Vietato ai minori
01 - I TRASGRESSORI
Sul muro sta scritto: La guerra è finita W la guerra.
A carbone, grosso sbilenco ma con le doppie a posto.
Muro di carcere. Un antico convento adibito a
carcere per minori. Cortile tetro. I ragazzi sparsi a
gruppi, fermi.
Parafrasi di le roi è mort...? Oppure soltanto
l'espressione di un desiderio, che la guerra continui
per continuare nello sbaraglio? Il censore propende
per questa ipotesi. Anzi ne è sicuro. Ha avuto un
soprassalto alla vista dell'imbrattamento. Ecco come
sono. E riescono sempre a eludere la sorveglianza.
In quanto al carbone, sottrarre un tizzo in cucina _
cucina economica a legna _ si capisce è facile.
D'altronde non stupirebbe nemmeno se la frase fosse
stata spennellata a vernice dioguardi indelebile. Che
cosa non può entrare e circolare in un carcere,
addirittura armi veleno. Nelle carceri, si riprende,
non qui. Un innocuo tizzo di cucina e una frase
innocua anche se spavalda. (Mica abbasso il censore
merda, è avvenuto altrove.) Magari provocatoria, lo
ammette con se stesso, ripetendola soppesandola.
Infine, rassicurato: uno scherzo. Aggiunge:
indagheremo. Ci sono studenti, di famiglie perbene,
come si esprime lui, perfino un nobile figlio di conte,
il contino.
Questo censore è un grande giovanotto biondo _
troppo biondo, chioma d'oro folta ondulata brillante
_ alto, spalle larghe. Giovanotto (scapolo)
quarantenne ma non li dimostra. Vigoroso, da
imporsi anche, e se non altro, tìsicamente. Del resto
ha il potere in mano, potere assoluto nell'ambito, e se
ne rende conto con una tal quale compiacenza.
Benché si dissimuli, per quanto glielo consente
l'assuefazione professionale. Le roi sono io.
Deve lasciarmi nel cortile coi ragazzi. Insisto. Sono
autorizzata.
Mi coglie una sensazione sgradevole. Intanto proprio
ragazzi non sembrano, ingranditi dai corti calzoncini
di tela militare (divisa interna estiva) esponendo
gambe muscolose e pelose o secche e ancora più
pelose. Rasati alla galeotta. In silenzio, con facce
rispettosamente inespressive, mi circondano. È come
sentirsi indifesi alle spalle e a un tratto la sensazione
che qualcuno stia facendoti dietro le boccacce.
Magari un gesto osceno. No, dopotutto ragazzi. Sei
tu a non sapertici muovere, guardarli e parlargli con
naturalezza. Coraggio, su.
Faccio un mezzo giro. Gentilmente _ o forse
timidamente _ sorrido a due teste vicine che si
separano rapide. Con qualche passo accorto, come
per caso, me li pongo di fronte, io schiena al muro.
Contro il malcancellato (da qualcuno subito accorso
con uno straccio) le roi è mort... no... la guerra è
finita... Così stiamo per un poco, io a interrogare essi
a rispondere monosillabi, freddini e compunti ma
squadrando con quasi selvaggia curiosità.
Ho chiesto che anche gli agenti si allontanassero.
Stanno dal lato opposto a sorvegliare, dunque il
gesto osceno no. Sicura di conoscere abbastanza i
ragazzi da saper trattare con questi come con
qualsiasi altro. E mi torna in mente la storia delle
fotografie
ascoltata poco prima nell'ufficio del censore. Fanno
commercio di fotografie. Promosso dai più grandi e
corrotti, dagli altri, perfino dai bambini (ma dove
sono i bambini?) alimentato per guadagnarsene il
favore, a volte solo per un avanzo di minestra, un
pezzette di pane. Ma hanno fame? Sa com'è... le
razioni... è un'età che non si saziano mai. Rivedo la
foto della giovane turgida _ sorella _ sigaretta in
bocca, gonna incollata, gamba fuori dello spacco, in
atteggiamento così goffo da non risultare nemmeno
provocante. Ai miei occhi beninteso. Requisita. A
chissà quale prezzo ne era stata barattata un'altra,
sempre sorella ma composta. Crocetta sul pube e
dietro: ce la grasa che baia tuta, (Ortografia a parte,
richiamava qualcosa di Celine.) Colpita. Sul
momento. Presto capirò più in là del mio naso e di
quello ben fatto del censore biondo. Ossigenato?
Provo l'imbarazzo di essere donna, sono costretta a
convenirne. Come tale forse mi guardano _ e per
l'eccezionaiità dell'avvenimento: un'estranea,
oltreché femmina _incerti se sia davvero concesso di
parlare liberamente o non nasconda un tranello.
Nessuno fiata. Mi tengo ritta al muro controllandomi
con una certa tensione, tale è il potere di ambiguità
dissimulazione diffidenza negli occhi di ragazzi
reclusi.
Finché Bilotte, il buffone della compagnia, quello che
ha spalmato sul pane la pasta dentifricia (nel pacco
delle "dame" di non so quale santo) mi si offre con un
generoso: Ti rifaccio i tacchi. Lo riconosco, lui e
anche altri, dal formato tessera nelle cartelle sfogliate
col censore.
Bilotte sa riparare le scarpe, sta imparando l'arte.
Mica ciabattino, dice, calzolaio. Per adesso, nel
seminterrato che ho visto durante la visita ai locali,
con un vecchio "maestro d'arte" dal muso grinzo
irascibile, fra scarpacce militari a bocche aperte,
rappezza coi ritagli di questi residuati. Idem il
laboratorio di sartoria, stesso maestro come gemello,
sparsi sul tavolaccio pezzi del grigioverde avanzato
alla guerra. Utilizzati perditempi. Lavoro senza
compenso, non però obbligatorio. Apprendisti pochi.
Ma Bilotte è ambizioso e forse, per quanto assurdo,
sognatore. Ambisce a calzolaio di fino. Ha commesso
qualcosa come una ventina di furti _ una ciliegia tira
l'altra, anche ciliege infatti _ furterelli, cosette da
poco, piccole fesserie le chiama lui. (Considerare su
quale scala gli uomini hanno commesso le loro
grandi fesserie in questa sciagurata guerra, e
misurarvi le colpe di Bilotte: veniali.) Ora sembra
fermo a non ricominciare. Sono ingenuamente
disposta a crederci. Non gli creda, mi ha avvertito il
censore, mangiano abbastanza, ritenendo che si
sarebbero lamentati per il cibo. Invece no, ne per il
cibo ne per altro, avranno paura. Dice Bilotte: Mi
cascassero le mani. Se le guarda, ci sputacchia, le
frega energicamente quasi per la soddisfazione
d'intraprendere il qualcosa di nuovo che è una vita
senza fesserie. Dopotutto bene o male qui si mangia.
Sia pure senza ciliege.
Qui è la sezione giudiziaria del carcere per minori,
ossia riformatorio, alias casa di correzione,
trasformata _ la dicitura _ in Centro di Rieducazione
con annesso Istituto di Osservazione _ sulla carta _
ma si continua a dire sbrigativamente, cumulando,
riformatorio o correzionale. Qui, sezione giudiziaria,
scontano la condanna inflitta dai tribunali per reati
non più passibili di perdono di condizionale o sono
detenuti in attesa di giudizio.
La mancanza di spazio costringe a unirvi i
rieducandi, cioè i discoli, i disadattati, i vagabondi
senza fissa dimora per abbandono o per elezione.
Separare il grano dal loglio non si può. (E i bambini,
dove sono i bambini?) Insomma non tutti autentici
delinquenti, ancora secondo le espressioni del
censore, la cui sola vista debba ispirare penosa
repellenza. Oh sì certo, ragazzi. Certo certo, creature
fresche senza fallo con qualcosa di vergine
d'innocente e schietto. Dei disgraziati. Redimibili,
sicuro. Me lo ha concesso con parole sue, retoriche.
Accento sincero e falso, vorrebbe coprirsi,
nascondermi la realtà senza riuscirci, spinto dall'idea
di "apparire". Del resto la retorica è il linguaggio che
s'impara a scuola, sovrapposto ai luoghi comuni che
s'imparano in famiglia, e può esservi anche una
sincerità di fondo venuta su deformata. Il linguaggio
burocratico (i fascicoli) è la deformazione tout court.
Abbiamo continuato mettendo sulla bilancia guerra e
miseria e diosà che altro, perfino le loro stesse madri.
Se fanno il mestiere li buttano fuori, quando non se
ne servono... Sospensione. Perifrasi varie per
significare il sesso. Aizzato dall'ambiente. O se non
altro l'esplosione dell'età che di per sé può spingere a
eccessi catastrofici anche in tempi normali e in
ambienti normali. Nell'adolescente c'è sempre il
delinquente potenziale: citazione dalle requisitorie di
un PM che gode fama d'implacabilità.
Tuttavia sembrava incerto se aprirsi con una donna _
o l'intrusa? _ sulla piaga della masturbazione. Le
cose su cui si tace, anche in famiglia a scuola, come
se fossero asessuati. Be' sì... ce n'è uno... qualcuno ...
uno pare come se si volesse distruggere... pustolosi
gialli... Lo ritiene ancora un vizio disgustoso e
pericoloso o finge? Ho lasciato perdere
l'omosessualità per non metterlo in condizione di
negare. Contronatura. Detta e considerata
impropriamente tale, giacché si riscontra negli
animali e del resto è nella natura come le malattie.
Delle quali pure si ha vergogna ma non si può certo
eliminarle. E comunque repressa la natura trova il
suo pertugio qualechesia.
Bene, a ogni modo eccomi per cosi dire nella tana. A
raffrontare l'immagine spesso terribile ricavata dai
fascicoli, col ragazzo che mi trovo davanti. Il serafico
biondino _ ogni domenica è lui a servire la messa _
per due volte "nella intemerata casa paterna in cui fin
allora avevano spensieratamente giocato"
(linguaggio delle note personali) usò violenza alla
sorellina, "integra l'imene". Ma e quell'uomo (cronaca
di quotidiano) che trovandosi accanto sul letto
coniugale la figlia di pochi mesi, mentre la moglie
era in cucina, l'ha stuprata? Improvvisamente mi
trovo fin troppo propensa a capire, se non
addirittura a giustificare, quello che ieri, due ore fa,
prima di entrare qui, mi avrebbe per lo meno
sconcertata se non proprio disgustata. Sgomento, sì.
Riconosco Milli, taurino, faccia leale (bieca nel
formato tessera inchiostroso) che ammazzò l'amico
in un litigio. Tutti i ragazzi si picchiano, ma lui è
forte e nell'ira perde il controllo. Ha il pugno
proibito. Cadendo sotto quel suo pugno l'altro batte
la testa a uno spigolo di pietra e ci rimane. Mi ha
assicurato il censore che mai usa la propria forza coi
compagni, non reagisce nemmeno alle più sfacciate
provocazioni. E non è che qui manchino gli
attaccabrighe. Ma il Milli diventa un masso inerte se
si cerca d'indurlo alla lite. Quando un giorno dovrà
rendersi conto, lui con questo acerbo senso di colpa
in petto, d'un mondo in preda alla violenza, può
darsi che finisca per sentirsi scagionato. Il mondo in
cui l'altro compassionevole ragazzine nascosto al suo
fianco, ha potuto ripetutamente giocare con una
rivoltella tedesca "trovata in giro", divertirsi a
puntare e minacciare per scherzo, uccidendo alla fine
sua madre. Milli e questo orfano sono gli assassini
dell'attuale gruppo di detenuti.
Lo " studente " si considera l’avventuriere giustiziere,
una specie di Zorro. Mi ride, cordiale, un po'
spavaldo. Organizzò la banda, che si riuniva in certe
cave fuori mano a banchettare con la refurtiva.
Prelevata da dispense e cantine di ricchi o
borsaneristi _ che è lo stesso, affermò in tribunale
_lasciandovi il suo biglietto. Quei biglietti ornati da
un teschio, con compiacimento ripetuto sui libri di
scuola, e il fumo alle cave abbandonate, condussero a
scoprire la banda. III B ginnasiale. Inoltre il mucchio
delle bombe e armi varie "trovate in giro". Ragazzata
definì l'avvocato quella che la pubblica accusa
doveva fermamente sostenere autentica delinquenza.
Associazione per delinquere. La stoffa di uno che
voglia forzare la vita a mantenere le sue
appassionanti promesse _ l'avventura, la punizione
dell'avido adulto _ nello studente c'è ed è stoffa di
qualità pregiata. Tutto dipende dall'uso che se ne fa,
o si è indotti a farne.
M'accorgo che manca nel gruppo il contino. Se n'era
stato accanto al censore in abito borghese e il censore
me l'aveva quasi presentato. Il suo buffo tendere la
mano con l'atto mondanamente insufficiente di
posare le labbra sulla mia. Si tiene appartato dagli
altri.
(Truffa e denunce del conte padre. Puttaniere, lo
chiama il figlio. Va bene, tu mi tagli i viveri, io entro
al cinema e mi trovo un frocio. Dal fascicolo
processuale.)
Grazie a Bilotte che ha rotto il ghiaccio (il dentifricio
mai visto prima lo credeva sul serio roba da
mangiare) posso ormai introdurmi nella sezione
giudiziaria di un carcere minorile come in qualsiasi
altro luogo dove si trovino riuniti, e sia pure costretti,
dei ragazzi. Allora, non mettersi a scrutare in essi
qualcosa d'ignoto temibile e repulsivo _ solo
quel tanto di bene e di male esplosivamente
mescolati nella natura umana _ piuttosto riconoscerli
vittime. E ragazzi. Ricordarsi che sono ragazzi. Cioè
esseri colmi d'un incoercibile slancio vitale e con quel
tanto in sé d'intatto che è sempre, quasi sempre,
nell'estrema giovinezza. Bisogna rifiutarsi comunque
di ritenerli perduti, nutrire l'incrollabile fede che
ognuno possa essere salvato. E sentirsi responsabili
per ciascuno di essi.
Avrò parlato con la mia parte di retorica, temo. Con
entusiasmo e proponimenti da neofita. Lo leggo in
faccia al censore mentre, io accalorandomi e lui
annuendo docile, mi accompagna verso l'uscita.
Attraverso una quantità di porte e il primo cancello
interno, schiavardati via via da premurosi agenti.
Agenti, un po' come angeli, di custodia.
Oltre il cancello siamo ancora nell'ingresso che da sul
cortile esterno, con la stanza di guardia a sinistra, a
destra un altro uscio, chiuso. Ne proviene una sorta
di pigolio, soffocato ma irreprimibile. I bambini, ecco
dove sono i bambini. Sapevo che dovevano esserci:
Istituto di Osservazione.
Come si apre l'uscio c'investe un tanfo di polvere e
pipì (alle camerate era di bugliolo). Ve ne sono,
ristretti nella stanza angusta, con un solo custode,
ventitré. Dai minori di quattordici anni a uno di sei.
Si azzittiscono immobilizzati come topi alla vista del
gatto.
Con una strizzata al cuore riconosco il mio scolaro
Augustino, paternità enne enne, prima elementare.
Lui non mostra di riconoscermi. Guarda in terra. Lo
chiamo, non risponde, fugge. Ma che ha fatto? Figlio
unico di madre prostituta, è la risposta che vorrebbe
essere spiritosa. Era venuta, quella madre, a scuola
per giustificare l'assenza del bambino che entrava "in
collegio".
Mancano i locali e il personale è insufficiente, questo
buco passa per l'Osservazione, c'è sopra la
targa. Ma la verità è che, essendo il cortile l'unico
posto per la ricreazione, li tengono tutti insieme,
osservati corrigendi detenuti. Per riguardo alla
visita... Prego di liberarli. Signor censore (e rex) non
faccia complimenti con me, ormai sarò di casa.
Prorompendo a mucchio s'attaccano alle sbarre del
cancello come uccellini, non ancora abituati alla
prigionia, ai ferri della gabbia. Nuovo
schiavardamento fragoroso, le chiavi sono grosse, di
ferro. E invasione del cortile claustrale. Assassini
stupratori e rapinatori accolgono gli uccellini
spennati coi quali giornalmente convivono, e non
solo a ricreazione. Vedo il muscoloso Milli tirarsi su
in braccio il mio Augustino rattrappito e piangente.
"Sa, si spingono, sono tanti." Sono, per la precisione,
al momento, centoventisette "ospiti", nello spazio per
cinquanta frati del tempo antico di minuscole celle e
sterminati corridoi, Potrebbero perfino ammutinarsi.
02 LE BOMBE
Dice ai compagni: Ti ci faccio mettere il dito. Una
sorta di privilegio, a quanto ho potuto capire. Ci
conosciamo da meno di due mesi. Succedeva durante
la ricreazione quando, fuori dei banchi, credevano di
non essere osservati. I primi giorni non c'era
confidenza, parlavano solo fra loro in stretto dialetto
e se cercavo d'intromettermi subito tacevano
stornando gli occhi. Ma avevo colto quella frase: ti ci
faccio mettere il dito, e visto l'atto. Più spesso il
privilegio era toccato a un bimbo grazioso e dolce
come una femminuccia. Sensibile alla bellezza, il
rustico Marcello. (La collega G. lo sospetterebbe
invertito omosessuale pederasta o come diavolo si
chiamano queste orrende cose, lei non ne sa niente, ai
suoi tempi non esistevano.) Il soave bimbo alza
l'indice della manina e lo ficca nel ciuffo riccio di
Marcello, sempre con evidente un po' sbigottita
meraviglia. Intorno il crocchio. E io, esclusa, a fingere
di non accorgermi. Scoppia qualche timido: pure a
me pure a me, ma più d'una volta Marcelle non si
produce. Ritirando il testone decide: Mo' basta. E per
il momento deve bastare. Non è un gioco erotico,
beninteso nei limiti in cui ci si concede ormai, da
sant'Agostino a Freud a Reich, di scartare l'erotismo.
Adesso tocca anche a me il privilegio, siamo
finalmente diventati amici. Lui, il più grande della
classe, non è riuscito, quasi tredicenne, a spuntare la
seconda. Non gli riesce proprio di andare oltre uno
scrivere scombiccherato zeppo di errori e uno
stentatissimo compitare. Aiuta al mercato suo padre
e sua madre che hanno una bancarella: porta a
schiena sacchi di patate, trascina la carretta anche da
solo, da il resto senza sbagliarsi di una lira, ma
quanto a profitto scolastico sembra che più in là non
possa andare. Almeno questo fu decretato negli anni
precedenti, dai sei in poi. Decretato così
ripetutamente e decisamente che lui stesso se n'è
persuaso.
In principio, come mi avvicinavo al suo banco,
parava tutt'e due le braccia. Visto che non capitava
niente, si era messo con più agio e sicurezza _ benché
non poco stupito e sempre diffidente _ a leggere e
scrivere come gli veniva. Gli è venuto meglio ma non
troppo. Del resto a che prò chiamare asino bestia un
ragazzo che ha avuto la testa aperta da una scheggia.
Lui dice squarciata come un cocomero, con
sorprendente efficacia.
Andava piccolino per mano a sua sorella quando
bombardarono. La ragazza rimase in terra morta.
Marcelle ebbe il cranio spaccato (meglio squarciato)
dall'attaccatura dei capelli sulla fronte _ è lì che fa
mettere il dito, ce l'ho messo anch'io, ci va il
polpastrello _fino all'occipite. Ricorda solo il dolore
in testa e l'ospedale. Afferma di esserci stato un
anno. Un dolore a martellate. (Be', almeno sa
esprimersi.) Il cranio ha rinsaldato, testa tosta se lo
dice da sé. Non si vede sotto il crespume questo buco
profondo da metterci il dito, gli lasciano il ciuffo in
fronte.
Mario e Marcelle sono gli unici che si ricordano della
guerra, pure così vicina, ieri per noi. Mario
ha qualche mese di meno. Presto fatto il conto,
avevano ben poco. Ma abbastanza per conservarne
memoria. Tracce inconsce dentro ne portano tutti.
Mario ricorda quando cascavano le bombe e gli prese
la convulsione. È un ragazzo lungo secco puntuto,
forme e movimenti legnosi, gli s'intoppa la lingua.
Apre bocca e le prime parole escono in ritardo, le
altre a fiotti accavallate confuse. Poi ricomincia a
boccheggiare, arrestarsi e spremerle fuori così
ingroppate. Anche lui fermo alla seconda.
Solo pochi hanno un'età di bambini. Tutti sono più
scarsi dell'età, ce n'è uno che gli si darebbero cinque
anni e ne compie nove. Della guerra non sanno
niente. Ma chi non l'ha vista l'ha sentita: nella carne
nel sangue nei nervi, dentro il corpo delle madri.
L'effetto della guerra è prenatale. Ho qui un'accolta
d'irregolari.
Quelli dell'istituto, cioè delle monache _ la maggior
parte passati all'istituto dal brefotrofio _ sono
misteriosamente chiusi nella loro origine. Degli altri
un po' per volta riesco a sapere: dove sono nati, a chi
appartengono, come vivono. Per lo più gente
poverissima anche oggi. Quando questi bambini
nacquero eravamo poveri tutti. E tutti orribilmente
spaventati.
Vittorio e Benito, fratelli. Viso terreo, bocca aperta,
l'intontimento delle vegetazioni che riempiono naso
e gola. Vittorio tiene la testa inclinata e sotto il ciuffo
Ìspido che sporge a corno due occhi vacui guardano
nel vuoto. Lui così si assenta e si risparmia. Benito è
debole di vista fino a posare il naso sul quaderno. Gli
occhiali li rifiuta, un paio è già scomparso. Bambini
simili sotto gli occhi _ bisogna tenerli al primo banco
_sono una specie di monito. Non sembrano bambini
ma vecchietti intollerabilmente carichi di esperienza.
Pure con quale affascinata attenzione seguono le
marachelle di Pinocchio. (Quasi mi vergogno di
raccontargliele.)
E come tengono da conto lo scatolino con mozziconi
di matita, minuzzoli di gomma, avanzi di pastelli.
Oggi Vittorio ha uno scatolino nuovo _ innocente
l'ha messo in bella mostra _ identificabile per aver
contenuto preservativi. La loro madre è una
compunta vedova.
Si è dunque riparlato della ferita di Marcelle.
Vogliono scriverlo e viene fuori per primo: Marcelle
lo colse la bomba. Gli altri pensieri seguono
consimili: guerra aeroplani bombe. C'è una
inconsueta iniziativa nel suggerire sempre nuove
versioni della stessa idea. Alla fine, come propongo il
disegno, nessuno oppone il solito non lo so fare.
LÌ ho visti prendere subito in mano la matita e
mettersi all'opera senza titubanze. Marcelle circola
per l'aula, chiamato qua e là si piega sui quaderni,
annuisce, approva, da consigli, lavora sull'altrui con
la propria matita, per una correzione, una rifinitura.
Marcelle che abitualmente cerca aiuto. Oggi l'autorità
è lui.
Perché _ i bambini disegnano, sotto lo scritto, bombe.
Con sicurezza, con competenza, senza un dubbio,
senza esitazioni. Io non so se queste che vedo siano
bombe: forme le più varie strampalate, per lo più
tondeggianti, e oblunghe cilindriche coniche, a palla,
perfino ornate di spunzoni, circonfuse di fuoco dal
pastello rosso usato con dovizia. Questa, dice
Marcelle indicandomene una con qualche cosa a lato
come un manico, questa è una bomba a mano. Lui, la
sua, non la vide certo, neppure gli altri ne hanno mai
vedute. Ma tutti i quaderni e tutte le piccole teste
infatuate su quei quaderni, sono pieni di bombe.
03 - IL TRIBUNALE
Sala immensa di un vetusto palazzone, con finestre
enormi. Minuscolo sull'altissima parete il Crocifisso
che la distanza rattrappisce. Imponenti gli scanni
elevati dalla pedana, in massiccia quercia scura e
lustra. Per i testimoni una sedia con la paglia
pendula come se perdesse i visceri. Giù due tavoli
spaiati per i legali delle parti. A destra la panca degli
imputati. Al di là delle transenne altre panche.
Lampadine fioche di polvere accese al soffitto. I vetri
opachi di sporco. Ci si vede male. Gli scarsi elementi
del termosifone, dislocati alle estremità, non riescono
a stemperare l'aria. Le aule di giustizia sono sempre
fredde.
Vi immettono due porte, una riservata agli addetti ai
lavori. La gente sparsa nel tratto di corridoio
_labirintici corridoi _mi si era accodata, respinta
dall'ufficiale giudiziario. Testimoni imputati parenti,
un imprevedibile numero di ragazzina gente arrivata
con le corriere e i treni della mattina presto essendo
la convocazione per le otto e mezzo. (Ma si
comincerà verso le dieci e oltre, quasi sempre.)
Vengono invece fatti entrare gl'imputati detenuti,
con due accompagnatori in borghese, e messi a
sedere sulla panca. Gli agenti s'appoggiano al
termosifone. Sono in borghese, mi è stato spiegato,
affinchè per
strada non si dia nell'occhio. La legislazione minorile
prevede talune norme di salvaguardia per la
(presunta) sensibilità del minore. In effetti questa
non è l'aula del loro tribunale. Secondo le suddette
norme i ragazzi non dovrebbero essere condotti in
mezzo al pubblico _vietato qui l'ingresso agli
estranei: a porte chiuse _tanto meno nell'ambiente
giudiziario destinato agli adulti. (Ma sono sottoposti
a regime carcerario come gli adulti.) Sempre in
applicazione delle norme, al centro è
scrupolosamente allestita un'aula apposita, stessi
scanni a schienale alto, stessa imponenza, stesso
freddo (ossia no, il riscaldamento manca del tutto)
occupando, dei locali insufficienti, il più vasto. Era il
refettorio dei frati. I ragazzi _ho assistito _mangiano
in un fondo di corridoio cieco, una specie di
cunicolo, insinuandosi nella strettura ai posti,
scavalcando gli altri per arrivarci, a turno, due tré
quattro turni secondo il numero dei conviventi,
mentre si cuoce la pasta viscida tutta insieme. L'aula
interna non è stata mai. usata. Il Tribunale non può
muoversi, spostare le udienze fuori, con tanto lavoro
arretrato perdere dell'altro tempo.
Qualche avvocato s'affaccia all'uscio, vede il vuoto e
si ritira. S'affaccia anche il censore di passaggio.
Ossequia in aria. Gli agenti, schiena al termosifone,
s'impalano. Sulla panca i tré imputati spalla a spalla,
ma senza scambiare parola come se non si
conoscessero. Vestono la divisa invernale _ essi
dunque in divisa, identificabili _l'informe
grigioverde militare riadattato che qui dentro fa
tanto debacle. Spalliditi di reclusione, sguardo
sfuggente, rapati a zero, sembrano galeotti alla
sbarra. Non mi avvicino. Ignoro i reati ed è la prima
volta, più che intimidita mi sento oppressa. Non
saprei che dirgli. Non so nemmeno se sia lecito
accostarli prima del dibattito, non so ancora niente.
M'accorgo che quello di sinistra tiene la faccia girata
e sulla parte che cerca di
nascondere ha rattoppi di cicatrici variegate e
punteggiate da uno strano colore turchiniccio.
LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI. Sovrasta il
Crocifisso, non l'avevo ancora recepito. O è di quelle
cose talmente ovvie che si finisce col non vederle.
(Come il carabiniere immobilizzato, che non vedrò
più ed è sempre presente, o almeno dovrebbe
esserci.) Curioso, avevo in mente giustizia anziché
legge. Apprezzo la differenza. La giustizia è difficile.
Le istituzioni devono tener conto della
inadeguatezza umana. Ma il codice tiene poi conto di
quella grave insufficienza che è l'applicazione della
lettera? La uguaglianza in questo senso è
irraggiungibile. Gli uomini non sono uguali, non
sono uguali a se stessi un momento dopo l'altro.
Nemmeno la morte è uguale per tutti, a chi tocca
pietosa a chi così atroce che una crocifissione non
regge al confronto ... morte per cancro ... ma che ha
in faccia il ragazzo...
La voce dell'ufficiale giudiziario chiama, fuori, una
specie di appello, ripetendo x nomi più volte,
gridandoli, per assicurarsi delle presenze e delle
assenze. M'affaccio all'uscio. È circondato di gente,
gli occhiali quasi incollati sul foglio che ha in mano.
Rinuncio anche con lui a parlare.
In seguito, alla domanda che processi stamattina,
risponderà una, o due o tré, violenze signora
dottoressa, immaginandosi che di quelle m'interessi
particolarmente o ritenendole il reato di maggiore
spicco. Non sono dottoressa, ma si ostinerà a
rendermi l'omaggio di prammatica nell'ambiente. Gli
avvocati domandano che c'è oggi come in trattoria
che si mangia oggi. Lui risponde la solita signor
avvocato. Sottinteso violenza, che cumula violenza
carnale, atti osceni in luogo pubblico, libidine
violenta, sodomia incesto (assente Gomorra). È il
reato più frequente insieme al furto.
Un campanello evoca il suono che precede i
sacramenti estremi. Entra il Tribunale. Per due
porticine dietro gli scanni, dalla sala di consiglio, due
porte in simmetria affinchè i giudici non siano
costretti a entrare e uscire indecorosamente assieme
o per questioni di precedenza.
Gli agenti devono richiamare i ragazzi confusi
dall'apparizione improvvisa, scuoterli a una spalla
perché si mettano in piedi sull'attenti. In piedi tutti.
Alcuni avvocati hanno preso posto ai tavoli, uno si
posa la toga sulle spalle, altri la lasciano pendere allo
schienale della sedia (e verranno richiamati se
dimenticano d'indossarla). I giudici, in nero e tocco,
cordoni nappe d'argento e d'oro, pettorina bianca
plissata all'amido, si assidono. Quello in borghese è il
componente privato, riconosco un direttore di scuola
elementare (anche lui omaggiato dottore).
Rimangono in piedi solo gl'imputati contro la panca
e gli agenti discosti dal termosifone.
Cerco d'immaginare che effetto abbia sui ragazzi
l'apparato, il cerimoniale. Chiesastico: l'altare gli
officianti il vestiario pretesco. Se anche questo
vestiario s'imponga o sembri buffo. Il bavaglino
indurito che salta fuori, un tocco per traverso o
indietro alla carrettiera, i maniconi prolissi,
l'ingombro donnesco delle pieghe sul corpo. Penso
che cambieranno montura forse i preti, non i
magistrati. L'apparato è il primo trompe l'oeil.
S'impone, altroché. Fa magari paura. L'innocente e
perfino la vittima hanno paura della giustizia.
D'altronde chi ha facoltà di giudicare, questa
suprema onnipotenza, giacché al prete è rimasto solo
il potere di rimettere, non è come gli altri uomini.
Anche il titolo cui si assurge a un certo grado resterà
esente da qualsiasi abolizione. Quando uscieri
cancellieri avvocati riveriscono con l'Eccellenza _ gli
avvocati ne fanno largo uso propiziatorio _ mi viene
in mente Pinocchio. Nell'intimo sento l'irriverenza
come una colpevolezza, un
reato. Tale e tanto e così dovuto è l'ossequio
generale. Casta chiusa al di sopra di tutti e di tutto.
Sono impressionata, inutile cercare di dissimularlo. È
lo sconcerto precordiale che coglie al cospetto del
potere assoluto.
La prima causa chiamata è una violenza carnale. Va
sulla pedana il più smilzo dei ragazzi, avvampando
fino alla rapatura pallida della nuca. Mi riesce
difficile attribuire a questo ragazzine imberbe e
delicato la descrizione, sia pure sommaria, del
delitto. Delitto è termine generico, comune a
qualsiasi reato, ma qui suona schiacciante. E nella
contestazione al colpevole, fredda burocratica, più
che distacco c'è un che di brutale.
Gli avvocati sogguardano nella mia dirczione,
scannetto minore all'estrema sinistra. La presenza di
una donna sembra divertirli. SÌ compiacciono dei
particolari scabrosi esibendoli senza risparmio, già in
brevi interventi rintuzzati dal sostituto procuratore.
Alla parte lesa (maschietto): gliePha mostrato, come
ha fatto, dove gliel'ha messo... davanti... di dietro... in
bocca... A un certo punto il sostituto a bassa voce mi
domanda se preferisco allontanarmi
temporaneamente dall'aula. Di nuovo l'imbarazzo di
essere donna? Declino l'invito. Se debbo fare qualche
cosa per i ragazzi _ ma la denominazione giusta è
minori traviati _se sto qui per questo, intendo
rimanere e ascoltare tutto. Temo di aver messo io
nell'imbarazzo il sensibile pubblico accusatore. Il più
comprensivo e mite degli accusatori. Uno dei pochi
giudici immuni da deformazione professionale, che
incontrerò durante numerosi anni.
"Un altro."
Si manda via l'imputato come una pratica chiusa
firmata e catalogata.
La seconda causa porta sulla pedana il detenuto con
la faccia per traverso, ora inevitabilmente esposta.
Testimoni altri ragazzi e bambini con le stesse
cicatrici turchinicce. Hanno giocato coi residuati di
guerra. Sono nuovamente di scena le bombe.
04 STRAGE SULLA PIAZZETTA
Del processo per i fatti dell'anonima Ripa nessuno si
accorgerà, non apparirà sui giornali. Dibattuto in
provincia, nell'aula di un qualsiasi tribunale
minorile, rapidamente fra le altre cause di normale
udienza: ordinaria amministrazione. La sua
terribilità da processo del secolo si perde nel ritmo
masticatorio degli ingranaggi burocratici.
Comincia a fumetti. Sul tavolo degli avvocati quel
foglio assurdamente riempito di pupazzi, messi in
fila per due e incasellati da riquadri. A guardare
meglio, sagome bianche di nudi umani, eguali goffi
un po' macabri, con zone nere a tratteggio che
isolano qua un'anca, là un braccio, e una gamba una
mano, l'ultima maculata in maniera divorante
all'inguine. Tra i colleghi, muovendo rapida la punta
della stilografica intorno alle sagome, l'avvocato di
parte civile finisce per tracciare vicino al piede
mancante una crocetta.
Sgusciano dentro in silenzio, con scalpiccio da chiesa
e un vago sentore di stalla, tutti assieme i contadini,
uomini donne ragazzi, attruppati. Sembra un intero
paese.
"I Felice", ha detto l'avvocato senza girarsi, con
l'elenco in mano su cui segna un'altra crocetta nera
accanto al nome del morto. Vi sono i Sante i Nicola
i Giuseppe, una congerie di Felice distinti, e non
sempre, dalla paternità. Se non un intero paese
un'unica famiglia in vari rami, riesce difficile
rendersi conto che vengono in tribunale gli uni
contro gli altri: così addossati sembrano piuttosto
reggersi uno all'altro per farsi animo.
Quando l'ufficiale giudiziario li respinge, che tornino
in corridoio ad aspettare, sono sgominati. Arretrando
si separano, staccano le spalle e i gomiti come se
.perdessero qualcuna delle proprie membra. DÌ
colpo, in quei goffi corpi rivestiti di lana caprina e
pastrani militari, identifico le sagome nude con le
mulilazioni del disegno: un'anca trascinata, un
moncherino scoperto, una gamba vuota (e il
pantalone ripiegato con spille da balia). Nessuno li
guarda. L'avvocato consulta il suo elenco spuntando
nella cartella le macule e i tratteggi.
Rimane l'imputato, solo, dritto contro la panca. È un
giovane contadino, un ragazzo di sedici anni. Anche
lui insaccato nella grossa lana di telaio casalingo,
mantiene una floscia immobilità fissandosi vacuo
con l'occhio coperto da una perla bianca. Piuttosto la
bocca, rossa quasi morsicata a sangue, le grandi
labbra rovesciate in un alone di peluria, manifestano
qualcosa come uno spavento carnale. È una bocca di
ragazzo In crescenza, nel cui disegno inturgidito
recente affluisce tutta la vita della faccia inespressiva.
Tiene il polso reciso che sporge dalla manica
penzoloni al fianco con estremo abbandono.
Entra il Tribunale. Viene chiamato. Come sente
pronunciare il suo nome _Felice Sante di Giocondo
_avanza qualche passo, s'arresta incerto, riprende a
camminare sbilenco. Gli si contesta l'imputazione :
lesioni aggravate e omicidio colposo. Non sembra
aver capito. Due volte si gira indietro come cercando
a chi sono rivolte quelle parole. La grande bocca
stupefatta gli si è schiusa.
Comincia la sfilata dei mutilati. La Ripa è una
frazione di montagna, poche case di pastori
aggrappate alla costa, lontana ore di mulattiera dal
centro comunale. Nella contrada la guerra restò
ferma per un inverno e lasciò la malasemina (come
dirà il decano barbuto dei Felice). Ancora oggi se ne
trova. La campagna e i boschi erano disseminati di
mine antiuomo che via via emergevano dalla terra.
Un carretto con l'asina saltò in aria lungo una
carrareccia, dopo anni che si ripercorreva. I contadini
tornavano a casa con le bisacce piene di bombe.
Così tornò quel giorno il defunto Nicola Felice, uomo
giovane di trentatré anni. Aveva uno zaino a tracolla,
lo depose al suo uscio e chiamò il ragazzo che
passava con le pecore. Santino di Giocondo, un
nipote. (Là tutti sono parenti.) Altri subito ne
accorsero, come sempre i ragazzi attratti da quegli
ordigni. Questo avveniva nella piazzuola della Ripa,
davanti alla casa di Nicola, e anche il suo bambino di
quattro anni uscì sulla soglia. Non c'erano che
ragazzi. L'uomo (pare fosse autorizzato raccoglitore
e lucrava con quel po' di polvere per fuochi
d'artificio) cavò dallo zaino grossi proiettili di
artiglieria rinvenuti in un folto d'arbusti. Baldanzoso
e spericolato Santino scelse il suo, lo dette da reggere
a un altro per smontarlo picchiandovi con qualcosa,
una pietra o un martello.
Davanti al Tribunale nega. Nega scuotendo la testa e
accennando a sollevare il moncherino, che subito
rimette giù. Lui si era fermato a guardare dal cantone
in mezzo alle sue pecore. "È vero che ti hanno
ammonito di non battere?" Avrebbe risposto: "'Na
vota se nasce e 'na vota se more." Ma era stato
raccontato dai ragazzi.
Si presentano uno dopo l'altro, screziati di
turchiniccio (la polvere da sparo che rimane
cicatrizzando sottopelle) saltellanti strascicanti e
smemorati
confusi. Uno incespica alla pedana, vi cade seduto.
Non meraviglierebbe vederli accovacciarsi su quel
bordo di legno come piccoli animali a leccarsi le
ferite. Non capiscono la domanda, chi o che cosa sia
il defunto, non si riesce a cavarne risposte utili.
Quello che aveva retto la bomba, con spille da balia
alla gamba ripiegata del pantalone, fa no e sì
evidentemente a casaccio. Anche metà della manica
destra è vuota, e lui sa dire solo che la sua mano non
si ritrovò.
"Ma il tuo compagno, questo qui, Sante, percuoteva?"
Tace smarrito.
"Picchiava? Batteva?" Qualcuno suggerisce: menava?
Staccatesi dalle sottane della madre, l'orfanello corre
a mostrare il mignolino mancante. (Lo parò il padre.)
Ripete due o tré volte che stava vicino a "tata". Lui
non si ricorda dell'imputato _ ma non deve aver
inteso la parola _ non l'ha visto, erano tanti ragazzi
tante pecore e dopo bum. E le pecore strillavano.
C'è un intermezzo. Fra i mèmbri del tribunale si
discute sul verso della bomba, quale il fondo e quale
l'ogiva, dove occorra battere per provocare lo
scoppio. Un avvocato esperto di balistica, ex ufficiale
di artiglieria, chiarisce ai giudici la questione
tracciando su un foglio sagome di bombe in piedi
rovesciate e fumetti esplicativi.
Sul disegno, quando lo richiamano, con l'indice della
sinistra, la testa di sbieco come un uccello per
l'occhio offeso, l'imputato docilmente indica la parte
che aveva percosso.
Si avvicendano sulla sedia spagliata i contadini
salendo la pedana con un tonfo. Ognuno, giunto
dinanzi al seggio presidenziale e visto sulla parete il
Crocifisso, si genuflette segnandosi come in chiesa.
Restano sconcertati alla formula incomprensibile del
giuramento (gli suona "dilogiuro" al modo sbrigativo
come viene imposta). Non capiscono che si voglia da
loro.
E appare chiaro che non vogliono niente, non
reclamano e non accusano, si presentano perché sono
stati chiamati con ingiunzione. Nel rispondere
guardano al muro, oltre il tocco del presidente, a
Quello lassù. Ma non si querelano nemmeno con
Dio. Un morto, ragazzi mutilati, famiglie rovinate: di
chi la colpa? A Dio si soggiace.
Sopravviene un momento, tornati dietro le
transenne, che cade il silenzio. Sembra aver colpito
tutti l'inutilità di questo dibattimento. Incombe
sull'aula la colpa, ma è colpa comune. Poi s'alza il
primo oratore a parlare con voce curiosamente
stimbrata.
I contadini non ascoltano, in attesa che ogni cosa
finisca. Atteggiati a coro di tragedia greca, con
l'espressione delle facce evocano e commentano da
soli la scena: la piazzetta inzuppata di sangue,
cosparsa di ragazzi e pecore a brandelli, al centro il
corpo squarciato dell'uomo. Urli gemiti e le pecore
che "gridano come cristiani". Intorno essi, resi muti
da un orrore sacro, l'intera popolazione della costa,
pietrificata.
Per ore, mentre qualcuno correva giù a cercare aiuto,
erano rimasti a distanza senza osare di far niente. I
ragazzi si sollevavano strisciando sui gomiti, uno
toglieva brandelli dalla mano staccata ed era parso
che si strappasse le dita buttandole via. Nessuno
poteva far niente altro che guardare in uno stato di
annichilimento. Per tré ore erano rimasti così.
L'uomo si dissanguava in terra. Un uomo giovane coi
figli piccoli. La moglie e tré bambini accovacciati
intorno. Si lamentava: aiutatemi ammazzatemi. Morì
la sera in un ospedale lontano.
La voce degli avvocati deve suonare alle orecchie dei
contadini confusa e superflua, vaniloquio. Si
direbbe che non li conoscano: quando c'è il morto
anche l'avvocato arriva da sé. Sembrano domandarsi
che ci sia da parlare tanto, che mai possono dire
questi uomini accalorati e gesticolanti. In verità non
tuonano contro lo scandalo del mondo, la paura, la
paura cieca che non sai più da dove viene, che è
dappertutto, piove dal cielo spunta dalla terra e la
terra ne rimane infestata; tuonano invece contro il
ragazzo, contro Santino di Giocondo, che sta lì con la
stessa faccia immobile e rassegnata dei vecchi.
Quando le voci tacciono tutto finisce quasi
bruscamente, come i contadini già sapevano che
doveva finire. SÌ riprendono in mezzo l'incolpato e se
lo riportano via, senza parlargli ma reggendolo
spalla a spalla fianco a fianco. Quegli uomini l'hanno
perdonato. Ma pure il perdono, a misurare col metro
giusto, è stato di troppo.
In massa, prima di uscire, con un lungo sguardo
verso la parete di fondo, i contadini della Ripa si
fanno il segno di croce.
È come se perdonassero Dio trascurando gli uomini.
Perdonarlo anche per la crocifissione del figlio suo.
05 RESIDUATI
La prima volta li accompagnò la monaca. Adesso,
fino al portone, l'aspirante. Conduce la lunga fila
contorta, stordita, ingorgata in mezzo, irreducibile
all'ordine consapevole come un gregge. Entrano a
testa bassa senza salutare e una volta nei banchi
stanno troppo cheti, con un assenteismo in faccia che
deprime solo a guardarli. L'aspirante dice ancora non
si abituano, l'anno scorso ebbero scuola dentro
l'istituto.
Si mescolano con gli altri senza sorpresa e senza
piacere: animaletti della stessa specie nei quali non
s'allarma l'istinto ma non vibra nessuna corda. E
sembra che gli manchi il mezzo di comunicazione coi
propri simili. Non hanno niente da dire, interrogati
non rispondono _come se si parlasse una lingua
diversa _ e bisogna sforzarsi per afferrare le sillabe
del loro nome. Il nome alla fine lo farfugliano, però
occorre chiederlo parecchie volte. Certo, sono
disorientati dalla novità. Benché la novità consista
nell'andare a scuola e nel trovarvi bambini con cui
non si è mangiato dormito e formata la fila.
Per ora sono sei, hanno fatto blocco su una mezza
colonna di banchi. Sei teste rapate, sei facce
inespressive _tutte con la medesima inclinazione
come se stessero nel banco di chiesa _ sei collarini
bianchi
sporchicci sgualciti attorcigliati. (Suscitano quel
senso di disagio somigliante a un vago rimorso, il
richiamo a terribili responsabilità. La loro
inconsapevolezza è triste, ha un che di spento.) Gli
mettono certi grembiuli di cotone duro grigioferro,
adatti a raccogliere il sudicio senza rivelarlo troppo.
E hanno il fazzoletto, una pezza, cucito nella tasca.
A Franco è venuto il tremore. Dapprima come una
difficoltà a impugnare la penna, quasi ne avesse
completamente dimenticato l'uso. Avvicinandomi
capisco che non riesce a scrivere perché trema.
S'imporpora fino alla radice dei capelli. Nel rigo non
ci sono che sgorbi, neanche la più pallida idea di
lettere. Gli suggerisco come prendere meglio la
penna. Lui non può districare le dita e la punta
scappa via. È evidente che la mia vicinanza aggrava
questa incredibile agitazione. Provo ad allungare le
mani, butta giù la testa parandosi. (Allora anche le
monache picchiano?) Testa rapata grigia _ un grigio
smortigno in contrasto col carminio della faccia e del
collo _ prominentissima all'occipite. Stando curva sul
banco mi colpisce l'attaccatura dei capelli bassa, con
quel grigio smorto che quasi tocca le sporgenze
ossee. Tonde e così ravvicinate da farlo sembrare un
capretto con due cornine che spuntano.
La penna gli balla in mano. "Non fa niente," dico,
"prendila con tutte le dita, tienila forte." E lui
mansuetamente vi aggrappa l'intera manina col
parletico, cerca anzi di reggersela con l'altra. Ma non
ne viene a capo. Senza staccarsi dalla penna, si mette
a piangere con quella testina giù come un capretto
che cozzi. Avrebbero dovuto avvertirmi, penso, se è
qualche malattia dovevano avvertirmi.
Ha paura, dice un bambino "di fuori". Sono stati tutti
a guardare, tranne i compagni dell'istituto. Non
domando a loro. È la penna, dice un altro. Ma sì
è la penna. Subito, benché siano generalmente
sforniti, ne viene fuori una meno smozzicata e storta
per Franco. M'accorgo, pure senza incontrarne gli
occhi, all'intensità del rossore e al modo come
l'afferra, che gli sembra un tesoro. Vi stringe intorno
il pugno e riprova. Con l'altra mano s'asciuga le
lacrime dalle guance striandosi di nero.
Ma che tremolizio ha, dicono i bambini, nemmanco
con la penna nuova... Faccio segno di star zitti. A
Franco bisbiglio in un orecchio che si fermi _ sembra
alla tortura _ si riposi un momentino poi riproverà.
Forse non capisce. Tiene forte la penna sbandando
sul bagnato. Sento che invece capisce la mano, la mia
mano sulla spalla. Trema il braccio fino
all'attaccatura. Passo all'altra, due spallucce di ossa
minute che si scuotono. Provo sulla schiena. La mano
la capisce, mi pare proprio che lo calmi. Con le dita al
collicino da uccello, alla nuca prominente, alle
orecchie di fuoco, riesco a far diminuire il tremito.
Scrive. Ha vergato una enorme parola illeggibile che
pende dall'alto spezzata verso il centro della pagina.
L'aspirante porta alcune pagelle dell'anno prima per
l'iscrizione, in ritardo, ne arrivano continuamente di
nuovi. Mi sorprende com'è giovane. Infagottata e con
scarpe piatte da uomo per strada sembrava anziana.
Oleosa di pelle e di capelli, i capelli tirati, ha un'aria
di ragazzo obeso dentro il camiciotto nero lungo, coi
piedi troppo corti delle grasse e caviglie tutte d'un
pezzo nelle calze cannettate. Mi spiega che significa
essere aspirante, andrà presto via per la vestizione. È
orfana di guerra _ bombardamento _ non ha
nessuno, cioè ha le Sorelle, sua sorella ogni monaca
del mondo. (Ma suoi figli tutti i bambini, non credo.)
