioni, questo è cosa naturale, perchè è naturale che la potestà somma non abbia nella propria linea verun giudice sopra di sè: e tutto ciò che si può trovare in essa di censurabile non è già una corruzione, ma un' imperfezione, cioè a dire sebbene una tale amministrazione giudice delle proprie disposizioni non sia punto assurda nè contro natura, tuttavia essa è pericolosa, ed ha con sè un' imperfezione, che è appunto quella che noi proponiamo di togliere col detto Tribunale: imperfezione che dà luogo ad un miglioramento e non ad una distruzione, ad un progresso che fanno i secoli cristiani, e non ad una riforma che fanno i filosofi. Il bisogno ognor più sentito di simile miglioramento è una secreta forza che dispose gli uomini alle novità politiche, ma scoraggiati dallo spettacolo dell' umana corruzione, e sentendo una deficienza morale in sè medesimi, perdendo ogni credito alle forze morali della virtù, non seppero sollevarsi nel secolo della incredulità ad immaginar possibile l' instituzione di un Tribunale di giustizia, che solo poteva sciogliere il problema del tempo, e soddisfare il bisogno delle nazioni. In vece di ciò per fuggire un vizio corrono avventatamente al suo opposto: e togliendo il supremo giudicio del giusto ai re non lo affidano ad un Tribunale, ma alla parte opposta, cioè al popolo: delle due parti fra cui verte il giudicio lo rapiscono a quella nelle cui mani i secoli lo hanno consecrato per darlo alla parte peggiore, e fare gli amministrati giudici degli amministratori. Con ciò il supremo potere è atterrato: conciossiacchè non è supremo se non perchè tutti gli amministrati debbono al medesimo assoggettarsi: e se la amministrazione debba seguire col giudicio di questi in tal caso son essi che s' amministrano da per sè. Egli è per ciò, che il potere che si cerca sempre d' accrescere ai Parlamenti, che non sono se non se i rappresentanti dei corpi amministrati, inclina lo Stato ad uno stato repubblicano, cioè strappa di mano dal principe il legittimo potere da lui sempre posseduto e cangia la forma di governo. Infatti non poteva essere altro dall' istante che il giudicio dalle mani di una delle due parti passa nelle mani dell' altra; poichè ciascuna parte non suol già credersi giudice, non pensa già a cercare rettamente e solo ciò che è giusto, ma pensa a difendersi dall' altra, pensa a vantaggiare ne' propri diritti sopra dell' altra, pensa a rivolgere l' amministrazione come più a sè torna conto: egli è dunque una divisione di amministrazione che nasce, e una divisione dell' amministrazione è una mutazione nella forma del governo. S' osservi infatti se nella instituzione de' Parlamenti si sogni mai di deliberare a guisa di un Tribunale di giustizia, e non più tosto di agire a guisa di una parte che tratta la sua causa col mezzo di avvocati: si osservi se fra i Parlamenti ed i re v' abbia altra relazione che di una continua ostilità: nella quale ognuna delle parti si crede aver fatto assai quando gli è riuscito di dar qualche passo sul terreno dell' altra; e deplora la sua sconfitta quando ne è stata respinta. Se il popolo non è atto a formare questo Tribunale politico mediante i suoi rappresentanti, cioè mediante i Parlamenti, perchè è parte, e quella parte che di sua essenza è soggetta, quella che debbe essere giudicata per la stessa ragione che debb' essere amministrata; molto meno egli potrà sostenere le funzioni d' un tal Tribunale per sè medesimo; mentre per sè non può far nulla per la sua mole, e perchè egli è essenzialmente disorganizzato, soggetto alla seduzione, al capriccio, ed all' ignoranza. La ragione di ciò è il semplicissimo e innegabil consiglio, che quando si debbe eleggere persona a qualche ufficio fra molte, senza che veruna s' abbia diritto al medesimo, vuolsi eleggere quella che è all' officio più idonea, che conosce il modo di adempierlo e n' abbia l' abilità e la fermezza da non deviare giammai dal suo dovere. Ora la ricchezza, la nobiltà, la forza fisica, la potenza civile non mettono i lumi nelle menti alle quali mancano, nè la rettitudine e l' integrità ne' cuori depravati. Queste qualità adunque non hanno a far nulla coll' amministrazione della giustizia. Esse potranno forse render l' uomo più acconcio ad un' amministrazione che ha per fine l' utilità, perchè fomentano le passioni dell' acquistare, e queste acuiscono l' ingegno a trovare espedienti a' risparmi ed a' guadagni: nè cosa nuova è che un uomo di piccolissimo spirito in tutto il resto si sia mostrato sottile traficatore e speculatore e s' abbia fatto una fortuna, ed abbia fondato una casa, poichè il vivo ed unico desiderio dello avere ha messo a quel partito le sue piccole forze intellettuali, a cui non sogliono essere messe negli altri uomini men di lui cupidi. Laonde se trattandosi d' utilità la passione aguzza l' ingegno; trattandosi di giustizia ella non fa che ingrossarlo e diffondere tenebre d' intorno al vero cercato. Purissimo è il vero ed immune da ogni altra affezione: nella sua sincerità l' uomo il ritrova quanto ha il cuore più ignudo d' altri affetti, la mente più libera, e l' animo più generoso. Le classi adunque de' ricchi, de' nobili, de' militari, o degli officiali civili non possono esser quelle a cui s' appartenga di comporre il Tribunale politico esclusivamente: poichè questi loro beni lungi da fornirli d' un titolo favorevole per sostenere tale officio, più tosto valgono di loro natura a renderli inetti al medesimo: conciossiachè tolgon loro quella nudità d' animo, quella tranquilla imparzialità, quella mente pura e ferma nè ammollita dalle delizie, nè invanita dalle gravi inezie, nè lasciata rozza dalla mancanza del tempo richiesto dagli austeri e placidi studŒ della giustizia, che debbono formare appunto gli unici sostegni del politico Tribunale. Non convien dunque fare di questo Tribunale la proprietà di alcuna famiglia, o di alcuna di quelle classi della società che vengono formate e distinte le une dalle altre non già per titoli intellettuali e morali, ma per dei beni esterni che non sono nè verità nè virtù. La verità, la virtù: ecco i criterŒ unici che debbe proporsi colui, a cui fosse commesso l' incarico di fare la scelta delle persone componenti il politico Tribunale: qualunque sieno le altre condizioni delle persone qui non vanno per nulla curate: quelli che più sanno fare giustizia; che più il vogliono , che più sanno sostenere il giusto loro decreto; ecco quelli che debbono essere trascelti al politico Tribunale quai veri Sacerdoti della Giustizia. Questo Tribunale adunque non forma un' aristocrazia , ma è, se può dirsi così, democratico a quel modo che è democratica la Giustizia: poichè questa esige, come vedemmo, che tutti gli uomini e tutte le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicate: è democratico perciò, non in quel senso che tutti gli uomini vi abbiano parte, ma in quel senso, che tutti gli uomini vi possano aver parte: e vi possono aver parte, poichè tutti possono aver parte alla rettitudine ed alla virtù, a questi supremi beni aperti e comuni, pei quali solo debbesi aprir l' adito al Tribunale di cui parliamo: non in quel senso per ciò ancora che ciascuno abbia diritto al detto Tribunale solo per esser uomo, ma bensì in questo senso che ciascuno possa avere un tal diritto per essersi reso uomo virtuoso: e per aver superato negli esempi da lui dati di virtù, d' integrità e di sapienza, tutti gli altri probi e virtuosi. Ciò che noi chiamiamo spirito d' intelligenza non è già solo quello che ci conduce a desiderare delle nuove idee, ma bensì ancora qualunque altro oggetto per lontano al di fuori di noi e molteplice che egli sia, ed esso è il fonte della Previdenza, della Prudenza e della Bontà. Distrutta ogni previdenza non è meraviglia se dovesse essere recisa insieme ogni umana società: 2) non è maraviglia se chi non giudicava necessaria la ragione, non giudicasse « neppure necessario di far entrare nell' uomo il principio della sociabilità: »e perciò, se non solo venisse a torre di mezzo una società estesa ma ben anche la prima e direi quasi elementare; quella della famiglia. Per dare un solo esempio del nostro poco spirito d' intelligenza relativamente alla società domestica, si può osservare la facilità e la leggerezza onde si contraggono i matrimonŒ di che viene l' infelicità della famiglia, i difetti dei figliuoli dati alla società, ed il pentimento. Non si fa che predicare che il generatore di figliuoli è un benefattore della società: questa sentenza pigliata così sola è una di quelle idee astratte ed imperfette di cui vedemmo provenir tutti i mali. Nel mentre adunque che si insegna ad accrescere il numero dei matrimonŒ, veggiamo difendere altresì il divorzio che porta alla società domestica il colpo il più mortale; e che dimostra l' indebolimento di quella facoltà di pensare che consocia gli uomini, e l' aumento di quello spirito di senso che li divide spogliando l' uomo della previsione. Le idee all' incontro su questo oggetto dei secoli trapassati erano presso a poco quelle che ogni saggio trova necessarie massimamente ai tempi presenti. [...OMISSIS...] La previsione e la prudenza suggerisce all' uomo di non impegnarsi in un maritaggio, se egli non ha ragionevole speranza di mantenere i figliuoli; perocchè non lo consiglia punto la ragione a dare esistenza ad esseri infelici. 2) I nostri moralisti politici non pensano tanto innanzi. Da simile mancanza poi di previsione sono cacciati alle più strane conseguenze. Soffermiamoci pure ad osservare i loro traviamenti sopra un argomento che tanto interessa l' umanità. [...OMISSIS...] Ma che? risponde il più volte citato autore del « Saggio sulla Popolazione: » [...OMISSIS...] Bisogna che il Sig. Raynal non consideri già la sua proposizione astratta dalle sue circostanze, ma con un poco di maggiore spirito d' intelligenza consideri i suoi rapporti. Se come dice Rousseau « sarebbe insensato colui che tormentasse sè stesso colla coltura di un campo, quando vedesse che un altro che sopravviene lo spoglia della messe: »quando il campo insomma non è stato dato a lui in proprietà, e garantito dalle forze associate: vuol dire che la società fa luogo a poter sussistere un numero maggiore di uomini sullo stesso terreno, essendo quella che rende possibile la coltivazione dei terreni. Or questa coltivazione è resa possibile secondo Rousseau solo allora che i terreni sono divisi ed assegnati in particolari proprietà. Ognuno dunque ha diritto di vivere solo nel caso che non venga lesa questa legge della proprietà, mentre rompendosi questa legge innumerabili uomini vanno a perire, i quali hanno pure diritto di esistere. Chi dunque infrange la legge della proprietà per principŒ cospira alla vita di infiniti uomini: questi uomini adunque, la cui vita è messa in pericolo da chi vuol tor via dal mondo ogni proprietà, hanno diritto da difendersi contro costui, come contro un paricida, ed un reo del più alto tradimento. Questa massima crudele, che assalendo la legge della proprietà trucida migliaia di uomini nelle sue conseguenze, non ne lascia però nessuno fuor di pericolo, mentre nei più orrendi ed accaniti massacri, nei quali involgerebbe il genere umano quand' ella trionfasse, sarebbe incerto quali sarebbero quei pochi uomini che sparsi sulla faccia della terra tutta orrida ben presto e selvaggia l' uno lontano immensamente dall' altro coll' impressione del più alto spavento ad ogni vista de' proprŒ simili sopravivessero. E pure di questa massima sono ancora pieni i libri de' politici. Di questa massima è un corolario ed una applicazione quell' altra, che i poveri abbiano diritto di essere mantenuti dalla società; massima che pure distrugge la società stessa attentando alla proprietà particolare: massima d' altra banda impossibile; mentre non ha la società modo di sostenere tutti gli uomini che nascono, quando non sieno i maritaggi regolati dalla prudenza di quei che l' incontrano: mentre come abbiamo veduto la popolazione ha una tendenza di aumentare in ragione geometrica, mentre gli alimenti non possono che al più crescere in ragione aritmetica. Payne nel libro de' diritti dell' uomo reca assai male a proposito l' America in esempio della sua opinione. [...OMISSIS...] La società civile essendo composta di famiglie torna in danno di lei la mala previdenza adoperata della società famigliare. La imprevidenza adunque di quei padri che hanno caricata la propria famiglia di una figliuolanza che non hanno il potere di nutrire, è dunque dannosa alla società. E ponendo essi al mondo una popolazione che vuol vivere e che non ne ha il modo, pongono una causa degli sconvolgimenti. Questa cagione di tante inquietudini in Inghilterra, specialmente in tempi di carestia, potrebbe quivi cagionare malori assai più gravi, se quel popolaccio nella più brutale ignoranza potesse avere qualche vista più in là che di satollare al momento la sua fame: a malgrado di ciò gli scrittori di quel paese osservano, come se i tempi di carestia si rendessero frequentemente, sarebbevi ragion di temere, che quelle sommosse gittassero lo stato in quella specie di estremo torpore che l' Hume ha indicato colla parola euthanasia quando non lo traesse di quel sonno qualche terribile scotimento. Del popolo affamato nelle antiche società traevano aperto partito gli ambiziosi. Appo di noi la falsa filosofia delle male usate astrazioni fece credere al popolo che egli abbia diritto d' esser nutrito dalla società dei ricchi; e i movimenti della plebe si rendono con questa illusione più funesti. La filosofia sommovendo il popolo col fare a lui credere che egli abbia il diritto di spogliare i ricchi, e di ugguagliare le proprietà, 1) occasiona il dispotismo. Poichè la società dei ricchi, credendosi in diritto di difendere le sue proprietà contro gli assalitori, impiega tutta la forza che si trova avere e che non sarebbe stato bisogno di adoperare, se nel popolo vi fosse stata una dottrina più sana, o maggior virtù. [...OMISSIS...] La legge adunque della società famigliare, la legge che provvede alla scambievole sicurezza delle famiglie, e però che mette il fondamento della tranquillità anche nella società civile, la quale si forma di molte società famigliari, è la seguente: Primo equilibrio necessario alla perfetta costituzione dell' umanità è, che vi sia equilibrio fra la moltiplicazione della specie umana nelle singole famiglie colla ricchezza delle famiglie, o sia che un padre non generi maggior numero di figliuoli di quello che egli possa mantenere . Abbiamo dato la regola di ricorrere all' origine delle cose per distinguere in esse la sostanza dall' accidente. Abbiamo mostrato coll' esempio di Rousseau l' abuso che si fa di questa regola, ponendo l' idea di una cosa astratta per l' idea di una cosa reale, e insieme con ciò abbiamo insegnato il modo di far uso di quella regola senza pericolo d' errore. Applicandola al caso presente possiamo osservare come la regola da noi posta era in vigore specialmente in quel primo tempo in cui gli uomini erano raccolti in società domestiche, mentre la società civile non era ancora compiutamente formata. In quel tempo la società domestica aveva bisogno d' essere perfetta se voleva esistere; mentre non aveva altra società superiore che la tutelasse. Quindi l' ottima costituzione della società domestica la veggiamo in quelle famiglie patriarcali, nelle quali era considerata come benedizione celeste la moltitudine de' figliuoli: mentre per l' abbondanza de' terreni non poteva d' una parte venir meno il nutrimento, dall' altra c' era il bisogno di forza fisica per difenderlo dalla prevalenza delle altre famiglie. La nostra regola adunque si cangia in quest' altra, consideratone attentamente il suo spirito, che non è altro che quella stessa un poco più generalizzata. Si conservi l' equilibrio fra la forza fisica della famiglia, ovvero il numero de' suoi membri, e la ricchezza che ella possiede . Poichè se eccede il numero dei membri di questa famiglia, queste sono tante persone tentate dalla miseria di spogliare le altre famiglie per vivere; e se all' incontro è minore il numero propozionale dei membri della famiglia, non v' è in questo caso abbastanza di forza per difendere i beni della famiglia. E` tanto naturale questa legge che si ravvisa fra tutti i barbari, ove non sia passata la società più oltre che allo stato di famiglia: specialmente dove sieno circondati da nemici. E questa, se dobbiamo prestar fede alla relazione di Bruce, 1) è una ragione della poligamia in certi luoghi dell' Africa. Egli conta che appresso i negri Changallas sono le femmine che importunano i loro mariti a prender dell' altre mogli per rinforzare con un buon numero di figliuoli le loro famiglie: e lo stesso dice dei Gallas: la donna sposata la prima è quella che fa la corte a qualche altra femmina a nome del marito per indurla a sposarlo, usando ad argomento principale quello che unendo insieme le loro famiglie diverrebbero più forti; mentre all' opposto il troppo stretto numero dei loro figliuoli, non farebbe che lasciarle senza resistenza alcuna cadere nelle mani de' loro nemici. Le famiglie incorporate nella società civile già costituita non sentono tanto il bisogno di questa legge, mentre la loro esistenza viene dalla società civile protetta. Ma come la forza unita di tutte difende l' esistenza di ciascuna, così il disordine, che succede in ciascuna per una moltiplicazione eccedente la ricchezza, si riunisce in massa e ricade a danni di tutte, rivoltandosi contro l' esistenza della civil società. Da questa legge poi si comprenderà con maggior evidenza la ragione del lagno importuno che si fa sempre contro la disuguaglianza delle proprietà. La cagione, forse più stabile di tutte l' altre, di questa disuguaglianza è la moltiplicazione maggiore o minore delle famiglie, rimanendo più povere quelle (fatte l' altre cose uguali) che essendosi maggiormente moltiplicate hanno ancora più divise e suddivise le facoltà. Sicchè venendo anche fatto un riparto uguale, in breve tempo quelle schiatte, i cui successivi padri avessero generato meno figliuoli, rimarrebbero più ricche di quelle che n' avessero generati di più: e in questo modo quei padri che con maggior prudenza avessero moderato la moltiplicazione della loro famiglia, secondo quello che suggeriva loro la saviezza, ed il preveduto ben essere dei loro figliuoli, era ben ragionevole che fossero premiati nella comoda vita procacciata a lor discendenti, e che non venissero spogliati del frutto della loro virtù da quelle famiglie che imprudentemente, e però viziosamente, si sono moltiplicate. Consideriamo adunque l' opulenza delle famiglie come un diritto che hanno alla generazione dei figliuoli. Coloro che hanno già usato questo diritto totalmente, non possono più lamentarsi delle tristi conseguenze che essi stessi cagionano volendo far uso ancora di questo diritto: e queste famiglie miserabili che indi provengono, aspirando ai beni delle famiglie ricche, usurpano a queste il diritto della generazione di cui esse hanno già pienamente fatto uso, mentre le ricche non avendolo esaurito lo hanno conservato. Per questa legge di natura è adunque messo un compenso fra il bene del generare e quello del possedere; onde succede cotale equità che chi usa più dell' uno debba rimaner più privo dell' altro, e chi più si priva dell' uno debba posseder l' altro in maggior copia. Le famiglie povere adunque che dopo aver goduto il bene della moltiplicazione, aspirando alle proprietà dei ricchi, vogliono a loro invadere questo stesso diritto della moltiplicazione, sono quelle veramente che rompono la naturale uguaglianza, e la legge di compenso messo ne' godimenti dei beni dalla natura: esse sono quelle famiglie, le quali dopo aver goduto tutto il proprio, vogliono anche godere l' altrui. E ben vero che i figliuoli, non ne hanno colpa, ma non hanno colpa di questo disordine nè pure le famiglie ricche; solamente l' hanno gl' improvidi padri; i figliuoli se voglion lagnarsi si lagnino adunque de' loro padri; ma non hanno ragione di pretendere come loro diritto, che le famiglie ricche facendo parte dei loro beni, limitino con ciò il numero de' loro figliuoli futuri, o vero abbiano da prevedere altrettanti loro discendenti in quella stessa mendicità dalla quale sottraggono gli stranieri. La legge da noi posta dell' equilibrio fra la moltiplicazione e la ricchezza è quella che conserva la tranquillità e sicurezza nella società famigliare, considerando una famiglia in relazione coll' altra non già considerando l' associazione che più famiglie possono fare a danno di una sola: il qual genere di turbamento è impedito da un' altra legge. La detta legge poi costituisce ancora il primo punto della soluzione al problema propostoci: Trovare nella società il collocamento migliore di quegli oggetti che possono acquistare per l' uomo l' idea di bene e di male; acciocchè influiscano al bene dell' umanità (fac. 12, 13). Essa scioglie il detto problema per riguardo alla distribuzione delle due cose, popolazione e ricchezza; primi elementi di ogni società. Egli è poi ancora da osservare nella detta legge le due sue parti. Primo che non attenda alla moltiplicazione della specie chi non può mantenere i figliuoli; secondo: che vi attenda chi ha ricchezza da mantenerli. Nello stato famigliare della società, cioè quando le famiglie non erano incorporate ancora alla società civile era essenziale questa seconda parte; perchè doveva la famiglia difender sè stessa: nello stato poi di società civile, o nazionale è essenziale la prima parte, e accidentale la seconda; perchè la famiglia è già tutelata dallo stato, quando anche manchi di forza nel numero dei suoi membri; ma all' incontro se eccede nel numero di questi ella immiserisce ed accumula a danno dello stato una popolazione mendica e pericolosa.

Epistolario ascetico Vol.I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

L' essere tentato dai mali, all' incontro, e quasi oppresso, abbassa l' altezza del nostro pensiero, e ci costringe quasi involontariamente a riconoscere ciò che siamo, senz' alcuna illusione. E il senso di tanta nostra miseria vien reso dalla grazia il veicolo che ci conduce alla cognizione di Dio. Poichè non trovando in noi altro che miseria, e non altro in questo mondo che tribolazione, il nostro cuore, che non può starsi senza un bene ed un amore, si rivolge finalmente a Dio, quasi per una felice necessità di cui si serve la grazia, ed in Dio intieramente s' abbandona; ed allora incomincia a riconoscerlo per il solo bene, e ad averlo per il solo suo amore, e sente, oh quanto! la verità di quelle parole di Cristo: « « Venite a me, o voi tutti che affaticate e siete aggravati, ed io vi ristorerò » ». E quanto bene, che prima gli era incognito, non trova allora il nostro cuore in Dio! E con quale affetto allora pronuncia quelle dolci parole: « Deus meus et omnia »! E gli pare d' essere troppo felice per quelle stesse infermità che tanto contrariano la natura, giacchè per mezzo loro, privato della lusinga de' beni naturali, sente che Dio solo basta a tutto e soprabbasta ad ogni suo desiderio. Oh preziosa semplicità dell' amor di Dio! O ricca nudità dell' anima, che, libera dall' ingombro delle dilettazioni terrene, si converte tutta al suo Creatore! Ella ha un tal valore questa conversione dell' anima desolata e nuda dei beni naturali al bene sommo ed essenziale, che Iddio n' ha fatto il fiore della sua provvidenza in sul genere umano, che per essa ci ha lasciato le infermità e la morte, che fa di essa le delizie de' suoi più cari e il lor patrimonio ricchissimo, e che al suo diletto Figliuol solo n' ha dato la pienezza, nelle angoscie inenarrabili della sua vita e della sua morte. Ah! noi pure avventurati, o mio Giulio, se il seguiremo dietro la sua voce: « « Chi vuol venire dopo di me, anneghi se stesso, e tolga la sua croce, e sì mi segua » ». Tale e tanto conforto il Signore ha aggiunto a' nostri mali! Il Signore, che a ciascun che soffre e che ama lui, dice: « Sono io stesso con lui nella tribolazione, e nel trarrò io fuori, e lo glorificherò », patisce egli stesso con noi, e quasi non fosse ciò abbastanza a renderci dolce ogni patire, ci aggiunge ancora che ce ne trarrà fuori, e ci glorificherà. E di che gloria! « Non sono condegne - dice l' Apostolo - le sofferenze di questo tempo verso alla gloria futura che si manifesterà in noi ». Quivi adunque, in questa gloria abitiamo, fin da ora, per la fede: chè la conversazione del cristiano dee pur essere in cielo, secondo l' Apostolo stesso. E se siamo in cielo collo spirito, colla mente e coll' affetto, che sarà per noi mai questo mondo corruttibile, sopra cui ci siamo immensamente innalzati? Allora sentiremo tutta la noia di quello che l' Apostolo chiama peregrinare dal Signore , e ci nascerà in cuore quella parola non intesa, se se non da chi gli è dato da Dio, « cupio dissolvi et esse cum Christo ». E se pur viveremo, ciò non ci sarà tollerabile per altro, se non per fare la volontà di quel Signore appunto a cui notte e giorno dall' esilio sospiriamo. [...OMISSIS...] 1.32 Sperava di potervi abbracciare personalmente nel Signore nei primi giorni del prossimo novembre; ma alcuni affari incamminati che riguardano la gloria di Dio e che esigono la mia presenza, acciocchè siano prontamente ultimati, com' è necessario, non me lo permettono, ma richieggono che mi trattenga ancora qualche poco in questo dolcissimo santuario della passione di Cristo, che fu la culla, come sapete, del minimo Istituto nel quale Dio solamente per sua misericordia ci ha insieme congregati e congiunti. Se non colla corporale presenza adunque, almeno però con questa lettera vengo in mezzo di voi, per effondere a voi tutto il mio cuore, e per dirvi con quanta pena io mi stia da voi diviso di corpo (chè di spirito nol sono mai), sollecito del progresso ne' santi vostri propositi. Non già che l' essere io vicino a voi possa arrecarvi qualche grazia, o che io possa molto colle mie parole aiutarvi e sostenervi nelle tentazioni, e spingervi avanti nella virtù: poichè anzi conosco d' essere inetto a tutto ciò, e di non poter nulla, se non forse nuocervi coll' esempio della mia debolezza e miseria. Ma l' amore tuttavia che vi porto in Gesù, nostro strettissimo vincolo, è quello che mi fa desiderare di avere tutti i miei cari compagni nel santo servizio, se fosse possibile, continuamente sotto gli occhi. Poichè l' amore è impaziente di sapere tanto il bene che il male delle persone amate, nè vuole aspettarne la relazione altrui, ma rilevarlo da se stesso e certificarsene cogli occhi propri: giacchè egli vuol godere del bene loro, e vuole esserne certo, e per essere certo di quanto bene abbiano le persone amate, vuol saperne anch' il male. Oltracciò, conoscendo io la vostra carità e umiltà e la vostra dedicazione al Signore, non mi fa meraviglia che vogliate cavar profitto alle anime vostre da tutto, e anche dalle stesse mie parole, ricevendo in buona parte e in edificazione dell' uomo interiore, quanto io vi fossi per ripetere degl' insegnamenti del Signore, sebbene io sia tanto indegno di proferirli. Ed è appunto per questa santa disposizione, che spero essere negli animi di tutti voi, che io voglio dirvi nella presente (ciò che farei a voce se potessi) quanto credo essere il più necessario e vantaggioso per le vostre anime, acciocchè consumino la santa vocazione, nella quale sono per la singolare benignità e carità di Cristo, e nella quale desidero che restino in eterno. Ognuno di voi pensi seriamente ad essere sincero con Dio, cioè a volere col fatto eseguire quanto propongono le regole della Società, nella quale è entrato; il che importa, che noi entrati in questa Società vogliamo sinceramente e pienamente consecrato a Dio solo tutti noi stessi, e tutte le cose che abbiamo al mondo , non avendo d' ora in avanti altro scopo ed affetto ultimo sopra la terra, se non quello di accrescere la gloria di Gesù Cristo e della sua Chiesa in tutti i modi possibili; pronti a qualunque cosa; e massimamente senza attacchi di carne e di sangue, che sono i più fatali di tutti per chi vuol darsi veramente e pienamente a Dio nella nostra società, la quale dee avere siccome scritte in fronte quelle divine parole di Gesù Cristo: [...OMISSIS...] . Ognuno di voi ami tenerissimamente tutti i suoi compagni nelle viscere di Gesù Cristo, senza eccezione alcuna, e sopporti con piena carità i loro difetti, condonandoli loro per amore di Cristo, soffrendoli anche con gusto per propria mortificazione, non pensandoci, e, se fosse possibile, non osservandoli; all' incontro osservando continuamente i difetti suoi proprii e avendone dispiacere, anche per quello che in conseguenza di essi fa sopportare agli altri suoi compagni di molestie e di pene. Ognuno consideri il bene e l' ordine di tutta la Casa come il bene proprio, e faccia tutto quello che può per ispargere nella famiglia sempre più la dolcezza di una tenera carità e l' unione più stretta de' cuori; ognuno cerchi di unire fratello con fratello, e i fratelli coi padri, cioè co' Superiori; e di rimuovere qualunque anche minima cagione che possa diminuire questa unità d' anima e di cuore che abbiamo in Cristo, a imitazione dei primi fedeli. Tutti quelli che cooperano alla perfetta consensione delle volontà e dei cuori sono in Cristo; ma quelli che non si guardano dall' essere cagione di dissapori e amarezze, e anche solamente di freddezze scambievoli, non operano in Cristo, ma piuttosto si fanno ministri dell' inimico di Cristo, e di tutti noi. Siamo tutti un corpo: ognuno è membro del proprio nostro corpo; dunque ognuno da parte sua studi di fare quello che può per la perfetta concordia e sanità delle membra. Specialmente poi ognuno desideri di vedere i propri compagni andare continuamente avanti nelle solide virtù, e a tal fine aiuti i Superiori informandoli di quanto possono credere che sia utile loro sapere per vantaggio de' singoli. Questa carità santa, e questo impegno che ognuno prenderà per il bene spirituale e l' ordine di tutta la Casa, ci mostrerà veri seguaci del nostro Maestro che ha detto: « Gli uomini conosceranno che voi sarete i miei discepoli, se voi vi amerete l' un l' altro ». Finalmente ciò che in singolar modo vi raccomando, si è di studiare di rendervi perfetti nella ubbidienza . Oh quanto è grande, quanto bella questa virtù! Ognuno cerchi di essere ben disposto verso il Superiore: chi è benignamente inclinato verso di lui riceve con gratitudine tutte le cure che il Superiore impiega per suo bene. Le correzioni, le penitenze, le mortificazioni sono de' grandi benefizi: attacchiamoci di cuore a quei Superiori che ce li danno. In tutte le cose dove non si scorge peccato, la voce del Superiore è la voce di Gesù Cristo, la volontà del Superiore è la volontà di Gesù Cristo: e però quello che ci comanda il Superiore eseguiamolo; quello che desidera il Superiore, desideriamolo; quello che egli vuole, vogliamolo. Così si ama Iddio, così si depone se stesso. Ah! miei cari fratelli, non abbiamo volontà propria: non conosciamo ripugnanze e propensioni, non abbiamo altre ripugnanze, che di quelle cose che ci sono da' Superiori vietate, nè altre propensioni, che di quelle cose che ci sono da' Superiori comandate. Vinciamo noi stessi: dobbiamo essere vittima con Cristo, e ciò che ci immola, come Isacco, dee essere il ferro dell' ubbidienza. Tanto mi preme questa virtù, perchè è il fonte di tutte le altre, massime nella società nostra; e perciò vi prego di legger tutti in comune e di meditare, per convertire in succo e sangue, la bellissima lettera di sant' Ignazio sull' ubbidienza; ella par fatta a posta per noi, per la nostra società. Voi vedrete in essa, come il gran fondamento di questa virtù sia la fede che vede nel Superiore la stessa persona di Gesù Cristo, e non considera punto le qualità umane. Con questo fondamento sarete ubbidienti sempre, ed a tutti i Superiori, qualunque sieno: e se i Superiori fossero per se stessi dispregevoli, voi allora appunto acquistereste un merito più grande, e sareste più sicuri di servire ed ubbidire a sua divina Maestà. Di queste massime desidero vedervi forniti, specialmente ogni qual volta mi accade di dover costituire fra di voi un nuovo Superiore, come ora; e perchè credo che lo siate, perciò spero che ne riceverete l' annunzio non solo con illimitata sommessione, ma ancora con amore e con vera spirituale allegrezza. Perocchè considerando che il nostro carissimo fratello e padre don Rigler, Superiore costì di tutti voi, è oltremodo aggravato dalle sante sue occupazioni che il rubano a voi quasi del continuo, e perciò non potete ricorrere a lui ne' vostri bisogni; ho veduto esser necessario di aggiungere a lui un Assistente che faccia le sue veci, e sia una gran parte almeno di tempo con voi, e possiate con lui conferire e ricevere conforto e direzione ogni volta che vi abbisogna. Al qual fine ho pregato caldamente il Signore che m' illumini, e fatto pregare per trovare quello che meglio convenga, considerate tutte le circostanze; e finalmente mi sono risoluto di dichiarare Assistente del Superiore di Trento il vostro e mio carissimo don Giulio Todeschi, colla fermissima fiducia che come egli vi sarà l' interprete fedele della volontà del Signore, così voi sarete quegli umili e docili soggetti che avidamente riceverete e fortemente eseguirete la medesima divina volontà che egli vi manifesterà. Non è bisogno che vi lodi questo nostro carissimo fratello, perchè voi lo conoscete, e col destinarlo a tale ufficio, mostro abbastanza la stima che ho di lui. Piuttosto vi scongiuro tutti nelle viscere di Gesù Cristo a sopportare i suoi difetti, se ne ha come uomo, giacchè qual uomo mai ne è esente? e a rammentarvi quello che ho detto innanzi, che i difetti del Superiore rendono infinitamente più meritoria e cara a Dio l' ubbidienza de' sudditi. Ma chi di voi sarà un vero ubbidiente e un vero discepolo di Cristo, assai più che i difetti, se ce ne ha, vedrà ed amerà le rare virtù di cui il nuovo vostro Padre va fornito, e con una carità che crescerà ogni giorno, unirà una devota riverenza verso di lui. Ah! vi supplico tutti, quanto so e posso, date nuove prove ogni giorno della vostra sincera umiltà e annegazione, e mostrate che nell' uomo, mediante la fede, mirate continuamente non l' uomo, ma Dio. Non aggiungo di più, e so che neppur di questo era mestieri; ma ho voluto dire tutto ciò, perchè siate sempre aiutati a rammentarvi ed avere vive nella mente quelle grandi verità che già sapete, le quali formano le basi della vita religiosa, e perchè conosciate la mia premura e il mio amore continuo che anche assente ho per voi. Ed abbracciandovi tutti al seno in Gesù Cristo nostro Capo e Maestro, nostra delizia, ogni cosa, mi raccomando alle vostre orazioni, e vi benedico. Il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo abiti nei vostri cuori perpetuamente. Così sia. [...OMISSIS...] 1.32 Le mando qui una carta intitolata « Regolamento dell' Istituto », nella quale c' è tutta la descrizione in breve dell' Istituto della Carità. La prego di farla copiare pulitamente, e di umiliarla, in mio nome, all' Em.mo cardinal Weld, che desidera avere notizia precisa e diretta di questo Istituto. La relazione che l' Istituto ha coi vescovi, di cui l' Em.mo desidera special contezza, la troverà chiaramente esposta al N. 15 del suddetto Regolamento. A mio parere la natura dell' Istituto è tale che non può mai venire in collisione coi vescovi, perchè egli non agisce che dietro le richieste principalmente de' vescovi, ed è soggetto a questi in quanto alle funzioni sacerdotali e alla cura d' anime; restando soggetto a' propri Superiori in quanto al governo interno dell' Istituto medesimo, al mantenimento delle Regole, alla distribuzione de' soggetti, e all' assumere o non assumere, ritenere o dimettere gli uffizi, che egli mai non cerca, ma solo assume dietro le dimande del prossimo. Dimanda ancora S. Em.za, come intendo dalla sua lettera, qual sarebbe il sistema e modo di agire che don Gentili e compagni si propongono di tenere in Inghilterra. Se alla Provvidenza piace che il Gentili si rechi in Inghilterra con de' nostri « egli si propone di tenere un modo di agire tutto uniforme al « Regolamento » annesso, un modo di operare cioè quieto e tranquillo, che da principio si restringerebbe a fare strettamente, nè più nè meno, i doveri propri dei cristiani e de' sacerdoti, e starebbe aspettando gli ordini del vescovo e le dimande del prossimo. A quelli e a queste egli intenderebbe di prestarsi con prontezza e indifferentemente in ogni genere di opere buone, fino che bastassero a lui ed a' compagni suoi le forze ». Questo sarebbe il procedere ch' egli terrebbe, e questo è il modo di procedere nostro: nulla facciamo di proprio moto, se non i doveri strettamente privati; mossi poi da' prelati principalmente, ci prestiamo a quelle prime opere, qualunque sieno, che ci vengono dimandate. Che « se si volesse dare al Gentili co' compagni il peso d' una parrocchia, anche questa l' accetterebbe, e l' amministrerebbe secondo le leggi canoniche ed i voleri del vescovo, senza eccezione o privilegio alcuno; se poi si volesse impiegarlo nella predicazione, egualmente; se nelle scuole, pur sarebbe pronto; se nelle opere di carità, come spedali de' poveri, ed altre simili cose, di gran cuore le accetterebbe. Insomma l' Istituto nostro vuole avere dei sacerdoti che, senza predilezione, non abbiano altro in mira se non di prestarsi con missione , cioè non di proprio moto, e di prestarsi a tutto, giacchè Iddio solo credono di servire egualmente in tutte le cose ». Se mai l' Em.mo Weld desidera sapere qualche altra cosa, ove si degni di farmela conoscere, mi onorerò di comunicare tutti gli schiarimenti desiderabili. Ora veniamo a noi, mio caro Quin. Ha fatto bene a non entrare Ella a parlar della natura della Società, e faccia così anche per l' avvenire, non comunicando a nessuno quello che ha, senza licenza espressa. Desidererei molto di averla con noi qualche tempo in questa sacra solitudine, dove il carissimo Gentili fa progressi grandi nelle virtù. Non dico che desidererei di averla come de' nostri: questa non può esser che l' opera di Dio: io non v' entro, e non desidero se non quello che Dio Le ispira nel cuore; sono però certo che il desiderio della perfezione non viene che da Dio, e perciò, sebbene io non La esorti punto a prendere il nostro Istituto, tuttavia La esorto quanto so e posso a seguire i consigli evangelici, perchè i consigli di Gesù Cristo sono ottimi, senza bisogno d' alcun esame, come insegna san Tommaso; e ogni cristiano per seguirli non ha bisogno di dimandare consiglio di direttori, ma solo di risolversi con generosità a darsi tutto e senza eccezione alcuna al suo Dio. Oh beati quelli che intendono la bellezza de' consigli dati agli uomini dal divino Maestro! Non c' è oro nè gemme che si possano mettere a confronto col prezzo di que' consigli. Perciò li segua animosamente, ma in quell' Istituto al quale la volontà di Dio piegherà il suo cuore. Ad ogni modo caro assai mi sarebbe il vederla, l' abbracciarla, e l' averla meco qualche tempo. La prego di tradurmi in buon inglese il « Regolamento » e di mandarmelo. 1.32 « La buona novella, dopo diciotto secoli, è nuova tuttavia per il mondo che l' ha sentita, senza comprenderla ». Dite bene, mio caro Tommaseo, è nuova per il mondo, « tenebrae eam non comprehenderunt », e sarà sempre; ma non pe' Santi che l' hanno sempre compresa in tutti i secoli. I figli di Dio sono stati sempre e sempre saranno, « et fulgebunt quasi stellae in perpetuas aeternitates ». Non è dato agli uomini di accrescere il numero di questi d' un solo, nè è in potere dell' uomo diminuirlo di un solo. Iddio gli ha contati, e nessuna creatura può alterarne il conto. L' uomo può essere superbo, ma non disperdere la superbia degli altri uomini: Iddio solo dall' alto sperde la superbia di tutti. Tutto ciò che sta nella perfezione dell' ordine morale, Iddio l' ha riserbato a se solo; e, se usa degli istrumenti umani come ministri di quest' ordine, egli li ha scelti « ab eterno. Ego elegi vos »; non fu scelto da loro: « non vos me elegistis »; sicchè l' uomo in quest' ordine soprannaturale di cose è sempre inutile per se stesso: « servi inutiles sumus »; e guai a chi si intrude! « non mittebam prophetas, et ipsi currebant ». Non ha l' uomo altra incombenza, che quella de' propri doveri morali, conformandosi a colui che disse: « « Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore » ». Ma chi segue il Vangelo, nella sua umiltà e mitezza è leale e generoso; non teme di annunziare tutta la verità che è il suo bene, e di confessare Cristo; e non sa fare nè per viltà, nè per ingannevole speranza di produrre un bene che Dio non vuole, alcuna transazione colle massime carnali e collo spirito omicida di questo mondo. Il Vangelo basta a se stesso. Dio è tutto, e il giusto nei beni eterni ha tutto il suo cuore: è da ciò appunto che scorre da se stessa la felicità anche temporale, come un fiume uscente da un mare; non dico ogni felicità che la nostra cupidigia desidera o s' immagina, ma quella felicità temperata che sa Dio più convenire a' suoi disegni di misericordia pei predestinati ai regni immortali. La sventura, la croce sarà sempre un dolce tesoro ai discepoli del Cristo, e non mancherà loro: nel tempo stesso che la loro carità universale è portentosa, non penserà che di alleggerire e sollevare la croce che pesa in sui fratelli. Non ha dunque bisogno la religione di essere giustificata con industrie umane; ma, osservata, si giustifica da se stessa: è il fatto quello che mostrar dee i buoni effetti temporali venienti spontanei dalla osservanza della legge: « Mirabile cosa, diceva pur bene quell' uomo di legge: la Religione cristiana, che non sembra avere altra cura che delle cose del Cielo, è quella che produce anche il bene di questa terra! »Sì, « pietas, ad omnia utilis »: ma pietà, e non cupidigia. Sì, la carità sia lo stimolo; un amore di Dio, un amore degli uomini per Iddio; tutto è possibile alla carità. In tal modo gli interessi umani non sono cercati direttamente; è il solo regno di Dio che hassi direttamente a cercare: « Cercate prima il regno di Dio, - il resto vien da sè, - e tutte queste cose vi saranno aggiunte », perchè sa il Padre celeste che n' avete bisogno. La Chiesa ne' suoi santi mostra una sapienza più alta ancora, una sapienza non intesa dal mondo, anzi chiamata stoltezza: ella fugge i beni materiali, ella vive d' astinenza, di mortificazione, di volontaria povertà, ed ha scritto sul suo petto: « beati pauperes ». A questi è venuto Cristo ad evangelizzare, a questi è venuto a comunicare i suoi tesori Colui che non aveva ove reclinare il capo. Ben è vero che dalla radice della povertà nasce un frutto contrario alla madre: le ricchezze corrono là, dove questa povertà si è mostrata: ecco come s' è arricchita la Chiesa: ecco l' unico mezzo onde la religione del Crocifisso può giungere a signoreggiare gl' interessi materiali. Ma, oh quanto il Consiglio di Dio è alto sopra i consigli degli uomini! Allora appunto che la Chiesa è carica delle spoglie d' Egitto come di altrettanti trofei, allora ch' ella pare divenuta l' arbitra delle sorti umane, allora solo ella è come impotente, ella è il Davidde oppresso sotto l' armatura di Saulle: quello è il tempo del suo decadimento. E l' Eterno che vigila a' suoi destini, dopo averla così umiliata, averle fatto conoscere ch' ella è composta di uomini soggetti alla tentazione, averle mostrato per un' amara esperienza che in lui solo ella è forte e può confidarsi, mosso a pietà di lei, concede alla ferocia del secolo di buttarsi sui beni temporali della Chiesa, e farne bottino; riducendola in tal modo a quella sua originaria semplicità che, amabile sopra ogni bellezza muliebre, trae di nuovo a sè tutto, per tutto nuovamente deporre al cenno non degli uomini, ma dello Sposo, quando le dica; « Sorgi, t' affretta, amica mia, colomba mia, e te ne vieni ». [...OMISSIS...] Le due Case vanno bene per la grazia di Dio: lo scopo loro è tutto morale religioso, non è uno scopo particolare, ma lo scopo comune a tutti gli uomini, il fare i proprii doveri, il mantenere la legge di Dio, e perciò può prender per motto; « in lege Domini voluntas eius »: nulla di più semplice, ed io credo altresì nulla di più dolce. Ciò dunque perchè si distinguono dagli altri cristiani, non è per lo scopo, ma per l' essersi alcuni associati per aiutarsi scambievolmente ad ottenere questo scopo. Nel libretto che ho stampato a Roma col titolo « Massime di perfezione », c' è tutto, eccetto l' ubbidienza, poichè non si parla in quel libro di Società. Addio, pregate per me. [...OMISSIS...] 1.33 L' indifferenza di S. Ignazio non riguarda il fine , ma i mezzi . Possiamo e dobbiamo sospirare incessantemente il fine, e dire col massimo affetto: « adveniat regnum tuum »; ma dobbiamo essere indifferenti su questi o su que' mezzi, pei quali la divina bontà ci voglia condurre al fine. Ciò che è degno di altamente meditarsi si è, che noi non conosciamo nè pure quali sieno i mezzi particolari che ci facciano ottenere il nostro fine. Siamo ignoranti, e perciò conviene rimetterci a chi ci vede, che è Dio, ricevendo tutto dalle mani di Dio con perfetta indifferenza. Tutto sta dunque in trovare i segni del divino volere. Senza questi, so io che lo studio, in ragion d' esempio, sia la strada della mia eterna salute? Quanti vi hanno trovato l' eterna dannazione! So io che la predicazione mi gioverà? Quanti, predicando agli altri si sono resi reprobi! Tutta la vita, la perfezione, la morale cristiana sta nel dare il giusto peso a questa parola Eternità . - Ma ella è futura. - Appunto per questo gli uomini, trattenuti dal glutine della vita presente, non danno la dovuta importanza all' eternità, e giudicano stolti quelli che gliela danno. La vita futura risponde a quella dimanda: da mihi punctum . E` il punto fuori del mondo, sul quale la religione punta la leva e muove il mondo stesso. O conviene rinunziare alla religione, o conviene ammettere che questo è vero. Se poi questo è vero, tutto è indifferente fuori che Dio, fuori che la parola di Dio, i segni della volontà di Dio, i mezzi conosciuti pe' segni della volontà di Dio; insomma Dio solo in tutte le cose: « et exaltabitur Dominus solus ». Un giorno non sarà più virtù amare la vita eterna, perchè sarà presente. Virtù è amarla ora, perchè è lontana. Oh non lascino gli uomini passare inutilmente questo tempo del merito e della virtù! Ecco il mio voto. 1.33 Mio soavissimo amico e fratello in Gesù Cristo nostro bene, Cercate di piantare in tutti un amore sviscerato per la verità e per ogni bene . Dominando in noi un grande e prevalente amore della verità , noi la cercheremo da per tutto, e ci chiameremo sempre felici quando potremo averla acquistata. Se mai noi la troveremo nelle parole di un nostro amico o fratello, ella riuscirà ancor più cara, e gli resteremo obbligati d' averla insegnata. Se dovremo deporre una nostra opinione per la verità, qual cosa più dolce di questo? Subito con un sentimento di bella umiltà diciamo: « io era in errore, ora ho conosciuto il vero: ne sia lode a Dio: lo sapeva già di essere ignorante ». Infatti noi dobbiamo sapere e tenercelo ben certo, che siamo ignorantissimi, anzi l' ignoranza stessa in persona. E l' ignoranza ricuserà d' imparare? oh questo poi no. Per tal fine non fuggiamo la disputa accademica : anzi, io vi do per consiglio di cercarla voi stesso, ma sempre con buon umore, con ilarità, umiltà e carità; oh quanto bel campo non troverete in essa da esercitare tutte queste virtù, da sempre più conoscere voi stesso, e da vincervi salutarmente! Sapete già la bella dottrina dello Scupoli: per andare avanti nella virtù, conviene sfidare a battaglia, cimentare i nostri vizi, fuori che in ciò che è contrario all' onestà. Di questo dunque vi consiglio. Parimenti posso dire dell' amore del bene . Se noi abbiamo un vero e compìto amore pel bene, noi ameremo sicuramente ogni bene dovunque lo troveremo, in ogni persona, in ogni circostanza, sotto qualunque forma. Ah! la nostra bella legge è legge d' amore: l' amore non odia nè invidia chicchessia; egli non vuole in ogni cosa che il bene. Così si forma un' anima dilatata, che corre nella via dei divini comandamenti. Per riuscire ad ottenere questo, spargiamo lagrime dinanzi a Dio giorno e notte; e i nostri sforzi saranno certo coronati. - Ora qui nella Chiesa capitolare si sta facendo il Giubileo: i predicatori sono don Giacomo e don Giovambattista. Don Luigi è impegnato pel prossimo quaresimale. Abbiamo dimande di missioni da tre luoghi. Domenica scorsa abbiamo ricevuta l' abiura di un nuovo calvinista; ed è il ventesimo che abbiamo la consolazione di riunire alla Chiesa cattolica dopo che siamo qui. Sia lodato il Signore. Insomma, affari non ne mancano: « rogate Dominum messis ». Le Figlie della Provvidenza prendono un buon avviamento per la misericordia divina. Da per tutto se ne vorrebbero: fin ora non ne abbiamo conceduto che a Torino; ma presto dovremo darne ad altri luoghi. Preghiamo tutti d' accordo il Signore per tanti bisogni che abbiamo. Se egli non ci assiste, che possiamo noi fare? Vi raccomando l' anima di un mio condiscepolo che amai tanto. [...OMISSIS...] 1.33 Ho ricevuto la lettera vostra e quella del conte Salvadori, colle quali mi parlate del tentativo che si sta facendo di erigere una casa di ricovero pei poveri nella mia patria; e mi chiedete di voler entrar anch' io in parte della spesa necessaria per quest' opera. In quanto a quest' ultimo punto, io non mi ricuso; e scrivo al conte Salvadori di dar per me quella somma maggiore ch' io posso. Dopo di ciò però permettetemi, mio caro D. Paolo, ch' io vi dica candidamente il mio sentimento, come si fa cogli amici, intorno al merito di questo progetto e di questo tentativo. Non voglio già far torto alle intenzioni; e sono persuaso che molti per puro zelo del bene e per un sentimento di vera carità si facciano promotori di quest' opera, e uno di questi siete voi, mio carissimo. Ma in quanto all' opera stessa, in quanto alla massima de' reclusori de' poveri, io ho variato di sentimento. Fu un tempo nel quale io accoglieva con entusiasmo tutti questi progetti e piani di pubblica beneficenza, e debbo forse rimproverarmi di aver guardato qualche volta con un occhio severo e disdegnoso quelle persone che si mostravano fredde a cooperarvi, o di contrario avviso. Ma ogni anno si fa qualche riflessione nuova, si aumentano le osservazioni, e si vanno verificando le cose, come sono in realtà, senza lasciarsi ingannare (o piuttosto disingannandosi) dalle apparenze, dalle promesse, e da quelle speranze senza limite, che una fantasia giornaliera e ancora verginale somministra incessantemente ad un cuore benevolo. Io vi dico la verità, non sono più amante de' reclusori de' poveri dopo averne veduti tanti, e dopo aver letto ciò che uomini savii hanno scritto sopra di essi, e più di tutto dopo aver meditato io stesso sull' intrinseca natura della cosa. Egli è bensì vero che v' ha una infinita differenza da reclusorio a reclusorio, il che nasce dalla diversità de' loro regolamenti e del primo loro impianto: ma appunto l' estrema difficoltà di dare un regolamento sapiente ad un tale istituto è uno degli scogli che s' incontrano, e che gli uomini superficiali non calcolano per nulla. Un altro timore mio si è che questi istituti, i quali, al modo che si concepiscono comunemente oggidì, appartengono ai protestanti, non sieno già effetti di una vera carità cristiana, ma piuttosto del sottile egoismo e della mollezza del secol nostro, il quale contraffà la stessa carità, e veste i vizi da virtù, facendo servire con una perpetua finzione e colla più indegna ipocrisia le cose tutte al proprio interesse. In vero nè Gesù Cristo, nè gli Apostoli ci hanno mai insegnato a non poter sopportare sotto gli occhi nostri i poverelli e ad allontanarne il loro aspetto da noi: Gesù Cristo e gli Apostoli non ci hanno mai insegnato ad essere tanto insofferenti che ci riesca di una noia insopportabile il sentirci a domandare un pezzo di pane, talora più colle lagrime che colle parole. Non è egli una gran durezza di cuore l' esserci cosa insopportabile che il sentimento della nostra compassione sia suscitato dalla vista delle miserie de' nostri simili? E` questo sentimento una cosa sì trista, che si convenga far di tutto perchè egli non sia in noi mai commosso, e da dover inventare un sistema per giungere a far sì che il pubblico non abbia mai bisogno di essere compassionevole? saremo più felici quando la nostra compassione non sarà mai più eccitata? la società si renderà migliore? Voi direte che non si fa per questo il reclusorio de' poveri; ma per impedire la mala vita di molti e l' ozio coperto sotto la professione di povertà. Mio caro D. Paolo, l' uomo nelle sue operazioni ha de' secreti che non vuol rivelare a tutti: il suo cuore talora non si rivela neanche a lui medesimo, se pur l' uomo non faccia una sottile disamina di sè stesso; perciò ben sovente le operazioni umane hanno un pretesto ed un motivo. Il pretesto si dice, ed il motivo si tace. Considerate con profonda attenzione ciò che ho detto e ne sentirete la verità: ma ch' io l' abbia detto nol dite a persona del mondo, perocchè gli uomini non la perdonano mai a chi rivela un loro secreto. [...OMISSIS...] 1.33 Ho letto le vostre lettere, ed ecco quanto il Signore mi suggerisce al cuore di dirvi. State certo che ogniqualvolta, venendoci proibite dai superiori le penitenze, noi sofferiamo una grande alterazione, un turbamento eccessivo, una grave malinconia, egli è segno che vi è dentro di noi un gravissimo difetto; che vi è un attacco pernicioso a quelle mortificazioni e penitenze che noi facevamo, sieno esse poche o molte, ciò non importa. Questa è dottrina sicura, mio caro, confermata da tutti i Santi. Noi dobbiamo fare le mortificazioni e le penitenze in modo da poterle lasciare al menomo cenno del Superiore o del Confessore, senza nessunissima difficoltà, anzi con allegrezza grande di cuore; perchè tutto ciò che vuole l' ubbidienza ci dee rallegrare sempre, qualunque cosa ella voglia, e senza pensare altro. Se l' ubbidienza non ci rallegra, ma ci rattrista, ma ci fa dare indietro, ma ci fa pensare all' una cosa e all' altra, e c' induce a biasimare nel nostro cuore il comando; la cosa è chiara, noi siamo ben lontani dalla perfezione, e colle penitenze che facevamo prima, c' ingannavamo miseramente, credendo d' andare avanti nella strada delle virtù: ma sotto la cenere ed il cilicio abitava pur troppo il serpente. Ringraziate dunque di tutto il vostro cuore la misericordia del Signore, che si è servito della voce del vostro Superiore per trarvi d' inganno e farvi vedere la verità coll' esperienza appunto che avete fatto di voi stesso, alla prova del dover lasciare le penitenze. Orsù rallegratevi dunque, e presentemente occupatevi a vincere in voi questo difetto ed a rendervi perfettamente indifferente a far penitenze ed a tralasciarle, sì che serviate il Signore con gran libertà di cuore, e confidando nella sua bontà e non nelle opere penitenziali per sè stesse. Tutti i pensieri che vi vengono contro questa dottrina, per quanto sembrino pii, non sono che sofismi, che vi fa il finissimo demonio per ingannarvi. Iddio vuole che confidiate in lui solo: e Iddio non vi mancherà se cercherete non le penitenze, ma l' ubbidienza: a quest' ultima troverete annessa un' abbondante grazia. Abbiamo dunque scoperto il nemico, la vittoria vostra sarà certa. Attendo vostre lettere per sentire che vi scuoterete d' attorno le tentazioni; e negando il vostro giudizio, correrete ilaremente per la via giusta che il Signore vi mostra per sua misericordia. Vi abbraccio teneramente. Salutatemi tutti i nostri cari; a molti de' quali debbo e desidero scrivere da molto tempo, massime al caro don Giacomo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Chiamandovi Iddio per la bocca de' vostri Superiori ad assumere (benchè per ora solo in prova) la Scuola elementare de' fanciulli del comune di Calice, voi ricevete con ciò una dolce e grave missione, della quale dovrete render conto ai Superiori vostri, e, ciò che è più, al tribunale del vostro Creatore, onde veracemente vi viene da esercitare tale ministerio di carità. E però l' amore, che vi porto vivissimo nel Signore, mi stringe a dovervi munire, in tale circostanza, della presente breve Istruzione, sulla quale dirigendo la vostra condotta, l' incarico datovi vi diverrà, come io spero, una via diritta pel Cielo. Primieramente vi raccomando di badare, che il nuovo ufficio non diminuisca punto in voi il raccoglimento religioso, l' esattezza nel mantenere le regole e la piena dipendenza e sommissione verso i vostri Superiori; ma che anzi queste virtù in voi s' accrescano, rendendovi per amore di Cristo via più simile a que' fanciulli, che or venite ad avere sempre sott' occhio, e ne' cui teneri cuori dovete coltivare le care virtù proprie dell' infanzia, quali sono la semplicità, la purità, la mansuetudine, la sincerità, la docilità e la dolcezza. Per conoscere quanto dovete amare in Gesù Cristo i fanciulli, che vi vengono consegnati, meditate spesso quanto stanno a cuore al divin Redentore, e quelle sue parole: « lasciate che i pargoletti vengano a me »; come pure quelle altre: « chi avrà scandalezzato uno solo di questi pargoletti, che credono in me, meglio sarebbe stato per lui che, sospesagli al collo una mola da mulino, fosse gittato nel profondo del mare ». Proponetevi di condurre i fanciulli come esseri ragionevoli e cristiani coi due mezzi della ragione e della fede ; chè altro non si dà, che meglio possa nell' uomo, di questi due mezzi. Perciò voi dovete arricchire l' animo de' giovanetti di motivi di operare sempre puri e nobili; giacchè questi soli sono ad un tempo ragionevoli ed evangelici; e le intenzioni torte e ignobili, che inavvedutamente si seminano ne' teneri fanciulli a ritroso della retta natura, recano in essi un guasto segreto e, quasi direi, una etisia morale fino nei primi loro anni infantili, e sono l' origine sconosciuta di quegli aperti vizi, che contaminano l' età matura e straziano la società. Ma sappiate tuttavia, che il giovanetto non viene corretto e abbonito, se non dalla interna operazione di Dio, che l' aiuta a custodire i divini comandamenti, come dice il salmo: « in che corregge il giovanetto la sua strada? nel custodire i tuoi comandamenti »; però dovete con ferventi preghi ottenere che Gesù, solo maestro degli uomini, accompagni e avvalori le vostre sollecitudini, mantenendo e sviluppando in essi la grazia del Battesimo. Per infondere poi ai giovanetti un abito di operare con ragionevolezza e secondo il lume divino, vi conviene quest' abito mostrarlo loro nel vostro proprio contegno. Tutto ciò che voi fate adunque sui loro occhi, e tutto il trattar vostro con essi sia pacato e pieno di lume; e cotesta chiarezza e pacatezza del vostro operare vi renderà più amabile a loro, che non farebbero delle carezze senza ragione. Vi raccomando adunque quella dolcezza non ricercata, che nasce spontanea da un operare nella tranquillità della luce interiore, dove non havvi mai indizio di passione, o d' ira, e che la divina Scrittura mette sempre in compagnia della sapienza, mentre alla stoltezza dà per carattere l' iracondia. « « L' iracondia, leggesi in Giobbe, veramente uccide lo stolto » (c. V) »; e ne' « Proverbi : « la verga della superbia è nella bocca dello stolto »(c. XIV) », e poco appresso si legge anche questa bella sentenza: « « quegli che è paziente governa assai cose colla prudenza; ma quegli che è impaziente fa apparir ben grande la sua stoltezza »(ivi) ». Le quali sentenze, ed altre tali delle Sacre Lettere vi forniscano spesso materia alle vostre meditazioni. Mantenete con religiosa puntualità le ore prescritte alla scuola e tutto ciò che viene ingiunto dai « Regolamenti » intorno alle Scuole elementari e dai « Capitoli » del comune di Calice. Tanto di quelli poi come di questi sarà vostra cura di procacciarvi due copie, e comunicarne una a chi tiene ufficio di Superiore nella Casa del Sacro Monte, che la riporrà negli archivi. Abbiate un vero zelo, acciocchè i giovanetti a voi affidati imparino a francamente leggere, scrivere e conteggiare, e gli altri oggetti, scopo della scuola. E a tal fine voi dovete por l' animo vostro a procacciarvi tutte le cognizioni a ciò opportune, le nozioni di una buona pedagogia, e la maniera pratica più confacevole a dare con perfezione l' istruzione, facendo conto dei libri che vi possono a ciò giovare. Finalmente considerate che voi riuscirete probabilmente, se così ne piace a Sua Divina Maestà, il primo maestro elementare approvato dall' Istituto della Carità; e che vi incombe perciò il dovere di rendervi forma e modello di quelli che Dio volesse mandare di poi. Farete, prima di cominciare il vostro ministero, quindici giorni di spirituali esercizi a fine d' impetrare la grazia che vi abbisogna, e di prepararvi allo stato chericale, a cui sarete ascritto ricevendo la chericale tonsura. E dopo che, assistito dal divino aiuto, avrete dati argomenti della vostra fedeltà e perizia in questo servizio del Signore, cioè come maestro in prova del comune di Calice, sarete al debito tempo, così piacendo al Signore, ordinato altresì Lettore della santa Chiesa, e dichiarato maestro approvato dell' Istituto della Carità. [...OMISSIS...] 1.33 Non avrete preso sicuramente a male il mio tardare a rispondervi, perchè la vostra carità sa bene che desidererei essere sempre pronto a rispondere e conversare co' miei cari compagni; ma che delle varie cagioni ed occupazioni talora me lo impediscono. Ora ritornato da un viaggetto che ho dovuto fare per negozii del nostro Istituto, sono con voi, mio carissimo. Sperava di vedervi ed abbracciarvi tutti quest' autunno; il Signore non volle ancora concedermi una tanta consolazione; spero tuttavia che me la concederà almeno all' aprirsi della nuova stagione. Per quanto allo stato dell' anima vostra che diligentemente mi descrivete, io spero bene, mio caro, nella misericordia di Dio. Io veggo che il Signore permette che l' inimico del bene vi dia una battaglia forte e penosa; ma non vi lasciate far paura, perchè confidando nella croce di Cristo, tutto sarà superato. Quello però che trovo il punto principale al quale dovete rivolgere le vostre armi, si è a conseguire la cara mansuetudine di Gesù Cristo. « « Imparate da me che sono umile e mansueto di cuore » »: oh quanto sono belle queste parole! esse racchiudono il carattere vero di Cristo e del Cristiano! Ritenete, mio caro, questo principio infallibile: ogni iracondia, ogni turbazione irosa, ogni malevolenza, ogni acrimonia viene dal diavolo. Con questo principio alla mano voi potrete subito discernere i diversi spiriti che si manifestano nel vostro interno. E` egli uno spirito di dolcezza, di pace, di cedevolezza, di amore? Dite tosto: questo è spirito di Dio, e io debbo secondarlo. E` all' incontro uno spirito di opposizione, di durezza, di tristezza, di censura, di odio? Dite tosto: questo è spirito del demonio che mi seduce, che mi violenta; io non voglio acconsentirvi, lo sofferirò come una tribolazione, ma io non lo seconderò, non opererò nulla dietro il suo incitamento. Oh voi felice, se diverrete appieno mansueto! e se ucciderete in voi ogni iracondia, anche quella che vi si presenta sotto l' abito di zelo, ma di zelo amaro e non conforme al vostro ufficio! Voi con questo studio della carissima virtù della mansuetudine acquisterete tutte le altre; l' ubbidienza, l' umiltà, la rassegnazione e la pazienza, come pure quella che S. Filippo Neri chiamava la mortificazione razionale , sono comprese nella mansuetudine. Questa vale più di tutte le austerità e penitenze esterne, le quali non valgono nulla, se non sono umiliate e sottomesse all' ubbidienza e alla direzione anche diversa ora d' un superiore, ora d' un altro; secondo che l' uno o l' altro regge la casa. In questa diversità di direzione, mio caro, consiste una bellissima occasione di vera virtù, e una prova a vedere se siamo sì o no veramente mortificati interiormente. Quell' uomo, il quale non sa cangiarsi con tutta facilità e senza nessuna resistenza, a tenore del cangiarsi de' superiori, non è sicuramente mortificato: e tutto ciò che fa, anche di più austero, non prova in lui punto una vera mortificazione, che dee sempre essere radicata nella docilità e pieghevolezza della volontà, e, in una parola, nell' annegazione di se stesso. Osservate, mio caro, che Gesù Cristo, dando il precetto di portare la sua croce, vi premise queste parole: « « Se alcuno vuole venire dietro a me, neghi se stesso » »: e ciò perchè nulla sarebbe il portare la croce, se prima non ci fosse l' annegazione di se stesso. Non ogni croce è la croce di Cristo; la croce di Cristo non è quella che diamo noi a noi stessi; ma quella che ci è data dall' ubbidienza, con negazione della nostra volontà e del nostro intelletto. Le penitenze esterne adunque, che sono come la croce, sono buone, se noi le prendiamo con avere premessa la negazione di noi stessi: altramente il volerle è un inganno dell' inimico. Tenetevi, o mio caro, a questi principii che sono gli infallibili del Signore. Varrà più per voi un solo atto di rinunzia al vostro giudizio e alla vostra volontà, che tutte le austerità che potreste pensare. Rendetevi adunque a queste indifferente, nè vi turbi l' esservi negate, o comandate, o permesse. Tutto sia lo stesso per voi. Nulla desiderate altro che la dolcezza, la pace, la ubbidienza e il negare voi stesso. E` meglio che conserviate nella pace della carità il vostro cuore, di quello che sia che convertiate il mondo. Mirate dunque sempre nell' esemplare nostro amabilissimo Gesù Cristo, e diventate così amabile e tranquillo come lui. [...OMISSIS...] 1.33 «Mio reverendo e caro consacerdote e compagno nel servizio del Signore. » Perdonate se ho tardato a rispondervi, e attribuitelo alle mie occupazioni che mi hanno fatto essere assente, come sono ancora, dalla casa di Trento. Ora sono con voi, la cui lettera mi fu carissima, per le notizie genuine che di voi stesso mi date. La ripugnanza e la noia che voi accusate, è il solito effetto, mio caro, che si manifesta in quelli che si danno alla vita ritirata e religiosa, ed è una delle più forti prove che dà il Signore, una delle più utili occasioni di vincere noi stessi e di acquistare un solido merito. Questa vittoria sulla noia e sul tedio per la ristrettezza della vita e della libertà, non ha niente che ecciti l' amor proprio e non è considerata dagli uomini: tanto più ella è da Dio! Io spero che voi ne riporterete colla vostra costanza, mediante la grazia del nostro Signore, un pieno trionfo; ed allora comincierete a gustare come cosa dolcissima anche ciò che a principio sembra insopportabile. Se voi, ammirando l' umiltà de' vostri compagni che dimandano con tanta frequenza pubblico perdono di alcune loro mancanze, non vi sentite per anco cuore di imitarli, ciò punto non vi turbi, perchè questa specie di ripugnanza la vincerete col tempo. Sopportate solamente voi stesso, e non esigete da voi di più di quello che potete: la grazia e la virtù viene a gradi: a quelli che ancor ci mancano, suppliamo coll' umiltà e col riconoscere candidamente che gli altri sono in quel dato rispetto più umili o più perfetti di noi. Per altro, senza inquietarci, prefiggiamoci di vincere ogni specie di ripugnanza, aspettando intanto il tempo che il Signore ce ne dia le forze, e dimandando queste forze con ferventi desiderii e preghiere. Così soavemente procederemo innanzi, senz' alcun turbamento. Per altro, circa il domandar perdono, egli non è necessario che la materia sia una colpa morale, dovendoci noi umiliare anche per le limitazioni della nostra natura, o per le mancanze della nostra vigilanza: ma è bensì sempre necessario che sia una imperfezione : perchè altrimenti, se non fossimo convinti che ciò di cui formiamo materia di pubblica accusa non fosse nè pure imperfezione alcuna, quell' atto dell' accusarci non sarebbe sincero : e niente si dee fare che non sia candido, sincero e proveniente dall' interna nostra convinzione. [...OMISSIS...] Desidero moltissimo di vedervi e di trattenermi con voi a lungo, mio carissimo; ma pare che il Signore non mi voglia dare questa consolazione per ora: al più lungo però spero d' essere al Calvario in primavera. A quando a quando scrivetemi, e contate d' avere in me un amico. Vorrei che mi traduceste in bella lingua francese il piccolo libretto delle « Massime di perfezione », che vorrei anco pubblicare. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Ricevo in questo momento la vostra dei 21 corrente la quale mi lascia ancora fra la speranza e il timore. Piacesse a Dio che egli vi avesse veramente illuminato a scorgere l' inganno orribile dell' inimico della vostra anima! Non m' inganno, no, a dire che il nesso dell' Istituto della Provvidenza e della Carità è unicamente progettato . Dovete adunque sapere che tutte quelle Costituzioni che furono scritte al Calvario sono tutte meramente progettate ; e non sono mai e poi mai definitivamente stabilite, se prima non sono provate dalla sperienza e quindi confirmate dalla Santa Sede. Tanto è poi vero che quelle regole sono unicamente progettate, che anzi possono essere cangiate da un giorno all' altro, purchè la ragione e l' esperienza il permetta. Oltre di ciò voi confondete più questioni in una, mio caro, perchè altro è dimandar « se il nesso dell' Istituto della Carità con quello della Provvidenza vada bene sì o no »; altro è il dimandare « se posto che il direttore dell' Istituto della Provvidenza sia un membro dell' Istituto della Carità, questi possa operare a proprio arbitrio contro il grado di autorità ricevuta dal superiore dell' Istituto della Carità a cui è soggetto ». La prima questione può essere controversa, ed io non l' ho mai definitivamente decisa. Ma la seconda non è punto controversa; e l' ubbidienza perfetta che esige l' Istituto della Carità, non ammette sicuramente che un soggetto di questo Istituto sia indipendente sotto nessun rispetto e in nessun genere di cose. Ciò sarebbe una mostruosità; si introdurrebbero subito mille scismi, l' Istituto diverrebbe un' idra con cento capi e non potrebbe sussistere. Io non dirò dunque che l' Istituto della Provvidenza debba aver per direttore sempre un membro dell' Istituto della Carità; ma dico bensì che ove l' Istituto della Carità concede che un suo membro però diriga ed anche fondi un Istituto qualunque, questo membro non viene menomamente esonerato dal peso dell' ubbidienza sotto nessun rapporto; e solo opera tutto ciò che fa in virtù d' ubbidienza e d' autorità non propria, ma ricevuta. Tale è il vero concetto della santa ubbidienza in ogni Istituto religioso; e chi si vuol sottrarre a questa sicurissima virtù dell' ubbidienza, si mette a pericolo di perdere la vocazione e la perde sicuramente, è ingannato dal demonio, e l' eterna sua salute è per lo meno incerta assai, perchè ricusa i mezzi sicuri datigli da Dio di salvarsi nella guida de' suoi superiori. Val più ubbidire, mio caro, che convertire il mondo. S. Francesco Saverio era pronto ad abbandonare i milioni d' uomini, che si convertivano alla sua voce, ad un solo cenno del suo superiore! La sua fantasia non lo illuse, nè lo trasse a dire: « Il mio superiore erra, o il mio superiore non sa, non vede il bene, e la maniera di ottenerlo », oppure: « io sono chiamato da Dio ad evangelizzare questi popoli: dunque abbandonerò il mio superiore e la religione per esser più libero e far tanto bene ». Povero lui, se avesse detto così! Con un simile discorso ogni religioso potrebbe sottrarsi all' ubbidienza, col pretesto di maggior libertà a fare il bene, ed uscire dal proprio Istituto. Inganno deplorabile! « Manete », dice S. Paolo, « in vocatione »: e non mutate col pretesto di maggior bene. Io veggo tutte le orribili conseguenze che si trarrebbe dietro la vostra defezione dall' Istituto della Carità per un pretesto simile, delle quali la minima di tutte sarebbe, che il mondo stesso scandalizzato vi abbandonerebbe, e voi vi trovereste alla fine privo di tutti quegli appoggi di cui ora vanamente vi lusingate. Di questo ho moral certezza, e ne ho prove positive e documenti nelle mani; ma questo, come dico, sarebbe ancora il minimo male; il più grande per me sarebbe quello di veder voi tirato in un abisso, e per riparare ad un errore commetterne cento, e dopo aver cominciato colle più belle speranze trovarvi infine colle mani ne' capelli e coll' aver fatti moltissimi mali nel mondo per aver voluto far troppi beni, non secondo Dio , cioè secondo le regole sicure de' santi. Per tutte queste ragioni e per molte altre voi vedete adunque la risposta ch' io son disposto a dare, alla vostra lettera del 21 corrente. Io non posso assolutamente concedervi nè pure ad tempus quella indipendenza che mi dimandate, perchè distruttiva dell' Istituto della Carità, e perchè sarei responsabile di tutti i passi precipitati e falsi che potreste commettere per fantasia riscaldata. Voi poi in fine alla lettera vostra mi fate un' alternativa, o « di ritirarvi dall' Istituto della Carità secondo la vostra lettera del 30 ottobre; o che io assuma i vostri impegni e che disaggravi voi dalla direzione dell' Istituto della Provvidenza, promettendomi che voi starete in quel minimo posto che giudicherò di assegnarvi al Calvario ». Io accetto questa seconda proposta, e vedrò in questa mia accettazione se il vostro parlare sia sincero. Voi nulla sfigurerete nè verso il Governo sardo, dicendo che il vostro superiore ha richiamato a sè il carico della direzione dell' Istituto della Provvidenza, volendo egli impiegar voi in altri affari, e che perciò se l' intendano con me. Dio mi aiuterà, lo spero, nè ricuserò mai di far manco conto del vostro consiglio e dell' opera vostra, che voi mi presterete senza pericolo alcuno dell' anima vostra nè dell' Istituto. E` l' unico partito che mi resta. Lasciarvi uscire dall' Istituto non mi patirebbe mai il cuore, e peccherei sicuramente contro la carità, cooperando all' opera manifestissima del demonio. Aspetto dunque nuova lettera e veramente consolante, nella quale mostriate di aver parlato da uomo sincero, e non facciate alcuna nuova difficoltà a questa vostra promessa, dalla quale tanto dipende sia riguardo all' anima vostra, sia riguardo ai due Istituti. Scrivetemi subito; e dietro alla lettera che mi consoli, mettetevi in viaggio voi stesso per venire a Rovereto, dove vi fermerete in casa mia, ed io ci verrò pure tosto; mi direte tutti i vostri impegni, concerteremo tutti i mezzi di soddisfare pienamente ai medesimi ed accorderemo insieme ogni cosa. Ho confidenza che da quell' epoca che ciò sarà fatto, comincierete ad essere un vero superiore dell' Istituto della Carità, e comincierà una nuova e veramente salutare carriera della vostra vita. Vi abbraccio intanto tenerissimamente, aspettando con impazienza che mi togliate giù questa pietra dal cuore. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.33 Sabbato è giunto qui il caro vice7Superiore, ed io pure mi son qua recato tosto per conferire con lui. [...OMISSIS...] Appena mi vide si mise in ginocchio, e l' ho trovato intieramente rientrato in se stesso. Come vi aveva scritto io sperava che il Signore non avrebbe certamente abbandonato questo suo servo e zelante ministro. Dite dunque il Te Deum e fate fare continua orazione, acciocchè ogni cosa si componga alla gloria di Dio, e con istabilità di successo, come spero nel Signore; avendomi il Signore già anche prima confortato molto con questa tribolazione. Ho ricevuto la vostra dei 30 novembre. Avrei gustato meglio che non vi foste giustificato. Quando Maria SS. vide che S. Giuseppe doveva dubitare della sua fedeltà maritale si tacque, e lasciò a Dio la cura di sgombrare (se egli avesse creduto) ogni dubbio dall' animo del suo sposo. E non dee essere la Madre di Dio il nostro modello? Non l' abbiamo noi scelta perchè sia la causa esemplare della nostra Società? Perchè dunque imitarla sì poco nella rassegnazione, nell' abbandono di noi stessi in Dio? Quando poi volete anche scusarvi (il che non sarebbe secondo la perfezione), da qui in avanti non adoperate più queste espressioni di troppa sicurezza: « debbo disingannarla di un errore in cui so essere stato ecc.. Tanto Ella che Don Giovanni hanno creduto che io, ecc. »; ma dite più tosto: « forse Ella potrebbe aver creduto... Io temo non forse Ella, ecc. »: come vuole la modestia e la riserbatezza, non meno che il rispetto verso i propri Superiori. Aggiungete di più, che in materia di attacchi è sconveniente al tutto purgarsi con quella sicurezza che fate voi; perchè gli attacchi acciecano; ed ognuno dee dubitare di se stesso, e non assicurarsi. Quando anco voi foste purissimo d' ogni attacco, non dovreste mai dirlo, ma lasciare che lo dicano gli altri, e voi mantenervi nella santa umiltà interiore ed esteriore. Nè crediate che il sentire ripugnanza in qualche cosa sia certo segno di non avere attacchi a quella cosa; perocchè qui si tratta principalmente di attacchi spirituali, i quali consistono in una certa estimazione e persuasione di far bene in qualche impresa, con certa durezza di giudizio proprio; e simili attacchi possono stare insieme con repugnanze naturali; anzi queste ripugnanze possono illudere, ed essere appunto la materia della nostra ostinatezza di giudizio e del nostro attacco. Del non avere questi attacchi perciò non si dà altra prova, se non il trovarsi così liberi, che al solo conoscere la volontà del Superiore ed anco il suo desiderio, senza ragionare, senza dubitare, senza replicare, senza indugiare, tosto con grande allegrezza si lasci tutto per conformarsi al desiderio del Superiore. Vi scrivo queste cose, mio carissimo, per la certezza che ho che voi non cercate altro a tutto vostro potere, che di corrispondere alla santa vostra vocazione, rendendovi un vero membro dell' Istituto della Carità, come vien descritto nelle regole. Abbiamo coraggio nel Signore, che è con chi spera in Lui. Egli ci aiuterà indubitatamente. Vorrei fra le altre cose, che in tutti noi s' introducesse un sincerissimo desiderio ed amore della correzione. Oh che bel mezzo è questo per andare innanzi! [...OMISSIS...] Vi compassiono poi di cuore di ciò che mi dite circa le molteplici vostre occupazioni che vi tolgono il tempo di pensare a voi stesso e d' istruirvi. Ma, mio caro, portate ancora voi un po' di pazienza offerendo la vostra croce al Signore. Io penserò intanto qualche via di consolarvi; e alla più lunga spero di farlo quando verrò al Calvario all' aprirsi della stagione. Intanto armatevi di fortezza. Vi raccomando poi di essere dolce e benigno, [...OMISSIS...] Ditemi se vi siete emendato circa il difetto che v' ho notato di essere troppo lungo nelle divozioni.

Epistolario ascetico Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Questo scopo (che finalmente è la patria celeste, a cui noi siamo avviati, e a cui dobbiamo trarre con ogni industria insieme con noi quanti più possiamo, tale essendo la professione della nostra vita e l' intento dell' Istituto della carità) non si può certamente ottenere senza la grazia di Dio, nè questa senza l' orazione, nè l' orazione si fa utilmente senza mortificazione, che dura e resiste alla ripugnanza e alla fatica che oppone la carne, e senza umiltà che abbassa lo spirito internamente ed esternamente altresì, sommettendo il collo in tutto e per tutto al giogo santissimo della religiosa disciplina ed obbedienza. Queste cose io vi metto sott' occhio, o carissimo, e quell' amore che vi porto in Cristo, com' è mio debito, farà che di qui avanti io tenga gli occhi aperti specialmente sopra di voi, per conoscere i vostri andamenti e il vostro profitto nella via dello spirito e nell' osservanza delle nostre sante regole. Che se mi dovessi accorgere che l' ufficio di maestro, che vi ho affidato, potesse menomamente nuocere a quello che più, ed anzi, che solo importa, voglio dire all' anima vostra, non tarderei di richiamarvi al Noviziato. Ma spero che voi compirete tutti i miei desiderŒ, svegliando voi stesso, e dandovi al servizio del Signore con nuova lena e vigore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Vi sono obbligato della parte che prendete alle mie tribolazioni, e dei conforti che con ciò mi porgete. Io posso dire veramente col Salmista: [...OMISSIS...] . E nulladimeno, a malgrado di tanti motivi di afflizione, di tante acque ingrossate che « intraverunt usque ad animam meam », procuro di tender l' udito a quella parola di vita che rianima i morti stessi: [...OMISSIS...] . Ci ascolterà, ci esaudirà, se lo pregheremo: perocchè questo, mio caro, egli è per verità, più che ogni altro, tempo di preghiere e di supplicazioni, e di umili confessioni al Signore dei nostri peccati; e dobbiamo perciò congiurarci insieme, direi, per fare alla lotta con Dio, siccome Giacobbe. Questo io mi aspetto da voi, carissimo D. Michele, che facciate qualche sforzo di bene per me in questi momenti, e suggeriate ai fratelli di farlo anch' essi. Viviamo di fede: [...OMISSIS...] . Sia in noi l' afflizione che salutarmente ci umilii, non l' avvilimento che ci sgagliardi, o l' indifferenza che ci insuperbisca: sia il rispetto e l' affetto filiale e l' obbedienza all' autorità che ci percuote e che castiga, secondo il divino beneplacito, le colpe di cui pur troppo siam gravi. [...OMISSIS...] 1.50 Ho inteso dalla vostra lettera, mio carissimo in Cristo figlio, le vostre tentazioni ed i vostri combattimenti, e sento tuttavia compassione del vostro stato. Ma il valoroso atleta di Cristo non si smarrisce alla moltitudine de' suoi nemici spirituali, perchè sa di poterne riportare compiuta vittoria, quando milita sotto le insegne del suo invincibile capitano Gesù Cristo, che colla sua preziosissima morte ha debellato il diavolo e tutti i suoi angeli, e a lui si stringe, e da lui domanda incessantemente aiuto e soccorso. Io v' insegnerò dunque ad uscire dai pericoli e dalle angustie in cui vi trovate, purchè mi diate ascolto e adoperiate i seguenti mezzi: 1 Ogni giorno fate almeno per tre volte una fervorosa protesta di odiare e aborrire qualunque peccato anche minimo, e di voler piuttosto morire, che accondiscendere ad alcuna tentazione: e procurate di rinforzare il decreto della vostra volontà di voler sempre il bene, il giusto, l' onesto, ciò che in una parola vuole Iddio santo per essenza, e ciò che piace agli occhi suoi. 2 Siate semplice e sincerissimo col vostro Superiore, e dite a lui candidamente tutte le vostre tentazioni, e tutti i pericoli che vi pare d' incontrare, e le debolezze, le cadute di cui vi rimorde la coscienza: e ricevete da lui con grande umiltà e gusto le correzioni, le mortificazioni, le penitenze, cercando sempre ciò che più serve ad umiliarvi ed a mortificarvi. 3 Domandate spesso e fervorosamente a Dio, a Gesù Cristo ed alla vostra amabilissima madre Maria, di cui spero che sarete figlio amoroso e devoto, e sempre più diverrete, la grazia: 1 di esser umile; 2 di esser casto e puro; 3 di amare il prossimo senza limitazione o parzialità di sorta, distruggendo in voi ogni sentimento d' invidia, di malignità, spirito di censura, disprezzo, ira, impazienza, intolleranza, vendetta. Convien che vi facciate forte a pregar molto e fervorosamente, e la vittoria è sicura. 4 Usate gran mortificazione de' vostri sensi, non guardando, o almeno non affisando mai le persone pericolose, non avvicinandovi mai ad esse per pura inclinazione, ma solamente quando lo vuole la necessità, o l' ordine, o il caso. 5 Cercate di far del bene a tutti senza distinzione, e quando sorge nell' animo vostro un pensiero di poca carità, o qualche immaginazione contraria all' angelica virtù, subito fate un atto contrario; e con forza e valore, invocando il nome di Cristo, di Maria, degli Angeli o de' Santi, datele addosso senza lasciarle tempo, acciocchè la vostra volontà si renda superiore ai nemici e non si lasci giammai dominare o indebolire. Mio caro, con questi pochi mezzi potete vincere, se volete; e certo lo vorrete. Adunque coraggio, all' armi! In breve tempo vi sentirete confermato più che mai nella vostra santa vocazione, e imparerete a conoscere qual tesoro preziosissimo vi abbia dato Iddio in essa: e quando avrete ben conosciuto questo, da quell' ora farete progressi grandi nella via dello spirito, verso a quella perfezione, a cui voi dovete con animo generoso, ma umile insieme, corrispondere. 1.50 Parmi di rilevare dalla vostra ultima letterina che non abbiate ben inteso lo spirito di quanto io vi ho scritto. Non trovate voi nella mia lettera suggeritivi de' mezzi opportuni per uscire dallo stato di tentazione in cui vi trovate? E` vero che io non v' ho detto di essere disposto a trasportarvi in un' altra Casa, perchè non l' ho creduto necessario; ma se sarà necessario, farò anche questo, farò tutto per vostro bene. Ma badate di non angustiarvi senza cagione, perchè non dovete già credere che le tentazioni, a cui si resiste, sieno peccati: fatevi coraggio, e da una parte combattete colle armi della fede, dall' altra non v' inducete a credere d' avere acconsentito e d' esser caduto, quando per grazia di Dio, non avete acconsentito e non siete caduto. Il sentire delle molestie venienti dai nemici infernali è una prova che permette il Signore, ma voi opponete la volontà ferma nel Signor vostro amabilissimo. E poi fate di tutto per poter conoscere ed amare questo Signore, e trovar piacere nella sua dolcissima conversazione: perocchè in questa maniera non vi riuscirà grave il pregarlo e il supplicarlo; ma troverete esser cosa allo spirito dolcissima, benchè penosa alla carne. Già sapete che i santi trovavano le loro delizie nell' orazione, la quale non si può sentire quanto sia dolce, se non si pratica. E se non vi sentite inclinato all' orazione, domandate anche questa grazia al Signore, che è la grazia delle grazie; e se vi sforzerete a dimandarla istantemente con tutto il cuore, ve l' accorderà e vi farete santo. Se non vi pare di aver approfittato del Noviziato, cominciate adesso; e se non vi riesce costì, scrivetemi, che, quantunque mi rincresca farvi interrompere gli studi, farò anche questo, vi richiamerò. Ma cacciate i pensieri contro la santa vocazione, in cui Iddio vi ha chiamato, e dove potete assicurare la vostra eterna salute; e per una leggerezza non inclinate mai l' animo a buttar via un così grande tesoro, chè ne lamentereste poi forse la perdita inconsiderata, tutta la vita, ed anche l' eternità. Orsù adunque, cominciate ad operar virilmente: Maria Santissima sia il vostro rifugio, stringetevi al suo patrocinio, ed abbiate viva fede nella sua pietosissima intercessione. Spero che dopo qualche tempo mi darete migliori nuove del vostro spirito, nuove liete e consolanti. Alleluia . [...OMISSIS...] 1.50 La lettura della cara vostra ha destato in me grandissima compassione del mio caro fratello, il quale però confido che dalla presente lotta uscirà vincitore, e ritrarrà grandissimo vantaggio. [...OMISSIS...] Nella prossima settimana, se il tempo me lo permette, io verrò a trovarvi, come tanto desidero e vi condurrò meco lasciando un altro a fare le vostre veci nella scuola per alcuni giorni, e spero che, variando un poco tenore di vita, vi refocillerete, coll' aiuto di Dio, il corpo e lo spirito. Del resto consideriamo che siamo posti in questa breve vita per fabbricarci una casa eterna, dove riposeremo dalle fatiche e dalle noie, nè ci sarà più cosa che ci arrechi tedio o fastidio. Col pensiero a questa grand' opera, a compir la quale Iddio ci ha posti quaggiù, quello che in sè stesso è molesto e alla nostra infermità pesante, ci parrà cosa preziosissima: il tesoro infinito del merito che è nascosto nel travaglio e nel patimento, stando sempre davanti agli occhi nostri, ci conforterà, e ci rallegrerà assai più che non faccia al cuore dell' avaro un monte tutto d' oro e di gemme che gli si offre a guadagno. Se guardiamo in giù o d' intorno, è vero pur troppo, siamo « lutea vasa portantes quae faciunt invicem angustias »; ma se all' incontro guardiamo in su, si dilatano subito immensamente gli spazi della carità. [...OMISSIS...] Se guardiamo a noi stessi, è giusto che ne prendiamo orrore; ma se guardiamo al nostro Creatore e Redentore Iddio, è impossibile (colla sua grazia) che non sentiamo fiducia e allegrezza infinita, e un bene che condisce ogni amarezza, e in cui si perde dolcemente il cuore che non può abbastanza ingrandirsi e vorrebbe rompere la propria limitazione. - Che se sorgono in noi delle antipatie alle cose e alle persone, reprimiamole, mio carissimo, per l' amore del nostro Dio; perchè esse sono un difetto, e ci rubano la dolcezza del cuore, e diminuiscono in noi la carità e le forze spirituali per progredire costanti nel cammino della virtù. Non così facilmente conosce l' uomo il male ed il danno delle antipatie, che si manifestano nell' animo suo; e però, senza accorgersi, egli non le combatte, ma piuttosto le lascia in pace, o pur anche le coltiva e le nutre con ragioni speciose e col pretesto del bene: perocchè sembra che nascano dal volere tutte le cose e le persone perfette su quell' ideale che ci sta nella mente, e questo sembra che sia un volere il bene, onde parendoci d' essere mossi da un nobile sentimento, non badiamo a quel vizio funesto che esse contengono: non badiamo che esse sono opposte alla sapienza, la quale ci dice di non doversi aspettare quaggiù la piena perfezione, sono opposte alla santissima umiltà come quelle che presumono troppo dell' uomo e di noi stessi, e sopra tutto sono opposte alla dolcissima carità, [...OMISSIS...] Conviene adunque queste antipatie, forse troppo neglette fin qui, in noi combatterle e distruggerle, e sostituire ad esse altrettante simpatie d' altissima carità, di quell' altissima carità che ha il punto della leva fuor di questo mondo, nell' astro del cielo eterno che è GESU` Cristo. - E GESU` Cristo stesso volle passare più di trent' anni in queste nostre angustie, ed ebbe anch' egli a desiderare la morte, quella morte però nella quale stava il volere del Padre, e potè dire anch' egli: « Baptismo habeo baptizari: et quomodo COARCTOR usque dum perficiatur »! Quanto le angustie di Cristo sono state maggiori delle nostre! Certo di tanto, di quanto egli era più grande di noi; e tuttavia ristretto e angustiato alla nostra misura, e fra uomini come noi imperfetti, che colle loro imperfezioni lo angustiavano e pressavano d' ogni parte, fu suo cibo il fare la volontà del Padre suo, e per fare questa volontà, li sopportò, visse con loro, e patì e morì per loro, anzi per noi tutti: perchè anche noi, noi stessi, l' abbiamo premuto, e angustiato, ed afflitto e, Dio non voglia, fin anco crocifisso. E` dunque giusto, equo e doveroso che anche noi sopportiamo in pace e in rassegnazione le nostre angustie, e in esse ci consoliamo al pensiero di rassomigliarlo da lontano e di compensarlo in qualche modo colla nostra pazienza; perchè egli si rallegra se ci vede portare con fortezza le nostre afflizioni, e si rallegra per l' amor che ci porta, cioè perchè vede che il nostro patire generoso ci ammigliora e ci perfeziona, giacchè la sola pazienza « opus perfectum habet », e arreca a noi stessi, se ci pensiamo al vero suo lume, l' indicibile contento d' essere così suoi imitatori. « Similes ei erimus » in cielo, quale inebriante speranza! Ma se non abbiamo un cuore di sasso, non ci deve essere men cara la speranza, ed anzi la certezza, di essere a lui simili in terra. Questa certezza ci abbellirà e spargerà di fiori e di viole, e di gigli, tutte le nostre occupazioni, le quali per se stesse ci fossero pure ingrate, ma specialmente quelle che noi facciamo per amor di Dio e per amor del prossimo; e così aggiungerà vita alla nostra vita, e come noi dell' Istituto ci proponiamo di fare tutto per questi amori, tutto altresì ci ritornerà abbellito, e infiorato, e illuminato dal brillantissimo lume della vera vita. Coraggio adunque, mio carissimo, all' opera, all' opera! vincendo noi stessi, vinceremo i nostri nemici che ci vogliono offuscare quel cielo sereno, sotto cui dobbiamo e possiamo vivere, in cui astro fulgidissimo è il sole della giustizia, che « exultavit ut gigas ad currendam viam ». La carità, la pazienza, il compatimento, la fede, ma sopra tutto l' orazione, una tenera e perseverante orazione, ci arrecherà quella luce di cui abbisognamo per intendere praticamente tutto quello che ho scritto in questa lettera, traendola dalle divine carte, e ci confermerà in quei santi propositi, a cui l' uomo non può venire meno se non si abbandona alle tenebre della carne, e del sangue, e del demonio. Perocchè queste sole sono quelle cose che distolgono l' uomo dalla virtù e dalla giustizia, non mai alcuna ragione, alcuna intelligenza, alcuna virtù. Spero nel Signore, che quando verrò costì, vedrò la vostra faccia serena e lieta: così spero nel Signore, così ne lo prego. Ci consoleremo a vicenda, abbiamo entrambi delle afflizioni, abbiamo entrambi delle consolazioni, accomuneremo insieme le une e le altre, e faremo, o piuttosto Iddio farà in modo che prevarranno le seconde alle prime. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ho sempre apprezzato altamente le scritture di V. S. chiarissima, e appena saputo che l' annunziato suo libro era uscito alla luce, avea data commissione che mi fosse provveduto. Ed ecco che ora lo ricevo, doppiamente caro, dalla sua gentilezza, accompagnato da una cortese lettera. E` appunto uno di que' libri, ove si tratta di quegli argomenti nei quali sono consegnati i semi, così scarsi tutt' altrove, delle speranze che ci rimangono. Gli educatori e le educatrici, che io in qualche modo dirigo, e che già si giovarono della « Guida dell' educatore », profitteranno anche del nuovo ordine e della nuova perfezione ch' Ella aggiunse alle dottrine pedagogiche, colla gratitudine dovuta a chi, con tanto senno, lucidezza ed amore, porge così utili documenti e validi conforti alla laboriosa e difficile vocazione. Io ne ringrazio V. S. anche a loro nome. Ma con questo solo non mi parrebbe di averle significata compiutamente la mia gratitudine e la stima grande che ho sempre avuta della sua persona: un segno più certo Le sia dunque il pensiero che oso soggiungerle. Io sono persuaso che l' uomo (e molto più la società) non possa raccogliere nè anco in questa vita tutto il bene che la Provvidenza ha disposto per lui, se non a condizione, che egli, come a termine fisso, volga tutta la sua attività a' suoi eterni destini. Non trovo un altro punto d' appoggio così fermo che mai non ceda, dove puntar la leva per movere, in qualunque circostanza, l' uomo alla virtù, se non quello che è fuori di questa terra, un bene eterno. E` un sentimento intimo al cristianesimo espresso in quelle parole del Salvatore: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » ». E mi sembra, che questo sia appunto quel più alto ordine di cose, ch' Ella m' accenna nella sua lettera « aver procurato d' insinuare negli animi senza che paia ». Rendendo piena giustizia alle sue intenzioni, mi si offriva qui all' animo spontanea la domanda; se non sarebbe naturale, non sarebbe almeno conveniente, che apparisse in tutta la luce, quel principio che dee pur reggere tutto l' uomo in ogni suo fatto, e al quale tutti gli altri principii vogliono essere subordinati, dal quale sono corroborati e santificati. Il rifiuto o l' indifferenza che ne mostra il mondo, potrebbe forse essere una ragione di più per insistervi. Ecco quanto affido alla sua saviezza ed alla sua benevolenza. Il grave argomento che Ella tratta sotto il titolo: « Ragionevolezza dell' uso delle punizioni »mi pare che dovrebbe ricevere delle importanti modificazioni, considerato in quell' ordine più sublime. Mi è non poco doluto che il mio celere passaggio da Firenze m' abbia privato del vantaggio di riveder Lei, e di conoscere di persona l' egregio Gino Capponi di cui ho tanta venerazione; e ben mi desidero, ma non ispero così presto, qualche altra fortunata occasione. [...OMISSIS...] 1.50 Duolmi di sentire dalla cara vostra del 26 corrente i difetti di alcuni nostri fratelli. Io voglio darvi alcune regole per arrivare a toglierli, se si può, e quando usati tutti i mezzi che sono in nostro potere, non si riesca, per licenziare dall' Istituto gli inosservanti. Le regole sono queste: 1 Il Superiore deve dimostrare una ferma volontà che tutte le regole sieno osservate. Se i fratelli sieno una volta ben persuasi che il Superiore vuole , state certo che non si prenderanno facilmente certe libertà; 2 Il Superiore deve dimostrare questa ferma volontà in un modo coerente, in maniera che da tutte le sue parole e da tutti i suoi atti chiaramente risulti, senza che sia mai trovato in contraddizione per ragione di parzialità o di fiacchezza; 3 Questa ferma volontà deve essere dimostrata con tutta la dolcezza, e l' amabilità di modi, e le dimostrazioni d' affetto; ma quella dolcezza deve cadere sul modo e non sulla cosa : deve stabilire la fermezza della volontà, non distruggerla; 4 Deve ancora questa fermezza essere dimostrata colle più chiare ed esplicite parole, senz' alcun timore o riserbatezza, cioè non conviene dire le cose a mezzo nè oscuramente, ma precise e bene determinate, e vale anche qui il proverbio: patti chiari e amicizia lunga ; 5 Il Superiore nel dimostrare questa fermezza di volontà in esigere l' osservanza e l' obbedienza, non deve escludere la discrezione , che consiste nel dispensare nei casi particolari da qualche regola, quando o il bisogno della salute, o altra buona ragione lo esiga; 6 Conviene che il Superiore parli aperto e senza riguardi, ma nello stesso tempo con mente fredda , protestando di non voler altro che il bene e l' emendazione; 7 Il Superiore non deve risparmiare le correzioni e le penitenze; ma deve prima ben accertarsi del fatto e prendere notizia delle circostanze. Deve ascoltare a testa fredda le giustificazioni, e se conoscesse d' aver preso uno sbaglio, deve tosto cedere, dando prove che lo moveva il solo zelo del bene e l' amore della giustizia. Deve anche distinguere i falli che traggono seco rilassatezza e conseguenze funeste, da altri falli accidentali e materiali, e rispetto ai primi deve essere inesorabile. Deve graduare la forza della riprensione e della penitenza, e, se non c' è emendazione, deve dichiarare al fratello francamente che va a scrivere al Provinciale e successivamente al Generale; i quali indubbiamente lo sosterranno a qualunque costo, anche a costo di licenziare il fratello dall' Istituto, se sarà necessario; . Se nelle correzioni il Superiore deve conservare al maggior segno la testa fredda, e dichiarare in un modo esplicito la sua volontà senza parole inutili che dicano di più di quello che esige il caso, le quali dimostrano qualche irritazione o riscaldo; in tutto il resto del tempo il Superiore deve dimostrare la più grande amabilità, famigliarità e umiltà, usando spesso qualche attenzione e graziosità a' suoi sudditi, specialmente a quelli che sono stati corretti, e si sono emendati, od hanno promesso emendazione. Già s' intende che questi atti gentili non debbono essere tali da rilasciare per nulla l' osservanza delle Regole, il che sarebbe contro il fine; 9 Finalmente il Superiore deve prestare aiuto e sostegno ai fratelli nell' esecuzione delle loro incombenze ed officii. Facciamoci dunque coraggio, o mio carissimo, e se siamo uomini, pensiamo che abbiamo vicino Iddio che aiuta sempre colla sua onnipotenza quelli che confidano in lui, e che operano per lui. 1.50 Quello che mi dite nella cara vostra è tutto vero. Un giovane che deve fare il Superiore ha pur troppo delle grandi difficoltà da superare, ed è solo con un grande aiuto ottenuto da Dio coll' orazione, con un' assidua vigilanza sopra se stesso, su tutti i suoi atti e su tutte le sue parole, ch' egli riuscirà in un tale e tanto ufficio. Nello stesso tempo questa prova gli riuscirà infinitamente utile per emendare e formare se stesso, se con grande spirito di Dio e con grande impegno la intraprende. I due perni del suo reggimento debbono essere: 1 disciplina ; 2 dolcezza. Disciplina , non lasciandosi per debolezza o per alcuna leggerezza rimuovere dal proposito di mantenere e far mantenere la perfetta osservanza in tutte le cose importanti, usando qualche volta nelle meno importanti la debita discrezione. Dolcezza , non potendo egli per la sua età far uso di molta autorità e rigore, e dovendo pure ottenere il fine assolutamente necessario della religiosa disciplina; la dolcezza, la persuasione, la ragionevolezza, l' affabilità de' modi, ma ferma ed irremovibile, è quell' arma a cui deve di continuo por mano, ed è un' arma così potente che può ottener con essa le più belle vittorie. Ma quando fosse necessario, avrà poi un' altra arma, quella di ricorrere ai Superiori maggiori, dando loro imparziali e chiarissime relazioni de' casi, ne' quali debbono intervenire per sostenerlo. Questo vi scrivo per incoraggiarvi, e perchè tali documenti vi saranno sempre utili. V' abbraccio intanto teneramente, e abbraccio con voi tutti cotesti carissimi, a cui prego dal Signore grazie e virtù da conoscere ed amare quanto sia bella e gradita a Dio l' opera della carità che esercitano. [...OMISSIS...] 1.50 Con una veneratissima sua lettera del 20 maggio p. p. Vostra Eminenza mi manifestava, come l' animo del Santo Padre non era punto cangiato in verso l' umile mia persona: « e come il desiderio di darmene una pubblica testimonianza si manteneva egualmente vivo: in prova di che per ben due volte Le aveva ordinato di scrivermi su questo proposito per manifestarmi questa sua disposizione, ed insieme farmi conoscere che manderebbe con tanto maggior compiacimento ad effetto le intenzioni già manifestate sulla mia persona, facendo io precedere qualche spiegazione declaratoria di quelle proposizioni, di cui hanno abusato gli avversari per sollevarmi contro la censura ». Grato a tali sentimenti dell' augusto Pontefice, nella mia risposta in data 30 maggio p. p. io esprimevo la profonda mia riconoscenza verso Sua Santità, e poi, rammentando i diversi atti co' quali avevo procurato di soddisfare al volere della Sua Santità medesima per quanto aveva potuto conoscerlo, dichiaravo di esser pronto a fare con egual docilità quanto per mezzo di Lei mi si richiedeva di nuovo: al qual fine pregavo Vostra Em.za d' indicarmi le proposizioni bisognose di quelle spiegazioni declaratorie che il Santo Padre desiderava. Non ricevendo pel corso di più mesi alcuna risposta, e dubitando che la mia lettera si fosse smarrita, ne ho replicata un' altra in data del 5 agosto p. p., raccomandandola a persona sicura; e in risposta a questa ieri ho ricevuta la veneratissima sua del 2. agosto, nella quale, senza far più menzione delle spiegazioni declaratorie, di cui già aveva espresso desiderio il Santo Padre, invece Ella mi dice che: « il desiderio esternatole da Sua Santità sarebbe, che io scrivessi un' operetta in opposizione a quella intitolata « Delle Cinque Piaghe » »: e di più mi aggiunge che: « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me ». Eminenza, io non posso che ripetere quello che più volte ho detto, cioè: Che la mia maggior gloria e felicità è sempre stata e sarà sempre, Iddio così aiutandomi, nell' essere figlio divoto e ubbidiente alla Chiesa Romana, madre e Maestra di tutte le Chiese; Che in ubbidienza alla detta Chiesa io sono pronto a fare qualunque dichiarazione, correzione o ritrattazione che mi fosse richiesta dal Santo Padre; Che per fare alcuna delle dette cose, io ho bisogno che mi venga indicato quali siano in particolare le proposizioni, che richiedono spiegazione, correzione o ritrattazione: senza di che mi riesce egualmente impossibile il fare un' operetta in opposizione al noto libro. Onde non mi resta che tornare a supplicare, perchè mi si comunichi quello che in particolare io debba emendare, correggere o ritrattare. In quanto poi a quello che Vostra Eminenza soggiunge che « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me », Eminentissimo Principe, io non ho mai scritto una linea, nè ho mai fatto un passo per appianarmi la via al Cardinalato. Io considero quest' onore come un peso spaventoso, non da desiderarsi ma da fuggirsi. Se l' avessi bramato assai probabilmente sarei già prima d' ora Cardinale: già fino dal 1.23 il Papa voleva nominarmi Uditore di Rota, e la persona che a nome del Papa me ne fece l' invito, mi assicurava che sarei stato ben presto Decano e poi Cardinale. Io non accettai nè questo invito nè altri posteriori. Fu la Santità di Pio IX che (essendo già pubblicate le due note operette) mosso dalla bontà del suo cuore, spontaneamente mi manifestò il suo fermo volere di elevarmi nel prossimo Concistoro ad una tal dignità. Io feci quello che potevo per declinare un tanto onore; ma obbligato ad accettarlo per ingiunzione di chi mi poteva comandare, io abbassai il capo e l' accettai. Non per lusinga della mia ambizione, come ora dicono i miei nemici, ma sulla parola del Papa io mi sottomisi alla gravissima spesa per fornirmi delle cose necessarie. Quelle carrozze ed altri oggetti, che ora sono in Roma, e che già mi rendono la favola del pubblico, non gli ho venduti sinora per rispetto alla parola del Sommo Pontefice. Ora però io mi sottometto con vero gaudio di spirito alla diversa disposizione che di me ha fatto la Provvidenza, e in breve darò gli ordini opportuni perchè sia venduta ogni cosa: non lasciando per questo di rimanere fermo e inalterabile il mio sincero attaccamento e la piena mia sommissione alla santa Sede Apostolica e al Sommo Pastore della Chiesa. Vostra Em.za in fine alla sua lettera mi domanda un esemplare di quello che ho scritto sulla legge Siccardi: mi duole di non poterla servire, perchè non ne ho. Ma sarà facile che costì Ella trovi il giornale di Torino intitolato l' « Armonia », dove furono appunto inseriti i quattro articoli che scrissi su quell' argomento. [...OMISSIS...] 1.50 M' accorgo dalla informazione che mi date del vostro interno, che il vostro adorabile Signore e carissimo sposo GESU` vi ha regalata assai in questi ultimi spirituali Esercizi, specialmente dandovi lume a conoscere voi stessa e quel segreto tarlo di vanità che, quuantunque non distruggesse intieramente il merito delle vostre buone azioni, tuttavia andava purtroppo corrodendole e rubacchiando una parte di quella mercede, che ad esse è promessa. Ora, per grazia di Dio, è scoperto, convien dunque impedirlo di rodere, e, appena si sente il picchiettare de' suoi denti, picchiare e scuotere; come appunto col tarlo materiale, che, se sta foracchiando un vecchio armadio o qualche altro arnese di legno, e se n' ode il tich, tich , col picchiar l' arnese o scuotendolo, la mala bestiola ristà dal suo tristo lavoro. Così devono fare i servi di Dio, perchè il pigliare il cattivello e ammazzarlo interamente pur troppo è cosa tanto difficile che par quasi un miracolo. Tuttavia se esso si fa continuamente tacere, senza lasciarlo in pace giammai, si muore poi da se stesso, quasi di morte naturale, e allora che felicità! Non regna più nell' anima che l' amor di Dio, vi regna libero e potente in ogni parte di essa, in ogni sua facoltà, in ogni sua azione, o patisca, od agisca. Voi felice, mia cara Bonaventura di GESU`, se arrivate a questo, ed anzi felice, perchè ci arriverete sicuramente, avendo con voi il vostro sposo sempre pronto ad aiutarvi, purchè in lui fedelmente ed intieramente confidiate, in lui, in lui solo. L' aver conosciuto dunque il difetto che si nascondeva nel secreto dell' animo è già una grazia grande. Ora poi vi lamentate che vi manchi un' altra conoscenza, cioè dite di non potere ancora abbastanza conoscere quel bene che è degno di tutto l' amore; ed avete ragione, avete ragione di dire che non lo conoscete abbastanza, perchè sapreste voi che cosa ne sarebbe se lo conosceste così, come voi vorreste e come egli è? Ne sarebbe quello che S. Agostino dice di se stesso, che egli sentiva talora un tale affetto, e in questo affetto divino un tal gaudio, che se fosse cresciuto più oltre, egli certo non saprebbe dire che cosa sarebbe stato, ma questo sapea dire che non sarebbe stata certo la vita presente. Capite che vuol dir questo? Se voi conosceste abbastanza quel bene, a cui aspira, ed a cui è consecrato tutto il vostro cuore, non sareste più qui, in una parola, sareste, senz' accorgervi, in paradiso. E` dunque giusto e ragionevole che voi accusiate la vostra ignoranza in questa parte, e che, conoscendo questa vostra ignoranza che si può dir sempre infinita, non lasciate nascervi più mai alcuna vanità dal saper voi molte altre cose, che non vi tolgono quella ignoranza grandissima del vostro bene, ne sapeste anche infinite: è giusto che vi lamentiate altresì di continuo col vostro sposo, che è la sapienza eterna, perchè non vi faccia conoscere un po' più, ed anzi molto più, di sè medesimo; perchè questi affettuosi lamenti sono a lui cari, ed egli non potrà resistervi, se li farete di continuo, ma cederà coll' accordarvi una comunicazione maggiore del suo essere amabilissimo. E poi questi lamenti che altro sono, a che altro tendono, se non a spingervi fuori delle angustie e della povertà di queste cose visibili e corruttibili? Sono in fine i desiderii della morte, famigliari a tutti i Santi, cominciando da S. Paolo che diceva: « desidero di esser disciolto e di trovarmi con Cristo », e venendo a tutti gli altri. Sapevano quel che desideravano. Ma io voglio che desideriate ancora più di meritare, che di godere, perchè anche Cristo, pregando il Padre pe' suoi discepoli, disse che egli non chiedeva, che fossero tolti dal mondo, ma solo preservati dal male; voglio che desideriate di servire a Cristo nei suoi pargoli più ancora che di goder Cristo, dicendo anche voi collo stesso Apostolo: « Io desidero di essere separato (dal godimento di Cristo) per la salvezza de' miei fratelli ». Tanto più che conoscerete maggiormente Cristo, quanto maggiormente vi affaticherete a pro di quelli pe' quali egli è morto in croce, perocchè niuna via più spedita di conoscerlo che quella di esercitare la sua carità: « Dio è carità, e chi rimane nella carità, in Dio rimane e Dio in lui ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Non vogliate attribuire la scarsezza delle mie lettere a poca carità che io abbia verso di voi, perchè il Signore sa che io vi porto nel cuore e vi offerisco a Lui ogni giorno sull' altare, ma sì attribuitelo alla scarsezza che ho di tempo, alla debolezza delle mie forze, ed al sapere che siete provvedute di un Superiore pieno di sollecitudine e di zelo per l' incremento vostro in Gesù Cristo. Non di meno, ora che ritorna a voi dal suo viaggio d' Italia questo vostro Superiore e mio fratello carissimo in Cristo, non posso a meno di accompagnarlo colla presente, sì per ringraziarvi dei doni che mi ha mandato la vostra carità, e che mi sono pegno della vostra filiale devozione, e sì per rispondere brevemente alle tre importanti questioni che mi proponete, e di cui mi domandate la soluzione. Poichè quantunque sappia che in tali argomenti potete sentire la voce di chi vi dirige immediatamente, voce piena di sapienza e di spirito di Dio, tuttavia penso che il sentire le stesse cose da me, come desiderate e chiedete, se non vi torna di maggiore istruzione, vi deve almeno tornare di consolazione e di conforto nel bene, per quell' affetto in Gesù Cristo, e quell' ubbidienza che mi prestate. La prima questione adunque da voi propostami è: Come si può usare lo spirito d' intelligenza senza mancare alla semplice e cieca ubbidienza? La quale questione, come le altre due che le vengono in appresso, dimostrano il vostro discernimento in Cristo, perchè manifestano il desiderio che avete di essere istruite nelle cose più perfette; chè appartiene alla perfezione il saper congiungere ed armonizzare nelle azioni giornaliere quelle virtù che sembrano a primo aspetto opposte, quasi che si escludessero reciprocamente. E in fatti, quantunque niuna virtù possa giammai riuscire veramente opposta ad un' altra virtù, come una verità ad un' altra verità, tuttavia l' arte di unire tra loro in amichevole società quelle virtù che presiedono a facoltà e passioni aventi una tendenza contraria, e che vanno sempre abbinate e possedute solo dall' uomo perfetto, è quella appunto a cui si deve applicare chi allo studio della perfezione si è consacrato. Nel che avviene come nella musica, che quantunque la voce del contralto, poniamo, paia oppostissima a quella del baritono e del basso, tuttavia il perito compositore di musica, trovati i loro accordi, ne fa riuscire un' unica ed aggradevole armonia. Venendo dunque alla questione, dico, che la semplice e cieca ubbidienza si può ben congiungere e compenetrare coll' esercizio dello spirito d' intelligenza, e ciò in diverse maniere. Prima maniera . Conviene considerare che lo spirito di intelligenza si esercita tanto più quanto più è alta ed universale la ragione secondo la quale noi dirigiamo le nostre operazioni; chè, operare con ispirito d' intelligenza non vuol dir altro se non operare con ragione, senza lasciarsi mai muovere o perturbare da passione alcuna. Ora la più alta e la più universale di tutte le ragioni d' operare è quella di far sempre in ogni cosa la volontà di Dio; su di che penso che abbiate veduto un mio ragionamento a stampa, e l' abbiate anche letto. Ma chi fa l' ubbidienza con semplicità e purità, egli è certo di fare la volontà di Dio, il quale ha detto di tutti i Superiori ecclesiastici: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Questa è una ragione semplice, ma efficacissima e sublimissima, e contiene tanto bene in sè stessa, che quando ella c' è, rende superflua qualunque altra ragione inferiore; e perciò l' ubbidienza si dice cieca , non perchè sia senza lume, ma perchè ne ha tanto, che non ha più bisogno di prenderne d' altronde, come chi dicesse che sta senza lume colui, che non accende le candele perchè risplende il sole. Seconda maniera . Oltre di ciò colui che obbedisce ciecamente e semplicemente, può esercitare lo spirito d' intelligenza nel modo di eseguire quello che gli viene comandato. Possono essere due persone che eseguiscono il comando del Superiore, ma una di esse lo eseguisca senza giudizio, senz' attenzione, senza spirito, senza rifletter bene a ciò che gli è comandato, e alla vera intenzione di chi comanda, l' eseguisca, ma di mala grazia, senza persuasione, e quasi per dispetto; l' altra poi eseguisca la stessa cosa cercando prima di tutto di ben intendere la mente del Superiore, poi studiando il modo migliore di eseguirla facendo quello che fa con impegno, come se fosse un affar suo proprio, desiderando di riuscire, usando la debita circospezione, mettendovi il buon garbo, trovandovi la sua contentezza, certissima di piacere a Dio. Questa seconda ubbidisce con semplicità e ad un tempo con ispirito d' intelligenza. Non ubbidisce come una macchina che si fa muovere con qualche ingegno, ma come una persona viva e intelligente. E di vero non può il Superiore quando comanda, prescrivere tutte quelle cose che riguardano il modo d' ubbidire, ma dà il comando, poi lascia fare al suddito, e il suddito che ha più spirito d' intelligenza si conosce subito, osservando il modo che egli tiene nell' eseguire quanto gli è comandato. Terza maniera . Accade spesso che il comando stesso sia più o meno generale, e lasci molte cose al buon giudizio di chi lo riceve. In tal caso il suddito deve osservare qual sia la sfera che gli determina il comando del Superiore, e dentro quella sfera egli è obbligato dalla stessa ubbidienza ad operare da sè, non però a capriccio, ma col suo criterio, che è quanto dire con ispirito d' intelligenza. Se voi considerate, mie carissime figliuole, i vari membri di un Istituto religioso, vedrete che tutti operano per ubbidienza, se hanno spirito, foss' anche il Generale dell' Ordine, perchè anch' egli è soggetto almeno al Papa; ma tuttavia l' ubbidienza lascia un campo libero a chi più a chi meno, ai Superiori un campo maggiore, agli inferiori uno minore. Entro questo campo libero ciascuno può e deve mostrare il suo spirito d' intelligenza. Così nella vostra Casa, cominciate dalla Superiora centrale, e venite giù agli altri uffizi della Casa insino all' ultimo, vedrete che tutti questi uffizi essendo subordinati l' uno all' altro, e quindi diretti dall' ubbidienza, possono tuttavia e devono essere esercitati con ispirito di intelligenza, perchè ad ogni ufficiale è prescritto di usare lo spirito d' intelligenza entro la sfera del suo ufficio in quanto è lasciato libero alla sua discrezione. Prendete anco a considerare un ufficio di carità verso gli esterni, come sarebbe quello di maestra o d' infermiera. E` l' ubbidienza che impone quest' ufficio, epperò il merito dell' ubbidienza accompagna tutte le azioni; ma tuttavia quanto spirito di intelligenza non ci vuole ad adempirlo con perfezione? Prendete a considerare anche dei comandi particolari, troverete che la maggior parte di essi lascia qualche larghezza di libertà, dove può aver luogo lo spirito d' intelligenza. Sia comandato ad alcuna di voi di scrivere una lettera e ve ne sia anche tracciato l' argomento; non vi resta ancora molta intelligenza da esercitare nello studiare quella lettera con senno e con intelligenza? L' ubbidienza adunque non suol mai determinare tutti gli atti della persona, il che sarebbe impossibile, ma ne restano sempre molti liberi in cui l' intelligenza può e deve avervi un luogo grandissimo. Quarta maniera . Lo spirito d' intelligenza si può esercitare in altro modo, ed è col fare ai Superiori che comandano, delle rispettose osservazioni, qualora sembri che nel comando che danno vi sia qualche cosa da osservare. Ma per fare queste rispettose osservazioni con vero spirito di intelligenza, ci vogliono tre condizioni: la prima, che non procedano da alcuna passione d' amor proprio, ma dal puro zelo del bene e della gloria di Dio; la seconda, che non sieno fatte con leggerezza, dicendo ogni cosa che venga in capo o in bocca senza avervi riflesso od esaminato bene l' affare; la terza, che sieno fatte con ispirito di sommissione, di modo che se il Superiore persiste nel suo comando, il suddito non se l' abbia a male, ma eseguisca con eguale alacrità e contentezza il comando. Che se si trattasse di un negozio molto importante per la gloria di Dio, e sembrasse proprio che la cosa non andasse bene come la vorrebbe il Superiore, si può ricorrere ad un Superiore maggiore; chè, questo non è contrario alla semplicità dell' ubbidienza, ma si debbe fare anche questo colle dette tre condizioni. I Superiori hanno piacere di sentire tali ingenue osservazioni dei loro sudditi, purchè tutto si faccia con ispirito di carità e di umiltà. Che se poi dopo tutto ciò avviene che quello che si deve fare e si fa per ubbidienza, porti qualche inconveniente (che non sia però mai un peccato), chi ubbidisce non perde nulla, anzi vi guadagna, perchè quell' atto d' ubbidienza contiene una mortificazione delle più grate a Dio. Chi mortifica sè stesso per ubbidire, sia perchè nega la propria volontà, sia perchè sacrifica il suo amor proprio e sottomette la stessa sua ragione ad una ragione superiore, che è quella di Dio onde viene il comando, questi ha dato un gran passo avanti nella via della santità. E su questa quistione basti il detto fin qui. La seconda è: In qual modo si può praticamente unire lo spirito di contemplazione alla vita attiva nelle opere di carità ? L' unione della santa contemplazione coll' esercizio delle opere di carità è l' intento del nostro Istituto; epperò noi non dobbiamo essere appagati fino a che non abbiamo ottenuto da Dio il lume di congiungere in noi queste due cose. E dico che da Dio dobbiamo ottenere la virtù di annodare insieme in tutta la nostra vita la contemplazione e l' azione, perchè non c' è nessun maestro che ci possa insegnare una scienza così sublime, se non quel Gesù Cristo che in sè ne mostrò un perfettissimo esempio. Perocchè questa scienza non consiste in altro se non nell' unione intima con Gesù Cristo, in una unione la più attuata possibile. Ed Egli per sua misericordia ne ha già preparati i mezzi nella sua Chiesa, prima ancora che noi nascessimo o lo sapessimo desiderare. Quali adunque sono i mezzi per ottenere questa unione intima, e continuamente attuata con Gesù Cristo, che non ci distoglie dalle opere di esterna carità, ma che anzi vi ci sprona ed aiuta? Il primo di tutti i mezzi è l' intenzione pura e semplice di cercare Gesù Cristo solo in tutti i nostri pensieri, parole ed azioni. Questa rettitudine d' intenzione si offende di qualsiasi altro affetto che influisca nelle nostre azioni, e resta da esso poco o molto macchiata. Quindi l' intenzione di cercare in tutto il solo Gesù Cristo non è perfetta, se l' uomo non ha rinunciato intieramente all' amor proprio e ad ogni sensualità. Dissi però che quell' intenzione, che cerca in tutto Gesù Cristo solo, rimane offesa da ogni affetto che influisca nelle nostre azioni sieno interne o sieno esterne, perchè un affetto od una sensazione, che non avesse alcuna influenza sui nostri pensieri volontarii, nè sulle nostre parole, nè sulle nostre opere (nel qual caso quell' affetto o quella sensazione sarebbe interamente opposta alla nostra volontà) non diminuisce niente la purità della nostra intenzione, ma piuttosto la eserciterebbe ed acuirebbe secondo il detto di Dio a san Paolo: « che la virtù si perfeziona nella tribolazione ». Il secondo mezzo, che viene in soccorso del primo, consiste nell' eseguire tutti gli esercizii di pietà, e principalmente il ricevimento de' Ss. Sacramenti e l' assistenza al Santo Sacrificio, col maggior fervore, tenerezza, gratitudine, sincerità ed intelligenza possibile; giacchè in questi esercizii avviene la special comunicazione fra Gesù Cristo e l' anima divota. Il terzo mezzo si è quello di sforzarsi continuamente a tener vivo nel cuore l' amore di Gesù Cristo, portando sempre il divino Maestro quasi dipinto davanti agli occhi dell' anima nostra, udendo le sue parole quali sono scritte nel Vangelo, contemplando le azioni da lui fatte nel corso della sua vita mortale e nella sua preziosissima morte (cose tutte che devono essere familiari ad una persona spirituale), facendo delle applicazioni delle sue parole e de' suoi esempii a noi stessi e a tutto quello che abbiamo a operare, considerando altresì come opererebbe egli nel caso nostro, e come egli vorrebbe che noi operassimo, consultando nei casi dubbii con sincero desiderio di conoscere e di fare unicamente ciò che è più perfetto e che più gli piace, ed ascoltando con riverenza ed amore la sua voce, quando egli parla dentro di noi. Il quarto mezzo è di vedere Gesù Cristo nei prossimi coi quali parliamo o trattiamo, proponendoci nel nostro trattare o parlare coi prossimi, di esser loro utili in Gesù Cristo, e di cavare da loro anche edificazione per noi stessi. Se noi abbiamo un vivo zelo per la salute delle anime, noi faremo tutto il possibile per acquistarle ed avvicinarle a Gesù Cristo; epperò saremo nemici di tutte le parole inutili ed oziose, e parimenti delle superflue conversazioni e di ogni vana curiosità. Ma per fare che ogni nostra parola, ogni nostra operazione sia indirizzata a migliorare gli altri e noi stessi, e quindi a portar frutti di vita eterna, ci vogliono due cose: la prima e principale è, che la carità sia sempre quella che ci diriga, e poi che domandiamo a Gesù Cristo il lume della sua prudenza, il quale moltiplica i frutti della carità. Un' anima che si propone in tutto quello che fa o che dice, il bene delle anime, sì delle altrui che della propria, starà sempre raccolta anche in mezzo a molte opere esterne, perchè il suo spirito è sempre inteso alla carità, e chi pensa sempre alla carità di Gesù Cristo, e non ha altro in cuore, è sempre raccolto in Gesù Cristo ed in Dio, perchè la Scrittura dice: « Dio è la Carità ». Ma per acquistare quest' abito ed ottenere che questi quattro mezzi fruttino un raccoglimento costante dello spirito, anche in mezzo alle esterne occupazioni, è necessario di fare degli sforzi a principio e mortificarsi molto e risolutamente in tutto quello che distrae la mente e si oppone al detto stato di raccoglimento e di presenza di Dio, è necessario domandare istantissimamente a Gesù Cristo la grazia; e solo colla perseveranza in una intensa orazione si può stabilire l' animo e fargli acquistare quella condizione permanente di quiete in Dio, la quale, se la volontà da se stessa non si dà al male, non si perde più per nessuna azione esterna. Convien sapere che quella potenza, la quale propriamente comunica con Dio e con Dio si congiunge, è una potenza diversa dalle altre con cui si opera esternamente; e però quando l' uomo è venuto ad un certo stato di contemplazione e di unione, allora egli opera colle sole potenze che risguardano le azioni esterne, senza impedire alla potenza suprema la sua quiete e il suo riposo in Dio. Onde si legge di certe persone sante, che mentre sembravano tutte occupate al di fuori, esse conversavano internamente col loro Dio e Creatore; e questa conversazione non le impediva, anzi le aiutava a far meglio quello che facevano al di fuori, come viceversa, quello che facevano al di fuori non le frastornava da quella interna affettuosa comunicazione. Un così desiderabile stato si suole acquistare da quelle anime fedeli e costanti, che da principio soffrono molto mortificandosi e pregano con intensità ed assiduità. E questo stato le Suore della Provvidenza devono cercare di ottenerlo nel tempo del Noviziato, dove hanno tutto il campo, se vogliono, di stringere questo intimo e indissolubile nodo con Dio, Sposo delle anime loro, nodo che deve poi durare tutta la loro vita. E quelle che non hanno finito d' ottenerlo nel Noviziato, devono procurare di ottenerlo al più presto. Ma oramai passiamo alla 3 quistione. Questa era: Come si può unire perfetto zelo e desiderio ardente di perfezionare la carità col perfetto distacco dalla propria stima e desiderio sincero dei disprezzi ed obbrobrii? E` questa una questione non meno difficile delle due precedenti, non dico difficile a risolversi in parole, ma a risolversi col fatto. Ma che cosa è difficile a Gesù Cristo ed a quelli che in Gesù Cristo sperano e ne lo pregano?... Per rispondere adunque anche a quest' ultima vostra dimanda, dico che è necessario supporre che nella persona ci sia il fondamento di una solida umiltà, la quale consiste nel non attribuire a se stessi quello che appartiene al solo Dio, od agli altri uomini, di modo che umiltà non è altro che giustizia. In fatti è giusto che l' uomo si reputi un nulla, perchè è tale, e che reputi Dio essere tutto: è giusto che l' uomo sappia ancora che la gloria non appartiene al nulla, ma al tutto, epperciò non voglia alcuna gloria per sè, ma voglia bensì procacciare a Dio solo tutta la gloria possibile: è giusto che l' uomo che sa queste cose, senta un certo rammarico quando viene lodato dagli uomini, perchè il nulla non può desiderare di esser lodato senza usurpazione, e che senta un gran diletto per l' opposto quando vede che gli uomini glorificano Dio. Ma l' uomo non essendo solamente un nulla, ma qualche cosa di peggio, cioè un peccatore (non solo per i peccati che ha commessi, ma perchè ne potea e ne può commetter di continuo, se Iddio non ha di lui compassione), perciò è giusto altresì che egli desideri di esser disprezzato, e che egli goda quando viene maltrattato dagli uomini. Questi sentimenti devono essere inconcussi e profondamente scolpiti nell' animo di una persona religiosa. Ma ella dee sapere anche un' altra cosa. Quantunque l' uomo sia un nulla, e di più soggetto ad ogni peccato, tuttavia Gesù Cristo per sua gratuita misericordia lo ha redento, lo salva, e lo riveste di se stesso per siffatto modo che il cristiano ha intorno gli ornamenti di Gesù Cristo; e questi sono più o meno ricchi e preziosi, secondo l' abbondanza delle virtù, dei meriti e della grazia. Sarebbe una gran pazzia che l' uomo trovandosi ricco di siffatti ornamenti, ne insuperbisse; mentre anzi, se pensa che tutti questi tesori gli sono stati dati gratuitamente e contro ogni suo merito, egli dee confondersi e attribuire a Dio solo anche la gloria dei medesimi, senza usurparne per sè la più piccola parte. Ma come Iddio donò all' uomo questi tesori di virtù e di grazia per un suo preveniente e gratuito amore, così egli, gli partecipa ancora una parte della sua gloria. Ora di nuovo l' uomo deve considerare questa gloria che gli viene attribuita, come gloria non sua, ma di Gesù Cristo, che per sua misericordia l' ha voluta diffondere anche ai suoi credenti, e loro partecipare. Ciò posto, le regole da tenere per unire insieme il desiderio di condurre a perfezione le opere di carità e il distacco dalla propria stima, e di più il desiderio sincero del disprezzo (cosa preziosissima), sono le seguenti: Non dare (generalmente parlando) agli uomini alcuna occasione di disprezzarci, almeno con alcun proprio fallo; ma quando, a malgrado di ciò, ci viene il disprezzo, noi dobbiamo riceverlo con allegrezza, come cosa assai cara, e ringraziarne il Signore, senza temere che da ciò proceda danno alle opere di carità, perocchè se anche qualche danno ne procede, questo è voluto dal Signore, per i suoi fini, e allora non dobbiamo averne dispiacere, ma confidare nella Provvidenza che saprà ricavare da quel danno altri beni maggiori. Non far mai nulla per acquistare applauso dagli uomini, che è un fine ignobilissimo; ma quando tuttavia quest' applauso viene da sè, attribuirlo a Gesù Cristo, a cui solo appartiene, e per conto proprio averne paura come di un pericolo, e per cautelarsene fare nel proprio interno atti di umiltà e di disprezzo di se stessi, protestando di non volerlo ricevere come una parte della mercede. Dopo di ciò, se quell' applauso può riuscire di utilità alle opere di carità, si può anche averne piacere, purchè se ne abbia piacere per questo solo fine, e senza alcun riguardo a se stessi, badando bene che non nasca in noi alcun sentimento di vanità o di pretesa, anzi preparandosi ad essere, dopo ricevuto l' applauso, più umiliati di prima e persuasi di non essere per quell' applauso divenuti nulla più di quei miserabili che eravamo prima. Accorgendosi che la lode sia esagerata averne dispiacere, anche perchè è contraria alla verità e giustizia, ed attribuirla al buon cuore di chi la dà, che non bada alla misura. Per conoscere poi se siamo distaccati da noi stessi, dobbiamo esaminare se godiamo delle lodi date altrui, e specialmente voi dovete esaminarvi se godete delle lodi che vengono date alle sorelle; chè sarebbe un gran difetto l' averne anche un minimo dispiacere od invidia. Conviene che cogli altri, e specialmente colle sorelle siate generose, ne consideriate assai più le virtù che i vizii, e procuriate che conservino la stima con mezzi sempre giusti; e ognuna deve declinare le lodi date a sè, facendo in modo che cadano invece nelle sorelle, dovendo ciascuna amar di essere la prima nell' impegno e nella sollecitudine di mettersi l' ultima. E questo non è difficile a farsi quando una persona considera i proprii difetti e le altrui virtù, astenendosi dal considerare o dal giudicare gli altrui difetti, come quelli di cui non appartiene ad essa il giudicare, ma al solo Iddio; il che insegnò Gesù Cristo con quelle parole: « Non vogliate giudicare, e non sarete giudicati ». E in fatti, l' esporsi al pericolo di giudicare a torto sinistramente de' proprii fratelli, è lo stesso che far loro un' ingiuria: onde per non esporci a commettere contro di essi un' ingiustizia, non c' è altra via che astenerci da ogni giudizio definitivo ad altrui danno. Non parlare nè dir cose che cadano in propria lode, il che è riprovato anche dagli uomini. E quantunque non si debba neppure parlare, senza buoni motivi, in biasimo di se stessi, tuttavia si deve cercare di coprire le proprie virtù, per quanto si può, agli occhi altrui, e qualche volta si può anche parlare con disprezzo di se stessi, purchè ciò si faccia con sincerità. E` poi lodevole il farlo, mossi sempre da un sincero sentimento, quando si parla colle sorelle, o con persone famigliari e senza affettazione. [...OMISSIS...] 1.50 Ho ricevuto la gratissima sua del 20 settembre, ed oggi anche la seconda del 23 detto. Da quest' ultima mi accorgo che Ella non deve aver ricevuto una mia, data di Caserta 3 luglio 1.49, colla quale rispondevo alla sua 11 giugno, che mi partecipava la risoluzione da Lei presa nei santi Esercizi d' entrare nel minimo Istituto della Carità. Avendo io conservato copia di quella mia risposta, mi permetta che gliela trascriva. Non m' era mai venuto in pensiero, che questa mia lettera si fosse potuta smarrire, e però mi astenni dal farle parola di questo argomento, essendo mio costume di esortare bensì ad abbracciare lo stato religioso in generale quelli che ve li posso conoscer chiamati, ma non eccitandoli perciò a scegliere l' Istituto della Carità, bramando di accogliervi unicamente quelli che vi sono « missi a Deo , » non mai chiamati da me; che Dio me ne guardi. Tuttavia avendo Ella eletto questo minimo Istituto ne' santi Esercizi colla debita ponderazione, io non credo di doverle tacere (poichè me ne domanda espressamente) esser mia massima, che quando una volta si è presa, dopo consultato Iddio, una deliberazione in cosa per se stessa buona od attenente alla perfezione, convenga perseverare nella medesima, e non lasciarsene debolmente svolgere, se non fosse per ragioni gravissime ed evidenti. E reputo una sottile insidia dell' inimico, il fare che l' uomo vacilli in quella deliberazione, fosse anche sotto pretesto e colore di far meglio. Tale è la mia ferma opinione, non solo per ciò che riguarda la vocazione ad uno o ad un altro Istituto religioso, ma ben anche in altre materie. E credo che questo si potrebbe confermare colla dottrina e coll' esempio de' Santi, ed altresì coll' esperienza, la quale mostra sovente, che gli uomini che mutano leggermente, anche sotto specie di meglio, non raccolgono poi gran frutto. Circa quello che mi domanda, se nel nostro Noviziato ella potrebbe attendere per quattro o cinque mesi ad ultimare il compendio dell' Alasia, le rispondo che in ciò non si farebbe difficoltà. Perchè quantunque siano esclusi dal nostro Noviziato, ordinariamente parlando, gli studi severi, tuttavia per qualche grave cagione e quando si tratta di poco tempo, il Generale può dispensare. Eccole, mio carissimo signore, il mio sincero sentimento circa quanto mi domanda: mi sono raccomandato a Dio prima di darlo, ed ho consultato qualche persona rispettabile. Ma ella ne faccia quel conto che crede. Prego di cuore Iddio che La empisca di lumi e di benedizioni: mi tengo anzi certo che lo farà. 1.50 Aspettavo che mi deste qualche relazione della vostra nuova posizione e del nuovo vostro ufficio, secondo che eravamo stati intesi, quando ci siamo ultimamente veduti. Ora ricevo infatti la cara vostra del 1 dicembre, nella quale mi dite alcune cose dell' essere vostro e dell' andamento della scuola. E per rispetto agli Esercizi spirituali, non dubitavo della vostra diligenza, non essendomi venuta parola in contrario, e nondimeno ho inteso con piacere quello che me ne dite. Continuate, e sopratutto datevi all' esercizio della presenza di Dio e dell' orazione incessante che si fa col cuore, mantenendovi nello spirito d' orazione , che è veramente quello che alimenta il fuoco interiore e dà la vita all' anima. Procuriamo di convincerci sempre più dell' infinito bisogno che abbiamo della grazia divina che ci sostenti e preceda, e accompagni, e sussegua; poichè chi è altamente persuaso di ciò, non cessa di gridare a Dio dal profondo del cuore per ottenerla e averla sempre in ogni atto, in ogni istante della propria vita. Mi pare poi di rilevare da quello che mi dite in appresso, che voi facciate sì con tutto l' impegno e lo zelo la scuola, ma piuttosto per rassegnazione che per amore. E pure io vorrei che la faceste proprio per amore . V' assicuro che in questo sta l' eccellenza della virtù. Sforzatevi di pervenire a quest' alta disposizione d' animo, che l' amore sia proprio quello che faccia tutto in voi, e vi renda tutto soave e grato. A questo fortunatissimo stato giungerete certamente colla grazia divina: 1 Se concepirete colla mente l' eccellenza della carità del prossimo, a cui la divina bontà ci ha chiamati: nella quale carità consiste la sicura e vivente sapienza, « supereminentem scientiae caritatem , » come dice S. Paolo: onde ogni opera di carità ha per questo solo un infinito valore; 2 Se nella carità verso il prossimo avrete per oggetto continuamente presente il divin Redentore GESU`, il quale disse: « « Qualunque cosa avrete fatta a questi miei minimi, l' avrete fatta a me stesso ». » Quali parole per chi ha viva fede! quale incoraggiamento a qualunque sacrifizio! L' amore dunque di GESU` Cristo cresca ne' nostri cuori, e con esso crescerà l' uomo interiore, e si farà adulto e robusto. Mi è rincresciuto assai ciò che mi dite nell' ultima parte della vostra lettera, nella quale pare che crediate di essere trattato con diffidenza dal vostro Superiore. Mio caro Marco, io non so certamente come la cosa sia; ma non vorrei che fosse una vostra illusione o tentazione. Io so di certo che cotesto vostro Superiore vi ama, e potrebbe essere che egli vi tenesse d' occhio con ispecial cura. Ma che per questo? Interpretate bene, riputate all' affetto che ha per voi la sua sollecitudine. Badate che qui non ci sia nascosto dell' amor proprio, il quale noi dobbiamo scoprire e combattere, come nostro infaticabile nemico. Fondiamoci, mio carissimo Marco, nel vero e solido fondamento dell' UMILTA`, diamo addosso a noi stessi: e quante cose allora, che prima ci offendevano, ci sembreranno innocenti, o frivolezze, o fors' anche motivi di giubilo! Sopra questa cosa procurate di esaminarvi e di fortificarvi, e scrivetemene ancora: poichè atteso l' amor che vi porto, vorrei vedere la più perfetta concordia e carità fra voi e il vostro Superiore; la quale è tanto facile e tanto dolce, quando si abbassi ogni amor proprio e si facciano trionfare i bei sentimenti di umiltà e di mansuetudine. [...OMISSIS...] 1.50 Due sistemi sono stati sperimentati circa la relazione degli ordini religiosi coll' Episcopato: quello della dipendenza dagli Ordinarii, e quello di una moderata indipendenza dai medesimi, quale fu stabilito dal sacro Concilio di Trento. Fu provato che un ordine religioso universale è alla Chiesa utilissimo, assai più utile di molti ordini particolari; e in pari tempo, che quello non può fiorire, anzi nemmeno esistere, con un' assoluta dipendenza dai diocesani. All' incontro esso trae seco facilmente l' incomodo di essere dai diocesani veduto con gelosia, insorgendo anche talora collisioni coi medesimi. Questo incomodo manca nelle Congregazioni particolari e diocesane, ma in quella vece l' esperienza dimostra che queste sono deboli, poco utili alla Chiesa, di breve vita anche senza corrompersi, e causa sovente di scissure col resto del clero diocesano; ma quello che più di tutto importa, lontane dall' evangelica perfezione, la quale esige essenzialmente una carità universale, un distacco dalla patria, dalla famiglia, da tutte le cose proprie, e un campo vasto, anzi illimitato di azione quant' è illimitato l' amor di Dio per gli uomini e la sua Provvidenza, e l' indifferenza perfetta a tutto ciò, a cui può esser chiamato un uomo dalla medesima Provvidenza, senza distinzione di luogo o d' uffici, e senza limitazione di pericoli e di travagli per la divina gloria. Egli è adunque da preferirsi senza paragone un ordine universale, benchè involga qualche incomodo, a Congregazioni particolari che con incomodi maggiori arrecano tanto minori beni; e però è da preferirsi la moderata indipendenza dalla giurisdizione vescovile e la stretta unione e sommessione al Capo universale della Chiesa, condizione necessaria ad un ordine universale. E dico moderata indipendenza , perchè il Vescovo è anch' egli in alcuna parte, benchè non in tutto, legittimo superiore dei religiosi che sono nella sua Diocesi e che hanno il privilegio dell' esenzione, assegnandogli sopra di loro il Concilio di Trento, come dicevo, una parte di giurisdizione. Ma voi mi domandate: non si potrebbero vincere le difficoltà e gl' incomodi che trae seco un ordine universale nelle sue relazioni coi reverendissimi Vescovi? Vi rispondo che, avendo noi sommamente desiderato una tal cosa sino dalla prima formazione dell' Istituto, abbiamo studiato di avvicinarci a conseguirla il meglio che noi sapemmo colle norme fissate intorno a ciò nelle Costituzioni. Ma tali disposizioni, acciocchè riescano nella pratica efficaci, richieggono due condizioni che non si sono finora dappertutto verificate. La prima è, che le relazioni tra i Vescovi e l' Istituto avessero per base comune i grandi principii della carità di Cristo: e la seconda, che i Vescovi, informati ben addentro della natura dell' Istituto, fossero solleciti della sua conservazione, come ne sono gli stessi superiori, e non pensassero soltanto ad approfittarne, senza darsi cura di coltivarlo e mantenerlo in florido stato. Infatti se partiamo dai grandi principii della carità cristiana, questa non si restringe nei limiti di una Diocesi, e un seguace di Cristo, che ne sia animato, si compiacerà di un bene maggiore, anche col sacrificio di un minore. E quindi un Vescovo che non deve amare la sua Diocesi particolare più della Chiesa universale, non potrà vedere di mal occhio che qualche religioso abbandoni la sua Diocesi per arrecare un bene maggiore al regno di Dio sopra la terra. E a questo fine intenderà facilmente essere necessario il lasciar libera la disposizione dei loro soggetti ai Superiori generali dell' Istituto, come quelli che meglio vedono dove possono produrre un maggior frutto al padrone della vigna. E così fecero sempre i santi Vescovi, che talora si privarono di eccellenti soggetti a fine di procurare la salute a popoli lontani. E` dunque necessario che, come i Superiori dell' Istituto sono obbligati dalla loro professione di promuovere coll' attività dell' Istituto medesimo il massimo frutto di carità, come lo si propose Gesù Cristo nel governo della sua Chiesa: « ut fructum plurimum afferatis »; così si propongano lo stesso i Vescovi secondo lo spirito dell' episcopato: e in tal modo questi e i Superiori dell' Istituto abbiano un solo ed unico fine, non arbitrario, ma dallo spirito del Vangelo additato e determinato. E questo è già una prima base della concordia desiderata, sulla quale si può facilmente edificare domum pacis . L' altra base è, come dicevo, che i Vescovi investendosi del governo stesso dell' Istituto, come ne fossero Superiori, e bene intendendone la natura, non pretendano da lui di quelle cose che esso non può fare senza guasto della religiosa disciplina, senza dissipazione dello spirito dei suoi membri, senza disorganizzazione del suo ordine interno: nel qual modo soltanto ne possono trarre un grande e permanente profitto. Perocchè se abbiamo una macchina congegnata artificiosamente, vano sarebbe sperare che essa produca a lungo l' effetto pel quale è inventata e fabbricata, qualora non si badasse punto a conservarla in buono stato; ma o adoperandola soverchiamente, o ad altro uso da quello per cui è fatta, si logorasse in breve tempo, disordinasse od infrangesse. E per conservarsi in suo buono stato, senza di che non può giovare, è necessario, che i Prelati abbiano la ragionevolezza di ascoltare intorno a ciò i Superiori, che sono quelli che conoscono davvicino le forze e l' abilità dei loro soggetti, e le forze e l' abilità delle singole Case e Famiglie religiose: come fanno i padroni di un gregge, che per la cura del medesimo ascoltano i pastori e i mandriani, e come fanno i possessori di case e di campi, che ascoltano gli architetti ed i fattori circa il modo di amministrarli, e s' attengono ai loro consigli, riuscendo questa deferenza a loro vantaggio. Questa massima adunque ragionevole di dover adoperare il corpo religioso colla debita discrezione e deferenza al giudizio de' Superiori, acciocchè egli si conservi nello spirito della perfezione e nella sua propria naturale organizzazione, è un' altra base su cui edificasi l' armonia desiderata fra esso corpo ed i reverendissimi Prelati della Diocesi a cui serve. Quando si convenga in questi principii e si verifichino queste due condizioni preliminari, le disposizioni, stabilite dalle regole nostre e dalle nostre Costituzioni, compiranno la detta armonia, ed oso dire altresì, che la renderanno perfetta ed inalterabile. Perocchè appunto col fine di facilitare ed ottenere questo desiderabilissimo intento viene da noi stabilito quanto segue: Che quando si è presa un' opera di carità, piccola o grande, difficile o facile, leggera o faticosa, non si abbandoni più per nessuna ragione umana, e si procuri di adempierla, accrescerla e perfezionarla in tutti i possibili modi. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dell' Istituto nelle loro Diocesi, e della sollecitudine dei Superiori di applicare i soggetti più idonei che si possono avere all' esecuzione delle opere assunte; Che i soggetti applicati ad un' opera di carità non si rimuovano da quella leggermente, cioè senza che lo richieda il bene spirituale degli stessi soggetti o quello delle stesse opere intraprese. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dei soggetti, non già di una stabilità illimitata e incondizionata, la quale sarebbe irragionevole e contraria alle due massime fondamentali di sopra stabilite, ma di una stabilità ragionevole, quale sola si può e si deve da essi desiderare; Che a tutte le opere di carità si preferiscano quelle desiderate dai Vescovi. Questa costituzione mette l' Istituto alla disposizione dei reverendissimi Vescovi, giacchè per essa l' Istituto si obbliga di fare tutto quel bene che essi bramano da lui, dentro i limiti delle sue forze e della sua possibilità; ed anche qui non si potebbe ragionevolmente desiderare di più; Che quando i Vescovi si degnano di affidare all' Istituto delle opere appartenenti alla gloria di Dio ed al bene della Chiesa e dei prossimi, l' Istituto le adempia in quei modi che bramano i Vescovi stessi; ed in questo egli riceve ben volentieri da essi i regolamenti e i metodi che volessero comunicargli; nè si ricusa di entrare anche con esso loro in positive convenzioni. Voglia, a ragion d' esempio, il Vescovo affidare all' Istituto il suo seminario; i membri dell' Istituto che ne assumono la direzione, si obbligano di governare il seminario in tutto e per tutto come piace a lui, e in questo gli sono pienamente soggetti. Lo stesso si dica delle altre opere che il Prelato della Diocesi volesse affidare all' Istituto: questo non userebbe, se non quella parte di libertà che il Vescovo stesso gli accordasse; neppure in questo io vedo come ragionevolmente si possa bramare di più. Considerate bene queste quattro costituzioni, sarà facile di cavare una conseguenza inaspettata ma pure verissima, e questa si è che il Vescovo può esercitare sopra l' Istituto una maggiore autorità, e ricevere maggiori servigi che non da sacerdoti secolari suoi diocesani. Vero è che i sacerdoti secolari della Diocesi hanno promesso ubbidienza al Vescovo; ma conviene vedere la cosa in pratica non in teoria, conviene vederla nel fatto e non in astratto diritto. I reverendissimi Vescovi non possono già in fatto dimandare tutto quel che vogliono ai loro sacerdoti diocesani; ma debbono usare con essi molti riguardi, e gli usano infatti, evitando le resistenze che prevedono di ritrovare. Queste resistenze procedono da una virtù imperfetta; ora dall' interesse temporale; ora dall' attacco alla famiglia, alla patria o al luogo in cui tali sacerdoti si trovano; ora dall' ambizione e da certi diritti di onore, nei quali venendo offesi si irritano, insorgono, resistono; ora da pretensioni acquistate per meriti e per dottrina; ora finalmente da inclinazioni o avversioni naturali a questo o a quell' altro ufficio. I membri dell' Istituto della Carità promettono al Signore nella loro stessa professione di essere indifferenti ad ogni opera buona, che loro venga ingiunta da esercitare; hanno per voto rinunziato ad ogni interesse temporale, ad ogni onore, alla patria, ai parenti; professano di amar l' umiltà senza mercede di onor temporale, e la carità illimitata. Non v' ha dunque cosa alcuna che non si possa loro liberamente comandare, salvo solo quelle limitazioni che trae seco l' infermità umana, la quale rimane sempre in ogni caso. E` dunque molto più ampia e più libera la sfera, in cui può spiegarsi l' autorità e la volontà del Vescovo, trattandosi dei membri dell' Istituto, che non sia dei suoi proprii sacerdoti diocesani. Che se egli è legato a doversela su di ciò intendere coi Superiori dell' Istituto, questo non pregiudica, anzi giova molto al bene da ottenersi; avendo egli, se così gli piace, negli stessi Superiori dell' Istituto altrettanti fedeli che lo aiutano a dirigere con più ordine e sicurezza il corpo dei sacerdoti soggetti, e gli danno una guarentigia maggiore di buon riuscimento. Vi abbia dunque carità e ragionevolezza, e vi avrà perfetta armonia; non vi avrà no, assoluto dominio dalla parte del Vescovo, ma non è questo che fa il bene nella Chiesa, dicendo l' Apostolo: « neque ut dominantes in cleris »; vi avrà da parte dei reverendissimi Vescovi una dominazione di carità, che nel fatto è la più potente per fare il bene, e vi avrà dalla parte dell' Istituto la più umile e perfetta sommissione, e quella servitù di Cristo, che non è disgiunta dalla libertà pure di Cristo. Se i reverendissimi Vescovi entrassero in questo spirito, ed io spero che presto o tardi sarà, dall' Istituto trarrebbero tutto quel maggior servizio che in Cristo possono desiderare. Tanto più che l' Istituto nel suo contegno esteriore non si distingue dal clero secolare, e brama di affratellarsi con questo e giovare e servire a questo, tirandolo, per quanto gli concederà il Signore, a quei sentimenti di perfezione che vengono insegnati dal Vangelo, e che l' Istituto si è proposto di praticare; senza inclinare egli stesso a quei sentimenti che fossero meno perfetti in alcuni sacerdoti secolari. [...OMISSIS...] 1.51 Ho letto io stesso con tenerezza la sua lettera. Ella si conforti pure nella misericordia di Dio, la quale è infinita. Questa parola infinita ci deve aprire il cuore ad ogni speranza. Ella e il suo figlio defunto discendono da santi genitori, e la stirpe de' santi non suol mai essere abbandonata dal Signore: il Signore può aver dato a quel suo figlio un ultimo sentimento, un solo atto della volontà, di quelli che salvano l' uomo. Forse ha disposto che questo tratto di misericordia rimanesse secreto, perchè questo mistero giovasse ad un tempo e a salvare quell' anima e a santificare Lei e tutta la sua famiglia. Le vie del Signore sono ammirabili e superiori al pensar nostro: dobbiamo adorarne la Maestà, e non dimenticarci ad un tempo degl' infiniti tesori della sua bontà. A questo riflesso costante aggiungiamo le preghiere (anch' io ne farò e farò fare): quelle che facciam al presente, stavano davanti alla mente divina prima che morisse suo figlio, e da tutta l' eternità le ascoltava. Ricordiamoci che non c' è nulla di più caro al Signore che una grande confidenza in lui. Questa confidenza è sempre coronata, ed è il miglior modo di onorare il Signore; poichè non gli si può dare più bella gloria, che quella di esaltare la sua bontà. Gusta ancora che noi ci accostiamo a lui coll' intermezzo di Maria santissima, a cui Ella è figlio divoto: che dubitar dunque con tale interceditrice? Rimuova il pensiero, per quanto mai può, dal figlio, abbandonandosi nelle mani di Dio e in quelle della Vergine: e in questo abbandono si conforti e incoraggi. Abbiamo bisogno di coraggio e di confidenza per andar avanti in questo misero mondo, e Iddio volle farne della speranza una virtù divina. Abbiamo bisogno altresì della tranquillità e della pace del cuore; e nella speranza cristiana questa pure si trova, perchè è qualche cosa di più di speranza. Gesù Cristo ci ha portato la sua pace, riposiamo in lui. La ringrazio di tutto ciò che mi scrive nella sua lettera, e prego Gesù Cristo stesso a ricompensarla. Colla sua saviezza, colla rettitudine delle sue intenzioni potrà giovare a queste difficili condizioni di cose pubbliche; ma in ogni caso, ancorchè gli sforzi de' buoni non riescano a bene, essi hanno fatto il loro dovere e n' hanno il merito, e di questo devon esser contenti, perchè è un bene impareggiabile. [...OMISSIS...] 1.51 La lettera che le Reverenze Vostre, tutte unanimi, si degnarono d' indirizzarmi, mi fece gustare, in leggendola, di quella dolcezza e giocondità di cui parla il Profeta Reale in quelle parole del Salmo: [...OMISSIS...] Se i conforti e le caritatevoli espressioni d' un amico in Cristo sono sempre soavissime e salutari, quanto più non riescono tali quelle che non vengono da un amico solo, ma da molti Padri e fratelli, uniti fra loro coi più sacri vincoli, e formanti una sola famiglia di servi del Signore, i quali concordissimi con un solo cuore, con una sola voce che risuona celeste sapienza, c' incoraggiano nelle avversità e ci si dimostrano quasi nostri compagni in essa, e, deplorandola come propria, vi arrecano quei documenti di consolazione celeste di cui fanno uso ancor prima con sè stessi per attenuare il partecipato dolore? Laonde come le Vostre Reverenze, animate da quella carità che arde così bella nel serafico Ordine, quasi trasformate in me, si risentono alle ingiurie, che a me va facendo il soverchio zelo di alcuni; così io mi sento mosso dalla riconoscenza e dalla carità reciproca, quasi trasformato in esse, essere divenuto del loro numero. Questa è quell' unione in Cristo che avvicina i lontani e che li fa abitare insieme collo spirito siccome fratelli. Perocchè non è tanto la convivenza de' corpi che celebrava il Salmista nelle citate parole, quanto quella degli spiriti: per questa è che noi siamo fratelli e che abitiamo insieme, e il luogo dove abitiamo è Cristo. Accettino dunque le Reverenze Vostre i miei sincerissimi e cordialissimi ringraziamenti dei sentimenti ed affetti che mi manifestano, e, quasi osava dire, le mie congratulazioni, perchè non solo esse alimentano, ne' loro animi, ma ben anco appalesano, e appalesandolo comunicano altrui quel fuoco di santa carità, che edifica col suo splendore e che solo è potente di unire in un solo corpo, pieno di onestà e di bellezza, i religiosi, quantunque in varii Ordini distribuiti, di cui è ricca la Chiesa, e tutti i servi di Dio; e non solo in un solo corpo, ma in un solo cuore e in un' anima sola. Perocchè tale deve essere l' esercito del Signore, e così si rende formidabile ai nemici di lui ed invincibile. E le Vostre Reverenze poi dicono nella loro venerata lettera una verità che io riconosco per esperienza, cioè che la presente tribolazione non manca punto del suo compenso. Primieramente il mio dolore si tempera quando penso che coloro che mi vanno assalendo, sebbene con modi poco decenti, sono mossi in qualche guisa dallo zelo per la purità della fede, cosa così preziosa che va a tutte le altre anteposta. Di poi considero che tali cose sono permesse da quell' Eterno nostro Signore e Creatore, senza il cui volere niente si fa, nè in cielo, nè in terra, e ogni cosa permette con altissimo consiglio, e da ogni cosa anche rea, sa cavare con infallibile effetto un bene maggiore; onde anche questo solo pensiero basta a dare all' animo nostro pienissima tranquillità e dirò anche consolazione in ogni avvenimento, benchè nell' apparenza sinistro. Nè manca il Padre comune di dare colla tentazione il provento, e di aggiungere forze a sostenerla, purchè in lui si confidi e lui si preghi. E quanto a me, non mi sarebbe facile l' enumerare quanti furono i vantaggi e i compensi oggimai raccolti, datami l' occasione dagli avversari. Perocchè quanti amici in Cristo mi si sono manifestati in questa occasione che non sapeva pur d' avere! quanti a me sconosciuti, anche persone ragguardevolissime, presero a petto la mia causa! e gli amici che già possedevo quanto più intimamente si strinsero a me e mi diedero prove d' un affetto cristiano maggior dell' usato! Non conto fra questi vantaggi le lodi pur troppo sempre pericolose al nostro amor proprio, colle quali in voce e in stampa molti cercarono di ristorarmi del biasimo degli avversari; ma conto fra i vantaggi più preziosi e più cari le tante orazioni che per me s' inalzarono al Signore da un gran numero di fedeli, studiosi e seguaci della caritatevole verità e della vera carità. E la lettera delle Reverenze vostre è di tutto ciò un nobilissimo documento. Che poi da tutti questi avvenimenti permessi dal Signore e intessuti di qualche amarezza e di molta dolcezza tragga profitto il mio povero spirito per servire il Signore con maggior fedeltà e maggiore alacrità e coraggio, il quale non si nutrisce che nelle lotte; questo è quello che ardentemente desidero; questo è quello che aspetto e spero dalle orazioni dei buoni e delle Reverenze Vostre particolarmente. E quando, ritornando sopra me stesso, mi sento quasi indifferente a questo che avviene intorno di me, e vedo gli amici tanto più amareggiati di me stesso, dubito quasi di cavare poco profitto da queste avversità, parendo che molto non giovi al profitto dello spirito quel dolore che così poco si sente. Ad ogni modo però confido che il Signore nella sua misericordia riguarderà piuttosto al mio desiderio di approfittare della tribolazione, desiderio che a lui solo debbo, piuttosto che al grado del patimento. [...OMISSIS...] 1.51 « Militia est vita hominis , » e chi nol sa? e chi non l' esperimenta? e a quale di noi manca il combattimento, la prova, l' arduo cimento? Quegli che ci ha assegnato il posto nell' esercito è un capitano che contrabbilancia alle forze nostre l' impeto del nemico; che ci somministra le armi; e quali armi? Le armi della fede. E a qual fucina temprate? A quella del divino amore. Non meritiamo dunque il rimprovero: « modicae fidei, quare dubitasti? » Anzi imbracciato lo scudo della fede, contro cui tutte le saette si spuntano, consoliamoci in quelle parole: « qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit », e in quell' altre: « in patientia vestra possidebitis animas vestras ». Acciocchè poi non ci venga meno la fede, preghiamo senza intermissione: preghiamo fino che otteniamo: « Omnis qui petit, accipit; et qui quaerit, invenit; et pulsanti aperietur ». Nell' orazione troviamo la forza, la consolazione, la tranquillità, il rimedio alle malattie dell' anima, il sollievo a quelle del corpo. Certo in quanto a queste ultime gran conforto possiamo avere anche dal pensiero che dobbiamo colla penitenza scontare le offese che abbiamo fatte a Dio; e anche da quell' altro che « levius fit patientia quidquid corrigere est nefas ». Del rimanente a me passò per la mente che vi potesse recare qualche sollievo il fare qualche passeggiata fino a stancarvi un po'; e però vi proporrei di venire a Stresa, ma prendendo il cammino inverso, cioè per la valle Vigezzo, la Canobbina, facendo un devoto pellegrinaggio a Nostra Mamma di Re, dividendo il cammino a marcie discrete: e quando poi foste qui, dove c' è tutta la comodità, vi consiglierei a fare alcuni bagni, e da tutta questa cura mi riprometto buon effetto. Coraggio dunque, concertate ogni cosa con cotesto Superiore, poi all' opera, dandomi avviso del risoluto. 1.51 Il sentire dalla vostra dell' 11 agosto che voi col dilettissimo Furlong occupate tutto il vostro tempo a vantaggio di cotesto popolo sedente nelle tenebre e nell' ombra della morte, mi produce una somma consolazione, considerando specialmente che la fatica che fa colui che è mandato dal Signore nel curare e pascere le anime, è il maggiore segno che possiamo dare a Dio della nostra carità; onde Cristo dopo aver domandato a Pietro se lo amasse, gli soggiunse per tre volte « « pasci il mio gregge » »; donandogli questo quasi in pegno dell' amor suo. Vero è che anche tutti gli altri uffici di carità imposti dall' ubbidienza ai membri dell' Istituto della Carità hanno lo stesso merito, perchè hanno lo stesso fine, e però si può dire che tutti esercitino la cura delle anime, perchè le loro fatiche tendono finalmente alla salvezza delle anime. Questo sublimissimo intento è l' effetto che deve produrre tutto il Corpo nostro, e però a questo effetto concorrono tutte le diverse membra, di cui il Corpo si compone, e i loro diversi uffizi. Onde avviene che tutti quelli che ben intendono questa gran verità, sono facilmente contenti di ogni uffizio, esercitandolo, qualunque sia, coll' intenzione di cooperare al bene morale e spirituale; è sempre la carità quella che vi si nasconde, come preziosa margarita: questa sola è amata da tutti, e da tutti quelli che l' amano, trovata. E ciò non ostante, coloro a cui Iddio ha dato la missione di lavorare immediatamente alla salute dell' anime e di predicare la divina parola, devono avere una speciale gratitudine alla divina bontà che a tanto li elesse; e sono simili a coloro che, lavorando nel fuoco, non possono a meno di riscaldarsi. E non solo bramo che voi e cotesti miei carissimi fratelli vi riscaldiate nell' impegno in cui siete di dover riscaldare gli altri, ma che v' incendiate altresì d' amor di Dio e del prossimo. A questo dunque attendete; e a tal fine mantenete pura l' anima vostra da ogni contagione di questo secolo, vivendo della vita nascosta in Gesù Cristo; la quale ha per intento di spogliarci d' ogni qualunque attacco alle cose sensibili per attaccarci totalmente alle invisibili. Da per tutto la cattolica fede trova contrasti, ma da per tutto ancora trova trionfi: « oportet ut veniant scandala . » Voi ne avete tanti sott' occhio in cotest' Isola, ma noi certo non ne difettiamo. Che anzi reputo in qualche modo migliore la condizione vostra che la nostra, mentre appresso di voi si edifica, sebben combattendo, e presso di noi si distrugge quello che è edificato e si combatte perchè non sia distrutto. Abbracciate tutti nella carità di Cristo i cinque compagni che vi mando, sui quali ho concepito grandi speranze. Diverranno operai zelantissimi per la divina gloria: che Iddio li difenda dal maligno. [...OMISSIS...] 1.51 Anch' io ho conosciuto che, come voi dite nella carta che m' avete scritto, il vostro difetto è la timidezza; e questa, parte v' impedisce il ragionamento rendendovi esitante, e parte v' impedisce l' operazione trattenendovi dal farla subito, intera e colla dovuta franchezza. Conviene che vi prefiggiate di vincere questo difetto e di rendervi per l' opposto santamente coraggioso. I mezzi di vincere o piuttosto di deporre la timidezza soverchia sono i seguenti: Il primo mezzo è non aver paura della timidezza medesima: perchè questa paura accresce assaissimo la timidezza stessa. Convien dunque non pensare alla propria timidezza e non rivolgere soverchiamente la propria riflessione sopra sè stesso quando si delibera o si opera, ma porre la semplice attenzione sul partito da prendersi e le ragioni solide pro o contra, e dopo averlo preso pensare all' operazione che s' ha da fare, e non ad altro. Il secondo mezzo è di raccogliersi qualche volta e considerare che il timore che sopravviene è irragionevole, e poi disprezzarlo; e anche avendone il sentimento, operare come se non ci fosse, nè ragionare più con esso, come si fa colle tentazioni. Il terzo mezzo è ragionare molto cogli uomini e specialmente con uomini grandi sotto ogni rispetto, e imitare i loro modi e la loro buona franchezza: ancora mettersi dentro nei negozii, avendo grand' impegno di ben condurli: e però non esser parco di parole in conversazione (purchè i discorsi sien buoni ed importanti), e sostenere anche delle questioni o scientifiche o d' altro genere, spiegandovi forza e impegno, senza asprezza, già s' intende. Chi ha grand' impegno di condur bene un affare, per la gloria di Dio, questi si dimentica del timore, e fa il fatto suo. Quarto mezzo . Conviene badare di non voler essere troppo perfetto, cioè falsamente perfetto, dandosi un soverchio fastidio di tutte le piccole ragioncelle, che vengono per la mente, e fermando il passo ad ogni lontano pericolo d' inconvenienti minimi; il che non facevano già i santi, nè farà mai cose grandi per la gloria del Signore colui che si obbligasse a questo; ma andrà sempre impacciato e dibattendosi tra le tele di ragno; non acquisterà mai la perfezione, che domanda un cuore largo, delicato solo quando si trattasse d' offesa contro i precetti o i comandamenti del Signore. Quinto mezzo . Una delle più potenti maniere di prendere coraggio è quella di persuadersi che la buona riuscita delle opere nostre non dipende da noi, ma da Dio, e quindi d' acquistare una grande, infinita confidenza in Dio, che opera in noi, quando noi operiamo per ubbidienza o per carità; ed allora egli cava la sua gloria anche dalla nostra debolezza, da' nostri errori, dalle nostre stesse mancanze. Sesto mezzo . Come conviene evitare l' asprezza, e ciò che veramente offende la carità, così conviene evitare la falsa mansuetudine , che è quella che non vuol mai venire a battaglia con nessuno, e vuole evitare tutti gli urti; quando all' incontro senza sostener battaglie e far testa al male, specialmente uno che dovesse essere Superiore, non riuscirà mai a procacciar molto gl' interessi della divina gloria e migliorar sè e gli altri. All' incontro l' uomo che per amor di Dio ha fatte delle battaglie, non può mancare d' acquistar ben presto il coraggio e il polso forte che gli è necessario. Settimo mezzo . Non credere che il sentimento del timore che coglie improvviso, debba subito scomparire, e non avvilirsi se ritorna dopo i più bei proponimenti e la speranza d' averlo vinto del tutto: perchè quel sentimento non si può scacciare se non con lungo tempo, ma si può operare come se non ci fosse, senza lasciarlo influire nelle nostre azioni, nelle quali dobbiamo dirigerci colla ragione e col calcolo, e non con altro. Questo deve cautelarci contro l' avvilimento, che potrebbe sopravvenire, quando si vedesse ritornare quel senso di timore che si credeva vinto; o si pretendesse di far più di quel che si può in un momento. Ottavo mezzo . L' orazione, e specialmente l' uso dei salmi, che ispirano tanti affetti di fiducia e d' aspettazione di cose grandi dalla bontà divina che ci ha in cura. - Con questi mezzi e colla costante volontà di proceder avanti con buon ordine, ci riuscirete. [...OMISSIS...] 1.51 Avreste fatto bene ad avvisarmi prima d' ora delle tentazioni e delle battaglie che vi dà il nemico dell' anima vostra. Iddio ne ha preavvertiti tutti quelli che egli chiama al suo più stretto servizio con queste parole: « Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et praepara animam tuam ad tentationem (Eccli., II, 1), » dove ci comanda di stare nella giustizia e nel timore dell' umiltà, e di apparecchiarci , certo colla buona volontà e coll' orazione. Nello stesso tempo ci ha confortati e assicurati, se noi così facciamo, del suo aiuto, ed anzi si trova scritto: « Beatus vir, qui suffert tentationem: quoniam cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae, quam repromisit Deus diligentibus se (Iac. I, 12) ». Indarno taluno vorrebbe darsi alla sequela più intima di GESU` Cristo, pretendendo di non dover essere tentato e provato in varie guise; ma colui che fu chiamato a questa felice sequela è obbligato a respingere tali tentazioni colle dette armi della fede, dell' umiltà e dell' orazione; e quando lo fa, è beato , come Dio stesso ha detto per la bocca di san Giacomo, perchè diventa un servo di Dio provato . All' incontro, chi non lo fa, mette in grave pericolo l' anima propria, tanto se, cedendo alla tentazione, cade in peccato, quanto se, col pretesto di non poter resistere alla tentazione, pretesto ingiurioso a Dio, abbandona lo stato di perfezione; giacchè questo abbandono fatto con tanta viltà è una gravissima ingiuria a Dio vocante, della quale Dio solo è giudice e punitore. Ora voi, mio carissimo figlio, siete stato chiamato e già entrato ne' debiti modi nello stato della perfezione, e vi siete obbligato in esso in perpetuo e irrevocabilmente, da parte vostra , col vincolo sacro dei voti perpetui, dai quali non v' è più lecito di sciogliervi. Nè vi verrebbe a salvezza dell' anima l' esser dimesso dall' Istituto; chè i Superiori non possono dimettere alcuno se non allorquando la sua condotta lo rendesse dannoso al corpo de' suoi fratelli; onde questa stessa dimissione ricade a colpa di colui che viene dimesso, e con essa non si migliora già la sua condizione davanti a Dio, qualunque cosa appaia davanti agli occhi degli uomini. Io giudico dunque che voi non solo siete obbligato gravemente a respingere il pensiero di abbandonare l' Istituto, nel quale Iddio, per sua misericordia, v' ha fatto la grazia d' entrare; ma di più siete obbligato di mantenere la sacra promessa, che avete fatta a Dio medesimo in presenza della corte celeste, e a compiere la beata oblazione di tutto voi stesso, vivendo e morendo santamente in questo Istituto. Dovete dunque riconoscere nei pensieri che vi vengono la voce del maligno serpente, che v' insidia l' eterna salute, e vuol perdere l' anima vostra; e dovete respingere questa voce seduttrice, non essendo già connivente coi detti pensieri, nè coltivandoli, nè fiaccamente contenendovi quando vi assalgono; ma subito dovete discacciarli, e rivolgere il pensiero a cose più degne, e aprirlo ai dettami dello Spirito Santo, spirito di purità e di santità, castigando anche voi stesso, e stringendovi a Dio colle più fervorose orazioni, fino che sia passata e pienamente vinta l' infernal tentazione. Sotto specie di bene questa v' inganna facendovi credere che vi sarebbe più facile salvarvi in un altro stato: quasicchè per chi ha fede in Dio e conosce chi è Dio, l' abbandonare il posto, nel quale egli ci ha messi, non sia un buttarci all' inferno. Anche lo spaventarvi della perfezione che propose Gesù Cristo ai suoi eletti, e che tale quale l' ha egli insegnata, è proposta nell' Istituto, è un diabolico artificio che si fonda nella mancanza di fede; onde avviene che si crede poco all' efficacia degli aiuti che ci dà lo stesso GESU` Cristo che ci ha data la legge di perfezione, e si ha la stoltezza riprovevole di non volerli adoperare, e nello stesso tempo par che si creda che quella perfezione si consegua colle forze umane, delle quali, sentendosi poi deboli, si dispera. Ma chi ha fede e piena confidenza in Dio, ancorchè si senta debole, è fortissimo, ed il suo coraggio va crescendo ogni giorno di mano in mano che Iddio gli si rivela, e gli fa conoscere e sentire la sua potenza e misericordia. Lungi dunque da noi tanta bassezza, miseria e perversità da prender consiglio da quello che ben conosciamo, se pur non vogliamo ingannarci, essere lo spirito delle tenebre e della menzogna, e però essere il nemico più arrabbiato della perfezione evangelica; onde co' suoi mortiferi argomenti vorrebbe condurci al termine da essere scacciati dal paradiso della virtù evangelica, cioè dalla Religione. Al fine di vincerlo e svergognarlo, facendolo dare indietro, ecco le armi: Non ascoltare i suoi seducenti discorsi; e però ribattere subito , al primo sentore, tutti i pensieri i quali tendessero a farci perdere l' amore e la stima della nostra santa vocazione e dello spirito di consacrazione in questo Istituto; rinnovando spesso al Signore di voler vivere e morire in esso, con azioni molte di grazia a lui, che per pura misericordia vi ci ha condotto. Dar opera diligente ad arricchire la mente di santi pensieri, l' anima di santi affetti e la volontà di frequenti propositi di avanzare in ogni maniera di virtù, ma sopra tutto nell' umiltà , nella sofferenza e nella carità . Dedicarsi all' orazione come alla prima e alla più importante nostra occupazione, e fare tutto quello che si può da noi, per riscaldare in essa il nostro cuore e acquistare un gran zelo della maggior gloria di Dio, e di poter farlo conoscere agli uomini; sopratutto è necessario l' abito di frequenti e quasi continue giaculatorie. Amare gli uffici umili , come cosa grata al Signore, e riprendere in noi ogni movimento di superbia, di vanagloria e simile, dandosi alla perfetta ubbidienza , e godendo di questa come di cosa che piace a Dio e che ci ottiene indubitatamente le grazie più preziose per l' anima, facendo di conseguente grande stima di un' osservanza la più esatta che sia possibile. Evitare ogni parola oziosa coi compagni, e in quella vece servirsi della lingua per edificarli e santificarli, giacchè la santità che noi procacciamo in questo modo ad essi ritorna sopra di noi; e cooperare in ogni modo al progresso spirituale de' proprii compagni. Non avvilirsi mai, anche se ci occorresse di cadere, o di non fare quel profitto che speravamo; perchè la nostra emendazione viene a gradi per lo più, qualora Iddio non faccia qualche cosa di straordinario. Ecco dunque quello che dovete fare, mio carissimo fratello: spero che lo farete, e sarete consolato, ed io godrò della vostra consolazione. 1.51 L' incomodo d' un occhio che m' impedisce di leggere e di scrivere, unito alle occupazioni, fu cagione, che io differissi finora a riscontrare la pregiatissima sua lettera, e mi obbliga al presente di usare della mano di una fidata persona per istendere la presente. Del resto quest' incomodo non è gran cosa, ma una piccola croce che mi dà il Signore troppo inferiore a' miei meriti. Comprendo a pieno, mia pregiatissima Signora Baronessa, tutto ciò che deve soffrire il suo spirito allo spettacolo delle cose di questo mondo: nello stesso tempo conosco quanto sia immobile, inalterabile, infinito quel bene che si trova nella nostra Religione santissima, e come questo bene ci compensi di tutti gl' incomodi e le noie e i travagli, che ci vengono dalle cose terrene e corruttibili di cui siamo composti e in mezzo alle quali viviamo, e come noi stessi possiamo e dobbiamo partecipare dell' immutabilità di quel bene. Poichè anche l' anima nostra acquista una certa sostanza ed immutabilità, e quindi una pace stabile, quando si congiunge alle cose immutabili. Iddio sia il luogo della nostra perpetua abitazione; così tutte le cose che cangiano, rimarranno al di sotto del luogo dell' anima nostra. Io so, mia veneratissima Signora, che questi sono i suoi conforti, come sono i miei. Da molto tempo non ho da Roma nuova alcuna, spero nondimeno che lo stato delle cose pubbliche colà si vada migliorando. 1.51 Ecco finalmente la lettera che m' aspettava dal mio caro Setti. La lessi con vera consolazione: specialmente mi consolò il vedere, che la prova che aveste a sostenere, v' abbia persuaso che chi confida nel Signore non perisce in eterno. Conviene abbandonarsi a lui e temere sempre di noi stessi, ma senza alcuna sorte d' avvilimento: non assicurarsi mai di noi, di Dio sempre, in qualunque condizione ci ritroviamo. D' altra parte è necessario, mio caro, di conservare l' interiore tranquillo e non permettere che vi nasca tumulto, nè pur quando un certo tumulto d' affetti sembra buono e a buon fine diretto; perchè un certo confuso tumulto è spesso un' esaltazione dell' immaginativa sommossa dal demonio che si trasforma in angelo di luce e rende l' uomo inquieto, fisso ne' suoi pensieri, indocile, ostinato, angustiato, esclusivo, e di somiglianti cose ripieno, che sono grandissimi difetti ed impedimenti al compimento dell' opera della nostra salute e perfezione secondo la volontà di Dio. Godo dunque che amiate cotesta solitudine, dove avete trovato il riposo dell' anima, ma in modo però d' essere sempre pronto ad abbandonarla, quando l' ubbidienza ve lo imponesse. A questa condizione l' amore che avete ad essa è buono, utile e a Dio gradito. Ma senza questa condizione sarebbe un' illusione e per certo un inganno dell' inimico che è sottilissimo, prendereste il male per bene, e quella che è vostra propria, per cosa di Dio. Quando amaste cotesto luogo e cotesta vita, che ci fate, con attacco impeditivo dell' ubbidienza, benchè apparentemente per un fine e un intento buono e santo, quell' attacco vi pregiudicherebbe alla vera perfezione dello spirito. E sapete che cosa ne potrebbe avvenire? Che quello che ora appare un così forte attacco , dopo qualche tempo potrebbe non essere più nè pure un affetto , e convertirsi in avversione: nè è già la prima volta, che quelli che dicevano di volere per puro amor di Dio un certo genere di vita che credevano indispensabile per salvarsi l' anima, poi si cangiassero, prendendo sentimenti del tutto opposti, e per la stessa ragione del salvarsi l' anima ne volessero un altro tutto diverso e con un' uguale ostinazione. Onde mettiamo per inconcusso fondamento il principio che non falla e che non inganna di sicuro, quello della semplice ubbidienza. E non è già necessario di occupare la nostra mente di pensieri sull' avvenire, e di domandare a sè stessi che sarebbe di noi in questa o quella ipotesi; chè non ci sono pensieri più vani di questi, nè più atti a turbare la pace interiore e scompigliare l' immaginazione. All' incontro la bella semplicità che s' abbandona a Dio senza pensare all' indomani, ma che adempie alacremente tutti i doveri dell' oggi, ecco la maniera d' andare avanti in « pulchritudine pacis . » Pregate dunque, servite la Chiesa e la casa, edificate il prossimo, acquistate collo studio assiduo e ordinato le cognizioni necessarie per rendervi atto a esercitare i ministeri della predicazione e della confessione, abbiate un grande zelo delle anime del prossimo e un grande amore di fargli del bene in ogni modo, conservate un umore ugualmente lieto ed affabile con quelli con cui trattate, e del resto non pensate più avanti: Iddio ci pensa. Scrivetemi poi a quando a quando, se le cose vi continuano bene, come grandemente spero e prego.

