Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LA SCAPIGLIATURA MILANESE - FRAMMENTI

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Eppure egli era il più grande affettatore, il più grande millantatore di cinismo e di insensibilità ch'io mi abbia mai conosciuto. Povero entusiasta, pieno di cuore! In campagna per esempio gli si poteva sorprendere delle ingenuità, dei moti di gioja, delle contemplazioni degne di un fanciullo di dieci anni; era buono di star dei quarti d'ora a rimirar un pollo d'india far la rota, o due galii azzuffarsi sulla concimaja, e sorrideva come chi non ha in cuore che delle speranze. Fu a Venezia, e ne andava pazzo; colà dopo veglia in teatro, dopo aver fatto il diavolo a quattro in maschera, quasi morto di stanchezza e di sonno pur non rientrava in casa se non era camminato qualche ora su e giù per le calli ad ammirar la superba dei Dogi sepolta nella quiete delle ultime ore di notte. Tutto in lui era contradizione; tutto in lui riusciva a formar il tipo del giovane condannato alla Lombardia forzata della seconda metà del secolo decimonono. Povera natura ardente! Il suolo della tua terra non ebbe per te abbastanza emozioni; tu eri nato per vivere nel cratere di un vulcano. - Avanti i pierrots! Viva i pierrots!! Largo ai pierrots!!! - Viva l'allegria .....e le maschere nazionali! - Viva le spalle d'avorio e le labbra di corallo! E la prima coppia della pazza fila irrompendo dall'arco della scalea che dal corridojo scende nell'atrio cozzava nella folla che tentava a furia di gomiti di entrare in platea. Il varco è fatto, e la bianca lunghiera binata penetra tortuosa fra la ressa, in mezzo agli applausi dei circostanti ed alle grida sfrenate delle pierrettes strillanti come anime del purgatorio. - Viva i pierrots. Viva il carnevale che arriva una volta all'anno. - Olà la musica. Orsù una polka. Viva la danza e la follia. Il preludio rimbomba sulla gran cassa; i clarinetti attaccano sull'ultima battuta, e la polka spigliata e scorrente cresce come onda armoniosa e si propaga elettrizzante e veloce nell'immensa sala. Da ogni parte si balza dai sedili, da ogni parte si corre agli amplessi, e la ridda scapigliata incomincia. - Buona sera Arrighi? Anche lei al veglione? Che miracolo! Ha sentito di quel povero diavolo che poco fa s'è gettato dalla finestra? - No ... dove? - chiesi io con una stretta al cuore. - In contrada di Santa Radegonda. - Cristo sacrato!! Sarebbe mai Temistocle! E piantando sui due piedi quel nuncio di malaugurio, mi precipitai fuori di teatro, e via come un energumeno per S. Paolo verso la casa di lui. Il presentimento era così forte che non m' avea neppur lasciato il tempo di chiedere il nome dello sventurato. C'è nella notizia di un suicidio, per quanto sconosciuto o indifferente ti sia chi si troncò la vita, c'è sempre, dico, un qualche cosa di terribile e di fatale; e tanto più fatale quanto più la notizia è secca, senza commento, senza compianto. Io credo che non v'abbia scena o capitolo di dramma e di romanzo che possa agir con tanta potenza sull' immaginazione di un uomo di cuore come queste poche e ghiacciate parole, lette forse nel Nuovo Emporio o nei Faits divers d'un giornale Parigino: "Jeri una povera fanciulla di diciott'anni abbandonata dall'amante s'è asfissiata col carbone nella sua soffitta." A chiunque non sia un rettile privo di sentimento balenerà attraverso la fantasia un poema di dolore e di amore tradito nella vita di quella povera creatura stroncata al primo aprirsi ai raggi del sole. Quante notti di pianto, ruggito colla faccia prona sui guanciali del povero lettuccio, prima che la tremenda determinazione le si sia impiantata nell'anima riluttante! Che uragano implacabile fra l'ultima speranza perduta e la completa disperazione! Ma quando lo sventurato tu lo conosci, quando poche ore prima gli hai stretto la destra con un: a rivederci, pregno di simpatia reciproca e forte, quando credi che, giovane qual è, sano, agiato, pieno di talento e di avvenire egli sia felice ..... Dio mio! che tremendo mistero di dolore nascosto nel più profondo del cuore deve essere stato quello che lo spinse all'atto disperato! Giunto a capo della via, vidi da lontano un crocchio di gente; ma non era sotto il balcone di Temistocle; sperai, e rallentai la corsa; sentivo nel cuore uno sgomento indicibile. Arrivai al crocchio. - Dov'è quel meschino? - chiesi a un operajo che andava sciamando: La provvidenza! Un giovane di quella fatta! E dicono che c'è la provvidenza!! - L'hanno trasportato in quella bottega - mi rispose. Vi andai, e passando quella soglia credetti di cadere d' emozione. Un cadavere sanguinoso e sconciato stava disteso su una tavola .... me gli appressai, guatandolo al lume incerto d'una candela di sego. Era Temistocle.

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 1 occorrenze

"Non nego che la lettura abbia la sua importanza; ma qui s'inten- de altra cosa: s'intende la purezza dell'intonazione, il modo di emettere la voce, la delicatezza del fraseggiare, l'agilità, la grazia". Maria, socchiudendo l'uscio, mostrò il suo viso stravolto. Voleva chiamare il padrone, che non la vide; e non ebbe l'animo di scuo- terlo in quel momento di distrazione e di calma. "È l'ultimo forse!" pensò la serva, tornando a chiudere l'uscio. "Ma l'avviso di Napoli ha torto" continuava il vecchio. "Il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempo dei gorgheggi; entriamo nell'età della passione e del dramma. Quel giovine, che tu detesti, autore dell'Ernani e del Rigo- letto.". "Ha corrotto il canto". "Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo im- pulso alla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; ma quando diventerai ancora più vecchio, quando giungerai alla mia età, in cui ci si distacca dal mondo, allora l'animo imparziale ti lascerà vedere le virtù del presente come gli errori del passato. Io temo, a dirtela schietta" proseguiva il maestro con accento dol- ce e insinuante "temo che uno dei miei peccati sia stato il setticla- vio. La logica è talvolta un inganno; e per amore della semplicità teorica si casca nella pratica in tali complicazioni da rendere vano ogni ragionamento e ogni sforzo. Non ostinarti; accetta il posto di Milano; continua ad essere utile alla gioventù, sacrificandole un vecchiume, forse un pregiudizio". Mentre il Chisiola parlava, l'al- tro mutava aspetto. Un grande scoramento s'impadroniva di lui; era come se la molla, che lo reggeva in piedi, si fosse spezzata d'un tratto. Gli caddero le braccia, ed il volto andava perdendo la sua vivace espressione. "Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara idea, per la quale avrei saputo morire!". Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio, precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra privo di sensi. Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al Caffè della Gloria A un tavolino quattro sensali giuoca- vano alle carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò: "Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere del tribu- nale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno, maestro". Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale conti- nuò: "Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne rammento". Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando: "Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon galan- tuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove dia- volo li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?". "Le donnette, le donnette" vociavano i sensali, sganasciandosi dalle risa. "E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!". Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa: sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale. Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era tro- vato in piedi sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due muratori, che passavano in un battello, l'alza- rono su e lo condussero all'ospedale, ove fu posto nella sale d'os- servazione. Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia pas- sione del setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli face- vano preparare, arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli dava- no un bicchiere di vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci, che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio batteva il tempo; e ne- gli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da paradiso. Non c'era uo- mo più felice di lui.