Parla con garbo untuoso, smuovendo sotto il mento
liscio e pieno un ciuffetto di peli ricci.
Anche ai lati delle guance ha un soprappiù di capelli
cresciuto fino alle mandibole, crespo crinoso,
vagamente impudico.
Con le pagelle in mano m'informo dei bambini. Non
ho coraggio di domandare se li picchiano, sono stati
picchiati anche a scuola. Si comincia a parlare di
classi differenziali, ma questi sono già differenziati
(non li voleva nessuno, li ho presi io insieme agli altri
"scarti") sempre sforniti e intontiti, i "deficienti", sono
anzi residuati di guerra. Sicuro, dice l'aspirante, li
portano fuori, sicuro, quando il tempo lo permette.
Dentro l'istituto spazio non ce n'è. Più di cento e
cattivi, insiste col cattivi. So che le monache non sono
nemmeno maestre, impreparate e impotenti. Adesso
che escono per la scuola si sveltiranno, dice, sono
ancora timidi. No, Franco non è malato. L'aspirante
si meraviglia. Inutile parlarle di frustrazioni e turbe
psichiche. Parliamo piano, benché essa lo faccia solo
per adeguarsi e gli scappi d'indicare con la mano
l'uno o l'altro. Quasi tutti vengono dal brefotrofio, lì
nascono crescono e in età passano all'istituto (poi
qualcuno passerà al correzionale). La giovane ne
discorre con disinvoltura. Malgrado la peritanza
monacale l'argomento non può riuscirle scabroso:
come gli stessi bambini, è abituata a sentir dire figli
di nessuno. O del peccato. E cattivi.
Le pagelle parlano chiaro, figlio di enne enne o
sbrigativo frego, qualcuna col nome della madre.
Mai però si sono viste, dice l'aspirante. Dal
brefotrofio finiscono per andarsene quando le
obbligano ad allattare anche quelli già abbandonati.
Franco non ha che due freghi. Come lo chiamo alza
la sua fronte di capretto e s'invermiglia. Vedo gli
occhi lattiginosi dolci che ha, mi guarda finalmente
in faccia.
Nel quaderno la scrittura sbilenca va prendendo
qualche forma. Impugna la penna ancora con tutte le
dita, tenacissimo. Adopera meglio la sinistra.
"Scrive proprio bene," dico all'aspirante accusatrice
per quella sinistra. Come Leonardo. E lo sento per la
prima volta ridere, fa un piccolo gorgoglio
emozionato. Ride, Franchino, con una di quelle
boccucce di latte a granitura minutissima che
mandano in visibilio le madri.
06 VIETATO AI MINORI
Dai giornali ho appreso che all'Aristide Gabelli
hanno camerette singole, scuola perfino di musica e
cinema e teatro. Stanno da padreterni, non
potrebbero star meglio. D'altronde è la Capitale. Ma
perché si sono ammutinati? No davvero, non
avevano ragione di ammutinarsi.
Ci penso entrando nel nostro ex convento, alla solita
sbafata di aria gelida umidiccia da sotterraneo. Sul
cortile appozzato aprono _ per così dire _ robuste
inferriate e si sente, più che vederlo, il ciclo basso e
piatto inquadrato contro il grigioferro della
pavimentazione ad asfalto. Era il chiostro. Solo
alcune colonne della loggetta, lasciate libere
dall'otturazione a mattoni, serbano il colore caldo
della pietra antica. Barlumi. Ma perché otturare? I
ragazzi vi trascorrono l'intervallo di libertà
(condizionata) in perfetta calma, senza scalciare
niente per via dei danni. La mania dei ragazzi di
tirare calci a ogni cosa. (Non c'è palestra qui da noi
ma neanche al Gabelli.) Sono appunto in ricreazione,
sparsi a gruppi infreddoliti.
Mi si conduce nell'ufficio del censore. Una volta
accettata l'intrusione, debitamente e largamente
autorizzata dalla Procura della Repubblica, vengo
ammessa nell'intimità e perfino alle (involontarie)
confidenze. Il censore concede oggi che assista all'ora
di udienza.
Entra il lungo G. a confessarsi. Confessione
spontanea. Autoaccusa. Gli è andata proprio davanti
al piede una palla fatta di stracci, ha calciato senza
sapere nemmeno lui come, si è rotta una lampadina.
La pagherà, naturalmente. (Hanno un fondo _ chi lo
ha _qualche po' di danaro inviato dai parenti.)
Sissignore, dice G. mansueto. E poi bisogna subito
sapere a chi appartiene la palla di pezza. Se ne
requisisce una, ne salta fuori un'altra. G. dice che
non lo sa. Però bisogna saperlo, informarsi e riferire.
In mia presenza il censore si comporta secondo un
metodo che ritiene debba essere apprezzato.
Domando perché non si proteggono le lampadine
con reticelle, permettendogli di giocare al pallone. SÌ
stancherebbero e cadrebbero addormentati invece
di... Certo certo, è stata fatta richiesta... per iscritto...
ma si sa la burocrazia... Mi vengono in mente le
razioni scarse e che la fame è meglio della ginnastica
per evitare... Mentalmente sto usando anch'io
pudichi puntini di sospensione.
G. torna poco dopo col nome del colpevole: uno di
sartoria, stracci grigioverde. È lungo e dinoccolato,
muscolatura floscia nonostante i diciassette anni.
Dice sempre di sì, pagherà lo stesso la lampadina, e
poi forse pagherà anche la spiata. Viene fatto
chiamare l'artefice della palla di contrabbando.
Paternale.
Arrivano altri ragazzi per l'udienza col censore. Tutti
sull'attenti militarizzati nel grigioverde cascante alle
spalle. E lo guardano tutti ai capelli troppo biondi
(per lo meno "aiutati"). Chiedono di fotografarsi.
Pagheranno col loro fondo, beninteso. Amano
immensamente farsi fotografare. Amano ogni sorta
d'immagine, specie se femminile. Ormai si deve
sottrarre alla posta da casa qualsiasi foto per evitare
quel tale commercio, farebbero commercio perfino
delle madri, proibite anche le madri.
Giunge da fuori un vocio afono, un sommesso
tramestio. Sono sorvegliati e d'altronde manca
spazio. Porteranno a letto le energie accumulate, gli
umori ingorgati dell'età, le smanie represse, le
esuberanze inutilizzate. No, neppure i ragazzi di
Porta Portese sono dei padreterni, hanno la propria
cameretta (ma quanti?) però non hanno palestra.
Stancare il corpo, stroncare gambe e braccia, per
sprofondare nel sonno fino alla mattina. (Sporcano le
lenzuola, lei sa... Altroché: camerate come grandi
scatole orgoniche). Occorre spazio e moto, occorre
esercizio fisico ai ragazzi segregati, più del cibo. Essi
lo sanno senza saperlo, si fanno la palla di stracci.
Che serve solo a rompere vetri e lampadine, essere
indotti alla delazione, puniti.
Anche per questo cella di rigore? Cubicoli con
feritoia e tavolaccio o terra nuda, a quanto si sa. La
legge consente l'isolamento, ma fa divieto di
prolungarlo per il minore oltre i cinque giorni. Il
censore s'aggrotta, scuote la testa in una negativa
poco convincente. E il letto di contenzione?
Addirittura sembra indignarsi. Si fa del tutto... lui è
come un padre... di suo non ha figli... si considera
padre di ognuno... Il pallone ce l'hanno, per la
domenica, i giorni festivi li portano su un prato...
quando il tempo lo permette... Esclusa la sezione
giudiziaria... equiparata al carcere... scontano una
condanna... Vietata l'uscita.
Incredibile quello che sono capaci di fare nelle
camerate, i più grandi e turbolenti. Tanto incredibile
che non ci sarei arrivata se il censore si fosse astenuto
dal raccontarmelo. A un tratto si lascia andare.
Tempo fa, appunto nella sezione giudiziaria, venne
organizzata una fuga e portata a compimento senza
che gli agenti, malgrado lo spioncino sempre
sorvegliato, si accorgessero di nulla. La camerata è
lunga,
in fondo la porta che da sui locali adibiti a tribunale
minorile (mai usati). Durante una settimana di
lavoro notturno riuscirono con un chiodo _ che cosa
non si può realizzare con un chiodo _ a far scorrere
dall'altra parte il pesante catenaccio. Per scoprire alla
fine una seconda chiusura impossibile da rimuovere.
Ma poi capitò che un minore, accompagnando un
agente, andasse in quei locali e, non visto, aprisse il
resto. La notte furono padroni di un corridoio e della
gran sala tribunalizia, coperta di polvere, non certo
temibile. Immagino che provassero a sedersi sugli
alti stalli dei giudici, perfino sul seggio presidenziale.
È vero, dice il censore, l'hanno confessato. Quindi si
calarono da una finestra con le lenzuola. È un
convento mica una fortezza, giustifica. Del resto non
era lui, giustifica il suo predecessore per solidarietà.
Del direttore trasferito d'ufficio sapevo. Direttore del
carcere per adulti e del riformatorio, medesima
persona e locale. C'è annessa l'abitazione in un'ala
con giardino e grande orto (vietato ai minori). Il
figlio, quindicenne, esce, trova una motocicletta alla
porta di guardia, l'inforca e via. S'allontanò, gli prese
la mano, la passione dei ragazzi per i motori.
Passarono ore e venne denunziato il furto:
proprietario un visitatore. Impossibile evitare le
conseguenze, lo scandalo. Una tragedia in famiglia.
La signora, la madre, ebbe un collasso. Morì l'anno
dopo nella sede punitiva.
DÌ mattina trovo vuoto il cortile, sono a studio. Sono
cioè nell'unica aula di cui dispone il centro, un
budello con due file di banchi tra cui si passa a stento
_e l'impressione è che il passaggio si chiuda via via
alle spalle _ dove, in ordine di statura, seggono, alla
rinfusa come a ricreazione, di ogni età e di ogni
classe, dall'ex studente al differenziato incapace di
apprendere checchessia in queste condizioni, dal
bambino fresco e sveglio al vergognoso giovanotto
analfabeta. Il maestro, unico, ha l'aria stravolta.
Mancano i locali. Tabù il salone fantasma, aula
magna.
Credo di conoscere ormai tutto, salvo qualche
porticina rimasta chiusa. Tutto vi è relativamente
pulito e in ordine, ma tutto di una sordidezza
carceraria, dal bianco calce delle pareti al grigio
cenere degli infissi, dalle panche di legno agli
sgabelli di metallo ammaccati e scrostati, dagli
sbilenchi tavoli da notte ai materassini
inverosimilmente sottili. Qui non c'è umana buona
volontà che valga, qui regna il nudo e crudo della
prigione, qui domina la povertà come condanna e lo
squallore come stile. Uno stile da governo povero e
da burocrazia irremovibile. (Le reticelle alle
lampadine mi sono state promesse: a quando?) Viene
fatto di pensare che ancora fra decenni nessuna forza
avrà potuto sloggiare da una simile sede il centro di
rieducazione per minorenni. Ma si continua a dire
correzionale e riformatorio (alias macchina
macinatrice di giovani) basta avervi apposto la targa
nuova. È già un passo che per muoverlo ha avuto
bisogno di secoli. E la scuola, non è che fuori stia
molto più avanti.
Questo riesumato convento alla luce spenta del tardo
pomeriggio autunnale affonda nella sua tetraggine di
luogo senza sole. L'effetto è più che mai deprimente.
Mi ha lasciato entrare dai due cancelli, con qualche
esitazione, l'agente di guardia. Rimango in cortile.
Una visita senza preavviso a ora insolita. Accolta.
Nell'ufficio.
Mi ha spinto a venire qualche cosa di preciso che
voglio sapere. L'infcrmeria dov'è? Nella visita ai
locali, la prima volta accompagnata rapidamente per
l'intero giro, non ricordo di aver visto l'infermeria. È
sempre nelle celle interne? Si utilizzano, risponde
evasivo il censore. Stanno in fondo alle camerate,
sulle quali apre l'uscio col solito spioncino.
Servivano (servono?) a isolare "anche" per malattia.
Isolamento incongruo. Anni fa _ un anno di guerra _
vi trovai il ragazzo tisico. Visita unica ed eccezionale,
in veste diversa da oggi: risale ad allora l'idea di
entrare in questo campo di assistenza aperto, gran
bontà dei moderni governanti, alle donne. Il ragazzo
stette mesi al presunto isolamento. Dallo spioncino
penetrava nella camerata il fetore degli sputi,
insostenibile, caso particolarmente virulento.
Aprendo l'uscio si formava, attraverso l'inferriata
esterna, una corrente che investiva la branda col
malato fradicio di sudore e in cerca d'aria. Invocò
aiuto, non voleva morire. Materassino come una
tavola. Sostituirlo. Canottiera sbrindellata.
Provvedere maglie di lana. Una sputacchiera chiusa.
Ero sconvolta. Scrissi brigai tempestai, con le autorità
locali, col ministero. Alla fine il ragazzo uscì, per
entrare, troppo tardi, al Forlanini, e non prima d'aver
scontato la pena. Magnifico esempio d'inflessibilità
_lentezza _ procedurale.
L'attuale censore ha anche lui da raccontare. Proprio
in quella camerata della sezione carceraria _la fossa
dei leoni _ nel '43 fu trucidato l'agente Schinnei. Gli
chiedono un libro che per la rilegatura non passa allo
spioncino, Schinnei apre e viene assalito. Lo
colpiscono con gli sgabelli, lo tempestano di pugni e
calci, s'accaniscono perdendo il lume degli occhi e un
sacco di tempo a imbavagliarlo e legarlo con
lenzuoli. Non era ancora morto. Il minore Turini,
promotore del tentativo di fuga, una specie di èrcole
diciottenne, in attesa di giudizio per omicidio,
infierisce sulla testa con una scarpa fracassando il
cranio. Il Turini, disciplinatissimo, figlio di un
assassino in galera e di una epilettica in manicomio.
Gli altri, per lo più ladri, ragazzi avidi di libertà. Lui
Sta scontando la condanna a Porto Longone, ossia
Porto Azzurro. Caspita, se al Gabelli si sono
ammutinati, qui hanno ucciso. Guardo il censore.
Sorride. Qui ormai è un posto tranquillo. Il centro
funziona
come un orologio (una macchina), il personale è
ottimo benché scarso, vigilantissimo, e del resto si sta
in guardia. Non bisogna fidarsi dei ragazzi.
Attraversiamo il cortile sotto una grande stella
fredda e un filo di luna così sottile da sembrare uno
spiraglio o una lama. C'è silenzio. Luce a qualche
inferriata, ai vetri della scuola una testa nera. Luce al
laboratorio di sartoria.
Altri budelli, i laboratori, si direbbe che il convento
fosse costituito da corridoi. Questi locali erano prima
il reparto osservazione, ma sempre per mancanza di
personale, e di spazio, i minori (bambini anche) si
sono dovuti mescolare. E non si sa mai quando
finisca l'osservazione. È capitato perfino che un
minore (termine impersonale che suona asettico
come la salma nei processi) vi sia rimasto cinque
anni: quando si riteneva che potesse uscire, e i
familiari lo reclamavano, la pratica avendo seguito il
suo corso, fu assegnato, diciottenne e "rieducato", al
centro di Torino dove si trova attualmente. È dunque
ragionevole aver messo qui i laboratori e utilizzato la
stanza a destra dell'ingresso per radunarvi alla svelta
gli "osservati" in occasione di visite. Ringrazio che
per me non si faccia più.
Entriamo. Il maestro d'arte sta imbastendo un
cappotto borghese. (Lo provo a occhio sul censore,
gli starebbe, ma lui veste bene, sarà di un agente.) Il
maestro alza lo sguardo dagli occhiali, saluta e
riprende a lavorare. Di là c'è il reparto calzolai al
buio. Travediamo un'ombra. Accesa la luce, compare
il ragazzo. Evidentemente stava col maestro, s'è
nascosto. Viene mandato via. Se ne va con un inchino
senza fiatare. Un bei ragazzo, distinto anche nel
grigioverde affazzonato. (Adesso lo portano solo "in
casa".) Era studente. Che ha fatto? Niente
d'irreparabile. Un po' esaltato, fughe, qualche
furterello, gioco fumo, rivoltarsi al padre, rifiutare la
famiglia la scuola, ribelle a tutto: il classico discolo.
Assegnato a "rieducazione". Si comporta in maniera
ineccepibile coi superiori coi compagni, gli vogliono
bene. Ma nei laboratori fuori orario non si può stare.
Vietato ai minori. E lì al buio, sa. Il censore sembra
allarmato. Ci sono forbici, arnesi puntuti taglienti,
trincetti. Non bisogna fidarsi dei ragazzi.
07 TACCUINO DELLE UDIENZE
Giocavano a pallone, il bambino si mette in mezzo,
ruba i tiri, rincorso fugge col pallone. All'imputato
gli "scappa un sasso". Bozza frontale rovinata. (Già
da sassaiole precedenti?) Batte di nuovo a scuola.
Cure trascurate, ferita scoperta: malattia giorni 124.
Rossigno, bocca stretta puntigliosa: il prepotente è
lui.
Citata la frase di Einstein sul ritorno dell'uomo
all'arma primordiale dopo l'atomica. Coi sassi sono
capaci di ammazzarsi.
Non vuole più fare il fornaio perché non può
dormire la notte. Basso, cosce corte, gl'incisivi
superiori spezzati (sassata) fossetta al mento come
una ditata nella pasta del pane. Imbeccato dai
compagni di riformatorio: Avevo bisogno di soldi
per le sigarette e il cinema, i vizi che abbiamo
imparato durante la guerra. Ma era troppo piccolo
per imparare vizi.
Altro discorsetto preparato: i compagni avevano
danaro lui no. Alternativa di tentazione davanti al
cassetto: la coscienza mi diceva non lo fare, il diavolo
mi tentava.
Sordità totale. Quattro operazioni di adenoidi.
Appena operato ci risente un poco, poi si stranisce. Il
padre (vecchio e alcolizzato): impazzisce. Però non se
la fa coi maschi. Recidivo stesso reato. Funge da
interprete un compagno di carcere, gli guarda le
labbra con l'espressione tesa e smarrita dei sordi.
Fisico meschino, aria miserabile malata infelice.
PM: Che ha detto?
I: Dice che gliel'ha posato in mezzo alle gambe.
PM: Un po' più su. Strappate le mutandine?
I: No, se le levò essa.
La bambina rifiuta di riconoscerlo e di parlare, no no
no con la testa. All'ispezione vaginale integra
l'imene, ma non occorre rottura per la definizione di
violenza.
Una testimone: credeva che stesse a fare i comodi
suoi, cioè _ esitazione _ cacava, quando la vide si
rialzò. L'interprete: stava orinando, passa la bambina
che si faceva baciare per dieci lire. Altra testimone:
gettata a terra e sanguinava dal naso, lui sopra, lei
gridava lui non sentiva però le teneva la mano sulla
bocca.
Mentre tutti parlano resta isolato senza poter capire
che stiano decidendo.
"Sei tu la madre di Antonio?" "Sì." Invece è la madre
della ragazza. Dice che colui là (il PM) l'ha fatta
imbrogliare e non raccapezza più niente. Linguaggio
burocratico e ignoranza concorrono alle confusioni.
"Quando ti sei portato a casa del derubato?" Teste,
indignatissimo: "Io non me so' portato gnente."
Quello che si è offeso alla parola castroneria
equivocando con castrazione. "Castrato a me!" Un
vecchio pastore chiama scudi i dollari. Si ostina con
Procuratore del Re, ignorando la repubblica.
Maggiorenne. Vecchi fascicoli riesumati da sotto il
mucchio delle pendenze. Furto oggetti domestici,
casseruole soprammobili indumenti e una maschera
carnevalesca. Dopo un'incursione aerea. C'erano i
tedeschi, vendettero in un vicolo lenzuola ricamate
di corredi da sposa. Il padre provvide subito alla
completa restituzione, maschera compresa. Stava
giocando con quella.
Violenza particolarmente brutale a una bambina di
cinque anni. Devastazione degli organi genitali,
emorragia, stato anemico in conseguenza.
Escoriazioni dappertutto, ricevuta in ospedale
coperta di sangue. Bua terra Luciano, non sa dire
altro. Bruttina, piena di sfoghi e croste, festosa
ballonzolante. Luciano o la macchina?, tenta di farle
domandare l'avvocato.
La trovarono i ragazzi buttata in terra da una
macchina in mezzo alla strada e la consegnarono a
Luciano. La consolò, la ripulì, l'accompagnava a casa.
Passando la fece entrare nella propria a bere un po'
d'acqua. Poi... "l'ondata fangosa... laidezza
nefandezza efferatezza... bruto mostro..." L'aveva
portata nel gabinetto, la lasciò seduta sul cesso con
un'emorragia.
Il mostro (non ancora quindicenne, detenuto da sei
mesi) scarno infantile, tratti puerilmente rotondi, la
bocca minuscola torta da un convulso, appare
terrorizzato. Come se ignorasse lui stesso di
possedere quell'arma micidiale, "da taglio", come
uno che ha il pugno proibito e se ne rende conto per
la prima volta uccidendo. Rinunzia a giustificarsi.
Ogni intervento del suo patrono viene duramente
rimbeccato. Lo zio prete voleva farlo negare: un
giovane calvo, gli occhi celati dalle lenti, labbra
strette. Il padre si torce le dita. Alla sentenza fa l'atto
di strapparsi i capelli. Spese eccezionalmente
rilevanti: L. 725.675 e anni 1 mesi 5 giorni 25 di
carcere.
Quindicenne. Trovatella. Si usa reiteratamente la
parola. Avrebbe sottratto danaro nella casa in cui era
a servizio. Nega piangendo. A sua volta ha
denunziato il padrone per atti di libidine: presentate
le denunce nello stesso giorno. Assente il rispettabile
denunziante. Un anziano merciaio che striscia con
mani umide le mani della clientela femminile.
Lancio di palle di neve all'uscita dalle magistrali.
Occhio offeso a una studentessa: indebolimento
permanente. Non si vede più traccia della "sassata".
C'era nella palla il sasso? Testimoni altri studenti che
soccorsero la ragazza (ma anche essi tiravano). "Età
di manifestazioni deviate." L'imputato in questura
piangeva: Oddio, era tanto bella, l'ho rovinata.
Detenuto, recidivo. Un pregiudicato. Furto con
destrezza e flagranza. Vagabondaggio. Si sposta
vendendo calzoni, zingaro o magliaro. All'ultimo
furto aveva in tasca sessantamila lire. "Ci va forte il
ragazzine." Colto mentre tenta le tasche posteriori
d'un mercante alla fiera del bestiame. "Con le mani
nel sacco." Nella tasca, si scherza. Altro scherzo: ditta
io e me. Si ride, serio il ragazzo. Indaga con occhi
mobilissimi, vividi, luminescenti. Zingareschi. È solo,
non si ha notizia di parentela. "Da oggi in poi facci la
croce." Si fa prontamente il segno della croce.
Prontamente si riconsegna all'agente: sa di dover
scontare anche i cinque anni della condizionale.
08 - LO JUP
Entra in aula un uomo. Fra due carabinieri, con le
manette. Non per sbaglio, è lui l'imputato. Tolti quei
piccoli arnesi annichilenti si guarda i polsi magri, poi
butta giù le braccia come stroncate.
Ha magro anche il collo, nudo e bianco fuori della
camicia aperta. Sembra uscire da una lunga
segregazione. Invece è stato arrestato da pochi giorni
con un nuovo ordine di cattura. La prima volta riuscì
a fuggire e, avendo dato false generalità, se ne
persero le tracce. Qualche cosa come nove o dieci
anni addietro. Allora ne aveva diciassette. Altre due
volte era fuggito dai tedeschi.
L'avvocato esibisce al tribunale minorile un
certificato di conseguita laurea in economia e
commercio. L'imputato deve essere vicino ai trenta.
Non dimostra l'età. Ancora adesso ha l'aria
immatura, con quella pelle bianca femminea, bocca
delicata e i capelli fini un po' sfolti all'attaccatura. Di
fronte il suo piccolo naso cade storto sul disegno
pretenzioso dei battetti. Si lecca e mordicchia le
labbra come una donna. La voce suona stridula ma
affiochita.
Presente in aula il padre (mai guarderà da quella
parte) maresciallo di pubblica sicurezza. Pare che,
trovandosi in casa, assistesse alla consegna del
mandato
di cattura e all'arresto del figlio. Lo colse un malore.
Perché veramente la storia è così vecchia e insieme
nuova. Nuova come può apparire oggi. A quel
tempo era diverso, il ragazzo non poteva aver
coscienza di ciò che faceva. Successe non solo ai
ragazzi di non sapere, nella confusione, da che parte
voltarsi. E chi si trovò da una parte chi dall'altra. Lui
del resto non ebbe scelta. Poi non ci avrà più pensato.
Era passata, era finita.
Provo a immaginare lo Jup, smilzo adolescente
insaccato nella divisa tedesca troppo grande, gli
enormi stivaloni alle gambe magre. Dice che non
aveva altro da mettersi, ma forse anche gli piacque
quella montura da bravate. Andarsene con il cane
lupo ringhiante per le case a requisire minacciando
di far saltare tutto in aria, doveva dargli il gusto della
grossa avventura, del potere. E si sa che la tracotanza
la sopraffazione la violenza, sono abiti in cui l'uomo
si ritrova prontamente a suo agio. Lui, ragazzo. Ne
vedeva, coi tedeschi, altri, e non ragazzi.
Sarà magari vero che si presentò nelle case a
prelevare quella roba _ un maglione pantaloni scarpe
cravatta _ per mettersi in borghese e tentare la fuga.
(È di Napoli, si trovò a Venafro tagliato dai suoi, i
tedeschi lo rastrellarono.) Già due volte aveva
provato. Fu ripreso a Cassino dal reparto di polizia
presso il quale fece da interprete, lo tenne con sé il
capitano. Interprete, e scavare fosse di trincee. Si
trattava di sopravvivere. Volevano farlo vestire da
militare italiano, lui no. Lo dice come se avesse
rifiutato per rispetto alla divisa. O, se era da milite,
ritiene più pericoloso adesso nominare la camicia
nera. La radio che requisì _rilasciava ricevute del
comando _era davvero per il circolo alleato. Cioè no,
tedesco. Essi stessi, i tedeschi, l'avevano restituita al
legittimo proprietario, risulta dal fascicolo. E poi finì.
Gli uomini hanno potuto continuare $0051$
a odiarsi, combattersi, tormentarsi, accusarsi,
condannarsi a vicenda. Per un ragazzo è diverso. Si
scrolla di dosso tutto e torna a piedi scalzo da sua
madre, appena libera la strada. L'avrà abbracciato
piangendo, il figlio sperso nel cataclisma, che non è
morto di fame di paura di bombe, che in qualche
modo si è salvato. Chi potrebbe chiedergliene conto?
Lo Jup sta a sentire le deposizioni, il magro collo
teso. Inghiotte restando a labbra semiaperte. I
testimoni non guardano verso di lui, come se non
desiderassero riconoscerlo (e magari non lo
riconoscono). Confermano malvolentieri, esitano,
cercano di minimizzare, di scagionare, per quei
pochi stracci, tutto è ormai lontano e privo
d'importanza. Le cose lunghe diventano serpi.
Nessuno vuole infierire su questo gramo giovane che
si è laureato in economia e commercio. La faccia
sconvolta del padre maresciallo turba anche i giudici.
Ma l'imputazione risulta gravissima e Giuseppe V.
detto lo Jup non può godere dei decreti di condono a
causa dello stato di latitanza. Oltre a vestire
abusivamente una divisa, qui si tratta di rapina con
minaccia. Lo stesso comandante tedesco lo fece
arrestare. (Dopo i tentativi di fuga?) Malgrado gli
anni trascorsi vigono ancora le leggi di guerra che
inaspriscono la pena anche nei reati contro il
patrimonio. Delitti commessi approfittando delle
circostanze dipendenti dallo stato di guerra. Si potrà
togliere questa aggravante? La legge del 10 giugno
1940 commina, per omicidio devastazione
saccheggio rapina estorsione: pena di morte. È
agghiacciante, oggi, in un'aula di tribunale minorile.
Giuseppe V. continua a sentirsi nominare lo Jup
come incerto che si tratti proprio di lui. Fissa il
pubblico accusatore mentre dice quelle cose terribili
dello Jup e gli trema il mento.
Quando inizia l'arringa, lo coglie la debolezza del
pianto. Alla sprovvista, irreprimibile. Altera e
contrae
la fisionomia nello sforzo di trattenersi, così esposto.
Non cerca il fazzoletto, non si copre con le mani,
resta a braccia giù con quei polsi che una volta
ammanettati è come se non potesse più usarli. E tutti
stanno a guardare. Rigato di lacrime, si gira in mezzo
ai due carabinieri verso il muro.
Sopravviene un incidente. Malaccorto, l'avvocato si
lascia trasportare dalla sua facondia. "Se si fosse
trovato coi partigiani, oggi sarebbe un eroe."
Il pubblico ministero, urlando: "Le proibisco di fare
certe illazioni."
L'avvocato tace, in atteggiamento di scusa, temendo
di sentirsi dare del fascista. (Lo è stato, forse lo è
ancora, e non è il solo qui dentro.)
Giuseppe V. avrà il perdono. Suo padre rialzerà la
testa con un moto di gioia, alleviato pure
nell'umiliazione. Saranno tutti, anche i giudici,
alleviati. L'avvocato trionfante.
Lui, lo Jup, resterà come un uomo che è stato
ammanettato e ha pianto davanti ad altri uomini.
Sbalordito come uno che non capisca perché gli sia
successo questo. Se ne andrà, così smilzo e col suo
piccolo naso storto sui baffetti, la bocca morsicata
tremante, con la sua laurea, con quell'aria di sentirsi
bollato a fuoco da un marchio infamante.
09 - ELOGIO DELL'OSPEDALE
Le teste a taglio corto e a rapatura si sono riempite ed
è assai dubbio che un barbitonsore vi rimetta presto
le mani. Fa freddo, ormai vengono con coppole
cappucci vecchi scialli femminili. Una volta sgusciati
saltano fuori ciuffi erti irreducibili.
Vivere tra gente con la capigliatura a posto rende
difficile compenetrarsi di certe situazioni. Per
esempio, la mancanza d'un pettine. E il più modesto
figaro dei vicoli esige pure qualche moneta. Così
succede che i miei maschietti si riducono con la nuca
a lische impastate fin dentro lo scollo dei grembiuli
già logori e nella sfrangiatura di varie magliette
soprammesse.
.Hai un pelo da cane morto, dice Marcelle al
compagno di banco. Si offre di portarselo a casa, dal
padre che con forbici e rasoio s'arrangia. A lui lascia
il ciuffo per coprire il buco della scheggia. Ancora ci
fa mettere il dito e parla di bombe, ma la sorella
fulminata in mezzo alla strada è come se l'avesse
dimenticata.
(Anche Augustino dell'anno scorso è dimenticato, Vi
ricordate di Augustino?, domandai dopo averlo
trovato al centro. Nessuno se ne ricordava.)
Per quelli dell'istituto è presto fatto, basta tele fonare.
Non poi tanto presto, bisogna insistere, fare
la voce grossa. E, una volta tosati, vengono fuori
certe croste che prima non si vedevano. "Franco, che
t'è successo?" Risponde senza guardarmi: Una
sassata. Anche Ciro ha segni di sassate. Fa la cocchia,
è l'espressione. Ossia la crosta. E tu? E tu? Sempre
sassate. Caspita se se le danno. Qualcuno modifica:
ha sbattuto al muro, o è caduto.
Sospetto lì per lì punizioni corporali violente, è corsa
voce che si adopera la cinghia per gl'incorreggibili.
Come minaccia posso crederlo (risulterà invece vero)
ma picchiare a sangue in testa no. Sono cento
bambini " cattivi " all'istituto, da trattenere tutto il
giorno e senza spazio. A parte che le monache _sei
più l'aspirante e una donna di fatica _ non
posseggono alcuna preparazione, nessun titolo di
studio, il che riduce all'impotenza e alla violenza. Se
il tempo lo permette li conducono fuori in uno
sterrato pubblico adiacente. (C'è stata una sorta di
uscita, al mercato, i bambini a turno con le sporte a
riempirle di elemosine e avanzi di verdure raccolte in
terra per la minestra: fatto cessare). Ebbene i sassi
sostituiranno i giocattoli per chi non ne ha. Del resto
i sassi sono un'attrazione per tutti i ragazzi.
Le croste non cadono, anzi s'allargano,
s'inspessiscono, si diffondono. Noto qualche
chiazzetta di pelatura. E questo che è? Silvano
afferma che è la cicatrice di una sassata vecchia.
Osservo tocco frugo trenta teste per imparzialità.
Giornata della pulizia, invento. Gli altri "di fuori"
hanno cicatrici e crosticine anche loro, ma poca cosa.
Alla fine Franco che è candido, di nuovo interrogato
si lascia scappare: "La Madre dice che è la sassata."
(Le scuffione, borbotta Marcello.) Mangio la foglia e
telefono all'ufficiale sanitario.
Inforcati gli occhiali, portandosene gruppi sotto la
finestra, anche il medico mette le mani nelle zazzere
e alle tosature. Sulle croste bofonchia. Riconosce
i camici grigioferro. Ci risiamo, sbotta. Ma che è?
Tigna, naturalmente.
I sei interni e tre vicini di banco. Questi subito a casa.
Gli orfanelli, come li chiamano a volte
affettuosamente i compagni (ma orfani non sono)
isolati sotto la finestra. Che vengano a riprenderseli.
Il medico s'informa se i panni li tengono separati.
Risulta che "in casa" ogni squadra prende come
capita berretti cappucci sciarpe. Ne hanno di ogni
foggia e qualità, un assortimento, roba di varia
provenienza _ aiuti americani, elargizioni caritative _
convogliata in questi istituti dove si utilizza e si
consuma tutto. Avevo visto Ciro e Franco ornarsi a
giorni alterni, non senza civetteria, d'un berrettone di
pelo giallastro alquanto intignato esso pure.
"Bene," dice il medico scrivendo, "ricovero
all'ospedale." Non è la prima volta, l'anno scorso fu
scabbia. S'indigna un po'.
Come rimaniamo soli, avverto nel gruppo alla
finestra un certo fermento. L'ospedale: mi si stringe il
cuore. Dovranno starci mesi. Sembrano piuttosto
impressionati, si agitano in maniera insolita.
Erano apatici, come animaletti avviliti, una sorta di
abbrutimento. Brefotrofio e istituto, il primo ingresso
alla scuola pubblica li aveva traumatizzati. Ancora
sono poco comunicativi, taciturni. È ancora difficile
rimuoverli dall'indifferenza, interessarli, farli
partecipare alla vita scolastica, alla spigliatezza
monellesca dei coetanei popolani. Soprattutto
difficile è indurii a parlare. Hanno un così povero
linguaggio, rudimentale, da sordomuti rieducati.
Perfino le voci rauche stonate, la pronunzia stenta, i
suoni informi. Manca poco che lo stesso medico li
definisca subnormali. L'eccitazione da cui li vedo
presi mi disorienta.
Franco è scarlatto dalle comine in fronte fino al collo.
Ciro, ritenuto "il più deficiente", ha pezze di colore ai
pomelli e certi occhi animati da bambino
vispo. Anche Silvano _tarchiato, impostatura e
pacatezza lenta di contadino _ gira intorno iridi d'un
azzurro vibrante.
Che c'è, domando. Mi viene fatto d'allungare la
mano, la ritiro a mezz'aria. Se non li tocco, se non li
accarezzo, stabilendo col contatto fisico una concreta
comunicazione, si divincolano a lungo prima di
articolare. Be', adesso ho paura di quelle chiazze e
croste, non vorrei rimetterci la chioma. Già mi pare
di sentir prurito dappertutto, già sono tentata di
grattarmi. (Essi mai si sono grattati: ligi forse a un
divieto della Madre.) Epperò m'accorgo che non sarà
difficile farli parlare, sembra che ne abbiano
addirittura urgenza.
"Si sta bene," salta su Ciro con gli occhiolini micanti.
"Dove?"
"All'ospedale," afferma con una sorta di entusiasmo.
Rimango sbalordita. Guardo gli altri del gruppetto e
capisco dalle facce. Diobuono, sono contenti di
andare all'ospedale.
"Ti danno latte zucchero," sintetizza Franco. E Ciro:
"Panini caldi freschi." "Senti la radio," aggiunge
Franco. Hanno tirato fuori una loquacità disinvolta
confidenziale, assolutamente insospettabile. "La
ciccia," scandisce pacato Silvano. Risulta che si
rammentano, questi bambini dall'aria intontita
assente, perfino di quello che mangiavano al
brefotrofio piccolissimi. Erano pappe _ cibo avanzato
alla guerra _ pappe di "farinello" americane e
zuppette e brodette. L'idea della carne, dei panini
freschi, del latte con lo zucchero (chi ha nominato la
radio rappresenta il minimo di spiritualità che
sussiste comunque nella natura umana, se pure non
sia unicamente per il senso acuito di benessere che
procurano i suoni) li rende così miseramente felici da
conturbare l'anima. Ah se sono poveri. Più
poveri del compagno col pelo di cane morto alla
nuca, più poveri di chiunque al mondo.
Senza accorgermene accarezzo le brutte teste tignose.
Con incredibile audacia, sotto la mia mano, Ciro
proclama forte verso i banchi, forte e
baldanzosamente, la voce a gracchio: "Andiamo
all'ospedale, noi." Incontestabile privilegio.
Dai banchi i monellucci zazzeruti dei vicoli si
mettono a ridere.
10 - RAPINA A MANO ARMATA
Oggi deve comparire lo studente del locale liceo
classico. Se ne parlava nei corridoi. Sì che corrono
brutti tempi (ma quando mai non sono corsi brutti
tempi) però se capita un figlio di ragguardevole
famiglia al tribunale minorile e con una imputazione
così, fa ancora un certo effetto.
C'è perfino un vago senso di disagio in aula. Si
mormora di passi disperati del padre per scongiurare
lo scandalo. Il padre quel signore calvo con gli
occhiali e la catena d'oro attraverso il panciotto
prominente. S'appoggia col ventre alla transenna, vi
si preme contro quasi a volersi ridurre, sforzando la
vista verso gli scanni dei giudici. Come viene
condotto il figlio, tra due agenti quasi in segno di
particolare pericolosità, ha uno strabuzzamento
d'occhi e comincia a sudare. Gli si offre una sedia.
Mi stupisce la corpulenza dell'imputato. Al primo
sguardo, un pezzo d'uomo. È uno di quei ragazzi
grassi dall'aria melensa, coi panni deformati e
sbracati addosso, quelli che i compagni chiamano
ciccione e se ne fanno zimbello, che incassano senza
reagire: capaci di soffocare nel grasso ogni reazione.
(Benché poi nessuno sa come sia dentro un grasso, di
che riconcentrata sprofondata animosità possa essere
capace.) Mi stupisce davvero molto, mai prima
avevo
visto qui un ragazzo grasso. In genere i discoli sono
magri e guizzanti come lucertole, magari nervosi ma
astuti e controllatissimi.
Questo se ne sta inerte, molle insaccato, gli occhi
inespressivi volti all'autorità, esponendo da dietro
due fianchi polputi e un largo deretano da femmina
sotto la giacchetta tirata alla vita e spiegazzata.
Sembra non essersi neppure accorto di suo padre,
che ora suda copiosamente. Ha la cartilagine delle
orecchie accesa, la testa oblunga coperta di slavati
capelli biondastri. E un'aria torpida, inerme,
rassegnata.
Inaudito è poi ciò che si ascolta di lui e fa rotolare al
padre grosse gocce di sudore per la onesta calvizie.
Storia da gangster. Un bei giorno, in un'ora piena, la
più scoperta lampante ora del giorno, lui, studente
liceale, entra nel portone della banca portando sulla
schiena uno zaino, uno zainetto da gita in montagna,
ricolmo dei "ferri del mestiere" (lime, giraviti, un
mazzo di vecchie chiavi, un coltellaccio da cucina
non so quanti metri di corda, altri aggeggi incongrui
quanto inutili) e si presenta allo sportello di cassa.
Per pura combinazione non c'era in giro nessuno.
Inoltre _ una vecchia banca di provincia _ quegli
sportelli ritagliati nel legno che limitano la visuale.
Dunque lui si presenta, mette il suo faccione bonario
e placido di grasso _ sarà parso un uomo fatto _ la
sua insospettabile testa slavata, e con l'espressione
melensa intima al cassiere la consegna dei soldi. Pare
che lo facesse in una maniera così imbrogliata, così
maldestramente e farfugliando, che il cassiere
dapprima non capì. Disse: come? Poi vide la canna
della pistola. Un brutto momento per il poveruomo,
col danaro fra le mani, quel tipo davanti a pistola
spianata e l'impossibilità di avvertire qualcuno
dietro, se pure c'era qualcuno, ai tavoli interni. Una
palla, a essere imprudenti, non tè la leva nessuno.
Stava per consegnare tutto, salvo poi dare l'allarme e
cercare di rincorrere il rapinatore. Che peraltro,
aveva
pensato il cassiere, avrà di certo fuori i compiici la
macchina e in un amen sarà sparito. Ma qualche cosa
lo avvertì in tempo: la canna della rivoltella si
muoveva. E si muoveva in un certo modo incredibile
ma inequivocabile: come in una mano malferma.
Insomma il terribile grassatore tremava.
Fu un affare da poco _ come acciuffare un figlio per
sculacciarlo _ togliere da quella mano la pistola (un
vecchio pistolone borbonico da briganti col grilletto
arrugginito e intarsi d'ottone sul calcio, che tenevano
in casa come soprammobile) prendere per il bavero
l'aggressore e gridando allarme assestare ceffoni su
quella faccia grassa sbigottita. Lo tenne là allo
sportello, per i risvolti della giacca, come un sacco,
finché non accorsero a levarglielo.
La presenza del padre che gronda sudore dalla cute e
s'asciuga con un ampio fazzoletto bianco, gela sulle
labbra qualche risolino affiorante. Il ragazzo sta lì
proprio come un sacco. Così ascolta l'accusa e la
difesa, trattato da delinquente precoce e declassato
alla ragazzata. Così segue, ma forse ora con blanda
curiosità, il Tribunale alzarsi, separarsi e sparire per
le due porticine.
Sono incerta se avvicinarmi. Di questo strano
imputato non ho capito granché e provo difficoltà a
formulare mentalmente qualche domanda.
Soprattutto provo disagio, a differenza di altre volte
con "delinquenti" più decifrabili e che è in fondo
semplice trattare da quei ragazzi che sono. Mi
muovo con sforzo.
Averlo davanti, guardarlo in faccia da vicino, è
ancora più sconcertante. Si è alzato, lo faccio
risedere, mi siedo anch'io sulla panca. Le grosse
cosce traboccanti nel pantalone senza piega arricciato
all'inguine, mi fermano l'occhio. Ci guardiamo e
inaspettatamente sorride. La sua faccia di luna non
manifesta ombra di vergogna. Quelle vergogne
atteggiate sornione calcolate, di cui si mascherano i
ragazzi. Il sorriso è chiaro su bei denti nitidi uguali
da fanciulla. E mi guarda in una maniera
inesplicabile, si direbbe con una sorta di complicità.
Due occhi celesti, un poco ilari e ammiccanti, mi pare
per un tic. A volte i grassi sono nervosi come gatti.
Non posso stargli vicino senza parlare. Dico: "Come
diavolo t'è venuta in mente una cosa simile,"
ritrovando la possibilità di comunicazione. Un
ragazzo, dopotutto. "Lei è la signora..." Pronuncia
con solennità il mio nome. Tende la mano.
Automaticamente porgo la mia e me la stringe.
"Anche lei scrive, lo so." Rimango sbalordita.
Quando, sottovoce, ammiccando col suo tic, confida:
volevo scrivere un racconto poliziesco, sono lì lì per
dire: siamo quasi colleghi. Si era voluto
documentare, caspita, aveva voluto sperimentare di
persona, mettersi nei panni del rapinatore, vivere il
suo personaggio.
Poco dopo, rientrato il Tribunale, mi ricordo che non
ha detto niente, ne in istruttoria ne in aula, del
racconto poliziesco. Passerà, immeritatamente, come
il precursore della rapina minorile in provincia.
Sento di concepire per i ragazzi grassi una sorta di
allarmata considerazione. Questo si prende il
verdetto _ d'altronde un perdono _senza battere
ciglio nemmeno col tic.
11 - PORTE CHIUSE
Porte serrate inchiavardate: farle aprire è l'unica
magia di questa Befana. Una Befana magra stecchita,
arcigna come tutte le vecchie benefattrici a orario
fisso e carità convenzionale. Una Befana insomma
smagata e frettolosa, burocratica.
Quella appunto entrata qui. In un giorno qualsiasi,
non si era avuto tempo. Sono al seguito. Ed è a me
che guardano, mi sento rimescolare. Passano voce: è
la B. è la B. Ho acquistato una certa popolarità,
anche se è un porto di mare i nuovi sanno dai vecchi.
Scorrendo la fila incontro subito lo sguardo celeste di
Zinzin _ il più piccolo, il primo _ e in fondo
riconosco la grande sagoma di Stelvi che sovrasta
tutti. Gruppo delle autorità compreso.
Rigidi, capo eretto, i ragazzi via via mi guardano,
seri ma con un accenno confidenziale ad angolo di
bocca. Impettiti irreprensibili come collegiali,
oppongono una fila serrata, testa scoperta, all'onda
diaccia del cortile, che i signori e le signore superano
rabbrividendo, seguiti dai pacchi nelle braccia degli
agenti. (Neanche oggi, col sottozero, si è aperta la
grande sala, inutilizzata sede, teorica, del Tribunale,
ovvero tempio, senza Tabernacolo, della Giustizia.)
Scendiamo dal carcere e viene notata la
marzialità dei ragazzi in confronto all'ammucchiarsi
degli adulti per i muri di un corridoio.
Sul riposo, ricevono il dono ringraziando. Su al
carcere alcuni dimenticavano perfino di rispondere
al proprio nome, letto con voce stentorea da una
guardia sull'elenco. I vecchi saltellavano avanti
ansiosi ad acciuffare il mezzo toscano; uno, appena
chiamato, staccatesi dagli altri si era messo a correre.
Invece i ragazzi sporgono una mano, composti.
Stelvi è il più aitante, alto robusto bello, si fa notare.
Gli confermo con un'occhiata la promessa. Un'altra
ne annuncio a Zinzin, il tranquillo dolce Zinzin, che
non ne sa niente e non può capirmi, e tuttavia si
lascia sfuggire un poco marziale sorrisino.
La promessa fatta a Stelvi era di scrivere alla madre.
Rinchiuso tredicenne e passato da un correzionale
all'altro, ormai è quasi un giovinetto. Il ricovero in
riformatorio può avvenire con uno sbrigativo decreto
del Tribunale che li definisce disadattati anche se
sono in stato di bisogno o di abbandono. Continua a
essere disadattato poiché la madre continua a vivere
come prima. C'era uno zio a reclamarlo, ma appena
dimesso dal manicomio e comunque un poveruomo
in miseria. Nonostante le buone intenzioni, se buone
erano, avrebbe finito per sfruttare il ragazzo o
chissacosa. E il ragazzo, un magnifico esuberante
ragazzo, resta dentro. Avevo scritto alla madre. Ma
lui avrà tutto il tempo di toccare l'età. Spaccherà
molta legna (contro il regolamento) tirerà su perfino
un muretto (contro il regolamento) zapperà le
strisce-aiuola dell'ingresso e forse l'orto del
direttore (sempre contro il regolamento) con la foga
di chi dissotterri un tesoro. Muscoli tesi allo spasimo.
Solo a tempo debito sarà libero. Una libertà che
spesso riporta in carcere. E il caso di Zinzin. Quei
piccoli occhi celesti che
guardano intenti e speranzosi, con la fiduciosità
dell'infanzia, appena velati da un'ombra di timidezza
derelitta. Che diamine ha potuto fare un bambino
così. È qui da tré anni, non ne ha ancora dieci, vi
rimarrà fino a diciotto e magari oltre. (A meno di
un'altra guerra: la guerra è finita viva la guerra.) Ma
che ha potuto fare? Niente. Ozio e vagabondaggio,
sta scritto. Sua madre una prostituta (di guerra) la
sua casa un vano di stamberga aperto a chiunque. Lo
mettevano fuori anche di notte. Ozio e
vagabondaggio. Fu necessario internarlo. O
ricoverarlo, come è decentemente scritto. Un
bambino di indole quieta, remissivo, mai avuto un
rimprovero, addolcisce anche i più violenti. Resterà
chiuso fino ai diciotto, magari oltre.