Filosofia politica naturale

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ma nessuno, nè pure i più benefici, credette mai che gl' indigenti che soccorrevano avessero un diritto al loro soccorso, sicchè lo si potessero pigliare per forza: gl' indigenti stessi non hanno mai creduto di averlo, e la natura e la ragione mosse sempre le loro lingue ai ringraziamenti, ed i loro cuori alla riconoscenza dei beneficŒ che ricevevano, poichè sentivano che erano beneficŒ, e non debiti che fossero a lor pagati. 1) Se dunque fin qui i proprietari non ebbero che un dovere d' umanità verso gl' indigenti, e gl' indigenti nessun vero diritto verso i proprietarŒ, non conviene già a questi entrare in una società che muta le naturali relazioni fra gli uomini e che quei poveri che prima beneficavano innalza allo stato di creditori, i beneficanti abbassa a quello dei debitori, che priva questi di quella riconoscenza, venerazione ed amore, che ricevevano da quelli per unico risarcimento dei loro beneficŒ, e che all' incontro indurisce il cuore di questi, ed estinguendo in esso quelle naturali e dolci affezioni che gli avvincolavano coi soccorritori delle loro miserie, li cangia in esattori assidui, e li rende altrettante piante parassite che senza nulla produrre succiano gli umori vitali dal tronco della società. Non è dunque utile tale società che sovverte l' ordine della natura, che sommette i ricchi come debitori ai poveri resi creditori, e che dà a questi un diritto così esteso sopra di quelli quanto è estesa la povertà, la quale non ha confini mentre nessun bene necessariamente la satolla, potendo essere sempre riprodotta dalla volontà stessa degli indigenti. Consiglio adunque, disse, bensì i proprietarŒ a fare una società fra di loro, ma a non entrare in quella che si chiama società civile , e che si propone di fare insieme con tutti gli uomini ed anche perciò coi non proprietarŒ; poichè tale instituzione scioglie i vincoli più dolci che stringe i proprietarŒ ai non proprietarŒ per unirli insieme in quella vece con catene di ferro; scioglie i vincoli della natura per sostituirne di arbitrarŒ, i giusti per sostituirne di ingiusti; e costringe i ricchi a pagare per i poveri, non già col patto che questi li risarciscano mediante delle fatiche che posson prestare, ma col patto che restino poveri; mentre si pianta in principio, che la povertà stessa sia quella che dà loro questo preteso diritto. Se i proprietarŒ fanno un' associazione fra loro, non fanno nessun torto con ciò agli indigenti; poichè a ciascun uomo è lecito di associarsi coi suoi simili, per conseguire colla loro unione qualche fine onesto; e i non proprietarŒ possono parimenti fare se vogliono fra loro una simile associazione; poichè nessuno può loro impedirlo. Nè tampoco è vero che i proprietarŒ con ciò ricusino di riconoscersi simili dei non proprietarŒ. Essi riconoscono benissimo di appartenere ad una stessa società generale qual' è quella in cui sono gli uomini per la comunanza della natura. Ma questa non si dee confondere con altre particolari società. Essi anzi, come dicevo, conservano maggiormente in tal modo coi non proprietarŒ i vincoli delle naturali affezioni, vincoli spirituali che stringono una nobile società fra gli uomini, e che non debbono giammai essere sacrificati a dei vincoli materiali. D' altro lato nella società che io propongo di stringere ai proprietarŒ fra di loro, e che io sono indifferente che si chiami civile o con altro nome, perchè i vocaboli non formano la cosa, è impossibile che entrino i non proprietarŒ: poichè una società non si stringe se non per degli interessi comuni; ed è assurdo che entrino nella stessa società degli uomini, che non hanno dei comuni interessi: così i non proprietarŒ non possono avere interesse comune coi proprietarŒ, e non possono per ciò entrare in una società, il cui scopo è l' amministrazione della proprietà, poichè non avendone non potrebbono metter nulla insieme da amministrare, e l' entrare in essa per acquistarne è un entrarvi solo in apparenza; mentre non sarebbe un entrarvi per lo scopo della società, ma sarebbe un acquistare relazione con detta società per uno scopo a loro soli particolare. La Commissione prese a rispondere alle obbiezioni proposte: che primieramente conveniva con quelli che osservavano essere un errore fondamentale confondere la società generale degli uomini colla società civile; che questo errore tuttavia vigeva in molte menti, e che si era cercato con grave danno d' introdurlo nelle sociali costituzioni; che la società civile non era una società generale ma una società parziale: parziale disse, non pel numero degli uomini che racchiude, quasichè ne escluda dal suo seno qualche classe, ma per gl' interessi che si propone a suo fine immediato. Questi interessi non sono che i diritti nelle singole persone, ed il suo fine è di difendere questi diritti, e di farli fiorire non disponendo di altro che della loro modalità. Il potere civile adunque che si vuole instituire, sebbene debb' essere supremo nel suo genere, tuttavia è limitato nel suo oggetto. Quest' oggetto del potere, diciamolo di nuovo, è il regolamento della modalità dei diritti al doppio fine che sieno conservati ed accresciuti. Egli dunque aggiunge bensì qualche cosa allo stato di natura in cui si trovano presentemente le famiglie, ma non è già che distrugga questo stato di natura, o che lo assorba in sè stesso: si può dire ch' egli non sia altro se non un mezzo per cui si conservi lo stato di natura. I diritti sono nello stato di natura: e questi diritti son quelli che debbono sussistere egualmente nello stato di società. Le relazioni fra gli uomini che nascono da questi diritti, ovvero dalle loro scambievoli spontanee affezioni, appartengono pure allo stato di natura, poichè non hanno già bisogno di una legge civile per essere prodotte o permesse, e queste medesimamente rimangono le stesse nello stato sociale. Nello stato sociale adunque rimane intatto tutto lo stato di natura e non v' è di più che un potere, il quale lo difende e lo aiuta al bene degli uomini. Egli è dunque un grande errore, sebbene frequente, quello di non vedere nella società civile che diritti e relazioni creati dal potere civile, quasichè dipendesse da questo potere civile anche che gli uomini sieno uomini. Dirò di più, poichè il potere civile non è che un mezzo per difendere ed aiutare lo stato naturale, egli avverrà, che sia tanto più perfetto quanto meno apparisca; cioè quanto più insensibile sia la sua azione: poichè il miglior mezzo di ottenere un fine è quello di ottenerlo colla menoma azione. Egli è dunque un' insensatezza degli uomini moderni lo sforzo di distruggere lo stato naturale per non vedere da per tutto che il civile: lo sforzo di distruggere le affezioni ed i vincoli della natura per sostituire ad essi dei patti immaginarŒ: lo sforzo di distruggere il reale per sostituirvi l' ipotetico, e il dettame della giustizia naturale per sostituirvi la sanzione della forza, o sia l' arbitrio che essa dà a quelli che l' ha nelle mani. E` vero che questo errore avvicinò gli uomini necessariamente alla verità; poichè supposto che non vi fossero diritti se non sociali, cioè se non sostenuti dalla forza sociale, vale a dire supposto che i diritti non fossero distribuiti dai titoli naturali, ma dall' arbitrio fornito di forza, era impossibile che non iscorgessero l' assurdità nel sistema, quando quest' arbitrio fosse dato ad una persona particolare: mentre una tale persona sarebbe riuscita il più mostruoso dei tiranni. Quindi necessariamente ricorsero all' arbitrio del popolo, come un arbitrio che veniva tenuto in dovere dall' interesse generale, cioè dall' interesse dei più; ma che non cessava per questo d' essere radicalmente una tirannide, mentre la prima sua conseguenza era il sacrificio dei meno ai più: ed in fatti l' infallibilità del popolo fu proclamata nello stesso tempo che si vide disporre col maggior arbitrio, anzi col più crudele arbitrio, della sostanza e della vita dei più deboli; che si sentì giustificare qualunque eccesso collo specioso titolo del bene generale, e che si vide andare regolarizzandosi questo sistema mostruoso, e, ridotto a termini finanziari, stabilirsi, che le masse dovevano essere tutto, e nulla le individualità, e che un paese produceva in uomini tanta rendita annua da potere spendersi per la gloria dello Stato secondo il capriccio del più forte dei Generali nazionali. Ma la legge naturale è sacra indipendentemente dalla forza che la sanziona e dal potere civile che la promulga: ed essa è quella che fa quello stato di natura, cui il potere civile non può distruggere nè produrre: quello stato di natura umana in cui gli uomini sono legati fra loro per affezioni ad essi naturali, e per diritti e doveri morali. Conviene su questi principŒ definire la questione agitata fra i proprietarŒ ed i non proprietarŒ. Poichè primieramente egli è verissimo, che dalla legittima natura che abbiamo messo n chiaro della società civile risulta, che quand' anche il non proprietarŒ fossero escusi dall' associazione che insieme facessero i proprietarŒ, non si potrebbono punto chiamare offesi nei loro diritti che hanno comuni con tutti gli altri uomini: perciocchè non sarebbero esclusi per questo dalla società del genere umano, riterrebbero inviolati i diritti dell' uomo, e non sarebbe meno colpevole colui che li violasse in essi dopo l' associazione, di quello che fosse innanzi; conserverebbero le stesse relazioni coi proprietarŒ sociali; parteciperebbero degli stessi beneficŒ, e sarebbero a loro debitori della stessa gratitudine, e senza perder nulla di ciò che avevano come uomini nello stato di natura, non farebbero che non guadagnar nulla dal nuovo stato sociale dei proprietarŒ. Ma sebbene ciò sia vero, come osservò chi ha parlato in favore dei proprietarŒ, non è però da preferirsi la società particolare da lui proposta alla società civile, che per esser tale debbe abbracciare, come siamo convenuti, i diritti di tutti gli uomini. Non è, dico, preferibile rispetto al vantaggio degli stessi proprietarŒ, perocchè primieramente i non proprietarŒ, esclusi che fossero dalla società, non potrebbono essere sottomessi alle leggi della medesima per diritto, nè soggetti a' suoi tribunali se non mediante la forza. Nè potrebbe essere impedita giustamente una loro associazione, la quale verrebbe a formare due poteri egualmente supremi al contatto l' uno dell' altro; nei quali perciò non potrebbe nascere fra l' uno e l' altro che discordia e che l' uno non venisse sottomesso all' altro. Ora in questo caso di chi sarebbe la peggiore? dei proprietarŒ che arrischiano di perdere colle loro sostanze anche la loro libertà, o dei non proprietarŒ che hanno l' avidità e la speranza di diventare ad una girata di ruota ricchi e potenti, e dal più basso luogo che occupavano la sera fra gli uomini svegliarsi la mattina in cima della fortuna? Senzachè, quelli che non sono ancora proprietarŒ possono arricchire, ed essere prosperata anche in tal modo la loro associazione la quale non si potrà più rompere, e si dovrà temere. Egli è dunque meglio per tutti egualmente gli uomini, ma specialmente per li proprietarŒ che si costituisca una vera società civile senza esclusione di persona, nella quale tutti i diritti sieno rappresentati, e la modalità di tutti i diritti sia da un solo potere amministrata. - Ma i proprietarŒ dicono, noi non vogliamo pagare per li non proprietarŒ, ed è in questo che la Commissione dà loro tutta la ragione; mentre se non desse loro ragione in ciò, contraddirebbe a sè stessa, che ha posto come la prima base del potere che si vuole instituire, ch' egli non abbia veruna forza di trasferire i diritti d' una nell' altra persona; ciò che succederebbe se si facesse che i ricchi pagassero per i poveri, mentre con ciò si trasferirebbero i diritti di questi in vantaggio di quelli. Come adunque, voi direte, possono i poveri entrare in simile associazione, mentre non ne possono pagare le spese? Questo è quello che la Commissione si riserva di spiegare quando si tratterà di stabilire il posto che debbono occupare nella società ciascuna delle quattro classi in cui si divisero tutte le persone da associarsi: in tanto si contenta di far osservare che nella proposizione fatta, e sopra cui si rivolge la presente discussione, non fu già detto solo, che ciascuna specie di diritti dovesse ritrovare una rappresentanza conveniente , ma si aggiunse, e possibile; cioè possibile a conciliarsi colla giustizia e colla equità, ossia colla conservazione dei diritti di tutti; ed ancora di assicurare i proprietarŒ che l' associazione dovrà esser tale che essi non ispendano già per i poveri, o secondo la volontà di questi. Queste ragioni tranquillarono i due partiti; ma il delegato dei non proprietarŒ uscì con una nuova obbiezione dicendo che dal momento che si debbe scegliere una amministrazione della modalità dei diritti di tutti gli uomini, non si doveva già tanto cercare che in essa fossero rappresentati i diritti dei socŒ, quanto ch' ella fosse tale che amministrasse bene, e che per tal fine non si doveva aver altra regola nel formarla che quella di scegliere fra tutti le persone superiori alle altre per sapienza e per virtù, o sia di maggior capacità ad ottenere lo scopo proposto; che i ricchi solitamente sono inerti ed incapaci di governare, e che perciò non è utile che abbiano tanto peso nella società; che, se si accresce la loro potenza col dar loro in mano il governo civile, diventeranno più crudi e spietati che non sono colla plebe; che vedendo d' aver in mano tutto il potere lascieranno le cose pubbliche nella maggior dimenticanza, e il bene pubblico sarà immolato a' loro capricci: che il merito solo distingue l' uomo dall' uomo; e che il merito si debbe premiare coi pubblici onori, e colle cariche civili, e che è un indegno spettacolo il veder l' uomo probo e sapiente nella miseria e nell' avvilimento, mentre l' ignoranza fastosa ed il vizio potente si compiace mirarlo avvilito a' suoi piedi. La Commissione rispose che simili osservazioni avevano bensì una speciosa apparenza, ma che disaminate più addentro si trovavano inconcludenti. E di vero se la scienza o anche la stessa probità fosse quella che desse agli uomini il diritto di entrare nelle amministrazioni pubbliche, non ci sarebbe ragione perchè queste eccellenti qualità non dessero ancora a chi le possiede il diritto di entrare nelle amministrazioni private. In tal caso gli uomini savŒ e gli uomini probi, o quelli che tali si tengono, potrebbero giustamente mettersi nelle case dei proprietarŒ e dir loro: A noi spetta l' amministrazione delle vostre ricchezze perchè noi sappiamo meglio amministrarle di voi e con più rettitudine. Ma in tal caso i proprietarŒ li scaccerrebbero o come pazzi o come furfanti, anzichè li credessero probi e sapienti; giacchè non mostrerebbero di sapere che il diritto di proprietà dà il diritto ancora di amministrarla. Che se la sapienza, e la virtù avessero il diritto di amministrare la proprietà, non si potrebbe già negare loro quello sulla proprietà stessa ed allo stesso modo si potrebbe dire: Che indegnità è questa che l' ignorante ed il vizioso si vegga pieno di ricchezza mentre l' uomo dotto e virtuoso pena nella miseria? Le ricchezze appartengono agli uomini di merito, e non agli sciocchi, non ai tristi: si tolgano adunque a questi, ai quali non appartengono, e si distribuiscano meglio che non fece la cieca fortuna, a quelli che hanno il merito di possederle. Non è egli questo il ragionamento medesimo che fa il deputato dei non proprietarŒ a provare che l' amministrazione pubblica debbe essere distribuita anzi secondo il merito che secondo la proprietà? Questo discorso adunque nella sua estensione considerato autorizza la rapina, e distrugge la proprietà, tanto più che se uniti alla sapienza e alla virtù fossero tali privilegŒ nessuno potrebbe formare un giusto giudizio degli uomini, assai meno che ora possa, poichè ciascuno vorrebbe esser più probo e più sapiente degli altri, ed adoprerebbe tutti i suoi mezzi a corrompere quelli che dovessero giudicarlo: se non che il giudice in ultimo appello esser non potrebbe che la forza, e così la sapienza e la virtù dal momento che si sottraggono dalla giustizia distruggono ad un tempo sè medesime, e si mettono alla discrezione della forza materiale. Se si ammette adunque da noi il principio della proprietà; conviene che riconosciamo altresì ch' essa è indipendente dal merito personale, e che essa non è distribuita già secondo questo, ma solo secondo i titoli di giustizia. Supponiamo ancora che vi fosse il modo di rilevare il merito personale con sicurezza, ciò che è impossibile sì perchè molte volte è occulto, sì perchè quelli che debbono giudicarlo sarebbero nello stesso tempo anch' essi parti nella causa che giudicano; il possesso della ricchezza in tal caso dovrebbe variare ad ogni istante, mentre continuamente varia il merito personale, e l' uomo trascorre rapidamente sì le scale del vizio che quelle della virtù; e la ricchezza sempre in mano a nuovi padroni incerti di possederla a lungo rimarrebbe dilapidata anzichè amministrata; sebbene ciascuno che l' avesse una volta in mano, certo non se la lascierebbe più così di leggieri uscire: studierebbe il modo di accordarsi cogli altri proprietarŒ, ond' ottenere sicurezza alle proprie sostanze contro alla rapacità degli uomini di merito, e in tal modo formerebbe quella associazione che testè fu proposta fra i proprietarŒ e che, sebbene meno utile dell' associazione civile, nessuno però convincere la potrebbe d' ingiusta. D' altro lato che cos' è una declamazione generale, e gratuita contro i vizŒ dei proprietarŒ? il sofisma più pazzo del mondo: poichè qual' è il fine di tale declamazione? forse di mostrare che le ricchezze guastano i costumi ed i principŒ degli uomini? egli sembra che ciò sia; ma in tal caso la declamazione va contro le ricchezze: or dunque queste si dovrebbono distruggere ed annientare. E` egli forse questo il vostro parere? non già, anzi voi riponete la prosperità pubblica nel loro aumento. Voi non sostenete adunque se non che le ricchezze debbano mutar padrone: e perchè? perchè i ricchi sono malvagi. Ma togliete voi i ricchi quando avete fatto mutare di luogo alle ricchezze? non già; ma non avete che mutate le persone posseditrici; e fatto che quelle che erano povere divenissero ricche, e così viceversa. E` il merito delle povere, soggiungete voi, che a ciò ne spinge. Avvertite, dall' istante che vi arrogate l' autorità di giudici supremi ed usurpate l' ufficio della divina Provvidenza, avvertite che voi con ciò fate apparire una bene strana compassione verso a queste vostre persone misere ad un tempo e fornite insieme delle più alte virtù: la compassione vostra si occupa adunque tutta per corromperle: si occupa a farle divenire di quelli odiosi ed esecrati proprietarŒ coperti pure agli occhi vostri da capo a fondo di una lebbra la più obbrobriosa e la più insanabile. Allora quando adunque voi avrete rese in questa supposizione proprietarie quelle persone che or giudicate di merito (ed e' resta anco a vedere qual senso aggiungiate a questa parola) egli è ben naturale che sorgeranno immediatamente degli altri avvocati della Classe che rimane povera, i quali come voi col tuono di chi parla in nome della umanità, della virtù e dei lumi prenderanno il discorso stesso che voi fate presentemente e fulmineranno invettive contro gli eccessi obbrobriosi dei vostri nuovi proprietari, cioè contro la classe delle persone di merito da voi innalzata e coperta in tal modo di tutta l' invidia che seco portano le proprietà; la quale classe non è più quella di persone di merito, ma quella dei ricchi. Così distrutto il principio di proprietà, la società civile si rende impossibile. In fatti il suo scopo è appunto la proprietà, ed in primo luogo la difesa della medesima: e se appresso qualche nazione si è introdotto per breve tempo il principio opposto, che il merito dia un diritto sull' altrui proprietà ovvero sull' amministrazione della medesima, questo non s' è introdotto se non perchè le sue conseguenze non furono bastantemente vedute a principio: e solo gli effetti ne resero accorti gli uomini: perciocchè appena che i filosofi pretesero di avere essi il diritto di riformare la loro nazione, questa cadde nell' anarchia; fino a che tali uomini sapienti, il cui merito proclamato da se stessi diede loro la filosofica autorità di rapire l' altrui, si sono resi i proprietarŒ: ed allora, nuovi proprietarŒ, rialzarono la società dissipata in sugli antichi principŒ, lasciando di buon volere ormai il pallio e la barba, di che più non abbisognavano alla riforma dell' umanità. La maggior parte di quelli che formano questa assemblea posseggono qualche cosa del proprio: ora acconsentirete voi che quanto possedete passi in proprietà delle persone di voi più meritevoli? Tale è la assurda condizione che vi si propone: e che pure potè essere un sofisma alle menti di quelli che considerano gli uomini abitatori nelle regioni liberissime della lor fantasia. La logica del principio: l' amministrazione della proprietà debb' essere distribuita secondo il merito: è simile a quella che si ritrova in quest' altro: l' uomo debbe mangiare non in ragione delle forze del suo stomaco, ma di quelle del suo spirito, poichè il suo spirito è preferibile al suo stomaco. Accordo che sia lo spirito preferibile allo stomaco; ma la relazione del cibo è collo stomaco e non è collo spirito, ed è questa relazione che ora si cerca determinare. Così pure: Accordo che il merito personale sia preferibile all' accidentale diritto di proprietà; ma la relazione dell' amministrazione è colla proprietà, e non è col merito: e questa relazione si cerca determinare. Non si confondano adunque insieme due ordini di cose sì diversi fra loro, e volendo cercare le proporzioni dell' uno, non si ricorra alle misure dell' altro. Anche in questo mescolamento degli ordini sociale e morale si ravvisa quella confusione così nocevole della società civile colla società universale del genere umano. La società civile, come diceva, è una società parziale, ed ha uno scopo parziale: la conservazione, cioè, e l' aumento ordinato delle proprietà. La società del genere umano ha uno scopo sommo e generale: la virtù e la perfetta felicità. In questa immensa società dell' umano genere noi veggiamo un ordine di cose ben diverso da quello che è proprio della società civile. L' ordine della società universale abbraccia tutta intera la moralità; l' ordine della società civile è ristretto nel suo scopo immediato a quella parte di moralità che riguarda la giustizia esterna fra gli uomini. Nella società universale lo spirito si eleva a vedere come tutto debbe essere distribuito secondo il vero merito degli uomini; ma questa legge primaria ed inviolabile della società universale non si può già trasportare nella società civile; perchè non è a questa proporzionata e non trova in questa il modo di venire eseguita. Nella società universale essa viene eseguita perchè essa è presieduta da Dio, cioè dal solo giudice capace di giudicare il vero merito degli uomini e alieno necessariamente da ogni interesse in simil giudizio; presieduta ancora dal solo monarca che abbia tutti i mezzi opportuni per render a pieno giustizia a ciascuna delle sue creature. La società civile all' incontro non è che presieduta dall' uomo, cioè non è presieduta da chi giudica ma da chi è giudicato: da chi aspetta il giudizio più favorevole, se questo gli debbe apportare un esterno vantaggio, non da chi è indifferente al risultamento di tal giudizio. Conchiudasi: La società civile è ben altro dalla società universale; essa non è punto altro (bisogna a pieno intenderlo) che l' amministrazione della modalità dei diritti di tutti gli uomini associati nella medesima: non è perciò se non una separazione, che si fa nella amministrazione che ciascuno esercita dei proprŒ beni nello stato naturale, di quella parte d' amministrazione che riguarda i diritti e di quella che riguarda il loro modo di essere; l' amministrazione dei diritti particolari si rimane nell' istituzione della società civile divisa, come prima, nelle mani dei singoli proprietarŒ: la modalità all' incontro dei medesimi viene posta in comune e qui si cerca chi debbe comporre quest' amministrazione in comune. Ora egli è evidente che ognuno dei proprietarŒ ha diritto di concorrere nella medesima per quel tanto che egli pone in mezzo di modalità; e che nessuno può farlo rinunziare a tale diritto nel caso di una associazione spontanea come è la presente. Indarno e fuor di proposito ci si oppone che l' amministrazione anderà male perchè fatta da persone ignoranti e viziose; conciossiacchè, lasciando anche che nissun sapiente in generale vale più nell' amministrazione di quello che valgono i padroni stessi, risponderò: Se un proprietario amministra male il suo, chi potrà dunque rimprocciarlo? Egli fa male, ma solo a sè stesso, e tale sarà di lui, nè altro che un vano nome è il ben pubblico che si piange sacrificato: conciossiacchè il ben pubblico non è che la collezione dei diritti, ed il pubblico non è che la unione di quelli che li posseggono. Quando anco adunque gli amministratori di quella società civile, nella quale tutti i diritti sono rappresentati, l' amministrassero male; non seguirebbe da questo ch' essi facessero torto a persona: perchè amministrerebbono male l' avere loro proprio: la società civile non distruggerebbe già per questo la società universale: e la sua istituzione non impedirebbe che tutti i meriti fossero in questa ricompensati dal suo capo divino; a quel modo medesimo che se il ricco mercatante non si spoglia delle proprie ricchezze per premiare le fatiche del letterato, egli non toglie a lui per questo nè il suo merito nè la sua dottrina nè le sue aspettazioni; egli non impedisce che la sua scienza in altro ordine di cose e in altra società diversa dalla mercantile sia coronata e che rinvenga il mecenate generoso che lo protegga e che lo ricolmi di benefizŒ. Il discorso, onde la Commissione sostenne nella sessione precedente il principio di equità da essa posto come base dell' associazione civile che trattavasi di formare contro ai sofismi di una individuale filosofia, le conciliò l' animo di tutta l' assemblea, la quale conobbe non potersi meglio costituire la società civile che dando in essa a tutti i diritti una rappresentazione conveniente e possibile. Tal principio discendeva immediatamente dall' idea precisa della società civile; ed essendo ben compreso metteva tutte le menti in sicuro contro alle fallacie degli astuti e dei semidotti. Nello stesso tempo era quello che rendeva meno imbarazzante l' esecuzione della società meditata, e che mostrava la via più corta insieme e più naturale per arrivare alla medesima; conciossiaccè formandosi la società in tal modo gli uomini abbandonavano il meno che fosse possibile lo stato di natura; mentre non si spogliavano di nulla, nè pure della direzione della modalità dei loro diritti; ma non venivano a far altro che a variare il modo di dirigerla e regolarla; perocchè mentre prima la regolavano in separato, e ciascuno da sè regolava la propria, mediante la nuova instituzione venivano a regolarla in comune, e a regolare con una comune volontà la somma di tutte le modalità insieme raccolte. Restava dunque di vedere come tal principio si potesse ridurre alla pratica e qual fosse la rappresentazione conveniente e possibile che aver potesse ciascuna delle quattro classi di persone, che comporre dovevano la nuova società. La Commissione prese a trattare con ciascuna a parte; e primieramente colla prima, che fu quella che occupò la quinta sessione dell' assemblea. La prima classe delle persone componenti la società civile era quella delle persone non libere. La Commissione definì le persone non libere per quelle che non avevano diritto sulle proprie operazioni, essendo questo diritto in altrui possesso, e distinse tali persone in tre specie, cioè, 1 i figliuoli, 2 le mogli, 3 i servi perpetui; escludendo da questa classe quelli che avevano alienato il diritto sulle proprie operazioni a tempo, e non illimitatamente, come sono i giornalieri e tutti i mercenarŒ, i quali appartengono alla terza classe di persone componenti la società. Passò in appresso a mostrare le differenze che passano fra le tre specie di persone non libere, stabilendo che il diritto dei padri era il più esteso e più forte, perchè nasceva da un titolo fondato sulla vita stessa dei figliuoli; che poi veniva quello del marito, perchè aveva un titolo fondato sul corpo della moglie; e che finalmente veniva quello del padrone, il cui titolo non riguardava altro che l' operazione del servo a lui obbligato. Dimostrò che il diritto del padre era tale che non rimaneva al figliuolo nessun diritto verso il padre che ammettesse una reazione esterna all' ingiuria ricevuta: che all' incontro alla moglie rimaneva un diritto, ed era quello della vita e della incolumità da poter difendere anche contro il marito; che al servo rimanevano due diritti da poter difendere contro il padrone, cioè a dire quello della vita, e quello del proprio corpo. 1) Dimostrò finalmente che tutti tre questi diritti del padre, del marito, del padrone erano limitati egualmente dalle leggi della onestà universale, le quali leggi obbligavano il padre ad usare il proprio diritto sui figliuoli solo allo scopo della paternità per la quale Dio gliela aveva dato: obbligavano il marito ad usarlo solo allo scopo della coniugale amicizia: ed obbligavano il padrone ad usarlo allo scopo che può rendere onesta ed umana la servitù. Di questa dottrina la Commissione tirò una doppia conseguenza, cioè: 1 Che i figliuoli non avevano alcun diritto a rappresentare nella società civile, fino che il padre non li emancipasse; che le mogli avevano da rappresentare il diritto della vita e della incolumità; e che i servi avevano da rappresentare i due diritti della vita e del corpo. 2 Che dovendo la società civile stabilire l' ottima modalità dei diritti, doveva tuttavia provvedere contro all' abuso che potessero fare i padri della loro autorità sui figliuoli, non già perchè i figliuoli avessero un diritto da rappresentarsi; ma perchè il diritto dei padri doveva bene ammodarsi. Dopo di ciò essa fece osservare, che in tutto questo discorso considerava le tre specie di persone non libere come tali, senza definire però che la mancanza di libertà inabilitasse all' acquisto di altri diritti: mentre anzi la Commissione ammette la capacità dei non liberi all' acquisto di ogni altro diritto compatibile col diritto dei loro superiori, ovvero mediante l' assenso di questi, ovvero ancora di diritti relativi ad altre persone verso delle quali si considerano come liberi. Tutti questi diritti qui però si tralasciano, perciocchè in quanto fossero posseduti dalle persone non libere, queste verrebbero ad entrare in alcuna delle tre classi susseguenti: e di essi si debbe intendere tutto ciò che si dirà più sotto dei membri delle dette tre Classi. Considerando adunque i diritti delle persone non libere come tali non ne troviamo che due: 1 la vita 2 il corpo. Ora l' uomo che fosse solamente fornito di questi due diritti non potrebbe far nulla egli stesso, e dagli altri poi non potrebbe esigere se non se che nissuno violi in lui questi due sacri diritti. La difesa dunque dei medesimi è l' unica modalità che si possa pensare ad essi appartenente; poichè la vita ed il corpo sono due diritti semplici, e che per se stessi hanno un solo modo di esistere, sicchè quando essi fossero pienamente difesi dalle esterne ingiurie, non potrebbono altro desiderare. La rappresentazione adunque conveniente che possono esigere questi due diritti nella civile società non è se non di avere una voce mediante la quale reclamare contro alle ingiurie che vengono loro fatte da chi che sia, e l' aver modo che questa voce sia ascoltata e sia efficace nell' ottenere la giustizia domandata. La stessa voce propose la Commissione che sia conceduta ai figliuoli relativamente ai loro padri come il mezzo di comprimere l' abuso che questi potessero fare di loro autorità. Il Delegato delle persone non libere rispose, esser falso che i diritti della vita e del corpo non possano esigere che di essere guarentiti: la salute corporale si può trovare in uno stato migliore o peggiore secondo le pubbliche disposizioni sanitarie: quelli dunque che hanno diritto che la loro sanità si conservi nel miglior modo, debbono almeno poter pretendere, come tutti gli altri uomini, di avere anche una voce nel Comitato di sanità pubblica. Ma la Commissione rispose che il Comitato di sanità pubblica nulla poteva fare per la medesima se non mediante delle spese; che quindi, perchè si rendesse possibile una rappresentanza in tal Comitato, bisognava dimostrar prima che fossero proprietarŒ, e che in tal caso essi sarebbero entrati in questo Comitato come proprietarŒ, cioè come appartenenti alla quarta Classe; ma non come persone non libere; tanto più che apparendo, come tali, prive di ogni diritto sulle proprie azioni, non potevano neppure contribuire coll' opera a ciò che dar non potessero in denaro. Perciocchè, di nuovo, è un errore credere d' aver diritto d' entrare in una società senz' aver modo di pagarne le spese: e questo discorso vale per qualunque società, nè si debbe immaginarsi qualche cosa di diverso della società civile; non si debbe cioè immaginare, che la società civile abbia dei doveri senz' avere dei diritti, e che sia quasi un essere misterioso che abbia il potere di dare a tutti senza ricevere niente da veruno. D' altro lato il Comitato di sanità pubblica non offende punto le persone non libere, sebbene non le ammetta; anzi non fa che apportar loro gratuita utilità. La sesta sessione si occupò nel ricercare qual posto dovessero avere nella nuova società da istituirsi i poveri, cioè quelle persone che non possedevano alcun bene di fortuna, nè avevano una professione od un' arte che assicurasse il loro mantenimento, secondo il principio stabilito che ogni diritto trovasse nella detta società quella rappresentazione di cui è suscettibile, e che si può accordare colla giustizia. Per trovare questo posto secondo le leggi dell' equità o questa rappresentazione conveniente e possibile dei diritti dei non proprietarŒ erano state già nelle sessioni precedenti gittate le basi necessarie e superate le principali difficoltà. La Commissione proseguì adunque in questa a dimostrare che i non proprietarŒ liberi avevano tre diritti da rappresentare, e questi erano: 1 la vita e l' incolumità; 2 il corpo; 3 la libertà o sia il diritto sulle proprie operazioni. Dimostrò che tutti questi diritti non avevano una modalità che si potesse amministrare in comune tanto quanto l' avevano i beni di fortuna, perchè non si potevano permutare con altri nè si potevano dividere e contribuire parte di essi alla società, spendendoli così ad accrescimento della parte rimanente, e che perciò non era suscettibile la loro modalità di amministrazione propriamente detta, ma solo di difesa: che la società civile non poteva che difenderli da ogni ingiuria; e quindi che la rappresentazione loro conveniente si restringeva ad avere una voce efficace, mediante la quale potessero reclamare ad ogni ingiuria che ricevessero, e reclamare con sicurezza che sarebbe loro fatta giustizia, allo stesso modo come si disse delle persone non libere. Conchiuse che era necessario dare loro questa voce anche perchè essa era l' unico mezzo di tenere in freno i diritti dei proprietarŒ, ciò che era obbligata di fare la società civile, dall' istante ch' essa aveva per iscopo di bene ammodare tutti i diritti dei membri che la componevano. Il delegato per i non proprietarŒ non mancò di ripetere ciò che era stato detto nella sessione precedente dal delegato pei non liberi, cioè che era falso che il diritto della vita e della sanità, come pure gli altri due del corpo e della libertà, ammettessero solo una difesa comune e non una amministrazione comune; che 1 la sanità poteva crescere e diminuire secondo i provvedimenti sanitarŒ della società; 2 la moralità pure poteva ricevere o nocumento o vantaggio dalle disposizioni di pubblica istruzione e di polizia; 3 finalmente che la libertà poteva pure accrescersi, non solo difendersi; poichè quanto un uomo ha una sfera più estesa di agire tanto egli ha più di libertà: il perchè tutto ciò che accresce le abilità e fa andare innanzi l' incivilimento del paese, è sempre un aumento della libertà individuale. Ne può rispondere la Commissione che tutti i diritti dei non proprietarŒ sieno semplici ed indivisibili, sicchè non ne possano contribuire una parte al potere sociale e pagare in tal modo le spese di questo, come rispose al delegato dei non liberi, poichè avendo essi il diritto sulle proprie operazioni, possono pagare le spese necessarie alle suddette disposizioni intorno la sanità, la moralità, e l' incivilimento prestando la loro opera in luogo di denaro, e d' altri beni materiali. Domando adunque, aggiunse, che i non proprietarŒ non solo abbiano una voce onde reclamare efficacemente i torti che loro fossero fatti; ma che abbiano altresì una voce ed una rappresentazione in tutte le disposizioni che il potere civile credesse fare: 1 intorno la sanità; 2 intorno i buoni costumi e 3 intorno tutto ciò che riguarda l' incivilimento. Ma v' ha di più, egli proseguì: Non sono interessati i non proprietarŒ nelle guerre che possono esser mosse contro al paese dai nemici esterni colle loro persone tanto quanto tutti gli altri cittadini? vale forse la loro vita meno che quella degli altri uomini? o non sono forse capaci di portare le armi contro il nemico, e difendere la patria? perchè adunque non avranno anch' essi una voce ossia una rappresentazione in un affare così comune come è l' intimare una guerra od il conchiudere una pace? Anzi son essi, come l' esperienza dimostra, che di solito s' espongono ai maggiori pericoli e sostengono le maggiori fatiche per la salvezza e per la gloria comune nei più stretti frangenti: mentre i pingui ricchi snervati da una educazione ombratile assoldano in propria difesa quelli che hanno meno timore cioè quelli che hanno meno da perdere, e, come sono i non proprietarŒ, che nulla possedendo all' esterno sentono meno di attaccamento alla stessa vita. Finalmente, che ci si propone? di dare solo ai non proprietarŒ una voce, onde reclamino i loro diritti infranti. Ma quai diritti? quelli della vita, della pudicizia, della libertà. Richiameranno adunque la vita, dopo che a loro fu tolta? aspetteranno le figliuole che sia tolto loro l' onore, perchè poscia la società glielo restituisca? e potrà l' uomo libero, a cui è oiù cara la vita intellettuale della corporea, ritrovare un risarcimento innanzi alla coscienza della sua dignità corrispondente al valore di alcuni giorni di oppressione, o di alcuni atti di viltà? Finalmente, in quanti modi non si lede questa preziosa ricchezza dell' uomo, la libertà? in quanti modi non si diminuisce? in quanti modi non se ne impedisce l' accrescimento? modi talora insensibili, non evidenti e che non si possono perciò provare legalmente, ma che non fanno meno per questo onta e danno all' umana libertà? Egli non è adunque conveniente nè giusto che uomini liberi, sebbene non proprietarŒ, uomini cioè che hanno una vita cui nessun potere può loro restituire dopo tolta e dei costumi più preziosi ancora della vita ed una libertà vitale, avida di aumentarsi e tuttavia così facile ad esser ferita o ad esser compressa, ricevano solo, entrando nella società civile, il singolare diritto di fare delle inutili querimonie sopra la perdita irreparabile delle più care e delle più sacre proprietà dell' uomo; e sia loro assegnato qualche preteso risarcimento che in luogo d' essere veramente tale rassomiglia piuttosto a quei confetti che soglionsi dare ai bambini che piangono onde asciughino le loro lagrimucce fanciullesche, ed attutino le loro voci importune. E` adunque inutile la rappresentazione proposta dalla Commissione, è anche ridicola, perocchè non ottiene neppure lo scopo della difesa dei diritti dei non proprietarŒ, che fa pur vista di proporsi. Si direbbe che è piuttosto un mezzo termine per eliminarli in fatto dalla società, o di ritenerveli in apparenza. Ma senza entrare nelle intenzioni segrete della Commissione, che ciò propose, credo evidente per quanto ho detto che ove la giustizia debba essere la base della nuova nostra Società, i non proprietarŒ per essere tali non si debbano già lasciare spettatori indifferenti di quanto i proprietarŒ dispongono intorno le pubbliche cose, e che solo quando abbiano ricevuto un fiero colpo in sulla testa trovino pieno diritto di essere guariti come i cani percossi; ma bensì che essi sieno chiamati egualmente che gli altri uomini in tutte le pubbliche deliberazioni e possano veder tutto ciò che in esse si tratta, possano ponderarne le conseguenze, e se in esse rinvengono cosa che loro nuoca, possano a tempo impedirla. Laonde concesso ancora, se così si vuole, che non debbano i non proprietarŒ influire positivamente nelle pubbliche deliberazioni, nessuno potrà però negar loro il diritto del veto; quelli stessi che non attribuiscono ad essi se non il diritto politico di difesa. Perciocchè il diritto del veto è, non una troppo tarda voce di richiamo, ma il solo mezzo ad ottenere che i loro diritti sieno di fatto e non solo in apparenza tutelati. Potrei osservare ancora finalmente che non àvvi uomo che possa neppur dirsi veracemente privo al tutto di esterne proprietà. Negherete a quelli che la divina Provvidenza introdusse in questa mirabile abitazione del nostro pianeta l' aria che debbono assorbire per vivere, la luce che più di quello dei ricchi rallegra l' animo dei mendici, e la terra dove ogni corpo che pesa trova suo luogo? Di queste cose e dell' altre che il cielo ha rese comuni a tutte le umane creature, e che la miserabile cupidigia non potè mai rapire alla loro naturale pubblicità, nè sottrarle a tutti onde farle un possesso di pochi, debb' essere altresì comune il governo: e quest' è ch' io chiedo: questo è ciò che vuol la giustizia: che tutti egualmente i membri della civile Società partecipino al potere amministrativo della medesima, perocchè questo potere tratta gli interessi di tutti e a tutti può nuocere s' egli si rende esclusivo, come può a tutti giovare s' egli si conserva comune. La società civile, rispose la Commissione, l' abbiamo già stabilito, non è la società universale; e coll' entrare nella società civile non escono gli uomini dalla universale e non perdono nulla di quei beni che hanno nello stato di natura. Gli uomini debbono entrare nella società civile in quel modo che vi possono entrare, dal punto che abbiamo adottato come principio fondamentale, che nella Società civile ogni diritto debba trovare una rappresentazione conveniente e possibile . Questo principio suppone che non ogni uomo entri a formar parte della società civile in egual modo, ma in modo diverso secondo la indole dei diritti ch' egli possiede: quindi nasce che gli uomini partecipino più o meno allo scopo della società, cioè ai beni che essa si propone di conseguire. Ma se diversi uomini partecipano in diversa misura al bene della società civile, non viene lor fatto torto; poichè questo è conseguenza di quella solida base che abbiamo posta; e perchè finalmente non si tratta con ciò che nissun uomo perda cosa alcuna di quanto già possiede; ma, rimanendogli tutto ciò che possiede, si tratta ch' egli non acquisti in tale instituzione quel soprappiù di vantaggio che acquista un altro perchè non possiede i diritti che possiede un altro. Sebbene adunque la Commissione abbia proposto che i non proprietarŒ non abbiano altra rappresentazione nella società che quella consistente in una voce di difesa, perchè è persuasa che l' indole dei loro diritti non ammette di più; tuttavia non è già vero che per tale associazione i non proprietarŒ vengono a perdere qualche cosa mentre non fanno che un guadagno: cioè acquistano un aumento di sicurezza dei loro diritti che non avevano nello stato di natura, e non perdon nulla di quanto avevano in questo stato. Egli è vero bensì che i loro diritti sono di tal natura, che non si possono, infranti che sieno, a pieno risarcire, ma qualunque sia questo risarcimento, è però sempre un guadagno che loro manca nello stato di natura: è un risarcimento, che, se non restituisce la vita o l' onore, toglie però le funeste conseguenze, che cadrebbero altramente sulla famiglia priva del suo capo e provvede per esempio la zitella oltraggiata d' un collocamento; è un risarcimento in somma che è pur sempre qualche cosa e che è ancor più nel fatto che nella speculazione del nostro obbiettatore. Egli è poi al tutto falso, che una voce efficace di richiamo non giovi se non dopo che è avvenuto il male, e quando non è più riparabile: perocchè egli è solo il timore del castigo, che tien dietro con certezza al commesso delitto, quello che ritrae gli uomini dal commetterlo, e che difende i diritti personali non solo dei non proprietarŒ ma dei proprietarŒ stessi. Può aver forse la Società verun altro mezzo di tener lontani i delitti, e di difendere la vita e la dignità dei cittadini, se non le pene ch' essa stabilisce ai malfattori? Si ripeterà che questa risposta, se vale per le offese che i non proprietarŒ ricever potessero dagli altri membri della Società, non vale egualmente pel Potere supremo della medesima: perocchè questo potere supremo può ben essere costretto ad un risarcimento che, diviso fra i proprietarŒ che lo compongono, è insensibile a ciascheduno, ma non può già essere sottomesso ad un castigo che lo atterisca dall' abusare del suo potere. Ma che? il Potere Civile, o per dir meglio l' Amministrazione della società, si estende forse a disporre della vita o degli altri diritti personali dei membri della medesima? non già: egli non ha in ciò altro diritto di quello, che si abbia una forza fisica e non morale qualunque ella sia; quando ciò facesse egli non sarebbe più potere civile, ma bruta forza. Si pretenderà che la società guarentisca tutti i suoi membri da ogni forza, che, non curato il freno morale, infierisse sopra di essi? è impossibile ad essa di tor via al tutto questo male essenziale dello stato di natura, ma non può che restringerlo: nè pure i membri componenti l' Amministrazione sociale ne sono totalmente al sicuro; perchè il debile non è mai sicuro dal forte; e la minorità dell' Amministrazione sarà sempre a discrezione della maggiorità, se si suppone che questa abusi della sua prevalenza. Ma se di ogni maggiorità o prevalente potestà si potesse esigere d' essere garantiti fisicamente, come ciò si farà se non mediante una forza fisica maggiore? ed in tal caso non si toglie il pericolo che dei diritti vengano violati, ma solo si trasporta a quel modo stesso che si trasporta la forza; sicchè quegli che prima imponeva timore ora lo riceve imposto da quello che prima lo riceveva. Se ragionevole fosse di lagnarsi per ogni nuova forza comparente, per la sola ragione che quella ha la possibilità di nuocerci, noi avremmo occasione di lamento dovunque, la differenza nelle forze corporee, nelle proprietà, nei talenti, tutto sarebbe argomento di invettiva e di querimonia: ogni associazione finalmente sarebbe illegittima, come un atto ostile, perchè ogni associazione è comparizione di nuova forza; ed ogni nuova forza può nuocere 1). Non è dunque lo scopo della società civile, nè può esserlo, difendere i diritti dei membri suoi da tutte le ingiurie ma solo da quante ella può, nè diventa illegittima se non li tutela che dal maggior numero. Chi potrà impedire a ragion d' esempio che i proprietarŒ facciano a parte la loro società? che escludano quindi i non proprietarŒ da quei beneficŒ, che entrando in una società medesima, come la Commissione propone, ottener potrebbono? nessuno: a quel modo stesso che i proprietarŒ non avrebbono diritto, pel semplice pretesto d' una forza temibile che comparisce, d' impedire qualunque altra associazione o fra i non proprietarŒ o fra una parte di proprietarŒ. Ma via: concediamo che la società civile non debba nulla ommettere di suo potere per tutelare i diritti dei non proprietarŒ: concediamo che i diritti personali possano avere di loro natura un' amministrazione comune; concediamo che questa rappresentazione sia conveniente all' indole di tali diritti, ma è ella possibile? Questo è il passo che la Commissione trova al tutto insuperabile. Dico se è possibile, quando si voglia accordare colla stretta giustizia. Bisogna convenire che questa esige che nessun uomo possa sforzare un altro di pagare per lui: che perciò i non proprietarŒ non possono sforzare i proprietarŒ a pagare per essi; perchè non è qui di beneficenza che si tratta, la quale è volontaria, ma di giustizia, la quale può essere anche forzata, perchè non dipende dalla libera volontà ma da un titolo da questa indipendente. Perchè adunque i non proprietarŒ possano partecipare ai beni dell' Amministrazione, debbono corrispondere alle spese della medesima; e non possono esigere che i proprietarŒ contribuiscano per essi; il che, oltre essere ingiusto, sarebbe impossibile ad ottenersi. Poichè, si lascieranno essi i proprietarŒ imporre questo peso? Mai no, nè a questa condizione entreranno in una società così per essi disuguale. Che se mediante qualche sofisma alcuni a ciò si persuadessero, la illusione dura sempre poco ed il falso principio introdotto nella società, essendo contro la natura delle cose perchè trasforma la beneficenza in giustizia, cagionerà gravi mali nella società, la quale non cesserà d' agitarsi fino ch' essa non l' avrà evacuato. Ciò solo che si oppone a questo si è che i non proprietarŒ essendo liberi possono disporre delle loro operazioni e con queste pagare la Società, con queste difenderla dai nemici. Ma come potrà ricevere l' Amministrazione in pagamento l' opera stessa, se il non proprietario abbisogna della stessa per campare la vita? quest' è una derrata sporca, sopra cui nulla si può calcolare fino che non è stata appurata dall' uscita. E chi può fare questo calcolo generale, se il valore dell' opera dei non proprietari varia assaissimo prima in ragione della loro abilità, di poi in ragione della loro salute o delle peculiari circostanze nelle quali si trovano, finalmente in ragione delle ricerche? possono essi assicurarsi di provvedersi costantemente del puro loro mantenimento? non hanno nulla a temere nei tempi di sterilità, nelle calamità a cui può soggiacere l' industria, il commercio, e i mestieri, nello stato di guerra o di altre pubbliche calamità? quale ricchezza, se quella è ricchezza, più incerta e su cui meno debba appoggiarsi il provento di una generale Amministrazione di questa? d' altro lato che farà l' Amministrazione sociale di tanti operai? porrà ella delle fabbriche manufattrici, o pianterà degli stabilimenti di commercio? Non mai: perciocchè devierebbe dal suo scopo; ed entrerebbe nell' ufficio dei privati. Ella non può commettersi a tali incerte speculazioni, dipendenti dallo stato commerciale del mondo: non è già ad arbitrio che si possano instituire nuove fabbriche e nuove case di commercio; perchè non si può arbitrariamente nè mettere limite alla produzione, nè torlo al consumo. La amministrazione sociale adunque non può entrare in simile deviazione dallo scopo suo a particolari imprese. Ella è istituita per diriger la modalità dei diritti; ed ha bisogno di dirigerla con viste generali e calcolate: e per tale scopo ha bisogno altresì d' avere un mezzo generale e sicuro, il quale non può essere altro che la ricchezza materiale , perchè questa si converte con facilità in tutto ciò che le abbisogna. L' operazione stessa che si esibisce dai non proprietarŒ in pagamento (oltre che è una moneta continuamente mutabile di valore, di un valore sporco per cui si debbe detrarre dal medesimo il mantenimento dell' individuo e fors' anco della sua famiglia, a' cui bisogni egli può non bastare nè pure nel tempo del suo maggior prezzo: un valore che può qualche volta annientarsi) è finalmente ancora un valore inesigibile , perchè non garantito od ipotecato sopra nulla: giacchè la persona stessa pel nostro scopo si può contare per nulla. E di fatto, che si può torre all' individuo che ha nulla? Si può punire; ma con ciò invece di coprirsi d' un credito, si fa una spesa di più; giacchè si debbe mantenere il debitore carcerato. Si costringa a lavorare colla forza? ma oltrecchè i lavori forzati poco approdano, le guardie stesse sono nuovo carico alla società, ed il lavoratore rinunzia bene volentieri al diritto di dire la sua opinione nelle pubbliche cose quando ciò gli debba portare la conseguenza di una dura schiavitù. Che se i non proprietarŒ militano per la salute della patria ciò nè fanno nè far possono che ricevendone lo stipendio; giacchè del suo non hanno onde mantenersi; essi non danno dunque alla patria che quanto dà il mercenario al padrone al cui soldo lavora: è un contratto che fa colla sua patria: e se l' affezione vi aggiunge da parte sua, egli n' ha merito alla patria insieme e dovere; ma n' ha ancor la ragione sua propria, che colla patria difende se medesimo, i suoi, le sue speranze. Il diritto ch' egli ha sui beni comuni come l' aria, e la luce nessuno può toglierlo, nessuno può contenderglielo; ma di quanto vien disposto circa il regolamento dei medesimi egli, senza potersene incaricare, può goderne: non può, dico, incaricarsene perchè non ha il mezzo di cui parliamo, ma può goderne perchè l' Amministrazione che se ne incarica non può nè vuole privarlo dei miglioramenti ch' essa procura a tai beni. Finalmente aggiungerò tal ragione alla quale i più difficili dovranno arrendersi, e riconoscere l' equità della proposta che ha creduto fare la Commissione; e la ragione è questa. Su quale supposizione discorrono quelli che ci propongono d' introdurre i non proprietarŒ nell' amministrazione, offerendo in contribuzione l' opera dei medesimi? Sulla supposizione che questi lavorino; che ci sia quindi nella società da lavorare; che perciò questo lavoro abbia un prezzo. Or chi non vede che tale supposizione trasporta i non proprietarŒ strettamente detti, dei quali noi stiamo deliberando, nella classe dei mercenarŒ, della quale avremo a deliberare in appresso? Chi non vede che l' opposizione viene ad ammettere tacitamente con ciò il principio che vuol combattere, cioè che nessuno possa entrare a formare parte dell' amministrazione se non ha onde pagarne le spese? che perciò i non proprietarŒ propriamenti detti rimangono esclusi di loro natura, solo perchè tale rappresentazione è loro impossibile di conciliarla coi principŒ della giustizia, e della equità, cioè impossibile introdurli nell' Amministrazione senza far torto ai proprietarŒ? Rimane adunque che la rappresentazione conveniente e possibile dei non proprietarŒ non possa consistere se non in una voce efficace di reclamare i torti che potessero loro farsi: e questa è la proposta della Commissione; la quale si riserba di stabilire altrove quale altra rappresentazione convenire possa ai medesimi qualora appartengano alla classe dei mercenarŒ. In conseguenza di quanto fu discusso nella sessione precedente l' assemblea addottò un altro principio fondamentale: « Che si riconosceva la ricchezza materiale come l' unico mezzo generale dell' amministrazione della società civile. » La Commissione insistè molto sopra un tale principio, e il rese così evidente che fu generalmente approvato. Una delle ragioni radicali proposte dalla Commissione si fu, che tanto quelle persone che si trovavano prive di libertà, quanto quelle che si ritrovavano al tutto prive di proprietà materiali, non potevano per la loro condizione avere alcun diritto di regolare la modalità degli altrui diritti: poichè non avevano diritto neppure di regolare la modalità dei diritti proprŒ, dall' istante che erano al tutto dipendenti dagli altri uomini. In fatti era stato stabilito che il passaggio dallo stato naturale allo stato civile si facesse in tal modo, che ciascun uomo mettesse in comune la modalità dei proprŒ diritti, e mentre prima la regolava da sè, poscia la regolasse in comune, ritenendo una autorità proporzionale ai suoi diritti, o sia proporzionale a quella modalità che ei porta in comune. Or dunque l' uomo non libero non ha nessuna modalità da mettere in comune; poichè la modalità dei suoi diritti si ritrova interamente nelle mani del suo padrone, il quale non può già toccarlo nei diritti che egli ha, ma bensì far uso di tutte le sue azioni, per cui non resta più al servo alcun modo di provvedere a sè stesso, ma resta solo al padrone il dovere di provvedere al servo. Ed una cosa simile può dirsi di colui che è al tutto privo di proprietà; poichè questi se vuol vivere dipende totalmente da chi ne ha, ed egli è obbligato di dipendere, perchè è obbligato di usare tutti i modi onesti di campar la sua vita. Che cosa adunque porta questi in comune? nulla di certo: e perciò nissuna autorità a lui spetta nell' amministrazione di quel fondo, nel quale nulla egli mette. All' esistenza stessa non appartiene il diritto di usare l' altrui, se non dopo avere esaurito tutti gli onesti mezzi, e rimasto quel solo. Vi fu chi declamò contro la durezza dei proprietarŒ nel solo supporre, che si conservasse in mezzo ad essi una classe di uomini caduta in tanta miseria, e proponeva di votare tantosto di tenernela costantemente sollevata: ma la Commissione dimostrò che quello non era il tempo, che conveniva trattare a parte ciò che apparteneva alla beneficenza, e ciò che apparteneva alla giustizia; poichè, confondendo queste due cose, la stessa beneficenza sarebbe perita; che finalmente simili benefici provvedimenti dovevansi intavolare allorquando la società fosse costituita, e le famiglie della medesima legate insieme componessero un corpo solo. Non mancò chi credette cogliere la Commissione in contraddizione coi suoi principŒ; poichè dal momento che proponeva, che i non liberi ed i non proprietarŒ avessero una rappresentazione consistente in una voce, efficace quanto più esser poteva, di richiamo delle offese ricevute dagli altri membri della società, o dall' amministrazione della medesima; si doveva supporre che avessero il modo di soddisfare alle spese delle loro cause, e se ciò si supponeva, doveva supporsi egualmente, che avessero il modo di contribuire alle spese dell' amministrazione. Ma la Commissione rispose che l' amministrazione aveva l' obbligo di regolare la modalità di tutti i diritti; e che perciò le spese a tal fine necessarie entravano nelle spese amministrative, particolarmente poi in quella parte di offese che potessero provenire dall' amministrazione stessa; mentre essa aveva l' obbligo di non trapassare il confine della sua autorità, e di risarcire quanto poteva il danno, se per isbaglio lo trapassava. D' altro lato non è mai l' offeso che deve pagare le spese ma l' offensore. Che se questi non ne ha il modo, egli diventa uno di quei casi in cui la giustizia non ha il pieno suo effetto, non per mancanza della società, ma per l' impossibilità annessa alla cosa. Il qual caso non può avvenire mai, come dicevamo, riguardo a' richiami contro l' amministrazione; perocchè questa è sempre solvente, ove sia condannata. Appianate così le difficoltà, la Commissione conchiuse facendo osservare qual nuovo incremento di prezzo andava a ricevere la ricchezza materiale nella nuova società, dal momento ch' ella diventava il mezzo generale della sua amministrazione. Per far conoscere l' indole della nuova società civile fece notare la differenza che passava fra essa e la società famigliare, nel quale stato erano ricevute le persone assembrate, dimostrando che il mezzo dell' amministrazione famigliare era il servizio personale: e che il mezzo all' incontro della amministrazione civile era la ricchezza materiale , distinzione caratteristica delle due società. Di poi tirò pure la conseguenza da tutto ciò che era stato fatto, che relativamente alla instituzione della società civile i diritti degli uomini si dividevano in due classi: la 1 dei diritti personali; cioè diritti che l' uomo ha sulla propria persona, o su cose a lui strettamente unite, e questi sono tre: sulla vita, sul corpo, e sull' operazione; la 2 dei diritti reali; cioè sulla ricchezza esterna e materiale. I diritti personali danno a tutti gli uomini egualmente, in quella parte che li posseggono, una rappresentazione consistente in una voce di richiamo principalmente contro tutto ciò che può esser fatto in loro danno dalla amministrazione della società. I diritti reali all' incontro danno a quelli che li possedono una rappresentazione nella società civile consistente in una voce amministrativa , mediante la quale hanno nell' amministrazione della società una parte proporzionale a quella modalità dei diritti che mettono in comune nella medesima. Indi accordando a tutti indistintamente il nome di Cittadini, intendendo con esso di esprimere semplicemente membri della società civile, fece vedere come i cittadini venivano a distinguersi di loro natura in due ordini principali , l' uno dei quali era solamente governato, e l' altro ancora governava, cioè a dire quelli che non avevano se non diritti personali non potevano formare che un ordine governato e non potevano entrare a prender le redini della società: e quelli all' incontro che avevano anche diritti reali, ossia che erano forniti di ricchezza esterna e materiale, potevano e dovevano prendere parte alla stessa amministrazione. Questi due ordini venivano in tal modo costituiti dalle due specie di diritti a cui convenivano due specie di rappresentazione. In ogni specie di diritti si trovavano più diritti, e per ciò i cittadini appartenenti al primo ordine, cioè all' inferiore, avevano voce di richiamo per ciascuno dei tre diritti che possedevano, e i cittadini del secondo ordine cioè del superiore, avevano voce amministrativa proporzionata alla quantità della ricchezza loro esterna o materiale. Tutti egualmente i membri della società civile sono cittadini . A questa parola vien assegnato un nuovo senso dalla Commissione. L' essere cittadino consiste nel diritto di non esser offesi dall' amministrazione della società, e di più nel diritto, venendo offesi, di avere una voce di richiamo , per la quale ottengano risarcimento: voce che forma l' essenziale carattere della cittadinanza, che si adotta dalla società che va ad istituirsi. E prima di passare ad altro la Commissione volle che tutti convenissero nella chiara idea di questa cittadinanza , ossia di questa rappresentazione passiva comune a tutti i membri della società, la quale era ciò che li rendeva cittadini. 2) Fece dunque osservare che la prima base della società era che ogni diritto fosse rappresentato nella medesima, ma quando però potesse essere rappresentato. Or che cosa è ciò che rende rappresentabile un diritto nella società civile? Un diritto vien reso rappresentabile nella società civile da due condizioni. La 1 si è che il diritto che ha una persona sia congiunto alla sua modalità, perchè è la modalità che si porta in comune nella società civile, è questa che dalla società civile propriamente si amministra; nè la società civile viene per altro fine instituita, nè ad altro officio si estende: il perchè quegli che ha bensì un diritto in sua proprietà, ma che ha trasferito in altrui mani la modalità del medesimo, non ha diritto rappresentabile, perocchè non ha veruna cosa che possa consegnare per dir così alla società civile, perchè essa gliela amministri: non pigliando essa ad amministrare che modalità di diritti. La 2 si è che quegli che ha il diritto e insieme la modalità del medesimo, abbia ancora della ricchezza materiale: poichè questa è il mezzo generale dell' amministrazione civile, e però chi non ne ha, rimane privo del modo di pagare la spesa proporzionale che gli toccherebbe in detta amministrazione: senza di che non può ragionevolmente pretendere di essere accettato nella medesima. La mancanza principalmente della prima di queste due condizioni esclude gli uomini non liberi dall' avere una rappresentazione attiva nella società civile, che è quanto dire di aver parte nell' amministrazione della medesima. La mancanza principalmente della seconda condizione esclude dalla rappresentazione attiva i non proprietarŒ. Quelli adunque che possono aver parte nell' amministrazione sociale, o sia che possono avere una rappresentazione attiva nella medesima, sono i proprietarŒ. Or egli è necessario di vedere come la natura di questa rappresentazione attiva , lungi dal segregare i proprietarŒ dagli altri uomini, li congiunga con essi con tal vincolo, pel quale si possono a buon diritto chiamare membri della stessa società. In fatti l' amministrazione sociale si erige per regolare la modalità dei diritti dei suoi membri: e la modalità dei diritti, perchè sia ben regolata, conviene che costantemente si attenga dentro a termini della giustizia. Ora questa giustizia, prima condizione della buona modalità dei diritti, è quella che lega tutti gli uomini insieme, non già per un patto arbitrario, ma per una legge eterna, che gli uomini associati non instituiscono, ma di comune consenso riconoscono, perchè la debbono riconoscere. Or questa legge fa sì, che l' amministrazione sociale non possa giammai trattare esclusivamente i negozi delle persone che entrano in essa, ma debba riconoscere le relazioni, che hanno tali persone con quelle che rimangono fuori della detta amministrazione: debba in queste persone escluse dall' amministrazione, perchè non hanno nulla di proprio che possa essere amministrato, riconoscere e rispettare tutti i diritti che esse hanno: quindi ancora desiderando di realizzare questa debita riverenza pei loro diritti non debbe ricusare che sia messo ad esame tutto il suo operato: che sia ricercato in esso il giusto e l' ingiusto, o che di tutto ciò ch' essa avesse operato d' ingiusto essa renda soddisfazione a quelle persone qualunque sieno sulle quali è caduto il danno dell' ingiustizia. L' amministrazione civile, come persona morale, ha quelli stessi doveri verso le persone individuali che queste hanno fra di loro nello stato di natura. Ora nello stato di natura le persone individuali hanno scambievolmente i seguenti doveri: 1 Quello di non offendersi; 2 quello di esser pronte, nei casi controversi in cui l' una si richiama d' essere stata offesa dall' altra, a sottomettersi al giudicio di arbitri benevisi dalle parti. Quest' è la relazione che nello stato di natura la giustizia mette fra due persone individuali; relazione che avvincola gli uomini, e che li mette fra di loro anche in quello stato in una specie di società. Ora questa stessa relazione rimane nella società civile fra l' amministrazione della medesima e le persone singole comprese in essa o non comprese: ma con questa differenza, che l' amministrazione della società civile riconoscendosi obbligata di adoperar tutti i mezzi per ritener sè stessa nei limiti della giustizia, obbligo comune a qualunque persona, riconosce però insieme un obbligo morale che è proprio suo e non comune alle altre persone. E quest' obbligo nasce dal principio morale « che i mezzi perchè una persona ritenga sè stessa nei limiti della giustizia debbono essere tanto maggiori quanto la persona ha più di forze, cioè quant' essa ha più mezzi di offendere la giustizia. »Non v' ha principio più trascurato dagli uomini di questo, nè più importante per la loro tranquillità, nè di una necessità più fondata nell' esperienza. E` l' esperienza di tutti i secoli e di tutti i tempi che dimostra questa funesta verità « che gli uomini tanto sono più tentati di offendere la giustizia quanto più sentono avere una forza di farlo: »che la forza in mano dell' uomo lo innalza, lo inorgoglia, acuisce quella fierezza omicida, che nel suo cuore giace profonda insieme colla sua originale reità: e dove si crede sicuro nella malvagità, e impunito nella scelleraggine, persuaso che la ragione non gli sia più necessaria, s' abbandona cieco alla sfrenata irritazione che produce in lui il senso d' una potenza che nasconde i suoi limiti. Ma dietro all' esperienza che ognor più rafferma questo lacrimevole fatto, la voce della giustizia ognor più grida agli uomini: « O voi che avete in mano la forza e che amate la giustizia, tremate di voi medesimi: quella forza minaccia la vostra giustizia, e l' atterrerà senza un vostro sforzo di sostenerla: la forza nelle vostre mani tenta di estinguere in voi la ragione; voi siete tanto più obbligati di tenerla viva, e di non rivolgere gli occhi dai lumi suoi; quant' è più grande il pericolo della virtù, tanto maggiore sia il vostro timore, la vigilanza e la cautela per non esserle infedeli. »Secondo questo principio gli uomini, che mediante l' esperienza hanno imparato a conoscer sè stessi, sono in un obbligo morale di agire verso dei loro simili con una delicatezza, con una guardia di sè, e più ancora con una magnanimità che cresce in ragione della potenza che hanno sopra di quelli. Egli è per questo principio morale ed intrinseco insieme all' amministrazione sociale, che questa, come quella che costituisce una grande potenza, debbe riconoscere altresì in sè stessa un dovere morale di agire colla più grande circospezione, col più grande rispetto a ciascuna persona individuale, colla equità più luminosa, con una pubblicità che rimuova fino i sospetti, con una magnanimità che sia capace di abbandonare il proprio giudicio e sottomettersi a quello d' altrui in fatto di giustizia; rinunciando totalmente a quella sognata e crudele infallibilità politica: debbe riconoscere per ciò un dovere di deferire ad un tribunale di giustizia tutti i casi dubbi, che possono intervenire fra lei e ciascuna singola persona più debile di lei, appartenga questa all' amministrazione o no. Sembrerà che conceduta ancora l' esistenza di simile Tribunale, comune all' amministrazione sociale ed a tutti indistintamente i membri della società che hanno onde richiamarsi di lei, non sia bastevole per poter affermare, che tutte le persone individuali entrino veramente in una stessa società civile; ma che quelli della amministrazione formino una società a parte da quelli che rimangono fuori. E in fatti non è la comunanza di questo tribunale il solo vincolo dei membri della società civile; ma v' è un altro vincolo il quale associa gli uomini senza cangiare le loro relazioni anteriori a questo civile associamento: ed ecco qual' è. La società civile consiste nell' instituzione di un potere che regola la modalità di tutti i diritti. Nulla impedisce dall' accordare, che ogni diritto abbia una modalità: ma queste modalità talora sono separate dal diritto come sarebbe nei servi, i quali hanno bensì i due diritti che lor abbiamo accordato, ma non hanno all' incontro in propria mano la modalità dei medesimi, che resta nelle mani dei loro padroni. Ora i servi non avendo in propria mano la modalità dei proprŒ diritti, non possono portarla nella società civile e metterla in comune: all' incontro i padroni nello stato di natura hanno in propria mano tanto la modalità dei proprŒ diritti quanto quella dei diritti dei servi. Quindi sono essi che portano nella società civile da amministrarsi in comune insieme colla modalità dei proprŒ diritti anche la modalità dei diritti dei servi: ed in tal modo la società civile diventa amministratrice della modalità dei diritti di tutti gli uomini, ed anche dei diritti dei servi: ma senza mutare le relazioni che questi hanno coi loro padroni, cioè la società civile amministra la modalità dei diritti dei servi, ma essa facendo ciò non viene già a far le veci dei servi stessi; ma sì bene a far le veci dei padroni dei servi: poichè nello stato di natura non erano già i servi quelli che amministravano la modalità dei proprŒ diritti, ma ciò facevano i loro padroni. Se dunque si facesse che i servi entrassero nell' amministrazione della società, avverrebbe ch' essi facessero ciò che non facevano nello stato di natura: e che all' incontro i padroni venissero privati di fare ciò che facevano nello stato di natura: in tal modo questi entrando nella società verrebbono spogliati di un diritto che avevano nello stato di natura; ed ai servi verrebbe dato gratuitamente un diritto che nello stato di natura non avevano. Il passaggio dunque dallo stato di natura allo stato di società civile non si farebbe più restando intatte le relazioni degli uomini; ma in tal passaggio verrebbero alterate, e mentre ad alcuni uomini si darebbero dei diritti che prima non avevano, ad altri se ne torrebbe di quelli che prima avevano. Conviene adunque perchè la giustizia non venga alterata, come succederebbe se avvenisse trasferimento di diritti, che i servi abbiano coll' amministrazione della società una relazione simile a quella che prima avevano coi loro padroni; che l' amministrazione non sia se non l' unione di quelli che nello stato di natura amministravano, e che le persone escluse dalla medesima non sieno che quelle che nello stato di natura non amministravano. Conviene concepire il piano della società civile non già come una istituzione mediante la quale le persone che non amministravano nello stato di natura passino nel numero di quelle che amministrano; ma bensì come una istituzione mediante la quale le persone, che nello stato di natura amministravano in separato, si uniscano insieme per amministrare in comune. Ora ciò posto non riesce per tutto questo men vero che la società civile si proponga di amministrare la modalità di tutti i diritti, o sia dei diritti di tutti gli uomini. Quindi riesce altresì vero che ella abbraccia nel suo seno gli uomini tutti, sebbene senza alterare le loro relazioni, e che tutti governino: tutti adunque soggetti alla stessa amministrazione con ragione vengono detti membri della società medesima, sebbene non già membri eguali, o, per essere più accurati, non già membri che godano della ugualianza costituente , ma bensì membri che godono della uguaglianza giuridica: membri che convengono tutti nell' essere amministrati da uno stesso potere e che hanno un eguale diritto di non essere dallo stesso offesi, sebbene membri che non hanno eguale diritto di essere da quel potere vantaggiati: membri in somma che si dividono in due ordini, l' uno dei quali non è che amministrato, mentre l' altro è anche amministratore. Quand' anche non si considerasse nei non proprietarŒ l' ostacolo della mancanza della ricchezza materiale, mezzo dell' amministrazione, tuttavia soggiacerebbero allo stesso discorso fatto pei non liberi; poichè non potendo essi sussistere senza trovar il loro nutrimento, dovrebbero o passare alla classe dei mercenari o vivere d' accatto. Nel primo caso toccherà ad essi nella società civile lo stato conveniente ai mercenarŒ, nel secondo caso essi dipendono totalmente dalla volontà degli altri uomini che li beneficano, e che perciò non lasciano loro che quella libertà che loro piace: mentre questi poveri sono obbligati per un diritto naturale di far tutto ciò che è necessario per acquistarsi il vitto, e non può esser loro lecito di torre l' altrui, se non dopo d' avere tutto tentato, e d' esser venuti alle ultime estremità: 1) i poveri adunque sono essenzialmente persone non libere: e quella libertà precaria che godono di fatto non è fondata in alcun loro diritto, ma nella bontà dei loro benefattori, i quali li soccorrono senza esiger da essi servitù. La Commissione si era appianata la via alle cose fino a quest' ora trattate per proporre l' articolo riguardante lo stato che dovevano avere nella società civile i mercenarŒ, e l' articolo che essa propose fu il seguente: « I mercenarŒ che possono provare di esercitare un' arte od un mestiere qualunque, che apporti loro un sufficiente mantenimento senza bisogno di sovvenzioni caritative, non debbono entrare nell' amministrazione della società individualmente come i proprietarŒ che hanno fondi, ma debbono entrarvi mediante una rappresentazione del loro corpo. »Cioè i mercenarŒ non hanno nella società civile una rappresentazione attiva, come persone singole, ma bensì debbe essere rappresentato nell' amministrazione della società il corpo dei mercenarŒ. Quest' articolo incontrò difficoltà dalla parte dei proprietarŒ. Il delegato per questi si sforzò di provare che i mercenarŒ erano di loro natura totalmente dipendenti dai proprietarŒ, perocchè non avendo essi nessun fondo da cui ritrarre con sicurezza il loro mantenimento ed indipendentemente da quelli, essi non potevano vivere, se non lavorando a discrezione dei proprietarŒ. Questi all' incontro come quelli che possedevano un fondo che dava loro onde vivere erano da sè i soli indipendenti e liberi: perciocchè questi avrebbero potuto lavorare da se stessi il fondo e cavare dal medesimo il mantenimento, senza chiamare altri in aiuto. La esistenza dunque dei mercenarŒ è precaria, e dipendente dalla volontà di quelli che li assoldano: da questi dipende totalmente la modalità dei loro diritti; e se questi s' accordassero insieme di non dare a mercenarŒ lavoro, ma di lavorare essi stessi; questo sarebbe forse un atto d' Œnumanità, ma non offenderebbe ancora i diritti dei mercenarŒ; i quali ridotti all' estremo dovrebbero rendersi servi dei proprietarŒ. Ora questa specie di monopolio non fanno nè far debbono i proprietarŒ; ma nol fanno e far nol debbono per altro che per atto d' umanità, e di commiserazione; ciò che nei mercenarŒ non mette diritto alcuno d' aver a forza lavoro, se quelli nol facessero a volontà. Vero è dunque che i mercenarŒ non sono al tutto alla condizione dei servi; ma quella poca libertà ch' essi godono non l' hanno da sè, ma viene loro lasciata dalla generosità dei proprietarŒ: i quali torre gliela potrebbero senza toccarli nei loro diritti: sono adunque i mercenarŒ simili ai poveri o non proprietarŒ, che si contan per liberi fino a che la beneficienza dei ricchi mantiene loro la libertà, ovvero simili a quei servi verso dei quali il padrone non usa il suo diritto di signoria. Non possono adunque aver voce i mercenarŒ nelle pubbliche deliberazioni, ma i loro padroni per essi; quantunque abbiano quelli il diritto di patteggiare nella mercede, che danno loro i padroni, anche la qualità del voto ch' essi debbono portare nella Sociale Amministrazione. La Commissione rispose ch' essa conosceva benissimo, che i mercenarŒ avevano una dipendenza dai benestanti: che aveva esaminata la natura di questa dipendenza: e che avendola trovata tanto lontana dalla servitù , quanto dalla benestanza , aveva stimato che loro convenisse nella società un posto di mezzo fra i servi ed i benestanti; e che perciò nè fossero privati interamente di una rappresentazione attiva come quei primi, nè l' avessero intera come questi secondi: al che avea creduto di soddisfare coll' articolo proposto. Infatti la Commissione riconosce che non v' ha nessun mercenario preso individualmente, la cui esistenza non sia precaria, e la cui libertà non sia dipendente dal corpo dei benestanti, da cui sono pagate le mercedi, sicchè se i benestanti volessero, potrebbero privarlo del lavoro, nel qual caso egli rimarrebbe nello stato dei poveri e successivamente dei non liberi. Egli è per questo che la Commissione ha creduto che nessun mercenario possa individualmente ottenere secondo l' equità una rappresentazione attiva nell' amministrazione sociale; per le stesse ragioni per le quali viene negato ai poveri ed ai servi; cioè perchè il mercenario individuale egualmente che questi non ha una modalità propria e certa da portare in comune nella società, e perchè non ha assicurata ricchezza, mezzo necessario all' amministrazione della medesima. Ma la Commissione all' incontro non giudica allo stesso modo di tutto il corpo dei mercenari, ed anzi sostiene: 1 Che tutto il corpo dei mercenarŒ quale egli esiste nel fatto ha un' esistenza assicurata tanto quanto quella dei benestanti: che detto corpo se ha qualche dipendenza dai proprietarí è questa però tale che rimane una semplice dipendenza speculativa, o sia una possibilità di dipendenza che non si esercita nel fatto giammai, e che perciò non può avere un effetto calcolabile. 2 Che i benestanti non hanno punto il diritto di escludere il corpo intero dei mercenarŒ dai lavori che portano loro le mercedi, e che perciò il corpo dei mercenarŒ non può essere senza ingiustizia eliminato per un accordo o per un monopolio che facessero fra di loro i benestanti. A dimostrare la prima di queste due proposizioni basta un fatto, che è uno di quei pochi comunemente ricevuti e sui quali non cade più controversia; cioè che la divisione del lavoro aumenta la ricchezza dei benestanti, appunto perchè perfeziona le arti, cioè migliora la produzione, la rende più celere e meno costosa. Egli fu questo effetto della divisione del lavoro, che venendo vie più sentito ed inteso dagli uomini li persuase a dividere sempre più i lavori, e che così si moltiplicarono le arti. Da ciò nacque, che mentre nell' antichità si esercitavano tutte le arti necessarie nella famiglia stessa, in essa per esempio si mantenevano le greggi, si preparavano le lane, le si filavano, le si tessevano, le si riducevano a vestimenti; si comprese più tardi che era più economico e che rendeva un lavoro più perfetto dividendo tutte queste incombenze fra varie famiglie, alcune delle quali si restringessero per esempio alla cura del gregge, altre alla filatura delle lane, altre alla tessitura, ed altre alla facitura delle vestimenta. Egli fu in tal modo che si moltiplicarono i mercenarŒ: fu in tal modo che una famiglia si rendette dipendente dall' altra di propria volontà. Colla cognizione dell' utile, col gustamento del piacevole si moltiplicarono i desiderŒ ed i bisogni, e questi diedero origine a quel gran numero di arti e mestieri onde presentemente è ricca la società fra le nazioni, che rende la vita umana agiata e soave e fornita di tutti quelli aiuti che sono necessarŒ ad un maggiore sviluppo dello spirito. Egli è vero che il genere umano non sarebbe giammai venuto a tale stato di floridezza nel quale possede tanti mezzi di lieto ed onesto vivere, se in esso la religione non avesse temperato i fieri costumi e la corruzione delle passioni raccendendo nelle menti il lume della verità; ma senza cercare le cagioni di questo stato confortante dell' umanità, basta a conoscere che egli è tale, che l' uomo si trova oggimai sul cammino della propria utilità, e che è divenuta una legge inalterabile dell' umanità, che questa sia sollecita di cercare ciò che le è vantaggioso, e presto o tardi lo ritrovi quasi avesse verso di ciò un' involontaria gravitazione; legge che si è resa così forte ed evidente che è difficile il conoscere che fu introdotta nell' umanità, e di cui non porta in sè medesima la necessaria esecuzione: il conoscere dico, che l' umanità si potesse trovare in tale stato, nel quale incapace fosse di pensare all' acquisto d' un suo bene per poco lontano ch' ei fosse ed impotente di muoversi verso il medesimo, per una inerzia che non riceve movimento se non dei pungoli di un dolore corporeo o di un istinto brutale. Da questo stato di degradazione è già lontanata per sempre l' umanità, e ha ricevuto una spinta che la porta per tutti i veicoli del bene, per così dire, anche più lontano, e non può venire meno il suo movimento. Egli è dunque contro questa legge di perfettibilità che andrebbero gli uomini togliendo via la divisione del lavoro, e per ciò la classe dei mercenarŒ: giacchè, se i padroni si dividessero fra loro le arti, verrebbero ad accumulare in sè due officŒ, o sia due lavori, cioè l' amministrazione della propria sostanza e l' arte prescelta: e si renderebbero in tal modo servi essi stessi senza che a loro restasse il modo nè il tempo di godere i frutti dei beni da loro posseduti, nè quelli dalla loro avidità guadagnati. Il benestante adunque pagando il mercenario redime sè stesso: giacchè egli è libero quando è padrone del suo tempo e della sua opera: quando cioè quest' opera non è occupata dalla necessità di un lavoro determinato. Colla mercede che paga il benestante, cangia un po' della sua ricchezza con altrettanto tempo e fatica, il quale è pur sempre un cambio vantaggioso; mentre fonda in tal modo una forza ed una porzione di vita che egli può occupare alla cultura del suo intelletto e del suo cuore, e al godimento degli onesti piaceri: i quali beni sono di un pregio inestimabile sopra la materiale ricchezza. Il corpo dei mercenarŒ adunque è sommamente utile ai benestanti, e attesi i suoi presenti bisogni necessario: ed essendo gli uomini soggetti alla legge della perfettibilità e da essa inclinati a mantenere ciò che hanno provato per bene e ad accrescerlo, è impossibile che il corpo dei mercenarŒ sia abolito: ed una tale proposizione è così assurda, che il solo enunciarla desta le risa. Nè si può dire che i benestanti con un comune accordo potessero costringere i mercenarŒ a più dure condizioni fino alla servitù; perciocchè questa stessa prostrerebbe le arti, solito effetto della umanità, e le richiamerebbe dentro alle famiglie onde sono uscite, cioè farebbe retrogradare la società: il che, come dicemmo, essa non può fare generalmente parlando, od al meno non può farlo ad occhi aperti; perocchè ad occhi aperti è assurdo che faccia un male a sè stessa. L' esistenza adunque del corpo dei mercenarŒ non è precaria, ma è tanto ben assicurata quant' è assicurata la legge della perfettibilità: e, se non fosse assicurata, noi dovremmo assicurarla con una civile sanzione, mentre la società in costituirsi non debbe far danno a sè medesima, ma mettere tutte quelle basi che da essa il male allontanano. 1) Per la stessa ragione il corpo de' benestanti commetterebbe una ingiustizia cercando di distruggere il corpo dei mercenarŒ: perocchè nessuno ha diritto di restringere l' altrui libertà senza che ciò torni in bene di sè stessa. Ora il corpo dei mercenarŒ è utile, come abbiamo veduto, ai benestanti: dunque oltrechè sarebbe stolto distruggerlo, e di una stoltezza che si è resa impossibile al genere umano, sc“rto sulla via della perfezione, sarebbe anche ingiusto, perciocchè nessuno ha diritto di nuocere altrui senza ragione, nessuno ha diritto al male ed alla stoltezza. La società civile adunque, sì per principio di utilità che per principio di giustizia, debbe riguardare il corpo dei mercenarŒ come fornito di un diritto al mantenimento, e debbe conoscere che il provento del medesimo è assicurato sopra un fondo stabile quanto il provento dei benestanti, mentre è assicurato sul bisogno, sui piaceri, sulla felicità, e sulla moralità degli stessi benestanti. La sola differenza che passa fra il fondo sul quale è assicurato il provento dei benestanti, ed il fondo sul quale è assicurato, per dir così, il provento dei mercenarŒ, si è questa, che ciascun benestante ha in mano il suo fondo, ed è legato colla sua individuale persona: mentre ciascuno dei mercenarŒ non può già dir tanto, poichè il suo travaglio è condizionato alla volontà di chi lo prende al lavoro: e ciascun mercenario non può sempre assicurarsi di trovare questa volontà disposta costantemente ad usare l' opera sua: mentre tutto il corpo dei mercenarŒ può benissimo assicurarsene; giacchè abbiamo fissato per base, che la volontà collettiva dei benestanti non può mai volere lasciare totalmente privo di lavoro il corpo dei mercenarŒ. Alcuno chiese se con ciò s' intendeva che la società civile prendesse l' obbligo di mantenere costantemente un numero fisso di mercenarŒ. A cui la Commissione rispose: che no: che il corpo dei mercenarŒ non poteva mai fissarsi: che questo doveva crescere o scemare, secondo le ricerche dei benestanti; ciascuno dei quali coll' istituzione della nuova società restava libero come prima di prendere o di licenziare i mercenarŒ secondo i suoi interessi ed i suoi bisogni: che se finalmente si potesse suppore il caso di una tale carestia e penuria di tutte le cose più necessarie, che nissun benestante avesse più il modo di mantenere un solo mercenario, supposto questo caso impossibile, ne seguirebbe, che il corpo dei mercenarŒ per qualche tempo disparirebbe; ma senza che questa distruzione dei mercenarŒ fosse punto contraria ai principŒ sopra esposti, perocchè essa non seguiva per un arbitrio stolto dei ricchi, nè per un principio di assurda politica; ciò che solo col discorso precedente si è combattuto. Ma dunque, alcun altro oppose, se il corpo dei mercenarŒ diminuisce ed aumenta, come avrà una rappresentazione stabile? Non fu parlato di una rappresentazione stabile, rispose la Commissione; ma solo di una rappresentazione attiva, la quale certamente debbe cangiare nella stessa proporzione che cambia il corpo dei rappresentati. Il modo poi di questo cangiamento è ciò che la Commissione si riserva di spiegare, quando sarà tempo opportuno; pregando intanto chi avesse da dire contro la medesima, di riservare per allora che se ne farà di proposito trattazione. Ciò che fu detto, e che fu fin qui accordato dalla Assemblea, diede la via alla Commissione di presentare il principio generale, secondo il quale doveva esser formata l' amministrazione della società civile. Il principio fu enunciato così: « Il potere amministrativo debbe esser messo in equilibro colla proprietà materiale di ciascun membro della società civile; »che equivale a quest' altra proposizione: « Ciascun membro della società civile debbe partecipare all' amministrazione della medesima nella proporzione della ricchezza materiale ch' egli possiede. » Tale principio veniva come conseguenza naturale dalle cose dette, o piuttosto era una recapitolazione delle medesime. In fatti egli discendeva da quell' altro più generale già prima adottato, che ogni specie di diritti ed ogni diritto nella stessa specie trovasse nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. Le specie di diritti s' avevano trovate essere due, chiamate de' diritti personali e de' diritti reali. S' era pure trovato ed accordato che a queste due specie di diritti corrispondevano due specie di rappresentazioni; cioè la rappresentazione passiva e la rappresentazione attiva: la prima delle quali, corrispondente ai diritti personali, era formata da una voce efficace di richiamo contro alle offese, e la seconda, corrispondente ai diritti reali, era una voce influente nell' amministrazione della società. Per diritti reali s' era inteso diritti sulla ricchezza materiale, e dopo aver trovato la rappresentazione conveniente a tale specie di diritti, cioè la rappresentazione attiva, conveniva stabilire il principio, che fissasse la rappresentazione conveniente a ciascun diritto della stessa specie, o sia alla quantità proporzionale dei diritti reali: e tal principio era quello enunciato dalla Commissione: « che il potere amministrativo dovesse esser messo in equilibrio colla proprietà materiale di ciascun membro della Società civile. » Non poteva dunque rifiutarsi l' Assemblea dell' ammettere tal principio, se non voleva venire in contraddizione con sè stessa. Ciò ammesso fissò la Commissione l' infimo grado di tale rappresentazione che doveva essere proprio di quelle persone, che avessero tanta ricchezza materiale quanta bastava ad assicurare ai medesimi una vita indipendente dagli altri uomini: in tal modo acquistava una rappresentazione attiva quella persona che aveva dei diritti per se stessi esistenti, giacchè i diritti personali per se stessi non possono esistere nell' uomo se non coll' aiuto di diritti reali: questi due diritti insieme uniti danno alla persona un' esistenza politica garantita in faccia alla società degli altri uomini, i quali ragionevolmente possono entrare con essa in un contratto stabile. I possessori delle terre fecero però sentire che non sembrava loro giusto d' esser messi alla stessa condizione dei possessori di fondi industriali, o commerciali, o bancarŒ, e dissero tutte le ragioni che dir si sogliono dai partigiani dei fondi terrieri: si sforzarono di mostrare principalmente due cose: 1 che tutte le altre ricchezze erano dipendenti dalla terra, e che veramente questa sola, somministrando il nutrimento agli uomini e le materie prime alle arti, era indipendente; 2 che i fondi d' altra specie non erano così assicurati come le terre, le quali non potevano mai esser distrutte nè mancare di prezzo; mentre tutta la ricchezza affidata alla volubile fortuna del commercio poteva da un' ora all' altra perire; e variava mobilissima ad ogni circostanza politica e ad ogni varietà nel costume e nell' opinione degli uomini. La Commissione oppose alla prima difficoltà quello stesso ragionamento, col quale aveva dimostrato che i mercenarŒ dovevano considerarsi come indipendenti dai benestanti: mentre questi non si sarebbero mai indotti ad abbandonarli giacchè ciò non voleva il proprio interesse, il quale interesse non poteva non essere seguito dal corpo dei benestanti perchè l' umanità, di fatto e per una legge a cui irrefragabilmente obbedisce, non può ad occhi aperti nè lasciare un bene nè fare un male a se stessa. Le arti ed il commercio sono di somma utilità ai possessori delle terre: dunque questi quando anco potessero abbandonarli non lo faranno mai; poichè ciò supporrebbe la perdita della ragione, o la perdita dell' amore a' proprŒ vantaggi Dall' istante adunque che i proprietarŒ delle terre non vogliono nè possono volere rinunziare ai vantaggi che a loro apportano le manifatture ed il commercio, avviene ch' essi si costituiscano di fatto dipendenti da questi rami industriali, come questi rami industriali sono dipendenti da essi. La dipendenza adunque è scambievole, ed è anche pari; poichè, lasciando di considerare se l' agricoltura potesse sussistere priva di qualunque maniera di arti, egli non è più cosa controversa, che l' industria manifattrice ed il commercio aumentano la produzione, e moltiplicano il valore di ciò che rende la terra più volte per se medesimo. Ella è questa moltiplicazione di valore, che produsse le arti ed il commercio. E chi la poteva produrre, se non i possessori delle terre somministrando le materie prime? Le arti dunque ed il commercio vennero ad esistere mediante una loro speculazione: allo stesso modo come il frutto della terra venne a prodursi mediante il lavoro ch' essi fecero della medesima. Come dunque il benestante dipende dalla terra per cavare della ricchezza, allo stesso modo dipende dalle arti e dal commercio per cavare dell' altra ricchezza. Che se potesse darsi il caso, che i benestanti rinunziassero pazzamente a questa seconda ricchezza, forse mossi dall' invidia del guadagno di quelli che si applicano esclusivamente alle arti ed al commercio, e che comperano da essi i prodotti primi, ciò sarebbe un fatto stolto ed ingiusto: sarebbe un abuso del diritto della proprietà, e non dovrebbe essere riguardato come legittimo nella fondazione della civile società: anzi questa dovrebbe proclamare e sancire una dichiarazione in contrario, riguardando i possessori di fondi terrieri, industriali, e commerciali come parti cointeressate nello stesso negozio, come socŒ tendenti allo stesso scopo, dei quali gli uni si aiutano cogli altri scambievolmente dividendosi gli offici dell' azienda comune: perciò tutti egualmente gli uni dagli altri dipendenti, o in un altro senso tutti egualmente indipendenti; indipendenti cioè dato per impossibile che si rompa tal compagnia, e che qualche parte della medesima cessi da' suoi officŒ. Alla seconda obbiezione, colla quale i proprietarŒ delle terre pretendevano che solamente i loro fondi fossero bastevolmente assicurati ed all' incontro i fondi industriali e commerciali fossero abbandonati alla sorte sui quali perciò non si poteva contare, la Commissione fece una risposta convincente presentando i seguenti riflessi. Ella è la legge che regola il prezzo delle cose, quella che può dileguare la difficoltà proposta. Per conoscere la legge che regola il prezzo delle cose bisogna prendere per regola una misura comune del prezzo, una materia che abbia qualche valore a cui paragonare le altre; e il danaro generalmente introdotto nelle società costituite somministra la misura del prezzo più acconcia di tutte. Valutiamo dunque il prezzo delle cose in danaro, o per dir meglio consideriamo la valutazione loro nel fatto. Quali sono dunque gli elementi che costituiscono questo prezzo, o questa valutazione delle cose? Sono due: 1 La ricerca delle medesime corrispondente ai bisogni che si hanno di esse, presa la parola bisogna nel senso più generale, nel quale si comprendono ancora i bisogni fattizŒ, i desiderŒ in somma. 2 L' acconciezza che hanno le cose a soddisfare questi bisogni, calcolando la facilità d' acquistarle, la loro quantità, la loro durata rispettiva ecc. ecc.. Egli bisogna ben intendere che questo prezzo delle cose appunto perch' egli risulta dal rapporto fra la somma de' bisogni delle medesime e la loro acconcezza a soddisfarli, non è già stabilito da qualche persona particolare (escluso il caso di monopolio) ma da tutta la società, nella quale le cose valutate sono in corso. Ciò posto, se i fondi industriali e commerciali sono soggetti al pericolo della sorte, egli è evidente che nella loro valutazione questo viene calcolato: e se non viene calcolato vuol dire ch' egli è realmente compensato dal valore della speranza di guadagno che gli accompagna. Nè i proprietarŒ delle terre possono già dire: che il prezzo che viene loro assegnato, e nel quale resta necessariamente calcolato anche il pericolo della sorte, non abbia che una giustezza approssimativa; poichè ciò ammesso non possono tuttavia cavarne conseguenza in loro favore; giacchè lo stesso si può dire della valutazione dei fondi terrieri e del prezzo di tutte le altre cose mobili e stabili che sono poste in circolazione nella società. Egli è impossibile adunque trovar altra via di valutar la ricchezza se non riportandosi al prezzo relativo delle cose, cioè al prezzo che acquistar possono messe in cambio con altre cose; del quale prezzo per conoscere la proporzione bisogna riportarsi ad una specie sola di cose, fra le quali la più comoda e la più usitata è il denaro. Trovato questo prezzo relativo, non v' ha più luogo a sconto; poichè questo prezzo è il risultato delle qualità stimabili dell' oggetto apprezzato, meno le qualità deterioranti, come sarebbe appunto la sua breve durata, la sua fragilità, la probabilità della sua perdita ecc. ecc.. A tale discorso taluno disse che, dato anche tutto ciò che la Commissione viene ad esporre, non ne seguirebbe punto altra conseguenza pei fondi industriali e commerciali che quella tirata per li mercenarŒ: cioè che dovessero avere una rappresentazione comune e non individuale; conciossiacchè la loro esistenza indipendente si provava collo stesso argomento che s' era usato a provar quella dei mercenarŒ. Ma la Commissione ne dimostrò la differenza; poichè supposto che un mercenario venga abbandonato dai committenti, egli che vive su suoi lavori non ha oggimai più onde vivere; mentre all' incontro, supposto anche lo strano caso che il possessore d' un fondo industriale o commerciale venga abbandonato a tale che debba desistere dalla sua professione, gli rimane ancora il suo fondo, il quale egli può vendere, e tramutare o in un fondo stabile o in un capitale fondato sopra un fondo stabile. Laonde rimane il diritto a ciascuno, che abbia un fondo capace di produrgli un sufficiente mantenimento, di essere rappresentato individualmente nell' amministrazione della civile società. Malgrado che i ragionamenti della Commissione fossero stati riconosciuti per giusti, e le sue proposte fin quì approvate, v' erano nulla ostante molti che si ridevano di ciò che si faceva, e che andavano mettendo in discredito i principŒ stabiliti ccol dichiararli impossibili di produrre un risultato pratico, i quali perciò sarebbero stati abbandonati ben presto, quando i negoziati si avvicinassero a conchiudere qualche cosa di fatto, e non si trattenessero come finor facevano nelle imaginarie regioni di un' aerea speculazione. Egli fu a costoro, i quali coi loro discorsi indisponevano gli animi dell' Assemblea, che prese a rispondere la Commissione nella sessione presente. Come è possibile, dicevan essi, che ogni menoma ricchezza materiale venga rappresentata nell' amministrazione? In che modo si potrà ottenere una proporzione giusta fra le persone che debbono comporre l' amministrazione? Si vuol forse fare una nuova divisione delle ricchezze materiali in un modo regolare, sicchè una persona abbia precisamente il doppio, il triplo, o il quadruplo dell' altra nè più nè meno? Ovvero (giacchè questo sembra contraddire ai principŒ rigorosi di giustizia stabiliti dalla Commissione) si lascierà da parte le frazioni che sortono nella valutazione della ricchezza? In tal caso la Commissione devierebbe da quello stesso rigore di giustizia che essa vanta fino alla noia. Ma poi, i fondi rimangono sempre gli stessi? Non si pretenderà mica di rendere immobili e stagnanti tutte le ricchezze della società? E se son esse soggette ad un continuo movimento, dovrà soggiacere alle stesse mutazioni anche l' amministrazione della Società? Che governo sarà allora cotesto, che muta tutti i giorni, e che è commesso all' aura della cieca fortuna alla guisa stessa della ricchezza? O vorranno forse quelli, che, essendo in possesso del governo, per qualche sventura impoveriscono, cedere bonariamente il posto a quelli che sulla loro disgrazia si sono arricchiti? Per quanto adunque sieno speciosi i principŒ della Commissione, debbono terminare col partorire del vento. La Commissione contrappose a questi e consimili mormorii un' ampia dottrina del diritto, su cui opinava doversi formare la civile società: disse, che quelle obbiezioni provenivano dall' essere stata l' Assemblea finora informata de' principŒ di naturale giustizia risguardanti il fine propostosi da conseguire, e non de' principŒ di giustizia riguardanti il mezzo onde ottenere quel fine. Riguardo al fine la legge naturale vuole, che gli uomini viventi nello stato di natura si raccolgano in una Società civile, come quella che è utile a tutti, e che perciò ciascuno ha diritto di domandarla agli altri; a quello stesso modo che ciascun uomo ha diritto di domandare agli altri una convenzione ragionevole intorno ai proprŒ interessi ogni qualvolta questi vengano in collisione cogli interessi degli altri e non si possa senza una convenzione cavare giustamente quella utilità che si caverebbe mediante un' equa convenzione. 1) La Società civile dunque è una specie di convenzione generale riguardante tutti gli interessi di tutti gli uomini conviventi; la quale diventa un obbligo della legge naturale ogni qualvolta, sentendone alcuni uomini la utilità, dimandano a' loro compagni che vengano a simile convenzione ed associamento. Ma questo associamento debbe essere posto sopra le basi della equità, e queste basi di equità furono dall' Assemblea riconosciute esser quelle che la Commissione propose. Or dunque si tratta di formare la società sopra queste basi. Ma queste sono impossibili, si risponde. E come, ripete la Commissione, non sono esse necessarie? Rimossa l' equità e la giustizia, che cosa rimane per principio formatore della società, se non l' arbitrio, o la forza, o il caso, quasi formare la società dovesse considerarsi come un gittamento di dadi? Bisogna dunque vedere fino dove si estende l' obbiezione, che il formare la società civile secondo l' equità sia impossibile: mentre finalmente dall' equità non si può recedere, e se l' equità, come si dice, fosse al tutto impossibile da ottenersi, bisognerebbe convenire, che impossibile fosse la società stessa: che questa lungi dall' essere un dovere morale fosse il frutto o del cieco accidente o della prepotenza, o di un inconcepibile accordo nella medesima stoltezza. Ma l' obbiezione stessa non ci si presenta in tal modo. Essa non dice, che le basi dell' equità già proposte sieno al tutto impossibili da praticarsi: dice solamente, che esse non sono possibili a praticarsi con tutto il rigore, e che praticate a rigore assai male conseguenze trarrebbero seco. Or via, qual' è dunque la forza dell' obbiezione? Ella sta in questo; che dovendosi l' equità osservare nella composizione della società civile, debbesi praticare in tutte sue parti: e che se si concede di deviare dalla medesima in qualche parte, non si vede più la ragione perchè medesimamente non possa concedersi di lasciare l' equità anche nelle altre: dall' istante che l' arbitrio è qualche cosa, non si vede la ragione, perchè non possa esser tutto. Se l' equità è la suprema legge, perchè si può in parte abbandonare? Se non è la suprema legge, perchè non si propone a dirittura la legge suprema, e dietro a quella non si forma la società? Ma tutta questa obbiezione non è che apparente; perchè se gli uomini sono obbligati a seguire l' equità, essi non sono però obbligati di seguirla se non in quel tanto, che essi la conoscono, e che hanno il potere di seguirla. Non è già con questo che essi abbandonino una parte della equità; mentre è coll' animo cioè con una vera volontà che essi sono obbligati di seguirla tutta. Se malgrado di questa loro piena volontà, per mancanza di cognizione o di potere, avviene che in qualche sua parte esternamente non la pratichino e non la realizzino; questa non è che una mancanza materiale, e non già morale; non seguono per questo meno tutta intera la equità. Ma v' ha di più. Siccome nissuno uomo è obbligato moralmente all' impossibile, così nissun uomo ha il diritto di chiedere l' impossibile dall' altro uomo. Se due facendo insieme una convenzione non possono trovare il giusto punto dell' equità, non debbono per questo venire a discordia, ma bensì sono obbligati di stringere la convenzione stessa secondo un' equità approssimativa. Questo è ciò che nasce continuamente nella vita umana. Supponete, che più persone debbano dividersi egualmente una grande eredità: egli sarà tante volte impossibile di fare le parti giuste di una esattezza matematica: le stime dei fondi non possono giammai essere che approssimative, perchè sono l' opera degli uomini; il credito dei debitori della massa anche esso non somministra che un dato di approssimazione; e può cagionare dei gravi sbagli. In somma l' eguaglianza matematica non si ha mai, nè si potrebbe conoscerla avendola: il diritto delle parti adunque non si estende ad esigerla; perocchè i diritti debbono essere sempre ragionevoli, e non possono esigere se non ciò che è possibile: e ciò appunto è quello che propriamente si chiama equità, per distinguerla dalla giustizia, colla quale si vede essere da questo esempio intimamente connessa. L' equità dunque si può dire che non sia se non se la giustizia in pratica; giacchè la giustizia speculativa si può rare volte ottenere nella pratica, e non potendo gli uomini d' altra parte chieder giammai l' impossibile, sono obbligati dalla ragionevolezza che debbe accompagnare i loro diritti, e che è pur essa un principio di giustizia, a restringere i medesimi a tutto ciò che è possibile, che è quanto dire, a cangiare ciò che è giusto in ciò che è equo, mentre il sommo diritto cessa d' esser diritto; ma, secondo il proverbio antico, diventa somma ingiuria. Or come nella giustizia propriamente detta consiste ciò che secondo la legge naturale si può prefiggersi per fine , così nella equità viene indicato quel mezzo onde secondo la legge naturale si debbe ottenere quel fine. Giusto è adunque il fine di una giustizia stretta , giusto è il mezzo di una giustizia che propriamente si chiama equità . Gli uomini sono obbligati da una legge morale di prefiggersi nelle loro convenzioni quel fine giusto; e perchè se lo debbono prefiggere efficacemente per ciò sono obbligati altresì di ottenerlo con questo mezzo giusto: la giustizia stretta nel fine: la equità nel mezzo di ottenerlo, ecco ciò che rende possibili fra gli uomini le convenzioni giuste. Applichiamo questi principŒ alla convenzione più estesa di tutte che possano far gli uomini, ossia alla formazione della civile società. Conviene prima di tutto nella formazione della medesima vedere quale sia il diritto che può reclamare in essa qualunque persona che si assembra e tratta insieme per parteciparne. Giacchè nessuna persona può essere costretta senza ragione a rinunziare ai proprŒ vantaggi, quindi è necessario prima di tutto vedere quali sieno i vantaggi che ciascuno può avere in detta società, quale il posto che ciascuno può convenevolmente occupare. Noi abbiamo fatto questa ricerca ed abbiamo riconosciuto che la parte che si può avere in detta società può essere di due specie che abbiamo contrassegnato coi vocaboli di rappresentazione passiva e di rappresentazione attiva: che la rappresentazione passiva conviene indistintamente a tutti gli uomini; mentre ragione vuole che non partecipino della rappresentazione attiva se non quelli che vivono sopra dei fondi di ricchezza materiale e ciò in proporzione di detti fondi. Questo pertanto è il fine giusto della società; fine nel quale debbono ragionevolmente convenire: e dico fine giusto perocchè nessuno dei membri sociali potrebbe esser costretto senza ragione a rinunziare ai vantaggi che a lui apportano le basi soprafissate: conciossiacchè sono ragionevoli e venienti come conseguenze dai diritti di ciascheduno. Questo fine pertanto debbe ciascun membro della società futura prefiggersi di ottenere nella istituzione della medesima, e non perderlo giammai dallo sguardo. Ma debbe tenersi in esso così costante lo sguardo per ottenersi pienamente? Non già: ma per ottenersi quanto più si può: mentre quand' egli si ottiene nel miglior modo che si può, si ottiene pienamente: giacchè la perfezione morale non consiste se non nell' uso di tutte le proprie forze per la consecuzione di ciò che è giusto, non già nell' ottenimento materiale di ciò che è giusto: questo si potrebbe ottenere senza aver fatto la giustizia. E` dunque un dovere della legge naturale la formazione della Convenzione civile nel caso da noi proposto: è un dovere della legge naturale volerla formare secondo le basi della giustizia di sopra da noi stabilite: finalmente è un terzo dovere della Legge naturale recedere dal proprio diritto in quella parte nella quale non si può ragionevolmente esigerlo dagli altri soddisfatto, perchè ciò sarebbe loro impossibile, come è impossibile esigere la esattezza matematica nella divisione di una possessione, di una casa, di uno stato. Ciò solo adunque che possono esigere scambievolmente gli uomini, che vogliono comporre insieme una civile società, si è che sia adoperata la maggiore esattezza possibile nella divisione del potere civile: ma nulla più: e per la maggiore esattezza possibile non altro debbesi intendere che quella che risultar può dai lumi comunicati di tutti i membri, e messi a profitto mediante l' esame dei SavŒ universalmente reputati per forza di mente, per provetto consiglio, e per integrità. Qualunque adunque sieno per essere nella pratica esecuzione degli articoli sopra esposti le deviazioni dai medesimi , queste debbono essere sempre accordate dalla Assemblea dopo che è stato dimostrato: 1 che esse sono necessarie per l' ottima consecuzione del fine sociale, cioè pel comune vantaggio; 2 ch' esse sono le deviazioni menome che far si possano, dati i lumi suggeriti dalle persone, che concorrono nella società civile da istituirsi. La esecuzione del sopraesposto progetto viene pienamente giustificata, quando avendo tutti i sozŒ ampia facoltà di comunicare i loro lumi nessuno di essi ha saputo suggerire di meglio: suggerire cioè degli espedienti che più dappresso s' avvicinassero all' esecuzione delle basi sopra poste di giustizia, e che diminuissero le deviazioni necessarie dalle medesime. Egli è da questo ragionamento che risulta la consolante verità « che l' uomo amatore della giustizia non debbe punto atterirsi dallo stabilire delle regole difficili all' esecuzione, ma che tutto ciò che è giusto per difficile ch' egli sia debbe essere tratto alla luce, ed ampiamente e coraggiosamente esposto: giacchè, perciò che abbiamo detto, tuttociò che è giusto è altresì possibile: purchè l' equità sia quella che s' interponga quasi mediatrice fra esso e gli uomini nell' esecuzione: quell' equità che consiste nel concedere le menome deviazioni da quelle regole: e che coll' accrescimento dei lumi concede sempre meno; perchè ritrova ognora degli espedienti migliori che minorano indefinitivamente quelle deviazioni, e conducono la pratica sempre più vicina indefinitivamente alla teoria. » Riassumendo le cose dette, la Commissione presentò in un nuovo aspetto quella parte di progetto della società civile da istituirsi, che finora aveva presentato all' Assemblea, e che difendendo passo per passo avea fatto adottare dalla medesima. Fece osservare che le due rappresentazioni proposte, cioè la passiva e l' attiva, la prima delle quali corrispondeva alla specie di diritti che è comune a tutti gli uomini, l' altra a quella specie di diritti che è propria dei benestanti, erano d' un' indole totalmente diversa: la prima aveva per iscopo la sicurezza , o difesa dei diritti; la seconda la ricchezza o l' aumento dei diritti, i quali erano quei due scopi a cui finalmente tendeva ogni civile società. Mostrò come la sicurezza o la difesa dei diritti era cosa partenente alla giustizia , e come la ricchezza o l' aumento dei diritti era cosa appartenente all' utilità : giustizia dunque ed utilità erano i due scopi suddetti della società che si trattava di istituire. Un potere adunque che trovasse o difendesse dove che sia la giustizia, ed un potere che cercasse e procacciasse l' utilità, erano i due perni su cui si volgeva tutta la società civile, a quel modo che la Commissione aveva creduto di progettarla. Questi due scopi erano al tutto necessarŒ da conseguirsi, e per l' umana dignità il primo più necessario ancora del secondo: dunque i due poteri che presiedevano a questi scopi erano supremi tutti due, e tutti due dovevano coesistere. Il potere che presiedeva alla giustizia non poteva avere altra forma che quella d' un Tribunale: il potere che presiedeva all' utilità non poteva avere altra forma che quella di un' Amministrazione: un Tribunale politico adunque ed un' Amministrazione erano i due poteri supremi della società; erano le due parti essenziali del governo della medesima. Questi due poteri, queste due parti essenziali del governo, il Tribunale politico e l' Amministrazione, corrispondono ai due modi dell' esistenza umana, cioè al modo di esistere come essere morale e al modo di esistere come essere sensibile: l' uomo esiste in tutti e due questi modi contemporaneamente: la società dunque degli uomini non può che avere anch' essa due modi di esistere, cioè un modo morale, ed un modo materiale e fisico: essa debbe essere mezzo che armonizzi queste due esistenze dell' uomo, e che nel mentre che essa procaccia di fare la felicità di lui come essere sensibile, non lo deteriori come essere morale. L' esistenza morale dell' uomo riguardo alle cose esterne che possono essere oggetto della civile società, viene conservata nella sua integrità mediante la giustizia, e per ciò mediante un Tribunale politico che a questa presiede; l' esistenza sensibile dell' uomo viene conservata e migliorata da una saggia amministrazione dei suoi beni, e perciò anche da una Amministrazione sociale che regola la modalità dei medesimi. L' esistenza risulta da una forza: come adunque v' ha esistenza morale ed esistenza sensibile dell' uomo, così vi ha una forza morale ed una forza sensibile. La forza morale si manifesta nell' uomo dalla reazione ch' essa fa contro tutto ciò che tenta di deteriorare nell' uomo l' esistenza morale: la forza sensibile si manifesta nella reazione che fa a tutto ciò che tenta di nuocere alla sua esistenza sensibile: nella società giocano le stesse forze, e reagiscono in tutte le direzioni: fa dunque bisogno di regolarizzarle perchè non la turbino, e questa regolarizzazione s' ottiene coll' instituire due centri delle medesime, i quali possano agire regolarmente ed ordinatamente: e questi due centri delle due forze elementari dell' uomo e della società sono le due parti elementarŒ del supremo potere: Tribunale politico, centro della forza morale nella società: Amministrazione, centro della forza sensibile o fisica nella medesima: nel primo si esercita ordinatamente, ma colla sua maggior attività la forza morale; nel secondo si esercita colla sua maggior attività la forza sensibile o fisica. Ecco la società civile corrispondente ai bisogni indeclinabili della natura umana. Da ciò la Commissione ne trasse come conseguenza massima: che la maggior cautela dovesse essere conservata, perchè nel Tribunale, centro della forza morale, non si mescolasse di nulla la forza sensibile e fisica: e finalmente credette venuto il punto da presentare all' Assemblea il Progetto del detto Tribunale già precedentemente apparecchiato (Lib. I) il quale progetto diligentemente esaminato da una Giunta apposita e dall' Assemblea stessa, fu finalmente ammesso. L' articolo delle elezioni per la composizione del Tribunale, che si doveva discutere, tornava più difficile a stabilire, che quello sulle elezioni dei membri dell' Amministrazione, poichè per costituire un membro dell' Amministrazione si aveva un dato materiale, qual' era la ricchezza materiale che bastava verificare: all' incontro per eleggere un membro al tribunale politico, nella cui elezione non si doveva riguardare ad altri dati che alla virtù ed alla scienza, non si aveva nulla di esterno, che potesse prestare una certezza fisica, e che escludesse ogni controversia; per cui anzichè ai dati esterni conveniva rimettersi in tali elezioni all' opinione, o sia all' intimo senso degli elettori. Nulla di meno la ricognizione della ricchezza come titolo del diritto di rappresentazione attiva, o sia come titolo al potere amministrativo, ammetteva naturalmente molte frodi, ed eccitava infinite controversie, mentre tutti i benestanti aspiravano ad acquistar la maggior parte possibile del potere civile. Ciò vedendo la Commissione, e dalle dissensioni che nascevano assai chiaramente scorgendo che non era possibile di farli convenire fra di loro, anzi che avanzandosi le discordie minacciava di sciogliersi l' Assemblea senza far nulla, prese il partito di proporre all' Assemblea la seguente proposizione: « Sieno sospesi tutti i negoziati per instituire l' Amministrazione sociale, e si proceda prima all' instituzione del Tribunale politico, innanzi al quale ognuno potrà poscia presentare le ragioni ch' egli ha di partecipare al potere, o sia lo stato della ricchezza ch' egli possiede, e dietro la ricognizione che farà della medesima il Tribunale, ciascuno prenderà il posto che gli spetta nell' Amministrazione sociale. » Essendosi riconosciuta l' equità della proposizione si rivolse l' animo alla composizione del Tribunale politico, che si realizzò secondo il metodo preso dietro alle successive proposte della Commissione. La sola qualificazione che si richiedeva, secondo i principŒ posti, per essere membro del Tribunale politico, consisteva, dopo la libertà, in un grado universalmente riconosciuto come eminente d' integrità e di scienza. In tal modo l' uomo il più misero poteva essere sollevato a quella parte del supremo potere che consisteva in un tal Tribunale. Nè solo tutti i liberi, proprietarŒ e non proprietarŒ, potevano esser chiamati a questo genere di dignità: ma ben ancora questo Tribunale era fatto per tutti egualmente: proteggeva i diritti di tutti, ed in cospetto a lui tutti erano eguali. 1) Ciò premesso, gli elettori dei membri di questo Tribunale doveano dare il loro voto come uomini, e non come ricchi, o come forniti di qualche accidentale differenza dai loro simili; dovevano darlo come esseri morali, e in stretta coscienza, sotto il più grave giuramento. Ma quali dovevano essere questi elettori? Tutti quelli di lor natura che potevano considerarsi come esseri morali, tutti gli uomini giunti all' uso di ragione. Questa fu l' idea generale seguita dalla Commissione, e suggerita dalla natura del detto Tribunale. Ma nel tradurla in una legge fu cauta di non obbliare le relazioni naturali, che legavano insieme gli uomini, e dalle quali, in qualunque circostanza questi si trovassero, non potevano prescindere: che perciò dovevano conservarle anche nello stato di elettori dei membri al politico Tribunale. La legge adunque proposta dalla Commissione sugli elettori del Tribunale politico fu distinta negli articoli o paragrafi seguenti: 1 I voti sono tanti quanti gl' individui nella società: quelli che non sono in possesso dell' uso della ragione lo danno mediante i genitori, od i tutori, o i curatori. 2 Ciascuno che è ammesso a dare da sè il voto elettivo non può delegare alcun altro a questo ufficio, senza stretta necessità. 3 Tutti i capi di famiglia hanno il diritto e il dovere di dare il voto elettivo. 4 Le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei padri: i mariti danno, oltre al proprio, un voto per la moglie; ed i padri e le madri vedove oltre il proprio danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli di qualunque età sieno. 5 Dopo instituito il Tribunale le mogli ed i figliuoli non emancipati possono essere abilitati dal Tribunale medesimo al diritto di voto, quando ciò esigano per giuste cause contro i mariti ed i padri, o le madri vedove. del voto. Discutendosi il primo articolo di tal legge taluno disse che sembrava dover essere necessario negli elettori non solo l' uso della ragione, ma l' età maggiore. La Commissione osservò contro tale obbiezione che nell' uomo non si esigeva già egual grado di ragione per qualunque operazione ch' egli facesse: che coll' età maggiore veniva dichiarato abile ad amministrare il suo patrimonio: il che richiedeva maggiore cognizione e capacità che non sia a dare il voto di cui si tratta; poichè lo scopo di questi voti non è solamente quello di ritrovare le persone più scienziate e virtuose, ma oltre di ciò di trovare in particolare le persone più ben amate, le più benevoli, le persone cioè che non abbiano particolari avversioni ed inimicizie: quindi il voto si debbe considerare anche come una dichiarazione, che la persona votata si riguarda come benevola e affezionata: su di che può recar giudizio chi che sia in possesso dell' uso della ragione. Fissandosi l' età maggiore per qualificazione dell' elettore si escluderebbero molti arbitrariamente di quelli che pur avrebbero diritto di votare, e la deviazione dalla rigorosa giustizia non sarebbe la menoma: non sarebbe dunque equa tale arbitraria esclusione. In conferma del secondo articolo la Commissione dimostrò il danno che ne avverrebbe, se si rendesse possibile di accumulare arbitrariamente molti voti in una stessa persona: accumulazione contraria all' intima natura della istituzione; poichè essa è basata sul principio che tutti gli uomini sono giuridicamente eguali; cioè che tutti gli uomini sono egualmente esseri morali. Il voto che si dà è fornito di tre caratteri, e fa tre ufficŒ diversi: 1 rappresenta l' essere morale , ossia i diritti essenziali dell' uomo; 2 esprime un giudizio sulla scienza e virtù dei candidati ed esprime insieme il desiderio , o affezione generale dei candidati: affezione che è il segno della mutua loro benevolenza; 3 finalmente è un atto di autorità e di forza morale, che ha le sue conseguenze esterne, nel modo onde segue l' istituzione. Ora egli è da tenersi qual principio fondamentale « che il perdere alcuno di questi tre effetti del voto senza ragione è dannevole alla società, e rende difettosa l' istituzione. »Ciò posto, se non s' impedisce l' accumulazione arbitraria dei voti, si vanno a perdere i due primi ufficŒ del voto e a guastare il terzo. In fatti il primo suo officio, come diceva, è quello di rappresentare l' essere morale , o sieno i diritti essenziali dell' uomo. Ora in quanto a questo officio egli è assurdo che un uomo possa dare due voti; mentre non è che un solo essere morale. Non è dunque possibile che un uomo deleghi un altro a dare il voto per lui; mentre qualunque voto desse questo secondo non sarebbe che l' espressione del proprio giudizio e non quello dell' altrui; egli è dunque necessario che ciascuno che dà il voto lo dia da se stesso; come è necessario che un uomo che pensa, pensi da sè stesso: e sarebbe assurdo affermare che si pensa per la ragione che v' ha un altro che pensa. Medesimamente il voto per delegazione non supplisce al suo secondo ufficio e in quanto a questo ufficio è pure di natura sua inalienabile. Questo voto riguardo al suo secondo effetto è un giudicio che si dà sui candidati. Ora il giudicio di una persona non può essere che uno. Quando io ho ricevuto da una persona il suo consiglio in un affare, è assurdo il pretendere ch' esso me ne dia un altro; mentre sarebbe pur un consiglio solo ripetuto due volte, e non mai due consigli. I voti adunque degli elettori sono tanti consigli o giudicŒ, e perciò niuno di essi può avere il diritto di darne più che un solo; perchè ha una mente sola, una volontà sola, ed è un uomo solo. Finalmente egli è vero che considerati i voti come meri atti di autorità si possono di loro natura accumulare, ciò che la Legge riconosce riguardo ai padri, ai mariti ed ai tutori. Ma questa accumulazione quando fosse arbitraria porterebbe alterazione nella Costituzione sociale; perocchè i ricchi potrebbero comprare in tal modo i voti dei poveri, e gl' ignoranti sacrificare se stessi alla altrui avidità: in tal caso il Tribunale politico non otterrebbe più il sacro suo scopo di opporre una forza morale agli abusi della forza fisica; di difendere cioè tutto ciò che è debole nella società contro tutto ciò che in essa è forte. Il terzo articolo incontrò opposizione in ciò che parve aggravarsi di un peso i capi di famiglia coll' obbligarli a dare il voto. Ognuno, fu detto, debbe poter rinunziare quand' egli voglia al proprio diritto. Rimane forse offeso qualcheduno perchè altri rinunzia al diritto che possiede? Se alcuno rinunzia al proprio diritto, gli altri lungi dal perdere ne guadagnano; perocchè approfittano del diritto abbandonato. Ma quelli che così parlavano non si accorgevano, come fece osservare la Commissione, che non si trattava di una società civile a quel modo ch' ella si trova instituita presso varŒ popoli, in cui vi fossero già delle persone che s' incaricassero di tutte le incombenze che la società civile porta con sè, sicchè il resto dei cittadini ne rimanesse al tutto scarico. Nella società civile all' incontro che volevasi instituire era necessario, che fosse stabilito parimenti fra i membri un corpo di persone che assumessero sopra di sè, come dovere, le incombenze della medesima, perchè queste non fossero lasciate ad arbitrio, o commesse alla ventura. Che riguardo a quest' incombenza particolare di eleggere il Tribunale politico era necessario di stabilire un corpo di elettori stabile: ed era necessario che questi s' obbligassero a ciò: affinchè per una continua titubanza nel numero e nella qualità degli elettori la società stessa non perisse, o almeno il Tribunale politico riuscisse a non essere più l' espressione della volontà di tutti, ma l' espressione della volontà casuale di pochi. In questo secondo caso egli potrebbe fors' anco esistere il diritto, giacchè col non venire all' elezione di molti, questi si rimetterebbero tacitamente al volere dei pochi, quando ciò fosse da principio accordato: ma egli non esisterebbe veracemente di fatto: egli non potrebb' essere nè amato nè venerato; giacchè per esserlo, tutti i cittadini debbono veder in esso l' opera propria. Finalmente che cosa si cerca in tal' elezione? si cerca forse l' instituzione di un Tribunale solamente? non già, ma si cerca di ottenere l' instituzione del Tribunale il più sapiente, il più integro, il più ben voluto, il più autorevole, il più rispettabile. Questo si può egli ottenere, se non mediante il parere della maggior parte al meno della nazione? se adunque vengono a mancare dei voti dei padri di famiglia, vengono a mancare insieme dei lumi per ciò ottenere: vengono a mancare dei pareri e dei voleri; viene a mancare insomma parte dell' opinione pubblica. Ciò nuoce di certo allo scopo dell' instituzione: si rende adunque necessario che la società non sia privata dei voti dei capi di famiglia, e questo è un obbligo che si debbono assumere dal punto che vogliono unirsi in una società civile equamente ordinata, altrimenti sarebbero in contraddizione con se stessi. Si domandò che cosa dovevasi intendere per capo di famiglia; e dopo varie proposte fu convenuto, di estendere la definizione del capo di famiglia a qualunque persona libera che non fosse soggetta all' autorità paterna o materna, maritale, o tutelare o curatoria. 1) Maggiore dibattimento cagionò il quarto articolo, col quale si escludevano dal dare il loro voto a parte le mogli ed i figliuoli, perchè si consideravano i voti di questi compresi in quelli dei mariti e dei padri; e si dava all' incontro al marito il voto della moglie, al padre i voti dei figliuoli. Le ragioni di questo articolo altre riguardano la prima parte, ed altre la seconda del medesimo. Cominciando dalla seconda parte essa dice, che i mariti « oltre il proprio, danno il voto per la moglie, ed i padri, oltre il proprio, danno altrettanti voti quanti sono i loro figliuoli. » Il voto, considerato come un atto d' autorità, spiega questa seconda parte, supposto la prima ammessa: poichè non conveniva che una famiglia numerosa avesse un solo grado di potere (giacchè un atto d' autorità è un grado di potere) come una famiglia formata da una sola o da due persone. Poichè nella famiglia numerosa vi sono tanti più diritti da difendere e da rappresentare quanto è maggiore il numero delle persone che la compongono. Perchè adunque gli uomini fossero trattati con quella eguaglianza che richiede la natura della istituzione conviene che i voti stieno in ragione del numero delle persone componenti la famiglia. Si oppose che i padri poveri, i quali non hanno da alimentare i loro figliuoli, non debbano avere il vantaggio di dare i voti pei medesimi. Ma si osservò ancora che ciò che dava al padre simil diritto era l' esser padre, e non l' esser ricco: e che come la società civile non poteva fare che non fosse padre, così non doveva neppure negare al medesimo ciò che nasceva dalla sua paternità; il pieno diritto sopra i suoi figliuoli. La prima parte dell' articolo quarto diceva: « che le mogli ed i figliuoli non emancipati non danno il voto elettivo, perchè la loro volontà si considera contenuta in quella dei mariti e dei genitori. » L' opposizione esagerò il pericolo, che i padri e i mariti abusassero di tale autorità, disse che riunendo nei padri e nei mariti i voti dei figliuoli e delle mogli si privava la società di un maggior numero di consigli; e si accumulava in un solo uomo, cioè nel capo di casa, troppa autorità ed inadatta, perchè il Tribunale doveva essere costituito anche contro gli abusi della potestà paterna, e della maritale; che si deviava con ciò dal principio che rispetto a questo Tribunale tutti gli uomini fossero uguali, giacchè con tale accumulazione di voti si considerava il padre fornito di più voti, ed i figliuoli privi di tutti. Ma la Commissione all' incontro: Non si debbe intendere nel modo degli opponenti il principio che il Tribunale considera gli uomini tutti eguali. Questa uguaglianza comincia solo allora che due parti vengono fra di loro in discordia: prima di questo tempo le persone nulla hanno a fare col Tribunale; ed elle sono rispetto al medesimo come se non fossero. Il Tribunale adunque non altera punto le relazioni naturali fra gli uomini: e se li suppone eguali ciò è nel solo punto della discordia, innanzi cioè che si sappia a cui delle due parti appartenga il diritto conteso. Se dunque il Tribunale non altera punto le relazioni naturali degli uomini, che pacificamente si riconoscono e si conservano; ma solo interviene allorquando accade che qualche punto non sia riconosciuto o venga messo in questione, sarà da vedere quale naturale e riconosciuta relazione soglia trovarsi tra i genitori ed i figli, tra le mogli ed i mariti; e secondo il detto d' un savio antico, ciò che è naturale dovrà cercarsi non già nella depravazione, ma anzi nella integrità della natura. 1) Ora considerata l' indole della famiglia non depravata, noi troveremo la volontà dei figliuoli essere al tutto indivisa da quella dei padri, e la volontà delle mogli essere al tutto indivisa da quella dei mariti. E` l' amore che di più volontà ne forma una sola: e questo amore non solo è naturale, ma ben anche è doveroso. La società civile adunque debbe riconoscerlo, la società civile debbe sancirlo: egli è uno stretto dovere del figliuolo di convenire fino agli estremi della onestà col volere dei suoi genitori, come è un dovere della moglie di uniformarsi al volere del marito. D' altro lato i genitori, come fu già osservato, hanno sopra i loro figli un diritto, non già arbitrario, ma tuttavia illimitato, cioè che dalla parte dei figli non ha coazione reattiva. Se dunque viene istituito il Tribunale per tenere nei suoi doveri gli stessi genitori, questo tuttavia non viene ad istituirsi che mediante la ragionevolezza degli stessi genitori: questi sono quelli che da un prudente timore della propria fragilità sono indotti a sottomettersi a un Tribunale: prendendo nel tempo di calma una tale risoluzione, che può raffrenarli nel tempo dell' agitazione, e contenerli dagli eccessi. Egli è dunque conforme alla natura della cosa che i voti dei figliuoli sieno dati dai padri, il qual discorso, sebbene non si possa applicare con tutto rigore alla condizione dei mariti, perchè le mogli hanno almeno il diritto sulla propria vita, tuttavia può applicarsi in parte per la strettezza del nodo maritale. Che se i padri ed i mariti operando contro la loro naturale relazione tiranneggiassero i figliuoli e le mogli, questi dopo l' instituzione del Tribunale potrebbero secondo il quinto articolo far riconoscere dal medesimo la propria causa ed acquistare il diritto di voto separato: poichè in questo caso di disunione comincierebbe l' azione del Tribunale, e dall' istante che comincia quest' azione le persone legate insieme diventano relativamente alla medesima uguali. Egli è vero che ciò non può aver luogo nella prima instituzione del Tribunale, nel qual tempo il Tribunale ancora non esiste a cui richiamare; ma questa piccola irregolarità, di natura sua inevitabile, non è che una di quelle deviazioni che si fanno dalla rigorosa giustizia per mezzo della equità, la quale, come dicevamo, è la sola giustizia pratica. La proposizione all' incontro fatta dagli opponenti, che i padri raccogliessero i voti dei loro figliuoli ed i mariti quel delle mogli, costituirebbe e autorizzerebbe legalmente una falsa posizione dei padri rispetto a' figliuoli, e dei mariti rispetto alle mogli: perocchè i figliuoli che vedono costantemente il padre aver bisogno de' loro voti, si formerebbero e con ragione, un' idea di eguaglianza fra sè ed il padre, e la moglie fra sè ed il marito, mentre l' idea che i figliuoli debbono avere del padre è, come dicevamo, quella di una superiorità, arbitraria no, ma sì illimitata: cioè tale che non vi sia nessun caso in cui essi credano: d' avere all' esterno qualche diritto, qualunque egli sia, indipendentemente dal padre: e così pure l' idea che la moglie debbe formarsi del marito si è di un' autorità amorevole, dalla quale essa non avvenga che mai dissenta in nessuna delle esterne relazioni. Coll' introdurre adunque nella famiglia un tal simbolo di eguaglianza fra il padre ed i figliuoli, la moglie ed il marito, si altererebbe la costituzione naturale della famiglia, si introdurrebbe in essa una eguaglianza costitutiva in luogo dell' eguaglianza giuridica: e l' elemento democratico, che nel Tribunale politico debbe apparire soltanto in quel punto che nascendo una discussione o dissensione fra due parti, queste debbono comparire al suo cospetto per riceverne la sentenza, ciò che è quanto dire, che debbe comparire soltanto nelle accidentali irregolarità, si trasporterebbe e pianterebbe nello stesso corso regolare alterando in tal modo l' ordine legittimo e naturale. A mal grado di tutto questo ragionamento il principio che fosse meglio prevenire i disordini anzichè emendarli dopo avvenuti, faceva impressione sull' Assemblea, e la inclinava dalla parte degli opponenti; giacchè pareva che col dare a' figliuoli ed alle mogli un voto separato, si evitasse l' abuso che potevano fare i mariti ed i padri della loro autorità. Per il che la Commissione, movendo da più alti principŒ il suo discorso: Pretenderete voi, disse, di esser più savŒ o più potenti dell' autore della natura, il quale stabilendo l' autorità paterna e la maritale le ha fatte di una tanta estensione di quanta voi essere la scorgete? si è egli trattenuto dal concedere ai padri ed ai mariti tanta autorità quanta essi hanno pel timore che ne facessero abuso? E se a malgrado del pericolo che v' era di questo abuso, tale e tanta la diede loro, non è ciò segno che doveva più giovare assai questo forte grado di autorità, che non nuocere tutta quanta la possibilità degli abusi? sì, nuocono gli abusi: ma nuoce anche diminuire il grado dell' autorità di cui s' abusa: conviene ricercare quale più nuoca. Dio l' ha deciso: ha permesso gli abusi anzi che togliere l' autorità. Questa l' ha lasciata in tutta la forza del suo diritto: quelli li ha raffrenati con una legge morale, ma non giuridica. Imitate dunque l' autore della natura. Potrete anzi non imitarlo? avrete autorità di derogare a ciò che egli ha stabilito? Non sapete voi che contro alla legge naturale tutta la legislazione umana è nulla e irrita per sè stessa? Orsù accingetevi della vostra autorità, e fate se potete, che il padre non sia padre, e il marito non sia marito. Se voi convenite insieme di dichiararli decaduti dai loro diritti, la vostra dichiarazione arbitraria varrà al più al più fino che voi vivrete: i padri ed i mariti che succederanno dopo di voi, riprenderanno il loro potere, e non si crederanno, con ragione a dir vero, obbligati ad una disposizione arbitraria dei loro precessori. Introducendo adunque una tale disposizione contro natura nella costituzione della società, non fareste che render fragile questa costituzione, e di una esistenza momentanea, come è momentaneo l' arbitrio degli uomini, mentre dovete procacciare di renderla ferma e stabile quanto è stabile la natura. Non gettate adunque nella costituzione sociale quei semi che fruttano la dissensione fra i vostri posteri e le turbazioni dello Stato. Per quello che voi dite, che i mali si debbono anzi prevenire che emendare dopo avvenuti, questo è vero fino che si può: ma havvi un limite oltre al quale non si può. Vorreste voi prevenire i mali col fare voi stessi dei mali, o almeno coll' occasionarne degli altri in futuro? Ecco il limite che aver debbe la vostra proposizione, che sia meglio prevenire colle istituzioni i mali, che emendarli dopo avvenuti. Le istituzioni sociali, che non hanno di lor natura altro scopo che di prevenire i mali, sono eccellenti; perchè lo scopo loro è lodevolissimo, e tali sono le leggi, ed i Tribunali criminali. Ma quando si vuol piegare al fine di prevenire i mali quelle istituzioni che di loro natura hanno anche un altro scopo, allora si va bene spesso a pericolo, che volendo con queste ottener due fini, non se ne ottenga nè pur uno, e che lusingato l' autore di quella instituzione da questo fine accessorio di evitare tutti i mali che l' instituzione può nel suo andamento produrre, perda interamente di vista lo scopo stesso della instituzione. Le instituzioni civili di questo secondo genere sono tutte quelle che si propongono di regolare i diritti scambievoli degli uomini pel massimo vantaggio possibile dei medesimi. Il maggior vantaggio possibile che ciascuno può trarre dai suoi diritti è lo scopo naturale di tale instituzione. Ora se il legislatore troppo minuto o troppo materiale in luogo di tener sempre fisso col pensiero questo scopo si ferma ad ogni istante a considerare tutti i pericoli possibili che l' instituzione trae seco, e se vuole a tutti mettervi un riparo, egli avverrà indubitatamente che un poco alla volta leghi i diritti di tutti gli uomini, ed anzi continuamente li diminuisca e li distrugga; perocchè non v' è nè pure un diritto che non porti seco il pericolo del suo abuso. Le instituzioni di un tale legislatore riescono tutte false: alterano tutta la naturale posizione degli uomini, e la società civile acquista un organizzazione complicata, e tutta angustiata da vincoli inesplicabili; le leggi si moltiplicano immensamente senza necessità; perocchè ciascuna legge ne chiama delle altre all' infinito, giacchè nel mentre ch' essa vuol rimediare ad un disordine, contorce il naturale stato delle cose, e ne produce infiniti altri. Questo disordine nell' organizzazione sociale, questa falsità nelle istituzioni si scorge da per tutto dove la società sia caduta in una grande corruzione. In tal caso la corruzione sociale strascina lo stesso legislatore, per quanto avveduto egli sia, a delle instituzioni totalmente false; perocchè non v' ha uomo d' ingegno, che posto in una posizione falsa, non sia costretto di fare dei passi falsi. Nella società corrotta gli abusi che gli uomini fanno dei loro diritti si rendono assai frequenti, sì che chiamano con gran forza a sè il legislatore; la loro frequenza arriva a segno che se non viene compressa, minaccia di sovvertire la stessa società, ed è allora il caso che richiama a sè la principale sollecitudine del legislatore: allora è il caso in cui il legislatore concentra il suo studio nel prevenire mediante le sue instituzioni gli abusi, e crede di aver toccato l' apice della sapienza politica, quando è arrivato a persuadersi che il suo ingegnoso ritrovato soddisfi a questo fine. Egli é però impossibile che vi soddisfi pienamente; perciocchè quel mezzo ingegnoso con cui egli ha pensato di ovviare ai disordini, quelle sue instituzioni, che ha tutte ad un simile fine ordinate, sebbene partano dal principio che gli uomini per cui sono fatte sieno cattivi, tuttavia non possono mai supporre una perversità illimitata; tutta la loro lode consiste nell' esser formate da un uomo esperimentato che ha saputo ben conoscere fino al fondo gli uomini del suo tempo, e che ha vedute e calcolate tutte le loro malizie. Non poteva però vedere né immaginare quelle malizie che gli uomini non avevano ancora inventate, giacché il germe che produce tali frutti é di una fecondità inesausta. Egli é per questo che non v' ha istituzione o legge che non possa essere ben presto elusa da un maggior grado di corruzione. Ed egli é da attribuirsi a questa crescente corrutela in gran parte il continuo assottigliarsi dei politici dei nostri tempi, ed il continuo mutar di sistema, condotti da una speranza che continuamente gl' inganna, di giungere all' invenzione di un' organizzazione sociale, che antivegga e preoccupi tutta l' umana perversità. I sistemi politici foggiati su tale principio relativi al tempo in cui sono fatti, ed al grado di corruzione di cui sono arrivati i loro autori a formarsi l' idea, durano un breve tempo, cioè fino che subentra una politica ancora più diffidente, la quale o si rende odiosa, se gli uomini prendendo un andamento favorevole alla moralità trovino infine di vivere sotto instituzioni che li superano nella malignità, ovvero diventa inutile se procedendo gli uomini nella malizia lasciano a dietro in questo miserabile corso la legge che li governa. Ma intanto, come diceva, che le leggi e le istituzioni politiche sono unicamente occupate nel prevenire i mali eventuali che può opporre contro di esse la umana perversità, insensibilmente si snaturano e perdono di vista totalmente lo scopo sostanziale della loro esistenza. Vorrete voi rimediare ai mali eventuali dell' unione maritale? Se soverchiamente siete di ciò solleciti, stabilirete il divorzio, ecco snaturata l' unione maritale. Volete voi prevenire tutti i mali dell' abuso dell' autorità paterna? legherete le mani al padre: ed ecco snaturata la relazione fra padre e figlio. Se un Maestro insegna ai suoi discepoli una scienza, v' é il pericolo ch' essi deferendo troppo alla autorità del maestro apprendano più colla memoria che coll' intelletto. Voi eviterete questo male se ordinerete che ciascuno debba imparare da se stesso senza maestro; ma nello stesso tempo renderete ignoranti tutti gli uomini. Vi dà soverchio timore che il Generale abusi del suo potere sull' esercito? Se voi farete un' instituzione che metta disunione o diffidenza delle armate verso i loro generali distruggerete l' effetto delle militari ordinanze. Il ricco può abusare delle sue ricchezze: prescrivetegli l' uso ch' ei ne debbe fare: voi avete violato il diritto di proprietà: si può dire la stessa cosa analizzando tutti i diritti grandi e piccoli, che sono in mano degli uomini, perchè non ve n' ha alcuno di cui essi non possono abusare. E` dunque da osservare diligentemente qual sia la natura delle instituzioni sociali. Sono esse tali che determinano in se stesse la relazione che hanno gli uomini fra di loro, e determinandola la corroborano, ed è egli questo il loro scopo? In tal caso non si debbono esse contorcere e guastare per ovviare agli abusi a cui sono soggette tali relazioni per altro naturali degli uomini: esse si debbono lasciare intatte, sicchè sieno espressioni fedeli di dette relazioni naturali, e non si alterino punto: e quando ci sia il caso per levare gli abusi delle medesime, si debbono attorniare di altre instituzioni rivolte a questo fine particolare senza che guastino quelle e le contraffacciano. Generalmente parlando adunque sono da distinguere le instituzioni sociali, le quali contengono un' espressione fedele dei diritti naturali, ed hanno per iscopo la prosperità dei medesimi, dalle instituzioni sociali, che sono rivolte unicamente a prevenire i disordini: questi due scopi di far fiorire i naturali diritti fra gli uomini e di prevenirne i disordini, non si debbe congiungerli insieme, non si debbe pretendere di conseguirli con un solo genere di instituzioni, mentre è ben raro che un' instituzione sola possa conseguire ambidue questi scopi, e di solito conviene proporsi di conseguire il primo scopo, cioè quello che sostiene e fa fiorire i diritti naturali degli uomini con un genere di instituzioni, le quali si potrebbero nominare stabilitive: e di conseguire il secondo scopo, cioè di evitare gli abusi dei diritti umani, con un altro genere a parte d' instituzioni le quali si potrebbero chiamare preventive e repressive , che sono d' un carattere totalmente diverso dalle prime. Le instituzioni false dunque nascono allorquando si contorcono le instituzioni stabilitive 1) dal naturale scopo di far fiorire e di dar risalto, anzichè di reprimere i diritti degli uomini, ad ottenere lo scopo proprio delle instituzioni preventive o repressive; cioè a prevenire i delitti degli uomini. Egli è vero, come diceva, che quando la società trovasi estremamente corrotta, il legislatore è costretto di fare delle instituzioni false; 1) è costretto di confondere quei due generi d' instituzioni in un solo: quei due scopi delle medesime in un solo; cioè in quello tendente colla repressione degli abusi a salvare la società. Egli è costretto a ciò perciocché le instituzioni stabilitive sono di loro natura non solo inutili per una tale società, ma ben ancora nocevoli: conciossiacchè esse danno risalto ai diritti degli uomini, e dando risalto ai loro diritti non fanno che accrescer loro le occasioni di abusarne. In una tanto deplorabile posizione gli uomini vengono ad essere giovati coll' esser privati dei loro beni: ed è il tempo in cui la tirannia si proclama come la benefattrice del genere umano! Le instituzioni false esprimono o suppongono che gli uomini sieno in relazioni false fra loro: se gli uomini non hanno fra loro queste false posizioni, le instituzioni false a poco a poco ve le introducono; se queste relazioni false già vi sono fra gli uomini, esse producono a vicenda le false instituzioni e le false leggi. La schiavitù antica era una falsa relazione fra gli uomini: essa doveva produrre tutte quelle false leggi e quelle false instituzioni, che si rendevano necessarie per farla fiorire e per invigorirla: quelle che mettevano in salvo il padrone dalla disperazione dei suoi schiavi: quelle ancora che dalla morte degli schiavi autorizzavano di cavare dei giuochi e delle pubbliche ricreazioni. Non v' ha nessun falso diritto, o sia nessuna falsa relazione degli uomini fra di loro che non abbia portato in conseguenza delle false instituzioni e delle false leggi. All' incontro delle false leggi e delle false instituzioni producono sempre delle relazioni false fra gli uomini, se essi vivono per lungo tempo soggetti alle medesime; ma rare volte sono durevoli, mentre quando la instituzione non va d' accordo colle relazioni fra gli uomini, se questi hanno qualche energia nel loro carattere, si ribellano alle medesime e le distruggono: ed è questo che vi diceva quando avvertiva, che portando voi l' eguaglianza costitutiva nelle famiglie colla legge proposta fareste una instituzione che non poteva durare a lungo, e che avrebbe portato il turbamento nella società, giacchè nissuna instituzione fondamentale viene mutata senza scossa: ma la società stessa vien tirata nella rovina della instituzione che si vuol distruggere fino che sulle proprie rovine di bel nuovo si costruisca. Egli è vero, lo ripeto, che i legislatori sono costretti a delle istituzioni false, allorquando la società è estremamente corrotta; in tal caso tutta l' attenzione del legislatore viene tratta a difendere la società dal suo esterminio, e non a costruirla a norma della sua naturale perfezione: a quello stesso modo che la regola di vita migliore per la salute dell' uomo, nel suo stato naturale, non può esser già quella che si usa con un uomo corroso in più parti da fare cancrene. Ma, se tali instituzioni, che si possono dir false ogni qualvolta si applicano a regolare una società di uomini nel suo stato naturale e non nello stato di corruzione, sono in quest' ultimo stato necessarie, esse però non possono giammai essere che temporanee, cioè fin che dura il morbo della società, il quale nelle nazioni cristiane non è incurabile giammai, conciossiacchè il carattere proprio di queste nazioni è quello di essere sanabili. 