Vietato ai minori

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Bonanni, Laudomia 2 occorrenze

Risulta che abbia cercato prestiti per una sigaretta. L'imputato teneva lui il portafogli. Non è vero, glielo consegnò per strada perché aveva visto uno zio. Faceva da sé il presunto plagiato? Maneggiava danaro: compra offre regala. Era sempre circondato. Nega anche lui con la testa. Negano tutto. Storia inestricabile. Dopo la sentenza, di assoluzione, si danno la mano, anche con gli altri del centro il giudicato scambia strette di mano ricevendo congratulazioni. Si è difeso accusando la madre del bambino di portargli rancore per una lite. Indignazione della donna. Il bambino tornò col sangue giù per le gambe, prima disse che era caduto. (Lesioni sfintere anale.) Piange, non vuole andare davanti al giudice, la madre gli ha portato la palla. Anche l'imputato sembra piangere per un'otturazione del lacrimale. "Impossibilità di sfogo naturale, manifestazioni sessuali in forme esasperate." Non capisce quello che si dice di lui, lacrima da un occhio e nega ostinatamente, ciecamente. Il bambino rifiuta di guardarlo, no no no, butta la palla in mezzo all'aula. La madre contrae il viso _stupore disprezzo _mentre l'avvocato sostiene l'innocenza del suo cliente. In casa dello zio medico, ospite per l'estate. Ginnasiale (adesso I liceo), solitario, sempre coi libri. Il padre della bimba lavorava per il medico, volle andarsene. Lui l'hanno mandato in collegio a Napoli. È un carota lentigginoso, arrossisce a chiazze accese come spellature, le orecchie gli vanno in fiamme. La bimba, ancora minuscola _ aveva tré anni _ gentilmente ma insistentemente interrogata, dice bua. Aveva fatto capire che si mise in ginocchio per terra, le mani al culetto e il pipì. Secondo le due prime perizie defiorata, a una terza no. Restitutio in integrim. Cicatrizzazione. Si parlò di dote alla bambina fra gli avvocati. Battagliano in aula rilanciandosi scientificamente dottamente i più minuziosi particolari. Il padre, giovane, pallidissimo, preme le mani sulle orecchie quasi rifiutandosi di ascoltare. Alle guance del ragazzo immobile, fissi gli occhi vetrini, il colore s'intensifica via via come se lo schiaffeggiassero ripetutamente, gl'invade la testa rossa, sembra lì lì per scoppiare. "Criminale abuso di ospitalità, sfregio all'innocenza, delitto infame..." Soffre tutta la vergogna della vergognosa natura. Ha sempre sostenuto che voleva accertarsi se era fatta come la neonata di sua sorella, assisteva al bagnetto. Mentre il suo patrono ridimensiona minimizza giustifica, il rossore si ritira, resta a chiazze sotto le mandibole. Sciogliendosi dall'immobilità in cui era paralizzato, stacca le braccia, appoggia le mani sulla panca, muove gli occhi. La bambina dorme profondamente in braccio alla madre. Restituita all'innocenza. Al bambino violentato, gli diceva: Vedi, questo fa il ragazzo. Come un ammaestramento. Con naturalezza e semplicità, con orgoglio. Fa quel liquido biancastro spumoso, come la donna fa il latte. Coppia di quindicenni: associazione per delinquere. Una serie di furti e furterelli in natura, fino al, pantagruelico banchetto a base di salsicce rubate. Grandi robusti coloriti, capigliature folte in disordine, capelloni li chiama il PM. Si portano le mani ai capelli cercando di reprimerli, come se scherzassero. Assicurano di aver fatto uno scherzo con le salsicce, negano il resto. Allegri, per nulla intimiditi. L'avvocato, d'ufficio, tenta inutilmente di ammonirli. Poca voglia di lavorare? Questo non lo negano. Uno sentenzia, con leggera modifica: " Tré sono i potenti, il Papa, il Re e chi non fa gnenti." Il Re non c'è più, rimane il Papa?, ma non sembrano considerare potenti nemmeno i giudici. Ripresi, tornano seri con buffa compunzione. Grande muscoloso, fisico un po' brutale, faccia negroide. La donna ha ventisette anni, ne dimostra assai più ma conserva qualche attrattiva, occhi di un nero brillante: siciliana. Fama in paese di abbordabilità. Gettata a terra, strappate mutande e pannolino, accorse alle grida un uomo, sangue anche sulla faccia dell'aggressore. L'avrebbe provocato dicendo: Non sei buono a fare. Malgrado l'aspetto si esprime bene, sicuro e risentito. Lavora a Roma. Ma perché con gli organi più sporchi, la natura sembra aver relegato l'amore tra le basse funzioni. Accusa di un difensore alla natura.

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Impossibile anche la famiglia, può darsi che la stessa madre lo abbia respinto, o la repulsione delle sorelle. Vaga come l'ebreo errante. A Roma si riduce a bussare al Gabelli. Cerca che lo tengano dentro, fuori non può stare. Non può scegliere la libertà. Lo hanno tenuto. Dove sia ora nessuno sa, come rintracciarlo. Qualcuno collega la sede della detenzione e del processo con la mia provenienza, sembra che mi nominasse. E così telefonano. A titolo di curiosità. Ringrazio.

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GIACINTA

662549
Capuana, Luigi 2 occorrenze

. - Se tu credi che io abbia dei romanzetti pel capo! - Che significa dunque quel: lasciami libera? - Te lo spiegherei se tu fossi piú calma. - Sono calma, calmissima; ci vuol altro per agitarmi. Che significa dunque? ... E aspettava la risposta mordendosi il mignolo, col gomito appoggiato sull'altro braccio piegato sotto il seno, scotendo irrequietamente un piede ... Giacinta esitava. - Significa - poi disse - che l'avvenire è ancora lontano ... ; che, per ora, né io né te dobbiamo ... legarci le mani. Credimi, ho in orrore la società, benché la conosca assai poco ... Non darti pensiero di me ... Se dovrò prender marito, non prenderò che una persona di mia scelta, risolutamente ... a costo di farti dispiacere ... Ma non lo prenderò, mamma ... Ho un presentimento ... Che so? ... Ecco ... non riesco a spiegarmi ... Non darti piú pensiero del mio avvenire ... Non ci penserò nemmeno io ... Qualcosa nascerà ... vedrai ... Però, te lo ripeto, non avrai noie per cagion mia ... Lasciami fare ... anche una sciocchezza! Che te ne importa? ... La signora Teresa non aspettò che terminasse; le voltò le spalle, sbatacchiando l'uscio con violenza. E Giacinta ricadde abbandonatamente sulla seggiola, sfinita dallo sforzo fatto e quasi sgomenta della piena coscienza di sé stessa acquistata in quel punto.