E sua madre. Certo lo amava, si vendeva come suoi
dirsi per lui (compenso in natura, scatolame di
truppa straniera). Dopo si era disperata, voleva
riprenderselo, prometteva di cambiar vita. Ma era
fradicia, le restava poco. Cercò di rivederlo e fu
mandato, bisognò riportarlo via, non si potè
lasciarglielo nemmeno un giorno in quelle
condizioni.
Storie monotone, pare sempre la stessa storia. Per lui,
dentro l'infanzia, dentro l'adolescenza. Sembra starci
con naturalezza se non volentieri. E che altro ha
conosciuto. Per padre e madre gli agenti di custodia,
per fratelli i ragazzi che passano e cambiano
continuamente, per casa questo carcere.
Viene trattato quasi con tenerezza da tutti. (Salvo un
tentativo di violenza, però "con buona maniera" e
non ha capito, fin adesso.) In definitiva non avrà
conosciuto di meglio. Ma sarà stato dentro,
rinchiuso. Provare a figurarsi quando questa creatura
intimidita e inerme dovrà rientrare nel mondo
cosiddetto libero, quello che chiamano
reinserimento. Provarsi a pensare Zinzin per la
prima volta davanti a una porta che non si apra con
stridore di chiavistelli, una porta interna di casa a cui
basti girare la maniglia. Zinzin esitante timoroso
davanti alle porte aperte.
E anche la promessa a lui è mantenuta. Dopo la
distribuzione della Befana _ una befanuccia povera
povera, una piccola carità stiracchiata pesata
registrata _mi si concede di condurre all'ospedale, a
portare il dono a un compagno malato, due dei
migliori. Scelgo Zinzin e Stelvi.
Non dimenticherò questa passeggiata fra i due
reclusi con la scorta dell'agente. S'è fatto buio, una
sera rigida frizzante di nebbia vischiosa. Ma ai
ragazzi piace, anche la nebbia sembra renderli felici.
Zinzin trotterella con un risetto irreprimibile sulle
labbrucce screpolate. Stelvi scansa i lembi della
mantellina gonfiando il petto con assaporata foga.
Guardano le luci dei lampioni, smorte nel vapore,
come se fossero razzi di festa. Da mesi, o da anni,
non vedevano la città notturna, gli sembra splendida
prodigiosa. Qualche cosa di esaltante, come eccitante
è la nebbia ai polmoni avidi. Più conscio, Stelvi si
muove quasi in un impeto di corsa e poi subito
trattiene il passo, guardandomi con un sorriso di
scusa. Non una volta mostrano di ricordarsi
dell'agente che viene dietro.
Al ritorno li accompagno fino al primo cancello. Me
ne sto ferma a sentire l'inchiavardamento, i passi
sulla ghiaia, spenta l'apertura del secondo cancello e
il tonfo della chiusura. Oltre il cancello un'altra porta
inchiavardata, un altro bottone da premere. E so che
Zinzin, trotterellando avanti, tutto felice di poterlo
fare, alzandosi sulla punta dei piedi lui stesso pieno
di zelo lo piglerà.
12 PERDONO PER I GIOVANI
Qualcuno comunica: due detenuti. Ma il presidente
tiene a precisare che i due minori in uniforme, con
l'agente in borghese, appartengono all'Istituto di
Osservazione.
S'inizia l'anno giudiziario con un richiamo allo
storico decreto che trasformò il vecchio riformatorio
(o correzionale o anche reclusorio) in Centro di
Rieducazione, secondo la targa appostavi. Inoltre si
butteranno giù le sbarre. Non come al Gabelli di
Roma con pubblicizzata cerimonia, partecipazione
della stampa e radio (è ancora proibito introdursi
fotografare, la TV sta nascendo riservata) ma pure
saranno tolte. Quando, non si dice. Ricomincia a fine
gennaio la normale attività: udienze il primo e
l'ultimo venerdì del mese.
Per l'occasione un certo concorso di avvocati,
malgrado il freddo. In piedi alla panca i due ragazzi
si presentano nella nuova uniforme blu decorosa,
camicia azzurrina, cravatta nera da lutto
meridionale, mantellina corta come quella militare di
una volta (i resti del grigioverde si finirà di
consumarli "in casa"). Devono entrambi rispondere
di furto. Altri tre ladruncoli a piede libero attendono
nel corridoio. Nessuna violenza stamattina. La
percentuale dei furti è sempre alta, secondo
le statistiche costituisce il 60% dei reati _ ivi
compreso il furto campestre, taglio di legna e pascolo
abusivi _come è stato detto inaugurando dal
presidente. Seguono quelli di natura sessuale. I
consueti reati dei minori, età ricorrente 15-17 anni,
cause principali: miseria analfabetismo,
sottosviluppo. Una o due volte l'anno capita il
peggio. C'è stato un parricidio, è in istruttoria il "
delitto cavernicolo."
Viene chiamato dalla panca Luigi D. "Prese" danaro
al padrone, che dopo la vendemmia non volle
pagargli la sua parte di lavoro perché aveva
mangiato troppa uva. S'introdusse in casa. Avrebbe
detto: se mi coglie l'ammazzo. Nega. Sono sette
fratelli, sono poveri. Insiste su quel rifiuto del
padrone a pagare il compenso. Alla vendemmia si
mangia finché "se ne tiene in corpo." Incensurato.
Perdono.
Giuseppe P. arriva dal corridoio, si dirige alla parte
opposta. Anche lui sedicenne, ma corporatura da
uomo, la porta con disagio, legnoso inferito. Grandi
piedi, mani rosse e gonfie. Un voluminoso pastrano
militare gli fa le spalle quadre. Deve rispondere di
piccoli furti in natura, ne ammette due, dice che lo
forzarono a confessare il resto. Come si volge,
disorientato, per raggiungere la panca, rivela una
faccia esigua, bambinesca, occhi pavidi curiosamente
annidati sotto le sopracciglia. SÌ è appreso che il
padre ha un tirassegno ambulante e sette figli, non è
mai andato a scuola. La richiesta del perdono viene
dallo stesso pubblico ministero, cui s'associa
l'avvocato d'ufficio. Oltre la normale procedura
minorile, oggi è giornata d'indulgenza.
Davanti alla panca, affiancati in piedi _ non si pensa
a farli sedere _ adesso sono in tré. Un quarto s'è
introdotto in aula alla chetichella, andando ad
appiccicarsi al termosifone mentre nessuno gli
badava. Siamo a dodici gradi sottozero, sarà partito
all'alba per venir giù da uno di questi paesi di
montagna. Anche i testimoni hanno l'aria intirizzita.
Il caso seguente porta alla monotona udienza un po'
di animazione. Taglio di legna abusivo, resistenza a
pubblico ufficiale. Antonio D. colto nel bosco del
comune con certi paletti di carpine nero _di proprietà
dello zio, sostenne _ gli fu sequestrata l'ascia, tentò di
riprendersela e la guardia cadde. La guardia giurata
è un vecchio (bisogna cercarlo al gabinetto) in larghe
brache di velluto, baffoni bianchissimi, rubizzo ma
tentennante sulle gambe.
"Be'," dice, "rivoleva l'ascia e io non gliela volevo
ridare."
" Allora è lui che ha fatto resistenza, " sfugge
all'avvocato sonnacchioso.
Il vecchio sembra propenso a ritrattare. "Scoppole
non m'ha date, col paletto non m'ha dato." Lo si
ammonisce e tace. Al suo fianco Antonio mostra la
nuca con un taglio di capelli casalingo un po'
rognoso, le orecchie staccate dalla rasatura, canine.
Nel ridiscendere la pedana sorregge il suo
antagonista.
Questa specie di furti, che ha un'alta percentuale
nelle campagne, com'è risultato dalla prolusione, non
può tuttavia considerarsi indice di delinquenza
minorile. Ma Antonio D., unico fra i cinque di
famiglia abbiente e persino in possesso, oltre a
qualche palmo di vigna, del "diploma" di quinta
elementare, viene condannato. A suo carico un
precedente: furto di ciliege. Gli s'infligge una pena
mite con la condizionale.
È il turno dell'altro minore in uniforme.
Quindicenne, pallidissimo, macilento, un'aria logora.
Rubò qualche dolciume e qualche sigaretta allo
spaccio di caserma dove faceva servizi: abuso di
prestazione d'opera. Non avevo mai un soldo, dice. E
provoca un rabbuffo del presidente sulle solite frasi a
effetto, l'avevi preparata chi tè l'ha messa
in bocca. Orfano di guerra, due sorelle, la madre
inserviente nella stessa caserma dei carabinieri. Con
lui si procede senza ritirarsi in camera di consiglio:
perdono. Assegnato a rieducazione (come metterlo
in collegio alleggerendo la famiglia, le donne).
Guarda i giudici con occhi adulti, disperati.
L'ultimo, che si stacca a malincuore dal termosifone,
è Benito T., un piccoletto, occhi cigliuti micanti da
bestiola. Avrebbe rubato nel comò mentre lavorava
in una casa a seguito del mastro muratore. (Il
portafogli venne ributtato nel portone della casa,
intatto.) Nega, affermando che gli fu estorta la
confessione a calci in culo. La solita storia, può
magari rispondere a verità, ma a dargli credito dove
si andrebbe a finire, per principio bisogna
rintuzzarla. Ciò che il presidente fa con asprezza.
Letta la sentenza, spiega che il perdono non significa
essere assolti (a quelli del centro non occorre
spiegare niente, sanno già tutto come legali). Esprime
la convinzione che a questo Benito ladro e bugiardo
il perdono non gioverà: lo rivedremo lo rivedremo,
per ora vattene. (Altri congedano con un meccanico:
e non commettere più reati.) È un presidente
anziano, stizzoso e scettico, il suo comportamento
non sembra ispirarsi alle solenni dichiarazioni
inaugurali. Inevitabile che ogni uomo porti se stesso
sullo scanno del giudice: la sua bonomia o la sua
durezza, il suo acume o la sua mediocrità. Ve ne
sono di austeri e di scherzosi, di irascibili fino al
furore, di plateali come se recitassero per un
pubblico, di gelidamente affabili. Rari i paterni, gli
umani. L'autorità della legge neutralizza l'umanità
come elemento di debolezza.
Lavoro difficile, in cui la deformazione professionale
è più vistosa e grave che in qualsiasi altro, compreso
quello del medico. Dicono (celie fra gli avvocati) che
il giudice bello sia più raro del prete bello. E
sembrano tutti senza famiglia, dediti a una
castità non certo come voto ne impegno, ma
conseguenza di una condizione in realtà assai
particolare e tormentosa. L'avvocato no, l'avvocato è
sempre bello, lui non deve condannare, lui deve
aiutare, aiuta anche il delinquente.
Si termina in un paio d'ore, udienza rapida e agevole,
ordinaria amministrazione. Il profano resterebbe
deluso, aspettandosi qualcosa di diverso, che so, del
fervore, date le premesse. Resto delusa io stessa.
Essendo dalla parte dei ragazzi e presa dagli aspetti
umani, rimango tetragona alla comprensione della
procedura, incapace di penetrarne i segreti, il
meccanismo. Continuerò sempre a stupirmi del
risultato in anni mesi giorni _ quasi aspetto
l'aggiunta di ore _ che esce dall'alchimia del codice, e
multe e spese fino alla lira.
Altra impressione da profani è che l'avvocato
generalmente non serva. Per regolarità procedurale
basterebbe quello d'ufficio, agli incensurati
applicandosi automaticamente la legge col perdono.
L'avvocato anzi a volte disturba, impone lungaggini
inutili, irrita. Sono ascoltati con riguardo i principi
del foro, i vecchi i giovani i modesti con
sopportazione, perfino consultando l'orologio,
togliendo addirittura la parola. C'è ruggine.
Gli avvocati abusano della psicologia, hanno sempre
in bocca Freud o Lombroso, secondo l'età. Al
contrario i giudici sembra non ne tengano alcun
conto, come se il codice la escludesse facendo
prevalere la lettera. Non appaiono psicologi neanche
nel modo di trattare il ragazzo, d'interrogarlo,
cercare di capire com'è, almeno le cause del
comportamento. E ci sarebbe, oltre la psicologia del
minore, da interpretare quella di chi ha messo per
iscritto i primi verbali, compilato le informazioni.
Qui ragazzi ne passeranno tanti entro l'anno, un
centinaio. D'altronde sono stati perdonati, anche
quell'unico con la condizionale che non comporta
l'iscrizione al casellario giudiziario. (I perdoni che
deludono la parte avversa: "cornuto e mazziato" ha
detto un contadino.) Tutto è predisposto per
l'indulgenza dalla legge speciale che istituisce il
giudizio sui minori, manca soltanto la prevenzione.
È stato come sempre, ormai da anni. L'aula troppo
grande estranea e fredda. Negli intervalli il fumo
delle sigarette subito accese ed emesso in fretta dagli
avvocati in gruppo fra loro o attorno al PM. Uno che
si dimentica d'indossare la toga, occorre richiamarlo
alla dignità della funzione. Sfuriate e strapazzate a
chi dimentica di cavarsi il cappello. Iterati richiami
agli imputati che si tolgano le mani di tasca, e ce le
rinfilano, via le mani, tornano nervosamente a
insaccarle, via via quelle mani, non se ne accorgono,
confusi e spaventati. Quel: guardatelo, che alcuni PM
hanno come intercalare. Mette alla gogna. (Ed è l'età
che vorrebbero scomparire. L'età che tentano di
coprirsi coi lembi della giacca. Erezioni importune.
Visti al centro. A scuola i più grandi e bambini che si
masturbano ingenuamente sotto il banco. Ma in
tribunale, capire perché gli succede, è
impressionante, forse la paura, uno sconcerto
violento di paura come al momento
dell'impiccagione.)
Richiami ai testi che non sanno dove volgere gli
occhi, da quale parte parlare, non capiscono perché,
interrogati dal pubblico ministero debbano
rispondere al presidente: parla con me, rivolgiti a
me. Sembrano ignorare là difficoltà di comprensione
degli imputati e dei testimoni, incapaci di un
linguaggio accessibile. (Passaggi dal voi al lei
quando si presenta persona di ceto, abito talare, una
signora, riscivolando nel tu coi seguenti miseri
mortali.) Veloce lettura della sentenza, intelligibile
solo agli addetti ai lavori. Spesso se ne vanno senza
aver capito. Non intendono nemmeno i parenti. Poi il
difensore spiega e si attribuisce il merito o si
giustifica
con alzate d'occhi e gesti significativi contro gli
scanni vuoti.
E i giudicati che rimangono lì a veder aprire e
chiudere le porticine come un gioco di scatole a
sorpresa. Lì a sentire ogni cosa. Di regola si dovrebbe
farli uscire volta per volta, è stato detto e ripetuto che
debbono essere allontanati dall'aula. Ma se l'agente è
uno aspetta per riportarseli insieme, se sono in
coppia si dimenticano lo stesso, nel corridoio gela. Si
dimenticano anche i giudici. E i ragazzi sono stati a
sentire. Oggi non si trattava di reati sessuali, hanno
solo imparato come rubano gli altri.
12B TACCUINO DELLE UDIENZE
Plagio. Estorsione circonvenzione: plagio. Reato
inedito. Avrebbe indotto l'amico a cercare prestiti a
nome della madre. Se non mi dai i soldi ti strozzo _
tenendolo stretto al collo con la cinghia. Si tocca
continuamente l'inguine, vi sovrappone i lembi della
giacca, mastica il labbro inferiore, sembra sul punto
d'una crisi convulsiva. Nega con la testa, non
riuscendo a parlare.
Il plagiato _ bocca aperta, aria sorniona _ pagava le
consumazioni ai compagni. Pagava dunque lui? Ha il
padre emigrato, la madre dichiara che rientrava a
farsi dare mille lire per sera, poi diecimila (?). Risulta
che abbia cercato prestiti per una sigaretta.
L'imputato teneva lui il portafogli. Non è vero, glielo
consegnò per strada perché aveva visto uno zio.
Faceva da sé il presunto plagiato? Maneggiava
danaro: compra offre regala. Era sempre circondato.
Nega anche lui con la testa. Negano tutto. Storia
inestricabile.
Dopo la sentenza, di assoluzione, si danno la mano,
anche con gli altri del centro il giudicato scambia
strette di mano ricevendo congratulazioni.
Si è difeso accusando la madre del bambino di
portargli rancore per una lite. Indignazione della
donna. Il bambino tornò col sangue giù per le gambe,
prima disse che era caduto. (Lesioni sfintere anale.)
Piange, non vuole andare davanti al giudice, la
madre gli ha portato la palla. Anche l'imputato
sembra piangere per un'otturazione del lacrimale.
"Impossibilità di sfogo naturale, manifestazioni
sessuali in forme esasperate." Non capisce quello che
si dice di lui, lacrima da un occhio e nega
ostinatamente, ciecamente. Il bambino rifiuta di
guardarlo, no no no, butta la palla in mezzo all'aula.
La madre contrae il viso _stupore disprezzo _mentre
l'avvocato sostiene l'innocenza del suo cliente.
In casa dello zio medico, ospite per l'estate.
Ginnasiale (adesso I liceo), solitario, sempre coi libri.
Il padre della bimba lavorava per il medico, volle
andarsene. Lui l'hanno mandato in collegio a Napoli.
È un carota lentigginoso, arrossisce a chiazze accese
come spellature, le orecchie gli vanno in fiamme.
La bimba, ancora minuscola _ aveva tré anni _
gentilmente ma insistentemente interrogata, dice
bua. Aveva fatto capire che si mise in ginocchio per
terra, le mani al culetto e il pipì. Secondo le due
prime perizie defiorata, a una terza no. Restitutio in
integrim. Cicatrizzazione. Si parlò di dote alla
bambina fra gli avvocati.
Battagliano in aula rilanciandosi scientificamente
dottamente i più minuziosi particolari. Il padre,
giovane, pallidissimo, preme le mani sulle orecchie
quasi rifiutandosi di ascoltare. Alle guance del
ragazzo immobile, fissi gli occhi vetrini, il colore
s'intensifica via via come se lo schiaffeggiassero
ripetutamente, gl'invade la testa rossa, sembra lì lì
per scoppiare. "Criminale abuso di ospitalità, sfregio
all'innocenza, delitto infame..." Soffre tutta la
vergogna della vergognosa natura. Ha sempre
sostenuto che voleva accertarsi se era fatta come la
neonata di sua sorella, assisteva al bagnetto.
Mentre il suo patrono ridimensiona minimizza
giustifica, il rossore si ritira, resta a chiazze sotto le
mandibole. Sciogliendosi dall'immobilità in cui era
paralizzato, stacca le braccia, appoggia le mani sulla
panca, muove gli occhi.
La bambina dorme profondamente in braccio alla
madre. Restituita all'innocenza.
Al bambino violentato, gli diceva: Vedi, questo fa il
ragazzo. Come un ammaestramento. Con
naturalezza e semplicità, con orgoglio. Fa quel
liquido biancastro spumoso, come la donna fa il latte.
Coppia di quindicenni: associazione per delinquere.
Una serie di furti e furterelli in natura, fino al,
pantagruelico banchetto a base di salsicce rubate.
Grandi robusti coloriti, capigliature folte in
disordine, capelloni li chiama il PM. Si portano le
mani ai capelli cercando di reprimerli, come se
scherzassero. Assicurano di aver fatto uno scherzo
con le salsicce, negano il resto. Allegri, per nulla
intimiditi. L'avvocato, d'ufficio, tenta inutilmente di
ammonirli. Poca voglia di lavorare? Questo non lo
negano. Uno sentenzia, con leggera modifica: " Tré
sono i potenti, il Papa, il Re e chi non fa gnenti." Il Re
non c'è più, rimane il Papa?, ma non sembrano
considerare potenti nemmeno i giudici. Ripresi,
tornano seri con buffa compunzione.
Grande muscoloso, fisico un po' brutale, faccia
negroide. La donna ha ventisette anni, ne dimostra
assai più ma conserva qualche attrattiva, occhi di un
nero brillante: siciliana. Fama in paese di
abbordabilità. Gettata a terra, strappate mutande e
pannolino, accorse alle grida un uomo, sangue anche
sulla faccia dell'aggressore. L'avrebbe provocato
dicendo: Non sei buono a fare. Malgrado l'aspetto si
esprime bene, sicuro e risentito. Lavora a Roma.
Ma perché con gli organi più sporchi, la natura
sembra aver relegato l'amore tra le basse funzioni.
Accusa di un difensore alla natura.
13 LA TRAPPOLA
In provincia la parola è stata poco usata, dovevo
venire a Roma per risentirla. Roma corrotta a
metropoli col suo babelico dopoguerra. Ma dopo
aver riempito le cronache e gli schermi, lo sciuscià sta
tornando nell'ombra. Non più il numero
strabocchevole, i casi strabilianti ( " rubare " un
soldato americano, un negro, "rivenderseli":
circolano ancora come barzellette) esaurito il
fenomeno spettacolare. Però le squadre del buon
costume continuano a rastrellare ogni giorno per le
vie un certo numero d'irregolari. Bambini. Passano
per la questura molto vicino a quelle stanze d'aspetto
con panche verdi e gialle in cui trascorrono la notte
irregolari d'altra specie. Tanto da potervi incontrare
la propria madre. Li visitano gli stessi medici del
reparto celtico. Prostitute e minori vanno a finire al
San Gallicano. Una comunanza sufficiente a dare la
misura della situazione. Quando la visita sanitaria è
favorevole, i minori _bambini _vengono spediti al
San Michele. Decido di andarvi. Non è facile. Ci
riesco.
San Michele è il centro di smistamento che possiede
Roma, dopo anni dalla guerra. Edificio antico
enorme, al solito cadente _ un colpo d'occhio dal taxi
_ grosso patrimonio che non rende più. Sempre, per i
ragazzi, questa sorta di relitti rifiutati
anche dalla pubblica amministrazione. Gli uffici
consistono di vasti saloni _ qualche scrivania vi si
sperde _ decentemente tenuti e con tracce del passato
splendore. Dai finestroni si vede il Tevere, arioso
verdino sotto il sole come un pezzo di mare, perfino
coi gabbiani. Ma nessuna traccia dei bambini. Qui è il
regno dei vecchi, l'ospizio di mendicità che presta un
angolino e una monachella ai rastrellati. Il Gabelli
presta gli agenti. Salvo l'angelica suor Maria Elodia,
il prestito è ben magro. Una specie di veranda-
corridoio su un cortile-pozzo e tre stanzoni, due
adibiti a dormitori. Solo nei dormitori maschi e
femmine restano separati. Durante il giorno tutti
insieme nello stanzone _ vi giocano e vi mangiano
_cupo smattonato, con tavoli e panche sudici
traballanti. Ragazzi che hanno avuto Roma per
campo di battaglia. Se c'è un posto dove maschi e
femmine dovrebbero tenersi rigorosamente separati
è questo.
Stanno nello stanzone in promiscuità dalla mattina
alla sera, praticamente disoccupati. Vengono per
alcune ore, a turno, maestre distaccate
dall'insegnamento, a intrattenerli. Senza carta matite
libri, senza materiale ne per lo studio ne per il lavoro.
Anche con buoni mezzi sarebbe arduo organizzarsi
in questa trappola dove cascano, per un giorno una
settimana al più mesi, gl'irregolari della città.
SÌ possono ammirare pozzetti di carta con disegnini
più o meno autentici, ritagli di pupi a catena
attraverso fogli di giornale, due o tre fiori finti in
velina, pezzuole con qualche punto indefinibile.
Campioncini forse artefatti, comunque roba
incongrua, che serve per mostra e giustificazione alle
presenze. Espone, la maestra, e ne i suoi occhi miopi
ne quelli candidi di suor Maria Elodia s'accorgono
della rifinitura che una mano infantile ha aggiunto
all'ultima catena di pupazzi che esce dalle forbici,
resi maschi e femmine dai rispettivi attributi
inequivocabili.
Qui ci sono anche ospiti di dodici tredici anni:
intrattenerli col ritaglio di pupazzetti di carta, essi
che ne sanno più di monache e maestre in blocco (le
monache più delle maestre).
Ce n'è stati _ quando vi passavano a migliala:
milleottocento ne ha visti la sola monaca _di cui
ancora si racconta. Uno che per quattro anni riuscì a
farsi credere sordomuto da tutte le questure. Scappò
da casa con altro simulatore e andavano
mendicando. Rastrellato qui continuò a sostenere la
commedia. Visita medica, ospedali, specialisti. Un
bei giorno forse stufo, esplose a squarciagola con
Zazà. A suor Maria Elodia accorsa disse che gli
aveva fatto la grazia san Michele.
Altro tipo strabiliante il "tenentino." Lo presero che
se ne andava dietro agli alleati, combinato in una
divisa militare, si teneva sul petto la medaglia di suo
padre colonnello morto in guerra (beninteso
partigiana). Nominava gente d'alto rango,
personalità politiche, tutti amici del padre. In quella
condizione (aveva addosso una venerea, spiccia
abbreviazione della monaca) serbava l'innata dignità.
Gente esperta smaliziata scaltrissima, durò parecchio
a lasciarsi abbindolare, fuorviata dal nome falso e
dalle indicazioni sballate. Alla fine se ne venne a
capo, fu identificato da suo padre al San Michele.
Entrò pallido come un morto, non lo vedeva da due
anni. Il ragazzino neppure una grinza. Quel
poveraccio ebbe paura di riprenderselo _ bisognò
rimandarlo con due agenti _ sapeva che prima di
arrivare alla stazione gli sarebbe scappato di nuovo.
Riscappò dopo. Correzionale.
Al momento mancano i casi clamorosi. Vi sono
monellucci che la famiglia senza risorse spinge
all'accattonaggio, bambini abbandonati, ladruncoli,
vagabondi, rissosi, i cosiddetti "generici". (Se si fa
vedere qualche madre delle borgate è per piangere,
se parlano è per lagnarsi con la monaca di questa
maledizione dei figli, cercare a lei un sistema per
abortire meno pericoloso del ficcarsi dentro un corpo
estraneo.) C'è un calabresino bruno come un
moretto, occhi neri dolcissimi, che il fratello
maggiore fornì a Cosenza del biglietto ferroviario e
spedì alla capitale contando che sarebbe stato
fermato e messo in qualche posto a spese del
governo: ebbe il tempo di godersi la capitale per
qualche giorno. C'è la bambina che vide sgozzare la
propria madre dall'uomo nero" e rimase coricata con
la morta l'intera notte, la trovarono che cercava di
scaldarle le mani.
Una coppia d'indivisibili _ prima di qui non si
conoscevano _ simpaticissimi. Vogliono fare i
meccanici, come spesso ambiscono i ragazzi, e
sembra questo ad accomunarli. Ma se pure si
trattasse d'una indivisibilità di natura più intima,
ebbene ? Due faccette serie, fruste, con pieghe
dolorose, la patina dell'esperienza. Aspettano di
essere destinati insieme a qualche istituto. (Ma si
baderà a non separarli?, le assegnazioni sulla carta
separano anche i fratelli.) Genitori all'ospedale, in
carcere, morti. Uno ha detto con importanza:
Mamma eia il cancro alle budella. L'altro, rimasto
completamente solo, per mesi ha dormito dove
capitava e provveduto al proprio sostentamento.
C'è il ribelle disadattato irreversibile che coi mezzi
comuni _qui senza mezzi _non si riesce a domare.
Facile predirgli la galera, previsione dell'agente. Una
faccia sbalestrata. Arretra divincolandosi e parando il
braccio. Deve averne preso di botte. Si lascia infine
toccare con un lungo fremito come una belva. È la
terza volta che lo portano qui (ci ritrova il fratello e la
sorellina con la bocca storta per una paresi), dai
salesiani scappa. Gli domando perché. Menano col
manganello. Attorno si ride. Sbaglia sempre,
vorrebbe dire campanello. Gli davano sulla testa il
campanello delle lezioni. Questi tipi scappano
tutti dai salesiani, conferma la suora. La disciplina
della comunità applicata di colpo deve risultare
come una imposizione subitanea e incondizionata di
virtù al gran peccatore. Anche le città i borghi dei
ragazzi, superata la fase eroica del rastrellamento fra
le macerie e dei capannoni a tettoia, costituiti a
organizzazione regolamentata, escludono
gl'irregolari, la loro collocazione resta l'ospedale la
neuro il manicomio il reclusorio.
L'" artista" si esibisce davanti all'ospite su un pezzo
sgualcito di giornale, col mozzicone di matita traccia
a segni rapidi e sicuri grosse teste sbilenche
espressive. Sono avidi di carta, c'è gran consumo di
giornali vecchi. Quello che crede di prepararsi
all'esame d'ammissione _ ma non ha libri, gli fanno
fare qualche cosa per tenerlo buono _si offre di
leggermi un suo tema. E vuole mostrarmi la
fotografìa di quando cantò alla Rupe Tarpea. (Be',
non ce li hanno buttati.) In cinque o sei spostano i
tavoli con fracasso, vi mettono sopra le panche,
staccano dal muro foto accartocciate. È davvero lui al
microfono. E gerite intorno, signore e signori, pezzi
grossi. Ebbero un gran pranzo. Eh, dice rimirandosi,
sono proprio io.. Ora è seminudo sporco irsuto. Non
ce tengo, dice, a dove sta qua dentro uh piagnerei. Va
e viene. Ci sta da sei mesi. Ebbero anche i pacchi
dalla "moglie della Repubblica," insomma la
Presidente. Un pacco per uno, ma c'era roba piccola, i
calzoni non entravano, la maglietta a una coscia. Che
si credevano, il brefotrofio. Domando perché si trova
al San Michele. So' cattivo, mbè. Ma cede la sua
spavalderia, gonfia gli occhi di lacrime e s'allontana.
Questo mostruoso San Michele. Almeno separarli
maschi e femmine. Nel putiferio che a tratti si
scatena, suor Maria Elodia ripete che i maschi hanno
già le veneree. Basterebbe intanto un semplice
cambio: gli uffici ai cameroni tetri e i piccoli ai saloni
degli uffici, vedrebbero il Tevere come un pezzo di
mare. Certo, è solo uno scherzo. Sia l'agente che la
monaca a sentirmelo dire hanno riso.
Ma si sta provvedendo per iniziativa della questura.
Sì, proprio la questura. Appello a tutta la
cittadinanza abbiente. E l'istituto di osservazione al
centro minorile? Risposte evasive, come se non si
sapesse che è, il Gabelli viene sempre chiamato
riformatorio. Bene, milioni se ne sono già raccolti. C'è
stato il famoso ballo, ne parlarono le rubriche
mondane. Mi si mostra il ritaglio di un diffuso
quotidiano: civettuolo titolo "II ballo dei nastri,"
cronaca d'un "avvenimento mondano di memorabile
eleganza" a totale beneficio della erigenda "Casa del
fanciullo". Le vie della provvidenza sono infinite:
questa forse, gira e rigira, alla fine arriverà.
14 PERDITIS ADOLESCENTIBUS
Percorro il muragliene lungo il Tevere per cogliere.
dall'alto la smisurata (e fatiscente) architettura del
San Michele, tentata di contare le centoquattro
finestre, richiamata dalle graziose candide
cornucopie, esse sole intatte, alle puellas zoccolantes
per le quali almeno in parte fu edificato, zitelline e
vecchietti e fanciulli, tutto così enorme (la metà del
Louvre) ad attestare il paterno munifico amore del
padre terreno, alias papa Innocenze XII, per i suoi
figli reietti. Tentata di guardare al Tevere qui
incantevole _ che vista da quelle finestre _ verde
calmo aleggiato di gabbiani. Infine domandandomi
come mai i bambini finiscano nel corridoio
smattonato con tanto sperticamento di locali. Ero
venuta al San Michele in taxi e scesa non so dove
senza rendermi conto che del fiume ai vetri.
Il Gabelli sembra l'appendice di questo gigantesco
corpo. Lasciando il terrapieno a Porta Portese _ vi
arriverà il fermento del mercato domenicale _ lo
identifico all'angolo della Ripa Grande. Credevo di
trovare il solito vetusto convento riadattato, invece
nacque proprio correzionale. Dando un'occhiata in
giro scopro sul retro, all'ingresso dell'epoca, la targa
rimasta biancolatte con le cornucopie. "Clemens
XI Max _ Perditis adolescentibus corrigendis
instituendisque ut qui inertes oberant instructi rei
publicae serviant." L'ingresso odierno è quale si
conviene allo stile odierno: pesante, tetro, color
carcere o questura fin dall'androne, stessa vernice
grigia e stesso odore. Fuori ho visto le sbarre,
formidabili. Suppongo che qualcuna ne sia stata
tolta, magari una, inaugurativa, per la stampa e i
paparazzi. Dall'esterno, al grido di giù le sbarre.
Questo è dunque il Gabelli, definito la fabbrica dei
delinquenti e che continuerà a esserlo fino a quando
l'edifìcio reggerà. Lo sfaldamento è lento ma
inesorabile. Ci lavora il tempo.
Al telefono avevo sentito che la mia visita, imposta,
sarebbe stata sgradita. Pure oltrepasso le famigerate
mura. Lunga anticamera punitiva. E finalmente
l'accoglienza. Sostenuta.
Devo spiegare al direttore un equivoco. Chiedo di
poterlo spiegare ai ragazzi. Non intendevo, e non
potevo, riferirmi al Gabelli nello scritto incriminato,
al quale m'era stata data cocente risposta sul
giornaletto del centro. Quando entriamo nella
piccola redazione della Tradotta, ricolma d'un
confortevole disordine cartaceo, tré ragazzi si girano
scrutatori. Tre detenuti. Presentazione: due redattori,
un cronista. Facce intelligenti, modi compiti
dignitosi. E freddi. Sono io a dovermi giustificare.
Ascoltano rispondendo solo a domande dirette, brevi
ritenuti, senza le frasi (ma non erano un po'
retoriche, un po' troppo conformiste?) della vibrante
reazione sulla Tradotta.
Faccio notare che anzi nominavo il Gabelli per
l'iniziativa delle camerette singole. Sorvolo sulle
sbarre. Le cose grosse terribili sono avvenute
purtroppo, altrove. C'era lo "studente" in cui uno dei
giovani redattori ha creduto di riconoscersi. E poi
forse la descrizione dei locali (ma questo un
convento non è) e l'ammutinamento, avvenuto anche
qui senza però uccisioni (ma si sa di pestaggi
collettivi)
insomma un complesso di apparenti concomitanze
per cui si era potuto ritenere che una persona mai
entrata al Gabelli, lavorando di fantasia e con intenti
denigratori, avesse buttato giù quel pasticcio di
menzogne per sbalordire il pubblico. Ciò che avrebbe
indignato i ragazzi e gettato una nerissima ombra di
disistima sulla stampa cosiddetta libera. Meglio la
Tradotta, più onesti e sinceri noi reclusi... debbo
intendere questo? Non parlano che a monosillabi,
non sembrano convinti dell'equivoco. (Era poi
possibile?) Insisto a giustificarmi senza però
ritrattare ne mitigare, fatti che mi constano
personalmente. Qui devono reputarsi fortunati se
hanno le camerette singole. Il direttore non mostra di
notare il se. E hanno un giornale. (Conformista, un
po' retorico, con aneliti di redenzione, privo di
lagnanze.) Mi viene in mente che l'iniziativa di una
redazione potrebbe, anche, rappresentare un modo
per tener separati i figli di famiglia incappati, come
suoi dirsi, in un infortunio.
Tutto è a posto nel grande locale _ a parte tetraggine
e sordidezza ineliminabili da certi ambienti _ sul
percorso della visita. Incontriamo gruppi intenti a
varie occupazioni o in libertà nei cortili, che
s'arrestano e chiamati per nome s'impalano con le
facce inespressive che i ragazzi sanno presentare.
Musetti fanciulleschi, qualche notevole fisionomia,
grinte ingrugnature. Il direttore, bell'uomo ancora
giovane, denti bianchissimi, ha per tutti un sorriso
(conosco questo paternalismo) ma non ottiene
corrispondenza alle sue amabilità (d'occasione?). La
mano amichevole sfuggita prontamente come una
minaccia, parole scherzose accolte con sguardi ostili
o sorpresi, cordiali richiami che fanno trasalire alle
spalle. Riconosco l'atmosfera. E si acutizza la
diffidenza.
In altra maniera inespressive le facce del personale,
uniformi, spente e insieme dure. Tranne quella piena
di carattere del direttore: scaltra, a rifletterla,
coi suoi denti bianchi da carnivoro. Il mestiere
incide. Ve ne sono che non si esercitano a lungo
senza esserne danneggiati nella più intima sostanza
umana. Mi domando fino a che punto questi uomini
abbiano subito l'inevitabile indurimento
professionale. Con quelli della mia provincia mi sono
familiarizzata, posso avere perfino una qualche
influenza, usare un certo controllo, essere d'aiuto ai
ragazzi. Qui è diverso, le proporzioni e la specie,
tutto quanto vi si scarica di corruzione delinquenza
violenza ferocia. Costretti dal potere, sia chi ne usa
sia chi lo subisce. So che ci sono letti di contenzione
(da morirci sopra) celle di punizione (da impazzirci
dentro) è il sistema a renderli necessari e perpetuarli.
Mi fanno pena un po' tutti, ma i ragazzi i ragazzi...
Preferirei smetterla di andare avanti. Non vedrò se
non quello che mi si concederà di vedere.
Impossibile far aprire ogni uscio e del resto una
branda in uno sgabuzzino non significherebbe
niente, le fasce di contenzione o le camicie di forza si
ravvoltolano e si mettono via. Non potrò parlare con
nessuno dei reclusi se non in presenza dei carcerieri.
Invariabilmente rispondono che si sta bene, che si
mangia bene. E poi guardano il direttore gli agenti. A
volte li guardano prima. Si sta magari relativamente
bene, essi comunque pensano il contrario.
Invece si presenta l'imprevisto. Mentre siamo
nell'infermeria portano, sanguinante e stravolto, uno
che ha tentato il suicidio nel cellulare. Spinto per le
braccia cammina come ubriaco. Un ragazzone del
quale, girandomi, ho visto la nuca incolta e la schiena
in camicia sussultante. Trema tutto. Un fremito
nervoso rabbioso, geme e digrigna. S'è tagliato i polsi
e la gola con una lametta. Solita storia, frequente tra
gli adulti. Ah, un simulatore. Recidivo, era uscito da
poco. Il pentimento, vergogna di ripresentarsi al
paterno direttore, mi si dice. Durante la medicazione
è tenuto in piedi, non pensano a farlo sedere.
Al lavaggio che scola alcool rosso, le ferite appaiono
superficiali. Vede? Vedo, può essere una finzione,
già. E se invece non gli è riuscito in tempo? Uno
stratagemma per ottenere il ricovero in infcrmeria e
l'indulgenza. O per sfuggire al primo impatto. Il
convulso non cessa, sbatte i denti. A me sembra
paura, paura nera.
Quando passiamo nelle cucine qualcosa mi sfugge.
Non noto niente di particolare. Il solito tanfo delle
cucine di comunità, una bagnatura in terra melmosa,
due minori sguatteri dalle facce ebeti (uno con la
patta sbottonata: è forse per questo l'imbarazzo?) il
cuoco che corre attorno. Un vero cuoco, grasso e col
berrettone bianco. Ma pare agitatissimo, con tutta
l'aria dell'uomo colto in fallo. Il ragazzo sbottonato si
tiene di sbieco a braccia dondoloni. Qualcosa non va.
La voce pacata del direttore aumenta l'agitazione del
cuoco, trema e balbutisce. Presenta, come gli viene
richiesto, una porzione. Il tocco polposo del baccalà
nuota in un lago d'olio, inverosimile. E devo
scansarmi perché il piatto balla addirittura nelle
mani del poveruomo. Come stesse davanti agli
aguzzini. Domando piano se è malato, l'agente mi
guarda sorpreso senza rispondere.
Scendiamo nell'ultimo cortile. Alte muraglie, il sole
arriva a lama per traverso. In mezzo l'albero. Un
abete. Terra grigia battuta come terra bruciata e
l'abete natalizio unico verde vivente nella città chiusa
dei ragazzi. Da una tal quale emozione questo verde
di natura e non a me soltanto. Si scioglie la
formazione strategica da visita ufficiale, ci mettiamo
tutti intorno.
È stato un dono di Natale, poi i ragazzi hanno voluto
piantarlo. Se ne avvicina qualcuno spontaneamente e
vedo infine vere facce di ragazzi. Sorridono. Sorride
il direttore con la sua nitida dentatura. Sorridono gli
agenti. Domando incredula se davvero ha attecchito.
Molte voci me lo assicurano.
E tutti stiamo intorno a rimirare spalla a spalla.
Sicuro che ce l'ha fatta, dice un raga2zo senza essere
interrogato. Incontro gli occhi lustri di un ricciutone.
L'agente alla mia sinistra, scelta una cima più chiara,
la stringe fra due dita. È una cima nuova, odorosa. Si
porta le dita al naso aspirando con delizia. Viene
redarguito, mani si sporgono a difendere la tenera
cima strizzata. No no, dice il direttore, non sciuparla.
E anche le loro facce appaiono diverse.
Li riconosco. Sono gli stessi coi quali ho frequenti
contatti. La piccola gente di vita grama _
impiegatucci di improbo impiego _ che rientrando
stanchi a casa si prendono i bambini sulle ginocchia.
Magari ancora pensando con allarme a quegli altri, i
figli traviati degli altri, che hanno in difficile
custodia. Quanto difficile anche ai buoni padri
trattare i propri figli "cattivi." E guardando il
direttore _ci sorridiamo _ penso alle tante volte che
mi è capitato di alzare la mano su un bambino per
una carezza e vederlo pararsi. Ecco qua una nobile
faccia, un valoroso uomo assillato da irti problemi, in
cerca dell'ardua strada che conduca ai giovani cuori
induriti. Essi pure guardano forse me in altro modo,
caduta la diffidenza, quel senso d'intrusione malfida
che può ispirare la stampa.
È un reciproco riconoscimento umano, il
riconoscimento di tutte le buone intenzioni che ci
animano, per influsso dell'albero. Un albero di
Natale che conserva la sua virtù: sempre qui,
vigilante, a braccia larghe, con l'aria d'immolazione
d'un crocifìsso.
... le buone intenzioni di cui è lastricato l'inferno...
15 IL PARRICIDA
Ho saputo dopo, per telefono, che al Gabelli c'era
stato il parricida. Avrei dovuto pensare a un seguito,
che non finisse in tribunale, temo di averlo voluto
inconsciamente ignorare. Non conservo appunti di
quel periodo, scrivevo le relazioni a caldo senza
farne copia, lasciandole all'usciere del gabinetto o
entrando per parlarne col presidente. I casi gravi.
Avevo incarico di prendere contatto col detenuto.
Dal presidente R. ebreo espulso perseguitato e da
poco reintegrato nelle funzioni, l'unico a utilizzarmi
effettivamente, a chiedermi una concreta
collaborazione. Dal parricida ero andata più volte.
Ricordo che mi sfuggì: è una pecora. Avevo scritto
docile mite inerme.
Nell'ufficio del centro (come poi in aula) entrò
cercandomi con un occhio, il suo atteggiamento da
uccello. L'altro, cieco, era bianco sfatto. Entrò
saltellando col piede mencio come spezzato alla
caviglia. Ma aveva anche nonsoché all'anca, uno
sderenamento. Sembrava paraplegico. Pallore grigio,
denti guasti, radi capelli e peli di barba a chiazze.
Mai visto un vecchio così di diciassette anni. Solo le
mani sviluppate, grandi nodose, che apriva e
chiudeva in continuazione, le mani dell'assassino.
Parlò, ed era una povera pecora al macello. Sapeva di
aver
commesso qualche cosa che non può essere
perdonato né in terra né in cielo.
Il processo occupò l'intera mattinata, si ebbe la
sentenza alle tre. Difensore d'ufficio. Presenti
avvocati illustri, si trattennero perfino segretari e
cancellieri. Caso grosso. L'imputato, appollaiato di
sbieco, a girare l'unico occhio, il piede mencio in una
informe scarpa al nerofumo penzolante
dall'accavalciatura, sul ginocchio le dita intrecciate
così forte da sembrare uno strano moncherino o una
mano mozza. Squallido. Come se avesse raccolto in
sé tutto il brutto e il male della famiglia.
Non si guardarono mai tra loro. Le due sorelle,
quattordici e quindici anni, bionde, occhi celesti,
bianche e rosa, bellezze in fiore. La madre cupa in
nero, fazzoletto nero serrato alla gola, ma ne
trapelava un sentore di biondo. Disse: la cateratta.
Era stata una cinghiata del padre. Il piede, disgrazia,
l'anca o la schiena che fosse sconquassati, nato male.
Picchiata lei bastonato rotto il ragazzo, alla fine lo
urlò. E poi di nuovo silenzio, irremovibile. La
vecchia testimone: Due nerbate le buscò puro io. Al
presidente: E mo' avemo fenito? Ilarità. Ride anche il
ragazzo, a sussulti nervosi, ancora più squallido nel
riso.
Menava. Scioperato e ubriacone. Peggio dopo
scontata la condanna, per violenza carnale alla figlia.
(La minore, la più bionda.) Si sentiva disonorato _
non posso uscire, non posso farmi vedere alla gente _
disonorato dal carcere. Rivoleva la piccola,
allontanata in città a servizio. Ubriaco, dava in
escandescenze feroci minacciando di ucciderli per
averlo denunziato. Ma rivoleva in casa la bambina.
Quella notte, brandendo un'ascia, li terrorizzò.
Cadde sul letto con l'ascia in mano. Non si precisa
addormentato. Che gli passi il vino, la tregua dello
stroncamento alle gambe. Vomitò. Si sarebbe riavuto
e li avrebbe uccisi, era la volta che li avrebbe uccisi.
Rimangono in piedi vegliando. Avvocato: la ve glia
del terrore. Non si capisce _o non s'indaga _ se
abbiano tentato di levargli l'arma. Si avanza il dubbio
_ pubblico ministero _ se sia stato il ragazzo o
complice la madre, se non solo la donna. Lui si
addossa tutto. All'alba, disperato, afferra il martello e
gli da sulla testa. E continua a battere a battere
perché "ha paura che si sveglia," poi non capisce più
niente, non sa più niente. Agli urli, la prima persona
accorsa lo vede ancora dare col martello. Anche la
madre in camicia piena di spruzzi. (Da domandarsi
perché in camicia, a che sia stata costretta
dall'ubriaco.) È notorio quanto sanguina la testa. Lui
va a costituirsi così insanguinato. Come se avesse
scannato il porco _vecchio teste _ e porco era. Come
un bambino che ha rubato la marmellata, con le mani
ancora sporche di marmellata.
Ho presente ogni particolare. Il pubblico ministero
alle ragazze, dopo aver cercato di ottenere una
parola di cordoglio: gli volevate bene? No. Reciso.
Non piangono nemmeno alla retorica dell'avvocato.
La donna chiusa segreta, il tipo della montanara di
forti passioni e odi implacabili. (I montanari duri
come ghiaccioli, duri acuti taglienti e così freddi che
scottano.) Requisitoria accesa nella forma ma
moderata nella sostanza.
Quando, dopo ore, il Tribunale rientra e il presidente
R. legge con chiara pronuncia, la sentenza è accolta
da un mormorio prolungato. Assolto, legittima
difesa. Si è ignorata la condizione inerme _
temporanea _ dello stato di sonno, mai sottolineata
in dibattimento. Il mormorio, e poi silenzio
profondo. Di emozione. Sentenza eccezionale,
eccezionalmente ardita. Credo di ricordare _ se può
verifìcarsi in un'aula di giustizia _ l'applauso. Ma sì,
ci fu entusiasmo, battimani. Io col nodo alla gola e gli
occhi appannati. Non vidi più niente. Ora so che il
parricida è stato al Gabelli. Venne
dimesso dopo un periodo detentivo per misura di
sicurezza, o qualcosa di simile. Il pubblico ministero
non appellò. Perdonata la vittima da un giudice
coraggioso e forse dal cielo, ma non dalla terra.
Impossibile rimanere in paese, la maledizione atavica
su colui che sparge il sangue di chi lo generò.