1) Ora io spero che non si tratti di fare fra di voi una instituzione temporanea, ma costante com' è l' umana natura. Lo stato di questa gente che si vuole insieme associare non è già quello di corruzione sociale; ma è uno stato di natura in cui gli uomini non sono legati insieme per falsi vincoli: in cui la ragione non è ottenebrata da vizŒ, o non è per una somma ignoranza impotente: 2) in cui finalmente l' onestà e la giustizia non sono voci vane che si usino come mezzi ad ingannare od a tradire, ma sono voci che parlano al cuore di tutti, mediante le venerande idee che in quelli risvegliano. Se adunque i mariti ed i padri abusano della loro autorità, questi abusi non possono essere che accidentali e minori di numero dei casi in cui non abusano: questi casi dunque particolari di abuso non danno diritto alla società civile di legare la stessa autorità (ciò che d' altronde far non potrebbe validamente) ma lasciando quella sussistere, danno il solo diritto di ovviare gli abusi con delle instituzioni particolari ed a tal fine appositamente ordinate. Se delle instituzioni costituissero l' autorità dei padri e dei mariti in un modo diverso da quello che tale autorità è costituita dalla natura, queste sarebbero instituzioni false: cioè sarebbero instituzioni, stabilitive , ossia che stabiliscono una relazione fra gli uomini, le quali si rivolgerebbero ad un altro scopo diverso da quello della loro natura, allo scopo vale a dire di ovviare gli abusi della detta relazione fra gli uomini e così si snaturerebbero, mentre per ottenere un tal fine verrebbero a stabilire la detta relazione fra gli uomini in un modo diverso da quello che la stabilisce la natura: si allontanerebbero in tal modo dal fine proprio per conseguire il fine delle instituzioni di un altro genere cioè delle instituzioni preventive e repressive . Ad ovviare dunque gli abusi dell' autorità paterna e maritale debbono rivolgersi delle instituzioni apposite, le quali non apportino un colpo sopra dette autorità, la cui natura in somma consiste appunto nell' essere preventive e repressive, senza essere stabilitive, o almeno senza stabilire nissuna relazione falsa fra gli uomini, e queste nel caso nostro sarebbono il diritto dato ai figliuoli ed alle mogli di richiamarsi dei loro torti al Tribunale ogni qualvolta li soffrono, e più ancora tutte quelle instituzioni morali che rendendo buoni i padri ed i mariti, li mettono in istato di usare bene il loro potere, seguendo con ciò l' indicazione della natura che ha lasciato questo potere in tutta la sua pienezza dalla parte delle persone soggette, ed all' incontro ha dato ai padri ed ai mariti la legge naturale per moderarlo. Egli è dunque inconveniente e contro la natura delle cose stabilire che il padre abbia il dovere di raccogliere i voti dai proprŒ figliuoli, ed il marito di prenderlo dalla moglie: poichè la natura dei figliuoli richiede ca volontà loro sia quella del padre, e la congiunzione maritale rende il marito capo della moglie: tutto ciò che succede contro queste relazioni non può formare l' ordine, ma non sono che eccezioni dell' ordine. Nè per questo debbesi ridurre ad un voto solo tutti i voti della famiglia, perocchè le famiglie verrebbero costituite con una sproporzione fra di loro; sproporzione cioè di forza politica, mentre il voto, come dicevamo, è anche di sua natura un atto di autorità e quindi un mezzo di difesa. Egli è per questo che si è stabilito il principio, che tanti sieno i voti quante sono le persone componenti la società: al quale coll' articolo che discutiamo non si deroga punto; ma anzi questo articolo non fa che stabilire il modo onde convenevolmente si riduca alla pratica il detto principio: modo che fa sì che si consideri ciascun membro della famiglia compreso virtualmente nel padre, e che perciò in tempo che si riconosce nell' unica volontà del padre tutte le volontà dei membri della famiglia, si fa sì che quest' unica volontà si ripeta per dire così in tanti atti autorevoli, o sia in tanti voti, quanti sono i membri nella famiglia. Dileguate le difficoltà intorno all' articolo quarto, l' articolo quinto dovea venire ammesso come una conseguenza od un perfezionamento del medesimo. Ma diede occasione di maggior dibattimento l' articolo sesto, le ragioni del quale erano le seguenti: Non si potea dare ai padroni il voto dei servi, come si era dato ai padri quello dei figliuoli, o ai mariti quello delle mogli; perocchè mentre questi due vincoli, cioè il paterno ed il maritale, avevano per loro base essenzialmente l' amicizia, il vincolo all' incontro di mera servitù non aveva di sua natura altra base che la utilità: quindi non portava per conseguenza della sua natura che la volontà del servo ordinariamente fosse inchiusa in quella del padrone; anzi piuttosto che fossero due volontà opposte. Oltre di ciò la società paterna e maritale è così stretta che di più esseri se n' ha uno solo, mentre la società che ha il padrone col servo non consiste essenzialmente in alcuna comunanza d' interessi, ma piuttosto in una contrarietà dei medesimi: il vincolo paterno e maritale è tanto fondato in natura che dopo fatto la volontà umana nol può più rompere, il padre nè pur volendo può cessar d' essere padre; mentre il vincolo signorile dipende dall' umana volontà, e il padrone può emancipare quand' egli vuole il suo servo che si rimane d' esser servo. Se dunque è assurdo che l' autorità umana intervenga nei diritti fra padre e figlio, non è ugualmente assurdo ch' ella intervenga nei diritti fra padrone e servo, mentre la volontà dell' uomo può mutare questi, ma non quelli. Le ragioni adunque dell' articolo quarto dove si tratta dei padri e dei mariti non possono applicarsi all' articolo sesto dove si tratta di padroni; e la società debbe ammettere i servi stessi a votare, e se sono mariti anche per le mogli, se sono padri anche per li figliuoli. Non è però necessario che i servi sieno obbligati a dare il loro voto, sì perchè può essere che per essi sia più vantaggioso il non darlo, giacchè tale funzione consuma loro un tempo prezioso se l' hanno in libertà, sì perchè se non l' hanno in libertà, ma l' hanno obbligato a loro padroni, essi non possono disporne, ne possono con facilità aver chi li rappresenti. Finalmente essi non sono necessarŒ, giacchè la società ha un numero di elettori costante e determinato nei padri di famiglia liberi. D' altro lato il caso dei servi non può essere che temporaneo in una società civile cristiana; ed una delle prime cure della medesima, quando sarà instituita, debb' essere di pensare ai modi prudenti onde far passare i servi gradatamente dalla condizione servile a quella di mercenari. Prevedendo la Commissione che in quelli, nelle cui mani veniva a riporsi la pubblica autorità, potevano facilmente entrare dei falsi principŒ per non conoscere ben a fondo le basi su cui si veniva erigendo la civile società, si avvisò di fare adottare il principio del diritto politico imperscrittibile , consistente in questa proposizione: « La rappresentazione politica dei diritti è imperscrittibile. » Essa ben conosceva che ciò che poteva turbare l' ordine sociale si era l' alterazione che poteva esser fatta nella rappresentazione politica dei diritti, non già tanto per prepotenza dei più forti, quanto per un sofisma che facilmente illude le menti dei governanti, e che consiste appunto nella troppa sollecitudine di ovviare ai disordini possibili la quale come era stato dimostrato nella sessione antecedente conduce a fare delle false instituzioni. E che cosa è altro questo sofisma che quello studio che tanto riscalda le menti dei politici per trovare un equilibrio fra i poteri dello Stato? Questo problema che così posto è insolubile, e quando anche fosse solubile non sarebbe che per un istante, per l' istante cioè che dura l' artificioso equilibrio; non ha importanza se non supposto che il principio che debbe determinare la costituzione sociale debb' essere unicamente quello di ovviare a tutti i possibili disordini della medesima: ma la costituzione appartiene alle instituzioni stabilitive, ed il fine proprio delle instituzioni stabilite non è già quello di evitare i disordini ch' esse stesse producono, ma bensì di stabilire le vere relazioni fra gli uomini. Ed in vero, se si vuole che una istituzione si cauteli contro la propria azione, la propria azione dunque è diversa dall' azione con cui si cautela, e questa viene dopo di quella: questa perciò non debbe nè mutar nè distrugger quella. Se dunque volendo dare la costituzione ad uno Stato si si propone per iscopo principale di evitare i disordini ch' essa stessa genera, si cade in una specie di contraddizione, e in uno strano circolo; e si va ad alterare l' indole naturale della costituzione facendo ch' essa invece di una instituzione stabilitiva qual debb' essere, diventi una costituzione preventiva o repressiva, quello che non debbe essere, ed in tal modo essa riesce la più mostruosa cosa, e non ottiene il suo fine, nè il fine che si è usurpato, appartenente ad altre instituzioni al tutto d' altra natura dalla sua. Il falso principio adunque che quella sia la costituzione migliore della società, la quale prevenga tutti i mali della propria azione, è quello che produce tante assurde costituzioni degli Stati, ed è quello da cui la Commissione temette con ragione che potesse venir alterata quella forma di società ch' essa avea disegnata, come la più equa e la più perfetta. Condotta da questo timore fece osservare all' Assemblea che conveniva fino d' allora determinarsi a seguire, nel ripartimento dell' autorità politica, l' uno o l' altro dei due principŒ, cioè o seguire il principio della rappresentazione de' diritti, il quale d' altro lato era stato abbracciato dall' Assemblea; o vero lasciando al tutto simigliante principio costituire un governo sopra questo altro principio che fosse quello la cui forza per la divisione ingegnosa della medesima in diverse persone ovviasse al maggior segno gli abusi possibili di se stessa. Noi siamo persuasi, disse la Commissione, che lo scopo di questo secondo principio non si può conseguir meglio che conservandosi perpetuamente fedeli al primo; ma non a tutti parrà così. A costoro pertanto sembrerà che talora possa esser più utile se si devia dalla più rigorosa rappresentazione di tutti i diritti, e che senza badar alla medesima, il solo principio dell' equilibrio dei poteri debba servir di regola a fare od a riformare la costituzione dello Stato. Voi dunque dovete esaminare con diligenza l' opinione di questi Signori, che tali due principŒ sieno diversi fra loro, e che convenga meglio tenere per unica regola il secondo anzi che il primo, affinchè dopo costituito lo Stato non siate forse condotti a fare delle riforme che alterino le prime basi su cui è costituito, o per dir meglio non siate costretti a distruggere ciò che avete edificato, e ad edificare di nuovo. Vi faccio pertanto osservare che l' applicazione del principio dell' equilibrio dei poteri o sia quello d' una costruzione della società, che antiveda tutti gli abusi, non può dipendere che da un calcolo conghietturale di quegli uomini politici ai quali fosse commessa la formazione della società dietro tali principŒ. Il loro calcolo poi è conghietturale, tanto più che precede l' esperienza, e solo questa potrebbe dare al medesimo una prova di qualche valore. Già che dunque si tratta d' un calcolo di estrema difficoltà per li molti elementi, che in sè racchiude, e per la mancanza dell' esperimento, questo non può che riuscire vario, secondo le diverse menti calcolatrici. Havvi però di più. La estrema difficoltà di un tal calcolo debbe far conoscere a priori ch' egli non può essere che adattato a pochi ingegni, e non, di certo, argomento in cui si possa esercitare con isperanza di riuscita la maggior parte degli uomini. Ciò posto ne verrà che nella costruzione della Società civile la maggior parte degli uomini non potrà proferire veruna sentenza; ma dovrà sottomettersi ciecamente a ciò che determinano i pochi sapienti, che sono co' loro intelletti al livello dell' argomento. Nel caso adunque che vorreste adottare un tal principio egli è certo che la maggior parte di voi dovrebbe ritirarsi al tutto dalla deliberazione, ed abbandonare al giudizio dei pochi ingegni più eminenti tutti i vostri interessi. Ma siccome io credo che non v' indurreste giammai a farlo, così pure io non vedo in qual modo si potrebbe convenire nel definire quali sieno questi ingegni più eminenti, mentre ognuno vorrebbe forse esserlo od apparire. E tuttavia supponiamo che l' ingegno si potesse misurare colla canna, e fosse fissata una misura per la menoma grandezza degl' ingegni prescelti a tant' opera: questi ingegni, come dicevamo, non converrebbero fra loro od almeno non avrebbero dovere di convenire, perocchè essendo il calcolo puramente congetturale, nissuno potrebbe dimostrare all' altro con evidenza, che il proprio calcolo va bene e il suo è errato. Il perchè rimarrebbe indeciso quale dei diversi progetti di società si dovesse seguire; e volendone pur seguire alcuno, non si potrebbe che chiamare giudice la sorte. Nondimeno quando ancora questi sapienti convenissero nell' abbracciare un progetto solo, non si avrebbe, come diceva, che un tal risultato di cui nessuno saprebbe il vero valore pratico; mentre nè l' esperienza lo ha provato, nè v' ha ragione di credere, come cosa certa, che l' ingegno di quei politici sia d' una forza proporzionata alla difficoltà dell' argomento; mentre che gl' ingegni sono al tutto accidentali, ed i più o meno forti nascono a caso, e non dipendono punto dalla volontà degli uomini. Ma ciò che merita più osservazione in tale ipotesi si è, che quando ancora ottenuto s' avesse che la maggiorità sottomettesse il proprio giudizio nella instituzione della Società civile, che è quanto dire sopra tutti i proprŒ interessi, alla opinione di alcuni pochi uomini di ingegno, il che non sarà mai; allora si potrebbe dire, che essa si sarebbe già di fatto sottomessa a quei legislatori; e nelle loro mani abbandonata. Quegli uomini, a cui è commesso il progetto di società, non sono solamente forniti di un forte ingegno pel quale certo sarebbero più atti degli altri a trovare la verità; ma sono ancora circondati da tutte le passioni umane: non sono pure menti, sono anch' essi uomini forniti degli stessi interessi degli altri, che desiderano le stesse cose e subiscono le stesse tentazioni. Oltre dunque il dubbio che può ragionevolmente cadere sul grado di forza dei loro ingegni, la comunanza degli uomini dovrebbe assicurarsi della loro volontà. E chi la assicura che nel progetto di società che propongono alla medesima, non abbiano provveduto almeno altrettanto al bene di sè stessi, che a quello della società? Dall' istante che la comunanza degli uomini nell' instituire la Società civile prende una strada così difficile, ch' essa stessa non può seguire quei pochi che la percorrono, essa si è interamente abbandonata all' arbitrio dei medesimi. Ma di più, nel caso che voleste organizzare la Società civile secondo questo principio, quale disposizione d' animo non dovreste voi tutti avere? Voi dovreste esser disposti a commettervi interamente all' altrui direzione. Nel caso che seguiate il principio della rappresentazione politica, siete voi stessi quelli che vi governate; perocchè ognuno di voi ritiene, se l' ha, trapassando alla Società civile, la modalità dei proprŒ diritti, e non fa che amministrarla in comune, mentre prima l' amministrava in separato. Nel caso all' incontro che abbandoniate questo principio, molti di voi debbono spropriarsi della modalità dei proprŒ diritti per metterla in mano di quelli che fossero scelti al governo, costruito secondo il progetto della utilità o dell' equilibrio dei poteri. Io vorrei sapere in tal caso chi di voi dovrà essere spogliato della modalità e chi dovrà ritenerla: vorrei sapere come vi accorderete insieme su questo punto: vorrei sapere come potrà essere utile l' introdurre arbitrariamente questa disuguaglianza nella Società civile: vorrei sapere qual garanzia verrebbe data a quelli che venissero spogliati della modalità dei proprŒ diritti da quelli che la ricevessero da amministrare; e perciò vorrei sapere come si possa progettare un governo capace di ovviare agli abusi, dall' istante che questo governo si diparte dalla rappresentazione politica, il quale dipartirsi è per se stesso un aprire il varco agli abusi, mentre si spoglia una porzione degli uomini della modalità dei proprŒ diritti, per accumularla in mano d' un' altra porzione; mentre in somma molti membri della società si rendono debili, e si danno in balìa di altri resi forti col pretesto di renderli utili. In somma dall' istante che nell' instituzione della Società civile si abbandona il principio della rappresentazione politica , la Società civile non si instituisce più sullo stato di natura; ma si dà agli uomini uno stato arbitrario per instituire sopra il medesimo la civile società pure arbitraria: in tal caso il principio delle instituzioni sociali è l' arbitrio. Egli è vero che si dice, che un tale arbitrio è sapiente e rivolto all' utilità; ma quando anche ciò potesse essere, non si potrebbe provare: un' asserzione sarebbe quella che farebbe passare questo arbitrio per sapiente; una negazione egualmente lo renderebbe stolto: poichè non è ingiuria negare gratuitamente ciò che gratuitamente si afferma. Intanto il principio dell' arbitrio è fecondo, come dimostra l' esperienza, di infinite costituzioni, le quali hanno la vita d' un giorno, cioè durano fino che sorga un altro uomo che abbia l' audacia di spacciarsi per saggio, di negare la precedente costituzione, e di asserirne una seconda. Non vale già il dire, che la massima di fare una costituzione immune dagli abusi è un principio evidentemente buono. Certo: e noi non lo neghiamo. Diciamo solo, che questo non è un principio fecondo se non di chimere: diciamo che egli non è un principio determinato; diciamo che l' adottare questo per unico principio determinante la costruzione sociale è lo stesso, che abbandonare la formazione della medesima all' arbitrio degli uomini; mentre tal principio non può dare che dei risultati congetturali o almeno dei risultati, le prove dei quali non sono a portata del comune degli uomini, intorno ai quali perciò questi bisognerebbe che credessero all' asserzione altrui, il che è propriamente commettersi all' altrui arbitrio. Diciamo perciò ch' egli è necessario per formare la società ricorrere ad un principio più determinante, e capace della necessaria pubblicità, capace d' essere inteso e discusso da tutti, mentre tutti hanno degli interessi da difendere in tale società, e mentre nessuno di quelli che ha degli interessi può essere obbligato dalla legge morale ad entrare ad occhi chiusi nella convenzione la più importante di tutte quale è la convenzione sociale civile, la quale diventerebbe impossibile se gli uomini che vi debbono entrare non fossero in caso d' intenderne le condizioni. Finalmente diciamo che è appunto il principio della rappresentazione politica quel principio luminoso suscettibile della maggiore pubblicità, perchè nissun uomo mediante di esso fa una convenzione inintelligibile, ma sa ciò che fa; e perchè esclude l' arbitrio determinando la parte che tocca a ciascuno del civile potere. Infatti il principio dell' utilità pubblica o dell' equilibrio dei poteri è difficile, perchè mette a calcolo tutte le forze sociali tutte insieme prese, senza aver riguardo alle individualità: il principio all' incontro della rappresentazione politica è facile, perchè nella sua applicazione non racchiude già un calcolo del tutto, ma piuttosto risulta da altrettanti calcoli quanti sono gl' individui. Ciascun individuo che entra nella società, secondo tal principio costituita, non ha già da pensare al tutto, ma solo alla convenzione particolare che egli fa cogli altri uomini; egli vede subito se tal convenzione è giusta od ingiusta, se gli è utile o gli è dannosa: sa ciò che mette e sa ciò che riceve. All' incontro nella società costituita secondo il principio dell' utilità l' individuo che vi entra sa ciò che mette, ma non sa ciò che riceve: egli vede che è spropriato della modalità dei proprŒ diritti; ma egli non è in caso di calcolare il vantaggio che gli viene promesso in compenso; perocchè questo vantaggio gli è promesso come un effetto di tutta la macchina ingegnosamente composta; macchina che va senza di lui, e che è così complicata per la moltitudine delle sue parti che gli riesce impossibile di calcolarne l' azione; ma che però vede essere quest' azione di una forza irresistibile quando prendesse una direzione contro di lui. Finalmente la società civile instituita mediante il principio della rappresentazione politica, edifica senza distruggere: la società civile costruita col principio della utilità distrugge prima, come vi diceva, lo stato di natura in cui siete presentemente, per edificare tal cosa di cui nessuno può prevedere con sicurezza le conseguenze. Or via s' ammetta, che sì coll' uno che con l' altro principio s' instituisca la civile società: lo scopo è il medesimo: mediante quale dei due sistemi s' ottiene tale scopo con una azione minore? Certo con quello della rappresentazione politica: poichè le mutazioni che voi andate a subire per questo sistema le vedete tutte entro confini determinati. All' incontro dove sono i confini del sistema dell' utilità? egli non ne ha veruno. La sua azione è infinita come l' arbitrio: egli suppone, che far si possa una riforma dopo l' altra nella società fino all' infinito, senza però mai sapere di certo se si sia andati avanti o indietro. Dovendo dunque voi fare una mutazione di cui l' esito vi fosse incerto per ottenere un fine, qual' è l' instituzione della società, non sceglierete voi quella che contenga il minor pericolo? E quale conterrà il minor pericolo se non quella che esige una mutazione minore, e che ottiene lo scopo con una azione minore? Tutti s' accordarono pertanto a queste ragioni, che non era prudente d' introdurre una grande alterazione nelle cose, mentre l' esito non poteva esser certo. Che d' altro lato nessuno nè voleva nè poteva esser costretto di rinunziare alla modalità dei proprŒ diritti, e alla parte che questa gli dava diritto di avere nella civile autorità: quindi si confirmava, che la rappresentazione politica già precedentemente adottata, era irrevocabilmente il principio secondo cui doveva la società stessa instituirsi. Quando sia così, proseguì la Commissione, egli è necessario altresì di riconoscere come questo principio sia il più sacro di tutti quelli che esistono nella società civile come tale, perocchè è il principio che determina il modo di esistere della medesima. Siccome la società civile non può esistere che in un dato modo, così il suo modo proprio d' esistere è altrettanto rispettabile quanto la sua esistenza: ed è solamente ciò che indica il modo onde la società civile può esistere quello che dà la esistenza alla società. Ora il principio della rappresentazione politica non è altro che un' attribuzione di diritti ai membri della società, cioè consiste in quella massima « che ogni diritto abbia nella società civile una rappresentazione conveniente e possibile. » Dunque un tal diritto che ricevono i membri della società civile mediante la sua istituzione è così necessario, come è la società stessa, e sarebbe al tutto contradditorio, che si volesse la società, e che si riconoscesse nel tempo stesso potervi aver un caso in cui un diritto dei suoi membri venisse privato della rappresentazione che a lui sarebbe conveniente e possibile. E` necessario adunque dichiarare che la rappresentazione politica è un diritto imperscrittibile ed inalienabile: cioè a dire che chi possiede nello stato di natura la modalità dei diritti debba anche possedere il corrispondente potere: e non debba verificarsi verun caso in cui il potere civile sia scompagnato dal possesso naturale della modalità. L' obbiezione che alcuni fecero, che prima di dichiararsi un tal diritto imprescrittibile bisognava fare la dichiarazione dei diritti dell' uomo naturali, diede occasione alla Commissione di stabilire la distinzione fra il diritto politico ed il diritto naturale, e fra l' imprescrittibilità politica e la imprescrittibilità naturale. La Commissione dimostrò che la comunanza degli uomini, o la civile società dopo instituito il governo, poteva bensì dichiarare validamente i diritti politici imprescrittibili: ma non poteva all' incontro dichiarare validamente i diritti naturali imprescrittibili, ma solo riconoscerli. Supponiamo disse, che la comunanza degli uomini facesse una dichiarazione de' diritti naturali imprescrittibili. Che forza avrebbe tale dichiarazione? quella stessa che avrebbe una carta su cui un uomo qualunque, od anche un fanciullo, avessero scritti quelli che fossero secondo la loro opinione diritti naturalmente imprescrittibili. L' essere scritti o non scritti non toglie ne aggiunge autorità a tali diritti, poichè essi ne hanno tanta che non ne possono aver di più; è così ferma che non può essere diminuita. Se la carta riferisce i diritti quali sono, sarà una buona memoria per chi l' ha scritta: se non riferisce i diritti quali sono, non vale nulla: e quando venisse a sostenerla la forza, ciò non sarebbe che un atto di tirannia. La dichiarazione dunque dei diritti naturali dell' uomo fatta dall' autorità civile è inutile, ma bensì l' autorità civile debbe riconoscere i detti diritti e dirigere secondo i medesimi la sua condotta. La differenza fra il riconoscerli e il dichiararli si è che nel primo caso ella fa un atto di sommissione e nel secondo di autorità: e per ciò le conseguenze di questi due atti sono diverse: nel primo caso, ciascun uomo che sia in grado di farlo può recare in mezzo dei lumi che rischiarino la natura di tali diritti: nel secondo caso, sarebbe un delitto parlare contro diritti dichiarati già dalla società; giacchè la dichiarazione di diritti suppone i diritti certi, e l' autorità, che li ha dichiarati, infallibile. Il potere civile dunque non debbe già arrogarsi di essere l' autorevole maestro degli uomini: non debbe innalzarsi ad una sfera che a lui non appartiene; ma lasciare il magisterio della verità morale ad una società morale, ad una società di diversa natura dalla sua, cioè alla Chiesa cristiana, che è la maggiore autorità in simil genere di cose. Egli è vero che le disposizioni civili della società s' appoggiano sui principŒ morali e sui diritti naturali; ma è vero altresì che questi sono anteriori a lei, e da lei indipendenti; essa dunque, rispetto a questi debb' essere discepola e soggetta, non maestra e sovrana. Se poi per dichiarazione di diritti s' intende un promemoria mutabile che si fa da sè ciascuno dei suoi membri o un promemoria di ciò in cui tutti convengono, non contendo di parole: questa dichiarazione sarebbe ciò che io intendo per ricognizione, sarebbe ancora la scienza modesta di un discepolo, e non la sentenza di un' autorità. Dove adunque comincia Œl magisterio, dove l' autorità del civile potere? Comincia con se stesso: egli ha l' intrinseca autorità e necessità di parlare di se stesso, di dichiarare che sia, e quali diritti e doveri provengano da lui agli uomini. Or egli appunto esiste con un diritto che vien dato agli uomini. Dal momento che questi convenuti insieme dicono: I nostri diritti abbiano una rappresentazione conveniente e possibile, la società civile è formata: questo è quel fiat che la crea. Dunque essa è in necessità di dichiarare imprescrittibile questo primo diritto della rappresentazione politica, tanto quanto è in necessità di esistere, ed ecco quale sia la dichiarazione dei diritti che può fare la comunanza, o la società civile degli uomini; ecco qual sia il diritto politico, dal quale comincia il civile potere. Dopo ciò la Commissione, riassumendo quanto fin qui aveva fatto l' Assemblea, propose alla medesima la seguente Dichiarazione dei diritti politici imprescrittibili dei membri della Società civile. «Il diritto imprescrittibile consiste nella rappresentazione politica dei diritti conveniente e possibile. Art. 1 Ogni uomo ha diritto di dare il voto nella elezione del Tribunale politico. Art. 2 Ogni uomo ha diritto di ricorrere al medesimo. Art. 1 I mercenarŒ hanno diritto d' essere rappresentati nell' Amministrazione sociale in corpo. Art. 2 I benestanti hanno diritto d' essere rappresentati individualmente. Art. 3 La rappresentazione è in ragione della ricchezza materiale, fissando il menomo a quel tanto che è necessario pel mantenimento d' un uomo. La proposta dichiarazione fu ammessa ad unanimità. » Gli elettori stabiliti dalla dichiarazione dei diritti politici (Tit. I art. I) formarono il Tribunale politico a maggioranza di voti. La forma di questo Tribunale, per non dilungare qui il leggitore dall' idea generale della società civile regolare, fu da noi anticipata e descritta nel Libro Primo di quest' opera; dalla quale descrizione apparisce maggiormente la reale possibilità del medesimo. Intanto anche le basi qui dettate sono tali, pare a noi, a cui non si può ripugnare, perchè dedotte dalla rettitudine, e non possono aver contro di esse se non se quella ripugnanza, e quasi incredibilità, che gli uomini portano a cosa che loro par nuova: ma ciò che abbiamo detto all' Art. XI debbe provare a qualunque uomo sia ragionevole, che il piano che proponiamo non è una chimera; mentre v' ha un modo di eseguirlo con quell' approssimazione che ivi abbiamo descritto, che è ciò che richiede appunto quella equità che si può dire a giusto titolo la perfezionatrice della giustizia. Proseguiamo dunque lo sviluppo del medesimo piano, torniamo all' ipotesi della nostra Assemblea, ed alla instituzione che supponiamo fatta dalla medesima, secondo gli ordini voluti dall' equità. Il primo lavoro adunque del Tribunale politico si fu di preparare la via alla formazione dell' Amministrazione sociale, coll' instituzione della quale si compiva l' instituzione della società. Giacchè per la dichiarazione dei diritti politici (Tit. II articolo 3) la rappresentazione amministrativa doveva essere in ragione della ricchezza materiale, il Tribunale politico passò a riconoscere successivamente lo stato di tutti gli individui e di tutte le famiglie, e a tal fine fece le seguenti operazioni. 1 Fece un ruolo di tutte le persone, le quali non potevano dimostrare di possedere dei fondi nè esercitare verun' arte mercenaria. 2 Fece un ruolo di tutte le persone che non avendo fondi esercitavano però un' arte mercenaria che dava loro un sufficiente mantenimento, e fornì le medesime di un brevetto, che le collocava nella classe dei mercenarŒ, e dava loro i diritti politici annessi a questa classe. 3 Finalmente rilevò la sostanza in fondi di tutti i benestanti sulle prove da loro offerte, e consegnò loro pure il brevetto della ricognizione di ciò che possedevano. 1) Con queste tre operazioni fatte dal Tribunale politico venivano determinati i diritti politici di tutti i membri della società. Si trovarono distinti quelli che non possedevano altri diritti politici se non la rappresentazione dei diritti dell' uomo; quelli che oltre la rappresentazione dei diritti dell' uomo avevano ancora la rappresentazione dei diritti reali, ma non essendo questi diritti in fondi, ma nell' opera delle loro mani, l' avevano solo in corpo, e non in individuo quali erano i mercenarŒ; e finalmente quelli, che possedendo dei fondi avevano la rappresentazione dei diritti reali completa quali erano i benestanti. Or dovendo venire alla reale formazione dell' amministrazione, s' incontravano necessariamente molti ostacoli, ed i principali erano i seguenti: 1 Se l' amministrazione avesse ricevuto realmente nel suo seno tutti i benestanti, i quali avevano diritto di entrarvi e di più i delegati del corpo dei mercenarŒ, essa sarebbe divenuta così numerosa che non avrebbe potuto senza confusione, o almeno senza una dannosa tardità, spacciare gli affari. 2 Di poi, ciò supposto, non si vedrebbe modo di rendere il peso dei voti di ciascheduno proporzionale alla richezza posseduta. La Commissione, per non confondere l' Assemblea, si restrinse a far osservare alla medesima solo la prima delle due difficoltà sopraddette, e in conseguenza di essa a dimostrare la necessità di restringere il numero degli amministratori. Di che venendo riconosciuto il bisogno evidente, propose come unico mezzo di evitare sì grave inconveniente, che i benestanti ed il corpo dei mercenarŒ non amministrassero già da sè stessi, ma mediante dei loro abili ministri o delegati forniti dei loro poteri e delle loro instruzioni, i quali potevano essere ridotti a quel numero discreto che meglio convenisse alla più spedita ed alla più utile amministrazione degli affari. La proposta di un' Amministrazione delegata ricevuta da principio con favore, aveva poscia eccitato le più gran difficoltà nell' Assemblea, la quale s' era disciolta senza ammetterla nella sessione precedente. Tali difficoltà nascevano perchè sembrava generalmente impossibile, che delegandosi un piccolo numero di persone rispetto a tutti quelli che avevano diritto di entrare nella amministrazione, potesse conservarsi la proporzione fra la forza del voto e la ricchezza. In che modo, si diceva, un delegato il quale rappresenta per necessità molti proprietarŒ di diversa fortuna potrà sostenere così la piccola proprietà come la grande? egli è costretto di trattare la causa di tutto il corpo che rappresenta: nella collisione perciò delle grandi colle piccole proprietà egli non abbandonerà mai quelle per sostener queste; mentre se fossero due i rappresentanti l' uno per esempio piccolo proprietario e l' altro grande, le due cause sarebbero trattate in separato; e sebbene il voto del piccolo proprietario sarebbe più debile, tuttavia unito ad altri piccoli proprietarŒ potrebbe sostenersi anche contro i proprietarŒ più forti, laddove se sì l' uno che l' altro vien rappresentato da un solo delegato questi non potrà giammai essere in contrasto con se stesso, e non potranno perciò formarsi quelle alleanze che sono appunto ciò che garantisce il piccolo contro il grande della società. Tali ragioni erano forti ed erano state prevedute dalla Commissione, la quale nel suo progetto si era proposta di evitare tutte le due summenzionate difficoltà, e s' era riservata di rispondere ai timori dell' Assemblea col progetto che avrebbe presentato nella prossima sessione. Venuta adunque la sessione presente, cominciò dallo stabilire un limite ossia una somma menoma di rendita, la quale considerar si potesse come l' unità nella rappresentazione amministrativa; e ciò a tenore della dichiarazione dei diritti politici. (Tit. II art. 3). Dimostrò che bisognava prendere per quest' unità un termine basso più che si poteva; poichè dovendosi trascurare tutte le frazioni, cioè tutto ciò che era minor di quel termine; questa deviazione dalla rigorosa giustizia doveva esser la minima che si potesse, e l' Assemblea convenne di fissare questo termine alla somma di lire cento. 1) Dimostrò in secondo luogo che ciascun mercenario, qualunque fosse il suo guadagno, si doveva supporre che portasse a lui nè più nè meno di lire cento annuali; perocchè essendo questa la somma menoma, onde si stimi che possa un uomo ordinariamente vivere, qualunque cosa il mercenario guadagna, nulla più guadagna del vitto, che viene ad essere appunto rappresentato nella somma di lire cento. Infatti qualunque sia il guadagno d' un mercenario o lo consuma nel proprio mantenimento o lo mette in fondi. Se lo mette in fondi, egli trapassa ben presto alla classe di benestante; giacchè qualunque suo fondo che gli renda più di cento lire, lo rende anche benestante. Se all' incontro ciò che guadagna lo consuma, egli è alla stessa condizione di quello, rispetto alla ricchezza materiale, che vive con cento lire di entrata; mentre alla fine della giornata, del mese, o dell' anno, ciascuno ha consumato tutto, e sì dell' uno che dell' altro si può dire egualmente, che il loro avanzo è nullo: e che il loro fondo produce il puro vitto senza crescere nè calare. Ciò premesso, la Commissione passò ad indicare il modo, ond' ella credeva che si potesse passare alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la prenotata difficoltà. Disse che conveniva che si congregassero in altrettante Assemblee separate secondo i gradi della ricchezza; che questi gradi potevano essere determinati così: Tutti quelli che possedevano dalle cento fino alle lire mille d' entrata formavano un' Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle lire mille di entrata fino alle dieci mila formavano la seconda Assemblea. Tutti quelli che possedevano dalle dieci mila lire fino alle cento mila lire d' entrata formavano una terza Assemblea. I possessori di cento mila lire d' entrata fino ai possessori d' un milione, formavano una quarta Assemblea. I possessori d' un milione fino ai dieci milioni di lire d' entrata formavano la quinta Assemblea; e così via, se vi fossero persone individuali o morali che possedessero maggior somma. Nella prima Assemblea ogni cento lire si aveva un voto; e il più che una persona potesse avere erano nove voti; tali erano quelle che possedevano dalle novecento fino alle mille lire. Nella seconda Assemblea le mille lire davano un voto; e il maggior numero di voti, che una persona aver potesse era quello di nove; tali erano le persone possidenti dalle nove mila fino alle dieci mila lire d' entrata. Similmente nelle tre altre Assemblee un voto corrispondeva sempre a maggior somma; nella terza a diecimila, nella quarta a centomila, nella quinta a un milione di lire d' entrata, e il maggior numero di voti che una persona in tutte queste Assemblee potesse avere, era medesimamente nove: tali erano le persone che nella terza Assemblea avessero un' entrata dalle novanta fino alle cento mila lire; nella quarta quelle che avessero un' entrata dalle novecento mila lire fino a un milione, nella quinta quelle la cui entrata fosse dai nove fino ai dieci milioni. Ora vedete a che poco nell' ordinamento di tali Assemblee si riduca la irregolarità o deviazione dalla teoretica giustizia; cioè quanto poca sia la proprietà che rimanga senza rappresentazione; ed anche quella poca vi rimane, perchè non è veramente capace del diritto di essere rappresentata. Osservate in fatti che in qualunque fortuna anche enorme, la ricchezza che rimane senza rappresentazione è sempre minore delle lire cento. Supponete in fatti un proprietario di mille e cinquecento lire d' entrata: questi apparterebbe alla seconda Assemblea. Egli è bensì vero che non può avervi che un voto; poichè i voti in tale Assemblea equivalgono a mille lire; ma egli colle sue cinquecento lire ha diritto ancora di farsi rappresentare nella prima Assemblea e di farsi rappresentare con cinque voti; perchè in essa il numero dei voti equivale al numero delle centinaia di lire. Laonde questi non resta senza rappresentazione se non per quella frazione che avesse fra le mille cinquecento e le mille seicento lire. Così parimenti colui che avesse un' entrata di 12 .350 lire entrerebbe nella terza Assemblea con un voto, nella seconda con due voti, e nella prima con tre voti, e ciò che resterebbe senza rappresentazione non sarebbero che le cinquanta lire, le quali non sono rappresentabili, perchè non arrivano a formare il mantenimento di un uomo. Nel medesimo modo ancora colui che avesse d' entrata 123 .450 lire, egli entrerebbe con un voto nella quarta Assemblea, con due nella terza, con tre nella seconda, e con quattro nella prima; e ciò che rimarrebbe anche qui non rappresentato sarebbero le sole lire cinquanta. Finalmente supponiamo che una persona traesse annualmente d' entrata dai suoi fondi 1 .234 550 lire: questa comparirebbe con un voto nella quinta Assemblea, con due nella quarta, con tre nella terza, con quattro nella seconda, con cinque nella prima e di tutta la sua grande fortuna rimarrebbero necessariamente sole cinquanta lire non rappresentate; giacchè formano una frazione dichiarata irrappresentabile. Distribuiti in tal modo tutti i cittadini che hanno diritto all' amministrazione rappresentativa in altrettante decurie secondo i loro beni di fortuna, e secondo questi assegnato loro il numero proporzionato di voti, ecco in qual modo si potrebbe procedere alla formazione dell' Amministrazione delegata, evitando la difficoltà che l' Assemblea ha saviamente preveduto. La prima Assemblea ogni dieci voti, ossia ogni decina di centenaio elegge un delegato alla seconda Assemblea. In fatti dieci voti nella prima Assemblea suppongono la corrispondente somma di mille lire: e mille lire equivalgono ad un voto della seconda Assemblea. La seconda Assemblea parimenti ogni dieci voti elegge un delegato della terza Assemblea; perocchè dieci voti della seconda Assemblea rappresentano dieci mila lire; che equivalgono appunto ad un voto della terza Assemblea. Allo stesso modo ogni dieci voti della terza Assemblea essa ha diritto di eleggere un delegato alla quarta Assemblea; poichè dieci voti della terza Assemblea rappresentano cento mila lire, e cento mila lire è appunto un voto nella quarta. Finalmente ogni dieci voti che la quarta Assemblea abbia in sè medesima, essa manda un delegato nella quinta; perocchè dieci voti della quarta Assemblea, supponendo un milione d' entrata, danno appunto il diritto di aver un voto nella quinta. Vediamo adesso un poco quanta sia l' irregolarità dalla giustizia teoretica, che ammette un tal piano in tale esecuzione pratica quale da noi fu descritta. Ciò che nell' ultima Assemblea rimane privo di voto è tutto ciò che rimane al di sotto di un milione; ma egli è da osservarsi che la somma al di sotto di un milione esercitò però la sua forza nella quarta Assemblea; come nella terza influì quanto stava al di sotto di cento mila; nella seconda quanto stava al di sotto di diecimila e nella prima quanto stava al di sotto di mille. Così parimenti se noi imaginiamo una sesta Assemblea, nella quale ciascun voto rappresenti dieci milioni: egli è vero che rimarrebbero nove e più milioni nella nazione senz' essere rappresentati direttamente in essa: ma questi sono stati tuttavia rappresentati quando si trattò dell' elezione di quest' ultima Assemblea, ed hanno esercitata tutta l' azione che potevano esercitare. D' altro lato la non rappresentanza nell' ultima Assemblea di questi nove milioni non porta nissuna disuguaglianza politica fra i cittadini; poichè questi nove milioni non appartengono già a questa o a quella famiglia determinata, ma solo a tutta la nazione, e perciò in questi nove milioni, non rappresentati, ciascun cittadino ha una rata per così esprimermi proporzionata, sicchè, nessuno sconcio ne nasce alla politica proporzione. Stabilite queste basi, noi vedremo subito quanti saranno i componenti dell' ultima Assemblea, cioè della Delegazione dell' Amministrazione sociale , che viene ad essere la suprema magistratura della nazione. Suppongo che la somma di tutta la rendita rilevata dal Tribunale Politico ascenda a quattro miliardi di lire. Or questi darebbero quattrocento delegati nazionali, ciascuno dei quali rappresenterebbe dieci milioni di lire di rendita. Ecco pertanto formata l' Amministrazione delegata, esistendo la quale sarebbe già instituita la civile società, o sia ridotta alla sua attuale esistenza. Ora considerate di grazia come la formazione di una tale Amministrazione delegata eviti lo scoglio da voi temuto, che le piccole fortune sieno dalle grandi oppresse senza che abbiano nella società alcuna voce distinta. Nel piano proposto le fortune sono tutte distinte l' una dall' altra secondo la loro grandezza mediante i voti. I componenti la prima Assemblea, o sia i voti della medesima, rappresentano tanti proprietarŒ tutti eguali di cento lire l' uno. Il delegato che questi mandano alla seconda Assemblea non rappresenta già fortune di diverse specie, ma rappresenta fortune tutte eguali, giacchè rappresenta una decina di voti della prima Assemblea. Così il delegato che la seconda Assemblea manda alla terza non rappresenta allo stesso modo che fortune eguali, cioè dieci stati tutti di mille lire l' uno: parimenti non vi ha delegato nella quarta, nella quinta, e finalmente nella sesta Assemblea ch' egli rappresenti contemporaneamente grandi e piccole fortune, ma tutte d' una stessa misura le rappresenta. Rimane solo da avvertire primamente che se egli v' avesse taluno nell' ultima assemblea il quale possedesse egli solo i fondi necessari per ritrarre l' entrata dei dieci milioni, egli sarebbe membro della medesima, come rappresentante il proprio, e non come delegato delle Assemblee antecedenti. In tal caso l' Assemblea dei quattrocento, cioè quella che amministra realmente la società, verrebbe ad esser mista, cioè composta parte di rappresentanti di beni proprŒ, parte dei delegati delle Assamblee precedenti, i quali non sono che ministri delle Assemblee stesse. La Commissione propose « che ciascuna Assemblea fosse riconosciuta nelle proprie attribuzioni indipendente dall' altra. » Questa era una conseguenza della imprescrittibilità politica già adottata. In fatti l' imprescrittibilità politica consisteva nel riconoscere annesso ad ogni diritto posseduto dall' uomo nello stato di natura un diritto di rappresentazione nella società civile, il quale doveva essere inviolabile come la stessa società e qualunque attentato contro di lui diventava un delitto di lesa sovranità. Perciò ognuno nel modo di farsi rappresentare nell' Amministrazione rimaneva perfettamente libero a differenza della rappresentazione passiva, il primo diritto della quale, cioè il diritto di elettore al Tribunale, era nello stesso tempo un dovere a cui si obbligavano i padri di famiglia. Nella rappresentazione all' incontro attiva, essendo questa un diritto che non aveva nessuna relazione colla giustizia verso gli altri, ma che conteneva solo una utilità propria, ognuno rimaneva libero di esercitarlo o non esercitarlo, sebbene nessuno poteva alienarlo, appunto perchè l' alienazione sarebbe un contratto invalido trattandosi d' un diritto imprescrittibile. Le Assemblee adunque dovevano rimaner libere nella elezione dei deputati da mandarsi alle Assemblee più elevate, sebbene l' Assemblea più elevata potesse citare al Tribunale politico l' Assemblea meno elevata per negligenza nel mandare i deputati, ogni qualvolta potesse provare che ciò fosse nocevole ai suoi membri: non ammettendo il Tribunale petizioni quando non fossero presentate da un accusatore interessato nella causa. Ciascuna Assemblea inferiore dunque aveva essenzialmente ed imprescrittibilmente i seguenti diritti: 1 Di mandare il numero di delegati, che a lei apparteneva secondo la legge, all' Assemblea prossimamente superiore: e questi delegati poteva sceglierli a suo piacimento, a quel modo stesso che un padrone può scegliere i suoi servi. 2 Di fare il contratto con questi delegati secondo le condizioni da convenirsi fra essa e il delegato, e da esprimersi nel mandato del medesimo: condizioni che potevano riguardare: a) Le istruzioni date al medesimo intorno al modo di eseguire il suo ufficio; b) Il tempo della delegazione in quanto può stare in arbitrio dell' Assemblea; c) Lo stipendio da assegnarsi al delegato. Le cause fra il delegato e le Assemblee sono di competenza del Tribunale politico. Così pure ciascuna persona (morale ed individuale) che potesse dimostrare d' essere realmente danneggiata dal delegato, come sarebbe nel caso, in cui si potesse provare o la intenzione di nuocere col suo potere o il tradimento contro l' Assemblea nell' esercizio del potere ricevuto, può richiamarsi al Tribunale politico ed ottenere la mutazione del delegato. Ogni Assemblea inferiore debbe eleggersi un Ministro, le cui attribuzioni sono le seguenti: 1 di convocare l' Assemblea nei casi prescritti dalla legge: 2 Di essere l' organo permanente dell' Assemblea medesima. La Commissione propose, che conveniva stabilire i casi in cui le Assemblee inferiori si dovessero convocare, e fu adottata sopra di ciò la legge seguente: 1 L' Assemblea debb' essere convocata ogni qualvolta muore un suo delegato all' Assemblea superiore per rieleggerne un altro. L' Assemblea superiore è obbligata di dar la notizia della morte al Ministro dell' Assemblea inferiore, il quale appena ricevuta debbe proclamarne la convocazione. 2 Il Ministro debbe pure convocare l' Assemblea ogni qualvolta spira il tempo della delegazione assegnato ad un delegato, perchè sia fatta una nuova elezione. 3 Debbe convocarla ancora ogni qualvolta gli sia dimandata da una maggiorità de' voti componenti l' Assemblea. 4 Finalmente è obbligato di convocarla ogni qualvolta un membro della medesima ottiene dal Tribunale politico, per cagione dei proprŒ interessi, un decreto di convocazione. I membri invitati dal Ministro all' Assemblea, che non compariscono, dichiarano con ciò di assentire ai comparenti: e tuttavia possono essere citati al Tribunale politico se la loro assenza sia pregiudicievole. Rimanevano le difficoltà sull' instabilità dei rappresentanti nelle Assemblee, giacchè il diritto di rappresentazione nelle medesime doveva sempre conservarsi in equilibrio colla ricchezza materiale: la quale è soggetta a continui mutamenti. Ma la Commissione aveva indebolita anche questa difficoltà col principio stabilito, che la giustizia teoretica doveva nelle sue applicazioni pratiche dar luogo all' equità; e tutti gli uomini erano obbligati dalla stessa giustizia a declinare alquanto dal proprio diritto rigoroso, quando ciò era necessario, perchè i diritti di tutti potessero avere contemporaneamente luogo. Essa dunque credette, che si potessero ottenere le deviazioni menome mediante una legge sui mutamenti del numero dei voti a ciascuno appartenenti, esposta nel modo seguente: 1 Ognuno al quale scemino le sue fortune può ricorrere quand' egli voglia al Tribunale politico, perchè gli sia scemata la rappresentazione politica corrispondente. 2 Ogni persona morale o individuale può far una causa simile verso un' altra persona, a cui sieno scemati i beni di fortuna. 3 Ciò che è detto nei paragrafi precedenti per lo scemamento delle fortune, vale anche per il loro aumento; e perciò ciascuno, dato quest' aumento, può domandare per sè o per altri l' aumento corrispondente di rappresentazione politica. 4 L' Assemblea ha diritto e dovere di domandare una nuova ricognizione delle fortune di quelli che sono negligenti nel pagare le imposizioni. 5 I lavori del Tribunale e delle Assemblee sono indipendenti, e quelli dell' uno non possono rallentare quelli dell' altro, per modo che, pendente la causa, ognuno rimane a suo luogo; e nella sentenza è fissato il tempo preciso in cui s' intende cominciata la mutazione. Dopo aver data un' idea del Tribunale politico e dell' Amministrazione, che sono le due parti del Potere Supremo della società civile, mi resterebbe a parlare della Magistratura che è il terzo corpo che forma parte della organizzazione sociale, sebbene egli non sia parte del Supremo Potere. Ma prima di passare a descrivere la Magistratura della società civile, che fingo d' erigere da' suoi fondamenti, mi sembra necessario di chiamar l' attenzione del leggitore sulle traccie del Progetto fin quì da me descritto, sia che si ritrovino negli scrittori antecedenti, o sia nelle costituzioni delle nazioni che fin quì sulla terra sono esistite. Questa disgressione, ben comprendo, che travia qualche poco il leggitore dal diritto cammino, e gli ritarda di poter concepire tutta intera l' idea di Società che io prendo a descrivere: ma questo interrompimento, che nuoce invero al filo delle idee, sarà forse compensato da un maggior avvicinamento che prenderà la Teoria esposta alla pratica, e quindi ella forse gli diverrà più reale nella sua mente, e l' indurrà a prestare più agevolmente fede alla possibilità della medesima. In fatti la prima difficoltà che si presenta alla mente, di chi sente proporsi un' astratta teoria si è la seguente. Com' è possibile che ciò non abbiano mai veduto gli uomini precedenti? come sfuggì a tutte le nazioni e a tutti i loro savŒ, che pure hanno posto i più profondi pensieri ad escogitare tutto ciò che giovar potea l' uman genere, se egli fosse cosa possibile od utile? Io non risponderò già, che dove tale obbiezione dovesse aver luogo in tutta la sua estensione, ella supporrebbe, che non fosse oggimai possibile verun ulteriore progresso al genere umano; perocchè io non penso che uomo me la possa proporre a tempi nostri con tanta estensione. Risponderò piuttosto che anch' io concedo dover incontrare con ragione una prevenzione sfavorevole quella istituzione così nuova, di cui nessuna traccia si rinvenga esser stata prima dei tempi nostri nelle menti e nei costumi degli uomini; ma non essere all' incontro ragionevole di credere che ogni egregia cosa dagli uomini traveduta e cominciata nell' opera sia stata già altresì perfettamente conosciuta e in tutta la sua perfezione eseguita. Ed or questo io credo che sia avvenuto del Supremo Potere della società civile da me descritto. Parmi ch' egli sia stato sempre più o meno chiaramente dagli uomini avvertito; parmi che sempre l' abbiano desiderato, come cosa di cui la natura umana provava il bisogno; parmi che egli sia stato lo scopo d' infinite ricerche politiche, d' infiniti sforzi ed agitazioni della società tendente di conformarsi a quella forma regolare. Parmi insomma che tanto la natura delle cose, quanto le menti degli uomini ci si sieno aggirate d' intorno: queste per formarsene l' idea compiuta, quella per trovare in essa la propria naturale posizione e quiete: ma che sì le menti che la natura non abbiano perfettamente asseguito il termine dei loro sforzi; perchè è legge fermissima, a cui le umane forze soggiacciono, che non ottengano la perfezione dello scopo se non dopo gran tempo, grandi errori, grandi urti: dopo una molteplice insomma e dolorosa esperienza. Del Tribunale politico sono minori le traccie istoriche che dell' Amministrazione. La ragione di ciò si è, che egli si può dire l' ultima perfezione della società, e suppone gli uomini già pervenuti a un grado assai grande di coltura. Oltracciò l' ultima riflessione che fa l' uomo è quella sopra sè stesso: egli è di prima giunta portato a pensare agli altri; questa è la direzione naturale della sua mente: il ritorcersi sopra di sè è una conversione difficile: egli opera senza dubitare di sè, senza pure pensare a sè operante. Perciò vi dovevano essere prima le Amministrazioni della società che il Tribunale politico. Poichè il Tribunale politico non può venire che allorquando l' Amministrazione è arrivata a riflettere sopra sè stessa, a dubitare dei suoi proprŒ giudizŒ; sia che questo dubbio ella giunga a fare spontanea per propria sapienza, sia che ella sia costretta di farlo per le scosse che ella riceve dalle reazioni che ritruovano le sue ingiustizie. Così in fatto troviamo nella storia. Questa ci presenta da per tutto Amministrazioni che operano con gran franchezza e fidanza del proprio fatto, che non dubitano punto di errare, che procedono come fossero infallibili; e che sostengono per gran tempo di esserlo, quando viene loro contrastata questa infallibilità. E se un tale contrasto singolare dura per molto tempo, non è già da credersi che ciò nasca dall' opera sola delle passioni degli uomini: egli si prolunga anzi per l' imbecillità umana come per l' umana malizia: perocchè quella è che impedisce agli amministratori della società di riflettere sulla propria incapacità, e sulla fallacità dei loro giudizŒ e delle loro operazioni. Se noi veniamo osservando la storia delle nostre moderne monarchie, cominciando dalle loro origini nei secoli di mezzo, e giù venendo dietro i loro passi; noi veggiamo come il loro potere si sia venuto rendendo sempre più assoluto, ed indipendente: e veggiamo ancora che ciò è avvenuto per opera di molti abili uomini di Stato, che affezionati ai loro Principi gli hanno serviti del loro avvedimento e della loro destrezza nel maneggio delle pubbliche cose. Si grida contro alla costoro improbità: ma, per quanto io sono persuaso, al tutto senza ragione. Io credo in quella vece, che a questa concentrazione del regio potere abbiano contribuito degli uomini sommamente probi, e forniti delle più pure intenzioni. - Ma essi, si dice, hanno rinserrate le catene dell' uman genere. - A bell' agio! Tornate su loro passi: esaminate le intenzioni dei loro fatti, e muterete opinione. Il potere supremo non era fissato; egli ondeggiava in varie mani: lo Stato era per cadere ogni istante nell' anarchia: la morte del principe, l' ambizione offesa di un nobile, l' ardire di un condottiero, un accidente impreveduto, bastava per rovesciare col trono la società. Questi mali cadevano sotto gli occhi, come cadono sotto gli occhi tutti i disordini delle amministrazioni di più persone, sieno grandi o sieno piccole: sieno le sette, nascenti all' elezione di un sovrano, sieno i tumulti dell' elezione popolare di un curato, ed i piccoli partiti, le discussioni, e gli stravizi, che la accompagnano. L' Amministrazione della società, che si credeva incaricata di difendere la società da tutte le turbolenze e da tutti i mali, ai quali può soggiacere, era ben naturale che si credesse ancora, non dirò autorizzata, ma in dovere di riparare a tutte quelle inquietudini. Ora quale era la strada più breve che a questo fine si presentasse? Quella di far guerra a tutte le amministrazioni collettive, e stabilire un sistema di centralizzazione dei poteri; perocchè ridotto il potere nelle mani di uno, e ridottovi così forte a cui nessuno possa resistere, tutti quei disordini son tolti via, che nascevano prima dall' ondeggiar egli incerto nelle mani di più. Ecco pertanto un esempio luminoso dello scambiare che fanno gli uomini le istituzioni stabilitive colle istituzioni preventive e repressive . Quand' essi nell' istituzione che ha una natura stabilitiva scuoprono alcun abuso, non pensano già di metter a lato della medesima un' altra istituzione preventiva o repressiva che corregga quel difetto; ma si mettono piuttosto ad alterare e snaturare la istituzione stessa stabilitiva perch' ella non si presti all' abuso osservato; non accorgendosi in ciò che l' abuso non nasce da essa stessa, ma è alla medesima estrinseco, cioè nasce dalla malvagità degli uomini che di essa abusano, il perchè a questa si dee por rimedio, e non guastare l' istituzione per sè buona e retta. Ma or ecco come il potere dell' Amministrazione sociale andò per mancanza di lumi rinforzandosi, e tendendo alla maggior possibile indipendenza, anzichè pensare di sottomettersi ad un Tribunale; e ciò fece, pensando forse fare cosa necessaria e buona, credendo eseguire la sua missione, quella di difendere la società. - Ma si ripete, chi tolse via quei mali dalla società, rendendo più fermo ed indipendente il poter supremo, rese questo più arbitrario e più insopportabile. - Appunto: ma ciò senza accorgersi. - In che modo? - Perchè l' Amministrazione nel tempo ch' ella vedeva i disordini, che si credeva in debito di torre via; non sospettava menomamente di sè stessa: non rifletteva sulla propria fallacità; gli amministratori insomma della umana società non pensavano d' essere uomini, ma solo d' essere amministratori. - Ma non è questa stessa una colpevole ignoranza? - Piuttosto un inganno della stessa natura umana, che ha bisogno d' essere scossa replicatamente e fortemente prima che dubiti di sè stessa. Gli amministratori della società accorrono a porre rimedio ai mali che veggono cagionarsi da' soggetti, all' incontro i soggetti si lamentano con altrattenta prontezza dei falli degli amministratori. E` facile ai soggetti lamentarsi degli amministratori, appunto perchè essi sono collocati in luogo da vederne i vizŒ altrettanto quanto poco sono in istato da vedere i proprŒ. Per quella stessa ragione che dicevo l' uomo non portare lo sguardo sopra di sè per dubitare di ciò che fa, se non tardi e trattovi quasi a forza. Il perchè è al tutto indiscreta la severità con cui si giudica dei superiori; esigendo ch' essi veggano i proprŒ errori altrettanto come li vede chi è da loro diviso: perocchè ciò è contro le leggi della umana natura. Egli è da ciò stesso che si spiega il seguente fatto. Il soggetto si lamenta dell' amministratore sociale. L' amministratore riguarda questo lamento come una colpa, come un' insubordinazione. Ma il lamento non è già portato contro l' autorità dell' amministratore, ma contro il male ch' egli fa colla medesima. Tuttavia l' amministratore non è disposto a considerarlo sotto questo aspetto, per quella stessa ragione, che non è disposto a considerare sè stesso come un uomo fallibile, essendo per accidente amministratore; ma è anzi disposto a considerarsi solo come amministratore. Qualità questa che astrattamente presa non annette già l' idea di imperfezione e di fallibilità, che resta tutta propria dell' uomo che amministra. Egli è inclinato a considerarsi piuttosto nella sua qualità d' amministratore che nella sua natura di uomo, perchè l' amministrazione è cosa esterna, che termina fuori di lui, per vedere la quale non ha bisogno, dirò così, che di uno sguardo del suo occhio in direzione naturale. Mentre a considerare sè stesso come uomo amministrante ha bisogno di ritorcere lo sguardo quasi contro natura, ed a fissarlo in sè stesso. Il perchè nel lamento dei soggetti contro di lui egli vede più facilmente e più naturalmente una opposizione ed una reazione alla sua autorità, che non sia un' avvertenza dell' errore ch' egli prende come uomo soggetto a fallire. Egli è vero, che le passioni umane, l' amor proprio, e l' avidità si mescolano da per tutto; ma non si può negare che le stesse leggi dello spirito umano conducano l' uomo a dubitare anzi di altrui che di sè stesso. Ed é perciò, che un amministratore della società nello stato naturale può essere inclinato di tutta buona fede ad aumentare ed afforzare l' autorità nelle proprie mani, persuaso di tor via in tal modo molti disordini con un' autorità piena ed assoluta, senza accorgersi nè sospettare de' mali ch' egli stesso per ignoranza o per passione, e quelli che a lui subentreranno nell' Amministrazione, possono produrre colla detta autorità. Vedete quello che nasce nel caso di una rivoluzione: prescindendo dai secondi fini che operano nella medesima. Si dice che il Sovrano era colpevole, che la sua Amministrazione era pessima. Se ne instituisce dunque un' altra, ma ben presto, atterrata anche questa, ne sorge una terza per vendicare i delitti della seconda. Nel fermento delle opinioni e nella prontezza e temerità dei giudicŒ si condanna ben presto la terza, come si condannò le due prime, per instituirne una quarta; e si succedono incessantemente i riformatori della nazione agitata. Ora onde viene questo gioco e questa vicenda, se non da un simile corso d' idee che fa lo intendimento umano, per cui l' uomo assai prima di giudicare di sè stesso giudica degli altri, e trovando sempre i difetti in quelli che amministrano la società non sa neppure dubitare ch' egli stesso trovandosi nel loro posto potrebbe cader negli stessi errori; ma anzi si lusinga che tutte le sue idee sull' Amministrazione sociale sieno giuste, che porterebbero la felicità nazionale, e che corrisponderebbero ai doveri dell' Amministrazione? Si sono veduti sempre quelli che prima di arrivare all' Amministrazione sociale gridavano contro il dispotismo e gli sforzi degli amministranti per aumentare il grado di potere nelle loro mani, pervenuti essi stessi all' Amministrazione aver fatto assai di più, non avere il menomo dubbio di far bene a tirare nelle proprie mani la più gran potenza, ed a comprimere colla più gran forza arbitraria che aver potessero tutti quei movimenti che venissero fatti contro all' Amministrazione. Egli non debbe adunque far meraviglia se si è quasi sempre veduto nelle società cercare da quelli che avevano in mano il potere la più piena indipendenza, mentre ciò non solo è conforme alla passione di dominare, tanto propria dell' uomo; ma all' indole stessa dell' umana natura, per cui l' uomo crede non esserci niente da temere da parte sua, ma solo da parte degli altri; e così gli amministratori nulla credono che vi sia da temere se l' Amministrazione è forte. I Principi nulla credono che vi sia da temere se la loro potenza sempre più si rende indipendente; anzi non la riguardano se non come un mezzo di fare un bene maggiore, senza pensare neppure alla possibilità che essa potesse essere istrumento di male. Per venire a quest' ultima riflessione, che può solo dar luogo al Tribunale politico, si esige dunque non solo che i Principi sieno retti e buoni, ma ben ancora che sieno ammaestrati da una lunga esperienza, la quale li faccia pensare sopra sè stessi. E non fa però meraviglia, se fino a qui solo delle incerte traccie si ravvisino essere state di consimile instituzione. Ed anche queste poche ed incerte traccie dalla parte del popolo si osservano. E così doveva essere, perchè il Tribunale politico è per il popolo; egli è necessario unicamente per difendere il debile contro il forte, la minorità contro la maggiorità. Prego il leggitore di considerare come tutto si trovi legato nel sistema da me proposto, e come i principŒ sieno conformi alla natura delle cose. Io ho cercato un sintomo che ci faccia conoscere quando venga leso il diritto in un uomo; e l' ho trovato nel risentimento morale; il quale risentimento quando gli uomini sono nello stato di natura porta la pretesa di risarcimento, cui l' offeso verifica per le vie di fatto se l' offensore non si muove spontaneamente a dargli soddisfazione. Il risentimento adunque, sintomo del diritto violato, è la ragione per cui gli uomini vogliono che sia resa loro giustizia; egli è dunque la causa movente della giustizia privata nello stato di natura, e della giustizia pubblica o sia dell' istituzione dei Tribunali nello stato di società civile. Applichiamo il risentimento al Tribunale politico; e veggiamo se il popolo risentitosi delle offese degli amministratori abbia chiesto e resosi com' ha potuto contro di essi ragione. Egli è evidente che questa è la cagione vera o pure il pretesto di tutte le ribellioni: queste nascono perchè il popolo si risente delle offese che vengono a lui fatte dagli amministratori della società, o che gli si dà ad intendere che gli vengono fatte: egli chiede giustizia; ma non trovando alcun Tribunale che gliela renda fa al modo stesso che fanno gli individui fra loro fino che si trovano nello stato di natura; decide e si rende ragione da sé. Esiste adunque sempre nel fatto e per la natura delle cose un Tribunale per gli affari politici, come esiste sempre per la natura delle cose un Tribunale per gli affari privati. La sola differenza fra il Tribunale politico istituito appositamente, e il Tribunale politico naturale, per dir così, si è quella che passa fra il Tribunale per gli affari privati nello stato di natura, e lo stesso Tribunale nello stato civile: nel primo stato è l' individuo o la famiglia quella che giudica in propria causa e che eseguisce la sentenza, mentre nel secondo stato il giudice è distinto dall' offeso, è comune a tutti, e dell' esecuzione della sentenza s' incarica la forza comune. Così pure fino che il Tribunale politico non è istituito, il popolo è il giudice di fatto, egli è giudice in propria causa ed esecutore della sentenza: quando s' instituisce un Tribunale politico apposito, allora il giudizio è dato ad un terzo a cui di concordia le parti si rimettono. Un tribunale adunque sempre esistette di fatto, come mostrano tutte le storie per gli affari pubblici; come sempre esistette un Tribunale per gli affari privati, mentre sì l' uno che l' altro è fondato nell' umana natura come in essa è fondato il risentimento all' offesa , risentimento che è un effetto immediato dell' idea di giustizia , così necessaria dell' umana natura come necessaria è ad essa la ragione . Ho già osservato che il governo preso nella sua nozione astratta, è un benificio comune, e non un aggravio, che perciò ciascuno può prenderne il possesso se trova il posto vacuo, alla stessa guisa come ciascuno può occupare un disoccupato terreno. Ma riducendo questo principio alla pratica difficilmente si verifica, perchè nella pratica vi si mescolano le ignoranze e le passioni umane. Perciò sono assai rari i casi di popoli sottomessi all' occupante, senza che questi abbia avuto bisogno della forza. Questa difficoltà a lasciarsi governare, in popoli non guasti ancora da idee filosofiche, ma forniti solo della filosofia della natura, è il risentimento , sintomo dell' offesa ricevuta. Ho ancora osservato nella prima parte la cagione per cui l' antichità amava tanto le Repubbliche. Non si era giunto a distinguere la modalità dei diritti dai diritti stessi: non si conosceva adunque il preciso oggetto del governo: governare la società non era per essi regolare la modalità di tutti i diritti, ma era regolare i diritti di tutti: o almeno queste due cose si confondevano nel fatto; e contribuiva a tale confusione l' estensione che prendeva la modalità stessa dei diritti 2) in un tempo, che il fine delle guerre ognor minacciate era l' esistenza, o la distruzione di un popolo. [...OMISSIS...] Anzi perciò appunto era Sovrano e Legislatore perchè estendendosi tanto la sovranità, 2) questa sarebbe stata insopportabile, concentrata nelle mani di un solo, ad un popolo che ritenesse qualche vita morale: il risentimento morale adunque questo naturale giudice delle offese era quello che determinava la stessa forma repubblicana di governo, e colla forza comune realizzava nel fatto la sua sentenza. Quando un uomo solo si fece arbitro dell' imperio romano, si può dire che la virtù era per annientarsi e con essa la luce della verità. La mancanza della prima rendeva gli uomini atti alla schiavitù, e non erano più suscettibili, si può dire, di offese morali, ma solo di offese fisiche poco diversamente da' bruti. Perduta colla morale la intelligenza, in luogo di un Tribunale e di un giudizio politico, si vede un atroce irritazione di tutti gli elementi della società, che non tendono nè di fare altrui nè di rendersi a sè giustizia, ma di distruggersi scambievolmente. Ricomparisce il Tribunale politico ancora in uno stato naturale, cioè unito al risentimento della società offesa, all' uscire che fanno dal caos del medio evo le moderne società. Ma la religione ha diminuite le passioni dei governanti, e ha dato, sì ad essi come al popolo, idee più esatte di giustizia. In tal modo diventa possibile la Monarchia: il Cristianesimo solo rese questa forma di governo tollerabile non solo, ma carissima alle nazioni. In che consiste questa mutazione della Monarchia, la quale era tanto odiosa all' età pagana nella sua parte più colta, e tanto cara all' età cristiana nella colta Europa? Un grand' uomo n' ha notata la differenza con gran verità: « « I re abdicavano il potere di giudicare da per se stessi. »1) » Fu questa l' opera della Religione divina. Ed il principio che adoperò questa Religione per operare un tanto mutamento di cose fu quella massima: « « Per me regnano i re: »2) » la massima che fa conoscere avervi sopra tutti i re della terra un Tribunale, una giustizia, un Monarca, a cui rendere il conto delle arbitrarie sentenze. Conviene concedere in fatti che questo è un principio fondamentale della Religione cristiana, che questo principio lo fa sentire incessantemente: che l' ha già impresso in tutti gli uomini di Europa. Ma saremmo assai lontani dal vero, credendo che questo fecondo principio abbia ricevuto tutto il suo sviluppamento, che la sua influenza abbia ottenuto tutto ciò che egli può ottenere. Si può ben dire ch' esso sia ridotto quasi interamente nella pratica dei negozŒ civili, ma siamo ben lontani da ciò nei politici; questo è quanto gli rimane di fare. L' autore citato dopo aver indicato il carattere della presente Monarchia europea nell' abdicazione che fecero i re del potere di giudicare per sè stessi, osserva che i popoli in contracambio dichiararono i re infallibili ed inviolabili. Così è in fatto. E sarà pienamente, quando pienamente i Re avranno abdicato un potere che esclude essenzialmente l' arbitrio; e che è tanto venerabile e divino quant' è più sicuro interprete e sacerdote della giustizia un potere che è augusto non pel ministro che lo esercita, ma per sè stesso. I popoli non avendo da temere più nulla dai re, abdicano anch' essi naturalmente il potere di giudicare da sè e di farsi giustizia: in tal modo i re ed i popoli pienamente cristiani eseguiranno il precetto: «Non giudicate e non sarete giudicati. 1) » Ma giova vedere il lento corso pel quale la società cristiana tende a tanta perfezione. Il primo passo fu quello di rendere possibile la Monarchia fondandola sulla giustizia, e restringendola per conseguente a non disporre che della Modalità dei diritti. Ma questa Monarchia ancor bambina doveva essere educata, e fino che nol fosse, doveva ritenere degli antichi costumi. La società parimenti doveva nella stessa ragione tenere presso di sè il Tribunale politico. Vediamo come ne faceva uso nei casi ordinari. Le parti del popolo, dice il Sismondi parlando delle forme di governo dei popoli settentrionali del medio evo « « erano quelle di sanzionare o rigettare le proposizioni del principe colle acclamazioni. »2) » Ecco il passo dall' antica alla nuova forma di governo: nell' antica non poteva essere legislatore che il popolo: nella nuova il popolo non è più legislatore ma il Monarca, egli si riserva solo di approvare le instituzioni se sono tali che non suscitino in lui il risentimento morale; e se all' incontro sono tali che il suscitino, di manifestarlo e di riprovarle. Ed ecco la Monarchia europea nella sua prima età: essa non é propriamente limitata nel suo potere di regolare la modalità dei diritti, che è ciò che forma la sua natura; ma vi intervengono gli abusi; le passioni e le ignoranze operano ancora e spingeranno talora il sovrano a passare il suo confine: il popolo adunque dovea risentirsene. Alcuni teoristi crederebbero che tale costituzione fosse concertata. Niente affatto. Ella nasceva dalla natura della cosa. La società si lascia governare (quand' ella non sia corrotta da false dottrine) ma non si lascia offendere: la sua reazione, adunque, o sia l' esercizio dei giudizŒ politici, è tanto maggiore quanto essa viene più frequentemente offesa; e l' autorità del governante per conseguente è più libera ed indipendente quanto meno offende, e più rigorosamente opera la giustizia. Egli è anche inutile ricercare se la società ha il diritto di reagire contro chi la governa: perchè basta sapere come sta la cosa nel fatto; e si potrà conoscere che così fu sempre, e che sarebbe contro la natura delle cose supporre il contrario. In fatti la natura si risente quando viene offesa: potrebbe egli darsi il caso che un popolo venisse tutto intero distrutto senza ch' egli mostrasse il minimo risentimento? Or non è già questo un caso ipotetico: un popolo naturalmente sta quieto quando può vivere, ma si risente per buttare da sè quelle leggi, e quegli ordini sotto dei quali egli non potrebbe vivere: per quanto possa essere grande il suo eroismo nella tolleranza, quando non possono più andar le cose, debbono cadere. Le modificazioni adunque della Monarchia assoluta cristiana sono tutte da ripetersi dalla sua propria imperfezione; la sua natura rimane sempre la medesima cioè quella di essere un potere supremo ed universale, e per ciò stesso illimitato fino che non esce dal suo oggetto, ed i temperamenti che si trovano posti alla medesima nel medio evo non consistono che nel giudizio popolare ecclesiastico dato in diverse forme; cioè o tumultuosamente o in Assemblee stabilite, o da tutto il popolo, o dalla classe dei Nobili. Sulla bontà della Legge, od istituzione sovrana, si riconobbe con ciò, che l' unico temperamento che poteva ricevere la Monarchia assoluta senza snaturarla non dovea essere già uno smembramento della sua autorità; ma bensì un Tribunale che lasciandola libera di fare quelli atti ch' essa credeva, li giudicasse: giudicasse cioè s' essi si contenevano nell' oggetto del Potere monarchico, o se il trapassava: se si contenevano in quello non era d' aggiungere altro: se feriva all' incontro i diritti, potevasi contro all' atto posto reclamare. 1) Più tardi alcuni s' occuparono del progetto di una pace perpetua che doveva appunto eseguirsi mediante la instituzione di una specie di Tribunale politico: e sono noti i progetti di Enrico IV e dell' abate di Saint7Pierre. Leibnizio che credeva la cosa possibile fece delle eccellenti osservazioni sul progetto di Saint7Pierre. 1) Questi proponeva due modi di fare il Senato cristiano o il Tribunale di cui parliamo; nell' uno l' Imperatore coll' Impero romano allora esistente doveva formare un solo membro ed avervi una voce sola; nell' altro si proponeva di torre via l' Impero romano, e all' Imperatore si dava parte in quel Senato unicamente come Sovrano ereditario, e ciascuno elettore aveva pure la sua voce a parte. Leibnizio ritrova il primo modo più secondo la giustizia, conservandosi per esso i diritti ben fondati dell' Impero. 2) Ognuno però vede che simile progetto è ben altro dal Tribunale politico da me proposto. Egli lo voleva fatto per regolare i negozŒ fra' Principi e togliere le guerre; e non aveva in vista la protezione dei popoli o il miglioramento delle costituzioni degli Stati. Bensì dei due modi proposti, cioè in quello, in cui l' impero veniva conservato, i popoli pure conservavano a cui avere ricorso ne' loro mali, cioè la Camera imperiale; e perciò trovavano qualche specie di Tribunale contro ai loro Sovrani; nuova ragione perchè il buon senso di Leibnizio preferisce questo all' altro piano. 1) E qui è osservabile nuovamente il progresso che aveva effettivamente fatto la società cristiana, coll' istituzione dell' Impero romano7germanico, verso il Tribunale politico di cui parliamo, e che noi grazie alle false teorie politiche dei nuovi tempi abbiamo perduto: voglio dire appunto quel principio di Tribunale politico, che si trovava già presso l' Imperatore in favore dei popoli. Questo era certamente un passo notabile verso l' erezione del politico Tribunale, ed una nuova prova che questo Tribunale lungi d' essere una chimera è anzi quel fermo scopo a cui tende continuamente la cristiana società. Tuttavia nell' Impero, ai nostri giorni estinto, non era ancora il Tribunale voluto. Egli aveva il difetto d' essere un Giudizio posto nelle mani di un uomo che era insieme Amministratore della Società, e fornito di fisica forza; unione contraria, come vedemmo, all' indole del Tribunale proposto. Poichè l' essenza di questo Tribunale è tutta morale; e colla forza morale egli debbe sostenersi; ed i giudizŒ suoi debbono essere puramente regolati dalla religiosa coscienza. Nell' Impero all' opposto gli interessi della famiglia imperiale erano troppo mescolati coll' ufficio di rendere una tanta giustizia. 1) Leibnizio conobbe assai bene quanto era necessario che un simile Tribunale godesse piena libertà, e non dovesse appoggiare i suoi giudizŒ che sulla pura coscienza; e quest' era altra ragione di tenersi fra i due modi difettosi, come al meno imperfetto, piuttosto al Tribunale dell' Impero, che ad una Dieta od Assemblea di Ministri dei Sovrani della cristianità. Anzi questa Dieta non potrebbe essere al tutto un vero Tribunale: non sarebbe che una unione di avvocati, ciascuno dei quali perorerebbe in favore del Principe che lo stipendia; e si converrebbero insieme per accidente, cioè secondo le istruzioni ricevute dai loro mandanti, e secondo il carattere loro personale di difficile o di buona volontà. L' amovibilità pure di tali ministri basterebbe a sconciare ogni buon avviamento; i quali difetti si evitavano col Tribunale della Camera imperiale, almeno in parte; ma essa stessa poi dipendendo dall' Imperatore non si rimaneva dall' essere ragionevolmente sospetta. 1) Fra tutti i concepimenti politici fin qui fatti dagli scrittori o dai Principi, quello che più si avvicina al Tribunale da me proposto, per quanto è a mia notizia, è di Giovammaria Ortes. Non sarà forse discaro ch' io esponga brevemente il pensiero di quest' acuto ingegno, meno forse ch' egli non merita conosciuto. 1) Egli muove il suo ragionamento da una analisi della natura della società civile; ed ecco com' egli ragiona intorno alla medesima. Nell' uomo havvi una ragione comune ed una ragione particolare . La ragione comune risulta dalle verità salutari che tutti gli uomini debbono unanimemente ammettere ed assentire per la comune loro felicità: verità morali, ossia di giustizia, per le quali vengono assicurati i diritti di tutti gli uomini egualmente senza parzialità a veruno: giacchè il vero ed il giusto è cosa comune ed indipendente da' particolari interessi. La ragione particolare all' incontro consiste in quegli ingegni ed argomentŒ che ogni uomo adopra in favore del suo peculiare interesse, giacchè ciascuno per l' innato amor proprio, parte della propria essenza, cerca la propria felicità. 2) Ora la ragione particolare è soggetta a venire in collisione assai volte colla ragione comune: giacchè l' uomo talora per troppo amore di sè stesso cerca il proprio bene senza ricercare quello degli altri uomini, e perciò infrangendo le leggi della giustizia e della ragione comune che i diritti di tutti egualmente protegge. La ragione particolare la quale assaliva in tal modo la ragione comune, faceva ciò con una forza particolare, cioè colla forza dell' individuo che ingiuria i suoi simili, e in essi la comune ragione. Era dunque necessario che si pensasse di riunire insieme le forze particolari e di formare in tal modo una forza comune per venire in sostegno della ragione comune che veniva continuamente assalita e violata dalla forza particolare. Ma dove esiste ella la ragione comune? come si può ella conoscere? non già col giudizio di ciascuno uomo particolare; perocchè non si saprebbe giammai se il suo giudizio provenisse dalla ragione sua particolare o dalla comune: oltre di che i particolari non vanno giammai d' accordo fra loro: e qui trattasi appunto di difendersi contro la ragione particolare. [...OMISSIS...] Ora la difesa della ragione comune è lo scopo della società civile: ella dunque viene formata dalle due parti necessarie per ottenere tale scopo, l' instituzione di un Tribunale che stabilisca la ragione comune, e la instituzione di una forza comune che la difenda. Ma potrebbe darsi un Ministero che simulasse di rappresentare la ragion comune, ed una forza comune, che simulasse difenderla; ma che veramente quel ministero non avesse in vista che di difendere e promuovere la ragione particolare, e abusasse a tal fine della forza comune. In tal caso, dice l' Ortes, non si avrebbe un governo vero ma un governo falso; perocchè simulerebbe di proteggere la ragione comune e non lo farebbe. Che cosa è dunque necessario per assicurarsi quanto è più possibile che il governo sia vero? E` necessario che questi due ministerŒ della ragione e della forza comune sieno divisi l' uno dall' altro, indipendenti l' uno dall' altro, supremi sì l' uno che l' altro. 1) Ma sentiamo come ragiona sopra di ciò l' Ortes medesimo. [...OMISSIS...] Nasce come corollarŒ di questi principŒ, che questi due ministerŒ sieno due parti essenziali del governo civile indipendenti fra loro e supreme egualmente, e che dalla loro concordia solamente possano i popoli giudicare se è vero o falso il governo. E` impossibile tor dal mondo tutte le violenze, tutte le usurpazioni. Quanto mai si può desiderare si è solo di avere un criterio ragionevole e più certo che sia possibile per conoscere quali atti sieno violenze ed usurpazioni: i popoli non possono pretendere di più; e non v' ha mezzo migliore per ottener ciò quanto è possibile, che la dichiarazione di un Tribunale appositamente stabilito per rappresentare e dichiarare la comune ragione. Ammessi tali principŒ passa l' Ortes ad analizzare le varie società civili e conchiude esser questa divisione di potere morale e fisico scopo del vero cristianesimo, e trovarsi ben avviata nelle società cattoliche; retrocessa e distrutta all' incontro nelle protestantiche e nelle altre accatoliche nazioni, dove la Chiesa non è libera o non divisa dal principato, ma ad esso soggetta o con esso incorporata. Perocchè la sua opinione sarebbe, che questo Tribunale politico riconoscer si dovesse nelle mani della Chiesa, la quale sembra fatta a ciò dalla sua stessa natura, mentre la sua natura è certo quella di esser il centro regolatore della forza morale; nè certo v' ha altro corpo a cuì meglio possa convenire tale incombenza che a lei. Egli è per questa natura della Chiesa, assai profondamente da lui intraveduta, che spiega l' occasione di quella calunniosa imputazione che a lei danno i suoi nemici, ch' essa si mostri ambiziosa di dominare e di disporre nelle cose temporali. Egli è vero che la Chiesa per sua natura ha un' influenza nelle cose temporali, ma l' Ortes vuole che accuratamente si distingua in che consista questa tendenza, la quale fu occasione fino dal nascere della Chiesa delle calunnie che a lei diedero i pagani. I cristiani, dice l' Ortes [...OMISSIS...] Egli è mediante quest' osservazione che si può giudicare con equità la condotta tenuta sempre dai Papi verso i Sovrani. Vi sono due partiti divisi nelle opinioni le più contrarie sopra tale condotta. Un partito grida: « l' ambizione e l' avidità dei Papi vorrebbe ingoiare tutti i regni della terra. »Un altro partito grida al contrario: la « magnanimità e il disinteresse dai Papi mostrato costantemente nei negozŒ temporali, che hanno trattato coi principi, è così nobile e sublime che non si può attribuirlo, considerando le occasioni che ebbero d' ingrandirsi, se non alle forze morali di una religione divina. »Onde sì grande differenza di opinioni in giudicare degli stessi fatti? la sola empietà, o il solo fanatismo religioso può acciecar tanto gli uomini? La ragione d' una tanta varietà di giudicŒ sui fatti stessi è la seguente. La sovranità ha riunito in sè medesima o ha voluto ritener uniti i due poteri supremi: 1 di giudicare sulla giustizia nella propria condotta politica; 2 di realizzare quella condotta politica che le sembrava migliore, ossia di amministrare la società. Ora così distinte queste due attribuzioni, o per dir meglio questi due rami del supremo potere, s' instituisca la questione così: « Hanno tentato i Papi di tirare a sè l' Amministrazione delle società civili? »Convien rispondere: « Non mai: egli è in questo che hanno costantemente dimostrato il più grande disinteresse e la più sublime generosità di operare, lasciando ai principi tutta intera la civile loro amministrazione. »Si domandi ancora: « Hanno ì Papi voluto giudicare della giustizia delle azioni politiche, o sia hanno essi voluto entrare in questo ramo del supremo potere politico? »E si risponda: « Sì, lo hanno sempre e costantemente voluto: questo doveva risultare dalla natura della religione cristiana a cui essi presiedono: di una religione cioè che ha fissato un centro della forza morale distinto al tutto dal centro della forza fisica. »Egli è questa distinzione che sparge la più gran luce sulla condotta dei Papi, e che fa giudicare rettamente di essa. [...OMISSIS...] Ecco il carattere naturale in politica del Capo della Chiesa: non è già quello di essere amministratore dei popoli, cosa che i Papi non hanno mai cercata, e spesso rifiutata, o tenuta a studio lontana da sè; ma bensì di essere Giudici dei Principi cristiani. La malignità e la malafede dei nemici della Chiesa può confondere queste due cose l' una coll' altra; ed è mediante questa confusione che diffonde tenebre per coprire agli occhi dei popoli la luminosa condotta dei Papi, e per ingannare i Principi cristiani. Dio voglia che questi ritornino alla sapienza dei loro avi, da cui hanno ricevuto le loro corone gloriose e santificate. Sono poche le verità di pubblico giovamento che non sieno state intravedute dalle nazioni. Ma non basta che sieno intravedute all' occasione di qualche fatto particolare, se non sono ancora generalizzate, e ben distinte per modo che non si possano confondere le une coll' altre. Fino che le utili verità non ottengono questa distinzione, direi quasi questo isolamento dalle altre verità affini, e che non si sollevano dai casi particolari, non possono divenire fondamentali principŒ della Civile Società. Prima di questo stato di distinzione le verità sono percepite dalla mente umana confuse insieme, per modo che di molte si fa una sola percezione oscura e molteplice, la quale però è l' embrione che bel bello si spiega e discioglie in tutte sue parti. Ma fino che più verità sono percepite come fossero una sola, queste si fanno occasion di sofismi e di perniciosi errori attribuendo ad una verità quello che è proprio di un' altra. Di errori prodotti per una simile cagione noi troviamo esempio appunto nel concetto del supremo potere della città, e per una naturale conseguenza ancora nel concetto della cittadinanza . Fino che il supremo potere si percepisce come una potestà sola , si cadrà sempre nei falsi ragionamenti; poichè quando nel caso particolare se lo considererà come giudice nel campo della giustizia politica, allora si attribuirà a questo potere giudiciale ciò che è proprio del potere amministrativo , e viceversa; per cui non s' avrà mai la chiara distinzione fra i due poteri. E da ciò si vedrà come sieno nate le diverse opinioni sulla natura della cittadinanza. Voi sentite alcuni che dicono: « « Le donne, i ragazzi, i servi, gli abitanti a tempo ed i forestieri, non sono cittadini. 1) » Voi sentite altri all' incontro volere ammesse le femmine alla cittadinanza, ed altri portare tanto innanzi la cosa da volere « che tutto ciò che spira sia rappresentato nella città. »2) La ragione di queste due sentenze non è che questa: quei primi considerano il supremo potere solo come una amministrazione: questi secondi lo considerano solo come un giudizio politico. Ma schiarite un poco l' idee. Dividete i due poteri, giacchè sono essenzialmente distinti; e riconoscete nella società: 1 Un' amministrazione della modalità di tutti i diritti; 2 Un Tribunale politico che giudica fra gli amministratori , e gli amministrati , e che difende la minorità contro la maggiorità . Cessa allora tutto ciò che v' ha di oscuro e di dubbioso in quella questione. Ed in fatti: Per chi è fatto quel Tribunale politico? Per tutti quelli che possono essere offesi. Dunque tutti quelli che possono essere offesi, e che entrano nella convivenza, sieno anche donne o fanciulli, ne hanno interesse, e debbe pender anche da' loro voti, o di chi fa per loro, la formazione del medesimo. All' incontro per chi può esser fatta l' Amministrazione? Non per altro, come abbiamo dimostrato, che per quelli che hanno dei beni amministrabili in comune, e per i quali l' Amministrazione può mantenersi. Dunque nell' Amministrazione non può aver voto che chi possiede di tali beni. Consegue da ciò che come due sono i supremi poteri della Società, così sono parimenti due le specie di cittadinanza, o i modi di entrare nella comunanza civile, alla prima delle quali « tutto ciò che spira, fornito che sia di ragione »appartiene. Noi però lasciando a questa qualità civile, che abbiamo indicata anche col nome di rappresentazione passiva , il titolo di cittadinanza; chiameremo l' altra con quello di Amministrazione; e il membro della medesima potrà dirsi cittadino amministratore . Sembra che Solone abbia traveduta la natura diversa che ha un tribunale di giustizia , ed una Amministrazione; poichè mentre volle che non si potessero eleggere i magistrati che dalle prime tre classi del popolo, nelle quali aveva collocati i cittadini agiati; permise che i giudici si potessero prendere egualmente dalla quarta, nella quale si trovavano i cittadini più poveri. 1) Ma egli non applicò quest' idea a nessun Tribunale politico, perchè egli non era arrivato a concepirlo. I Romani pure non seppero sollevarsi a quest' idea essenzialmente morale, che non poteva essere che suggerita dal Cristianesimo. Dico che l' idea del Tribunale politico è una idea essenzialmente morale; perchè non può essere il frutto che dell' amore della pura giustizia. Perchè gli amministratori e gli amministrati si sottopongano unanimamente ad un Tribunale, bisogna che amino il giusto, e abbiano sinceramente rinunziato a tutto ciò che potrebbe loro approdare la frode, la perfidia la violenza. A tanto non possono pervenire che nazioni rigenerate alla giustizia dell' Evangelio. Tutto ciò a cui si sono potuti elevare i romani si fu di staccare l' elemento intellettuale dall' elemento sensibile e individuale . Ciò fecero collo stabilire un Senato che fosse come la mente della Repubblica: e come tutto ciò che fecero nella Società civile il portarono ancora nella società domestica che era presso di loro secondo Livio una piccola Repubblica 1) così divisero pure le famiglie in patroni , e clienti; perchè quelli aiutassero questi coi loro lumi, e fossero quasi i consiglieri e direttori di questi: ma dopo di ciò non giunsero a staccare l' elemento morale dall' intellettuale; ma il lasciarono confuso coi due primi. 2) Egli è vero che il Senato romano divenne ben presto l' arbitro delle questioni che insorgevano fra i Re; ma quest' era piuttosto un effetto della sua prevalente potenza unita ad una fama ben meritata e sostenuta per gran tempo di naturale giustizia anzi che il Tribunale di cui parliamo: perciocchè il primo scopo del Tribunale di cui parliamo sta tutto nell' interno della Repubblica, essendo il giudizio fra gli amministratori e gli amministrati. Egli è così lungi che i romani pensassero che il governo dovesse essere giudicato, che il riputavano anzi il fonte della giustizia, ed il padrone delle sostanze e di tutti gli altri diritti privati dei quali egli disponeva liberamente, secondo il costume degli antichi governi come fece a ragione d' esempio colla legge Voconia colla quale si privavano le figlie della eredità, eccetto il caso della figlia unica. 1) Ma veniamo all' Amministrazione; cerchiamone le traccie storiche. Spero che queste confermeranno la teoria espressa presso gli spiriti non prevenuti; e la riconosceranno non già come un' aerea fabbrica quale suol uscire da una mente che spazia fra gli immensi campi del possibile senza fermarsi a nulla di reale, ma bensì come un risultato di serie meditazioni portate sulle istorie di tutti i tempi e di tutti i popoli, come un voto, un' intenzione uno scopo della natura, a cui incessantemente tende di condurre gli uomini, e che non si può acquietare fin che ella non vi sia riuscita. La mia teoria è nata dall' osservazione dei fatti; de' fatti completi, fecondi, perchè presi in gran numero ed in una grande estensione e, per quanto può assicurarsi l' uomo di se stesso, da un' osservazione non prevenuta da predilezioni e da pregiudizŒ: da una osservazione finalmente non intesa a rilevare ciò che fu, per adorarlo come l' ottimo, ma a rilevare ciò che fu per conoscere l' umana natura, gli umani bisogni, e quelle tendenze originarie e naturali che senza esser l' ottimo, menano all' ottimo, perchè sono gli avviamenti della natura, contro alla quale niuno può vincer giammai. Potrei dividere in alcuni articoli separati le traccie istoriche che mostrano l' Amministrazione da me esposta essere stata sempre dalle nazioni veduta, e la natura della società e degli uomini che la compongono con una azione incessante avere sospinti verso della medesima i civili governi; la perversità e l' ignoranza umana avere bensì combattuto, rallentato, oppresso a tempo, la forza della natura; ma questa non essere stata giammai distrutta; poichè ciò sarebbe impossibile per quella legge che l' umanità rifugge dalla propria distruzione. Ma dividendo in articoli separati le dette traccie istoriche dovrei interrompere ad ogni istante, minuzzare e soverchiarnei fatti. Preferirò adunque di mettere sott' occhio le dette proposizioni che dalla storia risultano come leggi o fatti costanti, e poscia riferirò le osservazioni che li provano non secondo l' ordine di quelle proposizioni, ma secondo quello che la storia stessa somministra. La storia adunque delle civili società presenta costantemente i fatti generali ossia le leggi seguenti: 1 La Società civile nella sua infanzia rimane alquanto soggetta alla legge della Società domestica 1), ma ben presto si spiega in essa un' altra legge consistente nell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: che diventa la legge prevalente dell' Amministrazione civile. 2 La natura della Società civile mediante la detta legge dell' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza ha chiamato a sè l' attenzione dei popoli, i quali per amore della quiete e della sicurezza hanno fatto sempre delle disposizioni favorevoli alla detta legge. 3 Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale, hanno prodotto novità politiche. 4 Quando il potere politico è dato in mano a quelli che non hanno la corrispondente proprietà, allora non è sicura la proprietà, e nasce di frequente, che quella proprietà che realmente non ha l' Amministratore, gliela si attribuisce con una finzione che pure è fonte di disordini. 5 La mancanza del Tribunale politico ha fatto sì che i popoli non potessero avere fin' ora un' Amministrazione dove fosse perfettamente equilibrata la ricchezza ed il potere politico: cioè che la Società civile non sia pervenuta alla sua perfezione. Questi cinque fatti costanti nella storia provano ad evidenza, che lo stato regolare o tranquillo della Società civile consiste nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere, e conferma l' Amministrazione sopra descritta. Il primo fatto segna il tempo che è necessario perchè la ricchezza nella Società civile manifesti la sua prevalenza: il secondo fatto dimostra le nazioni che s' accorgono di tal prevalenza irresistibile, e che o la secondano, e in tal modo perfezionano le costituzioni dello Stato, o vero vogliono cozzare con essa e si gettano in tutti i mali dell' anarchia: il terzo fatto dimostra come ogni grande mutazione nella ricchezza abbia sempre portato una mutazione nel potere, o pure una lotta perpetua col medesimo: il quarto fatto dimostra come se il potere prevale debba portare una mutazione nella distribuzione delle ricchezze; il quinto fatto finalmente dimostrando che non è possibile un perfetto equilibrio fra il potere e la ricchezza fino che il Tribunale politico non è diviso dall' Amministrazione, mette il legislatore in questa alternativa o di dividere il Tribunale politico dall' Amministrazione, o di avere un' Amministrazione in cui ci sia il detto squilibrio, e perciò di conservare nella società un germe necessario d' interna inquietudine ed agitazione che presto o tardi debbe svilupparsi, e sovvertire l' ordine sociale. Mettiamo adunque in luce questi cinque fatti, mentre essi rinserrano le traccie istoriche dell' Amministrazione da noi progettata, ed insieme ne dimostrano la necessità. La società domestica sussiste agiatamente colle ricchezze naturali , ma la società civile è quasi impossibile che sussista agiatamente senza il danaro 1). Le ricchezze naturali apportano delle derrate che non si conservano a lungo, e alle quali perciò non si attacca altro prezzo che il naturale , cioè quello che nasce dal vantaggio che si trae col consumarle: mentre il danaro si conserva, si ammassa facilmente e produce dell' altro danaro che pure si ammassa. Le ricchezze naturali ancora non si trasportano così agevolmente come il danaro, e non possono servire come serve questo al cambio, nè prendere un eguale acconcezza di rappresentare la misura comune dei valori. Per tutte queste ragioni le ricchezze naturali possono bastare ad una piccola Società come la famigliare, ma per una molto estesa come la civile il danaro è quasi indispensabile. Egli è dunque naturale che nella Società civile si passi ben presto a dare una grande importanza al danaro, come la forza più potente, la forza che ha un' attività più estesa, più celere e più molteplice di tutte le altre. Questa è la modificazione a cui soggiace la Società umana passando dallo stato domestico e ristretto, allo stato civile ed esteso. E quanto più si osserva, tanto più si vedrà, come la forza prevalente nelle Società civili viene ben presto ad essere la ricchezza, mentre nella Società domestica è la forza personale. Non essendo nello stato di Società domestica tanto necessario il danaro, ed essendo la ricchezza, che più vi si conosce, la naturale, non può con tale ricchezza formare la famiglia da sè stessa una forza; ma essa non ha altro prezzo come diceva, che quello che risulta dal mantenimento delle persone. Lo scopo dunque dell' affezione nella Società domestica sono le persone stesse e non v' è già qualche cosa che si possa amar più di esse mentre tutto si ama in quanto serve ad esse. Si attenda a questo progresso importante: Società umana sotto due forme: prima forma; Società domestica: secondo forma; Società civile. Progresso delle forze prevalenti nella Società umana: forza prevalente nella Società domestica, personale, consistente nella robustezza e nel numero degli individui: forza prevalente nella Società civile, reale, consistente nella ricchezza rappresentata dal danaro. Ora si veda lo stesso progresso nello spirito dell' uomo. Quali sono i primi oggetti che vengono sottoposti alla sua attenzione? le persone: il padre, la prima cosa ferma l' attenzione sulla sua famiglia. Qual' è la prima forza che l' uomo trova per difendersi dagli aggressori? la robustezza corporea. La prima forza adunque che trova il padre per difendere la sua famiglia consiste nel numero e nella robustezza dei membri della medesima. Ma questi membri conviene alimentarli: quindi il bisogno della ricchezza naturale, e il desiderio dei molti membri porta il desiderio di molta ricchezza. La forza di questi membri ben presto si conosce che può accrescersi mediante degli instrumenti delle arti; quindi si porta l' attenzione e il desiderio sopra questa nuova specie di ricchezza. Moltiplicando le riflessioni sopra gli usi che presta questa ricchezza, questo mezzo di alimentare molti uomini, di procacciarsi dei comodi e di ben armarsi 1) per difendere il godimento di questi comodi, si viene a mettere un pregio sempre maggiore nella ricchezza, la quale d' altro lato si rende sempre più necessaria quanto più sono cresciuti i bisogni fattizŒ, quanto i membri della Società sono diventati più numerosi, e quanto hanno fatto più di progresso le altre società contro le quali bisogna difendersi. Il prezzo delle ricchezze così va crescendo fino a tale, che la ricchezza che di natura sua non è che un mezzo, acquista la maggiore importanza e viene considerata come la forza prevalente: allora è il caso in cui le contese non hanno più un oggetto personale, ma un oggetto reale, vale a dire in cui non si questiona e non si guerreggia se non per la ricchezza. Tale è lo stato delle Società civili bene avanzato. 1) Le Società civili all' incontro che non hanno ricevuto tutto questo sviluppo, che non hanno percorso tutta questa gradazione d' idee; che non sono pervenute a conoscere pienamente l' uso della ricchezza, e quindi a conoscere come la ricchezza possa essere realmente la forza prevalente fra tutte le forze fisiche della Società; si possono considerare ancora in uno stato d' infanzia; non ancora escite pienamente dallo stato di Società domestica, e per ciò soggette alla legge della famiglia, che consiste nella forza personale. Perciò le instituzioni delle società civili che non hanno riguardo alla ricchezza, ma bensì alla forza fisica o personale, appartengono alla prima età della Società civile, o sia alla sua infanzia. Le instituzioni all' incontro che hanno riguardo alla ricchezza, e che la considerano come la forza prevalente, appartengono alla seconda età delle Società civili, o sia alla loro virilità. Quasi tutte le Società civili antiche ritengono ancora dello stato di Società domestica, ossia mostrano dei segni della loro infanzia; e ciò tanto più quanto più si considerano nei loro esordŒ. Rousseau stesso ciò travide. Dopo d' aver detto che la sovranità fondata sulle terre è la più ferma, soggiunge: « « vantaggio che non pare fosse ben sentito dagli antichi monarchi, che non appellandosi se non re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni, sembravano riguardarsi come i capi degli uomini anzichè come i signori del paese. Quelli d' oggidì s' appellano più accortamente re di Francia, di Spagna, d' Inghilterra ecc.. In tal modo tenendo il terreno sono ben sicuri di tenerne gli abitanti »1) » La division che fece Romolo del popolo romano fu un' istituzione famigliare; poichè essa ebbe riguardo alle persone, o sia alla forza militare, e non alle ricchezze. Egli divise il popolo romano in tre tribù, chiamate i Ramensi, i Taziensi, e i Luceri, che esprimevano, non già quanto possedevano ma la loro origine, cioè gli Albani, i Sabini, e gli Stranieri. Ciascuna tribù fu divisa pure in dieci curie, e ciascuna curia ebbe la sua cappella per la celebrazione dei sacri riti, ciò che pure s' accorda coll' indole della Società domestica. Ogni tribù dava mille pedoni e cento cavalieri, che era la forza regolare dello Stato. Una tale divisione famigliare era tanto più possibile in quanto che non si conosceva ancora diseguaglianza nella ricchezza, ed il terreno acquistato in corpo potè esser diviso regolarmente: la Religione e lo Stato poteva averne una parte per le spese pubbliche senza bisogno delle contribuzioni private; e l' altra parte potè dividersi in trenta parti, come trenta era il numero delle curie. Ma egli era impossibile che questa instituzione famigliare sussistesse a lungo, come a lungo non può conservarsi la perfetta eguaglianza delle ricchezze: doveva manifestarsi ben presto la legge della Società civile, doveva presso i Romani conoscersi ben presto la loro importanza politica: e la manifestazione di questa legge, tosto che fosse successo lo squilibrio delle fortune, avrebbe potuto dare la più grande scossa alla repubblica, e metterne in pericolo la esistenza, s' essa fosse stata guasta dalle passioni delle Società invecchiate e corrotte, e se non avesse avuto degli uomini prudenti capaci di seguire la natura delle cose, e di modificare le antiche instituzioni a tenore delle nuove forze che si manifestavano e si rendevano prevalenti nella Società. L' uomo prudente che seppe accorgersi della legge delle Società civili appena che si manifestò in Roma e che diede delle instituzioni in armonia colla medesima fu Servio Tullio, institutore della divisione del popolo romano in centurie. Dalla divisione di Romolo erano trascorsi centottanta anni circa fino a Servio Tullio sesto re di Roma: nel qual tempo la divisione delle fortune private aveva soggiaciuto a grande varietà. Quindi se i cittadini poveri avessero continuato ad avere nelle pubbliche deliberazioni un suffragio di egual valore de' cittadini ricchi, il diritto avrebbe pugnato col fatto, poichè la maggioranza nelle ricchezze dava di fatto una prevalenza nelle pubbliche deliberazioni: 1) prevalenza che se non veniva legalizzata dalla costituzione dello Stato, era già essa stessa un attentato contro la medesima costituzione, la quale sarebbe forse crollata contro una tal forza con grave pericolo della repubblica. Servio Tullio adunque distribuì in sei classi tutto il popolo romano, secondo i gradi della ricchezza. Il censo sotto di lui non fu solamente la numerazione del popolo: fu ancora l' estimo delle sostanze di ciaschedun cittadino. La prima classe era composta di quelli, i beni dei quali ascendevano al valore almeno di centomila assi, corrispondenti allora a 774. franchi, o intorno. La seconda classe aveva per censo 75 mila assi: la terza classe conteneva i particolari d' una sostanza almeno di 50 mila assi: la quarta quelli che ne avevano 25 mila: la quinta i cittadini di 12 mila e cinquecento assi, e la sesta finalmente abbracciava tutti i rimanenti i quali non avessero sostanze bastevoli per entrare nella quinta, o ne fossero al tutto sprovveduti. Diviso così il popolo romano in sei classi secondo l' estimo della ricchezza si attribuì a ciascuna classe un numero di voti nelle pubbliche deliberazioni, che fosse approssimativamente in equilibrio colle ricchezze che possedevano, e ciò si fece in questo modo. Ciascuna classe si divise in un dato numero di centurie, ed ogni centuria aveva un voto. Ma la prima classe dei più ricchi si partì in ottanta di queste centurie, con più diciotto centurie di cavalieri, che nella somma portava un numero di novantotto centurie, e perciò di novantotto voti. Ora un simil numero di voti non avevano nè pure tutte le altre cinque classi prese insieme; poichè non formavano più fra tutte che novantacinque centurie, e però novantacinque voti: ventidue centurie era la seconda classe, venti centurie la terza, ventidue centurie la quarta, trenta centurie la quinta ed una sola centuria formava la sesta classe. In tal modo, sebbene il popolo romano fosse il sovrano, tuttavia non partecipava già secondo le teste ma bensì secondo le sostanze: le ricchezze venivano rappresentate nella repubblica romana e non le persone. La sesta classe per esempio conteneva un maggior numero di persone che tutte le cinque classi precedenti, e formava perciò più che la metà del popolo romano: e tuttavia non aveva nell' Amministrazione che un voto solo, vale a dire la centonovantatreesima parte di sovranità, o sia d' influenza nella pubblica Amministrazione. Se la prima classe sola rendeva i voti uniformi, la cosa era finita, poichè il numero di voti di tutte le altre cinque classi restava minore dei soli voti della prima classe, ed essendo questa un centesimo circa dell' intera popolazione 1), mentre l' ultima classe era più della metà, si può calcolare che un votante della prima classe aveva un voto equivalente almeno a cinquemila persone dell' ultima classe. Si può dire che questa fosse la più sapiente instituzione che avessero i Romani, com' essa era la più fondamentale di tutte, e quella che diede a Roma una costituzione tanto ammirata pei suoi effetti e così poco nella sua intima natura. Vediamo come questa idea si presenta nei libri dei politici romani; giacchè si può dire formare il nucleo della romana politica. Cicerone non finisce d' ammirarla: ed attribuisce ad essa la grandezza romana. Egli pone come assioma politico, « Quod semper in republica tenendum est; ne plurimum valeant plurimi . » E ne rende la ragione; « « debbe, » egli dice, «prevaler sempre il suffragio di quelli che hanno il maggior interesse, perchè la città si conservi in ottimo stato »2). » Paolo giurisconsulto espone la stessa ragione della politica romana con altre espressioni: « « L' avere, » dice, «e la ricchezza delle famiglie è una specie di ostaggio e di pegno ch' esse danno alla repubblica »3). » E` comune presso a' politici romani ancora quest' altra ragione che « « se si dà potere nella repubblica ai bisognosi, essi fanno preda la repubblica per soddisfare a' propri bisogni: 1) » »ciò che è quanto dire, che il potere che hanno in mano, quasi per una natural forza attiva, rapisce a sè la ricchezza. Il peso che ha la ricchezza nell' Amministrazione sociale è un fatto indipendente dagli ingegni degli uomini. Se adunque esaminando le costituzioni di certi popoli si truova che esse sono foggiate a tenore di questo fatto e di questa forza naturale non si debbe già maravigliarsi della sapienza dei popoli e dei ligislatori, perchè non sono stati condotti a quelle savie disposizioni già per delle teorie, ma per la forza della natura: il loro merito sta nell' essere stati obbedienti alla natura, come la sventura di altre nazioni venne dall' abbandonare temerariamente la guida della natura, ed abbandonarsi ad una speculazione priva dell' appoggio dei fatti. Noi veggiamo adunque che la natura delle cose ha indicato ai popoli la legge da noi indicata che l' Amministrazione sociale sia distribuita in proporzione della ricchezza: e che i popoli docili alla voce della natura hanno fatto delle instituzioni favorevoli ad una tal legge. Ma come noi dicevamo, questa legge non si poteva manifestare al primo stabilirsi del popolo: perchè allora non possede ricchezze se non comuni: bisognava dar tempo perchè le terre si dividessero, perchè le famiglie parte assai moltiplicate, parte poco o nulla, od estinte, e gli altri accidenti producessero una notabile diseguaglianza fra i proprietarŒ, e finalmente bisognava dar tempo perchè questa diseguaglianza passasse nella bilancia del pubblico potere, o sia manifestasse la sua influenza: per ciò non è negli esordi delle nazioni, ma dopo ch' esse sono bastevolmente costituite, che la detta legge si manifesta, che i popoli se ne accorgono, e che la secondano colle istituzioni. La distinzione di questi due tempi delle nazioni non si può veder meglio che tenendo dietro ai passi delle nazioni conquistatrici; perocchè quando esse si stabiliscono sul terreno conquistato, allora si può dire che cominci la loro organizzazione sociale. Sentiamo in che modo riconosce questa verità nella storia dei primi governi Greci un Autore della nazione che ha il governo conformato più che tutte le altre in forma di una Amministrazione, e che perciò era scorto in sulla via del considerare l' instituzione dei governi sotto questo punto di vista importante. 1) [...OMISSIS...] Ciò che nacque ai tempi eroici della Grecia, in cui cominciò l' organizzazione sociale mediante una militare autorità, cioè mediante una prevalenza personale che è la legge della società domestica, cui susseguì la divisione delle terre, e venne ben presto la ricchezza a far sentire la sua preponderanza fra le forze sociali, che è la legge delle Società civili avviate; si rinnovellò nelle nazioni conquistatrici del medio evo, mentre, come diceva, date le stesse cause debbono aversi gli stessi effetti. Consideriamo questo fatto in Francia: vedremo ciò che presso a poco successe in tutta l' Europa; vedremo due tempi del potere personale e del potere reale . La maggiorità degli interessi deve sempre prevalere in quel modo che questi stanno nell' opinione degli uomini, e quindi si fa sempre sentire il bisogno di omologare la volontà del principe colla volontà della nazione stessa: ma nel primo tempo non vi sono che interessi personali , e quindi vediamo che la assemblea nazionale ai tempi di Clodoveo non è che il campo di Marte: un' assemblea di guerrieri che a cavallo deliberano in mezzo ad una vasta campagna sugli affari della nazione. Ma ben presto i conquistatori si dividono a sorte 1) i terreni, e quella parte di popolazione indigena che è sfuggita alla distruzione si fa schiava dei vincitori, la quale col perdere la libertà perde insieme la proprietà, e con questa perde ancora ogni politica esistenza. D' allora comincia a manifestarsi l' equilibrio della proprietà col civile potere: i piccoli proprietari erano scomparsi ed i vincitori poco numerosi in proporzione delle terre divise, erano divenuti possessori di latifondi. Quindi le assemblee nazionali sotto Carlo Magno non compariscono che dei gran proprietari, cioè i due stati della nobiltà e del clero, che erano soli quelli che avevano la ricchezza di un peso sensibile nella sociale amministrazione. La nobiltà non eccedeva forse la quintamillesima parte della nazione, come una quintamillesima parte della nazione si può dire che fosse la prima classe di Servio Tullio; se non che le altre classi nei romani ComizŒ avevano pure un lor voto; mentre ai parlamenti di Carlo Magno non aveva influenza alcuna l' immenso popolo rimaso privo di proprietà. Ma comincino a nascere i piccoli proprietari, comincino queste piccole proprietà tolte insieme a diventare una somma notabile: noi vedremo che insieme con questo acquisto di proprietà verrà ben anco la rappresentazione politica, questo fatto si sviluppò sotto la terza razza. Ed ecco in che modo. La proprietà dei Nobili è quella che mette talora in pericolo la corona la quale ha bisogno di trovare un terzo potere che la sostenti. A tal fine Luigi il Grosso comincia a francare le città dei suoi possedimenti, le quali città erano a punto composte dei vassalli, che è quanto dire di servi; ed i re suoi successori proseguono a moltiplicare gli uomini liberi in ragione che potevano unire ai regii dominii qualche terra dei signori. Filippo Augusto che riunì alla corona la Normandia, l' Anjou, la Maine, la Touraine, il Poitou, il Vermandois, l' Artois, la contea di Gien, concesse il diritto di comune a tutte le città di tali provincie e così le francò, e sul fine dello stesso secolo XIII Filippo il Bello con ordinanza fatta al parlamento d' Ognissanti abolì interamente nella Linguadocca la corporal servitù cangiandola in una imposizione annuale. Questo era creare molti piccoli proprietarŒ; e dar la esistenza a molti piccoli proprietari era introdurre nello stato un nuovo potere politico che tantosto comparve. Nel 1301 fu ammesso per la prima volta agli stati generali della nazione da Filippo III sopranominato l' Ardito, oltre il clero e la nobiltà, l' ordine altresì dei liberi cittadini. Il terzo stato vi comparve realmente a dare il suo consiglio, ma sotto la forma di supplica (requˆte) , che presentava in ginocchio. La tassa annuale che veniva messa ai nuovi liberati, si può dire l' origine dell' imposta. Ma dopo ch' essi furono liberi, i proprietari divennero i soli che portavano il carico dello stato, mentre il clero e la nobiltà rimaneva esente dalle imposizioni, come era prima; e ancora in parte da quei sacrifici straordinari che precedentemente far doveva nei bisogni dello stato; mentre non c' eran altri, che pagar potessero, nè altri interessati nella pubblica Amministrazione. Ma si riconosceva però conforme all' equità di consultarli sulle nuove imposizioni, e che fossero da loro acconsentite. Negli stati generali del 1345, sotto Filippo di Valois essi diedero il consenso alla prima imposta di soccorsi e gabelle , e in quegli del 1355 furono scelti fra essi dei commissarŒ, per la riscossione della pecunia accordata al re in uno coi commissarŒ degli altri due ordini. In tal modo si formò la costituzione francese: fu la proprietà che determinò il governo per una forza della natura, secondata dalla saviezza dei reggitori. Al dividersi della proprietà si divise con essa il governo, e se non si fosse diviso sarebbe nata la turbolenza della Società, ed il monarca per trovare un sostegno contro i nobili non avea che a creare dei piccoli proprietarŒ, poichè con questi creava una forza tendente continuamente da se stessa a prender posto nel governo, al quale scopo presto o tardi sarebbe riuscita o con una concessione savia di quelli che già governavano, o certo in ultimo per un' aperta violenza. Egli è dunque falso ciò che vien comunemente creduto, che il governo francese rappresentasse di sua natura dei principŒ, e non delle cose, a differenza della costituzione inglese rappresentante delle cose e non dei principŒ. Non vogliamo già dire che l' antica costituzione francese avesse perfettamente soddisfatto alla legge dell' Amministrazione, e conseguito un perfetto equilibrio fra il potere civile, e la proprietà: noi diciamo solo che lo ha conseguito approssimativamente: mentre anzi assegniamo per quinto fatto somministrato dall' istoria: « Che la mancanza del Tribunale politico presso tutti i popoli ha impedito ancora l' esistenza di un' Amministrazione perfetta, in cui la proprietà sia perfettamente equilibrata col potere amministrativo. »Per ciò nè pure in Francia la costituzione ebbe mai toccata questa perfezione amministrativa: e si può anche concedere, che si tenne sempre più lontana da ciò che non sia la costituzione inglese; poichè in Francia spiegò maggior forza l' elemento morale che in Inghilterra, come viceversa in Inghilterra spiegò maggior forza l' elemento amministrativo che in Francia: quantunque sì nell' una che nell' altra nazione, prevalse l' elemento amministrativo all' elemento morale. E in fatti l' elemento amministrativo debbe sempre avere maggior forza, nelle costituzioni in cui questi due elementi rimangon confusi, dell' elemento morale: poichè l' elemento morale non riguarda che la difesa della minorità; mentre la maggiorità rimane difesa coll' organizzazione in forma amministrativa. Perciò egli è assurdo il dire che l' antica costituzione francese rappresentasse solo dei principŒ; mentre i principŒ non potevano aver in essa che la minor influenza, e nella sua massima parte doveva esser formata dalla maggiore somma degli interessi, o sia dalla proprietà: idea quanto vera, tanto ripugnante al presente modo del pensare dei francesi. Ma per convincersene essi non avrebbero, che ad osservare quanto avvenne allorquando si dipartirono dalla legge della natura: quando vollero atterrare la loro costituzione che si appoggiava sulle cose, per sostituirne una che rappresentasse dei principŒ: quando in somma violarono la legge dell' equilibrio fra la proprietà e il potere; legge che non si può violare senza che la natura delle cose non ne punisca l' imprudenza severamente, fino che non sia a pieno vendicata, e la sua legge di bel nuovo ristabilita. In fatti i mali della rivoluzione francese non hanno altra cagione prossima che la violazione di una tale legge. Se lo stato delle cose pubbliche era difettoso, se le imposte pesavano soverchiamente sopra quel genere di persone che era più oppresso dalle fatiche, e le odiose esenzioni, il soverchio lusso, e le dilapidazioni della Corte e delle finanze mal disponevano gli animi: qual era il rimedio efficace e sapiente a tali mali? Bisognava formare un più comodo riparto delle proprietà, e quindi appresso una distribuzione dell' Amministrazione governativa equilibrata colle medesime. Un più comodo riparto delle proprietà non si potea far che in due modi: il primo con violenza e con ingiustizia; e questo era celere, se pur non avesse incontrato una reazione che lo rendesse impossibile: il secondo colle instituzioni; e questo era lento verso all' impazienza dei francesi; ma poteva esser giusto. Egli è appunto quel modo, di cui, come abbiamo detto, si servì Luigi il Grosso: egli vide la corona in pericolo, e lo stato stesso straziato dai disordini dei nobili: e cercò di porvi rimedio col promuovere una nuova distribuzione della proprietà in un modo giusto, qual fu quello della francazione delle città appartenenti ai dominŒ della corona, promovendo e creando in tal modo i piccoli proprietarŒ, e dando l' esistenza così ad un terzo stato, che allargasse la base del potere, e collegato colla corona facesse fronte alle soperchieriere della nobiltà. Ma solo con delle instituzioni che avessero messe in esecuzione con maggior esattezza la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, io credo che la Francia sarebbe stata alleggerita dei mali che la aggravavano dopo la metà del secolo scorso: poichè egli è impossibile, che se avesse potuto parlare e in conseguenza prevalere la maggiorità degli interessi, non sarebbero più potute sconcertarsi le cose pubbliche per la prevalenza delle opinioni, o sia dei principŒ, mentre le parole la perdono sempre quando si mettono a fronte delle cose. Ma invece di ciò, che si fece? I mali di cui era aggravata la Francia erano reali: si disse di volervi porre un rimedio: nulla fino quì di male. La sapienza per ritrovare questo rimedio mancava; e quelli che avevano ottenuta celebrità di sapienti erano i filosofi . Poichè i mali erano da tutti sentiti, la necessità del rimedio era pure da tutti sentita: v' era dunque la disposizione degli animi a ricevere ciò che si presentava come rimedio dei mali. E poichè è naturale di cercar sempre il rimedio da quelli che hanno l' opinione d' essere sapienti, così era naturale che i filosofi che avevano saputo usurpare l' opinione di sapienti, fossero anche i legislatori. Questi stolti che riguardavano come « una idea vana e una fatica ingrata lo studio « delle antiche costumanze, »presso i quali tutto ciò che era passato era barbaro, e tutto ciò che si ritrovava nel fatto era ingiusto; si ritrovavano ben lontani dall' esser disposti dall' applicarsi a consultar l' esperienza; ed alla noia di fissare con un lungo studio dei fatti le leggi della natura, preferivano ben volentieri le istantanee creazioni della loro mente, alle cui decisioni con una inconcepibile presunzione e cecità, sembravano persuasi che avrebbe obbedito docilmente l' universo. Con queste disposizioni si aprirono gli stati generali del 5 Maggio 17.9. L' antica legge dell' equilibrio della proprietà col potere fu disconosciuta: la distinzione dei tre stati, che era l' effetto dell' esperienza dei loro antenati, e l' espressione della detta legge, fu tolta: i principŒ furono sostituiti alle cose; e il terzo stato pretese, che non si dessero più i voti nelle tre assemblee divise, come si era fatto per tanti secoli; ma rovesciando queste rancide costumanze, che i poteri si verificassero in comune senza distinzione d' ordini: che l' assemblea fosse una sola, e i voti fossero dati per testa. Invano si resistette alquanto dai due altri ordini, non immuni dalla vertigine delle teorie, e il giorno 17 di Giugno i Comuni, che così si chiamarono quelli del terzo stato, uniti ad alcuni deficienti degli altri due ordini, abolirono ogni distinzione d' ordini e si costituirono in assemblea nazionale; e il 27 di Giugno il Re stesso intimidito, avendo scritto a quella parte del clero e della nobiltà, che non s' era ancor aggiunta ai Comuni, di farlo, tutti i deputati siedono insieme confusi sulle medesime panche. La rivoluzione con quest' atto era già fatta. Il Clero avea 290 Deputati, la Nobiltà 270, il terzo stato 59.. Il terzo stato adunque, avea 40 voti di più. In tal modo il potere si ritrovava nelle mani di quelli che non avevano la proprietà: gli interessi non erano rappresentati, ma le persone: la Società aveva retrogredito al primo stato sociale, con questa differenza, che le Società che sono nel primo stato hanno una rappresentazione personale, perchè la proprietà non è divisa o è divisa equabilmente, mentre le Società avanzate, dove è introdotta la disuguaglianza della proprietà, ricevendo una rappresentanza personale vengono ad avere un fatale squilibrio fra la proprietà ed il potere, che debbe produrre in esse l' agitazione. In tal modo ricevuto nelle mani dei non poprietarŒ il potere, togliendolo dalle mani dei proprietarŒ, essi avevano con ciò assalita la proprietà stessa. Invano molti rivoluzionari protestarono di non voler assalire le proprietà: la rivoluzione le assalì di fatto, dall' istante che il maggior potere fu dato in mano di quelli, che non erano proporzionati proprietarŒ, dall' istante che fu introdotta la teoria della rappresentazione personale. Il potere tira a sè la proprietà, specialmente un potere nuovo e rapito ai proprietarŒ; poichè egli ha bisogno della proprietà per sostenersi. Per ciò egli è verissimo, che nella rivoluzione francese i principŒ non furono che il pretesto: mentre essa si può a pieno definire, chiamandola una guerra fatta alle proprietà. Basta considerarla in tutti i suoi passi perchè si veda continuamente in essa una forza, che si aggrava continuamente adosso degli antichi proprietarŒ; che prima non agisce apertamente che contro i più deboli, e poscia ancora contro i forti: sono i beni del clero quelli che prima vengono divisi; intanto i nobili sono costretti di fuggire spaventati e di lasciare le loro sostanze preda ai nuovi conquistatori: che che si dica contro agli emigrati, qualunque ingegnoso ragionamento s' instituisca, per ritorcere in loro colpa la loro infelicità, non si potrà giammai oscurare il vero, che risplenderà lucido più che il Sole agli occhi della posterità, quantunque annebbiato ai presenti da tante pestifere esalazioni. I nobili non avevano più la forza in mano da poter difendere la loro proprietà: questa forza era in mano dei minori proprietarŒ, da cui avrebbero dovuto temere, quando anche non si fossero stati per gli principŒ dichiarati loro nemici: non restava dunque ai nobili che di lasciar la preda delle lor proprietà, e di mettere in salvo colla fuga le loro persone, eccitando con ciò stesso la commiserazione ed invocando l' aiuto di potenti stranieri. Invano si fa colpa al debile di essere ricorso al forte per sorreggersi contro i colpi degli oppressori: questo non era che una conseguenza naturale della debolezza a cui s' erano ridotti; non fu difficile spogliare i ricchi indeboliti, spaventati, fuggiti. Successo in tal modo un grande squilibrio tra la proprietà e il potere, lo stato delle cose pubbliche era tale, che il diritto al potere non nasceva già dalla proprietà, ma dall' abilità personale. E come questo potere, portava seco il dispotico dominio delle proprietà, poichè non v' era più nessuno che le potesse difendere; per ciò tutti quelli che si credevano d' avere dell' abilità sufficiente, dovevano disputarsi in nome dei principŒ proclamati un governo, che di sua natura era così ricco quanto era ricca la nazione. Di che dovevano nascere quelli accaniti dibattimenti e quelle atrocità orrende che nacquero. A chi si poteva appellare nel contrasto delle abilità personali? alla forza; secondo la legge del primo stato della Società, nel quale prevale la forza fisica. L' anarchia per ciò durar doveva fino che una forza fisica prevalente soggiogasse tutte le altre; cioè fino all' epoca dell' impero. Il comando militare doveva tener il luogo del governo civile; e non è meraviglia se Napoleone che operò questa ultima rivoluzione considerasse la forza militare come l' unico vero sostegno del suo, come di ogni altro potere 1); egli sapeva di quanto andasse debitore a questa forza. Si considerino dunque i progressi della Società nella Francia; e si vedrà, che tutta la storia conferma questa legge uscente dalla natura delle cose; che la proprietà ed il potere tendono ad equilibrarsi: 1 dei conquistatori ascendendo fino all' epoca di Clodoveo, presso il quale prevale la forza fisica, e la abilità personale, primo stato della Società. 2 noi vediamo, la proprietà influire un poco alla volta nella forma del governo civile fino ch' essa diventa una forza prevalente; vediamo il potere civile tener il luogo del potere militare e distribuirsi a quel modo stesso che si distribuisce la proprietà, prima in due stati, e poi in tre, perchè un terzo stato diventa proprietario: quest' è il secondo stato della Società che dura fino alla rivoluzione francese; ed esso è l' opera delle forze della stessa natura. La rivoluzione sostituisce alla natura la teoria, ed ecco ciò che fa: 1 Produce lo squilibrio fra la proprietà ed il potere; cioè a dire rimette in piedi il principio della rappresentazione personale, ed eseguisce questo principio col far sì che il terzo Stato dei minori proprietari acquisti un potere prevalente e quindi sia spogliato del potere civile il clero e la nobiltà, cioè i maggiori proprietarŒ. 2 Il potere civile messo nelle mani del terzo stato, e quindi resi i minori proprietari arbitri delle fortune della nazione, diventa un oggetto della cupidità di ciascuno che vuol arricchire: e d' altro lato non essendovi che una maggiore abilità personale, che fornisca in tale stato di cose un titolo per aver in mano il potere civile, tutti quelli che possono se lo contendono, presumendo di esser più abili, e d' aver teorie migliori da far valere, per le quali ognuno si vanta chiamato dal proprio genio a salvare la patria. 3 L' abilità individuale non avendo nessun tribunale che la determini si appella alla forza fisica, e la forza fisica distrugge il potere civile insieme con tutte le antiche istituzioni, e getta lo stato nell' anarchia. Qui finisce la storia della Società in Francia: la quale ha due periodi: il primo di una Società che si forma, e che comincia dal VI secolo fino all' anno 17.9; il secondo di una società che si distrugge, e che comincia il 13 giugno 17.9 fino al 1. Maggio 1.04. In quest' anno ricomincia un' altra Società, giacchè il potere militare si è legalizzato e stabilito. Ella è nel primo stato tale Società, o più tosto ritiene del primo stato, mentre è ancora prevalente la forza fisica nella Società. Ma la legge del secondo stato si manifestò immediatamente; poichè la distruzione della Società troppo rapida per distruggere le idee morali degli uomini, non era stato tanto una rapina del potere civile, quanto pel rapito potere civile una rapina delle proprietà. Delle grandi fortune erano sorte sulla distruzione delle antiche; e quelli ch' ebbero in mano prima il potere civile e successivamente il militare, non mancarono d' avere ben presto in mano anche le corrispondenti ricchezze. In tale stato di cose le turbolenze dovevano finire di lor natura, perchè era stato restituito l' equilibrio delle proprietà e del potere, ed in tal modo doveva apparire il potere civile allato del militare in equilibrio colla ricchezza e dovevano formare insieme un governo civile bensì, ma che rammentasse ancora un origine militare. Così la rapina del potere civile fatta ai proprietarŒ avea cagionato la rivoluzione, e la rapina delle proprietà l' aveva finita; perchè aveva restituito l' ordine della natura, sebbene non l' ordine della giustizia: aveva ritornata la Società regolare, sebbene non giusta. Ciò è tanto vero che i nuovi proprietarŒ, i quali avevano cagionato la rivoluzione, erano appunto quelli che rendevano solida la proprietà nel nuovo stato di cose, perchè non si turbasse, come esperimentò Napoleone quando tornò a usare di quelli di cui avea fatte le fortune: tanto è vero, che i proprietarŒ sono quelli che usano del potere che hanno in mano, perchè le cose restino tranquille; mentre volendo fare una rivoluzione, basta prendere il potere dalle mani dei proprietarŒ ed affidarlo ai non proprietarŒ; poichè questi, un poco di mal umore che sieno, saranno tentati di metter lo stato a turbolenza. In pruova di ciò sieno questi passi del Manoscritto del 1.14 pel Baron Fain, segretario di gabinetto a quell' epoca. [...OMISSIS...] Il terzo fatto è il seguente: « Le grandi mutazioni nella distribuzione della ricchezza hanno sempre cagionato grandi mutazioni nella distribuzione del potere; e specialmente i nuovi fonti di ricchezza, cioè il fonte industriale e commerciale hanno prodotte novità politiche. » Gli economisti avendo per oggetto della loro applicazione la ricchezza potevano essere più in grado di tutti gli altri di conoscere e di fissare la legge dell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile. In fatti considerando essi la ricchezza nella sua relazione politica travidero la detta legge, ma non poterono fissarla con nettezza, perchè non era ancora stato diviso il Tribunale politico dall' Amministrazione, e la detta legge quanto vale per questa seconda parte del potere civile, altrettanto male si applica alla prima. Oltre di ciò una parte di essi non videro la cosa che imperfettamente, perchè imperfetto era il loro sistema: parlo di quelli che riguardando per unico fonte di ricchezza il terreno a questa sola specie di proprietà attribuirono i diritti politici. Egli è vero che la ricchezza industriale e commerciale dipende come da suo primo fonte dalla ricchezza territoriale. Ma non è già per questo vero, che i possessori di quelle due specie di ricchezza mobiliare, sieno in una vera dipendenza di fatto dall' arbitrio dei possessori di terreni, poichè questa dipendenza di fatto viene esclusa dall' interesse stesso dei possessori dei terreni. Come a questi non è utile ribassare l' industria ed il commercio, perchè sono i mezzi onde s' accresce il valore di ciò che produce il terreno: quindi l' esistenza della ricchezza mobiliare vien ad essere altrettanto assicurata, quanto l' esistenza della ricchezza territoriale; conciossiacchè tanto è lungi che l' arbitrio dei possessori delle terre voglia distruggere quella ricchezza, che anzi questo arbitrio stesso è quello che la incoraggia e sostiene, mentre per la stessa ragione che il ricco terriere vuol cavar molta entrata dalle sue terre, per la ragione stessa debbe volere che vi sia molta industria e molto commercio. Per ciò contro questi economisti che vorrebbero restringere la rappresentazione civile solamente alla ricchezza terriera, sta la storia delle Società civili, la quale dimostra il fatto qui sopra indicato; cioè che non solo la ricchezza territoriale tende ad equilibrarsi col potere politico, ma ben anche la ricchezza commerciale e la ricchezza industriale. Ciò che dimostrano l' istorie costantemente nelle Società civili si è, che quando esse passano dalla legge famigliare alla nazionale, e perciò dall' avere una rappresentazione personale all' avere una rappresentazione reale, che sono i due stati sopra distinti delle Società, la prima ricchezza che si manifesta è la territoriale; e solamente dopo qualche tempo, migliorando l' agricoltura e aumentando la popolazione, comincia a conoscersi la ricchezza commerciale e industriale. Prendendo a considerare la storia delle nazioni conquistatrici cioè di forse tutte le nazioni, si ritrova di più che la ricchezza commerciale e industriale tarda un buon pezzo a manifestarsi dopo la ricchezza agricola, anche perchè passa alcun tempo fino che sortano i piccoli proprietarŒ, l' origine dei quali, come abbiamo veduto, nasce dagli schiavi messi in libertà, e questi sono quelli che diventano poscia i mercenarŒ, gli uomini d' industria, i commercianti. Il progresso per ciò nelle nazioni conquistatrici è il seguente: 1 conquista, e rappresentanza personale con beni indivisi; 2 divisione di terreni, e degli schiavi fra i vincitori, possessori di latifondi: quindi ricchezza agricola , e rappresentazione della ricchezza agricola mediante i gran proprietarŒ; 3 liberazione degli schiavi, francazione dei borghi, o comuni; e quindi nascita dei piccoli proprietarŒ, e rappresentazione delle proprietà mediante il terzo stato; 4 Comparsa del commercio e dell' industrìa: e quindi della ricchezza commerciale e industriale, specialmente per opera del terzo stato: quindi rappresentazione politica, non solo della ricchezza agricola, ma ben ancora della ricchezza commerciale e industriale mediante il terzo stato , il quale viene ad acquistare con ciò una gran forza nella Società. Chi leggerà le istorie con attenzione vedrà che tutte d' accordo non danno che questi stessi risultati. Di quì avviene. che la teoria degli Economisti di attribuire la rappresentazione politica al solo terreno, ha benissimo luogo; ma solo in quell' epoca nella quale non è comparsa ancora nella nazione la ricchezza commerciale ed industriale: ma la sola ricchezza agricola. Sentiamo uno istorico: [...OMISSIS...] Ma come la sola proprietà territoriale viene rappresentata, dovunque ella sola esiste, così dovunque una forte ricchezza commerciale e industriale apparisce, esercita ben tosto un peso nella bilancia politica, e spinge dirò così per intromettersi nel governo, o per altrui consenso o per forza. La proprietà commerciale e industriale viene in mano, come diceva, del terzo stato, e perciò dove questa si rinforza, la plebe acquista maggior grado d' autorità: di che nasce che le città marittime commerciali e industriali inclinino ben tosto ad un reggimento repubblicano. Le prime repubbliche d' Italia furono quelle delle coste del Regno di Napoli, fra le quali è celebre quella d' Amalfi [...OMISSIS...] Le città marittime dell' Istria e dell' Illirico, governate liberamente, Venezia e Genova, provano il medesimo. La ricchezza commerciale tanto potè in Firenze che vi dispose per buon tempo quasi esclusivamente dello stato. La forma di governo stabilita da' Fiorentini nel 12.2, e che sottosopra durò fino alla caduta della repubblica, era democratica, e composta sulla massima « « che d' una repubblica mercantile dovevano avere l' Amministrazione i soli mercanti: i membri di quella magistratura avevano il titolo di priori delle arti » » per indicare, dice il Sismondi, « « che l' assemblea dei primi cittadini d' ogni mestiere rappresentava tutta la repubblica. » » [...OMISSIS...] Da ciò che abbiamo detto si può vedere, che quella stessa ragione per cui la ricchezza terriera viene ad influire nel governo, vale per la ricchezza mobiliare. Il governo si può considerare come una forza, che regolando la modalità dei diritti li difende e li accresce: questo è l' uso legittimo di una tal forza: ma in mano agli uomini havvi di fatto anche un abuso di questa forza, e in tal caso il governo si può considerare come una forza di tirare a sè un maggior numero di diritti. Giacchè questo secondo effetto che si può ottenere dall' autorità governativa è comune egualmente ai ricchi ed ai poveri; perciò rimane che quelli sieno più interessati di tirare a sè il governo, i quali hanno più diritti da difendere e da promuovere. Per ciò i poveri non possono ambire il governo se non per una malvagità, cioè a dire per la voglia di tirare a sè le proprietà, mentre i ricchi vogliono tirare a sè il governo per difendere col medesimo i proprŒ diritti da chi vorrebbe rapirli e per amministrarli utilmente: il qual desiderio è giusto e secondo natura; mentre il primo è ingiusto e contro natura, e perciò non può essere nè cosí universale nè così forte; tanto più che i poveri non hanno i mezzi da farlo valere. Questo avviene nel fatto; ma considerata la cosa nella teoria si verifica il medesimo. Supponiamo che il Governo sia in mano di persone non proprietarie: in tal caso egli può essere giusto , purchè le persone non proprietarie lo abbiano ottenuto per alcuno di quei titoli giusti che abbiamo enumerati 1); ma egli non sarà tampoco regolare ; poichè non esisterà in esso l' equilibrio tra la proprietà ed il potere. Or avranno essi diritto i proprietari di voler entrare a parte del governo e spogliarne le persone governanti non proprietarie? Non mai: questo è quello che si debbe rispondere se si parla di diritto. Ma se si chiede che cosa avverrà probabilmente nel fatto, si potrà rispondere con una fondata conghiettura, che un tal governo non durerà lungamente: poichè le persone governanti hanno bensì il diritto di governare, ma il loro diritto rimane indifeso e non garantito per mancanza della proprietà. Che cosa dunque succederà? Se le persone governanti vengono prese in sospetto d' ingiustizia e di malvagità, i proprietarŒ si ribelleranno e chiederanno di governar essi. E sebbene sia difficile che un tal sospetto non nasca sulle persone governanti, supponiamo tuttavia, che la loro riputazione sia tale, che le salvi da ogni sospetto d' iniquità. In tal caso le persone governanti saranno imbarazzate a governar con sapienza; poichè ci vuol una sapienza sovraumana a regolare la modalità di tanti diritti nel miglior modo, senza conoscer da vicino l' Amministrazione dei diritti stessi, o per dir meglio senza amministrarli. Non governando adunque con tutta la sapienza avverrà che i proprietarŒ in danno dei quali cadono i difetti dell' Amministrazione, se ne risentano, e sdegnino di essere in tal modo amministrati: e ciò tanto più, quanto più hanno di lumi, per li quali sieno in caso di conoscere i difetti del governo. Ma facciamo una supposizione ancora più larga, cioè supponiamo, che un governo non proprietario (cosa al tutto impossibile) governi con perfetta sapienza. Cercheranno meno per questo i proprietarŒ di entrare nel governo? non già, poichè non basta che il governo operi con tutta sapienza: bisognerebbe che i proprietarŒ fossero di ciò a pieno persuasi. Ora quando sarà mai possibile, che i proprietarŒ si persuadano, che la modalità dei proprŒ diritti sia meglio amministrata da altri che da se stessi? Ma dato anche ciò rispetto ad un particolare governo, non saranno essi solleciti di assicurarsi anche per il futuro? E qual miglior garanzia di quella di essere essi stessi quelli che dispongono delle cose politiche? Il perchè si può ragionevolmente dire, che i proprietarŒ avranno sempre una tendenza ad intrudersi in quel governo dal quale essi fossero esclusi, e che la Società perchè sia quieta conviene non solo che sia giusta , ma ben ancora che sia regolare , altramente il fatto pugnerà col diritto fino che le leggi naturali non si trovano d' accordo colle leggi morali. Noi abbiamo ricapitolato questo argomento per far osservare, che egli si applica ad ogni sorta di proprietà e che non solo la ricchezza terriera, ma ben anche la ricchezza mobiliare, tende di sua natura ad intromettersi nel governo. Egli è quello, come dicevamo, che le istorie mostrano costantemente. Appena che in una nazione comparisce la ricchezza mobiliare, e cresce ad un certo grado si vedono altresì le contese politiche dei mercatanti possessori della ricchezza mobiliare coi nobili possessori della ricchezza territoriale. I nobili sono gli antichi posseditori del governo: i mercatanti sono i nuovi proprietarŒ, la cui esistenza ha reso irregolare la forma del governo: perchè ha introdotto nella società una proprietà non rappresentata: quindi tendono a conseguire la rappresentazione della medesima, perchè la necessità vuol di nuovo regolarizzarsi. - Ma i proprietarŒ delle terre trovandosi già in possesso del governo, se in vece di essere persuasi o trattati con arte dai mercatanti, vengano assaliti violentemente, allora nasce una lizza per la quale l' impulso naturale, che tende a regolarizzare la proprietà si perde di vista: i proprietarŒ delle terre, ossia i nobili 1) credono d' essere ingiuriati dal partito opposto, e sono veramente, o sempre poi ve n' ha tutta l' apparenza. Quindi non si contratta più fra questi due partiti: non si cerca più concordemente il bene dello stato: ma invece di ciò si tende a screditarsi a vicenda: i mercatanti rinfacciano ai nobili il loro orgoglio, i loro vizŒ, la loro ambizione, l' avidità la voglia di dominare, e di tiranneggiare: i nobili all' incontro rinfacciano ai mercatanti l' insubordinazione, la voglia di disordinare la Società, lo spirito sedizioso, il disprezzo delle potestà costituite da Dio, il democratismo, l' empietà. In tal modo non è più la forza naturale delle cose che opera, ma le sollevate passioni, e l' accanimento delle due parti passa ben presto ogni termine. In tale stato di cose nè l' una nè l' altra parte pensa di dare allo stato un equilibrio fondato sull' equità, ma l' una parte non pensa che a divorar l' altra s' ella può; e ciascuna parte maneggia d' avere in mano il governo, non più perchè lo consideri come una forza di proteggere e di promuovere tutti i diritti; ma perchè lo considera come una forza di proteggere e d' accrescere i diritti proprŒ, distruggendo quelli della parte contraria. Tale è la celebre ed infelice istoria delle repubbliche italiane del medio evo. Ascoltiamo ancora qualche passo dell' istorico delle medesime. Abbiamo veduto che la forma di governo stabilita in Firenze nel 12.2 fu interamente mercantile, giacchè i sei Priori delle Arti eran quelli che componevano la signoria. Ma l' esclusione dei gentiluomini ben presto andò più avanti. [...OMISSIS...] Lo stesso caso veggiamo avvenire in Siena. [...OMISSIS...] Qual fu l' effetto di questa forma di governo nella quale non entravano che mercanti, essendo esclusi assolutamente i nobili? Udiamolo: [...OMISSIS...] In Arezzo era successo il medesimo. Ma non durò per una controrivoluzione, che tornò i gentiluomini insieme col partito ghibellino al reggimento della città. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] I nobili esclusi dal reggimento dovevano risentirsi; ma in Firenze non avevano forza di reagire per le loro discordie. Non restava loro che disprezzare il nuovo governo, e sdegnare di sottomettersi ai mercanti. Questo disprezzo il manifestarono con un impotente orgoglio, col ricusare di sottomettersi ai Tribunali, di fare ciò che volessero e di proteggere gli scellerati con che non ottennero se non che fosse raggravata l' oppressione sopra di loro, e che nascessero gli ordini posti da quel severo Giano della Bella, che di gentiluomo s' era fatto popolano. Egli arringò il popolo, ed ottenne una commissione per rendere la signoria più forte mediante il potere militare contro dei nobili. [...OMISSIS...] Il Macchiavelli paragona le dissensioni di Firenze fra il popolo ed i nobili a quelle di Roma, e le distingue dai loro diversi fini così: [...OMISSIS...] E chi vorrà sapere la ragione di queste differenze fra le dissensioni di Roma e quelle di Firenze, anzi di tutte le repubbliche del medio evo, le troverà in questo: che il popolo di Roma fino dal principio ebbe proprietà, e parte corrispondente nel governo; sicchè non si trattava in quelle dissensioni che del modo di fare le parti giuste fra due padroni, o di rendersi scambievolmente giustizia. Presso i Romani non si conobbe si può dire altra ricchezza che la territoriale, e per questo prima che cadesse il governo nel dispotismo militare, le tribù rustiche erano le più stimate, e le arti meccaniche vi erano temute: il commercio non vi era promosso 1); e nessuno forse si è accorto della ragione politica di questa umiliazione, in cui si tenevano l' arti e i commerci. Dagli antichi proprietarŒ e governatori della cosa pubblica si temeva che non comparissero dei proprietarŒ di nuova specie, che aspirassero all' Amministrazione dello stato. All' incontro nel medio evo le dissensioni successero così. Le proprietà come pure il governo era interamente in mano dei nobili, e il popolo non esisteva nè come proprietario, ne' come amministratore delle cose pubbliche: egli era schiavo dei nobili. Dopo il mille nacque la sua liberazione per quelle cagioni che abbiamo dette, in tal modo comparve una popolazione libera: il primo passo che fece questa popolazione fu di diventar proprietaria: il secondo passo fu di presentarsi agli antichi padroni, pretendendo di avere anch' essi parte nel governo. La questione adunque non riguardava come a Roma nel doversi fare le parti eque di un bene posseduto in comune: ma si trattava di torre questo bene a chi per innanzi tranquillamente lo possedeva, e di farselo cedere per amore o per forza. Quelli che si presenta per avere la roba altrui non si presume già che si contenti di una sola parte, ma di ottenerne più che può; giacchè non è la giustizia ciò che lo conduce ad operare, ma è l' avidità. La questione in questi termini prendeva nelle opinioni quel carattere che ha la pugna tra il viandante e l' assassino: l' uno e l' altra non mira a meno che a sgozzarsi. Sembra che la popolazione schiava, a fare il primo passo, cioè ad acquistare la libertà e la proprietà, impiegasse due secoli, e che nel secolo XIII, facesse il secondo, cioè pugnasse per l' acquisto del potere politico. 2) [...OMISSIS...] In un secolo si resero prevalenti anche nei governi, sicchè come vedemmo negli ultimi vent' anni del secolo XIII i mercatanti ebbero la somma delle cose pubbliche, esclusa la nobiltà. La lotta delle parti che sostiene, anche presentemente, il governo d' Inghilterra non è parimenti che una lotta d' interessi, la ricchezza industriale che combatte colla ricchezza territoriale. Dovunque le forze della natura hanno libera azione, questa lotta si debbe manifestare, e non può finire se non allorquando tutti i membri della società sieno convenuti nell' equità dell' Amministrazione da noi proposta, nella quale ciascuno si appaghi di avere un voto corrispondente alla sua ricchezza di qualunque genere questa sia, o territoriale o mobiliare. 2) Per altro l' istoria della società civile in Inghilterra presenta gli stessi fatti che l' istoria della società civile in tutti gli altri paesi d' Europa: anche colà si vede passare la società da una rappresentanza personale ad una rappresentanza reale: e datare da questo secondo stato della società l' epoca di una esistenza civile non più solo militare, ma di una costituzione formata: anche colà la rappresentazione reale che dà la forma al governo subisce le stesse modificazioni della ricchezza: prima non esiste che una ricchezza terriera divisa in grandi masse, e quindi non hanno mano nel governo che grandi signori: anche là vengono poi francati gli schiavi e quindi sorgono i piccoli proprietarŒ; quindi ancora s' introduce nelle assemblee politiche il terzo stato: anche là comparisce in appresso accanto della ricchezza territoriale la ricchezza industriale e commerciale: ed anche là questa ricchezza dimanda ben presto ed ottiene di aver parte nel pubblico reggimento, non senza sdegno e reazione della nobiltà, sicchè queste due ricchezze territoriale e mobiliare seguitano a guardarsi pure come due rivali. I recenti democratici francesi come pure i radicali inglesi hanno fatto di tutto per contraffare la storia d' Inghilterra, e per trovare nelle antiche croniche qualche traccia di rappresentazione personale: ma i loro sforzi non hanno fatto che mettere in maggior evidenza la natura della Costituzione Inglese fondata sulla ricchezza. « « Ogni rappresentazione, » dice Arturo Joung, «che ebbe luogo negli antichi tempi, fu una rappresentazione di proprietà non mai di persone »1) » Riguardo all' Inghilterra, a confirmare ciò, egli cita l' opinione dei più riputati scrittori inglesi. Il dottor Squire nel suo esame della Costituzione Inglese dice [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] Così l' Inghilterra dunque come gli altri stati d' Europa vide i piccoli proprietarŒ ascendere al governo nel secolo XIII ed avere adoperato i due secoli precedenti per acquistare la libertà e la proprietà; giacchè « « dal libro dei registri Doomsday7Boock apparisce che l' Inghilterra era piena di villani e di schiavi al tempo di Odoardo il Confessore (1066). » » Non si può parlare con più mal senso delle modificazioni che Odoardo I ha dato alla Costituzione inglese di quello che abbia fatto il Sig. Raynal nella sua « Storia del Parlamento d' Inghilterra . » Il suo modo di parlare manifesta la mancanza dei principŒ di una vera politica, se non forse dei principŒ di qualunque politica. Dopo aver detto che montando Odoardo sul trono aveva dissimulato le usurpazioni fatte dai Comuni nella sua assenza, che poi, quando si credette bastevolmente amato e temuto, tolse a ricuperare i diritti del trono, cominciò a regnare senza parlamento, e senza dar bada ai privilegŒ della Gran Carta, impose egli stesso dei sussidŒ straordinarŒ, chiama questo partito, preso dal re, generoso , e non gli fa altra colpa se non ch' egli non avea esaminato innanzi s' egli aveva un carattere abbastanza fermo contro gli ostacoli, le pretensioni orgogliose, e il genio altiero dei suoi popoli. [...OMISSIS...] Non è così che si debba portar giudizio della condotta di Odoardo, dove la si riscontri coi principii d' una savia politica. I diritti del trono di Odoardo saranno stati incontrastabili; ma non è già per questo che egli li dovesse ostinatamente difendere. La costituzione della società era giusta come nel secolo precedente; ma al tempo di Odoardo, rimanendo giusta, cominciava a rendersi irregolare; mentre erano comparsi recentemente dei corpi di persone libere quali erano i Comuni, che pur nel governo politico non erano rappresentate. Non è dunque da chiamar generoso il partito preso di difendere a tutto rigore i diritti del trono: ma piuttosto si debbe lodare Odoardo per la sua moderazione nell' aver desistito dal conservare a rigore l' antica costituzione, nel cedere qualche cosa per rendere regolare la società: è da lodarsi per la sua saviezza nell' avere assecondato la legge della natura e nell' avere riguardato le usurpazioni dei Comuni piuttosto come uno sforzo della società, che voleva rimettersi in equilibrio, che come un peccato dell' umana perversità. Il suo partito fu generoso, perchè rimise dei diritti proprŒ, perchè la costituzione dello stato riuscisse più solida: il suo partito fu anche avveduto, poichè è regola certissima di prudenza di non volere ostinatamente « opporsi ad una resistenza che nasce da una legge della natura delle cose, e non dagli uomini ». Il dire che ciò nacque più da timidità che da saviezza, non toglie la verità delle cose dette, non toglie che se fosse stato sul trono inglese un principe o troppo tenace del sommo diritto, o troppo presuntuoso delle sue forze, non avesse operato assai peggio, e per lo meno ritardata la perfezione della società in Inghilterra. Invano Odoardo più tardi tornò al pensiero di riprendere i diritti ceduti: la legge della natura la vinse, e la costituzione data, appoggiata sulla medesima, vie più si confermò. Il Sig. Raynal fu spettatore delle conseguenze funeste della rivoluzione francese, vide il frutto dei principii ch' egli stesso avea pubblicati, e ne fu inorridito, manifestando il suo orrore colla Lettera che scrisse il 31 maggio 1791 all' Assemblea costituente e coll' opuscolo degli « AssassinŒ e Furti politici . » In quest' ultimo libretto si riscalda contro le confische e mostra come il toccare la proprietà è lo stesso che il sovvertire la società intera: vede come un fatto generale, attestato da tutte le istorie, « « che le nuove divisioni di terreno quando non sono liberamente fatte e col consenso del primo proprietario, non produssero che dissensioni orrende e guerre civili, sempre collo stabilimento di qualche tirannia terminate: » » parla contro le leggi agrarie, ed espone i sentimenti di Cicerone sulle medesime, che le riguardò sempre come il mezzo dei sediziosi per conturbare l' ordine pubblico. Quest' era quanto vedere la relazione che la proprietà ha costantemente col potere civile, per la quale relazione non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile: questo era un andar vicino a conoscere la natura della società civile. Qual passo mancava per arrivare a ciò? quello d' invertere l' ordine della proposizione: e dopo d' aver detto: non si può toccare la proprietà senza alterare insieme il potere civile; dire parimenti: non si può toccare il potere civile senz' alterare la proprietà. Come alzar la voce contro le confische ed i furti politici, come gridare contro l' alterazione delle proprietà particolari, mentre prima si ha dato licenza, si ha esortato a metter le mani nel potere civile? Ella è una contraddizione quella di voler che il popolo metta le mani nel governo, e che poscia le raffreni dalle ricchezze dei privati: egli è un pretendere una virtù eccessiva e soprannaturale dagli uomini: voi date loro tutte le occasioni e gli incentivi di fare il male, e poi intimate loro la più severa morale. « « Oggi ricompaio come un' ombra di me stesso, » dice il Sig. Raynal, «non per avvertirvi di alcuni errori in politica, ma per rimproverarvi di molti delitti in morale » ». Non è più il tempo di rimproverare i delitti di morale ad una nazione la quale ha precedentemente guastata la sua politica: gli errori in politica sono appunto quelli che tirano seco i più enormi delitti in morale: chi ha predicato quelli si è reso colpevole anche di questi. Così il Sig. Raynal si è dimostrato una testa riscaldata e superficiale più tosto che un uomo cattivo, come tutti quelli che avendo contribuito pei loro falsi principŒ politici alla rivoluzione francese, quando poi videro che tutto andava a ruba, e a sacco, e che la proprietà era altrettanto mal sicura quanto la vita in mano degli assassini, si scusarono con dire ch' essi non avevano punto intenzione che fossero manomesse le proprietà; ed invece di riconoscere la causa di questi mali in un vizio intrinseco degli stessi principŒ politici, si contentarono di trasformarsi subitamente da politici in moralisti, e di declamare contro l' umana perversità: contro questa perversità che essi stessi avevano suscitata. I principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione da noi altrove esaminati mi chiamano a far osservare in fine di quest' articolo, la relazione che passa fra la Legge della società famigliare e la Legge della società civile; e a sciogliere nello stesso tempo l' obiezione che si suol fare contro di questa coll' esempio degli Stati Uniti d' America. La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società famigliare abbiamo detto consistere nell' equilibrio fra la popolazione e la ricchezza . La Legge che mantiene l' ordine nello Stato di Società civile diciamo consistere nell' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile o propriamente parlando il potere amministrativo. Si vegga ora la stretta relazione fra queste due Leggi. La Legge della Società domestica può essere alterata in due modi, per difetto di popolazione, e per eccesso . Se si trova alterata per difetto ne patisce la famiglia ; perchè essa non ha una forza proporzionata alla sua ricchezza sicchè questa è in pericolo. Non così nello stato di Società civile; perchè la società civile s' incarica essa stessa di difendere la ricchezza della famiglia; giacchè le famiglie coll' entrare nella Società Civile hanno mutato le vie di fatto nelle vie di diritto, e se questo non basta hanno rinunziato alla forza privata, prendendo in difesa dei proprŒ diritti una forza comune e pubblica. In tal modo la disuguaglianza proporzionale colle ricchezze della popolazione nelle famiglie è un pericolo di pubblica inquietudine che vien5 tolto o certo scemato coll' Istituzione della Società civile, nella quale non si considera più la forza famigliare, perchè riesce infinitamente piccola rispetto alla forza nazionale istituita per difesa della ragione comune. Ma non si può fare il medesimo discorso dell' alterazione della Legge famigliare che nasce per eccesso di popolazione. Questa popolazione che eccede la ricchezza delle famiglie, e che forma la classe dei poveri, è quella che ricade sulla società civile, come abbiamo veduto nel primo libro, e che la mette in pericolo. Posciachè la popolazione povera cresciuta a gran numero forma una forza considerabile, perciò in ragione che questa popolazione sarà maggiore essa potrà più facilmente assalire quelli che hanno il potere civile e tirarglielo dalle mani. In tal caso la povertà guidata dai facinorosi è quella che spesso altera la Legge della Società civile cioè l' equilibrio fra la ricchezza ed il potere civile . La relazione adunque fra la legge della società domestica e la Legge della Società Civile consiste in questo che se la prima si altera per eccesso di popolazione tale alterazione prepara e facilita l' alterazione della seconda. Ora i principŒ del Sig. Raynal sulla popolazione sono al tutto falsi: egli non conosce il male dell' eccesso: d' altro canto il suo diritto di natura incoraggia la popolazione povera a nutrirsi colle altrui sostanze, dando per primo diritto all' uomo quello di vivere, senza ben limitarlo colla legge della proprietà che ho sviluppata, la quale obbliga il povero a non vivere dell' altrui se non nell' estremo bisogno, e quand' egli non abbia nè col suo lavoro, nè con altro mezzo onesto, via di procacciarsi l' alimento. Perciò il vero diritto di natura obbliga i poveri dal temperarsi nella generazione dei figliuoli, mentre il principio del Sig. Raynal incoraggia la popolazione senza limite alcuno, e senza riflessione portata sulle sue conseguenze. Il Sig. Raynal dunque con insegnare l' aumento indiscreto della popolazione prepara nella società una turba di gente, che, stimolata dai bisogni, è disposta ad ogni occasione d' impossessarsi del potere civile per impossessarsi quindi delle proprietà. I principii dunque del Sig. Raynal menavano appunto ai furti politici, contro a cui invano ultimamente declamava. Aveva egli diritto quest' uomo alla vista degli orrori della rivoluzione, frutto dei principii che avea predicato in tutta la sua vita, di sostenere ancora il suo tuono di filosofo e di maestro dei popoli scrivendo: [...OMISSIS...] Era passato il tempo degli avvisi: non era più la stagione di moralizzare sulle conseguenze dei proprŒ principŒ: bisognava riconoscere d' avere sbagliato i principŒ stessi, d' essere stato non già un filosofo, lume delle nazioni, ma un cieco caduto nella fossa coi ciechi da lui condotti. Noi abbiamo veduto che i proprietarŒ non sono mai quelli che amino i turbamenti politici, perchè temono di perdere nei medesimi le loro proprietà: che all' incontro quelli che nulla possedono amano che le cose sieno mutate, perchè sperano d' acquistare nella mutazione: che perciò se il potere civile sarà nelle mani dei proprietarŒ essi lo useranno a tener le cose ferme nel loro stato: mentre se sarà in mano dei non proprietarŒ essi lo useranno a mutarle. Contro di questo argomento si accampa un sofisma pernicioso di Rousseau che fu poi messo in bocca dal Sismondi alla parte dei mercatanti aspiranti al civile reggimento: La ricchezza, dice Rousseau, è la madre della schiavitù; poichè i ricchi per non perdere i loro beni si rendono facilmente servi di chi loro comanda. Il Sismondi restringe quest' argomento alla ricchezza territoriale; poichè non potendosi questa specie di ricchezza nascondere e sottrarre agli eserciti, essa, messa in pericolo, rammollisce alla servitù l' animo del padrone che non vuol perderla. Io accordo a Rousseau che il selvaggio privo di bisogni, perchè privo di desiderŒ, preferisca la sua libertà corporale e la sua vita ferina, a tutte le ricchezze del mondo; giacchè nè sente nè conosce i beni di una vita comune e ordinata. Ma mi sia lecito di protestare, non essere mio intendimento di far una teoria sociale per li selvaggi di cui non hanno bisogno. Scrivendo dunque per gli altri uomini tutti come sono, noi veggiamo per un fatto costante ed universale che il povero ama di acquistare della ricchezza, e che è egli che si sottomette alla servitù e fin anco alla più obbrobriosa schiavitù prima per vivere e poscia per arricchire. Il fatto adunque è precisamente l' opposto di quello che Rousseau ci reca in prova della sua teoria; e la differenza sta quì: che egli l' ha osservato nei selvaggi, e noi l' abbiamo osservato in tutti gli altri uomini: nei selvaggŒ cioè nella porzione del genere umano degradata egli ha osservato, che l' amore della libertà individuale fa loro disprezzare la ricchezza, ossia tutti i beni della vita civile: in tutti gli altri uomini noi abbiamo osservato succedere un fatto contrario, cioè che l' amore della ricchezza o sia dei beni della vita civile fa disprezzare e sacrificare la libertà individuale. Quale di queste due specie di uomini ha ragione nel suo giudicio? la specie degradata allo stato quasi dei brutti, o tutto l' altro uman genere colto? Se non vogliamo ricavare la risposta a questo quesito dal confronto delle due autorità che portono sulle cose giudicii così opposti, ricaviamola da un' altra osservazione. E` certo che il selvaggio non è in istato nè di sentire nè di giudicare dei vantaggi della vita colta e civile. Gli altri uomini all' incontro che per godere i beni di questa vita colta e civile sono contenti che venga limitata la loro libertà individuale, possono fare il confronto di tutti due questi stati; poichè tutti due li provano. I due giudicŒ adunque non sono di egual valore, poichè il selvaggio preferisce la libertà individuale, perchè non conosce nè è in caso di conoscere altro; e gli altri uomini preferiscono i beni della vita colta, perchè sono in caso di gustarli e di conoscerli. Ma che giova tutto questo discorso? Nulla monta chi abbia ragione dei due al nostro proposito: si tratta di sapere se tutto il genere umano debbe esortarsi a fare la vita dei selvaggi: si tratta di sapere, se a ciò sarebbe possibile di persuaderlo: si tratta di sapere se nel genere umano, il quale non si sia ancora reso selvaggio, esista questo fatto costante, che preferisca cioè la ricchezza, o sia i beni della vita colta alla libertà individuale. Se questo è un fatto costante ne verrà in conseguenza, che sia altresì un fatto costante, che la gente povera sia assai più arrendevole alla servitù che la gente ricca; che perciò non sono mai i ricchi quelli da cui si debba temere la servitù, ma bensì i poveri, i cui animi sono domati dal bisogno, e comperati con facilità da promissioni di ricchezze. Egli è vero che se un capitano minaccia di devastare le terre dei ricchi, questi prima di venire ad una guerra, nella quale le loro ricchezze vanno a pericolo, accetteranno delle condizioni gravose. Essi ricevono queste condizioni per quel fatto stesso di tutta la parte colta dell' umano genere che dicevamo, cioè perchè preferiscono la ricchezza ad una libertà illimitata: questo fatto non è possibile di mutare, e su questo fatto, come dicevamo, il politico debbe fondare l' organizzazione della società. Or dunque crederassi di evitare a questo supposto disordine col dar in mano il governo alla gente povera? non già: poichè per quello stesso fatto ne verrà che questa gente povera userà del governo per farsi ricca, e per coprire le sue usurpazioni contratterà se fa bisogno anche coll' inimico della patria: lo desidererà, lo chiamerà. Gli usurpatori nell' interno dello stato hanno sempre avuto bisogno dei nemici esterni per sostenersi. D' altro canto se potranno compire la loro usurpazione senza bisogno di esterno soccorso, questa gente povera che governa sarà divenuta la proprietaria: e saremo tornati in sullo stato di prima. Fino che si parla di una nazione che ha dei grandi terreni, questi o bisognerà che restino incolti; il che è tanto impossibile, quant' è impossibile persuadere all' uman genere colto di farsi selvaggio; o pure bisognerà che sieno di qualcheduno; ed in tal caso giova che chi li possiede abbia nelle cose pubbliche proporzionata influenza. Se si parla poi di nazione al tutto povera, essa avrà vantaggio benissimo d' una certa libertà energica che la compenserà della sua povertà. Ella dovrà giovarsi di questo vantaggio; il legislatore suo particolare dovrà farne conto: ma le massime politiche, che varranno per essa non si dovranno giammai credere i fondamenti di una politica generale. Dopo queste considerazioni sulla povertà e sulla ricchezza in un rispetto politico considerate, si può convenire col Sig. Sismondi, che la ricchezza mobiliare si sottrae più facilmente alle minaccie degli inimici della patria: ma non avviene già per questo che sia alla patria una garanzia maggiore, che non i terreni, amore dei proprietarŒ. Dopo di ciò è facile sciogliere l' esempio che ci recano in favore della rappresentanza personale di un recente governo quale è quello d' America. In una nazione che comincia, in cui le proprietà sono presso a poco eguali, come sarebbe in una nazione conquistatrice che divida in porzioni eguali il suo terreno, la rappresentanza reale si confonde colla personale, e perciò essa non fa danno nella nazione. Sebbene nell' America vi sieno delle grandi e delle piccole fortune, tuttavia non v' è quella sproporzione che, come dicevamo, è la più pericolosa, cioè quella che consiste nell' esservi accanto dei proprietarŒ un gran numero di miserabili, come si trova in tutte le nazioni d' Europa; perchè vi è grand' abbondanza di terreni, e relativa scarsezza di popolazione. Il solido pensatore Arturo Joung dopo aver recato un passo dai CommentarŒ sulla Costituzione americana del Sig. Wilson, nel quale dice che in quel governo il popolo può tutto sopra la costituzione, tanto di fatto che di diritto, in questo modo si esprime: [...OMISSIS...] Finalmente osservo che gl' Inglesi si sono più avvicinati di tutti gli altri a conoscere la vera teoria della società civile. Prova ne sia la bilancia territoriale di Harrington, colla quale stabilisce la proporzione de' terreni colle forze della famiglia. Questo politico sarebbe stato in caso di dare la vera idea della società civile, se non si fosse limitato a considerare la sola ricchezza territoriale, se avesse saputo distinguere il Tribunale politico dall' Amministrazione, e se avesse avuto la nostra esperienza. A conferma di ciò che ho detto contro Rousseau circa la relazione della libertà colla proprietà soggiungerò alcuni aforismi di Harrington, che conferma il fatto da me osservato nell' uman genere colto. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] Il quarto fatto è il seguente: [...OMISSIS...] La potestà amministrativa della società non è mai affermata nelle mani di quelli che l' hanno ottenuta, se questi non sono i proprietarŒ. V' è però un caso, in cui lo squilibrio fra la proprietà ed il potere amministrativo si mantiene per lungo tempo, e questo è il caso del principato assoluto, unico caso somministrato dalla storia. Per ciò il principato assoluto è il più saldo fra tutti quei reggimenti nei quali si trova squilibrio fra la proprietà ed il potere, per cui lasciando tutti gli altri stati di squilibrio, i quali anzi che veri reggimenti non sono che fluttuazioni della società, mi fermerò a dimostrare il fatto enunciato nel reggimento del principe assoluto. Sembra che le teorie intorno al principato dei giureconsulti, sebbene ancora incerte, si riducano a due. Alcuni considerano il principe come la persona che ha ottenuto il governo della società civile per modo che è divenuto sua proprietà; sicchè nissuno e neppur la nazione stessa può toccarla senza violazione d' un sacro diritto. Alcuni poi considerano il principe come il supremo magistrato della nazione, nel qual caso il diritto di governare resta una proprietà della nazione, ed essa lo esercita mediante il principe come mediante un suo ministro, o vero impiegato. Per quante prerogative riceva questo ministero, quantunque sia egli dichiarato infallibile, inviolabile ecc. egli non muta di natura, ma resta il primo officio dello stato, la prima magistratura. Solo nel primo caso il principato è un potere assoluto, mentre nel secondo è un potere delegato. La questione che si agita fra i giureconsulti, che seguono queste due teorie, sebbene sia antica, duri tuttavia, e vorrà probabilmente ancor durare, tuttavia è una misera questione, che nasce per l' equivoco che produce un vocabolo. Il vocabolo principato è quello che produce l' equivoco; poichè si applica a due sorta di reggimenti diversi, i quali per parlar chiaro e senza fallacia, debbon esser nominati con due parole. Non si debbe dimandare che cosa è il principato, e quindi questionare se egli sia un potere assoluto o delegato. Col proporsi quella dimanda già l' errore è commesso; poichè essa suppone che colla parola principato si esprima una cosa sola. Non si questioni adunque sulla definizione di quella parola equivoca, ma si cominci a stabilire, che in una nazione può accadere che una persona tenga il primo posto e governi di fatto in due maniere; cioè o autorizzata da un diritto proprio, o come esercente un diritto altrui per delegazione del proprietario. Nel primo caso si dica ch' essa è un principe assoluto , nel secondo che essa è un principe delegato . E` vero che nell' un caso come nell' altro nella società non si trova che una persona che governa: ma i poteri di questa persona nell' un caso e nell' altro sono ben diversi. Perciò invece di far una domanda sola: Che cosa è il principe? se ne facciano due: Che cosa è il principe assoluto? Che cosa è il principe delegato? Rispondendo alla questione così divisa, la questione è svanita. Fissate queste due forme di governo, si debbe passar ad applicarle. A tal fine non è bastevole di sapere, che quello stato a cui si vogliono applicare è governato a principe; ma bisogna di più osservare se sia governato a principe assoluto o a principe delegato: e questo rilievo non si fa, che esaminando storicamente i titoli della persona o della casa reggente. Egli è dopo questa verificazione che si possono definire i diritti scambievoli dello stato e del reggitore. Se si fosse proceduto con quest' ordine logico si avrebbero risparmiate innumerevoli dispute e discussioni. Abbiam dovuto fissare l' idea del principato assoluto per chiarezza del discorso: ora dobbiamo noi verificare questo fatto: che « trovandosi nel principato assoluto, unico amministratore della società, lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile; esiste una tendenza di queste due cose a mettersi in equilibrio o col scemare l' autorità politica al principe o coll' accrescergli le sue ricchezze, o finalmente coll' attribuirgli per finzione quella proprietà, che di fatto non possiede, e che gli è necessaria pel sostenimento della sua autorità. Il principato delegato, specialmente fornito di prerogative che lo avvicinano all' assoluto, come sarebbe dire la inviolabilità, e la ereditarietà ecc. sebbene più remotamente dimostra lo stesso fatto che il principato assoluto. Questa fu la prima cosa di cui Dio ammonì gli Ebrei, quand' essi vollero un re. Egli comandò a Samuele di predir loro ciò che porta con se la dignità reale, cioè la tendenza di equilibrare questo potere personale con altrettanta proprietà. Ecco come Samuele si espresse: [...OMISSIS...] Questo non è altro che predir loro la legge della Società civile, cioè l' equilibrio fra il potere civile e la ricchezza: questo non è che un dire « se voi volete concentrare in un uomo solo il potere civile, sappiate che ne verrà per conseguenza che vengano a concentrarsi in un uomo solo anche le ricchezze; perchè queste due cose tendono a mettersi in equilibrio. » Se però questa legge non si verifica tante volte rapidamente, ciò nasce per la virtù e per la giustizia dei principi; i quali resistono all' impulso naturale, e preferiscono il giusto ai più grandi vantaggi: e di questi esempŒ di magnanimità sono piene l' istorie dei principi cristiani; specialmente nei secoli di mezzo quando la religione aveva su loro gran forza, e non era entrata nelle corti quella politica che tutto corrompe, e che ha finito col confondersi nella incredulità. Ma ogni qualvolta il principe assoluto sarà privo di un grado eminente di virtù e di magnanimità, cederà agli impulsi di usare l' Amministrazione che è in sue mani per tirare a sè la ricchezza, cioè preferirà il vantaggio suo proprio, e anderà male l' Amministrazione della maggiorità degli interessi. Non così però sarebbe se egli possedesse più che la metà delle ricchezze della nazione; poichè in tal caso la maggiorità degli interessi sarebbe bene amministrata. E quest' è che osserva Harrington, il quale non considera lo stato che come un' Amministrazione. Ecco due dei suoi aforismi politici. [...OMISSIS...] Egli è certamente falso il dire che ciò formi la monarchia assoluta; ma si rende vero il pensiero di Harrington, quando invece di monarchia o di governo si dice Amministrazione. In fatti supporre che il governo non sia che un' Amministrazione è un materializzarlo di soverchio. Noi crediamo che ci sia a questo proposito due errori opposti assai perniciosi: l' uno dei quali consiste nel materializzare le cose spirituali; e l' altro consiste nello spiritualizzare le cose materiali. Noi abbiamo creduto di evitarli tutti e due col guardarci bene dall' attribuire al governo l' uno solo di questi elementi con esclusione dell' altro; e quindi col considerare il governo risultante dai due poteri essenzialmente distinti, l' uno amministrativo e l' altro giudiciale, l' uno centro della forza fisica, l' altro della morale: l' uno che provede agl' interessi, e l' altro alla dignità dell' uomo, e che provedono insieme ai diritti sì reali che personali. Questa idea che acquisterà maggior luce, mediante ciò che noi diremo sul quinto fatto, è da ritenersi presente, acciocchè non sembri che noi parlando dell' Amministrazione, cadiamo nell' errore tanto comune a' dì nostri di materializzare il governo. La povertà del principe assoluto, rendendolo inetto a sostenere la potestà amministrativa, diventa la sorgente della politica falsa: la quale mette in opera tutti gli artificŒ, le simulazioni, le frodi, le perfidie, e le viltà più obbrobriose per conservare un potere di sua natura vacillante. Non si nega già che di tutti questi neri raggiri, di tutta questa arte di raffinata perversità non sia cagione l' umana malizia: certo la malizia umana è la cagione generale di tutti i mali che fa l' uomo: ma questa malizia opera più o meno secondo le occasioni che si presentano alla medesima. Non basta dunque per render ragione dei mali che avvengono al mondo ricorrere a quella causa generale: bisogna ancora indicare le occasioni per le quali quella causa ora fa più male ed ora ne fa meno. E medesimamente non basta predicare agli uomini la virtù, ma bisogna ancora aiutarli a praticarla col disporre le cose in modo che abbiano meno occasioni di far male, e più che sia possibile occasione di far bene. Ed è per questa ragione che la politica giova alla morale. Se voi provvederete che gli uomini sieno nutriti, voi diminuirete con ciò i furti: se renderete i tribunali così savi e così forti che possano amministrare pubblicamente la giustizia, voi diminuirete le vendette private: se porrete i cittadini in uno stato di avere i loro diritti difesi con modi onesti, essi non penseranno a difenderli con modi inonesti: finalmente se il principe avrà tanta ricchezza da poter sostenere la propria dignità civile, egli lascierà stare la ricchezza dei sudditi, e non avrà più bisogno di una politica tenebrosa, ma si appoggerà ad una politica leale, nobile, ed anche benevola. Il principe assoluto povero, quando anche sia onesto e rifugga da una politica scellerata, se vorrà sostenersi non potrà tuttavia a meno di prendere una politica cavillosa, o finalmente vacillante. La politica dell' equilibrio dei poteri si può dire che sia nata così. Come ella consiste nell' unirsi o coi comuni o coi nobili o col clero per abbassare le altre due classi, ella è obbligata ad avvilirsi con frequenza per mendicare il favore del suo alleato; essa diventa naturalmente sospettosa e trepidante dal momento che è sempre in dubbio di essere abbandonata dalla forza alleata, ed ha sempre da temere che l' opposizione prevalga: finalmente ella è una politica ostile, perocchè lavora sempre una guerra secreta fra i diversi poteri della nazione, ciascuno de' quali spera di soverchiare; non perchè abbia forze bastevoli in sè stesso, ma perchè maneggia un' alleanza colle forze altrui; e nello stesso tempo teme di essere soverchiato; poichè non avendo forze proprie bastevoli da sostenersi, può sempre avvenire che le forze altrui l' abbandonino. Egli è dunque una cattiva costituzione quella nella quale nessuno ha bastevole forza da difendere i proprŒ diritti. Una tale debilezza porta la strana conseguenza che ciascuno per potersi difendere cerca di mettersi sul piede di assalitore; e tutti gli animi timorosi d' essere ad ogni istante spogliati del proprio, facciano di tutto per poter prevenire ed assalire l' altrui. Ciò nasce, come diceva, quando il governo è povero, e debbe adoperare la ricchezza altrui per difendere la propria autorità. Ma all' incontro nel caso in cui il potere civile sia equilibrato colla ricchezza, allora succederà che la maggiorità nel potere civile sia congiunta colla maggiorità della ricchezza: e come la maggiorità di potere civile e di ricchezza forma una forza a cui non ve n' ha nissun' altra che possa tener fronte: quindi questa maggiorità è difesa per sè stessa, e non ha bisogno di cercare delle alleanze per sostenersi, come pure è priva di timore d' essere soverchiata. Ella dunque è priva di quella tentazione d' assalire l' altrui che nasce dal bisogno di difendere il proprio. Ha dunque una tentazione di meno: una occasione di meno da far male: è dunque questa la costituzione da preferirsi. In tutta l' Europa vi fu un tempo in cui il Monarca si unì per sostenersi col terzo stato. 1) Posteriormente in Inghilterra la nobiltà s' unì coi comuni per limitare il sovrano potere: come in Francia i comuni e la corona fecero per lungo tempo fronte alla nobiltà. In Italia dove il sovrano potere fu ben presto annullato, non cessò la pugna tra la nobiltà e la plebe, ed essendo stata di quest' ultima la vittoria, la forza italiana fu divisa in minute parti, mediante il democratismo, e quasi ridotta in polvere, fu dissipata con essa la nazione. La storia politica delle diverse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; rse nazioni dell' Europa non è che la storia di questi quattro poteri; Primo, il sovrano: 2 il clero: 3 la nobiltà: 4 il terzo stato. Osservando le diverse alleanze e aggruppamenti di questi poteri, mediante le quali si riducevano sempre a due partiti le mutue pugne, sconfitte, e vittorie; il potere umiliato, sconfitto, distrutto, ed il potere vincitore, e prevalente; si viene a render ragione delle costituzioni dei diversi stati d' Europa. La povertà del principe o sia del governo è ciò che produce tutti questi giochi di politica; poichè se il principe non arriva a sostenersi in tal modo, o pure se non perviene ad arricchirsi, egli rimane in continuo pericolo di cadere. Le costituzioni del medio evo prodotte dalla natura delle cose, e dalla docilità degli uomini nell' arrendersi a ciò che tale natura additava, senza perdersi in vane teorie, e ostinarsi nel volere che la natura obbedisca a' proprŒ sofismi, erano piantate sopra solide basi. Ma non basta che la costituzione sia buona e solida, se le azioni degli uomini non si accordano colla medesima. Perchè la costituzione si formasse bastava quasi direi una prudenza passiva: la costituzione era l' opera del tempo, veniva formata un poco alla volta dalle naturali circostanze. Ma per operare conforme alla costituzione non basta una prudenza passiva, bisogna avere dei principŒ, questi mancavano ai sovrani del medio evo, e questa mancanza portava, che colla loro irregolare condotta, lungi dal cavare i vantaggi che loro offeriva la bontà delle costituzioni, venivano a distruggere le costituzioni stesse. Erano sapienti nel fare le costituzioni, e mancavano di prudenza per conservarle. Come la costituzione veniva loro strappata un poco alla volta dalla natura delle cose, così essi la formavano pezzo per pezzo senza però conoscere i principŒ sui quali tutta intera la medesima s' appoggiava. In fatti l' errore comune dei governi del medio evo era la mancanza d' economia. Per questo errore che andava a ferire le costituzioni ne' loro visceri, cadevano i governi, ed erano frequenti le rivoluzioni. Abbiamo già sentito l' osservazione del Machiavelli, che le guerre in Italia si perpetuavano, perchè non avevano mai cura i condottieri d' impoverir l' inimico, e d' arricchire se stessi. La mancanza d' economia nei sovrani nasceva anche da un principio morale: essi erano tutt' altro che disposti a considerare il governo come un' amministrazione e l' officio di reggere come un officio di computisteria: elevati colle loro idee riguardavano la sovranità come l' officio di render giustizia e di sparger beneficenza, come un' immagine della divinità sulla terra; e quindi non sapevano conoscere degli stretti limiti alla loro generosità: consideravano come la più bella loro prerogativa quella di donar a tutti largamente. S' ingannavano nell' abbracciare questo principio, senza porvi una giusta moderazione e nell' escludere dal loro officio l' Amministrazione economica; giacchè questa avrebbe dovuto formare realmente la forza della costituzione dello stato. L' ultimo dei Carolingi non possedeva più nulla in proprio; e questa fu la ragione, perchè egli non potè più sostenere la sua dignità. I nobili sempre avidi di acquistare de' feudi, o delle donazioni, li sollecitavano continuamente dalla corona. La corona che non era ricca abbastanza per sostenersi contro de' nobili cercava di cattivarseli col dar loro ciò che chiedevano continuamente. In tal modo s' impoveriva sempre di più, e non le restava che la speranza ingannevole di esser difesa dagli altri, anzi che di aver il potere di difendersi da sè stessa. [...OMISSIS...] Si considerino ancora i passi seguenti dell' autore dello spirito delle Leggi: [...OMISSIS...] I feudi resi ereditarŒ, l' introduzione de' suffeudi, pur essi fatti poscia ereditarŒ, s' aggiunsero cagioni pure possenti d' indebolire i diritti della corona sulle proprietà. La sostituzione della terza stirpe alla seconda, non nacque se non per forza della proprietà. Si ascolti ancora Montesquieu: [...OMISSIS...] Nella mutazione della prima stirpe ebbe dunque influenza l' abilità personale, giacchè il Prefetto del palazzo era anche il capo della Milizia; ma la mutazione della seconda stirpe fu operata dalla prevalenza della proprietà. Ugo Capeto era conte di Parigi e d' Orleans; ciò che formava un possedimento molto considerabile, mentre il figlio di Luigi V non aveva nulla se non il ducato della Bassa Lorena posto fuori della Francia ricevuto dalla liberalità dell' imperatore Ottone, di cui s' era con ciò reso vassallo. Egli è ben naturale che i nobili s' attenessero a chi aveva di più che a quello che non potea più donar niente. I successori di Ugo Capeto sostennero la forza e la dignità della corona col migliorare l' economia dello stato, e col riunire i gran feudi alla corona. La stessa ragione della mancanza d' economia si può assegnare alla caduta dell' impero Germanico, il quale appunto per la mala Amministrazione si era reso ultimamente anzi un vano fantasma, che una realità. Leibnizio vedeva questa causa della sua debilezza: [...OMISSIS...] Anche lo stesso presidente Montesquieu osserva l' analogia che passa fra il regno di Francia al fine della seconda stirpe, e l' imperio germanico degli ultimi tempi. Parlando di quello dice: « « Trovossi il regno senza dominio, sì come è al presente l' Impero. Si conferì la corona ad uno de' vassalli più potenti. » » - E a proposito dei Normanni che devastavano in quel tempo il regno di Francia dice altresì: « « Le città d' Orleans e di Parigi troncavano il corso a questi malandrini, sicchè non potevano inoltrarsi nè per la Senna, nè per la Loira. Ugo Capeto, che queste due città possedeva, teneva in mano le due chiavi degli sventurati avanzi del regno: se gli conferì una corona ch' egli solo era in grado di difendere. In questa guisa appunto venne dippoi conferito l' Imperio alla famiglia che è capace di custodire le frontiere dei Turchi. » » E` osservabile come gli Elettori dell' Imperio Germanico, dovendo eleggersi un capo, nol volevano mai troppo ricco, e questa fu la ragione per cui dopo il grande interregno si determinarono di dar la corona imperiale a Rodolfo d' Habsburg. La loro era certo una politica falsa, mentre per i privati vantaggi neglessero il bene generale della società cristiana. La caduta dell' imperio Germanico è dovuta in gran parte ad una tale politica. D' altra parte v' era un vizio radicale nella costituzione: poichè non sono mai buoni elettori d' un principe quelli che si eleggono con ciò uno che limita il loro potere e che non lo può accrescere: quelli insomma che già potenti possono assai più amare l' indipendenza che non la protezione. Per dimostrare compiutamente il fatto enunciato mi resta a mostrare come s' inventò di supplire alla mancanza di proprietà del principe con una finzione che gliela attribuisce: dirò in appresso quanto sieno dannose tutte le istituzioni appoggiate sulla finzione e non sulla realtà. Per altro la finzione di cui parlo fu universale di tutta Europa: e sembrerebbe a dir vero strano che tanti popoli appoggiassero le loro instituzioni sopra una base così falsa se non esistesse una legge nella natura delle cose che ve li spingesse, la legge che il potere civile debb' essere equilibrato colla proprietà. Già si si accorge che io parlo del feudalismo. Ecco come parla di questa istituzione il Sismondi: [...OMISSIS...] Per conoscere quant' era illusoria la proprietà che si attribuiva al principe sopra le terre dei feudatarŒ, basta osservare la storia de' feudi di ripresa . Si cercava di mutar gli allodi in feudi: il che si faceva donando al re la propria terra, e dal re poscia ricevendola in feudo. Ciò si faceva per i vantaggi e privilegi di cui godevano i feudi rispettivamente ai beni allodiali. Con questa mutazione di allodi in feudi si accrescevano forse le proprietà della corona? si accrescevano in apparenza: ma non già in realtà. E per provar ciò basta osservare che queste mutazioni in Francia furono più frequenti in ragione che la corona era più povera: e la ragione n' è chiara. Quanto era più povera la corona, tanto era più forte la nobiltà feudale, e tanto più perciò i proprietarŒ liberi desideravano di appartenervi. [...OMISSIS...] Il sistema feudale nacque dalla conquista, cioè dalla distribuzione delle terre conquistate fra i vincitori. In alcune nazioni però non vi fu introdotto in questo modo, ma mediante un' istituzione legale. In tal caso tutta la giurisprudenza riposava sul falso, poichè si supponevano essere state le terre in antico conquistate e divise; laddove non erano. In questo modo sembra che si sia introdotto in Inghilterra nel secolo XI. Prima però che tocchiamo questo fatto, procuriamo di render più facile a concepire il modo come una tale finzione di proprietà principesca, potesse dalle circostanze essere suggerita. Se noi consideriamo noi stessi, o vero uno de' nostri popoli colti d' Europa come si trova nello stato presente, noi non potremo già formarci l' idea del modo onde una persona poteva mettersi alla testa di un popolo semplice ancora e rozzo. Le nazioni presenti sono diventate caute e sospettose dall' esperienza, e non sarebbe già facile che ricevessero un capo che loro si presentasse per occupare un trono, o vero una supremazìa vacante, senza molti trattati e condizioni. Ciò nasce perchè la nazione vede tutte le conseguenze che può fare della sua autorità, e vuol garantirsi contro l' abuso. Ma non procede con eguali sospetti una nazione nuova e semplice; e se un uomo stimato e valoroso si mette alla sua testa, essa lo riceve come un benefattore. Essa non sa considerare ancora il governo che come un beneficio: lo considera in se stesso e non nelle sue conseguenze. Così ascesero al governo i condottieri ed i giudici dei popoli, con quella facilità con cui si prende posto in un luogo vacante, o si occupa una proprietà disoccupata. Essi non avevano che ad ispirar confidenza alla nazione col dimostrarsi forniti di eminenti qualità, e la nazione li seguiva, come chi viaggia, e non sa la strada, segue colui che gliela insegna. I due offici che essi esercitavano erano combattere e giudicare: sì per l' uno che per l' altro la nazione li riguardava come persone sommamente utili: trovando chi sapeva guidarla alla vittoria, considerava il suo capitano come l' autore della gloria e della grandezza nazionale, e trovando chi amministrava la giustizia, consideravano il Giudice come quello che conservava la pace interna e la comune sicurezza. Il buon esito delle armi, od anche la speranza del medesimo giustificava la condotta del capitano; e le ingiustizie che commetteva come giudice o per ignoranza o per arbitrio di passione pochi sapevano conoscerle nè il risentimento delle parti per cui era seguita l' ingiusta sentenza poteva muovere la nazione a sdegnare il proprio capo; poichè si trattava d' ingiustizie particolari, e la nazione considerava la pubblica tranquillità che colla amministrazione della giustizia veniva conservata, e che faceva dimenticare tutti i mali particolari. Consideriamo il capo di una nazione conquistatrice esercitante questi due ufficŒ: noi vedremo che la sua potestà è in tale stato illimitata; poichè fino ch' egli non esercita che questi due uffici, la nazione non ha cagione di limitargliela, purchè gli eserciti discretamente bene. La nazione non ha cagione di limitare la potestà governativa di questo capo fino che egli non fa qualche disposizione, la quale: 1 offenda i suoi governanti: 2 sia generale, e perciò gli offenda in massa, e non singolarmente. I due poteri di combattere e di giudicare, che sono, come dicevamo, di una natura da non offendere la nazione in massa, fino che vengono discretamente sostenuti, terminano in due altri poteri, per li quali con assai facilità si può offendere la nazione ed offenderla in massa. E questi due poteri sono: 1 il potere sulle terre conquistate, e 2 il potere legislativo. Sì l' uno che l' altro vanno a toccare le fortune private e a toccarle in un modo generale. Se il condottiere di una nazione conquistatrice, dopo conquistato un paese, avesse detto alla medesima: « Sappiate che queste terre son mie: voi già non le goderete come vostre, ma voi le lavorerete come miei servi, ed io vi manterrò »; la nazione non si sarebbe mai arresa a questi patti; poichè l' autorità del suo condottiere cessava d' allora d' essere un beneficio: egli non avrebbe fin allora governata la nazione, ma usato d' essa come d' un istrumento per formare la propria grandezza. Non era già con questo intendimento ch' ella lo aveva riconosciuto per suo capo e per suo condottiere. Ma all' incontro dicendo: « Voi avete conquistato sotto la mia condotta questo paese: ora egli è tempo che il vostro valore sia premiato: io dividerò con giustizia i terreni a tenore del merito di ciascheduno; »tutti dovevano assentire ad un simil discorso, il quale era secondo l' equità, secondo lo scopo della loro intrapresa, e secondo l' idea ch' essi eransi formata del loro capo. In tal caso egli esercitava un governo, e faceva loro un beneficio, giacchè amministrava la giustizia, metteva ordine colla sua autorità nel riparto dei terreni, e non venivano defraudati delle aspettate ricchezze. Che cosa nasceva mediante una simile operazione? che tutti i compagni d' armi del capitano supremo, e tutti i soldati ricevessero la loro porzione di terra dalle mani del loro duce; giacchè era egli quello che la divideva e che l' assegnava a ciascuno. Egli era naturale ancora che riconoscendosi per una legge conforme all' equità, che i terreni fossero divisi secondo il merito e la dignità di ciascun soldato, secondo che cioè ciascuno aveva influito a conquistarli, così pure ritenessero il concetto d' un premio o di una mercede; e di più che come gli avevano ricevuti dal loro capo, così restasse al medesimo capo la facoltà di ritirarli se si rendessero infedeli e se perdessero con ciò il titolo primitivo di fedeltà e di bravura. Come non bastava aver conquistate le terre se non si continuava a difenderle contro gl' inimici; quindi le terre dovevano ritenere il loro carattere primitivo di esser premio del valore e della fedeltà. Egli è questo che spiega come in principio i feudi fossero amovibili. A confirmar ciò si aggiungono i costumi che i conquistatori del settentrione ritraevano da' loro padri. [...OMISSIS...] Cesare pure dice: [...OMISSIS...] Infatti una nazione, ossia un' aggregazione di famiglie, ha bensì desiderio di vivere agiata, comoda e ricca; ma del rimanente ella lascia ben volentieri a' suoi capi la cura di far le porzioni, purchè creda ch' essi le facciano con equità, e di dirigerla in tutto. Quindi essa non è difficile a lasciar anche a' medesimi ogni onore, a prestare ogni riverenza; a ricevere dalle loro mani le terre, purchè però le ricevano; a riconoscere in essi il diritto di disporre delle medesime in tutto ciò che riguarda la conservazione dell' ordine, della giustizia, della pubblica quiete e tranquillità. Ma sebbene tutto ciò era facilissimo e naturalissimo a supporsi in teoria, tuttavia era altrettanto facile, che in pratica non si restasse contenti della divisione delle terre; e se in ciò succedeva un malcontento, già cominciavano a manifestarsi i limiti dell' autorità principesca. Il ricevere che si faceva le terre dalla mano del principe, ed il diritto che egli aveva di distribuirle secondo la giustizia, faceva supporre ch' egli ne fosse il proprietario. D' altra parte la condizione a cui era soggetto, cioè di non poterle ritenere per sè, e di doverle distribuire con giustizia, rendeva quella proprietà che gli si attribuiva una proprietà di nome e non di fatto: ed è ciò che faceva nascere quella finzione di proprietà di cui parliamo. Ma ben presto si si accorse che quella finzione di proprietà, che quel diritto di distribuire in premio tali ricchezze era pericoloso: che l' equità a lungo difficilmente veniva conservata. Anche venendo conservata v' erano sempre cagioni di lamentanza, giacchè l' avidità fa credere a tutti di avere un diritto maggiore alle ricompense. In tutti questi casi la nazione cominciava a considerare l' autorità principesca come quella che portava delle conseguenze dannose sulle proprietà private, non custodiva più semplicemente l' ordine generale, non era più un semplice beneficio. La nazione dunque risentendosi di queste conseguenze doveva cercare di porre un limite alla sovrana autorità; e delle terre il principe doveva perciò disporre di consenso della nazione. [...OMISSIS...] E` però osservabile che il principio delle leggi feudali, il quale attribuisce al principe la proprietà delle terre per la ragione detta, non era che una espressione inesatta: non si parlava con precisione, perchè non si era arrivati a pensare con precisione. La mancanza di precisione in quell' idea consisteva in una mancanza di distinzione: non si era arrivati a distinguere col pensiero, e colle parole, il diritto dalla modalità del diritto: e invece di dire che il principe aveva la modalità della proprietà, si diceva che il principe aveva la proprietà delle terre. La cosa però si sentiva ben distinta nel fatto: ed appena che il principe passava dal disporre della modalità al disporre della proprietà , i proprietari subitamente se ne risentivano. Non restava però che quella falsa espressione non producesse dei gran disordini: il principe che poteva mostrar le leggi, che davano a lui la proprietà delle terre, poteva altresì rinfacciare d' infedeltà e d' insubordinazione i proprietari che si lamentavano de' suoi arbitrŒ. Intanto se la lite fosse stata deferita ad un giudizio, e se i giudici avessero avuto l' obbligo di stare alla lettera della legge, il principe avrebbe avuto sempre ragione. I proprietarŒ non avrebbero potuto che opporre la costumanza, e richiedere che a questa si ricorresse per l' interpretazione della legge: ma la costumanza stessa come era venuta a pugnar colla legge? se non perchè la legge era mal espressa? Che se la legge ebbe sempre la costumanza in contrario, ciò mostra che le parole non mutano le cose, e che la ragione comune o sia il buon senso quantunque non sapesse render ragione di sè stesso, tuttavia non si piegava però alle teorie della gente di legge: il che però non toglie che l' inesattezza d' espressione nella legge non incoraggiasse il cattivo principe ad operare con maggior arbitrio, e con minor ritegno. Per tutto ciò non è meraviglia se l' officio che aveva la corona di dirigere la modalità della proprietà feudale mal usata, eccitasse dei nazionali tumulti. In Francia se n' ha esempio già nel secolo VII. Così di nuovo Montesquieu: [...OMISSIS...] Non era già che non si riconoscesse nella corona il diritto di disporre dei feudi, ma questo diritto non si ammetteva in fatto che fosse simile a quello col quale un padrone dispone della sua proprietà, sebbene la legge malamente, come dicevamo, supponesse i feudi proprietà della corona. In fatto, dico, non erano tenuti tali; poichè se fossero stati considerati veramente tali, non vi sarebbero state tante opposizioni sul modo col quale la corona ne disponeva. Si attribuiva alla corona solo la modalità di un tale diritto, solo la disposizione de' medesimi a vantaggio comune. Per ciò con ragione Montesquieu: « « Può darsi che se il motivo della rivocazione dei doni fosse stato il ben pubblico, non si sarebbe aperta bocca; ma si faceva mostra dell' ordine senza occultare la corruttela: reclamavasi il diritto del fisco a talento, e i doni non furono più la ricompensa o la speranza dei servigi. Brunechilde con uno spirito corrotto corregger volle gli abusi della vecchia corruttela: i suoi capricci non erano quelli di uno spirito debile; i feudi ed i grandi officiali si videro rovinati, ed essi se ne disfecero. »1) » Se Montesquieu avesse a pieno conosciuto questa finzione di proprietà, e non fosse restato ingannato dalle parole della legge feudale, egli non avrebbe presa la proprietà della corona sui feudi per un argomento da convalidare il suo sistema sulla conquista dei Franchi. Ecco co m' egli argomenta: [...OMISSIS...] Certamente; se la proprietà sulle terre feudali fosse stata vera e non finta dalla legge, ma come dicevamo il re non aveva che la modalità delle proprietà, e non la proprietà stessa: era governatore e non possessore. Nè ci si opponga che noi confondiamo la proprietà di diritto e di fatto. Egli è vero che basterebbe, che la corona fosse priva della proprietà di fatto, perchè ella fosse già debile a sostenersi. Ma noi diciamo che le mancava anche la proprietà di diritto; poichè per esservi questa conviene provare che v' abbia il titolo. Supposta dunque l' occupazione un buon titolo, il capitano della nazione conquistatrice non era stato egli solo l' occupante, ma insieme co' suoi commilitoni 1): la nazione condotta da lui non si era già resa sua serva, ma si era solamente sottomessa a lui per esser diretta nella conquista; perchè il suo moto fosse regolato, e la sua impresa fosse diretta con unità. La proprietà dunque delle terre conquistate apparteneva alla nazione conquistatrice, e non esclusivamente al suo capo. Ma questa come aveva avuto bisogno d' esser diretta nella guerra, così aveva bisogno di un ordine nella divisione delle terre: e questo era naturale, che lo ricevesse dal suo capo. La incombenza dunque e il diritto di questo capo era di governare, di metter ordine, di dirigere il bene comune della nazione: senza che per questo egli acquistasse una vera proprietà sui beni della medesima. Ma si vuole una prova evidente che la nazione non ha mai creduto che i suoi principi avessero una vera proprietà sui terreni? basta osservare che una porzione di terreni divisi rimaneva al principe: (Roberts. 11 .35) la qual porzione sarebbe stato assurdo attribuirgliela, quando già fossero state sue egualmente tutte le altre. La legge dunque che ora parla di una proprietà del principe sulla porzione a lui assegnata: ora parla della proprietà del principe sui feudi, o sia sulle porzioni distribuite agli altri duchi e signori componenti la nazione, usa il nome di proprietà in due sensi totalmente diversi: e solamente nel primo caso si parla di una vera proprietà; mentre negli altri casi con questo nome di proprietà non si debbe intendere che un diritto di regolare per il ben nazionale le proprietà comuni. Quando anche supponessimo adunque che tutti i terreni della nazione fossero feudi amovibili, non ne verrebbe già per questo, che il potere del re fosse assoluto come quello del sultano di Costantinopoli: anzi egli si rimarrebbe ancora troppo scarso di fatto, perchè troppo grande di diritto, cioè a dire il potere civile potrebbe esser di più della proprietà e però darsi lo squilibrio di cui parliamo fra la proprietà ed il potere. E questa debilezza del potere sovrano fu realmente sentita: ed è appunto ciò che ha fatto ritrovare il ripiego di una finta proprietà, come dicevamo, la quale tenga come il luogo della vera, e coll' impressione che può fare sugli animi una tale supposizione, sostenga in qualche modo il trono. Ma si noti bene che la debilezza del trono può manifestarsi in una doppia maniera, poichè o il trono può essere debile relativamente alla nobiltà e all' interna costituzione; o il trono può essere debile per difendere la nazione dai nimici esterni. Nel secondo caso la nazione stessa sente la debilezza del trono, e s' interessa di fortificarlo; ma nel primo caso la nazione non se ne interessa punto, e gli ordini principali della nazione riguardano con piacere la debilezza del trono; giacchè la loro potenza è appunto in ragione di quella debilezza. Il primo caso succede nelle nazioni che hanno a difendersi continuamente dagli inimici esterni; il secondo nelle nazioni già consolidate e pacifiche. Egli è per questo che gli elettori dell' Imperio germanico preferivano un principe debile ad un principe forte: ed è il vizio delle monarchie elettive. La legge adunque feudale, che mise per base la finta proprietà del sovrano su tutte le terre, nacque in tempi ancora pieni di guerre, e la sua estensione è dovuta al bisogno in cui le nazioni si ritrovarono di dar al loro capo una forza valevole, perchè potesse salvare la nazione sì dagli inimici esterni che dagli interni. Poiché non fu già introdotto il feudalismo in tutte le nazioni d' Europa per la stessa causa della conquista, ma in alcune fu introdotto come una instituzione atta a rendere forte la corona. Ci valga a provar ciò l' esempio dell' Inghilterra, nella quale ecco come la legge feudale s' introdusse, secondo il racconto che ne fa il commentatore delle leggi inglesi Blackstone. Egli è d' opinione, che il sistema feudale si conoscesse assai poco in Inghilterra al tempo dei Sassoni, e che vi fosse universalmente introdotto soltanto dopo la conquista dei Normanni. Ma riguardo al modo onde tal sistema s' introdusse, ascoltiamo lui stesso: [...OMISSIS...] Il vizio adunque del sistema feudale era quello di non convenire se non ad una nazione che fosse costretta ad esser sempre sull' armi per defendersi dagli esterni inimici. In tali casi urgenti il diritto che ha il principe di dirigere la modalità nazionale si estende assai, giacchè egli può fare tutto ciò che è necessario per salvar la nazione. Egli è in tali casi che la nazione è ben disposta a fare i più gran sacrifici per sostenersi; e quindi, come abbiamo veduto coll' esempio dell' Inghilterra, anche ad accettare il sistema feudale. Come la nazione andrebbe a perire se il principe non avesse dei soldati fedeli, e stretti d' intorno a lui, o per dir meglio se tutta la nazione non pugnasse ordinata e unita insieme come una persona sola: così si andò in cerca di un' invenzione che obbligasse i guerrieri della nazione, cioè tutti gli uomini capaci di guerreggiare, a trovarsi intimamente legati col principe. Un simile espediente fu suggerito alle nazioni conquistatrici dalla stessa natura della conquista. Nel primo tempo che il popolo conquistatore entrava nel paese di sua conquista, tutto il terreno si ritrovava ancora indiviso, e appartenente ancora tutto intero a tutta la nazione. Non avendo adunque alcuno proprietà particolari, e perciò non avendo nessuno attaccato l' affetto a dei fondi particolarŒ, come nasce in quelli che sono già proprietarŒ, la nazione poteva in quel tempo provvedere comodamente a due scopi cioè al bene de' suoi membri, e al bene di tutta la nazione; ad arricchir bensì quelli coll' attribuir loro i terreni, ma nello stesso tempo a conservar la nazione forte come quando guerreggiava sotto il suo capo. A conseguir insieme questi due scopi non si poteva trovar nulla di meglio, che quanto: 1 far sì che tutti i membri della nazione ricevessero le terre divise dalla mano del loro capo, perchè con ciò si otteneva il primo fine: 2 che le ricevessero coll' obbligo del servizio militare perchè in tal modo si otteneva il secondo fine. Quegli che riceveva il feudo giurava al Signore e dichiarava « « che egli diveniva da quel giorno suo uomo 1) col pericolo della vita, dei membri, e dell' onor temporale. » » In fatti non v' era un modo più efficace per costringere al servizio militare questi nuovi proprietarŒ, quanto col far dipendere dal comandante le loro proprietà: col far che le riconoscessero da lui, e col dar a lui il diritto di privarli delle medesime se non conservassero la dovuta fedeltà. Questa instituzione era un' ottima precauzione colla quale una nazione guerriera, che riconosceva tutto dalla guerra, e che nella guerra sola riponeva la sua forza e la sua sussistenza, cercava d' impedire, che i suoi membri col rendersi proprietarŒ, e coll' adagiarsi in una vita pacifica e comoda non si ammollissero e snervassero, e non diventasse loro impossibile di staccarsi dalle care loro proprietà, quando la salute comune esigesse che corressero a schierarsi sotto le bandiere del loro duca. Per conoscere tuttavia che tanta potestà data al capo della nazione non era altro che il diritto di dirigere la modalità assai esteso quanto richiedeva l' esigenza delle circostanze, basterà che noi traduciamo l' instituzione feudale in parole proprie: e che evitando tutte le espressioni equivoche, la vestiamo delle espressioni che ci verrebbero suggerite da una legislazione più lucida e più conforme al modo di pensare dei tempi moderni. Supponiamo adunque che in un' assemblea, nella quale la nazione conquistatrice trattasse del modo di ripartire il paese di conquista, il condottiero della medesima sorto a parlare avesse detto così: « Miei compagni! voi siete giunti col vostro valore a rendervi padroni di un paese fertile, dove sarete a pieno compensati dei vostri travagli e premiati della vostra bravura. Ma la fertilità del terreno e la dolcezza del clima può snervare la forza del vostro carattere, e farvi perdere la gloria dei vostri antenati e la vostra. D' altro canto voi siete ancora attorniati d' inimici, e genti robuste e numerose portano invidia alla vostra fortuna. Ciò, che finora vi ha fatto trionfare di tutti gli ostacoli, fu il seguire con unanimità il vostro comandante, e disprezzare al suono della sua voce i travagli e la morte. Ma divisi da lui in un vasto paese, e guasti dall' ozio della vita privata e comoda, voi diverete facile preda di qualche altra gente, che sarà forte come voi siete ora, mentre voi sarete deboli come poco fa erano gl' inimici che avete distrutti. Non trovo dunque alcun mezzo perchè voi conserviate il presente stato glorioso e felice, se non quello che vi obblighiate con giuramento a correr tutti sotto l' insegna del vostro capo, quando la nazione è in pericolo. Ma molti di voi più affezionati alla loro vita tranquilla che memori della giurata promessa, resteranno vilmente a casa; onde le promesse che qui tutti siete disposti a fare saranno inutili, se il vostro capo non ha il modo di punire gli spergiuri, e di provvedere che per la inerzia d' alcuni non periate tutti. Or come ciò che seduce costoro ad abbandonare la causa comune è l' amore troppo grande alle proprietà, perciò io propongo che il capo della nazione abbia autorità di privarli delle medesime: io propongo che tutti voi riconosciate di ricevere le proprietà con questa condizione di prender l' armi alla voce del vostro capo: che la porzione di terra che toccherà a ciascuno di voi non sia considerata che come un premio della fedeltà alla voce del vostro condottiere, giacchè questa fedeltà è stata quella che vi ha resi vittoriosi: io propongo che come dal vostro capo ricevete l' ordine della battaglia, così pure riceviate la proprietà dei terreni, come un premio dell' obbedienza di quest' ordine. Voi tutti dunque che riceverete la vostra porzione di proprietà lasciate alla nazione una garanzia della vostra futura obbedienza e fedeltà col ricevere la proprietà sotto una tale condizione. Se voi siete ora degni di aver un premio, perchè col vostro valore avete conquistata questa terra, riconoscete altresì che vi rendete degni di perderla dall' istante che ricusaste difenderla. »1) E` dunque evidente che l' instituzione feudale non è che un' instituzione politica, un mezzo per render forte la nazione costretta di star sulle armi per difendersi da' suoi nimici. Il diritto che ha il principe sulle terre in tali istituzioni, non è che il diritto di punire quelli che non si prestano alla difesa della nazione, e per la colpa dei quali la nazione verrebbe in pericolo di perire. Ella non può esser dunque la costituzione feudale una costituzione stabile; poichè ella non ha riguardo che allo stato di guerra: ad uno stato in cui la nazione o debbe essere forte o debbe perire. In tali circostanze la nazione è disposta di fare i più grandi sacrificŒ ed i proprietarŒ si accontentano di diminuire la forza de' loro diritti sui loro fondi per non perderli intieramente. Egli è il caso, come diceva, in cui la modalità diretta dal principe prende una grande estensione. Ma appunto perchè la modalità, che è l' oggetto del governo si allarga e si restringe secondo le circostanze, perciò è difettosa quella costituzione che vuol dare a tale modalità una misura stabile: e questa costituzione non può durare se non in quel tempo in cui la modalità oggetto del governo, è nè più nè meno della misura fissata. Poichè venendo quel tempo in cui quel governo non abbia bisogno di usare tutta quella misura di modalità per il ben pubblico, se la vorrà usar tutta, si renderà tirannico; ed all' incontro in altro tempo in cui le esigenze del ben pubblico costringano il governo a disposizioni più larghe, le quali trapassino la misura della modalità fissata dalla costituzione, egli non potendo trapassare quella misura, sarà troppo debile per salvare la nazione. Di che per dirlo di passaggio si può cavare questa regola circa la bontà delle costituzioni: « Che la costituzione debbe bensì assegnare tali mezzi per li quali il governo non osi di passare fuori del circolo della modalità, ma nello stesso tempo non debbe stabilire la misura della modalità perchè questa essendo variabile secondo le circostanze della nazione, la costituzione diverrebbe con ciò inopportuna al sopravvenire nella nazione una nuova circostanza. » Per applicare la regola alla costituzione feudale basta osservare come fissando essa al governo una misura di modalità tanto estesa, che era bensì adattata in tempi di guerra, nei quali l' ordine pubblico era ad ogni momento in pericolo, diventava inopportuna tostochè tale circostanza si mutasse, e si venisse a stabilire di più la nazione e a trovarsi in istato di maggior sicurezza e quiete, nel quale stato la influenza del governo, o sia la modalità, meno si doveva estendere. In simile tempo la nazione, che non vuole mai che il governo faccia se non quel tanto che è necessario per la sua salvezza e prosperità, si sforza di tirare in dietro quanto prima aveva troppo liberalmente conceduto, e con ciò viene a distruggere quella costituzione ch' ella stessa prima aveva imprudentemente fondata od acconsentita. E` una cosa molto istruttiva l' osservare come la costituzione feudale che assegnava una modalità tanto estesa al governo da dargli fino il diritto di proprietà sulle terre, venisse bel bello ristretta e così guastata. La nazione cercò sempre di tirare indietro una tale concessione fatta da lei a' suoi capi in tempo di grande pericolo: cercò dìco di tirarla indietro in ragione che l' esperienza le dimostrò, o pure che l' avidità le fece sperare che il governo non avesse bisogno di tanto, o sia in ragione che giudicò che le circostanze del paese non esigessero che il governo avesse a disporre d' una misura sì grande di modalità. L' esperienza a ragione d' esempio fece conoscere alla nazione ciò che non aveva preveduto in principio, non essere ogni maniera di guerre d' un interesse nazionale; ma avervene di quelle che non riguardavano se non l' interesse del loro capo. S' accorse adunque che l' obbligazione del servizio militare stabilita nella costituzione feudale per la guerra in genere, poichè non si aveva idea d' altra guerra che di quella che riguardava la difesa del paese conquistato, era troppo estesa; ed essa cercò quindi di limitarla alla guerra difensiva e nazionale. A quest' avvertenza dieder occasione le guerre insorte tra' figliuoli di Carlo Magno, di cui ecco la disposizione che ne conseguì, e che narrerò colle parole di Montesquieu. « « Al tempo di Carlo Magno era altri obbligato sotto gravissime pene di recarsi alla convocazione per qualsivoglia guerra: non si ammettevano scuse, ed il conte stesso che n' avesse esentato alcuno sarebbe stato punito. Ma il trattato dei tre fratelli (anno .47) pose sopra di ciò tal restrizione che tolse per dir così dalle mani del re la nobiltà: altri non fu più tenuto a seguire il re alla guerra se non quanto questa fosse difensiva, nelle altre era libera o seguire il suo signore, o accudire a' suoi affari. Questo trattato si riferisce ad un altro fatto cinque anni prima fra i due fratelli Carlo il Calvo e Luigi re di Germania: in vigor del quale dispensarono questi due fratelli i loro vassalli ove avvenisse che l' uno contro l' altro tentasse alcuna impresa: cosa che giurarono i due principi, e che giurar fecero ai due eserciti. » « La morte di centomila francesi fece pensare a quella nobiltà, che ancora restava, che per le private risse de' suoi re intorno alla lor divisione sarebbesi alla perfine distrutta, e che la loro ambizione e gelosia farebbe versare tutto quel sangue che pur rimaneva. Fu fatta questa legge che la nobiltà non verrebbe astretta a seguire i principi alla guerra se non se quando si trattasse di difendere lo stato da una straniera invasione. »2) » Si rileva da Nitardo che questo trattato fu fatto dalla nobiltà. Fino dunque che il principe poteva esercitare con libertà il diritto feudale di togliere e di dare le terre, cioè fino che la nazione glielo permetteva costretta dalla necessità di sostenersi, la finzione della proprietà del principe sulle terre aveva qualche cosa di reale; poichè se non le faceva coltivare a suo pro, usava però di frequente il diritto di toglierle e di donarle, il quale essendo solitamente un atto di proprietà, faceva si che sembrasse realmente che il principe avesse la proprietà delle terre, E` vero che il togliere ed il donar le terre nel principe non era che un atto del potere governativo, da non confondersi mai con quell' atto, col quale il padrone del campo lo dà altrui in usufrutto. Ma come quell' atto era il medesimo che questo, e non differiva se non dal titolo col quale si faceva; giacchè il principe lo faceva per titolo di governo, ed il padrone per titolo di proprietà, così era ben facile confondere questi due titoli in un titolo solo, o sia scambiare l' uno coll' altro. Ma se la proprietà dura sempre in una misura eguale; il potere governativo all' incontro varia secondo i bisogni del paese. Laonde venendo il tempo in cui non si rendesse più tanto necessario di esercitare con frequenza quel diritto feudale del principe di togliere e di donare le terre; doveva quella finzione di proprietà che la legge dava al principe sempre più apparire come una cosa vana e chimerica, e rendersi tanto più cagione di mali quant' ella più mancava di fondamento. Una tale costituzione pertanto aveva il doppio difetto che rendeva il principe prodigo, e la nazione vie più avida ed avara. Quindi in ragione duplicata cresceva lo squilibrio fra la proprietà ed il potere civile. Giacchè la forza del re era riposta nel donare, egli era messo sopra una strada opposta all' economia, d' altro lato non era già altrettanto facile il togliere ciò che era stato donato giacchè con ciò si formava dei nemici. I Signori all' incontro i quali erano stati avezzi di dare il loro affetto e la loro fedeltà al re sempre in cambio dei doni che ricevevano, erano messi sopra una strada anche troppo economica, giacchè teneva sempre viva la loro avidità. Quindi mentre la corte prendeva un alto e nobile tuono di cortesia e di generosità, rendendosi in sostanza con ciò stesso sempre più debile, i Signori all' incontro praticavano l' arte dell' avere quanto più potevano dal sovrano con raggiri, con bassezze, con dare ora speranza, ed ora con isparger timori, vivendo sopra una continua speculazione di guadagno che li rendeva sostanzialmente più forti. Abbiamo veduto come venne limitato l' aggravio del servizio militare: veggiamo adesso come la nobiltà si venisse assicurando le sue ricchezze, e un grado alla volta spogliando la corona di tutto quel poco di reale, che poteva avere la finzione legale di proprietà sulle terre. Primieramente l' introduzione dei suffeudi indebolí l' autorità del re: [...OMISSIS...] Ma i progressi della nobiltà nel diminuire la potestà feudale del re sulle terre, non si vedon meglio che tenendo dietro alle mutazioni successe nel tempo in cui furono dati i feudi. Carlo Martello, seguendo la conghiettura dell' Abate Mably, fu il primo che invece di darli a tempo come per innanzi, cominciò a darli a vita; poco dopo divennero ereditarŒ. L' anno ..9 Eude di Parigi re di Francia concedette delle terre a Ricabodo suo vassallo pel tempo di sua vita, e di più con questa condizione favorevole, che morendo con un figliuolo, questi pure le godesse a vita. Ciò fu un primo passo dei feudi ereditarŒ in perpetuo. Il secondo passo fu quello di rendere i feudi ereditarŒ in linea retta maschile; il terzo quello di renderli ereditarŒ anche in linea collaterale: il quarto finalmente fu quello di renderli ereditarŒ anche in linea femminile. Ridotti i feudi a quest' ultimo stato la proprietà, che sopra di essi attribuivasi al principe, non aveva più nulla affatto di reale: ed era una finzione vanissima. E tuttavia « « anche dopo ch' ebbero ricevuta quest' ultima forma » - dice Robertson - «i giureconsulti trattando de' feudi continuarono a definirli conformemente alla loro prima instituzione; ma la proprietà non apparteneva più al Signor superiore ed era passata in effetto nelle mani del vassallo. » » Questa servilità pecoreccia de' giureconsulti nell' applicare le parole e le difinizioni antiche alle cose nuove, a cui non sono applicabili, portò sempre un gran male nella società. Il principe dalle parole della legge s' illudeva, e s' imaginava di ritenere in qualche modo una padronanza di cui non gli rimaneva che il nome. I nobili all' incontro che lasciavano ben volentieri al principe tutte le parole ampollose, mantennero sempre il loro costume, cioè la loro industria per tirare a sè l' effettiva ricchezza; tanto la generosità del principe quanto l' avidità dei Nobili più esercitandosi più s' accrescevano, e diventavano senza confini: e, se non vi fossero state le crociate che hanno alquanto abbassato i nobili impoverendoli, e rilevata l' autorità dei principi rimettendoli alla testa delle loro nazioni, probabilmente tutte le società civili d' Europa sarebbero degenerate in funeste oligarchie. Non furono già contenti i nobili di rendersi così assoluti padroni delle terre, ricevendole dal principe a titolo di feudi; ma col gioco d' un simile titolo il quale lasciava ai principi apparentemente la proprietà delle cose, seppero strappare dalle mani principesche anche le rendite casuali dello stato, come i diritti di assisa e di pedaggio i porti dei fiumi, i salari o gli emolumenti degli offici, e gli offici stessi si mutarono in simiglianti feudi ereditari. L' avidità de' nobili che non aveva limiti si impossessò di tutto ciò a cui poteva, sebbene assurdamente, attaccare il comodo titolo di feudo. Chi crederebbe che l' elemosine stesse delle messe dette ad un tale altare, le ottenessero dei Baroni possenti a titolo di feudo, e le partissero come le altre proprietà fra i loro vassalli? 1) Le grandi cariche della Corona divennero ereditarie quasi per una certa necessità proveniente dallo spirito d' usurpazione della nobiltà, a cui i principi erano troppo debili per resistere, sebbene talora facessero qualche sforzo. In fatti si hanno degli esempŒ di principi che obbligavano quelli a cui conferivano qualche carica o dignità, di riconoscere con un atto formale che nè essi nè i loro eredi potevano pretendere di possederla per un titolo ereditario. 1) [...OMISSIS...] Così gl' istorici riflessivi sono condotti dai fatti a riconoscere l' esistenza continua della legge di cui parliamo, dell' equilibrio cioè tra la proprietà ed il potere. Si poteva indicarla con più chiarezza di quello che faccia in questo passo Robertson? Ma perchè dunque, avendola veduta, negligentare poi di applicarla e di cavarne le feconde conseguenze? Blackstone si scaglia con ragione contro delle sottigliezze dei giurisperiti normanni che avevano guasta l' antica costituzione Sassone; rimprovero che molti fecero anche ai Romani, i quali perfezionando il sistema fondato dalla legge regia legalizzarono il dispotismo. Noi abbiamo fatto vedere che anche la legge regia presso i Romani in sostanza non era che una finzione, giacchè essa opponendosi alla costumanza od al fatto si rimaneva scritta sulla carta, dove è pur facile scrivere ciò che si vuole; ma non era altramente nella reale costituzione. L' essere tuttavia scritta in carta bastava per dare al principe il pretesto di fare quanti arbitrii a lui piacesse, e di usare quella potenza ch' egli avea di fatto per alterare la costituzione antica e rendersi al tutto despota. In fatti anche questo vizio ha la legge feudale; poichè come da una parte invita i nobili a carpire le donazioni del principe, così dall' altra invita il principe ad aspirare ad un pieno dispotismo, conciossiacchè gli dà il pretesto in mano poichè gli fa credere ch' egli sia il proprietario delle terre. Dipende dunque solo dall' indole del principe, e dalle circostanze che gli facciano credere più vantaggiosa una condotta che l' altra, di appigliarsi all' uno dei due partiti a cui egualmente lo invita la legge feudale, l' uno dei quali non è meno pernicioso dell' altro, nè meno capace di esercitare scompigli nello stato. Il primo di questi due partiti è quello di cui abbiamo parlato, cioè ch' egli sia inclinato a donare e a satollare l' avidità dei nobili: il fine del qual partito è d' impoverire a segno la corona da non poterla più sostenere, e gli esempi di ciò gli abbiamo trovati nel regno di Francia e nell' Imperio Germanico. Il secondo partito è quello di farsi realmente conto del preteso diritto che gli attribuisce la formula della legge sulla proprietà della terra: ed in tal modo di aspirare ad un dispotismo, che se non trovasse ostacoli diverrebbe ben presto quello del sultano di Costantinopoli, come notammo avvenire nell' antico imperio romano per l' abuso della legge regia: e come sarebbe avvenuto nell' Inghilterra per l' abuso della feudalità normanna, se invece la condotta del principe trovando de' forti ostacoli non avesse fatto cadere la pura costituzione feudale, e nascer da quella una costituzione più vera e più moderata. Dopo avere Blackstone parlato delle conseguenze di un potere esagerato che tiravano gli interpreti normanni dalla costituzione feudale, soggiunge: Ma non era già questa stata l' intenzione dei nostri antichi nell' aver assentito alla legge feudale: [...OMISSIS...] Ma se questa legislazione era di mere parole, fu ella men dannosa allo stato? non bastò essa per dar il modo a' Principi di attribuirsi più autorità che non avevano? Questa falsità di espressioni si potè essa correggere senza che la nazione sofferisse delle pene e degli scompigli di fatto? con sì gravi pene adunque debbono scontare le nazioni una semplice improprietà di parlare? « « Guglielmo, prosegue Blackstone, e il suo figlio Guglielmo il Rosso mantennero imperiosamente tutto il rigore delle dottrine feudali; ma il loro successore Enrico I giudicò utile per appoggiare le sue pretensioni alla corona di promettere il ristabilimento delle leggi del re Edoardo il confessore, o dell' antico sistema Sassone. Per conseguente nel primo anno del suo regno concesse una carta per la quale rinunziava ai carichi più oppressivi, mantenendo tuttavia la finzione della tenuta feudale sempre sotto quell' aspetto militare, che aveva spinto suo padre ad introdurlo. »2) » Col mantenimento di tale finzione si conservava il germe degli stessi mali, cioè il pretesto pel quale il principe potesse ritornare di fatto a quelle pretensioni e a quell' estremità di potere che non gli conveniva già per il suo grado principesco, ma che gli sarebbe bensì convenuto se invece d' esser principe fosse stato padrone, invece d' aver de' sudditi, avesse avuto de' servi; se in una parola la legge feudale non fosse stata una finzione, e il principe avesse realmente avuto la proprietà sulle terre. E in fatti che avvenne della Carta data da Enrico I? « « Questa Carta fu rotta per gradi, e le precedenti oppressioni furono rinnovellate e raggravate da lui stesso, e da' suoi successori fino al re Giovanni: esse divennero sì intollerande nel regno di quest' ultimo, che i suoi principali baroni e feudatarŒ si sollevarono e pigliarono le armi contro di lui; ciò che produsse finalmente la celebre Gran Carta di Runing7mead , confirmata poscia, eccetto qualche modificazione, da Enrico III suo figlio. »1) » E fu l' essersi i re d' Inghilterra e quei di Francia appigliati ai due opposti partiti che loro somministrava la legge feudale, cioè quei di Francia alle donazioni con cui ingrandivano i nobili, e quei d' Inghilterra al dispotismo con cui gli opprimevano, che ne vennero poscia le conseguenze, che i re di Francia avessero bisogno di confederarsi col terzo stato contro dei Nobili; mentre la Nobiltà d' Inghilterra ebbe bisogno di confederarsi col terzo stato contro del Re: nel che si può dire che consista ciò che formò il carattere politico di quei due regni. [...OMISSIS...] Dopo tutto ciò che s' è detto fin quí per provare colla via dell' esperienza, che la legge caratteristica della civile Società, e d' una saggia costituzione, consiste nell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, resta una difficoltà che ci si può fare: Come mai i popoli più saggi che hanno traveduta questa legge, che hanno anche fatte delle instituzioni ad essa consonanti, non hanno poi recato alla perfezione il sistema e non hanno organizzata la Società unicamente su questa legge? La risposta è in pronto: se ciò avessero fatto, si sarebbero potuti benissimo censurare, come quelli che si avrebbero resi schiavi di un sistema, ed avrebbero con ciò abbandonata quella piena e molteplice sapienza che suggerisce la maggior maestra degli uomini, l' esperienza. Dopo le cose dette, a noi riesce facile anche d' indicare con precisione in che sarebbe consistito il loro errore: in che avrebbe peccato di sistema l' organizzazione della società civile fatta unicamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. L' errore di cui parliamo rende ragione del fatto che ci si oppone, ed in questa maniera fa sì che quel fatto si renda una nuova prova della nostra teoria. L' errore sarebbe consistito nel sottomettere alla detta legge tutta la società civile; mentre egli deve essere diviso in due parti, cioè: nel morale e nell' amministrativo; ed è solamente l' amministrativo quello che va organizzato secondo l' equilibrio della proprietà e del potere, e non già il ramo morale o giudiciale, il quale va organizzato nella forma di tribunale. L' organizzare tutto il potere civile a norma della sola legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, produrrebbe due gravi disordini: 1 una parte della società sarebbe sacrificata; disordine contro la felicità comune: 2 la rettitudine sarebbe fatta servire alla ricchezza, disordine contro la moralità e la giustizia. La parte della società sacrificata sarebbero tutti gli uomini privi di beni di fortuna; poichè i diritti personali non vi avrebbero come tali nessuna rappresentanza, nessuna attività, nessuna voce da far intendere la loro ragione, perchè non sieno oppressati. Ora l' organizzazione fatta puramente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere doveva necessariamente incontrare una reazione. Nè solo doveva incontrare una reazione dagli uomini privi di proprietà, ma in generale dall' elemento personale. Per ischiarire la cosa bisogna considerare tutti i diritti, o beni posseduti dagli uomini tutti, congiunti ad una energia o forza, mediante la quale tendono di difendere sè stessi, cioè di conservarsi e di ampliarsi. Or dunque nella società umana come vi sono due specie di diritti, personali e reali, così vi sono due forze o due energie corrispondenti alle due specie di diritti. Queste energie o instinti che ha l' uomo di difendere il suo diritto, porta ciascun uomo ad aspirare al potere politico come ad un mezzo inserviente alla difesa dei proprŒ diritti. Or dunque il potere politico viene come strappato e tirato da due forze: cioè dalla forza veniente dal diritto personale e dalla forza veniente dal diritto reale. Ora siccome il diritto personale è eguale in tutti, così la forza proveniente da questo diritto tende a dividere il potere civile in porzioni eguali fra tutti gli uomini; mentre all' incontro siccome il diritto reale è disuguale negli uomini, così questa forza tende a dividere il potere fra gli uomini in porzioni diseguali. Se non esistesse altro che la forza proveniente dal diritto reale, egli è certo che il potere civile si troverebbe ben presto diviso fra gli uomini allo stesso modo come si trovassero fra essi divise le proprietà e le ricchezze, che formano il detto diritto; nel quale caso la legge dell' equilibrio fra il potere e la ricchezza verrebbe compiutamente a realizzarsi per le sole forze della natura. Se all' incontro non esistesse nell' umana Società altro che la forza veniente dal diritto personale, egli è certo che in breve tempo il potere civile sarebbe diviso egualmente fra gli uomini e verrebbe a realizzarsi rigorosamente colle sole forze della natura il sistema della rappresentazione personale. Ma poichè nella Società umana non esiste già una sola di queste due forze, ma esistono e operano contemporaneamente tutte due; quindi era impossibile che le Società civili prendessero l' una o l' altra di queste due forme semplici: era impossibile che il potere civile si dividesse rigorosamente in ragione delle ricchezze o pure che il potere civile si dividesse con una perfetta eguaglianza fra gli uomini. Invece di ciò che ne doveva seguire? doveva seguire che le società di loro natura prendessero un' organizzazione che fosse media proporzionale fra quelle due estreme, in cui il potere civile nè fosse diviso in parti eguali fra gli uomini, nè fosse perfettamente diviso in ragione delle ricchezze. Dopo di ciò riuscirà facile a spiegare la ragione di certe parti che s' incontrano nelle migliori costituzioni sociali, le quali a primo aspetto sembrano irregolarità, e il primo pensiero che viene è il desiderio che fossero tolte, perchè si rendesse più semplice, più uniforme, più elegante la costituzione. Bisogna osservar ciò nelle costituzioni più eccellenti e specialmente in quelle nelle quali i legislatori hanno spiegato la maggior forza di spirito in ben calcolare le forze della natura, poichè trovando in queste costituzioni stesse delle irregolarità, bisogna dire che i legislatori non le abbiano potute evitare, e che anche volendole, abbiano incontrato un ostacolo insuperabile che veniva loro opposto dalla stessa natura delle cose. Per esempio noi abbiamo veduto quanto bene Servio Tullio abbia veduto la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere e con quanta sapienza abbia cercato di fondare sopra di essa la costituzione romana, instituendo i comizŒ centuriati. Ma perchè poi dopo questa bella instituzione il capolavoro della romana politica, il popolo romano tuttavia si assembrava ancora talvolta a deliberare per ComizŒ curiati e tributi? Queste specie di ComizŒ non sembrano una irregolarità rimasta nella costituzione romana? Un legislatore sistematico e superficiale avrebbe tentato di abolire questi vecchi costumi adattati alla rozzezza dei tempi di Romolo e inopportuni alla cultura dei tempi moderni; ma egli è assai probabile che senza riuscirvi avrebbe messo in grave pericolo la repubblica, o almeno se stesso. In fatti i Comizi per curie e per tribù era la rappresentazione dei diritti personali, come i ComizŒ per centurie era la rappresentazione di diritti reali: e come non era possibile distruggere la forza personale, giacchè esiste in natura: così sarebbe stato impossibile, sarebbe stato una violenza contro natura l' intera abolizione dei ComizŒ curiati e tributi. Essi hanno preceduti i ComizŒ centuriati, essendo stati instituiti da Romolo, e la ragione di ciò l' abbiamo data quando abbiamo osservato, che nel primo stato di una nazione prevale la forza veniente dai diritti personali, poichè la proprietà ancora non vi è, o se vi è non fu ancora divisa in parti molto diseguali, o finalmente non ha ancora avuto tempo di esercitare la sua influenza. Ma passati quasi due secoli la nazione venuta al secondo stato di proprietà diseguali, vennero secondo la legge da noi esposta, a prevalere i diritti reali ai personali, e fatta l' instituzione dei ComizŒ centuriati, questi subitamente presero la prevalenza, e trattarono di affari maggiori della repubblica. Ma per quanto questi prevalessero non si potè già fare che soli prevalessero, e la rappresentanza reale fatta in questi, dovette essere temperata dalla rappresentanza personale fatta in quelli: così l' equilibrio fra la proprietà ed il potere non si potè già perfettamente conseguire, ma solamente approssimarvisi. Il difetto del sistema consiste nell' esser questo più ristretto che non è la natura: per amore di semplicità e di regolarità si tralascia qualcheduna delle forze della natura; e di ciò viene il detto, che è diversa la teoria dalla pratica. Le maggiori dissensioni esistenti fra i politici si riducono, ridotte agli ultimi termini, a sostenere gli uni la rappresentanza reale, gli altri la rappresentanza personale: gli uni e gli altri non fanno che un sistema: è una teoria che differisce dalla pratica: la teoria che non differisce dalla pratica sarà quella che insegna a far che coesistano queste due rappresentazioni, giacchè esistono in pratica le due forze che le producono. Noi le ritroveremo egualmente, se considereremo le costituzioni inglese e francese; e specialmente la prima, dove sembra che la rappresentazione reale più prevalga. La camera bassa rappresenta i minori proprietarŒ. [...OMISSIS...] Ma non è già questo solo l' officio che presta la Camera bassa. Chi ben considera essa non è solo una rappresentazione di proprietà, ma ben ancora di diritti personali. [...OMISSIS...] Ma per vedere come spetti alla Camera bassa anche la difesa dei diritti personali, basta osservare l' incumbenza che nella costituzione inglese ha di sua natura un deputato alla Camera. [...OMISSIS...] Se la Camera bassa rappresentasse solamente proprietà essa non si sarebbe giammai mostrata in così stretta relazione come è coi fautori della rappresentazione personale: i democratici di tutti i paesi trovano sempre facile l' alleanza colla Camera bassa, e le rivoluzioni democratiche cominciano sempre da lei. Se la Camera bassa rappresentasse mere proprietà, probabilmente dopo la caduta del feudalismo avrebbe trovato il modo di unirsi in una Camera sola colla nobiltà, giacchè non differirebbero essenzialmente riguardo agl' interessi di cui assumono l' avvocazia. A malgrado però che i diritti personali nelle migliori costituzioni abbiano trovato il modo di farsi rappresentare meno o più fortemente, secondochè la società è più o meno avanzata, tuttavia la maggior difesa di questi consiste piuttosto nella rettitudine di quelli che influiscono nel governo, che nella stessa organizzazione del medesimo. Rimossa la rettitudine, non solo i diritti personali sono sempre in pericolo d' essere offesi, ma ben ancora la minorità dei diritti in genere; poichè la minorità è sempre di natura sua inetta a resistere contro la maggiorità. Se gli uomini fossero interamente cattivi, la minorità sarebbe sempre sacrificata: e sacrificando l' una dopo l' altra diverse minorità, gli uomini distruggerebbero in breve se stessi. Ma gli uomini non sono interamente cattivi, ma hanno solamente una parte di cattiveria: la quale ora è più grande ed ora è più piccola: dunque la minorità non viene già interamente distrutta, ma viene bensì attaccata ora con più forza ed ora con minor forza dalla maggiorità. Se la minorità si vede attaccata con molta forza, ma non però tale che perda ogni speranza di fare una valida difesa, allora è il caso in cui lo stato si pone in convulsione, poichè la minorità fa tutto il possibile per acquistare la prevalenza: ed allora le forze che essa naturalmente non avrebbe, le acquista per un' energia sforzata, per un impulso violento che produce in se stessa l' entusiasmo e le passioni sollevate: e questo è appunto il caso in cui il governo italiano nel secolo XIII venne in mano alla minorità, cioè alla plebe od ai commercianti; quella forza non era reale e naturale, ma artatamente prodotta od eccitata: bastevole perciò ad abbattere i principi ed i nobili per il momento, ma non a sostenere se stessa lungamente. Da queste osservazioni nasce che ogni opinione che si abbracci in politica, sia favorevole alla rappresentazione personale o sia alla reale, è cattiva fino che non si è trovato il secreto di eliminare mediante il Tribunale politico la rappresentazione personale; poichè in tal caso non restando nella Società che la rappresentazione reale, questa si può organizzare in un' Amministrazione, seguendo rigorosamente la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. Qualche scrittore meno trasportato da partito, che osservò come la rappresentanza personale perderebbe la società privando di difesa tutti quei diritti che risaltano fuor della linea comune, che sono fondati in natura, e che vengono a formare la somma maggiore dei diritti; e che osservò d' altra parte come la sola influenza delle ricchezze nella rappresentazione reale lascierebbe scoperti e indifesi i diritti personali: non seppe poi giungere ad osservare, come la natura spingeva le nazioni a prendere una costituzione media e quasi spinte da due forze diverse a tenere per così dire la diagonale. In fatti fino che il Tribunale non viene diviso dall' Amministrazione quella costituzione media è la più saggia, come quella che viene suggerita dalla natura. Non essendo però giunto a formarsi questa idea precisa si acquietò in un sistema incerto e determinato, dicendo così: « « Il principio sacro, il principio conservatore di ogni governo libero consiste in ciò, che la sovranità non appartenga nè alle classi, nè agli ordini, nè ai consigli, nè agl' individui, che la sovranità appartenga non ad una parte, ma all' intera nazione, che in nessuna parte trovisi chi potrebbe volere in nome di tutti quanto ogni individuo potrebbe volere individualmente, e imporre a tutti i sacrificŒ che ogni individuo potrebbe acconsentire d' imporsi. »1) » Certo la sovranità giova che appartenga all' intera nazione, ma giacchè questa nazione non è che una persona morale composta di persone individuali; bisogna sapere di più, come questa sovranità debba essere divisa fra dette persone individuali, in che ragione debba essere dalle medesime partecipata: tralasciando di definir questo non si dice ancor nulla coll' affermare che la sovranità debba risiedere nell' intera nazione. D' altro lato in qualunque modo sia divisa fra la nazione, rimane sempre una maggiorità ed una minorità di forze: quindi rimane medesimamente insoluto il gran problema: Come si possa difendere ogni minorità contro ogni maggiorità: problema più interessante che non pare a prima giunta; ma che si vede esser tale dove si supponga fatta astrazione dall' elemento morale, il quale salva in parte la minorità; poichè senza questo scudo una successione di minorità sacrificata come dicevamo condurrebbe l' uman genere intero alla sua distruzione. Vuol forse dire l' illustre autore con quelle parole, che la sovranità debbe risiedere nell' intera nazione, ma che non debb' essere stabilita nessuna stabile regola intorno al modo ond' essa venga divisa fra gl' individui della nazione, acciocchè variando di fatto la ragione onde viene partecipata la sovranità dagli individui, il centro di tutte le forze nazionali sia mobile, ed ora si trovi in un punto ora nell' altro della nazione? Non posso credere che voglia intendere ciò; poichè sarebbe lo stesso che abbandonare le cose pubbliche al caso, o negare che possano essere aiutate dalla saviezza, sarebbe ancora un lasciare la sovranità da rapirsi e straziarsi a vicenda da tutti quelli che hanno più forza. Il secondo disordine, che nascerebbe dalla costituzione civile fatta rigorosamente secondo la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere, sarebbe la rettitudine fatta servire alla ricchezza; poichè tale costituzione organizzata in un modo al tutto amministrativo non curerebbe di sua natura che gl' interessi, e ciò che è morale sarebbe straniero alla medesima, cioè a dire apparterrebbe alle persone singole, ma non alla Amministrazione stessa presa in astratto. Poichè fu sempre impossibile agli uomini lo spogliarsi di ogni idea nobile ed elevata, di ogni principio morale, che trascendesse tutta l' importanza degli interessi sensibili: e poichè mediante la religione cristiana queste idee sublimi e preziose vennero a rilevarsi e rinforzarsi nelle menti degli uomini; perciò egli fu impossibile, che le nazioni specialmente cristiane organizzassero il loro governo unicamente come un' Amministrazione, che è quanto dire realizzassero a tutto rigore la legge dell' equilibrio fra la proprietà ed il potere. « « Si aveva una certa non so quale vergogna » », così uno storico che più volte abbiamo citato parlando della legislazione de' secoli di mezzo « « ad attribuire tanto merito alla ricchezza che sola potesse collocare un uomo nel primo ordine della Società, nè si voleva accordare la nobiltà come prezzo di quella gara che è tra gli uomini grandissima delle ricchezze; nè stabilire il principio, che i beni in qualunque modo acquistati da un plebeo gli dessero un giusto titolo da essere rispettato ed obbedito da' suoi eguali. »1) » Il principato e la magistratura, che si confuse col potere assoluto, ebbe sempre con ragione aggiunte nel pensare degli uomini le più eminenti idee, e ciò nasceva perchè i due loro principali officŒ, erano: 1 il render giustizia, officio tutto morale, e che fa vedere in quello che lo esercita il vicario di Dio in terra: 2 ed il combattere, officio che diventa pur morale, quando si combatte per la giustizia, quando si combatte non per sè, ma per la difesa del popolo, che si ha ricevuto in cura dalla provvidenza. Il feudalismo che aveva rimesso il principe sul tuono di una generosità, che tutto fa per gli altri e nulla ritiene per se stesso, aveva rinforzate queste idee. La religione le aveva autenticate e sacrate, ed il principe divenne una venerabile imagine della divinità e della provvidenza, che nulla aveva per così dire di profano e di terreno. A questi alti offici si associava l' officio economico, o amministrativo; ma questo era ecclissato dallo splendore di quei primi, e quasi non si considerava. Poichè questa maniera di pensare è giusta e conforme alla divinità del cristianesimo, perciò fino che questi diversi officŒ restano insieme mescolati e confusi, non è possibile che l' amministrazione sociale abbia la sua perfetta organizzazione, giacchè tale organizzazione nuoce a que' due primi e più rispettabili officŒ. In fatti la perfetta organizzazione è che le ricchezze sieno quelle sole che in essa influiscano. Or come è possibile che la facoltà di amministrar la giustizia, per esempio si distribuisca in ragione della ricchezza? E` forse distribuita in ragione della ricchezza la probità, che è ciò che è necessario per l' amministrazione della giustizia? Non già. Dunque fino che i membri dell' amministrazione debbono anche esser quelli che rendono giustizia, non potrà mai avvenire che s' abbia un' Amministrazione perfetta ed un giudicio perfetto nella nazione: poichè l' amministrazione perfetta esige che sia divisa fra i membri della nazione in ragione delle ricchezze che possedono: ed il giudicio perfetto esige che sia fatto dagli uomini probissimi indipendentemente al tutto dalla loro ricchezza e povertà. L' amministrazione perfetta dunque non si può ottenere se non si divide da essa tutto ciò che nel governo c' è di morale; cioè se non lo si porta tutto nei tribunali e specialmente nel Tribunale Politico. Queste osservazioni spiegano la ragione per cui nei tempi in cui si avevano più nobili idee del governo, e in cui si faceva più conto del suo vero splendore morale e religioso, in que' tempi l' amministrazione fosse più negligentata. Nei nostri tempi all' incontro in cui l' amministrazione si è tanto migliorata, la dignità del governo è caduta e quasi spenta, e quasi tutte le idee morali sono sparite: il materialismo si è communicato per tutte le fibre del governo, e per usare le espressioni d' un grand' uomo: La legge è atea, e le nazioni stesse si mettono in circolazione come cambiali. Si ha dunque ragione di gridare contro al materialismo che corrompe i governi de' nostri tempi, dando loro la forma di un negozio mercantile; ma si farebbe ancor meglio nell' insegnare come si possa dividere l' amministrativo da ciò che è morale, acciocchè per un giusto timore di non perdere il morale, non si tornasse forse nell' amministrativo ai secoli di mezzo. E non è già che io escluda nell' amministrazione la moralità: questa è necessaria in tutto: ciò che dico si è, che la moralità debbe accompagnare l' amministrazione; ma che il giudicio debb' essere la professione stessa della moralità. Come ho dimostrato, che l' amministrazione nazionale non si può render perfetta se non si divide dall' elemento giudiciale o morale, così avrei potuto parimente dimostrare ch' ella non poteva organizzarsi perfettamente, fino che non era divisa dalla magistratura; nella quale non debbe prevalere la ricchezza, ma l' elemento intellettuale. Ma ho creduto bene di ommettere questa osservazione per riservarla al Libro dove parlo della magistratura. Il che è vero qualunque sia la forma che abbia il governo. Chi non ha rinunziato totalmente alle idee morali, ovvero chi non pretende, inconseguente con se stesso, che la morale sia bensì qualche cosa ma debba essere esclusa dalle disposizioni politiche, vedrà incontanente la verità della enunciata proposizione: vedrà che i regolatori della società non possono fare una disposizione se prima non credono ch' ella sia conforme alle leggi della eterna giustizia ed equità; e perchè lo possano credere debbono aver portato un giudicio sopra la stessa. Questo giudicio rimesso in fine del conto alla coscienza de' governanti, non solo ne' governi assoluti, ma ben anco ne' governi costituzionali e repubblicani che fin qui si conoscono, se è fatto bene rende le disposizioni politiche innocue al bene dei particolari membri della società. - Solamente mediante questo retto giudicio tutti i diritti, anche i più piccoli ed appartenenti alle persone meno influenti, possono esser riparati dal peso enorme del sociale potere sotto cui altrimenti sono in pericolo di venire schiacciati. Giacchè il giudicio è sempre libero, e un giudicio simile a questo non riposa che sopra un' esatta cognizione dei principŒ della morale e della giustizia, e di più sopra la disposizione retta della volontà; ne viene che queste due buone qualità, cioè la cognizione e la rettitudine, sieno in ultima analisi le due sole salvaguardie de' diritti del debile contro il forte, e del particolare contro il potere o contro la maggioranza de' cittadini. Ma d' altra parte egli è impossibile che chi ha la forza in mano non sia tentato di abusarne, ed è impossibile che nella società qualunque sia l' ordine che vi si stabilisca non v' abbia finalmente un' autorità suprema, ed anche una forza suprema: dunque è impossibile di levare dalla società il caso in cui non si ritrovi la detta tentazione. Quando anche le forze fisiche fossero distribuite nella società in perfetta eguaglianza, le dette forze non riuscirebbero eguali nel loro effetto per la diversità delle forze morali: l' opinione della propria forza infonderebbe tuttavia una diversa misura di coraggio ai diversi uomini; ed è l' opinione della forza ed il coraggio assai più che le forze fisiche ciò che muove l' uomo ad intraprese che vengono ad aggravare sopra i suoi simili. Giova certo oltremodo il persuadere gli uomini di questa grande verità, che la conservazione della giustizia è di un comune vantaggio; ma questa stessa persuasione così utile, e che si vede di secolo in secolo far progressi nell' uman genere in ragione della diffusione dei lumi; questa persuasione che sembra sottomettere la giustizia all' utilità, e rendere quella amabile per amore di questa, è una nuova prova che l' umanità si va migliorando, e che diventa più suscettibile dei sentimenti morali. In fatti qual può essere la disposizione di quelli uomini che s' inducono a rispettare la giustizia sul riflesso ch' essa è generalmente utile? Non è certo un tal rispetto della giustizia, a questa ragione appoggiato, bastantemente puro, il concedo, ma nulladimeno la disposizione di tali uomini riesce tale che essi oggimai temono più i danni che possono venir loro apportati, quando la giustizia venga dagli uomini trascurata, che non isperino di vantaggio dalle stesse loro ingiuste intraprese sugli altri uomini. Ora tale non è la disposizione di un uomo estremamente avido di acquistare e rapace; perocchè questi sente d' avere in sè stesso una forza che gli dà la sua stessa immoralità maggiore di quella che hanno gli altri uomini: perciò più spera di acquistare, che non tema di perdere; anzi spera senza temere: poichè l' avidità lo occupa assai più di ciò che può egli contro gli altri, che non di ciò che possan gli altri contro di lui. Egli è dunque necessario di ricorrere sempre in fin del conto per trovar una tutela ai diritti dei deboli contro ai forti ad un fondo di moralità benchè imperfetta che si ritrovi nei forti; senza del quale non può consistere il genere umano. A torto questo ultimo fondamento della conservazione de' diritti e però de' beni di tutti, la buona fede, la rettitudine, la moralità, su cui riposa la tranquillità e l' esistenza stessa del genere umano, sembra fragile ed accidentale: egli è l' unico, e però bisogna contentarsene: qualunque meccanico ripiego, qualunque organizzazione esterna della società non può renderlo inutile, ed ella è una speranza ridicola, non mi stancherò di dirlo, quella dei politici materiali, di poter trovare un ordine politico di cose che non abbia il suo ultimo sostegno nella moralità, nel quale perciò non si esiga qualche sorta di virtù in quelli che hanno o credono d' avere in mano la forza, perchè non ne abusino. Sia pur dunque per molti alquanto strano, pure egli non cessa d' esser verissimo, che il modo onde i diritti dei deboli sono tutelati, non è altro che la buona volontà di quelli che potrebbono offenderli e non vogliono farlo, perchè non giudicano di doverlo fare. Questi che potrebbero offenderli sono in primo luogo indubitatamente quelli che governano la società, i quali hanno il maggior potere nelle mani e questo vale tanto se il governo è regio, quanto se è repubblicano: poichè quando anche noi supponessimo la più assoluta democrazia, quale nè pure è possibile che si concepisca, ancor sarebbe lo stesso caso, potrebbe sempre la maggiorità dei cittadini tiranneggiare la minorità. Egli è dunque evidente, che ogni disposizione governativa per esser buona dev' essere preceduta da un giudicio sulla sua rettitudine e giustizia; come pure che la bontà di questo giudizio è l' ultimo appoggio della sicurezza dei diritti de' particolari membri della società. La necessità di tal giudizio rimane ferma, anche a fronte di tutte quelle obbiezioni che fossero rivolte a provare la sua difficoltà ed incertezza: le quali non provano mai che egli non sia necessario: provano tutt' al più una verità troppo disorrevole agli uomini, che non si può arrivare mai a tutelare pienamente i beni e i diritti di tutti e in tutti i casi contro l' umana tristizia. La cosa è al tutto evidente, giacchè niuno è giudice in causa propria. Oltre di ciò egli è più probabile che il giudicio riesca esatto quando vien fatto da persone, le quali non hanno da occuparsi che in questa sola cosa; ed al giudicio vien dato il tempo in tal modo perchè sia fatto con maturità. Gli amministratori della società quando debbono fare una disposizione politica, non guardano che di passaggio, se pure anche ciò è vero, la relazione morale della medesima, non tanto per malvagità, quanto per inavvertenza; poichè la loro attenzione è tutta occupata nel calcolare i vantaggi della disposizione ideata; e la poca importanza che si è sempre dato al giudicio morale nelle disposizioni politiche apparisce dal non esser giammai venuto in mente di dare a tali giudicii una forma regolare. Il giudicio morale adunque sopra ciò che debbe fare l' amministrazione della società debbe riuscire più esatto e più giusto, quando vien fatto da una Commissione apposita diversa dall' amministrazione della società, sì perchè 1 in tal caso la Commissione non giudica in propria causa, come sarebbe se il giudizio fosse portato dall' amministrazione della società. 2 Sì perchè facendosi a parte il giudizio sulla giustizia e quello sull' utilità della disposizione, ed oltre a ciò facendosi da persone diverse e da persone dotte particolarmente nella scienza della giustizia e con esatta procedura, non può non riuscire più perfetto. Di quì ne viene che tutti quegli uomini onesti, i quali non desiderano nella società di usurpare l' altrui, ma unicamente desiderano che i diritti di tutti sieno quant' è possibile difesi e guarentiti, debbano non già temere, ma desiderare l' erezione di una tal Commissione o Tribunale apposito rivolto a mantenere la giustizia nelle disposizioni politiche. Non si debbe già adombrarsi alla considerazione che il detto Tribunale potrà anch' esso esser soggetto alle umane imperfezioni, e potrà esser soggetto alle passioni; perciocchè noi non pretendiamo già, come abbiamo detto anche di sopra, che si possano rendere gli uomini impeccabili, ma il discorso sta nel vedere se si può diminuire il pericolo che nasce dalla loro debilezza o dalla loro malvagità; e diciamo, che dovendosi la società esporre in ogni modo ad un giudicio consimile, che finora venne fatto da quegli stessi che governano la società giudicando in propria causa, egli sarà sempre più probabile che il giudicio riesca giusto fatto da uomini che giudicano in causa altrui, scelti appositamente e costituiti in un Tribunale, che non siano uomini meramente politici che giudicano in causa propria, e che non si danno a dir vero grande impaccio per ritrovare in tale giudicio tutto ciò che è giusto nel senso più vero e più rigoroso. Gli stessi amministratori della società se sono onesti, e se desiderano bensì di conservare il loro potere, ma non di trapassarne i confini e di farne abuso, dovrebbono riguardare come vantaggiosa una simile instituzione. In fatti essi hanno pur l' obbligo fino che non esiste detto Tribunale di fare essi stessi il giudicio: e perciò se hanno una vera volontà di farlo retto (che altramente sarebbono tiranni) debbono e diffidare dì sè stessi e non trascurare nessun mezzo per venire alla cognizione del vero e del giusto. Questo Tribunale adunque li discarica d' un peso, gravissimo agli onesti, e mette in tranquillità la loro coscienza: la voce della quale pur grida: non è già ragionevole il timore che venga loro fatto torto, e ristretta la loroautorità. 1 Primieramente, perchè le decisioni del Tribunale non possono giammai portar seco questa conseguenza, come si mostrerà in appresso descrivendo lo stesso Tribunale. 2 Di poi, perchè se questa ragione valesse ogni Tribunale sarebbe al tutto inutile e ciascuna delle parti potrebbe sottrarsi allo stesso, dico ogni Tribunale civile. Poichè son forse men sacri i diritti de' piccoli che de' grandi? Qual' è questa odiosissima tenacità che mostrano i potenti de' loro diritti, e che non mostrano giammai tale i deboli? E` forse che l' uomo in ragione che s' innalza si deprava? in ragione che acquista si irrita la sua fame? Non dieno questo scandalo i possenti ai deboli; perocchè debbono essere a questi maestri di virtù. 3 Perchè qualunque onesto debbe più che di essere offeso, temere di offendere, e temere tanto più quant' egli si trova d' essere più forte: poichè chi ha la forza, qualunque sia la virtù, è sempre per l' umana debilezza tentato di abusare della medesima: sicchè in ragione della forza che l' uomo onesto e generoso si vede aver nelle mani, debb' essere la sua cautela d' usar della stessa, e la sua cura di ben verificare se l' uso che ne fa sia retto ed onesto. 4 Perchè abbiamo dimostrato nella prima parte che ove fra due parti nasca contesa ciascuna ha diritto di esigere dall' altra tutto ciò che è necessario per definirla più equamente che sia possibile, e tutte e due hanno obbligo di convenirsi in ciò cedendo all' equità e non trascurando alcuno di quei mezzi, pei quali si può pervenire più sicuramente al detto fine; e 5 finalmente perchè egli è un troppo angusto e misero calcolo quello che fanno que' capi della società che vogliono tirarla troppo ed assicurar troppo i proprŒ diritti e ricusar un freno alle loro usurpazioni e a quelli che li imiteranno dopo di loro. In fatti, qual può essere la maniera migliore di assicurare i popoli delle loro rette e pure intenzioni, se non quella di mostrarsi essi stessi sottomessi all' imperio della eterna giustizia, di sottomettervisi con dignità, e senza quelli avvilimenti a cui irreparabilmente soggiace il dispotismo, o tutto ciò che n' ha le sembianze, senza diminuire punto del loro potere ma solo legittimandolo? di sottomettersi, dico, a quella somma ed irrefragabile legge sotto cui l' umiliarsi rende l' uomo degno di regnare? quale è e può esser la maniera di assicurare i popoli e rendersi loro rispettabili se non quella di ispiegare una morale grandezza sollevandosi sopra i pregiudizŒ de' contemporanei ed i vizŒ de' trapassati, con cui hanno combattuto i loro secoli, e che vincenti o vinti furono giudicati dalla posterità? se non finir di ostentare giustizia nelle parole e mostrare di desiderarla nel fatto, e di non negligere la via unica a rinvenirla? se non conoscere che alla diffidenza illuminata de' popoli da una parte, alla loro corruzione profonda dall' altra, non basta nè pure far ciò che si crede giusto se non si mostra d' usare tutte le vie per conoscere ciò che è giusto? Non basta, dirò di più, e conoscere ciò che è giusto e scrupolosamente eseguirlo, se ciò non si fa constare pubblicamente, se non se ne dà un pubblico documento; se insomma il giudizio su quanto è giusto non si presenta sì franco e sicuro di sè medesimo che non tema la pubblicità, e assicurato del giudizio de' saggŒ abbia il diritto di dispregiare i cicalamenti de' sciocchi. Perocchè non può il popolo giudicare da sè stesso e non può insieme deporre il sospetto dell' ingiustizia fino che il giudizio è fatto dagli stessi interessati, quantunque retto egli sia, come non rimane, all' opposto, più escusabile se nutre ancora il sospetto, quando sia costituito un Tribunale che quasi voce e mente del popolo stesso giudica a nome della verità che il fatto governativo non lede i diritti di alcun debole, al quale dinanzi ogni debole può stare a fronte del forte purchè pugni con quel marte comune che è la giustizia e la imparzialissima verità. Sì, quando il popolo sarà assicurato pienamente che i principi vogliono la giustizia, egli cesserà dalle sue inquietudini e dai suoi errori. Non è solo l' ingiustizia, è anche l' incertezza della giustizia, che viene sempre vendicata; è l' opinione che il principe faccia qualche cosa d' ingiusto, è il dubbio che il faccia, che stringe insieme i deboli a far causa comune. Il disseminare questi dubbŒ ne' popoli, lo spargere queste opinioni di ingiustizia e d' usurpamenti, fu l' arma dei facinorosi onde sollevarono i popoli contro i principi; il dileguare queste opinioni, questi dubbŒ è il mezzo unico di riconciliare di nuovo i popoli co' lor principi e di sventare l' artificiose insidie dei nemici d' entrambi. Intanto a me pare che basta bene ai principi un assai piccolo fondo d' onestà per riguardare che l' equità resa in tal modo splendida e solenne sia di comune loro vantaggio. L' uomo che stenta nell' indigenza e che non ha nulla da perdere, può essere ingannato a credere che a lui torni meglio il sovvertimento della giustizia: per poco che questo uomo sia dominato dalla passione d' acquistare, ella il moverà a romper le leggi della giustizia perchè non è infrenata dal timore di perder nulla: ma colui che ha molto da perdere debbe essere agitato da una furia di ambizione o di cupidigia perchè stimi bene per sè che la giustizia sia calpestata nel mondo ed ogni onore le sia perduto: mentre perchè egli possa credere a lui dannoso il rispetto della giustizia conviene che la speranza di rapire l' altrui superi il timore di perdere il proprio: speranza a dir vero stolta pur sempre perchè, tolta la giustizia di mezzo, son esposte di nuovo alla libidine di quelli, che mutano l' istante diventan più forti, le rapine stesse del forte. Sicchè tolta dagli uomini la giustizia nessuno potrebbe a lungo godere de' vantaggi che gli desse l' istantanea sua prevalenza sugli altri uomini: la giustizia adunque è quella che tutela a tutti il suo, quella che ne rende costante il possesso; e che mediante questa costanza di possesso rende più prezioso un piccolo avere che si gode con tranquillità per lungo tempo, che un' immensa ricchezza che ci tenga sempre nell' angoscia di perderla, e di cui godiamo tutti gl' istanti con quell' ansietà onde gode il ladro del furto che attende il padrone o la giustizia che lo sorprenda. La giustizia adunque, ed il mezzo per assicurarla, è di comune vantaggio di tutti gli uomini: ma più di quelli che più posseggono; e la speranza delle rapine non vale mai tanto quanto il ragionevol timore di perdere il proprio, e di sostenere una rappresaglia aggravata dalla vendetta che rallegra l' ira degli oltraggiati, e la cui aspettazione contamina la vita degli oltraggiatori. Nè vale il dire che può avervi altro mezzo perchè i regolatori della società vengano, prima di far cosa alcuna, alla cognizione del giusto; ch' essi possono far giudicare la cosa ove ne dubitino, da probe persone atte a scorgere per la via retta la loro coscienza. Vana lusinga! Non varrebbe egli questo argomento per rendere inutili i Tribunali civili? perchè questi si stabiliscono? perchè l' una parte che si crede offesa vi cita l' altra a comparire? perchè non si fa buona risposta alla parte citata quella ch' essa ha operato con consiglio che ha fatto giudicar la cosa d' altrui? Quando la causa versa fra due parti il giudice non debb' essere all' arbitrio dell' una, ma in mezzo di tutte e due; non debbe essere scelto causa per causa, ma debb' essere quello stesso per tutte le cause; non debbe dare il giudizio solo all' orecchio d' una delle due parti, ma debbono tutte due poter dire le loro ragioni innanzi al medesimo, e poterne ricevere la giustizia. O forse ciò che da tutto il mondo si è reputato sempre necessario per ritrovar la giustizia negli interessi piccoli, si renderà egli inutile e superfluo negli interessi più grandi? non debbe anzi crescere la cautela e la diligenza nel rinvenire e nel mettere in piena luce quanto è giusto in ragione che cresce la grandezza e l' importanza degli interessi? Questa osservazione è sì vera che renderebbe inesplicabile come mai gli uomini, che hanno sempre e da per tutto pensato e riconosciuto necessario d' erigere de' Tribunali per giudicare gl' interessi de' privati; non abbiano giammai fatto altrettanto per gli interessi politici: se non si riflettesse alla difficoltà di erigere un Tribunale politico, il quale esige un gran progresso di lumi, ed una moralità assai avanzata nel genere umano; i quai lumi e la quale moralità non si poteva aspettare dagli uomini se non allora che l' influenza del cristianesimo si fosse spiegata per un lungo corso de' secoli in tutti gli aditi dell' uman cuore, ed indi fosse passata in tutti i costumi, in tutte le attitudini della vita. E quest' epoca sentiamo speranza che da noi molto non si dilunghi. Se non che avrà sembrato che prima ancora di mostrare la necessità di questo Tribunale avessimo noi dovuto ricercare se egli era possibile. Ma non abbiamo creduto di tenere quest' ordine; poichè la piena possibilità di detto Tribunale non può a pieno vedersi se non allora quando ne avremo fatta un' esatta descrizione: poichè dal complesso solo di tutte le sue parti e di tutte le sue circostanze si può formarsene quell' idea di lui così determinata, che a mal grado che non abbiamo quasi nulla di simile nelle instituzioni de' popoli, tuttavia ci somministri la confortante speranza che non solo sia possibile, ma ben anco che sia per essere realizzato un tanto beneficio dell' umanità. E il bisogno stesso, che si rende ogni giorno più sensibile di un tal Tribunale, è ciò appunto, che nel mentre lo rende possibile, ne approssima ancora la di lui esecuzione. Perocchè egli è un fatto innegabile che la rapida diffusione dei lumi in tutte le classi della società, ha mutata la condizione del popolo: è un fatto innegabile che il popolo ha una profonda coscienza del proprio stato, e che questa coscienza di sè è la causa generale ne' diversi tempi de' suoi generali movimenti: è un fatto innegabile che il popolo in altri tempi mosso appunto da questa coscienza della propria impotenza intellettuale riconosceva la necessità di lasciarsi ciecamente guidare e dirigere da' suoi capi; che il popolo in quei tempi era come un pupillo che avea bisogno di tutela, e che non era capace di emancipazione (ripetiamo questa frase perchè nulla di ciò che è vero ci dispiace ripetere onde che ne provenga): è un fatto innegabile che il popolo in questi tempi, (cioè una gran parte di persone della massa del popolo) aumentò di lumi e coll' aumento dei lumi acquistò insieme una coscienza di maggior potenza intellettuale, e questa potenza fece sì che non sentisse più il bisogno di abbandonarsi alla cieca alle sue guide, e che fosse in lui risvegliato un desiderio di vedere anche egli o di calcolar anch' egli i propri interessi, al quale calcolo venendo egli ammesso riceve una specie di emancipazione, ma non già per questo una sottrazione dallo stato a lui essenziale di sudditanza; cessa d' esser pupillo, ma non cessa d' esser suddito: è un fatto innegabile finalmente, che la moralità ad un tempo e la corruzione accelerano entrambi questo stato di popolare emancipazione: poichè la moralità lo suggerisce e lo persuade siccome equo, mentre la corruzione accrescendo l' irritabilità fisica degli uomini, rende loro più grave tutto ciò che credono d' ingiustamente soffrire, o che dubitano che sia ingiusto; o di cui abbiano un pretesto di dubitare. Ed ora il solo Tribunale politico è il solo mezzo di togliere alla tristizia degli uomini questo pretesto e questo dubbio, e di dare all' equità una base costante: egli è dunque questo Tribunale che i popoli colle loro inquietudini cercano senza trovarlo, e dimandano senza saperlo indicare: egli è questo Tribunale il rimedio alle inquietudini popolari; rimedio che i monarchi pur tanto desiderano, e che hanno o la sciagura di non vedere, o la pusillanimità di non abbracciare. La necessità adunque di questo Tribunale, sempre crescente, quando diventerà estrema, è quella che non solo lo dimostrerà possibile, ma che contemporaneamente ne condurrà l' esecuzione. Poichè sebbene questa sia lontana assai dalle consuetudini, e sia contrarissima ai più cari ed inveterati pregiudizŒ; sebbene ella esiga una grande superiorità di spirito in quel monarca che prima ne dia l' esempio e in quel popolo che possa esser degno di tal monarca; tuttavia io non dubito punto che perduta la novità di che ella si mostra fornita, ricevuta da alcune menti robuste, e resa splendente da un sapiente e magnanimo esempio, non debba comparire agli uomini come la più preziosa tutela de' loro diritti e come un dono celeste; e ad essa non si convertano a gara maravigliati d' aver conosciuto sì tardi una così semplice insieme e grande instituzione, e di averla i loro padri fino a' loro tempi prima così a lungo obliata, e poscia così a lungo derisa. Egli sarà in cotesto tempo, che dissipate quelle nebbie che spargono nelle menti le tenaci prevenzioni, il Tribunale politico sarà domandato dalla pubblica voce, ed unanimemente dai grandi e dai piccioli della società riconosciuto come la più solida base di quella felicità che si può godere sopra la terra. Allora, quando ognuno sarà arrivato tanto innanzi coi lumi da vedere che la giustizia deve riputarsi più utile dell' usurpazione, e che il poco e sicuro è preferibile al molto e non sicuro; il Tribunale politico avrà la voce di tutti; egli sarà allora inatterrabile, sotto l' egida dell' universale opinione: ed egli non avrà armate da difendersi, perchè avrà l' umanità intera che farà la scolta d' intorno a lui. Egli è appunto questo che debbesi rispondere a coloro, i quali non conoscendo altra maniera di difendere i pubblici istituti che quella della forza fisica, ci facessero l' obbiezione, che tale Tribunale non potrà sussistere perchè impotente in mezzo ai potenti, e quasi un agnello in mezzo ai lupi. Tanto è lungi che questo Tribunale non possa sussistere perchè privo di forza fisica, che anzi appunto perchè ne è privo potrà sussistere, e fino che ne rimarrà privo: poichè appunto questa debolezza fisica darà la prova della sua forza morale: e la forza morale è quella che lo debbe fortificare di quella opinione non pubblica ma universale, contro cui tutto perde sua forza: di quella opinione dico dalla quale sola nasce la forza fisica e senza la quale qualunque esercito non solo non è forte, ma nè pure esiste. Ella è questa opinione che non si lascia toccare né offendere senza farne una inevitabil vendetta, quella che verrebbe tocca ed offesa da chi attentasse al detto Tribunale che diverrà come la pupilla dell' umanità. La libertà di questo Tribunale sarà il segno e la caparra della libertà di tutti gli uomini: la incolumità di questo Tribunale sarà il segno della loro incolumità: la prosperità sua sarà la loro: e tutto ciò che nuoce o mostra di nuocere all' esistenza di simile instituzione, muoverà nell' uman genere quell' ira sapiente e però indomabile, che non si ammanserà che coll' esemplar punizione di quel sacrilego e stoltamente audace che si elevasse contro un' instituzione formante la salute e l' onore degli uomini. Ella è la voce pubblica, ella è la pubblica opinione che dimanda questo Tribunale, che saprà ottenerlo, e che ottenuto saprà difenderlo. E quando dico la pubblica opinione, non intendo quella dei più miserabili della società, ma intendo quella di tutti, e più di quelli che più posseggono, e che perciò hanno più diritti da difendere. L' opinione discorde a questa non sarà più che una irregolarità colpita di riprovazione, e riguardata o con quella compassione onde riguardasi la ignoranza e la stessa pazzia, o con quello sdegno onde mirasi il delitto di lesa umanità. Egli è dunque il caso in cui gli uomini si troveranno tutti uniti, non per un legame esterno, ma per la forza della verità a difendere contro l' aggregazione di ciascuno le proprietà di ciascuno. Ciascuno si riconoscerà debile contro di tutti: tutti dunque saranno interessati non più ad assalire la proprietà di ciascuno, ma a difenderla: egli è in questo modo che l' autorità pubblica, la quale di natura sua è temibile perchè è forte, sarà ella stessa quella che rivolgerà la propria fortezza, per dir così, a contenere sè medesima; poichè nessuno abuserà più di simile autorità dal momento ch' egli è giunto a conoscere che ciò non può che nuocergli, e che più assai di bene egli debbe aspettare dall' universale mantenimento della giustizia che dalle proprie infrazioni della medesima: quantunque nel mantenerla egli rinunzi a un momentaneo vantaggio, ma ad un vantaggio non solo incerto egli stesso, ma che con sè trae nella incertezza anche tutto ciò che prima possedeva. Né egli è già questo il primo esempio di una instituzione che sebbene non sostenuta colla forza fisica, si sia sostenuta a lungo e tuttavia si sostenga. Poichè tale è il Cristianesimo: il fondatore del quale non lo fondò già sulla forza pubblica, ma bensì sulla forza morale: e con questa forza morale egli ha trionfato e trionfa della forza fisica: e ciò è tanto vero, che ogni qualvolta la forza fisica è venuta in aiuto del cristianesimo, egli è paruto che gli abbia anzi nociuto che giovato: per cui questa che é la massima la più universale e la più durevole di tutte le instituzioni, é appunto quella che si é francata, dirò così, di più dal bisogno della forza fisica, e che ha fino sparso sopra di questa il più grande disprezzo innalzando gli animi degli uomini ad una grandezza, nella quale fossero capaci di giudicare la forza fisica indegna dell' uomo e di non temerla. Tutti quelli pertanto che non credono al cristianesimo, ma che sono tuttavia costretti di confessare questo fatto, il quale non ha nè luogo nè tempo che lo racchiuda e che lo nasconda, dovranno confessare che è pure una gran forza quella dell' opinione, e che su di essa si può fabbricare con solidità; e quelli che credono a questa religione divina, e che la conoscono indistruttibile, come la parola del suo fondatore, troveranno in essa il punto d' appoggio del Tribunale di cui parliamo. Si consideri che un carattere che questo Tribunale ha comune con essa o con tutte le instituzioni pacifiche prodotte dall' amore di giustizia, si è di essere rivolto sempre a difendere e mai ad offendere ; poichè essendo appunto privo di forza fisica nessuno può temere che egli assalisca, e la sua forza morale si restringe solamente a raffrenare gli assalimenti altrui; poichè egli è appunto per questo instituito, ed è da questo che ricava la sua forza morale. Non vale il dire che col pretesto di difendere egli può talora offendere; poichè egli sarebbe questo un argomento del genere di quelli che per provare troppo finiscono a nulla provare: un argomento che potrebbesi egualmente fare contro qualunque instituzione e provvedimento per quanto sapiente ed utile fosse; un argomento finalmente che si appoggerebbe sopra un falso supposto cioè che con simile Tribunale s' intendesse di torre tutti i mali del mondo; mentre non si tratta che di diminuirli, ciò appunto che si pretende solo anche da' Tribunali civili i quali sarebbero inutili, se inutile fosse tutto ciò che non rimedia a tutti, ma solo a molti dei mali. Concedo adunque che non possono a lungo sussistere senz' essere fornite di una forza fisica prevalente quelle instituzioni la cui natura porta che sieno armate, e di cui l' intenzione non è palese, sicchè v' ha sempre ragione di temere da esse qualche assalto, concedo che nessuna autorità politica appartenente all' amministrazione della società potrà essere in mezzo a questo mondo, pur sempre sospettoso e che inferocisce alla vista della forza, privata per lungo tempo di un presidio bastevole a sostenerla, mentre ha in se stessa una forza bastevole a farla temibile e ad irritare, e mentre il suo officio è rivolto a cercare ciò che è utile, e non a cercare solo ciò che è giusto. Egli è adunque la pacifica condizione di questo Tribunale privo di ogni aspetto guerriero, ma augusto e venerabile per la sola luce della giustizia e della verità, che il renderà maggiormente amabile agli occhi degli uomini, dopo che l' instruzione diffusa per le nazioni abbia insegnato loro che la conservazione della giustizia è il solo mezzo onde si può aspettare ogni felicità della vita su questa terra e che questa conservazione non s' ha che per un Tribunale che giudichi le pubbliche azioni, e dopo che la religione avrà consacrato questo Tribunale e dato al medesimo una potenza che non può ricevere dagli uomini, ma che viene da Dio. L' esatta determinazione poi dello scopo, a cui debb' essere rivolto questo Tribunale politico nella immediata sua relazione, cioè la determinazione dei suoi speciali uffici, scioglie altre obbiezioni che si possono fare contro di lui. Poichè da alcuno si obbietterà ch' egli vuole riuscire un impaccio all' amministrazione, la quale non può essere ritardata in molte sue urgenti deliberazioni. Da altri si troverà un ostacolo nella spesa ch' egli esige per la trattazione di simili cause, poichè dovendo egli servire per quelli che nella società sono più deboli e perciò per quelli segnatamente che hanno meno beni di fortuna, i diritti dei quali sono quelli che meno si calcolano nelle politiche deliberazioni e che più facilmente si sacrificano; non potrà ottenere lo scopo di difenderli poichè manca ad essi il modo di affrontare la spesa a ciò necessaria: nè torna di alcun vantaggio la difesa di una piccola sostanza quando ad ottenere tal difesa bisogni usarne una grande. Finalmente vi saranno fors' anco di quelli che ci opporranno il segreto di stato; che mediante questo Tribunale si renderebbe impossibile. E riguardo a quest' ultima obbiezione confesso che la sana politica dovendo essere ugualmente innocua (per lo meno) a tutti gli uomini, ed ancora dirò di più verso tutti benevola; non potrà riscuotere giammai l' affetto e l' approvazione universale degli uomini quella che si sforza di tenersi ai più di loro sconosciuta e che pretende di trattare del loro bene nel segreto e nelle tenebre e di celare gl' interessi più cari e più grandi agli occhi di quelli a cui gl' interessi appartengono. Non è ch' io non conosca come talora si sia forzati di occultare momentaneamente agli occhi dei tristi ciò che si prepara in beneficio universale, non è questo che riprovo, ma riprovo una politica che ha il nascondersi per sistema, ed il rendersi misteriosa ed esclusiva per l' unico mezzo di rendersi forte e temibile; mentre questo stesso non può essere lo scopo ed il voto della sana politica. Affermo che la lealtà e l' apertura è anzi solitamente così nell' uomo privato come nel pubblico, così ne' piccoli interessi come assai più ne' grandi, l' effetto di una coscienza pura ed innocente, incapace perciò di temere: che è sempre ingiusto occultare gl' interessi agli occhi di quelli a cui appartengono e a cui vedere perciò n' hanno il diritto: che ciò è sempre tranquillante e sicuro togliendo dagli animi i sospetti: che finalmente quand' anche una politica celata e cupa fosse per un istante diretta dalle più pure e dalle più generose intenzioni, ella mostrerebbe con questo una presunzione soverchia, una troppa confidenza nella propria virtù; una confidenza che l' umana virtù non può giammai aver giustamente di se stessa, ed ella, dirò di più, finirebbe quanto prima a corrompersi insensibilmente, e l' amministrazione generale della società si troverebbe cangiata in una setta pericolosa ed esclusiva che pensa coi propri pregiudizŒ e che opera pei proprŒ interessi. Credo esprimere in queste parole non i miei sentimenti, ma quelli che ha il mondo generalmente: sentimenti d' equità a cui non si può ripugnare senza sedurre prima se stessi: e che sono in armonia cogli avanzamenti dei lumi dell' umanità e col progresso della morale; progresso che sembra essere stato predetto già da principio del cristianesimo dall' autore d' una religione che si dovea predicare nelle piazze e dall' alto dei tetti in quelle parole: « « Non v' ha nulla di coperto che non si debba scoprire, nè va nulla d' occulto che non si debba sapere. »1) » Ma quest' obbiezione, come dicemmo, cade insieme con l' altre due, quando si conosca da vicino l' officio del Tribunale politico. Poichè io considero questo Tribunale solamente in relazione colle deliberazioni interne dello stato. Ora queste deliberazioni interne politiche non portano giammai un effetto che sia istantaneo, e che dopo seguito sia irreparabile; se non nel caso che si tratti di tor la vita ad un cittadino. Ora la vita ad un cittadino non si può torre se non per cagione di delitto, e il delitto debb' essere giudicato dal competente Tribunal criminale. Le conseguenze adunque di quelle deliberazioni che facesse l' amministrazione della società senza l' intervento di un Tribunale, se mai portano qualche ingiusto danno, nol possono portare che di una natura risarcibile: il che dato non è necessario che prima della disposizione stessa pronunzii giudizio il Tribunale politico. I lavori adunque dell' amministrazione non debbono venire menomamente rallentati da quelli del Tribunale politico, come questi non vengono rallentati da quelli dell' amministrazione: e tanto l' Amministrazione quanto il Tribunale operano indipendentemente l' uno dall' altro, e senza che l' una di queste due parti del potere supremo abbia bisogno di sapere ciò che fa l' altra. Ciò si accorda coll' indole di un Tribunale: poichè l' indole di un Tribunale non contiene già un' inquisizione delle cause da giudicare; ma è solo una corte stabile e per così dire passiva, la quale senza darsi cura di ricercare ciò che può alla medesima essere sottomesso, aspetta che vengano ad essa quelli che hanno dei richiami da fare, ed essa si porge pronta all' esame delle ragioni che si presentano e di quelle che contro alle medesime reca la parte contraria. Laonde dovranno essere gli stessi cittadini, o corpi di cittadini, o il governo medesimo quelli che innanzi a questo Tribunale danno moto alle cause. Infatti supponiamo che un cittadino o un corpo di cittadini conosca che l' amministrazione sociale si trova in sul fare tale deliberazione che giudica a sè nocevole e ingiusta; e che recata la causa al Tribunale politico egli riporti favorevole sentenza, cioè una sentenza che riconosce gl' ingiusti danni che apporterebbe tale deliberazione. Potrà egli aver forza una simile deliberazione di ritenere l' amministrazione della società dal prendere quel partito se lo crede utile? Non già, poichè, come noi abbiamo veduto nella prima parte, l' amministrazione della società ha un pieno potere sulla modalità dei diritti di tutte le persone morali e individuali, che formano parte della società; e perciò essa ha ancora un pieno diritto di commutare i diritti delle medesime in altri diritti equivalenti, purchè lo esiga il pubblico bene: e ciascuna di queste persone ha l' obbligo di cedere per tal fine i proprŒ diritti contro un pieno compenso de' medesimi. Laonde la decisione del Tribunale politico non può giammai limitare questo potere dell' amministrazione sociale, e non può perciò impedire che essa faccia tutto ciò che crede utile: ma non ha altro officio od incombenza che di sentenziare se essa sia debitrice di un compenso alle persone componenti la società per qualche danno loro arrecato, e quale debba essere questo compenso perchè sia pieno; mentre l' assicurazione che l' amministrazione sociale non trapassi il confine dei suoi diritti consiste nell' assicurazione che ogni danno da lei cagionato ritrovi un pieno compenso; come all' opposto l' assicurazione che a lei non venga diminuita la pienezza del suo potere consiste appunto nel non avervi alcun' altra autorità che possa ritardare o impedire le sue disposizioni amministrative. La modalità dei diritti è l' oggetto del suo potere, e su questa il suo potere è illimitato: i diritti stessi cioè il loro prezzo reale non è l' oggetto del suo potere, ma ne è il confine: questo è quello che debb' essere assicurato alle persone componenti la società, e quest' è l' unico officio del Tribunale di cui parliamo. Egli è dunque evidente che il secreto di stato, qualunque sia l' opinione che si porti intorno a lui, non può mettere impedimento all' erezione di un Tribunale politico, ed egli è evidente altresì che l' amministrazione non viene dal medesimo ritardata nelle sue più urgenti deliberazioni. Resta a rispondere alla obbiezione della spesa necessaria alla trattazione di tali cause, che sembra dover eccedere le forze di quelli che hanno più frequentemente bisogno di detto Tribunale. L' indole del medesimo scioglie anche questa obbiezione, poichè il Tribunale non è che un ramo del potere supremo, il quale per innanzi fu solito di trovarsi unito in un solo corpo esercitante i due offici: 1 di amministrare la società, 2 di giudicare della giustizia di tale amministrazione: e che ora si suppone diviso in due rami, divisi secondo i detti due offici. L' officio dunque di giudicare commesso ad un apposito Tribunale sarebbe un dovere dell' amministrazione, di cui il Tribunale la scarica. L' amministrazione adunque debbe riguardare il Tribunale come un suo aiuto, come un mezzo necessario perch' essa non esca dai suoi più sacri doveri. Le persone all' incontro componenti la società hanno tutte un diritto di non essere danneggiate dall' amministrazione, nè con certezza, nè con ragionevole dubbio. Ciò considerato vuole la giustizia che le spese per consimile Tribunale entrino nelle spese generali dell' amministrazione, e non sieno menomamente a parte degli attori, se non fosse fatta eccezione a quelli che il Tribunale giudichi evidentemente maliziosi, e senz' apparenza di ragione inquieti. Finalmente non si può neppure dire che le prove in simili materie sieno irreperibili, mentre il rigore delle prove per l' indole d' un tal Tribunale non dovrà essere al tutto pari a quello dei Tribunali civili, ma bensì pari a quello che un' amministrazione delicata nella giustizia debbe prefiggere a sè stessa, mettendo la mano nelle altrui proprietà. Nè la difficultà di giudicare rimarrà sempre la stessa; poichè colle decisioni appunto di questo Tribunale si comincierà appunto a stabilire le basi di giustizia pubblica, che fino a questi tempi mancano interamente e a cui per una inconcepibile spensieratezza degli uomini non si è pensato giammai, ma di cui il mondo sente sempre più il bisogno, e le domanda e le va quasi a tentone cercando: la cui mancanza produce tante dissensioni e tante inimicizie; e gli errori intorno ad esse costano tanto sangue e tanta depravazione: delle basi che non si potranno giammai a pieno ritrovare e fissare senza una lunga esperienza e de' lunghi studŒ; senza che dei giudici integri ed illuminati sottentrino in questo lavoro a de' filosofi corrotti ed insensati; fino a che le decisioni di un gran numero di casi particolari non menino gradatamente a delle sentenze generali, e sgombrino delle teorie imaginarie fondate nell' aria; fino a che insomma il Tribunale politico non porti le sue decisioni, e le decisioni del Tribunale politico non sieno raccolte a norma di altre decisioni; e da queste norme sieno quindi cavate delle leggi e ridotte in un codice: e la giurisprudenza politica non cominci a fare quel corso che la giurisprudenza civile ha quasi compito: unico corso diritto e solido, e tanto più necessario alla politica giurisprudenza in quanto ch' essa ritrova tanti più ostacoli da superare che la civile, tante passioni più vaste e più possenti, tanti interessi più complicati e più rilevanti, e tanti uomini ancora così incapaci di vederne l' importanza e di sentirne il bisogno. Non si esigerà prova per convenire che l' armata nè ha il diritto nè può essere capace di far da giudice nelle vertenze fra l' amministrazione e gli amministrati; mentre la forza fisica non dà alcun diritto ma solo può difenderlo; e l' armata non è che a servigio di quelli che hanno i diritti, e non arbitra de' medesimi, nè le funzioni pacifiche e meditative di giudice possono star bene alla professione avventata e bellicosa del soldato: il quale fornito di una forza fisica insieme e morale a cui niuno potrebbe resistere, si crede facilmente disobbligato dalla fatica paziente della investigazione della verità, ed abbraccia assai più volentieri la strada più corta che gli si presenta del suo arbitrio assoluto: tal' era la condizione del mondo sotto la tirannia de' Cesari la cui dignità non era alla fine, come suona il nome d' Imperatori, che quella di condottieri d' esercito. Il soldato giudice di sua natura è anche principe, e il Tribunale che vogliamo stabilire sarebbe in un istante sparito. Il Parlamento rappresenta la nobiltà ed il popolo; cioè a dire rappresenta gli amministrati: essi non possono dunque esser giudici perchè sono parti, e lo scopo del Tribunale da noi proposto è appunto quello di togliere l' inconveniente che nasce dal trovarsi insieme unito il giudice e la parte; i Parlamenti perciò non possono che trattare la causa de' corpi che rappresentano, ma non mai essere essi medesimi il Tribunale. Se fosse impossibile dividere il giudice dalla parte, e fosse necessario che una delle due parti fosse anche giudice sarebbe sempre preferibile di lasciare il giudicio all' amministrazione della società, alla quale è stato sempre attribuito da tutti i secoli, ed a cui è stato individualmente congiunto; sicchè quando si è voluto a forza strapparlo dalle persone che avevano l' amministrazione, si è strappata dalle loro mani l' amministrazione stessa, o si è gittata la società nell' anarchia. Che l' amministrazione possegga il giudicio sulla giustizia delle sue disposizioni, questo è cosa naturale, perchè è naturale che la potestà somma non abbia nella propria linea verun giudice sopra di sè: e tutto ciò che si può trovare in essa di censurabile non è già una corruzione, ma un' imperfezione, cioè a dire sebbene una tale amministrazione giudice delle proprie disposizioni non sia punto assurda nè contro natura, tuttavia essa è pericolosa, ed ha con sè un' imperfezione, che è appunto quella che noi proponiamo di togliere col detto Tribunale: imperfezione che dà luogo ad un miglioramento e non ad una distruzione, ad un progresso che fanno i secoli cristiani, e non ad una riforma che fanno i filosofi. Il bisogno ognor più sentito di simile miglioramento è una secreta forza che dispose gli uomini alle novità politiche, ma scoraggiati dallo spettacolo dell' umana corruzione, e sentendo una deficienza morale in sè medesimi, perdendo ogni credito alle forze morali della virtù, non seppero sollevarsi nel secolo della incredulità ad immaginar possibile l' instituzione di un Tribunale di giustizia, che solo poteva sciogliere il problema del tempo, e soddisfare il bisogno delle nazioni. In vece di ciò per fuggire un vizio corrono avventatamente al suo opposto: e togliendo il supremo giudicio del giusto ai re non lo affidano ad un Tribunale, ma alla parte opposta, cioè al popolo: delle due parti fra cui verte il giudicio lo rapiscono a quella nelle cui mani i secoli lo hanno consecrato per darlo alla parte peggiore, e fare gli amministrati giudici degli amministratori. Con ciò il supremo potere è atterrato: conciossiacchè non è supremo se non perchè tutti gli amministrati debbono al medesimo assoggettarsi: e se la amministrazione debba seguire col giudicio di questi in tal caso son essi che s' amministrano da per sè. Egli è per ciò, che il potere che si cerca sempre d' accrescere ai Parlamenti, che non sono se non se i rappresentanti dei corpi amministrati, inclina lo Stato ad uno stato repubblicano, cioè strappa di mano dal principe il legittimo potere da lui sempre posseduto e cangia la forma di governo. Infatti non poteva essere altro dall' istante che il giudicio dalle mani di una delle due parti passa nelle mani dell' altra; poichè ciascuna parte non suol già credersi giudice, non pensa già a cercare rettamente e solo ciò che è giusto, ma pensa a difendersi dall' altra, pensa a vantaggiare ne' propri diritti sopra dell' altra, pensa a rivolgere l' amministrazione come più a sè torna conto: egli è dunque una divisione di amministrazione che nasce, e una divisione dell' amministrazione è una mutazione nella forma del governo. S' osservi infatti se nella instituzione de' Parlamenti si sogni mai di deliberare a guisa di un Tribunale di giustizia, e non più tosto di agire a guisa di una parte che tratta la sua causa col mezzo di avvocati: si osservi se fra i Parlamenti ed i re v' abbia altra relazione che di una continua ostilità: nella quale ognuna delle parti si crede aver fatto assai quando gli è riuscito di dar qualche passo sul terreno dell' altra; e deplora la sua sconfitta quando ne è stata respinta. Se il popolo non è atto a formare questo Tribunale politico mediante i suoi rappresentanti, cioè mediante i Parlamenti, perchè è parte, e quella parte che di sua essenza è soggetta, quella che debbe essere giudicata per la stessa ragione che debb' essere amministrata; molto meno egli potrà sostenere le funzioni d' un tal Tribunale per sè medesimo; mentre per sè non può far nulla per la sua mole, e perchè egli è essenzialmente disorganizzato, soggetto alla seduzione, al capriccio, ed all' ignoranza. La ragione di ciò è il semplicissimo e innegabil consiglio, che quando si debbe eleggere persona a qualche ufficio fra molte, senza che veruna s' abbia diritto al medesimo, vuolsi eleggere quella che è all' officio più idonea, che conosce il modo di adempierlo e n' abbia l' abilità e la fermezza da non deviare giammai dal suo dovere. Ora la ricchezza, la nobiltà, la forza fisica, la potenza civile non mettono i lumi nelle menti alle quali mancano, nè la rettitudine e l' integrità ne' cuori depravati. Queste qualità adunque non hanno a far nulla coll' amministrazione della giustizia. Esse potranno forse render l' uomo più acconcio ad un' amministrazione che ha per fine l' utilità, perchè fomentano le passioni dell' acquistare, e queste acuiscono l' ingegno a trovare espedienti a' risparmi ed a' guadagni: nè cosa nuova è che un uomo di piccolissimo spirito in tutto il resto si sia mostrato sottile traficatore e speculatore e s' abbia fatto una fortuna, ed abbia fondato una casa, poichè il vivo ed unico desiderio dello avere ha messo a quel partito le sue piccole forze intellettuali, a cui non sogliono essere messe negli altri uomini men di lui cupidi. Laonde se trattandosi d' utilità la passione aguzza l' ingegno; trattandosi di giustizia ella non fa che ingrossarlo e diffondere tenebre d' intorno al vero cercato. Purissimo è il vero. ed immune da ogni altra affezione: nella sua sincerità l' uomo il ritrova quanto ha il cuore più ignudo d' altri affetti, la mente più libera, e l' animo più generoso. Le classi adunque de' ricchi, de' nobili, de' militari, o degli officiali civili non possono esser quelle a cui s' appartenga di comporre il Tribunale politico esclusivamente: poichè questi loro beni lungi da fornirli d' un titolo favorevole per sostenere tale officio, più tosto valgono di loro natura a renderli inetti al medesimo: conciossiachè tolgon loro quella nudità d' animo, quella tranquilla imparzialità, quella mente pura e ferma nè ammollita dalle delizie, nè invanita dalle gravi inezie, nè lasciata rozza dalla mancanza del tempo richiesto dagli austeri e placidi studŒ della giustizia, che debbono formare appunto gli unici sostegni del politico Tribunale. Non convien dunque fare di questo Tribunale la proprietà di alcuna famiglia, o di alcuna di quelle classi della società che vengono formate e distinte le une dalle altre non già per titoli intellettuali e morali, ma per dei beni esterni che non sono nè verità nè virtù. La verità, la virtù: ecco i criterŒ unici che debbe proporsi colui, a cui fosse commesso l' incarico di fare la scelta delle persone componenti il politico Tribunale: qualunque sieno le altre condizioni delle persone qui non vanno per nulla curate: quelli che più sanno fare giustizia; che più il vogliono , che più sanno sostenere il giusto loro decreto; ecco quelli che debbono essere trascelti al politico Tribunale quai veri Sacerdoti della Giustizia. Questo Tribunale adunque non forma un' aristocrazia , ma è, se può dirsi così, democratico a quel modo che è democratica la Giustizia: poichè questa esige, come vedemmo, che tutti gli uomini e tutte le persone morali si considerino eguali quando vengono ad essa innanzi per essere giudicate: è democratico perciò, non in quel senso che tutti gli uomini vi abbiano parte, ma in quel senso, che tutti gli uomini vi possano aver parte: e vi possono aver parte, poichè tutti possono aver parte alla rettitudine ed alla virtù, a questi supremi beni aperti e comuni, pei quali solo debbesi aprir l' adito al Tribunale di cui parliamo: non in quel senso per ciò ancora che ciascuno abbia diritto al detto Tribunale solo per esser uomo, ma bensì in questo senso che ciascuno possa avere un tal diritto per essersi reso uomo virtuoso: e per aver superato negli esempi da lui dati di virtù, d' integrità e di sapienza, tutti gli altri probi e virtuosi. Ciò che noi chiamiamo spirito d' intelligenza non è già solo quello che ci conduce a desiderare delle nuove idee, ma bensì ancora qualunque altro oggetto per lontano al difuori di noi e molteplice che egli sia, ed esso è il fonte della Previdenza, della Prudenza e della Bontà. Distrutta ogni previdenza non è meraviglia se dovesse essere recisa insieme ogni umana società: 2) non è maraviglia se chi non giudicava necessaria la ragione, non giudicasse « neppure necessario di far entrare nell' uomo il principio della sociabilità: »e perciò, se non solo venisse a torre di mezzo una società estesa ma ben anche la prima e direi quasi elementare; quella della famiglia. Per dare un solo esempio del nostro poco spirito d' intelligenza relativamente alla società domestica, si può osservare la facilità e la leggerezza onde si contraggono i matrimonŒ di che viene l' infelicità della famiglia, i difetti dei figliuoli dati alla società, ed il pentimento. Non si fa che predicare che il generatore di figliuoli è un benefattore della società: questa sentenza pigliata così sola è una di quelle idee astratte ed imperfette di cui vedemmo provenir tutti i mali. Nel mentre adunque che si insegna ad accrescere il numero dei matrimonŒ, veggiamo difendere altresì il divorzio che porta alla società domestica il colpo il più mortale; e che dimostra l' indebolimento di quella facoltà di pensare che consocia gli uomini, e l' aumento di quello spirito di senso che li divide spogliando l' uomo della previsione. Le idee all' incontro su questo oggetto dei secoli trapassati erano presso a poco quelle che ogni saggio trova necessarie massimamente ai tempi presenti. [...OMISSIS...] La previsione e la prudenza suggerisce all' uomo di non impegnarsi in un maritaggio, se egli non ha ragionevole speranza di mantenere i figliuoli; perocchè non lo consiglia punto la ragione a dare esistenza ad esseri infelici. 2) I nostri moralisti politici non pensano tanto innanzi. Da simile mancanza poi di previsione sono cacciati alle più strane conseguenze. Soffermiamoci pure ad osservare i loro traviamenti sopra un argomento che tanto interessa l' umanità. [...OMISSIS...] Ma che? risponde il più volte citato autore del « Saggio sulla Popolazione: » [...OMISSIS...] Bisogna che il Sig. Raynal non consideri già la sua proposizione astratta dalle sue circostanze, ma con un poco di maggiore spirito d' intelligenza consideri i suoi rapporti. Se come dice Rousseau « sarebbe insensato colui che tormentasse sè stesso colla coltura di un campo, quando vedesse che un altro che sopravviene lo spoglia della messe: »quando il campo insomma non è stato dato a lui in proprietà, e garantito dalle forze associate: vuol dire che la società fa luogo a poter sussistere un numero maggiore di uomini sullo stesso terreno, essendo quella che rende possibile la coltivazione dei terreni. Or questa coltivazione è resa possibile secondo Rousseau solo allora che i terreni sono divisi ed assegnati in particolari proprietà. Ognuno dunque ha diritto di vivere solo nel caso che non venga lesa questa legge della proprietà, mentre rompendosi questa legge innumerabili uomini vanno a perire, i quali hanno pure diritto di esistere. Chi dunque infrange la legge della proprietà per principŒ cospira alla vita di infiniti uomini: questi uomini adunque, la cui vita è messa in pericolo da chi vuol tor via dal mondo ogni proprietà, hanno diritto da difendersi contro costui, come contro un paricida, ed un reo del più alto tradimento. Questa massima crudele, che assalendo la legge della proprietà trucida migliaia di uomini nelle sue conseguenze, non ne lascia però nessuno fuor di pericolo, mentre nei più orrendi ed accaniti massacri, nei quali involgerebbe il genere umano quand' ella trionfasse, sarebbe incerto quali sarebbero quei pochi uomini che sparsi sulla faccia della terra tutta orrida ben presto e selvaggia l' uno lontano immensamente dall' altro coll' impressione del più alto spavento ad ogni vista de' proprŒ simili sopravivessero. E pure di questa massima sono ancora pieni i libri de' politici. Di questa massima è un corolario ed una applicazione quell' altra, che i poveri abbiano diritto di essere mantenuti dalla società; massima che pure distrugge la società stessa attentando alla proprietà particolare: massima d' altra banda impossibile; mentre non ha la società modo di sostenere tutti gli uomini che nascono, quando non sieno i maritaggi regolati dalla prudenza di quei che l' incontrano: mentre come abbiamo veduto la popolazione ha una tendenza di aumentare in ragione geometrica, mentre gli alimenti non possono che al più crescere in ragione aritmetica. Payne nel libro de' diritti dell' uomo reca assai male a proposito l' America in esempio della sua opinione. [...OMISSIS...] La società civile essendo composta di famiglie torna in danno di lei la mala previdenza adoperata della società famigliare. La imprevidenza adunque di quei padri che hanno caricata la propria famiglia di una figliuolanza che non hanno il potere di nutrire, è dunque dannosa alla società. E ponendo essi al mondo una popolazione che vuol vivere e che non ne ha il modo, pongono una causa degli sconvolgimenti. Questa cagione di tante inquietudini in Inghilterra, specialmente in tempi di carestia, potrebbe quivi cagionare malori assai più gravi, se quel popolaccio nella più brutale ignoranza potesse avere qualche vista più in là che di satollare al momento la sua fame: a malgrado di ciò gli scrittori di quel paese osservano, come se i tempi di carestia si rendessero frequentemente, sarebbevi ragion di temere, che quelle sommosse gittassero lo stato in quella specie di estremo torpore che l' Hume ha indicato colla parola euthanasia quando non lo traesse di quel sonno qualche terribile scotimento. Del popolo affamato nelle antiche società traevano aperto partito gli ambiziosi. Appo di noi la falsa filosofia delle male usate astrazioni fece credere al popolo che egli abbia diritto d' esser nutrito dalla società dei ricchi; e i movimenti della plebe si rendono con questa illusione più funesti. La filosofia sommovendo il popolo col fare a lui credere che egli abbia il diritto di spogliare i ricchi, e di ugguagliare le proprietà, 1) occasiona il dispotismo. Poichè la società dei ricchi, credendosi in diritto di difendere le sue proprietà contro gli assalitori, impiega tutta la forza che si trova avere e che non sarebbe stato bisogno di adoperare, se nel popolo vi fosse stata una dottrina più sana, o maggior virtù. [...OMISSIS...] La legge adunque della società famigliare, la legge che provvede alla scambievole sicurezza delle famiglie, e però che mette il fondamento della tranquillità anche nella società civile, la quale si forma di molte società famigliari, è la seguente: Primo equilibrio necessario alla perfetta costituzione dell' umanità è, che vi sia equilibrio fra la moltiplicazione della specie umana nelle singole famiglie colla ricchezza delle famiglie, o sia che un padre non generi maggior numero di figliuoli di quello che egli possa mantenere . Abbiamo dato la regola di ricorrere all' origine delle cose per distinguere in esse la sostanza dall' accidente. Abbiamo mostrato coll' esempio di Rousseau l' abuso che si fa di questa regola, ponendo l' idea di una cosa astratta per l' idea di una cosa reale, e insieme con ciò abbiamo insegnato il modo di far uso di quella regola senza pericolo d' errore. Applicandola al caso presente possiamo osservare come la regola da noi posta era in vigore specialmente in quel primo tempo in cui gli uomini erano raccolti in società domestiche, mentre la società civile non era ancora compiutamente formata. In quel tempo la società domestica aveva bisogno d' essere perfetta se voleva esistere; mentre non aveva altra società superiore che la tutelasse. Quindi l' ottima costituzione della società domestica la veggiamo in quelle famiglie patriarcali, nelle quali era considerata come benedizione celeste la moltitudine de' figliuoli: mentre per l' abbondanza de' terreni non poteva d' una parte venir meno il nutrimento, dall' altra c' era il bisogno di forza fisica per difenderlo dalla prevalenza delle altre famiglie. La nostra regola adunque si cangia in quest' altra, consideratone attentamente il suo spirito, che non è altro che quella stessa un poco più generalizzata. Si conservi l' equilibrio fra la forza fisica della famiglia, ovvero il numero de' suoi membri, e la ricchezza che ella possiede . Poichè se eccede il numero dei membri di questa famiglia, queste sono tante persone tentate dalla miseria di spogliare le altre famiglie per vivere; e se all' incontro è minore il numero propozionale dei membri della famiglia, non v' è in questo caso abbastanza di forza per difendere i beni della famiglia. E` tanto naturale questa legge che si ravvisa fra tutti i barbari, ove non sia passata la società più oltre che allo stato di famiglia: specialmente dove sieno circondati da nemici. E questa, se dobbiamo prestar fede alla relazione di Bruce, 1) è una ragione della poligamia in certi luoghi dell' Africa. Egli conta che appresso i negri Changallas sono le femmine che importunano i loro mariti a prender dell' altre mogli per rinforzare con un buon numero di figliuoli le loro famiglie: e lo stesso dice dei Gallas: la donna sposata la prima è quella che fa la corte a qualche altra femmina a nome del marito per indurla a sposarlo, usando ad argomento principale quello che unendo insieme le loro famiglie diverrebbero più forti; mentre all' opposto il troppo stretto numero dei loro figliuoli, non farebbe che lasciarle senza resistenza alcuna cadere nelle mani de' loro nemici. Le famiglie incorporate nella società civile già costituita non sentono tanto il bisogno di questa legge, mentre la loro esistenza viene dalla società civile protetta. Ma come la forza unita di tutte difende l' esistenza di ciascuna, così il disordine, che succede in ciascuna per una moltiplicazione eccedente la ricchezza, si riunisce in massa e ricade a danni di tutte, rivoltandosi contro l' esistenza della civil società. Da questa legge poi si comprenderà con maggior evidenza la ragione del lagno importuno che si fa sempre contro la disuguaglianza delle proprietà. La cagione, forse più stabile di tutte l' altre, di questa disuguaglianza è la moltiplicazione maggiore o minore delle famiglie, rimanendo più povere quelle (fatte l' altre cose uguali) che essendosi maggiormente moltiplicate hanno ancora più divise e suddivise le facoltà. Sicchè venendo anche fatto un riparto uguale, in breve tempo quelle schiatte, i cui successivi padri avessero generato meno figliuoli, rimarrebbero più ricche di quelle che n' avessero generati di più: e in questo modo quei padri che con maggior prudenza avessero moderato la moltiplicazione della loro famiglia, secondo quello che suggeriva loro la saviezza, ed il preveduto ben essere dei loro figliuoli, era ben ragionevole che fossero premiati nella comoda vita procacciata a lor discendenti, e che non venissero spogliati del frutto della loro virtù da quelle famiglie che imprudentemente, e però viziosamente, si sono moltiplicate. Consideriamo adunque l' opulenza delle famiglie come un diritto che hanno alla generazione dei figliuoli. Coloro che hanno già usato questo diritto totalmente, non possono più lamentarsi delle tristi conseguenze che essi stessi cagionano volendo far uso ancora di questo diritto: e queste famiglie miserabili che indi provengono, aspirando ai beni delle famiglie ricche, usurpano a queste il diritto della generazione di cui esse hanno già pienamente fatto uso, mentre le ricche non avendolo esaurito lo hanno conservato. Per questa legge di natura è adunque messo un compenso fra il bene del generare e quello del possedere; onde succede cotale equità che chi usa più dell' uno debba rimaner più privo dell' altro, e chi più si priva dell' uno debba posseder l' altro in maggior copia. Le famiglie povere adunque che dopo aver goduto il bene della moltiplicazione, aspirando alle proprietà dei ricchi, vogliono a loro invadere questo stesso diritto della moltiplicazione, sono quelle veramente che rompono la naturale uguaglianza, e la legge di compenso messo ne' godimenti dei beni dalla natura: esse sono quelle famiglie, le quali dopo aver goduto tutto il proprio, vogliono anche godere l' altrui. E ben vero che i figliuoli, non ne hanno colpa, ma non hanno colpa di questo disordine nè pure le famiglie ricche; solamente l' hanno gl' improvidi padri; i figliuoli se voglion lagnarsi si lagnino adunque de' loro padri; ma non hanno ragione di pretendere come loro diritto, che le famiglie ricche facendo parte dei loro beni, limitino con ciò il numero de' loro figliuoli futuri, o vero abbiano da prevedere altrettanti loro discendenti in quella stessa mendicità dalla quale sottraggono gli stranieri. La legge da noi posta dell' equilibrio fra la moltiplicazione e la ricchezza è quella che conserva la tranquillità e sicurezza nella società famigliare, considerando una famiglia in relazione coll' altra non già considerando l' associazione che più famiglie possono fare a danno di una sola: il qual genere di turbamento è impedito da un' altra legge. La detta legge poi costituisce ancora il primo punto della soluzione al problema propostoci: Trovare nella società il collocamento migliore di quegli oggetti che possono acquistare per l' uomo l' idea di bene e di male; acciocchè influiscano al bene dell' umanità (fac. 12, 13). Essa scioglie il detto problema per riguardo alla distribuzione delle due cose, popolazione e ricchezza; primi elementi di ogni società. Egli è poi ancora da osservare nella detta legge le due sue parti. Primo che non attenda alla moltiplicazione della specie chi non può mantenere i figliuoli; secondo: che vi attenda chi ha ricchezza da mantenerli. Nello stato famigliare della società, cioè quando le famiglie non erano incorporate ancora alla società civile era essenziale questa seconda parte; perchè doveva la famiglia difender sè stessa: nello stato poi di società civile, o nazionale è essenziale la prima parte, e accidentale la seconda; perchè la famiglia è già tutelata dallo stato, quando anche manchi di forza nel numero dei suoi membri; ma all' incontro se eccede nel numero di questi ella immiserisce ed accumula a danno dello stato una popolazione mendica e pericolosa.