IL BENEFATTORE

662576
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
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. - Non abbia paura; siamo qui noi! - disse uno di essi. - Non ho paura di nessuno - rispose alteramente il signor Kyllea. - Sono suddito inglese! ... Ma che vogliono costoro? - Dicono che l'acqua appartiene ad essi; che lei l'ha distolta dall'altro versante della collina. - Sono matti o furfanti. - Dica: bestie piuttosto! Li hanno suscitati, incitati ... Il brigadiere è là ... Abbiamo telegrafato per rinforzi ... Ora si udiva un rumore confuso di voci, di passi incalzanti, quasi di armento che scendesse con corsa sfrenata, abbattendo gli ostacoli che gli capitavano dinanzi. I due carabinieri si affacciarono alla porta e rientrarono, chiudendola. Il signor Kyllea, pallido, smaniante, strizzandosi le mani, si volgeva di tratto in tratto a guardare nella stanza accanto ... - Ah! Se non ci fossero le donne! ... Ho tre Remington! Don Liddu, che era andato ad affacciarsi dall'alto della terrazza, venne ad annunziare: - Se ne vanno! ... Hanno guastato tutto! ... Ma lungo lo stradone scende un'altra fiumana di gente ... Le campane suonano a stormo! Don Liddu s'interruppe. Grida confuse, fischi, poi due colpi d'arma da fuoco! ... I carabinieri si slanciarono fuori; e don Liddu, afferrato il padrone, cercava a ogni costo di impedirgli di uscire. - Per carità! Voscenza , no! Voscenza , no! Il signor Kyllea stava per svincolarsi, quando comparve miss Elsa, atterrita. - Babbo! ... Che cosa è stato? ... Babbo! Ed ecco la signora Kyllea mezza vestita, bianca come un cencio lavato, che gesticolava senza profferir parola. Il signor Kyllea si contenne: - Niente! Niente! - disse. - Dei malintenzionati. Ma non potè far a meno di trasalire anche lui, sentendo picchiare alla porta, e gridare: - Aprite! Aprite! - Sono i carabinieri! - esclamò don Liddu che aveva riconosciuto la voce. Erano essi infatti, accompagnati dal brigadiere e sostenevano una figura insanguinata, con gli abiti stracciati, che si reggeva a stento. Miss Elsa die un grido; aveva riconosciuto Paolo Jenco!

Ma, avete sentito dire finora che l' inglese abbia fatto celebrare una sola messa laggiù? - Se vi chiamasse per celebrarla ogni domenica, non sparlereste. - Non sparlo io, dico la verità. E, in quanto ai risultati, vi ripeto: Datemi tempo! Eh? Vuole insegnarci a fare il vino? Ma sappiamo farlo meglio di lui, e di uva schietta. Farà degli intrugli e discrediterà i nostri vini costui. Fa burro e formaggi ... di latte di vacca! Avete mai sentito dire che si facciano formaggi col latte di vacca? Farà formaggi che inverminiscono in due giorni. Se gli inglesi sono porci, da preferirli al nostro piacentino , al nostro caciocavallo, peggio per loro. Che è mai quel suo burro? L'ho assaggiato; cosa insipida, cosa da medicature, se mai. Oh! Vedremo i suoi olii. Per questo ha comprato Pennino e Santa Barbara , che hanno boschi di ulivi. Strettoi di ferro, o di acciaio, che so io? E la ruggine? Non guasterà gli olii? Don Paolo Conti, che ha voluto provarli questi nuovi famosi strettoi, vi ha rimesso mezzo patrimonio ed è tornato all'uso antico. E poi, chi troppo abbraccia, poco stringe, dice il proverbio. Il canonico, fatta una dispettosa scappellata, era andato via. Intanto, laggiù, sotto il sole, la vallata sorrideva, col vigneto, con l'agrumento, con le cascine bianche, con le vacche pascolanti su per le colline ora che e' era da brucare erba fresca sotto gli ulivi di S. Barbara . In cima a una collina, specchieggiavano due grandi vasche d'acqua per l'inaffiatura delle piante di limoni; e, più in là, con la facciata tinta in verde pallido, si vedeva il Cottage a un solo piano, dove sarebbe venuta ad abitare la famiglia dell' inglese , moglie, figlia e una cognata sorella della moglie, con due donne di servizio. Il Sindaco e gli altri tre erano rimasti a contemplare, muti, quello spettacolo che loro sembrava ancora incredibile, quantunque avessero assistito, quasi giorno per giorno, alla rapida trasformazione. - Il canonico è una bestia! - aveva poi esclamato il Sindaco. - Ma ci sono a Settefonti un centinaio di bestie uguali a lui. Protestanti! Che me n'importa, se fanno tanto bene? L' inglese è stato una provvidenza per Settefonti. Se c'è chi può lagnarsi, siamo noi proprietari che ci abbiamo visto mancare le braccia dei contadini, e abbiamo dovuto pagarli come li paga lui. Ma ora anche questo guaio cesserà; non occorrono più grandi lavori laggiù. Io non sono spericolato, come il canonico e tant'altri. Il mondo, infine, è di chi se lo piglia. Siamo curiosi noi! Don Liddu, per esempio, si è ingrassato a spese dell' inglese tre anni. Quasi tutto l' Albergo del Gallo era occupato da lui che vi aveva istallato i suoi uffici di amministrazione, lasciando appena una stanza per i forestieri, quando ne capitava uno. Ed ora che vede sfuggirsi questa mammella succhiata tre anni comodamente, Don Liddu piange e si strappa i capelli. Dice che è rovinato, perchè la clientela gli si è sviata, e già Maccarone gli ha preso il posto, con la Locanda della Luna là di faccia, quasi per fargli maggior dispetto. Che pretendeva? Che l' inglese rimanesse eternamente all'albergo? Egli ha laggiù un'abitazione da principe - posso dirvelo io che l'ho visitata - proprio da principe, da farci vergognare delle nostre catapecchie. Dovrebbe vivere con la famiglia all'albergo? ... Sarà una bella giornata domenica prossima. Mezzo paese invitato; banda, fuochi d'artifizio. Pranzo per una settantina di persone ... Verrà appositamente il cuoco di una gran trattoria da Catania ... Alla faccia nostra! Sia! L' inglese , l'altra volta, ce l'ha spiattellato sul viso in Casino: - Potreste fare una Società, mettere insieme i capitali che tenete morti in casa, e chiederne altri al credito bancario, se non bastassero. La Sicilia diventerebbe un giardino; produrrebbe dieci, venti, cento volte più che oggi non dia. Invece, state qui in Casino, a morir d'ozio! Non ha forse ragione? - Dovrebbe dare l'esempio lei ... - Non ne ragioniamo! È inutile! Quando si vedeva messo alle strette, il Sindaco se la cavava sempre così: - È inutile! Non ne ragioniamo!