Impossibile anche la famiglia, può darsi che la stessa
madre lo abbia respinto, o la repulsione delle sorelle.
Vaga come l'ebreo errante. A Roma si riduce a
bussare al Gabelli. Cerca che lo tengano dentro, fuori
non può stare. Non può scegliere la libertà. Lo hanno
tenuto. Dove sia ora nessuno sa, come rintracciarlo.
Qualcuno collega la sede della detenzione e del
processo con la mia provenienza, sembra che mi
nominasse. E così telefonano. A titolo di curiosità.
Ringrazio.
16 FIGLI E PADRI
Questa mattina due sole cause, la neve ha bloccato le
comunicazioni coi paesi di montagna. Trovo
l'ufficiale nel corridoio che chiama a vuoto i nomi col
naso sulla lunga lista. Anche io sono in ritardo. Il
ragazzo è già in pedana. Un pò gobboni come si
mettono a quell'età e senza collo le orecchie nel
bavero. A volte il dietro degli imputati è talmente
espressivo che, rigirandosi, la faccia inerte sembra
non corrispondere alla tensione e torsione della.
schiena. Questa non la capisco. Un impermeabile
troppo corto col risvolto sudicio in cui la nuca
affonda.
Il ragazzo sta cheto immobile sotto il martellamento
di un interrogatorio concitato e aggressivo, cui
risponde piano come se volesse mettere la sordina,
una voce smorzata che non afferro. Si tratta di furto.
A giudicare dall'entità _ qualche migliaio di lire _
uno dei soliti furterelli. Sta negando, non di aver
preso il danaro ma di aver forzato il cassetto. Rubò
alla padrona di casa. Lo tenevano a pensione, forse
uno studente. Infatti: liceale.
Quando torna indietro m'accorgo com'è alto. Non va
a sedersi alla panca, resta contro la transenna accanto
a un contadino che stupisce sia il padre. È davvero
molto alto ben fatto e bello. Su due larghe
spalle da uomo un lungo collo sostiene con eleganza
la testa piccola ricciuta. Più che ricciuta gonfia soffice
di capelli bruni leggeri a onde appena accennate (con
le dita?) come le ragazze col taglio corto ma pieno
alla nuca. Una testa adolescente di bellezza
femminea, occhi grigi, naso dalle pinne delicate,
bocca stretta carnosa con un biancore serrato di denti
perfettamente regolari. Non mi piace. Porta le unghie
lunghissime, quelle dei mignoli spropositate, di un
rosa duro e lucido come pietre, arrotondate a
mandorla. Ho idea che non saprei parlargli.
Finisce subito, il Tribunale si ritira. Mi avvicino
rivolgendomi al padre e lui si scosta con un fare da
uomo di mondo. Il contadino, che se lo è rimirato, ha
l'aria di chiedere a me dove altro si potrebbe mettere,
uno nato così, bello e signore, se non nei banchi di
scuola. La migliore scuola, appunto quella dei
signori. Domando se gli mandava danaro. Sissignore,
oltre la pensione cinquemila lire. Veste un panno
casalingo, la biancheria è sfrangiata, quelle
cinquemila extra dovevano rappresentare molto.
Aggiunge: È stata una disgrazia. E lancia al figlio
uno sguardo interdetto ma senza rimprovero.
Ora lo vedo bene, il figlio, da capo a piedi. Piedi in
scarpe nere di forma appuntita. Pantaloni blu,
camicia chiara e cravatta grigioperla troppo lustra.
Da quella combinazione con l'impermeabile, deduco
che neanche a vestiti abbia altro. Ma l'avrà voluto
scuro, ci si può andare nei ritrovi, a ballare. È
azzimato, sa di essere bello, lo sa alla maniera di una
donna.
Gli faccio segno e s'avvicina inchinandosi come in un
salotto. Devo alzare la testa per guardarlo, provo
disagio, mi è insolitamente difficile dirgli qualche
cosa. Che cosa? Guardo il mento rasato, il nodo della
cravatta color perla ombrato di sudicio. Neanche a
cravatte deve abbondare. Improvvisamente penso al
vecchio impermeabile appeso a un corridoio del
liceo, fra i cappotti di tweed dei ragazzi e le
pelliccette delle ragazze.
Il Tribunale rientra. Ascoltiamo vicini la sentenza:
perdono. Egli sta col bei viso femmineo impassibile,
ma di nuovo è senza collo. Allora capisco quello che
c'era nella schiena rattrappita. Vergogna, ma si
vergogna di suo padre e dei suoi vestiti. Capisco
tutto senza simpatia. Non mi viene da dirgli altro che
tagliati quelle unghie, bruscamente e con cattiveria.
Me ne pento subito, non sto qui a giudicare. Ma forse
non c'era da dirgli altro.
Del secondo imputato, come entra sbattendo le
scarpe chiodate, scorgo un momento la faccia magra
e vivace, poi sulla pedana una nuca capelluta fin
dentro la giacca. Giacchettina scarsa con mezze
braccia di fuori. È confuso ma pronto e schietto. Fa
sorridere i giudici. Lui Sta serissimo.
Gli si addebita il furto (nel cassetto aperto di una
bottega, un semplice allungare la mano) ma benché
non risultino a suo carico altri procedimenti, di
furterelli ce n'è una sfilza, a cominciare dalla frutta
sulle bancarelle del mercato. Non imputabili quelli
compiuti prima dei quattordici anni. Il classico
ladruncolo. Le sue risposte in dialetto, che divertono
i giudici, sono ingenue e sincere. Con lui non vale
l'abilità inquirente, il gioco delle domande a
trabocchetto, non si può coglierlo in fallo proprio
perché è troppo semplice. "Confermi la deposizione
resa?" "E che è?"
Di nuovo si ride. Stamattina il Tribunale è
bendisposto anche dall'udienza leggera, si sta già per
finire.
Ma bisogna andare adagio, tradurre. Il ragazzo con
attenzione cerca di capire. Ha il piccolo capo ritto con
quei capelli scarruffati dentro il colletto, la schiena
sottile tesa.
"Sai che è la vigilanza speciale?" Non lo sa. Sembra
sia stato sotto vigilanza, ignora di essere socialmente
pericoloso, come risulta dal rapporto dei carabinieri.
"Sai che non si ruba?"
Questo lo sa, ma non sa dire perché non si ruba.
Piuttosto dovrebbero domandargli perché ha rubato.
Scuote il capo ad altra più difficile domanda. "Sai che
è il male e il bene?" (Un sostituto procuratore in vena
filosofìca.) Non saprebbe dirlo nemmeno se fosse
studente liceale, ma la domanda è puramente
accademica. Non ha difensore. Se ne chiama uno
d'ufficio che passa nel corridoio. Del resto è confesso
e si può procedere svelti.
Quando vado a sedergli accanto, anche io devo
cominciare con le domande. Ha sedici anni (l'altro
imputato diciassette compiuti) ma di una struttura
fragile, stranamente disossato nel viso forse per le
guance prive di zigomi. A scuola non c'è più andato
perché gli facevano ripetere sempre la stessa classe.
Lavora da muratore col padre, se trovano lavoro. Tra
fratelli e sorelle sono nove.
Il padre, che era rimasto indietro, s'accosta e
curvandosi mi dice: Fatelo mettere a casa di
correzione. Sto per ribattere che lo corregga lui, ma
lo guardo e non fiato. È un ometto con le guance così
incavate che fanno buco.
Ora il ragazzo ha paura, lo sento (come un animale
preso alla tagliola) riesco a farmi guardare
assicurandolo del perdono, mi guarda diritto con
occhi vivi umidi intenti. Ha bisogno di quel perdono,
ha uno spasimoso bisogno della libertà.
S'alza di scatto all'aprirsi delle due porticine. In piedi
nell'imponenza della toga, il presidente legge con la
consueta velocità. Sono io a turbarmi, l'imputato non
capisce. Ancora non sa che, col perdono, gli hanno
inflitto due anni di ricovero. Ha un guizzo solo
quando arriva il carabiniere in divisa a prenderlo
in consegna. Allora urla contro il padre: tu, tu, sei
stato tu _con una voce secca senza pianto, con la più
terribile disperazione che abbia visto in quest'aula.
L'afferro ai risvolti della giacchetta striminzita _ ma il
Tribunale finge di non udire _ scuotendolo e
spingendolo verso il corridoio. Trema tutto, vibra in
ogni nervo, ha una specie di convulsione dentro. Tu
tu, continua a gridare al padre che viene dietro a
testa bassa.
Lo scuoto e gli parlo, dico quello che mi viene in
mente. "Ti faranno imparare da meccanico." È la
passione dei ragazzi, da qualche parte hanno
l'officina, bisognerà mandarlo in un'altra sede. Ma
lui, accoratamente: Volevo fare il muratore. Lui
vuole stare fuori, fuori. Ha fatto la faccetta senza
zigomi incavata come quella paterna, e così lo lascio
al carabiniere. Senza mettergli le mani addosso, se lo
porta via lungo il corridoio scuro.
Dopo saprò che era necessario levarlo di casa: vi
sono nell'anamnesi familiare, su un foglietto verde
del fascicolo, le tré minacciose letterine: tbc.
17 - TACCUINO DELLE UDIENZE
A presentarsi è un uomo: irsuto, faccia gonfia
abborsata, fronte rugosa, occhio torvo. Diciassette
anni. Vive con la madre, risulta che sia spesso
ubriaca. Senza mezzi di sussistenza. L'accusa è di
aver. sottratto rilevante somma in abitazione
penetrando attraverso un terrazzo e una botola: furto
aggravato.
La giovane testimone lo chiama per nome dalla
transenna _ Peppì _ e lui girandosi fa uno sguardo
addolcito.
Dinanzi ai giudici questa ragazza ritira la
deposizione di averlo visto il tale giorno, modifica:
forse qualcuno che somigliava. Non viene minacciata
di arresto per falsa testimonianza ne ammonita per
reticenza.
Passando gli ha dato da reggere il suo golfino rosso e
mentre la interrogano lui se lo tiene in mano
delicatamente come una cosa fragile.
Piange. Sua madre gli ha scritto farabutto. Sensibile,
insicuro, spaventato. Nega convulsamente il furto
(paste in un bar). Genitori emigrati, li hanno lasciati
soli. La sorella, tutta riccioli testa d'angelo, incisivo
superiore mancante, sospetta di prostituzione
clandestina ma non imputata. Presente il marito,
giovane piacevole e dignitosissimo.
Si riprendono il ragazzo che recalcitra, non vuole
seguirli, vuole andare dentro, rifiuta di raggiungere i
genitori. È pronto per lui il passaporto.
Reati 21, per ogni reato un fascicolo, un processo
istruito. E una o più parti lese. Testimoni 39. Aula
affollatissima.
Due contadinelli dal passato burrascoso. Sempre gli
stessi reati, definiti per non punibilità, perdono,
condizionale, estinti per amnistia. È evidente che
considerano il pascolo libero una sorta di diritto
naturale. Terreni del comune terreni di tutti.
Pascolavano 120 pecore nonché qualche "crapa
pazza". Una grossa impresa. E i ragazzi giocano.
Monotona la contestazione dei reati, non fossero le
pittoresche reazioni dei pastorelli a duetto.
Danneggiamento argini strada nazionale, terreni del
comune, di proprietà privata, di comuni limitrofi,
mai rispettando gl'itinerari fissati con ordinanze dei
sindaci. Realistici e scaltri, giudiziosi e pervicaci,
convinti del loro buon diritto, senz'ombra di
timidezza, respingono le imputazioni: terre non
coltivate (i proprietari: barbabietole, veccia, erba
medica, lupinella, grano in erba), quella volta
ricercavano una pecora smarrita, quell'altra stavano
figliando e dovettero aspettare o aiutarle che non ce
la spuntavano da sé. Sorpresi di aver fatto ridere. A
domanda se avessero letto le ordinanze, sorpresi si
pretenda che sappiano anche leggere.
Sassate a guardie campestri, sassate a carabinieri,
roteata la mazza contro un cantoniere. Ancora lancio
di sassi per farsi restituire il "branco" sequestrato,
rifiuto di recarsi in caserma... Una guerra a guardie e
ladri con sapore di gioco. Guerra all'autorità. I sassi e
la mazza erano per radunare le pecore; dovevano
andare in montagna e volevano mandarli in
pianura; attraversavano soltanto per portarsi sulle
proprie terre. Offesi: lavoratori ostacolati.
"Madonna, quante bugie stanno scritte là." Obbligati,
confermano.
Però li picchiarono a pugni sul petto, ammanettati a
sangue col filo di ferro, li fecero fuggire
abbandonando il gregge, da dietro la siepe _ tiravano
sassi per paura sotto una pistola puntata. Difesa: La
banda Giuliano.
Parte civile: Gli Attila dei proprietari, i Vandali del
territorio.
Il presidente rimprovera per la pistola, il carabiniere
dice che sono molto strafottenti.
Sempre vispi, pure così slavati sciupati da tré mesi di
detenzione e di ozio, tengono testa a ogni accusa. Li
indigna quella di furto. Filo di rame telegrafico: stava
rotto in terra e lo toccavano con la mazza per vedere
se ci passava la corrente.
Dopo si fanno il conto sulle dita: ancora nove mesi
dentro. S'afflosciano.
Pascolo abusivo e rifiuto delle generalità alla guardia
campestre, beffe e sberleffi. Scapigliata rustica
selvatica: no no no. Inarticolata. Non punibile per
incapacità d'intendere e di volere. Sembra ancora in
difetto mentale. Si fa passare dalla madre un tozzo di
pane. Sta per addentarlo quando l'arresta lo strillo
del PM, e glielo lancia contro con rabbia.
Porge al presidente la carta che stringe arrotolata in
mano. Vuole assolutamente dargliela. Il presidente
seccamente rifiuta. " Sono nocente ", vi si leggerà.
Scritto da un compagno di "galera", lui è analfabeta.
Molti ragazzini, l'imputato vi si confonde per la
sua piccola taglia. Nessuno è stato e sono stati tutti.
Che ti fecero? Il bimbo: È 'na mala parola, non se po'
dice. Ma la trova pulita per i signori: Le sporcarle.
Dopo lo denudarono e lo misero nel "vaschione" per
lavarlo. Due, uno ce l'aveva più grosso fece male.
Congiunzione carnale non capisce che significa. Nel
portone, dietro il muro, "cossù" c'era. Non si ricorda
se guardava o faceva, ma c'era. Alza il dito per
chiedere permesso di parlare. Gli dicevano: Dammi
un po' di culo.
È figlio di vecchi. E hanno l'aria di pazzarelli. La
madre porta scarponi da uomo con calzini corti, il
soprabito ricavato da una coperta grigia militare su
un vestito "americano" di seta cincischiata cosparso
di aeree ballerine. Dementi, li chiama il padre
dell'imputato. Questo figlio unico che ho, dice, me lo
vogliono rovinare. Lui guardava solamente.
18 Un chicco di malvasia
La gente in attesa nel portone viene fatta salire alle
nove. Salgono i due piani della scalinata di marmo
logoro affossato in mezzo, lasciando orme nerastre,
regolari come se ognuno cercasse di mettere il piede
sull'impronta degli altri. Esitano davanti alla vetrata
opaca, spingono con cautela e rimangono in piedi
addossandosi nel primo tratto di corridoio buio. Dai
panni bagnati e dalle suole fradice emana un vago
sentore di stalla. È gente venuta in città con le
corriere che partono dai paesi all'alba, dopo aver
governato gli animali.
Verso le dieci compare un signore in pastrano grigio
col bavero di pelliccia, soffiando e battendo le mani
guantate. Tenta le maniglie delle porte, una grande
una piccola, che non si aprono, e passa avanti. Gli
fanno ala, poi s'ammucchiano tutti dal lato con le
due panche. Una donna raggiunge il termosifone
abbracciandosi agli elementi tiepidi. Qualche uomo
comincia a sedersi, in punta, sulle stecche Incidale
dall'uso. I ragazzi stanno dritti. Ne arriva un altro, in
divisa, accompagnato da un borghese. Bussando alla
prima porta, quella grande, costui si fa aprire, entra
col ragazzo e richiude. Mentre ripassa il signore in
pastrano grigio, s'apre la seconda porticina, visibile
solo per la maniglia essendo tinteggiata col muro,
e una testa occhialuta si sporge. "Ehi ufficiale,"
l'interpella il signore, "che abbiamo stamane?" "Le
solite, signor avvocato," dice il miope, "le solite.
Abbiamo una violenza." Col naso sul foglio chiama
un appello come da un registro di scuola, girando la
testa ora a destra ora a sinistra. Le parti avverse si
sono messe separate sulle panche.
Nell'aula delle udienze c'è la giornata del tribunale
minorile. Alle dieci e mezzo si sente dentro suonare
un campanello. Sul soffitto s'accende altissimo un
globo polveroso la cui luce sembra arrestarsi a
mezz'aria. Il braccio di corridoio rimane scuro, ma
gradatamente si vede un po' meglio al centro.
Contadini intabarrati, col cappello sceso, siedono
rigidi. Una tonaca di frate diventa marrone, prima si
distingueva soltanto il bianco dei piedi nudi nei
sandali. Dai ragazzi, attruppati fra le due panche
come in terra di nessuno, scaturiscono nuvolette di
fiato a ogni bisbiglio. Ancora a braccia larghe attorno
al termosifone, la donna mostra capelli spioventi
sulla schiena e le strane protuberanze dei suoi
contorni si definiscono in una forma infantile
attaccata alle sottane.
Nessuno parla e non succede niente. Le due porte
dell'aula rimangono chiuse. Un uomo s'alza, il
gruppo dei ragazzetti lo segue lungo il corridoio. In
fondo c'è un'ombra, un altro ragazzo più grande,
contro il muro. Sta solo. Non lo guardano. Svoltato
l'angolo, nel secondo braccio un puzzo di crcolina
guida l'uomo e il suo branchetto a un usciolo
semiaperto. Dopo va la donna, con la sua appendice
alle sottane che sgambetta in lunghe calze di lana
nera. È trascorso un quarto d'ora dal principio di
udienza, ma sono in giro dalle sei del mattino, alzati
alle quattro e saliti sulla corriera gelata mezz'ora
prima della partenza. Vengono tutti dallo stesso
paese, abitano in case vicine, si conoscono dalla
nascita. Qui si sono messi separati sulle panche.
Arriva il loro turno quando dentro finisce il primo
dibattimento e un usciere ha consegnato i
telegrammi. A causa delle strade interrotte in
montagna, imputati e testimoni degli altri processi
non si presenteranno. L'ufficiale giudiziario chiama
Risdonne Nicola.
Entrando dalla porticina l'aula si slarga immensa e
fredda. Sulla parete laterale, che viene a trovarsi
dirimpetto, s'aprono quattro finestroni altissimi
dietro cui volteggia la neve. Insieme alle lampade
che rischiarano la profondità della volta, quel
biancore dall'esterno forma una luce sottile e cruda.
Il ragazzo è rimasto come abbagliato a occhi stretti.
Gl'indicano la panca, si siede, viene fatto rialzare.
Sulla stessa panca siede il minore del riformatorio,
giudicato poco prima per furto, e in piedi accanto al
termosifone l'agente in borghese che l'accompagna.
Entrambi guardano il novellino, è l'agente ad
accennargli di risedersi. Manca la difesa. Uno dopo
l'altro sono usciti l'ufficiale giudiziario e il cancelliere
in cerca di un avvocato.
Non si occupano di lui per il momento e Risdonne
Nicola con veloci occhiate sembra prendere
cognizione del luogo. Dalla panca, sistemata a metà
parete dove si entra per la porta piccola, guarda di
sbieco all'emiciclo sulla pedana. Negli scanni di
quercia sono sopraelevati i giudici, tré in toga uno
senza. Lo scanno a sinistra è separato, a sé come un
trono. Lo ha quasi di fronte e ci guarda diritto. In
basso due tavoli vuoti, poi quella che deve parergli
una staccionata da ovile. Taglia in due l'aula e di là
s'apre l'altra porta. Lo spazio è deserto.
Il ragazzo torna a mostrare il bianco dell'occhio
volgendosi di nuovo al Tribunale assise in silenzio, si
sofferma sul posto di centro con la spalliera più alta,
riabbassa le palpebre e prende a mangiarsi un
labbro. In atteggiamento ne spaventato ne umile (il
ladruncolo al suo fianco è compunto e sornione) si
tiene con le membra raccolte incrociando le lunghe
gambe piegate al di sotto della panca. I quattordici o
quindici anni, malgrado la carnagione di quel bruno
smorto che non ha mai la freschezza dell'età, gli si
attribuiscono per l'intensa pubescenza della faccia.
L'alone al labbro quasi inverecondo, macchie alle
guance, quella peluria diffusa che imbruttisce i
ragazzi e li sporca, lo rendono sgradevole.
Preceduto dal cancelliere, giunge l'avvocato dal
bavero di pelliccia, cappello in mano, inchinandosi.
Dal cappotto aperto si vede una sostanziosa giacca di
tweed e le cosce grasse strette. Ossequiosamente
comunica di essere impegnato alla Corte, chiede
licenza. Avutala, si ritira con un duplice inchino. La
faccia calma e cortese del presidente s'è corrugata.
Volto ai colleghi: "C'è penuria oggi." E il pubblico
ministero, piccolo irrequieto impaziente sul suo
scannetto: "II foro cittadino teme i rigori dell'inverno.
Via, se ne trovi uno." Il cancelliere allarga le braccia.
"Nemmeno l'avvocato Lucrese? Si faccia il giro, si
frughi nelle adiacenze dei termosifoni." Serpeggia
un'ilarità discreta.
Poco dopo fa il suo ingresso, a tentoni, guidato dal
miope ufficiale, un vecchio basso e obeso, con lenti
doppie sul naso minuscolo. In un paltoncino nero
striminzito, privo di sciarpa, mostra anche da
lontano sfilacci alla camicia e le punte del colletto
storte. È l'avvocato senza più cause, assiduo
frequentatore delle aule di giustizia. Ma saluta il
Tribunale con dignità e tono curialesco ancora
sonoro. Condotto al tavolo più vicino, tastando l'aria
dietro di sé cade a sedere. Come capita ai minori, ha
dimenticato di togliersi il cappello; lo posa sul tavolo,
con visibili chiazze di grasso intorno al nastro. I
capelli castani non sono da vecchio e le pieghe di
carne accesa alla nuca ancora lisce.
II presidente da inizio. "Imputato alzatevi." Risdonne
stava sbirciando il suo difensore d'ufficio e non
capisce, l'altro imputato lo spinge. Allora si tira su
come a fatica sulle lunghe gambe, curvando il busto
nella posizione di spalle della crescita improvvisa.
"Sei tu Risdonne Nicola."
Non è una domanda e non risponde, fa un passo
avanti. "Risdonne Nicola, sei tu?"
Accenna con la testa. Il sissignore gli viene suggerito
dall'agente in borghese. Sì signore, risponde
correttamente. Neppure un'ombra del suo impaccio
fisico è passata nella voce che suona perfino troppo
sicura. "Sai di che ti si accusa?" "Sì signore, ma non
l'ho fatto." "Devi rispondere solo alle domande,"
ammonisce pacato il presidente.
"Una notevole improntitudine," osserva il pubblico
ministero rigirandosi sul sedile. È il piccolo sostituto
Platonico, incredibilmente mingherlino benché porti
la toga sul cappotto. "Ehi," strilla all'improvviso,
"fuori il pubblico, qui non si accede."
Sta entrando un individuo scheletrico in un
impermeabile bianchiccio corto al ginocchio, che si fa
avanti senza aver capito e gira la testa evidentemente
in cerca di qualcuno. Orientatosi, l'ufficiale
giudiziario lo rincorre. Dopo un breve parlottamento
comunica che è il padre, accompagnandolo alle
transenne. Solo allora l'uomo vede suo figlio là in
piedi. È emaciato, con tristi occhi azzurri, inghiotte
ripetutamente il pomo d'Adamo aguzzo attraverso la
pelle del collo. Si mette dietro la transenna dalla
parte dell'avvocato e appoggia al legno due grandi
mani tutt'ossa.
Si può finalmente cominciare. Aperto il fascicolo, e
rivolgendosi ora al collega a latere ora al componente
privato, sommesso e monotono, evitando ogni
accentuazione, il presidente contesta il reato e
ragguaglia per sommi capi sui fatti del processo.
Presiede Toma, signorile distaccato, la sua faccia è
composta ed equanime ma tutti sanno come certe
cose lo indignino. Ha cinque bambini. Un uomo
singolarmente onesto e un padre geloso. Dice forte
"incensurato", con la stessa forza ma asciutta
pronuncia l'imputazione : " violenza carnale ".
All'avvocato d'ufficio non occorre altro. Insacca la
corta testa senza collo e sembra appisolarsi, in attesa
che si arrivi alla fine per poter chiedere con la
consueta formula sbrigativa il perdono giudiziale.
Ma una nuova interruzione sopraggiunge. Si è
aperto l'uscio in fondo e un nugolo di ragazze invade
l'aula.
Con cappucci e sciarpe multicolori, ciuffi
imbrillantati di neve, il rossetto vivido alle labbra e
l'aria saltellante che hanno le donne sui tacchi troppo
alti, appaiono disdicevoli. Lo si legge in faccia al
pubblico ministero, voltatesi di scatto al trepestio
dell'intrusione. Ma è solo una scolaresca femminile,
allieve del corso per assistenti sociali, debitamente
autorizzate e accompagnate. Le accompagna un
uomo. Fra le udienze del mese la scelta era caduta a
caso su quella giornata e su quell'ora, un'ora di
lezione pratica. Disinvolte le ragazze prendono posto
al tavolo libero e alle panche _una terza viene subito
trasportata dentro _ occupando il lato vuoto al di qua
della transenna. Vi fanno mazzo. Anche l'uomo ha
un foulard chiaro al collo, i capelli ricci e la bocca
tumida. Dietro, la neve infittita fa un brulichio ai
vetri dei finestroni.
Il presidente ha ripreso il fascicolo, lo tiene in mano
soprappensiero, quindi da qualche spiegazione sul
funzionamento di un tribunale minorile, in tono
didattico, con lunghe pause come se esitasse o
temporeggiasse. Mentre parla, gli sguardi irrequieti
delle ragazze deviano alla sua destra sul giudice a
latere. (Funziona Oliva.) È un giovane dai lineamenti
perfetti, nobili e dolci, di bellezza inconsueta nella
professione. Sia che qualcuna lo conosca, o più
probabilmente che lo assomiglino a un attore, stanno
indicandoselo con segni impercettibili. (La faccia di
Platonico segnala: elemento perturbatore.) Intanto
allentano le sciarpe, respingono i cappucci, liberano i
capelli lucidi. Una, bionda, scoprendosi sfavilla.
Perfino la massa torpida dell'avvocato deve risentirsi
di qualche stimolo visivo se tenta di ruotare il busto
in quella direzione.
Il presidente ha terminato. Sarebbe necessario
presentare i fatti del dibattimento in corso, ma si
limita a designare il reato coi numeri degli articoli di
legge. Senza trapasso, con la stessa intonazione,
rivolge la parola all'imputato rimasto in piedi fra la
panca e la pedana. "Venite avanti."
Tutti gli occhi convergono sul ragazzo. "Avanti."
Quando Risdonne Nicola capisce di dover salire
sulla pedana, ha un urto alla spalla come un tic.
Camminando si fa sbilenco. Sotto i passi il legno
emette scricchiolii da vecchio palcoscenico. Si
sentono poco le voci, bassa quella del presidente, più
chiara quella dell'imputato benché di schiena. Nuca
piena di capelli fin dentro il colletto, spalle strette in
una giacca che tira alzando in fondo un becco e le
lunghe gambe nella stazzonatura dei calzoni in posa
disagiata a compasso. Non viene invitato a sedere. Si
intuiscono le domande più che altro dalle risposte. Il
nome sfugge al pubblico, lo raggiunge una
dichiarazione, "studente", che suscita mormorio fra le
studentesse.
"Apprendista ciabattino," specifica il pubblico
ministero. Ha la voce acuta curiosamente immatura.
Il ragazzo si gira. "Mi preparo privatamente." Risulta
dal fascicolo che possiede la licenza elementare, che è
stato messo a bottega ma ci va poco, che un frate del
locale convento gli da qualche lezione di grammatica
latino e "metrica", che gli impresta libri "di autore".
Le informazioni, anche dei frati, sono buone: si
recava spesso da loro, cercava libri, leggeva molto,
"letture edificanti". Non fa lega con gli altri ragazzi,
non ama il gioco. Tipo risentito non però violento,
temperamento chiuso, solitario. Nel rapporto dei
carabinieri si definisce cupo. Cattiva situazione
familiare, condizioni economiche misere. Nessuna
tara. La tbc paterna è di guerra. Con una dizione
stimbrata, a occhi chini o sollevandoli verso l'aula, il
presidente legge a sbalzi, col meccanismo
procedurale che non tiene conto della presenza del
soggetto. Sviluppo normale con qualche carattere di
precocità sessuale. Quando commise il delitto
tornava dall'aver riportato al convento i sandali di
padre Alessio.
Allora Toma lo guarda. "Era lui a darti le lezioni e i
libri?" "Sì signore." La domanda seguente si perde.
Risposta: "Non l'ho fatto." La voce è pienamente
formata e controllata.
"Che impudenza," dice stridulo il pubblico ministero.
Come si gira da quella parte, il ragazzo è investito
dall'ingiunzione di rivolgersi al presidente e rià il
piccolo urto alla spalla sinistra. "Ah dunque
spalluccia," grida Platonico. Il ragazzo spalluccia di
nuovo. Sopravviene un silenzio.
La sfilata dei testimoni, nonostante l'ingresso
circospetto, le esitazioni e le impuntature, la
difficoltà
a capire e la renitenza nel rispondere, si esaurisce
rapidamente. Sono contadini le cui grosse scarpe
toccando il legno della pedana fanno un tonfo sordo.
Portano addosso indescrivibili assortimenti di
vestiario, dal terraiuolo di panno rustico blu, ancora
usato dai vecchi, al residuo militare, il grigioverde da
truppa ritinto o no, fino al blusotto americano a
quadroni. Gente mai entrata in un'aula di tribunale.
Al "dì lo giuro" di rito s'insospettiscono o
s'imbrogliano, i vecchi tentando di cavare tutt'e due
le braccia dalla ruota del mantello come per
accingersi a una fatica manuale e per lo più
rispondono "dilogiuro" in un'unica parola senza
senso. Malgrado la pazienza e gentilezza del
presidente, essi non intendono il linguaggio della
giustizia. Alla costante richiesta se confermano le
dichiarazioni rese, rispondono subito no. Si tratta di
testimonianze irrilevanti, vicini di casa, semplici
conoscenze, parenti alla lontana, capitati in mezzo ai
litigi donneschi o a discussioni di famiglia, coinvolti
senza volerlo.
Improvviso e secco interviene di tanto in tanto il
pubblico ministero e come fanno per voltarsi a lui li
redarguisce. Evidentemente non riescono a capire
perché, interpellati da una parte, debbano rispondere
dall'altra. Superate le frasi oscure confermano la
deposizione, scritta là nelle carte con la firma o il
crocesegno (ma non l'hanno riconosciuta) e tornano
sui propri passi andando a rimettersi alla staccionata.
L'ultimo, un pastore col pelo di pecora al bavero
militare, reso esperto da qualche denunzia per
pascolo abusivo, spontaneamente conferma le
deposizioni d'istruttoria. È l'unico testimone diretto
essendosi incontrato a passare per la straduccia, e
viene trattenuto dal pubblico ministero. "Che ha
visto?"
La domanda è rivolta al seggio presidenziale.
"Stavano dritti al muro," risponde il pastore
guardando il presidente muto.
"Che facevano?"
Risulta che non aveva propriamente visto, solo,
insospettitesi e tirato un sasso _ "come si fa ai cani",
spiega _ il ragazzo, Nicola, quello _ e lo indica _era
fuggito.
Al primo equivoco verbale dei testi contadini, quasi a
una barzelletta le studentesse avevano riso e con
inattesa durezza il presidente minacciava di far
sgombrare l'aula. Ora anche esse guardano a lui,
come si guarda un docente noioso, con attenzione da
alunne, le mani in grembo, senza accavalcare le
gambe. Torcendo i piedi sui tacchetti aguzzi si
chinano a osservarseli o si danno aggiustatine ai
capelli _tranne la bionda immobile come se portasse
in testa una raggiera _e così avvengono tutte le
piccole manovre scolastiche per comunicare. Quando
l'accompagnatore piega sul foulard la guancia
grassoccia in atto di sorveglianza, stanno sempre
chete. Non si capisce se si siano rese conto dei fatti
del processo.
Il gruppo dei ragazzini entra timorosamente spalla a
spalla, l'ufficiale deve spingerli sulla pedana e
strappargli i berretti dal capo. Raggiungono l'orlo del
banco presidenziale coi menti puntati alla fontanella
della gola. In principio le voci ristagnano
nell'emiciclo. Curvatesi sul piano il presidente
raccoglie mugolii e monosillabi; alle brevi risposte
negative "no, non è vero, io no", si comincia a sentire
l'accento spaventato; infine le accuse reciproche, "è
stato lui", col tono dello strillo. "Lui chi," dice il
pubblico ministero. Ripetuta la domanda, due
indicano con la mano tra di loro, ma nel muoversi,
visto il compaesano, quello accusato da tutti, dicono
in coro: "È stato Nicolino."
"Li facciamo arrestare?" celia il pubblico ministero
provocando una esplosione di pianti. Nessuno è
imputabile per l'età. All'invito di riprendersi i figli _
e con l'ammonizione
che badino d'ora in poi a sorvegliarli _ un uomo
lascia la transenna ricevendoli a braccia larghe alla
discesa del gradino, sconvolti, impiastricciati dalle
lacrime.
Ma uno schiocco di sandali polarizza l'attenzione
sull'ingresso del frate che avanza velocemente. Un
frate di grande corporatura segnata dal cordone nel
punto più ampio, in contrasto con l'asciuttezza dei
piedi nudi quasi spolpati alle dita e alle caviglie. Al
di sopra della barba nerissima che sale crespa fino
alle tempie, due occhi lampeggianti, prima di
riabbassarsi, fanno un'istantanea ricognizione
dell'aula sostando un attimo sull'insolito pubblico
femminile. Vi si confonde per l'aspetto anche
l'accompagnatore.
Il religioso sembra adeguarsi alla maniera coperta
com'è condotto il dibattimento, la lunga deposizione
a voce bassa risulta inafferrabile. Alzatesi e lanciato
uno dei suoi sguardi precipitosi, va a raggiungere il
padre dell'imputato.
Si direbbe una nuova divisione delle parti. Essi due
soli, alle spalle dell'avvocato, verso la panca dei
colpevoli. Un lato vuoto dove persiste la sensazione
dell'ambiente gelido. Mentre gli altri stanno
ammucchiati alla transenna dall'altro lato in una
zona piena. Ai finestroni, che ancora non
s'appannano, viene giù neve pesante e sazia. Ma la
luce si è scaldata, sulle guance rosse dei ragazzetti,
sul colorito fresco delle giovani, nell'accozzaglia
variopinta del vestiario. Al centro la chioma bionda,
ossigenata o no, emana sfolgorii come se ci battesse il
sole.
Continua a udirsi, dalla porticina rimasta socchiusa,
la voce dell'ufficiale giudiziario chiamare
ripetutamente nel corridoio lo stesso nome.
Affannata, con colpi di tacco tumultuosi,
trascinandosi appresso le gambette infantili nelle
lunghe calze nere, la donna che si presenta rompe
quanto
meno il silenzio. "Oh oh, su su, essù." Incita la
creatura alle sue sottane. I modi sfrontati, una certa
sguaiataggine nella voce e l'abito corto non sono da
contadina. Grassa e sfatta, le mammelle gonfie alla
vita, porta i capelli sparsi sulla schiena come una
fanciulla.
" Ha paura, " si lagna con le mani premute al petto.
"Oh se me la debbono pagare." Vede il ragazzo. "Tu,
faccia gialla..."
Le si intima il silenzio. Immobilizzatasi un istante,
gratifica il Tribunale di un sorriso. Ha le labbra
sbafiate di rossetto e due vuoti ai canini. Stacca da sé
la piccola forma con le smilze gambette nere e la
spinge avanti. È un maschio.
Si vede questo maschietto di sei o sette anni, messo
un po' da femmina, la testa rotonda nel
passamontagna come una cuffia. Il cappottello
scopre un dito di brachina e un pezzo di coscia nuda
sopra la calza. Le curiose calze di lana nera, tenute
all'antica da una fettuccia che tira su di lato
annodandosi a un'altra fettuccia interna. Lasciato
solo, e per nulla impaurilo, il maschietto si svaga a
bocca aperta. La madre è rimasta con una mano tesa,
come additando in lui al Tribunale lo scempio
commesso. Si gira perfino alle ragazze. Il cenno del
presidente la fa accorrere sulla pedana, smuove tutta
la carne.
S'incrociano le domande e arrestata a mezza strada
dalla voce del pubblico ministero si rivolge a lui
senza essere ripresa. "Signore mio bello," gli dice,
evidentemente divertendolo. Segue un flusso di
parole, gesticolate disordinate, piene di
contraddizioni. Glielo aveva raccontato il figlio
piangendo e disperandosi, povera creatura, quello
che gli faceva il mascalzone; poi invece era stato
Nunzio (il pastore) ad avvertirla. Be', non può
ricordarsi se prima o dopo, ma compa' Nunzio ha
visto con gli occhi suoi per la straduccia. Una volta
sola eh! chi lo può sapere, il bambino non si spiega.
"È un innocente," confida,
e intende alla maniera popolana dolce di sale. Quindi
ammette che anche gli altri, si sa l'esempio, ragazzini
incoscienti, ma lui faccia gialla pietra dello scandalo,
è lui che deve pagare. Essa vuole giustizia.
Bellicosamente si rigira puntando un dito non verso
il ragazzo bensì sul padre. L'uomo scheletrico dagli
occhi tristi, con quell'impermeabiluccio da cui sporge
un collo sottile, i polsi ossuti e le mani livide. È stato
detto che esce dal sanatorio. Per l'occasione, o
dimesso, sembra esserne uscito coi panni che portava
entrandovi in una stagione più clemente.
"Tentiamo una speculazioncella eh?" Sorride il
pubblico ministero. "E con che pagherebbero."
"Hanno ancora la casa." "Ah, la casa."
"M'hanno rovinato la creatura. M'hanno messa la
gente contro. Voglio giustizia."
"Basta," strilla improvvisamente quell'omino
mellifluo nel seggio.
Calmatasi di botto lei gli sorride, il suo sorriso senza
canini, adescatore. "M'hanno insultata, Eccellenza,
m'hanno provocata." Flauta la voce ora dando
civettuole scosse alla chioma untuosa fluente. "Vado
a lagnarmi, a protestare e nemmeno mi aprono la
porta di casa. Grido le mie ragioni in mezzo alla
strada, li ho svergognati, sissignore, allora aizzano la
marmaglia. Mi venivano appresso per tutto il paese
con quella parola." "Che parola."
La donna risponde prontamente, spiccando le sillabe,
con una sorta di sfida: Puttana.
L'innocente è rimasto dove l'ha lasciato ma rivolto
all'aula, una mascherina di faccia nel buco del
passamontagna, a bocca aperta. Chiamato dal
presidente, per nome, con dolcezza, subito si muove
docile come un cagnolino. Nell' arrampicarsi sulla
pedana troppo alta gli si rompe una fettuccia e la
calza va giù denudando una gambetta esile
bianchissima. Afferrato
dalla madre, con l'altra mano cerca a gobboni di
ricoprirsi. "Su su, eh bisogna trascinarlo, che paura
ha." Ma la segue obbediente preoccupato solo della
calza. "Essù, che mamma poi ti ricuce la zaganella." Il
bimbo lascia andare, alzando la testa tonda sotto le
facce degli uomini sorridenti benevole. Anche lui
sorride, ma non capisce che stanno dicendo _ di
togliersi il copricapo _ lo sguscia d'un colpo la donna
dal passamontagna. Luccicano brevi peluzzi come un
polverio d'oro sulla cute. È quello che si dice un
rossino, senza risalto alle ciglia, lattiginoso,
tenerissimo. Posto sulla sedia, s'incanta.
Quando si decide a rispondere bisbiglia con una
pronunzia non del tutto formata, da tardivo o da
anormale. Ci ci sono dei sì e il suo nome Zovannino,
il resto non si percepisce. S'è alzato il pubblico
ministero e a passetti laterali raggiunge da dietro il
varco fra le poltrone del giudice a latere e del
presidente, fermandosi con la toga aperta e una
mano nella tasca del cappotto ad ascoltare. Il suo
viso corto e piccoso, all'apparenza imberbe, acquista
malizia per un ciuffetto separatesi dalla riga e
ricadente attraverso la fronte. Qualche cosa, un'idea
(che poi esprimerà) lo diverte.
Alle domande inutilmente rivolte: chi è stato, lo
riconosci, guarda se lo vedi, guarda là _ ma il bimbo
non si muove nemmeno _ suggerisce di sostituire
"chi t'ha fatto quelle brutte cose". Il profilino rimane
in aria attonito con la boccuccia aperta. Ma quando
gli si chiede se è stato Nicola, risponde distintamente
no.
"Come no come no, che dice," sfuria la donna. "Ma se
lo sapeva così bene. Non capisce, compatitelo. Nini,
racconta dal principio. Stupidino, non ti ricordi
quello che devi dire. È idiota è ..."
Il presidente cala la mano aperta sul piano di legno
che rimbomba. "Via," da ordine a malapena
contenendosi, "via di qui, allontanatevi."
Lei si scansa senza più fiatare e senza riprovarsi al
sorriso adescante. Per nulla intimorito il bimbo sta
mordicchiando come un animaletto l'orlo del legno.
"Su Giovannino," si addolcisce il presidente, "leva la
boccuccia, è sporco. Vuoi rispondere a me?"
Risponde, come se a un tratto la mente gli si
schiarisse. Dice "i ragazzi" e si volta, li riconosce, col
ditino li indica alla transenna fra i grandi oltre il
gruppo femminile. Un momento di nuovo svaga con
gli occhi, forse incontrando la capigliatura bionda
che risalta. Su domanda formulata dal pubblico
ministero _ che cosa gli avessero fatto _ ricomincia a
parlare e si capisce. Il coltello, dice, il muro, dice
cattivi. (Non si era mai menzionato un coltello.) Sono
parole slegate, frasi monche, che riesce a cavargli
l'annuire dell'uomo piccolo affacciato in mezzo agli
altri uomini, quei bei signori gentili tutti curvi ad
ascoltarlo. Vuole spiegarsi, s'invermiglia nello sforzo,
in ultimo è quasi spedito. Lo mettevano contro il
muro e piangeva e uno alla volta glielo tagliavano
col coltello. (Fingevano di tagliare il membro con la
lama alla rovescia, viene scritto a verbale dopo un
rapido accertamento.)
"E poi dietro e col zeppo," strilla il bambino eccitato,
girandosi come se dettasse anche lui al cancelliere.
SÌ chiama sulla pedana Risdonne, immediatamente
riconosciuto. Nicoli Nicoli, dice il piccolo tutto
giulivo. È un confronto e l'imputato lo sostiene con
un certo disdegno, quasi non valga la pena di negare
o non ci sia niente da nascondere. Tiene il labbro
superiore fra i denti, l'altro sporge troppo per essere
intenzionalmente sprezzante, una smorfia
dimenticata sulla faccia. Ma è una smorfia e
indispone. Le domande rivoltegli suonano brusche,
risponde due volte no due sì: non stava coi ragazzini,
coi ragazzini non ci andava mai, sì che col bimbo un
giorno s'erano incontrati, sì che era al viottolo del
convento. E con questo?, sembra significare. Poi tace,
rovesciando
il labbro bagnato arrossato di morsicatura.
Fanno scendere dalla sedia Giovannino perché lo
guardi meglio e subito si butta a raccattare la calza
tirandola inutilmente. S'è estraniato. Ma come
risolleva il faccino purpureo e all'istante dimentica la
calza, guardato di sotto in su il ragazzo grande lungo
le gambe, si ricorda la cosa che vogliono sapere e la
dice. Lui Gli ha fatto la pipi in bocca.
Durante dieci minuti di serrato interrogatorio,
Risdonne nega.
Per quelli che lo conoscono è stato evidente il senso
delle ultime battute del sostituto procuratore
Platonico: non il senso letterale, abbastanza ovvio,
ma l'intenzione: inscena una delle sue maliziose
trame.
Domanda se l'imputato, al momento del delitto,
tenesse le mani sugli omeri della vittima, insistendo
sulla posizione, se l'aveva costretto a curvarsi. Al
primo no del bimbo, viene usata dal presidente la
parola abbassarsi. Il bimbo risponde ancora no, forse
non capisce e si ricorre a un'altra espressione. "Ti ha
costretto a piegarti?" "Nono."
Il componente privato, un ispettore di scuola
elementare, suggerisce in dialetto, accompagnandosi
col movimento delle spalle: "Ti fece acciuccare, così?"
Sempre no. Ottuso ostinato o veritiero, bisogna
smetterla col bambino e mandarlo via.
Anche Platonico, sulle mosse per tornare al proprio
scanno di accusatore, ha sorriso. Appoggiandosi allo
schienale della poltrona vuota sul passaggio, rivolto
ai colleghi, in una maniera spicciola discorsiva
_niente da mettere a verbale _e usando con
naturalezza la voce, del resto poco virile, fa notare
quelle che chiama le proporzioni.
"Sette e quindici anni, due diverse grandezze," agita
un dito come se scrivesse un'equazione, "ma
non evidentemente l'uno la metà dell'altro..."
Si tratta insomma dell'altezza, un'obiezione (da
difensore) che chiarisce proponendo il confronto
fisico, come dire di livello. "Magari non è il caso..."
Con un risolino accenna all'insolito pubblico.
Questo discorso del livello irrita il presidente Toma,
lo scansa con un gesto in aria nel chiudere il
fascicolo. È venuta meno la ritenutezza imposta dal
suo contegno e si sa quanto in certe occasioni lo
contrari. Da un colpo d'occhio severo all'aula. Le
facce delle ragazze sono inespressive. L'imputato ha
ripreso posto alla panca, imperterrito. La donna
siede sull'unica sedia, rifiutata dal frate, col figlio
davanti alle gambe. Può darsi che, così da lontano,
Toma l'assomigli a uno dei suoi, la bambina bionda
salita qualche volta da lui. Lo sguardo che posa
sull'avvocato è di sollievo. Anche d'ufficio, se si fosse
trattato di altra persona sarebbe stato imbarazzante,
gli avvocati si dilungano nei particolari scabrosi. O
poteva capitare un giovane, uno di quei pivelli che
sistemano sul tavolo volumi giuridici e trattati di
psicologia col segno fra le pagine e infliggono lunghe
letture di brani, mai rinunciando all'arringa.
Bisognava concludere al più presto l'incresciosa
udienza prolungatasi già troppo, per di più avanti a
delle fanciulle. Uno sguardo all'orologio: passata la
mezza, si potrebbe terminare per l'una. "La parola al
pubblico ministero." Stringendosi la toga sul
cappotto, Platonico si rialza.
Parlava malissimo e brevemente, ma appare subito
chiaro che intende concedersi una delle sue rare
puntigliose requisitorie. Ha posto un dubbio, col
cavillo avvocatesco dell'altezza, incidente la sostanza
se non la gravita dei fatti, il che lascia prevedere una
richiesta alla quale si adeguerebbe senz'altro la
difesa. Nondimeno vuole prima infliggere una
lezione al ragazzo, il ragazzo non gli piace.
Platonico è un lindo scapolo quarantenne, con certo
infantilismo fisiologico, poco vitale, illibato e
nervoso. Vive con la madre.
"In questa abominevole parodia dell'amore,"
comincia, "oltre le ben note causali della vita
promiscua di paese con la vicinanza dell'animale
domestico che da spettacolo di natura, oltre gl'istinti
dell'età ancora confusi, età di manifestazioni
d'approccio deviate, e si badi alla genitrice
qualificata da un epiteto irripetibile, il cui influsso
potè in qualche modo riflettersi sul bambino e
attirargli oscure brame, oltre la cosiddetta evoluzione
del costume che allenta ogni freno, raggiungendo
come una mortifera radiazione _ il confronto è
attuale _ anche le pastorali contrade dei monti, oltre
tutto questo, o Signori, c'è dinanzi a voi una natura
particolarmente e sfrenatamente volta alla
turpitudine. Guardatelo..."