Psicologia Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

. - Il freddo abbassa il fluido contenuto nel termometro. Eppure attuffandosi il termometro nell' acqua fredda, al primo istante s' innalza il detto fluido, e tuffandosi nell' acqua bollente si abbassa. Onde questo contrario effetto difficile a prevedersi, se l' esperienza non lo dimostrasse? Di qui certamente, che il paziente e reagente, cioè il termometro contenente il liquore, non è semplice, ma composto di due parti, che sono: 1 il tubo; 2 il liquore. Ora avviene che allargandosi il tubo, debba discendere il liquore, restringendosi il tubo, debba salire. L' azione dunque del freddo e del caldo nel primo istante si comunica al tubo, e non penetra al liquore se non dopo qualche momento. Indi il fenomeno che dicevamo. Si noti la specie d' opposizione, che somiglia a un antagonismo senza esserlo, fra il tubo e il liquore contenuto nel tubo; scaldandosi l' uno e l' altro, il tubo allargandosi fa scendere il liquore, e il liquore in pari tempo diradandosi vuole ascendere. Dei due effetti contrari, quello che prevale suol pigliarsi per l' effetto dell' agente, e pure non è; anzi è solo la differenza fra due effetti opposti, prodotti dallo stesso agente. Il fuoco dilata; e perchè dunque restringe una palla di molle creta? Perchè la palla di creta è composta d' argilla e d' acqua; dilatando l' acqua in vapore, lascia restringersi fra loro le parti argillose, che non hanno più impedimento ad attrarsi. Complessità dell' agente. - L' agente è complesso, se risulta da sostanze di proprietà diverse, e quindi può dare un effetto inaspettato. L' agente può essere semplice quanto alla natura della sostanza, ma la stessa sostanza può agire con forze diverse. A chi domandasse quale sia l' azione dell' aria sul fuoco, che converrebbe rispondere? E` evidente che l' aria sul fuoco produce effetti contrari, secondochè opera con forze chimiche oppure con forze meccaniche . Se opera con forze chimiche lo alimenta, somministrandogli idrogeno e ossigeno; all' incontro se opera con forze meccaniche, siccome accade in una impetuosa colonna d' aria, lo spegne. S' ingannerebbe dunque colui, che considerasse nell' aria una sola di queste due maniere di forze, e decidesse che l' aria fa sempre sul fuoco il medesimo effetto. Il freddo restringe i corpi, sottraendo loro il calorico, che tiene le loro molecole ad una certa distanza. Or bene, l' acqua che si va restringendo a mano a mano che cresce il grado del freddo, tutto ad un tratto si dilata nell' atto del congelarsi. Lo stesso accade al zolfo, al ferro, ad altri metalli, che si dilatano, passando dallo stato di liquido a quello di solido per raffreddamento. Ora: 1 quasi tutto ciò che il medico adopera per influire sul corpo umano è complesso, sì per la pluralità delle sostanze, di cui è composto, sì per la diversità delle forze meccaniche e chimiche, colle quali agisce; 2 molto più lo stesso corpo umano vivente, che è quello che deve reagire, è oltremodo complesso, non solo per le varie sostanze di cui si compone, ma per le proprietà e forze meccaniche, fisiche, chimiche e vitali, che in esso agiscono simultaneamente e spesso in un senso opposto, e non solo con diversità di effetto, ma fin anche con vero antagonismo. Il Trattato dell' esperienza , da noi desiderato, dovrebbe discendere al particolare, e mettere in aperto tutte le diverse classi d' illusioni, in cui si può dare in conseguenza della molteplicità di sostanza e di forza degli agenti (rimedi, metodo curativo) e del reagente (corpo umano). E questo non basta ancora; dato pure che fosse semplice la sostanza e la forza, sì dell' agente che del reagente, se ne può avere tuttavia ora un effetto, ora un altro diverso, ed ora uno del tutto opposto solo che cangino le circostanze, gli accidenti, nei quali l' agente ed il reagente si trovano. Un cenno anche di ciò. Forze vitali. - Queste producono un effetto diverso, come vedemmo, secondo la condizione della materia in cui agiscono, dell' organizzazione, ecc.. Producono un effetto diverso, secondo che la loro azione si considera come modificatrice piuttosto delle forze meccaniche che delle chimiche, ecc., o viceversa. Producono un effetto diverso, secondo che la loro spontaneità è più o meno suscitata, più o meno disposta ad operare. Forze chimiche. - Ogni sostanza chimica agisce in modo diverso, secondo che deve agire in un' altra sostanza, colla quale ha una data affinità o ripugnanza. Agisce in modo diverso, secondo la proporzione delle due o più sostanze che si mescolano insieme; secondo il modo col quale si mescolano, il tempo, la vicinanza, le forme, e secondo tutti quegli accidenti, che i chimici notano con diligenza. Agisce in modo diverso, secondo che è sostanza elementare, o sostanza composta di più elementi, la sostanziale unione dei quali dà ad esse novelle proprietà. Forze meccaniche. - Il tempo, la celerità, le leggi della comunicazione del moto, la forma, il contrasto delle forze, ecc., sono circostanze che producono effetti opposti e contrari. Un po' d' aria apre un uscio; una palla da fucile lo fora senza aprirlo. La forza è maggiore nella palla, eppure non produce l' effetto dell' aria, perchè la celerità della palla è tanta che non lascia tempo al movimento da comunicarsi a tutto l' uscio; ma, prima che nasca la comunicazione, produce l' effetto di staccare quel pezzuolo ch' ella preme con tanto impeto, dalla coesione che lo tiene unito col rimanente della tavola. Dovrebbero in una parola enumerarsi tutti gli elementi, che possono mutare l' effetto degli esperimenti, e anche renderlo contrario; cavando in fine per corollario la soluzione ben determinata dei seguenti problemi: « Quali illazioni logiche si possono cavare, con rigorosa certezza, da un effetto ottenuto da un esperimento, e quali non si possano ». « Quanto di probabilità può avere un' illazione, che si può cavare dall' effetto d' un esperimento, quando non può aversi la certezza ». La medicina sintetica dunque è soccorsa da quelle regole medie complesse, che vedemmo costituire la mirabile sagacità degli uomini prudenti quelle regole, che accorciano il cammino alla soluzione dei più ardui e complicati problemi. E questa è anche la via tenuta dai più celebri medici di tutti i tempi, da quelli che al letto dell' ammalato mostrarono sagacità e sicurezza in debellare i morbi. L' abbandonare queste regole complessive, per applicarsi ad analizzare gli elementi primitivi costituenti le cause dei morbi e della loro cura, diede spesso all' arte medica il tracollo, e crudelissimi patimenti e morti alla sofferente umanità. Ma se attenendosi a quelle regole, senza mai abbandonarle, si verrà di mano in mano discendendo a più particolari cognizioni, l' andamento sarà sicuro, e il progresso lodevole. Così la medicina sintetica , che non deve essere abbandonata mai, discenderà cautamente ad illazioni analitiche; l' unica maniera possibile di raggiungere e conciliare insieme l' una e l' altra medicina. Per quanto io credo, la medicina analitica non può aspirare ad essere sola, ella deve nascere dalla sintetica; sarà il difficile, il laborioso, e il non mai compiuto parto di questa. Tale è il destino dell' arte salutare. Torniamo al nostro assunto, dal quale ci allontanò una digressione, che non ci pentiamo d' avere intromessa, come quella che ci spiana il resto del cammino nell' argomento che trattavamo. Noi volevamo dimostrare l' incredibile varietà e molteplicità delle vie, per le quali scorre il corso zoetico, e la sua estrema mobilità alle cagioni anche minime, che lo fanno deviare dalla sua direzione. A tal uopo noi abbiamo esposte le varietà primitive del sentimento fondamentale di continuità, e dell' istinto vitale che lo produce, le varietà degli stimoli primitivi e naturali, e delle sensioni che ne sorgono, e del medesimo istinto vitale, che mette in essere il sentimento fondamentale d' eccitazione, siccome pure la varietà della sensitività , cioè della facoltà che ha il sentimento fondamentale d' eccitazione di modificarsi sotto nuovi stimoli accidentali, e dar luogo a sensioni parziali, anch' esse accidentali. Le sensioni, che insorgono come conseguenza di stimoli primitivi dati dalla natura e non prodotti dall' istinto stesso animale, furono da noi dette primitive ; quelle poi che vengono prodotte in conseguenza di stimoli generati dall' azione dell' istinto, furono dette seconde . Di queste e delle loro varietà noi dobbiamo ancora parlare. A formarsi chiaro il concetto di queste sensioni seconde, e a vedere quanto esse influiscano sul corso zoetico, è uopo chiamare all' attenzione la dottrina della forza sintetica dell' animale, che noi abbiamo data nell' Antropologia . Appunto questa forza fa sì che le sensioni seconde, le quali succedono alle prime, suscitino nel corpo umano nuove attività e come nuove potenze, immutanti il corso zoetico, giacchè ogni associazione di sensioni figurate o non figurate, d' immagini, di sentimenti attivi o passivi (1), suscitati o risuscitati, intellettivi o corporei, producono nell' animalità un nuovo stato, nuove attività, nuovi movimenti. Le sensioni associate poi si fondono in quella che abbiamo chiamata affezione , e che è un sentimento universale medio fra le sensioni e le passioni . Infatti, come l' affezione è un effetto prodotto nella condizione sensuale di tutto l' animale dalle sensioni speciali contemporanee, così le passioni sono un effetto di quell' affezione, onde prende la spinta a muoverle l' istinto sensuale. L' istinto sensuale mosso dall' affezione determina le passioni animali, sempre e poi sempre secondo quella legge, che « il sentimento prende l' atteggiamento, che gli è più comodo e naturale ». Se nella tristezza vedesi l' istinto sensuale abbandonato all' inattività, egli prende questo modo, perchè a fare il contrario gli costa troppo; se nella gioia egli è tutto attivo, è perchè gli accomoda meglio quest' attività. Talora gli è meno gravoso il patire in quiete, e allora s' adagia in essa, come in un modo di essere a lui più comodo ed opportuno. S' adagia talora in uno stato di quiete, per ricevere più a pieno la gradita sensazione. Talora è irrequieto e attivo, per cercarla o cercarne l' occasione. L' ira è attiva; l' istinto sensuale nell' ira gode di quell' atteggiamento, che consiste in quell' attività veemente, bellicosa, che sorge quando un' altra attività precedente incontrò un ostacolo a pienamente spiegarsi e soddisfarsi. Ma l' ira, come qualunque altra passione, se diviene eccessiva, è uno stimolo troppo forte, e allora fa l' effetto degli stimoli eccessivi, istupidisce. Il qual fatto prova appunto che le sensioni hanno natura di stimoli, e che è il principio sensitivo quello che determina la legge degli stimoli, non è lo stimolo materialmente preso, giacchè gli stimoli materiali e gli stimoli spirituali, come sono le passioni, ubbidiscono alla stessa legge d' istupidire, se oltrepassano un certo grado di forza. La forza dell' abitudine , a cui soggiace l' istinto sensuale ed anche il vitale, in quanto produce il sentimento fondamentale d' eccitazione e le prime sensioni, ha un' influenza immensa sulla condizione sanitaria del corpo. Perchè avviene, a ragion d' esempio, che gli abitatori delle montagne, o dei luoghi ove l' aria è asciutta ed ossigenata, paghino il tributo all' aria più o meno stimolante di altre regioni, ove sono paludi, risaie o altre cause di miasmi, o anche semplicemente all' aria umida e più grossa, e che in appresso, dopo essere soggiaciuti a febbri, infiammazioni, ecc., vengano assuefacendosi alla nuova atmosfera? E` troppo manifesto che ciò procede dall' abitudine, e pare che la cosa possa seguire a questo modo. L' abitudine dell' istinto animale può diminuire od accrescere l' effetto degli stimoli esteriori, secondochè egli sottrae ad essi od aumenta la propria cooperazione, e più o meno cospira con essi alla produzione dei movimenti e delle sensioni provocate. L' istinto animale è dunque quell' arbitro, quel regolatore, che equilibra od accorda la tensione e l' attività della fibra nervosa cogli stimoli maggiori o minori dell' atmosfera, nel modo il più vantaggioso. Ma quando questo equilibrio ed accordo è già una volta bene stabilito in armonia d' una data atmosfera, e la fibra nervosa s' è mantenuta lungamente in quella tempera e grado e metro d' attività, che ben conveniva alla quantità e qualità degli stimoli, che porgeva alla cute un dato clima; allora quel dato grado e quella data tensione della fibra si conservano, e continuano abitualmente per qualche tempo anche sotto il nuovo clima; e quindi avvengono le malattie. Poichè se l' atmosfera, in cui prima l' animale si ritrovava, era poco stimolante, la vitalità suppliva ella stessa colla sua azione al poco eccitamento esteriore; ma questa azione diviene soverchia in un' altra atmosfera assai stimolante, e l' effetto eccessivo si manifesta coll' infiammazione. Di più, quando il corpo umano ebbe presa l' abitudine di vivere soggiacendo a pochi stimoli, tutto il corso zoetico nelle sue sensioni e nei suoi movimenti si conforma convenientemente con armonia di moti e di funzioni. Ma se gli stimoli esteriori vengono subitamente accresciuti o diminuiti, il cangiamento non può succedere ad un tempo in tutti i moti e le funzioni, che costituiscono il corso zoetico; ma dapprima in quella parte, a cui gli stimoli sono applicati, e, parlandosi di atmosfera, alla pelle, al polmone, al sangue; onde a principio deve succedere uno squilibrio fra l' attività, in cui si mettono certe parti del corpo, e quella di certe altre, che non risentono immediatamente l' azione dei nuovi stimoli; e un tale squilibrio di attività fra parti e parti, fra vasi e vasi, fra porzioni di vasi ed altre porzioni, sono cause, come già vedemmo, di malattie, di quasi tutte le malattie. Con un ragionamento simile si può spiegare la nostalgia, in quanto ha di fisico, le malattie, a cui soggiace il corpo per le mutazioni atmosferiche anche nello stesso clima, ecc.. E quindi converrebbe classificare diligentemente gli stimoli, e investigare se e quando, mutandosi le condizioni dell' atmosfera, o accadendo altri accidenti, una classe di stimoli esterni venga ad accrescersi, un' altra a diminuirsi; il che di nuovo potrebbe recare squilibrio e sconcerto, e spiegare la diversità dei morbi che si manifestano. Gli stimoli accrescono l' attività nell' animale, ma alcune volte in pari tempo la perturbano. Questo ci richiama a parlare delle diverse maniere di debolezza e di robustezza, che nell' animale si manifestano, e a cercare se la debolezza e la robustezza patologica può tenersi come ben fondata. Vi è primieramente una debolezza nell' istinto vitale, ed un' altra nell' istinto sensuale. Consideriamo la debolezza nell' istinto vitale, prescindendo, per un poco, dall' influenza che può esercitare su di lui l' istinto sensuale. Due sono gli effetti primitivi dell' istinto vitale: 1 produce il sentimento fondamentale di continuità, rispetto al quale egli viene indebolito dall' opposizione della materia o forza straniera; 2 produce le sensioni, quelle che costituiscono il sentimento fondamentale d' eccitazione, ed anche le accidentali, che sono provocate da stimoli esterni accidentali; e in quanto a questo effetto vien egli indebolito dalla scarsezza e inopportunità degli stimoli. L' istinto vitale, mettendo in atto il sentimento fondamentale, specialmente quello d' eccitazione, dà luogo altresì alla sequela di alcuni fenomeni extrasoggettivi, come sarebbe del tono della fibra viva, la tensione dei nervi ed incessanti movimenti intestini. La debolezza di lui si manifesta anche nella scarsezza di tali fenomeni. Diamone alcune prove di fatto. Legandosi i vasi, e impedendosi che il sangue rosso inaffii qualche parte del corpo, questa diventa floscia, insensata, si paralizza. La legatura dei nervi reca effetti somiglianti. E poichè tali effetti si diffondono secondo la sfera d' azione dell' attività vitale, che è diversa dall' organizzazione materiale ed extrasoggettiva, quindi si hanno gli effetti simpatici in parti prive di una prossima connessione organica col nervo legato. Molinelli e Brunn, avendo legati i nervi pneumogastrici di alcuni cani, n' ebbero per effetto la dilatazione della membrana pupillare, l' occhio divenuto secco e torbido, diminuito di volume, l' iride abbrunita, la figura della pupilla alterata. E` dunque evidente che l' attività dell' istinto vitale, avvivando il corpo, obbliga le sue particelle extrasoggettive a comporsi in un dato modo, a prendere e tenere una data proporzione reciproca, a certe azioni e moti intestini, i quali sono tutti effetti extrasoggettivi. Non si dimentichi che la descritta debolezza del principio vitale nel produrre i due effetti indicati, e la lotta che per ciò deve talora sostenere, suppone un animale già esistente; di che nasce la conseguenza che la disposizione imperfetta della materia e l' inopportunità degli stimoli non può essere mai universale, ma deve sempre appartenere a qualche località determinata, o che questa abbracci un luogo solo o più, sia più o meno estesa. La ragione di che si è che il principio animale non esisterebbe come individuo agente, se non avesse almeno qualche parte di materia in suo pieno dominio, e alcuni stimoli opportuni, che dessero luogo al sentimento fondamentale d' eccitazione necessario all' esistenza dell' animale. Ora poi s' aggiunga anche la considerazione dell' influenza, che sostiene l' istinto vitale dall' istinto sensuale e dal principio intellettivo. Può benissimo essere indebolito da quella influenza, ma l' effetto di tale influenza si manifesta anch' esso con un cert' ordine, relativo alle diverse parti del corpo, e per conseguente non è senza qualche località, secondo l' organo della passione animale che fu suscitata. A ragion d' esempio, l' ira, la vendetta, e tutte le passioni che partecipano della tristezza, affezionano di preferenza il fegato; l' itterizia è spesso cagionata da cause morali. Se la passione ha un' origine intellettiva, il primo organo interessato deve essere l' organo dell' immaginazione, il cervello; ma le immagini che trascinano il pensiero, ed il sentimento intellettuale che ad esse si attiene, operano sul principio animale, e questo poi, come istinto sensuale, provoca, accresce, diminuisce, altera l' azione del fegato (1). La debolezza dell' istinto vitale, che procede dalla sua relazione colla materia, nasce anche qualora il corpo perda insensibilmente delle molecole, come per traspirazione, ecc., senza che vengano ripristinate per altre vie naturali, come per alimento, ecc.. Allora il sentimento di continuità va scemando, ma non succede turbazione, ma solo diminuzione del sentimento di continuità e d' eccitamento; e lo stato di debolezza conseguente non si può dire morboso fino a che, oltrepassando un certo grado, non muti di condizione, o almeno non si può dire debolezza diatesica , giacchè non produce processi morbosi indipendenti. Che se la perdita naturale di molecole vive continua senza riparazione, va scemando l' attività dell' istinto vitale, e quindi si rallentano tutte le funzioni. Quando poi questo rallentamento è giunto a un certo grado, la scarsa materia, di cui il vivo è composto, riducesi a tale che non è più dominata sufficientemente dall' istinto vitale, e quindi le forze materiali entrano con esso in lotta, incominciando tosto lo stato morboso o diatesico, che in questa lotta consiste. Ma se dal corpo vivente si stacca una parte in modo non naturale, ma violento, conviene distinguere due effetti di questa separazione: quello che nasce nel sentimento di continuità, il quale si discontinua e resta diminuito delle parti staccate, il che non è ancora condizione morbosa; e quello che nasce nel sentimento d' eccitamento, cioè il dolore e i successivi processi e movimenti intestini, e questa è condizione morbosa. Se la ferita non divide dal corpo alcuna parte, non vi è diminuzione di parti (prescindendo dalla perdita del sangue, ecc.), ma solo eccitamento e processo conseguente, che finisce o col rammarginamento, o in altro modo. Il dolore, cagionato dalla ferita, procede da due cagioni: 1 dall' inegualità del taglio, il quale non recide la parte così di netto che non lasci alcune particelle nè appieno divise, nè appieno unite, sicchè l' istinto vitale combatte con esse per rattenerle, mentre esse hanno perduta quella conveniente posizione e conformazione, che è necessaria al pieno dominio della vita; 2 dal perdere che fa l' organizzazione di quella perfetta configurazione, che rispondeva all' atteggiamento preso prima dal sentimento; onde questo si trova costretto ad atteggiarsi diversamente, e si sforza di farlo; dal che dipende la tendenza che dimostra a rammarginare la ferita, se gli vien fatto di configurare l' organismo al suo bisogno, o di disciogliersi e abbandonare quell' organismo, se non gli vien fatto. E il dolore prodotto da queste cagioni, e anche il solo sforzo che fa il sentimento all' uno di questi due intenti, è la causa del processo morboso, che finisce o colla sanità o colla morte. Una lotta si manifesta altresì, ogni qual volta qualche agente straniero giunga a sottrarre qualche porzione della materia vivente dal pieno dominio della vita, senza però che ella resti del tutto spoglia di vita. Determinato così il concetto dello stato morboso, noi possiamo distinguere tre maniere di robustezza e di debolezza, la fisiologica e la patologica , che si suddivide in patologica semplice e in diatesica . Le quali denominazioni non pretendiamo che sieno le più proprie ed acconcie, e potranno benissimo essere mutate in altre migliori dai dotti; ma ci si permetta di adoperarle intanto a significare, comecchessia, i nostri concetti. Chiameremo, dunque, robustezza o debolezza fisiologica quella del principio della vita nell' esercizio della sua dominazione sulla materia, quando questa dominazione è perfetta, pacifica, senza irritazione, senz' alcuna lotta. Il sentimento, in cui questa dominazione consiste, è per essenza piacevole. Chiameremo patologica quella robustezza o debolezza che manifesta il principio vitale, quando non domina pienamente, in modo da produrre il conveniente e soddisfacente piacere della vita d' eccitamento. Se manca qualche cosa all' integrità dell' organizzazione, come nello stato di fame e di estenuazione, vi è certamente uno stato che s' allontana dalla piena sanità; ma considerato questo stato da sè solo, benchè si possa dire, in qualche modo, patologico o morboso, non si può dire ancora diatesico, perchè non manifesta a chiari segni la lotta, ma solamente l' inazione dell' istinto vitale. Accordo che questa inazione trarrà dietro a sè una lotta, almeno se giunge a certo grado, come fu detto innanzi, ma resta sempre separato il concetto della lotta , a cui appartiene lo stato diatesico, dal concetto della semplice inazione . Sicchè quando queste due cose si trovano insieme, meritano ancora d' essere l' una dall' altra colla mente distinte. Come dunque definiremo e descriveremo quella robustezza e quella debolezza patologica, che diciamo diatesica? Noi la ravvisiamo in una robustezza o debolezza bellicosa, che dimostra nei suoi atti il principio della vita. Perocchè nella lotta indicata, il principio della vita, ora combatte con forza ed impeto, ora debolmente più che non gli sarebbe mestieri. Il che richiede qualche dichiarazione. Primieramente noi crediamo doversi distinguere la causa efficiente prossima della malattia dall' essenza di essa. Riconosciamo che la causa efficiente della malattia possa consistere talora in un' azione troppo veemente, talora in un' azione troppo allentata del principio vitale. Dico azione veemente e azione allentata piuttosto di dire robustezza o debolezza , poichè queste ultime parole meglio si applicano a significare uno stato che non sia un atto; e la causa prossima efficiente della malattia, in quanto appartiene al principio vitale, non può essere che un atto che produce poi, insieme ad altre cause, lo stato morboso. A ragion d' esempio, la gioia improvvisa d' un lieto avvenimento può aumentare momentaneamente l' azione del principio vitale, a segno da spingere il sangue con impeto maggiore di quello che possano sostenere le pareti dei vasi, e far succedere un' apoplessia. La tristezza può cagionare la morte in un modo opposto, diminuendo al principio vitale talmente la sua azione da rallentare la circolazione, e così, accumulandosi il sangue nei grossi vasi, illanguidire siffattamente tutte le funzioni vitali, sino a venirne la morte quasi spontanea, «abiastos». Ma questa esaltazione o questa depressione di forza, con cui agisce il principio vitale, non è la malattia, benchè ne sia la prossima causa efficiente; distinzione, che si deve fare accuratamente, se si brama giungere ad una teoria chiara dei morbi. La semplice diminuzione o il semplice aumento di forza nell' azione del principio vitale non costituisce dunque la malattia, ma può esserne la causa; e lo è di fatto, ogni qualvolta quell' azione diminuita o quell' azione accresciuta rechi qualche alterazione nell' organismo, o nella materia organata e vivente; per la quale alterazione il principio vitale sia contrariato nel pieno suo dominio sulla materia vivente, sicchè questa tenda a sottrarsi da lui, e così incominci la lotta che dicevamo. Secondo questo concetto della malattia è uopo conchiudere che in tutte le malattie, niuna eccettuata, v' è una debolezza, la quale è il fondo della malattia stessa; e questa debolezza fondamentale consiste nel dominio diminuito del principio vitale sulla materia. Laonde se talora il principio vitale, durante lo stato di malattia, fa sfoggio di forze straordinarie, non si deve conchiuderne che egli sia più forte, ma solo che egli sia più irritato, se ci si concede di così parlare, a quel modo appunto che un principe, il quale tiene in così perfetta soggezione i suoi sudditi che questi non possono muovergli alcuna ribellione, è più forte di quell' altro, a cui i sudditi ribellati dànno battaglia con dubbia sorte, benchè questo secondo spieghi maggiori forze militari, e faccia più prodezze del primo. La violenza dunque, con cui opera il principio vitale durante lo stato morboso, a vero dire, non è segno di robustezza, ma più veramente di debolezza, d' un impero pericolante. Onde, cessata la lotta, colla vittoria cessa altresì lo sfoggio delle forze bellicose, ed apparisce la debolezza nel principio vincitore; ed è perciò che tutti i convalescenti sono deboli; manifesta prova, per quello che pare a noi, che il principio vitale in istato di malattia è sempre più debole che in istato di sanità, benchè non paia, perchè in guerra; siccome accade anche che un uomo debole, se una grande ira lo coglie, spiega più forza d' un altro veramente forte, tranquillo e quieto. Vi è dunque in qualsivoglia malattia debolezza e forza. Vi è una debolezza fondamentale, relativa alle forze materiali insorgenti contro al dominio della vita. Vi è una forza bellicosa, che il principio della vita trae in palese, affine di conservare il suo impero minacciato, e riacquistarne la pienezza. Questa forza bellicosa è quella che trasse principalmente l' attenzione delle moderne scuole di medicina, e che produsse le dottrine dello stimolo e del controstimolo. Facciamovi sopra qualche osservazione. L' azione dell' istinto animale non esce dalla sfera del sentimento ma i diversi suoi atteggiamenti tirano dietro a sè i movimenti extrasoggettivi. Questi movimenti nella materia influiscono a provocare nuove azioni e nuovi atteggiamenti del sentimento medesimo, perchè la stessa materia, che da una parte è fuori del sentimento, dall' altra è animata e sentita. Di qui deducevamo che l' azione del sentimento, e restringendo il nostro discorso, l' azione bellicosa del sentimento può produrre nella materia organata modificazioni salutari o perniciose; e benchè il sentimento nel suo operare sia cieco rispetto all' utilità o al danno di questi effetti extrasoggettivi, influenti poi nella condizione soggettiva, tuttavia la Provvidenza ebbe prestabilita un' ammirabile armonia, per la quale spesso, se non sempre, i movimenti prodotti dovessero riuscire utili all' animale. A ragion d' esempio, la parte infiammata, dolente, o estremamente sensibile ricusa qualunque stimolo; ora l' istinto sensuale produce quei movimenti che può e l' organismo gli consente, per ricacciare ogni materia toccante la parte ammalata, o altra con quella legata. Nell' encefalite, nell' idro7encefalite, nelle apoplessie, ecc., i vomiti sono frequenti; i nervi dello stomaco ricusano gli stimoli, ecc.. L' istinto sensuale non cerca che a sottrarsi dall' ingrata e dolorosa sensazione, o dalla fatica molesta ai nervi, che dolenti vogliono riposo; ma è provvidenziale, che i movimenti che fa a tal fine sieno così concertati dalla natura da addurre l' effetto, che la materia stimolante ed extrasoggettiva venga espulsa (1). Gli sforzi bellicosi, adunque, del principio vitale, benchè sempre tendano, come in loro fine immediato e soggettivo, a perfezionare lo stato del sentimento , tuttavia non sempre sono utili alla salute; chè questa dipende in gran parte dalla condizione della materia extrasoggettiva; e quegli sforzi, benchè abbiano sempre uno scopo salutare immediato entro il soggetto, traggono seco dei movimenti extrasoggettivi (costituenti in parte i processi morbosi), per quel misterioso vincolo che l' ordine soggettivo ha coll' ordine extrasoggettivo; i quali non sempre riducono a migliore stato e disposizione la materia organata, ma talora la sconcertano ed indispongono maggiormente; di che essa, vie più sconcertata e più indisposta, determina l' anormalità del corso zoetico, che si rende finalmente esiziale. Posto dunque che la malattia sia avvenuta mediante una irritazione , presa questa parola in un senso generale per indicare « un conato della materia a sottrarsi dal dominio della vita », qualunque sia la causa che abbia prodotto questo sconcerto, e posto che il principio vitale insorga per ristabilire il suo dominio, possono accadere tre accidenti: Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, unicamente perchè agisce troppo debolmente, sicchè col solo aggiungergli delle forze, riuscirebbe l' effetto (debolezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè operando con troppo impeto, produce movimenti violenti nella materia, sconcerti extrasoggettivi, che deteriorano lo stato della materia rispetto alla vita, anzi la rendono più ritrosa a ricevere il dominio (robustezza soverchia universale dell' azione bellicosa senza sproporzione). Che il principio vitale non riesca a ristabilire il suo dominio pacifico, perchè opera con azione disuguale e sproporzionata, cioè in certi luoghi o parti del corpo soverchia, e in altri luoghi, relativamente, troppo debole (soverchia robustezza e soverchia debolezza contemporanea del principio bellicoso, parziale e locale). Questi tre accidenti a prima giunta si presentano al pensiero; ma i due primi sono essi veramente possibili? Non parmi; non credo almeno, come ho detto prima d' ora, che costituiscano una diatesi morbosa , benchè ne possano essere cagione. Infatti, dato che, per qualsivoglia causa, il principio vitale sia universalmente indebolito, se si astrae dagli effetti che questa debolezza può produrre, altro non si ravvisa che una vita poco attiva e non più; il che per sè non è condizione morbosa; e se questa debolezza e inattività è cagionata da una irritazione o condizione morbosa precedente, in questo caso la condizione morbosa non è la debolezza, ma precede a questa siccome causa, e va fornendo il suo corso, senz' avere a fronte chi fortemente glielo contrasti. Che se non si tratta di debolezza dell' azione bellicosa, ma di debolezza dell' azione vitale in generale, questa potrà essere cagione della malattia, senza essere la malattia, allorquando il rallentamento delle funzioni della vita cagioni qualche sconcerto, pienezza o congestione di umori, ecc. (1), e allorquando ebbero luogo solo questi effetti, incomincia lo stato morboso e la lotta; ma questi effetti sono tutti locali, e perciò appartengono al terzo degli annoverati accidenti. Lo stesso dicasi della robustezza universale dell' azione bellicosa. Per sè non è la malattia; ma se la veemenza dell' azione bellicosa, o anche la forte azione della vitalità universale eccitata, produce qualche sconcerto nella materia, come rottura di vasi, o altro, in tal caso la malattia incomincia con questi effetti, i quali sono locali e parziali. E si consideri che ogni irritazione, che determina l' azione bellicosa, è sempre locale. Ora dove si trova località, ivi è successione di azioni e di movimenti, che da una si estendono ad altre parti, secondo l' organizzazione della materia e l' atteggiamento del sentimento. Così se una ferita al cerebro determina un' epatite, è evidente che questo effetto succede al primo, ed è un male locale che succede ad un altro pure locale; e ciò in conseguenza dell' azione bellicosa del principio della vita, sollevata dalla prima irritazione locata nel cerebro. Quindi nella condizione morbosa la lotta non abbraccia mai egualmente e contemporaneamente tutte le parti del corpo, ma è determinata ad alcune, ed una succede all' altra; il che fa sì che in ogni condizione morbosa si verifica il terzo accidente, pel quale « il principio vitale opera con azione disuguale e sproporzionata, di modo che in certi luoghi del corpo è maggiore che in altri ». Ristretto in tal maniera il concetto della malattia, e distinta l' igiene, a cui appartiene di conservare e rinforzare la sanità, dall' arte di guarire, conviene porre l' occhio alla località, dove incomincia l' azione bellicosa, e a tutte le altre località alle quali ella estende i suoi effetti, considerando: Che l' azione bellicosa di sua natura affatica e spossa il principio vitale; e quindi spesso avviene che col diminuirla, lungi dal diminuire le forze dell' ammalato, anzi si conservano, come si conservano le forze di colui, a cui cessano le fatiche e gli sforzi. Che l' azione bellicosa, esaurendo le forze del principio vitale, produce il contrapposto di un' apparente robustezza in quelle parti dove l' azione bellicosa si spiega, e d' una manifesta debolezza ed estenuazione in tutte le altre. Così accade nelle infiammazioni locali, che dimagrano ed estenuano il corpo, mentre nella parte infiammata si osserva grande azione, che non è punto robustezza, ma azione bellicosa e sforzo eccedente. Che l' azione bellicosa, nascendo da una primitiva irritazione, o non genera ella stessa altre modificazioni irritatrici della materia, e in tal caso cessa ogniqualvolta si può far cessare l' irritazione primitiva (malattie d' irritazione); o genera nuove modificazioni irritatrici, e per restituire la sanità conviene modificare la stessa azione bellicosa (malattie di diatesi). Talora l' azione bellicosa locale produce modificazioni irritatrici della materia, perchè i movimenti suscitati nelle parti o particelle sono tali, che non possono essere dominati e regolati dalla forza del principio vitale; e in tal caso v' è eccedenza rispettiva d' azione bellicosa locale, unita a debolezza rispettiva di vitalità universale; e fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi stenica . Se l' azione bellicosa locale è più debole dell' irritazione che la cagiona, ella permette a questa di prevalere, e la materia mal disposta si sottrae sempre più al dominio della vita; fu probabilmente questo caso che indusse i medici a stabilire quella classe di malattie, che essi chiamarono di diatesi astenica . Certo è che qualora la vitalità è più robusta, è altresì maggiore l' azione bellicosa. Onde accade che ogniqualvolta si crede utile diminuire l' azione bellicosa locale, si ricorre a quegli espedienti che sembrano diminuire la forza della vitalità; e qualora si crede utile d' accrescere l' azione bellicosa, pare che s' ottenga coll' accrescere la forza del principio vitale. Ma non è dimostrato che sia questa l' unica via di diminuire e di accrescere l' azione bellicosa; non è dimostrato che l' unica via sia quella di diminuire o di accrescere la robustezza del principio vitale. Resta dunque a cercarsi: Se forse l' azione bellicosa, producente una diatesi stenica, non si possa ricondurre sulla retta via coll' apporre ai suoi guasti una resistenza, accrescendo la forza della vitalità universale. Ovvero, posto che coll' accrescere la forza di questa vitalità universale, si abbia uno scapito e un vantaggio, lo scapito d' accrescere la forza bellicosa che mena guasto, e il vantaggio d' accrescere il potere universale della macchina che resiste a quel guasto, resta a cercare se non si possa mai avverare che questo vantaggio prevalga a quello scapito, e nel caso che qualche volta si possa, quando e come si possa. Se l' azione bellicosa, producente una diatesi astenica, si possa emendare unicamente coll' accrescere la vitalità universale, o coll' eccitare localmente un' altra irritazione e sollevare una nuova forza bellicosa (1); e in questo caso quali sono le cagioni perchè l' azione bellicosa non risponda vivamente allo stimolo, e si sta come avvilita, determinando i rapporti di queste cagioni diverse coi rimedi. Le quali sono tutte ricerche appartenenti alla medicina analitica. Torniamo ora sui nostri passi. Noi abbiamo manifestata l' opinione che il fondo di ogni malattia si riduca ad una debolezza dell' istinto animale. Crediamo importante non abbandonare questo argomento senza aggiungervi qualche altra riflessione, riassumendo e annoverando con maggiore chiarezza le cause che debilitano il detto istinto, e gli tolgono o diminuiscono il dominio su quell' esteso materiale, in cui termina il sentimento che costituisce l' animale. Primieramente rammentiamo che l' istinto animale per sè è inesauribile; i suoi limiti nascono unicamente dall' esser egli condizionato al sentito, suo termine. Il sentito si può concepire crescente di estensione senza confini; non v' è ragione di negare che il principio senziente possa invadere anche tutto l' universo, qualora fosse data la continuità necessaria delle parti; anzi egli tende in effetto ad estendersi ed a continuarsi ogniqualvolta al continuo, suo termine, s' aggiunga qualche altra parte di materia. Di che, se un corpo straniero tende a dividere il corpo vivo, l' istinto fa resistenza. In secondo luogo l' istinto animale ha la tendenza all' eccitamento, anche questa illimitata. Laonde colla sua attività egli asseconda e promove tutti i movimenti che vengono iniziati nel continuo, secondo le leggi prestabilite, che abbiamo indicate. In terzo luogo l' istinto animale tende a individualizzarsi, che è la via d' innalzare sè stesso alla maggior possibile potenza, e d' avere eccitamenti più forti e perpetui. Fa questo la stessa tendenza all' eccitamento, combinata colle forme degli elementi e delle molecole materiali; chè se in un continuo composto di elementi di forme immutabili si suppone una virtù, che assecondi ogni moto che in essi nasce, ritenuto sempre dentro la loro continuità, deve necessariamente venirsi formando una organizzazione sempre più conveniente a far sì che vi sia maggiore quantità e frequenza di moto, e che questo si perpetui; il quale moto non può essere nè massimo, nè perpetuo, se non è armonico, cioè se i moti parziali non hanno unità (1). Il sentimento dunque si atteggia necessariamente ad unità, come il modo a lui più naturale e più soddisfacente. Se dunque si considera l' istinto animale in sè stesso, non si trova alcuna causa che spieghi la sua debolezza e il suo malo stato; per sè tende necessariamente al bene, ed è capace di tutto. Ma la causa si trova bensì nella sua condizione, e in certe forze a lui superiori, che esercitano sopra di lui un' influenza. La condizione dell' animale, cioè il termine corporeo, deve avere tre accidenti: continuità, eccitamento, organizzazione. La continuità può essere divisa, non tolta affatto, perchè il corpo è essenzialmente continuo. L' eccitamento può essere tolto affatto, e in tal caso l' istinto vitale non produce più che il sentimento di continuità, non può più manifestare alcuna di quelle forze, che compiscono le funzioni animali; così cessa l' animale per semplice debolezza ed estenuazione. Può essere disciolta l' organizzazione , e in tal caso di nuovo l' animale non è più, egli ha perduta la sua individualità (1). Ma se l' eccitazione o l' organizzazione non è tolta repentinamente da qualche forza maggiore, ma solo è minacciata da una forza straniera, allora l' istinto animale entra con essa nella lotta sopra descritta. Oltracciò, nell' uomo il principio senziente soggiace all' azione del principio intelligente, col quale pure può lottare, o certo riceverne forza maggiore o debolezza. Indi è che i tipi primitivi di tutti i mali, a cui può soggiacere l' animalità nell' uomo, si riducono a due: 1) debolezza semplice del principio senziente; 2) attentato all' armonia dell' eccitamento. In quest' ultimo caso accadono tre accidenti: L' istinto animale nella lotta è più debole, e allora si avvilisce; la disarmonia dell' eccitamento si effettua e diviene maggiore fino a dissiparsi, rompendosi l' unità e l' individualità, onde la morte. L' istinto è più forte, e giunge a dominare la forza nemica, o ad espellerla, onde la sanità. L' istinto, benchè più forte, produce nondimeno, colla sua azione violenta, nuovi sconcerti nell' extrasoggettivo, e si crea così da sè stesso un nemico, che diviene più forte di lui, una nuova malattia con cui lottare; e qui si rinnova uno dei tre indicati accidenti. Consistendo adunque tutti i mali dell' animalità in debolezza del principio senziente, e in disarmonia dell' eccitamento sensibile, diciamo qualche cosa sull' uno e sull' altro tipo. Le cagioni proprie della debolezza del principio senziente nell' uomo, che vengono tutte dai due principŒ stranieri, coi quali è connesso (l' intelligenza e la materia), si riducono alle seguenti: Quando l' intelligenza fa conoscere all' uomo la propria impotenza in confronto alla difficoltà d' uno scopo ardentemente desiderato, si manifesta una diminuzione di forza anche nel principio animale; e ciò perchè il principio intellettivo e sensitivo s' identificano nell' uomo, onde la debolezza dell' uno è partecipata dall' altro. Diminuzione di coscienza di proprie forze è diminuzione di forze. Così, se l' intelligenza apprende un male imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della paura, della sollecitudine, della tristezza, dell' ansietà, ecc. (1). All' opposto, qualora l' intelligenza apprende un bene imminente o già accaduto, si manifestano le passioni della speranza, della gioia, ecc.. E` un fatto che queste passioni non rimangono nella sfera dell' intelligenza, ma si diffondono a quella dell' animalità. Tutte le passioni tristi appariscono allorquando la circolazione e le altre funzioni animali si rallentano. Ora il rallentamento delle passioni animali è l' effetto manifesto della debolezza del principio motore, che è l' istinto sensuale. Dunque questo partecipa dell' affezione del principio intellettivo e della sua debolezza, che consiste nella scemata coscienza delle proprie forze, nella diminuzione del sentimento intellettivo; chè coscienza fa sentimento, e sentimento fa forza. E qui si noti che quando la cagione per la quale si debilita l' istinto animale, è una passione dell' intelligenza, l' indebolimento non è dapprima disarmonico, nè parziale, ma si rende tale nei suoi effetti successivi; chè l' intelligenza opera immediatamente nel principio senziente, che presiede, in vario modo però, a tutte le parti e funzioni del corpo animato. La seconda cagione, che scema l' attività del principio senziente, nasce dalla lotta morbosa; quando l' istinto sente d' avere contro di sè una forza maggiore, allora egli si scoraggia. E questo accade per l' unione del sentimento soggettivo colla percezione dell' extrasoggettivo avversario. Quando la forza dell' extrasoggettivo, percepita insieme col sentimento della forza propria, si fondono per la forza sintetica in un' affezione sola, allora si appalesano tali effetti di smarrimento. Se l' istinto animale sente dover combattere con un avversario forte, tanto meno opera, quanto più vi prova di fatica, fino a cessare del tutto dall' operare. Accade talora che quando l' istinto è valido e sicuro, ed opera energicamente, se d' improvviso gli si para innanzi un ostacolo, lo combatte con tanta forza, di cui ha contratta l' abitudine, che produce sconcerti nell' extrasoggettivo. Che se gli ostacoli sono molti e perseveranti, vanno un po' alla volta diminuendo e fiaccando l' ardore dell' istinto, e così togliendogli le forze, come si vede nel cronicismo, a cui passano talora le malattie più violenti. La terza cagione, che debilita l' azione dell' istinto animale, è la diminuzione degli stimoli interni. Questi possono diminuirsi in conseguenza d' una debolezza precedente dello stesso istinto, chè indebolito questo, si rallentano tutti i movimenti della macchina, e diminuzione di moto è diminuzione di stimolo. Ma si possono diminuire gli stimoli interni anche col diminuirsi degli umori, massime del sangue, il principale di essi, e in generale con una perdita di sostanza. La fame provoca idee tristi, scolora l' immaginazione, scoraggia, il languore si propaga a tutte le membra. Possono diminuirsi altresì per qualche ostacolo meccanico, che impedisca i movimenti della macchina vivente, come avviene nella ossificazione dei vasi, o che impacci la loro libera comunicazione, o ne scemi la celerità, come nelle ostruzioni, per esempio, se la mucosità spalma o ingombra le cellule aeree del polmone, come in sulla fine delle polmoniti, sicchè il sangue, non potendo compire l' ematosi, ritorni al cuore, quasi come ne è venuto, venoso e inattivo, o se si lega un nervo, ecc.. L' azione dell' istinto animale s' addebilita in quarto luogo diminuendosi gli stimoli esterni, cibi, bevande, aria atmosferica, ecc.. Viceversa s' accresce l' attività vitale per aumento dei medesimi, e s' accresce in diverso modo, secondo la qualità degli stimoli e la località a cui vengono applicati. L' ossido di carbone, recato ai polmoni mediante la respirazione, produce una speciale ilarità, l' inspirazione dell' etere solforico stupidezza dei sensorii, ecc.. E la stupidità della fibra, prodotta dall' eccesso di stimolo, è appunto la quinta cagione della debolezza dell' istinto animale nel suo operare. Per intendere di quale stupidità noi parliamo, conviene riflettere che lo stimolo non porta eccitamento, se non in quanto produce i movimenti intestini delle molecole animate. Se dunque i movimenti provocati sono contrari fra loro, sicchè l' uno elida l' altro, come accade sotto stimolo eccessivo, quei movimenti, facendosi minori ed opposti alla spontaneità animale, danno alla fibra una cotale stupidità non rispondente allo stimolo. Finalmente, se per qualsivoglia cagione accade che l' azione dell' istinto si concentri e quasi esaurisca in qualche parte del corpo, o in qualche sua speciale funzione od operazione, manifestasi altrettanta debolezza in altre parti, funzioni ed operazioni; il che accade però con grandi differenze e per vari modi, che è necessario distinguere. Generalmente parlando, è noto che la parte del corpo umano che più s' adopera, più si sviluppa, s' ingrandisce e fortifica. I muscoli dei contadini, dei facchini e d' altre persone addette ai mestieri faticosi, riescono di gran lunga più voluminosi e risentiti che non quelli di persone conducenti vita comoda e delicata. La stessa massa del cervello sembra accrescersi negli uomini dati agli studi. Fu detto che la grossezza maggiore, che aveva il cranio degli antichi germani, si dovesse attribuire ai pesi che usavano di portare sul capo. Una delle principali ragioni, per le quali l' istinto animale accumulando in modo straordinario la sua attività in qualche luogo speciale del corpo, la sottrae ad altri, si è quella della lotta morbosa. Quindi in tutte le malattie, le quali sembrano aver sempre, od acquistare in progresso, una località, scorgesi squilibrio di forza, troppa robustezza e troppa debolezza ad un tempo, attività soverchia in una parte, e inattività nelle altre. Venendo applicati al corpo animale stimoli esterni che producano piacere, e così accrescano l' eccitamento, la spontaneità animale accumula ivi la sua attività, per accogliere la maggior quantità possibile di quel piacere. Questa accresciuta attività nervosa in quella parte, vi determina poi anche maggior concorso di fluidi. Che se questo concorso è eccessivo, o se accade che i fluidi vadano a perdersi, può venirne gran danno al corpo; e questo è un caso di quella disarmonia eccezionale, che noi abbiamo indicata fra i fenomeni soggettivi e gli extrasoggettivi. Che se gli stimoli esterni applicati al corpo sono molesti, l' istinto animale ivi si attua per liberarsene. Ma questo attuarsi in quel luogo, vi produce medesimamente concorso di fluidi o stimoli interni, sicchè avviene che talora nello stesso tempo che l' istinto s' adopera a cacciare il soverchio e disordinato stimolo, che è stato applicato alla parte dal di fuori, egli stesso vi accumuli in quella vece altri stimoli interni. E questi recano sovente più danno al corpo che non farebbe l' azione degli stessi stimoli esterni, che egli s' affatica a cacciare; per esempio, mentre l' istinto cogli sforzi della tosse tenta liberarsi dell' irritazione che sente al polmone, nei bronchi, o alla trachea, egli stesso accumula in queste parti tanto di sangue che vi determina, o aumenta l' infiammazione, o anche produce rottura di vasi, onde la malattia termina coll' esito il più sinistro. E` specialmente la direzione e il concorso dei fluidi che produce la robustezza e la debolezza comparativa, di cui parliamo. L' attività dunque dell' istinto animale si può concentrare in una località, e mostrarvisi più o meno attiva per più ragioni; distinguiamole: I Causa, intellettuale . - Nell' estasi, ed in altre grandi azioni ed affezioni intellettuali, talora si toglie solamente all' uomo la coscienza delle sensioni; tal' altra sembra che restino veramente impedite le sensioni stesse, e sottratta al sensorio la sua mobilità. L' attività allora si esaurisce piuttosto fuori del corpo che in qualche parte di questo; benchè il cervello, che aiuta l' intelletto somministrandogli i segni delle immagini, che fissano la sua attenzione, ne rimanga anch' esso quasi sempre interessato. II Causa, sensoria . - Una specie di sensioni assai vive impediscono altre sensioni meno vive, benchè appartenenti ad altri organi sensorii. Nel sonno l' attività sembra concentrata nel cervello, nella facoltà interna di sentire; quindi sottratta agli stimoli dei sensi esteriori; forse anche in questo caso l' attività sensoria, cresciuta nell' organo della fantasia, si deve ripetere dall' afflusso degli umori in quella direzione. Venendo ferito qualche ramo facciale o frontale del quinto paio, se n' ha la cecità, che dura più o meno a lungo (1), senza alcuna lesione del nervo ottico. Dove sembra che il cervello sospenda la sua influenza sul nervo della visione, perchè scosso, e nella dolorosa lotta occupato, non gli rimanga più di virtù da collocare nell' operazione visiva; se pur non si deve piuttosto attribuire il fenomeno all' essere i movimenti cerebrali, cagionati dalla ferita o percossa, quelli che perturbano i movimenti sensorii; e stando così, è ad ogni modo da notarsi che quei movimenti non sono al tutto meccanici, ma animali; e però tali che impiegano parte dell' attività del principio della vita. Può essere anche che quella ferita, ed altre, che istupidiscono qualche organo sensorio, producano questo effetto per qualche alterazione da essi cagionata nella direzione dei fluidi, che inaffiar devono gli organi della sensazione. III Causa: concorso dei fluidi . - Ed è appunto il concorso dei fluidi (i quali sono i principali stimoli interni) che noi dobbiamo più attentamente considerare. E` principio indubitato che « in quella località dove l' azione vitale è comparativamente maggiore, ivi concorrono i fluidi in maggior copia »(2). Diciamo comparativamente , poichè è da aver mai sempre presente che non è un assoluto grado di forza quello che costituisce uno stato morboso, ma un grado relativo, uno squilibrio della forza vitale, che si altera soverchiamente in una parte comparativamente ad un' altra, la quale presenta i sintomi di rispettiva debolezza. Poniamo che il freddo sia un debilitante, e che quando è moderato, produca l' effetto di rintonare la fibra per via indiretta, sottraendo ad essa un soverchio stimolo che la istupidisce, od anche restringendola, ove sia di soverchio dilatata. Se dunque il freddo è debilitante, dove egli s' applica, ivi l' azione vitale diminuisce. Ora questo può spiegare perchè, venendo esposta la pelle al contatto di corpi assai freddi, ovvero passando noi leggermente vestiti da una temperatura calda ad una fredda, ne riportiamo varie infiammazioni delle membrane mucose, della pleura, del polmone, degli intestini, dello stomaco, o della vescica. Diminuita l' attività vitale ai vasi capillari della pelle, riesce comparativamente accresciuta l' attività dei vasi interni delle dette membrane; debbono dunque i fluidi affluire dall' esterno all' interno (1), ed ivi ingorgarsi, stagnarsi, fors' anche dai capillari venosi passare il sangue premuto a stravenare nei linfatici, che coi venosi probabilmente si abboccano (2). Il sudore si promuove coi bagni o bibite calde, si sopprime coi bagni o bibite fredde per una simile ragione, cioè perchè in tal modo col caldo si rendono più attivi i vasi alle superfici interne od esterne, e col freddo si rendono gli stessi vasi comparativamente meno attivi, e quindi si cangia la direzione dei fluidi. La ragione poi, perchè la bibita calda eccita il sudore alla superficie cutanea, sembra dovesse essere quella legge di simpatia, di cui abbiamo parlato, per la quale il principio senziente mette in giuoco contemporaneamente gli organi simili. Il ghiaccio si adopera utilmente a frenare le emorragie ostinate. Questo effetto pare doversi attribuire a due cagioni, cioè: 1 all' azione fisiologica, per la quale indebolendosi comparativamente le estremità dei vasi, si determina il fluido a prendere la direzione contraria, a retrocedere; 2 all' azione chimica, restringente le estremità dei vasi, il che impedisce l' afflusso. Lo spavento determina l' uscita di orine abbondanti, chiare e inodore; perchè scemando l' attività interna, e comparativamente accrescendola verso la periferia, accelera i fluidi nella direzione dall' interno all' esterno del corpo. All' incontro le irritazioni dei visceri sopprimono le secrezioni (1). Tutte le infiammazioni vive d' un organo contenuto nelle tre cavità splancniche, sospendono ed alterano il corso delle secrezioni; essendovi molta attività vitale al centro e debolezza relativa verso la periferia, il corso dei fluidi non si può fare egualmente bene verso di questa. E` la stessa ragione, per la quale il cibo vi provoca in bocca l' afflusso della saliva, per la quale un po' d' aceto applicato sulla congiuntiva o sulla pituitaria adduce le lacrime. La ferita d' un intestino arresta la digestione, come la gastrite può impedire la deglutizione (2). Bichat osservò che nel tempo che gli alimenti dimorano nello stomaco, è scarso lo scolo della bile, e che si accresce poi quando passano nel duodeno, per guisa che allora se ne trova in copia negli intestini, sempre per la stessa ragione, che finchè lo stomaco è stimolato dalla presenza dei cibi, l' attività vitale ivi è maggiore, onde attira i fluidi, anzichè lasciarli scorrere altrove. Così è un vero indubitato che lo stimolo accrescente attività nella parte esterna dei condotti secretori ed escretori, è uno dei mezzi principali, di cui si serve la natura per determinare le secrezioni e le escrezioni. Secondo Broussais con altri medici moderni, quelle grandi evacuazioni, che si dicono crisi , altro non sono che l' effetto della cessazione dell' irritamento dei visceri. Perchè questa irritazione sopprimeva le naturali secrezioni? Perchè essa aumentava l' attività vitale all' interno, e comparativamente la rendeva debole verso la periferia; indi era impedita la direzione degli umori al di fuori. Quantunque il ristabilimento delle funzioni degli organi secretori sia, quando succede naturalmente, l' effetto della cessazione della causa della malattia, non è però che molte volte le dette evacuazioni, prodotte artificialmente, non diventino un mezzo al ristabilimento della salute. Un sudore abbondante, provocato con bibite o bagni vaporosi generali o parziali, dissipa cefaliti ostinate; vescicatoi, caustici, rubefacenti producono il medesimo effetto per una causa simile. Questi sono altrettanti mezzi, coi quali si accresce l' azione del principio senziente alla cute, e quindi si diminuisce comparativamente nelle parti interne; con che si provoca la direzione dei fluidi dal di dentro al di fuori, e così si diminuiscono gli stimoli interni, che pel loro soverchio cagionano dolore. Conviene per altro riflettere che, quando è accresciuta l' attività vitale in una parte del corpo umano a cagione d' una irritazione o d' altro, quell' attività può comunicarsi ad altre parti, sia perchè la materia irritante muti di luogo, sia per una cotale irradiazione dell' attività stessa a parti organicamente continue, sia finalmente per una vera simpatia (1). Nel qual caso anche la parte che partecipa dell' attività cresciuta, diventa, comparativamente alle altre parti che non ne partecipano, più attiva. Di più, alcune parti divenute meno attive, occasionano l' attività comparativamente maggiore di altre. Allorquando per cagione di qualche infiammazione si gonfiano le glandole linfatiche, quando, per esempio, a cagione d' un panariccio intumidiscono le glandole sotto l' ascella, pare che ciò avvenga, perchè l' infiammazione, rendendo comparativamente meno attive altre parti, queste non attraggono più a sè, e conducono gli umori segregati dalle glandole; indi l' ingorgo e la tumefazione di queste. La tisi andata innanzi, indebolendo le parti circostanti o simpatiche col polmone, rende comparativamente più attive le parti dei vasi più lontane dal centro; indi il calore accresciuto alle palme delle mani ed alle piante dei piedi, le rose alle guance, il rosso vivo alla radice della lingua, i sudori abbondanti e colliquativi, le diarree, le gonfiezze edematose alle estremità (2). E` appunto questo accrescimento e diminuzione comparativa d' attività, questa serie di effetti che diventano cause alla loro volta, che complica immensamente la scienza medica, e rende oltremodo difficile a seguitarsi nelle sue variazioni il corso zoetico. Se si considerano quelle febbri che cominciano con una sensazione di freddo, a cui succede un forte calore, sembra che durante il freddo vi sia un riflusso del sangue dalla periferia al centro, e durante il calore un afflusso dal centro alla periferia. Ora, considerando che il sangue viene ricondotto al cuore per la via dell' albero venoso, e diffuso alle estremità per la via dell' albero arterioso, parrebbe doversene inferire che l' albero venoso acquisti un soverchio di forza, comparativamente all' albero arterioso; l' albero arterioso un soverchio di debolezza, comparativamente al venoso; nel qual caso, venendo il sangue portato al cuore con più impeto e celerità, sarebbe dalla reazione di questo e dei vasi arteriosi stimolati soverchiamente, riportato poi con pari impeto alla periferia. Solamente che si dovrebbe supporre l' eccedenza di forza nell' albero venoso consistere in uno stato di tensione o azione maggiore dei vasi; là dove la reazione del cuore e delle arterie non essere accresciuta per uno stato di loro propria tensione e forza maggiore, ma pel maggiore stimolo da cui vengono incitati, per la maggior copia e celerità del sangue, lasciando anche da parte la crasi del medesimo, che pare dover influire piuttosto nelle febbri continue che nelle intermittenti (1). Ma se questa ipotesi può aver luogo, quale può essere la causa di questo squilibrio d' attività fra l' albero arterioso ed il venoso? Ecco la questione complicata oltremodo. Se in una data località s' accumula il sangue per un' azione comparativamente in essa accresciuta, questo sangue ivi accumulato, e quasi stagnante, può e deve subire diverse alterazioni nei suoi principŒ, come lo dimostra il caso dell' infiammazione; e questa alterazione può essere comunicata alla massa del sangue, ed indi nascere la febbre, effetto così d' una irritazione od infiammazione locale (2). E` cosa indubitata che la stessa legge dei vasi, dirigenti i fluidi al luogo dove l' attività vitale è comparativamente maggiore, dipende principalmente dalla condizione dei nervi sensorŒ. Ciò è manifesto dalle osservazioni seguenti: Quando l' irritazione si fa dolorosa, ella produce simpaticamente maggiori effetti. Più gli organi infiammati sono dotati di nervi, e più anche è dolorosa la loro infiammazione, e di conseguente più alterate riescono le funzioni animali. Le simpatie hanno luogo con più di forza e di prontezza nelle persone più sensitive. Ma si deve osservare che nel sistema vascolare e nel sistema nervoso la propagazione e il concentramento dell' attività vitale tiene una legge opposta; nel sistema vascolare si concentra mediante il concorso degli umori in quel punto, dove qualche causa l' ebbe accresciuta; nel sistema nervoso, all' incontro, si propaga a seconda delle sue diramazioni, partendo dal punto dove prima è stata accresciuta, ed osservando sempre le leggi sue proprie. Quindi la gastrite, per esempio, è accompagnata da dolore di capo per la comunicazione nervosa. Per altro, che l' infiammazione, la quale accresce indubitatamente l' attività vascolare nel luogo infiammato, produca una comparativa debolezza in altri luoghi, si vede pel dimagramento che succede, ond' è impedita la nutrizione. Durante la digestione, alla prima eccitazione del cuore e di tutte le funzioni succede uno stato di debolezza degli organi, i sensi esterni e i muscoli perdono una parte della loro attività, si fa sentire qualche brivido di freddo; il che dimostra che il sangue non fluisce più colla stessa abbondanza ed impeto di prima alle estremità. Ma in questo caso il lavoro prevalente dello stomaco, che converte gli alimenti in chimo, non è uno squilibrio morboso, ma un' ondulazione di forza fisiologica, chè quell' aumento di attività del ventricolo va cessando, di mano in mano che compie la sua funzione e distribuisce l' alimento alle membra, restituendo ed accrescendo ordinatamente le loro forze; il che è un fatto tutto conforme alla spontaneità dell' istinto animale. Ma un fatto consimile è quello dell' irritazione o dell' infiammazione morbosa; se non che questa, contrariando la spontaneità dell' istinto animale, ne solleva l' attività bellicosa, e invece d' aver per successo la nutrizione delle parti, lascia in queste dei danni, fra i quali quello appunto d' impedire la loro nutrizione, rattenendo il corso dei fluidi, che dovrebbero diffondersi ad alimentarle. Ecco alcuni fatti dei molti. L' infiammazione dei reni trae seco talora l' atrofia delle glandole testicolari. Nella colica dei pittori è singolar cosa vedere come dimagrano i muscoli situati tra il pollice e l' indice. Negli ascessi, che occupano le tuniche degli intestini tenui, si incavano gli occhi, e diminuisce oltremodo la pinguedine, che deve sostenere l' occhio. In tutte le infiammazioni croniche che finiscono colla morte, il dimagramento si rende estremo ed universale in tutto il corpo, la parte infiammata continua a vegetare finchè si forma la cancrena. Insomma io credo così importante il noto principio, che i fluidi accorrono là dove è accresciuta comparativamente l' attività vitale, che sembrami poter dare egli solo all' osservatore indizio a conoscere la diramazione dei vasi, che s' intrecciano nel corpo umano, e, quasi voleva dire, lo costituiscono. IV Causa: eccitamento dei nervi del senso e del moto . - Abbiam detto che l' attività del principio senziente si concentra là, dove è più viva la sensazione . Consideriamo ora l' accentramento dell' attività, anche per cagione del fenomeno extrasoggettivo che accompagna il senso, cioè per cagione del movimento dei nervi. Questo movimento si propaga dal punto dove il nervo è stato scosso in tutte le direzioni, non già per una mera comunicazione di moto meccanico, ma per una comunicazione meccanico7fisiologica. E` nondimeno certo che l' attività del principio animale s' affatica, se i nervi sensorii o motori sono scossi soverchiamente, e quindi lascia altre parti deboli, come pure lascia uno stato di spossatezza dopo movimenti violenti, come accade nelle convulsioni. E` del pari certo: Che talora il sistema nervoso esercita delle funzioni, nelle quali una sola parte è interessata, e allora le altre restano come insensitive. Così accade nelle contensioni di spirito, nelle quali è interessato il solo cervello, organo della fantasia, onde la sensitività della cute sembra annientata; il che accade altresì in certe affezioni morbose, a tale che questa appena dà segno di senso. Che se il medesimo sistema nervoso non esercita una di queste funzioni, talora al contrario s' accresce la sensitività della pelle oltre misura, per le ragioni dette parlando delle malattie del cervello, come vedesi nei maniaci, negli ipocondriaci, nei melanconici, nelle femmine isteriche. I fluidi del corpo umano sono gli stimoli interni , i nervi sono gli stimolati. I nervi stimolati, colla loro azione più o meno prolungata, ed anche simpaticamente diffusa, dànno attività ai vasi in cui s' addentrano, e i fluidi vi accorrono sottraendosi ad altre parti (1), le quali restano comparativamente più deboli, e più deboli restano conseguentemente anche i nervi, che vanno ad esse. Ci rimane in fine a parlare delle località, di cui abbiamo fatto cenno qua e là sol di passaggio. All' intendimento nostro non appartiene farne un trattato, il che sarebbe troppo superiore alle nostre cognizioni. Ci proponiamo unicamente di tentare qualche soluzione di questo problema: « perchè il principio animale, essendo semplice ed uno, tuttavia manifesta diversi effetti della sua azione, piuttosto in certi luoghi che in altri del corpo vivente ». La teoria delle località ha dei principŒ generali, delle leggi, le quali si applicano egualmente al corpo sano e al corpo ammalato, o che si consideri il corpo abbandonato a sè stesso, e percorrente i successivi stadŒ del corso zoetico, non alterato da stimoli artificiali, o che si vogliano determinare gli effetti di questi stimoli, applicati ad arbitrio al corpo sano od infermo. Noi dunque esporremo prima le leggi generali delle località , che chiameremo fisiologiche , facendone poi qualche applicazione al corpo infermo, e deducendo alcune leggi patologiche ; e finalmente aggiungeremo qualche applicazione agli effetti di quegli stimoli artificiali, che si applicano al corpo infermo per restituirlo a stato di sanità, toccando così alcune leggi terapeutiche . Le leggi fisiologiche, ossia generali delle località, sogliono desumersi dai sei elementi, che costituiscono l' animale. I tre soggettivi di essi: 1 il sentimento continuo; 2 il sentimento eccitato; 3 il sentimento individuato. I tre elementi extrasoggettivi corrispondenti: 1 la materia continua; 2 i movimenti intestini di essa; 3 la costante armonia dei detti movimenti, a cui è condizione l' organizzazione. Il principio animale è la parte attiva del sentimento continuo, eccitato e individuato; ma il suo operare è condizionato al suo termine, cioè al corpo. Se consideriamo la sola continuità del sentimento, senza eccitazione o stimoli esterni, avremo un sentimento fondamentale di continuità uniforme, senza distinzione di luoghi o di parti, e perciò senza figura. In questo sentimento lo spazio misurato, l' estensione extrasoggettiva ancora non esiste; non esiste ancora l' animale, ma solo un suo elemento, l' animato. Coll' eccitamento cominciano a sorgere nel sentimento le località, i limiti figurati; l' eccitamento poi non è armonico ed individuato senza l' organizzazione del corpo, termine del sentimento. Quindi la prima causa, per la quale le località si manifestano nel sentimento, è un principio extrasoggettivo, cioè la parte extrasoggettiva dell' organizzazione, e lo stimolo ad essa applicato. Poichè tutte le parti dell' organizzazione non sono egualmente sentite, nè egualmente sensorie, è conseguente che cada in esse una disuguaglianza di azione vitale, cagione di località. Gli stimoli che si applicano all' organizzazione e promovono l' attività dell' istinto, non si applicano a tutte le parti egualmente dell' organizzazione, ma ad alcune determinate; e quindi un' altra cagione di località. Dal che procedono queste conseguenze: Il principio senziente ha una cotale sfera limitata dall' estensione del sentito; ma questa sfera non è ella stessa sentita, ossia determinata nel sentimento fino che il sentimento è uniforme, di continuità. L' azione, che esercita il principio senziente, è proporzionata al sentito. Se dunque nella sfera del sentito varia la qualità del sentimento e i gradi di sua intensità, proporzionatamente varia ancora di qualità e di quantità l' azione del senziente nei diversi punti della sfera sentita. Vi è allora varietà di sentimenti e d' istinti, ma non si sentono ancora i confini, e perciò le figure extrasoggettive di quei diversi sentimenti. Quando dei corpi stranieri agiscono alle superfici del corpo sentito, incominciano le sensioni superficiali, per le quali il principio sente i confini e le figure della sfera del proprio sentito, e ad un tempo dei corpi esteriori. Il principio senziente, ricevendo il primo impulso e la prima determinazione sua dagli stimoli, continua i movimenti iniziati colla propria spontaneità, le leggi della quale furono da noi indicate, e si possono ricapitolare così: 1) L' azione spontanea del senziente, ossia dell' istinto, è tanta, quanto più egli trova di facilità e di diletto nell' operare che nel non operare. Questa legge determina la quantità dell' azione . 2) Il modo dell' azione consiste nel volgere tutta la quantità d' azione, di cui fa uso, a perfezionare lo stato dell' animalità nei suoi tre elementi, cioè ad estendere la sfera del sentito, ad accrescere l' eccitamento, e a mantenere l' armonia e l' unità nel sentimento medesimo, e per conseguente l' organizzazione. 3) Questa tendenza della spontaneità del principio senziente a volgere la propria azione a perfezionare l' animale nei suoi tre elementi (sentito esteso, eccitato, armonico), può essere contrariata dal principio extrasoggettivo; nel qual caso nasce l' irritazione, causa delle malattie, che è la stessa forza della spontaneità, che si volge a combattere ciò che nuoce all' animalità per la stessa ragione, che ella tende essenzialmente a perfezionarlo. Quando la spontaneità dell' attività senziente vuole ottenere l' effetto d' accrescere il sentimento, o di ributtare da sè ciò che vi si oppone, allora ella mette in giuoco tutti quegli organi, e fa tutti quei movimenti, che a tal fine la possono condurre. Ma l' effetto, che ella vuole ottenere, talora è locale; e per ottenerlo ella deve dar moto ad organi e parti, che occupano altre località. Queste diverse parti, occupanti luoghi diversi da quello a cui si riferisce, come a proprio scopo, l' attività animale, sono la sede appunto delle simpatie. Ma incontra che, essendo il principio senziente sempre in attività, come esige la conservazione e il perfezionamento dell' animalità, gli avvenga di contrarre anche delle abitudini, si assuefaccia a muovere contemporaneamente certi organi per ottenere un dato effetto, di cui ha di frequente bisogno. Se poi gli accade di appetire un effetto, il cui ottenimento ha bisogno del moto d' alcuno di quegli organi, che egli è avvezzo di muovere insieme, allora non solo egli muove l' organo necessario all' effetto, ma gli altri ancora, che egli è avvezzo di muovere insieme, e ciò per abitudine. Il che nasce, perchè l' atto del principio senziente è semplice, movendo egli più organi, per dirlo colla frase scolastica, per modum unius ; l' atto poi con cui muove ad un tempo quel numero d' organi è diverso da quello, col quale ne moverebbe uno solo; ora ogni atto diverso il principio senziente deve imparare a farlo coll' esperienza; onde gli può riuscire più facile e piacevole tentare l' effetto coll' atto che muove più organi, alcuni dei quali inutilmente, che non coll' atto che ne muoverebbe uno solo, quello che fosse necessario. Il che certamente accade, se questo non l' ha imparato a fare e il primo sì, o se questo sappia farlo meno facilmente del primo. Come il sentimento continuo, il sentimento eccitato e il sentimento armonico ed uno, sono i tre modi generali del sentimento, e tutte le varietà appartengono all' uno o all' altro di essi, così anche le attività del sentimento si riducono a tre principali, corrispondenti a quei modi. Il sentimento eccitato ha già in sè il sentimento continuo, di cui è una esaltazione; il sentimento armonico ed uno ha in sè il sentimento continuo ed il sentimento eccitato, non essendo che la perfezione di quest' ultimo. L' anima intellettiva non si può unire che al sentimento armonico ed uno, e per mezzo di questo al sentimento eccitato, per mezzo poi del sentimento eccitato al sentimento continuo. Quindi nell' uomo vi sono tutti e tre questi sentimenti, ma il solo oggetto della coscienza è il sentimento armonico ed uno, fondamento dell' individualità animale. A noi pare che, meditando le relazioni di questi tre modi di sentimenti, si possa spiegare la località delle sensioni. Io provo in una mano una sensione piacevole o dolorosa; il movimento, a cui aderisce questa sensione locale, non è quello che si limita ai nervi della mano, dove la sensione ha luogo, ma appartiene principalmente al cervello, dove se niun movimento avesse luogo, niuna sensione proverebbe la mano. Perchè la sensione nella mano ha ella bisogno dei movimenti del cervello, che punto nè poco si sentono? Questa domanda contiene due questioni: perchè non posso io avere la sensione in una mia mano punta da un ago, se il movimento nervoso non si prolunga fino al cervello; e perchè, e come io sento il dolore della puntura nella mano, e non nel cervello o lungo il braccio, dove si continua il movimento delle fibre; che è la questione della località. Alla prima abbiamo risposto altrove, e qui ci basterà osservare che se il movimento nervoso venisse interrotto per modo che non giungesse al cervello, egli perderebbe l' armonia e l' unità con tutto intero il sentimento animale, allo stesso modo come se si dividesse il braccio dal corpo; e noi abbiamo detto che l' anima intellettiva non si può unire che al sentimento uno ed armonico, e però senza di questo non può avere coscienza d' alcun sentimento. La seconda questione poi, quella della località del sentimento, esige più estesa dichiarazione. La località comincia a sentirsi, quando noi percepiamo il corpo come uno spazio solido, limitato, figurato. Ma noi non percepiamo il nostro corpo limitato e figurato se non mediante l' esperienza extrasoggettiva, per la quale percepiamo le superfici del medesimo. In altre parole, il sentito non dà figura, nè luogo, nè parti al corpo nostro; ma solo il percepito, cioè quella forza extrasoggettiva, che fa sentire la sua azione nel sentito. Questa esperienza extrasoggettiva ci rappresenta il corpo in modo meramente fenomenale, il corpo che chiamammo corpo anatomico , e che è cosa assai diversa dal corpo reale , che immediatamente si sente (il sentito); ed anzi ha con questo delle disarmonie ed apparenti contraddizioni (1). Le località dunque appartengono al corpo percepito in modo extrasoggettivo e fenomenale. Ma dopo che noi abbiamo percepito in tal modo le località nel corpo extrasoggettivo, le applichiamo al corpo soggettivo; noi teniamo per regola dei nostri pensieri e delle nostre azioni quello, benchè fenomenale, e non questo, benchè reale. Come dunque riferiamo noi le sensioni soggettive alle località extrasoggettive? Il corpo locale e anatomico è il corpo a quel modo che lo vediamo, lo tocchiamo, lo assaporiamo, ecc.; è il composto di tutte queste nostre sensioni. Queste sensioni unite insieme ci danno la figura del corpo; e la figura di esso e delle sue parti (2) è quella che ci costituisce l' immagine del corpo; e l' immagine del corpo diventa la materia dell' idea volgare e comune del corpo, dietro la quale comunemente gli uomini ragionano ed operano; le località si riferiscono a questa figura immaginaria, che è una parte della sensione molteplice dell' universo esteriore. Le località dunque si riferiscono a questo corpo percepito così nelle nostre sensioni, e contemplato nelle nostre immagini; le parti di esso sono disegni, che si formano nella nostra sensitività esterna; è questa che concorre a formarle per noi, per la nostra cognizione. Dopo che le parti sono formate e disegnate mediante la nostra sensitività extrasoggettiva e superficiale, noi possiamo riferire e collocare in esse anche le nostre sensioni interne, non superficiali, e prive di una figura discernibile. Quando noi diciamo di sentire dolore in un piede, che altro facciamo con ciò, se non collocare il dolore in quella parte che si chiama piede , rappresentata a noi dalla percezione extrasoggettiva, e chiusa da superfici da noi percepite, che gli danno la forma? Il collocare adunque una sensione interna in qualche parte del corpo nostro, non è altro che percepire il rapporto, che ha la sensitività soggettiva e non figurata colla sensitività extrasoggettiva e figurata. Se la sensitività extrasoggettiva e figurata non mi avesse disegnato la forma del piede, io non potrei collocare in esso un dolore che sentissi; non saprei dire, nè pensare cos' è il piede che mi duole; questa parola piede non sarebbe inventata, nè la mia mente avrebbe ancora il concetto che quella parola significa, e che le vien dato dalla sensitività esterna. Ma perchè sentendo un dolore interno, io lo colloco verso la parte destra del piede, piuttosto che verso la sinistra? Certo io fo questo giudizio mediante il paragone con altre sensioni interne ricevute nel piede, perocchè avendo io già i confini del piede, che me ne disegnano la figura solida, e avendo così concepito questo solido, se nel solido stesso concepisco più sensioni, non è meraviglia ch' io possa riconoscere una di esse esser più vicina ad una data estremità del piede che l' altra, bastando a ciò che io confronti le diverse sensioni cogli estremi del piede, e fra esse. Quante più sensioni interne io intendo possibili prima di quella che mi segna l' estremità, tanto più giudico lontana dall' estremità una data sensione. Per altro questi giudizi sulle località delle sensazioni interne sono incerti, senza precisione, e spessissimo fallaci. La località adunque delle sensioni interne non è che un rapporto fra esse e le sensioni superficiali. Ma come si spiegano le sensioni extrasoggettive e superficiali? Che la sensione si estenda in superficie, questo è una conseguenza della maniera colla quale noi abbiamo detto prodursi l' eccitamento. Questo sorge quando le molecole animali si soffregano insieme; ora questo soffregamento non è che delle superfici, attesa l' impenetrabilità dei corpi. Se le piccole superfici delle molecole, dove nasce l' eccitamento, ne costituiscono una grande colla loro iustaposizione, in tal caso si ha una sensazione superficiale grande, più o meno distinta, come accade alle pareti esterne ed interne del corpo. Ma se l' eccitamento nasce in un gruppo di molecole, le cui piccole superfici non si continuino in modo da formare una superficie unica, e le dette molecole si soffreghino tra loro da tutte le loro faccie, allora nasce una sensazione confusa, in cui non si discerne una figura determinata, come accade in tanti sentimenti interni. Quindi in niuno dei sentimenti eccitati si sente precisamente e distintamente un vero solido, perchè l' interno delle molecole non è sentito che col sentimento di continuità; il che spiega perchè i dolori e piaceri sensibili, che avvengono all' interno del corpo, rimangano sempre, in quanto alla loro continuità, estensione e figura, senza alcuna precisione e distinzione. Rimane dunque solo a cercare come le superfici sensibili, a noi appartenenti, vengano da noi collocate in uno spazio solido, unite per modo da riuscirne una superficie sola, circondante un solido con tutte le sinuosità e prominenze, onde entra ed esce il corpo umano. Per spiegare questo, prima di tutto è da concedere che lo spazio immisurato sia dato dalla natura all' anima sensitiva, senza di che non si può spiegare nè questo, nè tanti altri fatti e leggi della natura (1). Di poi si rammemori che se l' uomo immobile fosse toccato in modo eguale da tutti i punti del suo corpo contemporaneamente, egli non percepirebbe ancora il suo corpo come uno spazio solido, nè distinguerebbe quando la sensazione superficiale s' incurva, quando rientra concava, e quando riesce fuori convessa. In una parola, senza il movimento attivo l' uomo non può percepire il solido; chè la solidità non cade nel sentimento, se non in quanto cade nel sentimento il movimento attivo (2). Il movimento dunque delle superfici sentite, questo movimento sentito anch' egli, gli stadi che egli percorre e che segnano il tempo e comparativamente le velocità, tutto questo fa sì che l' uomo collochi le proprie sensioni superficiali in luoghi determinati dello spazio solido, e così giunga a comporsi la percezione del proprio corpo, come di un solido perfettamente figurato. Nel tempo stesso che l' uomo fa questa operazione, colla quale produce a sè stesso la percezione solida e figurata del proprio corpo, egli va misurando altresì lo spazio dell' universo, e acquista la percezione dei solidi figurati, che in essa si trovano; tutto ciò mediante il movimento sensibile. Supposti adunque questi prodotti della sensitività esterna, possiamo far dare innanzi un passo alla soluzione delle località. Perocchè dato, come supponevamo, che ci venga punta una mano, la sensazione di questa puntura isolata, e per sè sola considerata, non ha località di sorte, ella non è più nel cervello che nella mano, che non esisterebbe per noi. Solo allorquando abbiamo percepito il corpo nostro come un solido rivestito di superfici sentite, noi collochiamo la puntura nella mano, nell' estremità della fibra nervosa, ed egli pare che la cosa accada così: abbiamo percepita la spina che ci punse, abbiamo osservato che, infiggendosi la spina nella mano, nasce il dolore; estratta la spina, il dolore diminuisce notevolmente, s' accresce toccandosi la ferita, e cessa col medicarla. Uniamo dunque il dolore colla causa che l' ha prodotto, e che lo rimuove. Ma la causa che l' ha prodotto, come pure quella che lo toglie, sono percepite da noi coll' esperienza extrasoggettiva, e quindi hanno località determinate dalla stessa sensitività extrasoggettiva. Perciò anche al dolore, fenomeno soggettivo, assegniamo il luogo stesso, gli assegniamo il luogo della sua causa extrasoggettiva. E questo ci è facile a farlo, perchè il dolore non avendo per sè località alcuna, non ricusa qualunque gli si dia: egli non esiste, come dicevamo, più nella mano che nel cervello, perchè mano e cervello sono parole esprimenti solidi extrasoggettivi. Ma lo spirito umano non ha nessuna ragione di unire al dolore la località extrasoggettiva del cervello, perchè il cervello non produce il dolore come forza straniera, a cui solo spetta la località, ma con un movimento organico soggettivo, dove località non apparisce. All' incontro egli ha buona e naturale ragione di associare il dolore colla causa extrasoggettiva e straniera; e questa, avendo località, aggiunge la località della medesima allo stesso dolore. Non è dunque, propriamente parlando, il dolore che s' aggiunge alla località, ma è piuttosto la località che s' aggiunge al dolore, e di sè lo veste, per così dire. Quindi avviene che in ragione che noi abbiamo una percezione più distinta di quella parte del corpo nostro, a cui è applicata la causa della sensione, anche a questa attribuiamo una località più distinta; e viceversa, la sensione rimane priva di località, quanto meno possiamo percepire la località della sua causa straniera o stimolante, cioè la parte del corpo a cui ella viene applicata. Ed è per questo che le sensazioni dell' occhio noi non le collochiamo distintamente nella retina, perchè non abbiamo della retina una percezione extrasoggettiva tanto distinta, quanto quella della cute, non potendo noi toccare la retina stessa e distinguerne al tutto le parti, come pure non potendo toccare la luce, che è lo stimolo straniero, e distinguerne le parti. La sensione quindi dell' occhio ci rimane come in aria, cioè non collocata distintamente in una parte del corpo nostro, fino a che col tatto noi le diamo un luogo; ma questo luogo non glielo diamo nel corpo nostro, ma là dove è la causa sensifera della sensazione del tatto, cioè nei corpi che noi tocchiamo. Medesimamente, alle immagini noi non assegniamo per loro luogo il cervello, perchè dell' interno cervello e delle sue parti non abbiamo la percezione extrasoggettiva, e non possiamo percepire extrasoggettivamente la causa interna, che lo muove e che produce l' immagine; la qual causa è organica, ma non sensifera. Le immagini dunque ci restano come campate in aria, o, per dir meglio, esse sono per noi come altrettanti corpi esterni. Sono sensioni, che collochiamo là dove le abbiamo prima collocate, quando avemmo le sensioni loro corrispondenti mediante la sensitività esterna. Rimane la questione della causa extrasoggettiva del dolore. Perchè il movimento vitale organico non presenta nessuna figura nel sentimento, e all' opposto la forza sensifera straniera segna nel sentimento una figura, e quindi fa nascere la località? Molti si sono studiati di descrivere il fenomeno extrasoggettivo del movimento sensorio. A me pare probabile congettura la seguente: il movimento sensorio esige molecole organate in un dato modo, di un certo numero e qualità di elementi. Queste molecole costituiscono un continuo, fluido o consistente non cerco (1). Gli elementi di esse sono mobilissimi, e così accordati che dividendosene alcuni da una molecola entrino a comporre la seguente, la quale lascia in libertà altrettanti elementi, i quali anch' essi alla loro volta si compongono con quelli della susseguente, che pure allo stesso modo si scompone; e così le scomposizioni e le composizioni si continuano in tutto il nervo fino al cervello, dove gli ultimi elementi che rimangono liberi, non trovando altre molecole con cui comporsi, ritornano ad abbracciarsi colla molecola a cui appartenevano, e succede in direzione opposta la stessa serie di composizioni e scomposizioni, rimettendosi il nervo nello stato di prima. Supposto questo giuoco chimico7organico7animale, se ne avrebbero i seguenti risultati: Il fenomeno della sensione avrebbe luogo quando la scomposizione percorse tutto l' organo sensorio. La sensione cesserebbe tostochè è finita la ricomposizione delle molecole. Rimanendo scomposte le prime molecole più a lungo di tutte le altre, vi sarebbe un' analogia fra il fenomeno extrasoggettivo e la sensione, per la quale questa più facilmente potrebbe attribuirsi ad una località; tanto più che tutte le molecole intermedie, scomponendosi e componendosi con celerità e continuità di parti, potrebbero conservare sempre la loro posizione, continuità e figura, giacchè di tanto entrerebbe in esse un elemento, di quanto ne uscirebbe un altro. Il fenomeno extrasoggettivo sarebbe così uno scuotimento dell' organo sensorio intero; condizione, come sembra, necessaria all' individuazione del sentimento, senza la quale non può l' uomo esserne consapevole. Come quando la scomposizione delle molecole sensorie comincia all' estremità esteriore per mezzo di qualche stimolo, rimangono per qualche tempo scomposte le molecole esterne, e si ha la sensione; così se la scomposizione comincia dal centro, cioè dal cervello, per virtù dell' istinto animale, la scomposizione dura qualche tempo nelle particelle dell' estremità interna, e si ha l' immagine; la quale, propriamente parlando, è illocale, perchè l' interno del cervello non si presta all' esperienza extrasoggettiva, che possiamo fare, quanto alle estremità esterne superficiali del corpo. Nel luogo, dove è applicato lo stimolo sensifero e incomincia la scomposzione, vi è violenza, perchè la prima scomposizione non accade per la spontaneità dell' istinto, ma per la forza esteriore; all' opposto le composizioni e scomposizioni successive seguirebbero senza violenza alcuna per la spontaneità dell' istinto; onde solo al cominciamento deve sentirsi la violenza, e non più nei movimenti successivi, benchè necessari a rendere individuale la sensione della violenza. Questa ipotesi dello spostamento intestino degli elementi della molecola sensoria senza che ella si disorganizzi, spiegherebbe dunque il perchè dove viene applicato lo stimolo, ivi esista propriamente la sensione; benchè questo ivi non diventi perciò solo una località, con relazione alle altre parti del corpo, se anche queste non le percepiamo allo stesso modo, e paragoniamo l' ivi di quelle coll' ivi di queste. Lo stato di spostamento, dunque, degli elementi delle molecole sensorie è ciò che dà alla sensione quanto le bisogna per essere poi riferita ad un luogo nell' esteso extrasoggettivo; e ciò perchè le molecole stesse sensorie, il nervo, il cervello, di cui parliamo, appartengono alla sfera dell' extrasoggettivo; onde quando diciamo che gli elementi delle molecole restano spostati, per esempio, all' estremità di un nervo, altro non diciamo se non che restano spostati e sentiti a quel luogo extrasoggettivo, che chiamiamo estremità nervosa. Ma che vuol dire molecole sensorie nel caso nostro? perchè fa bisogno che le molecole di tutta l' estensione del nervo, e quelle ultime del cervello ricevano il descritto moto e cangiamento di elementi? Abbiamo detto che la risposta conviene cercarsi nell' individualità dell' animale; l' animale non può sentire che ciò che entra nella sua individualità. Questa individualità, nell' ordine soggettivo, esige un sentimento unico, sede di tutti gli altri. Questo unico sentimento viene a dire un unico principio senziente e un solo sentito. Il sentito, in quanto è sentito7continuo, è unico, se non ha interruzioni; ma in quanto è sentito7eccitato è uopo che abbia un' unità armonica di movimenti, che virtualmente contenga tutte le sensioni accidentali, in modo che sia sempre lo stesso sentimento nei suoi diversi modi. Ora a questo fenomeno soggettivo d' un sentimento armonico d' eccitazione, nella sfera extrasoggettiva risponde l' organizzazione del cervello colle sue diramazioni nervose. Come abbiamo detto, la cagione di questa corrispondenza è irreperibile da noi, chè tutto ciò che percepiamo extrasoggettivamente è un mero fenomeno, oltre il quale non possiamo andare. Rimane dunque solo a constatare e descrivere il fatto dell' organizzazione come rispondente alla sensitività individuale, che nell' animale perfetto, e certamente poi nell' uomo, si osserva; il che è ufficio ampio e sottilissimo dei fisiologi. E quantunque la consapevolezza della propria individualità nasca nell' uomo dal principio intellettivo, tuttavia anche il bruto è individuo, consistendo la individuazione di lui in questo, che le sensioni abbiano lo stesso principio senziente; ossia l' attività, che in ogni sensione opera a produrla, sia la medesima (1); poichè, ciò a cui non si estende questa attività, è già fuori dell' individuo. Ma a questo principio senziente attivo risponde di fatto nella sfera dell' extrasoggettivo un' armonia di movimenti, e un cotal centro di essi, come già dicemmo altrove. Riassumendo dunque: Nè il sentimento fondamentale, nè le sensioni hanno località. Tra le percezioni della forza straniera (dei corpi esterni) ve n' ha una classe di superficiali , percezioni d' uno spazio superficiale. Questi spazi superficiali non hanno località, se si considerano in relazione col principio senziente; non si può dire che sieno nè dentro, nè fuori di lui, nè lontani, nè vicini, ecc., perchè egli non ha luogo affatto, e quindi niuna relazione locale con lui si può pensare. Ma questi spazi si uniscono e si continuano fra loro, ed allora essi acquistano una località rispettiva , cioè uno di essi, o una parte di essi, è di qua, o di là, ecc., d' un altro continuato con esso, o con una sua parte. Quando s' aggiunge il movimento attivo dalla parte dell' uomo, allora queste superfici pure, movendosi in tutti i sensi, prestano all' uomo il sentimento d' uno spazio solido determinato. La continuità delle superfici da tutti i lati e il movimento fanno sì che l' uomo percepisca il proprio corpo, i corpi esteriori e lo spazio con misura; e quindi che: 1) le parti del proprio corpo vengano ad avere un posto, una località rispetto al corpo divenuto un' estensione solida; 2) che al tempo stesso quell' estensione solida acquisti una località rispetto a tutti i corpi circostanti, e 3) ad ogni punto immaginato nello spazio. Così è creato nell' umano sentimento il corpo solido, i luoghi e gli spazi esterni; allora ogni sensione soggettiva si colloca in uno di quei luoghi determinati nell' estensione extrasoggettiva, e ciò si fa col percepire extrasoggettivamente la causa esterna e violenta della sensione. Questa causa, essendo un sensifero, un corpo straniero, e venendo collocato, quando produce con violenza la sensione, in un punto del corpo nostro extrasoggettivo, noi collochiamo la sensione lì appunto, dove abbiamo percepita quella causa. Quindi, quando ciò non si avvera, quando non percepiamo extrasoggettivamente la causa della sensione, o il luogo, dove ella si applica (nè coll' immaginazione possiamo supplirvi), non sappiamo più collocare al posto della causa la detta sensione, come accade nelle sensioni visive, o nelle interne, le immagini. Percepire la causa della sensione (il corpo esterno che stimola il senso) è percepire il luogo dove la causa viene applicata. Se noi cerchiamo qualche legge generale che determini questo luogo, troviamo che esso è determinato dalle due estremità nervose, l' esterna e l' interna nel cervello; e ciò probabilmente perchè nel movimento sensorio quelle estremità soffrono violenza, onde si alterano fisiologicamente nella composizione delle loro molecole sensorie; quando le molecole intermedie, benchè nasca un tramutamento di elementi, conservano intatta la loro composizione elementare, e il tramutamento è spontaneo e non violento (1). Troviamo ancora che la centralità del cervello risponde alla condizione dell' individuazione del sentimento, contribuendo essenzialmente all' unità armonica del sentimento fondamentale d' eccitazione; perocchè in tutte le sensioni il principio attivo senziente deve essere il medesimo. Pare dunque che al principio senziente, della cui attività sono modi le sensioni, rispondano nell' ordine extrasoggettivo i moti cerebrali, cioè che allora egli intervenga a sentire la sua attività, quando i detti moti sensori s' avverano. Ma questi stessi moti , in quanto hanno natura di moti, non cadono nella sensazione soggettiva , chè questa non ha proprio luogo, nè proprio spazio; e quando quelli si potessero osservare, l' osservazione darebbe un extrasoggettivo, e non più. La spiegazione data fin qui delle località è tratta dalla natura dell' animale; perciò ella conviene tanto alle località che si manifestano nel corpo umano in istato di salute, quanto a quelle che si manifestano nel corpo umano in istato di malattia. Venendo ora a dire qualche cosa di speciale circa le località patologiche, non abbiamo che ad accennare alcuni accidenti, i quali, determinando in modi diversi l' attività del principio senziente, le fanno comparire piuttosto in una parte che in un' altra del corpo extrasoggettivo. Mettiamoci innanzi il corpo, quale se l' ha formato l' uomo coll' uso dei suoi sensi esteriori, quale tutti noi adulti l' abbiamo presente, a cui prestiamo cieca fede, e su cui si fondano tutti i ragionamenti comuni intorno al corpo. Il primo fenomeno che ci si presenta occasionato, per esempio, da una contusione nel braccio, si è quello d' un dolore, che invece di farsi sentire alla sola estremità esterna, dove fu applicata la causa violenta, si propaga lungo tutto il nervo. - Convien dire che lo spostamento degli elementi componenti le molecole sensorie, di cui il nervo risulta, non sia in tal caso violento solamente al luogo dove fu applicato lo stimolo, unendo poi il movimento sensorio spontaneo, ma che la violenza stessa si sia propagata, e la scomposizione e ricomposizione non avvenga regolarmente. Altro fenomeno morboso è la durata del dolore in un luogo. - Convien dire in tal caso che la scomposizione delle molecole si ripeta continuamente con un movimento disordinato, oscillatorio, e più o meno frequente. Nei dolori vivi si sentono pulsazioni dolorose somiglianti a quelle del polso, e forse sono le dette oscillazioni violente dei movimenti elementari, che si descrivono nello stesso sentimento; a tener viva la quale oscillazione deve certamente concorrere il frequente battito del sangue, il che più manifesto apparisce nei dolori acuti di testa, che vanno a colpi frequenti, e che sembrano spezzarla. I dolori si trasportano da un luogo all' altro non solo successivamente, come avviene propagandosi l' infiammazione, ma ancora per salto. - Qualora un dolore si manifesta in un luogo per cagione di ferita, d' infiammazione od altro, concorre a produrlo in quel luogo tutta l' attività del principio senziente, che lotta nel modo che abbiamo indicato. Ma questa attività universale del principio senziente, sollevata alla guerra e producente il primo dolore locale, opera variamente in tutto il corpo, e lo altera. Ora questa azione in tutto il corpo, e le alterazioni che vi produce, sono determinate, in quanto al modo ed agli effetti, dall' organizzazione, che risponde all' unità armonica del sentimento, e prima dall' organizzazione nervosa, poi dall' organizzazione vascolare, e dalla qualità e quantità dei fluidi, e finalmente dalle leggi delle simpatie. A ragion d' esempio, un forte dolore accelererà il corso del sangue e produrrà la febbre, o anche infiammerà il sangue, alterandone la composizione. Acciocchè si manifesti un dolore in un dato luogo del corpo, in conseguenza d' un altro dolore precedente in altro luogo, basta che per l' azione universale del principio senziente vengano in quel luogo eccitati violentemente i nervi, sicchè ne segua lo spostamento di elementi con tendenza d' uscire dalla loro sfera. Cosa è il pizzicore che si sente al naso, quando si patisce di vermi? Non altro se non che un cotal movimento nel sistema nervoso, che si propaga dagli intestini al cervello, e dal cervello al naso, ma in modo che in quest' ultima estremità nasce appunto quello spostamento sensorio degli elementi, dato il quale ha luogo, secondo l' ipotesi da noi proposta, la sensazione. Dato dolore in un luogo, egli sorge in molti altri luoghi. - La spiegazione è simile a quella del fenomeno precedente. Un' affezione universale produce un dolore locale. - Succede anche questo pel medesimo giuoco. Sensione di dolore per un male, che è in altra parte, dove non cagiona dolore avvertibile. - Baglivi fa la storia della malattia d' una donna, che soffriva acuti dolori in un rene; nella sezione del cadavere si trovò sano il rene, dove accusava il dolore, mentre l' altro conteneva un calcolo. Il principio animale operava in entrambi per quella legge, secondo la quale nelle parti doppie simmetriche vi è una passione e un' azione unica. Pure nel rene, dove stava il calcolo, non si manifestava la sensione in modo avvertibile, forse perchè ivi non si operava lo spostamento degli elementi, venendo impedito dalla stessa condizione morbosa, dalla presenza del calcolo, che tratteneva l' oscillazione elementare, mentre nell' altro rene sano avveniva. Alterazione della sensitività, del gusto, del tatto, ecc.. - Questa suppone, nell' ipotesi che noi facciamo, una diversa composizione delle molecole sensorie. Se il senso rimane alterato di qualità, sicchè il sapore d' una sostanza, a ragion d' esempio, sembri un altro sapore, è probabile che gli elementi abbiano presa un' attitudine a spostarsi nella molecola sensoria, in modo diverso dall' ordinario. Se l' alterazione è solo nel grado della sensitività, senza che la sensione varii di qualità, il fenomeno può dipendere dalla mobilità dei detti elementi, come pure dal trovarsi i nervi meno protetti contro lo stimolo. Si sono vedute femmine non poter toccare una stoffa di velluto, senza cadere in isvenimento; talmente la sensazione della cute della mano eccitava il principio sensitivo, e questo operava in tutto il sistema nervoso e sul vascolare (1). Il sistema ganglionare divenuto atto a dare sensioni osservabili. - Di questo fenomeno è a dire il somigliante che del precedente. Sia alterazione nella composizione elementare, sia mobilità maggiore e maggiore comunicazione col sistema cerebrale e col vascolare; il sistema ganglionare si rende atto ad ammettere lo spostamento sensorio degli elementi, o acquista lo stimolo opportuno, che non aveva prima. Fin qui della località delle sensioni. Parliamo ora della località dei movimenti e fenomeni morbosi, che ne conseguono. Le località di questi movimenti e fenomeni morbosi ricevono la stessa spiegazione di quella delle sensioni, perocchè movimenti precedono e movimenti susseguono alle sensioni; sicchè movimenti e sensioni sono legati egualmente alle località. Ora tutti i fenomeni morbosi sono accompagnati o costituiti da movimenti. Egli sembra che le febbri d' ogni genere si possano riportare ad una di queste due cause, o ad un' affezione del sistema nervoso, o ad un' affezione del sistema vascolare (1), l' uno dei quali non manca però mai di sconcertare più o meno l' altro. La località è determinata dallo stimolo primitivo violento, e quindi appresso dalle simpatie , che ricevono varie modificazioni dalle accidentali varietà dei tessuti organici e dell' intero organismo. Talora l' organo, che soffre simpaticamente, rimane gravemente ammalato, quando il primo, irritato, soffrì leggermente. Così il freddo, operando esternamente sui tegumenti, cagiona infiammazioni al petto, agli intestini, alla vescica, ecc.. Rimarrebbe a parlare delle località terapeutiche, cioè dell' applicazione e dell' azione delle sostanze terapeutiche in determinate parti del corpo, e dei loro effetti in certe altre, o rispetto alla condizione universale; ma la loro spiegazione dipende dagli stessi principŒ. E` degno d' osservazione che le medicine rare volte si applicano alla parte ammalata; per lo più si affidano alle membrane mucose gastriche. Quindi le località, a cui trasmettono l' effetto della loro azione, sono determinate in gran parte dalle simpatie e da quelle cause accennate di sopra, che alle simpatie danno questa o quella direzione speciale e locale, principalmente poi dalle diramazioni nervose e vascolari, e dalle leggi con cui operano questi sistemi (1). E qui basti. Chè questo libro delle leggi dell' animalità, dove si disse tanto poco d' un subbietto senza confini, sarà parso lungo a quanti, cercando nella Psicologia esclusivamente la dottrina dell' anima intellettiva, non intendono che ella è condizionata alla dottrina del principio sensitivo. Il qual vero si tentò da noi di porre in evidenza, e tuttavia non ci confidiamo d' averne persuaso ogni fatta di persone. I medici, non senza qualche ragione, ci garriranno: come avete voi messo la falce nella messe altrui? Di che v' è occorso di dire molte cose inesatte, molte erronee. - Non ho che ad impetrare la loro indulgenza; emendare l' inesatto, cancellare il falso, mi sarà gratissimo; potrebbe essere che avanzasse ancora qualche cosa di buono; i più dotti, sempre più indulgenti, forse lo raccoglieranno. Dirò a tutti i professori dell' arte salutare, siccome pure a tutti gli studiosi di Psicologia, quale fu il mio intendimento. Nei moderni tempi gli scienziati hanno diviso l' uomo in due, alcuni tolsero a parlare dello spirito, altri del corpo; a ciascuna delle due parti parve possedere tutta la scienza, e contese coll' altra, e la dispettò, e il dispetto, tenendo luogo di ragione, divise maggiormente le due fazioni. Che ne fu? Invece di avere una scienza sola dell' uomo, se ne ebbero due, contenziose, contradittorie, inimicissime. L' una, e la meno rea, fece dell' uomo un cotal angelo tutto spirituale, che per un cotal miracolo moveva un corpo; all' altra metà restò la materia, la quale anch' essa, per un miracolo molto maggiore, s' animava da sè stessa, e sapeva fare tutto ciò che fa lo spirito. A noi parve desiderabile che cessassero cotali dissidi, e l' uomo riacquistasse nella scienza l' unità che ha nella natura, toltagli dagli imperfetti e fallaci metodi di studiarlo, seguitando i quali, quelli che da due secoli filosofarono intorno all' uomo, nè poterono mettersi in accordo, nè giungere al bramato conoscimento dell' essere umano; chè nè l' uomo dei medici, nè quello di alcuni psicologi è veramente l' uomo. L' intendimento dell' opera presente non ci sembra aver bisogno di maggiore dichiarazione; e speriamo che pure quei savi, che professano l' arte salutare, non lo vorranno biasimare, scuseranno ciò che vi è di imperito nel nostro audace tentativo, pregiando la bontà del fine; s' accorgeranno che colle scorse da noi date nella scienza da essi valorosamente coltivata, abbiamo voluto (non diciamo di essere riusciti) restituirle quell' onore, di cui fu spoglia da tanto tempo, che da lei dipendesse la scienza dell' anima, ed anzi ne fosse gran parte; sicchè d' ora in avanti non si possa più riprendere nè il psicologo, che s' addentra in alcune fisiologiche dottrine, nè il fisiologo o il medico, che ragiona dell' anima, quasi movessero i passi nell' altrui campo. L' uomo è uno; le due scienze sono una; la loro conciliazione ed unione prepara la perfezione dell' unica vera scienza dell' uomo. Le cose toccate in quest' opera, principalmente nell' ultimo libro, e attenenti alla medicina, mi acquisteranno forse riprensione e biasimo da una maniera di persone più gravi ancora. Convengono ad un sacerdote gli studi laicali? Come perdersi in scienze tanto aliene dalle sacre dottrine? Come scendere ad investigazioni sì basse e palustri inverso alle vette altissime dei monti santi? - Avrei a rispondere assai più cose che non possano capire in queste estreme pagine, le quali debbono chiudere l' opera, e non aprirla a nuova materia di ragionare. Ma potrebbe bastare anche ciò che pur ora dicevo, aver bisogno la scienza dello spirito di molte dottrine riguardanti l' animalità, senza le quali quella si rimarrebbe imperfetta; più imperfetta ancora si rimarrebbe la scienza dell' animalità, segregata da quella dello spirito, chè rimarrebbesi materiale, e il guardarla dall' ignominioso materialismo non deve essere desiderabile, anzi propria sollecitudine dei teologi cristiani? Pure quand' anche non vi fosse la necessità, che è pur così manifesta, di aggiungere lo spirito all' argilla effigiata dei fisiologi e dei medici moderni, non mi pentirei d' avere indicato, o almeno d' aver voluto indicare, ove la medicina moderna nella cura dei morbi vada traviando: quali errori sistematici la danneggino sì fattamente da farle perdere il fine di guarire le infermità, o almeno di alleggerirle ai mortali. Perocchè non la sola verità, ma con essa la carità è principale ufficio del sacerdote cattolico, ed ella è voce oggimai universale e da niun savio, benchè professore dell' arte medica, contrastata, che quest' arte sia ridotta a pessima condizione; anzi i medici più valenti dell' età nostra sono quelli appunto che ne mandano più lamenti, e i soli mediocri la difendono. Chi può numerare le migliaia d' uccisi da quell' ostinazione di restringere l' arte salutare a non dover far altro che misurare la quantità dello stimolo, e trovare se ecceda ovvero difetti, trascurando così di tener conto di tutte le innumerevoli circostanze, che rendono uno stimolo opportuno ovvero inopportuno? Perocchè si riduce forse a questo la principale differenza, che allontana cotanto la nuova medicina dall' antica. L' arte nuova vanta grandissima semplicità, si fa una sola questione: se ecceda o difetti lo stimolo; qui finisce per non pochi la medica sapienza. L' antica incominciava: « l' arte è lunga, la vita breve, il tempo precipitoso, l' esperimento arrischiato, difficile il giudizio »; tanti erano gli accidenti, così variabili, così fuggevoli, così complicati, che ella stimava dover sagacemente osservare, giustamente calcolare, prima di concludere quale fosse la cura più opportuna d' una malattia. Che ora esca una voce dal tempio, e s' unisca a tante altre per domandare la riforma, la restaurazione di un' arte, che, in fiore, salva molte vite in pericolo, decaduta, ne trae molte ella stessa in pericolo, molte ne perde, non deve parere indecoroso, nè maraviglioso a chi sa il cristiano sacerdozio essere istituito ad alleggerire all' umanità tutti i mali, procurarle, accrescerle tutti i beni. A chi poi lo ignora, e però stupisce e si scandalizza che noi ci avvolgiamo in medici studi all' intento di ravviarli, con isforzi maggiori forse del potere, su quel diritto cammino, da cui tanto s' allontanarono, diremo così: niente c' importerebbe sapere di medicina, non vorremmo consacrarle alcuna parte del breve nostro tempo, se non fosse stato Uno, che avesse pronunciata questa parola: « amatevi l' un l' altro »; quell' Uno, che solo fra quanti hanno loquela, sa chiaramente parlare nel fondo del cuore. Niuna maraviglia che dopo quella solenne ed efficace parola i sacerdoti cattolici scrivano anche di medicina; quella parola fece fare agli uomini troppe altre cose maggiori, e molti non si ricusarono di parere e d' essere trattati da pazzi, per non disubbidire a quell' accento divino. Giudicateci tali; quella parola ci necessita ad accettare il vostro giudizio in pace. Ma ora, per conchiudere finalmente il lungo nostro lavoro, e in qualche modo ricapitolarlo, la natura dell' anima semplicissima, e l' indefinitamente molteplice sviluppo della sua meravigliosa attività diedero argomento alla prima ed alla seconda parte dell' opera. Vedemmo nella prima parte come l' anima sia una in ciascun uomo, com' ella sia il principio semplice di tutte le operazioni umane, come sia sostanza e in pari tempo principio d' un sentimento, come questo principio sentimentale e sostanziale sia intellettivo, come questo principio intellettivo abbia un' immediata e immanente percezione d' un corpo vivente, come, mediante questa percezione immanente, egli si compenetri col principio sensitivo, e ne risulti un solo principio intellettivo e sensitivo, avente un doppio termine d' azione, l' inteso, essere ideale, e il sentito, corpo soggettivo; e quindi acquisti condizione di principio razionale , nel quale è messo in essere l' uomo. Questo principio razionale percepisce sè stesso nell' essere ideale, e così acquista la coscienza, e, reso consapevole, si esprime col vocabolo IO . La percezione di sè è il principio della Psicologia , e perciò questa appartiene alle scienze di percezione ; ella si rinviene e si svolge coll' osservazione interiore di ciò che si contiene, permane, e cangia nello stesso IO , e dell' ordine in cui stanno fra di loro gli elementi che lo costituiscono. Niuna concrezione di materia entra nell' anima umana, e però è spirituale; il suo termine primordiale è l' essere, di natura eterna ed infinita; quindi, sebbene ella possa perdere il termine corporeo, con che dicesi che l' uomo muore, perchè se ne separano quelle due parti ond' egli risulta, tuttavia l' anima stessa intellettiva è immortale, ed ha un' ordinazione all' ente infinito. Con questo lieto risultato chiudemmo la prima parte della Psicologia . Aprimmo la seconda coll' indagare in che modo quelle tante attività dell' anima, che nelle sue passioni ed azioni si manifestano, giacciano da principio tutte contenute, e quasi dormienti, nella semplicissima essenza, e come si sveglino poscia, e da lei si distinguano: ricerca che ci obbligò d' entrare in alcune questioni ontologiche, le quali si sarebbero da noi potute non poco abbreviare, se ad una scienza ontologica già formata avessimo potuto riportarci. Ma l' Ontologia è per anco quella scienza, che di tutte rimane più imperfetta, come di tutte è più ricca. Trovammo dunque nella semplicità dell' anima una molteplicità, organata ed armonica, quasi a lei aderente; ma che non penetra in essa per modo da discioglierne l' unità e la perfetta semplicità. Vedemmo che l' anima, unico principio, si pone in atto mediante una pluralità di termini, che la attuano diversamente, senza perciò moltiplicarla, anzi rimanendo ella identica in tutti i diversi suoi atti, quasi vertice o centro di più angoli; e quindi trovammo la via d' accordare la molteplicità delle attitudini colla semplicità del principio; dalla considerazione poi di quei diversi termini deducemmo, ordinate e classificate le molteplici attività, potenze e facoltà umane. Ma tutte queste attività conservano nel loro operare delle leggi costanti e meravigliose, e per entro a questa nuova investigazione, quasi in non mediocre pelago, non dubitammo di sospingere pure la nostra navicella. Volendo noi dunque svolgere e descrivere le leggi, secondo cui operano costantemente le umane potenze, anche qui, innanzi d' ogni altra cosa, cercammo di tutte quelle leggi la prima ragione ed origine nell' essenza dell' anima, d' onde di mano in mano le facemmo poscia tutte uscire. L' ultimo libro finalmente, che tratta delle leggi dell' animalità, noi l' aggiungemmo come appendice, chè quelle non sono propriamente leggi dell' attività umana, ma leggi, a cui questa è quasi di continuo condizionata e mirabilmente connessa. Ora poi qual' è l' ultimo intento, quale il desiderabile effetto di così varie e di così sublimi attività, di cui fu ornata dal Creatore l' anima umana? Quale è il naturale voto di lei? Che destino le fu assegnato da Colui che le diede l' essere? In sapere questo solo sta veramente il frutto maturo della dottrina intorno all' anima, il quale non fu ancora da noi raccolto. I nostri lunghi ragionamenti ci avranno dunque condotti alla porta del giardino, senza potervi entrare? E fino sotto alla bella pianta, senza che ci sia dato di spiccare la rubiconda e saporosa poma che vi dipende, per cibare la quale prendemmo il faticoso viaggio? - Non si deve pretendere che una scienza bene ordinata mostri il suo utile risultamento, prima ch' ella sia pervenuta alla fine; nè veramente nella dottrina delle attività e leggi, colle quali l' anima si sviluppa ed opera, finisce la Psicologia ; fino dal cominciamento, noi avvisammo che la cosa di tutte importantissima e nobilissima, che le rimane ad investigare, è la destinazione stessa dell' anima. Perchè dunque fermar qui il passo? Perchè chiudere questa opera, senza toccare il suo termine, al quale sempre riguardando, si fece tanto cammino? - Il lettore, crediamo noi, non ne andrà scontento, ove egli consideri che, quantunque a diverse scritture noi abbiamo posto titolo diverso, e ciascuna dimostri un cominciamento ed una fine, tuttavia elle non sono più che parti, ovvero brani di una sola e medesima scienza, niuno dei quali è compiuto in sè medesimo; chè una è la Filosofia , una la scienza; onde il ripartirla in più libri e ordinarla sotto diverse intitolazioni si fa per alleggerimento di fatica agli studianti, i quali di un' opera lunghissima e pressochè interminabile potrebbero pigliare sgomento o fastidio. Al che riflettendo, neanche la presente trattazione psicologica parrà imperfetta e tronca a chi la voglia raggiungere colla Teosofia e coll' Antropologia soprannaturale , trattati che, a Dio piacendo, e favorendoci il tempo, comunicheremo al pubblico, il primo dei quali è via al secondo, dove dei destini dell' anima umana ci converrà distesamente ragionare. Toccammo già del perchè abbiamo creduto conveniente ed anzi necessaria questa dilazione. L' anima umana è un' intelligenza; ciò vuol dire, ha tal natura che l' oggetto per essenza, l' essere eterno, di continuo le si manifesta, ed indi ella trae l' atto dell' esser suo. Questa altissima relazione essenziale, che da parte dell' eterno oggetto dicesi manifestazione , da parte del soggetto intuizione , crea l' anima, che è il soggetto intuente. Affissata nell' essere eterno e divino, ivi ella tiene la sua naturale sede; ella è nell' essere; dove si vede qual parte di vero contenga la sentenza di Nicolò Malebranche, che Iddio è come « il luogo delle intelligenze ». Nulla mancherebbe alla piena verità di questa sentenza, se l' illustre filosofo che la proferì, avesse saputo accuratamente distinguere il concetto di Dio e il concetto di ciò che è divino. Dimorando dunque l' anima intellettiva nell' essere divino e sempiterno, quasi ivi innaturata, non mai confusa, è manifesto che da quell' essere, onde si origina ed ha l' essenza e l' esistenza, e onde non si può partire intieramente giammai, che, se indi si dipartisse, s' annienterebbe, ella deve ritrarre altresì ogni suo perfezionamento ed ogni suo compimento. Tanto più che ella, essenzialmente intelligente, non è congiunta, nè comunica immediatamente con alcun' altra cosa; comunica con tutte soltanto per mezzo dell' essere, a cui è affissa, pel quale conosce; chè gli enti sconosciuti non sono alla intelligenza. Ed intelligenza è l' umana persona; sicchè l' essere sempiterno, che naturalmente la illumina, è per esso lei quel mediatore che alle cose tutte la congiunge, e le cose a lei; e però l' anima intellettiva, siccome ogni altra intelligenza, in questo essere manifesto e manifestante ha tutto quello che ha, da questo tutto riceve, questo le dà tutte le altre cose. Il che rende manifesto come l' anima non sia il bene di sè medesima, anzi il suo bene sia un diverso da sè, chè dimora nell' eterno oggetto, nell' essere infinito, nel lume, che la fa essere anch' essa lume, e le dà tutto ciò che ella può ricevere, le acquista tutto ciò che ella può acquistare. Ragionare dunque convenientemente e, in qualche modo, pienamente della perfezione e della destinazione dell' anima non si può, senza uscire da lei; conviene che il discorso si spinga con ardire a più sublime argomento, che s' innalzi fino alla divinità; conviene che abbandoni per qualche tempo l' anima, e dopo investigate le cose divine e Dio stesso, quanto all' uomo è conceduto, a lei faccia ritorno. Come l' anima dall' essere eterno, nel cui seno ella dimora perpetuamente, può derivare a sè la propria perfezione? E può ella indi derivarla da sè medesima? Da parte del medesimo essere si esige forse qualche nuova meravigliosa, misteriosa operazione? Tutte ricerche, che trapassano il breve confine della semplice Psicologia. Il che dimostra a sufficienza che questa, siccome tutte le altre scienze umane, per sè sola è imperfetta, nè si può perfezionare, se non oltrepassa i confini della propria limitata sfera, e non si continua con altre scienze maggiori di lei, che, lasciandosi addietro l' universo creato, ne trovano il Creatore, il quale come dello stesso universo è il principio e la causa, così ne è anche il fine, la ragione, il perfezionamento, l' eterna sublimissima destinazione. Per questo noi giudicammo del tutto necessario riserbarci a parlare intorno ai destini dell' anima umana nell' Antropologia soprannaturale, la quale deve tener luogo dell' ultima parte, e del glorioso fastigio della Psicologia. Essendomi io, o Giuseppe dolcissimo, fino dai primi miei anni, come è conveniente che ogni uomo faccia, dato discepolo alla verità in primo, e poi al senso comune degli uomini (tutti rispettandoli io siccome esseri dotati del divino lume dell' intelligenza), procurai di raccogliere le loro sentenze, quando o ce le tramandarono se passati, o ce le esposero se presenti, sopra quegli argomenti che più importano al retto pensare ed al ben vivere, sollecito d' intendere, quanto per me si potesse, il fondo dei loro pensamenti, anzi che di fermarmi alla corteccia delle parole, di cui li rivestirono. E così io trovai, non senza soddisfazione dell' animo mio, che essi furono più consenzienti fra loro nell' opinare intorno alle cose sostanziali e necessarie, di quello che ne pare nel primo aspetto, ed anche più talvolta che non credessero per avventura essi medesimi. Onde, sapendo quanto studio tu ponga nella filosofia, e quanto altamente apprezzi quelle parole degne di un oracolo, «gnothi seauton», io ti mando qui brevemente esposte le principali opinioni dei filosofi e degli stessi popoli sulla natura dell' anima, accompagnate da qualche mia osservazione benevola ai loro autori, e conciliatrice; persuaso che tu accoglierai questo tenue lavoro, siccome segno del mio affetto, e fors' anche esso ti potrà prestare qualche utilità nell' istituzione dei giovanetti, che dànno opera alle filosofiche scienze, nella quale tu assiduamente ti occupi; o, se in questo io m' inganno, atteso che la tua erudizione non abbisogna di straniero soccorso, esso mi procaccerà almeno da te qualche ricambio, che gioverà a me stesso. Io dunque narrerò i pensamenti e le opinioni principali sulla natura dell' anima umana, tenendomi, quasi a filo conduttore, a quel principio degli Eclettici, che « « tutti gli errori degli uomini hanno un cotal lato vero e un cotal lato falso, e che come il lato vero ha per causa l' aver essi osservato qualche cosa della natura, così il lato falso ha per causa l' avere ommesso di osservare qualche altra cosa », » subentrando in mezzo la prontissima fantasia a supplire alla manchevole osservazione, sì fattamente che, in generale parlando, riesce vero ciò che vi è negli umani pensieri di positivo, e riesce falso ciò che vi è di negativo, di esclusivo, e di arbitrario. Il qual principio, dove si applichi a comporre un sistema filosofico, siccome fuori di luogo (e questa importuna applicazione è l' errore degli Eclettici), riesce sterile e illogico, perchè nelle dottrine non può discernere il vero dal falso colui che già prima non possiede il vero, qual tipo al cui riscontro il falso si riconosce; ma esso diviene ottimo, applicato alla storia dei placiti filosofici, la quale non può essere convenevolmente trattata, se non dopo che la filosofia stessa sia trovata e sufficientemente stabilita; chè solamente con questa si può giudicarli equamente, ed anche ridurli a qualche concordia, da variatissime e discrepantissime sentenze cavando un solo tutto, legato in meravigliosa unità. Ma poichè le opinioni antiche sono quelle che io voglio principalmente riferire, descrivendole più da filosofo che da storico, perciò mi si conviene avvertir prima d' ogni altra cosa, che le antichissime a noi non pervennero se non in minuti frammenti, quasi logore e scarse rovine di venerandi edifizi, e che la lingua antica in cui sono espresse, siccome assai sintetica (conciossiachè la facoltà dell' analisi non si svolse che pel corso dei secoli), dovette esprimere i concetti indistinti, come essi erano nelle menti, ed anzi più; di che sembra che voglia esserci conceduto dagli uomini discreti l' interpretarli per modo da cavarne un senso ragionevole, benchè assai spesso lo faremo più per modo di congettura che di fermo pronunciato. Ora, prima di tutto, ecco ond' io crederei poter dedurre un principio, il quale mi guidasse a classificare le diverse sentenze, che gli antichi seguitarono intorno alla natura dell' anima umana. Quasi anelli d' una catena le cose dell' universo sono annodate insieme, sicchè il primo anello è la materia; il secondo l' anima sensitiva, che la sente e percepisce; il terzo l' anima intellettiva, che percepisce il sentimento; il quarto l' essere, che risplende nell' anima intellettiva e le giova di mezzo universale a conoscere; il quinto è Dio, che è lo stesso essere assoluto, prima e suprema origine di tutte le cose precedenti. In questa ammirabile catena, che tiene sospeso al cielo tutto l' universo, sta come anello medio l' anima intellettiva, la quale si trova legata ai due primi pel senso, e si trova legata ai due secondi per l' idea e per l' influenza dell' Ente sussistente, dove l' idea ha la sua propria sede e sempiterno domicilio. Ora quegli uomini, che incominciarono a domandare a sè stessi « che cosa sia l' anima », volsero certamente la loro attenzione e la loro curiosità all' anima intellettiva; perocchè l' uomo che toglie a riflettere su di sè, non può partire che dall' Io (1), e nell' Io è già contenuta l' anima intellettiva. Ma quell' anima, essendo inanellata, come dicevamo, da una parte colla materia e col senso, dall' altra coll' idea e con Dio; nè potendosi ella distinguere, se non da una mente già addestrata all' attenzione ed all' osservazione analitica, la quale mancava ai primi pensatori, nè si educa che col tempo; doveva necessariamente avvenire che il concetto di lei si confondesse nelle loro menti coll' una o coll' altra di quelle quattro cose, che non sono lei, ma sono legate intimamente con lei. Quindi dovettero uscirne, e ne uscirono veramente, quattro classi di sistemi erronei, i quali riferirono la natura dell' anima, ora alla materia, ora al senso, ora all' idea, ed ora a Dio stesso. Come poi si potrà sciogliere e sceverare dentro a cotali sistemi erronei quella parte che sta in essi di verità? Questo da noi si potrà ottenere, considerando che gli autori di quei sistemi osservarono bene quelle cose che sono legate coll' anima, e in quell' osservazione si trova la verità; ma poscia tralasciarono di osservare che quelle cose, da essi osservate, non erano l' anima che intendevano definire, e in questa disattenzione sorse la falsità. L' aver essi adunque tralasciato di osservare le differenze, che separano dall' anima le cose che sono all' anima congiunte, ecco il fonte di tutti i loro errori. Questo è il solito procedimento della mente umana, che prima apprende le cose tutte insieme, e poi le distingue. Il movimento libero dell' intendimento umano cominciò nell' Asia minore, nella stirpe jonia; il primo oggetto che s' offerse a quella speculazione si fu la natura materiale. E così doveva essere, perocchè la prima operazione naturale della ragione si è la percezione dei corpi; dunque l' oggetto di questa, il corpo, doveva essere altresì trasportato il primo nella sfera della riflessione filosofica. L' impulso e l' occasione d' un tale movimento venne dalla corruzione delle verità tradizionali intorno a Dio massimamente, le quali degenerarono nei miti e nell' idolatria. Perduta la scorta sicura della primitiva rivelazione, l' uomo fra le genti sentì il bisogno di cercarne un' altra, e sperò di trovarla nel libero esercizio del proprio pensiero, e così da discepolo stato fino allora, tolse a divenire maestro di sè stesso (1). L' Oriente, vicino al fonte della primitiva sapienza, e massimamente l' ebraica nazione, in cui quella si mantenne intemerata, e a cui furono consegnati in deposito i positivi oracoli della Divinità, non ne sentì egualmente il bisogno; perciò ivi, possedendosi il vero, non nacque, o almeno non nacque con istrepito e baldanza, la filosofia, nè si ridusse a scienza rigorosa la Dialettica, che ne è il foriere e lo strumento. Al confine occidentale dell' Asia l' eco della tradizione divenuto evanescente e confuso, l' individuo umano si trovò vacillante nei passi suoi, per l' incertezza e in parte altresì per l' assurdità della dottrina sociale; rientrò dunque in sè per sorreggersi; e permettendo un tanto male, disponeva nel suo alto consiglio la Provvidenza che fosse creata la scienza. Ma colui che primo sorse a filosofare, e quelli che gli vennero appresso, non potevano importare ad un tempo tutto ciò che conoscevano direttamente e popolarmente nell' ordine della scienza, nel campo dell' individuale riflessione; la prima cosa adunque, che importarono in essa, e che sottomisero alla meditazione, furono i corpi. Così ebbe origine la dottrina degli elementi (1). Talete (a. 600 av. G. C.) e Ferecide posero il principio di ogni cosa nell' acqua. Ippone di Reggio ripose la sostanza dell' anima nell' umore genitale, che perciò faceva vivente (2). I quali filosofi trovarono indubitatamente questo principio nella tradizione, la quale narrava come tutta la materia a principio fosse creata in istato liquido, e dal liquido uscissero tutte le cose. Suida, Eustazio ed altri attestano che Ferecide potè avere in mano certi libri arcani dei Fenici. Hernius provò che questi libri erano i libri di Mosè (3). Talete, appartenente ad una famiglia fenicia, e però di nazione contermina all' ebraica, si deve esser confermato in questa sentenza dall' aver veduto che tutte le generazioni cominciano dal liquido, e che il nutrimento stesso deve rendersi liquido, acciocchè sia rifuso nel corpo vivente, e ne acquisti la medesima vita. Così congettura Aristotele sull' opinione di Talete: [...OMISSIS...] . Al che aggiunge il conforto di tradizioni più antiche. [...OMISSIS...] (1). Ora, che Talete ricevesse dalla sacra tradizione il suo principio dell' acqua come origine delle cose, pare confermarsi dall' osservare che egli aggiungeva all' acqua lo spirito, «nus», qual principio motore (2), il quale spirito è pure indicato nell' antichissimo dei libri, come quello che ferebatur super aquas . Al che consuona anche la tradizione profana, riferita da Probo con queste parole: [...OMISSIS...] . Quanto poi ad Ippone, Aristotele lo colloca tra i filosofi rozzi. [...OMISSIS...] . Aristotele dice che nei versi orfici si legge che l' uomo trae l' anima dall' universo colla respirazione (2). Di poi Anassimandro, contemporaneo di Talete, Anassimene (a. 557 av. G. C.), Anassagora (a. 440 av. G. C.) (3), Archelao (a. 460 av. G. C.) (4), e Diogene Apolloniate (a. 460 av. G. C.) (5), riposero pure, in un modo o nell' altro, la natura dell' anima nell' aria, cioè ancora in un fluido, onde non si allontanarono gran fatto dai precedenti. Varrone fra i Romani, seguendo quell' antica sentenza, definì l' anima così: [...OMISSIS...] . La qual sentenza fu suggerita ai filosofi evidentemente dall' osservare il fatto della respirazione. Si legge in Cicerone: [...OMISSIS...] . E lo dice pure Lattanzio: [...OMISSIS...] . Ma Aristotele dà altra ragione di questa sentenza: l' aver voluto pigliare quei filosofi a sostanza dell' anima la sostanza più mobile e più sottile (9), affine di spiegare l' anima per via della sua qualità di essere mobilissima; la quale a me sembra anzi una spiegazione sistematica che vera, secondo il vezzo di Aristotele, ovvero una ragione trovata posteriormente alla vera. Secondo Pitagora [...OMISSIS...] . Tuttavia sembra indubitato che Pitagora distinguesse da questa l' anima intellettiva, di cui troppo più altamente sentiva, come diremo a suo luogo. Eraclito di Efeso pose a principio delle cose il fuoco (2). Democrito ridusse l' anima ad atomi rotondi di fuoco (3). Così pure Leucippo (4), Zenone e gli Stoici, suoi discepoli, seguirono la stessa dottrina (5). Ad Ipparco è attribuita da Macrobio la stessa sentenza (6). Questa sentenza nacque al vedere i grandi effetti del calore, specialmente vaporoso, conosciuti anche dagli antichi, e dell' elettricità in tutta la natura, e singolarmente dall' osservazione di quel calore, che si sviluppa nell' animale colla respirazione. Quanto lungamente i medici ponessero nel calore il principio vitale dell' animale, ho accennato altrove (7). Aristotele, di cui conviene alquanto diffidare, perchè inclina a ridurre a certe determinate classi gli antichi sistemi, e sembra talora interpretarli in modo da forzarli ad entrare nelle classi prestabilite, pretende spiegare l' opinione che poneva la natura dell' anima nel fuoco, per la mobilità e sottigliezza di questo. Egli riduce tutti gli antichi sistemi intorno all' anima a tre generi: a quelli che definiscono l' anima per mezzo del moto ; a quelli che la definiscono per mezzo del senso ; a quelli che la definiscono per qualche cosa d' incorporeo (1). L' opinione adunque del fuoco la ripete da un tentativo di spiegare il movimento spontaneo. [...OMISSIS...] . Ma altrove Aristotele medesimo fa venire questa sentenza dall' opinione popolare espressa nella lingua. [...OMISSIS...] . E tuttavia non è certo che questi antichi ponessero l' anima interamente materiale, quando anzi piuttosto spiritualizzavano gli elementi, e specialmente il fuoco, o in luogo dell' anima pura (di cui non avevano ancora l' idea netta) parlavano dell' animato . A me pare probabile che il crudo materialismo si debba attribuire a tempi più bassi e di corruzione, come al tempo di Stratone ed ai posteriori (4). Aristotele asserisce che i filosofi dissero essere anima ognuno degli elementi fuori che la terra, la quale niuno disse essere anima, se non quelli che composero l' anima da tutti insieme gli elementi (1). Il qual luogo, se non è stato interpolato, rende sospetto il verso attribuito da più autori antichi (2) a Senofane: [...OMISSIS...] . E non di meno Macrobio attesta che Senofane faceva l' anima « ex terra et aqua (4) », e il suo discepolo Parmenide « ex terra et igne (5) ». Forse Macrobio dice dell' anima quello che tali filosofi avevano detto dell' uomo. Mi fa congetturare la cosa dover essere così dal vedere che Diogene Laerzio narra che Zenone di Elea, discepolo di Parmenide, fa uscire l' uomo dalla terra, e dichiara l' anima un miscuglio di elementi, cioè di freddo e di caldo, di secco e di umido, così armonico però, che nessuno di essi tiene sugli altri il predominio (6). Il fare risultare l' anima non da un solo elemento materiale, ma da tutti insieme, e il porre in essi l' ordine e l' armonia, è già un passo di più che fa la riflessione. Ella ha già conosciuto che niun elemento materiale da sè solo può spiegare le operazioni dell' anima (7); e ricorrendo all' armonia, si cominciava ad aggiungere al concetto dell' anima l' unità, e qualche cosa di spirituale, perocchè l' armonia suppone un ente semplice, che in sè contenga il molteplice. Fra quelli che così opinarono, celebre fu Dicearco, di cui Plutarco scrive: [...OMISSIS...] . Aristosseno musico pose pure l' anima in una armonia; ma pare che la sua non fosse l' armonia degli elementi, ma degli organi e dei sensi. Onde Cicerone così descrive la sentenza di questo filosofo: [...OMISSIS...] . Ora, posciachè era ancor troppo difficile il concepire questo nobilissimo vero, che l' armonia non poteasi avere che in un principio semplice e spirituale, quelli che nell' armonia riposero la natura dell' anima, senza intendere quale dovesse essere la sede dell' armonia, finirono col dichiararla un niente. Il che ci dice appunto Cicerone, parlando di Dicearco: [...OMISSIS...] . Nella quale dottrina si sente tutto l' impaccio di chi erra, poichè si pone una forza equabilmente diffusa in tutti i corpi viventi, da essi inseparabile - che corrisponderebbe da qualche lato all' anima elementare e senziente lo spazio, di cui parlammo nella Psicologia - e un temperamento di tali corpi, cioè un' organizzazione, onde l' anima organica, che si dissipa coll' organismo; e tuttavia si dice che l' anima sia niente. Pare adunque volesse dire che l' anima non era niente, separata dal corpo; il che era tuttavia un travedere come l' anima sensitiva, o principio senziente, non poteva sussistere senza il sentito, non sollevandosi il pensatore fino alla natura dell' anima intellettiva, nè intendendosi per anco che il senziente (l' anima) non era il sentito (corpo). Di Aristosseno, Lattanzio afferma il medesimo. [...OMISSIS...] : quasichè la musica fosse senziente e non sentita; e per essere sentita non avesse bisogno degli orecchi e delle anime altrui che la sentano! Finalmente si passò all' opinione che l' anima consistesse in qualche sostanza, composta bensì di elementi, ma di una determinata maniera. E qui cade il sistema di quelli che la riposero nel sangue, fra i quali Crizia (2). Quanto poi ad Empedocle, noi ne parleremo in appresso. E cade pure il sistema di quelli, di cui parla Cicerone così: [...OMISSIS...] . Alla quale è prossima la sentenza dei moderni materialisti, che la confondono col cervello o col sistema nervoso; ed anche in più la dividono, secondo le parti di questo. Quando da prima s' intese che i soli elementi materiali non bastavano a spiegare le operazioni dell' anima, allora s' aggiunse loro qualche altro principio; ma non si abbandonarono perciò tantosto gli elementi. Era il medesimo che pervenire a qualche cosa di spirituale; ma l' intendere che questo principio doveva essere spirituale, appunto perciò che non apparteneva agli elementi materiali, non fu agevole passo, nè si fece d' un tratto. Con questo principio nuovo che si aggiunse, si pervenne al senso. Plutarco espone così la sentenza di Epicuro (n. 337, m. 270 av. G. C.): [...OMISSIS...] . Stobeo aggiunge la spiegazione di questa sentenza di Epicuro così: [...OMISSIS...] . Epicuro adunque conobbe che non si poteva spiegare il senso coi soli elementi materiali o colle loro qualità, e ricorse ad un altro principio, che disse innominato, appunto perchè diverso dagli elementi conosciuti e nominati; ma non si elevò all' intelligenza, nè s' avvide che questo quarto principio sensitivo doveva essere immateriale (3). Egli poi lo congiunse all' organizzazione per guisa che, disciolta questa, si dissipava (4); il che era un travedere la natura dell' anima sensitiva. Gli Stoici, secondo Plutarco, posero nel senso la parte principale dell' anima (5); il senso poi l' attribuivano a un cotale spirito simile a quello di Aristotele, della natura del calore (6). Dalla parte principale poi dell' anima derivavano tutte le altre, e così la costituivano (7). Ora, come dopo la dottrina degli atomi venne quella della loro armonia, professata da Dicearco e da Aristosseno, così dopo la dottrina che poneva l' essenza dell' anima nei sensi, venne quella dell' armonia dei sensi. Plutarco dice che il medico Asclepiade definiva l' anima [...OMISSIS...] il che veramente era un porre ancor meno di quello che aveva posto Epicuro, perocchè questi, ponendo un principio sensitivo, aveva abbracciato tutto il sentimento animale, là dove Asclepiade riduceva l' anima alle cinque maniere esterne e comuni di sentire, senza accorgersi che l' animalità ne ha molte altre. Pervenuta la meditazione filosofica a riflettere sulla natura del sentire, e conosciuto che questa operazione non si poteva in alcun modo spiegare mediante i soli elementi materiali, rimaneva che i pensatori facessero entrare nella sfera del pensiero riflesso e scientifico anche l' operazione dell' intelligenza, ove potevano finalmente rinvenire la natura dell' anima intellettiva. Ma è più difficile fissare la riflessione sul soggetto intelligente, che non sia trapassare di un salto all' oggetto, e in questo esclusivamente collocarla; perocchè l' oggetto è quello in cui il pensiero finisce; e la via percorsa dal pensiero, e il pensiero medesimo non diviene oggetto, se non per una operazione riflessa posteriore. Quindi si scorge ragione manifesta perchè niuno forse degli antichi giunse a distinguere e separare del tutto il soggetto dall' oggetto, cioè l' anima dall' idea ; e tutti i più illustri, usciti dalla materialità dei primi, e sollevati eziandio sopra il senso, precipitarono il loro volo nella idea, senza fermarsi pure all' intelligenza, che pensa l' idea; cioè a dire riposero l' intelligenza e l' anima intellettiva nelle idee. PITAGORA. - Fra questi mi sembra poter annoverare prima degli altri Pitagora, di cui riferisce Plutarco che [...OMISSIS...] . Ora i numeri non sono che idee astratte; se dunque la mente è un numero, essa mente, ossia l' anima intellettiva, è confusa colle idee che illuminano l' anima, il soggetto coll' oggetto. Ma questo concetto dei numeri pitagorici venne esposto diversamente dagli antichi, appunto perchè essendo esso un' astrazione, lasciava un immenso campo ai discepoli di determinarla in varie guise; ed era pur necessario che nell' uno o nell' altro modo la determinassero, acciocchè ne riuscisse un qualche ente. Aristotele, che si mostra incerto del significato che debba dare al numero di Pitagora, toglie a confutare questa sentenza presa in tre sensi; cioè come se s' intendesse di puri numeri, e come se s' intendesse di piccoli corpicciuoli, e finalmente come se s' intendesse di punti matematici (2). Fa meraviglia come egli neppure accenni che i numeri di Pitagora sieno idee; eppure lo dissero alcuni altri antichi; nè tampoco accenni che sieno « astratti delle entità, presi a base del ragionamento, che si voleva intorno a queste istituire »; la quale io stimo che sia la più naturale, e la vera spiegazione dei numeri di Pitagora. Dichiarerò meglio la cosa con un paragone. A quel modo che il matematico, volendo dare la teoria della quantità continua dei corpi, si forma colla mente dei corpi astratti, ritenendo la sola estensione e le figure, e rigettando il rimanente, e poscia su questi corpi ipotetici, o per dir meglio, su questi corpi7postulati ragiona ed edifica la sua teoria; così Pitagora, o chiunque parlò prima dei numeri al modo dei Pitagorici, volendo dare la teoria degli enti, si formò degli enti astratti, ritenendo di tutto ciò che negli enti si trova il solo numero, e quindi traendo la teoria degli enti da questo solo, che essi sono numeri. Ciò che mi convince questa dover essere la vera interpretazione dei numeri pitagorici, si è l' osservare quanta nei filosofi italici era la potenza dell' astrazione, e con quale veemenza l' istinto filosofico, che tende all' universale, li sospingeva verso l' astrarre come in una regione del tutto spirituale, dove, inesperti ancora e invaghiti della novità della scoperta di un mondo così puro da condizioni di materia e di tempo, si persuadevano dover racchiudersi l' intera sapienza. Basta considerare in qual modo Senofane si portò addirittura col suo pensiero alla questione sull' unità delle cose ; e come mediante Parmenide e Zenone il grande problema filosofico di quel tempo divenisse ben presto il più elevato per astrazione, di quanti se ne possano immaginare, cioè « se le cose tutte sieno uno o più ». La questione agitata fra i patrocinatori dell' unità e quelli della pluralità, non è, a ben giudicare, altra cosa che la questione dei numeri. Certo non vi era bisogno di aggiungere alcuna cosa all' unità ed alla pluralità; perocchè si parlava di questi due astratti, senza aggiunta di cosa alcuna. Onde tutte le interpretazioni dei numeri pitagorici, le quali aggiungono ai numeri qualche cosa per determinarli, ci sembrano posteriori al Samese filosofo, non sono più questioni di teoria (la quale sola si cercava al tempo dei primi Italici), ma di applicazione della teoria dei numeri . Di vero, la dottrina intorno ai numeri doveva essere, siccome una teoria purissima, applicabile poscia a tutti gli enti; ella era la matematica pura dell' ontologia, una cotal lingua universale. Indi le diverse forme che prese quella teoria, quando ella si venne applicando agli enti. Invece adunque di mantenere la teoria e l' applicazione distinte come due parti dell' ontologia, si confusero insieme, o piuttosto si perdette di vista la teoria pura. La teoria pura ontologica dei numeri, quale sembrano averla posta i primi filosofi italiani, non riguardava adunque più l' anima che gli altri enti; ma sì ad ogni maniera di esseri poteva e doveva applicarsi. E posciachè i numeri sono ciò che di più astratto si può considerare negli enti, perciò li dicevano le prime cose, come attesta Aristotele, e gli elementi dei numeri gli elementi altresì di tutti gli enti, [...OMISSIS...] . Laonde questa teoria dei numeri s' applicava all' estensione, e ne uscivano i principŒ della Matematica pitagorica. S' applicava ai corpi, e ne usciva la Fisica pitagorica, e segnatamente la dottrina degli indivisibili (2). S' applicava a Dio, e ne usciva la Teologia pitagorica. Finalmente s' applicava all' anima e ne usciva la Psicologia pitagorica. Ora le questioni intorno all' anima, nell' applicazione che ad essa si faceva della dottrina dei numeri, dovevano essere, se non erriamo, queste: 1) Nell' anima vi è l' unità? 2) vi è la dualità? o la trinità, o la quaternità ecc.? cioè, vi è cosa che sia rigorosamente una? o cosa che sia due, tre, quattro, ecc.? Delle quali questioni la risoluzione pitagorica si era che nell' anima vi era l' uno, il due, il tre, il quattro, e non più. Dove nell' anima si diceva trovarsi l' unità? Nella mente. [...OMISSIS...] . Poichè dunque la mente considera molti individui con una sola e medesima idea specifica, e molte specie con una e medesima idea generica, si dava alla mente l' unità. Ma troppo più a ragione le compete l' unità, perchè ella abbraccia tutti i generi di cose con una sola idea dell' essere in universale, nella quale sono ridotti a perfetta unità non solo i reali molteplici, ma ben anche tutti affatto gli ideali determinati, o sieno specifici, o sieno generici. Ed a me pare che questa idea doveva essere appunto il Dio di Pitagora, cui questo filosofo definiva il numero dei numeri, [...OMISSIS...] , come Platone lo chiamò poscia ente degli enti, [...OMISSIS...] . Ma l' errore, che adesso notiamo, si è d' aver confuso la mente coll' idea, o certo d' aver parlato sovente in modo che veniva con essa a confondersi; e quindi di non avere ben distinta la natura soggettiva dell' una colla natura oggettiva dell' altra. Nondimeno pare che prima di Socrate e di Platone, i Pitagorici, che avevano certamente conosciuta l' unità della mente, non avessero pronunciato espressamente, o almeno con costanza, che la ragione di quella unità si doveva rinvenire nella natura delle idee; poichè Aristotele dice che fu Platone che aggiunse ai numeri le idee, togliendole dal modo di disputare di Socrate (1), se pure non è anzi a dire che Platone altro non facesse che introdurre un linguaggio più filosofico circa la natura delle idee, e desse a questa dottrina una maggiore importanza. Ora, dove nell' anima si trovava il due? I Pitagorici dicevano nella scienza . La scienza è oggetto; e vedesi l' errore e la confusione indicata in fare che la scienza, in cui riponevano il due, corrisponda alla mente, in cui riponevano l' uno, quando avrebbero dovuto farla corrispondere all' idea; alla mente poi dovevano far corrispondere la ragione (il ragionamento). Che cosa poi intendessero per scienza, non è così facile il determinare; ma probabilmente qualunque proposizione o giudizio spettante alle idee astratte, e perciò necessario; poichè a pronunciare un tal giudizio si richiedono almeno due termini, il soggetto ed il predicato. Dove poi trovavano nell' anima il tre? Nell' opinione riguardante le cose contingenti, e però in quei giudizi, nei quali la convenienza del predicato e del soggetto non è necessaria ed evidente, come non suol essere nei giudizi sintetici (2). Non potendosi adunque in questa maniera di giudizi unire un predicato con un soggetto, senza avere una ragione straniera che a ciò determini la mente, oltre il predicato ed il soggetto, forza è che intervenga un terzo elemento per opinare; quindi davano il tre all' opinione. Finalmente i Pitagorici trovavano il numero quattro nel senso, cioè nei giudizi intorno alle cose sensibili; e ciò, mi pare, perchè il senso non è una ragione sufficiente di applicare un predicato ad un soggetto, se egli stesso non sia prima percepito dall' intelletto; e quindi il giudizio, anche più semplice che si possa fare in conseguenza del senso, esige per lo meno quattro elementi. Prendiamo ad esempio il giudizio seguente: « questo rosso è un ente ». Noi possiamo distinguervi: 1) la sensazione del rosso; 2) l' apprensione intellettiva di essa; 3) la necessità che dove è la sensazione del rosso, vi sia un ente operante; 4) la affermazione. Platone fa venire l' opinione dal senso, e la scienza dalla mente, e così riduce il quattro al due. Come poi l' anima nel sistema pitagorico sia un numero che si muove, apparisce dal considerare che i quattro numeri, che si notano nell' anima, derivano l' uno dall' altro: il quattro dal tre, giacchè il giudizio sulle cose sensibili suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi sintetici; il tre dal due, giacchè la facoltà dei giudizi sintetici suppone dinanzi a sè la facoltà dei giudizi analitici; il due dall' uno, giacchè ogni giudizio suppone primieramente l' idea. Laonde Plutarco così riassume il sistema di Pitagora: [...OMISSIS...] . Empedocle (43. 7 37. a. C.). - Ma da Pitagora passiamo ai Pitagorici, e scegliamo fra essi Empedocle. Noi siamo di opinione che gli elementi, di cui Empedocle voleva composta l' anima, fossero le idee degli elementi, e non gli elementi materiali; o almeno è certo che così alcuni suoi discepoli lo intesero (2). Secondo questa opinione il filosofo Agrigentino verrebbe in gran parte purgato dal goffissimo errore del materialismo; anzi l' errore opposto gli si potrebbe imputare, di cangiare la natura dell' anima intellettiva nella natura delle idee stesse, il che è un deificarla, dappoichè la natura dell' idea tiene del divino. Noi esporremo qui estesamente le ragioni che ci addussero a questa persuasione. La prima si è che, trattandosi d' interpretare la mente di un filosofo, di cui ci rimangono solo pochi frammenti, vuol tenersi gran conto della tradizione filosofica, e non considerarlo isolato, siccome tutto avesse inventato da sè, senza scuola precedente. Tanto più convien fare questa considerazione, quando il filosofo visse in una età nella quale fioriva lo studio della filosofia, come si fu quella di Empedocle, al cui tempo i filosofi ionii, e più ancora quelli di Samo, di Colofone e di Elea erano celeberrimi, e le loro speculazioni meravigliavano per altezza gli ingegni. Ora sembra possibile che, dopo che le questioni più elevate si erano già cotanto discusse, Empedocle cadesse in un così rozzo e plebeo errore da fare l' anima intellettiva composta di materiali elementi, ignorando o cancellando tutto quanto era stato detto prima di lui di più sublime in questo argomento? Di poi, il materialismo riflesso e professato in modo aperto e sguaiato, non appartiene al periodo, in cui la filosofia si stava formando, ma, chi ben guarda, solamente al periodo della sua corruzione, allorchè il sofisma e la dissoluzione dei costumi cominciò a traboccare. Le prime filosofie avevano certo nel loro seno un materialismo, ma loro proprio e speciale, veniente da mancanza di riflessione, mescolato collo spiritualismo; perocchè la divisione fra lo spirito e la materia non s' era per ancora ben colta dalla mente, la quale nè affermava lo spirito, nè la materia, ma parlava di entrambi come di una cosa sola. S' aggiunga doversi la critica appoggiare a notizie certe per argomentare le incerte. Ora niuna più certa di quella che Empedocle professava il pitagoreismo, il perchè egli apparteneva alla scuola d' Italia. Ora è possibile che un pitagorico, e, se si vuole, un pitagorista (1), non avesse altra dottrina da metter fuori intorno all' anima, che quella di farla constare di elementi al tutto materiali? Oltracciò il filosofo nostro non fu mai dall' antichità collocato nel novero dei filosofi materialisti, chiamati plebei da Cicerone, ma sì introdotto nella compagnia di Pitagora, di Parmenide, di Anassagora, di Platone e d' altri tali. Aristotele pone questa differenza fra Empedocle da una parte, e i Pitagorici e Platone dall' altra, che questi posero l' uno e l' ente nella sola essenza delle cose (2), quando Empedocle soppose all' unità l' amicizia. Aristotele, proposte varie questioni, soggiunge: [...OMISSIS...] . E poco appresso ripete la medesima cosa, ma dubbiosamente, come se la sentenza che Empedocle supponesse l' amicizia all' uno e all' ente, fosse piuttosto congetturata da lui che da quel filosofo espressa (1). Come dunque Platone e i Pitagorici spiegarono i numeri di Pitagora, riducendoli alle essenze ed alle idee, così Empedocle avrebbe determinato l' uno astratto coll' amicizia, ritenendo il fondo della dottrina italica e a suo modo svolgendola. Ora, perchè poi l' Agrigentino compose l' anima di tutti gli elementi? Per spiegare la cognizione di tutte le cose, di cui l' anima è suscettibile, movendo dal principio che « « il simile si conosce col simile » ». Ebbene, onde tolse egli una tale sentenza? Dalla scuola di Pitagora, da questa scuola eminentemente spirituale, la quale professava appunto tale dottrina; dunque egli va inteso secondo la maniera di pensare di questa scuola. Calcidio dice espressamente: [...OMISSIS...] : non è dunque una sentenza trovata da Empedocle, ma da lui seguita. E ancora: [...OMISSIS...] . L' anima dunque ha in sè la similitudine degli elementi, non gli elementi stessi materiali; il che consuona col sentire della scuola pitagorica e dell' eleatica, nella quale fu istituito Empedocle. Empedocle riconosce Iddio qual pura mente, priva di ogni concrezione corporea; e ci rimangono ancora di lui alcuni versi, nei quali dopo aver egli detto che Iddio è insensibile e s' insinua nei petti umani per l' amplissima via della fede, «megiste peithus», e che è privo di membra corporee, conchiude: [...OMISSIS...] i quali versi rammentano, come già fu osservato, versi simili di Senofane (2), e mostrano siccome la dottrina empedoclea si continuasse a quella dei filosofi precedenti. Sesto, mettendo Empedocle coi filosofi italici, attesta che ammetteva uno spirito, «en pneuma», comunicante con tutta la natura, e ad ogni cosa dispensante la vita (3); il che troppo bene conferma che egli non era un puro materialista, e che non poteva fare le anime nostre di elementi materiali, quando noi stessi voleva che fossimo animati da quell' anima spirituale, che pervadeva tutto il mondo, e che era soltanto mente: [...OMISSIS...] (4). E non dichiara forse le anime umane di divina stirpe dal cielo discese in terra come in un esilio, in un antro, «phygades teothen», avvolte in corporea veste, «sarcon chitoni», costrette a trasmigrare da una in altra forma corporea per lo spazio di trenta mila anni «tris myrias horas», fin che sieno purgate? Dove le tracce della tradizione dell' antica colpa, e della pitagorica metempsicosi, sono manifeste. Come dunque, quando questo autore dice poeticamente che le anime umane sono composte di tutti gli elementi, si potrà intendere che egli le voglia concretare di tutti i generi di materia? Si consideri di più, che Empedocle diceva sovente i suoi elementi essere Dei; il che poscia da Platone e dai Platonici fu detto appunto delle idee. Aristotele afferma che, secondo Empedocle, gli elementi sono per natura anteriori agli Dei, «ta physei protera tu theu», certo perchè gli Dei stessi si facevano di questi composti; quantunque soggiunga che anche gli elementi sieno [...OMISSIS...] , onde si ravvisano più generazioni di Dei o di demoni, ammessi da Empedocle, fra i quali poneva le stesse anime umane. Il che è a pieno consonante colle dottrine dei Platonici, che di ogni idea fanno un Dio, e pure delle idee compongono gli animi umani. Quindi Empedocle, cangiati gli elementi in persone, loro dava i nomi della divinità (2); il che era uno stabilire colla scienza la superstizione e l' idolatria, imitando in ciò i filosofi più antichi, fra i quali Ferecide, che inscrisse quel libro, che compose sugli elementi e sulla loro commistione, «theokrasia». Perocchè questi savi nè poterono colla loro mente sollevarsi alla chiara cognizione di Dio, nè avevano cuore abbastanza saldo da combattere l' errore comune e grossolano della idolatria, in cui erano essi stessi educati. Alla nostra sentenza ancora viene non leggiero rinforzo da un luogo di Aristotele, dove questo filosofo dichiara espressamente la dottrina di Empedocle intorno alla formazione dell' anima umana essere simile a quella di Platone (3); il qual luogo è il seguente: [...OMISSIS...] . Ora, tra i filosofi che posero mente non al moto, ma alla virtù di sentire e di conoscere, nomina Empedocle e Platone; i quali conseguentemente la fecero composta di elementi atti a conoscere altri elementi, cioè di idee, come indubitatamente fece Platone. Seguita dunque così: [...OMISSIS...] Su di che ci si presentano a fare diverse importanti considerazioni. Primieramente è indubitato che Platone non fece l' anima intellettiva, ossia la mente, di elementi materiali, ma piuttosto la compose di idee; che anzi nel « Timeo » fa il corpo risultare di quegli elementi; e il corpo per Platone (come prima per Empedocle) è una cotal prigione dell' anima, di cui turba i regolari movimenti. Laonde dice, che [...OMISSIS...] ; e così spiega l' ignoranza, in cui l' uomo nasce, e gli irrazionali moti dei bambini, non giunti all' età della riflessione. Di poi è da considerarsi che se, al dir di Aristotele, i due filosofi nominati, che componevano l' anima degli elementi, facevano questo, movendo dal principio che « « ogni cosa si conosce colla sua simile » »; dunque gli elementi erano simili a questi, non erano adunque questi stessi; e ben si sa che per il simile Platone intende l' idea. Dunque trattavasi di elementi ideali, nei quali solo veramente risiede la similitudine delle cose, con cui l' anima conosce (3). Di poi, che cosa è la prima lunghezza, la prima larghezza, la prima altezza, secondo Platone? Non altro che la lunghezza, la larghezza e l' altezza esemplare ed essenziale, cioè l' idea, causa, secondo lui, delle cose reali. Così pure l' idea di uno è il principio esemplare dell' animale; perocchè Platone la stessa essenza, che era nell' idea, pretendeva che fosse altresì nelle cose; il che, piuttosto che materializzare le idee, era uno spiritualizzare le cose. Ma mi sembra esser prezzo dell' opera l' esporre qui più estesamente la dottrina di Platone intorno alla doppia specie di elementi, i reali e gli ideali ; investigando poscia se i frammenti e le testimonianze, venute fino a noi intorno alla dottrina di Empedocle, ci dicano nulla di somigliante. Due dei più grandi uomini, di cui s' onora l' Italia, Parmenide e Zenone suo discepolo, avevano troppo bene veduto e dimostrato che non si può spiegare l' esistenza dell' universo materiale, senza ricorrere a qualche principio spirituale, che gli desse la consistenza e l' unità. Potenti dialettici entrambi (e fu il secondo che della Dialettica fece una scienza), non si contentarono di pronunciare alcune sentenze solenni ma staccate, all' uso orientale, e intrapresero a dare una logica dimostrazione della loro tesi. A tal fine fissarono la loro attenzione sulla natura del continuo corporeo, e così argomentarono: ogni parte assegnabile in un continuo corporeo non abbraccia più di sè stessa, tutto il resto è fuori di lei. Ma le parti assegnabili in un continuo non hanno fine; dunque le parti continue, che si possono assegnare, non cessano mai di escludere da sè una porzione dell' esteso. Se ciascuna parte non cessa di escludere da sè ciò che non è dessa, dunque ella stessa non si trova giammai; se non si trova giammai, non esiste. Se non esistono i primi continui, nessun continuo può esistere. Ma la natura del corpo sta nel continuo; dunque per sè solo il corpo non esiste. Ma se voi aggiungete un soggetto semplice (una mente secondo il concetto di questi filosofi), che possa ad un tempo stesso abbracciare tutto il continuo con un atto solo, e non per parti, allora il continuo sta, egli esiste come un semplice, non in virtù della semplicità del soggetto, ma in relazione essenziale col soggetto. Nella mente dunque (che era per essi il detto soggetto) sta il fondamento del corpo, ossia la mente è condizione necessaria all' esistenza del corpo. La quale argomentazione è ineluttabile, essendo evidente che il continuo non si può ridurre a punti matematici; nè tampoco si può ridurre a punti matematici il corpo; perocchè in tal caso, o questi punti non agirebbero che in sè stessi, e quindi colla loro aggregazione non produrrebbero mai nulla di sensibile; ovvero avrebbero una sfera d' azione continua intorno a sè, ed allora il continuo si supporrebbe di nuovo esistente (1). Ma che cosa è il continuo nella mente? In quanto è un continuo possibile, esso è un' idea; ma in quanto lo spirito afferma il continuo, esso è il continuo realizzato nel senso e nella materia, ma sempre considerato dalla mente e in relazione colla mente (2). L' essenza dunque del continuo, che nell' idea si contempla, è quell' unità che fa essere l' universo materiale, il quale è un esteso continuo variamente modificato e modificabile. L' argomento, che traevano Parmenide e Zenone dalla natura del continuo per dimostrare che avanti a tutti i fenomeni del mondo doveva esistere qualche cosa di eterno, che desse loro esistenza e consistenza, fu forse il maggior lume che mai rischiarasse la mente di Platone. Dal principio, posto da quei due sommi filosofi italiani, egli trasse indubitatamente tutto il fondo della sua dottrina. Ma, siccome accade agli uomini grandi, egli si appropriò per modo la dottrina di Elea che parve nella sua bocca originale. La necessità di un' eterna unità, arguita da Parmenide e da Zenone considerando la natura dello spazio, fu da Platone dedotta, con un ragionamento simile, anche dalla considerazione del tempo e delle mutazioni, che in esso nascono, alle cose materiali e sensibili. Come dunque abbiamo fatto dell' argomentazione degli antichi savi di Elea, la quale noi abbiamo ridotta ad una forma breve e, per quanto a noi pare, efficacissima, così vogliamo qui fare altresì dell' argomento di Platone; pigliamo il fondo del pensiero, e diamogli tutto il nerbo di cui esso è suscettibile. L' argomento di Parmenide e di Zenone traeva la sua forza da questo principio, che « « la sostanza corporea (prescindendo dalla mente) non è che una relazione di più sostanze juxta7positae ; che dunque la sostanza, se vi è, deve trovarsi negli elementi, cioè nei primi estesi; ma questi non si trovano; e al di là dei minimi estesi non si concepiscono che dei punti matematici, i quali non sono sostanze estese; perciò le sostanze estese, cioè i corpi, non esistono senza l' unità della mente » ». Ora Platone argomenta così appunto dalla mutabilità delle cose nel tempo: « « Se una cosa fosse solamente in un punto matematico di tempo , ella non sarebbe, perchè un punto matematico non ha durata alcuna; ella dunque durerebbe niente; e ciò che non ha alcuna durata, non è affatto » ». Il che si prova anche così: « Poniamo che una cosa durasse un istante matematico e non più. Ora in quale istante ella cesserebbe di essere? Nell' istante medesimo in cui è, no; perchè in tal caso sarebbe e non sarebbe allo stesso tempo, ossia l' istante, in cui fu messa in essere, sarebbe l' istante, in cui ella fu annullata, il che è contraddizione. Dunque in un altro istante susseguente. Ma se l' istante, in cui viene distrutta, deve distinguersi da quello in cui ella esiste, già fra l' uno e l' altro istante vi deve essere un tempo di mezzo, nel quale ella è durata. Dunque ciò che dura un solo istante è assurdo, perchè ripugna al pensiero ». Or bene, se noi consideriamo l' universo materiale, senza aggiungervi niente affatto che venga dalla mente nostra, esso ci si cangia appunto in un assurdo. Poichè niuno dirà che un tale universo esista nel passato o nel futuro, esso non può esistere che nel presente. Ma in quale presente? Per quanto la durata presente s' impicciolisca, ella non si trova mai; e se si trovasse dopo un infinito numero di divisioni, si ridurrebbe ad un punto matematico di tempo; tale è tutta l' esistenza del mondo materiale lasciato solo, separato da ogni mente, perocchè ogni tratto di tempo è fuori dell' altro, e viene dall' altro escluso. Ma la durata di un istante non è durata; e l' ente, che si suppone durar solo un istante, non dura nulla; perciò è cosa assurda, come si dimostrò. Dunque il solo universo materiale, senza la mente che ne contempli l' identità in certo tempo (passato e futuro), abbracciandolo tutto con un atto semplicissimo, non esiste. Così Platone stabilisce la necessità delle idee come cause delle cose. La sua maniera di esprimersi è certamente diversa da quella che noi usammo; ma il fondo del pensiero non cangia. Egli si trattiene ad osservare la mutabilità continua delle cose; io ho spinta questa mutabilità all' estremo, mostrando che l' esistenza delle cose materiali è così fluente che non ha durata alcuna, nello stesso tempo che qualche durata è pur necessaria alla sua esistenza. Veniamo ora ad applicare questa dottrina agli elementi di cui si compone, secondo gli antichi, il mondo materiale. Platone dice che la terra si scioglie in acqua, l' acqua in aria, l' aria in fuoco, il più sottile degli elementi, dove già si scorge un' analogia colla dottrina di Empedocle, che asseriva il medesimo; il fuoco faceva principio degli altri tre (1). Ora, partendo da questa continua rimutabilità degli elementi, ne trae che conviene necessariamente ricorrere ad un soggetto stabile di tutte queste mutazioni. Ora, ciò che serve di soggetto a quei modi sempre mutabili è la stessa sostanza che diviene ora fuoco, ora aere, ora acqua, ora terra; ma questa sostanza, o materia prima, o soggetto di tutte le qualità, è qualche cosa d' invisibile, e solo dalla mente concepibile, secondo Platone. Egli stabilisce tre generi: l' uno ciò che si genera, l' altro ciò in cui si genera, il terzo ciò alla cui similitudine si genera. A quest' ultimo dà il nome di padre, al secondo quello di madre, al primo quello di prole. La materia in cui tutto si genera, ossia il soggetto di tutte le mutazioni, è dunque la madre, e di essa dice: [...OMISSIS...] . Dove il grand' uomo viene a insegnare che la sostanza o materia che forma il soggetto delle modificazioni sensibili, è dalla mente supposta e non data dal senso; nè andrebbe lontano dal vero chi in questa prima materia intelligibile, che si trasforma in tutte le cose, vedesse l' essere in universale, giacchè questo solo ha i caratteri assegnati da Platone a tale specie invisibile, suscettiva di tutte le forme «pandeches», non determinata a forma alcuna, «amorphon». E quantunque nella natura debba rispondere a questa specie una realità, tuttavia il concetto di questa realità sarebbe assurdo, se la mente unendovi l' idea non vi desse consistenza; perchè la mente sola, come dicevamo, può abbracciare la durata, condizione dell' esistenza; la quale durata continua è nella mente e partecipata alle cose reali solo dalla mente; onde della sua materia intelligibile dice Platone: «mete ex hon tauta gegonen». Indi trae Platone che gli elementi materiali non sono i veri elementi, ma cotali simulacri dei veri elementi. Ma discendendo col discorso da quella specie intelligibile informe, che, come dicevamo, non può essere che l' ente, somministrato dalla mente, e quasi aggiunto nella percezione alle cose sensibili e transeunti, viene a parlare di altre specie meno indeterminate, cioè del fuoco, come quello che è il primo degli elementi, e poi degli altri elementi ancora; e si propone la questione « « se vi sia un fuoco, separato dalla materia, permanente in sè stesso, e così degli altri elementi »; » e prova che vi debbono essere le essenze intelligibili di tali cose, a cui compete propriamente i nomi di fuoco, aere e gli altri, assai meglio che a tali cose materiali. Di che conchiude: [...OMISSIS...] ; la quale specie così egregiamente descritta è l' idea, o per dir meglio l' essenza della cosa intuita dalla mente, verso alla quale la cosa reale scade; onde il filosofo soggiunge: [...OMISSIS...] . Questa è l' indole, secondo Platone, degli elementi materiali, le cui essenze sono intelligibili, e sono i veri elementi, il vero fuoco, il vero aere, la vera acqua, la vera terra, di cui i primi non sono che somiglianze sfuggevoli. Di tali essenze intelligibili adunque si compone l' anima intellettiva, secondo Platone. Ora, se vero è quel che dice Aristotele, che Empedocle compone l' anima intellettiva dei quattro elementi simigliantemente a Platone, non conviene dire che anche il filosofo di Agrigento distingueva degli elementi intelligibili, ossia specie ed esemplari degli elementi reali? Il che a noi pare che cessi d' essere congettura per divenire certezza, quando si considera un altro luogo di Aristotele, in cui questi chiaramente afferma che Empedocle ripose l' essenza delle cose nelle idee. Il qual luogo è in sulla fine del primo dei Metafisici, e suona così: [...OMISSIS...] Che se ci rivolgiamo ad interpreti più recenti della mente di Empedocle, noi troviamo che Filopono intese gli elementi di Empedocle per le loro nozioni o idee; il che gli pareva evidente scrivendo: [...OMISSIS...] . Ma passiamo alla dottrina dell' amicizia o concordia empedoclea, dalla quale riceverà nuovo rincalzo la nostra interpretazione degli elementi, di cui egli componeva l' anima. Empedocle, dunque, oltre i quattro elementi ammetteva due principŒ che egli chiamò la concordia, «philia», e la discordia, «neikos». Ora, secondo gli scrittori posteriori ad Aristotele, e secondo Aristotele stesso, come abbiamo veduto dai luoghi arrecati (2), la concordia dell' Agrigentino risponde all' unità di Pitagora e di Parmenide, e la discordia alla pluralità. Il che, se ben si considera, riesce a dire che in questi due elementi empedoclei si disegnano i due mondi, l' intelligibile ed essenziale, nel quale sono gli elementi ideali, e il sensibile e simigliante, composto degli elementi reali; massimamente che, oltre essere stato Empedocle pitagorico, fu anche discepolo, come da Alcimada si riferisce, dello stesso Parmenide (3). E qui udiamo come Siriano, commentatore di Aristotele, difenda Empedocle dall' accusa di contraddirsi, che gli appone lo Stagirita, non troppo equo con quanti lo precedettero. [...OMISSIS...] Le quali parole, consentanee all' età ed all' educazione di Empedocle, ristorano a pieno questo nobile lume dell' italica scuola del torto, che gli è fatto da tanti, col supporlo sì goffo e zotico intelletto da voler composta l' anima umana di materiali elementi (2). E un altro commentatore di Aristotele, Giovanni Filopono, dice lo stesso, attribuendo ad Empedocle che egli lodi la concordia, siccome causa del mondo intelligibile e divino, e biasimi la discordia, siccome quella che disgrega il divino (3); e trova pure che Aristotele non fa buona e giusta ragione all' Agrigentino. Aggiunge che i due principŒ dell' amicizia e della discordia si conoscono colla ragione piuttosto che col senso, e sono sembrati ad Empedocle «asomatoi physeis» (4). Clemente Alessandrino poi, ed altri, ci conservarono un verso di Empedocle, che si riferisce alla sua «philia», dichiarandola oggetto del solo intelletto: [...OMISSIS...] . Riesce nondimeno ad alcuni inesplicabile come Empedocle, pel quale la concordia ha ufficio di unire, dica che ella sia quasi materia . Aristotele e Temistio credono di trovarlo qui in contraddizione seco medesimo, non sapendo spiegare come la stessa «philia» possa ora esser causa motrice e unitrice, ora poi causa materiale delle cose (2). Ma se noi moviamo da questo principio, che per amicizia Empedocle intendeva l' uno , come espressamente dicono Plotino (3) e molti altri antichi (4), e come è consentaneo alla scuola che professava, l' apparente contraddizione svanisce. Poichè, che cosa è l' uno? - L' ente in universale - Che cosa è l' ente in universale? - L' essenza dell' ente intuita nell' idea, l' ente ideale, l' ente intelligibile. Or bene, quell' ente fa appunto rispetto a noi i due uffizi: 1) di virtù unitrice e congregatrice delle cose materiali, perocchè vedemmo cogli argomenti di Parmenide e di Platone, che l' universo materiale svanirebbe, se la mente non gli aggiungesse l' ente , che alle cose continuamente divisibili e fluenti dà stabilità ed unità; onde gli antichi chiamano anche l' amicizia di Empedocle «tautopoios henopoios» (5); 2) di materia intelligibile , appunto perchè ciò che s' intende in tutte le cose è l' ente variamente terminato e realizzato; e la sola realità dell' ente non darebbe alcun oggetto alla mente, la quale niente potrebbe con esso solo nè concepire, nè affermare. Ond' è che la materia, intesa dalla mente in tutte le cose reali, è sempre l' ente. Questo si doveva intendere propriamente dell' uno primo, del Dio pitagorico, che secondo noi è l' idea dell' essere, chiamato anche numero dei numeri, fonte degli altri numeri, rappresentante le specie e i generi delle cose. Ora, poichè ciascun genere e ciascuna specie ha l' unità, secondo i Pitagorici, perchè quei concetti unificano gli individui, perciò Aristotele dice che Pitagora ed Alcmeone, suo discepolo, sembrano riporre i numeri nel genere della materia (1). E giacchè Aristotele mette insieme con Empedocle Platone, non sarà fuori di luogo l' accennare l' opinione del Serrano intorno alla materia intelligibile di Platone. Il quale nell' argomento al « Timeo » così dice, secondo il volgarizzamento di Dardi Bembo: [...OMISSIS...] . E` dunque un cavillare quel di Aristotele, dove dice che il movente e la materia sono concetti diversi, onde rimanga a dire ad Empedocle sotto qual concetto la sua amicizia sia amicizia, se sotto il concetto di movente (cioè congregante, unificante) o sotto il concetto di materia (2); perocchè come si distingue l' uno per essenza e l' uno per partecipazione, così si può distinguere l' amicizia per essenza e l' amicizia per partecipazione . Ora l' ente, l' uno, l' amicizia di Empedocle per essenza, è materia di tutti gli oggetti intesi ; e in quanto è partecipata, ella è causa unitrice, che della pluralità indefinita delle cose soggette allo spazio e al tempo, fa riuscire un solo ente fisso, oggetto dell' intelletto. Giustamente adunque l' amicizia di Empedocle è amicizia sotto tutti e due i concetti di uniente e di materia (intelligibile), benchè questi concetti in apparenza diversifichino tanto fra loro. Con che rimangono pure spiegati quei luoghi degli autori, nei quali l' amicizia e l' uno di Empedocle sembrano due cose e non una sola; perocchè ben osservando quei luoghi, si scorge che tutti si riferiscono alla produzione dell' unità nelle cose contingenti; onde il dire che l' amicizia produce l' uno in tutte le cose, come dice Simplicio, [...OMISSIS...] , altro non vuol dire se non che l' uno per essenza produce l' uno per partecipazione, ossia l' amicizia per essenza produce l' amicizia per partecipazione (2). Quindi ancora l' amicizia empedoclea da Filopono e da Temistio viene paragonata al concetto, ossia alla notizia delle cose: [...OMISSIS...] ; perocchè quell' amicizia non è finalmente se non l' unità dell' ente intelligibile e il suo intrinseco ordine. Onde anche in un luogo di Stobeo, dove crediamo esporsi l' opinione di Empedocle, benchè sembri perito il suo nome con alcuni altri vocaboli, si legge la discordia e la lite essere non altro che specie; [...OMISSIS...] . L' uno pitagorico (5) fu denominato da quei filosofi in varie maniere (6): e fu detto Dio, Apollo, materia, caos (7). L' amicizia di Empedocle ebbe simili denominazioni: i due primi nomi dimostrano che trattasi di cosa spirituale e intellettuale, e non materiale; come a lei appartenga l' appellazione di materia, l' abbiamo pure accennato; rimane che vediamo a qual titolo possa ella essere detta anche caos. Ora, se si considera che l' uno è l' ente in universale, e che a questo può competere la denominazione di materia prima intelligibile, già s' intenderà con questo solo come gli si possa dare l' appellazione di caos (intelligibile), in quanto che nell' essere in universale non vi è nessun ente distinto e particolare. Qui si scorge ancora quanto sia mal fondata quella censura di Aristotele, colla quale pretende di cogliere Empedocle in contraddizione, perchè talora dice la lite principio di distruzione, talora poi le fa produrre le cose materiali. Giacchè, se la lite di Empedocle si trasporta nel mondo intelligibile, ella diviene quella facoltà, per la quale l' intendimento distingue le cose nell' unità dell' ente (1), e però quella che dà l' origine nella mente agli esseri singolari e finiti (2); dalla mente poi del primo facitore escono le cose reali, posciachè Iddio opera colla virtù della mente (3). Svaniscono del pari le obbiezioni, che trae Aristotele contro il sistema di Empedocle da questo, che [...OMISSIS...] (4). Al che Empedocle poteva rispondere che anche gli elementi ideali si compongono come i reali, e perciò coi composti di quelli si conoscono i composti di questi. Quanto poi a quello che dice Simplicio ed altri, che Empedocle riduca i suoi elementi a due, e infine ad uno solo, chiamato la necessità, o la monade della necessità, non ripugna, poichè l' essere in universale, che è l' uno, è anche il principio della necessità, giacchè impone la condizione per la quale ciò che è, è ente. Simplicio poi considera l' amicizia piuttosto distinta da quella monade, secondo un rispetto diverso da cui si guarda, che assolutamente, in quanto cioè l' amicizia esprime l' uno nelle più cose (1). Onde in altri Scrittori invece di «monas tes anankes» si dice «hule tes anankes». Il perchè, siccome per Empedocle talora viene tutto dall' uno, talora poi dall' amicizia, che è l' uno applicato al più, così talora in capo ai suoi principŒ ed elementi viene posta la necessità come cagione di essi, chè l' essere intelligibile, da cui tutto viene, è necessario, e impone a tutte le cose le necessarie sue leggi (2). Ma se l' uno (l' ente) è il principio supremo di Empedocle, al quale egli impone il nome di amicizia quando lo considera nella pluralità, e se all' amicizia contrappone la lite, ossia il non7uno (il non7ente), per limitare l' uno e distinguere in esso il più; come poi da questi due principŒ escono i quattro elementi? qual è il nesso che li lega con quelli? Primieramente è da considerare che Empedocle, con Eraclito e con molti altri antichi, riduce i quattro elementi ad uno solo, cioè al fuoco, come al più sottile e al più semplice. La quale sentenza, che si può dir comune agli antichi filosofi e inserita nello stesso « Timeo » di Platone, fu esposta da Lucrezio in questi versi: [...OMISSIS...] Dove il fuoco, di cui si formano gli altri elementi (2), si fa venire dal cielo; il che sembra alludere al mondo intelligibile, onde li fa venire appunto Platone (3). Ma Aristotele muove una difficoltà, che, per quanto solida possa parere, vale tuttavia a farci conoscere come Empedocle trasportasse il suo pensiero al mondo intelligibile, e non poco da lui prendesse Platone. Dice Aristotele che la teoria di Empedocle non spiega la generazione. Perocchè, che afferma Empedocle? che il composto si fa per via di ragione . Questa sentenza contiene l' antica dottrina di Parmenide in quello che aveva di vero, ed era quanto dire che « l' unità è quella che fa che un essere si dica composto, e l' unità è posta dalla mente ». Ma Aristotele dice che conviene assegnare una causa reale, e non meramente ideale, a spiegare come le cose si compongano e generino. Ed aveva ragione; ma non era men vero e assai più profondo il pensiero di Empedocle, che è la mente quella che fa sì che il composto sia un ente (4). Tutti gli elementi adunque si riducono al fuoco; ma come il fuoco si raggiunge ai due principŒ dell' amicizia e della lite ? Dimostra lo Sturzio che per Empedocle l' uno, il caos, la materia, il fuoco sono pressochè sinonimi (5); onde in alcuni luoghi di Aristotele si legge che Empedocle negava [...OMISSIS...] . Ora noi abbiamo veduto che l' amicizia è un vocabolo, onde Empedocle esprimeva l' uno dei Pitagorici. E oltre ciò sappiamo che i Pitagorici chiamavano il loro uno fuoco, o che prendessero il fuoco quale simbolo, o che lo considerassero come principio della vita e sostanza divina (2), come io credo. Se dunque l' amicizia di Empedocle è l' unità intelligibile, convien dire che egli ammettesse anche un fuoco intelligibile, come fa Platone nel « Timeo , » un fuoco essenziale (essenza ideale), verso al quale il materiale non è che un cotal simulacro, non ha l' essenza di fuoco (3), ma la qualità ignea quasi forma accidentale (4). E così infatti ci attesta uno scrittore antico, dicendo espressamente che egli faceva principio del tutto l' amicizia e la lite, ma della monade il fuoco mentale, [...OMISSIS...] , chiamandolo Dio, come si chiamava con questo nome dai Pitagorici e dai Platonici tutto ciò che appartiene alle idee. Ora poi, se si riconosce ammesso da Empedocle che gli elementi sieno intelligibili, idee, e, come tali, vere essenze; e sieno altresì materiali, e, come tali, non essenze, ma partecipanti le essenze, al modo che fa Platone; tosto si conciliano le apparenti contraddizioni, che presentano gli antichi, i quali ora ci fanno gli elementi di Empedocle eterni, semplici, eguali, immutabili, incorruttibili, ora tutto il contrario. E` vero che Empedocle componeva anche il senso di elementi (1), ma ciò egli faceva, o perchè niuno degli antichi distinse accuratamente il senso dall' intelligenza (2); ovvero lo faceva alla guisa di Platone, che distingueva nell' anima la parte sensitiva, ed a questa attribuiva gli elementi reali quasi sua veste, e la parte intelligente, che dalle idee faceva risultare (3). Ma perchè meglio si veda quanto Empedocle si avvicini a Platone, e l' abbia preceduto nella dottrina delle idee, torniamo al mondo intelligibile . Appresso gli antichi scrittori si hanno due serie di testimonianze, opposte in apparenza; una serie pone come indubitato che Empedocle faceva il mondo uno; un' altra serie afferma che due erano i mondi di Empedocle. Ora la conciliazione è per noi agevole; poichè se si considera che l' ente è identico sotto le due forme d' idealità e di realità, convien dire che il mondo è uno e il medesimo. Ma se si considerano le due forme, l' ideale e la reale, in cui è questo unico mondo, niente vieta che si pongano due mondi, come fa appunto Platone, l' uno intelligibile, ossia ideale, e l' altro sensibile, ossia reale. Federico Sturzio scrive: [...OMISSIS...] . Ma in appresso appone ad errore dei nuovi Platonici l' attribuire ad Empedocle il mondo intelligibile: [...OMISSIS...] . Ed è dello stesso sentimento il Karsten. La quale interpretazione tuttavia mi sembra più da erudito che da filosofo; perocchè gli eruditi recenti, fatti accorti come gli Eclettici Alessandrini vanno accaloriti per tirare al loro sistema tutta l' antichità (e indubitatamente ora supposero libri inscrivendoli del nome di antichi filosofi, ora compendiarono, raffazzonarono, infarcirono di loro glossemi gli autentici, sempre poi interpretarono i precedenti sistemi sullo stampo del loro), divenendo oltremodo diffidenti, spinsero la critica fino a renderla strumento di scetticismo. Ma a temperare questo estremo, a cui reca facilmente la critica dei particolari, noi crediamo che convenga associare questa colla critica dei generali, cioè coll' unità delle scuole e delle tradizioni, coll' analogia delle sentenze, e con tutte le circostanze dei tempi e delle menti. Ora una critica, che non dimentica queste vedute più ampie, ci assicura: I) Primieramente, che la scuola alessandrina non avrebbe potuto tirare a sè l' autorità degli antichi, nè attribuire loro nuovi libri, se negli scritti originali e nelle memorie rimaste non avessero trovato qualche addentellato a cui continuare l' edifizio, qualche vera traccia del loro proprio sistema. II) Che l' antichità presenta due grandi scuole, l' una delle quali ha per suo carattere il raziocinio individuale , che si personifica in Talete, e l' altra ha per suo carattere l' autorità tradizionale, che si personifica in Pitagora (1), e si continua in Platone, alla quale appartengono gli Alessandrini, che per ciò inclinano tanto a trovare negli antichi l' autorità che confermi i loro detti. Ora, tenendosi conto di questa indole storica e tradizionale della scuola platonica, è da credere che realmente ella raccogliesse le dottrine tradizionali, e non le inventasse di pianta. III) Di più consta per indubitabili documenti che il fondamento della dottrina platonica, il quale consiste nella contemplazione dell' essere ideale e delle sue divine proprietà, risale alla più remota antichità, ed oso dire alle prime tradizioni del genere umano. Tutto l' Oriente se ne mostra pieno. Secondo Mosè, ogni cosa si crea pel Verbo divino: l' Achmoth, cioè la sapienza esemplare dell' Universo (2), è primogenita avanti a tutte le creature non solo nei libri sacri, tanto anteriori alla scuola italica, ma ben anche nelle leggi indiane di Manu (3), sotto il nome di Mahat o di Bouddhi. Dalle scuole ebraiche ai piedi di Gamaliele, e non già dagli Alessandrini, S. Paolo imparò che Iddio « « dalle cose invisibili fece le visibili »; » nella quale sentenza sta tutto il buono del platonismo. Ora questa dottrina, che è pure la dottrina platonica del mondo invisibile e intelligibile, non poteva andar perduta nel genere umano, anzi si recò da per tutto colle colonie, si conservò nelle religioni e nelle mitologie (4); non poteva massimamente andar perduta pei filosofi della scuola italica, a cui appartiene certamente Platone; uomini tanto avidi di sapere, tanto solleciti di raccogliere le antiche dottrine, viaggiatori per l' Oriente, e di essi non pochi conoscenti per indubitato dei libri sacri, siccome dicemmo di Ferecide, e come più ampiamente è mostrato nelle opere dell' Huezio. Ora fra i miei voti uno è questo, che si scrivesse con diligenza una Storia del platonismo avanti Platone . IV) Oltracciò, se Empedocle udì Parmenide e Anassagora (5), celebre per aver separata la mente da ogni materiale concrezione, è possibile che egli sia stato poi interamente all' oscuro della dottrina delle essenze? Nè tuttavia pretendo che egli abbia chiaramente posta quella dottrina; mi basta che la ponesse in un modo oscuro, forse senza uscire intieramente da quella forma universale, sotto cui l' aveva annunziata Parmenide. Poichè è da distinguersi nella dottrina di Elea la prima questione fondamentale delle altre spettanti all' applicazione. Quando quei filosofi venivano alle questioni accessorie di applicazione, non dissento che sdrucciolassero nell' una o nell' altra fossa, tra cui movevano i piedi, del materialismo e dell' idealismo. Perocchè la scuola di Elea propose la questione dialetticamente, nella sua massima astrattezza e universalità: « Se fosse ben detto che tutte le cose siano uno, o se si dovesse piuttosto dire che le cose sono più ». Pigliandosi la parola uno nella sua incondizionata universalità, non si cercava in questa prima questione « se questo uno fosse poi spirituale o materiale, se fosse reale o ideale », tali furono le questioni posteriori e di applicazione. Nella questione prima, adunque, si voleva sapere soltanto se si diceva cosa vera, e se si parlava con proprietà, dicendosi che « tutte le cose fossero uno », senza cercare più in là; era la sola essenza dell' unità, che si voleva verificare nelle cose, astraendosi da ogni altra qualità o proprietà, che aver potesse la unità. Della quale questione per venire a capo, considerarono principalmente la variabilità delle forme che presentano i corpi, e conchiusero che sotto di esse doveva essere la sostanza, soggetto immutabile e permanente di tutte quelle forme, la quale fosse uno in tutte le forme: dunque il tutto era uno. Ma venne tosto appresso l' altra questione di applicazione: che cosa fosse poi cotesto uno. E allora alcuni si rappresentarono questo soggetto, che soggiace uno e immutabile a tutte le forme, siccome una cotal materia prima non informata, e però atta a ricevere ogni forma; ma ben presto, o gli stessi od altri, cominciarono a intendere che questa materia senza forma non poteva sussistere, benchè potesse essere concepita dalla mente astraente; e perciò la dissero insensibile, incorporea, solo intelligibile; e così vennero nell' idealismo platonico. Era veramente difficile trovare il vero in argomento così sottile; era difficile intendere che ricorreva qui quella legge di sintesismo, che in tutta la natura si dimostra, per la quale la materia è realmente distinta dalle forme, e tuttavia non può sussistere se non unita con quelle; difficile altresì era ad afferrare che la stessa materia o sostanza opera comecchessia in noi, per quella forza con cui immuta il corpo nostro, e si fa termine della nostra percezione sensitiva. Finalmente difficile tornava ancora l' accorgersi che non la sola sostanza materiale, ma egualmente o viemeglio le varie forme dei corpi avevano un corrispondente nell' ideale immutabile ed eterno. Le quali cose non le vide sempre con piena distinzione neppure Platone, il quale nel Timeo fa passaggio dalla sostanza di una cosa all' idea, senza avvedersi che lo stesso passaggio si potrebbe fare egualmente movendo dall' accidente; perocchè - dopo aver distinto fra la cera e le varie impronte di cui ella si può successivamente effigiare, osserva che alla domanda che sia quella cosa effigiata, non si risponde che sia una delle figure passeggere, ma si deve rispondere che sia cera, e la figura non è il quid della cosa, ma il quale - passa ad applicare il ragionamento agli elementi e fermasi al fuoco, siccome di tutti il più sottile, onde gli altri hanno origine, e distingue due fuochi, l' uno essenziale ed intelligibile, a cui spetta la quiddità del fuoco, l' altro sensibile, a cui spetta solo la qualità di fuoco. La qual distinzione è manifestamente quella che separa l' ideale ed il reale (salvo che invece di qualità doveva dire modo categorico di essere ; il che non potè dire a cagione di povertà di lingua filosofica); distinzione, che egli confonde così con quella che separa la sostanza dall' accidente, mentre sì l' accidente come la sostanza può ben essere ideale e reale. Ma la ragione, onde si sdrucciola dalla prima distinzione della sostanza e dell' accidente alla seconda dell' ideale e del reale, si è perchè la sostanza viene separata dagli accidenti per opera della mente, senza che manchi perciò nella cosa reale il quid che risponde a tale idea, e perchè la sostanza appare immutabile e simile in questa proprietà sua all' idea del pari immutabile. Onde due cose, perchè l' una e l' altra permanente ed entrambe oggetto della mente, la sostanza reale e l' ideale, furono confuse in una sola, nell' essenza ideale . Vi fu un' altra cagione ancora più efficace a travolgere le menti a questa confusione, la quale si è che la sola mente aggiunge l' ente alle cose conosciute; e fino a tanto che ella non ce l' ha aggiunto, conosciute non sono; e l' ente aggiunto dalla mente risponde alla sostanza, in quanto questa è l' atto, nel quale e pel quale gli accidenti sono. Quindi era agevolissimo il passare a riguardar la sostanza come meramente intelligibile, come essenza ideale; ciò che si fa anche dai moderni filosofi della Germania. Ma chi sottilmente osserva, vedrà che altro è la sostanza reale, altro l' ente che vi aggiunge la mente, pel quale la sostanza stessa diviene conoscibile, divenendo ente, il che è quanto dire oggetto dell' affermazione. Ora, tutte queste questioni al tempo di Empedocle erano ancora avviluppate, e neppur da Platone (1), nè dai Platonici poterono a pieno disvilupparsi; ma tuttavia si agitavano, e la verità si vedeva ora da un lato ora dall' altro, e si pronunciavano altresì, non senza contraddizioni, ambiguità e troppo parziali vedute. Ma tutto ciò nondimeno persuade che Empedocle non fosse punto straniero alla teoria del mondo intelligibile ed ideale. V) E veramente se si esaminano le sue indubitate sentenze, sarà difficile conciliarle colla supposizione che l' uno di Empedocle non fosse più che la materia prima, materiale, separata dalle sue forme; poichè: 1) Non si vede come a questa potesse competere il nome di mondo, sì perchè la materia senza alcuna forma non può esistere, e se ha una forma, non è più immutabile; sì perchè la parola «kosmos» indica un mondo formato ed ornato, e non una materia informe; onde meglio converrebbe la parola «sphairos» a indicare la materia, la materia non materiale, ma intelligibile. 