Racconti 2

662733
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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. - Non ricordo piú - rispose il dottore - chi abbia scritto: "Se venissero a riferirmi che un tale ha portato via il Colosseo, prima di rispondere: "È impossibile" andrei a vedere". Io la penso come costui; e gli scienziati, secondo me, dovrebbero comportarsi cosí. Fui puntuale, all'ora fissata; la donna arrivò poco dopo. Il severo studio del mio amico aveva due balconi, uno a levante, l'altro a mezzogiorno, e una larga ondata di sole lo invadeva in quel punto. "Ho avuto a stento il permesso" disse la evocat rice. "Da chi?" domandai. "Dai miei superiori - rispose semplicemente. - Questo signore è un incredulo - soggiunse rivolta al mio amico. - E gli spiriti non si mostrano volentieri a chi non crede". "Voglio credere - dissi. - Sono qui per questo". Costei - pensavo intanto - mette le mani avanti! E la osservai attentamente mentre si accingeva a disporre dietro la tenda del balcone l'orciolo con l'olio, la candela accesa e il piattino col sale. Nessun indizio di furberia su quel viso, ma una grande stanchezza, la stanchezza della miseria. "E chi vi ha insegnato?" le domandai. "Mia madre - rispose. - Stiano attenti. Gli spiriti non entreranno qui; attraverseranno il corridoio, passando davanti all'uscio". E si nascose dietro la tenda. Parlava con tale sicurezza, da spingermi a pensare: "Tu forse stai per vedere un prodigio!". Eravamo, il mio amico ed io, in piedi, in faccia all'uscio. A un tratto, il mio amico mi afferra una mano, e comincia a stringermela forte. Non mi distolsi dal guardare verso il corridoio, p ur comprendendo che quegli aveva paura. Io mi sentivo tranquillissimo, senza diffidenza ... Dieci minuti di intensa aspettazione ... e la donna uscí fuori dalla tenda. "Ha veduto?" disse. "No". "Non li hai veduti?" esclamò il mio amico quasi balbettando. Era pallido come un morto. "Sette - soggiunse. - Li ho contati; quattro donne e tre uomini ... come fatti di nebbia, con lunghe tuniche bianche ... Sono passati lentamente ... Ti ho stretto forte la mano nel terribile momento. E quella gran luce?" "Non ho visto nulla!" "Non crede! - disse la donna. - Per vedere bisogna avere la grazia ... " Forse è cosí: bisogna avere la grazia, come ella si esprimeva, cioè una disposizione naturale, una facoltà speciale ... Che ne sappiamo? E il mio amico è rimasto talmente convinto di non essere stato vittima di un'allucinazione, che è morto sospettando sempre della mia buona fede. Ha creduto che io abbia negato di aver visto per cocciutaggine di medico materialista. E non è vero -.

Racconti 3

662753
Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Questo però non vuol dire che Emilio Roxa non abbia potuto scoprire o creder di scoprire in lei qualità tali ... L'amore consiste appunto in cotesta virtú, diciamo, creativa; nel vedere quel che gli altri non vedono, nell'indovinare quel che gli altri non sospettano neppure; nel tirar fuori ex nihilo cose che acquistano esistenza soltanto per chi ama, e che diventano reali perché reale è quel che noi, sia pure per effetto di allucinazione, stimiamo reale; psicologia positiva che voi stesso, metafisico arrabbiato, non potrete negare. Intanto passano due anni di matrimonio senza che un figlio o una figlia vengano a rallegrare la loro unione. Voi ed io avremmo pensato: «Tanto meglio!» Ma noi siamo corrotti dalla civiltà. Emilio Roxa, al contrario, è un barbaro, un primitivo, un uomo perfettamente naturale: vuole un figlio o una figlia. Stima che il matrimonio sarebbe un atto senza scopo se non dovesse produrre altri esseri e perpetuare la specie ... Nei due anni di vana attesa che il lieto avvenimento si compisse, il desiderio diventava angosciosa fissazione. Egli pensava spesso alla grande gioia da lui provata parecchi anni addietro quando gli era nato un figlio da una relazione equivoca, e al profondo dolore prodottogli dalla morte di quel bambino ... Dunque il difetto non stava in lui ... Gli repugnava però di condurre sua moglie in un gabinetto di medico per accertarsi ... Voi ed io, in simile circostanza, ci saremmo contentati di attendere ... Lui no. Pensava che la scienza forse aveva mezzi di correggere le imperfezioni dell'organismo, di rimuovere ostacoli, di provocare attività addormentate. E un giorno ... Accade spessissimo cosí. Si cerca una spiegazione che avvalori un nostro sospetto, e se ne trova un'altra precisamente opposta, che vi fa cascare dalle nuvole. Qui Roxa si rizzò sul busto, si passò rapidamente le mani sul viso e sí ficcò le dita tra i capelli, quasi si sentisse assalito da commozione improvvisa e ne avesse stizza. Io che, mentre egli parlava, non avevo cessato un solo istante di tener d'occhio il suo naso rivelatore, scorgevo in un replicato arricciamento di esso la vivace espressione di quella stizza, e n'ero stupito. Roxa si accasciò nuovamente, piú abbattuto di prima. Povero Roxa! Non aveva neppur forza di proseguire. Avrebbe mai potuto imaginare che quella magra, quasi brutta e assolutamente insignificante, non ostante ch'egli si fosse lasciato indurre a sposarla e le volesse bene ancora dopo due anni di matrimonio e dopo la delusione dell'agognata genitura ... ? Avrebbe egli mai potuto imaginare che vi sarebbe stato al mondo un altr'uomo capace di farsene un'amante, come egli se n'era fatta una moglie? Avrebbe mai potuto imaginare che quella donna concepisse la maligna risoluzione di dimostrargli che l'ostacolo, no, non era in lei? ... Infelicissima idea, in verità, la viva insistenza di Emilio: «L'ostacolo è in te! L'ostacolo è in te!» Pur troppo la vanità (non la tentazione diabolica, com'egli supponeva) perde sovente un galantuomo! Eppure io non credo che la signora Roxa abbia avuto la perversa intenzione di una vendetta; credo piuttosto che ella abbia agito con animo sicuro, convinta dal marito che appunto l'«ostacolo» stesse in lei e che quindi non c'era da temere, in ogni caso, che ne venisse fuori la dimostrazione contraria. Quell'altro era inquilino della stessa casa, uscio a uscio, scapolo e collega di Emilio nella quarta divisione al ministero della guerra. Passavano le serate insieme, distraendosi con interminabili partite di scopa, fumando, bevendo qualche bicchiere di vino, chiacchierando, facendo un po' di maldicenza ... L'occasione, dicono, fa l'uomo ladro. Veramente il proverbio non mi sembra giusto, perché i veri ladri cercano l'occasione; ma lasciamo andare! Senza dubbio fu l'occasione che fece prevaricare la signora Roxa. E quando ella ebbe la sorpresa e la certezza ... A questo punto, caro professore, Emilio Roxa, oh! non raccontò piú, rappresentò la tragica scena. Io assistei a qualcosa di scespiriano interpretato dal Salvini dei migliori tempi! Scena indimenticabile, caro professore! Riveggo Emilio con quel viso di stupore animalesco, quasi la ragione gli si fosse annientata nel cervello, mentre mi ripeteva, imitandone fin la voce, le parole di sua moglie: «Sai, Emilio? ... Credo ... che il Signore ci ha fatto la grazia!» «Proprio, il Signore! Proprio, la grazia!» Le donne hanno a dirittura la privativa di certi mirabili eufemismi! Che cosa poteva risponderle? ... Avrebbe dovuto saltarle al collo, strozzarla per quella sfacciataggine! ... E allora? Egli si sarebbe smentito da sé. E c'era inoltre il fatto - Emilio non aveva resistito alla vanità di ripeterglielo parecchie volte - c'era il fatto del bambino avuto, nella prima giovinezza, da una di quelle donne che non si sposano e della paternità del quale egli non poteva dubitare ... - bambino bello come un angiolo e che pareva precisamente il suo ritratto ridotto in piccole proporzioni. - Poteva egli confessarle ora che, dopo una sciagurata malattia ... ? A quell'età si è imprudenti, non si bada a pericoli «Ma, dottore, è possibile? Non s'inganna?» «Ormai è un fatto accertato dalla scienza. Sí! Sí!» Gli tornava in mente la consultazione di due anni avanti, e rivedeva la seria figura del dottore che insisteva: «Sí! Sí! ... » Ed ecco, caro professore, la terribile situazione presente! Che dovrà fare il povero Emilio? Il figlio ... di quell'altro ... sta per nascere ... Emilio non ha forza né coraggio di disdirsi, dopo aver quasi rinfacciato tante volte alla moglie: «L'ostacolo è in te!» né trova modo di far valere la sua dignità offesa. «La colpa è mia! ripete, la colpa è mia!» E, in verità ... Per ciò egli lascia correre per ora. E con sua moglie finge di credere che il Signore, finalmente, gli abbia fatto la grazia; e non osa di chiudere in viso a quell'altro la porta di casa! Io mi atterrisco pensando quel che può accadere da un momento all'altro: una strage, forse! Un suicidio, forse! - Forse niente di tutto questo, dite voi, caro professore. Indovino? In certi momenti, riflettendo bene, quel naso mi rassicura. Non mi par naso da suicida o da assassino. Son sicuro che esso mi darà occasione di scrivere le piú belle e piú profonde pagine della mia Psicologia positiva del naso ... A questo mondo, caro professore, c'è sempre qualcuno che guadagna con le disgrazie degli altri!