Le ragazze hanno smesso di dirigere la coda
dell'occhio verso il giudice bello come per ritrovarvi
le fattezze dell'attore preferito (ciò che realmente
all'inizio facevano). A mano a mano, dal futile un po'
vanesio armeggio di scolaresca femminile passando
a un'attenzione sempre più sostenuta, avevano
seguito l'avvicendarsi dei testi sulla pedana: i
contadini, che a loro erano sembrati buffi, quei
ragazzucci, e il frate, poi la donna e il bimbo. (Un
bimbo da tirarselo una con l'altra esclamando com'è
carino pare una femminuccia, non fosse stato per il
luogo e se non avessero capito.) Dal fermento del
principio finiscono per cessare ogni minimo moto,
per ridursi a un'immobilità che tuttavia ha
dell'intrepidezza. Così immobili fissano l'imputato.
L'indagine che da mezz'ora il pubblico ministero
conduce su di lui è punteggiata da continui
"guardatelo" in falsetto. "Guardatelo," ripete
puntando gli ossicini di un
dito, "guardate che indifferenza, che cinismo..."
Ma esse tenevano di mira il ragazzo fin da prima,
prima che cominciasse "la predica" (e l'omino già tra
loro se lo indicavano carne "la zitella").
Probabilmente non seguono la requisitoria, astnisa
per le contorsioni di forma e l'arcaicità dello stile
(sembra un classico scolastico). Può essere
impudente, anzi lo è, un sopracciglio alto, la bocca in
giù, il labbro rovesciato. E quel riprenderselo coi
denti e masticarlo torcendo le guance gialle. È brutto,
certo lo trovano ripugnante. Non si distolgono da lui
neanche quando viene additata "la vittima della laida
deflorazione, l'innocente". Contro le gambe grasse
della donna, con le iridi d'un celeste velato sotto le
ciglia bionde, il bimbo apre ignaro i labbrini rosa.
Poi la visuale è parata, una volta dall'impermeabile
un'altra dalla tonaca, distraendo l'attenzione su
particolari, le mani ossute che gesticolano, il bianco
marmoreo dei piedi nudi nei sandali. I due parlano
all'orecchio dell'avvocato. E anche l'avvocato si
muove annaspando con la mano indietro come se
chiamasse. Il padre torna a curvarglisi all'orecchio.
Contemporaneamente Platonico, per un moto
consuetudinario verso il tavolo a cui d'abitudine
siedono gli avvocati, o che intenda rivolgersi al
pubblico ospite con una notazione psicologica,
guarda da quella parte spiegando come la negativa
pervicace sia caratteristica di certi reati. Indica la
panca. Il ragazzo è di nuovo scoperto.
Scoperto. Sembra considerarlo il giovane magistrato
Oliva. È noto a qualcuno di certe sue vicende di
famiglia. Penserà al fratello. Abbiamo tutti avuto un
fratello. O noi stessi come uno sdoppiamento.
Quando ancora si avevano i giochi in comune e a un
tratto ci si stacca. Un fratello cresciuto da un giorno
all'altro (magari davanti al proprio specchio) che
sorprende con un grosso naso improvviso e fa
trasalire con una voce gracchiante, che ha la bocca
inspessita,
i labbroni, e i capelli non gli si aggiustano non
s'abbassano più. Alterato, in preda a
un'innaturalezza così difficoltosa. A tavola siede
sbieco, forastico perfino coi suoi. Oliva _ o chiunque
altro _ potrebbe ricordarsi le celie del padre: fa il
mascherone. Lo guardano e ridono. E viene questo
momento che si capisce come anche alla tavola di
casa il fratello _ o si tratta di se stessi? _ doveva
sentirsi esposto, che si riparava mantrugiandosi di
smorfie. Simile a uno che nasconda qualche cosa di
vergognoso. È quando sorge l'insofferenza col padre,
un antagonismo che rende irragionevolmente
nemici, il ragazzo addirittura torvo. Non succede poi
niente. Solo le fattezze di un uomo uscite da
quell'impasto di faccia in lievitazione, un uomo
normale, oggi padre a sua volta domani incapace di
riconoscersi nel figlio quindicenne. Malgrado
l'esperienza professionale, o forse perché ne ha
ancora poca, perché è ancora giovane, può succedere
a Oliva di ritrovarselo davanti _ un fratello, se
stesso? _ sulla panca degli imputati (e credere di
vederlo ponendosi nella dirczione di tutti quegli
occhi femminili). È Risdonne Nicola. Riunisce le
sopracciglia, gonfia la bocca, curva il collo
addensando la peluria in pieghe nere, ha un che di
losco. E colpisce come su quella panca, a quell'età,
così facilmente somiglino a degenerati.
Riscuote la voce del pubblico ministero nella cadenza
inconfondibile delle conclusioni. Platonico modifica
il reato in atti libidinosi violenti in luogo pubblico,
dando adito alla concessione del perdono.
Non resta alla difesa che la normale procedura di
alzarsi e far sue le richieste dell'accusa. L'avvocato
Lucrese si alza con stento. A coprirlo della toga
provvede l'ufficiale giudiziario posandogliela a
cappa sulle spalle.
"Signori del Tribunale," dice Lucrese. Incespica
leggermente con la lingua contro i denti.
"Signori del Tribunale," ripete come per provare la
voce.
Sta già scivolandogli la toga dalle spalle. "Tutti noi
abbiamo avuto... tutti noi a quell'età..." "Parli per sé,
avvocato," ritorce Platonico. È solito interrompere la
difesa, come movimenta platealmente le udienze,
con le sue battute di uomo suscettibile, qualche volta
mordace. Non ottiene successo presso i colleghi.
Sorride l'ispettore di scuola, il cancelliere si copre la
bocca con una mano e il miope ufficiale rimane a
ridere solo stolidamente. Si conosce Lucrese come un
vecchio dongiovanni finito nelle mani di una serva
scorbutica che apre l'uscio ai rari clienti squattrinati e
li avvia borbottando allo stanzino polveroso che
funge da studio legale.
Dopo un lungo silenzio, la voce dell'avvocato esce
dall'insaccatura del grasso con imprevedibile
pienezza. "La vostra sensibilità di dabbenuomini è
stata offesa," dice senza impuntature. Il tono è
vagamente aggressivo e la frase può suonare
sarcastica. "La sua no?" s'impermalisce difatti
Platonico. Cortesemente Toma rivolge un generico
prego. "Diciamo allora che vi sono state delle
sensibilità offese, ma se le elencassi vi sembrerebbero
alla rovescia," prosegue l'avvocato dando una penosa
impressione d'incocrenza. "Non le elencherò, o
Signori. È la carne che offende e bisognerà pure
parlarne." S'interrompe, abbozza un gesto. "Dirò solo
di un ragazzo, quello che avete dimenticato là sulla
panca, un semplice ladruncolo al quale è stato dato
modo di erudirsi in un'eretta in materia assai diversa
dal furto."
Il presidente si scuote. "Che cosa... Perché non è stato
portato via?" E all'agente che fa segno verso le carte
del cancelliere per giustificarsi; "Fuori. Si attenda
fuori." Toma non ha alzato la voce, ma un leggero
rossore gli sale alle guance. Nessuno si sarebbe
aspettato da Lucrese il piccolo
colpo di scena forense. E ha colto nel segno. Ora se
ne sta vacuo, la toga penzoloni da una spalla,
l'ufficiale giudiziario va a rimettergliela a posto.
Girando il capo incerto come un cieco, dirige la
parola al seggio isolato del pubblico ministero.
" Poiché l'illustre rappresentante dell'accusa ha
voluto compiere un'indagine psicologica, o forse
patologica, della personalità del minore... dovremmo
chiamarlo in conseguenza quanto meno lo
stupratore... io devo riportarla alle sue reali
proporzioni."
Evidentemente si accinge anche lui a un'arringa in
piena regola. Platonica ostenta di consultare
l'orologio. È l'una e mezzo e sta affacciandosi
qualche avvocato che risale dalla corte d'appello, giù
dev'essere tutto finito. Il presidente, che teneva nelle
mani l'incartamento come in atto d'alzarsi, compie
un affabile tentativo rammentando le miti richieste
dell'accusa che possono essere condivise. Il giudice
Oliva si. è spinto avanti col busto.
"Rivendico il mio diritto e l'imprescindibile dovere...
il dovere..." Affannando un po' Lucrese alza il
braccio e gli cade la toga. Questa volta, all'ufficiale
subito accorso, da segno agitandosi maldestramente
di volerla infilare. Appena se la sente addosso rialza
il braccio.
"Non abuserò del vostro tempo, signor Presidente,
signori del Tribunale. E se volessi usare di certi
motivi... abusati... in voga..." Gli occorre una ripresa
di fiato. "Potrei presentarvelo come un figlio del
tempo. La guerra, gioventù bruciata eccetera
eccetera... Potrei additarvi il padre. O risalire ancora
più indietro, oltre i limiti, ragionevoli certo,
dell'istruttoria, che non sembra farne cenno
(un'istruttoria si sa non è un romanzo) risalire cioè ai
primi mesi di vita del ragazzo. Non dico per ridere,
Onorevoli Signori, esigo anzi la massima serietà.
Anche il paesetto di..." Non trova il nome che ignora
non avendo avuto il fascicolo. "Anche il paesetto
sperduto
di questa povera gente servì da bersaglio. Un solo
spezzone, all'ultima ora. Ed ebbe una vittima. Una
donna caduta nei campi. Allattava sotto un albero il
bambino e glielo trovarono appeso alla mammella
già fredda. Eccolo, quel bambino." L'avvocato
Lucrese allunga il braccio in dirczione della panca.
Platonico, stridulo: "Stiamo giudicando, alla distanza
di quindici anni, un atto di libidine."
"Come... è possibile... Ma se anche un trauma
prenatale..." "Veniamo al sodo, avvocato."
L'indignazione strozza a Lucrese la parola. Gli
s'inturgidiscono le voluminose guance e le pieghe
del collo, accendendosi fino alle orecchie d'un rosso
denso apoplettico. Lentamente si decongestiona,
rimangono scure le orecchie.
S'impunta in un balbettio, ma poi dice fluidamente:
"Bene, allora parliamo della carne."
C'era stato fino a quel momento un vago imbarazzo,
sopravviene il disagio. (Più tardi si penserà ai due
ponce bollenti che i colleghi avevano offerto al
vecchio intirizzito nel bar di fronte al tribunale poco
prima di salire.) Il pubblico non ha inteso. Tutto di
sghimbescio sulla panca, il ragazzo si tiene con una
spalla alzata come per pararsi.
"Ma bisogna prima tornare al bambino," riattacca
Lucrese indicando l'imputato. "Consentitemi,
Signori, di rintracciarlo e di presentarvelo. Bisogna
sempre andare in cerca del bambino per poter
perdonare un uomo. O un ragazzo... O anche uno...
uno come me..."
Con la mano corta e grassa si batte ripetutamente il
petto.
"Il bambino... Che cos'è un bambino? Dicono le
donne del mio paese che è un chicco di malvasia.
Quell'uvetta piccola, sapete, chiara e zuccherina, a
goccia di miele. Ogni chicco è così trasparente nella
sua pellicola che si vedono dentro i semini schietti.
Un'uva delicata e soda, ha un sapore... di profumo...
È uva da vino. Non so se... Ma del resto
comunemente si paragonano agli angeli. Il bambino
di ciascuno di noi... di ciascuno... insisto... fu un
essere meraviglioso. Dicono... le donne del mio
paese... che se gli guardi la schiena scopri le ali. O
almeno un'impronta... un indizio... in quelle
scapolette, sapete... Esseri meravigliosi di purezza.
L'ir...irr... l'irrefragabile purezza dell'infanzia, che
abbiamo visto per nulla ombrata e nemmeno
lievemente offuscata in un'altra creaturina proprio
nel corso di questo dibattimento."
Senza vederci, Lucrese tenta di girare il collo dove
siede la donna col figlio.
"E così era, non molto tempo fa, colui che dovete
giudicare. Ho domandato al padre come era da
piccolo Nicolino. Dice: era riccio e timido. Sapete,
certe risposte semplici che vengono su spontanee.
Riccio e timido. Un bambino senza madre, senza
nemmeno una madre come questa che si è presentata
dinanzi a voi, da farselo attaccare alle gonne e
ricucirgli la zaganella. Lei gli rimetterà la zaganella,
l'avete sentito che in fondo era dolce.
"E lasciamo stare il trauma, la guerra è passata,
quindici anni per cancellare tutto, va bene. Era riccio.
In campagna li tosano presto, ma il padre se n'è
ricordato. Un segno di bellezza di grazia, brunetto
coi ricciolini. Adesso è ispido. È scontroso fino a
mostrarsi bieco. L'età ingrata, ne riparleremo. Ma per
carità non esigete da loro le manifestazioni del
pentimento, la compunzione, l'umiliazione, le
lacrime. Esposto al ludibrio generale non batte ciglio.
Indigna? È dietro la maschera del cinismo, a ogni
modo una maschera, che si nascondono le più
conturbate sensibilità dei ragazzi. "Signori, io non ho
figli." Alla inopinata dichiarazione, segue una pausa.
"È un vantaggio?" domanda Lucrese come tra sé.
Sembra riflettere. "Ho la memoria diretta del... senza
interferenze... ho memoria..." SÌ tocca in fronte.
Raddrizzando la bassa statura assume un
atteggiamento togato.
"Non impazientitevi, Signori, e non temiate che
divaghi. Al contrario, vengo al sodo, come ha detto
così efficacemente l'illustre Pubblico Ministero. Ciò
che voglio è che non gli si butti il perdono. Non per
procedura. È colpevole. Ne sono convinto io stesso
suo difensore, difensore d'ufficio, sì, il che non
cambia nulla. È colpevole. Fino a che punto,
fisiologicamente e giuridicamente, crea il dubbio di
cui beneficierà per concessione dell'accusa
medesima. Ma è il modo..."
Una voce interrompe. "Nicoli," chiama il padre dalla
transenna, "Nicoli l'hai fatto?" È rauco.
Guardandolo negli occhi per essere senza meno
creduto, il ragazzo risponde con forza rabbiosa: No.
"... il modo, Signori. Non bisogna avere repugnanza,
il perdono evangelico non la prevede. Quello
evangelico, certo, obiezione accolta. L'età ingrata. Oh
se siamo brutti, infelicemente brutti. Nella piena
coscienza di esserlo e sempre in un acuto rendersi
conto del proprio corpo. La spontaneità ci è preclusa.
Eravamo fluidi sciolti leggeri, eccoci legati, materia
dura e greve. Eravamo soavi, eccoci aspri. Il mosto
ribollendo si fa aspro. E fangoso. Siamo sporchi. Poi
il torbido riposando si fa chiaro. Ma non è questo. O
meglio, per quanto mi sforzi non riesco a rimanere
sul piano realistico. Ciò d'altronde significa che vi è
del lirismo nella cosa."
"In quale cosa," si sdegna Platonico. "È intollerabile."
Lucrese non sente.
"Vediamo un po', che gli è successo?
Domandateglielo, e non lo sa. È una metamorfosi. Le
metamorfosi sono dolorose... dolorosamente oscure...
se
ne esce come da una febbre altissima. Oltretutto una
metamorfosi alla rovescia. Si ripiegano le ali
dell'infanzia in un bozzolo di carne e può capitare di
uscirne strisciando. Dopodiché bisogna mettersi in
ginocchio e che ci sia permesso di rialzarci
all'impiedi. Eh!
"La carne, Signori. A un tratto cresce addosso al
bambino... era tale ancora poco fa ieri era ancora un
cherubino... e lo copre... l'ottunde... lo tarpa... Ci si
trova chiusi, separati dal mondo della puerizia,
rinserrati in una morsa. Eccolo, guardatelo, il
ragazzo: è l'età in cui deve farsi strada attraverso la
carne, questo avviluppamento, questa opaca
pesantezza. E questo accrescimento. Domani, se tutto
andrà bene, sarà la crescita... oppure..."
Il vecchio sembra di colpo mimetizzarsi lui stesso a
quell'età, nello stadio di plasmazione, col minuscolo
naso aperto, la testa incassata, il corpo informe, un
grosso abbozzo di creta umida. Suda.
"Per uscirne bisogna dibattersi e premere. Ciò che
spinge, che sollecita, che urge... qui è il mistero... ciò
che spacca riaprendo alla vita... che è? da dove
viene? Succede a volte così bestialmente male.
Eppure non si tratta di mera bestialità, sappiatelo.
C'è una pienezza, un traboccamento di sé
irreprimibile. Qualche cosa di erompente e
inarticolato, come un muto che sta per mettersi a
parlare. È la carne che deve rompersi. Come il legno
di un albero da cui si sprigiona il virgulto. Una cosa
che scocca da noi, dal nostro essere più profondo,
come un'ispirazione e come un delitto."
Nella foga il vecchio si è scomposto, gli tremano le
labbra, trema tutta la sua massa gelatinosa. Da
l'impressione di vederci bene dietro le lenti doppie
che gl'ingrandiscono l'occhio e che scruti la carne
degli altri. Con una faticosa torsione di lato punta
sulla donna flaccida, poi i contadini duri e scuri, la
carne pallida dei giudici, quella arida livorosa di
Platonico. Accusatore, probabilmente senza volerlo.
C'è un po' di suggestione. Il frate ha addosso più
carne di tutti ma la regge sui piedi nudi.
Riprende la parola con l'impuntatura. "D...
d... dicono le donne del mio paese che ognuno
serba dentro il suo chicco di malvasia. Ben custodito
nella lucida pellicola, la perla dell'infanzia. Ogni
uomo, il più brutale che ci sia, la possiede nascosta. E
se anche il marito le picchia, esse credono che è il suo
bambino che gioca. Hanno una grande facoltà di
perdono. Si. è dato il caso del brigante che andò a
costituirsi nelle mani della propria moglie. Serbava
ancora il suo chicco di malvasia. Si capisce che non
bisogna andare a strizzarlo con le dita. E questa è
una parabola. Ma noi... abbiamo parlato troppo...
abbiamo sbagliato tutti... Noi ci siamo andati con le
dita..."
Rimane a guardarsele brancicando sul tavolo.
Nell'aula non si sente che il respiro del vecchio
avvocato stanco. Ansima. Gli è caduto lo sguardo e
come se si alzasse allora per la sbrigativa difesa
d'ufficio, improvvisamente spento, balbetta le
richieste.
Ha cessato di nevicare. I contadini, sempre in piedi
alla transenna, specolano i vetri grigi forse tentando
di ricavare l'ora da quella luce smorta. SÌ tengono
alle gambe i ragazzucci che mangiano a testa sotto
piccoli pezzi di pane, vergognosi dietro le signorine.
Nessuna si è mossa. Gli atteggiamenti non
tradiscono stanchezza o impazienza, neppure la
preoccupazione femminile del proprio aspetto che
spinge le mani ai capelli alla faccia al collo. Col
trucco stinto e il rosso delle labbra succhiato,
guardano davanti a sé. Le raggiunge qualche spira di
fumo dalle sigarette che gli uomini hanno acceso non
appena si è ritirato il Tribunale.
Tre avvocati e il cancelliere circondano lo scanno del
pubblico ministero, in conversazione. Si alza
l'accompagnatore della scolaresca, benportante ma
un pò molle, e dandosi un tocco al foulard va a unirsi
al gruppo. Si tiene sul davanti a due mani i lembi del
cappotto sovrapposti.
"La gioventù di oggi è impavida," sta dicendo
Platonico nel circolo. Si riferisce alle ragazze.
Senza rispondere all'inchino del sopravvenuto ne
alle sue parole di convenevole, gli guarda la bocca
grassa. A lui forestiero non occorre sapere quello che
nella città di provincia in passato fece scandalo e
ormai si mormora, per catalogarlo. Docente, sposato
con figli, ma sempre riconoscibile a un occhio
esperto. Lo esamina con acume professionale quasi
insolente, dai ricci nel collo fino alla posa donnesca
delle mani.
Nell'altro settore dell'aula Lucrese è rimasto
infagottato contro il tavolo. Sulle enormi guance
smunte le orecchie pendono come bargigli malati.
Non ha fatto caso ai colleghi, benché il più giovane
nel passare gli abbia teso la mano congratulandosi.
Ora sembra intento a osservarsi le dita come se non
le riconoscesse, muovendole con difficoltà. Alle sue
spalle, a occhi bassi, le braccia incrociate dentro le
maniche, il frate. Accanto l'uomo sparuto fissa i tristi
occhi azzurri sul figlio. Il ragazzo sta per traverso, di
schiena. Dietro gli si è andata a mettere la donna col
figlio, abbracciando il termosifone e posandovi
vezzosamente una guancia.
Dallo scanno dell'accusa si voltano, ma in dirczione
di Lucrese. Commentano l'arringa. Platonico ha
dichiarato che detesta le piaggerie letterarie in
dibattimento. "E dovunque," aggiunge tenendo la
mano sulla rilegatura nera del codice. Un'arringa, è
la sua opinione, che si potrebbe scambiare per
un'autodifesa. Chioccia un risolino. Ridono anche gli
altri, con discrezione.
"Canto del cigno," suggerisce l'avvocato in auge dal
bavero di pelliccia.
Il collega anziano si pronuncia per l'influsso del
biondo in aula, occhieggiando dalla parte delle
ragazze. Ma il giovane è rimasto impressionato.
Schiacciano le sigarette al suono del campanello,
abbandonando la pedana.
Il Tribunale rientra. Viene letta rapidamente la
sentenza. Sono passate le due.
Scomparsi i giudici, si muovono tutti insieme, i
contadini affollandosi alla porta grande, le
studentesse alla piccola. Il ragazzo, capitato in mezzo
fra vestiti e capelli, arretra di nuovo contro la panca.
Respira come se fiutasse o gli mancasse l'aria, sempre
così giallo. Il padre lo raggiunge e insieme
rimangono accantonati.
Gli va quasi addosso la donna, che sorride
conciliante. "Nicolì, eh?, t'hanno perdonato." Lui
spalluccia.
Scaturisce fra loro la testa del bimbo e se lo ritrova
davanti col mento alzato e la bocchina aperta. Deve
ricordarsi benissimo di avergli premuto le mani sulle
spalle, anche se non ricorderà altro. Stringe gli occhi
sforzandosi a qualche cosa, pare contargli i peli sulla
testa con disgusto, forse non ricorda nemmeno che
allora aveva i capelli lunghi a riccioli d'oro, vede solo
un rossino tosato un po' deficiente.
Nell'aula semivuota l'avvocato si rimette a sedere al
suo posto.
La gente s'è mescolata per il corridoio. Dalla porta a
vetri cominciano a sfilare le studentesse, con le
braccia sollevate per ricoprirsi la testa. I contadini
s'accalcano intorno a frate Alessio che se li porta via.
Arrivando sul pianerottolo, padre e figlio fanno in
tempo a scorgerli per la gradinata sporca di poltiglia
nerastra. Sotto si agitano le teste con cappucci e
sciarpe. Quella bionda ancora scoperta.
Vi corre l'occhio del ragazzo, sfuggente, come se ai
capelli fosse connesso un senso di colpa. Lascia
andare avanti il padre. Nel guardarsi alle spalle
riconosce l'uomo miope che viene dal corridoio scuro
accompagnando l'avvocato traballante a passettirii
come un cieco. Ha l'aria di sentirsi aggricciare la
carne. La carne la carne la carne. Odierà anche lui per
tutto quello che ha detto, non voleva essere difeso.
"Nicolì," chiama il padre rauco. È a mezza rampa,
stringendosi al collo il bavero sottile
dell'impermeabile. Dalla tromba sale un'aria gelata.
"Nicolì."
Lo spinge a muoversi il rumore di altri passi che
sopraggiungono. Imbocca le scale a precipizio, ma
poi rallenta dinoccolato. Si mette al muro, non può
più nascondersi.
Scendono i giudici. Platonico non vede il ragazzo,
Toma non lo guarda. È il giovane Oliva a fermarsi.
Sembra aver capito l'espressione della schiena, di
uno che porti la vergogna addosso come una gobba.
Forse rimuginava quel chicco di malvasia e si rende
conto che lo rimandano punito per tutta la vita. In
faccia lo trova protervo. Ma allunga una mano e lo
tocca, gli dice qualche parola. Allora il ragazzo
avvampa, violentemente, ingenuamente, si stacca dal
muro con un impeto come se volesse uscirsene da se
stesso.
Mentre padre e figlio passano per ultimi il portone
del tribunale, nella sala degli avvocati l'ufficiale
giudiziario sta tentando di far parlare Lucrese, che si
guarda le dita colpito da afasia.
19 PER SOLI UOMINI
È stata un'impressione sgradevole sentirsi
rinchiudere anche nella cappella. Mi volto e vedo la
porta: grande, di legno verniciato verde, con quei
tagli a spioncino. Una porta di carcere. Gli agenti si
muovono dal fondo, isolati, girando le teste verso la
massa compatta degli uomini nei banchi. Sono un
centinaio di detenuti: groppi di spalle e sequele di
facce biancocrudo con l'effetto di pietre in un muro.
Più che al vescovo officiante, gli sguardi sembrano
convergere in un punto a sinistra, su un candeliere
che il frate tiene sollevato. Sguardi sotto controllo,
portati in lungo da una cauta curiosità.
Più sciolto _ o forse un po' atteggiato _ il gruppo
all'armonium. Sei con l'organista, un giovane
contadino dal collo fiero. Riconosco, alla chioma
inumidita e gonfiata che riempie una faccia senza
mento, il gramo ladruncolo innumerevoli volte
recidivo. Abito grigio, scarpe nere piccolissime, una
figuretta pulita quasi elegante, discosta dai
compagni. (Era lo stesso al centro, qualche anno fa.)
Due sono in maglione. L'organista ha la camicia
aperta sul collo così eretto. Li vedo arrotondare le
bocche, improvvisamente composti come angeli
cantori.
La luce piove dall'alto, in irradiazioni di pulviscolo
sul capo del monsignore, diritto a braccia spalancate.
L'altare è pieno di fiori. Da un lato, stola candida col
nodino di nastro al petto, due detenuti dalle facce
asimmetriche, umili e confuse, reggono tra le dita,
aperte nei guanti bianchi, uno il pastorale col riccio
d'argento l'altro la mitria ingemmata.
Nei banchi sembrano tutti uguali. Eppure oggi non
portano l'uniforme carceraria, larghe brache e
casacca a strisce grigie e marroni. Sono "rivestiti"
ciascuno con gli abiti che aveva addosso entrando
qui, roba frusta stinta e panno di contadini o residui
grigioverde. C'è un soldato in giubbetto kaki aperto,
ancora abbronzato. Comincio a isolare, a
individuare. Qualche testa torva piegata, guance
rugose di vecchi, larghe facce attonite, il viso bello e
sarcastico di un giovane alto che emerge. Il suo è il
primo sguardo che incontro. Dice me ne frego.
Qualcuno mi indica, nella prima fila, i cresimandi.
M'aspettavo quasi di vedergli al braccio il nastro
bianco. Due sono minori. Non li conosco, ultime
reclute.
I frati hanno sceso e risalito i gradini dell'altare
muovendo svelti i piedi nudi nei sandali. Anche il
mingherlino ladro in grigio s'è dato attorno, come
uno di casa, porgendo un oggetto scansando le sedie.
Sedie e poltrone in finto cuoio degli uffici carcerari,
la poltrona del vescovo è quella dei giudici istruttori.
I due depositari hanno restituito pastorale e mitria
rimanendo a braccia penzoloni.
Monsignor vescovo con le insegne e i paramenti è
molto grande, altissimo. Sprizza fulgori dal piviale.
Davanti a lui i cresimandi aspettano, col padrino a
ridosso che gli tiene goffamente una mano sulla
spalla. I padrini sono vecchi, i cresimandi giovani. Il
primo dalla mia parte è un losco ragazzo ricciuto
fino agli occhi. C'è un movimento nei banchi, quasi
un'inclinazione
simultanea, un piccolo abbandono obliquo delle
teste. Qualche segno di croce fuori tempo, subito
contratto. Scopro libriccini, due o tré corone di
rosario: come cose nascoste venute alla luce in un
improvviso dimenticarsi. La massa si è sciolta, ha
assunto attitudini pose rilassatezze. Si è vagamente e
sordamente animata.
Il vescovo avanza rapido verso la fila dei cresimandi.
Contro il ciuffo crinoso del minore, la bellissima
mano bianca raccoglie le dita nel gesto liturgico.
Sotto quella mano che sembra una fiammella dello
spirito santo, è consacrato soldato di Cristo il ragazzo
senza fronte.
La ressa dei corpi nei banchi subisce continue
modificazioni: certe piegature, certi stacchi, certi
incurvamenti, rompono l'uniformità quasi di muro
dell'inizio. .Occhi ansiosi spiano nei compagni i gesti
da eseguire, ciascun segno di croce viene sgranato
dall'uno all'altro in frettolosa successione. Qualcosa
di docile, una remissività infantile, coglie anche i più
restii. È un agente a far segno di alzarsi e tutti si
alzano. Tonfo delle ginocchio sul legno e lunga
prosternazione. Esplodono le voci dei cantori
sonoramente. L'organista s'è abbandonato al canto
col collo gonfio. Così compreso, penso, come
bambino nella sacrestia del paese imparò a pigiare i
tasti con l'indice e provò la vocetta intonata.
Ho perso la nozione del tempo. Mi riscuotono
mormorii e piccoli subbugli da scuola, quando i
ragazzi stanno per essere chiamati a dire la lezione.
Sono gli agenti a muoversi per primi. Uno a uno,
quasi avessero finora circolato, risalgono la chiesa
con un curioso effetto semovente delle fiammelle
azzurre ai risvolti della divisa. Vanno a ricevere essi
la comunione e sarà l'unico momento senza custodia.
Ma non necessitava custodia. Rannicchiati e come
spauriti _ il disagio di uscire dalle file, esporsi _gli
uomini si preparano. Al posto delle guardie, subito
dopo, il gruppo dell'armonium senza impaccio.
Quindi un brusco agitarsi nei banchi, un
disincagliarsi, a due a tre, con passi secchi, una sorta
di corsa un po' disperata come se si consegnassero.
Hanno raggiunto i gradini a testa sotto, quasi
cozzando.
Non potrei calcolare il numero, è stata una cosa
repentina e in certo senso disordinata, a strappi. Si
susseguono all'altare scaglioni, dorsi curvi, nuche
giovani e vecchie, teste folte calve rapate, spalle
rigonfie e spalle cadenti. Una giacca
inverosimilmente stazzonata copre una magra
schiena dalle scapole prominenti come il residuo di
ali mozzate. Scarpe sdrucitissime si mostrano con
quell'aria disarmata delle suole esposte. Parecchi
indossano le brache dell'uniforme. Vedo presentarsi
tra gli ultimi il bei giovane faccia derisoria,
l'andatura bighellona e di colpo mettersi giù. Anche
lui sotto la giacca sagomata da guappo ha le strisce
del carcere, non possiede un pantalone. Due corti
piedi da ragazzo, le punte in dentro, ingenue, si
uniscono ritti scoprendo calze bianche in certe
scarpucce aperte ai talloni.
Colgo qualche profilo, il mento tremante, protendersi
a bocca spalancata verso l'ostia. Brutte bocche di
viziosi e di violenti. Ma non oso più domandarmi chi
siano costoro e che abbiano fatto. Le schiene
profondamente umiliate, l'annaspo delle labbra
timorose, e i piedi, quei piedi uniti come mani, tutto
negli uomini prosternati esprime in un modo quasi
straziante l'anelito spirituale. Sia pure dell'attimo
suggestivo, dell'occasione.
Si alzano raccolti in sé come ciechi. Al gesto del frate
che li aspetta al passaggio per distribuire
un'immaginetta, riscuotendosi trasaliscono.
Assise sulla dura poltrona d'ufficio carcerario, il
vescovo parla ai suoi figli. Voce suasiva, con poche
modulazioni, risulta un dolce lamento. La testa
delicata appare giovane, sembra giovane di purezza
fisica, la castità come un'ibernazione. Ha le
fìsique du rôle .
Nel silenzio della cappella si avverte il momento più
acuto, e forse il più precario, dell'abbandono. Scopro
qualche nobile tratto di fisionomia, occhi patetici,
tristi incavi di bocche. Libriccini e immagini sono sui
banchi, corone di rosario restano visibili appese a
mani nocchiute. So che dopo si vergogneranno e
irrideranno l'uno all'altro (è umano, ed essi sono più
che umani nel senso della fralezza) ma adesso
ascoltano ancora con una specie di avidità, quella
cosa che somiglia alla fame e che si sente dentro
come un buco.
Le mani del vescovo, distese sulle ginocchia, di un
rosa lillà un po' livido, le unghie bianche, sembrano
essersi appassite. Non gesticola. Il movimento è solo
nelle modulazioni della voce. Anche il senso è
piuttosto nel suono, in quella blandizie. Parla del
Cristo. Là in alto dietro a lui, l'enorme Crocifisso
sfigurato stravolto, con grumi e colaticci di vernice
vermiglia, opera di un detenuto. Vi si levano tutti gli
occhi sgusciando il bianco con una certa somiglianza.
Le fronti sono aggrottate nello sforzo. Essi non
intendono la lettera. Sfugge il significato delle parole,
si smarriscono le mistiche astrazioni: quello che vi è
di rarefatto di teologicamente incorporeo nei sermoni
cattolici, non li raggiunge. Ma sono indotti a
guardare il Cristo con le piaghe, l'eloquenza
irrefragabile del sangue. Il cattolicesimo ancora si
regge sulla suggestione del rituale liturgico e delle
immagini, non soltanto per i semplici, ciascuno vi
reperisce qualcosa dal basso o dall'alto. Nel
momento che metterà mano all'apparato correrà il
più grande rischio della sua storia.
Tornando a guardare le file uniformate, non vedo
che teste ispide e menti deboli. Nell'aria viziata
un sentore di corpi, un lezzo. E di nuovo
l'impressione di scuola, quando sta per suonare la
campanella, lo stesso tramestio del radunare
furtivamente sotto il banco. Sguardi bassi seguono le
braccia dei frati che spogliano il loro vescovo. È
molto sottile, senza carne, le spalle escono esili da
sotto la cappa.
Gli agenti hanno ripreso a circolare. Nello spazio
sgombro procede il corteo delle autorità fra i
detenuti in piedi. Nessuno si sporge a baciare
l'anello, forse è stato proibito. O si è spento lo slancio.
Le facce inespressive arretrano confondendosi.
Dietro la frusciante immacolata veste principesca si
leva a grado a grado un brusio, un bisbiglio, un
brulicame. E poi, alle nostre spalle, sordo, il clamore
incoercibile, sempre un po' minaccioso, della gente
ingabbiata.
Andiamo a consumare il rinfresco. Cioccolato caldo
con paste, dato che Sua Eccellenza e gli altri officiami
sono digiuni.
20 HANNO AMMAZZATO UNA BAMBINA
Mentre sono in ricreazione mi giunge la frase: Non
devi dare retta agli uomini. Pronunciata con autorità
da Giuseppina. Nove anni. Le femminucce
assumono queste arie sapute.
Il gruppo viene verso di me, come quando
desiderano che assista ai loro discorsi. Metto la frase
in rapporto con la notizia di ieri, ma poi scarto l'idea.
Mi sembra piuttosto del genere "sarà la menopausa",
della stessa Giuseppina che ha così sovente mal di
testa. Ieri mi avevano detto: Hanno ammazzato una
bambina. Non è la prima volta. Ma rientra nei
fattacci di cronaca nera piena di ammazzamenti.
Uomo o donna la vittima per loro non fa differenza,
solo più impressionante le bambine. Bruto mostro
per loro è sinonimo di cattivo, la violenza
approfittarsi del più debole, sevizie le sofferenze
inflitte. Questi poveri mostri rientrano nella schiera
sempre più nutrita dei delinquenti per così dire
generici.
Giuseppina insiste, e nessuno la contraddice, che se
un uomo che non conosci ti chiama per strada tu non
gli devi rispondere. Un avvertimento così
semplicistico temo di non aver mai pensato a
suggerirglielo.
"Nemmanco se lo conosci, " ribatte Maria Pia.
Giuseppina annuisce gravemente. Sono entrambe
bionde e graziose, svelte bimbe dei vicoli che escono
sole, vanno con giudizio a fare la spesa, a comprare
di prima mattina latte e pane, il carbone.
Quando fu uccisa l'Annarella a Roma, in parecchie
mi dissero che andavano esse pure a comprare il
carbone, ma non erano spaventate. Da parte mia
ritenni inutile allarmarle, queste cose non succedono
nella nostra provincia. Portavano a scuola ritagli di
giornale, la testa di Annarella così poco bambina e
così penosa, con quegli occhi bistrati di stampa, la
frangia storta in fronte e una lenzetta di pelo al collo.
Era difficile parlarne. Del resto non sospettavo che
collegassero la cosa al sesso. Se mai quella volta del
feto deposto sulle immondizie in un pacco di
giornale. (Lo trovò all'alba il padre di Maria
spazzino.) Le cose naturali le sanno, un figlio si fa
con l'uomo.
"Eh sì," dice un'altra, "lo scarparo per esempio lo
conosco, abita vicino a casa mia."
Racconta che l'avevano "strascinato" in questura
tante volte e adesso è in carcere. Non si poteva
passare davanti alla bottega, essa ci passa di corsa
anche quando è chiusa. Nessuna domanda perché.
Capisco. Tutte sanno che glielo mostrava.
Me ne rendo conto all'improvviso. L'hanno visto in
pieno e in stato di solitària laidezza. Magari lo
chiamano fra loro coi nomi che si usano
volgarmente, uccello o pesce sarebbe il meno. E vi
associano la prima idea del fare l'amore, si fa con
quel coso lì. I nostri atteggiamenti da struzzo.
Chiudiamo in compartimenti stagni quello che ci
disturba. Ritenevo di essermi comportata da persona
evoluta scartando la cicogna del libro di lettura _
siamo ancora a questo _e il più domestico cavolo.
Delle madri incinte _dicono ingravidate _ lo
deducono da sé: ce l'ha dentro la pancia. Rifiutiamo
di credere alla logica dell'evidenza. Anche il
paragone col fiore, vincendo i tabù che portiamo
dentro (sepolti ma non
morti) e supponendo oggi possibile un'educazione
sessuale nella scuola, lo assomiglierebbero un po'
troppo alla storia del cavolo. Bambine che vivono
nella promiscuità di famiglie in poco spazio e per
strada vedono gli animali. Infatti non domandano
mai niente. Occorrerebbe un discorso più attinente
del fiore pistilli e polline _ eppoi quei fiori lì
figuriamoci, non è che la natura abbia scelto proprio
bene così lontani da due cani accoppiati, per non dire
altro. Il seme umano. E come ci va a finire dentro?
Qui è il punto e l'ostacolo, il blocco per il nostro
puritanesimo cattolico. Se domandassero. Ma non
domandano. Si adeguano alla finzione. Non
domandano neanche a me, non l'ho meritato. Del
resto sommano due più due.
Sono ancora qui. Interviene Anna rosea e tranquilla.
"Uno mi ha detto se ci vieni ti do le caramelle." Mi
guarda, ma è una compagna a parlare: Ci sei andata?
L'Annetta non ci è andata no, ride.
"Nemmanco se lo conosci," ripete con indicibile tono
d'esperienza Maria Pia, scuotendo i capelli biondi
gonfi che porta lunghi sulle spalle. È rotonda, molto
femminile. Andava ai giardinetti a giocare, c'era uno
che si sedeva sulla panchina e chiamava. Essa ci
andò, prese la cioccolata ma poi scappando la buttò
in terra.
Maria, smilza brunetta dagli occhi frizzanti: "A me
mi portò dentro la chiesa nel banco."
La grassa Lucia: "C'è uno che si mette al balconcino
del cortile."
Parlano come sempre lanciandomi sguardi per
assicurarsi che le ascolti, hanno più interesse se le
ascolto io. Raramente intervengo. È così che le
conosco meglio, che mi si rivelano nella loro vita. Ma
oggi sono rimasta davvero senza parola. Troncare il
discorso no, non devo comportarmi in modo insolito.
Aggrediscono gli argomenti scabrosi con l'innata
grazia del sesso e l'inoffuscato candore dell'età.
Ciascuna del gruppo ha da dire la sua,
interloquiscono con un piccolo gesticolamento,
raccontano senza dilungarsi, senza sorrisi maliziosi,
senz'ombra di vergogna. La loro naturalezza mi
riesce quasi insostenibile (i tabù dai precordi).
Nessuna fa domande, tutte sanno. Si sono intese
sulla parola "sporcherie", del resto pronunciata una
sola volta. E comprende anche l'atto da cui sono nate,
ogni cosa del sesso. Sporcherie alle quali
soggiaceranno, vi andranno anzi incontro come allo
scopo della loro vita di donne. Spiegare che "quelli"
sono dei malati presupporrebbe molte altre
spiegazioni e non è escluso che coinvolgerebbe padri
e fratelli. Perché se in casa hanno visto qualche cosa,
il due più due porterebbe al medesimo risultato.
Mi limito a consigliare: Ditelo sempre alle vostre
mamme. Ma risulta che alle mamme non l'hanno mai
detto. Se lo dicono solamente fra loro.
Queste madri, le stesse che negli uffici assistenziali e
perfino nei corridoi del tribunale, mi cercherebbero
rimedi per non fare figli, "certe cose i signori le
sanno", a scuola, un po' per soggezione, un po'
perché alcune sono di specie più semplice _persuase
di non poter togliere all'uomo, "l'unico spasso che
non costa niente" (costa una torma di figli) e che è poi
un obbligo per legge e per volontà di Dio, e come si
fa a parlarne ai ragazzini l'impareranno da sé a suo
tempo _queste madri si scandalizzerebbero. Per altri
versi (o per gli stessi?) l'ambiente scolastico
insorgerebbe. Si progetta di riunire quelli dell'istituto
in classi separate dagli altri _ segregazione razziale
_anche perché, tigna a parte, fanno le porcherie.
Stessa espressione in bocca agli educatori,
leggermente ritoccata. Proposta dalla collega per la
quale Sodoma e Gomorra non esistevano all'epoca
della Bibbia. Per qualcosa intravisto _ ma ci giura
_sottobanco, forse maneggi innocenti. Be', e se fosse,
non li puniscono con una giornata a letto
a giocare col proprio corpo? Non gli hanno lasciato,
non possiedono che il loro corpo. "Ma lei, un figlio
suo, lo metterebbe insieme a questi?" Domanda
inaudita per tempi di democrazia. Razzismo coi
bambini. Allora ci vuole altro che democrazia.
È durato un quarto d'ora. Un quarto d'ora molto
istruttivo, l'innocenza è esplicita ed esauriente. Le
più graziose, le biondine con arie donnesche e
gambette tornite, sono le protagoniste, l'oggetto della
concupiscenza. Posso ricavare dati più che
approssimativi dalla involontaria inchiesta. Inchiesta
con angeli non del tutto asessuati. Sono in
maggioranza del popolo, le più libere e incustodite.
Se provassi fra altre categorie la percentuale si
ridurrebbe ma non molto. Pochi genitori borghesi
sospettano o tengono conto di queste cose. L'uomo
stesso, l'uomo normale, l'onesto padre di famiglia,
ignora o ha dimenticato quali e quante debolezze
deviazioni aberrazioni esistano nel suo sesso. La
donna ne sa di più essendone il bersaglio. Sono
discorsi ai quali si arriva di rado, sgradevoli, ma una
volta accettato l'argomento _e lo spinge avanti
sempre più spesso la cronaca nera _ è inesauribile ciò
che può venirne fuori. Aperti i compartimenti stagni
e radunando confidenze casuali, fatti passati, discorsi
tra donne, ne ricavo istantaneamente che poche
mancano di ricordi del genere nel bagaglio delle
esperienze infantili. L'esibizionista per strada,
l'amico di famiglia in casa, lo zio amatissimo da tutti
a cui si affidano volentieri i bambini, un maestro a
scuola (mai si parla dei padri). E nessuna raccontò
alla madre. Da adulte ne ridono. Leggono la nera,
quando capita il fattaccio si terrorizzano, ma
l'allarme non si proietta che brevemente sulle fìglie.
Esse no. Sono cose che succedono, ma la mia no, la
mia la guardo io. Intervenire? Rimango perplessa,
tanto sono radicate
in noi certe resistenze. Finché mi indicano Bruna, che
non gioca con le compagne e s'è messa sola contro i
vetri della finestra volgendo la schiena. TI
sordomuto la chiamava. Come il sordomuto! Come
un cavallo, spiegano, nitrisce. In parecchie conoscono
questo sordomuto che chiama e rincorre le bambine.
Abita vicino alla scuola, mi precisano vicolo e
numero. Anche Bruna abita qui vicino. No, non
l'aveva mai detto a sua madre. Una va a prenderla
alla finestra e me la conduce. Bruna è grande, una
ragazza che ho tolto dalle differenziali, nevrotica,
sbatteva continuamente le palpebre rovesciando gli
occhi. Lo fa di nuovo adesso. Rientrava a casa ieri
sera _sono le altre a parlare _ nel buio non ha
resistito alla paura di sentirselo nitrire dietro per le
scale e ha urlato mettendo in subbuglio il casamento.
Perciò l'hanno chiamata.
Non capisco. Chiamata chi? dove? In questura, con la
madre. Bruna non sembra disposta a parlarne. Le
bambine s'allontanano, come se lo scopo fosse stato
di condurmela. Bruna rimane. È un po' arrossita,
tremola le palpebre quasi per assentarsi con lo
sguardo. Si vergogna. È stata chiamata e interrogata
in questura. Non è più come prima.
Mi rendo conto che, pur non sapendo da dove
cominciare, debbo cominciare. Educazione sessuale
nelle scuole. Quando ci si arriverà? Io comincio oggi.
Dopo i questurini.
21 LA ZEFÌLE
Accompagna le bambine una monaca alta e secca, col
passo lungo nelle scarpe piatte, aitante come un
uomo. Le bambine sono piccole. Quelle avanti vanno
strette per mano a coppie, le ultime più grandicelle
staccate e camminando si dinoccolano. La monaca
che per strada le arringa, energica, la voce forte, ha
un che di paterno. Difficile è la maternità. Comunque
guida sorveglia e cura: aggiusta con mosse brusche
un cappuccio una sciarpa, rimette in sesto la fila,
separa e abbocca aula per aula. Guardando sottecchi
le ridono, essa pure sorride. Più malleabili dei
maschi e più accattivanti, le femminucce perfino
s'innamorano della monaca preferita. Anche di
questa, che torna subito caporale. Ha una spessa
sottana color tabacco e del nero in testa, niente
bianco oltre il soggolo, il bianco impegna. Tutta scura
la fila e in quel greve opaco è l'uniforme, qualcosa di
mortificato. Sono monache povere, povere le
"orfanelle". Anche figlie di carcerati. Dislocate fra
conservatorio (presidente il vescovo) e istituto
(governatore un duca) con retta di 200 e 250
giornaliere per il completo mantenimento.
Maria esce sempre dalla fila dondolando le spalle
inverosimilmente larghe e facendo i piedi piatti. Non
ho ancora capito se li divarichi per imbarazzo, per
trattenere le scarpe troppo larghe o se davvero i suoi
piedi infantili sono già difettosi. Li solleva e poggia
come una donna slombata. Ma delle spalle ho
scoperto il segreto. Al paese, per la partenza, le
fecero di una vecchia giacca da uomo questo
abituccio, serbandone con parsimonia contadina
quanta più stoffa possibile e l'imbottitura. Con
uguale accorgimento senza garbo le monache vi
hanno tagliato sopra giusto e deforme il grembiule
nero di scuola. Maria sembra corta voluminosa e
squilibrata come un gobbo.
Nel banco infatti, quasi avesse del piombo alle spalle,
di tanto in tanto trabocca da una parte dall'altra,
cade. Da principio tutte ridevano. È davvero
squilibrata. Alle quattro ore in aula non resiste. Via
via s'accalda, fa un'affocatura ai pomelli, gli occhi
diventano lucidissimi. Rifiuta di scrivere, di
rispondere, pencolando con aria affranta e non se ne
cava più nulla. Ha begli occhi (certe dissolvenze
mentali li svuotano senza appannare il lustro)
lineamenti regolari, una testina ben plasmata. Così
calda di sangue sembra non reggerla, piega, è allora
che trabocca con improvviso frastuono nel banco.