2) Di più, il mondo eterno e immutabile di Empedocle è di fuoco, come quello di Eraclito (1); dunque non è informe. Di più, lungi da esser materia inattiva, che diventa tutto ciò che si vuole, è anzi causa attiva, «aition poietikon», come dice Teofrasto (2), e come si raccoglie dallo stesso Aristotele, appresso il quale esso fa tutto, ed è chiamato sempre «theos»; nè sembra possibile che sia applicato il nome di Dio alla materia bruta ed informe, giacchè tutta l' antichità ripose le cose divine nelle idee. 3) Quando si volesse chiamare mondo la materia informe, materiale, sarebbe pure un mondo meno perfetto che il mondo già vestito di forme ed ornato. All' incontro il mondo intelligibile e divino di Empedocle è dichiarato più eccellente del mondo sensibile; e lo stesso Sturzio, che rigetta l' interpretazione che noi diamo al mondo intelligibile di Empedocle, si mostra nondimeno inclinato ad accordare che fosse da lui chiamato «sphairos», ed altre cose intorno a lui attribuite ad Empedocle da Proclo e da altri Platonici (1). Ora, a questo mondo fu imposto simbolicamente il nome di «sphairos», e datogli una forma sferica per indicare la sua eccellenza sopra il mondo sensibile, al quale veniva attribuita da Empedocle la forma di elissi. Perchè poi gli antichi attribuissero alla figura sferica la perfezione fra le figure, e quindi si considerasse la sfera come il simbolo della perfezione, lo dice Platone (2); ed è perchè si era conosciuto che la sferica era la figura della maggior capacità, e quella che conteneva tutte le altre figure, cominciando dalle triangolari fino a quelle che fossero terminate da poligoni di un numero di lati indefinitamente grande. Quindi la sfera è simbolo acconcissimo a rappresentare l' essere ideale ; perocchè, come quella contiene dentro di sè virtualmente tutte le altre figure ed eccede da tutte, così l' essere ideale contiene l' essenza di tutti gli enti determinati e finiti, ed eccede ancora. D' altra parte se Empedocle dava al suo «sphairos» la forma della maggior perfezione, non poteva dunque essere una materia che dal non avere alcuna forma ricevesse imperfezione, come accade della materia reale. 4) S' aggiunga che lo sfero di Empedocle era formato dall' amicizia, causa di ogni bene secondo quel filosofo; onde non può esser la materia reale informe, la quale non ha ancora ordine, nè organizzazione, nè armonia. 5) Plutarco, ed altri antichi, ci dicono che Empedocle come ammetteva due mondi, così ammetteva due soli, l' uno dei quali si chiama «archetupon», e anche «pyr on» (1), che è quanto dire fuoco7ente, fuoco per essenza, e l' altro si chiama «phainomenon» (2). Ciò posto, il sole non può essere la materia prima eguale ed informe, perchè egli è un ente organizzato e informato, e, secondo le idee degli antichi, perfetto; dunque il primo di questi soli non si può intendere del caos materiale, o della materia prima reale. Di più la parola archetipo indica manifestamente l' idea prima del sole, secondo l' uso che di questa parola si fece da tutta l' antichità. Anche il dirsi fuoco7ente dimostra il medesimo, significando ciò che è intelligibile e non sensibile. Vero è che si dice che il sole archetipo è in un altro emisfero del mondo, e che il sole visibile è quasi un riflesso di quello; ma questa maniera di parlare non si deve ella attribuire alla lingua poetica usata dall' Agrigentino? Sembra dunque che per quest' altro emisfero, dove sta il vero sole archetipo, si debba intendere la sfera del fuoco celeste ed essenziale, vivente, intelligente; la quale s' immaginava come una zona sferica la più lontana dalla terra; sicchè per emisfero non è da intendersi la sfera tagliata orizzontalmente, ma a zone sferiche l' una dentro l' altra (3). 6) Finalmente dagli stessi frammenti, che ci rimangono, si raccoglie che Empedocle ammetteva un «kosmos noetos», tipo dell' altro «kosmos aisthetos», il che definisce affatto la questione (4). VI) Ammonio (4) e Tzetzes (6) ci conservarono quei versi, che citammo di sopra, nei quali Iddio viene definito « mente sacra, ineffabile, che abbraccia tutto il mondo colla sua provvidenza ». Ora, se la mente divina conosce tutto, ben conviene ch' ella abbia in sè le similitudini di tutte le cose, secondo il principio del nostro filosofo, che non si conosce il simile se non pel simile. Non sembra dunque consentaneo che nella mente suprema l' Agrigentino riponesse l' archetipo, ossia l' ideale del mondo? VII) Pare anche indubitato che Empedocle, come tutti gli antichi filosofi, trasmutasse in anime, in Dei, in Geni e Demoni le idee, come pure i sentimenti, le virtù, i vizi. Di che lo stesso Sturzio (1) paragona ai Sefiri cabalistici i Demoni di Empedocle. Ora se la cosa è così, quanto non è coerente che gli elementi, di cui l' Agrigentino componeva l' anima, e ciascuno dei quali era un Dio, e pei quali l' anima era intelligente, perchè simili agli elementi di cui constava l' universo, fossero pure idee? VIII) Di più, se Empedocle avesse composto l' anima di elementi materiali, non ci sarebbe stato bisogno di spiegare com' ella si unisca al corpo, poichè sarebbe stata corpo ella stessa. All' incontro, noi sappiamo da Plutarco e da altri antichi che Empedocle diceva l' anima di divina origine, e l' unirsi al corpo era per lei come un essere mandata in esilio, lungi dagli Dei, che è pure il pensiero di Platone. Voleva anche che fosse immortale e punita secondo le sue colpe nel fuoco (2). Dove lo stesso Bruckero (3) riconosce che queste dottrine empedoclee, le quali tengono della scuola pitagorica, ripugnano all' anima formata di elementi materiali; onde congettura che Empedocle avesse posto due anime, l' una divina, intelligente, nata dall' anima del mondo, e l' altra sensitiva, compaginata di elementi. Lo Sturzio pretende che una tale congettura sia arbitraria, senza vestigio nei monumenti antichi, e perciò la esclude (4), ma senza sostituirne una migliore. Ora, quantunque Empedocle non abbia forse distinto accuratamente il senso dalla ragione, dando egli l' uno e l' altra fino alle piante (5), tuttavia non si può negare che egli ricusi nei suoi frammenti la testimonianza dei sensi a trovare la verità filosofica, e voglia che ogni cosa si consideri colla mente (1), con un parlare simile del tutto a quello che abbiamo nei versi di Parmenide (2). Di più non è improbabile, anzi consentaneo, l' ammettere ciò che vuole Sesto Empirico, che egli distinguesse la ragione stessa dell' uomo in ragione umana e ragione divina ; la prima ragionante delle cose sensibili, la seconda delle intelligibili (3). Ora, se si ammette la sentenza nostra, che gli elementi, di cui Empedocle componeva l' anima, fossero elementi ideali , le similitudini degli elementi reali, ogni cosa si riduce in accordo nel sistema dell' Agrigentino, venendo da quegli elementi composta la ragione divina, a cui si riduce la natura dell' anima intelligente ed immortale. E qui ponendo modo a questa discussione, stimiamo bene di conchiuderla colle assennate parole del sig. Cousin: [...OMISSIS...] . LEUCIPPO, DEMOCRITO, EPICURO. - Questi filosofi materializzarono l' antico sistema dell' ente semplice, onde tutto si faceva provenire, supponendogli la materia. I sistemi precedenti avevano confuso l' oggetto col soggetto, e dichiarata l' anima come risultante dagli enti (ideali), che ella intuiva. Ma questi enti, che pei precedenti filosofi erano astratti e perciò idee, veri oggetti, avendoli essi cangiati in enti materiali, perdettero propriamente la condizione di oggetti, e ricevettero la natura di entità extra7soggettive. Quindi, a parlare esattamente, il loro errore intorno alla natura dell' anima giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' extra7soggettivo (materia) », a differenza dei sistemi idealistici, il cui errore giace nella « confusione del soggetto (anima) coll' oggetto (enti ideali) ». A questa corruzione dell' antica scuola può avere influito, fra le altre ragioni, anche la lingua imperfetta e volgare, di cui si dovettero servire necessariamente i primi che tolsero a filosofare. Noi abbiamo veduto che Empedocle chiamava elementi gli elementi ideali, e li riduceva tutti al fuoco; e che poi faceva il fuoco essenziale sinonimo di amicizia, di ente, di sfero, di Dio supremo, sia perchè la vita si manifesta col calore, sia perchè il fuoco è un cotal simbolo della luce intellettuale, sia per una reale confusione, che nasceva nel suo intendimento, fra le proprietà del fuoco e quelle del supremo essere, che vive per propria essenza. Da questo Dio egli faceva venire le anime umane. Il che non era alieno da quanto aveva insegnato Pitagora, del quale, come abbiamo veduto, Diogene Laerzio ci assicura che faceva dell' anima una emanazione del fuoco centrale. Parmenide del pari la dichiarava di natura ignea (1), benchè questa sentenza per fermo appartiene all' opinione e non alla verità, secondo la distinzione di questo filosofo. Quindi Leucippo, uditore di Parmenide, la ridusse pure al fuoco; e Democrito la definì [...OMISSIS...] , dove si scorgono confuse le cose, che l' anima percepisce, coll' anima stessa, l' oggetto col soggetto. Eraclito tutto dal fuoco derivava, e, secondo Stobeo, voleva l' anima essere di luce, «photos». Onde dagli Atomisti, corruttori dell' antica filosofia, si ritenne presso che la maniera di parlare degli antichi, e si trasmutò in pari tempo la dottrina. E quando si considera che Possidonio (3) fa venire la dottrina degli atomi dalla Fenicia, dichiarandone autore l' antichissimo Mosco, e che dalla Fenicia avevano pur tratto le loro dottrine Ferecide e Talete, si rende vie più verosimile che il sistema atomistico dei greci non sia punto altro che la corruzione di un sistema più antico, immune dall' espresso materialismo. Non voglio già asserire con ciò che i Fenici e gli Ebrei, loro contermini, possedessero in quell' antichissimo tempo la dottrina platonica delle idee, in quella forma esplicita ed analitica in cui la insegnò Platone; questo sarebbe troppo. Ma io credo che essi parlassero degli enti, senza definire precisamente se l' oggetto del loro discorso fosse l' idea o l' ente reale; parlavano dell' ente, come si presentava alla loro intelligenza, senza farne ancora un' analisi accurata. Così appunto, a mio vedere, ne parlò Parmenide, senza discendere alla precisa distinzione fra il mondo ideale e il mondo reale dell' essere. Ora gli atomi, così considerati, altro non sono che indivisibili ; i quali nei tempi posteriori da alcuni si definirono idee, da altri si definirono realità corporee. Indi la divisione nelle due grandi scuole, fra le quali si divise l' antichità. Ma gli uni e gli altri confusero l' anima umana col loro termine. Quelli che determinarono l' ente, su cui si speculava, facendolo ideale, confusero il soggetto (l' anima) coll' oggetto, perchè l' essere, in quanto è ideale, è oggetto; quelli che lo determinarono facendolo reale e corporeo, confusero il soggetto coll' extra7soggetto, perchè il reale non è propriamente oggetto, ma semplicemente un' entità extrasoggettiva. Dovendo tuttavia questi ultimi spiegare in qualche modo la cognizione che ha l' anima umana delle cose, ricorsero alle immagini: ma facendo queste stesse della natura dell' anima, le confusero coll' anima stessa. Tennemann espone brevemente il sistema degli idoli di Democrito in questo modo: [...OMISSIS...] . Tuttavia neppure questo pensiero a lui esclusivamente apparteneva. Platone nel Menone ci attesta che lo stesso Empedocle faceva che dai corpi esteriori si movessero certe emanazioni, chiamate «aporroiai», ovvero «aporroai», quasi immaginuzze, le quali, entrando pei pori degli occhi, producessero la visione: che anzi Plutarco attribuisce questa dottrina alla stessa scuola pitagorica (3). Questo fu poscia il sistema di Epicuro. Dove si vede che la dottrina di tali filosofi intorno all' anima, contenendo errori diversi, può appartenere a diverse classi di sistemi erronei. Ma veniamo al sistema di Platone. PLATONE. - Aristotele nell' opera sull' anima, dopo riferito in qual maniera tutta materiale Democrito voleva che l' anima movesse il corpo, cioè come un corpo muove un altro corpo, gli aggiunge nello stesso errore Platone per le cose che questi dice nel « Timeo »; il che a me pare non altro che una delle solite calunnie, colle quali lo Stagirita suol deprimere il suo maestro, cogliendolo alle parole, e interpretando a rigore ciò che egli dice con istile allegorico, o in altro modo figurato. Che Platone non abbia sempre accuratamente distinto le idee dall' anima intellettiva, ma voluto che l' anima si componesse della similitudine di tutte le cose, questo mi sembra indubitato. E` un' eredità ricevuta dai filosofi, che lo precedettero. Il seme di questo errore è già in Parmenide, che aveva detto: [...OMISSIS...] . La dottrina di Empedocle era questa, come abbiamo visto, ed ella stava dinanzi alla mente di Platone. Nulla di meno Platone distinse qualche volta la mente dalle idee assai chiaramente. Così, nel « Primo Alcibiade », Socrate fa osservare che la ragione è lo strumento, ossia il mezzo, con cui egli ragionava, e non è lo stesso Socrate, ossia la stessa anima di Socrate ragionante. Al qual detto se fosse stato coerente, sarebbe pervenuto a trovare la propria natura dell' anima umana. Ma il nesso delle idee con noi è così intimo, che talvolta accade a Platone quello che ai suoi predecessori, di fare di due entità sì distinte una cosa medesima, cioè l' anima; e di ciò stesso potrebbe forse purgarsi, come diremo appresso, ma non dell' averne parlato in modo alquanto oscuro ed equivoco. Nel « Timeo » Platone comincia a descrivere la formazione dell' anima del mondo, dicendo che Iddio la compose di tre nature, cioè: 1) dell' essenza indivisibile, che è sempre la stessa; 2) dell' essenza divisibile, che è quella che poi si divide pei corpi, ed è quanto dire della materia prima, onde dovevano essere tratti i corpi, la quale è perpetuamente un' altra; 3) di una specie di essenza media, che tiene delle due prime. Delle quali tre cose commiste Iddio fece una sola e medesima cosa, cioè l' anima, che doveva poscia animare l' universo corporeo, congiungendo i due opposti, ciò che è sempre il medesimo e ciò che è sempre un altro, con potenza e con una cotal violenza, «bia». Se Platone avesse collocato l' essenza dell' anima in quel principio medio, che lega l' identico ed il diverso, non sarebbe andato lungi dal vero, poichè l' avrebbe collocata nel principio razionale, che fa appunto questo ufficio di legare insieme i due estremi del reale corporeo e dell' ideale. Ma facendo che l' identico stesso (l' essere ideale) fosse parte dell' anima, era un confonderla colle idee o cose divine, e così divinizzarla; come il volere che una sua parte fosse il diverso, cioè la materia corporea, era un confonderla coi corpi, e così materializzarla. Quindi Aristotele, cogliendo il sistema platonico intorno all' anima da quest' ultimo lato debole, cioè dall' averle dato un elemento che è sempre diverso, prima lo mise insieme con quello di Empedocle materialmente interpretato, e disse che faceva l' anima composta dei quattro elementi; poscia tolse altresì a farne un fascio con quello di Democrito, il che ha l' aria più di una satira che di una seria e grave censura. Ora, quanto al rimprovero che Platone componesse l' anima dei quattro elementi materiali, basterebbe a purgarlo questo luogo: [...OMISSIS...] . Ma poichè Platone fa che Iddio traesse l' anima in parte anche da quella natura che nei corpi si divide, «tes au peri ta somata gignomenes meristes», dobbiamo vedere se questa natura divisibile, di cui l' anima partecipa, sieno forse i quattro elementi materiali. Ora noi troveremo non essere punto così la cosa. Ma considerando ciò che egli ne dice nel Timeo, ci riuscirà indubitato che per lui questa natura era lo spazio, e il rilevar questo ci riuscirà non poco utile, e ridonderà in lode non piccola di quel grande uomo, il quale si dovette accorgere di quello che noi crediamo di avere dimostrato, essere cioè lo spazio un termine costante e naturale dell' anima umana (2). Egli dichiara che questa natura è « « il ricettacolo della generazione di tutti i corpi » »; il che conviene ottimamente allo spazio; poscia continua: [...OMISSIS...] . Ora qui, togliendo a dichiarare questa terza entità, necessaria a spiegare la costituzione del mondo, incomincia dal dimostrare che i quattro elementi si cangiano l' uno nell' altro, e però niuno di essi è per essenza o fuoco, o aria, o acqua, o terra; perchè se fossero tali per essenza, non si cangerebbero. Deve dunque esservi un quid sostanziale, che non sia niuno di essi, ma che possa diventare e fuoco, ed acqua, e gli altri elementi; e quel quid, non avendo alcuna forma determinata e visibile, non può essere, Platone così conchiude, che un' essenza intelligibile. [...OMISSIS...] . Dove alcuni credettero che così Platone descrivesse la materia prima; ma certamente non è, a meno che per materia prima non s' intenda l' intelligibile, ciò che è sempre identico (l' essenza sostanziale, confusa da Platone colla sostanza reale ); il cui opposto è ciò che è sempre da sè diverso, a cui passa il filosofo soggiungendo immantinente: [...OMISSIS...] . Fino a qui noi abbiamo descritti da Platone l' identico e il diverso, la sostanza (ideale e reale confuse insieme da lui) e i corpi formati (colle loro forme specifiche e individuali). Ora la natura, che Platone pone anteriore all' esistenza dei corpi, come un costitutivo dell' anima, non è nè l' identico, nè il diverso, nè le idee, nè il corpo ; che cosa è dunque? Lo spazio, noi dicevamo. Anzi è Platone stesso che lo dice espressamente nel periodo che seguita: [...OMISSIS...] . Egli dice con somma acutezza e proprietà che lo spazio « « senza senso di toccamento si tocca, opinabile in una cotal maniera adulterina » ». Dice « in una maniera adulterina », perchè l' opinione viene, secondo Platone, dai sensi (ella risponde alla nostra cognizione soggettiva ), ma lo spazio pure non si vede come cada sotto ai sensi; neppur si vede come si possa percepire coi corpi, giacchè esso non è corpo (1). D' altra parte essendo lo spazio, cioè l' estensione, il fondamento di ogni continuo anche corporeo, e il continuo non potendosi trovare semplice, quindi rimane che lo spazio debba appartenere alla forma dell' anima sensitiva, la qual forma è il sentito. Onde Platone dice, benchè oscuramente, qualche cosa di simile a ciò che propose Kant, quando questi chiamò lo spazio forma del senso esterno. Ma noi abbiamo veduto in che consisteva l' errore di Kant, cioè nel fare dello spazio una forma soggettiva, anzichè un termine del sentimento fondamentale (forma extra7soggettiva). Avendo dunque l' uomo, come essere sensitivo, la forma dello spazio a sè connaturale nel modo detto, accade che gli sia difficile a pensare cose immuni da spazio, perchè non può arrivare a ciò, se non adoperando il solo intelletto, senza che vi si associ menomamente la sua sensitività animale; il che gli riesce oltremodo malagevole, perchè di natura e d' abitudine suol fare il contrario. Onde egregiamente, e con una eleganza filosofica meravigliosa, secondo il suo solito, Platone soggiunge così: [...OMISSIS...] . Quella porzione dell' anima adunque, che non è identica, e nella quale come in una cotal matrice si fa tutto ciò che è un soggetto alla generazione, si è lo spazio , il quale è quindi a Platone come una cotal forma dell' anima sensitiva. Dunque nella composizione dell' anima platonica non entra corpo alcuno, nè elementi materiali, che questo filosofo replicatamente dice essere corpi, e perciò prodotti da Dio posteriormente all' anima (3). Ma veniamo all' altra censura, che fa Aristotele alla teoria dell' anima di Platone, tratta dal moto che questi le accorda. Convien dunque sapere che, movendo Platone dal principio dei Pitagorici, che « ogni simile si conosce pel simile », dall' aver egli composta l' anima di ciò che è essenzialmente identico, e di ciò che è essenzialmente diverso, e d' una media sostanza, che abbraccia in sè le due prime, tolse a spiegare come essa conosca le cose opposte, cioè sì quelle che sono per essenza le medesime, e sì quelle la cui natura consiste nel divenire continuamente altre da quel che sono; ella conosce le une e le altre in sè stessa, perchè ella ha la natura di entrambe (1). Ma poichè espresse questo pensiero, cioè che ella conosce tali cose, dicendo che le conosce col « rivolgersi in sè stessa », quasi a similitudine dei pianeti che ruotano sul proprio asse, «aute te anakyklumene pros hauten», Aristotele lo incolpò di spiegare i movimenti dell' anima alla guisa di Democrito, ricorrendo a un moto eguale a quello dei corpi da luogo a luogo, e così prese a tassarlo di errore. Veramente era questo un captare in verbo, era un cavillare; giacchè niuno meglio di Platone riconosceva la spiritualità dell' anima intelligente, che la faceva prodotta da Dio in tempo in cui non esistevano ancora i corpi, benchè la sua parte inferiore, cioè la sensitiva, voglia egli che sia fatta di quella natura divisibile circa i corpi, cioè di spazio. Ma neppure allo spazio attribuisce Platone veramente moto locale, somigliante a quello dei corpi, e però svanisce del tutto la censura aristotelica. Rimane dunque a vedere soltanto, se noi abbiamo fondamento di attribuire a Platone l' errore di confondere l' essenza dell' anima coi suoi termini. Intanto è indubitato che alcune espressioni platoniche contengono questo errore, come sono tutte quelle dove egli dice espressamente che l' anima risulta da tre nature. A ragion d' esempio, di Dio dice: [...OMISSIS...] . Vero è che gli uomini grandi, come Platone, non vogliono essere costanti nei loro errori. Però vi sono dei luoghi, in cui egli mostra di accorgersi che l' anima doveva propriamente dimorare in quell' essenza media, la quale da una parte tocca il mondo ideale, e dall' altra attinge lo spazio ed appresso il corpo, senza che questi suoi termini sieno essa stessa, ma sue condizioni essenziali, ond' ella non è senza di essi per la legge del sintesismo, di che facilissimamente con essa si confondono. Oltre al luogo citato del « Primo Alcibiade », il « Timeo » stesso ce ne somministra alcuni, dove la perspicacia del grand' uomo rasenta il vero. Nel luogo ultimamente addotto la sola media parte dell' anima è chiamata «usia» (1), benchè altrove chiami con questo nome anche le due parti estreme. La media viene detta partecipe delle due estreme, dimostrando con ciò che è dessa quella che costituisce l' unità dell' anima, e quella sola che, unendo nella sua unità l' identico e il diverso, può conoscere l' uno e l' altro (2). Ora quella che conosce l' uno e l' altro è l' anima; dunque, secondo Platone, l' essenza dell' anima non può essere collocata nelle parti estreme, nè propriamente in tutte e tre le parti, ma solo nella media, benchè questa sia legata con quelle estreme, non parti, ma propriamente termini, che non appartengono alla sua sostanza, ma ne sono condizioni; pure si dice che le appartengono solo perchè la media da esse riceve la condizione e l' atto di sua natura. Quindi quella che agisce in Platone è continuamente la media; ed io intendo che questa sia pure quella, che talora chiamasi da Platone ragione, in quanto ella è partecipe di ciò che è sempre eguale a sè stesso. Onde egli dice che la ragione, cioè questa sostanza dell' anima, partecipe dell' identico e del diverso, in quanto all' identico è unita, percependo il sensibile, cioè il diverso, si forma delle opinioni e delle persuasioni ferme e vere, «doxai kai pisteis gignontai bebaioi kai aletheis»; quando poi si volge a ciò che è razionale, cioè all' identico, allora si arricchisce di scienza, che ha per dote la necessità, «nus episteme te ex anankes apoteleitai» (3): i quali due modi di conoscere rispondono perfettamente alla ragione umana, «logos anthropinos», ed alla ragione divina, «logos theios», di Empedocle. Nel qual passo del « Timeo » più altre cose sono degne di osservazione. I) E primieramente merita che si osservi come Platone non attribuisca punto al sensibile cognizione di sorta, ma sì attribuisca alla ragione la cognizione anche del sensibile; nel che egli vide sagacemente quello che non videro i moderni filosofi tedeschi, che, dividendo la cognizione in empirica e razionale, attribuiscono la prima ai sensi, i quali cognizione alcuna non possono dare; e ciò perchè non si sono potuti giammai purgare affatto dal sensismo, ricevuto dal secolo alla lor propria insaputa, nè hanno potuto digerire il veleno, nè tampoco con quei potenti drastici, che sembrano essere le loro speculazioni trascendentali. II) In secondo luogo, quantunque Platone faccia l' anima composta anche di ciò che è sempre diverso da quello ch' era prima, acciocchè ella possa conoscerlo, giusta il principio che « il simile si conosce col simile », tuttavia egli non reputava bastevole che l' anima fosse sensibile per conoscere il sensibile, ma oltracciò richiedeva che avesse la ragione, che è il principio formale della cognizione dello stesso sensibile, e quella che contiene il simile ideale ; mentre il senso non contiene il simile, ma l' azione delle cose corporee. III) La differenza, che Platone assegna tra l' opinione o la fede e la scienza necessaria, non istà in questo, come alcuni credono, che la prima sia cognizione falsa od illusoria, e la seconda soltanto vera: che anzi alla prima, se rettamente è posta, egli attribuisce «doxai kai pisteis bebaioi kai aletheis». Onde questa eccellente distinzione risponde a quella che noi facciamo fra la cognizione relativa o soggettiva e la cognizione assoluta ; delle quali la prima ha per materia il sentimento mutabile, e la seconda un oggetto immutabile, benchè la cognizione stessa sì di quello che di questo sia immutabile. IV) Finalmente vuolsi osservato come Platone dica l' anima possedere il necessario e la scienza, allorquando la ragione si volge a considerare il razionale, «to logistikon»; dove si vede che il grande uomo non si era sollevato a conoscere che vi doveva essere una realtà, che tenesse la medesima necessità e immutabilità del razionale o ideale; e questo è il seme, già da noi additato, di tutti gli errori del sistema platonico, degenerante in un razionalismo, e ogni cosa promettente all' uomo dal freddo cielo delle idee. Nel libro IV della « Repubblica » Platone non parla delle tre parti dell' anima, ma insegna che « « nell' anima dell' uomo vi sono due cotali entità, l' una migliore e l' altra inferiore; e quando ciò che è migliore per natura domina su di ciò che è inferiore, allora si dice che altri è più possente di sè stesso, e così dicendo si loda; quando poi, a cagione della rea educazione o di qualche consuetudine, ciò che è migliore, essendo da meno, viene superato dalla moltitudine di ciò che è inferiore, di questo altri si vitupera come di cosa obbrobriosa; e si dice che egli è più debole di sè stesso » ». Nel qual luogo scompaiono, come dicevo, i due termini estremi dell' anima in quanto sono da essa diversi, e resta la sola parte media, che è veramente l' anima, la quale riceve da entrambi: e ciò che riceve da quello che ha natura immutabile è l' entità sua migliore, ciò che riceve da quello che ha per natura l' esser sempre diverso, è l' entità sua inferiore. Abbiamo veduto Aristotele rampognare Empedocle perchè, facendo egli che l' anima si componga dei quattro elementi e dei due principii, acciocchè, avendo ella in sè il simile delle varie cose, possa conoscerle, non provvide poi a fare che ella potesse conoscere altresì i composti, e le passioni ed azioni dei composti; i quali non potevano essere tutti nell' anima. Questa difficoltà Aristotele probabilmente l' aveva bevuta alla scuola di Platone. Infatti questi aggiunse ciò che mancava alla spiegazione empedoclea dell' umana cognizione. In primo luogo quello che rimaneva incerto od equivoco nelle sentenze di un filosofo, che aveva scritto in poesia, fu da Platone dichiarato; di poi quello che mancava fu aggiunto. In Platone rimane dichiarato come si dovesse intendere che « il simile si conosce pel simile », perocchè questo principio ha due sensi: il primo, che le cose si conoscono per le idee, che ne sono come le similitudini (1); il secondo, che chi conosce una data natura deve esperimentarla, riceverla o averla in qualche modo in sè stesso, nel proprio sentimento, senza di che gli manca la materia della cognizione, non ne può avere che un' idea vuota e generale. Entrambi questi due sensi sono veri. Il simile fa conoscere il simile, è principio vero sì applicato alla forma, e sì alla materia della cognizione. E quantunque questa illustrazione non si trovi con parole espresse in Platone, tuttavia si può raccogliere dai suoi detti, osservando che egli attribuisce alla ragione la formale cognizione anche dei sensibili, e che tuttavia egli esige l' anima sensibile come condizione, senza cui ella non potrebbe conoscerli. Quanto poi a ciò che mancava in Empedocle e che aggiunse Platone, sì fu l' aver questi veduto una verità bellissima e fecondissima, ed è che nell' anima umana vi sono ingenite le leggi dell' ordine e dell' armonia, e tali leggi che fanno eco a quelle dell' universo, onde avviene che ella possa intendere l' armonia di questo. Nè solo vi è l' armonia di distribuzione, ma quella altresì che nei movimenti ordinati e rispondentisi è contenuta, della quale un' espressione è la danza. Ed è indubutabile che l' anima non potrebbe sentire ciò che vi è di bello e di armonico nell' universo e nell' opera dell' arte, se ella stessa non ne avesse in sè il fondamento. Che anzi non si dà armonia meramente oggettiva, ma ogni armonia consiste in un rapporto dell' oggetto col soggetto, e nel soggetto dimora. E se a Dio piacerà che noi pubblichiamo quella parte dell' Agatologia, che intitolammo Callologia, di cui l' Estetica non è di nuovo che una parte, noi vedremo come la costituzione mirabile e profonda della sensibilità dell' anima sia il principio supremo di quest' ultima scienza, o parte di scienza (1). Platone adunque diede il movimento all' anima del mondo - a cui somiglianza egli fa poi l' anima umana - e anzi la fece moventesi da sè stessa, « «auto heauto kinun» (2) », e fece i suoi movimenti regolati dai tempi, e armonici, assomigliandoli in tutto a quelli dei corpi celesti. Disse che ella movevasi come due circoli l' uno dentro l' altro, che ruotano di continuo: l' esteriore e maggiore composto di ciò che è sempre identico ed immutabile, l' interiore di ciò che è sempre diverso da sè; e questo circolo interiore fu poi da lui diviso in altrettante orbite, quante sono quelle dei pianeti, che quell' anima doveva animare. Ed è pur da notarsi come Platone metta ciò che è sempre diverso da sè, la materia prima, dentro a ciò che è identico, e quindi dica aver poi Iddio entro l' anima fatti i corpi (3), ed ella in mezzo di sè (dove sono i corpi) stendesi via oltre i cieli, e li circonda ed avvolge (4). Onde, avendo egli descritta l' anima in continua rivoluzione intorno a sè medesima e di varie quasi sfere composta, Aristotele fu pronto ad assalirlo come d' assurdità, e, pigliando tutto materialmente, non gli fu difficile confutare una tale dottrina. Ma pigliandosi ragionevolmente quanto dice Platone, con quello stile animato e poetico di cui si compiace, si troverà aver quell' uomo grande veduto anche in ciò dei veri ammirabili. Perocchè noi interpretiamo così la sua descrizione dell' anima del mondo, e i circoli di cui la vien componendo, e gli armonici movimenti che egli le presta. I) L' esteso non può esistere che nel semplice, e quindi il corpo nell' anima; noi l' abbiamo provato. Ora questo è ciò che dice Platone, benchè l' apparenza sensibile mentisca il contrario. E in vero, cadendo il contenuto, cioè l' esteso corporeo, sotto i sensi esteriori, e non il contenente, cioè l' anima, sembra che questa si stia nascosta, quasi coperta da quello; ma pure, secondo la ragione delle cose, è il contrario. II) Quindi l' estensione si può considerare sotto due rispetti, o in sè stessa, o nel suo rapporto col principio senziente, appartenente all' anima. L' estensione in sè stessa è estesa per essenza, e possono essere segnati in lei parti, limiti, mutamenti di parti e di limiti, e movimenti. Ma il rapporto, che ha l' estensione col principio senziente, non è esteso, poichè è un mero rapporto di sensilità (1); onde in quanto l' estensione è forma del sentito, ella non è estesa, perchè è semplice il principio in cui si trova, nel qual principio anche ella nasce. Quindi si possono distinguere due estensioni, l' una extra7soggettiva e l' altra soggettiva. La estensione soggettiva è in un modo inesteso nell' anima, in quanto è sensitiva; e però, se s' intende in questo modo la dottrina platonica, niente vi è di assurdo che Platone dia all' anima del mondo l' estensione, e distingua in essa più circoli, il tutto rispondente alla forma dell' universo materiale che deve animare, e che è suo termine. Poichè così appunto avviene nell' anima umana, in quanto ella avviva il corpo, avendo certo in sè l' estensione dello stesso corpo, ma in un modo semplice, com' è detto; giacchè il sentire, a ragion d' esempio, in due pollici di corpo senso di dolore o di piacere è diverso dall' avere la sensazione in un pollice solo; poichè il termine della sensazione (il sentito) è più esteso nell' un caso che nell' altro, e quindi la sensazione stessa si dice più estesa. Ora, avendo l' animale quello che noi chiamammo sentimento fondamentale, il quale a tutto il corpo sensibile si estende, ed allo spazio illimitato altresì, convien dire che all' estensione extra7soggettiva risponda nell' anima una pari estensione soggettiva; ossia, il che è più esatto e conforme alla maniera onde s' esprime Platone, che alla estensione soggettiva che è nell' anima, risponda l' estensione extra7soggettiva, che è nel corpo percepito dai sensori esterni, e che questa si percepisca per quella a cui si commisura; poichè anzi questa esiste per quella, secondo il principio nostro che « l' esteso continuo esiste pel semplice, in cui dimora ». Se dunque si considera tutto l' universo al modo di Platone come un solo animale, conviene dire che nell' anima di quell' animale risponda un' estensione corporea pari, e così conformata, come è appunto l' estensione extra7soggettiva, che hanno i corpi, di cui si compone l' universo corporeo, diviso in circoli e sfere; e così appunto Platone descrive distinta l' estensione dell' anima. III) Ora, di ciò medesimamente consegue che, non essendo il moto altro che un cangiamento dei luoghi che i corpi occupano nell' estensione, debba esservi nell' anima un moto soggettivo, rispondente al moto extra7soggettivo proprio dei corpi; altrimenti questo movimento dei corpi non potrebbe in alcun modo essere percepito dall' anima; anzi neppure esisterebbe, perocchè il movimento è una mutazione nel continuo, e il continuo è formato dal semplice, dove solo può esistere. A torto, dunque, Aristotele tolse a censurare il suo maestro d' aver dato il moto all' anima. E pare che egli non abbia saputo distinguere l' estensione e il moto soggettivo proprio dell' anima, dalla estensione e moto extra7soggettivo proprio del corpo; e che Platone desse quell' estensione e quel moto all' anima del mondo, e non questo. Infatti nel « Fedro » distingue il moto proprio del corpo e il moto proprio dell' anima; e dalla natura del moto dell' anima ne deduce la sua immortalità, perocchè, egli dice, l' anima ha il moto interno, che è come sua natura, là dove il corpo lo riceve da fuori. Onde, se il moto è nella stessa natura dell' anima, questa natura deve essere sempre in moto, e quindi sempre viva, poichè ciò che si muove da sè è cosa viva (1). Di che si vede, e che Platone attribuisce all' anima la cagione, ossia il principio del propro moto (2), e che il proprio suo moto, secondo questo filosofo, è interamente diverso dal moto del corpo; giacchè questo moto extra7soggettivo, di cui il corpo è il subbietto, non può essere mai una natura, ma un accidente estrinseco; quello poi è natura, e ogni natura è stabile e ferma. IV) Ora, con questo moto interno dell' anima del mondo Platone spiega tutti i movimenti che accadono nell' universo, dove il grand' uomo dimostra d' aver veduto quel principio, che da tutta l' antichità fu consentito, e di cui noi ci siamo giovati in quest' opera: « il movimento dei corpi supporre un principio incorporeo, sensitivo o intellettivo ». Infatti le forze brute dei moderni, ammesse come una confessione d' ignoranza, possono passare; ma asserite siccome vere forze brute, cioè escludenti la sensitività, altro non sono che una produzione dell' immaginazione, sono l' ignoranza degenerata in temerità, che, abbigliata alla scientifica, pronuncia assurdi. Aristotele confuta con ragione la maniera onde Democrito e Filippo il Comico volevano che l' anima movesse il corpo; quelli pensavano che essa lo movesse come un corpo muove l' altro, e recavano in esempio la Venere fatta di legno da Dedalo, la quale movevasi per un cotal gioco d' argento vivo, che il fabbricatore vi aveva saputo congegnar dentro. Oppone Aristotele, che se con ciò si spiegherebbe il moto, non si spiegherebbe poi la quiete, cioè non si spiegherebbe perchè l' animale si rimettesse in quiete, e poi ritornasse a muoversi; al che è pur mestieri supporre che « « l' anima non muova così l' animale, ma per una cotale elezione ed intellezione »(1) »: dove ricomparisce il sensismo aristotelico, accordandosi l' elezione e l' intellezione all' animale. Ora, benchè egli metta insieme con quei due filosofi materialisti Platone, non osa però fare a questo la stessa obbiezione. Infatti Platone non fa che l' anima comunichi il movimento al corpo, come fa un corpo ad un altro, a cui lo comunica, rimanendone esso di tanto spogliato; non dà all' anima il moto solamente, ma di più le dà il principio del moto, «kineseos archen» e quindi la sorgente perenne di sempre nuovo moto. E come ogni potenza passa all' atto secondo certe sue leggi, così anche il principio, ossia la potenza del moto, passa all' atto giusta le leggi proprie, che hanno il loro fondamento pel moto sensibile nel corpo dall' anima informato, e pel moto intelligibile nell' essere universale, da cui è informata l' anima umana, ai quali due termini si riducono le due estreme parti assegnate all' anima da Platone. Quanto poi alla fatica, che si prende Aristotele di dimostrare che l' anima intellettiva non può avere grandezza corporea, e che « l' intellezione è piuttosto simile alla quiete e a un cotale stato che al movimento », ciò è verissimo, se è detto ad esclusione delle parti e del moto materiale; ma non tiene, se si parla di parti e di moti sensibili quanto all' anima sensitiva, e di parti e di moti ideali quanto all' anima intellettiva. Perocchè le stesse parti e gli stessi movimenti sono in un dato modo nella materia (con relazioni di parti e di luoghi), e in un altro modo nell' anima sensitiva (con relazione di sensilità), e in un terzo modo nell' anima intellettiva (con relazione di entità), come abbiamo dichiarato a suo luogo (2). I filosofi precedenti, che riposero l' essenza dell' anima nelle idee, la deificarono, perchè gli antichi non erano giunti a distinguere fra Dio e l' idea. Avendo questa caratteri divini, e avendola confusa coll' anima, ne veniva la spontanea conseguenza che le anime fossero altrettante deità. Perciò questi filosofi appartengono tanto alla terza classe di sistemi erronei intorno alla natura dell' anima, quanto a questa quarta. L' errore originario di un così fatto sistema giace nella confusione fra l' oggetto dell' intelligenza, l' ente intelligibile, coll' intelligenza o mente che lo intuisce. Questo è il soggettivismo, cioè quel sistema che dichiara l' oggetto pensato modificazione del pensiero; è l' errore di Galluppi, l' errore più comune dei nostri tempi, anzi universale, il tristo legato del sensismo. Vero è che i soggettivisti che riducono l' oggetto, l' idea, la verità, ad essere un elemento accidentale o sostanziale dell' anima, non deducono tutti egualmente le conseguenze spaventevoli, che esso racchiude nel suo seno; molti non le vedono per mancanza di penetrazione sufficiente; altri, atterriti dalle conseguenze, si fermano a mezzo la via, o mediante cavillazioni inconseguenti si sforzano di declinarle; ma avendo il protestantesimo tolto a filosofare, egli senz' alcuna tema le dedusse tutte fino all' ultima in Germania; scomparve la religione, rimase il razionalismo. Il soggettivismo dei Platonici alessandrini intorno all' anima intellettiva è a sufficienza delineato in questo brano di Porfirio: [...OMISSIS...] . Prova poi che la mente è il medesimo delle cose percepite, da questo, che ella le considera in sè stessa, a differenza del senso e dell' immaginazione: [...OMISSIS...] Noi non vogliamo osservato in questa dottrina se non la confusione fra la mente e le cose dalla mente concepite. Vogliamo posta attenzione alla ragione, che si adduce, per conchiudere che le cose dalla mente concepite e la mente sono il medesimo. Tutta la ragione di una tesi così opposta al senso comune, cioè che la mente sia le cose percepite, si riduce a questa: « Le cose percepite dal senso sono esterne, dunque non sono il senso; le cose percepite dalla mente sono interne, dunque sono la mente, dunque ella le percepisce considerando sè stessa, e se cessa dal considerare le sue funzioni, niente affatto intende ». Ma chiunque fa uso di una tranquilla osservazione interna per rilevare accuratamente il fatto, trova che questa ragione è affatto insussistente e vana. E di vero: I) Dall' essere l' oggetto della mente interno non ne viene affatto che egli sia la mente. Acciocchè si potesse così conchiudere, converrebbe aver provato che non vi sia nulla d' interno, eccetto la mente; converrebbe aver provato che sia assurdo che una cosa incorporea inesista in un' altra pure incorporea; il che non si prova, nè si può provare. II) La parola interno applicata all' oggetto della mente è male usata, perchè significa una relazione locale di corpo a corpo; là dove l' oggetto della mente non è, propriamente parlando, nè fuori nè dentro di alcun corpo, non occupando alcun luogo nello spazio, e perciò essendo privo al tutto di relazioni locali. III) Se per interno s' intende unito colla mente, in tal caso si accorda che gli oggetti intuiti o percepiti dalla mente sieno, al loro modo, uniti colla mente; ma l' essere uniti colla mente esprime un concetto al tutto diverso da quello di essere confusi e identificati con essa. IV) Di più, se per cosa interna s' intende cosa unita, in tal caso non è vero che il termine del senso sia esterno, perocchè il termine del senso non può essere sentito o percepito, se non è unito col principio senziente; che anzi il termine del senso è così unito al principio senziente, che il senziente, sentendo o percependo, non fa un atto pel quale lo distingua da sè, non sentendo o percependo altro che il proprio termine, e sè stesso nel termine formante un unico sentimento; all' incontro l' oggetto della mente è unito alla mente, in modo che la mente non può intuirlo o percepirlo se non come oggetto, non solo distinto da sè, ma opposto a sè soggetto. L' illusione che fa credere che il senso percepisca gli oggetti da sè distinti o, come dicono i nostri filosofi, esterni, nasce da questo: 1) Che i corpi diversi dal nostro sono esterni al nostro; ora si confondono gli organi sensori, che appartengono al nostro corpo, col principio senziente che è l' anima. E poichè i detti corpi sono esterni ai nostri organi sensori, quelli si dicono esterni al principio senziente, che non è corpo. Dove non si riflette: a ) che prima di sentire i corpi esterni sentiamo col sentimento soggettivo e fondamentale il nostro proprio corpo, termine immediato del senso; b ) che i corpi esterni non li sentiamo se non uniti al nostro, per l' azione che esercitano nel nostro; la quale azione ha sua sede nel nostro proprio corpo e non nei corpi esterni, e però è così immediatamente unita al principio senziente, come è unito il nostro proprio corpo soggettivo. 2) Nasce ancora dai fenomeni della vista, pei quali pare che noi percepiamo col senso i corpi lontani; e dai fenomeni del moto attivo, pel quale ci avviciniamo ai corpi lontani. Ora la teoria di questi fenomeni non era ancor trovata al tempo degli Alessandrini. Ma noi abbiamo spiegato tali fenomeni ricorrendo: a ) allo spazio illimitato, termine immediato del sentimento fondamentale, b ) all' associazione delle sensazioni e ai giudizi, che nell' uomo vi si mescolano (1). V) Che se si considera che non solo il senso, ma ancora la mente percepisce i corpi esterni al nostro, l' argomento che si adduce perde fino l' apparenza di verità: poichè è anzi la mente, e la mente sola che possa pensare le cose lontane, mentre il senso non percepisce che quelle che gli sono presenti, e seco unite col rapporto di sensilità. Che se si tratta di esseri puramente ideali e possibili, o spirituali, questi, come dicevamo, non sono in alcun luogo, e però nè esterni, nè interni, nè lontani, nè vicini. VI) Che se il trovarsi l' oggetto unito, o per dir meglio presente alla mente, non involge nessuna logica necessità che il soggetto, cioè la mente, debba identificarsi coll' oggetto, e che quindi ella sia il proprio oggetto; che cosa si dovrà fare, secondo il buon metodo di filosofare, per verificare se ha luogo questa identificazione sì o no? Nient' altro se non vedere coll' accurata osservazione come il fatto avvenga, e verificato bene il fatto, non volerlo distruggere col raziocinio, secondo il logico assioma che contra factum non datur argumentum . Il fatto dunque da verificarsi è questo: « se la mente quando pensa una montagna, una pianta, un bruto, ecc., reale o possibile, creda ella di pensare sè stessa, e conseguentemente se ella creda di essere quella montagna, quella pianta, quel bruto, ecc., reale o possibile, che pensa ». Non vi è nessuno fuori degli ospizi dei mentecatti, che a questa domanda non risponda negativamente. I soli filosofi sono quelli che, volendo fare da maestri alla mente umana (forse per averne essi un' altra diversa dall' umana), dicono o vengono a dire così: « Non possiamo negare che la mente quando pensa la montagna, la pianta, il bruto reale o possibile, creda di pensare cose diverse da sè, e di tutt' altra natura; ma ella s' inganna, non pensa mai se non sè stessa, non pensa che le proprie modificazioni, le proprie funzioni ». Ebbene, signori filosofi, ascoltatemi un poco: se la mente che crede di pensare la montagna, la pianta, il bruto, ecc., e non sè stessa, pensa tuttavia sè stessa, come voi dite, almeno dovete concedere che non sa di pensare sè stessa, appunto perchè crede di pensare tutt' altro, cose grandemente da sè diverse. - Non può negarsi. - Dunque pensa sè stessa senza saperlo. - Così è. - Il pensiero di sè stessa è dunque un pensiero, che non ha coscienza di sè. - Appunto. - All' incontro ella sa di pensare, ha coscienza di pensare cose al tutto diverse da sè, sia poi che s' inganni o no in questa scienza o coscienza che ha del suo pensiero. - Certo. - Ora, si può sapere, aver coscienza di pensare una cosa senza pensarla? Per esempio, se voi sapete, ossia avete coscienza di pensare il diavolo, è possibile che voi crediate o sappiate, o abbiate coscienza di pensare propriamente il diavolo, senza che abbiate nessuna idea del diavolo? - Davvero no. - Oppure che crediate di affermare il diavolo, e vi persuadiate che il diavolo è un essere reale, senza che facciate veruna affermazione? - No, di nuovo. - Dunque se la mente vostra crede, sa, è conscia di concepire e di pensare il diavolo, pensa veramente il diavolo, e lo pensa come cosa diversa da sè. Che se voi, a malgrado di ciò, volete persuadere a voi stesso che quando pensate veramente il diavolo come cosa da voi diversa, v' ingannate del tutto, ma pensate unicamente voi stesso, deh badate che con ciò non fate altro se non limarvi il cervello per persuadere a voi stesso che voi siete il diavolo, o secondo un' altra delle vostre scuole, che « il diavolo è una modificazione o una funzione dell' anima vostra ». E` dunque più chiaro del sole che il preteso argomento dei soggettivisti, che confonde gli oggetti dell' intelligenza colla stessa intelligenza, è un ridicolo paralogismo, un sofisma temerario, con cui quei filosofi tolgono ad impugnare i fatti più manifesti della natura, a distruggere la coscienza del genere umano, e con un preteso ragionamento della mente a distruggere l' autorità del ragionamento e le testimonianze della coscienza intellettiva, che di ogni ragionamento è la base. Eppure questo errore è il perpetuo labirinto della filosofia; e mi fa uscire di me stesso dallo stupore, pensando che io non conosco scrittore anteriore al 1.27, che, entrato in questo argomento, abbia saputo pienamente spacciarsene e rompere questa tela di ragno. Ora, io qui ho creduto di stendermi a ripetere ciò che ho detto tante volte altrove (1), mosso dal dolore che mi preme, al vedere che il soggettivismo, che nell' accennato sofisma tiene le radici, è ancora universale anche nella nostra Italia; e indi i tanti funesti e mostruosi errori, che deformano e infamano la filosofia; errori oggimai svolti e dedotti logicamente fino alle ultime loro propaggini, come dicevamo. L' ultimo di questi errori, il più maturo frutto del soggettivismo, già l' accennammo, è la deificazione dell' anima, l' antropolatria, il panteismo psicologico. Facciamo in breve la storia di questo obbrobrio, di cui va svergognata la scienza, o piuttosto l' ignoranza orgogliosa e luciferina; e dei gradi pei quali ella discese giù in codesta sede dei demoni, ove ora si giace e si tormenta. L' errore originale e primitivo, onde vennero tutti gli altri, è l' accennato: l' abuso di questi vocaboli interno ed esterno, fuori e dentro, trasportati dai corpi all' anima; e quindi il principio che « l' anima nulla può conoscere fuori di sè stessa ». Vediamo come serpeggiò questo errore ed avvelenò la filosofia, la quale non può essere sanata fino che non si purghi affatto e digerisca il potente veleno, che le strazia mortalmente i visceri. BERKELEY. - Egli aveva detto che la nostra cognizione dei corpi si riduce alle sensazioni, che le sensazioni non sono che modificazioni dell' anima; che dunque i corpi non sono che modificazioni dell' anima stessa: Idealismo estetico . - Gli errori di questo ragionamento sono: 1) Il sensismo, errore che abolisce il pensiero. Infatti se si ammette il pensiero, cioè se si ammette che il corpo si percepisca dall' intelligenza come un ente da noi distinto, qualunque cosa sieno le sensazioni, rimane sempre vero che il concetto di un corpo è tutt' altro dal concetto delle modificazioni dell' anima; e però non si può confondere l' oggetto di quel concetto, che tutto il modo esprime colla parola corpo, col concetto delle modificazioni dell' anima propria. 2) La dottrina del sentimento imperfetta e mozza; poichè il sensismo lokiano, seguito da Berkeley, conosce le sole sensazioni acquisite, con cui si percepiscono i corpi extra7soggettivi, ed ignora il sentimento fondamentale, con cui si percepisce il corpo soggettivo. Di più, in quel sistema non si distingue fra il principio senziente e semplice, e il termine del sentimento esteso; e quindi non si può conoscere la dualità, che è essenziale ad ogni sentimento corporeo. Se si fosse conosciuta questa dualità, e che l' anima non è che il principio senziente, non si sarebbero già definite le sensazioni mere modificazioni dell' anima; anzi si avrebbe riconosciuto che in ogni sentimento corporeo, in ogni sensazione vi è una sostanza diversa dall' anima stessa, che agisce a suo modo nell' anima. Ma non distinguendosi il termine dell' anima dall' anima, si ridusse quello a questa; e si confuse e identificò il termine col principio, dicendo che quello era una mera modificazione di questo. HUME. - Ammesso il sensismo lokiano, cioè ammesso che le idee si riducono alle sensazioni ed ai sentimenti soggettivi, e ammesso che le sensazioni sono mere modificazioni dell' anima, Hume ne dedusse conseguentemente che anche le idee e i principŒ della ragione, che nelle idee si contengono, non sono che modificazioni dell' anima, e quindi che non hanno forza di provare l' esistenza di alcuna cosa fuori dell' anima, nè quella dei corpi, nè quella di Dio, ecc.: Idealismo razionale . - Gli errori generatori di questo sistema sono i medesimi, ma già producono una conseguenza di più; chè di vero Berkeley, fermandosi ai corpi, ed ammettendo l' esistenza di Dio e degli spiriti, era inconseguente. Ora, nell' essere Hume meglio conseguente all' errore, egli dovette impugnare un' altra verità, cioè « la differenza e l' opposizione che passa fra l' oggetto della mente e la mente che lo intuisce »; dovette chiudere gli occhi a questa patentissima verità di fatto, che « quando la mente pensa un oggetto possibile, per esempio una torre possibile a costruirsi, ella non pensa sè stessa, nè pensa una sua modificazione; anzi pensa cosa di natura diversa ed opposta alla natura propria ed alla natura delle proprie modificazioni; e questo oggetto, a cui ella pensa, non è tuttavia un nulla, perchè il nulla non è una torre possibile ». REID. - Atterrito da conseguenze così assurde e funeste, Reid volle tornare al senso comune, riconoscendo pienamente che gli uomini quando pensano i corpi, o le idee ed i principŒ del ragionare, non credono di pensare a sè stessi o alle proprie modificazioni, nè per vero ci pensano. Ma non sapendo come rispondere direttamente al paralogismo che serviva di base a tali errori, cioè che « l' anima non può uscire di sè, e perciò non può pensare che sè stessa, e quanto accade in sè stessa », invece di sciogliere il nodo, lo tagliò, dicendo che « « l' anima veramente percepisce e pensa cose da sè diverse, ma lo fa mediante certe leggi primitive e istintive della propria natura » »: Soggettivismo realistico . - Questa dottrina ammetteva il fatto, attestato dal senso comune, che l' anima pensa cose diverse da sè; ma non soddisfaceva, perchè non rispondeva al sofisma fondamentale opposto, anzi lo confermava. E nel vero: 1) Le leggi soggettive e istintive, che introduceva, erano introdotte ad arbitrio, non avevano alcuna prova. 2) Quelle leggi e quegli istinti, che si voleva movessero la natura umana a pensare cose esterne, essendo diversi dalla ragione, erano ciechi, e non potevano porgere la dimostrazione della propria veracità ed autorità di testimoniare cose diverse dall' anima; indi la loro testimonianza poteva essere illusoria; anzi doveva esser tale, dal momento che l' uomo si sottraeva alla guida della ragione per affidarsi ad un' altra guida, che si dichiarava non essere la ragione. 3) Finalmente, se l' uomo pensava le cose diverse da sè per leggi istintive della propria natura, queste stesse cose dovevano essere considerate come produzioni della natura umana; gli oggetti dunque del pensiero venivano dall' uomo, nè l' uomo poteva più assicurarsi che gli fossero dati altronde da percepire. KANT. - Queste osservazioni non isfuggite a Kant, gli fecero concepire il suo sistema. Egli ammise le leggi e gli istinti soggettivi di Reid, e ritenne la dottrina di Berkeley e di Hume, prendendo quelle leggi a spiegazione di questa. Disse non potersi negare che l' anima non possa uscire di sè, dunque conoscere tutto in sè stessa; ma non potersi neppur negare che il senso comune ammetta che l' uomo conosca cose diverse da sè; dunque tale credenza dover essere un necessario effetto delle leggi soggettive indicate da Reid, senza che queste avessero alcuna efficacia a provare la verace esistenza di cose diverse dall' anima. Credette dunque che altro non rimanesse a fare alla filosofia, per condursi alla perfezione sulla via in cui erasi incamminata, se non di determinare quali sieno queste leggi soggettive, desumendole dall' accurata enumerazione ed analisi degli oggetti, che per esse l' uomo ammetteva. Così nacque la dottrina delle forme kantiane, degli schemi e delle antinomie: Criticismo (idealismo razionale ridotto in sistema ). - Gli errori, che partorirono il criticismo, sono i precedenti, non saputi dal filosofo confutare, bensì saputi con ingegno non comune sistematizzare. I quali errori ingrandiscono nelle sue mani appunto perchè ridotti in un corpo, di cui tutti gli organi sono divisati. Kant solamente aggiunse che il non potersi coll' umana intelligenza dimostrare l' esistenza di alcun ente diverso da essa, non toglie che non ve ne possano essere; non se ne poteva dimostrare l' esistenza, nè negare. REINHOLD. - Come Reid aveva tentato in Inghilterra di rimuovere dalla filosofia le funeste conseguenze dei sistemi di Berkeley e di Hume, senza poter disciogliere il sofisma che loro serviva di fondamento, così Reinhold tolse a fare in Germania rispetto alle orribili conseguenze del criticismo. Egli dunque incominciò, al pari dello Scozzese, ad accordare imprudentemente a Kant le fatali sue premesse. Poi ragionò press' a poco così: « Il subbietto rappresenta a sè stesso gli oggetti. Ora data questa innegabile facoltà della rappresentazione, vediamo coll' analisi ciò che essa racchiude. La facoltà rappresentativa suppone tre concetti: 1) il soggetto rappresentante; 2) l' oggetto rappresentato; 3) la stessa rappresentazione. Tutto ciò mi attesta la coscienza di me stesso. Se dunque esiste la rappresentazione, il che non si nega, deve esistere anche l' oggetto rappresentato ed il soggetto rappresentante come sue condizioni »: Sistema della rappresentazione . - Ma era facile rispondere, ammesso e non impugnato l' errore primitivo e originale, che tutte queste distinzioni erano fenomeniche, prodotte dalle leggi a cui ubbidisce il soggetto nel suo operare. Il che Reinhold medesimo poscia riconobbe; riconobbe che il suo ragionamento, acciocchè avesse forza, presupponeva la verità di quell' oggetto che si trattava di dimostrare. Laonde disperato della ragione, la abbandonò, sperando di trovare una guida migliore nella fede di Jacobi, che somiglia a quella degli Scozzesi. Gli errori generatori del sistema di Reinhold sono dunque i precedenti, a cui s' aggiunse uno suo proprio; non perchè non lo professassero anche quelli che lo precedettero, ma perchè sopra di esso Reinhold fondò il suo sistema. Questo errore si è il credere che l' intelligenza percepisca gli oggetti unicamente per via di rappresentazione, intesa per un ritratto di essi. Se ciò fosse, non si potrebbe declinare il soggettivismo e lo scetticismo, perocchè niuna rappresentazione può da sè stessa far conoscere gli oggetti, se non si sa che ella li rappresenta, e che ella li rappresenta fedelmente. Ora, questo non si può sapere, se non confrontando la rappresentazione cogli oggetti rappresentati; al che fare conviene conoscerli, mentre si tratta di spiegare appunto come si conoscono; ovvero venendone assicurati da qualche testimonianza infallibile, e quindi supponendo l' esistenza di un infallibile testimonio diverso dall' anima, quando si tratta pure di cercare come si possa conoscere qualche cosa, che sia veramente diverso dall' anima. Il vero si è che gli oggetti sono presenti immediatamente all' intelligenza, sieno essi ideali o reali (sentiti), perocchè l' ente è il proprio ed immediato termine dell' anima intellettiva (1). FICHTE. - Riuscito male il tentativo di Reinhold, come era riuscito male il tentativo di Reid, il soggettivismo senza intoppi seguì il fatale suo corso. Fichte, ammettendo come i precedenti, per argomento efficacissimo il sofisma originale e primitivo, che l' anima non possa conoscere che sè stessa, scartò la possibilità lasciata sussistere da Kant di enti distinti dall' anima, che era veramente un' inconseguenza; giacchè se tutte le cose concepite dall' uomo sono un risultato delle forme soggettive, nessun' altra ne può rimanere, perchè l' intelligenza umana s' estende in qualche modo a tutto, al finito non meno che all' infinito. Compose adunque un sistema del più coerente soggettivismo. Riassumiamo ciò che s' era fatto sino a lui. Si era incominciato a cercare come l' uomo conosce le cose diverse da sè. La filosofia aveva ereditato dai maggiori uno speciosissimo pregiudizio, che l' uomo le conosce per via di rappresentazione. Gli idealisti inglesi avevano dimostrato che ciò era impossibile, e però conchiusero che l' uomo nulla conosce di diverso da sè; dal nulla conoscere passarono, per logica conseguenza, a negare l' esistenza di tali cose. Gli Scozzesi avevano detto che questo è un paradosso impossibile a sostenersi, perchè va direttamente contro all' autorità di tutto il genere umano. Kant diede ragione agli Scozzesi con un cotale scherno [schema] suo proprio, dicendo che non si potevano negare gli enti diversi dall' anima, ma d' altra parte essi non potevano essere che produzioni dell' anima. Gli istinti conoscitivi degli Scozzesi Kant li tramutò in istinti produttivi; nè Reinhold aveva saputo opporre che sforzi di buona volontà alla critica della ragione pura. Kant s' era occupato a distinguere, classificare e descrivere accuratamente tutti gli istinti, o leggi soggettive, o forme, come egli le chiama, dello spirito; colle quali lo spirito compone a sè stesso le proprie cognizioni, i propri oggetti. Non restava che a distinguere, classificare e descrivere gli oggetti stessi sommari, che lo spirito colla portentosa attività che gli si attribuì (del tutto per altro gratuitamente) produceva a sè stesso; e l' opera fu assunta a farsi da Fichte. Kant descrisse e anatomizzò la potenza, che ha lo spirito di produrre a sè stesso gli oggetti; Fichte considerò l' atto di questa potenza, e gli oggetti stessi già prodotti da esso. L' Io, che Kant aveva posto come il vincolo di tutte le rappresentazioni, e che Reinhold aveva fatto sinonimo di coscienza, divenne per Fichte l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose. Questo era un passo immenso che dava il soggettivismo verso il suo ultimo sviluppo; con un tal passo si rivelava già la faccia dell' abisso, in cui un tale sistema conduceva necessariamente i suoi seguaci. Perocchè se l' Io è l' atto primo di tutto lo scibile e di tutte le cose, egli è il Creatore, è Dio. Eppure questo passo, a cui il soggettivismo fu spinto dalla logica imperterrita di Fichte, non si poteva evitare dopo i precedenti. Vediamo come questo filosofo dell' alta Lusazia movesse il suo nuovo creatore alla grande opera della produzione dello scibile e dell' universo. Egli cominciò dal dire che l' Io pone sè stesso ; questo è il primo atto. Se questa proposizione l' Io pone sè stesso fosse usata a significare unicamente il primo atto immanente dell' Io, non si potrebbe riprendere; perocchè ogni cosa in quanto fa l' atto con cui è, pone in qualche modo sè stessa, potendosi considerare il passaggio dal non essere all' essere come una cotal via, per la quale viene a naturarsi la cosa: via che è percorsa senza successione di tempo con atto unico, ma tale in cui si possono colla mente discernere più gradi ab imperfecto ad perfectum, siccome solevano concepire il moto all' esistenza gli Scolastici stessi. Ma non così spiega Fichte il suo detto, ma vuole che l' Io ponga sè stesso pronunciando questa proposizione: « Io sono Io ». La qual maniera di spiegare come l' Io ponga sè stesso, è manifestamente assurda: 1) Perocchè quando il principio intelligente ha pronunciato il solo monosillabo Io, indubitatamente esiste, senza bisogno che egli aggiunga: sono Io . Onde con quella proposizione l' Io porrebbe un Io che già è posto; ella dunque esprime l' atto, con cui l' Io riflette sopra sè stesso, e non l' atto con cui l' Io esiste. Da questo primo errore procede che in tali sistemi la coscienza, opera della riflessione, accompagna sempre l' Io: il che è evidentemente falso, perocchè l' Io non ha sempre attuale coscienza di sè stesso. 2) Ho detto che il principio intelligente, quando ha pronunciato questo monosillabo Io, senza più, non può non esistere. Ma non basta. Potrebbe l' Io pronunciare sè stesso, cioè fare un atto, se non esistesse già precedentemente? Niuno fa atti prima di esistere. Dunque il pronunciare Io suppone l' esistenza anteriore dell' Io. L' Io dunque non pone sè stesso nel senso di Fichte. La ragione, per la quale questo filosofo ruppe in tali assurdi colla prima parola della sua filosofia, si fu che egli prese l' Io bello e formato, qual' è nel sentimento d' un uomo adulto, non ne analizzò il concetto, e non s' accorse che questo concetto era un elaborato della riflessione, e che non conteneva solamente l' anima umana, ma l' anima già svolta e pervenuta alla coscienza di sè; quando anteriormente a quest' anima, conscia di sè, vi è pure la stessa anima, che per essenza sua è principio ed individuo razionale, come noi abbiamo mostrato nella « Psicologia ». Ed è costante, che una delle cose più difficili a cogliere, per coloro che prendono a filosofare, è quello stato dell' uomo che precede la coscienza; eppure in questo stato è da cercarsi la natura umana, giacchè la coscienza non è naturale all' uomo, ma acquisita. Intanto coll' atto col quale l' Io pronuncia Io sono Io, secondo Fichte, l' Io ha posto il primo dei suoi oggetti, cioè sè stesso . Il vero però si è che l' Io con questo atto non ha posto sè stesso, ma solo si è conosciuto riflessamente, e che perciò la propria esistenza non dipende dall' atto con cui l' anima si conosce, perchè anzi questa cognizione suppone dinanzi a sè l' anima, oggetto della cognizione. Vediamo come Fichte fa che l' Io produca il secondo dei suoi oggetti sommari. L' Io fa un altro atto, con cui dice: Io non sono il Non7Io . Ottimamente: distingue sè stesso da tutto ciò che non è lui. Ma questo atto non è ancora che un atto di conoscimento, non produce cosa alcuna, anzi è un atto che distingue due cose, l' Io e il Non7Io; le quali non potrebbe distinguere, se già non fossero. La cognizione suppone dinanzi a sè l' esistenza (possibile o reale) della cosa conosciuta. Eppure questa evidentissima verità è quella che sfugge al filosofo pregiudicato; e suppone di nuovo gratuitamente che il conoscere e il distinguere sia il produrre. Il secondo oggetto adunque prodotto dall' Io, nella supposizione di questo filosofo, è tutto ciò che non è l' Io, e che sotto la parola negativa Non7Io acconciamente si comprende. Veniamo alla produzione del terzo oggetto. L' Io fa un terzo atto pronunciando: l' Io e il Non7Io sono nell' Io . Se fosse vero che l' Io non è altro che la produzione dell' atto con cui si conosce l' Io, e se fosse vero che il Non7Io non è del pari altro che la produzione dell' atto con cui si conosce il Non7Io, in tal caso sarebbe vero che l' Io e il Non7Io, ridotti ad essere due atti conoscitivi, sono nell' Io. Ma se è vero che niuno può conoscere e pronunciare sè stesso esistente, se prima non esiste indipendentemente da tale atto; e se è vero del pari che il Non7Io non si può conoscere o pronunciare esistente, se allo stesso modo prima non esiste; è altresì evidentemente vero che l' Io e il Non7Io non sono nell' Io. Ma nell' Io solamente sono gli atti con cui tali enti si percepiscono, i quali atti sono accidenti dell' Io; e in un altro modo sono nell' Io anche i concetti di quegli enti, non come accidenti dell' Io, ma da lui distinti per natura, come suoi oggetti. Ricorre adunque in Fichte una continua confusione fra la cognizione e l' esistenza delle cose, sempre l' antico errore di Parmenide: «to gar auto noein esti te kai einai». - Ci si dirà: « Per voi non esiste se non ciò che conoscete ». - Sia pure: ma se io conosco una cosa, io so in pari tempo che la cosa esiste indipendentemente dall' atto con cui la conosco; perocchè il concetto di conoscere involge necessariamente il concetto di una entità conoscibile, logicamente anteriore a quell' atto. Onde io non posso conoscere una cosa, se non a condizione che conosca altresì ch' ella è indipendente dal mio conoscere; altrimenti io direi una proposizione contradittoria, dicendo che conosco una cosa che non esiste se non in virtù dell' atto col quale la conosco, e però posteriormente a quest' atto (nell' ordine logico). O conviene negare il principio di contraddizione e d' identità, su cui si fonda lo stesso sistema di Fichte, o confessare che al conoscere dell' uomo precede logicamente l' esistenza della cosa conoscibile, e che perciò il conoscere umano e l' esistere non si identificano, anzi si distinguono per modo che senza tale distinzione il conoscere non è più possibile. Ma acciocchè si veda meglio quanti paralogismi involga questo sistema, riprendiamo ciò che io ho fin di troppo conceduto. Ho conceduto che se l' Io e il Non7Io altro non sono che atti di conoscere e concetti conosciuti, questi si possono trovare insieme nell' Io, come pretende Fichte. Ma io ho conceduto questo ad abundandum . A giusta ragione non dovevo concederlo. Avverto adunque che il filosofo nostro in quella sua proposizione muta il significato del vocabolo Io, perocchè dicendo che l' Io e il Non7Io sono nell' Io, egli prende l' Io e il Non7Io contenuti come due concetti formati dall' atto del conoscere; ma egli prende all' opposto l' Io contenente non già come concetto prodotto, ma nel senso volgare, come un ente reale, una intelligenza, in cui sono i concetti. Senza di ciò la proposizione non ha senso alcuno; perocchè se anche per l' Io contenente s' intende il mero concetto dell' Io, è assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto dell' Io, perchè non sono due cose, ma una medesima; ed è ancora più assurdo che nel concetto dell' Io sia il concetto del Non7Io, perocchè l' un concetto esclude l' altro per la stessa loro enunciazione. Onde il filosofo mescola e confonde l' Io, da lui prodotto per via di speculazione, coll' Io reale, nel quale solo dimora la cognizione di sè stesso. Ma l' ammettere un Io reale, anteriore all' Io concetto e riflesso, è la distruzione del sistema che si vuole stabilire, il quale si propone di ridurre ogni cosa ad idee o concetti. Mediante tale confusione adunque di significati attribuiti al vocabolo Io, conchiude che l' Io fa un' equazione col Non7Io, in quanto che si trovano nel medesimo Io, di cui sono egualmente produzioni, e però si radicano e immergono nello stesso atto primitivo dell' Io. Così gli oggetti supremi dello scibile e dell' universo sono tre: l' Io che pone sè stesso, l' Io che pone il Non7Io, l' Io che fa un' equazione tra l' Io e il Non7Io. Ma: In questi tre oggetti il valore della parola Io cangia sempre, come dicevamo, perocchè l' Io producente non può essere l' Io prodotto, giacchè producente e prodotto sono concetti opposti; l' Io, nel quale l' Io e il Non7Io fanno equazione, non può essere lo stesso Io che costituisce un termine dell' equazione, perocchè ciò che contiene i due termini non può essere uno dei due termini. Se l' Io produce il Non7Io, dunque produce ciò che non è Io, produce un' entità diversa da sè; egli dunque od esce colla sua attività da sè stesso, ovvero, senza uscire da sè stesso, produce un' entità che non è lui stesso. Il che è ben evidente, poichè l' Io e il Non7Io sono opposti; e non possono dichiararsi la cosa identica senza pugnare col principio di contraddizione, giacchè il sì e il no non si potrà mai dire che significhino lo stesso. Che se l' Io produce un' entità diversa da sè, dunque il celebre sofisma, su cui si regge tutto l' idealismo trascendentale, se ne è ito a terra, rimanendo conceduto che l' Io può uscire da sè stesso cogli atti suoi, può creare qualche cosa di diverso da sè e di opposto a sè, qualunque cosa poi ella sia (1). Vera equazione fra l' Io e il Non7Io non si potrà far mai, se non si mutano i significati di tali espressioni, perchè i contrari, dei quali l' uno esclude l' altro, non possono fare mai equazione fra loro, presi nello stesso senso. Potrà esservi paragone, non equazione. Quindi Fichte abusa della parola equazione. Se si vuol vedere questo abuso, si consideri che egli spiega la sua pretesa equazione, dicendo che l' Io contrappone all' Io divisibile un Non7Io, pure divisibile. Ma il contrapporre una cosa all' altra non è fare un' equazione, anzi è negare l' equazione. Egli soggiunge che quell' equazione contiene queste due proposizioni: 1) L' Io pone il Non7Io come limitato dall' Io; 2) L' Io pone sè stesso come limitato dal Non7Io . Ma in queste proposizioni niuna cosa fa equazione coll' altra, perocchè il limitare che l' una fa l' altra non è fare equazione coll' altra. Si abusa dunque di questa parola equazione. Oltre di che, l' Io limitante non è preso nello stesso senso dell' Io limitato, l' Io divisibile non è preso nello stesso senso dell' Io indiviso. Si gioca adunque colle diverse riflessioni, che il principio intelligente fa sopra sè stesso e sopra le cose diverse da sè, e invece di considerare ogni riflessione come un diverso atto del medesimo, si vuole che ognuna di essa produca un Io diverso, che coll' Io precedente abbia i rapporti di limitante, di limitato, di contenente, di contenuto, di producente, di prodotto, con misero gioco d' ingegno degno dei sofisti greci; ma inevitabile, quando non si conosca che l' ente intelligente precede la coscienza che si forma di sè, e quando si muova dall' errore che l' ente intelligente risulti dall' atto stesso con cui egli acquista coscienza di sè; la quale coscienza potendosi replicare secondo i numeri delle riflessioni, accade che gli Io stessi si vadano così replicando, e si possano così prendere ora pel medesimo Io, ed ora per diversi Io, secondo il bisogno dell' impresa che si tolse di paralogizzare. Tutto questo sistema poi manca di ragione sufficiente. Niente si può rispondere con esso a queste interrogazioni: Qual ragione vi è perchè l' Io ponga sè stesso, anzichè non si ponga? Che cosa lo muove a porsi? E a porsi in un tempo piuttosto che in un altro? Giacchè la coscienza di ogni uomo ha pur cominciato in un dato tempo. Qual ragione vi è perchè il numero degli Io che si pongono sia piuttosto uno che l' altro? Giacchè il numero degli Io è pur finito, e potrebbe essere accresciuto, e viene accresciuto ogni giorno col nascere di nuovi uomini. Ovvero dovete sostenere che non esiste che il vostro Io (il che sarebbe coerente all' escludere tutto ciò che è fuori di lui), nel qual caso voi comporreste la filosofia per voi solo. Qual ragione muove l' Io a porre il Non7Io piuttosto che a non lo porre? La parola Non7Io esprime il mondo e le cose tutte diverse dall' Io in un modo negativo, come osservammo, cioè dichiarando che esse non sono Io, ma non dicendo che cosa sono. Ora non ogni Io pone (per continuare colla stessa frase) un Non7Io eguale; imperocchè certi uomini conoscono del mondo e delle cose da sè diverse più, ed altri meno; e quindi l' Io dei primi pone non Non7Io diverso (più o meno abbondante) che non fa l' Io dei secondi. Qual ragione sufficiente assegnate voi perchè un Io debba porre un Non7Io determinato in un modo piuttosto che in un altro? Qual ragione vi è perchè l' Io voglia limitare sè stesso producendo il Non7Io? Qual ragione assegnate voi perchè l' Io voglia dividere sè stesso in due, nell' Io e nel Non7Io, come voi dite? Nel sistema di Fichte non si rende, e non si può rendere alcuna ragione sufficiente di tutti gli atti che si fanno fare all' Io. E dove ci fosse una tale ragione, che determina l' Io a tutti gli atti che gli si fanno fare, ella dovrebbe essere diversa dall' Io, e superiore all' Io, al quale verrebbe imposta; e così ella annullerebbe il sistema, perocchè tutto il sistema consiste nell' abolire ogni cosa fuori dell' Io. E` dunque, questo di Fichte, un sistema senza ragione, sistema del caso cieco; lungi dunque di spiegare la scienza, anzi si pone che il mondo esista ed operi senza causa; l' intelligenza così è soppressa, non rimane che il più capriccioso, il più assurdo fatalismo. E` conseguente, che tutti i primi principŒ del ragionamento rimangano in questo sistema violati e distrutti. Se si trattasse solamente di distruggerli, altro non se n' avrebbe che la distruzione e l' impossibilità del sapere. Ma in quella vece s' invocano i principŒ del ragionamento, acciocchè aiutino a comporre un sistema che affatto li viola, li abolisce. Infatti: Il principio di cognizione dice: « l' ente è oggetto del conoscere »; e questo sistema dice: « il conoscere produce l' ente », che è un principio affatto opposto; oltre di che suppone che il conoscere preceda l' esistere. Il principio di contraddizione dice: « fra l' affermare e il negare non si dà eguaglianza », e questo sistema dice: « l' Io che è affermazione, e il Non7Io che è negazione, fanno fra di loro un' equazione ». Ma le contraddizioni in tal sistema sono più che le parole. Mi restringerò ad accennarne una nuova. « L' Io pone il Non7Io ». Ora che cosa è il Non7Io? Tutto ciò che non è l' Io: il mondo e Dio. Ma nel mondo vi sono degli altri Io (1). Ora questi Io pongono sè stessi. Ma poichè rispetto all' altro Io, sono Non7Io, dunque sono posti due volte. Anzi ogni Io è posto tante volte quanti sono gli Io esistenti, perocchè ciascun Io pone sè stesso e pone tutti gli altri, compresi nel Non7Io. Ora, o colle parole « porre l' Io e porre il Non7Io »si vuole intendere meramente conoscere, e in tal caso il sistema si discioglie e svanisce, perchè suppone avanti del conoscere stesso l' oggetto; o si vuol dire fare esistere , e in tal caso gli Io si moltiplicano all' infinito, perocchè ogni Io, ponendo tutti gli Io che esistono, li produce; onde il numero degli Io si moltiplica per sè stesso; e questo numero di Io, elevato alla seconda potenza, di nuovo si moltiplica per la ragione stessa; onde l' aumento degli Io in questo sistema verrebbe espresso da una serie infinita, che, fatto il numero primitivo degli Io .uguale . .x ., si potrebbe esprimere così: .x ., .x . 2, .x . 4, .x . ., .x . 16, ecc., all' infinito; nella qual serie, non trovandosi mai l' ultimo termine, il numero degli Io esistenti non sarebbe assegnabile, anzi non potrebbe venire giammai all' esistenza neppure un solo Io, giacchè il primo implica tutta la serie. La quale è patentissima matematica dimostrazione, che nel sistema di Fichte diviene impossibile ed assurda ogni qualunque esistenza e conoscenza. Il filosofo nostro dirà forse che non esiste se non il solo suo Io, e che egli scrisse la sua filosofia per sè solo, come un ragno che fa la sua tela dove non sono mosche; ma primieramente in questo caso egli sarebbe condannato a porre un Non7Io del tutto inanimato, un Universo abitato da lui solo, e quindi a vivere eternamente fra esseri bruti; e tuttavia gli resterebbe a render ragione a sè stesso del perchè il suo Io non potrebbe porre alcun altro Io, compreso nel Non7Io, giacchè gliene potrebbe pure venire qualche vaghezza per uscire una volta dalla sua sterile solitudine, e rendersi prolifico di qualche suo simile! E quanta ragione poi non avrebbe di conservare sè stesso acciocchè non perisca con esso tutto il mondo! In secondo luogo poi, essendo indubitato che il suo Io pone nel Non7Io molti altri Io diversi da sè, converrebbe che il suo porre non significasse più produrre un ente reale, ma produrre delle illusioni, e in tal caso lui stesso sarebbe un' illusione perchè posto da sè stesso. Ma se tutto fosse illusione, non vi sarebbe più illusione, chè la parola illusione ha un significato relativo alla realità ; e ad ogni modo sarebbero sempre tanto veri gli Io, che egli pone nel Non7Io, quanto è vero lui medesimo che si pone allo stesso modo. Il principio di sostanza è tolto via, giacchè facendosi in questo sistema che il conoscere riflesso, che è un accidente dell' intelletto umano, sia lo stesso che l' essere, è tolta affatto la distinzione della sostanza e dell' accidente; si fa che l' accidente sussista per sè stesso. Il principio di causa è del pari abolito, perchè non si dà causa, la quale possa operare senza una ragione sufficiente; e noi vedemmo che l' Io opera in questo sistema senza una ragione che ne lo determini, e che spieghi il suo atto. Il principio del fare dell' ente dice così: « Ogni ente cogli atti suoi naturali tende a conservarsi, ingrandirsi, perfezionarsi ». Quindi per l' opposto: « Nessun ente limita sè stesso, nessun ente divide sè stesso, ecc. »; ma di queste passioni dell' ente si deve rinvenire una causa straniera alla sua naturale attività. Ora l' Io di Fichte, l' unico ente che esista, limita e divide sè stesso, contrappone a sè un ostacolo, che poi cerca di vincere e superare. E` violato dunque il principio ontologico del fare dell' ente; e tutto ciò senza darne ragione alcuna, per via di mero asserto dogmatico del filosofo nostro. Ma tolti via tutti i principŒ logici ed ontologici del ragionamento, niuno ha più diritto di ragionare, deve tacere; niuno ha diritto di pensare, deve vegetare; perchè nè parlare, nè pensar può, senza riabilitare prima i principŒ stessi, che disabilitò e distrusse. Il nostro filosofo adunque dice ancora troppo, dice di più che non abbia diritto di dire, allorquando esprime il risultamento del suo sistema con queste parole che lo annientano: « Non v' è nulla di esistente nè in me, nè fuori di me, ma solamente una variazione continua. Non v' è alcun essere. L' unica cosa che esiste sono le immagini; io stesso sono una di queste immagini, anzi io non sono questo, ma solamente un' immagine confusa d' immagini. Ogni realità si converte in un sogno meraviglioso, ed il pensiero è il sogno di quel sogno ». Fichte non ha diritto di dire pur questo, senza cadere in una nuova contraddizione. Il sistema del soggettivismo, così sviluppato, comparve prima che in ogni altro luogo in Oriente; e i filosofi indiani, che lo professarono, pervennero alla stessa conclusione di Fichte. V' è una setta di Buddhisti, che altro non ammette che il sentimento interno, l' esistenza eterna di lui, del manas intelligente, il quale ha la coscienza delle cose; e sostengono che tutto il resto è vuoto, cioè nulla, nè v' è possibilità di provare colla ragione che esista. Non ammettono che l' Io, onde fanno uscire il Non7Io come una mera illusione. « Non v' è cosa che esista realmente », dice un Buddhista. I Fo (cioè i sapienti pervenuti a ridurre tutte le cose ad essere altrettante produzioni vane dell' intelletto) « « non distinguono i mondi dal loro proprio intendimento. Tutto ciò che è nei mondi è lo stesso intendimento di Fo, cioè non vi è altra cosa che Fo (la natura intellettiva) »(1) ». [...OMISSIS...] . Infine tutte le cose si dichiarano sogni di Fo, cioè dell' intelligenza. SCHELLING. - Come i precedenti, Schelling ritenne l' errore che confonde le idee, e generalmente gli oggetti dello spirito, collo spirito. E poichè gli oggetti dello spirito sono infiniti (poichè da parte del suo oggetto lo spirito non è limitato), si occupò ad unificare questi oggetti, riducendoli ad un solo infinito. Confuso con questo infinito lo spirito che lo conosce, riuscì al sistema dell' identità assoluta, rimanendo lo spirito identificato coll' oggetto suo infinito, che tutti gli oggetti determinati comprende. Schelling adunque fu colpito da ciò che aveva detto Fichte, che « l' Io e il Non7Io formavano un' equazione »; e il sistema dell' identità assoluta si può dire infatti che non sia altro che uno sviluppo e un perfezionamento di questa proposizione del suo predecessore. Ma si consideri il filo di tutto il ragionamento, e ne apparirà l' inevitabile incoerenza. La ragione, per la quale si confuse lo spirito conoscente cogli oggetti conosciuti, si fu quel pregiudizio, di cui abbiamo parlato, che « lo spirito nulla può conoscere fuori di sè stesso »; del qual pregiudizio la filosofia tedesca dopo che le entrò nei visceri, peggiore d' ogni tenia, non potè mai liberarsi. Ora Fichte, lungi d' esser coerente a questo erroneo principio, che aveva preso per fondamento di tutto il suo ragionare, se ne dipartì senza accorgersene, perchè è cosa impossibile rimanere a lungo coerente ad un primo errore. Ecco come nacque l' incoerenza di Fichte. Fichte aveva confuso lo spirito coll' Io; e posciachè l' Io è uno spirito che ha coscienza di sè e si pronuncia, perciò aveva confuso lo spirito colla coscienza; nella coscienza stessa di sè aveva riposto la natura dello spirito, e quindi trovata quell' assurda e contradittoria sentenza, che « l' Io pone sè stesso ». Ma poichè lo spirito, oltre conoscere sè stesso, conosce anche tante altre cose, affine di spiegare questo fatto, Fichte aveva aggiunto che « l' Io pone anche il Non7Io ». Atteso poi che l' Io nulla può conoscere fuori di sè stesso, Fichte conchiuse che « fra l' Io e il Non7Io vi è equazione », riducendo così questo a quello. Ma era una conclusione assurda ed evidentemente contradittoria; perocchè il Non7Io è la negazione dell' Io; e però il Non7Io, qualunque cosa sia, non sarà mai lo stesso Io. Ma non sarà neppure una modificazione dell' Io, perocchè l' Io, essendo la coscienza di sè, non potrebbe non essere conscio della propria modificazione, se tale fosse il Non7Io. All' incontro l' Io è conscio che il Non7Io è una negazione di sè, qualche cosa che gli si oppone, e opponendoglisi, lo limita; lo limita in questo senso appunto che gli fa conoscere di non essere tutto, ma che oltre a sè, vi è qualche cosa che non è sè . Qualunque cosa sia dunque il Non7Io, e da qualunque parte tragga la sua esistenza, certo è che egli non è l' Io, nè una modificazione dell' Io, e però che non è eguale all' Io. Essendo dunque assurdo il fare una equazione fra l' Io e il Non7Io, avrebbe Fichte dovuto accorgersi dell' erroneità del principio, che « l' Io nulla possa conoscere fuori di sè stesso »; perocchè ogni principio, che conduce all' assurdo, è erroneo. Nè meglio può Fichte evitare l' assurdo, dicendo che il Non7Io altro non è che un' apparenza, ma che in verità è lo stesso Io. Perocchè in prima ciò si dovrebbe provare con qualche solido argomento, e non asserire nudamente. Di poi, diamo che sia un' apparenza; quest' apparenza rimane sempre che non sia l' Io, nè si possa come tale ridurre all' Io. In terzo luogo, se si distingue l' apparenza dalla sostanza, in tal caso si domanda se l' Io stesso è apparenza o sostanza. L' Io è la coscienza, ed è pure la coscienza quella che attesta che il Non7Io non è l' Io. La stessa testimonianza è quella che fa conoscere l' Io, e che fa conoscere il Non7Io; se ciò che attesta la coscienza è un' apparenza, anche l' Io è un' apparenza non meno che il Non7Io, ed è quello che in ultimo confessa lo stesso Fichte. Nè poteva altro, giacchè lo stesso Io è quello che pone sè stesso, e che pone il Non7Io. Se trattasi dunque di due apparenze, non v' è più luogo a distinguere nel Non7Io la sostanza dall' apparenza; e però nemmanco ad affermare che il Non7Io rispetto alla sostanza fa un' equazione coll' Io, e rispetto all' apparenza si divide dall' Io. Dunque o sono due sostanze, o due apparenze. E nell' uno e nell' altro caso il Non7Io è opposto, e non mai identificabile collo stesso Io. Ebbene, il Non7Io ha egli coscienza di sè? Non può essere, poichè egli è opposto all' Io, e l' Io è la coscienza. Il dire dunque Non7Io è lo stesso che dire Non7Coscienza. Dunque va a terra il principio di Fichte che lo spirito, essenzialmente coscienza, cioè Io, sia lo stesso Non7Io; dunque vi è qualche cosa che non è la coscienza. Ma il fondamento del sistema stava tutto nel ridurre ogni cosa alla coscienza; dunque il fondamento del sistema va a distruggersi nello svolgimento del sistema medesimo. Schelling, senz' accorgersi punto nè poco che l' introdurre qualche cosa che non fosse la coscienza distruggeva il fondamento d' una tale filosofia, ammise l' Io e il Non7Io, cioè la Coscienza e la Non7Coscienza; e pretese di trovare un movimento, che cangiasse la Non7Coscienza in Coscienza, e la Coscienza in Non7Coscienza. A questo fine egli doveva immaginare (perchè trattasi d' immaginare) un terzo principio, il quale divenisse ora consapevole, ora inconsapevole. Ma questo assunto, gratuito come i precedenti, era un uscire affatto dai primi ragionamenti, coi quali s' era pervenuto a stabilire l' Io e il Non7Io di Fichte, e però si abbracciava un sistema, cominciando dall' annichilirlo del tutto. Schelling, adunque, riceve da Fichte la proposizione che l' Io produca il Non7Io, cioè che il Consapevole (lo Spirito) produca l' Inconsapevole (la Natura); e con ciò viene ad accettare per buoni i principŒ sui quali Fichte basava questa conclusione. Ma di poi aggiunge la proposizione che « il Non7Io produce l' Io », perchè il Non7Io (la Natura) vuole conseguire la coscienza di sè; e con questa aggiunta distrugge e rinnega tutti i principŒ, coi quali fu stabilita la prima proposizione. La ripugnanza dunque e l' intima contraddizione non può essere più manifesta. La dottrina, che svolge la prima proposizione, fu nominata da Schelling Idealismo trascendentale ; la dottrina, che svolge la seconda proposizione, fu nominata Filosofia della Natura . La prima muove dal principio che l' Io nulla conosce fuori di sè; di che ne viene che tutto ciò che si conosce si debba ridurre all' Io; la seconda muove dal principio opposto e contradittorio al primo, cioè che si conosce e vi è qualche cosa che non è l' Io, ma che tende incessantemente a diventare Io, e perciò che è falso il principio posto da prima. La scissura e la lotta fra queste due parti del sistema del filosofo leonbergese non può essere più mortale. Schelling dunque riconosce che la coscienza non è essenziale all' ente, e che questo può averla e non averla; e in ciò poniamo che abbia ragione. Ma in tal caso manca il fondamento del ragionamento, col quale si faceva che l' Io, dopo aver posto sè stesso, ponesse anche un Non7Io eguale a lui; e quindi è sovvertita la base dell' identità assoluta . Se non è assurdo che fuori della coscienza esista qualche cosa, come mai si potrà identificare questo qualche cosa, estraneo alla coscienza, colla coscienza? Non potendosi più ricorrere alla speciosa ragione, che « tutto deve contenersi nella coscienza », e volendosi pure fare una identità del consapevole e dell' inconsapevole, si dovrà ricorrere ad una serie di asserzioni fondate in aria, destituite di ogni prova. Laonde Schelling, che fa in prima uscir fuori l' inconsapevole dal consapevole, come Fichte che fa uscire il Non7Io dall' Io, e poi fa uscire il consapevole dall' inconsapevole, ciò che non fa Fichte e che ripugna alla dottrina di Fichte, come spiega egli la natura bruta, priva di sensazione e d' intelligenza? Egli la considera come l' atto di un Io supremo, del quale suo atto l' Io non abbia alcuna coscienza. Come spiega la sensazione, che riconosce essere priva di coscienza? Egli la fa del pari scaturire dall' Io supremo, al quale nell' atto del sentire vien meno la coscienza di sè stesso. Come spiega il bello estetico? E` per lui l' Io supremo, che nell' artista, perdendo la coscienza di sè, ritiene la coscienza solo delle opere belle prodotte e individuate. Ma quale ragione sufficiente adduce di questo perdersi o di questo limitarsi della coscienza dell' Io? Niuna affatto; nè egli rende alcun perchè dei tempi, in cui questa coscienza ora si oscuri, ora s' illumini. Di più, come prova egli che questi atti, questi prodotti (perocchè confonde gli atti coi prodotti loro), benchè inconsapevoli, debbano uscire dall' Io, che è la coscienza stessa? La ragione non è altra che quella di Fichte, essere impossibile che l' Io intenda qualche cosa fuori di sè stesso, venendo ad argomentare o piuttosto a paralogizzare così: « L' Io non può intendere nulla fuori di sè. Ciò che intende adunque deve essere prodotto da lui stesso »; quasichè fosse lo stesso l' intendere una cosa in sè e il produrre una cosa diversa da sè. Quando anzi, se fosse vero che l' io non potesse intendere niuna cosa se non in sè stesso, si dovrebbe concludere che dunque egli non può produrre niuna cosa che fosse fuori di sè, qual' è il Non7Io, giacchè produrre e intendere si assumono come sinonimi. Ma si ammetta il paralogismo. Noi abbiamo un Non7Io prodotto dall' Io, un inconsapevole prodotto dal consapevole. Continua Schelling l' opera così avviata del suo predecessore, e dice: Questo Non7Io ha un conato ad acquistare la coscienza di sè, perchè è prodotto dall' Io, e perciò lo ha nelle viscere latente. Quale prova di sì grave affermazione? Nulla. Quale ragione sufficiente determina il Non7Io a costituirsi in un Io? Nulla di nuovo. Quale ragione che determini i tempi, in cui il Non7Io è privo di coscienza, e quelli in cui egli la acquista? Nulla per la terza volta. Passi. Ma rimane a domandarsi se l' Io può essere latente, se un Io latente non è una contraddizione in termini, perocchè viene a dire una coscienza senza coscienza. La coscienza, che non è coscienza, è il nulla . Già qui si scorge l' origine del nullismo di Hegel. Ma egli è ancor meno del nulla, perchè è una contraddizione, un assurdo; e il nulla non è un assurdo. Onde si vede che il nullismo dovette condurre Hegel all' assurdismo (parola così bella appunto, come il sistema che esprime), cioè a sostenere che la scienza si fonda sulla contraddizione, che è il principio di quella filosofia. Ridurre adunque ciò che è assenzialmente consapevole, come è l' Io, e ciò che è inconsapevole ad un principio unico, che ora acquista la coscienza ed ora la perde, è impossibile. In primo luogo tutti questi infiniti trasmutamenti del consapevole nell' inconsapevole, e viceversa, non hanno alcuna ragione, come dicevamo. In secondo luogo, o il principio unico può perdere la coscienza, e in tal caso, non avendo la coscienza per sua propria essenza, egli non è infinito, mancandogli il maggiore dei pregi; o il principio unico non può perdere la coscienza di sè, ma solo dei suoi atti e delle sue produzioni, e in tal caso ritorna la dualità, che si vuole ridurre invano all' unità ed alla identità assoluta. Un tale sistema, adunque, può parere meraviglioso come parto di una immaginazione confusa, ottenebratrice della mente, non mai come produzione di ragione filosofica e sapiente. Due sono adunque le parti della filosofia di Schelling. Il sistema di Fichte, che trae dall' Io il Non7Io, ne è la prima; la seconda propria di lui, è il Non7Io tendente ad acquistare la coscienza e ridiventare Io. Abbiamo esaminato i principŒ di natura psicologica, su cui si fonda la prima, e li abbiamo trovati insussistenti. La seconda muove da principŒ di natura ontologica, e sono tali che cozzano coi precedenti. Ora, su questi ultimi, che appartengono esclusivamente a Schelling, è uopo che ci tratteniamo ancora qualche istante. Essi sono attinti al fonte dei Platonici alessandrini, e tutti si riducono alla confusione dell' idea, oggetto, coll' intelligente, soggetto; ma l' esposizione loro ha qualche cosa di originale. Ecco come ella si conduce nel dialogo, che Schelling intitolò « Giordano Bruno ». Quivi si toglie prima a provare che il produttore delle opere artistiche è un' eterna nozione, confondendosi così la causa esemplare di tali opere colla causa efficiente. Rechiamone un brano. In tal modo pretende Schelling aver dimostrato che la nozione dell' individuo sia il produttore stesso delle opere estetiche. Venuto a questo, soggiunge che la nozione dell' individuo è eterna, e che è lo stesso eterno; di che ne trae che lo stesso eterno è il produttore di quelle opere. Ma questa eterna nozione dell' individuo, la quale è il produttore, poco appresso (non curante mai della coerenza del discorso) la chiama emanazione dell' eterno, rassomigliante a quello da cui emana. E poi asserisce immediatamente, senza trovar necessario di aggiungervi la minima prova, che Iddio « « dà alle idee delle cose, che sono in lui, una propria indipendente vita, in quanto permette loro di esistere come anime dei singoli corpi ». » E quindi deduce che « « ogni opera, la quale è il prodotto dell' eterna nozione dell' individuo, ha una doppia vita, cioè una vita indipendente in sè stessa, ed un' altra vita nel produttore ». » Così crede il nostro filosofo aver dimostrato: 1) che le anime sono le idee divine, in quanto Iddio loro permette di esistere come anime dei singoli corpi; 2) che s' identificano con Dio, così come s' identificano coi loro corpi; 3) che queste nozioni, cangiate dal filosofo in anime, sono il produttore delle opere estetiche; 4) che queste opere estetiche hanno vita, anzi una doppia vita, una in sè stesse e un' altra nel produttore. Ad ogni uomo che abbia non già una grande penetrazione, ma solamente un minimo che di logica in capo, deve fare stupore come proposizioni di tal natura si pronuncino così leggermente, quasi non avessero bisogno di dimostrazione la più rigorosa. Ma tale è l' indole della filosofia germanica, di cui si fa tanto strepito. Lasciando noi da parte questo strepito, perchè guai a quelli che, volendo filosofare, si lasciano assordare gli orecchi dallo strepito che leva la moltitudine dei filosofanti, non dubitiamo affermare: 1) che si vede, a dir vero, negli ingegni germanici una grande tendenza al ragionamento deduttivo e conseguenziale; 2) ma che si vede in pari tempo che non ne hanno l' arte, dimostrandosi assai meschini di logica: e ciò perchè la civiltà germanica, essendo recente e fatta a mano ed in fretta, non ebbe ancora il tempo di esercitarsi abbastanza nel discorso dialettico. I filosofi di quella nazione mancano in prima di analisi, e perciò confondono facilmente l' una coll' altra le idee. Mancano poi di dimostrazione, e perciò si contentano di affermare proposizioni sopra proposizioni, l' una più strana dell' altra, senza fermarsi mai a considerare seriamente il valore delle prove. A conferma di che, facciamo alcune osservazioni sul brano citato del Bruno di Federico Schelling. Si dice che il finito è perfetto, quando è annodato coll' infinito, e che non può essere annodato coll' infinito, se non è previamente uno coll' infinito. Ma se il finito è previamente uno coll' infinito, non ha più bisogno di essere annodato con esso lui, perocchè ciò che è uno con un altro, è già annodato o piuttosto immedesimato con esso. Che cosa vuol dire adunque questo previamente ? Egli non ha senso. Di poi l' espressione essere uno coll' infinito è ambigua, e perciò deve essere chiarita coll' analisi dei suoi diversi significati; il che dimentica di fare il nostro filosofo. Se l' esser uno vuol dire l' essere identificato, in tal caso non è più annodato ; perocchè ciò che è identico non si dice essere annodato con sè stesso, ma essere sè stesso; nè ha bisogno d' un mediatore, che lo annodi seco stesso. Dall' aver detto che il finito non può essere annodato coll' infinito, se non per mezzo dell' infinito e dell' eterno stesso, conclude che dunque un' opera, che rappresenti la più alta bellezza, non può essere prodotta che dall' eterno. Nella qual conclusione si racchiude più che nelle premesse; perocchè nelle premesse si distingueva: 1) un' opera finita; 2) l' annodamento di quest' opera coll' infinito, fatto dall' infinito stesso. La conclusione doveva essere che l' infinito contribuisce a produrre l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, in quanto che annoda l' opera finita con sè stesso, ma non che produce l' opera stessa. Manca ancora l' analisi dell' annodamento, che si suppone fra l' opera finita e l' infinito, perchè questo annodamento può essere di più maniere; a parlar chiaro e senza equivoco conveniva dire in che precisamente si faccia consistere tale annodamento dell' opera finita coll' infinito; il che si preterisce. Di poi si prosegue a dire che l' eterno produce l' opera, che rappresenta la più alta bellezza, non considerato assolutamente, ma in quanto si riferisce immediatamente all' individuo produttore. Ma se il produttore è lo stesso eterno, come ora viene in campo un individuo produttore diverso dall' eterno, un individuo produttore a cui l' eterno solo si riferisce? Questa è contraddizione. Toglie quindi a spiegare in che consista questa relazione, per la quale l' eterno si riferisce all' individuo produttore; e per ispiegarla parte da questo principio, che « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni ». Ma questo è falso, giacchè le cose sono in Dio anche come nella loro causa efficiente, non meramente come nella loro causa esemplare . Perchè si ammette dunque una proposizione, opposta alla dottrina di tutti i teologi e di tutti i filosofi, senza alcuna prova? Dall' erroneo principio che « « tutte le cose sono in Dio soltanto per le loro eterne nozioni » »deduce che « « Iddio si riferisce al produttore individuo per l' eterna nozione dell' individuo » ». Ma Iddio non si riferisce al produttore individuo solo per l' eterna nozione dell' individuo, ma ben anche perchè egli realizza colla sua onnipotenza la essenza dell' individuo, che è in quella nozione, e così lo fa esistere, lo crea. Soggiunge queste altre parole, quasi cosa che venga al tutto da sè, che nessuno possa negare, di cui nessuno possa domandare ragionevolmente dimostrazione di sorte: « la quale (nozione) è in Dio identificata coll' anima, precisamente come questa è col corpo ». All' opposto, il senso comune di tutti gli uomini distinguerà sempre, e in Dio e nell' umana mente: 1) la nozione dell' individuo dall' anima; 2) e l' anima dal corpo. La differenza fra la nozione dell' individuo e l' anima è infinita; perocchè quella è eterna, e questa è contingente; dunque non si identificano. La differenza fra l' anima e il corpo è di sostanza a sostanza; e due sostanze, delle quali l' una è termine dell' altra, non si possono identificare, benchè si possano unire a formare un solo individuo. Al nostro filosofo, adunque, non solamente vien meno la logica, di cui mostra non fare alcun caso, ma anche il senso comune, a cui crede di poter contrariare così leggermente e gratuitamente. Dopo avere asserito con tanta temerità che la nozione dell' individuo produttore s' identifica coll' anima, e che l' anima s' identifica col corpo, conchiude che questa nozione, che s' identifica pure coll' eterno, è il produttore stesso dell' opera, che rappresenta la più alta bellezza. Dopo aver dunque distinto nel discorso: 1) il finito e l' infinito; 2) la nozione del produttore e il produttore; egli confonde tutte queste cose insieme, senza darsi alcuna briga di spiegarci sotto quale aspetto sono distinte, e sotto quale s' identificano; come nasca la loro separazione e la loro identificazione; quale sia la ragione sufficiente di tali trasformazioni; in che modo e in che senso la parola identificazione di più cose in una non involga assurdo, come pare che l' involga. Di tutto ciò il nostro ragionatore si tiene affatto disobbligato. Se il filosofo nostro dicesse che « la nozione dell' opera bella, il tipo eterno », è quello che la produce, sarebbe in qualche modo tollerabile, non rimanendo a spiegare in tale sentenza se non in che senso si dica che la produca, cioè meramente come causa esemplare. Ma no, egli presenta ai suoi ammirati discepoli qualche cosa di più strano da credere sulla sua parola. Non trattasi della nozione o tipo dell' opera, ma della nozione dell' individuo produttore. Ora, se la nozione dell' individuo produttore è il produttore stesso, quella nozione non potrà produrre altro se non l' individuo produttore che ella rappresenta, non potrà produrre altro che sè stessa. Un assurdo dunque si raddossa sopra l' altro. E poichè quella nozione è l' anima, perciò l' anima non potrà produrre (se fosse una nozione producente) che sè stessa!! Niente dunque rimane spiegato con un tal modo di filosofare. Che poi le nozioni eterne, che trovansi in Dio, sieno anime, questo è conseguente alle premesse del nostro filosofo. Ma il vero si è che le nozioni e le idee sono bensì intuite dalle anime intelligenti, ma non che sieno le stesse anime intuenti, essendovi fra l' intuente e l' intuìto essenziale ed insuperabile differenza. Voi poi credereste con tutte le scuole che le nozioni eterne fossero sempre in Dio. Il nostro filosofo però dice che emanano da Dio; lo dice, e tuttavia le dice eterne, nè dice che perciò escano da Dio. Nè di tutte queste affermazioni contradittorie vi dà prova di sorte alcuna. Egli vi domanda ciechissima fede alle sue parole. Neppur crediate che le nozioni eterne di Dio sieno anime per sè stesse; no, elle sono anime, perchè Iddio permette loro di esistere come anime dei singoli corpi. Come poi tali nozioni possano aver desiderio di essere anime, come questo possa esser loro permesso da Dio, come, ottenuto questo permesso, possano acquistare l' esistenza di anime; queste sono tutte cose, che il nostro filosofo rimette a concepire e spiegare alla discrezione dei suoi benigni lettori, non credendosi obbligato d' incomodarsi a dircelo. Finalmente che cosa sarà l' opera di questo produttore, che ora è l' eterno, ora la nozione dell' individuo, ora l' individuo, ora l' anima? L' opera sarà qualche cosa di vivente, anzi una cosa che vivrà di due vite, l' una in sè, l' altra nel suo produttore, col quale pure così s' immedesima. Che cosa è vita? Come si può vivere di due vite? Come un' opera finita d' un individuo produttore può essere cosa viva? Come s' immedesima col suo produttore? Altri enimmi, con cui il nostro filosofo esercita la fede dei suoi discepoli. Tale è la logica costante della serie dei filosofi tedeschi, incominciata con Kant; nè ella è finita; ci resta a parlare dell' ultimo anello, di Hegel. HEGEL. - I filosofi tedeschi mossero la filosofia dall' Io, ma senza analizzarlo, perchè l' analisi, come abbiamo osservato, è pressochè loro sconosciuta. L' Io sottomesso all' analisi risulta: 1) da un sentimento fondamentale; 2) da un' intuizione dell' oggetto; 3) da una o più riflessioni, che quel sentimento intelligente fa sopra di sè, onde anche pronuncia sè stesso dicendo Io . L' Io dunque involge l' opera della riflessione e la coscienza, che ha l' anima di sè stessa. I nostri filosofi tedeschi fondarono il loro sistema sopra l' uno o l' altro di quei tre elementi, senza abbracciarli tutti, e senza nè tampoco distinguerli. Fichte, ponendo attenzione più al terzo elemento che ai due primi, parlò dell' Io dandogli la natura di riflessione, e però lo fece essenzialmente consapevole. Schelling si appigliò al primo di quei tre elementi, e immaginò un Io sentimento, che ora è consapevole, ora inconsapevole, senz' accorgersi punto che un mero sentimento non è mai un Io, perocchè ad un Io è essenziale la coscienza, che appartiene all' intelligenza. L' attenzione di Hegel, che trascurò l' analisi dell' Io, come i suoi antecessori, cadde sul secondo elemento, e il suo Io primitivo non fu sentimento, non fu riflessione o coscienza, ma fu ciò che sta in mezzo a questi due estremi, semplice cognizione . Ma mancando sempre l' analisi, confuse anch' egli, come i precedenti, il conoscente coll' oggetto cognito, e concluse che l' oggetto cognito era il conoscente. Di più, l' oggetto cognito è duplice, sussistenza e idea . Per difetto d' analisi dichiarò che ogni oggetto cognito è idea. Quindi se ne ebbe che l' idea era ad un tempo il soggetto conoscente, l' oggetto ideale intuìto, e l' oggetto reale percepito. Così Hegel ridusse ogni categoria di cose alla mera Idea. E l' Idea, divenuta ogni cosa, era necessariamente Dio, il Dio7tutto. Non era questo certamente un fare andare molto innanzi la filosofia dei suoi predecessori, perocchè essi erano in sostanza pervenuti alla stessa conclusione. Ma si erano poco occupati a dimostrare come l' Io si trasformasse in tutte le cose, e producesse tutte le opposizioni, che si possono pensare dall' umana mente. A questo lavoro s' accinse Hegel. L' Io di Hegel essendo dunque l' Idea, egli si occupò a descrivere come questa si trasformava nelle diverse categorie delle cose, dispensandosi sempre, secondo il metodo invalso, dal dimostrare. Asserì dunque che la Ragione, ossia l' Idea (perocchè è continua la confusione fra il soggetto, che intuisce e fa uso dell' idea, e l' idea intuìta e di cui si fa uso), ha nel suo essere tre momenti; ond' ella è: 1) Idea in sè e per sè, pura Idea logica; 2) Idea nel suo essere trasformato, Natura, Non7Io di Fichte; 3) Idea che ritorna in sè dal suo essere trasformato, Spirito, Anima. Quindi la divisione della Filosofia in tre parti: « Logica, Filosofia della Natura, Filosofia dello Spirito ». Prendendo a considerare il secondo dei tre momenti dell' Idea hegeliana, in qual maniera l' Idea si trasforma nella Natura? Questo è ciò che il filosofo non spiega; ma il solo supporlo involge assurdo sopra assurdo. L' Idea altro non è che l' oggetto intuìto dallo spirito, l' essenza delle cose; per esempio, l' idea dell' uomo è l' essenza dell' uomo, non è nè questo nè quell' uomo, ma il mero tipo dell' uomo, l' uomo possibile. Lo stesso si dica di ogni altra idea. Ora se noi diamo all' Idea un' azione qualunque per modo che la rendiamo un agente, noi le aggiungiamo una cosa straniera. Non abbiamo più la sola idea della cosa, ma abbiamo un agente associato coll' immaginazione nostra all' idea. L' Idea non ha altro ufficio che di farci conoscere le cose; le cose poi reali e sussistenti sono quelle che operano. Questi due concetti, il tipo manifestativo delle cose reali e le cose reali operanti, sono categoricamente diversi: quello, cioè l' idea, può stare innanzi alla nostra mente senza di queste, siccome accade quando pensiamo ad una cosa meramente possibile e non realizzata. Dunque il pretendere che l' Idea operi e si trasformi in altro, è mutar natura all' Idea; è abusare di questa parola; è sostituire all' Idea una natura reale e sussistente, capace di operazione, è ricadere nella dualità che si vuole sopprimere (1). Ogni Idea qualunque è immutabile ed eterna. La più leggera osservazione interna ce ne convince (1). Dunque l' Idea non può patire alcuna passione, nè essere il soggetto di alcuna trasformazione. Se l' Idea si potesse trasformare nella Natura, ella annienterebbe sè stessa, perdendo ciò che essenzialmente la costituisce, che è di esser lume alla mente. Ora niun essere può annientare sè stesso. E se anche potesse, annientato che fosse, non potrebbe ricrearsi e divenire un' altra natura, perocchè il nulla non può diventar nulla. Passiamo a considerare l' Idea nel terzo momento di Hegel. Questa dallo stato di Natura bruta ritorna a sè, e così nasce lo Spirito. Ma un tale ritorno supporrebbe che la Natura fosse l' Idea, la quale non si fosse annientata, ma conservando un quid identico potesse ancora operare. Ora questo è impossibile per l' osservazione fatta di sopra. Dunque, quand' anche l' Idea avesse cessato di essere Idea e fosse divenuta Natura, questa non potrebbe più tornare ad essere Idea per la ragione stessa, che in tal passaggio prima dovrebbe annullare sè stessa, ed annullata che fosse, non potrebbe più divenire cosa alcuna. Noi dicevamo che le trasformazioni non si possono nè spiegare, nè concepire, se non rimane un quid identico che sia il subbietto della trasformazione. Ora Hegel non si dà cura di indicare punto nè poco questo quid, che rimane immutato nelle trasformazioni che egli suppone. L' Idea è semplicissima, e però non può avere due elementi, l' uno mutabile e l' altro identico; quindi non può essere soggetto di alcuna trasformazione, ma è immutabile, come abbiamo detto alla osservazione II. In qual maniera si può concepire che la Natura bruta ritorni all' Idea? O come ritornando all' Idea può divenire Spirito? Questi sono misteri, di cui il filosofo nostro non adduce nessuna ragione sufficiente, anzi nessuna ragione, che faccia concepire la cosa come possibile. L' Idea non può mai divenire Spirito, perchè lo Spirito è l' intuente, e l' idea è intuìta dallo Spirito; onde hanno opposizione di natura fra loro. Neppure è possibile ricorrere ad un terzo termine, che unisca in sè questi opposti, Spirito intuente e Idea, perchè in tal caso non si partirebbe già più dall' Idea, come fa Hegel, ma da qualche cosa di superiore all' Idea stessa; e l' Idea rimarrebbe nella condizione dei termini opposti. Oltre di che, questo termine superiore incontrerebbe le stesse difficoltà ad esplicarsi e a trasformarsi, e la difficoltà sarebbe arretrata d' un passo, non tolta. Il perchè non dandosi Hegel alcuna sollecitudine di queste immense difficoltà, e procedendo sempre per la via dell' affermazione gratuita, tutta la sua dottrina si riduce a descrivere storicamente le trasformazioni dell' idea in tutte le cose le più opposte fra loro, e nello stesso nulla, sicchè quella sua Idea in luogo d' essere immutabile non istà mai in riposo. Certo che la descrizione di queste trasformazioni nel senso di Hegel sono altrettante operazioni mentali; perocchè rimane sempre l' erronea base, posta da Fichte, che « il conoscente niente conosce fuori di sè stesso, e però tutto ciò che conosce deve necessariamente essere cose che nascono in lui », riducendosi ogni realità a produzione della mente, e, come confessava lo stesso Fichte, ad apparenze ed a sogni, e sogni di sogni (quasichè il sogno potesse sognare). Posto dunque che la virtù trasformatrice di Hegel sia il pensiero, egli comincia dal porre che il pensiero possa concepire l' ente così astratto che da lui si tolgano in prima tutte le determinazioni, e poi si tolga via lui stesso, e così sia pari al nulla. Di che conchiude che questo ente così astratto fa un' equazione col nulla, e lo chiama ente7nulla. Ma: 1) E` falso che si possa astrarre l' ente dall' ente; l' astrazione non va tanto avanti; ella non giunge che a levare dall' ente le sue determinazioni, rimanendo l' ente indeterminato. Il togliere poi via l' ente stesso indeterminato non è un atto di astrazione, ma è una negazione assoluta, colla quale si abolisce l' oggetto del pensiero, e se rimane solo il frutto di tale negazione, si abolisce con esso il pensiero. La negazione poi dell' ente, che dà il nulla, non lascia più alcun ente, con cui il nulla possa mettersi in equazione. 2) Di poi, se il pensiero fa queste operazioni di astrarre e di negare l' ente, il pensiero stesso e le sue operazioni si scorgono diverse dall' pensato. Dunque egli, soggetto pensante, non si può mai confondere con questo, che è assenzialmente oggetto pensato; nella negazione adunque rimane ancora il negante, benchè incognito a sè stesso. 3) Se l' oggetto pensato non è il pensante, dunque il pensante pensa cosa diversa da sè, e non è più vero il principio posto, che non possa pensare nulla fuori di sè. D' altra parte è il pensiero stesso, a cui il filosofo si appella, che ci dice: 1) Che egli può bensì astrarre, negare, passare da un oggetto all' altro, ma non mai trasformare gli oggetti stessi l' uno nell' altro. 2) Che oltre gli oggetti propri del pensiero, le idee, vi sono altre entità che non sono idee, ma sentimenti e forze agenti nel sentimento, sulle quali il pensiero puro non ha alcuna virtù di operare trasmutazioni. Onde se si deve credere al pensiero umano, questo dichiara di non aver punto nè poco la virtù trasformatrice, che il nostro filosofo gli attribuisce. E quand' anche il pensiero avesse questa virtù, converrebbe assegnare qualche ragione sufficiente, per la quale rimanesse spiegato perchè egli ora adoperi tale virtù, ora non l' adoperi, ora l' adoperi in un modo, ora nell' altro. Parve che Hegel, a differenza dei suoi predecessori e maestri, sentisse in qualche maniera il bisogno di porgere questa ragione. A tal fine egli disse che il supremo principio della filosofia è il diventare, nel quale atto il nulla e l' essere si congiungono quasi ai loro confini; perocchè non richiedendosi ragione del primo principio, gli parve così di potersi schermire dal rendere alcuna ragione del diventare medesimo. Ma dei primi principŒ non v' è obbligo di dar ragione, se sono evidenti; ma v' è ben obbligo di giustificarli, se evidenti non sono, come è certamente il diventare di Hegel; e tanto più che questo diventare ha in ogni caso modi, e leggi, e tempi, di cui conviene assegnare qualche ragione che li determini. Che più? Lo stesso diventare di Hegel è un manifesto assurdo, giacchè suppone che qualche cosa diventi senza causa. Perocchè se assurdo non è che un essere, che prima non esisteva, cominci ad esistere quando sia posta una causa che lo crei, oltremodo è assurdo che cominci ad esistere da sè, senza che alcuna causa preceda, nè efficiente, nè materiale, come è assurdo pure che si annichili. Che se questa causa esiste, già non è più il diventare il principio dell' Ontologia, ma la causa prima che spiega lo stesso diventare, e lo rende concepibile all' intelletto; e di questa perciò è da parlare, ricorrendovi come a sufficiente ragione di tutti gli atti che conseguono, e delle loro circostanze (1). Tuttavia non si può negare che, commesso il primo errore, tutti gli altri sono in qualche modo conseguenti, inevitabili; perocchè la serie delle proposizioni erronee si può esporre così: 1) Il pensiero non può conoscere nulla fuori di sè (errore fondamentale, idealismo trascendentale, soggettivismo). 2) Dunque fuori del pensiero non v' è nulla. 3) Dunque ciò che si crede che esista fuori del pensiero, non è che una produzione del pensiero stesso, che produce il Non7Io, negando sè stesso. 4) Dunque le stesse idee sono produzioni del pensiero. 5) Ma il pensiero stesso, riflettendo che egli non può conoscere nulla fuori di sè, fa rientrare in sè il mondo reale e le idee, dopo averle prodotte come un diverso da sè, riconoscendo che quelle cose sono sè stesso, seco s' identificano. 6) Il pensiero poi può astrarre e negare, e così può annullare ciò che ha creato. 7) Di più, il pensiero può astrarre e non pensare sè stesso, perdere la coscienza, e quindi può annullarsi (2). Il pensiero stesso adunque (che abbraccia il tutto nel suo seno) ora è l' ente, ed ora il nulla. Così l' ente e il nulla si identificano. .) Ora, poichè l' infimo grado in cui possa essere il pensiero è questo annullamento di sè, e da questo nulla può sorgere a tutti gli altri gradi, perciò dal gran nulla escono fuori, come da un cotale oscuro abisso, tutte le cose. - Sistema del Nullismo. 9) Il pensiero ha dunque due termini: il nulla e il più alto grado di sua attività . La filosofia non può spiegare le cose, se non congiunge questi due termini; ella si deve dunque fermare a quel punto, nel quale il nulla diviene ente; e questo è il diventare di Hegel. 10) Ma la maggiore attività, a cui possa giungere il pensiero, è quella in cui egli acquista la coscienza di sè. Il pensiero consapevole adunque, come l' ultimo sviluppo dell' ente, è ciò che questi panteisti psicologici chiamano Dio. Ecco una serie di assurdi, procedenti con qualche logica connessione dal primo assurdo. Enumerare le produzioni fisiche, morali, sociali, ecc., del pensiero, e considerarle tutte come identificate al pensiero, è ciò in cui più ampiamente si stendono le opere di Hegel. Dobbiamo ancora ripetere ciò che abbiamo detto parlando di Schelling: questa filosofia non è che la riproduzione della filosofia indiana, e specialmente di alcune scuole del Buddhismo. [...OMISSIS...] Il principio di questi sistemi indiani è al tutto psicologico, quello stesso che forma la prima proposizione delle dieci da noi annoverate. Ecco due tesi, che si trovano in alcuni Sutras, citati da Burnouf: Non è mestieri il dire come un tale sistema sia empio; ma l' empietà, che esso racchiude, da niuno più che dai discepoli di Hegel fu nudamente proclamata e professata. « La stessa idea di Dio - dicono essi - non ha alcuna realità, perchè ella non riflette sopra sè stessa (2); quindi è gioco forza che la teologia si perda nell' Antropolatria, e che la religione disparisca nella speculazione ». La deificazione, il culto di latria reso all' uomo, come al solo Iddio: ecco l' assunto di questi deliranti, ecco il frutto maturo del soggettivismo; ci pensino bene i nostri italiani religiosi soggettivisti. Fra questi poniamo Aristotele; ma conviene fare sul suo sistema molte osservazioni. Primieramente è egli al tutto immune dall' errore, che noi attribuimmo a Platone, di confondere l' anima coll' idea, il soggetto coll' oggetto che la illustra? Questo sistema ha due faccie: è idealismo trascendentale, in quanto si ritengono le attribuzioni divine delle idee e le si attribuiscono all' anima, che con esse si confonde; ed è soggettivismo, in quanto si ritengono le doti dell' anima e le si attribuiscono alle idee, che con essa si confondono. In Platone questo sistema mostra la prima faccia; in Aristotele la seconda. Per fermo, è sentenza aristotelica che « « l' anima diventa in qualche modo tutte le cose » », e che « « intellectus est ea quae intelliguntur » (1) ». Di ciò abbiamo parlato nel « Rinnovamento » (2). Ella è tuttavia cosa grandemente diversa il confondere l' anima colle idee, attribuendo a quella la natura di queste, e il confondere le idee coll' anima, attribuendo a quelle la natura di questa, come noi crediamo che faccia Aristotele. In questo caso, benchè Aristotele ponga la natura dell' anima nel soggetto, e in ciò non erri, tuttavia cade in un errore assai maggiore di quello di Platone, perchè ignobilita le idee, traendole dal cielo in terra. Ma è prezzo dell' opera, che noi esaminiamo con più d' attenzione la sentenza aristotelica. Al vedere la franchezza, colla quale Aristotele parla censurando tutti i suoi antecessori, noi saremmo inclinati a credere che egli dovesse essere molto sicuro del fatto suo, e venuto in possesso d' una scienza ben definita. Pure a questa congettura fanno immensa opposizione le sue opere, nello stato in cui esse a noi pervennero. Durante il dominio della Scolastica, quando pareva una cotale empietà filosofica il dubitare che « il maestro di color che sanno »fosse caduto in contraddizione seco medesimo, lo spirito umano, preoccupato, non poteva portare un equo giudizio dell' aristotelica dottrina; una critica imparziale delle sue opere era impossibile. Questo freno d' indebita autorità posto agli ingegni provocò, secondo il solito, la reazione violenta da parte di quelli, a cui divenne alla fine insofferibile, i quali lo ruppero bruscamente come fa l' irato. Al giogo ingiusto dell' autorità filosofica, che vincola l' ingegno, essendo dunque succeduta l' ira, che lo acceca, ebbe luogo un' età, che neppur essa fu atta a giudicare equamente dell' aristotelica filosofia. Ben sarebbe desiderabile che nel tempo nostro, in cui sembrano sedati cotesti sdegni e resa impossibile quella autorevole prevenzione, si occupassero finalmente i dotti a darci una notizia veramente critica della dottrina, che nei libri a noi pervenuti dallo Stagirita si contiene, la quale ancora ci manca. Quanto a me, io non dubito che le ingiurie fatte a quei libri dalle vicende straordinarie, a cui essi soggiacquero, e dall' invida età, sieno maggiori di quel che si credano. Ma non importando investigare che pensasse veramente Aristotele, il che ci è affatto impossibile, bensì solamente ciò che contengono di presente i libri che portano il suo nome, io mi sento sgomentato a dover dire che essi presentano agli occhi miei brandelli di dottrine le più contrarie, un tessuto, o piuttosto un cucito, di tutti i sistemi filosofici che precedettero, dilacerati e rubacchiati ad un tempo. Mi conferma in questa opinione il vedere che Aristotele fu inteso dai suoi interpreti nelle guise più disparate, e gli furono attribuiti i sistemi più opposti. Alcuni lo vollero materialista, altri sensista, altri poi tolsero seriamente a conciliarlo con Platone fino a pretendere che egli differisca dal suo maestro di sole parole (1). A malgrado di ciò, mi sembra di poter asserire che il sistema aristotelico circa la natura dell' anima appartenga alla numerosa classe dei soggettivisti; e a ciò sono condotto dalle seguenti considerazioni. La definizione, che egli dà dell' anima, noi l' abbiamo riferita altrove [...OMISSIS...] . Ora, benchè molto sia stato disputato sul valore della parola entelechia, tuttavia la sua origine (da «en» e «telos») dichiara abbastanza che ella significa il finimento, l' atto che rende compiuto, la perfezione, ecc. (4). Quindi è indubitato che Aristotele concepì l' anima come un atto del corpo, col quale il corpo si perfeziona. E dice un corpo che ha la vita virtualmente, il che è più che potenzialmente; perocchè la mera potenza potrebbe pigliarsi per una capacità, o ricettività, o potenza passiva; ma la parola greca «dynamei» significa di più, esprimendo una potenza producente, ossia atta a passare all' atto, come sarebbe la forza rispetto al moto. Intende poi per un corpo, che ha virtualmente la vita, [...OMISSIS...] . Ora, in che ripone questa perfezione del corpo, che si chiama anima? In una forma o specie. E come definisce la forma o specie? Per contrapposizione alla materia, in questo modo: [...OMISSIS...] . L' anima dunque è ciò che si trova in un corpo e che fa sì che quel corpo sia un qualche cosa determinato, pel quale gli si dà il nome, nel caso nostro, che sia un animale. Non è dunque un atto accidentale del corpo (3), ma è un atto specifico, pel quale il corpo riceve un nuovo nome sostantivo. Quindi ripone l' anima fra le sostanze; perocchè egli distingue tre maniere di sostanze: la materia, la forma, e il composto (4); ma con più proprietà l' anima aristotelica si dovrebbe chiamare forma sostanziale (5). E veramente, in tutte le sostanze composte di forma e di materia non si vede come la forma, in quanto è forma, stia da sè, separata dalla materia; e per stare da sè deve esser qualche altra cosa oltre mera forma, onde non può essere sostanza, la quale sta da sè. Che anzi se si considerano i corpi, da cui furono tratte le parole di materia e di forma, e se si definisce la sostanza « ciò che in un ente esiste per sè », definizione che implica la relazione della sostanza coll' accidente, che esiste per quel primo (il che è quanto dire: la sostanza è l' atto pel quale sussiste l' essenza); in tal caso la condizione di sostanza appartiene piuttosto alla materia che alla forma; perocchè questa essendo come l' atto, quella è come il subbietto di questa (6). Quindi nel sistema aristotelico è impossibile concepire l' anima separata dal corpo, come l' atto è impossibile considerarsi senza il suo subbietto, di cui è atto. Niuna meraviglia, adunque, che Aristotele si trovi incerto e impacciato, quando applica la sua dottrina all' anima intellettiva; perocchè i filosofi, che lo avevano preceduto, avevano già dimostrato che le operazioni della pura intelligenza si fanno senza strumento di organo corporale; nè questo egli poteva negare, nè disconoscere la conseguenza, cioè che l' anima, in quanto è intelligente, non è atto di corpo, e poteva quindi sussistere senza corpo. Onde, dopo aver detto che l' anima non si può separare dal corpo, come l' immagine impressa sulla cera non si può separare dalla cera, quando poi viene all' intelletto, parla quasi incerto così: [...OMISSIS...] (1). Nel qual luogo è da considerarsi che il filosofo non disse addirittura che l' intelletto sia separabile dal corpo, ma disse separabile a quel modo che l' eterno è separabile dal corruttibile. A intendere adunque la mente di Aristotele conviene indagare che cosa egli intenda per eterno e per corruttibile, e in che modo, secondo lui, queste due cose sieno separabili. Se non si indaga questo prima di tutto, egli parrà cadere poche linee appresso in contraddizione. Infatti, se l' intelletto è separabile, perchè non è atto di corpo o di organo corporeo, dunque l' anima intellettiva non deve essere forma di corpo, perchè la forma o specie del corpo viene definita « l' atto e la perfezione del corpo stesso ». Tuttavia tosto appresso Aristotele dice che l' anima, anche in quanto pensa, è la specie, ossia forma del corpo: [...OMISSIS...] . Nega dunque all' anima intellettiva l' esser subbietto e materia, il che attribuisce al corpo; e le concede solo l' essere specie, forma, intenzione, atto, perfezione del corpo. Nè si può dubitare che qui si parli dell' intelletto, perocchè nel terzo libro definisce l' intelletto espressamente così: [...OMISSIS...] . S' aggiunge che nel libro secondo « Degli Analitici Posteriori » parla delle facoltà conoscitive degli animali imperfetti (attribuendo erroneamente anche ad essi una maniera di conoscere), e quindi passando agli animali perfetti, cioè agli uomini, viene a parlare dell' intelletto. Onde l' anima intellettiva è considerata come forma negli animali perfetti, di un grado più elevata di quella che è l' anima dei bruti, ma dello stesso genere. Che cosa dunque Aristotele intende per ciò che è eterno? Che cosa intende col dire che l' eterno si separa dal corruttibile? In primo luogo si avverta che Aristotele nega le idee e forme separate di Platone, che quindi non riconosce altre forme che quelle che sono nei particolari; che come non separa la forma dalla materia, così neppure la materia dalla forma, di cui ella è il soggetto. Alle forme particolari attribuisce l' atto, e quindi l' azione e la generazione; ma nega che producano forme, producano composti, appunto perchè la forma è inseparabile dalla materia. Ora la materia è eterna, e però deve avere una forma eterna, cagione di tutte le altre forme. Di più, è proprietà della mente separare la materia dalle forme, e così toglierle alle sue incessanti vicissitudini. La materia, dunque, astratta dalla mente, e parimenti le forme astratte, sono incorruttibili ed eterne rispetto alla mente che le contempla, a quel modo che spiega nei libri « Degli Analitici Posteriori »; quindi ciò che è eterno per Aristotele è la materia e la forma prese in astratto, le quali in realtà non esistono nell' anima, ma nelle cose esteriori. Ma l' anima ha la potenza di riceverle dal di fuori, ed è così che viene la mente dal di fuori, e che è separabile, perchè non è innata se non in potenza; dove si vede che la parola mente o intelletto si confonde colle specie che si acquistano dal di fuori, che è appunto l' errore da noi accennato, di confondere il soggetto coll' oggetto. Adduciamo in prova di ciò qualche luogo del filosofo. E prima di tutti sarà uno notevolissimo dal secondo libro « Della generazione degli animali », dove egli toglie a spiegare la generazione che si fa per via dell' unione dei sessi. Quivi egli distingue l' anima in potenza dall' anima in atto; l' anima non si dice essere generata e veramente esistere, se non è in atto. Ora l' anima vegetativa, sensitiva, e intellettiva, vengono all' atto successivamente, ed escono, quasi a dire, come si traggono l' un dall' altro i diversi tubi di un cannocchiale. Dice dunque che nel seme è uno spirito, e in questo è la natura, cioè il principio vitale etereo ( proportione respondens elemento stellarum ), che è l' anima ancora in potenza. Di quest' anima in potenza, all' atto del concepimento si fa l' anima vegetale, la cui indole consiste nella virtù che ha un corpo organico di ricevere nutrimento, e colla nutrizione, operazione interna, accrescere, e quindi anche poscia decrescere; indi esce dopo qualche tempo dal corpo nutrito un altro suo atto, cioè l' anima sensitiva, e finalmente da questa già maturata, l' intellettiva. [...OMISSIS...] (1). Il seme adunque maschile contiene l' anima in potenza, ma il concepito, che è tosto quando la femmina è fecondata, già contiene l' anima in atto, solo però l' anima vegetale. [...OMISSIS...] . Ora - soggiunge - [...OMISSIS...] . Fa venir fuori l' anima intellettiva allo stesso modo come fa venir fuori la sensitiva, e prima la vegetale dallo stesso corpo seminale, in cui il calore vitale s' acchiude (1), poichè dice: [...OMISSIS...] . La specie dell' uomo, e la specie del cavallo o di ogni altro animale, è trattata ad uno stesso modo; il che mostra abbastanza che Aristotele non conobbe l' altro elemento, che nell' intelligenza racchiudesi. Vuole dunque che il corpo potentia vitam habens, cioè il corpo che ha il calore vitale, quale è il seme e nel calore vitale la natura, ossia il principio vitale, quale è il seme maschile, tostochè si organizza e passa all' atto del nutrirsi, sviluppi l' anima vegetale, e successivamente gli altri due atti del sentire e dell' intendere. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto che le tre anime nascono così come tre atti successivi di un corpo, che ha in sè il principio vitale e che si sviluppa, passa a confermare la sua dottrina, provando che niuna delle tre anime può venire dal di fuori del corpo. [...OMISSIS...] . Ora, dopo aver detto tutto questo e fatte le tre anime inseparabili, e anche l' intellettiva fatta uscire dal corpo come le altre, soggiunge: [...OMISSIS...] . Ora alcuni intesero che questa mente , che Aristotele fa venire dal di fuori, sia l' anima intellettiva; ma ciò non può essere il pensiero dello Stagirita, perchè ha fatto già venire tutte e tre le sue anime, o le parti e funzioni dell' anima, dallo stesso corpo che le ha in potenza, la vita del quale si attua successivamente, prima divenendo vegetabile, poscia sensitiva, e finalmente intellettiva. Che anzi immediatamente soggiunge, confermando ciò che aveva detto prima: [...OMISSIS...] . Rimane dunque a cercare che cosa sia questa mente, che viene dal di fuori, benchè l' anima intellettiva stessa sia un atto e una perfezione del corpo. Nè ella può esser altro che una speciale facoltà o qualità, che l' anima intellettiva trae dal di fuori, cioè dalla comunicazione col mondo esteriore. Ora dal mondo esteriore appunto Aristotele vuole che noi caviamo le idee e gli universali; ed è perciò a vedere in che modo egli ne spieghi la produzione in noi; il che egli fa verso la fine del secondo libro, come dicevamo, degli « Analitici Posteriori ». Cerchiamo adunque in questi la spiegazione della sentenza aristotelica. Quivi il filosofo si propone di spiegare come noi abbiamo la cognizione immediata dei principŒ . E dopo aver detto che non può essere innata con noi, perchè ne avremmo coscienza (2), che è la solita ragione dei sensisti, la cui leggerezza fu già da noi dimostrata (3), dice che dunque è uopo che abbiamo qualche potenza di acquistarli. L' ammettere però una potenza di acquistare i principŒ della ragione, non spiega ancora cosa alcuna circa il modo di acquistarli, anzi lascia indecisa la questione assai più profonda: « se vi possa essere una potenza di acquistare i principŒ della ragione, senza che ella stessa abbia qualche principio, o qualche idea, di cui possa far uso ed essere diretta nel suo operare »; il che noi già dimostrammo affatto impossibile (4). Seguita Aristotele dicendo che tutti gli animali hanno questa potenza, perchè tutti hanno il senso; dando così al senso l' officio di formare i principŒ del ragionamento. Ma qual è dunque la differenza fra il sentire e l' intendere ? Questa differenza la riconosce Aristotele, e riprende i primi, che filosofarono, di non averla veduta, confondendo il senso coll' intelligenza. Ma finalmente (come appunto fanno i moderni soggettivisti, che non vogliono essere sensisti, benchè pur lo sieno) la differenza che egli pone, non consiste che in una cotal differenza, che ancora non eccede la sfera della sensitività, perchè colloca l' intendere in una permanenza della cosa sentita. [...OMISSIS...] . Ed ecco chiaramente spiegato come la ragione, ossia la mente, venga dal di fuori ad alcuni animali, quali sono gli uomini. Sono le sensioni eguali e simili, che vengono dal di fuori, che molte lasciano la stessa impressione permanente; e questa impressione unica, che rimane nell' anima da molte sensazioni, è ciò in cui Aristotele vede il nascimento della mente o della ragione, che ha per sua dote l' unità, il contemplare più cose in un solo. Ma altro è che più sensioni lascino nell' anima un' impressione eguale, il che avviene anche nei bruti, in quanto le sensioni sono simili, altro è che l' anima si giovi di quell' unica impressione, che rimane nel senso interno, quasi di tipo a riconoscere tutte le sensioni che ad essa rispondono, e di più tutte le possibili, il che fa solo l' uomo; perocchè solo l' uomo pensa il possibile, e solo il possibile costituisce l' universale, la spiegazione del quale è l' unico nodo della questione. E questo nodo è trasaltato via assai leggermente dal nostro filosofo; anzi egli pur mostra d' ignorare che la natura dell' universale sta tutta nel concetto del possibile, ossia nell' essere puramente ideale. Egli dunque seguita a dichiarare come la sensione si fermi nello spirito, e vi lasci un elemento costante in questo modo: [...OMISSIS...] Noi avvertimmo nell' « Ideologia » che, di tutte le opere di Aristotele, questo è quel luogo in cui il nostro filosofo più s' avvicina alla vera teoria dell' origine delle idee, perchè parla di un universale quiescente nell' anima, e dice che « « l' uno, in quanto è ente, è il principio della scienza » ». Ma conviene confessare che, ogni cosa bene considerata, rimane per lo meno dubbioso se Aristotele esca con ciò dal sensismo. Primieramente quell' universale quiescente è tradotto da Abramo de Balmes e da Giovanni Francesco Burana per « « universale costituito e stabilito nell' anima dalle molte memorie, o reminiscenze precedenti » », di maniera che non sia l' universale nell' anima che dia l' unità alle molte memorie, ma sieno le molte memorie che lascino l' unità, e per essa l' universale, nell' anima; e così pure la intende l' arabo commentatore. Ove è chiaro che il senso può lasciare, dopo le sensazioni, immagini nella fantasia, e più immagini associate fra sè e con novelle sensazioni possono produrre l' istinto di operare in modo che simuli un operare ragionevole, per una cotale aspettazione istintiva di casi simili, come noi abbiamo dichiarato rendendo ragione del perchè nell' operare dei bruti scorgasi ordine, somigliante a quello che si scorge nell' operare dell' uomo (1); ma non sarà mai che con ciò si spieghi un concetto universale, che è quello col quale la mente intuisce l' oggetto nella sua possibilità, mentre il fantasma non esce dalla realità delle cose passate e presenti, e nulla più produce che un' inclinazione e aspettazione di cose simili (senza idea di somiglianza). Quindi i commentatori più penetranti, come l' Aquinate, ritennero l' universale quiescente nell' anima esser cosa nuova, che qui introduce quasi di furto Aristotele, non l' unità dell' effetto fantastico, lasciato nell' anima dalle varie memorie, ossia immagini; ritennero che per quell' universale quiescente Aristotele intendesse veramente un principio esistente nell' anima, pel quale l' esperimento o l' effetto delle memorie, rimasto nell' anima, venga esteso all' avvenire e propriamente ai possibili, rendendosi così universale in atto. E se si considera che Aristotele pone sempre in potenza nell' anima ciò che poscia vi è in atto, non è punto improbabile che per universale quiescente egli intenda l' universale in potenza . Ma rechiamo le stesse parole del Dottore d' Aquino: « Hoc est enim quod dicit, quod sicut ex memoria fit experimentum, ita etiam ex esperimento, AUT ETIAM ULTERIUS, ex universali quiescente in anima »; ecco come l' universale quiescente, secondo S. Tommaso, non è l' effetto dell' esperimento, ma è la causa ulteriore dei concetti universali, che, posto l' esperimento, si formano, « quia scilicet accipitur ac si IN OMNIBUS », cioè in tutti i possibili, « ita sit, sicut est experimentum in quibusdam. Quod quidem universale dicitur esse quiescens in anima, in quantum scilicet consideratur praeter singularia, in quibus est motus; quod etiam dicit esse unum praeter multa, non quidem secundum esse », secondo la sussistenza, « sed secundum considerationem intellectus, secondo l' idea, qui considerat naturam aliquam, puta hominis, non respiciendo ad Socratem et Platonem; quod tamen, etsi secundum considerationem intellectus sit unum praeter multa, tamen secundum esse est in omnibus singularibus unum et idem non quidem numero, quasi sit eadem humanitas numero omnium hominum, sed SECUNDUM RATIONEM SPECIEI », che è di nuovo, secondo l' idea: « ex hoc igitur experimento, ET EX TALI UNIVERSALI PER EXPERIMENTUM ACCEPTO » (qui pare all' opposto che l' universale quiescente sia ancora l' effetto dell' esperimento, se pure questo universale non si debba qui prendere pel concetto universale in atto) « est in anima id, quod est principium artis et scientiae, etc. ». Secondo la quale interpretazione: Molte sensazioni fanno una memoria, molte memorie un esperimento, dall' esperimento e dall' universale quiescente, cioè in potenza, viene l' universale in atto. - Non è mestieri osservare che dalle sensazioni viene il fantasma, ed altresì una cotal ritentiva, un certo vestigio sensibile della sensazione avuta, il quale dirige l' animale a risuscitare il fantasma. Ma la memoria delle sensazioni e del fantasma esige l' intendimento, se per memoria s' intende le idee delle sensazioni avute, che rimangono in noi; si salta dunque dall' ordine del senso a quello dell' intelligenza, senza dare spiegazione di tal passaggio, o piuttosto senza accorgersi del gran salto. Dopo di ciò, il progresso del ragionamento è facile, perchè già l' universale è posto, basta dividerlo, ossia astrarlo. Tuttavia si riconosce che la natura dell' universale si è questa, che l' anima concepisca in tutti i possibili eguali ciò che esperimenta avvenire in alcuni reali; ma di nuovo non si dice come l' anima estenda la sua veduta a tutta la sfera del possibile, la quale sfera eccede infinitamente ogni numero di sensazioni. Si dice ancora che l' universale est unum praeter multa, è uno fuori dei molti. Ora i molti sono reali e singolari; l' anima, che intuisce l' universale, lo considera fuori di essi, non lo trova in essi; quell' universale è uno non secundum esse, cioè secondo il sussistere delle cose, perchè esso è fuori di questa sussistenza, praeter multa, essendo molti gli individui per la sussistenza che ha ciascuno in proprio, ma secundum considerationem intellectus, perchè è l' intelletto quello che vede come ciò che fu esperimentato può replicarsi all' infinito, cioè vede il possibile ; ma rimane sempre a spiegare che cosa sia questo possibile, il quale non si trova negli enti singoli, che agiscono nel senso; e questa è sempre la lacuna, che rimane aperta nel sistema aristotelico; ed è lacuna immensa, perchè taglia fuori tutta la questione. Egli distingue due uni , l' uno che è praeter multa, e questo non è sussistente, nè sensibile, ma solo intuìto dall' intelletto; l' altro, che è l' uno sussistente, secundum esse; e questo, dice, si trova in omnibus singularibus, si trova nei singolari, ma non è uno di numero, bensì uno di specie, unum et idem, non quidem numero, sed secundum rationem speciei . Ma così torna in campo la difficoltà, perchè la ragione della specie non è che cosa intellettuale, e però non può essere nei singolari, nei quali non vi è altro che la sussistenza, la quale è cosa in ciascun singolare separata, onde non fa un uno in più di essi, ma solo nella mente, che considera e paragona più singolari insieme. Il qual paragone non si può fare, se non raffrontando i singolari ad un tipo comune, che è l' idea, ossia la specie; onde l' uno è sempre nell' idea, e suppone l' idea (1). Donde proviene adunque l' idea? Ecco ciò che rimane tuttavia da spiegare; ecco il solito vano; ecco supposto quello che si cerca. E qui si scorge il vero fonte del sensismo di tutti i tempi, ed è il darsi a credere che l' uno sia doppio, cioè che egli esista in più reali, come sono singolari sensibili secundum esse, e che esista nell' intelletto secundum considerationem intellectus . Ma il fatto si è che niente di tutto ciò che è in un individuo reale forma unità con qualche cosa di ciò che è in un altro individuo reale; perocchè ciascun individuo reale è affatto diviso e separato dall' altro; ed essi sono più, senza che in alcun modo nella loro pluralità vi sia unità, eccetto che rispetto all' intelletto, il quale con una sola e medesima idea o specie li conosce. Onde l' uno secundum considerationem intellectus e l' uno secundum rationem speciei, non sono due uni, ma è lo stesso uno, espresso con due frasi che significano in fondo lo stesso. Ma poichè l' uomo parla sempre degli individui reali conosciuti, ed egli crede di parlare degli individui reali semplicemente, quindi egli si dà a credere che l' uno, che trova negli individui7cogniti di cui parla, sussista negli individui reali stessi, mentre non istà che nell' elemento conoscitivo, che egli vi ha aggiunto coll' atto del conoscerli, il quale elemento è l' idea o la specie, con cui li conosce. Illuso adunque Aristotele dall' errore di riporre negli individui stessi reali ciò che non è che negli individui7reali7conosciuti, diede a quelli ciò che è in questi, l' elemento conoscitivo, l' uno proprio della sola idea. E poichè gli individui reali si conoscono soltanto a condizione che sieno percepiti dal senso, quindi giunge a dire che il senso in questo modo fa l' universale, perchè fa la memoria, e questa l' esperimento, che diviene universale, e che perciò non vi è alcuna scienza innata, quasi abito ingenito. Se non che lo si vede titubante, perocchè non osa conchiudere, come dovrebbe stando alle premesse, che non vi sono abiti di scienza innati, ma solo nega gli abiti innati determinati : limitazione che fece affaticare i commentatori a darne chiara spiegazione, e non si poterono mai mettere d' accordo. Rechiamo di nuovo il testo che segue immediatamente al luogo addotto: [...OMISSIS...] . Nel qual passo il sensismo è manifesto; e tuttavia ancora dubbioso e vacillante, poichè si fanno venire dal senso gli universali, ma si dice però che il senso non può produrli in ogni anima, ma soltanto in quella che è atta a patir ciò, anima vero est talis, ut possit pati hoc; e, sebbene la parola patire sia oltremodo sensistica, perchè sembra che il solo senso agisca e che l' anima li riceva dal senso, come la cera riceve l' impressione dal suggello, tuttavia, qualora si confronti questo luogo con altri di Aristotele, in cui egli introduce nell' anima un lume, che chiama lume dell' intelletto agente, si scorge che egli non osa negare che nell' anima vi sia un principio formale degli universali; onde S. Tommaso commenta in questa maniera il passo allegato: [...OMISSIS...] . Laonde, sebbene nel testo di Aristotele non si esiga altro se non che l' anima sia tale ut possit pati hoc, tuttavia S. Tommaso vi aggiunge di più, che sia tale che possit agere hoc ; il che già è un allontanarsi dal sensismo aggiustando il testo nostro con altri testi pur del filosofo. Ora l' intelletto possibile altro non è che l' intelletto in potenza, ossia l' anima intellettiva in potenza; e l' intelletto agente non è che la virtù che ha quell' anima intellettiva in potenza di divenire anima intellettiva in atto, il quale atto le viene dal di fuori, cioè dalle sensazioni. Il dire poi che l' intelletto agente fiat intelligibilia in actu per abstractionem universalium a singularibus, conferma ciò che abbiamo detto circa l' errore, onde provenne come da universale fonte ogni sensismo, il che non è mai abbastanza considerato. Poichè l' uomo che astrae l' universale dal singolare, da quale singolare lo astrae? Certo da quello, che egli ha già concepito nella sua mente; perocchè sopra quei singolari, che egli non ha concepiti, non può esercitare l' operazione dell' astrarre, non avendoli presenti alla mente. Orbene, i singolari già da lui concepiti, onde astrae gli universali, sono forse nè più nè meno i singolari non concepiti? Questo è da vedersi, poichè la mente nel concepirli può avere aggiunto loro qualche cosa, che non hanno nella pura loro realità. E questo, che si doveva diligentemente vedere e cercare, fu dimenticato affatto dal filosofo; nè manco gli venne in mente che si potesse muovere cotal questione; eppure qui sta il tutto, qui sta quello su cui si disputa. Posto adunque lo stato della questione come deve essere posto, è facile a discoprire che i singolari, come sono nella mente, non sono puramente i singolari, come sono nella loro realtà fuori della mente; che anzi, entrando nella mente, hanno ricevuto per prima compagna la sensazione, e per seconda l' idea con cui si concepiscono, nella quale idea sta l' universale. Se noi dunque riassumiamo l' analisi delle cognizioni umane, fatta da Aristotele, e l' ordine in cui egli le distribuisce, troviamo: 1) che le cognizioni più remote dall' origine loro sono le conclusioni ; 2) alle quali debbono precedere nella mente i principŒ da cui provengono, onde nel primo dei « Fisici » dice che gli universali si conoscono avanti i singolari; 3) ma i primi principŒ sono quelli che non hanno mezzo con cui si dimostrino, riconosciuti evidenti tostochè se ne concepiscono i termini, dei quali il predicato è contenuto nella ragione del soggetto (giudizi analitici); 4) la questione adunque dell' origine delle cognizioni si riduce a sapere quali sieno i primi termini che si concepiscono dalla mente umana; perocchè, concepiti questi primi termini, tosto si hanno i primi principŒ, e da questi le conclusioni immediate, che sono principŒ rispetto alle conclusioni più remote. Ora, i termini che prima si conoscono, secondo Aristotele, sono l' ente e l' uno (1), che non differiscono se non secondo il rispetto sotto cui si considerano. Dunque tutta la questione dell' origine delle idee e delle cognizioni umane si riduce, secondo il medesimo Aristotele, alla questione: « Come si conosce l' ente? Come si conosce l' uno nei molti singolari? ». La questione in tal modo è posta ottimamente; ma questo stato della questione non è che il fondo della dottrina aristotelica, poichè in termini espressi non si trova così proposta in niuna parte delle opere dello Stagirita. Rimane dunque a vedere come la sciogliesse, e già l' abbiamo indicato; ma torniamoci sopra. Egli ricorre a due cause, al senso e alla natura speciale dell' anima, che ha la potenza di fermarsi a considerare nel sensibile il comune, il qual comune è l' universale; onde, nel secondo degli « Analitici Posteriori », dice che la cognizione sensibile è anteriore alla cognizione degli universali (1). Ma questo non è ancora, come già osservammo, spiegare l' origine delle cognizioni, poichè non basta il dire che l' anima abbia la potenza di formarsele, il che ognuno sa; conviene mostrare per quali passi questa potenza le vada producendo, e a quali condizioni ella possa produrle. Aristotele tenta anche di farlo. L' anima umana, viene egli a dire, è così disposta, che al ricevimento delle sensazioni ritiene quella parte che esse hanno di comune, il che egli chiama memoria ; paragonando più memorie, ritiene di nuovo quella parte che hanno di comune, il che egli chiama esperienza ; e così per via di astrazione giunge fino agli ultimi astratti ed ai principŒ. Ma lasciando stare che qui non è spiegato come nasca l' idea della sostanza, perchè le sensazioni non contengono la sostanza dell' ente esterno, ciò che vogliamo principalmente osservare si è che tutto questo discorso suppone che nel reale sensibile, o nella sensazione reale, sia già il comune, ossia l' universale ; poichè se non fosse, l' anima non si potrebbe fermare in esso ed astrarlo. All' incontro il vero si è che ogni reale esterno, ed ogni sensazione reale, non esce di sè, è tutta reale e finita; e niente di ciò che è reale è comune con un altro reale, con un' altra sensazione reale; dunque non vi è alcun comune, alcun universale nell' esterno reale, nè tampoco nella sensazione, che esso in noi produce, e che è reale anch' essa. Come adunque Aristotele credette di giungere a trovare il comune, l' universale, l' uno, l' ente nel sentito? Per quella illusione che abbiamo indicata, per la quale egli attribuì al reale puro ciò che appartiene al reale già concepito dalla mente. Per dirlo di nuovo, e non è mai detto abbastanza, il sentito, ossia il reale esterno a noi sensibile, dove vi è il comune, ossia l' universale, è il reale sensibile, tale quale esiste nella nostra mente, che l' ha percepito; poichè egli è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione, e l' astrazione non si esercita se non sull' ente reale sensibile già percepito. Conviene dunque spiegare la percezione, il che noi abbiamo fatto nel « Nuovo Saggio ». Dalla spiegazione ci risultò che la percezione intellettiva è « il reale sentito, in quanto dall' intendimento si vede nell' essere ideale come sua realizzazione ». Ciò posto, è chiaro che il reale sensibile percepito, su cui si esercita l' astrazione, contiene il comune e l' universale da cui si può astrarre, perchè esso non è il solo reale, ma il reale nell' ideale, è un oggetto reale7ideale, particolare7comune, e non reale e particolare solamente. Io dovrei qui venire alla conclusione, riassumendo il modo onde Aristotele intende che la mente, ossia l' intelletto, venga all' anima dal di fuori; ma non posso a meno di far prima l' intramessa di un punto di storia filosofica poco conosciuto; ed è la vera origine della celeberrima questione dei Reali e dei Nominali, e le loro vere sentenze. Esse si rinvengono diligentemente esposte nell' opera di Abelardo sopra Porfirio, poco innanzi da me citata, quale si trova nel Codice Ambrosiano. L' ente7reale7sensibile, percepito dall' intendimento, è l' oggetto, su cui si esercita l' astrazione; coll' astrazione si separa da esso il comune . Nasce tosto la questione, se il comune sia nelle cose o nell' intelletto. Si noti prima che l' uno, o il comune, o l' universale, è pressochè il medesimo; perocchè comune altro non significa se non ciò che è uno in più enti, e universale significa ciò che è uno in tutti gli enti possibili di una classe, o in tutti affatto gli enti. Ciò posto, Aristotele trovava l' uno, come abbiamo veduto, nelle cose reali, unum in multis, e diceva che questo era il principio dell' ente; e trovava pure l' uno nell' intelletto, unum praeter multa, e diceva che questo era il principio della scienza (1). Ora è chiaro che l' unum praeter multa per lui era il comune, astratto e separato dalle cose, l' idea specifica o generica della cosa, la cui sede è certamente l' intendimento, ed è principio della scienza, in quanto la scienza tratta teoreticamente delle cose e per astrazione. E` chiaro ancora che l' unum in multis viene ad essere il comune, riferito dalla mente alle cose singole reali percepite, perocchè il concetto della mente, uno com' è, si unisce e si lega in noi a ciascuna di esse, e in quanto è legato a ciascuna, noi lo chiamammo idea particolare ; e questo è il principio dell' arte, perchè l' arte è un abito di operare con ordine intorno ai particolari reali. Ma l' ordine, con cui opera l' arte, procede dall' averli percepiti colla mente, che li scorge simili o dissimili; infatti il simile è l' idea stessa intuìta in più cose reali, o per dir meglio più cose reali vedute nella stessa idea. Aristotele dunque poteva avere tutta la ragione nel distinguere l' unum in multis e l' unum praeter multa, e nel dire altresì che quello era il medesimo uno (1), se egli avesse inteso con ciò l' uno, cioè il comune nelle percezioni, e l' uno, cioè il comune nell' idea separata dalle percezioni. Ma l' errore suo era sommo e capitale, perchè non prendeva la cosa così, nè si accorgeva che il ragionamento andava bene fino che si parlava dell' ente reale concepito ; ma non andava più bene, tostochè si parlava del puro reale. Quindi egli errava, applicando al reale puro ed alla sensazione, che è anch' essa un singolare reale, ciò che non era vero se non rispetto all' ente reale percepito; e quindi errava altresì, facendo venire dal senso l' universale, il comune, l' uno; medicando poscia alquanto col dare all' anima una potenza di fermarsi al comune, che però riponeva nelle cose. Il quale errore di Aristotele debbo dire che non fu scoperto giammai da veruno, per quanto è a mia cognizione; e perciò la spiegazione degli universali divenne lo scoglio inevitabile della filosofia, e diede origine a perpetue, inconciliabili dispute, che hanno stancati ed allassati inutilmente tutti i secoli precedenti, e disamorati gli uomini della filosofia. Perocchè i primi commentatori ripeterono press' a poco quello stesso che disse Aristotele, ed ora riposero il comune nel reale sensibile, ora nell' intelletto, ora in entrambi, senza molta coerenza, nè sospettar guari la difficoltà. Poscia, meditandosi via più sulla cosa affine di dare un' espressione scientifica e precisa alla dottrina aristotelica, vi furono di quelli che si fermarono all' unum in multis, e dissero che i reali hanno veramente in sè qualche cosa di comune e di uno; onde fecero che l' uno appartenesse all' ordine della realità, e questi furono i Realisti . Ma tantosto si separarono fra di loro. Secondo l' esposizione di Abelardo, al suo tempo essi erano divisi in due fazioni; alcuni, tenendo fermo che il comune deve essere una realità, escludevano affatto da esso ogni elemento intellettuale, e dicevano perciò che il comune, ossia l' uno, che è nelle cose, era la materia, e che il proprio era la forma delle cose (1); sistema assurdissimo, perchè faceva sì che la stessa identica materia ricevesse contemporaneamente tutte le varie forme, in cui si presentano le cose. Così scambiavano la proprietà della materia colla proprietà dell' essere ideale, che veramente identico si attua e realizza in tutte le forme, ripristinando la materia intelligibile di Platone e dei filosofi di lui più antichi. Ma il sistema veniva ad avere due facce, perocchè parlando della materia reale, esso riusciva ad un materialismo assurdo, dove il comunissimo, cioè l' intelligibile, si faceva materiale; parlando poi della materia intelligibile, riusciva ad un idealismo del pari assurdo, dove la materia reale si cangiava in idea. La seconda fazione dei Realisti sosteneva che il comune è nei reali non secondo la materia, ma secondo la convenienza della similitudine. Questi aggiungevano in tal guisa un elemento intellettivo, ma non si accorgevano affatto di aggiungere qualche cosa all' ente reale; non si accorgevano di aggiungervi l' idea, dove solamente sta la loro similitudine, perchè veduti nell' idea dell' essere, ivi si commisurano e paragonano (2); anzi credevano di non aggiungervi se non l' atto, con cui l' intelletto li riguardava, e quindi stimavano che la similitudine, veduta in essi, fosse in essi come reali, e non come percepiti ; il quale era propriamente l' errore di Aristotele (3). Ma come avviene che quando le dottrine non sono chiare e nette, non tutti possono intenderle allo stesso modo, questa seconda fazione si spartiva nuovamente in due scuole; la prima delle quali sosteneva che l' universale, riposto nei singoli reali, risultasse dalla loro collezione, e non si potesse affermare di ciascuno (1); la seconda, che nella natura di ciascun singolo si contenesse (2). E prescindendo dall' errore capitale di sostituire il reale percepito al reale puro, entrambi avevano ragione; perocchè da una parte in ciascun reale percepito, essendovi l' idea in cui si vede, vi è il comune, essendo ogni idea un tipo comune di tutti i possibili, sotto il quale aspetto aveva ragione la seconda scuola. Se poi si considera che, finchè l' intendimento non ha che un solo reale percepito, esso non può accorgersi che vi giaccia il comune, ma se ne accorge tosto che, avendo più reali percepiti, ne fa il confronto, pare che solo nella collezione di più reali, fatta nella mente e dalla mente paragonati, si scorga il comune. La differenza sta dunque fra il comune in sè, che è nei singoli reali percepiti, e il comune conosciuto dall' uomo come comune, il quale non si osserva che nella collezione, nel rapporto di similitudine, che si vede avere ciascuno cogli altri, poichè la similitudine esige più enti fra cui ella passi. Ma posciachè non era conosciuto che l' oggetto reale, in cui si trova il comune, ossia l' universale, è un oggetto misto di reale e d' ideale, essendo un reale concepito; quindi entrambi i sistemi dei Realisti prestavano dei lati deboli, dai quali assaliti facilmente rovinavano. Il che diede luogo al sistema dei Nominali, cadente nell' eccesso opposto, giacchè se i primi si fermavano nel reale, senza accorgersi dell' ideale con esso congiunto nella mente nostra, i secondi neppur essi si accorgevano dell' ideale, ma vedevano che nel mero reale non si poteva trovare l' universale e il comune; e però s' appigliavano a dire che l' universale non era che un nome (1). Abelardo adunque, che ai Nominali appartiene, tolse a rifiutare tutte e due le scuole accennate di Realisti, in questa guisa. Quella di esse che riponeva l' universale in una collezione, esprimeva male il suo pensiero, che era certamente volto a indicare la similitudine, che in più individui si trova; poichè la parola collezione denotava un numero finito di individui reali, laddove il comune si trova in tutti gli individui possibili, i quali sono indefiniti di numero. Onde Abelardo argomentava: [...OMISSIS...] . Gli argomenti erano irrepugnabili. Abbatte pure la seconda scuola di Realisti con queste argomentazioni: [...OMISSIS...] . Abbattuti così i Realisti, Abelardo trae qual necessaria conseguenza il nominalismo: [...OMISSIS...] (2). E anche al nominalismo diede occasione Aristotele coll' avere insegnata piuttosto la dialettica che la logica, e presentate le idee e le argomentazioni vestite di vocaboli, ed esposti i nessi di questi più che di quelle; onde sul vocabolo materiale si pose più attenzione che sul suo significato invisibile e spirituale, in cui principalmente contemplava la mente di Platone. Quindi i predicamenti si chiamarono le cinque voci ; e i filosofi impacciatissimi a spiegare gli universali, sui quali ogni sistema presentava difficoltà insormontabili, finirono coll' appigliarsi del tutto ai vocaboli, come ad una tavola nel naufragio, quelli surrogando agli incomodissimi universali, e così eliminandoli affatto dalla filosofia. Toglie dunque Abelardo a dimostrare che un nome comune, fino che è solo, non presenta alcun oggetto all' intelletto, ma può significarne più d' uno; quando poi è determinato dall' unione con altri vocaboli, allora significa il particolare. Ma quando viene a ricercare quale sia la causa per cui s' impongono nomi comuni alle cose, egli allora è costretto a ritornare alla similitudine dei singolari (1), che gli rimane là dura e salda come uno scoglio, senza alcuna spiegazione (2), perocchè ella è appunto una di quelle cose così facili, così naturali, che si sogliono supporre dai filosofi e trapassare; ed esse intanto nascondono nel proprio seno un sistema intero. Dopo le quali cose è tempo che torniamo a noi, e che riassumiamo: Aristotele pose che l' uno, il comune (pressochè sinonimi) sia nelle cose, unum in multis ; che in quelle anime che sono fatte a ciò, come le umane, quando ricevono per mezzo del senso l' impressione delle cose, allora rimanga in esse il comune insieme col proprio; che le medesime anime, dotate di tale facoltà, fermino, pongano mente a quel comune, astraendo dal proprio, e così formino l' uno astratto , il comune, l' universale, che è nell' anima, unum praeter multa . Questo universale ridotto alle ultime astrazioni è l' intelletto, ossia la mente, la quale viene nell' anima dal di fuori (3). Ma posciachè l' anima non potrebbe acquistare questo intelletto, se non ne avesse la facoltà, dunque, dice Aristotele, l' anima ha l' intelletto in potenza (intelletto possibile); ed acquista poscia dal di fuori l' intelletto in atto, mediante la facoltà di fermarsi al comune ed astrarlo (intelletto agente), ammettendo questo principio, che intellectus in actu est intellectum in actu . Ecco tutta la teoria dell' anima di Aristotele; la quale anima rimane sempre un atto, una perfezione, una entelechia del corpo, dalla quale si divide la mente, quando si perde la cognizione del comune, e si acquista la mente, quando quella cognizione si riceve dai dati del senso; ma l' anima stessa non è dal corpo divisibile. Secondo questa dottrina l' anima non è corpo, ma è bensì atto di corpo, cosa appartenente al corpo, indivisibile dal corpo, esistente tutta in potenza in quello spirito, che afferma Aristotele trovarsi nel seme maschile, dal quale si sviluppa secondo le circostanze, e secondo che il corpo è meglio organato; perocchè lo svilupparsi fino a venirne l' intelligenza e l' intelletto in atto, è anche questo efficienza di un corpo idoneo a ciò, che egli dice più divino . Se egli la chiama forma , non è che dal corpo realmente la distingua; la chiama sostanza , ma per sostanza intende l' ultimo atto perfezionatore di una data materia, a cui non è dato l' esistere da sè, senza la materia di cui ella è la perfezione, ossia l' entelechia (1). L' errore di Aristotele intorno alla natura dell' anima consiste, dunque, nell' « aver fatto venire il comune dalle cose reali (dal senso che le percepisce e dall' anima atta a riceverlo), invece di sollevarsi ad intendere che il comune veniva più d' alto, che esso è essenzialmente idea ; nè può confondersi colla realità, perchè ogni comune infine si riduce nell' essere comunissimo, nell' essere ideale intuìto dall' anima per natura, il quale è forma7oggettiva di essa anima ». Quindi il maestro della scuola terminò la Filosofia naturale nell' anima, dicendo di lei, che [...OMISSIS...] ; laddove l' ultima delle forme che naturalmente si conoscono, conviene cercarla veramente più oltre, perocchè ella è l' essere ideale, per sè oggetto, immensamente all' anima superiore; la quale forma costituisce il nesso naturale dell' uomo col suo divino principio. Così il filosofo, per evitare l' errore di Platone che dava alle idee la sussistenza, rovesciò sgraziatamente nel suo contrario, confondendole colle realità contingenti, colla materia e coll' anima; per timore di non fare il volo d' Icaro, egli andò a nascondersi sotterra, e chiuse a tutti quel varco, pel quale solo l' uomo può salire sicuramente alle regioni dei cieli. Tali sono, o mio Giuseppe le sentenze principali degli antichi intorno alla natura dell' anima. Io procurai di esportele fedelmente, traendole dalle loro stesse parole, o dagli scritti più autorevoli che ce le tramandarono; il che se io abbia conseguito, non bramo altro giudice che te stesso. Nè mi contentai di riferirti i sistemi chiusi nella corteccia antica delle parole, ma tentai d' inciderla e romperla, benchè spesso durissima al taglio, per iscoprirne ed assaggiarne il midollo. Osai anche di porli al cimento; non però a imitazione di quelli che, stando in sullo appuntare sottilmente gli altrui concetti, non ne proferiscono e sostituiscono alcuno loro proprio; perocchè giammai non mi è sembrato convenevole il distruggere senza l' edificare, nè verecondo è l' animo di colui che toglie a correggere, nulla avendo fatto egli medesimo. Laonde coll' esporre alla pubblica censura quattro libri intorno alla natura dell' anima, io sperai avermi acquistato qualche diritto di scrivere questo a te, nel quale le opinioni altrui diligentemente raccolte, alla mia propria si paragonano e si cimentano. Le quali opinioni quante vigilie, quanti sudori, quante meditazioni non costarono ai più alti e nobili ingegni! Eppure cercando tutti la medesima cosa, per molti secoli, non riuscì loro di pervenire ad un accordo, quasi che mentre il vero unisce gli uomini, la scienza li divida. I moderni poi ricaddero sottosopra nelle medesime opinioni, che pure li partirono in vari drappelli; nè io so, per avventura, chi fra di essi abbia prodotto una sentenza, o nuova, o almeno migliore delle accennate. Se non che l' età dei padri nostri, per più di un secolo, depose fino l' animo d' investigare la natura delle cose, dichiarandola impenetrabile e deplorando la improvvida rozzezza degli antichi, che vi si travagliavano intorno; essa più colta, astenendosi dal cercare quella dell' anima, si contentò di descriverne leggermente le sensibili operazioni. Così, se le generose fatiche dell' antica filosofia non sempre e in tutto colsero il vero, rimasero almeno perenne monumento del sommo ardore, onde i primi sapienti tentarono definire la natura, l' indole, la condizione di questo spirito che ci avviva, ci nobilita, e ci innalza fino al soglio di Dio; cui si gloriò d' ignorare tutto quel secolo passato, di filosofi pieno, che docilissimo ed altero ubbidì e servì alla voce di Giovanni Locke e degli altri suoi maestri e duci, i quali si persuasero di rendere facile la sapienza, disaggravandola, quasi nave carica di preziosi tesori in procinto di affondare, da quanto ella recava di difficile, di peregrino, di sublime, gettandone il carico dai secoli accumulato, alle onde gonfie e spumose dei sensi e delle ribollenti passioni. Le quali ricchezze, posciachè alcuni dell' età nostra già procacciano di ripescare, io volli, come ho saputo, farmi loro compagno nella pietosa fatica, come in altri miei libri così in questo. Dove se le suppellettili e gli arnesi, che si traggon fuori e si ricuperano all' attenzione degli uomini, non sono tutti oro schietto - e il saggio, a cui io stesso di mano in mano li posi, chiaramente lo dimostra - tu considera però che nel traffico filosofico non è sola ricchezza la verità discoperta, ma ancora ogni studio ed ogni lavoro della mente per discoprirla; di che le capitali questioni pur solo intavolate, le meditazioni tendenti a scioglierle, gli abbagli stessi procacciano bene, avanzano ed arricchiscono il mercato della filosofia. Ma perchè, tu dirai, l' umana mente traviò cotanto dal vero, che la narrazione dei suoi pensieri pare doversi piuttosto appellare una narrazione dei suoi errori? Non ti riuscirà guari difficile ad intendere questo fatto costante negli annali di tutta la filosofia, se tu consideri che, quantunque la mente dell' uomo coi suoi atti diretti colga il vero - e così vien esso ricevuto e collocato quasi in arca sicura, nel fondo dell' animo - tuttavia alla riflessione, che vuole poscia leggere questo vero, il quale ella ha certamente davanti, sovente traballa la vista, e le avviene di leggere una parola per un' altra dello scritto; il che le incontra sventuratamente per la continua mobilità dell' immaginazione, che la dirige coi suoi fantasmi, seguendo le leggi animali, quando l' immaginazione dovrebbe essere diretta e governata; onde pare che la riflessione non dissomigli le più volte da un padrone cieco, guidato a mano da servo capriccioso e malfido. Così avviene che la riflessione, la quale produce la filosofia, volendo riguardare l' anima per conoscere che cosa ella è, di che natura e condizione, si creda veder l' anima, e veda tutt' altro, cioè ora veda la materia , ora il sentimento corporeo , ora l' idea , ora Iddio ; e così dica a sè stessa che queste cose sono l' anima. Perocchè di questo modo nacquero quelle prime quattro classi di sistemi tutti erronei intorno alla natura dell' anima, che ti ho esposti, i quali si possono chiamare dei materialisti, dei sensisti, dei falsi oggettivisti, e dei teofisti. Il quinto sistema poi, che fu l' aristotelico, evita in parte, come dimostrai, gli errori precedenti, essendosi accorto il suo autore che l' anima non poteva essere alcuna di quelle quattro cose, le quali sono termini del suo operare. Ma là dove Aristotele pose mano a spiegare l' intelletto, cadde egli stesso in un sistema di soggettivismo contrario ai quattro primi, e massimamente contrario a quello dei falsi oggettivisti; poichè, mentre questi volevano innalzare l' anima, dandole le divine qualità delle idee, egli degradò le idee dalla loro condizione altissima, riducendole al grado dell' anima stessa e delle cose soggettive. Che se nol disse espressamente, conseguita nulladimeno dal sistema di quel filosofo, il quale concede senza esitazione l' uno , ossia il comune , alle cose reali e soggettive; onde per Aristotele l' oggettivo, ossia l' ideale, non è più che un' appartenenza dello stesso soggettivo, ossia reale; poichè ogni reale, volendo ragionare dirittamente, al soggetto si riduce. Tu pertanto, confrontando ciò che noi abbiamo esposto circa la natura dell' anima colle altrui opinioni, giudica liberamente, guidato dal tuo proprio senno, se la sentenza nostra sia preferibile alle altrui, e se in questa parte abbiamo in nulla colle nostre meditazioni vantaggiata la filosofia, la quale non si vantaggia, senza prode della sapienza e della religione.