Mettiamo pure, semplice ipotesi, che mia moglie - in un momento di debolezza femminile - abbia commesso il fallo che le si addebita! Giudice naturale, inappellabile, dovrei essere io, suo marito ... Marito da cinque anni, non da tre come il suo corrispondente si è incaponito a sbagliare; ma, de minimis non curat prætor ! Cinque anni di felicità domestica, rallegrati da due figli, un maschio e una femmina, e da un disgraziatissimo aborto, mi danno il diritto - seguito la ipotesi - di giudicare a modo mio quel che può essere accaduto nel santuario della mia famiglia. C'è stata profanazione? Sia. Ma se io non volessi accorgermene? È precisamente come se non ci fosse stata. E quando non me ne accorgo o fingo di non accorgermene io, gli estranei dovrebbero riflettere: «Giacché lui ... etc.!» Ragionamento che non fa una grinza. «Ma la suocera ... !» scrive il corrispondente. Ah! Lei non conosce che terribile animale sia mia suocera. Pur d'infamare me, costei non guarda se infama peggio sua figlia. Lo so, essa pretende che io abbia spinto al mal passo quella buona creatura coi miei vizi, coi miei maltrattamenti, con la mia inqualificabile trascuranza. Mettiamo anche - per semplice ipotesi - che ciò sia vero. Sarebbe una scusa per una moglie onesta? Un'attenuante forse; e concedo troppo. E una mamma che conosce il suo dovere non cercherebbe simili attenuanti, quando si tratta della propria figlia; negherebbe, negherebbe arditamente, assolutamente. Le attenuanti, come mi insegna lei che è avvocato, sono una conferma bell'e buona! Da questo giudichi mia suocera! Già, se lei la vedesse, se la sentisse strillare e sbraitare, costei non parla; strilla, sbraita ad ogni occasione, in ogni circostanza, sgranando gli occhiacci, agitando mani che sembrano granfie, Dio ne scampi! - lei esclamerebbe: «È una diavolessa!» Io, piú remittente di lei, la chiamo: strega. E mi basta. E il suo corrispondente ha la faccia tosta di scrivere: «quella gentile e affettuosa signora!» Egli mentisce, sapendo di mentire, come suol dirsi! «Ma c'è il ... terzo incomodo, l'amico intimo!» scrive il corrispondente. Se sia incomodo o no, dovrei saperlo io. Incomodo non è e non è mai stato, altrimenti lo avrei preso per le spalle e lo avrei messo fuori dell'uscio da un pezzo. Siamo amici d'infanzia, indivisibili. Io ho preso moglie, lui no. Che vuol farci? È rimasto scapolo impenitente, per le sue strambe idee intorno al matrimonio e alle donne, idee che non sono riuscite a convincermi in tant'anni, pur sentendogliele ripetere ogni giorno. L'amicizia, la vera amicizia è fatta di tolleranza reciproca. Io l'ho lasciato pensare e agire a verso suo; e quando gli annunciai la mia risoluzione: «Prendo moglie!» il mio carissimo amico non fiatò per tentare di dissuadermi. Mi rispose soltanto: «Prendiamola pure!» Intendeva di dire: «Prendila, e fa' il comodo tuo!» Ma il suo corrispondente scorge in queste parole una malignità anticipata, una cattiva premeditazione. «Datemi due righi di un galantuomo e ve lo faccio impiccare!» diceva ... diceva ... chi? Voltaire? Insomma, qualcuno che conosceva bene i suoi polli, cioè la gente. E cosí mi si vorrebbe spingere ad impiccare il mio amico per due innocenti parole che proverebbero piuttosto la nostra grande intimità, se non fossero un semplicissimo modo di dire: «Prendiamo!» Chi l'ha presa infatti? Io, al municipio; io, in chiesa. Colui era là, da testimone; ma il «sí», il famoso «sí» l'ho pronunciato io. Lui non ha aperto bocca. Per ciò quel «prendiamo» non significa niente. Doveva egli attendere cinque anni per finalmente giustificarlo? Sono cose che possono passare soltanto per la testa bislacca d'un imbecille come il suo corrispondente o di una strega come mia suocera di lui ispiratrice! Penso: «Che cosa avrebbero detto, se per caso avessero saputo ... ?» Apprenda che mia moglie è stata un anno e mezzo, diciamo cosí, indecisa, prima di allietare la nostra casa con la procreazione di un bambino. Io n'ero addolorato; no, non è la parola; n'ero estremamente mortificato. Si prende moglie appunto per la gran sodisfazione di poter esclamare: «Ecco qua!» Ed era già un anno e mezzo che questa esclamazione mi rimaneva in gola, quasi a soffocarmi. Mi compatisca. Veramente bisogna esser mariti per comprendere certi sentimenti, e lei, tuttora scapolo, non potrà figurarsi la mia gioia quando ebbi la certezza che mia moglie si era, tutt'a un tratto ... decisa. Ebbene, allora io dissi al mio caro amico: «Terrai a battesimo il bambino o la bambina, quel che sarà!» Rispose con un gesto di rifiuto. Creda, me lo ebbi a male e volli una bella spiegazione. Dovetti insistere per ottenerla. «Ma, sciocco - egli mi disse - come non capisci che, con la nostra intimità, mi parrebbe di tenere a battesimo il mio proprio figliuolo? La chiesa lo vieta». E gli diedi piena ragione. «Scrupoli di coscienza! ... Rimorsi! ... » avrebbero certamente comentato quella strega di mia suocera e il suo pappagallo della «Gazzetta». Non dubiti, vedrà, lo diranno ora. Ed ecco con che fragile materiale vengon rizzati certi edifizi che proiettano la fosca ombra della calunnia su la reputazione di un galantuomo! Ed ecco con quali miserabili induzioni si sconvolge la pace d'una famiglia, e si tenta di spezzare i solidi anelli della forte catena di un'amicizia d'infanzia rimasta intatta durante le varie vicende di lunga serie di