Temevo che avesse dei capogiri. In ambulatorio
hanno detto di no. La sua scheda sanitaria è nuda.
Maria G. di Elio fu Teresa, le tonsille sono a posto _
si fa molto caso negli ambulatori scolastici delle
tonsille così evidenti a fìor di gola _il resto in bianco.
Per il piccolo sfogo alla fronte, neppure nominato, il
solito unguentino giallo. Glielo spalmano da mesi e
la crosta non se ne va.
Me la prendo accanto appena la monaca le ha
lasciate, ancora leggera di mattino, fresca dell'aria di
fuori. Nel guardarmi converge le pupille e solleva
strette alla radice del naso le sopracciglia, assumendo
una patetica attenzione. Ha una cicatrice nel collo
male minacciata, altre per la cute come i maschietti
usi alle sassaiole di strada. È una contadinella, con
accento meridionale contratto e la scioltezza dei
paesani davanti alle domande semplici, alle cose
reali della vita. Mi dice che sua madre è morta
all'ospedale di T., dove essa stessa nacque. Gente
che dalla campagna va a nascere e a morire in un
ospedale di città, è sicuramente gente poverissima.
«M'ha lasciato la spilla d'oro.» aggiunge di suo. La
spilla e la fede d'oro e quattro tovaglie (intende
asciugamani) e due coperte, una celeste di seta e
l'altra tessuta di lana con tanti colori. Le lenzuola no,
dice, erano tutte strappate, esse dormivano sulla
foglia. (Il saccone empito di spoglie del granturco).
Suppongo che le materasse siano state vendute,
sempre la sposa campagnola porta materasse di lana.
Alla domanda se il padre lavorava, risponde che lui
non c'era. Ho ritegno a insistere sul padre vivo, le
avrà abbandonate. Giovane doveva essere la morta,
questa figlia era l'unica. E mamma cercava, è la
spontanea conclusione. Capisco che non dice
elemosina perché le manca il linguaggio, non per
vergogna. Il bambino della povertà non si vergogna,
non se ne rende conto. (Quando entra nelle classi
l'addetta al patronato scolastico e, ad alta voce: chi è
povero alzi la mano, l'alzano tutti tranquilli e
premurosi, anche quelli che saranno esclusi
dall'assistenza perché non abbastanza poveri.)
Maria torna alla spilla. "La tiene nonna e anche l'altra
roba." Ha l'aria di sentirsi prodigiosamente ricca. Mi
fa brillare quel poco oro a dodici carati come un sole.
Senza sollecitazioni incomincia un lungo discorso, a
brani di memorie confuse, non più sensibili, sulla
madre. Che ogni anno doveva andare a T. dai
medici dell'ospedale, la visitavano e facevano le
iniezioni, ogni anno devi ritornare, e una volta non ci
andò, così stette male, se lo sentiva e diceva lo so che
debbo morire e infatti ci tornò e morì.
Domando di che è morta. È stata la Zefìle, risponde
con sicurezza. Sono certa che vi ha messo la
maiuscola, un nome femminile, come se fosse stata
uccisa da una donna. Non capisco. Stento a
formulare altre domande. "E tuo padre?"
Gliel'avessi chiesto prima senza tanti scrupoli, non
avrebbe avuto difficoltà a dirmelo. Si trova al
manicomio di T. Lei sa tutta la storia e può
parlarne con docile tranquillità, perfino con
un'ombra di vanagloria (come sempre quando si
parla di sé). Date non ne ricorda _ le so io _ ma sa che
tornò dalla guerra si sposò e impazzì. Prima faceva il
lavoro di campagna, andava a giornata, bracciante
agricolo. Quando la figlia nacque era ricco, ricco di
pecore mandrie campi, fermava la gente e diceva: è
tutto mio. Non volle più lavorare. Questo per Maria
significa essere pazzi.
Mi guarda compiaciuta e fiduciosa, aspettando. Dico:
Ti ci hanno portata? Gliela portarono, una volta sola,
a lutto. Com'è non sa dire ma cerca. L'ha visto
giovane e bianco bianco _ chissà che pallida
sparutezza in confronto alle facce cotte della
parentela contadina _ un giovane magro vestito da
militare, che voleva abbracciarla. Ma essa non
conoscendolo s'era tirata indietro. Aveva paura e sua
nonna a spingerla. Poi l'ha riconosciuto perché
diceva: ho una grande disgrazia, ho perduto la
moglie. Capiva tutto.
S'accosta ancora, col visino lungo e il naso tirato alle
pinne da quel vezzo di alzare e stringere le
sopracciglia. Uno strabismo d'attenzione. O è a causa
della crosta che da mesi rimane lì sotto la spalmatina
d'unguento.
"A mamma la malattia gliel'ha ridata lui." Mi guarda
intensamente. Riflette un po', di nuovo pronuncia
quel nome femminile accompagnando ogni sillaba
con una contrazione sopraccigliare: Zefìle.
A un tratto afferro la parola storpiata. Sifilide. Deve
aver sentito dalla nonna, dai paesani, in ospedale,
avranno parlato davanti a lei senza badare. Mi
chiedo se l'abbia raccontato alle monache. (Il medico
dell'ambulatorio non ha fatto domande.) Una donna.
Una macabra donna col nome senza maiuscola, che
davvero uccise sua madre.
Mi rendo conto che ancora per la bambina sono
parole, non tanto senza senso quanto senza peso. Già
il padre è una labile immagine di soldatino giovane
(diosaperché sempre vestito così) nella cornice di un
parlatorio che a mano a mano si confonde con quello
del convento, e la madre sembra svanire in un
passato senza rilievo. L'anima è leggera.
Il corpo no. Poso le mani sull'imbottitura delle spalle,
vi cerco sotto la smilza carne. La carne è pesante,
porta il carico di quel sangue. Ora la bimba è
pallidina e graziosa. Le tonsille sono a posto, la sua
scheda sanitaria è bianca. Bisognerà riempirla con
l'anamnesi familiare. L'accompagnerò da un medico
dell'ambulatorio meno frettoloso. Per questa
crosticina ostinata occorre l'ospedale.
Ridice: Mi ha lasciato la spilla d'oro. Anche lei
innocentemente crede di essere ricca.
22 TACCUINO DELLE UDIENZE
Ha un che di pretesco, un'umiltà untuosa.
Mimetismo? Lavorava nell'ambiente, collaborava,
secondo le sue dichiarazioni. Raccolta di offerte per i
bambini da mandare al preventorio: ne trattenne una
parte. Si fece consegnare da molte persone danaro
per i profughi giuliani, per l'assistenza ai poveri, per
la maternità e infanzia: truffa continuata. (Precedenti,
furto e la vecchia patacca dell'orologio d'oro.)
Mellifluo e insieme presuntuoso, parlantina sciolta
_si dichiara istruito _sorride a destra e a sinistra
cattivante. Porge la mano, la ritira, se ne scusa. Si
scusa dei suoi "peccati": il bisogno, sa. Ha un abito
liso cosparso di lunghi ben fatti rammendi. Vive con
la madre vedova. Subì un'operazione per emorragia
interna. Pallidissimo, bocca e gengive esangui, il
grosso labbro superiore con le due punte fortemente
incise.
È detenuto da dieci mesi (verrà condannato a sei). In
buon accordo con gli agenti, parlottano
confidenzialmente.
Fra i testimoni: la moglie di un avvocato, un
cappellano militare, un parroco, due signorine
eleganti. (Passaggio dal tu al lei negli interrogatori.)
Lui sembra compiacersi di aver raccolto attorno a sé
gente così perbene. Non calcano sulle accuse.
Ha cercato di propiziarseli con inchini tendendo la
mano, gliel'hanno rifiutata le donne, il prete gliel'ha
lasciata baciare. Ride a qualche celia degli avvocati e
dei giudici come se partecipasse da eguale. Eppure
da l'idea che si metta carponi e strisci. Umiliato in
fondo all'anima.
Piccolo gramo, testa dritta, atteggiamenti da galletto
ancora spennato. Indusse la ragazza con un pretesto
a seguirlo nel vicolo, le alzò le vesti palpeggiando.
Strilli e fuga. Aveva detto al compagno: Voglio
scoparmi questa ragazza.
Il padre della ragazza (grande pettoruta) ritira la
querela. Ammette di aver ricevuto L. 20.000 per
risarcimento, di cui 8.000 all'avvocato che stese la
querela. "Proprio perse, quelle."
La bambina è graziosa e bionda, al solito. I "bruti"
non sembrano insensibili alla bellezza delicata.
Boccuccia, nasino, fossetta al mento, occhi celesti, le
gambe paffute in galosce alte di gomma nera lustra
sotto il ginocchio nudo.
Manca a scuola, rimandata indietro, la madre per
giustificarla racconta. Storia confusa. L'avrebbe
buttata a terra, faccia contro terra e lui addosso. Lui
dice che cadde dalla bicicletta perché Elena gli mise
una mazza ai raggi. Rovinata la bicicletta. Elena dice
che lui addosso non si muoveva.
Testimonia una bella ragazza "cimentata" in casa,
voleva accenderle il fuoco, un'altra volta per strada le
impediva di passare. Ha visto. La piccola Elena nega
di averla vista sul posto. Falsa testimonianza? Si
chiama il carabiniere, lacrime della ragazza
spaventata: forse non vide bene, ma quello lì
cimenta. La bambina potrebbe aver inventato un
pretesto per l'assenza a scuola. In ogni caso goffi
approcci e inani tentativi.
PM: Perché non la guardi? Guarda la bambina,
guardala.
L'imputato, a occhi bassi, perde l'imperturbabilità, si
morde le dita, si da un pugno in testa. Polsi soffusi di
pelurie nera, ombra nera di barba. Comunque sia
stato, la bambina gli piace. Colpevolmente, l'hanno
persuaso.
Resistenza e violenza. Faceva chiasso in un cinema,
non volle uscire col carabiniere. Premeditazione?
Avrebbe detto: Mi voglio divertire col capataz.
Freme e ansima ricordando che fu picchiato in
pubblico. Schiaffeggiato dalla parte dell'otite. Il
carabiniere afferma che fu lui preso a spintoni e a
calci. Il ragazzino stava a vedersi lo spettacolo da
quattro ore e disturbava.
Non risulta agli atti, ma c'è un precedente furto di
galline. Compì la rapina su un vecchio lattaio
semicieco _l'accompagnano passo passo alla pedana
_ avvolgendogli la testa con la propria giacca.
Rinvenuto sul posto il colletto della giacca. È il
maresciallo a rivelare il precedente. Al solito il
ragazzo dice che la confessione gli venne estorta.
Cencioso, grosse scarpe gli tengono i piedi in dentro
come se fossero spaiate. Ammette di aver bisogno di
danaro. Gli si domanda perché.
La ragazza non sa neanche quando è nata (tredici o
quattordici anni ). Mentre parla muove le corte
gambe nude, su e giù i piedi nei sandali, dilatando le
narici scoperte come piccole froge. Faccia d'impasto
rudimentale, rudimentale il linguaggio, ma
prontezza nelle risposte e profusione di particolari.
Quanto sei buona quanto sei buona, diceva
quello. Non lo guarda. Sul suo terreno, di
quello là. Passa Zaccù e li vede. "Di' a tua madre che
facevamo la lotta." La seconda volta l'ha portata alla
grotticella. (Ci sarebbe dunque andata.) Tutt'e due le
volte esce sangue. Si macchia una pietra e lui la butta
sotto la ripa. Le fece lavare le mutande al ruscello. Se
inventa, è ben esperta o ammaestrata. L'imputato
appartiene a famiglia abbiente.
Impassibile malgrado i tratti bambineschi, occhi e
naso rotondi, bocca a cuore, riccioli _ quindici anni
immaturi _ il ragazzo sta fermo al confronto con
Zaccù. Zaccù si contraddice, ritratta, non è che vide,
fu una. confidenza: al cantiere di rimboschimento,
mentre gli operai seguivano una prostituta. Arrestato
Zaccù per falsa testimonianza. Pianti disperati. E non
se ne viene a capo. Manca la perizia fondamentale.
Perdonati entrambi.
Omicidio colposo. In bicicletta: motociclista urtato
sbanda cade e muore. Mancano tutti i testimoni.
Mancano perizie informazioni, ogni elemento di
giudizio. Rinvio per accertamenti.
Un ragazzo d'onore, lo presenta il suo patrono. Rara
avis. Ormai i delitti d'onore si compiono in
campagna e solo da ragazzi. Tentato omicidio contro
il seduttore della sorella.
Il seduttore, un biondone grassoccio piuttosto bello.
Fu prosciolto per procurato aborto. Cerca di negare
la relazione. Imbarazzatissimo, spaventato. Risulta
un accordo con danaro: 300.000. A buon mercato, si
osserva.
Unico in famiglia il ragazzo ha sentito i motivi
d'onore (il patrono). Traducibili in vergogna per quel
pagamento elemosina. Gli tirò sassi, lo ammette. "Da
quando ha sedotto mia sorella ha sempre
smaccato la mia famiglia." Piange
rabbiosamente. In montagna (aveva la rivoltella al
rifugio) fu di nuovo insultato. "Tua sorella l'ho
sempre pagata e sempre la pagherò." Poi: La sposo
non sparare. Sparò. Tré colpi. Poco prima, con le
ragazze, aveva fatto lo spiritoso. Accendeva il fuoco,
s'era trovato un bossolo residuato di guerra, avverti :
badate ai pallini, diceva: vuoi la liquerizia? (i pallini
o gli escrementi di pecora, somigliano).
Scappò. Dormì in una grotta dieci ore e si svegliò
tutto strappato, non ricordava niente. La rivoltella
non si è mai trovata.
Assente la sedotta. Testimoni le robuste ragazze di
montagna dall'aria evoluta, che pascolano vacche e
cavalli in pantaloni, è zona di sport invernali vanno
in giro sugli sci. Anche lui sembra una ragazza, col
maglione azzurro e corti ricci in fronte. Ha sedici
anni. Grande forte ma ancora pulito in faccia. E
ancora offeso.
Concessa la condizionale per motivi di particolare
valore morale e civile.
23 FALSO TESTIMONIO
Processo dei soliti : il ladruncolo che mette le mani su
tutto quanto gli capita a portata: una sfilza di furti. E
di testimoni. Facce attentissime, tese, contratte. La
generale riluttanza a essere coinvolti, tocca vertici di
autentica paura nei contadini. I contadini di
montagna, quelli che ancora vivono di poca terra e
del pochissimo che da, sovente analfabeti se non
altro di ritorno. (Ed è, l'ignoranza, una ingiustizia
veramente grave fra gli uomini.) Aver a che fare
comunque con la legge viene considerato, oltre che
in qualche modo disonorevole, un'avventura
terribilmente pericolosa.
L'imputato, orfano dall'età di sette anni, garzone di
masseria. Si sa come usa il contadino: mangiare bere
dormire, calzatura e qualche scarto di vestiario, soldi
niente. Tutto va bene fin quando al ragazzo gli nasce
il gusto dei soldi: per qualche sigaretta, un
cravattone sgargiante (quanti reati non sono stati
commessi per una cravatta) spesucce di divertimento
alle feste grandi. Questo giovane dai tratti risentiti ha
inoltre cominciato ad aver sentore dei propri diritti.
Non riuscendo a farsi pagare, sottrae roba: una
damigiana di vino che va a nascondere in mezzo al
grano alto, farina patate polli, una bicicletta.
Recuperato il vino, la bicicletta, sequestrato
il danaro delle vendite (polli a un ambulante di
passaggio per il tratture). Ma l'imputato si mostra
ora scaltrissimo, istruito da dieci mesi di detenzione:
nega quasi tutti i furti, ne ammette un paio per
verosimiglianza. Poi dichiara _ altra cosa imparata
dentro _ che le confessioni gli sono state estorte. Dice
pittorescamente: Mi hanno fatto nero come il culo di
mezzanotte. L'avrebbero insomma "biastemato"
(intende bastonato) nientemeno col nervo di bue.
Sbalordisce i paesani con la sua sicurezza e
improntitudine davanti al Tribunale, i vecchi lo
guardano allocchiti. Ha sempre la risposta, non si
riesce a farlo cadere in contraddizione, non da retta
neanche all'avvocato che appare sorpreso della
versione nuova. ( E tuttavia, quando il suo patrono _
d'ufficio _ lo chiamerà orfano, quando dirà della
mamma morta e della cattiva matrigna, rosso
congestionato lo si vedrà lacrimare profusamente
sporgendo il labbro come i bambini.)
Ma non rimane lui protagonista, sopravviene il falso
testimonio. Nel gruppo contadinesco non sembrava
che ci fosse quest'altro giovane, tanto il montanaro
assume precocemente caratteri adulti. Insaccato in
un pastrano militare, avanza sulle scarpe chiodate
con un beccheggio da marinaio su terra-ferma. Al
contrario dell'evoluto imputato, pare in allarme. È
come se la vicinanza dei giudici lo paralizzasse.
L'interrogatorio troppo pressante l'ammutolisce.
Risponde no. Ha preso la determinazione, forse
improvvisa, di negare. Che cosa poi non si capisce, la
sua testimonianza limitandosi a una bicicletta che
l'imputato gli offrì di comprare e che lui non comprò
perché non aveva soldi.
Domanda: È vero? Risposta: No. Ma come! Gli si
mostra nel fascicolo la sua deposizione con la sua
firma. Domanda: È tua? Risposta: No. Questo
oltrepassa ogni limite. L'impressione è
che voglia tener mano all'amico ladro. Il presidente
minaccia l'arresto immediato, fa accostare i
carabinieri già in aula, lo mettono in mezzo. Questo
vale a ottenere il riconoscimento della firma. Una
firma da analfabeta, viene fuori che il giovane non sa
scrivere ne leggere. Ma insiste che mai è stato
interrogato. Pallidissimo, con le narici gialle, riceve
una tempesta di domande alle quali, dopo penose
riflessioni, continua a rispondere no. Sospetto che
intenda solo in parte (quel fluido italiano, lui che sa
solo la parlata del paese) ciò che gli si chiede con
incalzante velocità e interpolazieni ironiche dirette ai
giudici e all'avvocato, il cui senso gli sfugge.
DÌ nuovo si risolve ad ammettere qualche cosa: che
fu, sì, interrogato, dal maresciallo. Ma perbacco, era
invece il pretore. È completamente disorientato.
"E confermi le deposizioni rese?" "No." Viene
consegnato ai carabinieri. Ragazzi che con la loro
impari furberia vorrebbero misurarsi coi giudici, non
ne mancano e sono in realtà esasperanti. Ma in
questo curioso falso testimonio, nella stessa
irragionevolezza della sua cocciutaggine, c'è
qualcosa di diverso, di poco chiaro. Abbandonato su
una sedia fra i due alti militi, le guance senza sangue,
gli occhi smarriti ma ancora testardi, impietosisce.
Non tornerà stasera coi paesani alla montagna, a
casa, a sua madre, lui onesto povero già votato alla
fatica andrà a conoscere il carcere. E ha proprio l'aria
di non sapere perché, perché gli facciano tutto
questo.
Su proposta dello stesso pubblico ministero, viene in
ultimo richiamato nel tentativo estremo di fargli
capire la ragione. Lo interroga anche il componente
privato, un direttore didattico, con linguaggio più
semplice, a brevi domande quasi sillabate. Ma è
inutile. Capisco che ha paura _ammettendo quelle
cose scritte là, che non riconosce, che veramente
lui non può aver detto con quelle parole ignote _ di
cadere in chissà quale tranello. Ha concepito una
invincibile paura della Giustizia e di quell'uomo nel
seggio più alto che tenta di estorcergli, certo a suo
danno, qualche ammissione. No no e no. Non gli si
può cavare altro. Il presidente irritatissimo si alza. Si
alzano tutti ritirandosi in camera di consiglio. E ci è
lasciato il reprobo.
Dalle transenne i paesani si mettono a esortare: Parla
parla, di' la verità. Non guarda e non risponde. Con
la toga buttata sulle spalle gli avvocati si avvicinano.
"Conferma, conferma la deposizione." Lui, sempre
più impallidito, gira due occhi persi. Ma non vale,
non si arrende. Ancora teme che lo vogliano
incastrare se pronunzia un sì.
Il fatto è che la storia della bicicletta nasconde
qualche cosa. Riesco a sapere dall'imputato: per
averla, e nemmeno ci riuscì, vendette di nascosto a
sua madre un po' di patate o di grano. Allora ha
paura che salti fuori questo e lo arrestino comunque.
Perciò dice no e no. E non gli entra in testa perché, se
nega, lo manderebbero in galera.
"Non mi possono arrestare," geme, "non mi possono
arrestare."
Sull'esempio del compagno, non confessa. È chiaro
che lo intriga ciò che è stato fissato nella deposizione,
come può sapere se in quelle parole che non intende,
che non somigliano alle sue, c'è nascosto il tranello.
"Non mi possono arrestare," continua a intestardirsi,
"che ho fatto, io non ho detto niente."
Allora bisogna spiegargli che è una falsa
testimonianza. Ottavo comandamento: lo ripete
come tra sé. Non gli hanno insegnato molte cose, ma
questa la sa. La legge antica, nota, semplice ed
essenziale, a un tratto gli dirada le tenebre. La sua
faccia, ottusa nella negazione, si apre. Quando torna
il Tribunale, richiamato, s'avvicina
umilmente. Di nuovo gli occorre tempo. Finché
escono, malcerte stentate incognite, le parole
magiche della salvezza. "Confermo la deposizione
resa." Anche essi intestarditi con quelle parole. Una
formula ancora priva di significato per lui, è
evidente.
Poco dopo i paesani l'attorniano, gli danno manate
sulle spalle. Ora sa che il Tribunale non gli tendeva
un tranello, ma forse lo sospetta nel linguaggio della
giustizia che ha i suoi ingiusti apriti sesamo. Ingiusti
per l'ignoranza, che non è un reato. Non almeno per
questo povero analfabeta. Rimane con l'aria avvilita.
24 GIALLO IN SEDICESIMO
La negativa su cui si tiene la ragazza è così tranquilla
sicura incrollabile, da mettere in perplessità anche i
giudici. Non è soltanto una protesta d'innocenza, ma
la personificazione stessa dell'innocenza. Sedici anni.
Bionda graziosa schietta, con la tornita levigatezza
del ciliegio.
Quando me la portarono nell'ufficio del carcere, in
un maglioncino celeste come gli occhi, i capelli ben
lisciati lucenti, ne ebbi un senso di fresco e di pulito.
Stava da qualche mese aggregata al reparto
femminile, in convivenza con le adulte omicide.
Serbava l'immacolatezza fisica di quell'età, che ha
un'aria così intangibile. Anche essa accusata di
tentato omicidio, sapevo già la storia dal fascicolo.
Una storia assurda, inestricabile. Non speravo di
ricavarne granché, se mai cercar di capire la ragazza
e, servisse o no, farmi un'opinione del caso. Subito
avevo incontrato il suo sguardo diritto, si era seduta
vicino a me come in visita. (Allo spioncino dell'uscio
la testa della guardiana.) Se esiste l'imperturbabilità
dell'innocenza, indubbiamente la possedeva. A ogni
domanda rispose con calma e sicurezza, senza mai
scomporsi ne titubare. Dissi: Ti hanno scelto un bei
nome, Angiolina. Sorrise schiudendo la piccola bocca
sui denti minuti puri. Fu l'unico sorriso. Era
seria e controllata, davvero molto controllata. Non
l'ho fatto, continuò sempre a rispondere, perché
glielo dovevo fare?
Non c'era in realtà una ragione al mondo,
ammenoché si trattasse di un gioco malriuscito, per
cui la ragazza avrebbe dovuto tentare di strangolare
la cugina, che era anche sua compagna e
amica.L'ipotesi del gioco _ un gioco, a quell'età,
aizzato fino a sconfinare nella violenza inconscia _
non fu presa in considerazione in istruttoria. Ne lo è
oggi in dibattimento.
Nondimeno era cominciato così. Angiolina entra
nella casa, trova dei pezzi di spago, finge di legarci le
mani al bimbo. C'è un piccolo di due anni, la cugina
è sposata. Dice il bimbo: No a me, a mamma. E
Angiolina per divertirlo, ridendo, lega i polsi offerti
dalla giovane madre. Poi le passa al collo un altro
pezzo di spago _ avranno riso tutt'e due _ e
incrociando i capi alla nuca tira da dietro.
Si danno casi d'impiccagione di bambini che non
sono omicidi e di autoimpiccagioni che non sono
suicidi. Proprio io, in casa mia, ho visto un fratellino
preparare la corda col cappio, appenderla a un
gancio, infilarvi la testa stando su un panchetto e
buttar giù col piede il panchetto. Ancora ridevo,
quando arrivarono appena in tempo a sollevarlo
boccheggiante. Aveva voluto provare come si fa a
impiccarsi. Ne io ne lui ci rendevamo conto delle
conseguenze. Sedici anni non sono cinque o sei,
beninteso. Il gioco può diventare ambiguo, scatenare
impulsi, forze improvvise che l'adolescente non
controlla.
"Ma io nella casa non ci sono stata," disse Angiolina.
Lo ha confermato poco fa con le identiche parole.
Infatti la versione non era sua. Lei sarebbe entrata
dopo, insieme agli altri, in quel momento tutti fuori,
accorsi alle grida. Due case rurali isolate e vicine,
case di parenti che stanno sempre insieme. Ancora
qualche giorno prima la più giovane aveva trascorso
l'intera giornata e rimasta a dormire la notte con sua
cugina, trovandosi lontano il marito. Mantenevano la
comunanza di ragazze.
Volli farmi ripetere il racconto da Angiolina e
corrispose perfettamente alle risultanze degli
interrogatori. Essa stessa, piegandole la testa su una
bacinella, l'aveva lavata e disinfettata con l'alcool.
Ecco come si era sporcata di sangue i vestiti. La
cugina presentava ecchimosi ai polsi e a un
ginocchio, al collo un solco dai margini escoriati, le
usciva dal naso e dalla bocca una schiuma
sanguigna. Davanti ai parenti aveva accusato chi la
stava soccorrendo.
"Io mi trovavo in casa mia," disse Angiolina. E lo ha
ridetto qui.
C'era stata colluttazione (una sorta di lotta alla
maniera delle forzute ragazze campagnole?) per due
volte erano cadute una sull'altra e il laccio tirato da
dietro continuava a serrarsi. Mi ricordai anche le
strane frasi nella deposizione dell'accusa. "Non mi
uccidere, ti regalo diecimila lire." "No, ti debbo
uccidere." Incredibili. O seguitava il gioco? "Ma
allora chi è stato?" Angiolina si strinse nelle spalle.
Per la prima volta mancava una risposta. Però non
distolse gli occhi. Aveva sempre parlato con
disinvoltura, speditamente e senza esitazioni. Era
forse l'abitudine agli interrogatori maschili,
carabinieri questurini giudici. Mi domandai quanto
fosse cambiata in quei mesi, nel passaggio da una
casa di benestanti (e intemerati) agricoltori al carcere
femminile. Un passaggio brutale. Ma non potei
cavarle lagnanze, ne manifestava turbamento o
vergogna.
"Che fa," disse, "sono innocente e lo dovranno
riconoscere."
Solo più tardi, ripensandoci, mi venne fatto di notare
alcuni particolari. Mai, della cugina, aveva dichiarato
è pazza, come in istruttoria. Evitava piuttosto di
nominarla. E non aveva minimamente accennato (nel
fascicolo risultava anche questo) che da signorina
altra volta tentasse di suicidarsi.
Nelle fotograne allegate _ di profilo e di schiena _ il
lungo grande turgido collo sotto la scura calugine
della nuca, messo in evidenza dal segno torno torno
del solco, in una posa d'immolazione, la "vittima"
sembrava indubbiamente averne l'aria. Un profilo
inclinato, o meglio incantato, su quello slancio di
cigno robusto, regolare e con l'occhio un po'
visionario. Bella testa in complesso. Da far pensare a
una Giovanna d'Arco. Ma si sa le fotografie.
La vedo adesso, ed è nient'altro che una giovane
campagnola ben piantata _il collo grosso alto e largo
_ forse alquanto eccitabile. Una sposa col marito
lontano, insinua la difesa. La parte civile giudica
simulazione il contegno dell'imputata. Fosse risultato
falso o venisse eluso dall'omertà contadina per tutto
ciò che è intimo, il particolare del tentato suicidio
giovanile non emerge al dibattimento. Non c'è stata
perizia psichiatrica, anche se si è ipotizzato un raptus
dell'una o dell'altra. Vi sono tré anormali psichici tra
i parenti e di stretta parentela comune alle due
famiglie. Ma le ragazze risultano dalle testimonianze
"buone e tranquille," normalissime. Non esistevano
motivi d'inimicizia, di discordia, rivalità, neanche
l'ombra d'un movente.
Alle transenne padri fratelli zii assistono
impenetrabili al confronto delle due cugine e amiche.
Accusa e negativa: precise rilanciate ribattute, inutili.
Viene fatto cessare. La fanciulla è rimasta sostenuta
in una sua fredda innocenza, la giovane ansa come
reprimendo empiti d'indignazione.
Su lei cadono gli strali della difesa. Li riceve con
l'aria d'immolazione delle fotografie, inclinato il
vistoso collo nudo bianco fra le teste maschili dietro
la transenna. Può darsi che non capisca o almeno non
interamente. Mania di persecuzione, si dice di lei, un
accesso di paranoia simulatrice. Sotto gli sguardi, un
po' sbieca, rifa l'occhio visionario.
La difesa ha davvero una freccia al suo arco. Le
fotografìe: Signori del Tribunale, osservino le foto.
Nitido, come segnato a penna, il solco sottile
s'incrocia alla nuca con l'impronta di uno dei capi
chiaramente volta in alto. Ora, se l'imputata
esercitava da dietro una trazione verso il basso,
secondo la stessa accusa, e tanto da tirar giù a terra la
presunta vittima, perché quel segno in alto? Non
condurrebbe, o Signori, a ravvisarvi una posizione di
autostrangolamento? L'avvocato si gira come per
cogliere la simulatrice in un altro momento di
allucinazione. Essa sta tesa col cipiglio. Ma non deve
aver capito.
È difficile immaginare che cosa capisca la parentela
contadina. Mai, in ogni caso, ammetterebbero o
svelerebbero niente, seppure sanno. Giochi morbosi,
erotismo, violenze isteriche, alienazioni, tutte le frasi
degli avvocati, sono fuori del loro abito mentale.
Altrettanto le ragazze: chiunque sia stata e
comunque sia avvenuto o perché, nessuna forza al
mondo potrebbe estrargli dalla bocca una
confessione. Resta la vergogna. Alla quale ciascuna a
suo modo ha tentato di sottrarsi. E la realtà dei fatti.
Esse due sole nelle due case isolate. Una la vittima.
Quando viene concessa l'ultima parola all'imputata,
anziché proclamarsi innocente ribatte con voce
limpida: Ma perché glielo dovevo fare? È altrettanto
inoppugnabile.
Commentano gli avvocati mentre si aspetta la
sentenza. Un vero e proprio giallo. Non se ne poteva
venire a capo. Giallo psicologico, altroché. Da
consegnarsi, incartamento e tutto, a un Simenon. O a
uno psichiatra? C'è chi propende per il cineasta di
thrilling, bei flash-back sulle due versioni
contrastanti. Ma forse siamo già al filone erotico.
Per la sedicenne composta, così fresca e pulita sulla
panca, in camera di consiglio si sta ricorrendo al
compromesso dell'insufficienza di prove.
25 LA METAMORFOSI
Vi erano stati degli approcci tramite terze persone:
mi si assicurava che subnorinale no, non si sarebbe
potuto definirla, assolutamente (parola che evoca
bavagli e manette, catene e camicie di forza) infatti
l'assegnavano a una classe differenziale. Ma la
famiglia, sa i genitori, non si rassegnano nemmeno a
questo e anzi proclamano che la ritireranno dalla
scuola. Avere un figlio in qualche modo anormale è
la più grande sciagura. La bambina piange, tra i
differenziati ha paura, scappa dall'aula. Ritirarla in
casa e nasconderla, si sa come va a finire. Se lei
volesse provare... se accettasse... Accettai.
Me la portarono le sorelle. Alte brune, bocche
smaglianti e cerchi d'oro alle orecchie: in mezzo,
stretta per mano, la bimba bionda restia: sembrava
un rapimento di zingare. Lasciata, non tentò la fuga.
Solo quell'arruffio d'uccello che aspetti di rassicurarsi
per spianare le penne. Via via le spianò alla voce,
serbando confuso lo sguardo tra le ciglia chiare come
una calugine, e sorrise. Ma restò muta. Non parla
non parla, gridarono le due ragazze con una specie
di amaro trionfo.
Assai riuscì gradito il mio eufemismo di bambina in
ritardo. Venne l'intera famiglia a sentirselo dire.
(Erano abituati ai "un po' deficiente" e peggio.)
Tutta gente alta bella e loquace, d'impetuosità
popolaresca. Grande lei pure, tanto si era attardata
nella prima classe da crescervi. Piccola figurava
vicino ai suoi, superava le compagne di tutta la testa.
Un testone ricciuto, piuttosto rosso che biondo,
molto cruschello per le guance lattiginose, l'aspetto
mansueto e l'aria assente. Mostrò sempre una
sconfinata docilità. Purché non le si chiedesse di
parlare. Cadeva allora in un tale stato confusionale
da rispondere a casaccio perfino il sì e il no. Per mesi
non sentii la sua voce che a monosillabi, ma
consentiva alla mia con un vibrato assentimento di
tutto il corpo. Dacché glielo chiesi scrisse sottilissimo
da non distinguersi, era illeggibile e tremolante.
Lasciai che copiasse dalla vicina _ a copiare alla
meglio riusciva _la lasciai tranquilla a fare ciò che
poteva. Non sembrò più così sfiduciata di se stessa.
Prese a rispondere alle mie caute sollecitazioni, non
ancora con la voce, ma entrando in uno stato
emotivo di ascolto, quasi un divincolarsi dalla
propria ottusità. Non si sciolse. Mai ebbe neppure
certe irrequietezze stordite dei bambini anormali che
sembrano mosche contro un vetro.
Col tempo l'ho vista, come un maschio, allungare
braccia e gambe sgraziatamente. I capelli d'un
ricciuto crespo all'attaccatura farsi aridi col lionato
un po' selvatico di criniera. Una di quelle crescenze
su cui la carne sembra rinchiudersi. Veramente un
essere inarticolato e perfino senza sguardo. Che fosse
miope le esuberanti sorelle non volevano ammettere.
Pure questo, Gesù! Ma certo stringe, la bambina
guarda male, un po' la sfigura. Esse sgranavano
enormi occhi bruni a fior di pelle, deboli e raggianti.
L'occhiale, Gesù! Non glieli fecero.
Ma a casa parla?, domandavo. A casa era svelta in
ogni servizio, anche parlava, non filato però parlava,
un discorso non lo connette, parla a sbalzi,
ecco. Infatti scriveva a frammenti. Però scriveva. Le
sue due promozioni consecutive sono state la gloria
della famiglia.
Per due anni la grande rossa ha circolato goffa e
muta fra le piccole, accostandosi a me con uno
scambio affettivo che sembrava verificarsi per
osmosi. Qualche facoltà d'espressione la rivelò nel
disegno, ma non ho potuto capirla che più tardi. La
lasciai disegnare quanto volle in un suo album e sul
banco tutte le erbe stecchi fronde fiori che portava.
Non era una copia ma una interpretazione, benché
altri li giudicasse scarabocchi, così tremolanti. Sotto
le lunghe dita incerte, gemme e corolle su un
ramicciolo acquistavano nonsoché di vivo in moto,
rampante, stacchi di elitre, aperture d'ali. Pensavo io
stessa al tremito delle mani, a un arruffamento del
segno. Ma si esprimeva, con quelle dita. Non fui
capace di lasciarmi raggiungere subito da una così
arcana parola.
È stata lei a trovare la strada. Un giorno mi tende
uno scatolino, l'apro, vedo sull'ovatta tré piccole
forme strane come segni cabalistici: un ovino molle
translucido, una piumetta celeste, un cadaverine
secco non più grande d'un'unghia: tré cose di uccelli.
Essa annaspa con le labbra dimenandosi. Capisco che
mi presenta una storia, addirittura un romanzo, che
sta per narrarmelo. Così ha cominciato a parlare.
La casa delle belle ragazze era piena di pappagallini
e canarini, nessuno me l'aveva detto. Piene di gabbie
anche le camere. All'alba inizia il chioccolio: sotto la
copertura hanno sentito la luce. Sssst, gridano le
ragazze sonnacchiose e gli uccelli si zittiscono ma per
ricominciare immediatamente. Bisogna svegliarsi. La
bambina condivide col padre questa passione, è lei
ad alzarsi per prima. E degli uccelli sa tutto, degli
uccelli può parlare senza fine. Racconta come si
amano il pappagallo e la pappagalla
marito e moglie. Come si carezzano con l'ala si
baciano col becco. Come sul più bello litigano
montandosi e rizzando le penne e scotolando nella
presa. (Sono rimasta incerta se dire che fanno
l'amore, uno spettacolo di violenza a cui rimarrebbe
collegato l'atto amoroso, violenza e sopraffazione.)
Le altre intorno a sentire. Incurvata, la rossa batte i
gomiti e scuote i fianchi. Riconosco l'aria di grande
uccello, il suo mimetismo. E capisco i disegni
anch'essi mimetici, forme di volo imprigionate negli
stecchi.
Furono due le covate infelici di quel periodo. Una
ebbe gli stessi ovetti translucidi, pellicola senza
calcio. Era dei canarini. I minuscoli feti lei li essiccava
tra due pagine del libro come le scolarette
conservano i fiori. La pappagallo della coppia
giovane tenne invece per due giorni e due notti
l'uovo di traverso.. Una gallina a cui capiti
l'inconveniente si usa chiuderla in un sacco e
rotolarla per le scale, così l'uovo si raddrizza. Io non
giuro su questa cosa, ma sembra che trovi conferma.
Comunque alla delicata pappagalla dolorante e
gemente, il padrone mise gocce d'olio con una
siringa da iniezioni e la natura ebbe il suo corso.
All'alba si udirono strida: il pappagallo piangeva la
sua compagna morta. Piansero le ragazze e la madre,
pianse il padre con la piccola. Poi cominciarono
nuove covate in ogni gabbia.
Le storie di questi uccelli, narrate a voce e in
pantomima, venivano tradotte in evanescente
scrittura sul quaderno e corredate di pennucce
multicolori, spoglie secche di canarini, pellicole
d'uovo. Sarebbe piaciuto a Leonardo, benché tale
nome _ e qualsiasi altro libresco _mai avesse potuto
trovar luogo nella mente labile della bambina.
A un tratto la colse una gran febbre. Vennero a dirlo
le belle ragazze, in lacrime, scuotendo i cerchi
d'oro: non si sa che sia, giace debolissima, forse
muore. Durò tre settimane. La riportarono con sorrisi
smaglianti accennando al qualcosa di straordinario, e
normale, che era accaduto. Tolti i capelli, brevi ricci
facevano esigua la testa. Il collo lungo, smagrito il
viso, spigata la persona, da dover io alzar gli occhi a
guardare la mia scolaretta. Ebbe un sorriso più
aperto e lucente come le sorelle, una bocca rosa
femminile.
S'è sciolta, subito apparve snebbiata. Aveva l'aria
affranta ma chiara. Una chiarezza da bimba piccola,
pur essendosi svegliata così grande. Bisognava
riprenderla con le sue storie di uccelli. E ne aveva.
Ha raccontato dei canarini nati bene in gabbia. Il
babbo con pazienza mette a questa covata un segno
per riconoscimento, a ciascuno un anellino di metallo
alla zampa. Invece padre e madre non hanno voluto
questo. Mentre non si badava, loro beccano per
liberarli, beccano beccano alla cieca, pelle occhietti
ventre, staccata la zampa prigioniera, uno scempio.
Tutti morti a brani i piccoli e gli anelli nascosti sotto
il becchime. La storia, epica, s'è aggiunta alle altre,
con la stessa scrittura malferma. Ancora tremano, se
le spiega, le grandi mani.
Nulla peraltro sembra essersi aggiunto al mondo di
favola della ragazza. Un mondo che non può
turbarla perché non lo interpreta consciamente. Ed è
una ragazza di quattordici anni, che lascia il suo
banco di scolara per la vita. Pensare che cosa potrà
introdurvela, svegliarla del tutto, renderla adulta.
È stato facile pensarlo, gli ultimi giorni. Inclinata con
mollezza, la testa impicciolita, con la grazia di un
uccello che si appollaia. Piegandosi sul quaderno
mostra il latteo di un collo alto dalla radice tenera.
Una gamba nuda altrettanto candida messa fuori per
traverso. Ed è imbiondita, quel fulvo carico d'oro. Poi
la sorpresa dello sguardo. Una volta che si leva, si
apre, che resta aperto, che i miopi occhi
si allargano alla luce tranquillamente, grigi
dolcissimi. Senza vedere molto, pure la bambina ha
aperto gli occhi.
26 IL MORSO
L'ultimo imputato della mattina non dimostra
neanche quattordici anni. È tutt'occhi. Passando, in
corridoio, nonostante la poca luce, avevo colto la
somiglianza con la madre e la sorella. La ragazza
maggiore e più fatticcia. Entrambi hanno occhi
bellissimi e vivissimi che sfavillavano al buio. Alla
luce incerta dell'aula con le lampadine accese, lui
mostra un incarnato bruno a macchie che non sono
di peluria. È la pelle prematuramente sciupata
all'aperto, sole freddo pioggia, riconosco la testina
cotta del ragazzo pastore.
Deve rispondere di lesioni gravi alla sorella con
deformazione permanente. Vengono chiamate anche
le donne. Cerco nella giovinetta, senza trovarlo,
qualche segno visibile. È belloccia, enormemente
capelluta, col crespume che scende ampio e spesso ai
lati del collo come in un bassorilievo egiziano. Essa
alla transenna, il ragazzo alla panca, un momento si
guardano con vaga bellicosità, e lui infine da lontano
le ride.
Non è stato ancora detto o mi era sfuggito, sento
adesso del morso. Catelli Giuseppe risponde davanti
al seggio presidenziale, con le spalle perdute in un
giacchettone da uomo e ricciolini teneri alla nuca.
Risponde stentatamente nel suo dialetto aspro che
non si riesce a interpretare. Ha morso la sorella. Dice
che aveva fame. Qualcuno ride.
La madre sta a guardarlo corrugata da lontano, a un
tratto chiama forte: Peppì. Sbigottisce che tutti
intorno le facciano segno azzittendola e si
riaccartoccia. È una donna rinsecchita, col tuppetto in
cima alla testa da cui sfuggono cernecchi grigi. Una
misera donna di campagna, timida umile e
fervorosamente tesa al figlio. Reagisce con un urto di
gomito, senza distogliere l'occhio da quella schiena
nel giacchettone, all'avvertimento della ragazza che
la sovrasta di tutto il capo ricciuto.
La storia è d'un litigio tra fratelli come ne avvengono
ogni giorno nelle famiglie. Questi due sono i primi di
otto che la madre tira su andando a opera nelle terre
altrui. La femmina (così essa dirà sempre
nominandola) bada alla casa e governa i fratelli. Il
maschio (con che tenero rispettoso accento
pronunzia) va a pascolare. I ragazzi escono dal paese
la mattina dietro un branchetto di pecore, già
mordendo il grosso pezzo di pane che costituisce il
pasto di buona parte della giornata. Quel giorno
Giuseppe uscì senza perché in casa non ce n'era.
Tornò indietro e ancora la sorella non sfornava.
Litigarono. Voleva pane, voleva mangiare, come un
tafano le si mise attorno, l'assillò, strepitò, disse
"male parole".
Ora è la ragazza davanti ai giudici e ammette, con
certo impeto di contadina forzuta, d'essere corsa
dietro al fratello con la scopa, di averlo buttato per
terra. "Eh, non mi vince." Si ride. L'imputato anche
lui abbozza una smorfia nervosa, fissando la sua
antagonista sulla pedana. La madre scuote i
cernecchi, giunge le mani, poi ne alza una come a
scuola per chiedere permesso. Non le si concede di
parlare. E lei, gemendo: È un buon figlio.
Catelli Giuseppe risulta buon figlio. Già si guadagna
la vita pascolando le pecore di qualche vicino e
riporta a casa fino all'ultimo soldo. Le informazioni,
che la donnetta travagliata ascolta leggere
con stupore, dicono appunto questo. Anche dicono _
e possono sentirlo tutti _ che il padre, pregiudicato,
fu un violento. La donna tende l'orecchio, raggrinza
la pelle alle tempie in un doloroso riandare al
passato, a una vita rassegnatamente prona alla
soperchieria maschile. Ma lui è un buon figlio, ripete
come tra sé.
Si ordina alla ragazza di mostrare il segno del morso
e docilmente solleva da una parte la massa dei ricci
pretendendosi. I giudici si sporgono, guardano senza
espressione. Sulla panca l'imputato stira la bocca
come se ridesse. E poi, tornando indietro, tranquilla
compiacente, un po' infatuata, nel passare vicino al
tavolo degli avvocati, la ragazza rialza il lucore
crinoso dei capelli e mostra l'orecchio. Sulla guancia
soda fresca accesa, non ne resta che un avanzo
contorto, un carnicchio rattrappito. Si pensa al
momento che un giovane contadino, volendola
baciare incontrerà sotto la ricca elettrica capigliatura
quello sfregio.
" Ecco, " dice la madre allargando le braccia, "vado a
sfaticare e dopo a casa trovo questo." Nessuno la
zittisce.
Mi viene in mente uno scolaro che ebbi i primi anni
in montagna. Là tutti andavano con le pecore e anche
lui così piccolo. A scuola venivano a tempo di
nevicate Un giorno arrivò dalla valle il prete, un
pretino pieno di zelo, e raccontò la parabola della
pecore la smarrita, molto affannandosi in spiegazioni
e considerazioni. Si perse in troppe parole, l'insieme
non riuscì propriamente chiaro. Alla fine, nel
profondo silenzio, più che altro stupefatto, volle
indagare se avevano capito. Domandò a uno a un
altro, ma continuavano a guardarlo senza
rispondere. Hai capito? Che avresti fatto tu? E tu? E
tu? Chi è che ha mai perso una pecorella? Alzò il
braccio quel piccoletto e su lui conversero le
incalzanti domande. Dunque tu lasci il gregge, vai
dietro a
quell'una, la chiami, la invochi, la cerchi pungendoti
ai rovi, calando nelle forre, perdendo brani di pelle,
sanguinando contro le rocce... E poi la trovi e
l'abbracci stretta e ... Ma che faresti dunque tu?
Scoprendo certi robusti dentini di latte un poco
digrignanti, il pastorello disse: La mozzicherò alla
recchia. E poi seppi che effettivamente, quando una
indisciplinata bestia gli dava così da fare, una volta
ritrovata lui per rabbia la morsicava a un orecchio.
Guardo Catelli Giuseppe sulla panca e mi pare che
somigli a quel bambino pastore. Ne ho conosciuti
tanti, so che significa, stagione per stagione, ogni
giorno, dall'alba al tramonto, far rimanere in
campagna ragazzi soli con le pecore. Può venirne
fuori l'apparizione di Fatima o un po' di Sodoma, il
primo coito, anche le pecore sono femmine. Sulla via
di mezzo questo Peppino che come una bestiola
morde.
Lo hanno richiamato in pedana, con bonomia
cercando di rendersi conto d'un atto forse più
impulsivo che feroce. Semplice istinto o violenza
ereditaria? C'è quel padre pregiudicato...
"Che cosa volevi mordere?" domanda il presidente.
Il ragazzo non sa, dice che s'avventò e ritrovandosi in
bocca qualche cosa la sputò per terra.
"Ah, non l'ha mangiata," esclama il pubblico
ministero. Si diffonde nell'aula un'aperta ilarità.
Infine lo perdonano. Prima della madre ha capito la
sorella e non appena i giudici si muovono corre a
baciarlo. Egli resta inerte. Lo riprende alle labbra
quel tremolio. S'avviano in gruppo coi testimoni per
andarsene, incagliandosi nella porta stretta.
Faccio in tempo a vedere, impazientita per l'indugio,
la ragazza manesca spingerlo dandogli addosso
secchi rapidi colpi. E lui voltarsi di scatto, appuntito
il profilo scuro, come i ragazzi nell'impulso di rifarsi,
nell'ira facile del litigio.