Sulle categorie e la dialettica

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Perciò noi dicevamo, che questa astrazione non innalza lo spirito, ma lo abbassa tanto che non si può di più. 5 Vero è, che con ciò si vuol pervenire all' atto primo dello spirito. Ottimamente, ma quest' atto primo, col quale lo spirito esiste, nol fa certo volontariamente, perchè non conosce ancor nulla, non potendo conoscere nè operare prima di esistere; il perchè quest' atto non si può chiamare volere , se non abusando de' termini della scienza. Nè pure lo spirito si determina ad esistere da sè stesso, perchè non può determinarsi se prima non esiste. Quindi egli è necessario che un altro essere lo determini ad esistere, e quest' essere è DIO. Conviene adunque ricorrere ad un essere che stà al di fuori dell' IO umano per rinvenire la ragione sufficiente di questo, e sono al tutto inutili gli sforzi de' trascendentali (1) per racchiudere l' uomo in sè stesso. L' illusione di questi filosofi consiste nel confondere: a ) La prima condizione del conoscere umano col primo oggetto della conoscenza. La prima condizione del conoscere è che esista lo spirito; ma non ne vien mica per questo, che l' atto con cui esiste lo spirito sia il primo oggetto della conoscenza. L' uomo ha un primo oggetto della conoscenza (l' essere), per mezzo del quale conosce la condizione del suo atto di conoscere , e distingue tanto bene quest' atto dall' oggetto , che quello lo ravvisa contingente, e questo necessario. L' atto del conoscere, nè pure l' atto dell' esser umano, non è assoluto; ma l' assoluto conviene cercarlo nel primo oggetto del conoscere compiuto e realizzato. b ) Essi confondono ancora ciò che è il primo nell' essere dell' uomo con ciò che è assoluto , ragionando in sostanza così: « L' atto dell' esistere umano è il primo di tutti gli atti che fa l' uomo. Ma fuori dell' uomo non v' ha nulla, pel pregiudizio sensistico. Dunque quell' atto deve essere la ragione di tutte le cose, l' assoluto ». Ma la minore del sillogismo è falsa. E se fosse vera, sarebbe ancor falsa la conseguenza, giacchè non se ne potrebbe cavar altro, se non che la ragione sufficiente, l' assoluto, manca del tutto, riuscendone quest' argomento: « L' atto dell' esistere umano è il primo degli atti umani. Ma non vi ha nulla fuori dell' uomo, e l' atto dell' esistere umano è di fatto contingente. Dunque manca l' assoluto, la ragion sufficiente degli atti umani ». A cui si deve far susseguire quest' altra proposizione: « Ora la ragion sufficiente ci dee essere: dunque è falso quest' argomento ». 6 Uno spirito che opera ciecamente, non può avere alcuna regola sua propria, perchè la regola non è tale se non si conosce, e lo spirito di Fichte e di Schelling si suppone aver annientati tutti gli oggetti del suo conoscere. E noi potremmo recare più innanzi questa enumerazione di assurdi, se fosse prezzo dell' opera. III L' assoluto di Fichte e de' filosofi che sono andati sulla sua via è un assoluto in potenza; perchè è un Io che ha bisogno di porre sè stesso, e che quando si pone diventa empirico. Ma ciò che è in potenza è ciò che vi ha di più imperfetto, e somiglia alla materia prima, che rappresenta il più basso grado dell' essere. Se non che gli antichi intendevano, che quello che non ha già in sè stesso l' atto dell' esistere, dee riceverlo da altro; e però niuno mai sognò che la materia prima dèsse a sè stessa la forma. Ma ben sognarono questo assurdo i trascendentali della Germania, i quali, ad un principio che non è ancor posto, accordarono la virtù creatrice. IV L' assoluto di Fichte, a cui si attribuisce il poter creatore, è impotente , perchè si sforza di porre sè stesso in un modo incondizionato, e non vi perviene giammai. Ma l' assoluto essere esclude il difetto dell' impotenza. V L' assoluto di Fichte è perfettibile , senza che giammai possa raggiungere la sua propria perfezione ponendosi compiutamente: ma un ente che è, e rimane sempre imperfetto e limitato, non può essere assoluto. Non v' ha dunque un Io umano che sia un ente assoluto . Ora la ragione sufficiente di tutte le cose non si può ritrovare se non in un ente da ogni parte assoluto. Dunque la filosofia trascendentale, che ha preso l' assunto di trovare una ragione sufficiente di tutte le passioni e i modi dell' ente, ha pienamente fallito al suo scopo; ella ha dichiarato assoluto quello che non è, nè può diventarlo per l' affermazione di un filosofo: ella s' è chiusa nell' uomo, cioè nel contingente, e per quantunque astrazioni ci abbia fatto sopra, per quanto l' abbia distillato nelle vane storte della sua imaginativa, non n' ha cavato altro che contingente. Per quantunque Fichte abbia tolto a filosofare, prevenuto dal pregiudizio degli idealisti « che l' uomo non può conoscer nulla, se non ciò che ha in sè, e che tutto ciò che l' uomo ha in sè è parte dell' uomo »; per quantunque la sua nobile intelligenza si fosse resa schiava di un principio sì gratuito e sì falso, e strascinando sì pesante catena non potesse correre nè camminare liberamente; per quantunque si sforzasse di far apparire più ampio che non fosse il breve spazio della prigione dove s' era chiuso da sè stesso, col far per essa mille giri e rigiri circolari: egli era impossibile che finalmente non ci sentisse l' angustia del luogo, e non gli venisse voglia di atterrare le mura della povera natura umana, o di farvi un buco almeno per ispiarvi fuori e godervi la bellezza dell' immenso campo del cielo. Egli era stato costretto a stabilire un Io che non aveva più niente dell' Io umano, e di dare a quest' Io le prerogative opposte a quelle dell' uomo; e tuttavia il pregiudizio, che serviva di base e di tema a tutta la sua filosofia, lo costringeva ad affermare che quest' Io era l' uomo, o parte dell' uomo; quasichè coll' affermarlo potesse un filosofo far che fosse quel che non è. Era stato spinto fino ad affermare, che quel suo Io « non era già l' Io individuale proprio di questa o di quella persona, ma un Io elevato sopra ogni individualità, sopra ogni soggettività ed oggettività: un Io comune a tutte le idee razionali; non già l' Io di Kant, ma l' Io di tutte le possibili intelligenze ». Confessava egli bensì che non se ne potea provare direttamente l' esistenza, e che tutta la dimostrazione indiretta che se ne potea dare stava in questo che « quell' Io DOVEA esser presupposto, perchè altramente non si poteva spiegare la coscienza ». Onde, mentre l' Io evidentemente esprime un individuo che pronunzia sè stesso, Fichte era costretto, per non abbandonare il sistema, a dire che il suo Io non era individuo, togliendogli così ciò che forma l' essenza dell' Io. Quando un uomo di mente è pervenuto a sì sformati paradossi, e a contraddizioni sì intrinseche e manifeste, per quantunque sia dominato da pregiudizŒ bevuti da' suoi maestri, se di gran mente è fornito, non può a meno di ridestarsi; ed è vicino a mutar sistema. Infatti, che mai si esigeva acciocchè Fichte il mutasse? Nulla più che di cambiare una parola. Egli era già in fatti uscito dall' uomo, perchè l' Io a cui ricorreva per ispiegare l' esistenza dell' uomo, niente aveva più di ciò che costituisce l' uomo: ed aveva ciò che non potea aver l' uomo, come la necessità e gli altri attributi divini. Bastava dunque, che mutasse nome a quest' Io, e non chiamandolo più uomo confessasse che era Dio; e gli togliesse d' attorno quelle imperfezioni, e per così dire quelle immondezze che gli erano restate appiccicate nel parto impuro e laborioso pel quale si era fatto nascere dai visceri della natura umana. Così fece Fichte, e nella sua nuova opera intitolata « Sistematica » (1), alla parola Io sostituì finalmente la parola Dio . Se questo filosofo avesse potuto vivere una vita due volte più lunga, io credo, che, come rinvenne da questo error capitale, così egli sarebbe rinvenuto dagli altri; perocchè quando un ingegno comincia a volgersi verso la verità, egli va innanzi per quella via e non è più pago se non la fornisce. Ammise adunque il nostro filosofo Dio, non più come un' astrazione, un' idea morta, ma come un essere vivente. Col suo essere è dato tutto l' essere, ed ogni altro essere possibile. Ma come nascon da Dio le cose? Ecco lo scoglio perpetuo di que' filosofi che hanno voluto vedere il fondo di tanto secreto. Fichte adunque pose Iddio , e una estrinsecazione di Dio . L' essere di Dio avente quasi due facce: la faccia interna, accessibile solo al pensiero; e la faccia esterna che viene anche chiamata dal filosofo « « l' essere di Dio fuori del suo essere » ». Questo essere di Dio fuori del suo essere è anche detto il sapere di Dio, e appellato lo schema , equivalente nel linguaggio di Fichte ad imagine . Questo solo schema di Dio può essere fuori di Dio, non propriamente come un effetto, ma come conseguenza immediata del suo essere: quindi è lo spirito umano ed il mondo. In una parola tutto quello che nel primo suo sistema Fichte aveva detto dell' Io puro, nel secondo lo dice di Dio; il che dimostra aver compreso il nostro filosofo, che non si potea ridurre l' Io empirico all' Io puro senza fargli perdere la sua identità, senza cessare di essere Io. Ma rimase infitto anche nel secondo sistema l' errore di fare che il mondo fosse qualche cosa della divina natura. Rixner nel suo « Manuale della Storia della Filosofia » espone così questa specie di emanazione o di panteismo a cui s' abbattè Fichte quando riconobbe l' insufficienza del suo primo sistema. [...OMISSIS...] Si asserisce, che la vita divina diventa vita che si sviluppa nel tempo: ma che cosa vuol dire questo diventa? Chi la fa diventare? Può egli l' essere divino diventare qualche altra cosa? può limitarsi senza cessare di esser divino? o può egli cessare? o può essere ad un tempo limitato ed illimitato? Che se la vita divina diventa il genere umano ed il mondo, dov' è la ragion sufficiente che spieghi perchè diventi questo mondo più tosto che un altro, con questo numero determinato di enti, e di modificazioni nè una di più, nè una di meno? E come questa vita divina estrinsecata e divenuta umanità ha perduto la coscienza di essere vita di Dio? Simili domande si potrebbero fare ad ogni parola del nostro filosofo. Egli investiga una filosofia che contenga la ragione sufficiente di tutto; e, in vece di ragioni sufficienti, afferma nuovi fatti, i quali esigono assai più perchè si possano credere una ragione sufficiente, ed in quella vece son tali che al tutto la escludono, son tali che mostrano di non poterla in alcun modo avere. Dalle cose dette apparisce, che questo filosofo riduce tutte le manifestazioni dell' ente a due supreme entità: I L' Io puro nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema Iddio . II L' Io empirico nel suo primo sistema; nel suo secondo sistema l' Umanità . L' Io empirico , ossia l' umanità , viene suddivisa in a ) Io , e b ) Non7Io - Spirito e Natura. All' Io empirico non disdice il nostro filosofo tutte le forme di Kant, come nè pure il paralogismo , le antinomie , e l' ideale che Kant attribuisce alla ragione. Nel sistema di Fichte adunque è ritenuto il sistema kantiano, ma come occupante un posto inferiore. Fichte fece al Kantismo quasi direi la sommità di cui credeva privo l' edificio del suo maestro, e così gli parve d' averlo ultimato. Or noi non ci tratterremo a dimostrare l' enormità di queste cotali categorie fichtiane, rimanendo già provato quanto esse sieno erronee ed insufficienti dalle cose qui sopra ragionate. Il paralogismo adunque che serve di base al primo sistema di Fichte si può esprimere così: « Vi dee essere una ragione sufficiente di tutte le cose che sono od appariscono: ma, l' uomo non potendo uscire da sè stesso, le cose che gli appariscono debbono essere elemento che costituiscono la sua stessa natura, e che in lui si vanno svolgendo; dunque anche la ragione sufficiente di tutte le cose SI DEVE TROVARE nell' uomo, nel fondo della sua natura ». Quanto la minore di questo sillogismo sia gratuita ed erronea noi l' abbiamo veduto. Ma, dato ch' ella fosse anco vera, avrebb' ella la conseguenza un valore? Non avrebbe altro valore che quello che può avere un membro d' una antinomia. Perocchè si potrebbe contrapporci un altro sillogismo, in questa forma: « Di tutto quello che è nell' uomo si dee avere una ragione sufficiente; ma nell' uomo questa ragione non vi è, perchè tutta la natura umana è contingente: dunque la ragione sufficiente di tutte le cose NON SI PUO` TROVARE nell' uomo ». Or quando s' incontra un' apparente antinomia, l' uno de' due membri opposti deve esser falso; e fino che non si è provato falso l' uno di essi, entrambi restano dubbiosi. In ogni modo adunque il primo sistema di Fichte manca di una solida base. Oltre di che, dopo aver Fichte concluso che la ragione sufficiente di tutte le cose si deve trovare nell' uomo, quando si pose all' opera per indicare in quale elemento dell' umana natura consistesse questa ragione sufficiente, immaginò quello che egli chiama l' Io puro , il quale nè si conosce per veruna esperienza, nè cade in modo alcuno nella coscienza dell' uomo. Egli adunque con ciò: 1 Era uscito dalla sfera dell' esperienza, e aveva stabilito un principio a priori , non più distinguendo coordinatamente le due Ragioni, come avea fatto Kant, la teoretica e la pratica , ma dando alla ragione pratica il principato e facendola madre della ragione teoretica; cosa d' altra parte assurda, perchè la stessa esistenza della ragione pratica non si potrebbe conoscere se la ragione teoretica non la dimostrasse. Così Fichte o doveva credere alla ragione teoretica di tutti gli uomini, e in tal caso il suo sistema veniva da essa necessitato; o doveva consentire a Kant che ogni ragionamento a priori non fa conoscere oggetti nuovi se non illusoriamente, e in tal caso il suo Io puro , che non si potea afferrare coll' esperienza, diveniva anch' esso un' illusione trascendentale; 2 Era uscito dalla sfera dell' Io umano , perocchè la parola Io esprime un ente consapevole che pronuncia sè stesso, e quest' Io che pronuncia sè stesso, e che è l' umano, non sa nulla del compagno che gli si vuol dare, ma sa che egli non è questo. E questa seconda ragione essendo balenata finalmente agli occhi di Fichte, a cui anco doleva di vedersi considerato in Germania come un ateo, il condusse, come dicemmo, a sostituire Iddio al suo Io puro, dove aveva collocato l' assoluto. E questo fu l' addentellato a cui raggiunse Schelling la sua fabbrica. Ma accettando il Dio di Fichte, ricusò d' accettare la connessione che Fichte avea stabilito fra questo Dio e l' altre cose, la quale consisteva in dichiarare l' uomo nulla più che un cotale schema ideale di Dio. Fichte s' atteneva ancora con forza al principio dell' idealismo trascendentale che tutto l' essere si riduca al sapere, e che il sapere sia il solo generatore delle cose. Quindi l' uomo era per Fichte l' unica espressione e rivelazione del sapere divino, e la natura era ancora una cotal produzione apparente dell' uomo, che l' uomo opponeva a sè stesso, per poter pugnare con essa, e pugnando perfezionarsi. Ma in questo modo, secondo Schelling, non si rinveniva una sufficiente ragione dell' uomo e della natura; perchè non appariva come Iddio avesse potuto produrre una sua immagine che non avesse la natura di lui, e un mondo che fosse morto e non vivo e divino. La separazione dunque del mondo da Dio rimaneva così senza spiegazione. D' altra parte il Dio di Fichte era fuori della coscienza umana, e non si poteva intuire. Secondo Schelling adunque, per ispiegare le cose che sono ed appariscono, conveniva trovare un sistema nel quale si potesse « « appercepire il divino come l' unico vero reale, e appercepire l' unico vero reale come l' unico vero divino »(1) ». Quindi nacque quel sistema che fu intitolato dall' identità assoluta . La maniera dunque di ragionare di Schelling si riduce al seguente paralogismo: « Non si vede una via di spiegare come l' uomo e la natura (il mondo) sieno enti distinti dall' Essere Supremo. « Ma se si negasse questa distinzione, e si dicesse che tutte le cose s' indentificano in Dio, la filosofia sarebbe liberata dalla molestia d' una tale questione. « Conviene adunque stabilire un sistema d' identità assoluta , per mezzo del quale tutte le cose contingenti vengano identificate con Dio ». Ognuno sente quanto vi ha d' arbitrario e di falso in tale argomentazione. La filosofia dell' identità assoluta trae la sua origine dall' ignoranza, e dal pudore che sentono i filosofi a risolversi di confessarla. Ma l' ignoranza non è la miglior base che si possa dare ad un sistema. L' ufficio della filosofia è quello di sciogliere le questioni: ella manca al suo ufficio qualora, non sapendole risolvere, inventa un sistema apposta per escluderle, o per dir meglio inventa un sistema che prende per suo fondamento la supposizione che quelle difficoltà non esistano. Tale è il fatto di Schelling. Se si considera il lavoro di Schelling come una continuazione logica (1) di quella de' suoi predecessori (Kant e Fichte), si trova che egli aggiunse all' eredità da essi ricevuta (e per avventura senza benefizio d' inventario) quella parte che denominò « Filosofia della natura ». Ma egli pretese di più, che la filosofia della natura e la filosofia trascendentale , che fu la detta eredità, avessero il medesimo oggetto, cioè Dio con due diverse manifestazioni, che sono natura e spirito, essere e sapere . Già in queste due parole essere e sapere ravvisasi un mancamento, perchè sapere non è che l' atto di un essere, e però egli è appartenenza del soggetto. All' incontro sotto la categoria del sapere Schelling introduce le idee , come le idee fossero sapere, mentre esse altro non sono che mezzi ed oggetti del sapere. La confusione adunque del soggetto coll' oggetto ravvisasi per tutto negli scritti di Schelling come in quelli de' suoi maestri. Ma poniamo a dirittura sott' occhio al lettore in piccol quadro il disegno della Schellinghiana filosofia (a cui però l' autore stesso più tardi dovea aver rinunziato). Questo è il seguente: [...OMISSIS...] Questo disegno ha la più perfetta regolarità; è compassato a meraviglia. Ma per ciò appunto dee dar sospetto: chè difficilmente l' immensità dell' essere lasciasi misurare da poche menate del compasso dell' uomo. Conviene adunque riflettere sopra un sistema così delineato, e in parte colorito altresì dall' autore, quanto segue: I Mettendo da una parte la natura, l' universo reale , dall' altra l' universo ideale , non apparisce qual sia il nesso tra i due universi. Il nesso è formato dall' ente intellettivo , il quale appartiene all' universo reale, ma attigne le idee, o piuttosto le idee a lui si comunicano; e in questa comunicazione e congiunzione non istà già l' identificazione del reale coll' ideale , che sempre rimangon distinti; ma bensì l' unità de' due estremi, e dimostra come sieno intimamente congiunti senza confondersi. II L' universo è limitato: a ) nel numero e nella grandezza de' corpi; b ) nel numero e nelle doti degli enti intellettivi; c ) nella quantità di potenza e d' azione attuale di tali enti. Niuna ripugnanza vi ha a concepire che i corpi e gli esseri esistenti, invece d' esser quel numero che sono, fossero uno di più o uno di meno: niuna ripugnanza che le doti, la potenza e l' azione complessiva fosse maggiore o minore di quello che è. Convien dunque assegnare una ragione sufficiente di queste limitazioni. Ma se l' Universo s' identifica con Dio, questa ragione manca; perchè il concetto di Dio svanisce ogni qualvolta si pone in esso limitazione o potenza passiva. Iddio è così illimitato che è un assurdo pure il pensiero di dargli la facoltà di limitare sè stesso. Poichè il limitarsi per Iddio è il medesimo che per un altro essere l' annichilarsi. Questo è quello che prova la Teologia con evidenza. Vero è che Schelling dice che questi limiti sono apparenti; ma a ) Primieramente quando fossero anche apparenti, rimane sempre a dare una ragione sufficiente del perchè Iddio abbia bisogno o voglia di porre a sè stesso delle limitazioni apparenti; b ) Se le limitazioni di Dio sono apparenti, esse debbono apparire a qualche essere, perchè se non apparissero a qualche essere non sarebbero apparenti. Ma questo essere non può esser Dio stesso, perchè Iddio non può far apparire sè limitato a sè illimitato, troppo bene conoscendosi egli per prendersi in fallo. Esiste adunque un altro essere, oltre Iddio, a cui appariscono le limitazioni che Iddio pone a sè stesso. Ora quest' essere non può essere apparente, perchè sarebbe un discorso assurdo il dire che limitazioni apparenti appariscano ad un essere apparente. Di più, quest' essere non essendo Dio, ed essendo reale, egli è un essere limitato non apparente, ma reale. Non si possono adunque escludere gli enti realmente limitati; e non si può ridurre l' ente alle due categorie di Assoluto e di limitazioni apparenti; c ) Finalmente l' uomo, se sa qualche cosa di vero, sa certamente di non essere apparente, ma reale. Infatti, come si può accertarsi della realità se non mediante il sentimento e la ragione? Se niun sentimento vi avesse, niuna realità sarebbe concepibile. Se la ragione giunge raziocinando a pensare l' esistenza di un Essere supremo, infinito, assoluto, ella il fa per via d' un ragionamento, che ha materia e forma . Infatti ella non può asserire che esista un ente reale assoluto, se non sa prima che cosa sia un ente reale . Ma ella non potrebbe sapere che cosa sia un ente reale, che cosa sia esistere realmente, se non avesse sperimentata l' esistenza reale in sè stesso. Prendete via dall' uomo tutti affatto i sentimenti, non solo gli animali, ma ben anco gli spirituali, che cosa vi rimane? Non più certo un uomo, ma un stipite insensato. Questo non potrebbe mai sapere che cosa sia esistere, non potrebbe per conseguente ricevere l' idea dell' ente , perchè non può ricevere il lume di questa idea, chi non è un sentimento, che nulla affatto può sentire. E se è necessario, che chi riceve l' idea dell' essere sia un sentimento, è necessario di poi che applichi quest' idea al sentimento, quando ne vuol far uso, e non lasciarla del tutto oziosa e come un geroglifico privo d' interpretazione. Senza il sentimento adunque non vi ha il concetto di un ente reale, il sentimento somministra la materia di un tal concetto, e però la materia del raziocinio che si intuisce sopra di lui. Quando non manchi questa materia, allora si può con un ragionamento trovare l' esistenza di un essere assoluto, a ciò conducendoci la forma del ragionamento , alla qual forma appartiene il principio di assolutità . Se dunque il sentimento stesso si pone essere un' illusione, manca la base di un tale ragionamento, il quale non può più condurci che ad uno assoluto apparente, e non reale. O convien dunque rinunciare alla dottrina dell' assoluto, o conviene ammettere che reale sia il sentimento; perchè niun' altra realità è a noi immediatamente conosciuta fuor di quella che nel sentimento abbiamo, o che mediatamente da questo induciamo. Che se il sentimento , che ha l' uomo individuo, è un ente reale, dunque esistono realmente degli enti limitati , e questi non sono mere apparenze, ossia limitazioni apparenti dell' ente assoluto. III Quando Schelling chiama natura il principio di ogni essere, la denominazione non avrebbe inconveniente, quando egli riserbasse tale parola a indicare la natura divina, e non l' adoperasse poi a significare l' universo qual è, materiale e spirituale, limitato, ch' egli denomina anche «to moron tu theu». IV Quando aggiunge che la natura, separata dalla ragione , non è veramente, egli direbbe vero, se intendesse dire che « senza l' idea le cose nè si possono produrre, nè si possono pensare, e però non sono »: onde non si pensano divise dall' idea ed essenti per sè, se non in virtù d' astrazione solamente. Nè pure avrebbe errato, se raffrontando le cose reali colle loro essenze ideali ne avesse predicata l' identità d' essenza. Ma avrebbe dovuto fermarsi qui. Invece egli non s' è accontato, che, se l' essenza della cosa reale è quella appunto che trovasi nella sua idea, l' essenza ideale non di meno differisce dal suo realizzamento ne' contingenti, e in nessuna maniera v' ha identità fra il reale e la sua essenza ideale. Tutto ciò che v' ha fra queste due cose, si è congiunzione nell' essere intellettivo che percepisce il reale: perocchè nella percezione si unisce individualmente il reale colla sua essenza ideale, e da questa congiunzione nasce l' individuo conosciuto , che non è già puramente la cosa quale si pensa per astrazione fuori della mente e divisa dall' idea. Poteva altresì dire che ciò che esiste veramente è solo l' individuo conosciuto; ma poi analizzando quest' individuo avrebbe trovato che in esso vi ha: 1 un elemento reale; 2 un elemento ideale; e che entrambi questi elementi sono veramente; benchè non sarebbero se non vi avesse una mente (per es., la mente divina) che li concepisce. Il che non è già confondere o immedesimare la mente con essi; ma è unicamente dichiarare una mente , un soggetto intellettivo, qual condizione ontologica della loro esistenza; e così assegnare un nuovo caso di quel sintesismo che da per tutto s' incontra. V Quindi troppo vagamente ed erroneamente Schelling pose l' assoluto nel punto d' indifferenza tra gli opposti . Vagamente, perchè non indica con precisione quanti sieno questi opposti, quando avrebbe dovuto con costanza stabilire per opposti il reale e l' ideale . Erroneamente, perchè, se vi avesse un assoluto che fosse un punto di indifferenza tra il reale e l' ideale , egli non sarebbe nè reale nè ideale, come già osservai parlando di Fichte: e però, lungi da esser perfetto, sarebbe imperfettissimo; lungi da esser Dio, sarebbe la materia prima degli antichi , che svanendo in nulla dà luogo al nullismo cavatone poscia espressamente da Hegel. All' incontro avrebbe dovuto trovare un assoluto nel quale l' ideale e il reale fossero alzati alla maggior potenza, senza mai confondersi se non nell' essere , rimanendo distinti nelle forme o modi. Perciocchè in tal modo l' assoluto, non solo avrebbe avuta tutta la perfezione e la pienezza dell' esistenza, esistendo in tutti i modi; ma avrebbe avuto da una parte l' unità perfetta nell' identità dell' essere, dall' altra un ordine interiore, un organismo idoneo a spiegare come possa essere attivo e fonte di moltiplicità, giacchè nell' assoluto dee trovarsi altresì la massima attività, la massima vita, la cagione intrinseca del movimento. Nel punto d' indifferenza all' incontro non v' ha ragione che spieghi perchè cessi d' essere indifferente, e lasci così la propria natura, e come possa far ciò quando egli è costituito essenzialmente da una piena e semplice indifferenza. Il dire, come fa Schelling, che « « l' assoluta identità pone sè stessa infinitamente come soggetto e come oggetto, perchè senza di ciò non può conoscere sè stessa infinitamente » », lungi dallo spiegar cosa alcuna, complica maggiormente le difficoltà. Perocchè, se l' assoluto, chiamato dal filosofo nostro assoluta identità , consiste nel punto d' indifferenza anteriore all' origine del soggetto e dell' oggetto, come mai quel punto può aver bisogno, per conoscersi, di perdere la sua indifferenza ponendosi come soggetto e come oggetto? Ha dunque bisogno di cessare di essere, per conoscersi? Come punto d' indifferenza è assoluto: e quest' assoluto è così ignorante che non conosce sè stesso? ed ha bisogno di cercarsi fuori di sè, e per trovarsi ha bisogno di porsi colla differenza di oggeta totalità? Fuori della totalità vi è qualche cosa? E si tratta di un fuori , come un corpo è fuori di un altro, o come l' idea è fuori della mente, o come un' idea è fuori di un' altra idea? Perchè dichiarazioni così rilevanti sono omesse da cotesti filosofi? Ad ogni modo, se la totalità è l' assoluto, ciò che riman fuori dell' assoluto non si vede come possa far conoscere l' assoluto a sè stesso. L' assoluto si cercherebbe in tal caso per conoscersi dov' ei non sarebbe più. VI Oltracciò il punto d' indifferenza , anteriore al soggetto e all' oggetto, nel quale Schelling sulle traccie di Fichte collocò l' assoluto, non può avere identità al soggetto ed all' oggetto, perocchè ciò che è essenzialmente indifferente non può identificarsi con ciò che è essenzialmente differente. VII Di più, il punto d' indifferenza non può essere nè concepirsi se non per via d' astrazione che fa la mente. Ma un astratto non può esser mai l' assoluto. Oltre di che questo astratto è piuttosto un astratto falso e chimerico che vero, perchè, tolta via la distinzione dell' oggetto e del soggetto, non rimane propriamente nella mente qualche cosa d' indifferente, ma il nulla; che si considera indifferente in senso al tutto negativo, unicamente perchè il nulla non può aver differenza come non può aver proprietà perchè è nulla. Quindi di nuovo hassi il nullismo. VIII Essendo però impossibile il non vedere che il punto d' indifferenza non può sussistere come tale, Schelling si buttò a dire che « « l' identità assoluta esiste solo come universo »(1) »; quasi che l' universo fosse il modo di esistere di Dio: onde il panteismo di cui fu accusato. Ma se l' identità assoluta esiste solo come universo, l' assoluto non esiste adunque più come punto d' indifferenza . A questo mancamento, credette il filosofo nostro poter soccorrere distinguendo nell' universo la totalità dalle singole parti; e disse che nella totalità vi aveva indifferenza. Ma anche qui si gioca d' astrazioni. Perocchè la totalità dell' universo non è che un essere della mente, la qual considera il complesso degli enti coll' idea astratta di tutto . Acciocchè al tutto , ossia alla totalità , sottostesse un valore reale, converrebbe dimostrare che sussista qualche cosa che di tutte le parti dell' universo forma realmente un ente solo il quale dà a ciascuno tutto ciò che esso ha, e però è identico con ciascuna. E benchè anche questo dica lo Schelling, tuttavia non mostra mica nè qual sia questo ente, nè che sia uno; ma si contenta di appellarlo ora identità assoluta , ora punto d' indifferenza , ora totalità; le quali son parole e non più. Soggiunge che se l' identità assoluta, per sussistere, dee porre sè stessa qual universo, s' incorrono tutte le difficoltà che v' hanno a concepire come un ente dia l' esistenza a sè stesso, le quali abbiamo esposte parlando di Fichte. IX Ma la manchevolezza di questo sistema appare più palese, più che il suo autore, uscendo dall' oscurità e dall' ambiguità de' principii generali, discende ad applicarlo alla spiegazione de' fatti. Come vedemmo egli distingue due universi: quello dell' essere e del sapere (onde le due filosofie della Natura e dell' Idealismo ); che però non sono che due astrazioni, secondo lui stesso, giacchè non esistono in vero se non identificati. Per altro volendo egli spiegare tutti i fatti, avrebbe dovuto incominciare appunto da questo dell' astrazione: definendo prima questa operazione maravigliosa (benchè dalle definizioni mostrano d' abborrire per lo più i filosofi trascendentali come il can rabbioso dall' acqua); e di poi dando ragione di questa potenza capace di dividere un identico universo in due, tanto distinti quant' è la materia bruta dall' idea. X Quando poi egli prende a descrivere i fatti che intende spiegare nell' universo dell' essere, che è ciò che chiama « Filosofia della Natura », non solo non agguaglia la grandezza dell' argomento, ma scade da ogni dignità filosofica. Perocchè sono vere inezie quelle che di frequente egli dice, anzi che dotte sentenze. Non è ella un' antica inezia lo spiegare la rotondità de' corpi celesti perchè la figura sferica è la più perfetta? e il collocare la ragione del rotar de' pianeti intorno al sole nel bisogno che sentono (essendo animati) di unità? Sapete perchè il sole mostra sul suo disco alcune macchie? Il filosofo vi dice seriamente che quelle macchie sono assolutamente necessarie , mostrando esse che il sole è subordinato ad un sistema stellare superiore! Volete sapere la definizione del magnetismo, dell' elettricità e del chimismo? [...OMISSIS...] Quindi le tre dimensioni de' corpi, quindi i tre processi della natura. Le tre potenze della natura sono la gravità , che è potenza di primo grado e produttrice della materia; la luce potenza di secondo grado, onde il moto e la forza; la vita potenza di terzo grado, onde l' organismo e l' uomo stesso. Egli condanna Fichte per aver tratto l' universo dall' Io, e invece fa uscire l' Io dall' universo come un prodotto. Udite con che audacia ed ignoranza favella: [...OMISSIS...] . Sarebbe un perdere il tempo il ripetere tutte le frivolezze di cui questo filosofo empisce il suo libro intitolato: « Idee sulla natura ». XI A tre pure riduce le potenze (1) del mondo ideale che sono: verità, bontà e bellezza . Ora primieramente non s' intende come la bellezza debba essere una potenza più elevata della bontà , quasichè le arti belle, che spettano alla bellezza, sieno qualche cosa di più della moralità e della religione che il nostro filosofo riduce alla bontà. D' altra parte la verità e la bellezza sono oggetti dell' intelligenza che le intuisce e fruisce, quando la bontà è una qualità soggettiva, non essendo che la perfezione del soggetto intellettivo7morale. Onde, se i due primi appartengono al mondo ideale , la bontà appartiene al mondo reale in quanto si perfeziona colla sua adesione all' ideale. Questa confusione tra il mondo reale e l' ideale accade al nostro filosofo pel materialismo di cui va infetta la sua « Filosofia della Natura ». Perocchè la natura fu ridotta da questo filosofo ai soli fenomeni materiali, e non conosce punto che v' ha un reale spirituale , che non appartiene già al mondo delle idee, ma nè pure a quello della materia. All' incontro Schelling considera le anime e gli spiriti come altrettante idee viventi, senza accorgersi che l' idea è essenzialmente oggetto e solo oggetto, e lo spirito è il suo opposto che intuisce l' idea, ma non può essere in alcun modo l' idea. XII A cagione dello stesso errore fondamentale egli disse che lo sviluppo delle potenze reali porge il sistema cosmico dei prodotti necessari della natura, mentre avrebbe dovuto annoverare tra le potenze reali anche le potenze spirituali e libere. All' incontro disse che « « lo sviluppo delle potenze ideali dà la storia dell' umana libertà in tutto il genere umano » »; mentre potenze ideali, nel senso comune della potenza, non ve n' hanno, spettando le potenze a' soggetti reali e non alle idee. Nè alle idee o al loro sviluppo (quantunque le idee non abbiano un loro proprio sviluppo) appartiene la libertà (dell' uomo) che è potenza reale d' un soggetto reale, e non ideale, quale è l' uomo. Onde l' apparente regolarità e simmetria ond' egli compartì le varie parti della sua filosofia ricade troppo a scapito della verità, di che ci dava sospetto pure al primo sguardarla. Questo filosofo adunque, col suo sistema dell' identità assoluta, tolse in fatto le categorie dalla filosofia come inesplicabili; il che in sostanza aveano fatto pure i suoi maestri. Non potendosi però negare che le categorie appariscano, le dovettero ammettere come illusioni trascendentali: ed egli tre ne diede al mondo della natura , cioè la gravità , la luce e la vita; tre al mondo delle idee , nel quale confuse gli spiriti, cioè la verità , la bontà , la bellezza . Ora questa divisione dell' ente è al tutto inetta, e appena degna d' essere confutata. La gravità nè è un ente, nè la proprietà di un ente, ma una semplice legge , cioè un fatto costante. La luce è un corpo di cui non si conosce ancora la natura; e se si piglia come stimolo del sensorio ottico, è una denominazione che può appartenere a qualunque altra causa atta ad eccitare nell' organo della visione i movimenti sensorii. La vita si prende in diversi significati (1). Applicata al corpo, è una sua modificazione che lo rende atto ad esser sentito immediatamente e sensorio: applicata al principio senziente, consiste nel sentimento che lo costituisce. Non v' ha dunque ordine in questa classificazione, nè ella abbraccia nè pure tutto ciò che appartiene alla natura corporea. La verità , la bellezza , non sono che relazioni che hanno le idee cogli spiriti dotati d' intelletto e di sentimento intellettivo; la bontà è la perfezione delli spiriti stessi. Gli spiriti stessi rimangono adunque esclusi da tali categorie. Come Fichte s' era avveduto dell' insufficienza del suo primo sistema, così Schelling si trovò mal pago del suo, e lo abbandonò. Le opinioni filosofiche tuttavia ultimamente manifestate a Berlino dimostrano ch' egli non ha ancor digerito il principio degl' idealisti, che l' intelligenza e il mondo esterno sieno così dissociati che la prima non possa dimostrare l' esistenza del secondo. Quindi divise la Filosofia in negativa , che considerò come un trovato della ragione, e in positiva che attribuì all' esperienza. Or l' attribuire all' esperienza de' sensi una filosofia, quasi potesse avervi una cognizione meramente sensibile senza l' intervento della ragione, è quel peccato di sensismo che guasta tutta la filosofia, e specialmente la germanica «( Psicol. 29 7 33) ». Ma udiamo onde trae la partizione delle due filosofie. Richiamando la distinzione degli Scolastici tra la questione quid est , e la questione quod est , viene a dire tra « qual sia l' essenza d' una cosa », e « se la cosa sussista » «( Sistema filosofico , 1. 7 42) », Schelling attribuisce alla ragione la prima questione, all' esperienza la seconda. Quindi, secondo lui, la Filosofia della ragione, ch' egli chiama negativa, si limita a far conoscere le essenze delle cose, senza poter giammai decidere se niuna cosa realmente sussista. All' incontro la Filosofia dell' esperienza, ch' ei chiama positiva, suppone le cose sussistenti e tratta di esse. La prima dunque non esce dal mondo ideale, dal mondo de' possibili (1); la seconda sola ha per oggetto il mondo reale. La Filosofia negativa adunque di Schelling si riduce ad una Ideologia . Ma impropriamente le attribuisce l' epiteto di negativa , perocchè l' Ideologia non nega, benchè nè meno afferma il reale; ma il reale rimane fuori della sua sfera. Affine che si possa dare il titolo di negativa ad una dottrina, conviene che ella contenga una negazione . Perciò si dicono concetti negativi quelli con che vogliamo far conoscere cosa sussistente per via d' analogia , giacchè l' analogia non ha valore se non unita ad una negazione. Quando il cieco procaccia di distinguere i sette colori di cui vuole parlare, per l' analogia che aver possono co' suoni, egli non può avere un concetto verace se in pari tempo non neghi a sè stesso che i colori sieno i suoni. La necessità dunque d' una negazione a fare che un dato concetto non inganni nella sua applicazione è ciò che induce a dargli l' applicazione di negativo . Ma l' idea non affermando nulla di reale, ma solo facendo conoscere il possibile , è scevra da ogni negazione, nè ha bisogno d' essere rettificata con questa per non riuscire ingannevole. Quindi non le si addice il titolo di negativa, benchè nè pur quello di positiva. Ciò che dice ora Schelling che la Filosofia della ragione non tratta che del solo mondo ideale, ossia di possibili, può pigliarsi altresì come una interpretazione o modificazione del suo precedente sistema dell' identità assoluta . Ma tutto questo sistema diverrebbe con ciò stesso sterile, perchè si acchiuderebbe nel mondo ideale, senza che egli si permetta di spingere un solo passo fuori del possibile: ond' egli non potrebbe dare alcuna ragione sufficiente, nè della coscienza, nè dell' esperienza, nè delle operazioni del pensiero, nè dell' universo materiale; perchè tutte queste cose appartengono al mondo reale. Quindi Schelling tratta ora di tutte queste cose a parte, cioè nella Filosofia positiva , la quale si limita a credere all' esperienza, senza cercare di essa alcun fondamento razionale. Questa via positiva ed empirica è quella che ora preferisce e a cui più si applica. Noi non ci allungheremo dimostrando quanto sia erroneo e dannoso questo divorzio della ragione colla natura, questa bipartizione della scienza, che abbraccia ad un tempo i due errori dell' idealismo e del materialismo; perchè ciò risulta da tutto ciò che abbiamo scritto di filosofia. In quella vece noteremo l' abuso d' astrazione come il fonte principale delle filosofie tedesche, con un esempio tolto dalla Filosofia della ragione di Schelling, com' egli di presente la espone nelle lezioni che dà a Berlino. Se l' uomo coll' astrazione distingue solamente gli elementi che si contengono in una data idea, senza pigliarli per enti che stanno da sè, egli non abusa di tale operazione. Acciocchè adunque non cada abuso in astrarre si richiedono due condizioni: 1 Che l' astrazione distingua i veri elementi che presenta una idea; 2 Che ella non li prenda per altro se non per quello che sono, cioè per elementi, e non per enti ideali stanti da sè. Vi ha dunque abuso: 1 Se si pretende di trovare in un' idea elementi che non sono tali; 2 Se si pretende che quelli che sono meri elementi, sieno enti ideali stanti per sè. Nella filosofia germanica s' incontra l' uno e l' altro abuso. Ma noi vogliamo segnalare il primo, come il più pernicioso e il più sottile a sottrarsi dall' attenzione. Acciocchè ciò che distingue l' astrazione in un' idea sia un elemento della medesima, egli dee essere veramente distinto dagli altri elementi e così distinto dee potersi concepire. Ora accade che i filosofi tedeschi, e specialmente gli Hegeliani, considerano per elemento quello che non è tale perchè non si può idealmente distinguerlo neppure col pensiero dentro l' idea, onde altro non è che un loro creato, una finzione della loro attivissima immaginazione filosofica. L' esempio che addurrò chiarirà meglio la cosa. Esponendo Schelling la sua Filosofia negativa, viene discorrendo così: [...OMISSIS...] . Intanto è un ragionamento evidentemente falso il dire che la ragione essendo potenza anche quel che contiene sarà potenziale. Poichè, se s' intende che la ragione sia in potenza a conoscere e non in atto, in tal caso ella nulla ancora conosce, nulla contiene; e però non si può dire come sarà il suo oggetto. L' oggetto non è fino che non è l' atto che l' intuisce; e l' oggetto proprio dell' atto è l' identico oggetto della potenza: dunque la ragione per essere in potenza, anzi che in atto, non influisce sul suo oggetto, nol costituisce in potenza anzi che in atto. Di poi è una contraddizione il considerare la ragione come una mera potenza senz' atto, e tuttavia definirla « l' infinita potenza di conoscere »; perocchè ciò che è in potenza non è mai infinito; nè ciò che è infinito può essere divenuto tale con un passaggio dallo stato di potenza a quello di atto; ma dee essere in atto fin sul principio. Perocchè dallo stato di potenza allo stato d' infinito atto ci ha una distanza infinita, e una distanza infinita non può essere trascorsa da nessun movimento. In terzo luogo « l' infinita potenza di essere »è un concetto assurdo. Perocchè questa potenza è qualche cosa, o nulla. Se è nulla, non è potenza. Se è qualche cosa, è già essere in atto. Dunque non si può concepire « una pura potenza infinita di essere »; e quand' anco non fosse infinita, la potenza non si può concepire senza un atto. Convien dunque che v' abbia prima un atto, cioè un essere in atto, acciocchè vi abbia la potenza di essere. Ed ecco già qui comincia a manifestarsi l' abuso d' astrazione, di cui parlavamo. Perocchè si pretende la potenza di essere come cosa che possa stare da sè senza atto. Ma, così divisa dall' atto « la potenza di essere », nè pure è un vero astratto, perchè così divisa non si può conoscere. Di più « il poter essere »ha due significati che vogliam distinguere. Perocchè significa tanto un poter essere logicamente considerato, come un poter essere considerato fisicamente. La possibilità logica dell' essere segna l' essenza di un essere che non involge contraddizione. Ma l' essenza , come essenza, non è in potenza ma in atto; e dicesi in potenza solamente considerandosi rispetto alla sua realizzazione non racchiusa nell' essenza. Onde di nuovo l' atto dell' essere non manca. La possibilità fisica importa di più la cognizione d' una causa reale atta a realizzare quest' essenza; e questa causa è di nuovo un essere in atto . Dunque è impossibile, che oggetto della ragione sia unicamente il poter essere; ma anzi convien che sia un atto dell' essere (l' atto dell' essenza, l' idea) nel quale si pensi la possibilità della sua realizzazione, ciò che è il poter essere. Ora tutta la Filosofia di Schelling e di Hegel non è che un edifizio innalzato sul fracido fondamento di questo falso ed assurdo astratto di un « mero poter essere », che si suppone gratuitamente dover precedere all' essere; perchè, illudendosi, si crede di poterlo trovare coll' astrazione antecedente a tutto. Ma l' astrazione, come dicemmo, non dà ciò veramente; ma è l' abuso dell' astrazione, cioè l' immaginazione, quella che non già trova analizzando, ma finge ed inventa così una creatura vuota di verità, aiutandosi a segnarla con vocaboli che altro non danno che un non7senso. Infatti Schelling continua a ragionare su questo falso astratto così: « La potenza adunque di essere è anteriore all' essere. Fino che si considera come potenza anteriore all' essere, ella può passare all' essere e non passare, e perciò è padrona di sè, ha il dominio sull' essere, è libera. Ma quando ella è passata all' essere, e l' essere è posto, ella ha perduto la sua libertà, ed è in potere dell' essere stesso. Or quest' essere privo di padronanza, privo del dominio dell' essere, non è spirito nè concetto; perchè spirito significa padronanza, e signoria dell' essere. Nella natura tutto è già posto, tutto ha la sua forma. Ma è facile di vedere che dee aver preceduto, qual materia , un essere cieco, e indeterminato, ossia infinito ». Così da un falso astratto argomenta ad un altro falso astratto , perviene alla materia prima degli antichi; alla quale, con una contraddizione in cui gli antichi non caddero, dà ad un tempo l' esser cieco all' esser libero; confondendo l' essere indeterminato, che è un' imperfezione, coll' esser libero che è una perfezione; e l' essere indefinito , che è un' imperfezione, coll' essere infinito che è una perfezione. Egli è chiaro che mediante ragionamenti di simil fatta si può pervenire a qualunque mostruoso assurdo; e questo è quello di cui si gloria la filosofia di Hegel, che non è infatti che la raccolta di tutti gli assurdi più ridicoli vestiti del più baldanzoso paludamento filosofico (1). Kant, Fichte, e Schelling ed Hegel non formano che una stessa scuola di sofisti, assai simili a quelli della Grecia, di cui Kant è il fondatore (2). I dati erronei ed arbitrari da cui partono e che noi abbiamo esposti, sono sempre i medesimi; ma ciascuno volendo essere originale ed unico signore del campo, deprime il suo predecessore, appropriandosi le sentenze e disponendole con altra simmetria. La critica che Hegel fa a Kant è quella che gli avea fatto Fichte: l' essersi quel filosofo contentato di chiuder l' uomo nelle forme soggettive e nelle illusioni trascendentali, senza dichiarare impossibile l' esistenza delle cose esterne e di Dio, benchè non accessibile alla ragione, ed aver quindi lasciata nella filosofia una dualità. Fichte, secondo Hegel, non fece altro che unire il desiderio , l' aspirazione istintiva a Dio di Jacobi, colla vuota oggettività del pensiero di Kant. Egli censura il primo, perchè questa unione resta sempre in un dover essere, senza che possa mai passare nel fatto. Infatti « l' Io puro, secondo Fichte, deve sempre porsi in un modo compiuto, assolutamente, travasandosi tutto nell' Io empirico, senza che possa mai venirne a capo, benchè a ciò s' affatichi all' infinito »: onde pone nella perfettibilità indefinita l' umana destinazione. Questo in Fichte rimaneva un mero postulato che doveva essere tolto per arrivare alla verità speculativa. Così in Fichte il pensare , urtando nell' infinito, trovava un limite insuperabile, e non si poteva costituire come assoluto principio della verità. Ora, senza considerare il pensare speculativo come questo assoluto principio di ogni verità, non pervenendosi all' assoluto, si rimane nel relativo: di che Hegel chiama la filosofia fichtiana una mera fenomenologia del pensare. Era in sostanza la critica stessa che gli avea fatta Schelling. Questi filosofi pretendevano di dover pervenire all' assoluto colla pura speculazione, e pretendevano che trovato l' assoluto non solo fossero spiegati tutti i misteri, ma ben anco lo stesso universo che doveva uscire dal pensare come i miti dell' antichità lo fecero uscire dall' uomo. Ma essi non davano però alcuna ragione del perchè la dovesse andar così, nè mostravano le loro credenziali che li dichiarassero atti ad eseguire tale e tanta promessa (che involge in sè stessa più assurdi). Intanto il principio di doversi cavare ogni cosa dal pensiero, era dovuto a Fichte, a cui l' avea suggerito la filosofia di Kant; e Schelling ed Hegel in sostanza non fecero che un tentativo di svolgere quel principio più logicamente, com' essi almeno si diedero a credere. Rixner (1) dice che lo scopo di Hegel non è altro che di formare della dottrina dell' idealità assoluta di Schelling una scienza atta ad essere insegnata metodicamente. Infatti è difficile trovare in Hegel qualche cosa di nuovo, eccetto che parole e cavillazioni a grande stento filate. L' unica cosa forse, in cui si dipartì dal suo maestro, si fu che sostenne non doversi cominciare dall' intuizione dell' assoluto ( Anschaung ) che Schelling poneva, chiamandola una « premessa insussistente »; e mantenne, che il principio del filosofare si dovesse prendere dal puro pensare , dove egli pretende trovare l' identità dell' ideale e del reale, e doversene cavare ogni cosa; il che veramente è conseguente all' errore fondamentale dell' idealismo: e perciò lo semplifica e perfeziona, rendendolo, se mi lice parlar così, un errore assoluto . Hegel adunque pretese di sollevarsi sopra il punto culminante della filosofia di Fichte, l' Io puro , per le ragioni che adduce nella lunga discussione che premette al libro I della sua Logica intorno alla questione [...OMISSIS...] ; le quali parole voglion dire che non si può ridurre ogni cosa all' Io , come voleva Fichte, perchè nel concetto dell' Io s' acchiude la relazione con un oggetto che rimane diverso dall' Io; quando conviene pur cominciare da ciò che non supponga esistere nulla di diverso da sè. Questa critica in sostanza era quella stessa che aveva fatta Schelling al suo maestro, quando aveva biasimato che nel sistema di Fichte il mondo materiale si rimanesse come cosa morta fuori dell' Io puro . Onde pretese di levarsi ad un punto più elevato di Fichte, sostituendo all' Io puro , l' intuizione dell' assoluta identità . Ma Hegel volle mettersi al di sopra di Schelling trovando un altro punto di partenza ancora più eminente, e però rigettò l' intuizione Schellinghiana dell' assoluto, perocchè in questa intuizione dell' assoluto già vi hanno due cose, cioè: 1 intuizione, 2 assoluto; onde Hegel, sostenendo che si dee cominciare dal semplice e trovare poi in esso ogni cosa, fece dell' intuizione e dell' assoluto una cosa stessa, che denominò puro , o vuoto, pensare , che chiamò l' immediato , o la stessa immediatezza . Il perchè disse che [...OMISSIS...] , come accade nell' intuizione a cui si vuol ridurre la riflessione, quasi facendola retrocedere. Così sottilizzando, stabilisce per vero immediato cominciamento del sapere il puro sapere , vuoto d' ogni contenuto, e crede di esser andato con ciò più su di tutti i suoi predecessori, e di quanti hanno prima di lui filosofato. Il perchè, a quella maniera che Schelling alla « Filosofia trascendentale » di Fichte aggiunse una seconda parte intitolandola « Filosofia della natura »; così Hegel alle due dottrine di Schelling ne aggiunse una terza, intitolandola « Logica ». Di che riuscì la dottrina hegeliana tripartita in questo modo: [...OMISSIS...] . Benchè noi non intendiamo qui entrare in un esame circonstanziato del sistema di Hegel, come facemmo di quello de' suoi maestri: parte perchè ciò che abbiam detto a loro riguardo vale in buona parte anche per lui; parte perchè ci bisognerà discuterlo altrove dove favelleremo della dialettica (1); tuttavia qui dobbiamo esporre l' errore fondamentale di tutto il suo sistema, il quale conosciuto, potremo fare giusta stima della partizione hegeliana dell' ente, scopo di questo libro. L' errore fondamentale adunque del nostro filosofo consiste nell' aver confuso il VERBO coll' IDEA, di aver cioè di queste due cose fattane una sola, a cui appartenessero indistintamente gli attributi dell' una e dell' altra. Dichiariamoci. La distinzione importantissima tra il verbo della mente e l' idea fu da noi esposta nel « Nuovo Saggio »: io prego il lettore di averla ben presente (2). Quando io penso l' essenza di un ente, per esempio, l' essenza dell' uomo, che cosa è presente alla mia mente? L' uomo. L' uomo, senza più, presente alla mia mente è l' umana essenza. Quest' essenza, in quanto è intuìta dalla mente, si chiama idea . L' essenza dell' uomo è l' uomo possibile: ma non si dee mica credere che quando la mente intuisce l' essenza dell' uomo, ella vi aggiunga contemporaneamente il concetto di possibilità . No: questo concetto è posteriore; la possibilità, come ho spiegato più volte, è una mera relazione dell' essenza, che è trovata ben presto dalla mente, ma che non è compresa nel primo intuito. Onde si suol dire con verità che l' idea fa conoscere l' uomo possibile , ma a condizione che si intenda così che ella fa conoscere l' uomo, il quale posteriormente si riconosce colla riflessione aver la relazione di possibilità, benchè questa possibilità a principio, come dicevo, non soggiaccia all' intuito. Io non so capire come, essendomi spiegato su ciò tante volte e così chiaramente, tuttavia ancora si continui ad attribuirmi, come fa tra gli altri il signor abate Gioberti, che io ammetto per oggetto dell' intuito il meno possibile (1): ancor peggio poi si fraintende e si altera ciò che io dico quando mi si imputa di ammettere un' idea possibile . Fra le altre male intelligenze e logomachie del sig. abate Gioberti vi ha quella che egli confonde l' attualità colla realità . Egli inveisce contro di me perchè dico che l' idea non è un reale, e argomenta che « l' ideale non può concepirsi senza che abbia qualche realità ». Ma intendiamoci sul valore delle parole. Il suo argomento varrebbe, se per realità s' intendesse attualità , giacchè è certamente giusto questo argomento: « Il possibile non può concepirsi senza qualche attualità ». Ma, lungi che io neghi l' attualità all' essere ideale, dico anzi ch' egli è la prima attualità (2). Infatti, se è l' essenza , dee per conseguenza esser la prima attualità degli enti. All' incontro nego che l' ideale sia reale , perchè la parola reale si adopera appunto a significare un modo d' esistere opposto al modo ideale; onde, chi dicesse che l' ideale fosse reale , confonderebbe due concetti opposti, e direbbe un manifesto assurdo allo stesso modo di colui che dicesse che il nero è bianco, o che l' accidente è sostanza (3). L' idea pura adunque non contiene nulla di reale , venendo escluso il reale dalla stessa parola idea . L' intuizione è l' atto con cui lo spirito contempla l' essenza pura della cosa; ed appunto perchè l' intuizione è l' atto dello spirito, essa è reale; giacchè ogni azione di cosa reale è reale. Ma l' essenza pura è l' oggetto di quest' atto, ed altro non è, se non « l' ente in quanto è conoscibile ». Le espressioni che s' usano: « l' ente ideale è nella mente, l' ente ideale è presente alla mente, ecc. », non si debbono intendere materialmente, quasi che l' ente ideale fosse nella mente come l' acqua è in un vaso, o fosse presente alla mente come un corpo è presente agli occhi per la vicinanza dello spazio; ma esse non valgono che come pure sinonimie di questa espressione propria: « l' ente ideale è conosciuto dalla mente ». Conoscer l' essere ideale, ossia l' essenza mera dell' ente , si esprime colla parola propria intuire . In questa pura cognizione la mente contempla, ma non pronuncia cos' alcuna; perocchè il pronunciare è un atto posteriore a quello dell' intuire ; giacchè non si può pronunciare nulla di ciò che non si ha prima almeno intuìto. Pronunciare qualche cosa dell' ente intuìto, è giudicare, è fare quell' atto che si chiama verbo della mente. Il verbo della mente è dunque quella parola interiore che dice la mente in conseguenza dell' ente intuìto: è dunque una operazione della mente essenzialmente posteriore all' intuizione. Ora, posciachè pronunciare non si può senza pronunciar qualche cosa di qualche cosa: dunque il verbo della mente ha di bisogno di avere nel suo termine una duplicità. L' essenza è semplicissima: l' intuizione adunque dello spirito ha un termine unico dove riposa: il verbo invece, la parola interiore , non potrebbe essere proferito dallo spirito, se non vi avesse un modo di introdurre la pluralità nel termine del suo atto. Questa pluralità può comparire in due modi: 1 Coi sensibili comunicati a noi nel nostro sentimento; 2 Coll' analisi dell' essenza e delle sue relazioni. Ma questo secondo modo ha luogo solo posteriormente al primo: per esempio, quando la mente pronuncia che « l' essenza umana è possibile d' essere realizzata »ha moltiplicato il suo termine coll' analisi dell' essenza umana. Ma si badi. Ella ha trovato una relazione tra l' essenza umana e il concetto della sua realizzazione . V' ha dunque in questo pronunciamento una triplicità: 1 l' essenza; 2 il concetto di realizzazione; 3 la relazione di possibilità, per la quale si giudica che l' essenza possa essere realizzata. Ora, acciocchè lo spirito possa pronunciare questo giudizio, possa dire questa parola, è necessario prima di tutto ch' egli ritrovi la realità, e questa realità non gli è data che nel sentimento. Acciocchè dunque la mente possa venire a dire qualche parola interiore, a pronunciare un giudizio qualsiasi, è condizione necessaria che le sia dato, prima di tutto, il sensibile. Dunque in nessuna maniera è possibile confondere l' intuizione col verbo della mente: quella essendo semplicissima ed una, questo esigendo pluralità acciocchè possa aver luogo. Schelling confuse l' intuizione col verbo della mente, dando all' uomo questo invece di quella. Per accorgersene basta osservare, che l' oggetto dell' intuizione Schellinghiana è l' identità assoluta che egli esprime colla formola A .uguale . A, chiamando l' uno degli A predicato , l' altro soggetto . Dunque quest' oggetto è molteplice. Infatti la cognizione dell' identità non può essere data che per un giudizio. Ma eglino sono veri e innegabili questi fatti: 1 Che nella semplice intuizione d' un' idea, d' un' essenza, non cade nè pluralità, nè giudizio; 2 Che non è punto cosa assurda questa intuizione semplice; 3 Ch' essa nell' ordine logico precede ogni giudizio; 4 Che il giudizio non può essere innato nell' uomo, perchè egli è un' operazione che contiene un movimento, un discorso che trapassa da un' idea in un' altra; e un movimento intellettuale è bensì atto del soggetto esistente, ma non già una disposizione stabile che possa essere innata; 5 Che a spiegare le operazioni dell' umano intendimento basta che si trovi innata nell' uomo l' intuizione semplice e immanente dell' essenza dell' essere senza più. Il solo fatto psicologico ed innegabile, che per l' uomo sono due operazioni distinte l' intuizione dell' essenza e il giudizio , basta a doverci convincere che l' intuizione precede il giudizio; e che quindi l' umano conoscimento non comincia da un verbo , ma da una idea intuìta . Schelling, attribuendo all' uomo un verbo primitivo sotto il nome d' intuizione, invece d' una vera intuizione diede all' uomo quello che è proprio di Dio, nel quale le idee non sono distinte dal suo Verbo pel quale solo tutto conosce, che anzi non sono propriamente idee l' una dall' altra realmente distinte, ma sono relazioni conseguenti al suo Verbo nel modo che altrove abbiamo esposto (1). Ma per l' uomo le idee sono separate dal verbo, e l' una dall' altra è separata e distinta; e però esse precedono logicamente al verbo umano e non al divino. Questo primo errore di Schelling fu il primo passo che lo travolse al panteismo. Ma all' errore di Schelling ne aggiunse Hegel uno assai maggiore. Quegli avea confusa l' intuizione col verbo della mente: errore gravissimo; ma finalmente tanto l' intuizione quanto il verbo sono due operazioni soggettive, cioè dello spirito umano. Hegel non si contentò di ciò: ma confuse l' intuizione ed il verbo colla stessa idea (cioè il soggettivo coll' oggettivo), e attenendosi a questa, volle in essa trovare l' intuizione, il verbo, ogni cosa. Certo che questo medesimo errore non mancava in Schelling, perocchè questi era pervenuto a dire che le idee erano anime , trasnaturando così l' oggetto in soggetto. Ma l' errore in Schelling non era coerente, perchè a principio del suo sistema avea pur parlato d' assoluto e d' intuizione dell' assoluto; il che veniva a distinguere l' atto dello spirito intuente dall' oggetto intuìto: laonde i seguaci di Hegel lodano il loro maestro di una logica rigorosa, e non può negarsi che egli abbia conosciuta l' incoerenza di Schelling, ed abbia procurato di rendere l' errore coerente a sè stesso, per quanto gli fu possibile. Confondere l' idea col verbo, il concetto col giudizio, è lo stesso adunque, che: 1 Confondere quello che è oggetto dell' intuizione coll' operazione soggettiva dello spirito qual è il giudizio: 2 E, stantechè l' operazione dello spirito è reale , perciò è anche un confondere il modo ideale dell' essere col reale. Quindi per Hegel la dialettica è il movimento dello stesso concetto; è lo stesso concetto quel che dialetticizza , non è più lo spirito umano. Al concetto adunque attribuendosi le operazioni dello spirito, non è maraviglia se egli si cangia un poco alla volta in ispirito (1), e si metamorfizzi in ogni cosa che si voglia, diventi Iddio, universo, tutto. Qui sta la somma dell' hegeliana filosofia. Vincenzo Gioberti trasportò in Italia alcuni principii staccati della filosofia di Hegel (e col prenderli così staccati ne deturbò la logica coerenza), nello stesso tempo che molto declama contro questo filosofo. Egli non riconosce l' intuizione della pura idea; anzi pretende che non si possa intuire l' idea se non per via di giudizio, e in questo conviene con Schelling nel confondere l' intuizione col verbo , dando a questo il nome di quella. [...OMISSIS...] . Di poi confonde ancora con Hegel il verbo della mente, cioè il giudizio coll' idea ossia col concetto, scrivendo: [...OMISSIS...] . Così egli confonde il concetto col giudizio , senza accorgersi che la nota caratteristica del giudizio è l' affermazione , e che nell' affermazione il giudizio consiste; e l' affermazione è un' operazione soggettiva dello spirito, laddove il concetto, ossia l' idea, non è una operazione dello spirito, ma è un oggetto, in cui si può ben terminare un' operazione dello spirito (l' intuizione), ma distinguendosi appunto perciò da esso. L' ab. Gioberti confonde adunque al pari di Hegel l' operazione dello spirito (il verbo), che è cosa soggettiva , col concetto che è l' oggetto stesso intuìto. Ora il perdere di vista la differenza essenziale che passa tra il soggetto e l' oggetto , conduce direttamente a confondere l' idea colla cosa , l' ideale col reale; che è appunto l' altro errore cardinale di Hegel, il quale vuol cavare le cose stesse dalla sua idea. Ecco come s' esprime il signor Gioberti: [...OMISSIS...] . Il dire che « « ogni cosa è un concetto » », è proposizione così ardita che nè pur Hegel la direbbe (3). Qui c' è il materialismo: perchè, se i corpi sono cose e se ogni cosa è un concetto, dunque anche i corpi sono concetti. C' è conseguentemente l' idealismo: perocchè le cose sono trasmutate in idee. C' è il soggettivismo e il psicologismo: perchè il primo psicologico non può essere che quel primo che si pensa nell' anima; se dunque il primo psicologico produce tutti i concetti, dunque tutti i concetti sono produzioni dell' anima. C' è il panteismo: perchè, se il primo psicologico (ciò che prima si pensa nell' anima) s' immedesima col primo ontologico, dunque all' anima si riducono tutte le cose. E poichè il primo psicologico immedesimato col primo ontologico diviene il primo filosofico, « che è assoluto, cioè principio del reale e dello scibile », dunque l' anima, fonte de' concetti, unita al primo ontologico, fonte delle cose, è ciò che costituisce il Dio Giobertiano. Confuso il reale e l' ideale in uno, immedesimato il soggetto e l' oggetto, ne dovea venire la dottrina della dialettica Hegeliana. Hegel diede il ragionare all' idea stessa; è l' idea che si muove e che si svolge in giudizŒ ed in raziocinŒ: ma queste non sono più operazioni dell' anima umana. Il che niente ripugna, dopo che nell' idea si trasportarono le qualità del soggetto, e conseguentemente a lei si diede la vita e l' attività dell' anima (il che potrebbe essere a dir vero immaginazione poetica, non mai la verità del fatto). Quindi l' uomo, secondo il Gioberti, non è già quegli che giudica e che ragiona; ma è l' idea che fa tutto questo: e l' uomo è l' uditore passivo di ciò che l' Idea - Dio pronuncia (benchè talora pronuncii a sproposito). Il che non fa maraviglia, dopo avere stabilito il signor Gioberti che l' idea è un giudizio , come vedemmo. [...OMISSIS...] Se l' idea è un entimema, dunque ella non è solamente un giudizio, ma ben anco un raziocinio. Quindi il nostro filosofo attribuisce la voce (una voce razionale ) all' idea, dicendo che l' evidenza [...OMISSIS...] . Ma quello ch' è più singolare (nel che va troppo più avanti di Hegel), non solo il signor Gioberti vuole che l' idea (come fosse un soggetto intelligente e non un oggetto intelligibile) pensi e ragioni, ma ben anco parli con voci umane e sensibili, ed esprimendo sè stessa si faccia attrice del primo linguaggio. Ecco com' egli proponga questa sua quanto nuova altrettanto arbitraria teoria. [...OMISSIS...] S' estende poi a far parlare l' idea, e colla sua ricca immaginazione inventa un dramma in cui ella interloquisce tutto ciò che il filosofo le mette in bocca. A chi piace sollazzarsi, può vedere questo tutto nella lettera VII di quelle scritte al prof. Tarditi (2), della quale rechiamo qui solo il cominciamento: [...OMISSIS...] . Non credo prezzo dell' opera il seguitare più innanzi. Conchiuderemo solo, che in nessuna maniera, nè Hegel, nè altri, può dimostrare che l' idea sia un soggetto che pensa , invece d' essere, come è, un puro oggetto che sta innanzi al soggetto che pensa: per nessuna maniera di sottigliezze e di sofismi si può far perdere la sua natura all' idea, o immedesimare il soggetto coll' oggetto, o fare che l' uno si cangi nell' altro. Quindi per la stessa ragione vien meno il ragionare nella bocca di tali filosofi, e sottentra in sua vece un gran salto che dà la fantasia, quand' essi si arrovellano per riuscire a distruggere la differenza fra concetto e giudizio, idea e verbo, sicchè dall' uno possano passare all' altro quasi ad un sinonimo; come pure tra ideale e reale; cosa ed idea; le quali nozioni differiscono tra loro essenzialmente: nè contro le nature delle cose possono menomamente le sottilità de' sofisti, nè le declamazioni de' retori. Avendo dunque Hegel, senza alcuna prova, ma con un puro salto mentale della fantasia (benchè procuri d' asconderlo tra veli d' una nuova ed oscura maniera di parlare e di lunghi cavillosi e stentati periodi, pronunciati con quella sicurezza con cui sogliono insegnare i professori di quella nazione) attribuito all' idea le proprietà del soggetto intelligente; egli la rese non solo illuminante, ma illuminata e pensante e operante e producente, finalmente fonte di tutte le cose e di tutte le apparenze, non adoperando mai, a comporre le une e le altre, altra materia che sè stessa. Laonde egli riduce gli oggetti di tutte le scienze ad un oggetto solo, cioè all' idea ed al suo movimento dialettico, come si può vedere nella sua « Enciclopedia delle scienze filosofiche » (1). La quale Enciclopedia pare che stèsse sotto gli occhi di Vincenzo Gioberti, quando scriveva: [...OMISSIS...] . Riduce dunque Hegel tutte le scienze filosofiche a tre: Alla prima, che chiama Logica , attribuisce per oggetto l' Idea considerata in sè stessa e per sè stessa; Alla seconda, che chiama Filosofia della natura (denominazione tolta da Schelling), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo esser altro, cioè in quel suo movimento pel quale si trasmuta in altro, nel mondo; Alla terza, che chiama Filosofia dello spirito (e risponde all' Idealismo trascendentale di Fichte), attribuisce per oggetto l' Idea nel suo ritorno dall' esser altro in sè stessa, cioè considerata in quel suo movimento pel quale, dopo essersi trasmutata nel mondo, col pensiero riduce a sè, riconosce come sua propria creazione e sostanza, il mondo. Ciascuno, che un po' considera questa partizione delle scienze filosofiche, sente il dominio che ha l' immaginazione nelle filosofie tedesche, e n' è prova altresì l' abbondanza delle metafore di cui lussureggia lo stile di que' filosofi. Il vedere l' idea che si muove da sè, e diventa il mondo, e poscia ritorna in sè trasportando seco tutto il mondo ed inabissandolo nel proprio seno, egli è pure uno spettacolo maraviglioso e dilettevolissimo a quelle gigantesche fantasie. Nell' entusiasmo, che destano cotali drammi della tedesca filosofia, a niuno viene in mente il domandare come l' idea, che è immobile, impassibile, puro oggetto dello spirito, possa muoversi, com' ella possa diventare materia; e da materia trasmutarsi nuovamente in spirito. A niuno cade in pensiero di chiedere come una natura possa trasmutarsi in un' altra natura, e in tal natura che ha determinazioni contrarie e ripugnanti a quelle che avea prima. A niuno finalmente sovviene di pregare questi filosofi taumaturghi, degni discendenti di Giacomo Boehme, che vogliano indicare qualche ragione sufficiente de' varii moti e tramutamenti dell' idea, e perchè ella prescelga questi a quelli, che pure sarebbero egualmente concepibili: a ragion d' esempio, perchè divenendo ella il mondo, non diventi un mondo un po' più grande, o un po' più piccolo del presente; perchè, divenendo il genere delle bestie, diventi proprio quel numero di bestie che abita il globo, nè pur una di più o di meno, e perchè le femmine pregne talora si sconciano, e l' Idea non ne patisca, benchè trasformata in esse, o non l' impedisca; e così va discorrendo. Ma poichè la Logica , che tratta dell' essere in sè e per sè, secondo il nostro filosofo è la solida base delle altre due scienze filosofiche che da esse derivano, cerchiamo in essa la partizione dell' essere. Infatti nel primo libro della « Scienza della Logica » di Hegel, verso la fine della discussione che egli fa sulla questione dell' « onde si debba cominciare », noi troviamo questo titolo: « universale partizione dell' Essere ». Dobbiamo dunque fermarci un poco ad esaminarla. Egli propone la tripartizione seguente: [...OMISSIS...] . Ognuno s' accorge che questo stile non è molto chiaro; e che la divisione non è molto regolare. Aggiungiamo poche osservazioni 1 Tutto si riduce all' essere ed alle sue determinazioni . Ma convien porre ogni attenzione a quella che egli dice la terza determinazione dell' essere. Ella contiene l' essere senza determinazioni, il qual precede. Si vuole che sia il cominciamento della scienza: è l' immediato , secondo la solenne denominazione di Hegel. Ma tosto si corre all' astratto, e lo si chiama immediatezza , indeterminazione, anzi indeterminatezza [...OMISSIS...] , senza accorgersi che tali parole non esprimono più l' essere stesso, ma una sua qualità negativa (privazione di mediatità, e di determinazioni). Che se questa qualità negativa si voglia prendere per sè e in sè, non aggiungendola all' essere come a suo subietto, noi già siamo usciti dell' essere, e venuti ad un concetto assurdo, cioè ad un non7concetto, illusi dal suono d' una parola che niente più significa. Il che è la solita pecca della filosofia tedesca. 2 Oltracciò si abusa della parola determinazione applicandola a significare anche l' indeterminazione assoluta dell' essere, quando questa non è determinazione, ma anzi mancanza di determinazione, non7determinazione. Ma, poichè la mente considera la mancanza di determinazione come una variante dello stato dell' essere, perciò la stessa indeterminazione si colloca tra le determinazioni pigliando queste in genere come quelle che producono le varietà dell' essere (1). E anche qui si sostituisce all' entità la vista logica dello spirito, e quella falsa maniera con cui egli classifica ciò che pensa secondo forme vuote che egli stesso impone alle cose in virtù dei segni verbali, rispetto a' quali è alla stessa condizione ciò che è negativo e ciò che è positivo, giacchè il vocabolo, che è positivo, segna anche il negativo. Affine dunque di strigare la verità dalla rete d' innumerevoli enti di ragione e di concetti fattizi e vani, in cui Hegel di continuo l' avvolge, convien incessantemente disfar la rete tessuta laboriosamente da questo filosofo, distinguendo accuratissimamente gli enti di ragione dagli enti in sè , e distinguendo di più, tra gli enti di ragione, quelli che sono concetti da quelli che sono non7concetti, cioè enti supposti, verbali, e nulla affatto esprimenti se non assurdi. 3 Di poi si dice che « la terza determinazione dell' essere cade nella sezione della qualità ». Ma, propriamente parlando, consistendo questa pretesa determinazione nell' indeterminatezza , conviene più veramente dire che è non7qualità. 4 Si dice ancora che questa indeterminatezza è una determinazione delle altre determinazioni dell' essere. Niente affatto: anzi è la loro negazione. 5 Si confonde l' indeterminatezza coll' immediatità dell' essere. Per immediatità s' intende quel primo logico, onde comincia la scienza. Ora questo primo logico, questo immediato, è certamente l' essere puro senza determinazioni; perocchè le determinazioni vengono appresso come qualità d' un subietto. Ma non è mica vero perciò, che il primo logico nient' altro presenti alla mente che l' indeterminazione; e molto meno ch' egli sia l' immediatezza medesima. L' immediatezza, come abbiamo osservato (1), non può stare da sè: essa è un concetto relativo all' immediato , all' ente quasi a suo subietto; l' immediatezza è un astratto, una relazione dell' ente al mediato, cioè del principio alle conseguenze e deduzioni. Onde non può essere il primo logico . Nè pure, come dicevamo, può costituire il primo logico; l' immediato, come immediato, e non più. Questa parola altro non significa che una relazione con ciò che in ordine alla scienza è mediato; e però suppone che vi sia il soggetto di questa relazione, perocchè ogni relazione suppone un ente di cui sia relazione. L' indeterminazione poi, o l' indeterminatezza, non significando altro che mancanza di determinazione, è un concetto che si riferisce del pari ad un soggetto, a cui l' indeterminazione appartenga, ma di più lascia in dubbio se questo subietto sia un puro ente mentale , o un ente in sè . Perocchè altro non esprimendo la parola indeterminazione se non una mancanza, e non ponendo nulla di positivo, ella può essere applicabile ugualmente al nulla , nel qual caso il suo subietto è un ente mentale , perchè infatti nel nulla non si concepisce determinazione alcuna; e può essere applicata all' essere , il quale si può benissimo concepire dalla mente nostra privo di determinazione. Che anzi l' essere, a cui si riferisce la mancanza di determinazioni, è doppio: perocchè, 1 può intendersi l' essere ideale , nel quale si pensa il puro essere con astrazione da ogni determinazione; e 2 può intendersi l' essere assoluto , Dio, non perchè Iddio sia un essere indeterminato nel senso di vago e comune, ma nel senso che niuna determinazione è in lui distinta da lui stesso, o da altra determinazione; onde non può rinvenirsi in lui determinazioni in senso proprio, come distinte dall' essere e tra loro. 6 E qui si discuoprono facilmente tutte le radici degli errori hegeliani. La fallacia con cui questo sofista inganna i suoi discepoli consiste appunto nell' aver preso per primo logico una qualità invece dell' ente, e fatta passare per ente: qualità che si può applicare a più subietti . Ora avendo presa quella qualità, cioè l' indeterminazione e l' immediatezza (che son due cose che egli confonde pure in una) pel primo logico , e avendola fatta passare per lo stesso subietto, a cui ella appartiene, ed essendo questo moltiplice; ne venne ch' egli potè attribuire a quella qualità tutto ciò che si può attribuire ai diversi soggetti. Quello che è singolare si è, ch' egli stesso confessa di dover trattare del suo essere (l' indeterminazione ed immediatezza) nella sezione della qualità, benchè privo di qualità [...OMISSIS...] . Potendosi adunque l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire al nulla ed all' essere; egli ebbe bel gioco a prenderlo ora pel nulla ed ora per essere; ed a conchiudere che l' essere è uguale al nulla! Ognuno che abbia letto le opere di Hegel (se ebbe tanta pazienza) ben sa quant' egli si limi il cervello e il faccia limare a' suoi lettori su questa insigne scoperta che l' essere e il nulla fanno una perfetta equazione (1). Di poi, potendosi l' indeterminazione e l' immediatezza attribuire all' essere ideale; ebbe pure buon gioco a farne uscire tutta la logica e la dialettica pura. Finalmente, potendosi (benchè in altro senso) attribuire a Dio stesso, convertì il suo nulla in Dio; e fece travedere, siccome valente giocolatore, i suoi pazienti uditori, dimostrando che Iddio diventava nulla, e il nulla diventava Dio, quasi direi, a volontà del filosofo, che pone quindi IL DIVENTARE a principio della sua dottrina, quasi punto d' unione tra il nulla e Dio! Egli è manifesto qual governo si debba fare, mediante un tale principio, di Dio, dell' uomo, e dell' Universo, che per un cotale movimento dialettico continuamente si permutano. Non si creda però che a tali delirii tengano dietro molti in Germania, anzi sono di pochi. Anche tra gli scrittori tedeschi ve n' hanno assai, che tolsero ad oppugnare il sistema hegeliano. Vendel, che è uno di questi, lo definisce: « « La pazzia ridotta a teoria » » (1). Il buon principe Costantino di L”wenstein, rapito così giovane alle speranze degli amici, giudica di Hegel con molto senno nel suo saggio postumo di una cristiana filosofia (2). Staudenmeier ne pubblicò più recentemente una confutazione. Lo stesso Calybaeus nella sua « Critica di Hegel » dice: [...OMISSIS...] . Così giudicano tutti i cervelli sani di quella nazione; e se non giudicassero così, povera quella nazione! La sarebbe divenuta un manicomio. Il filosofo francese, più che altri mai promosse lo studio della filosofia in Francia, attinse ad un tempo ai Neoplatonici, e ai recenti filosofi tedeschi. Egli si sforzò di ridurre le categorie di Kant alle due leggi di causa e di sostanza, cui restringe poi ad una sola. Per sè, al suo parere, la sostanza è la causa in quanto esiste, e la causa è la sostanza in quanto opera: sicchè sostanza e causa differiscono come due rispetti sotto cui si considera la stessa cosa. Perocchè, dice egli, le idee di tempo e di spazio, di quantità, di qualità, di relazione e di modalità, si riducono alle due idee di ciò che è e di ciò che opera. La quale teoria pecca, perchè si scosta grandemente da ciò che dà l' osservazione della cosa in sè stessa, che è riconosciuta dal signor Cousin per la guida fedele del filosofo. E veramente l' attenta osservazione della cosa ci dimostra che nè l' idea di spazio, nè quella di tempo, si può ridurre menomamente a idee di sostanza e di causa; come nè tampoco vi si possono ridurre le altre quattro idee annoverate. Perocchè la quantità e la qualità non sono sostanze, ma modi di alcune sostanze, non di tutte (la sostanza assoluta, cioè Dio, non avendo nè quantità, nè qualità, a propriamente parlare), la relazione poi altro non essendo che un' idea astratta, la quale abbraccia tutti i rispetti ne' quali la mente contempla le cose, sieno sostanze, o idee, o che altro. La modalità finalmente nel senso kantiano è una cotal relazione delle idee fra di loro, e però non si può ridurre, nè pur essa, alle idee di sostanza o di causa. Il signor Cousin adunque non procede in questo colla maturità d' un filosofo; precipita delle conclusioni senza usare la necessaria pazienza ad osservare accuratamente quali sieno le differenze tra il concetto di sostanza e i concetti delle categorie kantiane, le quali differenze sono immense, e tali che in nessun modo questa si lascia ridurre a quella. In secondo luogo nei concetti di sostanza e di causa non si contengono i concetti dei modi delle sostanze: e però quei due concetti non abbracciano tutto ciò che si può concepire; e però non possono essere vere categorie. Converrebbe aggiungervi la categoria dei modi; dividendosi l' ente in sostanza e modi della sostanza. Ma la divisione non quadrerebbe meglio, perocchè in nessuna di queste due categorie si potrebbe collocare l' Essere Supremo: non nella categoria di sostanza in opposizione a' suoi modi, perocchè la natura divina è superiore alla sostanza, e accuratamente si dee chiamare soprasostanza [...OMISSIS...] , come vedremo: molto meno nelle categorie dei modi in opposizione alla sostanza; perocchè in Dio non v' hanno modi realmente distinti dalla sostanza medesima. In terzo luogo è un errore fondamentale il dire che tra il concetto di sostanza e quello di causa non passa reale differenza. Il quale errore dimostra nuovamente un difetto di accurata osservazione del fatto come stanno queste cose. La quale osservazione ci dà, che la sostanza è il principio, il soggetto, e, se si vuole, anche la causa degli accidenti, ma solo degli accidenti; i quali rimangono in essa, come termini inerenti all' atto suo: laddove il concetto di causa s' estende di più a significare un' energia che produce effetti separati affatto da sè, effetti che nè rimangono in esso, nè sono suoi modi; che non hanno lui per soggetto; e sono o un' altra sostanza o modi d' un' altra sostanza (1). Pretende dunque questo filosofo di ridurre ad unità le categorie di Kant, cioè all' idea di sostanza ch' egli identifica con quella di causa: il che non è veramente uno sciogliere il problema delle categorie, ma un distruggerlo. Conciossiacchè le categorie sono perite quando ad una fosser ridotte; giacchè con quel problema si cerca appunto di classificare le varietà degli enti; e il ridurre queste varietà ad una è un negare ogni varietà, negare il fatto della varietà. Convien dunque dire che non si possono ridurre tutte le categorie alla sostanza, e per lo meno i modi non sono contenuti nell' idea di sostanza, e però debbono formare una classe a parte, come dicevamo. E veramente lo stesso Cousin viene poi a classificare i modi delle sostanze, dove ragiona della sostanza per sè: di Dio. Ma disavvedutamente avviluppandosi in questo ragionamento incappa in più errori. Poichè primieramente suppone che le idee di Dio sieno i modi di Dio, cosa assurdissima: conciossiacchè non v' ha in Dio altre idee realmente distinte che il Verbo divino; e il Verbo è la stessa natura, e, se si vuole usare la parola sostanza , la stessa sostanza divina, che giova meglio dirsi sovrasostanza. Quanto poi al Verbo, qualora piacesse di chiamarlo un modo in cui Dio è, non dovrebbe in ogni caso dirsi che egli è un modo della sostanza divina o sovrasostanza, ma piuttosto ch' egli è un modo dell' essere Divino, un modo in cui l' essere divino E`: il che è pur tutt' altro. Poichè il modo dell' essere non è un accidente, laddove il modo della sostanza è un accidente. Venendo adunque il Cousin a classificare i modi, ossia le idee divine, egli così ragiona: [...OMISSIS...] . Ma, chi esamina con diligenza quel ragionamento, il trova vacillante; perocchè, lungi che i suoi passi sien posti con sicurezza, cioè che sia provato tutto ciò che s' ammette in esso, anzi vi si introducono assai cose di furto affatto gratuite. Lascio l' errore accennato di chiamare le idee modi di Dio, ed osservo: 1 Questa proposizione: « Iddio possiede l' idea dell' unità », ecc., suppone almeno tre cose: a ) il possidente; b ) l' idea dell' unità; c ) e la possessione o il nesso tra il possidente e l' idea. Convien dunque dire in che l' idea posseduta differisca dal possidente, e la possessione dall' uno e dall' altra: perocchè, se queste cose non differiscono in nulla, quella proposizione non avrebbe alcun senso. 2 Se l' idea dell' infinito, e l' idea del finito, e quella della relazione sono tre idee diverse in Dio, dunque vi debbono avere tre atti di possessione; e rimane a stabilire come questi tre atti di possessione differiscano dalle idee di Dio, e da Dio stesso, per la ragione medesima. Se poi differiscono, già i modi di Dio non sono più tre (le tre idee), ma per lo meno sei: perocchè oltre le tre idee vi hanno i tre atti di possessione. 3 Egli è falso che l' idea di unità e l' idea d' infinito sieno la medesima idea, perocchè ogni ente anche finito è necessariamente uno. 4 E` falso ancora, che l' idea di varietà contenga necessariamente l' idea di finitezza e di limitazione. Così le persone divine variano o piuttosto diversano fra loro; ma questa diversità non arreca perciò l' idea di cosa alcuna finita. Solo nelle cose umane la varietà è segno di limitazione, perchè in ogni variazione non si ripete tutto l' ente, che varia; laddove in Dio, in ogni persona si ripete tutta affatto la sostanza divina senza pluralizzarsi . Onde la varietà che è in Dio, non induce niuna cosa che sia finita, niuna idea di limitazione. 5 L' idea di uno e di vario e di relazione sono idee astratte, onde non possono essere in Dio distinte come vengono significate dalle parole, nè l' idea di uno può essere lo stesso che la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente, giacchè l' uno può esser applicato a qualsivoglia sostrato; come nè pure l' idea di vario può essere la cognizione che Iddio ha di sè come conoscente e come cognito, perchè la varietà s' applica egualmente a qualsivoglia pluralità. Lo stesso dicasi dell' idea di relazione. Queste idee adunque non possono essere i modi di Dio, nè si possono dedurre sol dicendo che Iddio conosce i suoi modi. 6 Le idee astratte, ossia generiche, suppongono avanti di sè le idee specifiche, ossia meramente universali, come queste suppongono innanzi di sè le percezioni delle cose a cui si riferiscono. Se dunque si pone in Dio l' idea dell' uno come suo modo, forz' è che prima dell' idea astratta e generica dell' uno, vi sia l' idea d' un Dio uno; e innanzi questa, la percezione di sè stesso: e così i modi e le idee di Dio si moltiplicano grandemente sopra il numero tre a cui le restringe con tanto arbitrio il sig. Cousin. Somigliantemente l' idea di varietà non si può ammettere in Dio, se non si suppongono molte altre idee e percezioni a quelle precedenti, di cui quella è un astratto molto elevato. Primieramente l' idea di varietà suppone quella di numero egualmente astratta, ma che contiene meno dell' idea di varietà, perchè il numero suppone più unità non varie, anzi uguali. Di poi, l' idea del numero in genere suppone i numeri in ispecie, cioè il due, il tre, il quattro e così all' infinito. Onde tutte queste idee debbono essere in Dio, perchè supposte dall' idea di varietà, e non contenute in essa, ma sì contenenti l' idea di numero. Di che un' altra difficoltà egualmente insuperabile nel sistema Cousiniano, che queste idee specifiche de' numeri dovrebbero essere attualmente infinite in Dio, se fossero suoi modi distinti, perchè a' numeri non si può assegnare alcun confine. Ora un numero di idee infinite, è contraddizione, supponendosi giunto all' infinito il numero: il quale, se vi fosse giunto, non potrebbe più oltre procedere, contro l' intima natura del numero che esige che si possa sempre aumentare d' una unità. Di più, anche il numero specifico è un' astrazione che suppone le entità da cui si astrae e le percezioni di esse. Se si dovesse dunque dedurre le idee divine come fa il Cousin, converrebbe prima supporre che Iddio percepisse sè stesso; poi, che rifletta su di sè stesso e si percepisca di nuovo in due modi, come percipiente e come cognito; poscia, che da questa doppia percezione riflessa astragga il numero due, e dal due gli altri numeri, e da questi il numero in genere, e quindi l' idea di varietà, il che porrebbe, se non successione in Dio e generazione d' idee, almeno più atti distinti, e quasi facoltà, e però di nuovo una moltitudine infinita di modi: cose tutte ripugnanti e distruggenti il sistema stesso di Cousin che pretende trovare in Dio tre modi, ossia tre idee e non più (1). 7 Le stesse riflessioni si debbono fare rispetto alla terza idea di relazione, pure astratta anch' essa, sicchè ne suppone altre ed altre dinanzi da sè. Onde per ogni verso apparisce quanto vacilli il fondamento della filosofia Cousiniana. E tuttavia il nostro filosofo si compiace assai nell' applicare questo giochetto d' astrazione al mondo quasi rappresentazione di Dio, perchè contenente in esso unità, varietà e relazioni tra l' unità e la varietà. Il concetto potrebbe avere qualche valore, se non fosse adoperato fuori di luogo, e non occorresse, nell' uso ch' egli ne fa, una continua confusione tra l' idea e il reale. L' idea di unità e d' infinito, dice, come è il modo necessario di Dio, così è il modo necessario del mondo. Ma, lasciando che il mondo può esser uno e tuttavia esser finito (e certo egli è finito da molti lati), chi dirà mai che il modo dell' essere del mondo sia un' idea? Un' idea è ella una sostanza sussistente e reale? Quando ciò fosse, l' idea del mondo sarebbe il mondo: di che nulla di più assurdo e contrario al buon senso. Si confonde adunque l' idea di unità coll' ente reale, conosciuto bensì coll' idea, ma sussistente in un modo al tutto diverso dall' idea. Lo stesso si dica delle altre due idee, che non sono certamente il mondo nè modi di esso: perocchè il mondo è un complesso di singoli reali, i quali hanno de' vincoli d' azione e di passioni reali tra loro; e la varietà non esiste propriamente come tale, cioè come idea di varietà nel mondo, ma nella mente: la quale, riferendo il mondo a tale idea, il conosce, nol crea. Lo stesso dicasi della relazione come tale, cioè come astratto della mente: che non è punto il mondo, nè è nel mondo reale, ma nel mondo già dalla mente conosciuto. Cousin applica la sua formula a tutte le scienze: all' astronomia, alla chimica, alla fisiologia vegetabile ed animale, alla geografia, alle scienze che riguardano l' umanità, ecc.; e da per tutto trova senza difficoltà l' uno e il vario, e la relazione fra l' uno e il vario, applicazione sterile di risultamenti: perocchè non solo queste idee astratte si possono riscontrare realizzate negli enti, ma molte altre, ed anzi tutte quelle che noi chiamiamo idee elementari dell' essere (1), e molte volte queste idee elementari presentano una trinità degna di considerazione, ma tutt' altro che unica. Così in ogni ente si può riscontrare realizzate le idee di principio, di mezzo e di fine. Sant' Agostino acutamente osserva che in ogni ente non manca un cotal vestigio di trinità, avendovi l' essere, la specie (o forma) e l' ordine (2): altrove trovò in ogni ente il modo, la specie e l' ordine (3); e S. Tommaso (4) riduce a questi tre il numero, il peso e la misura, secondo cui la Scrittura dice esser fatte tutte le cose (5). Ma la questione, se in tutti gli enti v' abbiano de' vestigi di trinità, è per intero diversa da quella delle categorie; e l' avervi de' vestigi, non è l' avervi in esse la stessa trinità, molto meno è l' avervi nelle cose le tre idee Cousiniane: essendo certo che nelle cose non si hanno idee, se non nel sistema dei Panteisti, come sarebbe nel sistema di Vincenzo Gioberti che dice: « « ogni cosa è un' idea »(6) ». D' altra parte il Cousin, affine di trovare le sue tre idee (che non sono poi tre sole, come dicemmo) in tutte le cose, è obbligato ricorrere a quelle stiracchiature che potrebbero andar bene inserite nelle tavole mnemoniche de' Lullisti, ma che nel secolo nostro non possono far fortuna. Così egli trova nell' attrazione universale l' idea di unità e d' infinito. Per l' unità passi: benchè ivi non vi abbia unità, ma tendenza all' unione della materia senza che mai si unifichi penetrandosi; ma quant' all' idea d' infinito, dove sta ella nell' attrazione, se anzi la materia coll' attrazione tende a restringersi e limitarsi entro una sfera minore? Vuol poi trovare l' idea di varietà e di limitazione nell' espansione della materia. Fatica inutile anche qui, perchè la materia, o che si restringa, o che s' espanda, è sempre varia egualmente ed egualmente finita. Altre molte applicazioni, ch' egli fa delle sue tre idee fondamentali, non sono più felici di questa. Finalmente osserveremo, che l' uno, il vario, ed il loro nesso posto dall' autore dell' eclettismo francese, come le tre idee supreme, a cui tutte le altre si riducono, sono un cotal riflesso dell' eclettismo alessandrino imperfettamente riprodotto.

Nanà a Milano

656062
Arrighi, Cletto 1 occorrenze

È assioma che la mano, la quale pudicamente rialza o abbassa un velo, fa pensare assai più a ciò che essa vuol nascondere che al pudore che nasconde. Nondimeno se ciò paresse strano a qualche lettore, che si ricorda come Nanà quando a Parigi Labordette le aveva detto ch'ella avrebbe posato per la testa e per le spalle dinanzi allo scultore che doveva modellarle la Notte pel suo nuovo letto avesse risposto: "Je me fiche pas mal du sculpteur qui me prendra" Se quel moto di pudore, ripeto, paresse strano al lettore io non saprei dargli torto, giacchè egli non conosce ancor nulla della piccola trasformazione morale che Nanà aveva subita nei pochi giorni di sua dimora a Milano. Nell'ambiente serio e sconosciuto nel quale s'era messa "la bonne fille" subiva un cambiamento ne' suoi istinti di donna, la quale non sarebbe apparsa tanto corrotta neppur a Parigi se il cinismo degli uomini non l'avesse resa tale. - Che c'è? - domandò Aldo Rubieri. Mattia distaccò a stento gli sguardi dal tesoro di formosità, che dall'anca in su gli si presentava di contro e rispose con voce commossa: - Forestieri... seccature che vorrebbero parlare con lei. Ecco il biglietto di visita d'una signora. Aldo lo prese: - Leopoldina Rickherwenzel! - sclamò con grandissimo stupore. - Chi vedo! Che fosse colei? A Milano? Possibile! Dimmi Mattia, che figura ha? - Bionda..., magra, alta.... - È lei, è lei! - Che età? - Io le darei dai trenta ai trentaquattro anni.... - È lei! Non c'è dubbio! - Dev'essere stata bella, da ragazza - aggiunse Mattia coll'aria d'un conoscitore. - Dovrò io riceverla? - pensava intanto lo scultore. - Chi è questa donna che cerca di voi? - domandò Nanà in discreto italiano. - Oh, una vecchia conoscenza di Vienna. - Una antica amante? - Pressapoco. E qui successe un poco di silenzio. - Se io vi pregassi di non ricevere questa vostra antica fiamma, cosa direste di me? - fece Nanà questa volta in francese. - Davvero? - sclamò Rubieri con una punta di ironia nella voce e nello sguardo. - Chi l'avrebbe detto! - Chi l'avrebbe detto? - ripeto Nanà. - Sapete che questo mi ha l'aria di una impertinenza? - No - rispose lo scultore - è semplicemente un'esclamazione. - Ebbene - ripigliò Nanà - senza tanti discorsi, ditemi francamente se mi fate o se non mi fate il sagrificio che vi chiedo. - È impossibile! - Perchè? - Ma perchè la sarebbe una specie di furfanteria se rifiutassi di rivedere una donna alla quale tra le altre cose ho promesso di sposarla e che è venuta a Milano, dopo dieci anni, per rivedermi. - Ma tanto più! - sclamò Nanà ridendo - Assolutamente mio caro Aldo, se voi la rivedete potete star certo che io non metterò più il piede in questo studio. Lo scultore fu colpito vivamente da questa uscita così perentoria di Nanà. La guardò con malcelato stupore. Poi le si accostò e le prese la mano. - Nanà - disse - spiegatevi allora. Questo vostro capriccio ha bisogno di un poco di luce. - Ecco gli uomini! - gridò Nanà sempre ridendo. I suoi denti, eran tali da non permetterle di parlare sul serio. - Non si può avere un suggerimento dei nervi senza che essi subito ci vogliano vedere un capriccio di... tutt'altra cosa. Rubieri vedendo di essere stato capito al di là di quello che supponeva e che desiderava, abbandonò la mano di Nanà e restò un pochino interdetto. Nanà continuò: - Voi non mi conoscete Aldo, che da otto giorni, e sta bene; se staremo insieme da buoni amici come spero per un pezzo vi toccherà di udirne e di vederne di quelle anche più strane e non per mia colpa, ve lo giuro. Persuadetevi di una cosa sola, ed è che in fondo io sono una buona figliuola, che non faccio apposta, che non è un partito preso il mio di sembrare qualche volta stravagante, ma è una cosa più forte di me stessa. Io vi sembrerò fors'anche una matta gloriosa. Chissà? M'han creata così. È la qualità del legno - proseguì in italiano- come diceva la Sarah, a Firenze. È la colpa del fattore, come diceva Bigio Diotallevi. - Dunque che cosa dovrò dire ai forestieri? - si permise di interrogare Mattia Corvino che, aspettava da cinque minuti la risposta. - Dì loro che se ne vadano pe' fatti loro - rispose Nanà. - No aspetta - interruppe Aldo. Poi voltosi alla donna, - Via non siate irragionevole. Vorreste che quegli Austriaci pensassero di me che son diventato un mascalzone? - Gli Austriaci pensino di voi, quello che loro più pare e piace, ma io non voglio che voi riceviate quella donna. Ve l'ho detto; non sono io che comando sono i miei nervi. - Bene bene - disse Aldo accostandosi a Mattia. - Dirai loro che io non posso riceverli. - E più sottovoce soggiunse - dille che andrò io al suo albergo domani. Nanà si lamentò di quella frase detta a bassa voce. - Ho capito. Gli avrete detto che tornino domani quand'io non ci sarò. - No - disse Aldo. - Che cosa gli avete detto dunque sottovoce? - Nulla. - Bugiardo. Nulla non è una risposta. Rubieri ascoltatemi - diss'ella seria se io so che voi, mi avete disobbedita non mi vedete più nè viva, nè morta, e anche la Venere resterebbe a mezzo. - Ah questo è proprio assolutamente troppo. - Mi promettete di non andarla a trovare? - Ma che v'importa, Nanà, che v'importa? - domandava ansiosamente lo scultore che non giungeva ancor a spiegar a sè stesso quel fenomeno. - Nulla, ma non voglio. È un puntiglio. Voi dovete cedere. Io non sono avvezza a non veder cedere. Sono otto giorni che noi ci conosciamo. Se non cedete nei primi otto giorni, quand'è che vorreste cominciare? Me lo promettete? E fra sè pensava "Ces fichus d'Italiens" d'Italiens"- Bene ve lo prometto - disse Aldo per troncare il diverbio. In quella, Mattia rientrò. - Il signor conte sindaco è in salotto che avrebbe a dirle due parole. - Il sindaco benvenuto - sclamò Rubieri deponendo gli utensili del lavoro. Per oggi basta Nanà. Ci rivedremo domani. Addio. E uscì. Dal canto suo, la dilettante di nudo, calzate sui piedini le pianelle, se ne andò a vestirsi dietro certi arazzi che formavano in un angolo l'appartamentino per le modelle. Che cosa veniva a fare da Rubieri il conte sindaco? Chi era il conte sindaco? Egli era un ometto, così; nè bello, nè brutto, fra i cinquanta e i sessant'anni, grassottello e nello stesso tempo arzillo e svelto come un pesce; il che implica una certa contraddizione, che invece non esiste. O se la esiste, si può dire che questa contraddizione fisica sia appunto la caratteristica del nuovo personaggio. Tutto infatti, nel conte sindaco, sentiva di contraddizione lontano un miglio. Nato povero, era ricco; nato plebeo, era stato fatto conte; aveva degli istinti liberali ed era un gran conservatore; aveva dello spirito, ed era senatore; aveva sortito da natura le inclinazioni del viveur e del barzellettista e come senatore, banchiere, sindaco e conte, gli toccava di essere l'uomo più lavoratore e più serio dell'universo. A chi gli avesse fatta osservare quest'ultima contraddizione - e cioè, ch'egli fosse sortito da natura per essere piuttosto quello che i Francesi chiamano un homme de loisir che un gran lavoratore - egli avrebbe recisamente negato, e gli avrebbe risposto che nessuno forse, a questo mondo, s'era meno divertito di lui, e nessuno poteva vantarsi di avere lavorato più di lui. E bisognava credergli. Ma è da notare che, prima la spinta della necessità, poi quella dell'interesse, poi l'ambizione, poi il dovere gli avevano messa indosso fin dalla puerizia un'abitudine di lavoro a tal segno, che fugando la nativa spensieratezza, era divenuta in lui una seconda natura e poteva esser tenuta da lui stesso in conto di vera inclinazione. Ma in fondo in fondo, no; perchè il nostro ometto era nato scansafatica, e questo lo si poteva arguire dalla sensualità e dalla voluttà ch'egli metteva in tutte le azioni, minori della sua vita. Quando parlava, per esempio e che poteva ridere di qualche sconsigliato consigliere del Municipio, egli godeva mezzo mondo. Mangiava poco, ma avrebbe dato dei punti a Brillat Savarin, come buon gustaio, anzi come buon gustatore. E fra le ballerine del palcoscenico del teatro della Scala come si sgranavano que' suoi occhietti verdognoli e arguti alla vista della grazia di Dio. Come era eloquente il suo sorriso, pur restando sempre un sorriso da sindaco, da conte, da banchiere e da senatore! Nella sua qualità di capo dell'amministrazione comunale, egli era indubbiamente tenuto come uno dei meno peggio d'Italia, così ricca di sindaci balordi. Dove diamine, lui, così poco istruito in gioventù e lontano dal mondo diplomatico, avesse attinta quella finezza moderna, quell'arte del barcamenare, quella dissimulazione preziosa, che sono indispensabili a chiunque si trovi nella di lui posizione, nessuno lo saprebbe dire. Egli non aveva avuto maestri di tali discipline. Pochi uomini possedevano come lui quella dote utilissima ai governanti, la quale consiste nel non dimostrare mai al prossimo nè troppa simpatia, nè troppa antipatia. Anche lui le provava talvolta fierissime in cuor suo, ma sapeva dissimularle così bene, sapeva reprimere con tanta disinvoltura i moti del proprio animo, sapeva far tacere così costantemente ogni eccitazione personale, sapeva dividere in così giusta misura le proprie inclinazioni e le proprie declinazioni, da meritarsi da ambe le partì il soprannome di sindaco trampolino, il quale sembra un'offesa, mentre è il brevetto della sua più grande imparzialità. Riusciva dunque difficile il dire se egli fosse un conservatore o un liberale. Egli non aveva preferenze pei due partiti, in cui - come in politica - si divideva il Municipio della sua città. Stando a cavallo, ei si serviva ora della opposizione dei conservatori, ora di quella dei rompicolli, a seconda ch'egli aveva bisogno di questa o di quella, e ne usciva sempre ilare e trionfante, ch'era un piacere a vederlo. - Sono venuto io stesso - diss'egli a Rubieri, che si scusava di riceverlo in abito da lavoro - sono venuto io stesso a darle una buona notizia. Ella è nominato assessore, e io sono certo che ella accetterà. - Oh! - sclamò il Rubieri, fingendo una grande sorpresa. - Non si potrebbe dispensarmi? - No, no, tutti lo desiderano - rispose il sindaco. - C'è bisogno d'un artista in Consiglio. - La avverto caro signor sindaco che io sono corpisantino e che mi metterò nell'opposizione. - Non lo credo! Io non gliene darò mai l'appiglio. Io conosco il di lei criterio abbastanza, per sapere che invece noi andremo perfettamente d'accordo. - Se lei mi parla così a me tocca d'accettare - disse Aldo al sindaco stringendogli la mano. - Bravo! Così mi piace, senza tante smorfie. Del resto - soggiunse tosto - io non credo che lei avrebbe ugualmente la possibilità di farmi l'opposizione ancorchè si mettesse colla montagna. Io sono proprio stanco, e non per convenzionalismo, come si usa ormai di dirlo da tutti gli uomini, ma stanco di buono e vedrei di buon occhio un successore. Provino, provino quanto sia facile far il sindaco di Milano! Il dialogo tra il sindaco e Rubieri andò per le lunghe e divagò poi in cento argomenti. Ma noi crediamo di far bene ad arrestarci avendo riferito di esso quello che importa alla nostra storia. Ora sarà bene che vediamo in che modo c'entrassero con Aldo Rubieri gli Austriaci che erano venuti a trovarlo prima del conte sindaco. Bisogna dunque sapere che il padre di Aldo Rubieri era stato colonnello di stato maggiore al servizio dell'Austria. Nel 1850, quando Aldo non aveva che dodici anni, ed era accasato con suo padre a Vienna, il rinnegato italiano godeva settemila fiorini annui come impiegato nel ministero della guerra. Suo padre aveva sposato una baronessa polacca. Si capisce facilmente quale potesse essere stata l'educazione politica e patriottica del giovinetto Aldo fino al 1859. Sua madre gli era morta in quell'età. Quand'egli cominciò a provar nel cuore il bisogno di voler bene a una creatura di diverso sesso, gli capitò di innamorarsi come si usa a 19 anni, di una fanciulla di famiglia borghese, ch'egli aveva veduta per la prima volta al Prater. Una di quelle lunghe occhiate reciproche dalle quali i fisiologi dicono emani del fluido magnetico, era corsa fra loro; e due giorni dopo, mentre entrambi stavano credendo di udire la messa nella cattedrale, una seconda occhiata ancora più lunga e più reciproca aveva suggellato il loro amore. L'effetto di quello sguardo era stato decisivo per entrambi. Poco stante era cominciata la corrispondenza. In tre pagine di quelle proteste e di quei giuramenti senza fine, che scaturiscono tanto spontanei dalla punta di una penna di 19 anni, Aldo parlava alla sua Leopoldina di futuro matrimonio. Leopoldina aveva allora 21 anni, tre o quattro più del giovanetto. Pochi giorni dopo la signorina viennese e il figlio del rinnegato Italiano, s'abboccavano al passeggio e si giuravano anche a voce eterno amore. - Mio padre non mi permetterebbe certamente di sposarti ora; - disse Aldo - avrai tu pazienza di aspettare che io sia uscito di minor età? - Oh te lo giuro, Aldo - rispondeva la bionda figlia del Danubio, alzando i suoi occhi grigi e innamorati in viso del bell'Italiano. - Io non sarò che tua o della morte! Quando fu soddisfatto, Aldo trovò di non avere più voglia di sposare la Leopoldina. Essa non gli era stata crudele; il matrimonio, ai desideri di Aldo, compariva superfluo. Ma quando il padre di Leopoldina s'accorse dello scapuccio di sua figlia, manovrò come manovrano tutti i padri viennesi in tale circostanza. Egli era un furbo matricolato. Capì che da quel giovinetto avrebbe potuto cavare, un giorno o l'altro, molto profitto e aveva lavorato a questo scopo. Il Rubieri s'era lasciato andare a firmare un atto di donazione alla figlia Leopoldina, nel caso che avesse mancato alla promessa di sposarla. Una bagatella di venti mila fiorini in testa al nascituro. Poco dopo venne il 1859. Aldo Rubieri non era certo da giovinetto, quel fino calcolatore, che coll'età e coll'esperienza s'era fatto poi; ma aveva fin d'allora l'istinto delle proprie convenienze. Egli sentiva tutta la umiliazione d'essere figlio di un rinnegato, sospetto, malveduto in paese straniero e nemico, senza avvenire possibile; sognava in nube la probabilità della riabilitazione. In questa idea l'amore di patria c'entrava fino a un certo punto; l'amore di sè stesso in gran parte. Egli andava pensando che se il figlio del generale italiano al servizio dell'Austria fosse disceso in Italia con grande fracasso ad arrolarsi, tutta Milano ne avrebbe parlato e la sua sorte sarebbe stata fatta senza grandi sforzi. La imprudente promessa di quella somma, strappatagli dal padre di Leopoldina in un momento di abberrazione, lo decise sempre più. Fece la risoluzione di lasciar Vienna, di abbandonare la Leopoldina e suo padre, e di venir in Italia per entrar volontario nelle regie truppe. Raccolse quanto più potè di danaro e un bel giorno partì nascostamente e venne a Milano; fece la campagna del 1859, poi mise studio di scultore e si fece nome. Aldo Rubieri si ricordava benissimo di avere lasciato alla Leopoldina di Vienna quell'atto di donazione; temendone le conseguenze, andò a trovarla, mancando di parola a Nanà. Come fosse ricevuto cordialmente e gioiosamente si può imaginarlo. La prima cosa che Leopoldina gli confidò fu che il loro figlio era morto, e Rubieri tirò un lungo fiato. Quando la fase sentimentale del richiamo delle memorie fu cessata, e Rubieri si disponeva già a congedarsi, colla speranza che gli Austriaci avessero deposto ogni altro pensiero, il buon babbo, accostatoglisi colla grazia un po' grifagna che si direbbe tutti gli Austriaci abbiano ereditata dalla loro acquila bicipite, gli disse sottovoce col più tedesco dei sorrisi possibili: - Per l'affare poi che lei sa, e che riguarda mia figlia, potremo parlare più tardi... un'altra volta... n'è vero. - Che affare? - domandò Aldo Rubieri come uomo che caschi dalle nuvole. - Come! Ma la scrittura... di donazione... alla mia Leopoldina nel caso... che non fosse accaduto il suo matrimonio. - Ah, bene, bene - disse Aldo per pigliar tempo. - Più tardi, ci rivedremo. E s'accomiatò. Gli Austriaci lo aspettarono al domani, poi al posdomani, tre, otto giorni, finchè il padre risolvette di ritornare lui stesso in cerca di Rubieri. Naturalmente non fu ricevuto. Ma la sera istessa la signora Leopoldina ebbe una lettera nella quale il suo ex-innamorato le diceva chiaro e tondo come egli non volesse più essere importunato e le ricordava senza complimenti come in tutti i codici della terra esista la legge che dichiara non valida la promessa di matrimonio, nè di un qualsiasi indennizzo.... I tre Austriaci, testardi come sono gli Austriaci quando hanno ragione, fissarono di spuntarla. Leopoldina avrebbe rinunciato. Ma il padre e lo zio erano feroci, e la persuadettero che si doveva ricorrere alla legge per farlo pagare per forza. Risolvettero di consultare un avvocato per sapere se l'atto fosse in piena regola e se con esso si potesse sperar di vincere una causa. L'albergatore indicò loro il primo avvocato che gli si parò alla mente. Ed essi andarono difilati dall'avvocato Delguasto. Quando furono sul pianerottolo dinanzi all'uscio il padre e lo zio ristettero per rifiatare e per consultarsi. Il primo poi stava per tirar il cordone del campanello, quando Leopoldina gli trattenne il braccio, additando ciò che stava, scritto sull'uscio: - Che c'è? - domandò il padre in tedesco. - Avanti - disse la zitellona, che sapeva un poco di italiano. - Avanti, vuol dire: Allora spinsero l'uscio ed entrarono. Nell'anticamera, seduto dinanzi ad una scrivania stava un giovinetto, dalla faccia di furfantello, che s'avrebbe detto fosse stato messo là dall'avvocato per schizzare la caricatura a tutti i clienti che entravano. Lo zio, vedendo quel piccolo Mefistofele, disse a suo fratello una frase in tedesco. Quello smaliziato d'uno scritturale, che stava col capo sullo scrittoio, intento, l'alzò repente, aggrottò le ciglia, e con un accento pieno di ironia e di insolenza, fingendo che quelle parole esotiche fossero state dirette a lui, disse: - Non potrebbero farmi la finezza di parlare in italiano? - disse - La sua lingua a Milano, signori belli, non è di moda. È antipatica. - Parlare noi molto malissimo - rispose il babbo, che non aveva capita la portata dell'insolenza di quel monello seduto allo scrittoio. - Non fa niente. Capirò lo stesso. Per quanti strafalcioni lei dica in italiano farà sempre più bel sentire che a parlarmi benissimo il suo tedesco. - Mia figlia parlare piccolo poco. - Tanto meglio. Allora ho l'onore di domandar alla signora a che cosa il signor avvocato dovrà aver la fortuna della loro visita? Non è da credere che Ernesto Cantis, galloppino dell'avvocato Delguasto, trattasse con tanta disinvoltura tutti i clienti del suo padrone. Guai a lui se così fosse stato. Ma egli aveva udito farlinzottare in tedesco, s'era accorto dall'aspetto che quei tre signori dovevano esserlo puro sangue, e non aveva potuto trattenersi dalla smania di mostrar loro la sua innata antipatia. Egli amava i Tedeschi in genere come... l'olio di ricino, e gli Austriaci in ispecie come il tartaro emetico. - Noi voler parlare con herr avvocato - disse Leopoldina. - È impedito. Si accomodino pure. E senza dir altro, abbassò la testa sullo scrittoio e si rimise a scrivere. Ecco che cosa stava scrivendo Ernesto Cantis, mentre i tre Tedeschi si accomodavano per aspettare l'avvocato. "Signora. "Io credo che una donna non debba mai essere offesa nel sapere che c'è un uomo al quale il cuore batte per lei cento battute al minuto di più di quello che gli batteva prima di averla veduta. Ieri al teatro Milanese lei mi apparve per la seconda volta, e il fascino de' di lei occhi posati ne' miei fu tale che a costo di diventar ridicolo io non ho potuto trattenermi dal farglielo sapere. A me parve, sarà forse superbia, ma a me parve di non esserle riuscito antipatico. Lei ebbe la bontà di rivolgere verso di me spesse volte que' suoi occhi immensamente belli, ed io sono in un tale stato di esaltazione da non poterlo descrivere. Io non ho che vent'anni, e non sono ricco. Ma se malgrado ciò lei credesse che io non debba gettare lontano da me ogni più lontana speranza io la scongiuro me lo faccia capire questa sera o quella sera che a lei parrà tempo di vedermi il suo schiavo più affezionato e più fedele. Io sarò anche questa sera al Milanese e avrò nell'occhiello del mio abito un garofano. Quando la vedrò porterò il mio fazzoletto alla bocca, deh, faccia altrettanto per dimostrarmi che io non debbo disperare affatto. "ERNESTO CANTIS." Riletto il foglio, lo piegò accuratamente, lo mise in una busta su cui scrisse l'indirizzo di Nanà. Avvolse la lettera in un foglio di nitida carta, poi si alzò e andò ad una sedia su cui stava un manicotto di martora e, come se i tre stranieri non fossero stati, presenti a quell'operazione, vi infilò la sua letterina. Comparve l'avvocato accompagnando una signora fin sulla soglia dell'anticamera. Il giovane balzò all'uscio impallidendo visibilmente. La signora era Nanà, la quale aveva posato il suo manicotto su quella sedia poco prima di entrare nello studio. - A rivederla, dunque, caro Delguasto; noi siamo intesi - disse Nanà - poi volse il capo come cercando qualche cosa intorno. - Il suo manicotto è qui - disse il giovinetto precedendola all'uscio della anticamera. Nanà strinse la mano all'avvocato ed uscì. Ernesto, quand'ella gli ebbe volte le spalle, si fe' sentir a dire: che angelo! - In che cosa posso servirli? - disse l'avvocato ai tre Austriaci, che s'erano levati in piedi duri come stoccafissi in estate... - Noi essere fenuti da voi per avere bisogno di vostri consigli - rispose Leopoldina. - Restino serviti. E li fece entrare nel suo studio. - Loro sono dunque venuti? - cominciò l'avvocato. - Ecco herr avvocato... Tocca parlare io, perchè mio padre e mio zio non conoscere italiano. - Dica pure... dica pure, tanto meglio! - sclamò con una punta di galanteria l'avvocato. - Lei dovere sapere che io avere un documento con promessa di donazione di un uomo che doveva sposare me, e che poi non ha sposato per sua colpa. - Una promessa di donazione? - ripetè l'avvocato. - In regola? - Noi credere essere perfettamente in regola. - Si può vederla? - Certamente. Ecco. - E la signora Leopoldina cavò di tasca una carta la quale, col lungo passar di mani in mani austriache, non si poteva dire del certo gareggiasse per candidezza colla neve caduta di fresco. L'avvocato gettò gli occhi su quel pappiè e sclamò sorridendo: - Ma questo è in tedesco! - Lei, herr avvocato non conosce nostro bello linguaggio neanche in scrittura? - Io no, signora. Ne faccio senza, e non ho mai pensato ad impararlo. - Posso io tentare traduzioni! - domandò la zitellona. - Sicuro! Leopoldina cominciò: "In questo giorno, 6 novembre, dell'anno di grazia 1864, io sottoscritto, di mia piena e spontanea volontà, nè spinto da altri riguardi se non da quelli di una sincera affezione per la signorina Leopolda Ernesta Federica, la quale trovasi in istato interessante per mia colpa, prometto di farle donazione di fiorini trentamila, nel caso che giunto all'età di ventiquattro anni io non dovessi mantenere la parola data a lei di essere suo sposo. "Per fede "ALDO RUBIERI. "Vienna, 6 novembre, 1864." - Aldo Rubieri! - sclamò con una certa sorpresa l'avvocato. - Il nostro bravo scultore? - Ya mein herr, ya - rispose il babbo che aveva capito a lume di naso naso- Sarebbe ella compiacente di spiegarmi come e in quali circostanze sia avvenuta questa donazione? Leopoldina con molta fatica e con molto rossore cominciò a raccontare all'avvocato quello che noi già sappiamo. - E quanti anni aveva il signor Aldo Rubieri quando la fece? - Come italiano egli era maggiorenne o quasi. - Suo padre era italiano o austriaco? - Suo patre non aveva perduta sua nazionalità italiana, quando stare in Vienna colonello di Stato Maggiore. - Allora si può benissimo far causa - disse l'avvocato. - Essere noi fenuti per questo. - Hanno già parlato loro col signor Aldo Rubieri? - Sì, otto o dieci giorni fa. - E che cosa ha detto? - Detto nulla, ma avere scritto di non essere intenzionato mantenere suo promesso. E gli porse da leggere la lettera con cui Aldo si schermiva di pagare la somma promessa. - Herr avvocato - disse la zitellona - Credere lei che vinceremo? Negli occhi dell'uomo di legge passò un lampo d'ironia. - Sicuro che vinceremo. Sono loro pronti a fare le spese necessarie? - Quanto volere? - Il deposito da farsi subito è di tremila franchi non un quattrino di meno. I tre Austriaci si guardarono in viso esterefatti. - Tremila franchi! Senti? Più di mille fiorini soltanto di deposito? - sclamò in tedesco lo zio. - Non si può far a meno. La giustizia costa assai in Italia - osservò ridendo sotto i baffi l'avvocato che godeva di veder gli Austriaci in ansia. - Bene - disse il padre a Leopoldina - spiega all'avvocato che vogliamo avere il tempo di pensarci sopra. Ma poi ravvisandosi: - No. Prima domandagli quanto verrà poi a costare la causa finita. Leopoldina tradusse questa domanda all'avvocato. - Ma secondo che la si vinca o che la si perda. Vincendola può darsi ch'io riesca ad affibbiar le spese all'avversario. Può darsi anche che il tribunale dichiari di far a metà le spese. In caso contrario, sta il viceversa. - Domandagli ora - ripigliò il padre dopo che Leopoldina gli ebbe tradotta la risposta dell'avvocato - quanto ci potrebbe toccar di spese nel caso che vincessimo, ma che dovessimo pagare a metà. - Dai dieci a dodicimila franchi colle mie competenze - rispose l'avvocato con grande franchezza. - Farflucter - sclamò lo zio, che aveva capita la cifra. - Pene, pene, allora gli comunicherai quello che ti dicevo - conchiuse il padre. - Come vogliono! Io sarò sempre ai loro comandi. Quando loro si saranno decisi, non avranno che a ritornare da me. E così s'accomiatarono. Il giovinetto scritturale non s'alzò questa volta ad aprir loro gli usci come aveva fatto con Nanà.

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Senso

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Boito, Camillo 1 occorrenze

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 2 occorrenze

La bambina abbassa il capo tirandosi indietro. Così esposta, i capelli a trecciole che scoprono una faccia larga nelle stanghette, con quello strumento sul naso sembra vittima d'una immeritata vergogna. La madre ha l'aria di attribuire questo difetto da gente istruita, di cui la sua razza è immune, appunto allo studio. Essa è analfabeta. Non nega di possedere casa e un po' di terra, il cubo di pietre soprammesse e le terricciole tutte sassi delle nostre parti, che se paghi la fondiaria e ti si aggiunge un'altra disgrazia, una malattia, non riesci più a comprare il sale. Si fa per dire, una volta il sale era l'unica spesa viva del contadino. Oggi magari si vestono ai magazzini in città, i tempi cambiano. Ricordo quando dalla stessa contrada scendevano a vendere cicoria e more di siepe, calzando polacche di vacchetta imbullettata che pulivano col nerofumo. Per venire, si viene sempre a piedi. M'informo se hanno avuto la luce elettrica e risponde che non ancora ma i giornali ne parlano. Certo i tempi sono cambiati. Vedremo se sarà possibile far concedere gli occhiali nuovi. Vada intanto dall'oculista per la visita. Ci ritroviamo un'ora dopo in farmacia, occorrono anche ricostituenti. Uscendo la donnetta cerca di rimanere qualche passo indietro per riguardo, ma capisce che voglio parlare e si mette a lato. Tiene però indietro la bimba, rasente le gonne con una mano come si reprime un cucciolo. Eh no, non mangia, rifiuta la minestra. A lei necessiterebbe la carne, ma noi giornalmente si fa minestra. E pane. La bimba mangia il pane. Frutta no non ne abbiamo, è terra dura che porta mandorli e le mandorle si vendono ci pasticcieri. Anche qualche uovo si vende al mercato. Dall'ottico la commessa ci riconosce, o forse riconosce i suoi occhiali. Prende il fogliettino giallo con la misurazione della vista e si stupisce essa stessa di undici diottrie. Anche la montatura in un anno s'è fatta piccola. La bambina che annaspa viene messa su uno sgabello. A occhi nudi sembra cieca davvero, non legge ai tabelloni la prima fila in basso di lettere così corpose, non vede niente. Poi col susseguirsi, cambiare e sovrapporre dei vetrini tondi in prova, comincia ad acquistare un'espressione, vaga e ansiosa. A mano a mano che riesce a mettere a fuoco, si rischiara, s'illumina, muta fisionomia. O meglio recupera la sua. Senza più timidezza, attenta tranquilla sicura, pronuncia i sì e i no. Con le lenti giuste legge bene le lettere più grandi. Nella scelta della montatura, benché non osi far sentire la voce, interviene alla cieca, tutta protesa al banco con un ditino puntato verso ciò che maggiormente lustra. Sono stata ad aspettare _usciamo di nuovo insieme _ avendo incarico di avvertire la donna che un altr'anno non ripeta la richiesta. È talmente felice che non sembra aver udito. Rosi, dice a ogni passo, Rosi hai la luce. Ma poi risponde grazie e un "Dio provvede" gentile e sereno. So che, lasciandoci, tenterà di baciarmi la mano come l'altra volta, com'è antica usanza contadina di ringraziamento. Io, o l'ufficio, chiunque o comunque, per lei impersona la Provvidenza. Sulla quale non si fanno ipoteche perché interviene sempre al momento giusto, ne un istante prima ne uno dopo. Mi piace questa donnetta fiduciosa dagli occhi vivi di gioia e di buona vista. Si è rimessa a lato, pronta a soddisfare ogni domanda. Cinque figli, sì, il maggiore di tredici anni. E comincia ad aiutare, sì, porta le pecore al pascolo. Due pecore e un pecorino, dice dolcemente. (Esprime più tenero e più riccio, quel pecorino.) Già, pure l'agnello è fuori stagione, al mondo si nasce. Il suo ultimo ha pochi mesi. Allattava il bimbo di un anno e mezzo _ per tirarlo un po' più avanti senza spese _ quando s'accorse di essere incinta. Non domanda, come tante altre, rimedi per evitare o sconciare le gravidanze. Mi viene fatto, quasi senza volerlo, di pronunciare le parole che si dicono nei paesi da queste parti: i figli sono provvidenza. Ma forse è un uso comune nelle campagne, o meglio una fede consolatoria. Essa racconta che negli uffici gli uomini sono bruschi, ti rinfacciano sempre ma perché ne fai tanti. E ride confusa, è una confusione mentale. Capisco quando aggiunge: A noi ne vengono tanti e ai signori no. Una semplice constatazione. L'ha detto, per inverosimile che possa sembrare, con assoluta semplicità e credulità. Davvero è convinta che Dio li mandi. Ha continuato a reprimere un po' indietro la bimba, che sguscia da sotto la mano materna per lanciarmi qualche sguardo. Ora ci vede, ha la luce. Un bei paio di occhiali, buona misura, non le stanno male. E non ha più quell'aria d'innocenza offesa. Esortata a mangiare la minestra, annuisce rossa rossa. È una bambina graziosa, sveglia e precocemente sensibile come tutte le creature umane provate da qualche infelicità. E anche questo, se lo sapesse pensare, sua madre chiamerebbe provvidenza.

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

"Abbassa almeno la voce!" egli pregava. "Perché tua madre non senta? Ma dovrà sentirmi, lo voglio; voglio che mi dica: "T'odio per questo!". E sarò conten- ta. Così non può durare." "Oh Dio! oh Dio!" smaniava Patrizio. "Sono stata paziente, troppo. Il vaso era colmo fino all'orlo; una goccia è bastata per farlo traboccare. Non è colpa mia. Volevo risparmiarti questo dolore. Ormai! ... Dimmelo dunque, dimmelo: Perché m'odia? Perché?" "La tua immaginazione ti fa travedere" diceva Patrizio. "Persuaditene. Te lo giuro! La mamma è buona, incapace d'odiare una persona come te, che non le hai fatto niente di male. Dovrei dire lo stesso per conto mio, se guardassi sol- tanto ai suoi modi; sarebbe assurdo. È stata inasprita dalle sventure, povera donna, e dalle malattie. Tu sai la vita che vive: cupa, silenziosa, tra il letto e una poltrona. L'ho vista sempre così; non ha mai sorriso, mai! Non ne ha mai avuto occasione, povera donna, dopo la morte del babbo e la rovina della nostra casa!" "E che c'entro io?" "È per spiegarti ..." "Non spieghi nulla. Lasciami, non mi stringere così!" Egli se la stringeva forte al petto" l'accarezzava per rabbonirla, per farle intendere che non si trattava d'odio, no. E, sentendola tremare tra le braccia, scossa da fremito convulso, addolciva ancora più l'accento, accostava la fronte a quel- la di lei con amoroso abbandono, come raramente soleva, mormorandole su la faccia: "E poi, che te n'importa? Non t'amo io? Che te n'importa?" "Ah!" ella esclamò, svincolandosi con vivacissimo sforzo. "Ecco perché me ne importa!" La sua voce era piena di singhiozzi e gli occhi di lagrime che le solcavano le gote, senza che ella badasse ad asciu- garle. "Ecco perché me n'importa! Sento qualcosa di duro, d'impenetrabile, che si è già frammesso tra noi due, contro di cui urto con la testa e non riesco a spezzarlo. Picchio e non mi senti. Chiamo e non mi rispondi. Il tuo cuore è invasato da sentimenti che non intendo. Oh! Tu hai paura di lei. Non negarlo. Hai paura!" "Paura di mia madre?" "Sì! Sì! Sì!" Patrizio rimase interdetto. Colei che si vedeva davanti, altera e bella nel disordine dei capelli, nel turbamento dell'aspetto e della voce, nella durezza insolita della parola, non gli pareva più la sua dolce, la sua sommessa, la sua quasi timida Eugenia. Quel non so che di fanciullesco, di spensierato, di allegro, di verginale che ne formava l'incanto era sparito. Tutti i lineamenti di lei parevano cambiati di punto in bianco, con quelle sopracciglia aggrottate, con quegli occhi dallo sguardo incerto, con quelle labbra aride e contratte, con quella persona che pareva ingrandita, tanto il busto si ergeva fiero in quell'istante, elevando la testa e il collo gonfio dallo spasimo. "Sì" continuava fissandolo "hai paura di lei! Ebbene, che pretende tua madre? Ora sei mio. Sei suo figlio, ma sei mio! Mio, perché ti voglio bene quanto lei, anzi più di lei. Ella ti ama come madre, io come moglie; ed è diverso. Ella ti ha dato il latte ... Io, il mio amore, l'anima mia, tutta me stessa! ... Ti appartengo, come tu mi appartieni." E l'afferrò tra le braccia furiosamente, quasi fosse là qualcuno che volesse rapirglielo. "Mi appartieni ... Sei mio! Non sei più suo! No! ... Non sei più suo! No! No! ..." E, al balbettio di queste ultime parole, Patrizio sentì irrigidire tutto il corpo di lei, che si stirava con le braccia tese in avanti e i pugni stretti. "Eugenia! Eugenia! ... Mamma! ..." La sollevò, l'adagiò sul letto, cercando di frenare il dibattito di tutte le membra nella convulsione crescente, e tornò a chiamare più forte: "Mamma! Mamma!" Eugenia si agitava, mugolando, svincolandosi a scatti. La signora Geltrude picchiò ripetutamente dietro l'uscio di comunicazione delle due camere. Era chiuso col paletto; Patrizio dovette abbandonare Eugenia un istante per correre ad aprirle: "Mamma! Ah, mamma!" Ella si fermò a pochi passi dall'uscio, severa più dell'ordinario, colpita dallo spettacolo di quel giovine corpo agitato dalla crisi nervosa. "Lo vedi? È un'isterica! E non volevi credermi!" disse senza scomporsi. "Mamma!" urlò Patrizio, vinto dallo sdegno. E si volse alla vecchia donna di servizio, accorsa al grido: "Dorata, presto, il dottor Mola! ... Presto!"

Racconti 1

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Quando lo zio del barone, il vecchio abbate di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato: - Se vedete una grande rovina - suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita - dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per lí! Milano, 15@ 15 febbraio 1879@. 1879.

STORIE ALLEGRE

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Collodi, Carlo 1 occorrenze

La si figuri, che a fargli una carezza, abbassa subito gli orecchi e mette fori certi dentoni, che paiono manichi di coltello." "E corre dimolto?" "Gli è uno scappatore peggio di un berbero. Se l'avessi a montar io! ... Neanche se mi ci cucissero sopra con lo spago." "Non ti vergogni di esser tanto pauroso?" "No". "Hai torto: un ragazzo della tua età dovrebbe avere molto più coraggio ... " "Lo so anch'io: ma per aver coraggio, bisognerebbe non aver paura." "Quando avevo la tua età, non c'era cavallo che mi mettesse in soggezione: anzi quanto più erano scappatori e focosi, e più ci avevo piacere." "Mi levi una curiosità", rispose Cecco, guardando il padroncino con un'aria un po' canzonatoria, "che ne ha montati dimolti lei dei cavalli?" "Te lo lascio immaginare! ... " "Per esempio ... quanti?" "Ci vorrebb'altro a contarli tutti! ... " "Dunque lei monterebbe anche il matto ?" "Chi è il matto?" "Gli è appunto quel cavallaccio, che abbiamo nella stalla." "E perché lo chiamate il matto?" "Perché è una bestia, con la quale non si può ragionare." "Mi conduci a vederlo?" "La si figuri!" I due ragazzi, senza far altre parole, si alzarono dalla panchina dove stavano seduti e si avviarono verso la stalla. Giunti alla porta, Gigino disse a Cecco: "Mena fuori il matto!" Cecco ubbidì. Quando Gigino ebbe visto l'animale, disse scrollando il capo in atto di compassione: "Questo, caro mio, non è un cavallo: questa è una pecora." "Eppure scommetto che lei ... " "Io? ... Io per tua regola ho cavalcato certi cavalli, che tu non te li sogni nemmeno." (Si capisce bene che Gigino, parlando così, diceva un sacco di bugie: ma le diceva per la sua solita smania di farsi credere un giovinotto.) "Vuol provare a montarci sopra, a bisdosso?" "A bisdosso? cioè?" "Vale a dire, senza sella." "Volentieri. Va' a prendermi una sedia." "Che cosa ne vuol fare?" "Ora lo vedrai." "Ma che un cavallerizzo, come lei, ha bisogno della sedia? Io, quando voglio montare a cavallo, mi attacco ai peli della criniera, spicco un bel salto, e in men che si dice, mi trovo con una gamba di qui e una di là ... " "Ognuno ha le sue opinioni: io, senza una sedia, non posso montare a cavallo." Cecco portò una seggiolaccia tutta sgangherata: Gigino vi si arrampicò, e inforcando il cavallo con la gamba sinistra, invece che con la destra, si trovò col viso e con tutta la persona voltata verso la coda dell'animale. Allora Cecco, sbellicandosi dalle risa, cominciò a gridare: "No, sor Gigino, no, l'ha sbagliato uscio: la si rigiri di lì; perché la testa del cavallo è da quell'altra parte". "Lo so, lo so" rispose Gigino con molta disinvoltura "ma per tua regola quando io monto a cavallo, ho la precauzione di voltarmi prima dalla parte della coda ... " "Perché?" "Perché, caro mio, le precauzioni non sono mai troppe." "Ora ho capito", disse Cecco, che non aveva capito nulla. Intanto, a furia di sforzi inauditi, Gigino si rivoltò con tutta la persona verso la testa del cavallo: e compiuta appena questa difficile manovra, sarebbe sceso volentieri: ma gli mancò il tempo. L'irrequieto animale, senza aspettare l'invito del cavaliere staccò subito un mezzo galoppo. Figuratevi Gigino! lui, che non aveva cavalcato mai altri cavalli, che un bellissimo puledro di legno, compratogli dalla sua mamma per regalo del Capo d'anno! Quanti salti e quanti balzelloni sulla groppa secca del Matto ! Il povero figliuolo ora dondolava da una parte, ora dondolava dall'altra ... e Cecco! Quella birba di Cecco, a gambe larghe in mezzo alla strada, godendosi la scena del suo padroncino, che da un momento all'altro era lì lì per fare un gran capitombolo, si mandava a male dalle grandi risate. E il momento del capitombolo arrivò pur troppo. Gigino cadde, come un fagotto di cenci, fra la polvere della strada, e il cavallo, senza darsene per inteso, andò a mangiar erba nel campo vicino. "S'è fatto molto male?" gli domandò Cecco, che era corso a gran carriera per aiutarlo. "E perché mi dovrei esser fatto male?" "È stata una brutta cascata!" "Povero grullo! Che credi che sia cascato? Neanche per sogno. Volevo scendere, e nello scendere ho messo un piede in fallo e sono sdrucciolato. È una disgrazia che può accadere a tutti." "Davvero! L'altro giorno, per esempio, sdrucciolai anch'io ... " "Scendendo da cavallo?" "No: mettendo un piede sopra una buccia di fico. E questo corno, che gli è venuto qui sulla fronte? ... " Gigino si toccò la fronte con la mano, e sentito che c'era davvero un piccolo gonfio, disse con la solita disinvoltura: "Si vede che, nello scendere, ho battuto un ginocchio. Basta che io batta un ginocchio, perché mi venga subito un corno nella testa. Ho la pelle così delicata! ... ".

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 2 occorrenze

Ora, scrisse il grande pensatore testè citato, egli è certo che gli allettamenti e gli stimoli al mal fare sono maggiori, dove le plebe è disperata per miseria, o cresce ineducata e brutale, o i magistrati non vegliano a scoprire i delitti, o il braccio di una debole giustizia si abbassa dinanzi ai protetti del potente. Nè ciò basta, perchè dove gli uomini sono onesti solo entro il limite della paura, e nella società non circola uno spirito largo e vigoroso di morale e di probità, il fragile edificio delle pene non regge al peso morto della corruzione universale. Perocchè bisogna coltivare negli uomini quell'impulso d'onore che non solo rattiene dal delitto, ma ne rende insopportabile il minimo sospetto; bisogni infliggere quanto più raramente si può l'ignominia, e far quasi economia delle erubescenze del popolo; bisogna promuovere fra gli uomini i vincoli dell'azienda civile, perchè sentano il bisogno della mano altrui e della buona opinione .... Le leggi al presente puniscono ma non prevengono il delitto; e correrà gran tempo ancora prima che la società pensi al miglioramento dei membri che la compongono, e tuttavia seguiterà a colpire in egual modo gl'infelici ed i colpevoli. Giacchè moltissimi operai sono dalla miseria tratti al delitto, e molti fra essi ignari del valore assoluto e relativo di un'azione criminosa. La maggior parte dei delinquenti sono analfabeti; essi non hanno altra guida delle opere loro che l'istinto, poichè nessuno s'è curato di ridestare in essi il sentimento morale, epperò trovansi quasi alla condizione di bruti. Per costoro le leggi sono lettera morta, sanno che esistono delle leggi, perchè tratto tratto vengono dal rigore di esse colpiti, ma non sanno il perchè queste leggi esistano, nè da chi siano state fatte, meno poi se ve n'ha qualcuna che favorisca i miserabili. Tratto tratto questi vengono arrestati, poscia rilasciati per essere indi a poco arrestati di nuovo, tanto che trovandosi sempre in carcere sono costretti a dire tra loro che quelli che vanno in carcere sono sempre gli stessi; quelli che vanno all'ospitale sono sempre gli stessi detti questi che non si riducono ad altro che a varianti del vecchio adagio: Sono sempre gli stracci che vanno alla folla I pensatori assai di leggieri s'accorsero che la mescolanza dei detenuti era dannosa alla morale e che la prigione invece di correggere i tristi, pervertiva i buoni. Si pensò di imporre il silenzio a tutti i carcerati, e questo sistema punitivo dalla città di Auburn, in America, che prima l'applicò, trasse il proprio nome. Ma il sistema di Auburn non raggiunse lo scopo, perchè, se soppresse la voce, non potè sopprimere le relazioni tra i carcerati, i quali acuirono sempre più il loro ingegno, affine di communicare tra loro, e studiarono e studiano tutti i mezzi per eludere la vigilanza dei loro,custodi. Che più? I dolori stessi, la stessa severità della pena ritemprano l'animo di que' disgraziati, i quali s'avvezzano a sopportare con alliera indifferenza persino le sferzate, per non dare spettacolo a' compagni della loro timidezza ed è naturale che talora pensino a reagire. Nel che bene spesso sono eccitati da qualche anima ribelle e determinata a tutto osare, la quale fa nascere all'impensata terribili ribellioni. E lo spettacolo della crudeltà della pena e la smania di reazione distruggono e sviano il carcerato dal meditare sulla propria colpa e lo allontanano dal pentimento: e il lavoro impostogli quale aggravio di pena, gli riesce disamabile anzi odioso. Queste cose ben videro le Autorità preposte alle carceri, e perciò studiarono il modo, affinchè fosse tolta questa infame comunanza. Si cominciò dal dividere i detenuti, oltrechè per sesso, per età, per delitti, per disciplina, ma questa divisione non è sempre possibile, perchè ad attuarla occorrerebbero carceri assai grandiosi, giacchè si verrebbero ad avere in tal guisa circa quaranta classi di prigionieri, i quali difficilmente poi potrebbero ancora essere invigilati. Inoltre perchè la divisione sia ragionevole, bisogna particolareggiare sempre più nella scelta dei prigionieri destinati a restare insieme, e a forza di suddividerle è facile capire che si è obbligati di concludere che il sistema più logico è quello di tenere i detenuti separati ad uno ad uno, che è appunto ciò che fa il sistema segregante o di Filadelfia detto anche di Pensilvania oppure di Cherry-Hill Questo regime è il più opportuno pei condannati, il più provvido o il più giusto pe' giudicandi. Quelli possono riflettere alle loro colpe o mettersi sulla via del bene, questi non soffrono l'avvilimento di trovarsi con tristi, prima ancora che i tribunali abbiano pronunciata sopra di loro una sentenza di reità o d'innocenza, nel quale ultimo caso essi ritornano alla libertà incontaminati, come quando per soddisfare alle gelose ricerche della giustizia furono gettati in carcere. Il condannato poi trova nel sistema segregante il modo di ottenere il proprio miglioramento morale. Abbandonato a sè nella solitaria cella (nota Carlo Cattaneo), a prima giunta per lo più si abbandona al furore, agita pensieri di vendetta, e sfoga la sua rabbia in maledizioni. Ma alla violenza succede l'esaurimento e la stanchezza; il silenzio che segue ai vani suoi clamori, a poco a poco gli fa intendere quanto siano infruttuosi e insensati; egli vede tutta la sua impotenza e la sua nullità in faccia alla legge che senza percosse, senza catene, senza insulti, con mano invisibile lo assedia e lo stringe. L'idea della sua colpa, ch'egli fuggiva, ch'egli sommergeva nel tumulto della vita e delle passioni gli s'affaccia da ogni parte, e a poco a poco si allarga nel suo pensiero, e dilegua tutte le vanità che lo ingombravano. Tra il rimorso e l'impazienza e il tedio, per sottrarsi agli odiosi pensieri e dissiparsi pure in qualunque modo che gli è possibile, egli afferra rabbiosamente la proposta d'un qualsiasi lavoro. Ben pochi hanno la forza di resistere a quattro o tutt'al più ad otto giorni di forzata inazione. E lavoro non viene inflitto come un supplicio, nè imposto col bastone o colla fame; ma vien concesso come un'indulgenza, come un ristoro, che solo può rendere sopportabile quella noiosa vita. La disciplina non è sollecita di comandarlo: essa aspetta tranquilla il prigioniero, ben certa che tosto o tardi s'arrenderà. I signori De Tocqueville e De Beaumont dicono: Visitando il Penitenziale di Filadelfia ci siamo trattenuti con tutti i singoli carcerati; nessun d'essi che non parlasse del lavoro quasi con riconoscenza e non palesasse la persuasione, che, senza il conforto di una continua occupazione, non avrebbe potuto resistere al peso della vita. Che avverrebbe del prigioniero nelle lunghe ore di solitudine, se, senza questo rifugio, fosse lasciato a' suoi rimorsi, ed ai terrori della sua mente? Il lavoro dà interesse alla solinga cella; affatica il corpo ma conforta la mente. È singolare che costoro, giunti al delitto per la via della dissipazione e dell'ozio, siano ridotti ad abbracciare come unica loro consolazione la fatica; e costretti a sentire tutto il peso dell'ozio, imparino ad aborrire quella primiera causa d'ogni loro calamità. Il confronto tra il lavoro e l'inazione ha tanta forza, che molti di quei meschini dissero, che la domenica era per loro insopportabilmente lunga e che non avrebbero potuto vivere senza lavoro. Questo bisogno si palesa in tal modo, che non avvenne mai di doverlo imporre colla forza. Il condannato, intento al suo lavoro, respira dal tedio, dalla oppressiva idea della passata vita, e con ardor quasi puerile non ha per qualche tempo altro oggetto alla sua mente; e vi si dedica con solerzia e con amore, perchè gli è una difesa dai pensieri che gli rodono l' anima. L'imperturbato raccoglimento e la dura necessità gli aprono la mente ad imparare; l'istruttore, che viene a interrompere la sua solitudine con modi placidi e caritatevoli non può a lungo riuscirgli sospetto ed odioso. Le parole che questi prudentemente lascia cadere tratto, rammentate poi nel silenzio, quando l'uniformità del lavoro lascia errar la mente, penetrano l'anima più rozza e selvaggia. La profonda monotonia della cella dà peso e consistenza ad ogni giusto pensiero che fortuitamente si svegli. E una volta che il prigioniero ha potuto rivolgersi sopra di sè, il lavoro non arresta più la sua riflessione. E spesso, una repentina visita lo sorprese immobile sul suo lavoro, tutto chiuso nel profondo della sua memoria, pensando forse alla carriera perduta, alla casa, ai congiunti, ai genitori afflitti e disonorati, alla moglie, ai bambini lasciati nell'abbandono e nell' abbiezione. I più sciagurati che non hanno affetti, che sono intrisi di sangue, che nulla hanno in cuore che non sia tristo e perverso, nella mollezza di quella vita reclusa, tra il lungo silenzio e le parole caritatevoli, e la coscienza che ricalcitra e si spaventa, a poco a poco sentono venir meno l'antica ferocia. E non v'è a lato del prigioniero alcun essere malvagio, che ostenti una atroce indifferenza, o lo guardi con ironia, e con osceni e atroci scherni rimescoli la feccia delle sue passioni. Tutto ciò che lo circonda gli rammenta il suo delitto. Non v'è intorno a lui nemmeno il fremito d'un' industria comune, nè l'affacendata disciplina d'un carcere popoloso: il rumore stesso delle battiture e delle catene gli risonerebbe gradito in quella vita di sepolcro. Il lavoro delle sue mani gli allevia bensì il tedio e il rimorso e lo rattiene sull'orlo dell'avvilimento, e della disperazione; ma non basta a dividerlo affatto dai suoi pensieri e fermare la corsa fatale che lo trascina verso il pentimento. Nel silenzio degli uomini e nel senno delle passioni, i consigli tante volte derisi, le parole che sembravano non aver toccata la sua memoria, i terrori religiosi, tutte le imagini e tutte le rimembranze del bene e del male, risorgono innanzi alla colpevole coscienza, e si fanno ogni giorno più potenti e irresistibili. Tutte le illusioni sono sparite; in faccia a una triste e severa realtà, nel profondo d'un silenzio di morte, dove nessuno lo vede e lo ascolta, una sola parola viva gli suona all'orecchio, ed è una parola di verità, che va dritta e irresistibile al secreto della sua coscienza. Il momento giunge alfine, in cui l'anima già nauseata dell'ozio, si nausea pure della durezza e dell'importanza, e si sente in balia d'insolite emozioni. Allora le alte verità della morale, insinuate con religioso affetto, possono ritemprare e rifondere l'anima più ostinata; i sentimenti dei pentito sono come un metallo squagliato, che scorre dovunque un'arte salutare lo guida. Chi passò per una siffatta prova, potrà, ritornato alla vita libera, precipitarsi in nuovi traviamenti; ma porta nel cuore una tale debolezza, che il solo nome del carcer basta a fermarlo ed avvilirlo in mezzo all'ebbrezza del delitto. La fiera domata non è più la fiera selvatica. E quella stessa potenza che arresta le ricadute nel liberato, annunciata e divulgata da loro alla moltitudine dei malvagi, potrà render terribile anche l'idea d'una prima colpa e formidabile la minaccia della legge. La prigione non sarà più per essa un piccolo mondo, dove se vi sono i dolori della reclusione e dei flagelli, vi sono anche i piaceri della compagnevole fratellanza e le distrazioni d'una disciplina spettacolosa; il carcere solitario è più disgustoso e amaro per essi, quanto più assidua e profonda è la sua calma. Pur troppo le incompiute riforme che introdusse nel carcere la moderna umanità, avevano tolto a questo unico strumento di pena ogni terrore. Il malvagio scioperato vi trovava ricovero e letto, e pane certo, e lavoro mite, e compagnia quale egli poteva desiderarla: e a molti onesti operai carichi di famiglia, a molti giornalieri scalzi e famelici in mezzo ad ubertose campagne, il soggiorno del carcere era pur troppo una seduzione. Ma posto il regime d'un severa segregazione quand'anche la cella sia spaziosa, netta, chiara, ventilata, riscaldata, provvista di tutto ciò che un modesto vivere richiede, il vero malfattore preferirà sempre il lezzo e il disagio d'un sotterraneo, il pavimento nudo, la catena, il bastone, poichè tutte queste cose non giungono a domargli l'animo, e gli lasciano il tranquillo possesso della sua scelleratezza. Quando le antiche leggi inventavano con atroce poesia ogni modo di strazii pel corpo umano, ommettevano, senza curarlo, un tormento più squisito e potente, che piomba con tutto il peso sull'animo. La solitaria riflessione, la quale allora si apprezzava così poco, che a richiesta d'un tutore impaziente o d'un padre iracondo, si applicava a' giovinetti svogliati o loquaci, si palesò una pena di tale intensità, che alcuni già la gridano soverchia a qualsiasi più nero misfatto e sproporzionato alle forze dell'umana ragione. Gli antichi avevano insegnato che il silenzio è fomite di sapienza e di virtù; ma non si sapeva che fosse un terribile punitore del delitto. Una filosofia severa che trae tutto dalla riflessione, trovò anche nella riflessione la forza penale, e con una vasta esperienza accertò la profonda sua induzione. Sdegnando il corpo del malfattore lasciandogli pure tutti gli agi della vita materiale, essa assale di fronte l'anima sua, la sua coscienza, il principio della vita. Il patibolo con tutto il sanguinoso suo fasto si spiritualizza nel silenzio della cella. Il mero dolore animale non è più la suprema difesa di una società minacciata e vessata, ma un dolore, ch'è tutto dell'uomo, anzi tutto dell'anima, una pena sociale per eccellenza, perchè consiste nel negare le dolcezze del consorzio sociale a coloro che ne turbarono la pace. Eppure in mezzo ad una irresistibile efficacia, questa pena così temuta dal malvagio non offende per nulla i diritti dell'umanità; essa non accorre ad ogni istante col ferro e col fuoco, nè contrista di dolorose strida, nè contamina di sangue la città. I custodi, sicuri di sè, non feroci, nè sospettosi, possono mostrar sempre tutti la calma e la dolcezza; il cordoglio, che abbatte il prigioniero, viene tutto dalla legge, non inasprito dalla loro collera, nè aggravato dal loro arbitrio. Egli soggiace da sè all'onnipotenza della legge, e riceve il trattamento che risponde a' tristi suoi meriti, perchè lo riceve dalle opere della sua coscienza. Gli ufficiali non appaiono mai al suo cospetto, se non per interrompere il cruccio della sua solitudine, e provvedere ai suoi bisogni, e dirgli quelle parole che lo riconciliano col misero suo stato, e lo preparano ad uscire da quel fatale recinto con altr'animo ch'egli non vi entrava. Il regime solitario si riduce a due fini : togliere il prigioniero dal dannoso consorzio dei suoi pari, e costringerlo a rientrare in sé, perchè l'esperienza dimostra, che senza questo ritorno, la pena s'infligge senza frutto e senza esempio. Non s'intende però che il prigioniero debba restar derelitto nella disperazione d'una tomba; poichè oltre alla caritatevole provvisione de' suoi bisogni fisici in una comoda cella, egli ottiene il conforto del lavoro, del consiglio, dell'istruzione e della lettura. Gli si interdice la compagnia de' malvagi; ma gli si concede quella d'uomini onorati e pietosi. Ed è un fatto che la disciplina isolante gravita tremendamente sul malfattore inferocito, ma quando il tempo, il silenzio e le ammonizioni hanno vinto la sua durezza e l'hanno, ridotto a sentire la stoltezza della passata sua vita, il tormento del suo carcere s'allevia e i suoi custodi e governatori trovano in lui una inattesa docilità e un assoluto abbandono. Dopo un primo doloroso intervallo, l'abitudine a poco a poco induce l'animo alla quiete ad alla pazienza; dimodochè , il malvivente, condannato a breve pena, ne sente tutta la gravezza e ne porta fuori un salutare spavento; ma il malfattore condannato a molti anni di solitudine, può comporsi gradatamente a quella tranquillità, che riduce a riflessione anche le anime più burrascose. Non vi è in quella disciplina alcun risalto, alcun arbitrio, alcuna acerbità che accenda le sue male passioni: l'odio, la vendetta. Quindi nessun pericolo che l'irritazione mentale sconvolga la ragione. Solo questi argomenti possono consigliare il regime segregante, il quale è però sempre una gravissima pena. A Torino nei primi mesi dell'attivazione del carcere cellulare, molti delinquenti volgari non ressero alla solitudine e si uccisero Si notò però che da quella città i ladruncoli emigrarono in massa, e sarebbe stato un bel vantaggio, se questo fatto si fosse verificato anche in Milano. Nella nostra città venne pure costrutto un grandioso carcere cellulare, che torreggia severamente entro la cerchia dei bastioni fra Porta Genova e Porta Magenta. Questo edificio, il disegno del quale devesi al compianto ingegnere Francesco Lucca, si eleva sopra un'area di metri quadrati 49,695, della forma di un pentagono, perfettamente isolato e chiuso da una grossa muraglia munita di cinque torri agli angoli, e del fabbricato di fronte della lunghezza di metri 204,50. Lo stile adottato fu quello del medio evo, che risponde assai all'indole della fabbrica, di carattere grave e solenne. Il muro di cinta porta alla sua sommità un ballatoio contenuto da parapetti di pietra per il servizio di guardia, facendo servire da garretta per le sentinelle le cinque torri. Il carcere è diviso in tre distinti corpi di fabbrica. Il corpo anteriore; la cui fronte è disposta sul lato del muro di cinta, che prospetta il Macello, quantunque faccia parte dello stabilimento, non è considerato come carcere essendo destinato agli uffici, alle abitazioni, al corpo di guardia, al servizio di magazzino e ad altri scopi. Esso ha l'aspetto di un castello severo, le cui parti centrale e laterali sono munite di merlatura. Il secondo corpo di fabbrica, parallelo a questo è distante venti metri dal precedente e collegato col medesimo a mezzo di un andito a semplice piano terreno in continuazione al vestibolo d'ingresso. È elevato a due piani fuori terra, meno un breve tratto dove si praticò un ammezzato che soverchia il tetto. Questo si suddivide in due parti, ciascuna fornita di uno spazioso cortile; la destra costituisce il comparto riservato alle donne carcerate ed è diviso in sessanta celle, più quattordici altri locali di maggior ambiente per servizio d'infermeria. Nella parte sinistra a terreno si trovano i locali per le guardie, il parlatorio speciale pei detenuti di passaggio, per quelli appena entrati nel carcere, i bagni, i locali destinati alla visita ed alla iscrizione dei detenuti al loro entrare nel carcere, i locali per la disinfezione degli abiti e pei guardiani. Al primo piano nel lato verso oriente v'ha un portico di disimpegno di vari locali che potrebbero essere destinati ai condannati ad una pena di breve durata; al lato meridionale vi è un corridoio centrale con doppio ordine di celle in numero di venti. Ad occidente il cortile, un altro portico di disimpegno e dall'opposta parte altri locali di servizio. Nel secondo piano sono notevoli due celle per quei reclusi che danno o simulano segni di pazzia. Queste celle sono disposte in modo che per appositi spiragli abilmente mascherati, praticati nella vôlta e nelle pareti, un guardiano può, non veduto, vigilare il detenuto. Il terzo corpo di fabbrica ha nel suo centro una grande rotonda, da cui si diramano sei braccia equidistanti fra loro; ognuna di esse è costituita di un grande corridoio centrale che si eleva senz'alcuna divisione dal piano terreno sino al tetto; lateralmente sono disposti tre ordini di celle, disimpegnati da ballatoi che corrono lungo i lati dei vasto corritoio. La lunghezza di ciascun braccio di fabbrica è di metri 62,50 a partire dalla periferia interna della rotonda. A ciascun lato di tali braccia e per ogni piano sono disposte sedici celle, per cui si hanno novantasei celle per ogni braccio e quindi i sei raggi daranno complessivamente il numero di 576 celle, senza contare ventiquattro celle di punizione, cioè quattro per ogni braccio. Le celle dell'altro corpo di fabbricato sono larghe metri 2,40, lunghe metri 4, alte metri 3,40 circa; quelle del fabbricato a raggi misurano la larghezza di metri 2,20 per 4,30 di lunghezza e 3 di altezza. Si accede alle celle per una piccola porta munita di un apposito spiatoio, affine di poter invigilare il detenuto, senza ch'egli se n'avveda. A tale scopo lo spiatoio è mascherato da un vetro colorato e si apre e si rinchiude a mezzo di un movimento a vite silenzioso. Tutte le celle sono fornite di un richiamo ad un campanello elettrico, come ve ne sono alcune provvedute di un apparecchio per l'illuminazione a gas. Mediante il campanello ogni detenuto può, in caso di urgente bisogno, chiamare un guardiano, e perciò mediante un semplicissimo congegno, mentre suona il campanello discende davanti alla porta della cella una piccola bandiera in ferro, che indica esservi in quella cella il prigioniero che ha chiamato. Il mobilio delle celle, secondo venne stabilito dal Ministero, è costituito da un letto, il quale di notte è spiegato trasversalmente alla cella e di giorno trovasi arrotolato; di due ripiani piani o sgabelli situati in uno degli angoli della cella e di un ripostiglio. Serve di tavola il ripiano infisso nel muro e da sedile lo sgabello mobile. Affinchè i guardiani possano durante la notte, portarsi ad ispezionare le inferriate, fu proposto dal Ministero di infliggere nel muro una manetta, appoggiandosi alla quale può il guardiano far entrare una gamba nello spazio che si lascia, dalla parte de' piedi, tra la estremità della branda distesa ed il muro e passare all'altro lato della cella. Ogni cella oltre all'avere un cesso inodoro è eziandio provvisto d'acqua a sufficienza. Questa viene fornita da serbatoi collocati nei sottotetti e che vengono giornalmente riempiuti col mezzo di semplici pompe a mano. Da questi serbatoi si diramano dei tubi, che vanno a riempiere tanti recipienti, della capacità ciascuno di litri sei, quante sono le celle. Tali i recipienti sono posti tra i rinfianchi del nascimento di ciascuna vôlta e specialmente nelle praticate smussature degli angoli delle celle, e conformati in modo che nel mentre si riempiono con un tubo comune, sono però gli uni dagli altri indipendenti, sicchè quando un detenuto per inavvertenza o studiatamente lasciasse aperto il suo rubinetto in modo da disperdere tutta l'acqua del recipiente a lui destinato, ciò non vada a scapito di altri detenuti e perciò si castiga esso stesso col privarsi per quel giorno del beneficio dell'acqua, oltre a che mette in avvertenza il guardiano, coll'effettuato disperdimento dell'acqua per la cella, in una quantità però che non può mai riuscire a danno del fabbricato, essendo appunto limitata a sei litri, ma bastante per farlo punire. Stannovi apposite bacinelle per ricevere l'acqua da ogni rubinetto, e che ponno servire per far rinnovare da ogni detenuto l'acqua nel sifone della latrina dopo essersene servito per la propria pulizia. Le finestre che danno aria e luce alle celle sono fatte a strombo e disposte in modo, che, mentre queste restano sufficientemente illuminate e che il detenuto può godere della vista del cielo, egli non può vedere di fronte in linea orizzontale, essendo il piano del parapetto all'esterno più alto di quattro centimetri della parte inferiore del volto verso l'interno della cella. Inoltre, affinchè i detenuti possano giornalmente respirare aria più libera e passeggiare, pur mantenendosi la più severa segregazione, si disposero otto passeggi. Essi sono formati da tanti piccoli scomparti raggiali divisi da muricciuoli alti metri 2,40, disposti secondo la direzione del raggio e fanno prendere allo scomparto stesso la forma trapezia. La parte centrale si eleva su tutto il resto, ed è disposta a terrazzo coperto, dal quale il guardiano può con facilità invigilare i detenuti in tutti gli scomparti che sono interamente scoperti; meno per un breve tratto in aderenza alla parte centrale, ricoperta da un piccolo tetto, affine di difendere il detenuto dalla pioggia e dai cocenti raggi solari. Infine, la disposizione poligonale e sporgente data alla estremità di ogni tramezza, impedisce che i detenuti possano, allungando le braccia fra i vani del cancello, comunicare fra loro, come pure l'essere tutti questi passeggi coperti da una sottile rete di ferro, toglierà il pericolo che i detenuti possano gettarsi l'un l'altro degli scritti. Il numero totale delle celle a carcere è di 762. Al quale aggiungendo i locali destinati a infermerie, si ha una capacità totale di celle per 800 detenuti. Eccovi descritto il carcere cellulare che la città nostra con grande dispendio ha innalzato. Se esso era davvero un bisogno universalmente sentito, rimarrà come monumento delle deplorevoli condizioni morali di Milano a' giorni nostri. Stringiamo i conti. Una pulitissima cella, fresca d'estate, riscaldata d'inverno, con un letto discreto, sei litri d'acqua al giorno, vitto, bucato, servizio, tutto ciò si dà a chi commette un delitto; mentre il povero che voglia vivere da galantuomo è costretto ad abitare una stamberga fredda d'inverno, calda e soffocante d'estate, mangiare peggio di moltissimi cani, infine stentare la vita. È proprio scabra ed ingombra di spine la via del Paradiso, .... fin troppo. Appio Claudio, irridendo alla miseria della plebe romana, disse che il carcere è l'albergo della plebe. Or bene, per costrurre un tale albergo che i lôcch già battezzarono per Grand Hôtel Roncoroni o anche Pio Albergo Roncoron (dal nome di un formidato Ispettore di Pubblica Sicurezza poscia divenuto Questore), in Milano si sono spese due milioni e centoventitrè mila lire. Aggiungansi i denari che si pagano per gli stipendii del personale direttivo e di custodia, per il mantenimento dei carcerati, e poi dicasi che la società non si prende cura della plebe. Chi però mi saprebbe dire quanto spende la società per migliorare la plebe? per prevenire certe cadute morali, per le quali un uomo onesto od una donna onesta trovansi precipitati in cotesto abisso senza uscita? Eppure questo carcere segna un gran progresso in confronto di quello a sistema di famiglia. In quest'ultimo la sopraeccitazione dello spettacolo impedisce la riflessione e quindi la riabilitazione morale dell'individuo. Eccovi un giovinetto operaio arrestato, mentre nell'impeto dell'ira ha ferito un suo compagno. Vien tratto al carcere e consegnato al custode ed ai guardiani. Lo sdegno ed il dispetto ancora lo agitano, risponde con poca buona grazia alle interrogazioni del capo guardiano, il quale per punirlo della sua sgarbatezza lo fa mettere dove stanno i ribaldi più facinorosi. Appena il giovanetto pone il piede sulla soglia del carcere, tosto l'uscio gli si richiude alle spalle, ed egli si sente soffocare sotto una coperta e si trova gettato a terra. E perchè? mi domanderà il lettore. È una brutta consuetudine, che ebbe sempre vigore nelle nostre prigioni, e che non si è potuto far scomparire, se non colla abolizione del carcere a sistema di famiglia. Quel giovanetto è stato atterrato dai corsari. Sì, signori, vi erano i corsari nelle nostre carceri, e vi sono ancora dove non fu ancora applicato il sistema cellulare. Sono questi due prigionieri incaricati dal capo-stanza (che è il più anziano tra i rinchiusi in una stessa camera, e bene spesso il più ribaldo e il più manesco) a fare gli onori del ricevimento al nuovo venuto. Al suo ingresso, tutti si radunano nell'angolo della stanza il più lontano dall' entrata, tranne i due corsari, che sì mettono l'uno da una parte e l'altro dall'altra della porta, tenendo distesa una coperta di lana, colla quale imbaccuccano il poveretto che entra, e lo trascinano a terra. Allora tutti gli corrono addosso e chi gli toglie il moccicchino, chi il cappello, infine, quanto ha di meglio sopra di sè, tutto gli vien portato via. La preda si consegna al capo della cella, il quale pensa a farne spiccioli. Immaginiamo alcune di queste scene nelle carceri soppresse di San Vittore. Il derubato si rialza infuriato se è coraggioso, avvilito se è timido; in quest'ultimo caso va a rannicchiarsi in un angolo della cella in mezzo alle più sconcie risate dei concaptivi, nell'altro invece s'avventa alla cieca sul primo che incontra, e, mentre con costui sta per venire alle prese, gli saltano addosso gli altri a trattenerlo, finchè interviene colla propria autorità il capo-stanza a sedare il tumulto e a ristabilire l'ordine. Intanto questi ha già pensato a fa foraggià la scelpa ossia a far scomparire la preda. Nel carcere di San Vittore il negozio si conchiudeva tra le due celle attigue, separate dal muro, che le divideva imperfettamente, giacchè non raggiungeva la volta. Il commercio si fa tra i due capi-stanza. Il venditore prende un pezzetto di carta, vi scrive sopra la proposta di vendita, poi mette in uno zoccolo il vigliettino che in gergo è detto lasagnin al plurale lasagnitt), si pianta nel mezzo della prigione e grida: Casci? Si ode una voce che risponde dall'altra cella: Cascia Allora il venditore lancia lo zoccolo, che supera il muro e va a cadere nell'altra cella. Ma come ha potuto colui scrivere il bigliettino? Un pezzettino di carta e un piccolissimo pezzetto di matita posseggono tutti i frequentatori delle carceri, nè v'ha occhio per quanto esperto che giunga a scoprire i mille nascondigli, che sa trovare o creare intorno a sè il prigioniero. Intanto l'altro capo-stanza ha radunato i carcerati, che hanno con sè denaro o ne hanno depositato presso il guardiano per fondo di sussidio, e ha esibita la merce. Se v'è alcuno, che si offre di comperarla, il capo-stanza rimanda la risposta. La merce insieme colla domanda viene spedita sempre per la stessa via. La si esamina si tira il prezzo, infine s'impiega una intiera giornata per concludere un affare di due lire. È questa una gradita occupazione per chi è condannato all'ozio. Se il compratore ha seco il denaro, questo viene dato al capo della cella, il quale lo spedisce al venditore detraendone una parte per tassa di mediazione. Se poi il compratore ha il denaro depositato per fondo di sussidio, allora l'affare si fa diversamente. Allora è necessaria la girata delle parti.Il compratore chiama un guardiano; questi apre el sfiandrin finestretta tagliata nella porta stessa della carcere; il compratore gli ordina di porre a credito del capo dell'attigua cella la somma stabilita, sulla quale il mediatore ha sempre diritto di prelevare a proprio vantaggio una parte determinata. In altre carceri gli affari si fanno mediante la colomba, pezzo di cordicella, della quale si servono i prigionieri di una cella per comunicare con quelli d'un'altra. Nessuno dei concaptivi s'attenterebbe di impedire o di porre ostacolo a siffatte comunicazioni, quando non avvengono per conto proprio, anzi sono in ciò d'un mirabile accordo e con gran premura si prestano talora a mettere fra loro in comunicazione due individui l'uno dall'altro discostissimi. Fa passà el bastiment è la frase tecnica che significa partecipare una notizia. E questo si fa, quando è possibile, in gergo, oppure battendo colla nocca delle dita, contro la parete del carcere vicino, un certo numero di colpi, che qualcuno s'incarica di ripetere sul muro opposto e così via, finchè il rumore giunge all'orecchio di chi capisce il segnale e che risponde. E così rifanno la stessa strada i rintocchi di risposta con una scrupolosa esattezza e con una premurosa prontezza. Nelle carceri di Cherry-Hill per evitare questo ultimo modo di comunicazione, si è pensato a dividere le celle mediante due tramezzi, in modo che il suono s'ammorza e si perde nel vano delle pareti. E dal fondo del carcere si commettono le più orribili ingiustizie, le più nefande sevizie, coll'audacia e la brutalità che solo può ispirare la sicurezza del silenzio della vittima. Non solo i più poveri sono condannati dal capostanza a fare i servizi i più umilianti del carcere, ma i più giovani sono talora trascelti a sfogo di sozze passioni. Nè giova che uno per sottrarsi mantenga un contegno severo. Nei primi giorni vien lasciato a sè, e schernito con semplici appellativi, poi qualcuno lo punzecchia con parole di famigliare scherzo ma dette in tono benevolo, e quando l'altro annoiato della sua volontaria solitudine sente il bisogno di parlare, attratto dal vortice dell'allegria chiassosa, che regna in un carcere a sistema dì famiglia, allora è costretto a prendere parte ai giuochi che vi si fanno, ed egli è quasi sempre la vittima degli scherzi più umilianti e atrocemente vergognosi. Il giuoco del sarto, del ladro, del soldato, sono tali oscenità, che non mi è lecito neppure il descrivere. La narrazione vicendevole delle proprie gesta serve a compiere l'educazione del prigioniero, il quale se ha posto il piede nel carcere, traviato da una malvagia tendenza, ne esce corrotto nel fondo dell' anima, abbiettamente cinico e pressochè abbrutito dai vizii. A petto delle gravissime colpe, di cui ode il racconto, il suo piccolo fallo gli appare meschino e ridicolo, sente il bisogno di elevarsi fino al livello de' suoi compagni, e, come un poeta cerca di emulare i grandi poeti, ed un negoziante cerca di gareggiare co' suoi colleghi, nè questi pensa punto di acquistare stima tra quelli, nè il poeta si sogna di agognare al credito di negoziante, così anche il lôcch non aspira alla fama di galantuomo, ma si sforza di guadagnarsi tra' suoi nomea di briccone matricolato. L'ambiente, in cui vive, lo costringe a ciò, nè può sottrarsi alla dura necessità che lo trascina. Quando uno non è affatto furfante, simula di essere tale per guadagnarsi il rispetto degli altri concaptivi, o almeno per evitare le loro derisioni; e quando esce dal carcere, siccome non può aspirare a ritornare tra galantuomini, così la compagnia ch'ebbe là dentro, diventa la sua necessaria compagnia, alla quale lo avvince un tacito obbligo di solidarietà nel delitto. Quand'ei volesse, uscito di carcere, abbandonare i suoi compagni, non rispondere più al loro saluto, egli si buscherebbe il titolo di aristocratico e peggio di tira, che in gergo significa spia, o peggio ancora gli toccherebbero delle busse, perchè tutti i bricconi di questo mondo hanno per propria divisa, che chi non è con loro è contro di loro. Si consideri ora quale debba essere l'angoscia d'un poveretto, che, accomunato per molto tempo con siffatta genìa, venga liberato per sentenza dei tribunali con dichiarazione d'innocenza. Nè questo caso avviene raramente, perchè la giustizia umana è pur troppo spesse volte fallace. Questo per quanto risguarda le carceri dove s'accolgono gli uomini. Nè minore corruzione riscontrasi nelle carceri delle donne, ove gli amori e le gelosie tra esse fornirebbero il tema a migliaia di romanzi, del genere di quello del Belot, Mademoiselle Giraud ma femme. Il chiasso e il ciarlìo in un carcere a sistema di famiglia, è, come ognuno può argomentare, grandissimo, ma su d'una sola cosa si serba da tutti il più geloso silenzio. Nessuno parla della colpa, per cui venne l'ultima volta arrestato. Se pende la procedura, un gran lavoro mentale pel prigioniero è quello di prepararsi agli interrogatorii, e siccome è tradizionale nel carcere il dubbio di poter aver a fianco dei tira, che rivelino ai giudici i discorsi, così ciascun carcerato è su questo proposito d'una eccessiva, ma non irragionevole diffidenza. Ad una domanda anche innocente, ma un cotal poco indiscreta vien subito risposto secco secco: Ogni detenuu el tira el so d'on carr Tra i coimputati vi è un grande studio a non contraddirsi vicendevolmente, a non ismentirsi, a non iscoprirsi e vi sono non iscarsi esempi di uomini, che affrontarono la galera, piuttosto che pronunciare una parola che poteva valere a propria discolpa, ma che sarebbe stata un'accusa pel proprio compagno, la condizione del quale sarebbesi naturalmente peggiorata. Ma se v'è in moltissimi questo generoso coraggio del silenzio, manca però in tutti il coraggio di accusarsi, e nessuno si farebbe innanzi ad assumersi la responsabilità di un delitto, di cui è realmente colpevole per salvare anche il più caro amico. La perdita della libertà è per tutti troppo dolorosa e tutti cercano di evitarla. Quando il compagno, punito invece d'un altro, rimproverasse a quest'ultimo d'essersi sottratto alla meritata pena e d'aver lasciato lui nei guai, il compagno risponderebbegli domandando: Te me disarisset on stuped? A cui l'altro dopo breve riflessione aggiungerebbe: Te ghe reson. Incoeu a mì diman a tì. Paghen on mezz e che la sia fenida. Evviva nun e porchi i sciori, che è il brindisi con cui i lôcch risugellano la loro amicizia. Ma questa solidarietà va scomparendo a poco a poco tra' detenuti. Una volta questi si soccorrevano l'un l'altro, si assistevano fraternamente se malati, si scambiavano gli abiti affine di recarsi decentemente vestiti dinanzi ai magistrati, per gl'interrogatorii o pel dibattimento finale. Oggi, tranne i vecchi frequentatori del carcere, che ancora mutuamente si sostengono, i giovani sono egoisti, e l'uno verso l'altro indifferenti; sono capaci di rubarsi tra loro il pane, il che avviene spesso, e si diedero persino casi, in cui detenuti vecchi, avendo prestati a detenuti giovani i pagn de libertaa affinchè non si presentassero ai giudici coi pagn del loeugh, essendo stati assolti o rimandati per, mancanza di prove, non restituirono gli abiti avuti in prestito; nè li tennero neppure per ritornare nel mondo, ma appena liberi li scambiarono con altri cenciosi e logori per ricavarne tanto da bere qualche decilitro d'acquarzente. A tanto può giungere la depravazione morale in siffatta gente, quantunque anche tra coloro, che si chiamano comunemente galantuomini, lo sconfessare od il tradire un benefattore non sia cosa tanto rara, che faccia inarcare le ciglia per istupore. Però alcuni frequentatori del carcere in mezzo al rumore dei compagni pigliano sul serio il vivere in prigione e si danno a lavori, che pur troppo non sono da essi continuati, quando vengono restituiti a libertà. Abbiamo visto dei magnifici lavori a maglia fatti con cannuccie da granata in luogo di ferri da calze, e quei lavori eseguiti secondo un disegno capriccioso a trafori, ci parvero degni veramente di lode, anzi di ammirazione. Da un carcerato ci venne mostrato un lavoro plastico fatto colla mollica di pane. Era un gruppetto di tre individui, un uomo, una donna e un bambino negri posti su uno scoglio all'ombra di una palma che intendevano gli sguardi nell'orizzonte, per iscorgervi lontano lontano la patria perduta. V'era in quel gruppo tanto sentimento artistico, tanta verità e tanta poesia, che profondamente ci commosse. Ma questi tentativi isolati vengono dai prigionieri fatti per passare la noia. Un lavoro serio, utile, intelligente, era stato organizzato nelle carceri giudiziarie di Milano dall' ex direttore delle carceri stesse Pietro Fassa. Egli invitò e poscia incoraggiò alcuni intraprenditori, perchè volessero istituire degli opifici nelle carceri. Abbiamo visitate (era il 1873) l'officina da fabbro ferraio e la rilegatoria di libri nelle carceri di San Vittore, abbiamo veduta la calzoleria delle carceri di Sant' Antonio, ma l'officina che ci maravigliò più di tutte le altre fu quella di stipettaio esistente nelle carceri del Palazzo di Giustizia. Abbiamo osservati i lavori d'intaglio per la fabbricazione di mobili di lusso e ci sorprese la precisione, la finezza, il buon gusto, con cui quei lavori erano eseguiti. Non è un lavoro rozzo e materiale cotesto e perciò diverte e nobilita lo sventurato che a tale lavoro si dedica; e infatti in quelle carceri abbiamo notato fronti, sulle quali il vizio e la colpa avevano impresse rughe profonde, spianarsi, e diremmo quasi rasserenarsi a un raggio di speranza nell'udire le parche lodi, che loro dava l'egregio signor Leonardo Virillio, allora vice direttore delle carceri di Milano, promosso poscia a direttore di quelle di Messina, il quale ci fu cortesissima guida in questa nostra escursione. I lavori che si facevano in quelle carceri oltre al vantaggio morale, che arrecano al prigioniero, gli porgono un utile materiale e arrecano non picciola utilità e all'imprenditore, e al compratore, ed infine allo stabilimento carcerario istesso. Peccato che molti all'uscire di carcere non continuino le abitudini acquistatesi; e si diano invece nuovamente al mal fare (1). E nelle carceri il Fassa aveva istituito pure una biblioteca educativa e morale, ed oltreché eranvi maestri che pazientemente istruivano gli analfabeti, e i cappellani che vi diffondevano massime di religiosa pietà, le commissioni per la visita dei carcerati porgevano a costoro sussidi e conforti. (1) Giova però tener conto che alcuni liberati, i quali non vogliono o non possono entrare nel Patronato, trovansi ancora a contatto coi tristi loro compagni, che li trascinano al male; alcuni poi vengono respinti dai capi fabbrica non senza ragione diffidenti, e trovansi costretti a commettere cattive azioni per vivere, ed infine altri diconsi impediti dalla sorveglianza della Pubblica Sicurezza troppo gravosa e, alcuna volte, per parte di certi esecutori, un pochino vessatoria. Però taluni membri di queste commissioni, per eccessivo amore del bene e per eccessiva filantropia, prodigano siffattamente la loro protezione ai carcerati da rendere difficile ed odioso l'ufficio di chi è deputato a mantenere tra essi la disciplina ed il buon ordine, sicchè i detenuti bene spesso abusano delle loro benefiche parole e giuocano l'uno contro l'altro, l'autorità della Commissione e quella de'guardiani, ridendosi dell'indulgenza soverchia dei signori che compongono quella, e ribellandosi alla legittima vigilanza di questi. Abbiamo sentito da alcuni carcerati a deridere l'operato della Commissione e a dire che i membri di essa prestano l'opera loro per pura vanità, per far parte dell'autorità ed essere menzionati con parole di lode nei diarii e negli annuarii. Ed uno conchiuse con queste parole: « Questi signori ci schiverebbero domani, quando ci vedessero liberi per le strade, ci scaccerebbero se ci presentassimo a domandar loro del lavoro, come un ricco industriale scacciò me dalla sua fabbrica la prima volta che mi vi recai ubbriaco. Sorreggere e non rialzare, questo è il dovere dei signori, tener buoni i buoni operai, e di noi caduti lasciare la cura alla Provvidenza ». Queste parole d'amara censura contengono tanta parte di una dura, ma pur troppo importantissima verità, che non abbiamo creduto doversi passare sotto silenzio. Non crediamo neppure inutile di dire che vi fu eziandio un editore filantropo, che pensò alla pubblicazione di un giornale pe' carcerati, giornale che morì nascendo, ma che trovò scrittori, scrittrici, lodatori e lodatrici. E mentre si fa tutto questo pe' carcerati, non possiamo tralasciare di ripetere che nulla si fa per coloro che appena si reggono barcollando sul sentiero della virtù; per quelli gli agi, i sussidi, i conforti, l'istruzione, per questi la miseria, il disprezzo, l'abbandono, l'ignoranza. Quanti operai, non ci stancheremo di ripetere, desidererebbero avere a un prezzo modesto una cella del carcere cellulare ben illuminata, asciutta, ariosa nell'estate, riscaldata nell'inverno, mentre invece sono costretti a rifugiarsi nelle locande tra il lezzo, i cenci e il sudiciume? Quanti galantuomini desidererebbero in compenso del proprio lavoro aver assicurato giornalmente per sè e per la propria famiglia la minestra e il pane che quotidianamente si distribuisce ai prigionieri? Invece tutti questi agi non si possono acquistare col lavoro onesto, bisogna guadagnarseli col delitto. Eppure la libertà fa parere meno triste la paglia trita e infestata dagl'insetti, su cui il miserabile riposa la notte, meno duro il tozzo di pane di granoturco che gli serve di nutrimento, del pulito saccone e del cibo igienico che si danno al carcerato. Il lôcch suoi definire con un tragico motto la vita del carcere. La paia la mangia la carna ci dice, volendo con ciò significare che il carcere distrugge la vita. Così pure dice che la giura la sgonfia cioè che la minestra dei carcere gonfia; satolla cioè ma non nutre. Egli distingue inoltre con diverso nome il pane della prigione dal pane di libertà e chiama quello marocch o con vocabolo del gergo ungherese chigna e questo denomina boffettôs. Curiose e degne di nota sono certe abitudini speciali al vecchio detenuto. Egli ha cura che la cella sia sempre pulita, ma prima di scopare adacqua il suolo, affinchè la polvere non si sollevi. La polvere, egli dice, smangia i polmoni, il qual detto fa risovvenire la polvere rodente dell'ottimo Parini. Il vecchio detenuto fuma, quando può, perchè a suo dire, il fumare leva l'umidità Un'altra sua abitudine è quella di coricarsi presto e di alzarsi prestissimo, e quantunque, procuri sempre di cenare un paio d'ore almeno prima di coricarsi, pure egli va facilissimamente soggetto a sogni per il desiderio, da cui è posseduto o di essere condannato a breve tempo, o di andarne in libertà, od anche per la speranza che il processo prenda quell'indirizzo, che a lui possa essere più favorevole, Epperò qualunque sogno ha pel prigioniero un significato o riferentesi direttamente al sognatore o a qualcuno di coloro, che gli sono compagni di sventura nell'istessa camera. Ecco l'interpretazione di alcuni sogni, quale un detenuto ce l'ha fornita. « Sognare orologi ha significato di movimento: il che nel gergo dei detenuti significa essere chiamato ad esame, o a dibattimento, oppure essere restituito a libertà, se il sogno vien fatto la notte precedente all'udienza finale. Sognare carta; se è scritta, significa citazione ad esame o lettera in arrivo se bianca, soccorso di biancheria. Sognare maschere vuol dire subire confronti nel processo Sognare penne, cioè uccelli o pollame, significa condanna. Notisi che in dialetto milanese penn plurale di penna, e penn plurale di pena si pronuncia allo stesso modo. Sognare uova indica essere condannati a tanti anni pari al numero delle uova sognate. Sognare denti significa disgrazia domestica. Sognare di riversare olio o sale presagisce pure disgrazia. Sognare d'un cavallo nero vale novità. Sognare d'un cavallo bianco vale notizia triste Sognare d' un soldato che fa fuoco indica buona nuova Sognare di escrementi, d'uva nera oppure di vino è presagio di prossimo soccorso Sognare oro od uva bianca significa rabbia o tristezza. Sognare argento dinota allegria. Sognare pezze di lino significa soccorso in denari Sognare pane vale dover esercitare la pazienza. Sognare scarpe predice vicino un viaggio». E il detenuto che ci fornì tali dati aggiunse queste testuali parole: « Ed è tanta la convinzione che il prigioniero ha della veridicità dei sogni, che ci crede fermamente; e bisogna pur dirlo, che se il più delle volte si avvera la profezia, è perchè questa è in correlazione coll'esito che, malgrado gli sforzi che fa per illudersi, il detenuto stesso sa che devo avere la procedura contro di lui incoata ». Un altro presagio i prigionieri traggono pure dalla minestra. Quando vien loro presentato il piatto, che la contiene, tosto la rimescolano per vedere se v'è qualche pezzettino di lardo. Dicono essi che ogni pezzetto di lardo, che si trova nella minestra, significa un anno di cattività da subire. Quale può essere la ragione,di questa credenza? Può essere ironia, può essere astuzia. Ironia, se colui che prima divulgò siffatta opinione, voleva accennare allo scarso condimento che si mette nella minestra del prigioniero; e voleva significare che è sì difficile trovare un pezzetto di lardo in quella minestra, che chi ve lo trovasse poteva di buon grado sottomettersi alla pena d'un anno di carcere, tanto tale cosa gli pareva miracolosa e quasi impossibile. Astuzia, se, chi fu l'autore di tale sentenza, approfittando della superstizione, mirò collo spauracchio d'un triste presagio a porre un freno alla ghiottornia del capo-stanza, il quale ripartisce la minestra fra i detenuti della propria cella. Vogliasi o non vogliasi un pezzetto di lardo nella minestra di un prigioniero è sempre qualcosa di ghiotto, e il capo-stanza s'impadronirebbe senz'altro di tutti i pezzetti di lardo nuotanti nella broda, senza l'incubo del triste augurio che il soddisfacimento della propria golosità trarrebbe seco; tanto la prima che la seconda interpretazione, ci conducono a ritenere un uomo di spirito chi imaginò e primo divulgò siffatta diceria. Un ultimo pronostico. Se alcuno degli effetti di vestiario del detenuto, appesi alle pareti, senza causa visibile cade a terra, si presagisce da questo fatto la libertà per qualcuno, dei reclusi in quella camera e di ciò si suole menare gran festa. Ma vien finalmente il sospirato giorno della libertà. Colui che deve andare in libertà ed ha denari sul fondo di sussidio, li fa dal guardiano convertire in vino, che beve co' suoi camerata. È il bicchiere della staffa, nè un detenuto di qualche conto vorrebbe privarsi del piacere di festeggiare la propria uscita dal carcere. Un bel mattino si schiude l'uscio della segreta, si chiama quel detenuto, che deve essere rilasciato, tutti gli si fanno attorno a pregarlo di commissioni di ambasciate; egli esce, adempie ad alcune formalità, poi se non deve ricevere ammonizioni dall'autorità di pubblica sicurezza, gli si apre il cancello della guardinna ed eccolo libero. Mi diceva un truffatore avvezzo ad uscire dal carcere per rientrarvi poco appresso: « È però sempre una bella emozione. A me fa un certo effetto ... Quando sono in istrada mi pare di essere piccino piccino ... ». Un altro dello stesso stampo mi diceva invece: « In generale nel primo giorno di libertà non si conclude mai nulla. Si va a zonzo, si guarda in aria, si cercano le piazze più larghe per respirare a pieni polmoni, poi si eseguiscono le commissioni date dai camerata, perchè bisogna fare agli altri quello che piacerebbe che gli altri facessero a noi ... poi si va a trovare l'amante ...». « Ma perchè non correte prima a rivedere la vostra famiglia? » l'interruppi io. « Perchè alcuni di noi non ne hanno mai avuta, altri l'ebbero per loro danno, perchè in famiglia trovarono i primi cattivi esempi, i primi eccitamenti al male, altri perchè le loro famiglie, chiuderebbero loro l'uscio in faccia ». « E l'amante? « L'amante nostra, che in generale è una femmina da conio, ci ama centuplicatamente quando siamo in carcere, e se anche fosse capace di farci qualche torto, non ce lo farebbe per tutto l'oro del mondo durante la nostra prigionia. Sono le amanti che si ricordano di noi, e mettono tutta la loro compiacenza nel venirci a trovare, portandoci un abbondante soccorso. Andà a fà visita col brasc tiraa è la frase di cui si servono le nostre amanti per significare « visitare l'amante prigioniero e portargli dei copiosi soccorsi in vivande, biancherie e denari ». Dei resto mi si disse, e facilmente prestai fede, non esservi gerarchia, determinata dalla maggiore o minore gravità del delitto, ed inoltre potei constatare che detenuti vecchi rimproverarono dei giovinetti caduti in colpa per la prima volta e perciò stati arrestati. « È una vergogna, diceva un vecchio peccatore ad un ragazzotto arrestato per vagabondaggio, tu sei giovane e puoi lavorare e l'ozio non ti ha ancora affatto guasto. Se incomincerai a rubare, non potrai più correggerti; e poi, notato per ladro una volta, sarai ladro per tutta la vita. S'io potessi tornare della tua età!... ». Questi consigli vengono però dati una volta, sola, nè vengono ripetuti mai più per lo stesso, individuo, quand'anche ritornasse cento volte tra piedi a quel genio del buon consiglio incarnato in un veterano della colpa. Un'ultima osservazione. La statistica c'insegna che le classi più corrotte della nostra popolazione sono i manovali, i camerieri, i prestinai, i gridatori di giornali, i facchini, i quali forniscono il maggior contingente alle prigioni. La media delle colpe contemplate dalla legge che vengono denunciate ogni giorno è di trenta per ciascun giorno. I reati più in voga in Milano sono la truffa e l'appropriazione indebita; vengono in seguito in ordine di frequenza il ferimento, il furto, il borseggio, i reati contro il buon costume. I delitti, che vanno diminuendo continuamente. sono le aggressioni e le rapine. Rarissimi sono tra noi i casi di ricatto e di estorsione. Ci siamo dilungati assai su questo tema, perchè ci parve che ne valesse la pena. Infatti il carcere in Italia inghiotte annualmente una grandissima quantità di gente, di cui la società s'impadronisce e che rinserra fra quattro mura; ma essa non pensa in nessun modo a migliorarla o almeno a prevenirne le cadute. Per non essere tacciati di esagerazione, diamo la statistica del movimento delle carceri italiane nell'anno 1871: EntratiUscitiNelle carceri giudiziarie342,476337,328Nelle case di pena5,1444.960Nei Bagni di pena3,6622,633Nelle case di custodia661617Negli Istituti di ricovero1,054641 In statistiche più recenti queste cifre sono aumentate notevolmente. Quante vittime dell'imprevidenza sociale! Asili notturni.