anni! Eh! Non sono piú giovane, signor direttore; e neppur lui, il mio intimo amico. Stiamo per volger le spalle alla quarantina. Io, se lei mi conoscesse di persona, le sembrerei un po' piú vecchio. L'apparenza inganna; invece, il mio amico, che sembra meglio conservato, ha tre mesi e mezzo piú di me. Ma ogni volta che gli dico: «Non puoi levarteli d'addosso neppur col rasoio!» si arrabbia, sul serio, tanto che mia moglie, giorni fa, dovette intervenire, in mia difesa ... Oh, un altro equivoco! Mia moglie lo ha sempre trattato con deferenza, sí, ma insieme, con un che di rigidezza, secondo me, alquanto inopportuna, e che avrebbe dovuto essere sufficiente per tagliar corto a tutte le calunnie messe in giro dalla strega e dal suo pappagallo. (Non voglio piú chiamarli altrimenti, lei deve permettermelo). Sicuro, un altro equivoco. Se essi lo sapessero! ... Lo apprenderanno da me. Dunque, giorni fa, io, che talvolta divento un po' seccante, (lo confesso!) per ridere, si capisce, ripetevo al mio amico: «Neppur col rasoio!» Chi sa che diamine d'impressione gli producono queste parole! È inesplicabile che un uomo serio come lui, un uomo che ha letto tanti romanzi ed altri libri, e che divora almeno cinque o sei giornali la mattina e altrettanti la sera (io n'ho d'avanzo del «Messaggero») è inesplicabile, dico, che un uomo serio come lui possa prender cappello per quelle insignificantissime sillabe: «Neppur col rasoio!» Ma è un fatto; egli prende diabolicamente cappello; e allora gli scappano di bocca ... Insomma, giorni fa, mia moglie fu talmente colpita da questa stranezza che dovette intervenire in mio favore, lanciandogli in viso sdegnosamente e replicatamente: «Sei uno stupido!» E siccome io non seppi frenare un movimento di sorpresa e di maraviglia a quell'insolito «sei», mia moglie si corresse subito e si scusò con l'amico: «Mi sembrava, perdoni, di parlare con lui!» Lui ero io! Che risate! ... E piú di tutti ridevo io che avevo visto l'amico far certa faccia all'esplosione di mia moglie. Non se l'aspettava ... Che risate! Ma veniamo al fatto, al gran fatto, cagione dell'ultima sbrodolatura del corrisp ... no, del pappagallo di quella strega di mia suocera. Badi, signor direttore; mi stampi questa rettifica senza cangiarvi una virgola. Rispondo io di tutto, caso mai, carcere e multa; non abbia timore. C'è Alfredo Rocca qui presente e scrivente che assume ogni responsabilità ... Veniamo dunque al gran fatto! Sí, è vero, ho gridato, ho chiamato gente! E molte persone sono accorse, credendo che si trattasse di ladri o d'incendio. Ma, premetta che ci si vedeva poco a quell'ora, e che in casa non avevano ancora pensato ad accendere i lumi. Premetta anche che la donna di servizio era scesa giú e avea lasciato l'uscio aperto. Non ne fa mai una diritta quella cretina! Io tornavo a casa col penultimo numero della «Gazzetta» in tasca. Se volessi darle a intendere che non ero agitato, mentirei. La lettura di quel; Ci scrivono da Brusca (quarto o quinto Ci scrivono? ) mi aveva indignato ... Infilo l'uscio aperto ... Inciampo, nell'anticamera, allo scuro, in quell'ammasso di carnaccia floscia che è mia suocera ... Urli! Strida! Quasi io lo avessi fatto a posta! ... E allora, uno strillo di là, in salotto! ... Si metta un po' nei miei panni, signor direttore! Tornavo a casa con la fantasia sconvolta, perché certe accuse, appunto perché calunniose e stimate tali, fanno maggior effetto sur un galantuomo. Si metta un po' nei miei panni ... Un forte strillo di là, nel salotto, e un gran rimescolio di seggiole, di tavolini! ... Che avrebbe creduto lei, dopo aver trovato aperto il proprio uscio tenuto abitualmente chiuso? Un quarto d'ora dopo, tutto era spiegato! Mia moglie e il mio amico - arrivato allora allora in cerca di me - oh! cose da bambini - stavano combinando di farmi un po' di paura appena sarei entrato, al buio, in salotto ... - Oh! cose da bambini! - Ma, per mia suocera, tutto è stato un bieco tranello ordito da me, da lunga mano ... Perché? Per disonorarmi da me stesso? Per vendicarmi? ... E poi? ... Se non mi son vendicato di nulla, vuol dire che non avevo da vendicarmi di nulla! È chiaro? Il corrispondente ... mi è scappato! Volevo chiamarlo unicamente pappagallo della strega; ma sono sempre in tempo: il pappagallo della strega e la strega possono essere ben contenti dell'opera loro! Io sono felice di essermela tolta, in questa occasione, di fra' piedi! Sono felice di veder già resi piú solidi i nodi della mia amicizia d'infanzia, e di veder sparita - mi faceva rabbia - quella rigidezza inopportuna con cui mia moglie trattava il mio amico. «A dispetto dei calunniatori - gli ho detto - datevi del tu, fraternamente!» E già se lo danno, a tutto pasto! Dopo questa lezione - La capirà? Ne dubito! - il pappagallo della strega non aprirà piú becco. In quanto ad essa, strilli, sbraiti pure! Mi dispiace solamente che io sia stato tirato pei capelli a far questa rettifica che mette le cose a posto, e a ingombrare per forza parecchio spazio della «Gazzetta». È la prima volta che mi capita, e spero che sia anche l'ultima. Pel giornalismo, non me la sento; ci vogliono degli imbecilli come colui che le ha scritto da Brusca. Lei, oh! lei è un'altra cosa; lei è giornalista per ... forse non lo sa nemmeno lei perché. È qualcosa di meglio: avvocato! Con ringraziamenti ed ossequi dev. ALFREDO ROCCA