27 GLI ULTIMI MANSUETI
Se ne stavano nell'angolo buio a lato dell'uscio
chiuso. Una bimba e una donna. Alla bimba hanno
brillato gli occhiali. Dentro l'ufficio le riconosco, le
stesse dell'anno scorso. Vengono a piedi da una
frazione. Riconosco anche il fango della contrada, la
terra argillosa di certi viottoli che alla pioggia si
sfanno sotto il passo e con la neve diventano
impraticabili. Ma non ha ancora nevicato. Madre e
figlia in abitucci scarsi, la madre vestita di nero con
gonna e corpetto, molto linde, al modo della gente di
campagna che si potrebbe definire riguardoso. In
città, per recarsi a postulare negli uffici di assistenza,
spesso si conciano alla peggio e preparano discorsi
lamentosi o arroganti.
Questa dice: Bongiorno signoria e scusate tanto. Poi
spiega il suo bisogno: la creatura non ci vede più. Mi
ricordo, le erano stati assegnati gli occhiali, per la
prima volta con otto diottrie. (Si era presentata
dicendo: la creatura è cieca.)
La creatura se ne sta quieta con le braccia lungo i
fianchi e i piedi uniti, le scarpette crostose come in
posizione di attenti. Spronata dalla madre, avanza
rigida qualche passo verso la finestra per lasciarsi
guardare alla luce. Ho l'impressione, curvandomi,
che smetta di respirare. Dietro le lenti i suoi occhi
sono rimpiccioliti e inerti. Non ci vede più, ripete la
madre umilmente.
A volte cercano di ottenere qualunque cosa sia
gratuita, farebbero persino delle iniezioni inutili
(l'aborrita "puntura") esigono estrazioni di denti e
protesi (che poi gli uomini tengono nel taschino)
avanzano ogni sorta di richieste per ciascun membro
della famiglia, mentendo sul proprio stato di
indigenza. Ma non se si tratta di occhiali. Contadini e
popolani malvolentieri s'inducono a confessare una
simile necessità, tanto meno le donne, guai un figlio.
Per le femminucce un imbruttimento e un disdoro,
tali da precludere il matrimonio. Non è raro che in
conseguenza del difetto alla vista si cerchi di avviarle
a farsi monache. Eppure non si sa mai quale ente
assistenziale debba provvedere a questo disgraziato
bisogno, non risulta previsto da nessuno.
La bambina abbassa il capo tirandosi indietro. Così
esposta, i capelli a trecciole che scoprono una faccia
larga nelle stanghette, con quello strumento sul naso
sembra vittima d'una immeritata vergogna. La
madre ha l'aria di attribuire questo difetto da gente
istruita, di cui la sua razza è immune, appunto allo
studio. Essa è analfabeta.
Non nega di possedere casa e un po' di terra, il cubo
di pietre soprammesse e le terricciole tutte sassi delle
nostre parti, che se paghi la fondiaria e ti si aggiunge
un'altra disgrazia, una malattia, non riesci più a
comprare il sale. Si fa per dire, una volta il sale era
l'unica spesa viva del contadino. Oggi magari si
vestono ai magazzini in città, i tempi cambiano.
Ricordo quando dalla stessa contrada scendevano a
vendere cicoria e more di siepe, calzando polacche di
vacchetta imbullettata che pulivano col nerofumo.
Per venire, si viene sempre a piedi. M'informo se
hanno avuto la luce elettrica e risponde che non
ancora ma i giornali ne parlano. Certo i tempi sono
cambiati.
Vedremo se sarà possibile far concedere gli occhiali
nuovi. Vada intanto dall'oculista per la visita.
Ci ritroviamo un'ora dopo in farmacia, occorrono
anche ricostituenti. Uscendo la donnetta cerca di
rimanere qualche passo indietro per riguardo, ma
capisce che voglio parlare e si mette a lato. Tiene
però indietro la bimba, rasente le gonne con una
mano come si reprime un cucciolo. Eh no, non
mangia, rifiuta la minestra. A lei necessiterebbe la
carne, ma noi giornalmente si fa minestra. E pane. La
bimba mangia il pane. Frutta no non ne abbiamo, è
terra dura che porta mandorli e le mandorle si
vendono ci pasticcieri. Anche qualche uovo si vende
al mercato.
Dall'ottico la commessa ci riconosce, o forse
riconosce i suoi occhiali. Prende il fogliettino giallo
con la misurazione della vista e si stupisce essa stessa
di undici diottrie. Anche la montatura in un anno s'è
fatta piccola. La bambina che annaspa viene messa
su uno sgabello. A occhi nudi sembra cieca davvero,
non legge ai tabelloni la prima fila in basso di lettere
così corpose, non vede niente. Poi col susseguirsi,
cambiare e sovrapporre dei vetrini tondi in prova,
comincia ad acquistare un'espressione, vaga e
ansiosa. A mano a mano che riesce a mettere a fuoco,
si rischiara, s'illumina, muta fisionomia. O meglio
recupera la sua. Senza più timidezza, attenta
tranquilla sicura, pronuncia i sì e i no. Con le lenti
giuste legge bene le lettere più grandi. Nella scelta
della montatura, benché non osi far sentire la voce,
interviene alla cieca, tutta protesa al banco con un
ditino puntato verso ciò che maggiormente lustra.
Sono stata ad aspettare _usciamo di nuovo insieme _
avendo incarico di avvertire la donna che un
altr'anno non ripeta la richiesta. È talmente felice che
non sembra aver udito. Rosi, dice a ogni passo,
Rosi hai la luce. Ma poi risponde grazie e un "Dio
provvede" gentile e sereno. So che, lasciandoci,
tenterà di baciarmi la mano come l'altra volta, com'è
antica usanza contadina di ringraziamento. Io, o
l'ufficio, chiunque o comunque, per lei impersona la
Provvidenza. Sulla quale non si fanno ipoteche
perché interviene sempre al momento giusto, ne un
istante prima ne uno dopo.
Mi piace questa donnetta fiduciosa dagli occhi vivi di
gioia e di buona vista. Si è rimessa a lato, pronta a
soddisfare ogni domanda. Cinque figli, sì, il
maggiore di tredici anni. E comincia ad aiutare, sì,
porta le pecore al pascolo. Due pecore e un pecorino,
dice dolcemente. (Esprime più tenero e più riccio,
quel pecorino.) Già, pure l'agnello è fuori stagione, al
mondo si nasce. Il suo ultimo ha pochi mesi.
Allattava il bimbo di un anno e mezzo _ per tirarlo
un po' più avanti senza spese _ quando s'accorse di
essere incinta. Non domanda, come tante altre,
rimedi per evitare o sconciare le gravidanze.
Mi viene fatto, quasi senza volerlo, di pronunciare le
parole che si dicono nei paesi da queste parti: i figli
sono provvidenza. Ma forse è un uso comune nelle
campagne, o meglio una fede consolatoria. Essa
racconta che negli uffici gli uomini sono bruschi, ti
rinfacciano sempre ma perché ne fai tanti. E ride
confusa, è una confusione mentale. Capisco quando
aggiunge: A noi ne vengono tanti e ai signori no. Una
semplice constatazione. L'ha detto, per inverosimile
che possa sembrare, con assoluta semplicità e
credulità. Davvero è convinta che Dio li mandi.
Ha continuato a reprimere un po' indietro la bimba,
che sguscia da sotto la mano materna per lanciarmi
qualche sguardo. Ora ci vede, ha la luce. Un bei paio
di occhiali, buona misura, non le stanno male. E non
ha più quell'aria d'innocenza offesa.
Esortata a mangiare la minestra, annuisce rossa
rossa. È una bambina graziosa, sveglia e
precocemente sensibile come tutte le creature umane
provate da qualche infelicità. E anche questo, se lo
sapesse pensare, sua madre chiamerebbe
provvidenza.
28 TACCUINO DELLE UDIENZE
Due spilungoni diciassettenni: violenza e rapina. La
prostituta, anzianotta, carne frolla, gambe nude
violacee, uno sfogo alla bocca. Denunziata più volte
per adescamento e libertinaggio. Si fa il segno della
croce verso il Crocifisso.
P: Quanto avevate chiesto per le vostre prestazioni?
Avevano trecento lire fra tutt'e due, le voleva da
ciascuno. Tariffa? In un fabbricato in costruzione,
dopo andati via gli operai. "Lavorava" lì? Prima
Luigi, e Nicola a guardare. Col secondo si rifiutò. Le
ripresero i soldi "dal seno" e la picchiarono.
Nicola giura di aver detto la verità _ segno di croce
anche lui _ non l'ha picchiata, rivoleva solo le sue
centocinquanta lire. È un bietolone coperto di stracci,
timido e dolce con patetici occhi. L'altro, messo un
po' alla guappa, si tira su i pantaloni prima di sedersi
badando alla piega. Disinvolto, sicuro, sfrontato.
Esperto della vita. La madre fuggì di casa. Fratelli da
cinque anni ricoverati in correzionale: a Pisa Urbino
L'Aquila. Si adonta a sentirlo leggere forte. Spalluccia
e sputa. Che lo mandino dove vogliono, per questa
troia bugiarda, all'inferno. Duramente ripreso,
scoppia in un pianto secco.
Implora di essere riunito ai fratelli, tutt'e quattro
almeno insieme, quattro disgraziati. Invece
perdonano.
La bimba di una prostituta dalla quale andavano i
padri: stenderla, alzarle la vesticciola, accavalcarla
con tutte le mutande per fare non sapevano bene che
cosa. Gliele hanno date di santa ragione, non poi
santa e non proprio ragione se a malapena
nascondevano una certa fierezza per la precoce
virilità dei figli. Bambini. Non imputabili per l'età.
Colto il discorso in corridoio fra due uomini.
Atti innominabili (ma si nominano
abbondantemente). Il bambino è diventato grande e
l'imputato uomo. Sposato. Si vede la fede mentre
s'asciuga col fazzoletto le mani tremanti. Perdonano
oggi il ragazzo.
A tredici anni ricoverato in osservazione, tré anni fra
Urbino e Bologna. Era in licenza di esperimento,
tornerà dentro assegnato con suppletiva. Discolo, ha
progredito nel crimine. Minaccia la madre con un
trincetto se rientra tardi e non trova il letto caldo. (Le
camerate gelide degli istituti.) Sveglio napoletanino,
parla in lingua _ permette signor Presidente, scusi
l'ardire signor Presidente: qualcosa dentro ha
imparato, l'ossequio al potere. E, secondo il suo
patrono (d'ufficio) non si è del tutto snaturato se gli
piacciono le femmine. Le donne, si corregge a un
gesto severo del PM. Maltrattamenti a entrambi i
genitori. Il padre ha scapole puntute, espressiva
faccia da gobbo: disoccupato. La madre, spettrale
come scarnificata : serva. Vuole servire anche il
figlio, ha diritto. Entrambi negano i maltrattamenti.
Assolto per non averli commessi. Ma non glielo
lasciano riprendere. Figlio mio perso, grida la donna.
Un piccolino grazioso delicato, timido fino alle
lacrime, non riesce a parlare. Grande atticciato,
vergognosissimo il colpevole. A domande precise
circostanziate incalzanti, risponde con un grido : È
stato il diavolo. (Penserà sempre al diavolo anche
con una legittima moglie.)
Lesioni gravi all'amante della madre. Da cinque anni
li teneva sotto la minaccia delle sue violenze.
Arrivava sempre "bevuto". Ubriaco picchiò la madre,
lui intervenne, preso alla gola colpì. Informazioni:
era l'unico in casa a lavorare: tre fratelli e tre sorelle.
L'amante, un vecchio con folti capelli bianchissimi "
ma poi la faccia è sorprendentemente giovane _
ammette tutto: me la facevo con la madre di questo
qua ma non per forza, dice che lo mandava a
chiamare dai figli piccoli. Bellissimi figli. Anche lei
serba tracce di notevole bellezza.
I due ex amanti si guardano come se non si
conoscessero, come se non fosse mai avvenuto
niente. Sono passati sette anni, spente le passioni.
Tranne forse che nel ragazzo ora maggiorenne. Non
si procede per mancanza di querela.
Bambina di nome. Occhio chiaro lucente cigliuto,
profilo infantile, corpo denutrito senza forme. Veste
stracci. Ha l'aria incantata. "Modica deficiente"
(perizia).
Il giovane, alto ossuto spigoloso, sopracciglia nere e
spesse, scuote la testa, alza un dito a toccarsi la
fronte. Gli s'impone di astenersi. (Dal fascicolo: un
compagno: Come ti si riscalda il sangue davanti
a una scema.) Saranno comunque gli avvocati _ ne ha
un collegio, la famiglia è facoltosa _ a sostenere
debole di mente, scarsa intelligenza, a ripetere
deficiente. Bambina sembra capire, trema e sussulta.
In un fondaco aperto con steccato, dove il padre
straccivendolo depositava la "mercé". Su quella
mercé. Promessa di matrimonio se sta zitta, minacce
se parla. Quando la portano dal medico è incinta. Il
padre querela.
Vecchio, bocca incavata per la completa assenza di
denti. Tiene nelle braccia il bimbo. Una minuscola
creaturina coperta di straccetti colorati. Hanno
infamato la figlia, testimoni falsi, che si faceva pagare
cinquanta lire.
Dalle persie : non adusata al coito, probabile unico
coito. Parte civile: con chi? Si ottiene l'insufficienza di
prove.
29 LA CORDA
Incontro al parco la fila dei bambini già radunati, con
la monaca che s'affanna. Sembra una fila di ubriachi.
E’ la monaca giovane che mi portò Elio a metà
d'anno. (La "primella" degli ormai discriminati,
segregazione razziale, gli apolidi della scuola.) Lo
cerco con gli occhi e lo trovo. Inaspettatamente mi
sorride.
Dalle vacanze nessuna testa in quella fila amorfa
s'era girata con qualche segno di riconoscimento,
come se non ci fossimo mai visti. Svagatissimi. E di
nuovo estraniati. Pochi mesi di comunanza, poche
ore al giorno e sempre insieme fra loro: risultato
scarso, deperibile. Sono i caratteriali di nascita, i
disadattati per allevamento, c'è da temere che restino
differenziati per tutta la vita. O forse _ cercavo di
spiegarmi _ negli abiti estivi, occhiali da sole, così
passando realmente non mi riconoscevano? (Io pure
stentavo a distinguere i miei nel mucchio.)
Ora lui sì, e viene fuori dalla fila con quella sua aria
d'indipendenza non ancora soggiogata. Anche la
monaca schiude la bocca dai denti grandi sani di
contadina, ma procede, anzi viene trasportata,
lasciandoci indietro. Elio è dimagrito e nero, li
conducono al sole, lui però non alligna. Ritrovo lo
sguardo allucinato degli occhi enormi. Mi avevano
colpita subito, occhi di uccello notturno, rotondi
dilatati con uno scintillio giallo. E come li teneva
fissi, fissi nei miei senza battere ciglio, anche se
blandamente lo rimproveravo, in un silenzio
inespugnabile. È così che sta guardandomi. Ma di
nuovo ci sorridiamo.
In principio qualche volta mi risentivo dell'ostinata
fissità e del pervicace mutismo. Non c'era verso di
cavargli una parola, ne delle lezioni _che d'altronde
mai sapeva _ne per leggere o ripetere qualche cosa,
nemmeno di giustificazione anche quando avrebbe
potuto giustificarsi. Un rifiuto irremovibile.
Sembrava provocare. Mi aveva sempre placata in
tempo l'impressione di quelle sue occhiaie, due
solchi scuri, ben girati come una ditata nell'orbita
tenera cedevole di bambino. Un'impronta dolorosa.
Nel banco passava di colpo dalla più fastidiosa
agitazione a una sorta d'immobilità incantata. Stava
lì come un meraviglioso scolaro modello (un
manichino, secondo l'idea comune dello scolaro
modello) che pendesse dalle mie labbra. Ma senza
recepire. Intermittenze d'umore e di capacità lo
rendevano pochissimo maneggevole, con sorde
lacune e sprazzi sorprendenti. Mancava di assiduita
in ogni senso, mancò anche nel banco. È a letto in
punizione, dicevano i compagni. Avevo mandato a
chiamare la suora.
Si lagnò molto di Elio. Non era la giovane, ma una
smunta vecchia dall'aria stanca sopraffatta. Sono
difficili, apatici e turbolenti nello stesso tempo, sono
cattivi (al solito). Non disse, come altra volta, figli del
peccato, in un certo senso scagionandoli. Anzi
abbassava la voce rendendosi conto che qualche cosa
mi era dispiaciuto anche questa volta. Del resto Elio è
regolarmente orfano di padre e di madre. Orfano di
guerra, per così dire ritardato, il padre essendo
morto in tempo di pace a seguito
di deterioramento da lager. Io dovevo osservarle, con
qualche imbarazzo, data l'ignoranza della vecchia
monaca in materia, che la punizione di una giornata
a letto era un grosso errore. Pedagogico, aggiunsi
stupidamente. Quella semplice disarmata donna non
aveva altra preparazione che la carità, come regola
astratta. I giochi solitari dei bambini si riducono al
proprio corpo. Non capiva, o finse, oppure rifiutava
di parlarne. Non ebbi coraggio di affrontare allora
l'argomento.
Elio era, all'istituto come a scuola, insensibile a ogni
autorità, e a qualsiasi punizione. In forma del tutto
passiva, l'invincibile passività che conoscevo. Lo
compativano, si capisce, ma bisognava pure
castigarlo qualche volta... per l'esempio... Non si può
nemmeno dargli una piccola correzione, gli altri solo
alla vista... (di che?, sorvolò)... si mettono a strillare
come aquile, lui si lascerebbe ammazzare... Lo
compativano per la sua triste storia di orfano a quel
modo. Orfano di padre e sarebbe poco, ma la madre
si era per giunta impiccata sotto i suoi occhi. Allibii.
Non si sa, spiegò la monaca, che effetto le facesse la
perdita del marito _ chi non ha per sposo Gesù... "
poi aveva subito bombardamenti l'occupazione tutta
la paura e miseria che ne venne. S'era stranita, si
vede. Così, un giorno caccia fuori dell'uscio il
bambino, lega la corda a una trave e s'impicca. Lui
sente la sedia picchiare in terra _ essa l'aveva tirata
via col piede _ rientra e trova la madre
boccheggiante. Pare che, gridando, si appendesse alle
gambe, i vicini la trovarono morta.
Prendo Elio per mano, la sua manina rustica e
nervosa. Mi guarda un po' stupito ma non la ritira.
Gli sembrerà buffo essere condotto in pubblico per
mano, m'accorgo che nascostamente ride. E
avviene una strana cosa: si mette a parlarne. Mai a
scuola gli avevo domandato, ne lui accennato alla
sua vita di prima, di fuori. Come se fosse stato
sempre rinchiuso. Se indagavo: ti trovi bene?, lui sì
con quella sbarratura d'occhi, mentendo. Sapeva che
io capivo, ma continuava col sì sbrigativo di chi non
vuole crearsi fastidi o sa che è inutile. Anche quando
scoprii sotto la sciarpetta il segno rosso e la glandola
gonfia e sospettai (era) una cinghiata, negò. Se
rispondeva con la bocca, altrimenti un cenno della
testa. O niente, nelle sue giornate mute.
"La corda dei panni," dice. E alla mia occhiata
sorpresa: la corda per "appiccare" i panni lavati.
Scandisce la parola con certa maliziosa intenzione,
come se si fosse sempre accorto del mio desiderio
indiscreto al sapere, di sentire, e stesse finalmente
appagandomi, alla maniera di un adulto. "Ma tu,"
dico, "dove stavi?" " Stavo fuori la porta col cane. E il
cane abbaia." Riguarda per traverso, gli occhi in
prospettiva ovale deformati da specchio convesso.
Non mi stupirei se allungando la testa come una
bolla di sapone, aggiungesse che sua madre gli
cavava la lingua. Invece: "La sedia sbatte, rientro, e
stava appiccata." Mi riprende la mano senza
proseguire. È il racconto delle monache, degli altri
_tranne il cane abbaia _ quello che ha sentito e
risentito, non il suo. Capisco che non vi partecipa
più, con un trasalimento dentro. Possibile che vi sia
nei bambini, nella natura umana, tale forza di
recupero da cancellare tutto, tutto? "Ma perché," mi
sfugge. Voglio accertarmi. "Mica la facevo arrabbiare
io," dice a un tratto senza quella montatura difensiva
e quasi insolente che s'è impressa sulla faccia, "era
zia Carmela." Spiega che con la cognata litigavano
sempre, s'inquietava. Ecco perché, conclude
persuaso. Non si
ricorda del padre morto, non sa della guerra bombe
paura miseria, ma solo le liti con zia Carmela. C'è
dunque questa provvidenza per i bambini: qui la
tragedia sembrerebbe risolta in una specie di ruolo
che assume, una recitazione di personaggio minore
nel racconto che fanno di lui e dal quale s'è ormai
staccato.
La fila sta abboccandosi nella porta dell'istituto, la
monaca non si volta. Ultimo Elio si rigira a
guardarmi. Ancora i suoi occhi tondi cerchiati mi
stringono il cuore. No, non è che dimentichino, i
bambini in un certo senso non dimenticano niente. Se
anche non sanno più, tutto è però entrato nella loro
sostanza, la memoria si trasforma in sostanza umana.
E da grande, senza ricordo, Elio sarà pure fatto di
quello che ha subito.
30 IL FUCILE
L'effetto che produce la sommaria descrizione del
reato è brutale : sparò senza motivo su un bambino
cavandogli un occhio.
Giovinottello di paese, troppo grande a prima vista
per questo tribunale, anche se i campagnoli, appena
messo un po' di barba, figurano adulti. Ma poi si
chiarisce che il delitto risale a oltre quattro anni e lui
allora toccava appena i quattordici. Aveva sparato,
sissignore.
Mentre il presidente lo interroga rimane immobile,
col profilo minuto sotto il testone riccio. Risponde
stentatamente, persuaso dell'evidenza irrefragabile
dei fatti. La sua difficoltà d'espressione ha un accento
veritiero, anche quando aggiunge che, sì, sparò, ma
non sa nemmeno lui come. Soprattutto non sa perché
abbia sparato o non sa formularlo. Così timido goffo
inarticolato, produce in complesso buona
impressione.
Ma quando, condotto dalla madre, entra il bambino,
viene letteralmente schiacciato dalla loro presenza.
Non guarda da quella parte. Nel girare gli occhi
intorno, anche il suo avvocato ha una strettura di
labbra. La bella faccia piena e rosea del bambino è
sfigurata dall'occhio cieco semichiuso, e la madre
se lo fa camminare davanti premendolo alle spalle:
eretta straziata vendicativa.
Dalla sedia dei testi, da cui spenzolano le gambe
senza toccare terra, il bimbo sembra ancora più
piccolo. Con tutta l'aria di ripetere una lezioncina a
memoria, parla come una macchinetta caricata.
Evidentemente gli hanno fatto imparare il discorsino.
E d'altronde, a distanza di tanto tempo, lui non può
ricordarsi altro che un occhio gli scoppiò. Interrotto
due o tre volte, invece di rispondere ricomincia da
capo la tiritera. A guardia sta la madre con una faccia
dura stirata. Tenta di correggerlo.
Quando siede lei, anche la sua schiena diventa
minacciosa. L'imputato tiene gli occhi a terra. In
ultimo la donna trova modo _ e tacitamente il
presidente glielo permette, arrendendosi a quel
plausibile stato di eccitazione e rancore _ di rivelare
al Tribunale, in confuso ma con chiare intenzioni,
certe presunte vanterie della parte avversa di cavarsi
dal processo lasciandola a bocca asciutta. Il padre,
alle transenne, ha una faccia seria, più rassegnata,
d'uomo. Egli non può dire niente, era a lavorare
fuorivia quando successe. A sua volta dietro la
transenna, la donna impallidisce visibilmente
mordendosi le labbra. C'è in lei anche lo smacco di
un figlio rovinato m assenza del padre.
Dai testimoni si risente la stessa storia con qualche
aggiunta e variazione. Il ragazzo era sul viottolo col
fucile. Aveva detto (a un pastore): sparo alle pecore.
Aveva detto (a un tizio col cane): sparo al cane.
Aveva detto al bambino che sopraggiungeva: ti
sparo. Non si riesce a capire se vero o no che il
bambino rispondesse: spara se sei capace. E infine
aveva sparato. E la vecchia donna accorsa per prima
a raccogliere la vittima insanguinata, altro non sa.
Parla brevemente il pubblico ministero. Anche la
difesa è breve. Il ricciuto giovinetto si ostina
a non volgere la testa ne ad alzare gli occhi. Alla
parte civile spetta questa volta di far vibrare le
corde. E solo adesso madre e figlio _ la donna
sgrovigliando la dura faccia, il bimbo col suo unico
occhio bello e lucente _ come sempre succede
scoppiano a piangere.
Mentre il tribunale si ritira, avvicino l'imputato. Si
mostra inaspettatamente loquace. Una donna non
ispira diffidenza _poi a questo punto ciò che è fatto è
fatto _capita spesso che con me parlino. Ma
dall'avvilito giovane non l'avrei supposto. È semplice
e confidenziale come sono in genere i contadini, e
forse ha proprio bisogno di parlare. Aveva sparato,
già, e Dio gli avesse seccato le mani in quel
momento. No, il bambino non gli aveva fatto niente,
passavi, del resto lui mica ci mise l'intenzione, il
fucile sparò da sé.
Come si agita, dalla camicia semiaperta emana un
acidulo di sudore un po' selvatico. Ha gli occhi
mobili cigliuti e un crespume di capelli arsi biondicci
sulla fronte, sembra un orsacchiotto. Ma i lineamenti
sono piccoli, minutissimi i denti inferiori che
parlando gli si scoprono.
Era stata una cosa da ragazzo, me ne rendo conto via
via. Perché il malaugurato fucile era in fondo un
giocattolo. Confessa che andava matto di averne uno,
di sparare agli uccelli come facevano gli uomini. Era
la stagione. Al suo paese, mi spiega, da novembre
cominciano a passare i colombi che vanno al piano.
Ecco che passano anche quelle due donne _ merciaie
ambulanti _ e gli si mettono attorno: vedi quant'è
bello, tè lo vuoi comprare, compratelo che è un buon
fuciletto. Lo circuiscono, l'allettano, gli cercano in
cambio patate. Lui alla fine si prende a casa un sacco
di patate. E uscì col fucile.
Era la prima volta, fu l'unico colpo. Non lo dice, non
l'avrà neppure pensato, ma, colombi a parte, c'era di
che rendergli familiare l'idea di avere un'arma
e di usarla, ancora non si parlava d'altro. Mica gli
uomini avevano sparato solo ai colombi. Vede le
pecore e dice che vuole sparare alle pecore. Vede il
cane e dice che vuole sparare al cane. Smargiassate.
Del resto sul serio la voglia matta. Vede il bambino e
dice ti sparo. Scherzava, ma spara. Proprio in quel
momento gli scappa il colpo nel maneggiare
vanaglorioso l'arma (non lo dice, non tenta nemmeno
di giustificarsi) ignorava come si fa. Niente si sa
prima di farlo. Oppure davvero sparò di proposito,
ma così per provarsi, credendo di mirare chissà
dove, e andò a un segno che non si era prefisso.
Parla, ma non guarda mai da quella parte. Innocenti
o colpevoli, sempre evitano. Io sento nella schiena gli
occhi della madre, certa che stia domandandosi
indignata perché m'intrattengo col delinquente
anziché interessarmi al suo bei figlio sfigurato.
"Vogliono un milione," dice a un tratto il ragazzo. Mi
pare, in confronto a quell'occhio spento, poca cosa.
"Ho rovinato la mia famiglia," si dispera, "ho
rovinato mio padre. Mio padre è disposto. Però solo
la parte. E che c'entrano i tuoi fratelli, figlio,
vendiamo la parte tua e paghi. Ma le coppe di parte
mia un milione non è."
Mi guarda con ansia di contadino. Poi sarà magari il
primo a lasciare la terra per la fabbrica, le disgrazie
imprimono alla vita una spinta diversa.
"E minacciano sempre e insultano per la strada e io
mi sto zitto perché hanno ragione. Ma il milione non
ce l'ho, come faccio."
Cosa grossa, un milione. Tuttavia per i genitori del
bambino non deve trattarsi di speculazione, come a
volte capita, più probabilmente, e forse solo la
madre, sete di vendetta, rovinare quelli che hanno
rovinato il figlio.
Domando se ancora vorrebbe un fucile. Non lo
voglio più vedere nemmeno ritrattato, prorompe.
Ragazzo smanioso di un gioco, gioco da grandi, al
quale l'hanno invogliato ed eccitato i grandi, gli si
rivolta contro come un boomerang. C'è nella sua
faccia di orsacchiotto un'ombra che mai scomparirà,
d'una crudele lezione, d'un immeritato colpo
mancino della vita. E un fucile dovrà pure
riprenderlo. Fra due anni andando soldato glielo
rimetteranno in mano, all'occasione con licenza di
uccidere. Ma per quello che le armi rappresentano
oggi come oggi, per quel primo e unico sparo,
possono anche perdonarlo.
31 SCANDAGLIO
Trovo il bambino in una scuola elementare. Sapevo
dove è ricoverato (nel solito istituto di suore) ma ho
preferito incontrarlo dove di lui non si sa ancora
niente. Del suo passato, ha già un passato. Me lo
conduce una bidella grassa e sorridente, tenendolo
per mano. Passa alla mia mano senza alzare gli occhi,
con ditini inerti freddi e appiccicati, più passivo che
docile. Si capisce che è abituato a vivere fra estranei,
conosco questa passività avvilita.
Rimasti soli _ la bidella chiude a un cenno _ me lo
faccio sedere accanto. Non mi ha mai guardata, tiene
la testa giù con un ciuffetto castano a mezza fronte.
Quello che voglio sapere da lui è difficile, non so
come cominciare. "Ti chiami Tonino?"
Fa sì col capo. Il Tonino l'ho supposto. Si chiama
Antonio R., un cognome che sulle sue labbra
infantili, per una irrazionale impressione, temevo
suonasse più terribile di quando apparve in cronaca
nera.
Rimane immobile, sembra che non respiri. Deve
avere otto o nove anni, benché ne dimostri meno. È
corto, la testa rotonda da neonato, rotondo il profilo,
gambucce e pieducci li tiene
ben uniti. Una compostezza incredibile se penso alla
fila scombussolata degli "orfanelli" con la monaca
avanti e indietro a raddrizzarli. È intimidito. O avrà
paura? So che può essere anche paura.
Gli tocco le mani, sempre fredde e molli, una guancia
una spalla, e sento che rifugge dai contatti. Senza
scansarsi, un vago raggrinzimento, qualcosa
d'impercettibile.
Dico: Vorresti fare un viaggio? Non mostra d'aver
udito. Provo in un altro modo: Desideri rivedere
qualcuno dei tuoi parenti? Accenna di sì con la testa,
debolmente, forse incredulo. " Quando vuoi partire?"
Allora alza gli occhi e mi guarda, uno sguardo
precipitoso subito riabbassato. Tuttavia ha preso
cognizione di chi gli parla, con l'intuitiva
immediatezza dei bambini. Posso mettergli un
braccio sulle spalle, ora ci sta. Torna perfino ad
alzare gli occhi. Sono nocciola, forastici ma dolci. La
curva della fronte a bauletto, naso guance mento
piccoli rotondi, danno l'idea d'un cucciolo. Anche
quel sogguardare è da animaletto che va
rassicurandosi sotto le mani. Premo un po', ci sta
ancora. Mi si stringe il cuore per sua madre.
Prima di venire qui s'era discusso a lungo col giudice
se aderire alla richiesta della detenuta Alma R. di
rivedere il figlio. Devo rendermi conto della
disposizione del bambino, della opportunità o meno
di questo incontro.
Cerco di farlo parlare: dov'è il suo paese, chi sono i
suoi parenti, se ha fratelli e sorelle. Risponde con un
filo di voce, raccolgo le parole curvandomi. Dice tre
sorelline (ma sono cugine) nomina la nonna gli zii il
compare. Non nomina il padre, sa che è morto. Mi
domando se sa' se ricorda, come e da chi venne
ucciso. In Assise, quando fu necessario interrogarlo,
del resto con molta precauzione,
minuscolo bambinello di quattro anni, unico
testimone, non gli si cavò niente, sembrava
inconsapevole o inarticolato. La madre era stata fatta
uscire dall'aula e non la vide. Ignoro se sappia dove
si trovi adesso, che cosa serbi nel fondo della
memoria. Si era discusso appunto sullo stato d'animo
del bambino verso di lei, se l'incontro rischierebbe di
procurargli, o rinnovargli, un trauma psichico. Non
l'ha nominata. "Vorresti andare dalle cuginette?" È
ammutolito di nuovo. "O dallo zio... zio..." Sussurra:
"Zi Titta."
"Zi Titta, proprio. Ti vuole bene. Desideri andare da
lui?"
Questo zio ne prese cura, lo tenne in casa i primi
tempi coi suoi cinque figli. Era stata una cosa
orrenda, uno di quei fatti che sommuovono le
popolazioni, la cronaca nera lo definì una versione
rurale di amanti diabolici. (Quelli per i quali l'amore
fisico non è difficile, è facile anche il reato violento.)
Temo di turbarlo a nominare i luoghi, i parenti. Non
ha risposto.
"Puoi fare un bei viaggetto," dico, "ti piace
viaggiare?" Annuisce.
"Col treno o con l'autobus? Magari ti piacerebbe
l'aeroplano," provo a scherzare. "Casca," dice
inaspettatamente. "Meglio il treno, sicuro. Dimmi
dove vuoi andare." Non risponde.
Tento un diversivo. " Da quanto tempo non viaggi?"
Per quello che riesco a capire, lo mandarono durante
le vacanze estive a casa di nonna, rivide le sorelline
gli zii il compare e mamma, aggiunge
tranquillamente. Lo dice d'infilata, penso a una
confusione. Ma ha solo confuso i tempi perché spiega
in carcere con lo stesso tono. Non sapevo _ e
nemmeno il giudice attuale _ che gliel'avessero
condotto quando era detenuta qui, almeno due anni
fa, prima del processo d'appello che commutò
l'ergastolo in vent'anni.
Mi ha colto di sorpresa. E forse dopotutto il carcere
non gli avrà fatto impressione, un posto chiuso e col
parlatorio come l'istituto. Visita breve, meno
piacevole che alle sorelline di gioco, l'ha invertita nel
ricordo, mettendola dopo. È il caso di riportarcelo?
Ora deve fare un viaggio lungo, accompagnato da
un'ennesima persona estranea, dormire in albergo,
ed è più grande, bisogna rimescolargli la memoria.
Ma che possa derivarne un trauma psichico ormai ne
dubito. Se pure non dimenticano, i bambini a volte
finiscono per confondere.
Mi alzo automaticamente, incerta sull'esito del mio
compito e ancora senza aver formulato la domanda
conclusiva. Anche Tonino si alza. Vista di fronte la
sua faccetta s'allarga, il piccolo naso è leggermente
camuso, ha l'impronta seria un po' rustica del
contadinello.
Dice improvvisamente, forte: "Voglio andare a
mamma."
Mi scruta un attimo per assicurarsi. Lo riprendo per
mano, le ditine sono calde e sciolte, premono. Sento
che la sua carne si ricorda la carne di sua madre, i
primi contatti d'amore con la vita. Il resto del mondo
è freddo come la camerata dell'istituto, dovevo
capirlo. Chi, se non lei, l'ha abbracciato baciato
stretto e con impeto raddoppiato dalla disperazione.
Del carcere nemmeno s'accorgerà, lui stesso è in
carcere, il resto per ora è nebuloso. Sarà di nuovo
avviticchiato dalle sue braccia, attirato
appassionatamente sul petto (non c'è essere più
appassionato di una peccatrice carnale) riscaldato,
baciato
e ribaciato. È di questo che ha bisogno. Glielo
manderemo.
Nel corridoio mi lascia e sgambetta verso l'aula,
muovendo il corpo con animazione come se gli si
fosse slegato.
32 CHI SCAGLIÒ’ LA PRIMA PIETRA
Giovanni C. è il ragazzo che portò la valigetta dei
ferri al medico. Il sopralluogo avvenne la notte di
quel 20 ottobre, alla luce delle torce. Aveva fatto la
scoperta la moglie del morto e gridando (svegliò così
il ragazzo che dormiva dall'altra parte del muro)
dette l'allarme alla gente del piccolo gruppo di case
rurali. Uscirono tutti e gli uomini provvidero ad
avvertire i carabinieri.
Il morto si trovava nel suo fondo a oliveto con
l'aratura fresca del giorno, bocconi in un solco, la
faccia quasi contro terra coperta dal cappello. I primi
elementi furono raccolti subito e c'era già quanto
bastava per la ricostruzione sommaria del delitto,
che oggi occupa un voluminoso incartamento
processuale. Era arrivato il pretore, troppo giovane
per restare impassibile, da cui partì la definizione di
delitto cavernicolo, poi ripresa dalla stampa e dagli
avvocati. Un duello rusticano a colpi di sassi, con
lancio a distanza ravvicinata. Arrivò anche il medico,
un vecchio medico condotto di montagna, che fece i
suoi rilievi: frattura alla radice del naso, tempia
destra completamente affossata, profonda lesione
occipitale (cm 2 di diametro).
Dietro al medico, il ragazzo che portava la valigetta
dei ferri. Lo stesso ragazzo tornò all'alba sul
posto piantonato, unendosi agli uomini rimasti lì
attorno. Ma ne la prima ne la seconda volta riuscì a
trovare la sua chiave. Era stata repertata (cm 5) e
condusse, unico indizio, alla scoperta del colpevole.
Per Giovanni C. fu chiesta la massima pena, anni
21 con la diminuente di un terzo secondo la legge
spedale minorile. Venne condannato, per omicidio
volontario, a 14 anni di reclusione, interdizione
perpetua dai pubblici uffici e 3 anni di libertà vigilata
dopo l'espiazione della pena. Condanna grave per un
tribunale minorile, con la sola attenuante dell'età.
Aveva sedici anni.
A trovarselo davanti niente richiama in lui l'idea di
"particolare efferatezza, crudeltà eccezionale, fredda
malvagità, estrema pericolosità sociale, raffinata
capacità a delinquere", attribuitegli dalla prima
sentenza. I suoi connotati nella scheda: "statura
media, corporatura robusta, colorito e capelli bruni,
sopracciglia folte, occhi castani, fronte spaziosa,
bocca regolare, mento ovale con fossetta",
corrispondono esattamente. In più il sorriso schivo,
accompagnato dall'inclinazione del capo verso la
spalla sinistra. Un sorriso continuo nervoso. È
rimasto uguale al ragazzo con la fossetta dei
connotati ufficiali, il ragazzo robusto calmo e
lavoratore delle testimonianze.
Chi ha visto Giovanni C. sulla panca degli imputati
e al carcere, ha ricevuto la stessa impressione di
enorme stupore e d'incredulità. Dalle transenne i
paesani guardavano, di nuovo esterrefatti, quel
Giovannino che avevano sempre conosciuto, che
zappava con loro come un uomo, senza riuscire a
identificarlo in colui al quale l'accusa si riferiva con
quelle agghiaccianti espressioni: enormità del delitto,
inaudita violenza, spietata reiterazione dei
colpi, volontà di uccidere. Ognuno aveva deposto,
secondo coscienza, che era un figlio obbediente e
lavoratore, cresciuto sempre così tranquillo serio
taciturno.
È diventato un detenuto disciplinato, attivo capace.
Parla davvero poco. Gli si potrebbe ancora imputare
il contegno tenuto perfino in aula: "non ha tradito la
benché minima emozione." Credo che la tradisca ora
col sorriso nervoso e la mossa del capo. Certo non si
tradisce facilmente. Ne cerca d'impietosire, di
volgere alcunché a suo vantaggio. Della matrigna
dice: è una buona donna. In quanto a discorsi gli si
cava solo mi dispiace per mio padre e voglio lavorare
per pagare. E poi sì e no. Nel Vangelo è detto che il
resto delle parole appartiene al demonio. Giovanni
C. doveva già saperlo d'istinto, dopo l'ha imparato
a sue spese una volta per sempre. Cominciò proprio
con le parole quella sera del 20 ottobre.
Esiste negli incartamenti una confessione, che trova
precisa conferma nei fatti, così ampia, così completa
e, per dirla col patrono della difesa, così eccessiva
nella sua ampiezza, da lasciare quanto meno stupiti.
("Temendo che mi avrebbe denunziato pensai di
finirlo", come se si pensasse in certi oscuramenti
della coscienza.) Non collima con la taciturnità del
ragazzo o meglio sembra di leggere i suoi sì e no
trasposti in frasi, ciò che del resto effettivamente
avviene nei verbali d'interrogatorio. Comunque
confessò e, unico a sapere, riferì, o ammise, anche gli
atroci particolari che gli valsero la condanna senza
attenuanti.
Un incenero casuale sul viottolo di campagna,
l'accusa ingiusta del furto d'olive. Nega risentito.
Non le aveva infatti mai rubate. È nell'età ombrosa.
S'adombra anche l'uomo (Palone Pasquale, anni 50,
I'"in oggetto generalizzato" del verbale di
sopralluogo dei carabinieri), la gioventù d'oggi che
non porta rispetto. Inoltre il contadino a tempo di
raccolto è sul piede dell'arme, era uscito apposta la
sera per guardarsi gli ulivi. Minacciando una
denunzia (infondata) gli "bestemmia" la madre.
Risulterà che era un brav'uomo ma arrogante e facile
all'ira. Fu lui a scagliare la prima pietra. Riscontrata
larga ecchimosi sulla schiena del ragazzo.
Nell'istruttoria mancavano sufficienti indagini sulla
personalità del minore _ un punto su cui aveva
battuto la difesa _ neanche esistevano richieste
specifiche d'informazioni all'Arma. Tuttavia dagli
stessi carabinieri, come dalle testimonianze, veniva
descritto rispettoso, docile,. di buona indole. Mai,
secondo si affermò, aveva litigato con un coetaneo,
vita di relazione completamente normale. E assenza
di tare o anomalie psichiche in famiglia. La madre
morta di anemia perniciosa.
Mancava inóltre una messa a punto dell'ambiente
(sempre secondo la difesa) ma si poteva dedurre.
Poche case isolate, senz'acqua senza luce, contadini
poveri e primitivi ("natura elementare", "sviluppo
psichico rudimentale") fatica durissima. Il sedicenne
lavora la propria terra e va a giornata da altri per
aiutare la famiglia. Quando rientrò, quella sera, andò
alla stalla "a rifare la lettiera alle vaccine."
Esce di nuovo perché in casa, con le sorellastre, non
c'è posto per lui. Dorme in uno stanzino fuori, di cui
porta sempre la chiave in tasca, muro a muro coi
Palone. Erano in buoni rapporti, si prestavano a
vicenda gli attrezzi. S'accorge di non avere più la
chiave, prende l'altra che tenevano appesa in cucina
e se ne va. Tutto il comportamento di quella serata
gli ricadrà addosso.
Entra da una sartina che deve cucirgli una camicia, è
pronta, se la misura, trova che gli va bene. Quindi si
siede e alla luce del lume a olio rimane
per un'ora. ("Non sapevo dove andare, avevo
bisogno di stare in compagnia, mantenni un
contegno calmo, non si accorsero del mio stato
d'animo.") Sembra che perfino parlò. Infine si alza,
lascia la gente, va alla sua camera. Mentre sale la
scaletta esterna comune, la moglie di Pasquale lo
chiama per sapere se ha visto il marito. "Non l'ho
visto massera (stasera)." Cerca un po' d'acqua.
"Pigliatela, Giovanni." Se la beve assetatamente _
"un'arsura come se avesse mangiato salato" _ dal
mestolo di rame della conca a cui beve tutta la
famiglia Palone. Sale, accende la candela, si riguarda
i vestiti e le mani, s'addormenta di colpo. (Cinismo o
non piuttosto esaurimento?, si domandava in aula il
suo patrocinatore nell'arringa.) Dopo mezzanotte lo
sveglieranno gli urli della vedova. S'alzerà, andrà
anche lui e sarà nel verbale di sopralluogo "il ragazzo
che portava la valigetta dei ferri al medico". Fino a
quando non scopriranno che la chiave rinvenuta
presso il cadavere apre l'uscio della sua camera. Da
quel momento diventa l'assassino cavernicolo.
Nel ritrovare in questo meticoloso ufficio del censore
un Giovannino in ordine, la camicia pulita, i capelli
ravviaci con l'acqua, mi viene fatto di guardargli le
mani. È automatico per certi casi. Sono molto grandi
ma raggentilite dal lavoro di sarto. Viene dal
laboratorio. Sta imparando, vorrebbe imparare a
confezionare l'abito da uomo, sembra che dimostri
una imprevedibile versatilità. Senza tregua ravvolge
attorno a due dita strettissimo un filo nero.
È evidente che non si rende conto delle proprie mani
innervosite, per tenerle così in mostra. Mi chiedo
quando, e come, gli torni il ricordo di quello che fece.
A me tornano con insistenza le immagini delle
fotografie allegate. Gli ulivi contorti nello sfondo,
erbe secche, un argine cretoso, il viottolo. E in
primo piano, nella terra arida del solco, colpito da
una spera di sole, quel corpo. Il vecchio cappello in
faccia. Descritto con uno squarcio dovuto a
consumazione. Gli scarponi chiodati, scuciti nella
parte posteriore fino al tacco. Nelle foto risultavano
ben visibili, protesi. Come pure l'alveo di una pietra
e altre due "del peso di 3 o 4 kg con chiazze scure."
Perfino _ tutto repertato _una trentina di olive
sparse, quelle che cadono da sé. (In tasca,
minuziosamente elencati: cartine per sigarette, un po'
di trinciato ordinario, due piccoli pezzi di giornale,
due fagioli violacei, un chiodo contorto cm 4.) Quelle
scarpe aperte, il vestiario da lavoro a pezze e
rattoppi, la camicia fuoriuscita dalla cinta, la mortale
insaccatura delle spalle, ciocche di capelli arricciati
dal sangue come succede col sudore nel sonno e
vicino alla testa le pietre... Devo ripetermi che, uomo
anziano nell'ira, scagliò lui la prima pietra.
Il giovane ha una sensibilità quasi telepatica.
Rattorcendo il filo nero a un dito da tagliarselo dice:
Per me è finita.
Eppure ha avuto clemenza. In appello gli sono state
concesse le attenuanti generiche, con la riduzione
della pena a 10 anni, altri 5 condonati per indulto, ne
ha scontati 4. Sono venuta per parlargli della sua
domanda di libertà condizionale, che forse potrebbe
avere esito positivo. Le spese processuali ha
cominciato a pagarsele da sé col lavoro di sarto (gli si
lascia credere che ci riesca). Dovrà procurarsene
fuori, quando uscirà, dovrà pagare ancora e aiutare
la famiglia. Ripete: "Debbo lavorare assai."
Oscuramente cerca la redenzione nel lavoro. Non ha
conosciuto altro che lavoro. Bisognerà trovarglielo da
qualche parte, dopo, in paese non può tornare,
benché i Palone gli abbiano fatto sapere che
sono contenti che impara da sarto. Ha vent'anni, ha
dei progetti. Per lui non è finita, a quest'età non è mai
finita. E anche il peggio deve ancora venire. Si
propone di far vedere sotto le armi che è un
"faticatore," che non "litiga," che sa obbedire, come
obbedì sempre al padre e come ha obbedito qui
dentro. Sa che quando avrà dato sufficienti prove, si
potrà iniziare la pratica di riabilitazione.
"Quando! " domanda col sorriso nervoso che gli
scava la fossetta.
S'è spezzato il filo nero intorno al dito, si guarda le
mani, le ficca profondamente nelle tasche.
Non ha domandato quando andrà soldato, il conto se
l'è fatto da sé, è ansioso di andare soldato.
Me ne vado senza avere il coraggio di dirgli che è
escluso d'ai servizio militare per indegnità.
33 GLI OSSESSI
Adamo
Pieni i tavoli degli avvocati, occorre portare altre
sedie. Patrono principe del foro cittadino. Atmosfera
particolare, si direbbe stimolante dalle frasi e
citazioni che suscita. "Questo forsennato Adamo. " "
L'eroe nostrano di Sanctuary. " " Come la pannocchia
di Faulkner." "Il satiro rurale." (sic) " La bête
humaine ." "Il mostro." Si sorride e si ride a
qualche motto più salace.