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Il brigadiere, che ci è compagno, prende lo scartafaccio, lo scorre coll'occhio, in certi punti arriccia il naso, in certi altri corruga la fronte, in altri infine alza ed abbassa la testa con moto uniforme e sorride con compiacenza, come chi dicesse: Pur t'ho colto finalmente. - Abbiamo ordine di visitare la locanda - dice il brigadiere. A questo frequente desiderio dell'autorità, la locandiera risponde affermativamente con un cenno del capo, si reca dondolando a chiuder l'uscio che dà sul cortiletto, va in un angolo della stamberga, verso una mensola di legno, impugna una bottiglia di birra vuota, ma dal collo della quale esce un moccolo di sego, l'accende con cautela, poi si mette alla testa della schiera dei visitatori. Su, su, su per una scaletta di legno ripidissima; il buio e la fretta con cui si sale non lasciano sentir altro che gli effetti degli scalini contro gli stinchi delle nostre povere gambe, però ci dispensiamo dal descriverla di che il lettore ci saprà grado. Eccoci sopra un pianerottolo. La locandiera schiude un uscio, avanza il braccio armato del lume e attraverso al riscontro veggonsi dei lettucci disposti con un certo ordine, nulla scorgesi che meriti d'essere notato. - Questi pagano venti centesimi per notte - dice la padrona e richiude. A un secondo piano vediamo la stessa cosa, e ad un terzo altrettanto: finalmente eccoci al piede di una scala a piuoli. Arrampichiamoci sopra quest'ordigno più atto a far rompere il collo, che ad agevolare la salita a chicchessia. Ogni gradino scricchiola, e tale scricchiolio potrebbe essere paragonato ad un gemito, che ci avverte che il tarlo ha scavato la sua dimora in quei piuoli, i quali minacciano di cedere sotto la pressione che sovr'essi facciamo coi nostri corpi. Su, su, su, finalmente eccoci in cima. La locandiera schiude la porta ..... Cielo, che puzzo orribile! Siamo in un abbaino, angusto, basso, il soffitto del quale declina da due parti secondo i due pioventi del tetto. Non vi è alcuna finestra. Luce e aria quest'abbaino dovrebbe ricevere dall'uscio, ma di notte rimane chiuso a chiave che vien serrata per di fuori. Coraggio, ed osserviamo. Dei pagliericci (prendi, o lettore, questa parola nello stretto senso etimologico) stanno l'uno accanto all'altro, e sovra ognun d'essi giaciono due individui a capo e piedi. Non tutti dormono. Al nostro apparire v'è chi dorme davvero, chi invece finge di dormire. I fisionomisti potrebbero quivi far studi di non lieve importanza; gli entomologi vi troverebbero di che provvedere un museo; giacchè la famiglia degli apteri è qui largamente rappresentata. Ci prese ribrezzo in veder accucciati in quella guisa uomini sui volti dei quali avevano impressi solchi indelebili, vizii, passioni, sventure; uomini che passano su questa terra senza aspirazioni, senza scopo; incapaci talora di acquistarsi persino la triste riputazione del male. - Se non ci fossimo noi - mi diceva un giorno uno di questi infelici - quanta gente rimarrebbe disoccupata! Giudici inquirenti, procuratori del re, avvocati criminalisti, agenti di pubblica sicurezza, carcerieri . . . È questo un sofisma degno d'un cinico matricolato, eppure per molti di questi poveracci e la scusa della grama vita che essi conducono, o per meglio dire è la ragione d'essere, il perchè della loro esistenza. Se non vi fossero i topi, a che servirebbero i gatti? In quest'angusta cella contai quindici ospiti. Gli abiti loro spenzolavano da chiodi infissi nelle sgretolate pareti, notai certe bluse forse un tempo vestite da onesti operai, che l'ubbriachezza e l'ozio ridussero a mal partito. I lôcch indossano spesso di queste bluse corte di rigatino bianco e azzurro, nella speranza di essere dagli agenti di pubblica sicurezza scambiati per operai. - Questa locanda non è delle peggiori - mi susurra all'orecchio la mia cortese guida. Uscii di là nauseato e col cuore stretto da profonda tristezza; scesi la scaletta, che in quel punto non mi sembrò tanto cattiva, e appena posto il piede sul pianerottolo, la locandiera ci domandò se volevamo salire su per un'altra scala, in tutto simile a questa, conducente ad un'altra soffitta che fa degno riscontro a quella testè visitata. Saputo però che non vi avrei potuto trovare alcun che di maggior rilievo, mostrai desiderio di andarmene, e, fatte le opportune scuse alla locandiera pel disturbo arrecatole, questa ci accompagnò col lume fino alla porticina che mette sulla via, e Quindi uscimmo a riveder le stelle. Nello stesso Corso di Porta Garibaldi, una diecina di case più in là da quella testè descritta, vidi un'altra locanda, che segna un notevole crescendo nel lezzume e nella schifezza. Ne è proprietaria una certa vecchierella, la quale parve turbata dalla nostra visita, ma pure ci mostrò con ossequiosa premura ogni più riposto angolo del suo meschino covile. Ma una casa d'alloggio tristissima e schifosissima mi fu dato di visitare in via Arena. Quivi è una casa di assai meschino aspetto, e che già dal di fuori rivela la miseria che accoglie nel suo interno. Non griglie difendono alcuni buchi, i quali nel concetto architettonico del costruttore vogliono dire finestre; muri sgretolati, che non furono mai imbiancati e chiazzati di macchie segnatevi dall'umidità, tale presentasi la facciata di questa casa. Una portaccia nana permette di entrarvi, ma due tavole antichissime, su cui Mosè scrisse la mala copia del Decalogo pare che ne difendano, mentre per vero dire non fanno che ingombrare l'ingresso. Per un andito si giunge ad un cortile abbastanza vasto, a sinistra del quale una scaletta di pietra conduce ad un corridoio. Apresi un usciale mediante un saliscendi e si entra in una stanzaccia, non iscialbata chi sa da quant'anni, anzi le pareti sono gregge, nerastre ed umide; un'afa intollerabile vi si respira, perchè quella stanza non può ricevere aria che dalla porta d'ingresso, quando è aperta. Da una grossa trave, che sta nel mezzo della soffitta, pende una lucerna fatta con una lamina di ferro ricurvata all'intorno, riempiuta d'olio, con un lucignolo inzuppatovi, il quale spande in gran copia fumo e puzza insieme con una fioca e fosca luce che si rifrange nelle goccie d'umidità che scolano lungo le pareti e ben si potrebbero paragonare queste goccie a gemme che cadono ad incoronare il popolo sovrano che s'ammucchia in questa locanda. Appena entrati, il lucignolo mandò una luce più viva che ci lasciò vedere dei corpi sdraiati qua e colà, ma il soffio dell'aria, che penetrò là dentro all'improvviso, spense quella povera fiammella, per cui restammo immersi nel buio. Indarno si tentò di accendere dei fiammiferi soffregandoli contro l'umido muro, e intanto si sentiva il russare dei dormienti, il muoversi di coloro ch'erano desti, o che in quel punto si erano svegliati, il fruscìo della paglia, e un ronzìo confuso di animaletti che attivamente si movevano nel buio secondo la loro abitudine. Finalmente si potè accendere un fiammifero di cera, col quale potemmo veder chiaramente quanto ci stava dintorno. E già accosto al limitare dell'uscio un saccone ci sbarrava il passo, vi stavano distesi due miserabili, un facchino e un taglialegna; scavalcammo quell'ostacolo, ed uno dei miei compagni accese di nuovo il lumicino e potemmo così osservare con maggior nostro agio. In un angolo una vecchierella era distesa sopra un altro saccone. Essa poteva contare un settant'anni d'età. Facile era il dirla una mendicante; nessuna traccia le si scorgeva sul volto di quello che poteva essere stata un giorno; era il viso di lei crespo, gli occhi infossati, aveva le ossa zigomatiche sporgenti, il naso adunco il mento aguzzo e prominente, il colorito terreo, tutto insomma contribuiva a renderla orribile, mostruosa. Stava rannicchiata sotto i suoi abiti, che le servivano di coperta, ma che abiti! una gonnella di cotone una volta a righe bianche e cineree, ora tutta a strappi e rappezzata qua e là con cenci di altro colore; dormiva, emettendo certi rantoli ferini, che accennavano un sonno irrequieto, forse rotto da sogni paurosi, turbato da reminiscenze o da previsioni dolorose. Chi era? Lessi il nome di lei sul registro della locanda; era una bergamasca, sensale di nutrici (marosséra), non aveva nè casa, nè tetto; quei suoi cenci erano l'unico suo avere; quale vita avesse fin qui condotta, quale quella che le era riserbata tutto era oscuro intorno a lei; non s'era mai distinta nel male, forse aveva fatto anche un po' di bene a questo mondo, ma siccome di quello non si era accorta l'autorità, e di questo nessuno è incaricato di tener calcolo, così quella donna uscì dall'ignoto passato, viveva ignoto il presente, per rientrare nell'ignoto, come i miliardi d'atomi umani che sono dannati a pullulare e sparire sulla crosta di questo povero globo. Eppure quella femminuccia sarà stata un giorno un'innocente bambina, avrà avuto un padre o almeno una madre che l'avranno amata; giovinetta simpatica, se non avvenente, avrà vagato sui colli verdeggianti del bergamasco, avrà destato qualche passione, qualche affetto, o forse per sua sventura qualche capriccio; poi caduta, reietta, disprezzata, calò alla città per nascondere la propria colpa e per trovare i mezzi di trascinare la sua miserabile esistenza; eppure anch'essa ne' suoi sogni di vergine avrà desiderato uno sposo, una casa, de' figliuoli, nei quali rivivere, avrà precorso l'avvenire colla facile immaginazione giovanile e l'avrà fantasticato assai diverso di quello ch'esser doveva per lei, avrà sognato una vita di tranquillità, di pace, d'amore una vecchiezza onorata, rispettata, nè avrebbe mai più pensato di dover passare le sue notti aggirandosi di locanda in locanda, sola nel mondo, cenciosa, esosa agli altri ed a sè stessa, tale infine da non destar altro sentimento che dì compassione misto tuttavia a schifo e ribrezzo. Vedi in questa stanzaccia quattro altri sacconi ravvicinati e su di essi cinque uomini, uno di questi affatto nudo; i suoi abiti penzolano dalla parete e consistono in una camicia e in un paio di calzoni. Dalla prima alla seconda stanza s'accede per un'apertura non munita munita di uscio; anche qui pareti sgretolate e umide; trave che divide in due campi il soffitto; correnti, correntini, una scala a piuoli, attaccata lungo la parete; dei cesti sulla soffitta un'accetta, una falce, dei cenci distesi sopra una corda, ecco l' aspetto della stanza. Una finestruola semi-aperta lascia penetrare un filo d' aria che alita sulla fronte di due donne di mezza età che dormono, sopra un lettuccio posto sotto la finestra; la padrona della locanda giace in un letto vicino alla parete, che divide la seconda dalla prima stanza; essa s'è rizzata a sedere sul letto, ha nelle mani un candelliere di legno contenente un moccolo di sego acceso, augura la buona notte alle mie guide, che tosto riconosce ed alle quali dice che nulla v'è di nuovo, cioè degno di essere notato. Tuttavia diamo uno sguardo alle undici persone che là dentro dormono: sola cosa che merita d'essere osservata è una famiglia di saltimbanchi. Sopra una tavola giaciono un uomo e una donna, e al di sotto della tavola, stesi sopra un po' di paglia, un ragazzino ed una ragazzina. I due piccini sono vestiti di maglia incarnatina con nastri di lustrini; sono belli, dormono tranquilli, hanno un non so che di angelico che fa uno strano contrasto colla luridezza e col laidume circostanti. Notisi che l'uomo non è il marito di quella donna, che questa non è la madre dei due fanciulli, e che questi non sono fratelli e sorella, e che nessuno dei due, è figlio nè di quell'uomo nè di quella donna, a cui si sono associati. Questi quattro esseri si trovarono nel mondo, s'accomunarono e però la loro famiglia è più che altro una società anonima, tendente ad impedire che uno di loro muoia digiuno. L'emissione delle azioni è a zero, non hanno spese d'amministrazione, riscuotono e spendono quotidianamente i loro dividendi ed esercitano ogni industria. Per loro tutti i generi sono buoni, eccetto quello che lascia un uomo morir di farne. Torniamo nella prima stanza, ma prima di abbandonare questa locanda ficchiamo lo sguardo nella stamberga a mano destra. Anche qui buio e fetore. È un sottoscala e vi stanno tre uomini, due dormono sopra una coperta di lana ed uno sulla nuda terra. Accendiamo un fiammifero e vediamo che uno tiene appoggiata la testa sull' avambraccio, fa coll'altra mano visiera agli occhi e sogguarda. Viene interrogato e risponde essere un facchino che viene dalla Valtellina e va a Genova. Il vicino si desta anch'esso, viene interrogato, è un suonatore d'organetto; è di Magadino e va a Corno. Non si conoscono, nè conoscono il loro terzo camerata che è un fruttivendolo di Monluè. Torniamo a scavalcare il saccone, eccoci nel cortile illuminato dal più bel chiarore di luna, che mai possa desiderare un poeta arcadico.. Ripassiamo l'andito, usciamo dallo sportello, eccoci in via Arena, tranquilla, silente, illuminata direi quasi gaiamente dalla luna. Respiro tre o quattro volle a pieni polmoni, mi pare di rivivere, la mia guida cortese mi domanda: - Che le pare? - Non lo avrei creduto, se quanto vidi me lo avesse narrato chiunque, fosse pure la persona più rispettabile del mondo. - Che lezzo, che schifo, che sudiciume! - Ebbene, pensi che queste locande erano assai peggiori negli anni andati. - È impossibile imaginarsi di peggio. Anzi, ripensandoci, mi pare d'aver detto una ridicolaggine marchiana, quando manifestai l'idea di passare la notte in una di codeste locande, nel caso non avessi potuto trovare altro mezzo per poterla visitare. - Creda che questa poveraglia sta di gran lunga meglio in prigione. Questo è appunto ciò che mi riserbo di vedere. Haec olim. . . otto anni or sono. Vediamo ora alcune delle locande più famose oggi esistenti. Siccome tutto muta in questo maledetto mondo sublunare dovevano quindi mutare anche le locande di Milano. Ed invero di qualche poco hanno mutato. Le mie notizie sono recentissime. Eccone la data: 27 e 29 giugno 1882. Nè le mie notizie potranno essere da alcuno smentite. Quanto narro , io stesso ho potuto vedere, grazie alla cortesia delle autorità di pubblica sicurezza. I 96 locandieri del 1874 hanno disseminato degli allievi ed oggi 153 sono gli affittaletti con licenza debitamente iscritti sui registri della questura. La locanda mantiene abbondantemente molti insetti parassiti, pulci, cimici, pidocchi, blatte, e .... i locandieri. Questi sono miserabili che trovano modo di vivere della miseria altrui. Non descriverò locanda per locanda, perchè mi vincerebbe lo schifo; non citerò i nomi degli affittaletti e i numeri delle loro locande, perchè mi parrebbe di commettere una mala azione, le mie accuse saranno generiche, ma perchè vere, dovranno indurre l'autorità a prendere in proposito qualche provvedimento. In questi giorni, o per parlare più esattamente in queste notti, ho rivisitate alcune locande da me già studiate nel 1874 e ne ho vedute parecchie di nuove. I campi delle mie esplorazioni furono il Corso Garibaldi, la Via Anfiteatro, la Via Vetraschi, la Via Pioppette, la Via Fabbri, la Via Vittoria, la Via Scaldasole, la Via Arena. Locande orribili! Scene nauseanti In una locanda di Via Anfiteatro non abbiamo potuto penetrare pel contegno ostile del proprietario. Ma da esatte informazioni da noi raccolte, possiamo dire che in quella notte, che noi volevamo visitare quella locanda, essa era piena di prostitute e di pregiudicati, pei quali il proprietario ha dei delicatissimi riguardi. Il cancello che chiude l'imboccatura della scala, la quale conduce ai piani superiori dà una curiosa caratteristica di prigione a quella locanda. E il fetore delle latrine e del mondezzaio si fa sentire con tanta prepotenza anche da chi si ferma soltanto nel cortile, che si può dire essere questa locanda una succursale della ditta Colera-morbus e compagni Ed ora tiriamo di lungo. Nelle locande ho dovuto notare un miglioramento. In nessuna di quelle da me or ora visitate si dorme o sulla paglia o sopra un saccone posto sul suolo. I pagliericci sono tutti collocati sopra lettucci o sopra cavalletti, il che non era ancora nel 1874. Si è quindi progredito ma piuttosto nella apparenza che nella realtà. E per vero dire mancano di finestre moltissime stanze e in ciascuna d'esse vi sono troppi letti e vi dorme un numero soverchio di persone, cosicchè queste non hanno aria respirabile sufficiente. Un fetore orribile è dovunque. Raramente si trovano letti forniti di lenzuoli,e dove questi vi sono, sembrano cotti in broda di fagiuoli, come quelli di cui parla il Berni nel Capitolo al Fracastoro. Dormono due o più persone in un letto, e promiscuamente abbiamo veduto ancora dormire uomini e donne; anzi in una locanda in Via Fabbri abbiamo trovato un uomo, che giaceva in compagnia di due donne. A cagione del caldo soffocante tutti dormono nudi, sicchè entrando in uno di questi covili con un lume acceso, si vedono risvegliarsi e muoversi lentamente e quasi inconsapevolmente e quella confusione di membra contorcentisi ne dà l'imagine di un gigantesco lombricaio. In Via Scaldasole abbiamo trovato cinque uomini coricati in un piccolo andito dal soffitto inclinato e rivelante l'ossatura delle travi reggenti il tetto. Un uomo non vi può stare in piedi ritto, e bisogna cammini curvo per non dar di capo nelle travi. V'era una finestretta sola ed era aperta, ma l'aria vi portava dentro l'ammorbante puzzo di una latrina e di un magazzino di galline e di capponi. Quella casa appartiene ad un pollivendolo, il quale ha certo più cura della salute de' suoi polli che non di quella de'suoi inquilini. In una locanda in Via Pioppette da' miei compagni di escursione furono riconosciuti tra gli alloggiati ben nove tra ammoniti e sorvegliati. Ora se tre bastano a comporre ciò che in gergo legale si chiama un'Associazione di malfattori, quivi c'era triplicata e coloro, che la miseria e il bisogno di riposo involontariamente aveva associati, erano della specie più pericolosa. Ma dormivano, ed un vecchio proverbio dice: Chi dorme non pecca. Tralasciamo di descrivere le scene poco edificanti, sulle quali c'è caduto lo sguardo in queste nostre visite. Non scriviamo a provocare la corruzione, ma ad eccitare in chi può e in chi deve il desiderio e la volontà di porre rimedio a questi orrori. I quali non sono del resto più deplorevoli di quelli che riscontransi in tutte le grandi città e che anche noi abbiamo avuto occasione di vedere in Parigi. Ma siccome parlando della capitale della Francia, della capitale del mondo, si potrebbe credere, che uno stolto chauvinisme ci inducesse a sparlarne, così a dare valore al nostro dire ci gioveremo dell'autorità di uomini, che hanno parlato per vero dire, non per odio d'altrui nè per disprezzo

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CENERE

663041
Deledda, Grazia 1 occorrenze

Il cielo si abbassa ... si abbassa sempre più ... Avrei sonno? Bisogna ch'io vada subito». Pioveva dirottamente. Anche il Daga sonnecchiava sul suo lettuccio, al di là del paravento. «Battista», disse Anania, sollevandosi, col gomito sul guanciale, «tu non esci?» «No.» «Mi presti il tuo ombrello?» Sperava che il compagno gli chiedesse dove voleva andare, con quel tempo orribile, ma il Daga disse: «Non potresti farmi il piacere di comprartene uno?» Anania sedette sul letto, rivolto al paravento, e mormorò: «Devo andare in questura ... ». E sperò ancora che una voce fraterna gli chiedesse il suo segreto ... Ecco, egli palpitava già pensando come cominciare ... Ma attraverso il paravento una voce beffarda chiese: «Vai a far arrestare la pioggia?». Il segreto gli ripiombò sul cuore, più amaro e grave di prima. Ah, non un paravento, ma una muraglia insuperabile lo divideva dalla confidenza e dalla carità del prossimo. Non doveva chiedere né aspettare aiuto da nessuno; doveva bastare a se stesso. S'alzò, si pettinò accuratamente e cercò nel cassetto la sua fede di nascita. «Prendilo pure, l'ombrello. Ma perché vai?», chiese l'altro, sbadigliando. Egli non rispose. Sulle scale buie si fermò un momento, ascoltando lo scroscio sonoro dell'acqua sull'invetriata del tetto: pareva il rombo d'una cascata, che dovesse di momento in momento precipitarsi entro la casa, già inondata dal fragore dell'imminente rovina. Una tristezza mortale gli strinse il cuore. Uscì e vagò lungamente per le strade lavate dalla pioggia: salì su per una viuzza deserta, passò sotto un arco nero, guardò con infinita tristezza i chiaroscuri umidi di certi interni, di certe piccole botteghe, nella cui penombra si disegnavano pallide figure di donne, di uomini volgari, di bimbi sudici: antri ove i carbonari assumevano aspetti diabolici, dove i cestini di erbaggi e di frutta imputridivano nell'oscurità fangosa, ed il fabbro e il ciabattino e la stiratrice si consumavano nei lavori forzati, in un luogo di pena più triste della galera stessa. Anania guardava: ricordava la catapecchia della vedova di Fonni, la casa del mugnaio, il molino, il misero vicinato e le melanconiche figure che lo animavano; e gli pareva d'esser condannato a viver sempre in luoghi di tristezza e tra immagini di dolore. Dopo un lungo ed inutile vagabondare rientrò a casa e si mise a scrivere a Margherita. «Sono mortalmente triste: ho sull'anima un peso che mi opprime e mi schiaccia. Da molti anni io volevo dirti ciò che ti scrivo adesso, in questo triste giorno di pioggia e di melanconia. Non so come tu accoglierai la rivelazione che sto per farti; ma qualunque cosa tu possa pensare, Margherita, non dimenticare che io sono trascinato da una fatalità inesorabile, da un dovere che è più terribile d'un delitto ... » Arrivato alla parola «delitto» si fermò e rilesse la lettera incominciata. Poi riprese la penna, ma non poté tracciare altra parola, vinto da un gelo improvviso. Chi era Margherita? Chi era lui? Chi era quella donna? Cosa era la vita? Ecco che le stupide domande ricominciavano. Guardò lungamente i vetri, il filo di ferro, gli anellini ed i lacci bagnati e saltellanti su uno sfondo giallastro, e pensò: «Se mi suicidassi?», Lacerò lentamente la lettera, prima in lunghe striscie, poi in quadrettini che dispose in colonna, e tornò a fissare i vetri, il filo di ferro, i laccetti che parevano marionette. Rimase così finché la pioggia cessò, finché il compagno lo invitò ad uscire. Il cielo si rasserenava; nell'aria molle vibravano i rumori della città rianimatasi, e l'arcobaleno s'incurvava, meravigliosa cornice, sul quadro umido del Foro Romano. Al solito, i due compagni salirono per Via Nazionale e il Daga si fermò a guardare i giornali davanti al Garroni, mentre Anania proseguiva distratto, andando incontro ad una fila ciangottante di chierici rossi, uno dei quali lo urtò lievemente. Allora egli parve destarsi da un sogno, si fermò e aspettò il compagno, mentre i chierici s'allontanavano, e il riflesso dei loro abiti scarlatti dava uno splendore sanguigno al lastrico bagnato. «Nella mia infanzia ho conosciuto il figliuolino d'un bandito famoso; il bimbo era già arso da passioni selvaggie, e si proponeva di vendicare suo padre. Ora invece ho saputo che si è fatto frate. Come tu spieghi questo fatto?», domandò Anania. «Quell'individuo è pazzo!», rispose il Daga con indifferenza. «Ebbene, no!», riprese Anania animandosi. «Noi spieghiamo o vogliamo spiegare molti misteri psicologici, dando il titolo di matto all'individuo che ne è soggetto.» «Per lo meno, però, è un monomaniaco. D'altronde anche la pazzia è un mistero psicologico complicato; un albero il cui ramo più potente è la monomania.» «Ebbene, ammetto. Ma l'individuo in questione aveva la monomania del banditismo; aggiungi, monomania atavica. Facendosi frate egli, sebbene uomo quasi primitivo, ha voluto liberarsi dal suo male ... » «E finirà con l'impazzire davvero, quel frate. Un uomo cosciente, colto dal malanno di un'idea fissa qualunque, deve liberarsene secondandola.» «Tu forse hai ragione», disse Anania, pensieroso. E non parlò più finché non arrivarono all'angolo di Via Agostino Depretis. Allora disse, svoltando strada: «Voglio prendere ... mi hanno incaricato di prendere l'indirizzo di una persona ... Devo andare in questura». Il compagno lo seguì, curioso. «Chi è questa persona? Chi ti ha incaricato? È del tuo paese?» Ma Anania non si spiegava. Arrivati davanti a Santa Maria Maggiore il Daga dichiarò che non sarebbe andato oltre. «Allora aspettami qui», disse Anania, senza fermarsi, «ti dirò poi ... » Messo in curiosità il Daga lo seguì per un tratto, poi lo aspettò sulla gradinata della chiesa. «Il dado è gettato?» chiese con enfasi, quando Anania ricomparve. Ma nonostante le sue domande e i suoi scherzi non riuscì a sapere che cosa il suo compagno era andato a fare in questura. Appoggiato al muro Anania guardava l'orizzonte e ricordava la sera in cui, bambino, era salito sulle falde del Gennargentu ed aveva veduto un pauroso cielo tutto rosso, animato da spiriti invisibili. Anche adesso sentiva un mistero aleggiargli intorno, e la città gli sembrava una foresta di pietra attraversata da fiumi pericolosi, e sentiva paura. III. Sì, come si legge nelle vecchie storie romantiche, il dado era gettato. La questura, dopo la domanda e le indicazioni di Anania, fece ricerca di Rosalia Derios, e verso la fine di marzo informò lo studente che al numero tale di Via del Seminario, all'ultimo piano, abitava una donna sarda, affitta-camere, il cui passato e i connotati corrispondevano a quelli di Olì. Questa signora si chiamava, o si faceva chiamare, Maria Obinu, nativa di Nuoro. Abitava in Roma da quattordici anni, e nei primi tempi aveva vissuto un po' irregolarmente. Da qualche anno, però, menava vita onesta - almeno in apparenza - affittando camere mobiliate e facendo pensione. Anania non si commosse troppo nel ricevere queste informazioni. I connotati combinavano; egli non ricordava precisamente la fisonomia di sua madre, ma ricordava che ella era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari: e la Obinu era alta, coi capelli neri e gli occhi chiari. Inoltre egli sapeva che a Nuoro non esisteva alcuna famiglia Obinu, e che nessuna donna nuorese viveva e affittava camere a Roma. Evidentemente quindi la Obinu falsava il suo nome e la sua origine ... Tuttavia egli sentì che la donna indicatagli dalla questura non era, non poteva essere sua madre; questa non viveva a Roma dal momento che la questura non riusciva a scoprirla. Dopo giorni e mesi di attesa e di ansia, egli provò come un senso di liberazione. La primavera penetrava anche nel cortile melanconico di Piazza della Consolazione, in quell'enorme pozzo giallo esalante odori di vivande, animato dal canto delle serve e dal gorgheggio dei canarini prigionieri. L'aria era tiepida e dolce; sul cielo azzurro passavano nuvolette rosee, e il vento portava fragranze di rose e di viole. Affacciato alla finestra, Anania si abbandonava ai suoi sogni nostalgici. L'odore delle viole, le nuvole rosee, il tepore della primavera, tutto gli ricordava la terra natìa, i vasti orizzonti, le nuvole che dalla finestra della sua cameretta egli vedeva affacciarsi o tramontare fra gli elci dell'Orthobene. Poi ricordava la pineta di monte Urpino, il silenzio delle cime coperte d'asfodeli e di iris violette, il mistero dei viali vigilati dal puro sguardo delle stelle. E la figura diletta di Margherita dominava i freschi paesaggi natii, circondata di asfodeli e di gigli selvatici, coi capelli di rame sfumati nel fulgore del cielo metallico. La primavera romana non lo commoveva che per le rimembranze: gli sembrava una primavera artificiale, troppo ardente e luminosa, troppo abbondante di fiori e di profumi. Piazza di Spagna, ornata come un altare, con la scalinata coperta di petali di rose mosse dalla brezza, il Pincio con gli alberi avvolti di fiori violacei, le vie profumate dai cestini di narcisi e di ranuncoli che le fioraie, ferme sull'orlo dei marciapiedi, offrivano ai passanti, - tutta questa ostentazione, tutto questo mercato della primavera, dava allo studente l'idea di una festa banale, che a lungo andare rattristava e disgustava. La primavera palpitava al di là dell'orizzonte; giovinetta selvaggia e pura ella scorrazzava attraverso le tancas coperte d'erbe alte aromatiche, e cantava con gli uccelli palustri in riva ai torrenti, e scherzava coi mufloni e con le lepri, fra i ciclamini, sotto le immense quercie sacre ai vecchi pastori della Barbagia, e si addormentava all'ombra delle roccie fiorite di musco, nei voluttuosi meriggi, mentre intorno al suo letto di felci e di pervinche gli insetti dorati ronzavano amandosi, e le api suggevano le rose canine estraendone il miele amaro; amaro e dolce come l'anima sarda. Anania amava e viveva in questa primavera lontana; seduto accanto alla finestra guardava le nuvolette rosee, e s'immaginava di essere un prigioniero innamorato. Una sonnolenza piacevole gli velava lo spirito, togliendogli la forza e la volontà di pensare a determinate cose. Le idee venivano e passavano nella sua mente, - così come le persone passano per la via; lo interessavano per un attimo, ma non si fermavano ed egli le dimenticava subito. Più che mai amava la solitudine; e persino la presenza del compagno lo irritava, anche perché il Daga lo derideva continuamente. «Noi vediamo la vita sotto aspetti ben diversi», gli diceva, «cioè io la vedo e tu non la vedi. Io sono miope e vedo, attraverso lenti fortissime, le cose e le umane vicende, nitidamente, rimpicciolite; tu sei miope e non possiedi neppure un paio d'occhiali.» Talvolta infatti pareva ad Anania di aver un velo davanti agli occhi; egli viveva di diffidenza e di dolore. Anche la sua passione per Margherita, in fondo, era composta di tristezza e di paura. Un giorno, agli ultimi di maggio, egli sorprese il compagno stretto in tenero amplesso con la maggiore delle padroncine. «Sei un bruto», gli disse con disprezzo. «Non amoreggi anche con l'altra sorella? Perché ti burli di entrambe?» «Scusami, stupido: son loro che vengono a buttarmisi fra le braccia, le posso respingere?», chiese cinicamente il Daga. «Poiché il mondo è diventato un gambero, profittiamone. Ora son le donne che seducono gli uomini; ed io sarei più stupido di te se non mi lasciassi sedurre ... fino ad un certo punto ... » «Ma perché certe cose non accadono che a certi tipi? A me no, per esempio.» «Perché agli asini non può succedere ciò che succede agli uomini: eppoi le nostre soavi padroncine hanno, in fondo, l'onesto desiderio di trovarsi un marito e sanno che tu sei fidanzato.» «Io fidanzato? ... », gridò Anania, «chi lo ha detto?» «Chi lo sa? E di una Margherita, anche, che questa volta, meno male, va gettata ante asinos.» «Ti proibisco di ripetere quel nome!», proruppe Anania, andando addosso al Daga. «Capisci, te lo proibisco!» «Abbassa le dita, ché mi cavi gli occhi! Il tuo amore è feroce!» Fremente di collera Anania si mise a impacchettare i suoi libri e le sue carte. «Ah», diceva, a denti stretti, «me ne vado subito, subito. Io non so vivere fra gente curiosa e volgare.» «Addio, dunque!», disse Battista, gettandosi sul letto. «Ricordati almeno che nei primi giorni che siamo giunti, se non c'ero io rimanevi vilmente schiacciato da una carrozza.» Anania uscì, col cuore gonfio di fiele: si diresse automaticamente verso il Corso, e quasi senza avvedersene si trovò in Via del Seminario. Era un pomeriggio ardente; lo scirocco sbatteva le tende dei negozi: l'aria odorava di vernici, di droghe e di vivande. Anania sentiva i suoi nervi fremere come corde metalliche. In Via del Seminario passò in mezzo a uno stormo di chierici e di preti dalle mantelline svolazzanti e mormorò dispettosamente: «Corvi!», A un tratto, accanto a una piccola porta che dava su un andito buio, egli vide un numero, il numero della casa ove abitava Maria Obinu. Entrò, salì all'ultimo piano e suonò. Una donna alta e pallida, vestita di nero, aprì: egli si turbò, sembrandogli di aver veduto altra volta i grandi occhi verdastri di lei. «La signora Obinu?» «Sono io», rispose la donna con voce grave, «No», egli pensò, «non è lei; non è la sua voce.» Entrò. La Obinu gli fece attraversare un piccolo vestibolo buio e lo introdusse in un salottino grigio e triste; egli si guardò attorno, vide una testa di cervo e una pelle di muflone attaccate al muro, e immediatamente sentì i suoi dubbi rinascere. «Vorrei una camera; io sono sardo, studente», disse, esaminando la donna da capo a piedi. Ella era pallida e scarna, col collo lungo, il naso affilato quasi trasparente; ma i folti capelli neri, pettinati ancora alla sarda, cioè a trecce strette appuntate fortemente sulla nuca, le davano un'aria graziosa. «Lei è sardo? Ho piacere ... », rispose disinvolta. «Adesso non ho camere disponibili, ma se lei può pazientare una quindicina di giorni, ho una signorina inglese che deve partire ... » Egli chiese ed ottenne di veder la camera; il letto stava al centro, fra due cataste di libri vecchi e d'oggetti antichi; entro una vasca di gomma, ancora piena d'acqua insaponata, olezzava un fascio di gaggie; dalla finestra si scorgeva un giardinetto melanconico. Sul tavolino Anania vide, fra gli altri, un volumetto che egli amava con passione dolorosa. Erano i versi di Giovanni Cena: Madre. «Ho bisogno di andar subito via dalla casa dove sto; prenderò questa camera, ma intanto, non potrebbe darmene un'altra, fosse anche un buco? ... » Rientrarono nel salottino, ed egli si fermò a guardare la testa imbalsamata del cervo. «È un ricordo di mio padre, che era cacciatore», disse la donna, sorridendo con bontà. «È di Nuoro, lei?» «Sì, ma sono nata là per caso.» «Anch'io sono nato per caso nel villaggio di Fonni», egli disse, guardandola in viso. «Sì, sono nato a Fonni; mi chiamo Anania Atonzu Derios.» Ella non batté palpebra. «No, non è lei!», egli pensò, e si sentì felice. «Per questi quindici giorni le darò la mia camera», disse finalmente la Obinu, cedendo alle insistenze di lui, ed egli accettò. La cameretta pareva la cella d'una monaca; il lettino candido, odorante di spigo, ricordava i semplici giacigli di certe patriarcali abitazioni sarde. E come in quelle abitazioni, Maria Obinu aveva appeso lungo le pareti grigie della sua camera una fila di quadretti e di immagini sacre; tre ceri, poi, e tre crocefissi, un ramo d'olivo e un rosario che pareva di confetti, pendevano in capo al letto; in un angolo ardeva una lampadina davanti ad una immagine dove le Sante Anime del Purgatorio, tinte di livido da un lapis turchino, pregavano tra fiamme insanguinate da un lapis rosso. Anania prese possesso della camera, e ben presto fu riassalito dai suoi dubbi. Perché la Obinu gli cedeva la sua camera? perché si mostrava così premurosa con lui? Mentre egli metteva a posto i suoi libri, Maria bussò e, senza avanzare, gli domandò se desiderava che la lampadina delle «Sante Anime» venisse spenta. «No», egli rispose con voce forte, «venga avanti, anzi, che le faccio vedere una cosa.» Ella entrò, pallida, sorridente; pareva avesse sempre conosciuto il suo inquilino e gli volesse bene. Egli teneva fra le mani uno strano oggetto, un sacchettino di stoffa unta, attaccato ad una catenina annerita dal tempo. Disse, mettendosi l'amuleto al collo: «Veda, anche io sono devoto, questa è la ricetta di San Giovanni, che allontana le tentazioni.» La donna guardava. Improvvisamente cessò di sorridere, ed Anania sentì il suo cuore battere forte. «Lei non crede a queste cose?», domandò Maria. «Ebbene, se non ci crede, almeno non se ne burli. Sono cose sacrosante.» Steso sul lettino odorante di spigo, Anania pensava continuamente al suo segreto. ... E se Maria Obinu era Olì? Se era lei? Così vicina e così lontana! qual filo misterioso lo aveva condotto fino a lei, fino al guanciale su cui ella doveva qualche volta piangere ricordando il figliuolo abbandonato? Che strana cosa la vita! Egli era dunque giunto così al suo destino, solo per forza di una volontà misteriosa che lo aveva guidato quasi a sua insaputa. Ma non era pazzo, dunque? Che sciocchezze, che puerilità! No, non era lei, non poteva esser lei. Ma se lo era? Se ella già sapeva di essere vicina a suo figlio, mentre egli si dibatteva nel dubbio? No, non poteva essere lei. Una madre non può non tradirsi, non può non gridare nel rivedere suo figlio. Era assurdo. - Sciocchezze, idee convenzionali. Una donna sa dominarsi anche tra le più violente emozioni. Essa, poi, che aveva abbandonato e buttato via la sua creatura! Appunto per questo doveva tradirsi, gridare, sussultare. Una madre è sempre una madre. Eppoi Olì, una selvaggia, una semplice figlia della natura, non poteva aver assimilato la perfidia delle donne di città, tanto da fingere come una commediante, da sapersi dominare così! Impossibile. Era assurdo, Maria Obinu era Maria Obinu, simpatica donna, mite e incosciente, che aveva avuto la fortuna, più che la forza, di emendarsi. Non poteva esser lei. Ma intanto egli ricordava la prima notte passata a Nuoro e il bacio furtivo di suo padre, e di momento in momento aspettava che l'uscio s'aprisse, e un'ombra si avanzasse, nel chiarore della lampadina, e un bacio rivelatore gli sfiorasse la fronte! ... «E se ciò fosse ... che farei io?» si chiedeva trepidando. I rumori della città si affievolivano, s'allontanavano, quasi ritirandosi anch'essi, stanchi, verso un luogo di riposo. Anania sentì rientrare i tardivi inquilini, poi tutto fu silenzio, nella casa, nella via, nella città. Ed egli vegliava ancora! Ah, forse quella lampadina? ... «Ora la spengo ... » Si alzò. Un rumore, un fruscio ... È l'uscio che si apre? Oh, Dio! Egli si gettò nuovamente sul letto, chiuse gli occhi e attese. Il cuore e la gola gli pulsavano febbrilmente. Ma l'uscio rimase chiuso, ed egli si calmò e rise di sé. Però non spense la lampadina.

Demetrio Pianelli

663132
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

"Quando mi vede fuori dei gangheri, abbassa subito le arie, diventa un agnello. Bisogna fare cosí cogli uomini. Non mostrare mai d'aver paura. È perché noi donne non andiamo d'accordo; ma, se ci mettessimo, non sai che in ventiquattro ore cambiamo la legge del mondo?" Beatrice stava a sentire incantata, quasi impaurita di queste famose massime. Il coraggio e lo spirito di Palmira l'intimidivano. Non capiva come vi potessero essere donne cosí temerarie, da tentare la pazienza e le furie di un povero uomo a quel modo. "Scrive che, finita la stagione di quaresima, tornerà in Italia ... Oh, bravo! ... " Palmira agitò nell'aria il foglio e se lo portò alla bocca. "Sí, sí, va bene, ma tu sei troppo ... " provò di nuovo a dire con lento accento di rimprovero la buona Beatrice, che faceva con Palmira la parte del buon Angelo. "Troppo che cosa?" saltò su la Palmira, guardandola cogli occhi socchiusi. "Cara la mia innocentina! non tutte hanno l'arte di spennacchiare la gallina viva senza farla gridare. O che tu sei diversa dalle altre?" "Che cosa credi?" esclamò Beatrice, arrossendo. "Io non voglio saper niente, non sono il tuo confessore. Lasciami vedere se non è giú ancora a far la guardia." Palmira andò a spiare dietro le gelosie socchiuse e guardò a destra e a sinistra. Quando fu certa che Melchisedecco non c'era, stracciò in cento pezzetti la lettera, che seminò per la stanza, e soggiunse: "Vado intanto che ho la furia addosso. Son passata di qui anche per dirti una cosa che ti riguarda. Ieri ho trovato il cavaliere, che mi ha detto di dirti che ha visto l'avvocato, che la causa è a buon punto, che tuo padre ha cento ragioni, che ha bisogno di parlarti." "Davvero?" esclamò Beatrice con un piccolo grido e con un saltino di gioia. "Questa è una bella notizia." "Verrebbe egli da te, ma ha paura di trovare qui quel tuo, come si chiama?.. quel del redingotto. Che cosa fa quella tua bellezza?" "Dove posso trovarlo?" "A casa sua, forse ... Sai dove sta? in via Velasca, nella porta dei bagni. Se ci vai domenica, lo trovi certo. Ci sarà anche l'avvocato ... ." Palmira era già a mezzo della scala, ricacciata dalla furia che l'aveva condotta. Uscí nella via nel momento che passava il tram di Porta Genova. Fece segno colla mano al conduttore, saltò su svelta come una gatta, sedette a sinistra, e trasse il portamonete per pagare. Quando alzò le palpebre si trovò seduta in faccia al signor Melchisedecco Pardi, fabbricante di nastri con ditta al ponte dei Fabbri, che in una posa di Napoleone a Sant'Elena la divorava cogli occhi. Palmira aveva ragione di dire che suo marito le faceva la guardia. Dal giorno che Cesarino Pianelli, o per leggerezza o per vendetta, aveva buttata fuori la prima parolina ironica, il buon Pardone non era stato cogli occhi chiusi. Conosceva le tendenze di sua moglie e non s'illudeva. Egli l'aveva levata da un telaio di nastri col vestito di cotone, coi piedi negli zoccoli; l'aveva sposata, l'aveva vestita di seta, coperta d'oro e l'amava ancora dopo dieci anni di matrimonio, colla forza lenta, costante, vigorosa dei temperamenti linfatici. Palmira non negava mica che il suo Secco fosse buono: anzi in certi momenti guai a toccarglielo! non amava il male in sé, ma per la varietà, colpa dell'argento vivo che aveva indosso e della sua nessuna educazione di famiglia. Il buon Pardone portava pazienza, la compativa fin dove può arrivare un marito. Lasciava che andasse in maschera, che gettasse i coriandoli dal balcone, che ridesse, scherzasse pure cogli uomini; andava anche lui a divertirsi, quando avrebbe preferito dormire nel suo letto. Non rifiutava nemmeno di infilare il frac e di dormire in piedi alle feste da ballo dove Palmira faceva il diavolo ... Ma, ohe! non voleva che la gente dicesse che il signor Pardi dormiva troppo della grossa. Scherzare, fare il diavolo, fin che si vuole: ma il signor Pardi era lui ... Se bisognava, c'erano anche dei buoni pugni ... Queste cose all'incirca scattavano fuori da quel paio d'occhi, con cui cercava di divorare sua moglie, se la signora Palmira avesse avuta la compiacenza di lasciarsi divorare. Egli sapeva che c'era un tenore di mezzo. Lo aveva visto alla festa a far le smorfie del Trovatore a Palmira, e fin qui, pazienza! è il loro mestiere di far le smorfie. Ma egli aveva ogni ragione di credere che tra Barcellona e la via dei Fabbri continuasse una corrispondenza segreta. Una volta sulla scala aveva trovato per caso una fascetta di giornale con un bollo spagnuolo ... o almeno gli parve spagnuolo. Certo non era dei nostri. Seppe poi da un impresario, a cui aveva garantita una cambiale, che il signore "di quella pira" mandava in visibilio gli spagnoli col suo famoso do . Niente di male, era questo il suo mestiere; ma corrispondenze segrete, no, per Dio!, non ne voleva di corrispondenze segrete. Anzi l'amico impresario era incaricato d'avvertirlo nel caso che l'altro passasse da queste parti: piacere per piacere, siamo al mondo per aiutarci. Ma il buon Pardone si fidava ancora piú degli occhi suoi. A tempo perso pedinava la moglie, alla lontana, senza farsi scorgere, e la colse proprio sul punto che usciva dal portone della Posta. Che cosa andava a fare alla Posta la signora Pardi? e non ci sono i portalettere pagati per questo? C'era una lettera, l'aveva vista cogli occhi suoi, c'era ... Doveva essere in una di quelle due tasche. E ingrossava ancora di piú gli occhi, come se volesse guardare sotto i panni. Palmira, rigida, fredda, indifferente, colse il momento che il tram rallentò la corsa per ingombro, si alzò, non aspettò che la carrozza fosse ferma, con un salto andò giú, e infilò subito una via a sinistra, verso casa, mentre il signor Melchisedecco andava sonando e risonando il campanello per farlo fermare. Non era uomo da far salti; del resto non c'era bisogno di correre. Forse era meglio che gli passasse un poco la scalmana ... , ma sentiva che questa volta erano pugni. Non ne voleva di corrispondenze. Per la corrispondenza di fabbrica bastava lui. Palmira capí che il temporale era grosso: affrettò il passo, s'infuriò piú che poté, corse su per la scala, passando in mezzo al frastuono dei duecento telai che lavoravano al primo piano, spinse l'uscio, entrò come una bomba, facendo trasalire la donna di servizio, passò in camera e cominciò a spogliarsi, strappandosi di dosso la roba come se si facesse a brani colle mani e, quando il signor Pardi, con comodo, comparve sull'uscio e cominciò a guardarla ancora con quegli occhioni di bove, non gli lasciò il tempo di aprire la bocca, ma, già quasi mezza svestita e spettinata, attraversò la stanza, trascinandosi dietro la roba, e lo investí con tale uragano di ignominie, che Pardone chiuse gli occhi e si appoggiò colle grosse spalle all'uscio, quasi volesse impedir alla voce di uscire. Il rumore dei duecento telai non riusciva a coprire quella voce irritata di furia francese. Essa gli buttò sul viso un guanto, lasciò cadere e passeggiò sul vestito, lo fulminò senza pietà con quei suoi grandi occhi di carbone, pieni di scintille e di sangue, finché, disfatta quasi dalla sua stessa convulsione, si aggrappò colle braccia nude al collo del suo buon Pardone, rovesciò tutta la testa indietro col gran volume dei capelli lisci e neri sciolti sulle spalle, e sospirò, atteggiandosi a vittima. "Son qui, ammazzami, ma dimmi prima che cosa ti ho fatto. Ammazzami qui, in casa tua, ma non voglio che tu mi faccia delle figure in istrada. Se non vuoi che io esca di casa, legami alla gamba del letto, chiudimi dentro a chiave, ma non rendermi ridicola in faccia alla gente. Sono stufa, stufa, stufa; e se dura un pezzo ancora questa vita, mi butto nel Naviglio. Non sono una stupida per non capire che tu mi vieni dietro ad ogni passo ... Ebbene, parla ... chi è il mio amante?" "Quella lettera…?" chiese il povero uomo, soffiando la sua grossa emozione e tremando in tutto il corpo. "Vedi, come sei stupido? è tutto qui? eccola la famosa lettera. To', leggila, c'è ancora il bollo fresco. È arrivata ieri, guarda ... Modena ... Leggi e guarda come sei imbecille colla tua gelosia." Il buon Melchisedecco voltò e rivoltò la letterina, che Palmira trasse dalla tasca del suo vestito rimasto in terra in mezzo alla stanza. Era una lettera di Eloisa, una cugina, maritata a un tenente di guarnigione a Modena, una lettera di complimenti e di piccole commissioni. Melchisedecco chinò il capo e stette un momento pensoso. Poi, dissimulando la sua incredulità e il suo profondo affanno, soggiunse con un tono raddolcito di tenerezza e d'indulgenza: "Se anche sono un poco geloso, non ti faccio torto. Se mi volessi bene ... ." "E non te ne voglio forse? senti, adesso ... cose da far piangere di rabbia. E non sono sempre qui in casa con te come un cagnolino, a fare i conti dei rocchetti e delle matasse? e quando mi lamento io di questa vita? e non dico sempre che il Signore mi ha voluto bene e che sono stata fortunata? e non conservo forse sempre per memoria l'ultimo paio di zoccoli che ho lasciato ai piedi della scala quella notte che tu mi hai detto che mi volevi bene? Ti ricordi? tua madre non voleva che tu mi sposassi, e noi ci siamo sposati lo stesso ... ti ricordi? quella notte, in quella stessa stanza ... Oh no! non meriti nemmeno che io te ne parli. Allora sí mi volevi bene; ora perché sono diventata vecchia, sono la vespa, la biscia, l'ingrata, l'infame ... Oh, è troppo! io morirò di crepacuore ... ." E la povera Palmira piangeva davvero un fiume torrenziale di lagrime, ingannando quasi sé stessa. Le spalle, il collo, il viso s'infiammarono sotto la violenza di quel piangere dilagato, a cui il buon Melchisedecco non sapeva come porre un argine. Egli mormorò qualche parola, cercò di giustificare ancora una volta piú dolcemente la sua condotta, promise di non farlo piú, docile, mortificato come un bambino, e tornò in fabbrica col corpo rotto dal pentimento. "Mi sarò ingannato" diceva dentro di sé, "ma corrispondenze non ne voglio." Il frastuono dei duecento telai in mezzo ai quali egli cercava un sollievo all'affanno che gli gonfiava il polmone, non valse a rompere nella sua testa lo stampo di quella frase imperativa ch'egli seguitava suo malgrado a ripeter coi denti stretti. Dovette dare degli ordini, scrivere una fattura, ma i denti dopo quasi un'ora vibravano ancora della scossa ricevuta, e della frase rotta e stritolata egli masticava ancora, dopo quasi un'ora, qualche estremo monosillabo. "Non ne voglio io delle ... ."

Malombra

670418
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Non abbassa la fiamma della vita? Ella mi darebbe dei cordiali se mi sentisse il sangue scorrer più lento; qualche sinistro alcool mascherato. Ma se io prendo invece gli spiriti vitali dei fiori, l'aria pura, la conversazione degli uomini sereni come il nostro amico Vezza, degli uomini esperti del dolore come Lei, chi vorrà cens urarmi? Ecco sciolto, signori, l'enigma di questo pranzo, e pranziamo. Lei qua, Vezza, presso a me; e Lei, dottore, lì, alla mia destra." Il pranzo incominciò. I commensali di donna Marina tacevano, gustavano appena delle vivande. Il commendatore deplorava in cuor suo che il pranzo finissimo, servito con eleganza squisita, tra i fiori, da una giovane e bella donna, gli fosse capitato in un momento disadatto e in circostanze tali da non poterlo affatto gustare né con il palato né con lo spirito. E accarezzava la sola idea piacevole che gli sorridesse in mente: raccontar la scena nei salotti di Milano, con arte, a cuore placido. Si guardava cautamente attorno, impar ava a memoria le dracene e le azalee, le cascate di cinerarie e di calceolarie, sbirciava il moire della sua vicina, e per quanto poteva, il giglio bianco nello scudo di velluto. Ma gli occhi curiosi dei fiori schierati sulle gradinate come in un teatro, gli dicevano che lo spettacolo non era finito. Il dottore studiava continuamente Marina, temendo qualche accesso come quello della sera precedente o della notte in cui era entrata la prima volta dal conte. Si teneva pronto, spiava, senza parere, ogni movimento di lei. Egli comprendeva solo adesso l'importanza attribuita da Marina a questo pranzo e si rimproverava di avervi acconsentito. Non poteva difendersi da tristi presentimenti. Il luogo così aperto sul cortile e sul lago gli metteva paura. E gli metteva paura il contegno sempre più inquieto di Mari na, che dopo un cucchiaio di zuppa non aveva mangiato punto. "Che silenzio" diss'ella finalmente. "Mi par d'essere fra le ombre. Somiglio a Proserpina?" "Oh!" rispose il commendatore storditamente. "Lei farebbe risuscitare i morti." Subito gli venne in mente l'uomo sfigurato che giaceva sotto un lenzuolo a pochi passi dalla loggia; gli corse un brivido nelle ossa. "Pure" replicò Marina "i miei ospiti sono lugubri come giudici infernali. Versatemi del Bordeaux" diss'ella al vecchio cameriere che serviva solo, più lugubre ancora dei convitati. "Anche a questi signori." Il cameriere obbedì. Devoto al povero conte da lui servito per ventidue anni, gli pareva d'essere alla tortura. Versava con mano tremante, facendo tintinnare il collo della bottiglia sull'orlo dei calici. "Vi prego di assaggiar questo vino" disse Marina. "Pensatelo, adesso. Non vi trovate un lontano sapore d'Acheronte?" Il commendatore alzò il calice, lo sperò, vi posò ancora le labbra e disse: "Ha qualche cosa d'insolito." "Supponga dunque, commendatore Radamanto" disse Marina con voce commossa, contraendo nervosamente gli angoli della bocca "che per certe mie ragioni io abbia pensato..." Si lasciò cadere sulla spalliera della poltrona, porgendo le labbra, facendo con la mano l'atto di chi butta via sdegnosamente una cosa spregevole. "Sa" diss'ella "questa vita è così vile! Supponga dunque ch'io abbia pensato di aprir la porta e uscire quando muore il sole, in mezzo ai fiori, portando meco alcuni amici di spirito pel caso che il viaggio fosse troppo lungo. Supponga che in quel Bordeaux..." Il Vezza trasalì, guardò il cameriere ritto presso la porta di sinistra, impassibile. "Oh!" esclamò Marina "come mi crede subito!" Si fe' versare dell'altro vino e si recò il calice alla bocca. "Sapore insolito?" diss'ella. "Se è puro, questo Bordeaux, come un'Ave Maria! È stato uno scherzo di Proserpina. - Bevete" proseguì concitata "cavalieri dalla triste figura. Provvedetevi di cuore e di spirito" Il dottore non bevve. Sentiva venire una tempesta. Il Vezza si accostò invece al consiglio di donna Marina e vuotò il suo bicchiere. "Bravo!" diss'ella facendosi pallida. "Si ispiri per una risposta difficile." "Di Proserpina in Sfinge, marchesina?" "In Sfinge, sì, e vicina a diventar di pietra o più fredda ancora! Ma che prima parlerà, dirà tutto. Dunque..." Ell'era andata diventando sempre più pallida. A questo punto un tremito di tutta la persona le spezzò la voce. I due uomini si alzarono in piedi. Ella strinse il coltello, ne ficcò rabbiosamente la punta nel tavolo. "Quieta, quieta" disse il medico pigliandole una mano gelata, piegandosi sopra di lei. Ella si era già vinta, respinse la mano del medico e si alzò. "Aria!" diss'ella. Passò con impeto fra il tavolo suo e quello del dottore, e si slanciò alla balaustrata verso il lago. Il dottore le fu addosso d'un salto per afferrarla, trattenerla. Ma ella si era già voltata e piantava in viso al Vezza due occhi scintillanti. "Dunque" esclamò affrettandosi di parlare, di far dimenticare un momento di debolezza "crede Lei che un'anima umana possa vivere sulla terra più di una volta?" E perché il Vezza, smarrito, sgomento, taceva, gli gridò: "Risponda!" "Ma no, ma no!" diss'egli. "Sì, invece! Lo può!" Nessuno fiatò. Il giardiniere, il cuoco, Fanny, avvertiti dal cameriere, salirono frettolosi le scale per venire ad origliare, a spiare. Il vento era caduto; le onde lente sussurravano a piè dei muri: "Udite! udite!". E nel silenzio vibrò da capo la voce di Marina. "Sessant'anni or sono, il padre di quel morto là" (ell'appuntò l'indice all'ala del Palazzo) "ha chiuso qui dentro come un lupo idrofobo la sua prima moglie, l'ha fatta morire fibra a fibra. Questa donna è tornata dal sepolcro a vendicarsi della maledetta razza che ha comandato qui fino a stanotte!" Teneva gli occhi fissi sulla porta a destra, ch'era aperta perché avean disposto la credenza nella sala vicina. "Marchesina!" le disse il dottore con accento di blando rimprovero. "Ma no! Perché dice queste cose?" In pari tempo le pigliò il braccio sinistro con la sua mano di ferro. "Là c'è gente!" gridò Marina. "Avanti, avanti tutti." Fanny e gli altri fuggirono, per tornar poi subito in punta di piedi a spiare, nascondendosi da lei. Silla venne sulla porla del salotto. Di là non poteva veder Marina, ma la intendeva benissimo. Adesso diceva: "Avanti! egli non viene perché la sa la storia. Ma non la sa tutta, non la sa tutta; bisogna che gli racconti la fine. Tornata dal sepolcro, e questo è il mio banchetto di vittoria!" La voce, subitamente, le si affiochì. Ell'abbracciò la colonna presso cui stava, vi appoggiò la fronte scotendola con veemenza come se volesse cacciarvela dentro, mise un lungo gemito rauco, appassionato, da far gelare il sangue a chi l'udiva. "L'infermiera, la donna di stanotte!" disse forte il medico verso la porta, e si voltò poi a Marina, di cui teneva sempre il braccio. "Andiamo, marchesina" diss'egli dolcemente "ha ragione, ma sia buona, venga via, non dica queste cose che le fanno male." Ell'alzò il viso, si ravviò con la destra i capelli arruffati sulla fronte, trapassando ancora con l'occhio avido la porta e la sala semioscura. Sul suo petto ansante il giglio scendeva e saliva, pareva lottar per aprirsi. La moglie del giardiniere si affacciò alla porta. Ella le accennò violentemente, con il braccio libero, di farsi da banda, e disse al medico parlando più con un gesto che con la voce: "Sì, andiamo via, andiamo nel salotto." "E nella Sua camera non sarebbe meglio?" "No, no, nel salotto. Ma mi lasci!" Ella disse quest'ultime parole in atto così dignitoso e fiero che il dottore obbedì, e si accontentò di seguirla. A lui premeva sopra tutto, in quel momento, allontanarla dalla balaustrata. Marina s'incamminò lentamente, tenendo la mano destra nella tasca dell'abito. Il Vezza e il cameriere la guardarono passare, allibiti. Il dottore che la seguiva, si fermò un momento per dar un ordine all'infermiera. Intanto Marina arrivò alla porta. Fanny, il cuoco e il giardiniere s'erano tirati da banda per lasciarla passare senza esserne visti. In sala le imposte erano chiuse a mezzo e le tende calate. Silla stava sulla soglia del salotto. Vide Marina venire ed ebbe un momento d'incertezza. Non sapeva se farsi avanti o da parte o ritirarsi nel salotto. Ella fece due passi rapidi verso di lui, disse "Oh, buon viaggio" e alzò la mano destra. Un colpo di pistola brillò e tuonò. Silla cadde. Fanny scappò urlando, il dottore saltò in sala, gridò agli uomini - tenerla! - e si precipitò sul caduto. Il Vezza, il cameriere, l'altra donna corsero dentro gridando a veder chi fosse. Il giardiniere e il cuoco vocifera vano, si eccitavano l'un l'altro a trattener Marina, che voltasi indietro, passò in mezzo a tutti, con la pistola fumante in pugno, senza che alcuno osasse toccarle un dito, attraversò la loggia, ne uscì per la porta opposta, la chiuse a chiave dietro di sé. Tutto questo accadde in meno di due minuti. Il giardiniere e il cameriere, vergognandosi di sé irruppero sulla porta, la sfondarono a colpi di spalla. Il corridoio era vuoto. Si fermarono incerti, aspettando un colpo, una palla nel petto, forse. "Avanti, vili!" urlò il dottore slanciandosi in mezzo ad essi. Si fermò nel corridoio, stette in orecchi. Nessun rumore. "Fermi lì, voi" diss'egli e saltò nella camera del conte. Vuota. Le candele vi ardevano quiete. Entrarono, egli nella camera da letto, gli altri due in quella dello stipo. Vuote. Il dottore si cacciò le mani nei capelli, esclamò rabbiosamente: "Maledetti vili!" "In biblioteca!" disse il giardiniere. Saltarono giù per le scale, il dottore primo. Toccato il corridoio, udì un urlìo, distinse la voce del commendatore che gridava: "La barca! la barca!" Corse in loggia, s'affacciò al lago. Marina, sola nella lancia, passava lì sotto, pigliava il lago piegando a levante. Sul sedile di poppa si vedeva la pistola. "Al battello!" disse il dottore. Il Vezza gli gridò dietro: "Per la scaletta segreta!" Scesero per la scaletta segreta. Il dottore cadde e ruzzolò sino al fondo; ma fu tosto in piedi, a tempo di udire una imprecazione del giardiniere che si fermò di botto sulla scala. "Il battello non c'è" diss'egli. "L'ha mandato via col Rico prima di pranzo." "Sarà tornato!" disse il dottore e spinse palpitando l'uscio della darsena. Vuota. Le catene del battello e della lancia pendevano sull'acqua. Fu per stramazzare a terra. Lì vicino, lo sapeva bene, non vi erano altre barche. "Giardiniere!" diss'egli. "Al paese! Una barca e degli uomini." Il giardiniere sparve per la porticina del cortile. "Dio, Dio, Dio!" esclamò il dottore alzando le braccia. Gli altri continuavano a gridare dalla loggia "Presto! Presto!" Ed ecco il giardiniere tornare di corsa. "Occorre anche il prete?" diss'egli. Il dottore gli mise i pugni al viso. "Stupido, non vedi che sono venuto via io?" Colui non capì bene, ma tornò via, e il dottore corse di sopra. Una finestra dell'ultimo piano si aperse, una voce debole domandò: "Cosa c'è? Cos'è accaduto?" Era la Giovanna. Qualcuno rispose dal cortile: "È succeduto che hanno ammazzato il signor Silla." "Oh Madonna Santa!" diss'ella. Si udì il giardiniere gridare da lontano. Altre voci gli rispondevano. Il passo d'un contadino che scendeva a salti suonò sulla scalinata; lo seguì un altro. Venivan curiosi, avvertiti da una scintilla elettrica. Il padrone era morto; entrarono in casa arditamente. De' ragazzi passarono il cancello del cortile, scivolarono in casa essi pure, saliron le scale. Volevano entrare nel salotto, sapevano che l'uomo era là. Ne uscì il dottore entratovi un momento prima. "Via" diss'egli con voce terribile. I ragazzi fuggirono. Quegli parlò a qualcuno ch'era rimasto dentro. "Fino a che non venga il pretore, nessuno!" Poi chiuse l'uscio. Il Vezza e gli altri si strinsero attorno affannati. "Euh?" diss'egli. "Non ve l'ho detto prima? Passato il cuore." Una finestra della sala era stata spalancata. Egli vi accorse e dietro a lui, in silenzio angoscioso, tutti: il Vezza, la gente di servizio, i due contadini. Fu aperta anche l'altra finestra. Saetta era già lontana a capo d'una lunga scia obliqua sul lago quasi tranquillo. Marina si vedeva bene, si vedeva l'interrotto luccicar dei remi. Il Vezza, ch'era miope, disse: "È ferma." Intatti non pareva avanzasse. "No, no" risposero gli altri. Uno dei contadini, soldato in congedo, ch'era salito sopra una sedia per veder meglio, disse: "Con una carabina la butterei giù." Fanny andò via singhiozzando, poi tornò a guardare. "Ma, per Dio, dove va?" esclamò il dottore. Nessuno rispose. Un minuto dopo, il contadino ch'era in piedi sulla sedia, disse: "Va in Val Malombra. È dritta in mira alla valle." Fanny ricominciò a strillare. Il dottore l'abbrancò per un braccio, la trascinò via e le impose di star zitta. "Perché in Val Malombra?" diss'egli. "C'è un sentiero che passa la montagna" rispose l'altro "e mena poi giù sulla strada grossa." "Non si può prenderlo quel sentiero dalla riva di Val Malombra" osservò il secondo contadino. "Si può sì. Basta andar su al Pozzo dell'Acquafonda. È un affare di cinque minuti." "Eccoli!" gridò la moglie del giardiniere. Un battello a quattro remi usciva rapidamente dal seno di R... per gettarsi di fianco sulla lancia. Il dottore si accostò le palme alla bocca, urlò a quella volta: "Presto!" "La prenderanno?" chiese il commendatore. "In acqua, no" si rispose. "La lancia in quattro colpi è a terra: per quelli là ci vogliono dieci minuti." Saetta si avvicinava al piccolo golfo scuro di Val Malombra. Il battello era in faccia al Palazzo. Ad un tratto due uomini lasciarono i remi e saltarono di prora gridando, non s'intendeva che. "Una barca!" esclamò il dottore. "Ferma!" urlò con quanto fiato aveva. "Ferma la lancia!" Poi si volse ai due contadini. "È il pretore. In fondo al giardino voialtri! E gridate!" Urlò ancora, spiccando le sillabe: "Assassinio! Ferma la lancia!" Infatti un'altra barca veniva da levante verso il Palazzo, passava allora a un tiro di fucile da Saetta. Malgrado il vociar disperato dal battello e dal Palazzo, quella barca seguiva sempre, tranquillamente, la sua via. "Non sentono" disse il dottore. "Gridate tutti, per Dio!" Egli stesso fece uno sforzo supremo. Il Vezza, i domestici, le donne gridarono con voce strozzata, impotente: "Ferma la lancia!" La barca veniva sempre avanti. Saetta scomparve.

FIABE E LEGGENDE

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Praga, Emilio 1 occorrenze

è il marmo che si muove, è il macigno da cui sembra svanito il cinico sogghigno, è il Fauno che si abbassa sulla testa di Steno, e par dica : - Per piangere, ora ho un compagno almeno!

Penombre

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Praga, Emilio 1 occorrenze

Oh abbassa il velo, fuggi, e prega il Signore che ti sorrida, e rassereni il cielo!

TAVOLOZZA

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Praga, Emilio 1 occorrenze

la gentil mia rondinella, è una debole, trepida fanciulla, che, sebben come un angelo sia bella, fu senz'ali posata entro la culla; e quando esce di casa a far mazzetti della viola sui margini odorosa, e a sospirar nei placidi boschetti il dì che intrecci ghirlanda di sposa: non vola, no, libera in mezzo al cielo, ma preme il suolo, e a colmo di sventura, la madre ha accanto che le abbassa il velo, e la dilunga ognor dalle mie mura.

Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa il voto: sbagliare era come quando si va su roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto. La ragazza del laboratorio si chiamava Alida. Assisteva ai miei entusiasmi di neofita senza condividerli; ne era anzi sorpresa e un po' urtata. La sua presenza non era sgradevole. Veniva dal liceo, citava Pindaro e Saffo, era figlia di un gerarchetto locale del tutto innocuo, era furba ed infingarda, e non le importava nulla di nulla, e meno che mai dell' analisi della roccia, che dal Tenente aveva imparato meccanicamente ad eseguire. Anche lei, come tutti lassù, aveva interagito con varie persone, e non ne faceva alcun mistero con me, grazie a quella mia curiosa virtù confessoria a cui ho accennato prima. Aveva litigato con molte donne per vaghe rivalità, si era innamorata un poco di molti, molto di uno, ed era fidanzata di un altro ancora, un brav' uomo grigio e dimesso, impiegato all' Ufficio Tecnico, suo compaesano, che i suoi avevano scelto per lei; anche di questo non le importava nulla. Che farci? Ribellarsi? Andarsene? No, era una ragazza di buona famiglia, il suo avvenire erano i figli e i fornelli, Saffo e Pindaro cose del passato, il nichel un astruso riempitivo. Lavoricchiava in laboratorio in attesa di quelle nozze così poco agognate, lavava svogliatamente i precipitati, pesava la nichel-dimetilgliossima, e mi ci volle impegno per farla persuasa che non era opportuno maggiorare il risultato delle analisi: cosa che lei tendeva a fare, anzi mi confessò di aver fatto sovente, perché, diceva, tanto non costava niente a nessuno, e faceva piacere al Direttore, al Tenente e a me. Che cos' era poi, alla fine dei conti, quella chimica su cui il Tenente ed io ci arrovellavamo? Acqua e fuoco, nient' altro, come in cucina. Una cucina meno appetitosa, ecco: con odori penetranti o disgustosi invece di quelli domestici; se no, anche lì il grembiulone, mescolare, scottarsi le mani, rigovernare alla fine della giornata. Niente scampo per Alida. Ascoltava con devozione compunta, ed insieme con scetticismo italiano, i miei resoconti di vita torinese: erano resoconti assai censurati, perché sia lei, sia io, dovevamo pure stare al gioco del mio anonimato, tuttavia qualcosa non poteva non emergere: se non altro, dalle mie stesse reticenze. Dopo qualche settimana mi accorsi che non ero più un senza nome: ero un Dott. Levi che non doveva essere chiamato Levi, né alla seconda né alla terza persona, per buona creanza, per non far nascere imbrogli. Nell' atmosfera pettegola e tollerante delle Cave, lo sfasamento fra la mia indeterminata condizione di fuoricasta e la mia visibile mitezza di costumi saltava agli occhi, e, mi confessò Alida, veniva lungamente commentata e variamente interpretata: dall' agente dell' Ovra al raccomandato d' alto livello. Scendere a valle era scomodo, e per me anche poco prudente; poiché non potevo frequentare nessuno, le mie sere alle Cave erano interminabili. Qualche volta mi fermavo in laboratorio oltre l' ora della sirena, o ci ritornavo dopo cena a studiare, o a meditare sul problema del nichel; altre volte mi chiudevo a leggere le Storie di Giacobbe nella mia cameretta monastica del Sottomarino. Nelle sere di luna facevo sovente lunghe camminate solitarie attraverso la contrada selvaggia delle Cave, su fino al ciglio del cratere, o a mezza costa sul dorso grigio e rotto della discarica, corso da misteriosi brividi e scricchiolii, come se veramente ci si annidassero gli gnomi indaffarati: il buio era punteggiato da lontani ululati di cani nel fondo invisibile della valle. Questi vagabondaggi mi concedevano una tregua alla consapevolezza funesta di mio padre morente a Torino, degli americani disfatti a Bataan, dei tedeschi vincitori in Crimea, ed insomma della trappola aperta, che stava per scattare: facevano nascere in me un legame nuovo, più sincero della retorica della natura imparata a scuola, con quei rovi e quelle pietre che erano la mia isola e la mia libertà, una libertà che forse presto avrei perduta. Per quella roccia senza pace provavo un affetto fragile e precario: con essa avevo contratto un duplice legame, prima nelle imprese con Sandro, poi qui, tentandola come chimico per strapparle il tesoro. Da questo amore pietroso, e da queste solitudini d' amianto, in altre di quelle lunghe sere nacquero due racconti di isole e di libertà, i primi che mi venisse in animo di scrivere dopo il tormento dei componimenti in liceo: uno fantasticava di un mio remoto precursore, cacciatore di piombo anziché di nichel; l' altro, ambiguo e mercuriale, lo avevo ricavato da un cenno all' isola di Tristan da Cunha che mi era capitato sott' occhio in quel periodo. Il Tenente, che prestava servizio militare a Torino, saliva alle Cave solo un giorno alla settimana. Controllava il mio lavoro, mi dava indicazioni e consigli per la settimana seguente, e si rivelò un ottimo chimico ed un ricercatore tenace ed acuto. Dopo un breve periodo orientativo, accanto alla routine delle analisi quotidiane si andò delineando un lavoro di volo più alto. Nella roccia delle Cave c' era dunque il nichel: assai poco, dalle nostre analisi risultava un contenuto medio dello 0,2 per cento. Risibile, in confronto ai minerali sfruttati dai miei colleghi-rivali antipodi in Canadà e in Nuova Caledonia. Ma forse il greggio poteva essere arricchito? Sotto la guida del Tenente, provai tutto il provabile: separazioni magnetiche, per flottazione, per levigazione, per stacciatura, con liquidi pesanti, col piano a scosse. Non approdai a nulla: non si concentrava nulla, in tutte le frazioni ottenute la percentuale di nichel rimaneva ostinatamente quella originale. La natura non ci aiutava: concludemmo che il nichel accompagnava il ferro bivalente, lo sostituiva come un vicario, lo seguiva come un' ombra evanescente, un minuscolo fratello: 0,2 per cento di nichel, . per cento di ferro. Tutti i reattivi d' attacco pensabili per il nichel avrebbero dovuto essere impiegati in dose quaranta volte superiore, anche a non tener conto del magnesio. Un' impresa economicamente disperata. Nei momenti di stanchezza, percepivo la roccia che mi circondava, il serpentino verde delle Prealpi, in tutta la sua durezza siderale, nemica, estranea: al confronto, gli alberi della valle, ormai già vestiti di primavera, erano come noi, gente anche loro, che non parla, ma sente il caldo e il gelo, gode e soffre, nasce e muore, spande polline nel vento, segue oscuramente il sole nel suo giro. La pietra no: non accoglie energia in sé, è spenta fin dai primordi, pura passività ostile; una fortezza massiccia che dovevo smantellare bastione dopo bastione per mettere le mani sul folletto nascosto, sul capriccioso nichel-Nicolao che salta ora qui ora là, elusivo e maligno, colle lunghe orecchie tese, sempre attento a fuggire davanti ai colpi del piccone indagatore, per lasciarti con un palmo di naso. Ma non è più tempo di folletti, di niccoli e di coboldi. Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono "le due esperienze della vita adulta" di cui parlava Pavese, il successo e l' insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all' intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo. I miei colloqui settimanali col Tenente sembravano piani di guerra. Fra i molti tentativi che avevamo fatti, c' era anche stato quello di ridurre la roccia con idrogeno. Avevamo disposto il minerale, finemente macinato, in una navicella di porcellana, questa in un tubo di quarzo, e nel tubo, riscaldato dall' esterno, avevamo fatto passare una corrente d' idrogeno, nella speranza che quest' ultimo strappasse l' ossigeno legato al nichel e lo lasciasse ridotto, cioè nudo, allo stato metallico. Il nichel metallico come il ferro, è magnetico, e quindi, in questa ipotesi, sarebbe stato facile separarlo dal resto, solo o col ferro, semplicemente per mezzo di una calamita. Ma, dopo il trattamento, avevamo dibattuto invano una potente calamita nella sospensione acquosa della nostra polvere: non ne avevamo ricavato che una traccia di ferro. Chiaro e triste: l' idrogeno, in quelle condizioni, non riduceva nulla; il nichel, insieme col ferro, doveva essere incastrato stabilmente nella struttura del serpentino, ben legato alla silice ed all' acqua, contento (per così dire) del suo stato ed alieno dall' assumerne un altro. Ma se si provasse a sgangherare quella struttura? L' idea mi venne come si accende una lampada, un giorno in cui mi capitò casualmente fra le mani un vecchio diagramma tutto impolverato, opera di qualche mio ignoto predecessore; riportava la perdita di peso dell' amianto delle Cave in funzione della temperatura. L' amianto perdeva un po' d' acqua a 150äC, poi rimaneva apparentemente inalterato fin verso gli .00ä+; qui si notava un brusco scalino con un calo di peso del 12 per cento, e l' autore aveva annotato: "diventa fragile". Ora, il serpentino è il padre dell' amianto: se l' amianto si decompone a .00äC, anche il serpentino dovrebbe farlo; e, poiché un chimico non pensa, anzi non vive, senza modelli, mi attardavo a raffigurarmi, disegnandole sulla carta, le lunghe catene di silicio, ossigeno, ferro e magnesio, col poco nichel intrappolato fra le loro maglie, e poi le stesse dopo lo sconquasso, ridotte a corti mozziconi, col nichel scovato dalla sua tana ed esposto all' attacco; e non mi sentivo molto diverso dal remoto cacciatore di Altamira, che dipingeva l' antilope sulla parete di pietra affinché la caccia dell' indomani fosse fortunata. Le cerimonie propiziatorie non durarono a lungo: il Tenente non c' era, ma poteva arrivare da un' ora all' altra, e temevo che non accettasse, o non accettasse volentieri, quella mia ipotesi di lavoro così poco ortodossa. Me la sentivo prudere su tutta la pelle: capo ha cosa fatta, meglio mettersi subito al lavoro. Non c' è nulla di più vivificante che un' ipotesi. Sotto lo sguardo divertito e scettico di Alida, che, essendo ormai pomeriggio avanzato, guardava ostentatamente l' orologio da polso, mi misi al lavoro come un turbine. In un attimo, l' apparecchio fu montato, il termostato tarato a .00äC, il riduttore di pressione della bombola regolato, il flussimetro messo a posto. Scaldai il materiale per mezz' ora, poi ridussi la temperatura e feci passare idrogeno per un' altra ora: si era ormai fatto buio, la ragazza se n' era andata, tutto era silenzio sullo sfondo del cupo ronzio del Reparto Selezione, che lavorava anche di notte. Mi sentivo un po' cospiratore e un po' alchimista. Quando il tempo fu scaduto, estrassi la navicella dal tubo di quarzo, la lasciai raffreddare nel vuoto, poi dispersi in acqua la polverina, che di verdognola si era fatta giallastra: cosa che mi parve di buon auspicio. Presi la calamita e mi misi al lavoro. Ogni volta che estraevo la calamita dall' acqua, questa si portava dietro un ciuffetto di polvere bruna: la asportavo delicatamente con carta da filtro e la mettevo da parte, forse un milligrammo per volta; perché l' analisi fosse attendibile, ci voleva almeno mezzo grammo di materiale, cioè parecchie ore di lavoro. Decisi di smettere verso mezzanotte; di interrompere la separazione, voglio dire, perché a nessun costo avrei rimandato l' inizio dell' analisi. Per quest' ultima, trattandosi di una frazione magnetica (e quindi presumibilmente povera di silicati) e condiscendendo alla mia fretta, studiai lì per lì una variante semplificata. Alle tre del mattino il risultato c' era: non più la solita nuvoletta rosa di nichel-dimetilgliossima, ma un precipitato visibilmente abbondante. Filtrare, lavare, essiccare, pesare. Il dato finale mi apparve scritto in cifre di fuoco sul regolo calcolatore; 6 per cento di nichel, il resto ferro. Una vittoria: anche senza una ulteriore separazione, una lega da mandare tal quale al forno elettrico. Ritornai al "Sottomarino" che era quasi l' alba, con una voglia acuta di andar subito a svegliare il Direttore, di telefonare al Tenente, e di rotolarmi per i prati bui, fradici di rugiada. Pensavo molte cose insensate, e non pensavo alcune cose tristemente sensate. Pensavo di aver aperto una porta con una chiave, e di possedere la chiave di molte porte, forse di tutte. Pensavo di aver pensato una cosa che nessun altro aveva ancora pensato, neppure in Canadà né in Nuova Caledonia, e mi sentivo invincibile e tabù, anche di fronte ai nemici vicini, ed ogni mese più vicini. Pensavo, infine, di essermi presa una rivincita non ignobile contro chi mi aveva dichiarato biologicamente inferiore. Non pensavo che, se anche il metodo di estrazione che avevo intravvisto avesse potuto trovare applicazione industriale, il nichel prodotto sarebbe finito per intero nelle corazze e nei proiettili dell' Italia fascista e della Germania di Hitler. Non pensavo che, in quegli stessi mesi, erano stati scoperti in Albania giacimenti di un minerale di nichel davanti a cui il nostro poteva andarsi a nascondere, e con lui ogni progetto mio, del Direttore o del Tenente. Non prevedevo che la mia interpretazione della separabilità magnetica del nichel era sostanzialmente sbagliata, come mi dimostrò il Tenente pochi giorni dopo, non appena gli ebbi comunicato i miei risultati. Né prevedevo che il Direttore, dopo aver condiviso per qualche giorno il mio entusiasmo, raffreddò il mio ed il suo quando si dovette rendere conto che non esisteva in commercio alcun selettore magnetico capace di separare un materiale in forma di polvere fine, e che su polveri più grossolane il mio metodo non poteva funzionare. Eppure questa storia non finisce qui. Nonostante i molti anni passati, la liberalizzazione degli scambi ed il ribasso del prezzo internazionale del nichel, la notizia dell' enorme ricchezza che giace in quella valle, sotto forma di detriti accessibili a tutti, accende ancora le fantasie. Non lontano dalle Cave, in cantine, in stalle, al limite fra la chimica e la magia bianca, c' è ancora gente che va di notte alla discarica, ne torna con sacchi di ghiaia grigia, la macina, la cuoce, la tratta con reattivi sempre nuovi. Il fascino della ricchezza sepolta, dei due chili di nobile metallo argenteo legati ai mille chili di sasso sterile che si getta via, non si è ancora estinto. Neppure sono scomparsi i due racconti minerali che allora avevo scritti. Hanno avuto una sorte travagliata quasi quanto la mia: hanno subito bombardamenti e fughe, io li avevo dati perduti, e li ho ritrovati di recente riordinando carte dimenticate da decenni. Non li ho voluti abbandonare: il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante

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ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Se il mio vascello si abbassa (e ciò avverrà senza dubbio tutte le notti, poiché con lo scemare del calore l'idrogeno si restringe, diminuendo considerevolmente la forza ascensionale), io lascio pendere le mie tre funi. Immergendosi, esse perdono una parte del loro peso specifico e alleggeriscono i palloni d'un peso non piccolo. Non bastano? Senza sacrificare la zavorra, calo i miei barili d'acqua, che sono chiusi ermeticamente nei loro recipienti di alluminio, e mi scarico due o trecento chilogrammi. Un'ora di sole basta a dilatare l'idrogeno e noi, a giorno fatto, risaliamo in alto, portando con noi i nostri barili e le nostre guide-ropes, sacrificando forse poche decine di chilogrammi di zavorra." "E se ancora ciò non bastasse e i nostri palloni scendessero per mancanza d'idrogeno?" "Mi resta la scialuppa. Da aeronauti diverremo marinai e cercheremo di raggiungere la costa più vicina, o di incontrare qualche nave." "Ma voi avete eliminato tutti i pericoli." "Tutti no, O'Donnell. Un uragano può lacerarci i palloni, o un fulmine incendiarli, e noi precipitare in fondo all'oceano." "Speriamo di scendere sani e salvi in Europa, Mister Kelly." "Confidiamo in Dio e nel nostro Washington. Simone, versaci un bicchiere di whisky. Quassù fa freddo assai, e una sorsata di liquore ci farà bene e forse ci eviterà un raffreddore." Il negro non si mosse: sempre rannicchiato a poppa della scialuppa, con gli occhi strabuzzati, la pelle bigia, le mani convulsivamente strette attorno alle funi, pareva inebetito dallo spavento. Cercò di rispondere alla domanda del padrone; ma il solo rumore che gli uscì dalle labbra contratte fu uno stridìo di denti. "Orsù, poltrone," disse l'ingegnere. "Hai paura di precipitare nell'oceano? Bel compagno che ho scelto." "Ho ... ho ... paura massa (padrone).." balbettò il negro con voce rotta. L'irlandese proruppe in una fragorosa risata. "Siete comico, mastro Simone," disse. "Non sareste stato voi di certo a tenere allegra compagnia al vostro padrone. Con vostro permesso, Mister Kelly, metto le zampe io sulla vostra cantina." L'irlandese che conservava il suo inalterabile buon umore, stappò una bottiglia e riempì tre bicchieri. "Hurrah per il Washington" gridò. Stava per accostare il bicchiere alle labbra, dopo aver toccato quello dell'ingegnere, quando un'acuta detonazione risuonò sotto l'aerostato. "Per San Patrick!" urlò, "cosa scoppia?" "Una granata," rispose Kelly, con voce tranquilla. "Pare che agli inglesi prema assai di catturarvi. Bah! sarà polvere sprecata!"

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Il grande stendardo di Spagna non si abbassa per ora dinanzi agli sguardi del figlio del Corsaro Rosso, o meglio, del conte di Ventimiglia ... Signori, siete liberi! A me però il segretario del marchese di Montelimar! Il vecchio capitano del galeone, che non aveva ancora lasciato cadere la spada, fece atto di gettarla a terra, ma il conte con un rapido gesto lo fermò dicendogli: - Conservatela per altre battaglie piú fortunate, signore: io non sono, come tanti filibustieri, un nemico giurato della vostra razza. A me basta compiere la mia missione e niente piú. - Quale? - È un segreto che non posso confidare a voi. Signor Barquisimeto, volete seguirmi o no? Dalla vostra risposta dipende la salvezza del galeone. Il segretario del marchese di Montelimar ebbe una breve esitazione, poi disse: - Piuttosto che la bandiera della mia patria scenda dall'albero, eccomi, signor conte. Affido però la mia vita alla vostra lealtà. Il signor di Ventimiglia non rispose. Il segretario fece alcuni passi innanzi. - Eccomi, signor conte, - disse. - A bordo, amici - rispose il corsaro. I filibustieri e i bucanieri lasciarono la barricata e si ritrassero lentamente a bordo della fregata, ma tenendo sempre, per precauzione, gli archibugi puntati contro gli spagnuoli. Il segretario del marchese di Montelimar, quantunque pallidissimo, li aveva seguiti. Quando il figlio del Corsaro Rosso lo vide attraversare il bompresso e mettere i piedi sul castello di prora della Folgore, gridò con voce tonante: - Ritirate i grappini d'arrembaggio e contrabbracciate le vele! La manovra fu eseguita in un momento dai corsari di servizio sulla tolda, mentre i cannonieri, temendo una sorpresa, si precipitavano nelle batterie. Il conte, ritto sulla prora altissima della fregata, si levò nuovamente il cappello e, dopo aver alzato la spada, l'abbassò gridando ai suoi corsari: - Salutate i colori della vecchia Spagna! È il nipote del Corsaro Nero e del Corsaro Verde che ve l'ordina! Salutate i valorosi! Mentre la fregata indietreggiava lentamente, essendo ormai stati tolti i grappini di arrembaggio, i bucanieri fecero una scarica di archibugi, sparando in alto, con non poco stupore degli spagnuoli, i quali erano rimasti raccolti sul castello di prora del galeone. Gli hidalghi, da veri cavalieri andalusi, non furono da meno dei filibustieri, di quei terribili uomini che avevano giurato la distruzione completa di tutte le colonie spagnuole, colla scusa di vendicare gl'indiani, e non a torto, dei tanti delitti efferati commessi dai primi conquistadores, e spararono anch'essi in alto, gridando: - Buon viaggio al figlio del Corsaro Rosso! La fregata, ormai libera, veleggiava lungo la poppa del galeone. Le due bandiere, quella del conte di Ventimiglia e il grande stendardo di Spagna, scesero per tre volte fino sul cassero e per altrettante si alzarono, poi le due navi si separarono. La fregata aveva ripresa la sua rotta verso ponente, mentre il galeone, che era uscito dalla lotta assai maltrattato, metteva la prora verso la costa di San Domingo per cercare un rifugio in qualche porto. - Centomila fulmini del mar di Biscaglia! - esclamò il guascone, quando le due navi furono lontane un tre o quattrocento metri. - Questi si chiamano combattimenti! ... e con tanta fatica, sí e no ho guadagnato il doblone che quel basco fortunato ancora mi deve. Se io fossi stato al posto del signor di Ventimiglia, non avrei lasciata nemmeno una piastra a quel galeone del malanno. Venti morti per avere un misero segretario! ... Quello non valeva nemmeno una carica per la pipa! Si era voltato verso Mendoza il quale, non meno avaro di lui, stava contando i dobloni che il conte, da uomo di parola, gli aveva subito versati, mentre il luogotenente faceva distribuire all'equipaggio le mille e cinquecento piastre che avrebbe potuto ricavare dal saccheggio del galeone. - Ohé, compare, - gli disse. - Siete stato pagato, mi pare. - Il conte è un galantuomo, - rispose Mendoza. - Una vera parola d'oro. Parla e cola oro! - Non ho mai avuto bisogno di occhiali io! ... Un guascone colle lenti sarebbe ridicolo. - E cosí? - Dimenticate, compare, quel doblone che abbiamo scommesso nella cantina della marchesa di Montelimar. Era Alicante o Xeres? - Xeres. - I baschi sarebbero meno gentiluomini dei guasconi? Vivaddio! Era Alicante! ... Di vini spagnuoli io me ne intendo. - I baschi sono galantuomini, - rispose gravemente Mendoza, ridendo. - Riconosco il mio torto, ma pel momento voi, don Barrejo, non avrete quel doblone, perché avendolo scommesso in una cantina dovremo berlo in un'altra cantina. Vi pare? Fuori del mar di Biscaglia! - Non ho mai trovato un compare cosí furbo! - gridò don Barrejo. - Credevo che i guasconi fossero i piú furbi dell'orbe terracqueo ed ora m'accorgo che i baschi sono ... - Che cosa? - chiese Mendoza, ridendo. - Fiori di canaglie! - Volete provocarmi, don Barrejo? Lo sappiamo già che i guasconi sono spadaccini e anche attaccabrighe. - E i baschi? - Testardi. - Una parola molto sonora e che non dice nulla, - disse il guascone. - Perdinci! ... Vuol dire che quando un basco ha detto una cosa, vivo o morto, sarà sempre quella. - Ah! ... Ho capito! ... Come quella di bere il doblone. - Ecco i guasconi che ridiventano furbi. - Che il diavolo vi porti all'inferno, - disse l'avventuriero, ridendo. - Me l'avete ben giuocato quel doblone. - State sicuro: andremo a berlo in qualche cantina dell'America centrale. Mentre i due compari discutevano sul doblone e la fregata riprendeva la sua corsa verso ponente, riparando alla meglio i danni subiti durante quell'accanito combattimento, il signor di Ventimiglia aveva pregato cortesemente il segretario del marchese di Montelimar di seguirlo nel salotto del quadro. - Sedetevi, cavaliere, - disse il conte, quand'ebbe chiusa la porta, indicandogli una sedia. - Abbiamo molto da discorrere fra noi. - Ciò mi stupisce molto, - rispose il segretario del marchese, il quale appariva assai pallido e molto inquieto. - È la prima volta che io vi vedo, signore. - Ne sono convinto, perché solamente da qualche mese mi trovo nelle acque del Golfo del Messico. - Per quale motivo? - Per cercare voi, prima di tutto, - rispose il conte, sedendosi di fronte al segretario. - Sono dunque un uomo cosí prezioso? - L'avete veduto or ora. Per avervi nelle mie mani, ho messo in pericolo la mia fregata e anche la vita mia e quella del mio valoroso equipaggio. Sapete già chi sono? - Il figlio del Corsaro Rosso. - Avete conosciuto mio padre? Il segretario del marchese di Montelimar diventò livido, ma non rispose. - Cavaliere, - disse il conte con voce un po' aspra - non dimenticate che siete completamente in mia balia e che, se anche sono un gentiluomo, ho nelle vene il sangue dei formidabili corsari che devastarono le colonie spagnuole del grande Golfo. Rispondete alle mie domande. - Ebbene, sí, l'ho conosciuto - rispose il segretario del marchese. - Dove? - A Maracaibo. - Quando? - Il giorno antecedente al suo supplizio. Questa volta fu il conte che divenne pallidissimo, mentre un lampo d'ira illuminava i suoi occhi. - Sapevano d'impiccare un gentiluomo? - chiese con voce sorda, stringendo i denti. - Io credo di sí. - Chi pronunciò la sentenza di morte contro mio padre e contro tutti i suoi marinai sfuggiti al naufragio? - Non lo so. - È inutile che cerchiate d'ingannarmi! - disse il signor di Ventimiglia balzando in piedi. - È stato il marchese di Montelimar, vostro signore. - Perché chiedermelo allora? - disse il cavaliere. - Volevo essere sicuro della cosa. Il conte girò due o tre volte intorno alla tavola che occupava il centro del salotto; poi, fermandosi bruscamente dinanzi al segretario, il quale lo guardava con terrore, gli disse: - Mio padre ed i miei due zii, il Corsaro Verde ed il Corsaro Nero, erano venuti in America per vendicare la morte del loro fratello maggiore ucciso a tradimento dal duca Wan Guld e non già per corseggiare, come fanno tutti gli altri filibustieri della Tortue. I Ventimiglia hanno ancora nel Piemonte terre e castelli, quanti forse non ne possiedono i vostri grandi di Spagna o i vostri conquistadores arricchitisi con le spoglie dei disgraziati cacichi del Messico o del Perú. - L'avevamo saputo dal nostro ambasciatore, accreditato presso la corte dei duchi di Savoia - rispose il segretario del marchese di Montelimar. Il conte fece un gesto con la destra, come per allontanare qualche lontano ricordo, poi riprese: - Torniamo al nostro discorso, cavaliere. Mio padre, prima di partire per l'America insieme con i suoi fratelli, il Corsaro Nero ed il Corsaro Verde, aveva sposato una principessa del Brabante che morí dandomi alla luce. Io non so in quale epoca egli sposò qui la figlia del grande cacico Hara, re del Darien, dalla quale ebbe una figlia. Ne avete udito parlare? - Sí, vagamente. - Quando la nave di mio padre naufragò sulle coste di Maracaibo, quella bambina si trovava fra i superstiti, non è vero? - Chi ve lo disse? - Un giorno, frugando fra le carte di mio padre, appresi che io avevo una sorellina in America. Morgan, che è oggi il governatore di Giamaica e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, mi ha confermato, or non è molto, che la notizia era vera. Che cosa ne ha fatto il marchese di Montelimar di quella fanciulla? Parlate, cavaliere! Perché se un'infamia fosse stata commessa, guai al vostro signore! Un Ventimiglia non perdona! Il figlio del Corsaro Rosso, cosí parlando, era diventato terribile. I suoi lineamenti si erano alterati, assumendo una espressione selvaggia ed i suoi occhi mandavano lampi sinistri. - Mi avete capito, cavaliere? - gridò, battendo fortemente il pugno sul tavolino. - Che cosa ne avete fatto di mia sorella? Io sono venuto appositamente in America per cercarla, risoluto a mettere sottosopra il gran Golfo, pur di trovarla! Ho nelle mie vene, ve lo ripeto, il sangue di gente di guerra e di corsari e farò vedere ai vostri compatriotti, al balenar delle mie artiglierie, lo stemma dei Ventimiglia. - Calmatevi, signor conte - disse il segretario. - È morta o viva mia sorella? - È viva. - Me lo giurate? - Sul mio onore! - Con questa affermazione voi avete salvata la vita al vostro signore. - Volevate ucciderlo? - Sí, con un buon colpo di spada - rispose il conte. - Dove si trova mia sorella? - Non ve lo saprei dire, signor conte sul mio onore. - Che sia un onore dubbio? - chiese il signor di Ventimiglia, facendo un gesto di minaccia. - Dovrò andare dal vostro signore a chiedere notizie di mia sorella? Ditemelo. Il cavaliere impallidí, poi divenne rosso. - Signor conte, - disse, con voce fremente, - quando un hidalgo spagnuolo giura sul suo onore, non vi è gentiluomo di Europa che possa stargli di fronte, perché innanzi a tutto noi siamo cavalieri, ci abbia creato Filippo secondo o Carlo quinto. Se dubitate, io sono pronto ad incrociare la mia spada contro di voi. I gentiluomini della vecchia Castiglia muoiono, ma non si arrendono! ... Mi avete capito, signor conte? Il signor di Ventimiglia lo aveva guardato con viva sorpresa. Per qualche istante strinse l'impugnatura della sua spada, poi disse: - No, cavaliere. Ho avuto torto a offendervi e da buon gentiluomo vi faccio le mie scuse. Voi dunque non sapete dove si trova mia sorella? - Io ho udito dire una sera dal marchese di Montelimar che l'aveva affidata ad un mayoral della costa del Pacifico. A Panama o dove? Questo non lo so; ve lo affermo solennemente, signor di Ventimiglia. - Ad un mayoral? Che cos'è? Io non conosco perfettamente la vostra lingua. - Ad una specie d'intendente - rispose il cavaliere. - Che voi non conoscete? - No. - Sicché sarà necessario che io vada a scovare il vostro signore. - Se riuscirete a sapere dove si trova. - Lo so di già - rispose il conte. - È impossibile! - Allora vi dirò che il vostro signore si trova ora a Pueblo-Viejo. Il segretario del marchese ebbe uno scatto e fece un gesto d'ira. - Chi ve lo ha detto? - chiese con i denti stretti. - La marchesa Carmen di Montelimar, non è vero? Oh! ... lo so che ha sempre odiato suo cognato, come so pure che ha favorito la vostra fuga da San Domingo. - V'ingannate, signore! - rispose il conte. - Lo avevo saputo prima da mio cugino Morgan. - L'uomo nefasto che ci ha rovinato Panama e che ha sposato Jolanda, la figlia del Corsaro Nero. - Precisamente, signor Barquimiseto. Il segretario del marchese di Montelimar si morse le labbra a sangue. - E voi andate a trovare il mio signore? - chiese. - Vi ho detto che sono venuto in America per cercare prima di tutto mia sorella! - E poi? - Ah! ... Il resto non vi riguarda, signore. - Ma s'indovina: voi siete venuto qui per vendicare vostro padre. - Io non ho ancora detto questo. Voi dunque non sapete dove si trova la nipote del grande cacico del Darien? - No, ve l'ho già detto, È stata affidata ad un mayoral e non ne so di piú. - Me lo dirà il marchese - disse il conte, alzandosi impetuosamente. - Vi avverto intanto che voi rimarrete mio prigioniero fino a che la mia missione non sarà finita; e due uomini vigileranno, giorno e notte, su di voi. Non contate quindi su di un possibile tentativo di fuga, poiché i miei filibustieri sono d'una fedeltà a tutta prova e non esiterebbero un solo istante ad uccidervi. D'altronde io farò quanto posso per rendervi meno pesante la prigionia, perché pranzerete alla mia tavola e sarete trattato c on tutti i riguardi ai quali ha diritto un cavaliere spagnuolo. Addio, signore; potete andare a riposarvi nella cabina che sta di fronte a noi: siete mio ospite. Ciò detto il conte uscí dal salotto e salí in coperta dove l'attendevano con viva impazienza il suo luogotenente, Mendoza e il terribile guascone. - Dunque? - chiese il signor Verra. - Ho finalmente la certezza che mia sorella è viva - rispose il signor di Ventimiglia. - Voi non potete immaginare quale desiderio abbia io di vedere quella fanciulla color cioccolata o rame finissimo. Farà furore alla corte dei duchi di Savoja, i quali già non ignorano la storia dei tre formidabili corsari. Poi, volgendosi verso Mendoza, gli domandò: - Tu che sei uno dei piú vecchi filibustieri e che hai combattuto con mio padre e con i miei zii, credi che io possa da solo condurre a fine una tale impresa? - No, signor conte - rispose il marinaio, tirandosi la barba. Non si ripete due volte la fortuna di Morgan, e gli spagnuoli sono formidabili nell'America centrale. Chi rifiuterà però un aiuto al figlio del Corsaro Rosso, al nipote dei corsari Verde e Nero? Forse che i piú famosi filibustieri non operano di là dell'istmo? David, Pusley e Grogner sono là! Andiamo a trovarli, e nessuno di loro si rifiuterà di mettere le sue navi, i suoi uomini, le sue spade e i suoi pezzi a disposizione d'un conte di Ventimiglia. - Potremo noi trovarli? - Io so di positivo che, dopo la loro disastrosa crociera verso lo stretto di Magellano, hanno conquistato l'isola di San Giovanni e che là meditano chi sa quali formidabili imprese ai danni della Spagna! - San Giovanni, hai detto? - Sí, una piccola terra che dista appena cinque leghe dal continente. Andiamo a trovare quei leoni, signor conte, e faremo cadere il marchese di Montelimar e anche un'altra volta Panama. Il filibustiere non ha mai avuto paura e lo troverete sempre pronto a qualsiasi cimento. - Sono i moderni guasconi. - disse don Barrejo. - Che gente meravigliosa! ... Il conte stette un momento immerso nei suoi pensieri, poi disse: - Credo anch'io che non si possa fare diversamente. L'aiuto di quei terribili filibustieri mi è necessario per lottare col marchese di Montelimar. Ma sei proprio certo, Mendoza, che si trovino sulle coste del Pacifico? Morgan mi aveva detto che erano partiti verso il sud, per aggirare la Terra del Fuoco e tornare nel Golfo da quella parte. - È vero, signor conte; ma la loro impresa è fallita e sono tornati verso il settentrione ancora in buon numero. Si dice che abbiano con loro non meno di ottocento uomini e che si propongono di mettere a sacco tutta l'America centrale. - Eh, con una simile forza non mi stupirei! So quanto valgono quegli uomini. E dove lasceremo noi la fregata? - La rimanderemo alla Tortue, signore - disse il luogotenente. Voi sapete bene che mai gli spagnuoli oserebbero assalire la rocca dei filibustieri. Volete affidare a me l'incarico? Lasciatemi una trentina di uomini ed io m'impegno di sfuggire alle crociere dei galeoni e delle caravelle spagnuole. - E poi, non avete vostro cugino? - chiese Mendoza. - La Giamaica ha porti sicuri, ed il signor Morgan è un uomo da difendere la vostra fregata contro tutti gli attacchi. - E sarà meglio! - disse il signor di Ventimiglia. - Signor Verra, date la rotta ai vostri piloti e andiamo a scovare, prima di tutto, il marchese di Montelimar a Pueblo-Viejo. Se non mi dirà dove si trova mia sorella, guai a lui! ... Sarò implacabile come mio zio, il Corsaro Nero!

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Ho notato che il barometro si abbassa rapidamente e che lo "storm-glass" si decompone assai. Vorrei già essere lontano dai pericolosi paraggi dello stretto. - Bah! Il "Danebrog" è un eccellente veliero che se ne infischia degli uragani, capitano. - Non dico di no. Spero che se la caverà bene anche questa volta. - Verso le 10 di sera, la massa delle nubi diventò più densa e il mare cominciò ad alzarsi. Numerose procellarie correvano sopra le spumeggianti creste dei flutti, gettando rauche strida. Si sarebbe detto che quei funesti uccelli invocassero la tempesta che stava per scoppiare. Il capitano, temendo che l'uragano si scatenasse da un momento all'altro, rimase in coperta fino ad ora tardissima, ma vedendo che il vento, quantunque soffiasse irregolarmente, non mutava direzione si ritirò nella sua cabina dopo aver fatto chiudere i pappafichi e i contra e terzarolare le vele basse. La notte infatti passò abbastanza tranquillamente. Non vi furono raffiche violente nè cavalloni molto alti. Il 31 però la massa delle nubi divenne più densa e più nera, abbassandosi tanto da credere che volesse tuffare i suoi lembi nel mare. Il vento crebbe di violenza girando da sud a , fischiando in mille guise attraverso gli attrezzi e sollevando gigantesche ondate che andavano coprendosi di bianchissima spuma. Ben presto si udì in lontananza il tuono e alcuni lividi lampi illuminarono i neri vapori che allora correvano disordinatamente come cavalli sbrigliati. Il capitano fece chiudere buona parte delle vele e salire in coperta tutto l'equipaggio. Il lupo di mare prevedeva un uragano violentissimo e voleva essere pronto a sostenerne gli attacchi. Verso le 11 del mattino il mare diventò burrascosissimo e il vento ancora più impetuoso. Non erano onde, ma vere montagne d'acqua quelle che correvano urtandosi furiosamente. Non si udivano che i mille muggiti del vento, lo sbattere delle vele e dei cordami, il gemito degli alberi, le grida dei marinai e le strida delle procellarie. Il "Danebrog", guidato dall'abile mano di mastro Widdeak, si comportava valorosamente, fendendo le onde col suo acuto e solido sperone, ma dopo qualche ora si trovò in una situazione così scabrosa che fece illividire il viso a più di un marinaio e aggrottare la fronte persino al flemmatico tenente. Il vento aveva allora raggiunto la straordinaria velocità di 27 metri al minuto secondo, velocità che solo raggiunge nelle grandi tempeste, e alle quali ben poche navi resistono. Infatti il "Danebrog" si sentiva trascinare via con velocità incalcolabile, andando attraverso le onde che si rimescolavano orribilmente empiendo l'aria di mille muggiti, tuffando spesso il tribordo nell'acqua. Gran parte delle sue vele, in meno che non si dica, furono lacerate e strappate dai pennoni, compromettendo così molto seriamente la sua stabilità. Il povero legno, che non obbediva quasi più al timone, traballava disordinatamente, ora salendo i cavalloni, ora precipitando negli avvallamenti dove minacciava di venire per sempre inghiottito: gemeva, perdeva ora un pezzo di murata, ora un attrezzo della coperta. C'erano certi momenti che tanta era la massa dell'acqua che si slanciava sopra i suoi bordi, da non sapere se galleggiasse ancora o fosse per andare a picco. Il capitano Weimar, aggrappato alla ribolla del timone con a fianco mastro Widdeak, malgrado la gravità della situazione, conservava un ammirabile sangue freddo e comandava con voce tonante la manovra. Il tenente aggrappato ad una catena di prua faceva eseguire gli ordini con voce tranquilla, come se si trovasse in una solida casa, anzichè su una nave che da un momento all'altro poteva sfasciarsi. I marinai, scalzi, seminudi, senza berretti, inzuppati d'acqua, i volti lividi per il terrore, si tenevano stretti stretti alle murate o alle sartie, o ai bracci delle vele inferiori, cogli occhi fissi sui comandanti, pronti a eseguire le manovre. Di quando in quando qualcuno di loro, investito da un colpo di mare, veniva trascinato per la coperta o gettato contro gli alberi, riportando talvolta delle contusioni di qualche gravità. E uno fu persino sbattuto fuori dalla murata e si salvò solamente aggrappandosi prontamente ad una gru. Alle 9 pomeridiane, cioè dopo tredici ore di ostinatissima lotta, il "Danebrog" che aveva sempre camminato con una celerità superiore ai dodici, e qualche volta ai tredici nodi, si trovava a breve distanza dallo stretto di Behring. Già la costa americana, al chiarore di un lampo era stata scorta a sette od otto miglia sopravvento. Il capitano Weimar mandò due uomini sulla gran gabbia, affinchè fossero pronti a segnalare le isole Diomede che sorgono in mezzo allo stretto, e contro le quali poteva venire spinto il "Danebrog". Alle 10 una raffica furiosa si rovesciò sulla nave, la quale, presa di traverso, fu violentemente rovesciata su di un fianco. Un immenso grido di spavento echeggiò sulla coperta mescendosi a urli della tempesta. Tutti i marinai credettero che non si risollevasse mai più. Fortunatamente Koninson, che si trovava presso i bracci della vela di maestra con pochi colpi di scure tagliò le manovre. Ciò bastò perchè la nave riprendesse il suo equilibrio prima che le onde si precipitassero sulla tolda. Quasi subito successe una breve calma. Le nubi, violentemente squarciate da quel furioso colpo di vento, mostrarono per alcuni istanti il sole, che in quelle latitudini elevate, nella stagione estiva, si può dire che non tramonta mai. L'effetto prodotto da quella luce dorata sullo sconvolto mare fu stupendo, ma durò pochi istanti. Le nubi richiusero quello strappo, la semi-oscurità tornò a stendersi sui flutti e il vento ricominciò a ruggire con maggior forza, spingendo innanzi a sè la nave, alla quale non restavano più che la vela di trinchetto e la randa dell'albero di mezzana. Ad un tratto si udirono i gabbieri gridare: - Terra a prua! ... Il capitano affidò il timone a mastro Widdeak e si slanciò, nonostante i violenti rollii, a prua dove l'aveva già preceduto il tenente. Ad una distanza di quattro miglia il mare si sollevava a prodigiosa altezza intorno al gruppo delle Diomede formato dall'isola Ratmanoff che è la più grande, dalla Krusenstern che è la mezzana e da Ferway che è un arido scoglio. - Bisogna tenersi al largo assai, capitano! - disse il tenente - Mi metterò io al timone! - rispose Weimar. - Fate preparare alcune vele di ricambio. - Temete che scappino quelle spiegate? - Se giunge una raffica forte quanto quella di prima non potranno resistere, ne son certo. Il capitano ritornò a poppa e prese la ribolla del timone mentre il tenente faceva portare in coperta alcune vele. Il "Danebrog" era giunto nello stretto, il quale è largo ben 83 chilometri fra il capo orientale dell'Asia e il capo di Galles dell'America e profondo assai. Qui il mare era orribilmente agitato. Le onde, spinte dal vento, si schiacciavano, per così dire, fra due coste, quantunque, come si disse, queste siano assai distanti l'una dall'altra; e si frangevano furiosamente contro le isole lanciando sprazzi di spuma a tale altezza che questi toccavano le nere frange delle nubi. A mezzanotte il "Danebrog" giungeva dinanzi all'isola Ratmanoff, sulla quale volteggiavano disordinatamente migliaia di uccelli marini. D'improvviso, quando i marinai si credevano già quasi fuori di pericolo, una raffica furiosa investì la nave che tuffò più di mezza prua nel seno degli spumanti flutti. Gli alberi si curvarono come fossero semplici stecchi, poi si udirono due scoppi violenti seguiti da urla di terrore. Le due vele strappate dai pennoni volarono via come due immensi uccelli. Il capitano Weimar, malgrado il suo straordinario coraggio, impallidì. - Una vela! Una vela o siamo perduti! - gridò. Infatti il "Danebrog", senza un brano di tela, veniva spinto dalle onde e dal vento contro l'isola Ratmanoff che mostrava i suoi scogli a meno di quattro gomene di distanza. Il tenente, Koninson, mastro Widdeak e una decina di marinai malgrado le disordinate scosse che li atterravano, tentarono di spiegare una trinchettina, ma le onde che si precipitavano in coperta e i soffi tremendi del vento, rendevano quell'operazione quasi impossibile. Tre volte la vela fu innalzata fino al pennone e tre volte il vento l'abbattè e con essa gli uomini. Allora un grande spavento si impadronì del l'equipaggio. Alcuni marinai perduta completamente la testa per il terrore, si misero a correre per la coperta sordi ai comandi e alle minacce dei capi. Altri, non meno spaventati, si gettarono sulle baleniere. Il "Danebrog", semi-rovesciato su un fianco, coperto d'acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla. Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta. Quando si risollevarono il "Danebrog" non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall'isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Racconti umoristici IN CERCA DI MORTE - RE PER VENTIQUATTRORE

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Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze
  • 1869
  • E. Treves e C. Editori
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Non ne facciamo tanto una causa di umanità di principio morale quanto ne facciamo una causa di forma: lo stesso atto ci solleva alla gloria o alla fama, o ci abbassa fino al delitto più turpe ed alle punizioni più atroci; può essere eroismo o assassinio, così nella guerra e nelle contese private; può essere coraggio ed onore, così nel duello. Rosen, lungo la via, ritornava colla mente su questi pensieri, e meditava con dolore su quella triste avventura di Dover. - Che ne pensate? diss'egli rivolgendosi a Lamperth che dormicchiava rannicchiato in un angolo della vettura. - Di che cosa? - Del mio duello di ieri. - Male, male; se avete intenzione di farvi uccidere, non dovete però uccidere gli altri; vi sono mille maniere di morire; vi confesso che fui dolorosamente impressionato da questo fatto. - Avete ragione, soggiunse Rosen con aspetto mortificato, non mi cimenterò più in duello, vi è qualche cosa d'istintivo che ci spinge nostro malgrado a difenderci; ma, giacché la natura ci ha dato una sola via al nascere - come a cosa triste - e ce ne ha aperte mille al morire - come a cosa molto più dolce - io approfitterò in altro modo di questa prodigalità della natura. Dite. Credete voi che non mi sarà difficile il morire? Lo sperate? - Speriamolo, sì, disse Lamperth; se il voto di una persona che vi ama può avere qualche influenza sul vostro destino, vi giuro che io faccio voti al cielo perché il vostro desiderio venga esaudito. - Vi ringrazio, rispose Rosen scuotendo la mano che il suo amico gli aveva sporto senza voltarsi, come a meglio rassicurarlo della sincerità del suo voto, vi ringrazio dal più profondo dell'anima: e pronunciò queste parole quasi commosso, e colla più schietta effusione di cuore. In quella sera stessa Rosen e Lamperth giunsero ad Amiens. Alla porta del paese Rosen, essendosi arrestato per contemplare lo spettacolo della città, come è costume d'ogni buon inglese, vide affisso alla parete un ampio cartellone decorato da alcune figure d'animali in inchiostro rosso, e vi lesse queste parole: «Grande serraglio di belve viventi del signor Gustavo Lachard. Due tigri, quattro pantere, una grande varietà di scimmie, un elefante, e due leoni africani. Alle ore otto vi sarà il pasto delle fiere. Mezz'ora prima il rinomato domatore Gustavo Lachard entrerà nella gabbia dei leoni.» Rosen guardò l'orologio, erano le sette ore passate; mancavano pochi minuti alla rappresentazione. Egli si rivolse a Lamperth, e gli disse, indicandogli quel manifesto: - Volete che andiamo a visitare questo serraglio? può essere che vi abbia a trovare qualche avventura favorevole a' miei disegni. - Andiamo, disse Lamperth, e giunsero in breve al recinto. Dopo che il signor Lachard uscì dalle gabbie dei leoni, e la folla si ritirò a poco a poco e si disperse, Rosen disse al suo compagno stringendogli la mano: - Credo, mio caro Lamperth, di aver trovato un modo infallibile per farmi uccidere; permettete che non vi dica altro; andate all'albergo del Ciclope dove fra un paio d'ore o mi rivedrete vivo, o avrete la notizia della mia morte. Vi raccomando la lettera per mia moglie. - Non temete della mia puntualità - e si portò la mano sul cuore - mi dispiace di perdervi sì presto, ma se ciò è inevitabile... Vi auguro buona fortuna. - Rosen, lasciato solo, chiese di parlare col signore Lachard, e trattolo in un angolo del recinto gli disse: - Io sono un barone inglese appassionatissimo del lottare e bramo cimentarmi con qualche lottatore evidentemente più forte di me. Desidero di combattere con uno dei vostri leoni, ma è necessario che ciò rimanga un segreto tra noi; occorre che voi mi lasciate solo in questo serraglio, e che si creda, per vostra e mia giustificazione, che io vi sia entrato senza il vostro consenso, e avendo aperta io stesso la gabbia, come farò, sia stato assalito dalla vostra bestia. Quanto è il prezzo di questo animale? io ve lo pagherò due volte. - Non meno di cinque mila franchi, disse il domatore; parlo di Behemet, il più alto e il più forte: l'ho comprato io stesso a Bourck, sul limite occidentale del deserto; non ha ancora due anni compiuti e non gli manca un pelo. Ma, intendiamoci, io non debbo saper nulla di ciò; io mi ritirerò dal serraglio come faccio tutte le sere, e voi sarete un imprudente che vi sarà entrato senza mia licenza, ecco tutto; se poi voi ucciderete il leone, la cosa rimarrà tra noi, e non avrà altra conseguenza. Rosen gli sborsò dieci mila franchi; e siccome la sera era già molto inoltrata, il domatore licenziò il suo guardiano, e lasciò Rosen nel recinto di cui socchiuse appena la porta, dopo avergli detto: - Vi auguro che abbiate ad uscirne gloriosamente, ma temo che Behemet vi saprà spianar le costure. Rimasto solo Rosen comprese di esser posseduto da un panico indefinibile, e vi fu un istante in cui si sentì tentato di rinunciare a quella specie di morte, e di raggiungere Lamperth all'albergo del Ciclope, per combinare con lui su qualche mezzo di distruzione meno inumano. Ma era troppo tardi. E d'altra parte, giacché era d'uopo morire, conveniva accettare quel mezzo che era più pronto, più sicuro e che non avrebbe lasciato concepire alcun sospetto d'inganno sulla sua fine. Chi sa! Forse il morire tra le zanne d'un leone poteva essere più dolce, più rapido che il morire di ferita o di veleno, o per altra causa qualunque - certo era più verosimile e più ardito. Animato da questo ragionamento, Rosen si avvicinò alla gabbia, e sollevò le tre aste di ferro che né formavano l'uscio. Paralizzato dal timore, colle mani appoggiate sull'orlo dello steccato, in atteggiamento di vittima rassegnata aspettava che Behemet uscisse. Il leone dopo essersi allungato due volte e aver sbadigliato lungamente inarcando la lingua come una bestia che sa di potersi pigliare i suoi comodi, si affacciò allo sportello, guardò con aria d'indifferenza il barone di Rosen cui era venuto, suo malgrado, la pelle di cappone; e discendendo nello spazio riservato agli spettatori, incominciò a passeggiarvi per lungo e per largo, agitando la coda, e mandando un certo suo ruggito prolungato e sommesso in suono di soddisfazione e di gioia. Quando Rosen si avvide che Behemet non si curava di lui, avendo ripreso animo in quel breve intervallo di tempo, discese ed affrontò arditamente il leone, cui percosse d'un colpo di frustino. A quella provocazione, Behemet, come una bestia ubbidiente, si ritirò precipitosamente nella sua gabbia, Rosen lo inseguì, ed essendosi munito d'un asta appuntata di ferro, lo stimolava con quella ad uscirne. Il leone, rannicchiatosi nel fondo del suo covacciolo, ruggiva e spalancava le fauci orribilmente senza avventarsi; Rosen era al colmo dell'impazienza e dell'ira. Dimenticando che egli parlava con un leone - Uscite, gli gridava, uscite da cotesta gabbia, miserabile. Ma tutto era indarno, Behemet, non intendeva questo linguaggio provocatore, e rimaneva quieto come olio. Disperando di potersi misurare con lui, Rosen decise di entrare nella gabbia delle pantere, ma si avvide che Lachard, toltone quel solo, aveva assicurati tutti gli sportelli con due buoni giri di chiave. - Ah! Lachard assassino, esclamava Rosen acciecato dalla bile, egli sapeva che questo era un coniglio, e mi ha arraffato dieci mila franchi senza lasciarmi il compenso d'una scalfittura, ma rivedremo le nostre partite domani. E gettando uno sguardo pieno di disprezzo nella gabbia di Behemet, uscì dal serraglio, e corse difilato all'albergo del Ciclope. * * * Lamperth che stava rivedendo alcune sue carte presso una tavola su cui si scorgevano gli avanzi della sua cena, si mostrò molto meravigliato del ritorno di Rosen, il quale era si acciecato dallo sdegno che a stento potè fargli il racconto di questa sua nuova sventura. - Che domando io? Che voglio? Che spero? Morire, ecco tutto; la cosa più semplice, più facile, più naturale del mondo, diceva Rosen nel conchiudere il suo racconto, e tuttavia eccomi condannato da una desolante fatalità a sopravvivere a tutti i miei sforzi, a tutti i pericoli cui mi espongo per impedirlo. Ahi vi giuro che io affronterei in questo momento qualunque rischio, approfitterei di qualunque circostanza per uscire di questo stato. - Calmatevi, gli rispondeva Lamperth, non ve ne mancheranno mai le occasioni, bisogna aver fede: intanto ordinate la vostra cena, lo stomaco ha le sue esigenze, e credo che voi dobbiate avere appetito. - È vero, disse Rosen, cenerò; l'uomo è il servitore d'uno stomaco, anzi l'uomo è uno stomaco, la credo la definizione meno inesatta fra le tante che si son fatte di questo animale. E ordinò una costoletta di castrato colle patate. Non aveva Rosen addentato la sua costoletta, che un nuovo arrivato entrò nella sala, e venne a sedersi di faccia a lui, dal lato opposto del tavolo. Rosen era tutt'occhi nell'osservare i movimenti di quel suo commensale, e si augurava che la punta d'uno de' suoi stivali venisse a colpire uno de' suoi stinchi per aver ragione di bisticciarsi, quando l'altro cacciando il naso nel suo piatto e indicandolo col dito al cameriere gli disse: - portami una vivanda come quella... è una costoletta di castrato in salsa dolce. - Voi mentite per la gola, o signore, disse Rosen sollevandosi un poco dalla sedia, questa costoletta è in salsa piccante. - Per il cielo, esclamò l'altro un po' turbato da quella sorpresa, voi ci tenete molto al sapore della vostra costoletta e ne fate una questione di onore; del resto non c'è che dire, vi siete servito di una espressione felicissima; trattandosi di sapori, io ho precisamente mentito per la gola. Voi siete inglese? - Di Londra. - E contate di attraversare la Francia? - Precisamente. - Dubito se arriverete al termine del vostro viaggio senza trovare qualcuno che ... - Che cosa? - Che v'abbia a rivedere il pelo. Siete mai stato in Guascogna? - Oh! che voi siete Guascone? - Per l'appunto. - È una provincia che in fatto di millanterie ha delle tradizioni grandiose; spero che saprete farmi conoscere tutta la estensione del pericolo che io avrei corso se vi avessi insultato nel vostro paese. - Voi siete un pazzo o un imbecille, disse l'altro che era tutto sangue di guascone, illividendo fin sulla punta del naso; venite qui dietro le mura, e ci taglieremo due dita di fegato. - Sono a vostra disposizione, rispose Rosen. E si accommiatò da Lamperth che gli diceva all'orecchio: - abbiate giudizio, contenetevi da uomo onesto, lasciatevi ammazzare, pensate a vostra moglie, pensate che quell'uomo fu provocato da voi e che la fortuna non vi regalerà tutti i giorni di queste magnifiche occasioni. - Non dubitate, disse Rosen, spero che mi vedrete tornare in lettiga. Rosen e lo sconosciuto giunsero in breve tempo dietro lo spaldo; alcuni avventori dell'albergo che avevano inteso quel battibecco li seguivano da lontano, e un amico del guascone portava le due sciabole sfoderate sotto il mantello. - Avete i vostri padrini? chiese lo sconosciuto all'inglese. - Non ne ho alcuno. - Non importa, questi signori serviranno come testimonii ad entrambi. Già, non escluderemo i colpi di testa e di punta, e ci batteremo fino a che uno di noi non sia rimasto sul terreno. - Siamo intesi, era la mia intenzione. - Allora possiamo incominciare. - Incominciamo. E il Guascone, senza attender altro, si assicurò bene nel pugno la sua sciabola, e si scagliò furiosamente sul suo avversario. Rosen lo attendeva di piè fermo. La notte era sì buia che l'uno poteva distinguere a stento la direzione dei colpi dell'altro: gli spettatori vedevano nulla o pressoché nulla; distinguevano due masse nere agitarsi, avventarsi; vedevano di quando in quando il lampeggiare delle lame su cui si rifletteva un debole filo di luce che proveniva dal fanale dello spaldo, e sentivano il cozzo frequente delle sciabole senza poter giudicare quale dei due avversarii avesse maggiore perizia nelle armi, e desse indizio di uscirne vincitore. Ma ad un tratto uno di essi si arresta, vacilla, cade: gli spettatori si gettano sopra di lui... era il guascone. Che cosa era avvenuto? Il francese era un pessimo schermitore, Rosen non aveva ancora trovato il tempo di scoprirsi opportunamente, quando avendogli fatta una finta di destra, l'altro vi rispondeva con una parata di sinistra, e, investendo la sua sciabola, si feriva gravemente al collo, senza che il suo avversario avesse alcuna intenzione di farlo. Rosen era rimasto pietrificato dal dolore e dalla meraviglia. Vi era senza dubbio una strana fatalità che pesava sopra di lui, che rendeva vani e funesti tutti i suoi tentativi di morire. Mentre egli stava così appoggiato colle mani riunite sull'elsa della sciabola, intese uno degli spettatori chiedere: Chi è costui che lo ha ferito? E un altro rispondergli: È un inglese. - Bene. Bisogna chiedergli ragione di questo fatto: non si può dirlo un duello questo; non v'erano padrini, non v'era nulla di regolare; è stato un omicidio bello e buono. Guardate, il morto è un francese, è un guascone, e si sono battuti per una costoletta; c'è qui il suo collega Pirolet a confermarlo; non bisogna permettere che questo marrano d'inglese se ne vada via liscio liscio: facciamo le cose per bene, conduciamolo al Commissario di polizia. Rosen che all'intendere da principio quelle parole, aveva sentito discendergli nel cuore un debole raggio di speranza, rabbrividì tutto quando udì discorrere del Commissario di polizia; e conobbe che era necessario l'andarsene quatto quatto, se era ancora possibile, e partire in quella notte stessa da Amiens. Ma egli non aveva fatto ancora questa risoluzione che si vide circondato da tutta quella folla, e udì uno di essi che gli s'era avvicinato più degli altri, imporgli di consegnargli la sciabola, e di seguirlo all'ufficio del dipartimento. Rosen prese allora una grande determinazione. Avendo osservato che alcuni fra loro erano armati di stocco, e che uno di essi teneva tra mano la spada del suo avversario, immaginò che gli sarebbe riuscito agevole il farsi uccidere da tutta quella gente, gettandovisi in mezzo come uomo perduto, e menando botte alla cieca per costringerli a restituirle. Detto fatto - non è che un punto - Rosen impugna la sua sciabola a due mani, e piomba in mezzo a quei malarrivati picchiando a destra e a sinistra, ove gli capita meglio, e gridando con quanto ha di fiato - paltonieri, miserabili, anime di conigli, difendetevi, arrestatemi se ne avete il coraggio. Ma egli conseguisce così uno scopo affatto opposto: tutti quegli uomini spaventati da tanto ardimento si danno alla fuga, e Rosen non ha che il dispiacere di vederne quattro cadere feriti al suo fianco, e la certezza che questo avvenimento va a creargli una terribile responsabilità in faccia alla sua coscienza, e ciò che a lui più importa, una responsabilità non meno fatale in faccia all'autorità governativa. Rosen si decide su due piedi: nessuno lo conosce ad Amiens; non ha detto il suo nome a nessuno; appena ne hanno intravista la figura alla luce del fanale; egli si getta alla campagna e tenta di giungere nella notte a Montdidier, servendosi di qualche cavalcatura che spera acquistare in una fattoria, lungo il viaggio. Un'ora dopo questo avvenimento Lamperth riceve da un contadino un biglietto così concepito: «Caro Lamperth, - Un destino singolare, altrettanto che inesorabile, rende infruttuosi e funesti tutti i miei disegni di morire. Io vivo a dispetto mio, ad onta di tutto e di tutti. Avrete inteso che ho ucciso quel guascone, e ferito quattro o cinque francesi che volevano tradurmi, come un malfattore, all'ufficio di polizia. Questo avvenimento mi costringe a riparare a Montdidier senza esser visto, giovandomi d'un cattivo cavallo che ho acquistato ora in una casa di coloni da cui vi scrivo. Vi aspetto dunque a Montdidier, al Caffè della Pace, dove si beve il miglior fiore di latte che si trovi in tutta la Francia.» * * * Mentre Rosen cavalcava per quelle ridenti campagne che corrono da Neufchatel, fino a Hermont e fino alla riva dell'Oise, pensava a quella sua vita spensierata di Londra, a sua moglie, a' suoi amici, alle sue ricchezze dissipate, e a quello strano capriccio della fortuna che gli aveva indicato per rimediarvi una via sì colpevole e sì singolare. La notte s'era fatta piovosa, e Rosen era triste. Mai, come in quel momento, egli aveva sentito un più vivo desiderio di morire: mai come in quel momento, la fortuna aveva sembrato allontanarlo di più dalla morte. Era cosa sì difficile il morire? Egli sentiva in sé una pienezza di vita straordinaria, un'armonia inusitate in, tutte le, funzioni della sua macchina: un ordine, uno scorrere del sangue sì calmo, sì regolare, sì dolce, che non aveva conservato memoria di aver provato mai un simile stato di benessere, anche negli anni della sua fanciullezza. Quel trotto monotono della sua cavalcatura sembrava cullarlo a guisa di un bambino; l'acqua che gli percoteva a spruzzi leggerissimi e quasi vaporosi sui capelli e sul viso, pareva accarezzarlo come una mano di donna adorata; il vento che spirava leggerissimo, pareva soffiargli sul viso come l'alito profumato d'una fanciulla; oltre a ciò gli alberi erano pieni di usignuoli che cantavano nonostante l'imperversare della pioggia; e vi era nell'aria qualche cosa di sì voluttuoso e sì molle che rendeva impossibile qualunque sentimento che non fosse stato calmo, affettuoso e gentile. Ad onta di questo stato di cose, Rosen pensava in che modo gli sarebbe riuscito domani di morire, giacché egli era intollerante d'indugii, e vagheggiava nuove venture e nuovi progetti. Ad ogni ombra che pareva disegnarsi ai lati della via, ad ogni lieve rumore di passi, il cuore di Rosen batteva più concitato e si riapriva alla speranza e alla gioia. Egli entrò ad arte nelle macchie, e attraversò il piccolo bosco di Cok-sautin trattenendo quasi il respiro tanta era la sospensione d'animo in cui si trovava, e l'impazienza di imbattersi in qualche pericolo, o di dare in una imboscata di malandrini. Ogni gruppo di piante gli pareva un assembramento di ladri, ogni cespuglio un assassino appostato sul suo sentiero, ogni ramo coperto di lichene bianco una lama di coltellaccio, o una canna di trombone. Egli pensava in che modo si sarebbe contenuto con essi. Certo i ladri non sarebbero stati meno di due o di quattro, forse anche di più - che gioia!.... e avrebbero avuto delle buone armi .... E come trattarli?... Colle buone?.. peggio! non si sarebbe fatto nulla: bisognava dir loro - assassini, furfanti, paltonieri, non mi sfuggirete; sono il Commissario generale io, domani sarete arrestati, e giuro al cielo che vi farò impiccare come tanti cani, senza darvi il tempo di fare un esame di coscienza. Rosen si era talmente investito della sua parte che inveiva ad alta voce contro questi assassini immaginarii come se li avesse avuti dinanzi, ed era già uscito dal bosco di Cok-sautin senza avvedersene. Il giorno era sull'albeggiare allorché egli incominciò a scorgere in lontananza i campanili della città, e sentì i rintocchi misurati di una campana che pareva suonare l'allarme. Aguzzando lo sguardo su quella linea bianchiccia dell'orizzonte, sul cui fondo si disegnavano a masse oscure e confuse le case di Montdidier, gli parve distinguere un'ampia colonna di fumo che si sollevava a spire nere e pesanti e si riuniva alle nubi che pendevano ancora fitte ed oscure sulla città. Rosen spronò il suo cavallo, e come fu più dappresso alle mura, distinse delle lingue di fiamme che uscivano dal tetto e dalle finestre d'una casa, e conobbe che si trattava d'un incendio. Rianimato da questa nuova speranza abbandonò le briglie sul collo della sua cavalcatura, le ficcò nel ventre gli sproni e giunse alle porte di Montdidier prima che gli abitanti di quel paese, che hanno fama di essere la gente più dormigliona, e le teste più tarde di tutta la Francia, fossero accorsi a domare in qualche modo l'incendio. Rosen arrivò dunque dei primi, e non aveva ancora avuto agio d'osservare da che parte e con quale pretesto avrebbe potuto gettarsi, nella casa incendiata, che lo colpirono queste voci: - Bisogna salvare papà Caupin, povero papà Caupin! egli deve essere inchiodato sul suo letto dall'artritide... egli morrà soffocato. Non vi è alcuno che voglia salvare papà Caupin? - Sono qua io, disse Rosen, dove è la stanza di questo malato? - O signore, che il cielo ve ne rimuneri; è la prima stanza a sinistra, al secondo piano, vi è l'uscio lì sulla scala; se non vi fosse lo trovereste nel gabinetto appresso. Rosen senza aspettar altro, sicuro che quel mezzo di morte era infallibile, entrò sorridente nel pianerottolo e si avviò risoluto su per le scale, esclamando tra sé stesso: è la provvidenza che mi ha mandato a Montdidier. Ma non aveva salito due gradini che le fiamme lo circondavano da tutte le parti, e gli toglievano il respiro; i capelli e la barba friggevano cagionandogli terribili scottature alle guancie; i suoi abiti incominciavano ad arricciarsi; e fu caso se un sentimento istintivo di umanità e la fermezza sua nel proposito di morire, valsero a spingerlo fino al secondo piano nella stanza di papà Caupin che giaceva svenuto sul pavimento. Sollevarlo, recarselo sulle spalle, ridiscendere a precipizio le scale, fu l'opera d'un istante per Rosen, che si presentò alla folla accolto da una salva di grida e di battimani; e stava per rigettarsi nell'incendio, quando si sentì afferrare l'abito da una giovine donna tutta discinta e coi capelli disciolti a onde giù per le spalle, che gli diceva lacrimando: - Deh? per carità, signore, salvate i miei due bambini, li troverete nella terza stanza a destra, al terzo piano... ma fate presto.... andate... pregherò sempre il cielo per voi! Rosen non aspettava altro, e si ricacciò nell'incendio. Fu visto ricomparire poco dopo, tenendo nelle braccia i due fanciulli che venne a consegnare alla loro madre, ma sì sfigurato dalle bruciature e dalle fatiche, che lo si poteva riconoscere a stento. Nondimeno egli non aveva smarrito ancora la ragione, né dimenticato lo scopo vero e diretto del suo disegno. Benché stordito dal dolore, affannato dall'anelito, e quasi acciecato dal fumo e dalla luce, si gettò una terza volta nelle fiamme. Gli spettatori tentarono invano di trattenerlo, gridando: - Cosa fate? È inutile... non c'è più nessuno da salvare. Povero giovine, non capisce più nulla... già... non discenderà più questa volta. Che eroismo! che cuore! Ed è dei nostri? È di Montdidier? Ma Rosen non aveva inteso o voluto intendere nulla: era suo disegno di raggiungere il piano più elevato, buttarsi sul primo pavimento che minacciasse di sfondare, e farsi travolgere con esso nelle rovine. Era giunto così al quarto piano, sotto l'arco di un uscio che poneva in comunione due stanze; le travi dei due solai crepitavano, e le fiamme ne uscivano qua e là lungo le pareti; egli scelse quello tra i due che pareva sarebbe sfondato più presto, ma vi s'era appena gettato che vide l'altro piegarsi nel mezzo, aprirsi e precipitare scompostamente con un orribil rovinio, mentre quello su cui egli stava distaccatosi soltanto dalle pareti, scendeva dolcemente tutto intero, e senza piegare, sfondando i piani sottostanti che ne ammorzavano l'urto e la rapidità col loro ostacolo. In una parola Rosen si trovò in fondo come se ve lo avessero calato con delle carrucole, e non aveva avuto tempo a meditare sulla sua situazione, che gli spettatori, vistolo dalle finestre del pian terreno, vi penetravano da tutte le parti, e lo estraevano, suo malgrado, da quelle rovine. Rosen era sì sofferente e sì addolorato che svenne. La folla piena di gratitudine e di ammirazione per lui, lo accompagnò, acclamandolo, fino ad un'altra casa del signor Caupin, dove fu portato in lettiga, e posto a letto per essere medicato delle sue ferite. Nella sera di quello stesso giorno Lamperth, giunto a Montdidier, si recò al caffè della Pace, dove Rosen gli aveva dato convegno, e dopo avervi bevuto il fiore di latte, che ha fama di essere il migliore che si beva nella Francia, tolto in mano il giornale della provincia, vi lesse con suo stupore queste parole: «Eroismo. - Un grande incendio si è sviluppato stamane nella casa del signor Caupin. Si avrebbero avuto a deplorare perdite dolorose, - quella dello stesso Caupin impedito nel camminare, e di due piccoli fanciulli - se un viaggiatore inglese arrivato in quel momento nella nostra città, non li avesse tratti a salvamento, gettandosi, senza esitare, nelle fiamme, e riportandone tali ferite che lo costringono al letto nell'altra casa dello stesso signor Caupin dove venne ricoverato. Egli è certo barone Alfredo di Rosen, nativo di Londra. Siamo lieti di annunciare che il comune di Montdidier, in seduta d'oggi, gli ha conferita ad unanimità di voti, la medaglia d'argento al valore civile.» * * * Lamperth, dopo essersi informato del luogo ove era situata la casa del signor Caupin, andò a rendere una visita a Rosen. Lo trovò profondamente abbattuto, e sì trasfigurato dalle scottature e dalla perdita delle sopraciglia, dei capelli e della barba, che durò fatica a riconoscerlo. Lamperth stesso che non aveva un cuore tenero come la giuncata, si sentì tutto rimescolare a quella vista, e stendendogli la mano con atto di pietà e d'interessamento che pareva, ed era certo, sincero, gli chiese: Come state? - Voi vedete in me, gli disse Rosen con aria di abbattimento profondo e senza rispondere direttamente alla sua domanda, voi vedete in me un uomo che è incontrastabilmente il più sventurato fra quanti abbiano patite sventure d'ogni sorta nel mondo. E ciò non di meno sento che questo dolore non ha il potere di uccidermi; e ho non so quale presagio nel cuore che mi dice che io devo vivere, vivere inesorabilmente a dispetto della mia volontà, e de' miei progetti. Ah! domandare soltanto di morire.... e non poter morire! È una cosa orribile! - Che volete? sono travagliato da un'idea fissa, da un dubbio, da un sospetto che mi atterisce. Sarei io mai dotato di una natura immortale? È un pensiero che mi fa rabbrividire, e non di meno non lo posso scacciare dalla mia mente. È un pensiero che se io fossi suscettibile di morire, basterebbe solo ad uccidermi. - Sentite, riprese Rosen dopo qualche intervallo di silenzio, se io potessi morire di veleno, dopo il fatto di ieri, dopo che si conosce a Montdidier la mia qualità di barone, credete che potrei destare sospetto di suicidio? - Non lo credo, disse Lamperth, ma dovete pensare che ne cadrebbe il sospetto sopra persone innocenti. Le cronache giudiziarie registrano a questo proposito dei fatti terribili, e i primi tentativi che avete fatto per morire vi hanno già creata una responsabilità abbastanza grave. - È vero, interruppe Rosen, con accento mortificato, ma la verità verrebbe poi sempre alla luce. E avendo veduto che Lamperth aveva come accennato del capo in atto di adesione, dopo un istante di silenzio, afferrò le sue mani, si sollevò un poco sul guanciale, e gli disse con suono di voce supplichevole: - Lamperth, mio buon amico, ve ne scongiuro, deh! procuratemi un veleno. - Impossibile, rispose Lamperth con aspetto grave e severo; io posso assistere alla vostra morte, posso assecondare fino ad un certo punto i vostri disegni, giacché ho compreso che è impossibile di potervene distogliere; ma non posso procurarvi io medesimo i mezzi di morire, Rivolgetevi ad altri, La mia coscienza m'impedisce di favorirvi, - Bene, bene, disse Rosen, sia come non detto, ma ciò non di meno voi sapete che ho della simpatia per voi…. voi siete incaricato di una lettera per mia moglie... avete ricevute le mie confidenze... ve ne prego, ottimo signor Lamperth, non mi abbandonate sì presto.... Se non posso morire qui, conto di venire con voi in Italia, dove credo che un uomo che non chieda che di morire, possa correre miglior fortuna che in Francia, - Oh! in quanto a questo rassicuratevi, disse Lamperth, io vi seguirò dappertutto, e indugierò a partire da Montdidier fino a che non sarete guarito. Tanto più che si beve realmente dell'ottimo fiore di latte a Montdidier... bisogna dirlo, non è un cattivo soggiorno... - No, no, riprese Rosen, vi ho passati alcuni mesi nella mia infanzia, e non è veramente un soggiorno dispiacevole, ma io non domando che di morirvi. - Speratelo, conchiuse Lamperth stringendogli la mano, e accomiatandosi da lui; la fortuna è capricciosa, e può concedervi domani ciò che vi ha rifiutato oggi; e quando meno state in aspettazione delle sue grazie, colmarvi de' suoi doni e de' suoi favori. Ma rimanete tranquillo; verrò a rivedervi domani; spero trovarvi peggiorato. Appena Lamperth si fu allontanato, ciò che Rosen aspettava con impazienza, egli fece chiedere d'un giovine commesso di farmacia che gli aveva recate alcune medicine, e applicate alcune striscie di taffetà nel giorno antecedente, e gli disse: - Voi dovete essere un ottimo ragazzo, e ho in mente di giovarvi per quanto mi è possibile, combinando l'interesse vostro ed il mio in un affare che vado a spiegarvi in due parole. Il cuore mi dice che noi riusciremo a qualche cosa. Ecco come sta il fatto. Si tratterebbe di un.... bisognerebbe.... ascoltatemi. - Dite, io sono tutto orecchi. - Vado a spiegarmi: io ho un'amante nel mio paese, una ragazza a dovere... figuratevi... una bellezza rara, una bellezza prodigiosa; una di quelle donne che hanno diritto a pretendere in un amante delle attrattive irresistibili.... ora... non dico d'averle avute io, ma certo... voi lo vedete, la mia faccia, i miei lineamenti sono alterati, io sono ora un uomo brutto, diciamolo francamente, brutto, è la parola. Io non ho più il coraggio di farmi rivedere da lei in questo stato, ho preso una risoluzione energica, irremovibile; ho deliberato di... Come vi chiamate signor Tricotèt? - Tricotèt, l'avete detto. - E a che somma ascendono i vostri onorarii? - Oh! ad una somma assai lieve, se volete, ma considerevole sempre per un giovine commesso di farmacia, a venticinque lire mensili. - Bene! riprese Rosen, sappiate adunque che per i motivi che vi ho esposti, io ho deliberato di... morire; e vi darò qui su due piedi venticinque mila franchi se voi mi procurate un veleno per farlo. Un veleno! esclamò Tricotèt alzandosi due spanne dalla sua sedia; ma, signore, se non è che il timore della vostra deformità che vi consiglia questa determinazione, io vi assicuro che voi guarirete: fidatevi di me, sono in grado di accertarvelo, io; studio il terzo anno di farmaceutica; e non sono più di due mesi che colla pomata vergine di Vernicot, ho fatto rinascere le ciglia e i capelli all'illustrissimo signor Verrier, che è l'avvocato generale del dipartimento, e che era raso quanto una guancia... Avete detto venticinque mila franchi? - Venticinque mila. - E che veleno vi occorrerebbe? - Oh! un veleno qualunque..... purché sia potente, pronto, efficace, ma sopratutto potente. - In quanto a questo, non avreste a temere.... credo avervi detto che studio il terzo anno di farmaceutica; queste cognizioni le ho sulle punta delle dita. - Bene, bene, riprese Rosen, pensateci seriamente, ne va della vostra fortuna. - Ci penserò, disse Tricotèt avviandosi verso la porta per uscirne. Ma non aveva ancora chiuso l'uscio dietro di sé, che ritornò nella stanza di Rosen e gli disse: - Signore, ci ho pensato... parmi di poter accettare.... ho a mia disposizione una certa pasta nera, il cui effetto è terribile, è immediato, benché procuri una irritazione intestinale abbastanza sensibile... se voi credete... se persistete nella stessa offerta, io ve la potrei procurare dietro la riscossione della somma su cui abbiamo convenuto. - Non v'è che dire, riprese Rosen, voi mi darete il veleno... la pasta.... ciò che dite, ed io vi sborserò i venticinque mila franchi. - Accettato, rispose Tricotèt con risolutezza, volo a provvedermene: fra due minuti sarò di ritorno. Rosen, sicuro finalmente di morire, si abbandonò tutto alla voluttà di questo pensiero. Un istante dopo Tricotèt ricomparve portando con sé un piccolo vaso ripieno d'una pasta nera che liberò con molta precauzione da cinque o sei fogli di carta in cui era avviluppato, e lo presentò a Rosen dicendogli: - Non avrete tempo a prenderne quattro boccate che sarete freddo. Rosen gli sborsò i venticinque mila franchi che erano tutto ciò che gli rimaneva della sua fortuna. Tricotèt li intascò con tutta l'impassibilità d'un uomo d'affari; ridiscese a saltelloni la scala, e, preso un posto nella diligenza di Lafitte, partì in quella stessa mattina per Parigi - Rosen, rimasto solo, si raccolse tutto in sé stesso, richiamò tutte le sue memorie, ripensò alla sua fanciullezza e a sua moglie, fece un breve esame di coscienza, si pose in pace alla meglio con essa e con sé medesimo, e dato un addio alla vita e alle sue rimembranze, rinchiuse gli occhi e ingoiò in quindici o venti boccate tutto il suo veleno. Era un sapore acre ma dolce, e pareagli d'averlo gustato altre volte; non aveva nulla di disgustoso, nulla di forte, e Rosen stava per dubitare della fede di Tricotèt, quando lo incominciarono ad assalire degli spasimi colici così potenti che non potè trattenere suo malgrado le grida. Erano dolori orribili, insopportabili, atroci. Rosen, come tutte le nature vivaci, ma deboli, era vile dinnanzi al dolore. I suoi lamenti fecero accorrere il signor Caupin che, non ostante le sue proteste, si affrettò a mandare pel medico. Rosen nell'entusiasmo del suo sacrificio non aveva preso tutte le precauzioni opportune, e aveva dimenticato sul tavolo il vaso del veleno. Se ne avvide troppo tardi quando il medico se l'era già tolto in mano, e esaminandone le reliquie gli diceva: - Che diavolo avete preso o signore? Chi è quell'asino di dottore che vi ha fatto una simile ordinazione? Oh la scienza! E c'è tanto da vergognarsene... siamo giunti davvero a un bel punto!... Quattr'oncie di conserva di prune coll'emetico! È una cosa orribile, un'ordinazione da cavallo!.... - È il signor Tricotèt, mormorò Rosen tra lo spasimo, un commesso di farmacia che.... - Il signor Tricotèt!.... diamine... ho trovato or ora il suo padrone, il degno farmacista Sapiston, che ne va in cerca per monti e per mari; egli ha ricevuto in questo momento una sua lettera in cui gli annunzia che parte oggi stesso per Parigi, e va ad acquistarvi una delle farmacie meglio avviate della capitale. - Ah Tricotèt scellerato! disse Rosen, tenendosi il ventre colle mani, piccolo malandrino! giuro al cielo che io vo' guarire a posta, rinunciare a tutti i miei progetti per andargli a strappare le orecchie a Parigi. - Via, via, disse il dottore in aria di conciliazione, quel piccolo monello vi ha fatto uno scherzo di cattivo genere, ma la cosa non ha in sé nulla di conseguente, prima di domani sarete perfettamente guarito. Venti giorni dopo questo avvenimento, Rosen ristabilito della sua malattia, prendeva con Lamperth la strada della capitale. Un nuovo campo di avventure doveva aprirsi adesso per Rosen. In quel gran centro che è Parigi dove le statistiche registrano ogni giorno centinaia di furti, di aggressioni, di delitti, di calamità d'ogni genere, non doveva riuscirgli difficile di morire. Almeno Rosen lo sperava; considerava le avversità passate come un brutto giuoco della fortuna, ma nulla più che un giuoco; era impossibile ch'essa potesse contendergli più a lungo la realizzazione di un desiderio sì semplice e sì naturale, il compimento di un destino inevitabile e comune a tutte le cose. Oltre a ciò egli era divenuto triste e soffrente; bisognava aggiungere alle cause che lo eccitavano a desiderare con tanta ostinazione la morte, quel non so che di mesto e di inusitato che gli era provenuto dalla sua infermità, e il dispiacere delle traccie che ella aveva lasciato sulle sue fattezze. Perché Rosen ci teneva alla sua avvenenza, e non aveva totalmente mentito quando aveva detto a Tricotèt che non avrebbe potuto reggere al pensiero di rivedere l'Inghilterra così malconcio. Il più delle volte noi amiamo di essere belli per noi stessi, perché amiamo anzi tutto noi stessi, e consideriamo la bellezza fisica come un riflesso, come un'espressione della bellezza morale. I fanciulli che ignorano ancora tutta l'influenza che la beltà esercita sugli affetti, ambiscono nondimeno di essere leggiadri, ed è questo il primo istinto di vanità che apparisca ordinariamente nell'uomo. Vi furono in ogni tempo delle donne segnalate per avvenenza straordinaria, le quali non amarono alcuno, e furono tuttavia felici, e trovarono nella sola coscienza di questa loro beltà un conforto a mali grandi e reali della vita che non avrebbero saputo tollerare altrimenti. Egli è che esse amavano potentemente e sovra tutto sé stesse; e si è spesso tentati di credere che quell'amore che si dà ad altrui non sia che un'esuberanza, un residuo di quello che si dà a noi medesimi. Si toglie a sé, e si dà ad altri; più amate altrui e meno amate voi stesso: da ciò il sacrificio in amore, e quella legge immutabile di egoismo che lo governa provvidamente e lo frena. Rosen incominciò da quei giorni una nuova serie di tentativi. Risoluto a non ritentare le sorti del duello che non gli avevano fruttato fino allora che dei rimorsi crudeli, immaginò nuove imprese e nuovi disegni: ma non era così agevole l'immaginarne di efficaci e di utili. Ne concepiva molti, e molti ne rigettava come ineffettuabili. Vi era sempre in ciascuno di essi qualche ostacolo, qualche conseguenza probabile che lo distoglieva dall'eseguirla. Perché egli si era fatto saggio dopo quelle prime prove, e la sua coscienza infiacchitasi, come suole nella malattia, gli suggeriva rimedii più cauti e più onesti. In quel primo periodo della sua dimora a Parigi aveva cercato, ma indarno, di morire con qualche mezzo comune; si era buttato tre o quattro volte tra le carrozze che gli attraversavano la via, come persona che ha difetto d'udito, o che non bada molto a sè per distrazione soverchia; ma i cocchieri erano sempre stati troppo avveduti, e s'erano sempre trovati importuni che gli avevano strillato alle orecchie: - Ehi, signore, la si guardi, badi che le viene addosso una carrozza; e talora ne l'avevano sottratto a forza, afferrandolo e trattenendolo violentemente per l'abito. S'era provato a passeggiare lungamente e pazientemente sotto i ponti e sotto le bertesche degli edificii in costruzione, sperando la caduta d'una tavola, d'una pietra, o di un arnese qualunque che avesse potuto ucciderlo, ma indarno: aveva girato tutto il vecchio Parigi, e cercato tra quelle case antiche e tra quei vecchi recinti di giardino qualche muro che minacciasse di sfasciarsi, e vi aveva passato notti intere aspettando che rovinasse, ma non era stato più fortunato in ciò, di quanto lo fosse già stato dapprima. Un destino misterioso altrettanto che strano, governava la vita di Rosen. Spesso nello scorrere per passatempo i giornali della sera, si arrestava con un senso di sdegno e d'invidia a meditare sull'elenco dei morti nella giornata - tre o quattrocento ogni giorno; e tra essi molti più giovani di lui, molti fanciulli che vi avevano diritti infinitamente minori..... E tuttavia egli viveva…. Talora si sentiva sgomentato nello scorgere che la maggior parte di quei morti erano vissuti fino ad una età molto avanzata, fino a settanta, a ottant'anni; ve n'erano spesso alcuni che per poco non avevano toccato il secolo.... Se egli avesse avuto lo stesso destino.... se fosse stato condannato ad una vita sì lunga! In quegli intervalli di scoraggiamento tornavalo ad assalire il sospetto che egli fosse dotato di una natura immortale, che tutti i suoi sforzi sarebbero riusciti vani, eternamente vani... Non poteva reggere al pensiero di una vita che non doveva aver fine; era questo fine che egli voleva affrettare, che egli voleva raggiungere; e quantunque si avvedesse dell'assurdità di un simile sospetto, n'era soventi in timore, e passava giornate angosciose, travagliato, come era, da un pensiero così scoraggiante e terribile. In quei giorni avendo appreso che molti assassinii succedevano la notte nei quartieri più remoti di Parigi, sui boulevards, al bosco di Boulogne, in quelle vecchie e strette viuzze che si trovano dal lato occidentale della città, Rosen vi si cacciava tutte le sere, e vi errava per lunghe ore senza frutto; rientrava a notte inoltrata, e talora, verso il mattino, scoraggiato, prostrato, vinto da quella cieca fatalità che vigilava con tanta costanza sulla sua vita. Oltre a ciò egli doveva struggersi di celare l'entità della sua persona: le sue avventure di Dover e di Amiens avevano messo la polizia sulle sue tracce, e benché egli non avesse palesato a persona il suo nome, bastava un indizio, un sospetto, perché si fosse venuto in chiaro di tutto. Più che di una pubblicità disonorante, Rosen temeva della violazione del suo segreto, dell'inutilità del suo sacrificio, e delle ristrettezze domestiche di sua moglie. Si era creato mille sorgenti di dolori, mille motivi di pene e d'inquietudini, e comprendeva di non potervi rimediare che morendo. Aveva risolto di abbandonare Parigi, quando una sera essendo entrato in una bettola, come soleva fare, per corrervi qualche avventura, e essendosi seduto colle spalle rivolte a un assito che tramezzava la camera, scorse da una fessura delle tavole quattro persone, che sedevano in un angolo della stanza, discutendo a bassa voce circa un complotto di furto che si proponevano di effettuare in quella notte medesima. Quantunque essi parlassero assai piano, non riuscì difficile a Rosen che stava origliando alla fessura, d'intendere queste parole: - Vi ripeto che il teatro dell'Opera non finisce che dopo la mezzanotte. È impossibile che egli ritorni prima di quell'ora. - Ma siete poi sicuro che il signor Meustrier vi vada tutte le sere? - Tutte le sere. Bene! ma io credo ad ogni modo che convenga indugiare fino alle undici. Sapete che al secondo piano la signora Ronson non si corica mai prima di quell'ora, e si ferma spesso sul pianerettolo ad inacquarvi i suoi vasi di basilico. Già, io temo di voi, mio caro amico, perdonatemi, ma siete così smemorato; metterei un occhio della testa che prima che siate partito e tornato per le nostre provviste, avrete dimenticato la strada, la casa, il numero, e perfino la qualità di dottore dell'onorevole signor Meustrier, e lo scopo per cui andiamo a rendergli quella visita. - Via, e lo so a mente come le litanie: vicolo della Chiusa, n. 42, piano terzo, uscio a sinistra, quattro finestre sul vicolo, abitazione del signor Meustrier, dottore in ambo le leggi. Ma a me passano pel capo ben altri timori. - E sarebbero .... - Ve l'ho già detto; voglio dire quella persona che ci spiava alla cantina del Falcone, e che sarebbe stato scambiato per un ispettore di polizia anche da un cieco. Temo che ci abbia uditi. - Voi non vedete che ispettori di polizia. Ma è tempo che andiate per le cose nostre... già non vi dimenticherete del convegno... al tocco delle undici sull'angolo. - E se ... - Cosa? - Se nel discendere e nel salire, incontrassimo il signor Meustrier, se lo trovassimo in casa... - In casa è impossibile, non torniamo sulle questioni già appianate: se lo incontreremo per le scale sarà un altro paio di maniche, bisognerà fargliele ridiscendere a capo fitto. Rosen non volle udire altro, non mancava più alcun dettaglio al suo piano; uscì a precipizio dalla bettola, deciso di rappresentare la parte del signor Meustrier, e di appostarsi sulle scale del suo palazzo. Ma la cosa più difficile era trovare il vicolo della Chiusa; non è sì agevole il trovare un vicolo a Parigi sulla semplice indicazione del suo nome, e Rosen temeva di compromettersi chiedendone notizia a qualche passeggiero. Non erano però le nove, e gli avanzavano due ore per farne ricerca: poteva sperare ragionevolmente di riuscirvi. Fino dal primo momento che aveva sentito i ladri accennare a quel luogo, aveva supposto che non sarebbe stato molto lontano da quel quartiere, perché essi non si sarebbero radunati in un punto opposto della città: era d'uopo passare ad una ad una per tutte quelle vie e leggervi le indicazioni dei viottoli traversali: dopo ciò se tutto fosse stato inutile, richiederne con franchezza qualche persona, e non trovando chi glielo indicasse, cacciarsi in una vettura pubblica e farvisi condurre come a casa propria. Concepito questo piano, Rosen si accinse di buon animo alle sue ricerche. Ma era inutile; il tempo volava con una rapidità spaventosa, e Rosen non era adesso più fortunato di quanto lo fosse stato in quei giorni. Ad ogni breve intervallo di tempo guardava con trepidazione sull'orologio, e vedeva la lancetta affrettarsi a raggiungere l'ora fatale, senza che potesse aver indizio alcuno di quella strada. Erano le dieci e mezzo, mancava mezz'ora al convegno... Risolse allora di chiederne notizia ad alcune persone che gl'inspiravano qualche fiducia, ma nessuna di esse seppe indicarglielo. Si azzardò a interpellarne una guardia di polizia, che lo guardò di traverso come una persona sospetta, ma anche questi non ne sapeva più dei primi. Intanto erano già trascorse le undici, Rosen era sulle spine; conobbe che bisognava tentare rimedii estremi, e aprendo lo sportello d'una vettura pubblica vi si buttò dentro come una persona disperata strillando alle orecchie del cocchiere: vicolo della Chiusa, n. 42, a gran corsa. Il cocchiere dopo essersi raccolto un momento quasi per chiamare a rassegna tutte le sue cognizioni topografiche, fece scoppiettare la sua frusta, e spinse il cavallo in una direzione opposta a quella per cui era venuto Rosen. Si corse per una buona mezz'ora; Rosen era al colmo della desolazione; mancavano pochi minuti alla mezzanotte, e già aveva deliberato seco stesso di rinunciare a quel tentativo e di farsi condurre invece da Lamperth, quando vide la carrozza voltare in una piccola via, e appena girato l'angolo, arrestarsi. Rosen ne discese, guardò in alto e vide il numero 42 illuminato dal fanale della strada che pareva dirgli: questa è la casa, venite. Pagò sontuosamente il cocchiere, e raccogliendo tutto il suo coraggio entrò nell'atrio, e cominciò a salire le scale. Era giunto appena al terzo piano, quando gli parve d'intendere del rumore nell'appartamento del signor Meustrier; e appressandosi all'uscio, conobbe che le imposte ne erano socchiuse, e vide uscirne un filo di luce che le illuminava di dentro. Non v'era dubbio, ladri non ne erano ancora usciti; bisognava usare dell'audacia, far la parte del signor Meustrier, entrarvi, assalirli, e lasciarvisi sgozzare come un agnello. Ma Rosen non aveva ancor messa la mano all'imposta, che udì una voce maschia chiedere di dentro: Chi va là? - Io, disse Rosen, spalancando la porta e precipitandosi nella stanza, io, il dottore Meustrier; chi è che è entrato in mia casa? - Onorevole dottore, rispose una persona che Rosen riconobbe subito per un gendarme, li abbiamo pigliati nella trappola; e aprendo l'uscio della seconda stanza disse: il signor Meustrier è arrivato in questo momento. Rosen guardò, e vide una quantità di gendarmi, intenti ad ammanettare i quattro personaggi che aveva conosciuto alla bettola. L'ispettore di polizia, appena vedutolo, gli si appressò con aria di soddisfazione, e togliendosi rispettosamente il berretto, gli disse: Egregio signor Meustrier, ella ci vorrà perdonare se abbiamo dovuto violare la sua casa, ma la giustizia ha esigenze sulle quali non è possibile transigere ... D'altra parte le abbiamo ricuperati i quaranta mila franchi di deposito che ella incassò stamattina, e che questi galantuomini avevano già fatto passare nelle loro saccoccie. Fu un fatto molto onorevole per la polizia di Parigi, questo; non lo dico per vantarmene, io, ma ... già, tutto il merito è dovuto al nostro agente, il signor Chaperron, che ha saputo scoprire il complotto nella cantina del Falcone, dove questi signori si erano radunati per concertare il loro piano. Aveva fatto cercare di lei, ma non ci è stato possibile di trovarla. Ho sentito in questo momento la sua carrozza, e ho detto tra me stesso: il signor Meustrier è qui, egli rimarrà ben stupito di trovar tanta gente in sua casa. Come fare? E bisognerà ora che ella abbia anche la bontà di accompagnarci all'uffizio della sezione, dove redigeremo il verbale, e le restituiremo il danaro rubato, appena verificata esattamente la somma. - Sono ben grato, disse Rosen, che si sentiva calare il sudore gelato dalla fronte, sono ben grato delle cure che questa benemerita autorità si assume per la tutela della proprietà privata, e mi duole di non poterle offrire che un attestato verbale della mia riconoscenza: del resto, signor ispettore, io mi farò un dovere di far conoscere a tutti la di lei avvedutezza e il di lei zelo, segnalandolo per le stampe alla ammirazione ed alla gratitudine del paese. L'ispettore s'inchinò fino a terra. Rosen, avendo ammiccato dell'occhio ai quattro arrestati, che lo guardarono stupiti, come avesse voluto dir loro: non temete, non mi tradite, non sono il signor Meustrier, io; lo so bene che non mi conoscete, ma sono uno dei vostri, uno che saprà liberarvi, purché abbiate un'oncia di giudizio, riprese: - Signor ispettore, io sono ai di lei ordini, andiamo. E si avviarono all'ufficio di polizia. Quivi Rosen che si sentiva i bordoni alla testa, dovette subire un lungo interrogatorio, declinare il suo nome, la sua qualità, la provenienza del danaro rubato; dopo di che, avendo firmato il verbale che faceva constare del fatto, l'ispettore generale gli disse, consegnandogli i quarantamila franchi, che erano stati tolti a Meustrier: - Signor dottore, ella può ora ritirarsi, ma è necessario che ritorni domani al nostro ufficio per assistere all'interrogatorio degli accusati. Rosen, intascando alla meglio il danaro, si cacciò giù per le scale, leggiero come una rondine, si ficcò in una carrozza da nolo, si fece condurre dal suo amico Lamperth, e gli disse: - Io parto in questo istante per Melun; sono stato costretto a rubare quarantamila franchi, e non potrei rimanere un'ora di più a Parigi; raggiungetemi domani in quella città, dove desidero di giustificarmi con voi di questa appropriazione. - Sta bene, ci rivedremo domani a Melun, rispose Lamperth con freddezza. * * * Quel piccolo gruzzolo del signor Meustrier non era giunto inopportuno per Rosen; egli era stato a un filo dal vedersi senza un quattrino; e d'altra parte considerava quel dono singolare della fortuna, come un compenso alle somme che Lachard e Tricotèt gli avevano arraffate prima del suo arrivo a Parigi. Ciò di cui egli si sgomentava non era tanto il ritardo che tutte quelle mille fatalità frapponevano al raggiungimento del suo scopo, quanto quel non so che di ostinato e di derisorio con cui quelle stesse fatalità tentavano di paralizzarne l'azione. Tuttavia, appena arrivato a Melun, si era avveduto che una nuova serie di avventure le attendeva in quella città. La Senna, ingrossatasi per le pioggie che erano state frequenti in quei giorni, era uscita dal suo letto e aveva allagato buona parte di quelle campagne. Molte case di coloni erano rimaste sepolte a metà dalle acque, senza che le famiglie che le abitavano avessero avuto il destro d'uscirne: non poche di esse mancavano di provvigioni, o erano minacciate in altro modo nelle loro case medesime, che scalzate dal fiume alle fondamenta erano in procinto di rovinare. Ogni giorno si numeravano nuove vittime, e quei pochi generosi che s'erano spinti in loro soccorso ne costituivano la maggior parte. Rosen aveva appreso queste notizie non appena partito da Parigi, ond'è che giunto a Melun, era corso tosto alla riva del fiume per vedere le cose da sé, e confortarsi della certezza di questo avvenimento. Tutta quell'estensione di campagna così allagata presentava uno spettacolo stupendo. Dalla parte di Corbeil, l'occhio non giungeva a distinguere il limite estremo dell'allagazione, e l'orizzonte si chiudeva in una linea confusa e bianchiccia, come avviene in una scena di mare, quando le onde agitate presentano alcune creste di una bianchezza abbagliante sopra un fondo oscuro e verdastro. Dal lato opposto, la via di Fontainebleau, dove le acque si erano arrestate in un declivio, porgeva l'aspetto di un serpente smisurato che stesse per uscire dal fiume. Dappertutto biancheggiavano delle case, quali scoperte in gran parte, quali sepolte fino al tetto, di cui non si scorgevano che i comignoli, simili ad alberi di nave naufragata; le piante investite dalla corrente oscillavano sui loro fusti; e molte di esse sradicate erano travolte impetuosamente dalle onde; in alcuni punti il fiume era limpido e calmo, in alcuni altri scorreva con un fragore spaventoso, e si riversava negli avallamenti, che riempiuti si scaricavano negli altri seni più bassi. Mille altri particolari completavano la scena stupenda di quel quadro. Rosen gioiva dal più profondo del cuore nel contemplarlo. Quanti pericoli non avrebbe egli potuto corrervi domani, e quanti pretesi non avrebbe egli avuto per correrli? Come doveva essere facile il morire in quel luogo! - una barca rovesciata, una riva franata, una casa sfasciata dall'acqua, un naufrago che invoca soccorso .... no, era impossibile che questa volta non riescisse a Rosen di morire. Dopo che egli ebbe passato alcune ore beandosi in quella vista, rientrò nella città che la notte era di molto inoltrata, si gettò sul letto fantasticando, ebbe sogni pieni di voluttà e di visioni. Gli pareva che, essendosi gettato nella Senna, le onde lo avessero travolto e inghiottito senza che egli od altri avessero avuto tempo di opporvi la menoma resistenza; le acque si erano chiuse sopra di lui, egli si sentiva affondare affondare, scendere scendere continuamente senza poter giungere al fondo, la corrente lo portava con impeto e lo faceva girare su sé stesso come una foglia investita dal vento. In quel lungo sommergersi Rosen provava una strana sensazione di piacere, avrebbe voluto scendere così eternamente senza toccare il letto del fiume; ma non avea concepito questo desiderio che ne scorse il fondo tutto coperto di musco e di conchiglie, e non l'ebbe raggiunto che disse a sé stesso con un senso di tranquilla rassegnazione: sono morto sono finalmente morto! Allora una miriade di pesciolini e di piccoli mostri acquatici si precipitarono sopra di lui per divorarlo. A quella vista Rosen si spaventò e destossi. - Sia lodato il cielo, diss'egli, questo sogno è una previsione, andiamo. E vestitosi in fretta si avviò verso il fiume. Appena giunto alla Senna fu lieto di apprendere che si era costituita fra alcuni filantropi di Melun una società di soccorso per le persone che si trovavano chiuse nelle case allagate. Rosen domandò sull'istante di farne parte e lo ottenne. Da lungo tempo egli godeva nel suo paese fama di abile nuotatore, e pensò con piacere che prima di morire avrebbe potuto rendere realmente qualche servigio a quegli sventurati: in fondo in fondo egli non era cattivo, e un istinto di umanità lo aveva tratto sovente a sacrificare per l'utile altrui, il bene proprio, come aveva fatto in occasione dell'incendio di Montdidier. Rosen chiese che gli fosse affidata una barca colla quale avesse potuto trasportare alcune provvigioni nelle fattorie che ne avevano difetto, o tentare di trarre in salvamento gli abitanti di quelle case che minacciavano rovina. Per due giorni fu un prodigio di attività e di fortuna, e rese beneficii immensi alle vittime di quell'innondazione - tutta Melun era occupata di lui e del suo coraggio, il nome di Rosen era sulle bocche di tutti - ma, al terzo giorno, quando appunto prostrato da quelle fatiche e impaziente di morire, aveva risolto di tentare qualche cosa di decisivo, avvenne che guidando egli una barca su cui trasportava alla riva due fanciulle raccolte sopra un piccolo rialzo di terra che era stato circondato dal fiume, questa investì in un albero che scendeva giù trascinato dalla corrente, e n'andò rovesciata. Al momento in cui Rosen incominciava a sommergersi guardò alla riva, vide la folla che assisteva al triste caso; e non potendo più dubitare che la sua morte non potesse venir impedita e non dovesse essere considerata affatto accidentale, provò nel fondo dell'anima una strana gioja, e disse: oh finalmente .... Ma non aveva ciò pensato, che si sentì afferrare da una di quelle fanciulle che si erano sommerse con lui, e che gli s'avvinghiava alla persona con tutta quella disperata tenacità che da l'istinto della vita. Il cuore di Rosen non era eccessivamente pietoso, ma pure ne sentì compassione, e slacciandosi alla meglio dalle sue braccia, e stringendola con una mano alla cintura, incominciò a nuotare verso la riva. V'è un'altra vittima da salvare pensava egli tra sé stesso, mentre lottava disperatamente colle onde, nessuno mi toglierà il pretesto di rituffarmi nel fiume. E messo in pace da questo pensiero continuò ad affrettarsi alla sponda. Rosen vi giunse sì spossato, sì oppresso dalla fatica che appena potè intendere le grida e gli applausi della folla, che stava schierata lungo la riva. Ma non ebbe posata a terra la fanciulla, che, fingendo di voler correre alla salvezza dell'altra, tornò ad immergersi, e prese a nuotare verso il largo della Senna. Intanto alcune barche si erano distaccate dalla sponda; Rosen le vide, e fosse la fatica fosse il timore che potessero venire in suo soccorso, si sentì venir meno, incominciò a perdere la vista dell'orizzonte, a gettare le braccia inerti sull'acqua, a diventare leggiero, nel tempo stesso che si sentiva inghiottire dalle onde; e smarrendo in un istante ogni forza ed ogni coscienza di sé, si sommerse. In quell'intervallo di tempo due barche lo avevano raggiunto, e due francesi si erano già gettati nell'acqua per salvarlo. Rosen non aveva avuto tempo di toccare il letto del fiume, che uno di essi lo aveva afferrato alla cintura e trattolo fuori e coricatolo nella barca, lo aveva ricondotto alla riva. Tutto ciò era avvenuto in istante, e senza che Rosen, che era svenuto, avesse potuto avvedersene. Ma quale non fu la sua maraviglia, quando nel risensare si trovò nella sua stanza, nel suo letto; e vide Lamperth seduto al suo fianco; e richiamando in un istante le sue memorie, potè indovinare agevolmente tutte le particolarità della sua sventura. - Ah! sono ancora vivo, egli disse, sono ancora vivo! ... e si riposò con dolore su questa parola. Egli era sì debole che un istante dopo si pose a piangere e singhiozzare come un fanciullo, esclamando colla voce interrotta dalle lagrime: - Io non morirò più! ... Io non potrò più morire! ... Indarno Lamperth si provò a consolarlo: il suo abbattimento era estremo. - Io morirò di crepacuore, io morirò di angoscia, ripeteva Rosen ad ogni frase del suo amico. E l'altro a soggiungergli: - è il genere di morte più valido dinanzi alla società di assicurazione. Alcuni giorni dopo Rosen guarito aveva detto a Lamperth: - Andiamo via di qui, non fermiamoci più fino a che non saremo giunti in Italia. E stavano per partire, quando una deputazione del municipio di Melun entrò nella stanza recando a Rosen un indirizzo di quel comune, nel quale lo si ringraziava del soccorso prestato durante l'inondazione, e gli si offriva, come unico compenso degno di tanta abnegazione, la cittadinanza di Melun. Rosen volle rispondere, ma provò tale un eccesso di sdegno contro la sua fortuna e contro sé stesso, che si sentì soffocare dalla bile; e non potendo reagire e superare la sua emozione, cadde svenuto sopra una sedia. - Egli è ancora assai debole, disse un membro della deputazione a Lamperth, e questo attestato di onore che ha voluto porgergli la nostra città, lo ha profondamente commosso. - Sì, disse Lamperth, lo ha commosso molto profondamente. * * * Dopo quindici giorni di viaggio, Rosen e Lamperth giunsero a Grenoble, col pensiero di passare le Alpi presso Brianzure, e di passarle a piedi come due buoni inglesi. Rosen era prostrato dalle tante disillusioni sofferte; ma come suole avvenire in tutte le nature immaginose e fantastiche, si confortava di nuove speranze. Gli pareva che in Italia sarebbe riuscito, che anzi sarebbe riuscito alla prima prova, e aveva deciso di non tentare più che avventure serie, avventure utili, nelle quali la sua sensibilità e la sua coscienza non avessero più a distoglierlo dallo scopo immediato dei suoi tentativi. Oltre a ciò sentiva in sé stesso un presagio consolante, il presagio che egli si avvicinava al suo fine, che qualche cosa di solenne, qualche cosa di decisivo doveva accadergli in quei giorni. Gli s'erano già offerte tre o quattro occasioni, ma aveva ricusato di approfittarne, come quelle che non promettevano un esito sicuro, quando, essendo giunto ad un piccolo villaggio alle falde dalle Alpi, e avendo saputo che in una foresta vicina era imboscata una grossa masnada di assassini che vi commettevano delitti inauditi, risolse di andarli ad incontrare. Fino allora non s'era dato esempio di viaggiatori che fossero capitati nelle loro mani e che ne fossero usciti vivi, per quanto danaro avessero lor dato, e per quante preghiere avessero rivolte; era naturale che Rosen, deciso a difendersi e a provocarli, potesse lusingarsi di correre lo stesso destino. Accomiatandosi da Lamperth che sicuro della morte del suo amico lo abbracciò colle lagrime agli occhi, Rosen tolse pretesto di una passeggiata su pel monte, e s'inoltrò arditamente nella foresta. Camminava triste e pensoso, guardando gli alberi che distendevano i loro rami sopra di lui, come un ombrello gigantesco; raccogliendo per distrazione qualche corbezzolo, e compiacendosi di sentire sotto i suoi piedi quel non so che di molle e carezzevole che hanno gli alti strati di foglie così accumulate da anni nelle montagne. Era pensoso, è vero, ma lo era pel timore di non imbattersi nella masnada: oramai Rosen era sì indispettito dei suoi casi trascorsi e della sua triste fortuna, che quasi avrebbe bastato quel suo risentimento, quella specie di amor proprio che lo rendeva incaponito nel suo progetto, a fargli desiderare e affrontare qualunque sorta di morte. Ma i suoi timori erano vani come le sue speranze. Non aveva camminato più di mezz'ora che udì suonarsi all'orecchio un: Chi vive? uscito da un petto così robusto, e pronunciato così d'appresso a lui e con suono di voce così minaccioso, che Rosen, assorto in quell'istante in altro pensiero, si arrestò, e emise, suo malgrado, un leggiero grido di spavento. Nel tempo stesso un uomo uscì fuori da una macchia, e spianando verso di lui il suo fucile, gli disse: - Fermatavi, o siete morto. - Miserabile! disse Rosen; e fingendo di prendere la mira, sparò un colpo di pistola verso l'assassino. La palla passò in aria fischiando; l'assassino dal canto suo sparò il suo fucile, ma sparò in fallo. Rosen si percosse la fronte col pugno. Al rimbombo di quello scoppio, cento masnadieri comparvero da tutte le bande; e Rosen si vide ad un tratto circondato. Pieno di speranza e di gioia, deciso a difendersi per eccitarli ad ucciderlo, impugnò le sue pistole, e avventandosi contro coloro che gli erano più d'appresso sparò i tre colpi che gli rimanevano, evitando di ucciderne alcuno. I masnadieri erano rimasti sì colpiti da tanto ardimento, che nessuno di loro aveva tentato di trattenerlo; e solamente quando lo videro slanciarsi, già disarmato, contro il nucleo maggiore della loro banda, si avventarono per colpirlo coi loro coltelli. A quella vista il capo dei masnadieri accennò loro di arrestarsi, venne incontro a Rosen, ordinò che non gli si torcesse un capello; e afferrandolo per le mani, che gli diedero una stretta simile a quella d'una morsa, gli disse: - Che cosa volete fare? arrendetevi; avete coraggio, ma siete un insensato, credete di poterla spuntare con noi? - Io non mi arrenderò mai, disse Rosen, dovessi combattere a morsi; e tentò di slacciarsi una mano per menargli un colpo alla guancia, ma era impossibile, Il suo avversario riprese con tranquillità: - Voi siete decisamente un uomo coraggioso; acquietatevi, avete nulla a temere da noi; non uccidiamo gli uomini della vostra tempra, noi; uccidiamo quelli che guaiscono come le femmine, che ci ricusano la loro borsa, che non vogliono ammettere il diritto che noi abbiamo sulle sostanze dei ricchi, e la missione che ci siamo imposta di migliorare la società, distruggendo la disparità delle fortune. Voi siete un uomo straordinario: è a deplorarsi che vi sciupiate così miseramente nella vita corrotta della città .... ma sareste ancora in tempo a riabilitarvi; io vi offro uno dei posti più onorevoli nella mia banda; spero che non sarete per ricusare. Il capo dei masnadieri aveva rallentato sensibilmente la stretta delle sue mani nel pronunciare queste parole; Rosen annientato da tanta avversità di fortuna, taceva. Dopo un istante di silenzio, l'altro riprese: - La vostra fisionomia, il vostro coraggio ... sareste voi mai un inglese? - Sì, disse Rosen rianimato dalla speranza. - Oh! permettete che io vi abbracci; ho goduto per quattro anni dell'ospitalità del vostro paese, e ho sempre sentito una simpatia irresistibile per la vostra nazione. L'Inghilterra è l'asilo di tutti gli uomini liberi. Non ci vogliate usare scortesia, aggiunse abbandonando le mani che teneva strette nelle sue - qui vi sono uomini che hanno ammirato il vostro coraggio, e che sanno di dovervi rispettare .... Sono lieto di aver fatto il vostro incontro, e vorrei dimostrarvi in qualche modo la gratitudine che ho pel vostro paese .... Il governo pontificio in Italia mi offre un posto di capobanda con un corpo di quattrocento uomini; io sono disposto a cedervi il comando di questa onesta brigata ... accettate? - No, mormorò Rosen, è impossibile ...; dei legami di famiglia .... dei doveri ... duolmi sinceramente di dover respingere un'offerta così onorevole; anzi io devo accommiatarmi; sono atteso per stassera al villaggio. - Bene, bene, disse l'altro, sia come non detto; aggradite ad ogni modo prima di partire un attestato della mia ammirazione per voi e della mia gratitudine pel vostro paese. Così dicendo si tolse dal dito un anello di molto valore, e lo fece passare nel dito di Rosen; quindi, riconsegnandogli le sue pistole, ordinò a due dei suoi soggetti che lo accompagnassero fuori del bosco per difenderlo da qualunque malvivente; e lo abbracciò con effusione, mentre molti dei masnadieri venivano a stringergli la mano e offrirgli rispettosamente i loro servigii. * * * Rosen, giunto a casa, si pose a letto; era malato, aveva la febbre: ciò che gli era successo era stato superiore a tutte le sue previsioni più scoraggianti. Oramai gli era venuto meno il coraggio di tentare altre vie, e doveva risolversi a tornare in Inghilterra. Dieci giorni dopo stava per riprendere il suo viaggio, quando gli giunse all'orecchio la notizia di un disastro accaduto in quel giorno lungo la via che egli doveva percorrere. Una carrozza, il cui cavallo aveva perduto il freno era precipitata, in un abisso profondissimo che costeggiava la strada, e che era chiamato il Picco del diavolo; non una persona si era salvata. Una nuova luce si fece allora nella mente di Rosen; andò a visitare quell'abisso, e conobbe che era impossibile sopravvivere a quella caduta: risolse sull'istante, uscì solo in vettura, spinse il cavallo alla carriera più concitata, e si precipitò giù dal picco. La carrozza, discendendo orizzontalmente, si impigliò nelle liane che crescevano lungo il fianco dell'abisso, e si rovesciò rimanendovi sospesa, quando non rimaneva più che un terzo della rupe a raggiungere il fondo. Rosen ne fu sbalzato fuori, e cadde sul corpo del cavallo che era morto. Raccolto da alcuni terrieri fu trasportato all'albergo, dove aveva lasciato Lamperth. Da principio fu creduto estinto, ma alcune ore dopo la sua caduta rinvenne; e il chirurgo constatò che si era spezzato il femore sinistro, e che era d'uopo amputare la gamba nello spazio di quattro ore, prima che si sviluppasse la cancrena di cui avrebbe dovuto morire. Quando Rosen, che era già poco meno che morto per la meraviglia di ritrovarsi vivo, udì parlare della cancrena, sentì finalmente che tutto era finito, che tutto era compensato; e rivolgendosi al chirurgo gli disse: - Voi potete ritirarvi .... io non mi farò amputare mai .... io sono vile dinnanzi al dolore .... preferisco morire. - Pensateci, rispose l'altro, ripasserò fra due ore, e mi lusingo che sarete di parere diverso. Partito il chirurgo, Lamperth entrò nella stanza dove Rosen era stato lasciato solo; e levandosi gli occhiali dal naso, ciò che non era solito fare che nelle circostanze solenni, e assumendo un nuovo tuono di voce gli disse: Signor Alfredo di Rosen, è tempo che noi definiamo la nostra posizione, è tempo che io cessi dal rappresentare una parte che mi affligge per quanto sia doverosa, e che io desista da una finzione che è oramai divenuta inutile. Io sono un'agente della Società d'assicurazione. Quando ella è venuta ad assicurare la vita di sua moglie, la nostra società non ignorava la di lei posizione finanziaria e le gravi perdite che ella aveva subite al giuoco nella notte precedente. Si sospettò ciò che era vero, che ella volesse, cioè, ingannare la società con una morte volontaria; e io fui incaricato di seguirla e procurarmi le prove che avessero constatato questa determinazione. Questa è la lettera che ella mi ha incaricato di rimettere alla signora baronessa sua moglie, e nella quale ella dichiara di voler morire spontaneamente per darle diritto all'assegnamento vitalizio. Ancorché ella avesse ora a morire, a questa lettera che i doveri della mia qualità m'impongono di consegnare alla società, priverebbero la signora Rosen di qualunque compenso. Ella intende ora che non le rimane una via più onorevole e più doverosa che quella di sottoporsi a questa amputazione e di tentare di vivere per compiere quei doveri di uomo e di marito che ha troppo trascurato finora. In quanto a me io non ho fatto che obbedire alle esigenze della mia carica. Rosen stette lungo tempo senza poter rispendere, tanto il dolore, lo sdegno e la meraviglia lo avevano reso muto e agghiacciato. Quando fu in grado di pronunciare alcune parole, disse: Oh Lamperth, voi mi avete rovinato .... Un colpo simile in questo momento! ... una rivelazione di questo genere nell'istante in cui io stava per raggiungere la mia felicità! ... ah, voi avete un cuore di tigre, Lamperth! ... fingere in questo modo ... trascinarmi a questo punto ... senza una gamba! ... Ma noi ci batteremo, per l'inferno noi ci batteremo; io vi domanderò conto di questa indegna simulazione. - È inutile, non avrete più che una gamba. - Ci batteremo alla pistola, seduti. - Via, via, disse Lamperth riponendosi gli occhiali; sono un padre di famiglia io, ho sette figli, e ci penso alla mia vita e a miei doveri. Voi avete profusa una fortuna, avete tenuta una condotta riprovevole, avete tentato d'ingannare una società di onesti speculatori, l'avete tentato a costo della vita degli altri; vergognatevi, io sento in questo momento tutta la superiorità morale che ho sopra di voi .... Non costringetemi ad abusare del vostro stato. - Avete ragione, esclamò Rosen piangendo come un fanciullo, oh! avete ragione; voi siete ciò che io non sono più, un uomo onesto ... Io vedo troppo tardi il male che ho fatto. - No, no, non è troppo tardi, riprese in tuono affettuoso Lamperth, tornandosi a levare gli occhiali, e stringendo le mani del malato. Ecco qui, io vi restituisco la lettera che vi accusa dinanzi alla società; voi guarirete, me ne ha accertato il chirurgo; e io vi farò ottenere un posto elevatissimo in questa stessa società di cui avete voluto eludere le disposizioni. Potrete essere ancora felice, perché potrete ancora meritarlo. Due mesi dopo, Rosen amputato e guarito, ritornava in Inghilterra, dove Lamperth che ve lo aveva preceduto, manteneva la sua promessa. La natura che gli aveva ricusato fino allora le gioie della paternità gli diede ora dei figli. Lamperth divenne il suo subordinato e ad un tempo il suo amico. Nulla turbò più da quel giorno la sua vita. Alfredo di Rosen è il più esemplare dei padri e dei mariti.

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