Appunto ho ricercato in parecchi vocabolari se mai vi si trovasse una parola che non significhi soltanto la cosa, ma che abbia la stessa forma. - C'è: «Piantime», voce generica. Vorrei qui un fiorentino, un senese, un toscano qualunque per domandargli se esiste un vocabolo simile a quello con cui s'indica, nel dialetto siciliano, piú precisamente, il piantime dei cavoli e delle lattughe. Noi diciamo: «cavolina», «lattughina» le pianticelle nate dal seme e che poi, sbarbate, si ripiantano. La «mulierina» indicherebbe le ragazzine da tirar su per amanti a tempo opportuno. Non è fina, gentile e anche supremamente espressiva? E ora intenderete bene quel che il mio amico faceva. Era un famoso inseguitore di popolanine, di quelle che già mostravano piú palese l'istinto della civetteria. Ne aveva per le mani piú di mezza dozzina alla volta. Se no, avrebbe egli potuto parlare di «mulierina»? E con che serietà ragionavamo di tali ... conquiste per modo di dire! Uscivamo di scuola, coi libri sottobraccio - egli aveva sedici anni, io quindici! Si tratta di storia antica, di piú di mezzo secolo fa! - e ci appartavamo subito dagli altri ragazzi per discorrere dei nostri ... affari di cuore. - Fermiamoci qui - egli mi disse una mattina. - Vedrai che scoperta! - Un'altra? - Bellissima. Ripassa per questa via, tutti i giorni, alla stessa ora. - Ecco la «bruna!» - feci io. - Fingiamo di non accorgercene; potrebbe darsi che sopravvenisse l'altra ... - La «bruna» era una ragazzina di quattordici anni, la meglio addestrata tra quelle che formavano la «mulierina» del mio amico. Aveva già vinto il ritegno di fermarsi a discorrere con lui; lo attendeva al passaggio, quando egli tornava da scuola a casa; sapeva l'ora, e indugiava a riportare alla sua mamma la risposta per cui essa l'avea mandata in qualche posto o l'oggetto che era stata incaricata di andar a comperare. Scambiavano poche parole, quasi sempre le stesse. - Come stai? D'onde vieni? Mi vuoi bene? Ci rivedremo piú tardi? - E lei andava via contenta, orgogliosa di quella scappatella; e lui si dava con me certe arie! ... Aveva ragione. Io sarei stato incapacissimo di fare altrettanto. Egli diceva di prepararsi cosí «l'avvenire». - Un giorno o l'altro quelle ragazzine sarebbero cresciute, avrebbero preso marito -. Calcolo diabolico! penserete. Vi assicuro che non n'è seguito mai niente di male. La «mulierina» venne poi trapiantata ... e non fu il mio amico colui che, per modo di dire, mangiò la pianta assiduamente coltivata. Sic vos non vobis ! Sapeva anche Emilio quest'emistichio virgiliano, ma non si curava di riflettere se le circostanze lo avrebbero applicato a lui. Il suo gran diletto consisteva nel coltivare la «mulierina». Ve lo ripeto: fanciullaggini! - Fingiamo di non accorgercene - aveva detto. Ma la «bruna», niente intimidita dalla mia presenza, si accostò per comunicargli sotto voce non so che cosa. Emilio rispose un po' brusco, con gli occhi in fondo alla via. Aveva già visto l'altra, la «bellissima», che veniva avanti, avvolta nella mantellina di panno blu scuro, col vestitino di mussola azzurra picchiettato di pisellini bianchi, e un mazzolino di rose in mano che metteva una macchia sanguigna tra l'azzurro della veste e il blu scuro dei lembi della mantellina. La «bruna» si era allontanata diffidente, voltandosi piú volte addietro; si era fermata un istante a discorrere con la «bellissima» - si conoscevano - e le aveva domandato di quel mazzolino di rose; lo capimmo dal gesto con cui l'altra lo nascose rapidamente, quasi per sviare quella curiosità. Emilio fremeva; io ero ansioso come allo spettacolo di un gran dramma. A certa età, cose insignificanti prendono importanza che ora ci fa sorridere di compassione. La «bruna» già sospettava? Fatti pochi passi fermatasi di nuovo si era voltata addietro a osservare. E la «bellissima» - Emilio non aveva esagerato - passò via, con tal sorriso negli occhi - soltanto negli occhi - che io non l'ho piú dimenticato. Nel passarci dinanzi però, lasciava cascar per terra il mazzolino delle rose. - Grazie! - disse Emilio. E si chinò a raccoglierlo. La «bruna» aveva visto tutto; s'era mossa quasi per venire a chiedere spiegazioni; poi fatta una spallucciata, avea continuato per la sua strada. - E ora? - feci io. - Non me n'importa! - esclamò Emilio. - Come le sorridevano gli occhi! - È la sua gran bellezza. La chiameremo «Sorrisino», per intenderci quando parleremo di lei -. Fanciullaggini! Intanto è vero, pur troppo, che non bisogna scherzare, non che col fuoco, nemmeno con la «mulierina», che parrebbe la cosa piú sciocca e piú innocente di questo mondo. Ed è anche vero che le ragazzine, non ostante l'età, sono donne compiute. Come sia accaduto ora non lo ricordo bene, ma ricordo che qualche settimana dopo la «bruna» si vendicava del mio amico mettendosi a civettare con me. Io avevo esitato ad accettare le sue piccole grazie di occhiatine dolci, di saluti ... Ma Emilio, da ricco signore ... e anche per togliersi un impiccio, mi aveva incoraggiato a corrisponderle e a intraprendere, come lui, la coltivazione della «mulierina». La mia invincibile timidezza m'impedí di fare altra prova. «Sorrisino?» Oh! Era precoce piú di tutte le altre. Queste civettavano, quasi giocavano all'amore, come per fare il verso alle adulte; lei, invece, si era subito innamorata davvero ... E quando vedeva Emilio diventava tutto un sorriso, negli occhi, nelle labbra, direi nell'intera personcina esile e slanciata. Pareva che il sorriso le svampasse come una bella fiammata accesasi nel cuore e che avvolgesse da capo a piedi il suo delicato corpicino. Io dicevo ad Emilio: - Dovresti contentarti soltanto di lei! - Ma ormai egli aveva preso quell'aire; aveva istinti da sultano, che turbavano la mia ingenuità ... Quanto eravamo diversi allora dai giovinetti del giorno d'oggi! E di quanto poco ci appagavamo! Emilio, quando dopo molti stenti riusciva a strappare un bacio a qualcuna, credeva di aver fatto una prodezza da gran seduttore. Al giorno d'oggi, c'è giovanini di sedici anni, che prendono posa di stanchi, di seri, di nauseati delle donne! ... Ha progredito la società, non c'è che dire! Eravamo in progresso anche noi, come si lamentava mio nonno. Ai suoi tempi - egli assicurava - giovanottoni dai diciotto ai vent'anni, facevano il chiasso per le vie e le spianate, giocando alle piastrelle, a capanniscondere ... Io non mi lamento; ricordo soltanto ... Il mondo muta: lasciamolo fare! «Sorrisino» dunque s'era innamorata davvero. Non aveva atteso che Emilio le rubasse un bacio come alle altre. Gli avea buttato lei le braccia al collo, una sera, in un cantuccio di via deserta - allora non c'era fanali - ed era scoppiata in pianto dirotto, annunciandogli che non si sarebbero piú trovati insieme. Era cresciuta e la sua mamma aveva deciso di non mandarla piú attorno cosí sola! - Passerò io per la via, tutti i giorni, dopo scuola. La domenica ci rivedremo alla messa cantata! - E quel via vai durò un anno! Io accompagnavo Emilio. Bisognava vedere «Sorrisino» alla finestra e davanti l'uscio! Quegli occhi brillavano, sorridevano come non ho mai piú visto brillare o sorridere occhi di ragazza o di donna. Se non che il roseo colorito delle sue guance cominciava a sbiadire, e gli occhi si cerchiavano di pavonazzo, e il viso si affilava, e il corpicino delicato dimagriva, dimagriva ... Ma il sorriso persisteva piú bello, piú espressivo che mai. Io lo invidiavo al mio amico. E accadde che un bel giorno mi rifiutai di accompagnarlo. Tutt'a un tratto mi ero accorto di essere innamorato di «Sorrisino» piú seriamente di lui. Ero geloso, soffrivo ... Non ho mai sofferto tanto, e cosí chiusamente, in vita mia! E quando seppi da Emilio che «Sorrisino» era malata, che ora si trovava raramente alla finestra, e non poteva piú andare alla messa cantata - l'amore rende spietati - sentii una cattiva gioia, un malvagio sollievo. Passai piú volte, solo, inutilmente, per quella via. Una mattina però rividi «Sorrisino», accoccolata in una seggiola, davanti a la porta, al sole, avvolta nella mantellina come una freddolosa ... Era irriconoscibile, consunta dal mal d'amore, ma sempre con quel divino sorriso nei begli occhi, su le labbra, quasi fosse lieta di morire cosí, «per lui!» E mi accennò arditamente, come per invocare che io avvertissi Emilio che l'avrebbe trovata là, forse per l'ultima volta. Sorrideva intanto, sorrideva! ... Mi par di vederla! Nessuna immagine di donna me l'ha piú scancellata dalla memoria! Fui spietato. Volli serbare tutto per me il divino sorriso di quel giorno ... Ed Emilio non ha mai saputo che io piansi «Sorrisino» come se fosse morta di amore per me! ... Gli ho fin portato rancore per parecchi anni. - Povero Emilio! Con tutta la sua «mulierina», non riuscí un don Giovanni. Fu anzi buon marito e buon padre. Quando si dice: - Dall'alba s'indovina il giorno! - Tutti i proverbi falliscono qualche volta. E se vi è parso - concluse Pietro Carrara commosso, - che io vi abbia raccontato una storiella insignificante, peggio per voi. Niente consola tanto nella vecchiaia quanto il rivivere mentalmente le ingenuità di una volta! -