L'Adamo in questione, poca fronte, spazzola di
capelli irti, faccia animalesca ma non brutta, labbro
inferiore carnoso pendente (il "labbrone" apprezzato
degustabile) sguardo basso muscoli grossi,
l'espressione irresponsabile e in certo qual modo
mite del buon bruto. Tiene le braccia ciondoloni coi
pugni nerboruti semiaperti. Indossa una camicia
"americana" a paesaggi e figurine, civettuola.
Il padre _ proprietario terriero e consigliere
comunale _ non riesce a domarlo. Lo picchia, scappa.
Potrebbe fare il lavoro di un bue. Sì, sempre col
gregge. Mai potuto trattenere nella scuola. A
domanda: mai dato scandalo in casa (sorellastre e
matrigna giovane). Ha raccontato lo stesso padre che
a un'asina in calore, per farla sfogare –
comprensione,
si scherza _ gl'infilò nella natura una mazza
sfregando e l'asina morì. A domanda se montava le
pecore: no _ esitazione " non sa. Evidentemente non
ci aveva pensato, o non ha capito.
La bambina, sette anni, stava col fratellino di tre. Gli
fece condurre l'asina dietro la siepe.
Precedentemente si era masturbato davanti al
maschietto, ma senza toccarlo. Si pulì con la paglia,
dice il bambino. Gli andava sempre dietro per
cavalcare l'asina.
La bimba, a domanda: il coso che ci fa la pipì in
mezzo alle gambe.
Al centro non insidia i compagni, non li invita nel
suo letto: a domanda. Perdonato.
Lolita monacale
L'imputato lavorava alle dipendenze del convento.
In un cortiletto a spaccare legna: lei ci va, non fiata,
lascia fare. Dodici anni, figlia di ragazza madre,
ricoverata presso le suore. Furono visti la prima volta
da una donna al balcone, li vide dritti stretti.
Lui, capelli lunghi grassi appiccicosi, in faccia liscio
roseo, una melensa faccia donnesca con lampi di
furbizia. Frusto impermeabile chiaro e sciarpa bianca
sudicissimi, calzoni e calze celesti, sembra in
maschera. Il servi torello del convento, vestiario e
vitto, senza paga. Non ha negato.
La ragazzina è delicatamente e perfettamente bella,
anche col solito grembiulone informe e uno scialletto
in testa, sogguarda tra i lembi pudica monachina.
Accanto la nonna (gliel'hanno rimandata) avvolta nel
fazzolettone contadinesco come in una coperta, rozza
e brutta. Interrogatorio scabroso. A occhi chini,
risponde
con mormorii. Non lo so. Non so che è. Non sa che
significa fare l'amore, essere donna di strada. Ma sa
che significa amore. Amore è Gesù. Ha sentito la
parola solo per Gesù. Con la comunione si ama Gesù,
si prende il corpo di Gesù. Qualche battuta a doppio
senso anche da parte dei signori del tribunale.
Risatine. L'imputato si esilara un po', divarica le
gambe, sbottona l'impermeabile su un rigatino
bianco e celeste. Rassicurato dall'ilarità. Nessuno gli
bada. La candida santarellina dolcemente si rifiuta a
certe domande, la Madre Superiora non vuole, sì, è
permessa la bugia, non deve raccontare quelle cose.
Avvocato: perché avvenute presso di loro.
Nuova ilarità con altra testimone. Al di' lo giuro
risponde "non pozza rivedere mio marito." Avrebbe
avvertito la nonna: tua nipote sta facendo contro il
muro l'atto materiale. Risulta invece dal fascicolo che
questa nipotina in sede istruttoria _ separata sede _
ha specificato di essere stata coricata in terra (una
terza volta?) levate le mutande, sentì qualche cosa e
poi si trovò bagnata. Le testimoni contadine si
coprono la faccia con la pezzuola fino agli occhi.
Secondo la Supcriora è cattiva discola bugiarda,
inventa di sana pianta.
In omaggio al visetto di madonnina, con insolita
sensibilità, e nel caso forse superflua, mentre
l'avvocato parla viene fatta uscire dall'aula.
Non si tiene conto, deplora l'avvocato, non si
presume mai il risveglio dei sensi, il desiderio il
bisogno l'impellenza della naturale soddisfazione
dalla parte femminile. Se vittima, vittima volontaria.
La ragazzina _ figlia del peccato secondo le religiose,
matura secondo lui _ non solo accetta, ma
evidentemente ricerca provoca, e con questo rimane
d'altronde innocente. Il diritto delle due parti...
Richiamato: attenersi ai fatti. Viene concesso il
perdono.
Fuori dell'aula, tra monache in un sussurrio: Gesù, sì,
Gesù _ si segnano _ Fu il diavolo, è ossessa.
Il piccolo Bargia
Tentato omicidio plurimo. I genitori ostacolavano la
sua relazione con una donna vecchia. Voleva
sposarla, al rifiuto si strani. Mise una bustina di
veleno topicida nella bottiglia del pomodoro.
Aveva sedici anni. Sembra rimasto, ancora dopo
oltre un anno, più che ritardato interrotto nello
sviluppo, anche la voce ha i toni striduli del
passaggio incompiuto.
"La volevi sposare?" "No." "Perché?" "Per l'età."
Risposte automatiche. "Sei pentito di quello che hai
fatto?" Un sì stimbrato. "L'amavi?" "Sì." Dopo la
morte dei genitori l'avrebbe sposata. Lo dice con una
breve animazione.
Faceva scene terribili, dava in escandescenze.
Rientrava all'alba, non rientrava. A un tratto se ne va
ad abitare da lei. Già una volta, per intervento del
parroco, era stata mandata a Roma in servizio e i tré
figli ricoverati "chi qua chi là." Torna sola, se lo tiene.
Poi essa stessa chiede che glielo levino dalla casa, ha
paura. Gli amici lo convincono, lo riportano dai
genitori. L'indomani tenta di ucciderli.
Ha raccontato come si sentiva senza la donna, non
mangiò per tre giorni, non poteva lavorare, era fuori
di sé. Mi sentivo come un cane. Avrà inteso triste,
realmente ha nell'espressione una pesante tristezza
carnale, Di profilo corto debole bruttino, è quasi bello
di fronte, gli occhi chiari larghi nel viso risucchiato.
Se ne accorsero immediatamente, il pomodoro nero
annerì la minestra. Andarono dai carabinieri. Il
veleno era sufficiente a uccidere _ "questo piccolo
Borgia" _ ma sarebbe stato impossibile deglutirlo:
mezzo idoneo e non idoneo. Arrestato. In un primo
momento lo rilasciano al padre. Gli dice che era stato
istigato dall'amante. Poi dichiara che fu il padre a
suggerirglielo. (Nel frattempo, lui in carcere, è morto
per "un colpo".) Deve rispondere anche di calunnia.
Che ammetta o neghi o si contraddica, rimane
assente. Parla come in trance, con un automatismo
da robot. Nella più assoluta indifferenza.
È presente il fratello minore _ ma ve ne sono altri _
stessi occhi e piccola complessione. Glielo indicano.
Volevi ucciderli tutti? Non sa, non ci aveva pensato.
Le donne siedono vicine _ sono vicine di casa _
anche in corridoio sedevano sulla stessa panca. Senza
scambiare parola ne guardarsi. La madre tutta in
nero, il taccino pelleossa da teschio infantile, denti
scardinati, mani scure nodose rugose come una
scorza. Non dice di rivolere con sé il figlio, ha paura.
L'amante quarantenne, testa oblunga con ciuffi di
permanente strinata, voluminoso petto informe in
una tesa maglia bianca, parlando mostra vuoti nella
bocca. Adesso ha un quarto figlio, forse allatta. Tenta
di negare la relazione. Afferma che all'epoca del fatto
era a Roma. Smentita, che Io tenne in casa col
consenso dei genitori di lui. Per forza. Minacciava col
coltello. Gesti nervosi e risposte irritate, spallucciate
scosse e mossette di falsa pudicizia. Agita la mano
con una fede d'argento. Mai stata sposata.
Depone il brigadiere dei carabinieri. Buon carattere,
allegro scherzoso, prima di incarognirsi ancora
giocava. Abbandonò amici gioco e tutto. Non
sussiste o non risulta indagine sulla responsabilità
della donna, se fu lei a cominciare, adescamento e
corruzione. Definita di facili costumi. Il ragazzo non
la guarda o vi gira l'occhio atono.
È in stato depressivo. Ebbe un collasso. Si parla di
condizione psichica primordiale, del problema
sessuale che nelle famiglie non si ha il coraggio di
affrontare. (Genitori analfabeti.) Tardivo rinvio per la
perizia psichiatrica.
Il detenuto si muove fra gli agenti come un automa.
34 TACCUINO DELLE UDIENZE
Boccaccesco. Moglie a letto. Il marito rincasa, la trova
che dorme, si corica. Gli viene da sputare, fa per tirar
via le scarpe sul pavimento e afferra il braccio del
giovane, un suo garzone di bottega.
Tentato furto e calunnia. Introdottosi per rubare,
dopo fa capire che se la intendeva con la moglie.
Donna matura, formosa accesa, imperturbabile.
Ragionevoli dubbi.
Attualmente è di leva. Al tempo del reato aveva
superato di qualche giorno i diciotto. Linea
inflessibile dell'età che deve necessariamente
corrispondere a una presunzione di maturità
responsabile dall'oggi al domani. Già tre rinvii: senza
accorgersi? senza provvedere? Passa al tribunale
ordinario.
Mentre un testimone descrive la rissa a coltello, il
padre scoppia in pianto dirotto. "Ma via, non è
successo niente." "Poteva succedere." Non riesce a
frenarsi, devono condurlo fuori dell'aula.
Andandosene si segna al Crocifisso come i contadini
e le prostitute.
Il bambino rivelò il nome delirando nella febbre.
(Non defecava, sfiancamento dello sfintere.) In una
casa diroccata deposito d'immondizie. Più d'una
volta? Stretto dall'interrogatorio il colpevole si
giustifica: mentre ormavano insieme il bambino
cominciò a parlare di donne. Improvvisamente dice
tutto: Gl'inziccò la picca nel culo. "Lo sapevi che era
male?" "Non lo sapevo che gli facevo male."
Assegnato al riformatorio. Buona scuola: il difensore.
Si finge di non aver udito.
Asportazione traumatica di quattro dita per scoppio
di ordigno bellico. Si depreca questa inesauribile
eredità, ordigni se ne continueranno a trovare fino al
duemila e non è escluso che un altro conflitto li
rinnovi. Come continuano a morire gli atomizzati di
Hiroshima.
Diciottenne. Maturità classica. Alto biondo,
apollineo.
La ragazza avanza con la testa girata indietro, la
lingua rossa carnosa oscena sporgente dalla bocca.
Rassicurandosi alla vista del padre la ritira.
Sordomuta, sigillata in se stessa. Deficiente psichica,
o è la grave menomazione? Tozza, grosso collo e
lineamenti smussati, quasi senza naso e senza nuca,
con forte prognatismo del labbro inferiore.
Solleva a mezzo la gonna e mugola per far capire che
contatto c'è stato. "Atti idonei allo scopo di
congiungersi carnalmente." Sempre con la lingua che
fuoriesce. Può eccitare?
Il giovane ha un moto di ripulsa: si conoscevano
dall'infanzia, vicini di casa, le avrà messo le mani
addosso per confidenza, scherzavano. Come se la
trova davanti, costretto a guardarla, impallidisce
mortalmente.
Intervalli. Conversazioni intorno allo scanno del
PM. Accese le sigarette, aspirate a fondo. "Sassi e
bombe, violenza e sesso." "Sesso sesso sesso."
"Freud. Questo Freud che spiega tutto e giustifica
tutto. In definitiva ci ha svergognati tutti." "Il mondo
come un'enorme scatola orgonica." Non è inteso, solo
chi lo ha detto conosce Reich
e sa quanto è stato sotto accusa.
"A un ragazzo basta dirgli che una cosa non si deve
fare, il Padreterno per primo commise l'errore col
ragazzo Adamo. Errori che si perpetuano."
Contestato (PM) il paradosso. Non facciamo che
risalire sempre più lontano alle colpe, tralasciando
l'effettivo imputato. Colpevole la società. Colpevole
ciascuno di noi. Ora è di moda nella letteratura
risalire direttamente a Dio. Nequizia del Creatore...
Sotto accusa gli scrittori.
35 LA CARRIERA
È venuto a trovarmi, assolutamente inaspettato, e
dopo tanti anni, il mio amico ladro. Si è definito lui
stesso così, cioè amico. Ma davvero ho sentito che
qualche cosa come un legame, e dunque somigliante
all'amicizia, tra noi esisteva. L'ho accolto in maniera
quasi festosa. E senza il minimo sospetto, senz'ombra
di paura, debbo onestamente riconoscerlo. Mettiamo
in conto la curiosità, ma di questi tempi non è da
poco la fiducia in un ladro. Giacché Andrea Z. non
solo lo era, ma aveva addirittura percorso una
carriera nel suo campo di lavoro. (Parole sue, di
allora.) Dove sia arrivato adesso non so. Senza
toccare l'argomento alla muta fa con le mani prensili
una rassicurante mimica: l'atto di trafugare e
calorosa ripulsa. Verso quadri e soprammobili _ vi
ha passato l'occhio come per una stima sommaria
_ma ignoro se li escluda perché sono miei o per
cessazione di attività. È ben messo e distinto, come
sempre. Lo faccio accomodare. "Si ricorda del
sigaro?" Se me ne ricordo. L'imbarazzo con cui lo
tendevo. Una fila di uomini, un sigaro ciascuno.
Arrivata a lui: Grazie, non fumo sigari. Sorprendenti
l'inchino, il diniego della mano sottile e l'espressione
d'un quasi galante dispiacere. Dato che eravamo
nel carcere. Dio sà chi avesse avuto l'idea di quel
sigaro (e un fazzoletto) come dono natalizio ai
carcerati. Fatto sta che mi ero trovata a essere io la
distributrice. Vecchietti ilari, contadini diffidenti,
uno dall'aspetto signorile arrossito, tipi loschi e
sguardi minacciosi o beffardi. Il solito campionario
di umanità reclusa, ma ero alla prima esperienza.
Solide autorità alle spalle, un manipolo di
benefattori, un nugolo di agenti: niente paura
dunque, ma un terribile imbarazzo che rasentava la
vergogna. L'incontro col garbato giovane, i suoi occhi
carezzevoli, il sorriso, la compitezza _ malgrado
l'incongruità della scenetta _ in un certo senso mi
sostennero.
Dopo domandai a un agente. "È Chiappino." Si
corresse: "Andrea Z. detto Chiappino perché
acchiappa tutto." "Ladro?" "Signorsì, ladro e più volte
recidivo." "Ma non prende sigari." "Eh, un furbone."
Difatti gli mandai le sigarette.
Rievochiamo insieme quell'agente, e altri _ lui
perfino i nomi _ li definisce buonissimi.
Per quello che rammento io ci scherzavano,
ripetendo cose sentite alle udienze: si parlava, per
l'eccentrico fuorilegge, addirittura di vocazione. La
psicologia non è il forte degli agenti carcerare alias
secondini, ma una tal quale bonomia spesso sì. Con
Andrea Z. si divertivano. Era amabile, spiritoso, un
po' snob. Lo trattavano bene, forsanche con qualche
parzialità. Una specie di cliente: arrivava, ripartiva,
tornava senza fallo: un cliente affezionato. Ridevano
bonari. Alcuni, provenienti dall'annesso
riformatorio, lo conoscevano da ragazzo: il
ladruncolo. Al tempo del sigaro natalizio ne contava
ventitré ed era al suo ennesimo "incidente." Ancora
gli si adattava un nomignolo leggero e buffo come
Chiappino.
Spontaneamente accenna al padre e anche di lui dice
buonissimo. (Diceva perfino la mia buona
matrignetta.) Un onesto ciabattino _ arriccia il naso _
uomo sobrio e pio, lavoratore indefesso, Io teneva al
deschetto fin da piccolo. Benché, secondo il suo stile,
ponga il discorso su un tono per così dire mondano,
di convenzionalità complimentosa _ e in ogni modo,
detratto l'ossequio formale, da pari a pari _ si lancia
andare a qualche confidenza. O meglio, a ricordi
d'infanzia. Toccava bacchettate a scuola non
riuscendogli di star fermo nel banco, al deschetto
paterno era peggio, il su' babbo lo legava per un
piede allo sgabello.
"Sa com'erano," spiega, "le tane dei ciabattini, sotto il
livello stradale, vedevi le scarpe della gente, piedi."
A furia di vedere piedi, è da supporre, gli viene
voglia di muoversi. Aveva quindici anni. Prende su e
va alla stazione, salta senza biglietto sul primo treno
che passa. Così poi fece sempre, s'intende quando lo
lasciavano libero d'andare attorno. Insomma qualche
cosa come spirito d'avventura.
Era un ragazzo di gradevole aspetto (trovo che lo è
ancora, ossia un bell'uomo). Inoltre benvestito,
sceglieva sulle reticelle il meglio. (Anche oggi è
irreprensibile.) Al momento favorevole prendeva la
valigia e scendeva. Non la sua valigia, beninteso.
Subito rimontando sul primo convoglio in partenza.
Arrivato a una città purchessia vende il contenuto,
trattenendosi per la durata del danaro. Svelto
disinvolto e abile, resse parecchio senza cadere nella
flagranza. I precedenti _ un paio di fermi per
vagabondaggio, un perdono, un po' di riformatorio,
una condizionale, per quei pochi pastranucci tolti
qua e là _non contavano. Sul fatto lo colsero per gli
strilli di una donna. Fece i suoi bravi mesetti.
Rilasciato e messo in treno col foglio di via, a metà
percorso scese al solito modo prelevando un
bagaglio altrui.
Interrompe il silenzio con una rievocazione
inaspettata. (Stiamo conversando un po' a strappi
proprio come due amici che si ritrovino dopo tanto
tempo.) "Si ricorda," dice, "il giorno della cresima?"
Come tocca i risvolti della giacca mi viene in mente il
Principe di Galles che indossava quel giorno. La
cerimonia di un anno che s'improntò a una nota
d'eleganza.
Insieme a due giovinetti, a un vecchio e ad alcuni
minori, nella cappella del carcere riceveva l'unzione
da monsignor vescovo. Gli era padrino un ladro
d'alto bordo ma pentito. Il neofita tenne contegno
esemplare e la sua delicata faccia ebbe un che di
mistico. O per lo meno una notevole compunzione.
Fra i reclusi a strisce, lui col Principe di Galles quasi
nuovo e l'opulento padrino. Sospettai ragioni
alquanto estranee alla fede nel suo desiderio di
cresimarsi: un documento che gli occorreva, lo seppi
in seguito.
"Era diventato già l'avvocatino," gli dico con un
sorriso che ricambia modestamente in silenzio.
Lascia che sia io a ricostruire.
Appresi al rinfresco, seduta tra un magistrato e
l'ufficiale del corpo agenti _ ridevano entrambi _
come avesse cambiato nome, o meglio acquistato un
titolo. Faceva carriera, non si poteva dubitarne.
Senza spostarsi'dal furto viaggiante (altro che
sedentario deschetto paterno) era ormai d'una
innegabile distinzione, fosse pure l'abitudine a
portare abiti di buon taglio e biancheria di qualità.
Ultimamente viaggiava in prima classe.
Al carcere era un veterano. Non che la sua
permanenza durasse mai troppo. Sa vedersela, era
l'opinione degli agenti. Ferratissimo negli
interrogatori e di casa in tribunale, non mancava un
indulto, un'amnistia, una possibile licenza premio.
Premio, sissignora. Contegno esemplare,
disciplinatissimo, ascendente sui compagni,
soggiogava anche i più
turbolenti. Non appena rientrato si metteva a fare
l'avvocatino, per chiunque lo richiedesse di consigli,
compilava domande ricorsi suppliche, beninteso con
l'onorario, non gli mancavano sigarette e spiccioli. Il
pubblico ministero alle udienze ha il codice davanti
sullo scanno come un breviario, lui l'aveva tutto in
testa.
" Se vuole consigli non faccia complimenti," si offre.
Sembra davvero un legale.
In un certo senso difatti s'era imposto. Lo misero
negli uffici, l'unico modo per utilizzarlo. Aveva una
bella scrittura e non sbagliava un calcolo. Quando
curò anche i prestiti della biblioteca si ebbero lettori,
benché scarseggiassero romanzi d'amore che i reclusi
prediligono. In quel periodo lui scriveva lettere
d'amore. Al tavolo d'ufficio, su carta
dell'Amministrazione, riempiva facciate e facciate di
parole d'amore, ciò che sempre intenerisce, si sia
carcerieri o carcerati. Fra un viaggio e l'altro aveva
trovato il tempo di sposarsi. Poi si scoprì che nella
sua medesima funzione d'ufficio scollava la posta dei
compagni, ne estraeva i vaglia e, fatta la girata,
inviava alla sposina.
Guardo la mano con la fede. Domando se ha figli.
Figli no, ma una santa moglie. Non stento a crederlo.
Mi precede dichiarando che adesso fa il mediatore di
oggetti d'arte. Sissignora, quadri e altro. Ha l'aria di
aver avuto la carriera stroncata nella professione, si
sentirà diminuito dal ripiego all'imbroglio spicciolo.
Immagino che questa mediazione si riduca all'oscura
ricettazione. Non mi offre di acquistare quadri.
Quando ha detto l'arte si è perduta, ho pensato che
disdegnasse l'arte contemporanea. Chiarisce: oggi
non esistono più ladri ma assassini. I ferri del
mestiere (lui non adoperava nemmeno quelli) sono
stati sostituiti dalle armi. E sparano. È venuto
insomma per darmi consigli, dato che entrambi ci
siamo trasferiti nella capitale criminosa. In nome
della "vecchia amicizia" mi erudisce su come
premunirsi e salvaguardarsi. Perfino un piccolo
scippatore con la moto può causare incidente grave.
Sto a sentirlo attenta. Alcune cose sono risapute
(anche dai rapinatori armati i quali sanno che le
sappiamo) altre mi riescono inedite: segreti
professionali. L'amicizia di un ladro _ pardon, ex
ladro _ può risultare utilissima. Ci tiene a confermare
che in questi tempi di tralignamento lui ha le mani
pulite. Le mostra, le stende, lunghe sottili, da
"artista." Tale si considera e, nel suo genere,
nientemeno che un classico.
Cava dalla tasca, opià, un pacchetto di estere. Offre.
Accetto. Per quel sigaro, dice. Ad memoriam.
E: mala tempera currunt. È un classico,
non c'è dubbio. Incidentalmente deplora che il latino
sia in discredito, non solo nelle scuole ma in chiesa.
36 IL DECENNIO
Ci torno. Esserci tornata con la memoria avrà avuto
la sua influenza. Dopo dieci anni. Sembra un secolo.
Del resto sono arrivati i decenni che contano per
secoli. (Abbiamo allunato.) Semplicemente un breve
ritorno alla vecchia provincia. Non per nostalgia. Il
taglio era stato netto e senza remore. Abbandonati i
bambini (la scuola) abbandonati i ragazzi (esonero
dal tribunale). Questi distacchi, sì, come tagliare un
cordone, interrompere certi contatti con la vita. Che
nella grande città comunque si perdono. Un ritorno
estivo, di villeggiatura, all'aria montana. Nativa. Per
quel che vale l'aria nativa. Dicono molto, non so.
Forse un'aria di montagna qualsiasi avrebbe la stessa
efficacia. Se l'avrà. Pare che si possa soffrire di
qualcosa come un rigetto da trapianto. Trapianto
riuscito?
Si torna ai luoghi. Con una breve deviazione, ci
passo. Rione antico. Qualche residuo medioevale,
bifore per lo più otturate in parte a mattoni, una
finestruola a crociera cava e fumicosa come se dentro
ci fosse stato un incendio, residui di tortiglioni lungo
piccole facciate di pietra, le aperture dei bassi a sesto
acuto sormontate da stemmi corrosi. I leoni
duecenteschi all'ingresso di una chiesetta, il dorso
lisciato ad avorio dalle cavalcate dei bambini. Rosoni
e portali del romanico più tardo, con gli acanti
smozzicati dal tempo e dalle sassaiole. Tutte le chiese
a incastro fra vecchie case basse a portoncini e
finestrine. Rione popolare. Le piazzette a catena dove
giocano rincorrendosi e gridando torme di monelli
sordi ai richiami delle donne.
Il vocio che arrivava nella cappella del carcere.
Attaccato al fianco della chiesa maggiore _ una
fiancata poderosa _ lungo, anonimo, ridotto a muro
qualsiasi. Era il convento. Aspetto comune,
riadattato _ incongruo in cima al portone il
campanile _ si capisce la destinazione dalla targa
avvicinandosi a leggere. O se vi arriva il cellulare. In
sosta qualche utilitaria del personale, macchine di
visitatori. È l'ingresso per gli adulti. Dall'edificio non
scaturisce un suono un rumore (tranne durante le
rivolte dei detenuti, che salgono sui tetti buttando
tegoli e riempiendo i dintorni di rottami e clamori).
Più giù il cancello dei ragazzi. Si travede la breve
bordura e dietro il reticolato cielo e montagne.
Sempre tutto allo stesso posto, tutto uguale. È
cambiata la dicitura: prigione scuola _ riformatorio
giudiziario. Tornano prigione e riformatorio.
La stradina laterale scende in forte pendio. Sul viale
sottostante, ampio viale della città nuova, il retro del
carcere risulta elevato altissimo oltre la muraglia
recente del terrapieno, a non saperlo non si
riconosce. Una facciata giallina sopra muri alti e sui
muri un alto reticolato, rade finestre che figurano
piccole dal basso, le inferriate sono comuni a certe
vecchie costruzioni. Poco oltre il moderno Grand
Hotel, bandiere e macchine straniere, turismo aperto
dall'ardita autostrada che " ha rotto l'isolamento con
un balzo di secoli." Dalla stampa.
A proposito di situazioni secolari rimosse: è sparito il
Gabelli. Non per grazia di Dio e volontà del Popolo,
ci ha lavorato il tempo. Abbastanza indisturbato,
bisogna dire. Comunque "fine della fabbrica dei
delinquenti," annunciata dai giornali. Chiuso per
inagibilità. Pericolo di crolli. Si è scritto: pareti senza
quasi più intonaco, ricettacolo d'insetti e parassiti
d'ogni specie, servizi igienici pressoché inesistenti,
convivenza esplosiva (i rieducandi coi corrigendi e i
giudiziari), feroci pestaggi collettivi sempre più
frequenti e indomabili. Al limite di rottura. Il
famigerato Gabelli e il fantomatico San Michele,
appiccicati per un fianco come fratelli siamesi,
colossale scheletro _ ancora spettacolo architettonico
al turista _ in attesa di restauro.
Maturato anche il bubbone dell'assistenza. Coinvolta
una congerie di gente dal basso all'alto. Si rivela il
numero pletorico di istituzioni, lo sterminato quanto
infruttuoso sperpero del pubblico danaro. Scoperti
abusi vergognosi, condizioni ignobili, trattamenti
brutali. Alla ribalta laici e religiosi, megere e
monache, le monache smonacate e i preti corrotti,
autoiità ignave e speculatori privati. Sono venuti
fuori davvero strumenti di tortura, catene manette
sacchi di contenzione (moderni in plastica) e violenze
sevizie morti, sparizioni di bambini, occultamento di
cadaveri. La favola dell'Orco attualizzata. Non più il
grosso ghiottone avido di carne tenera, ma
l'aguzzino sadico. Lo sfregiatore dell'infanzia.
I lager dei subnormali. Scandalo infame e infamante.
Atrocità che si riteneva appartenessero al passato,
quanto meno alla letteratura ottocentesca _
romantica _ gli squallidi mostri di Dickens hanno
rivisto la luce. L'abitudine mercenaria genera
indifferenza, 1 indifferenza genera crudeltà. Bambini
rinchiusi nei gabinetti, a dormire legati per i piedi a
due a due, assicurati con catene, sporchi di feci,
docce gelate e privazione dell'acqua per non bagnare
i letti, fustigazioni correttive. Discriminati,
emarginati, esclusi, trattati come adulti colpevoli,
peggio, come bestie da eliminare. Non c'è stata per
loro nemmeno la Protezione Animali.
La piaga dell'assistenza ha fatto bubbone, così gonfio
da scoppiare, è scoppiato, rovesciando pus e sangue.
Rabberciato, continuerà a suppurare. Non si è messo
mano al bisturi.
Nell'ambiente (casta) deplorazione con prudenza.
Eccessi della stampa, gli sfrenati paparazzi a caccia.
Episodi, casi sporadici, generalizzati dilatati fino
all'inverosimiglianza. Si eccita l'opinione pubblica.
Chiedono sempre le teste. La Giustizia deve pesare
con la sua bilancia. Infallibile? Ben regolata.
Strumento necessario. Strumento.
Ancora nella letteratura e nel cinema di tutto il
mondo ricorre il motivo traumatizzante
dell'orfanotrofio e del riformatorio.
Incontri. Se ne parla. Qualcuno a riposo. Asprezza
dello stato di vecchiaia e di cessazione d'attività
(esercizio del potere). È della gioventù
contemporanea che si parla. Opinioni recise, a volte
contraddittorie. L'assurdo voler abbattere tutto. Mai
si potrebbe ricominciare da capo. Anche i vecchi miti
e i tabù puntellano qualche cosa, anzi tengono in
piedi i muri portanti. La libertà assoluta è un vuoto
da riempire. Gli infelici figli dei fiori, gli amanti dell'"
erba," i disperati della droga. (Gli allucinogeni,
questa sorta di fantascienza psichica.) Contestano la
tecnica e cercano _ o credono _ di tornare alla natura,
con la reazione incoerente dell'incivilito senza
scampo.
O altrimenti distruggendo. Morte alla famiglia. E poi
si constata la mancanza d'amore alla base di
frustrazioni e turbe. La gioventù al potere? Il quarto
stato? Ma come sempre al potere borghese li porterà
l'età. La borghesia non è una classe sociale ma la
vocazione dell'uomo medio. Succederà anche a loro,
a quelli che ci arriveranno. Intanto la criminalità
minorile assume caratteri spaventosi deliranti.
Appena maggiorenni colpire a fondo. La pena di
morte. Favorevoli. Graziare dalla pena di vita. La
morte la morte... La fine dell'uomo, l'oscura morte,
non si osa chiamarla grottesca, ma tale è quale la
meritiamo. Fenomeno nuovo: il suicidio dei vecchi. E
stragi. Le donne hanno un sesto senso di
preveggenza: ammazzano tutti i figli e si uccidono
con loro. È cominciato lo scoppio della follia
collettiva. Apocalisse.
Giudici giovani: suicidio dei bambini. In pochi anni
si è abbassata in maniera allarmante l'età dei
disadattati, degli irregolari. Vero è che la legge non
ha mai stabilito un'età per il decreto di ricovero: da
zero a diciotto anni, dimissione anche al
ventunesimo. Ma ormai si drogano gli scolari delle
elementari. Rubano, fuggono da casa, si
prostituiscono, non ancora quattordicenni. Ma assai
più preoccupante è la tentazione del suicidio, il male
misterioso attaccato ai bambini. Una estrema forma
di fuga. Per ragioni diverse _ situazioni familiari,
intossicazioni emotive stravolgenti _ o senza una
ragione comprensibile, sempre più bambini, i
bambini che non vogliono vivere. Freudiano istinto
di morte.
(Un vecchio appunto:
Classe millenovecentoquarantatré: la leva del pianto.
Le bambine della prima generazione che "a quel
tempo" non c'era. Non ne sanno niente, la loro
memoria è al di qua. I loro problemi sono in un
segreto di radici. Sembrano portare in sé da una
coscienza prenatale il senso della morte. I personaggi
del primo decennio: ruolo inconsapevole. A
caratterizzarle tutte è il pianto. Ogni impressione la
chiamano paura, ma risulta come un sottile piacere.
Parlano molto, insistentemente, con una effusione
continua irreprimibile. Raccontano a scuola i fatti di
casa propria, dei vicini, del quartiere, della cronaca,
disgrazie malattie morti _vanno sempre a vedere i
morti _ come storie romanzate, quasi con
entusiasmo. In un travaglio sentimentale non privo
di compiacimento. Poi per un nonnulla si sciolgono
in lacrime, lisce facili veloci lacrime di emotività
nervosa. Non lasciano traccia negli occhi, come un
lavaggio igienico. La bambina che l'ultimo giorno di
scuola, quasi per un traboccamento d'amore, mi
disse d'avermi sognata morta.)
Impassibile, il potere autoritario centralizzato smista
i casi ridotti a pratiche cartacee. Autorità chiusa,
decisioni anonime burocratiche. E sempre sistemi
minacciosi punitivi, coercizione segregazione
isolamento. È la critica del giovane magistrato
progressista. Occorre il giudice nuovo che si liberi
della toga. Che non sia ne imparziale ne, per carità,
neutrale. Soprattutto bisogna spogliarsi della
neutralità come della toga, restare solo e unicamente
il difensore del più debole, il protettore dell'indifeso.
Siamo in pochi e guai ad avanzare proposte
innovatrici. Bollate come arbitrarie. Sovvertitrici. A
nostra volta veniamo isolati e frustrati, ostacolati nel
lavoro. Non esiste gente più inutile e dannosa di
quella arrivata allo stadio del quieto vivere. Guai
attaccare il concetto di autorità, l'autorità è
intoccabile. E abbiamo a che fare con materiale
umano, ragazzi bambini, sempre più bambini.
L'altra parte: tentativi di scardinamento. Teorie
permissive indulgenti a tempi di permissività
forsennata. Criticati i colleghi nuovi come gli
studenti
contestatori, definiti con le stesse espressioni. Questi
giovanotti, gli hippies della magistratura...
Inatteso invito a colazione. Al ristorante del Grand
Hotel modernissimo. Il vecchio signore, in privato
così timido irresoluto taciturno, mi pilota
decisamente a un tavolo d'angolo contro la vetrata.
Sala terrazza sul tetto, veduta panoramica. Invito a
guardare _ da lui forestiero. Guardo sorpresa.
Da un lato l'orizzonte in larga curva frastagliata dalle
montagne, cime di sasso nudo d'un cinerino etereo,
più giù azzurre e negli anfratti viola, le pendici
ricciute di boschi, al fondo la linea ondulata del
fiume segnato dalla massa verde cangiante di pioppi
e salici in mezzo ai prati. Le costruzioni recenti,
disordinate anonime _ che invaderanno _ è possibile
per ora ignorarle, l'occhio le elimina
spontaneamente. " Guardi. " Guardo. L'altro lato. Il
corpo della città antica _ dietro sempre le montagne _
un addossarsi di tetti rossi rugginosi e il colore caldo
della pietra secolare, emergono i campanili, qualche
cupola, la torre medioevale. E facciate facciate di
chiese, scoperte _ come se fossero state sistemate a
scenario per uno spettacolo dal cielo col traforo
nitido dei rosoni. "Vede?" Vedo. Molto suggestivo,
non immaginavo. Lo stesso albergo è a incastro fra
l'antico e il nuovo, attaccato a un muro di pietra, apre
sul viale. Lo sguardo percorre da lontano a vicino,
s'accosta, s'abbassa. Voci, movimento. A livello di
qualche piano inferiore, ragazzi in pantaloncini e
canottiera giocano al pallone. Appaiono come
ravvicinati da un binocolo. Spiazzo recinto da
reticolato alto, un campo di gioco pensile. Sembra
appartenere all'albergo. "Si ricorda le reticelle per le
lampadine?" Non capisco ancora, ma sì che ricordo,
furono messe, dopo anni. Il vecchio signore sorride,
mentre il cameriere aspetta riguardoso. Sono loro,
già. Quello così vicino è proprio il convento
carcerario. Il reticolato così alto, già. E quelli sono
proprio i ragazzi. Dice: Perché non ci va?
Ho dovuto vincere certe intime resistenze, non me
n'ero resa conto. Eppure deviavo per passarci. La
cancellata esterna aperta, ma a che scopo entrare,
tutto ormai così lontano. Io estranea. Invece mi torna
di colpo familiare e ancora c'è chi mi riconosce, un
agente anziano si fa incontro. Manda ad avvertire. Il
censore si presenta subito. Ossia no, l'educatore. Sa
chi sono, ne ha sentito parlare, ha letto qualche cosa.
Gentile, accogliente. Piuttosto giovane, piccolo
magro, voce pacata, mite.
Il luogo è sempre quello. Un decennio, ma per certi
cambiamenti non basta il secolo. (L'istituto degli
orfanelli buttato giù e ricostruito a grande elevazione
e con marmi, siamo tutti milionari anche le povere
monache _ pensionato studentesse paganti.) Il
cancello intemo, lo schiavardamento. Si conta di
togliere questa chiusura, è in progetto l'abolizione
delle sbarre. Stesso cortile, imbnittito dalla loggia con
le colonne incorporate da un'otturazione a mattoni.
Tuttavia sembra meno tetro, è l'ora che ci arriva il
sole, di striscio. Sempre in uso per la ricreazione, ma
vi sono sparsi attrezzi da ginnastica. E hanno il
campo di gioco. Pallacanestro pallavolo, con pallone
vero, certo.
L'educatore mi conduce nel suo ufficio. Parliamo.
Domando. Risponde di buon grado
ragguagliandomi. Sposato, tre bambini. Buona cosa
avere figli propri. A proposito di bambini, e del
silenzio, un silenzio che colpisce. Infatti sono pochi.
Sono, per la precisione, al momento, diciannove.
Tutti grandi, scontano una condanna o in attesa di
giudizio. Prigione
scuola, detenuti, soggetti a reclusione completa, si
capisce. Non esiste più il problema della promiscuità
e dello spazio, dacché è stato costruito il complesso
pilota per l'istituto di osservazione. Moderno in ogni
accorgimento, ridente, fiorito e alberato, gran spazio
all'aperto. Ne esistono pochi, a elencarli _ richiesto _
gli avanzano le dita di una mano. Purtroppo quasi
dovunque permangono la promiscuità e
l'affollamento, in certe aree depresse viene tuttora
sfruttata la manodopera minorile. Qui si è avuta la
fortuna, il privilegio, qualche conterraneo in politica,
insomma arrivato nella stanza dei bottoni o press'a
poco.
Domando dall'aula interna per il Tribunale.
Smobilitata e utilizzata (adesso che lo spazio
avanza). Le udienze si tengono fuori _ già, come
prima _ al nuovo palazzo di Giustizia (mastodontico
incombente _funzionale _chiamato subito il
palazzaccio) qui è tutto troppo vecchio. Indecoroso,
sì, per i giudici. Però molti miglioramenti, gabinetti
docce, camerate rinnovate, refettorio con tavoli
separati: se vuole vedere. Voglio vedere i ragazzi.
(Vedrò nelle porticine mai aperte, cubicoli che ora
ospitano secchi scope strofinacci. Gli agenti sempre
dalla carriera carceraria _il direttore lo stesso del
carcere _ma comincia ad arrivarne qualcuno giovane
preparato ai corsi indetti dal ministero. Le ragazze?
Come se non esistessero. Ah sì, il numero aumenta,
fughe da casa. Aggregate alle adulte o negli istituti
retri da monache, bisogna mandarle fuori. È
cambiato tutto e non è cambiato niente. L'educatore
espone idee innovatrici, un po' didascalico, con una
leggera enfasi. La retorica, se così può chiamarsi,
derivante dalle teorie avanzate che si studiano al
biennio per il titolo di assistenti sociali . E comunque
ricorrono ormai sulle bocche, se non altro, di tutti.
Largamente insistentemente sulla stampa, nazionale
e internazionale. Comprendere
i giovani, mutare metodi sistemi (non il sistema)
guardarsi dall'autoritarismo. La voce pacata mite.
(Paternalismo?)
Si attiene al generico. Ho l'impressione di non
poterlo riportare su un terreno realistico, che non
riuscirei facilmente a indurlo ad aprirsi, magari quei
pertugi involontari così penetranti. Del resto non ci
provo neppure, è solo una visita unica occasionale.
Mi limito a qualche notizia, informazioni sul genere
dei reati, dandomi io stessa le risposte: prevalgono
sempre sesso e danaro. Lo ammette: le statistiche,
sicuro. Sento che non si lascerebbe andare sulla
propria situazione interna, i comuni fenomeni
dell'isolamento e della convivenza tra maschi. (Quei
cedimenti, in fondo compiaciuti, del censore che fra
il dire e il non dire lasciava intendere e alla fine
parlava.) Discrezione professionale, oppure ritegno
di padre di famiglia, i tabù dell'adulto. O forse
darebbe per sottinteso che anche certi problemi siano
superati, in risoluzione? Non è da credere i ragazzi
di oggi più trattabili ne davvero più continenti. Al
contrario, hanno avuto fuori possibilità di esperienze
vietate ai minori delle precedenti leve. Facilitato lo
sfogo naturale e con maggiore naturalezza, coetanee
consenzienti, le compagne di scuola che portano
nella borsetta il preservativo. Necking e petting,
frequentazione mercenaria, omosessualità di ripiego
o d'elezione, marchette e pugnette: deve esserci qui
dentro l'intero campionario. D'altronde tutte le
pratiche sessuali, comprese quelle dette
contronatura, sono antichissime, vecchie quanto
l'uomo. Semen retentum venenum est. Con buona
pace.
Mi torna in mente la Mercedes targata Roma vista
all'ingresso. Parenti, sì ne vengono. Visita per un
minore, i genitori. Temo di aver disturbato. Posso
star comoda, sono dal direttore. Effettivamente,
statistiche alla mano, prevale ormai di molto il
numero dei cittadini sui paesani, è cambiata
anche la classe sociale, ceto alto. Questi della
Mercedes, gente perbene, facoltosi industriali: la
disgrazia li ha fulminati. Una sciagurata faccenda.
Ebbene, ne hanno parlato abbondantemente i
giornali, è noto, il caso della straniera quindicenne
violentata a turno. In sei, appunto. Questo che
abbiamo qui è uno dei sei. Ottimo ragazzo,
comportamento ineccepibile, umiliato ha vergogna si
apparta. Sa, le cattive compagnie, in gruppo sono
capaci di tali eccessi... Si è lasciato trascinare,
realmente lui il meno responsabile, coinvolto. Ma
l'ha fatto? L'ha fatto. Sa come succede, spinto beffato,
per non essere da meno.. Lo difende.
Difende la Simiglia. Rinnegano la famiglia e la
sostituiscono col gruppo. Il vagabondaggio ormai
consiste nelle fughe da casa. La famiglia avrà le sue
carenze, spesso inconsapevoli, le si attribuiscono
colpe anche immeritatamente. C'è nell'aria qualche
cosa... contestano tutto e tutti... (In sintonia con la
situazione generale.) Le rivolte contro i padri e la
loro generazione in blocco. Si è creata una condizione
d'impotenza dei genitori, degli adulti, alla quale non
si sa che contrapporre. L'umanità sembra essersi
scatenata ed essi pure, i ragazzi. Il ladruncolo è
diventato scippatore motorizzato rapinatore armato,
le violenze carnali solitàrie sono diventate stupri
collettivi. Gran furti di macchine. Da aggiungere
politica e droga, i reati nuovi. Ascolto lo sfogo
inatteso che ha spazzato l'ottimismo teorico
dell'educatore. Ma si riprende: occorre aver fede,
opporsi al dilagare, abbiamo la volontà e gli
strumenti. Mi domando quali.
Ho sentito il vocio. Sono a ricreazione in cortile.
Andiamo. Aperto e richiuso il cancello, vedo che
all'interno è staio decorato: lunette triangoli rombi
cerchi, applicati sui ferri e verniciati a colori
smaglianti. Irriconoscibile, non sembra lo stesso
cancello. Fatto dai ragazzi. Decorazione pop. Come
gusto all'educatore non piace. Ma sorride indulgente.
Alcuni stanno agli attrezzi, correndo su e giù,
saltando. Altri guardano. Non guardano noi. Appena
qualche occhiata indifferente o blanda curiosità. (Se
ricordo quella selvaggia di allora...) E anche l'aspetto
è diverso. Il modo di vestire, di muoversi, la
corporatura, come se appartenessero a una razza più
sviluppata, capelli lunghi perfino alle spalle,
spiccano due biondissimi.
Viene un agente: chiamata dal direttore. Il chiamato
si muove dall'angolo dove se ne stava solitario. Alla
mia occhiata l'educatore annuisce. E lui. Passa senza
salutare e senza volgersi. Piccolo bruno, ricci leggeri,
viso gentile imberbe: la vecchia impressione d'un
aspetto non corrispondente al reato.
Sono io a far cenno, sentendomi quasi in fallo di
disobbedienza. Ne arrivano. Di corsa o
molleggiando, in pantaloni corti di tela, camicie
aperte sul petto, torsi lisci freschi. Alti belli elastici,
capigliature ondeggianti. Tutti con qualche cosa al
collo, rosari bianchi (distribuiti dal cappellano),
catene tese da medaglioni pesanti, simboli, le croci di
chiodi neri, uno porta appeso un ciucciotto da
neonato. Mi sembra di essere a Trinità dei Monti, fra
gli hippies bivaccanti per la scalinata. Parecchi
vengono infatti da Roma, ve n'è di torinesi e
napoletani, i due biondi veneri. Circondano
sorridenti senz'ombra di timidezza o d'imbarazzo.
Anzi confidenziali. Non sono più i brutti e squallidi,
le facce stralunate o ipocondriache, una sorta di
misantropia senile. Forse qualcuna allucinata, droga?
L'educatore senza il piglio autoritario, la grinta del
censore. Non ce l'hanno con lui, non ne hanno paura.
Si direbbero rovesciate le posizioni. Che abbiano
paura quelli che prima la mettevano, cioè non
propriamente invertite le parti, paura no, il
potere è sempre dalla stessa parte, ma una tal qualw
circospezione. Prudenza.
Mi rendo conto di quello che è davvero cambiato:
sono cambiati i ragazzi.
Sento il passato così remoto. Nel frattempo il mondo
si è precipitato, non si sa ancora bene se avanti o
indietro. Ispeziono, dopo le facce, i muri,, come se mi
aspettassi di ritrovarvi la scritta a carbone. Magari a
vernice indelebile. (Per le strade dominano simboli e
slogan di partito, in ribasso i soliti falli, comunque se
ne vedono, ma evoluti nel disegno, stile Picasso
Amori di Raffaello.) Facciamo l’amore non facciamo
la guerra, sarebbe l’aggiornamento più ovvio.
Oppure abbasso la guerra viva la guerriglia. Già, i
politici, questa nuova specie. Hanno combattuto alle
università, disselciato strade, usato catene, tubi di
ferro, bottiglie molotov, le battaglie ideologiche.
Questi non sono gl’infelici figli dei fiori, i disperati
della droga, i delinquenti comuni, i fuorilegge
passivi. Qui dentro, in definitiva, e per assurdo, forse
i migliori, quelli ancora vivi, che non si lasciano
solamente esistere.
Qualche cosa si è smosso. Ed è terribile pensare che il
rifiuto ma soprattutto la violenza facciano cambiare
qualche cosa. La violenza. Come le doglie che via via
sforzano e la risolutiva che spinge col sangue alla
nascita.
Da dove vengo? Prendono l’iniziativa, interrogano
loro. Dove abito io e dove abitava l’interrogante. A
Piazza Navona. Ride. Certe volte a Santa Maria in
Trastevere. Dopo lo rimanderanno a casa. (Se ci
resterà.) Mi rivolgo all’educatore: Posso fare qualche
domanda? Anche lui sottovoce: Meglio no. Ai
ragazzi: Andate a mangiare. Ne restano. E un piccolo
napoletano dagli occhioni patetici me lo dice: Tentato
omicidio. Può essere stata una rissa fra ragazzi o un
fatto grave, scontri con la polizia.
Non mi riesce, come essi apertamente, di disobbedire
all’educatore.
Sfugge la domanda stupida: che desiderano. Sono
venuta a mani vuote. Sigarette, m’era balenato.
Ignoro se sia permesso fumare lecitamente, di
nascosto s’è sempre fatto, un tempo perfino foglia
secca con carta di giornale, capaci oggi di procurarsi
l’"erba". Ma che domanda stupida: desiderano la
libertà e basta.
Il napoletanino patetico: 'O mare.
E gli altri scanzonati: Ci saluti Roma.