Milano in ombra - Abissi Plebi

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Corio, Ludovico 2 occorrenze

Voglia la sorte che quando la Società sarà disposta ad ascoltare i lamenti della plebe e ad esaudirne i desiderii, la società non abbia a dover riconoscere quanto sia vera la sentenza del Machiavelli, e cioè che "venendo con i tempi avversi le necessità, tu non sei a tempo al male, ed il bene che tu fai non ti giova, perchè è giudicato forzato, e non se ne è saputo grado alcuno." Noi facciamo il dover nostro e ripetiamo il nostro grido; e se mai troppo affiocata fosse la nostra voce, gioviamoci di quella potentissima di Victor Hugo che per la Francia potrebbe essere stata profetica: "Messieurs, songez-y, c'est l'anarchie qui ouvre les abimes, mais c'est la misère qui les creuse."

E invero, quantunque in un eccesso di zelo, l'Autorità di Pubblica Sicurezza abbia fatto chiudere parecchie case di prostituzione (rimedio inefficace contro l'immoralità ognora crescente), tuttavia Milano contava sul finire del 1881 ben 28 case di tolleranza, delle quali 5 di prima, 11 di seconda, 6 di terza classe, oltre a 6 case particolari. Le prostitute iscritte regolarmente nel 1881 erano 430, delle quali 45 facevano di sè mercato in case di prima, 105 in case di seconda, 80 in case di terza classe. A fare il numero di 430 contavansi ancora le prostitute isolate e tra queste 34 di prima, 18 di seconda, 98 di terza classe e finalmente 50 prostitute vaganti, tutte appartenenti queste alla terza classe. A tali cifre favoriteci dall'egregio amico nostro dott. Gaetano Pini, aggiungeremo queste notizie recentissime, e cioè che oltre le 22 case pubbliche di tolleranza ve ne sono 12 private. Le prostitute iscritte al 20 giugno 1882 erano 614; quelle che si presentano alla visita sono in media circa 400, delle quali 80 esercitano la prostituzione clandestinamente. Il Sifilicomio ne ricetta attualmente 52 e ne ha 29 in esperimento Confessiamo che quest'ultima espressione, pórtaci da una relazione ufficiale, ci sembra molto curiosa, se non molto chiara. Da questi dati non si potrebbe argomentare della moralità di Milano. Conviene sapere per farsi un'idea precisa della condizione di Milano, che forse duemila femmine fanno copia di sè per denaro, in barba a tutti i regolamenti della Pubblica Sicurezza. Urge che venga rialzato il livello morale della città nostra, perchè si corre verso la depravazione in modo ignominioso. Nei postriboli non s'infognano solamente i lôcch, ma benanco moltissimi giovani di oneste famiglie, i quali incominciano in questi turpi luoghi a mettere il piede sullo sdrucciolo del vizio, per finire poi a precipitare nel baratro del delitto.

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Spero che lei vorrà restare con noi, finché ne avremo bisogno, o almeno finché non abbia trovato da collocarsi meglio..." "Non so, vedremo..." balbettò il giovane facendosi rosso in viso. "Non si cacciano via i galantuomini" soggiunse la signora sorridendo. E dopo un momento di riflessione riprese a dire: "Noi abbiamo patito insieme..." "Oh sì, e devo a lei se non ho commesso del male..." continuò Ferruccio con sincero entusiasmo. "Il male non fa mai bene, come ha visto. Ne abbiamo sofferto tutti, colpevoli e innocenti, e chi sa se avremo finito! Il male è un numero sbagliato, che rende falsi tutti gli altri numeri e falsa la somma totale. Uso un paragone d'aritmetica per farle vedere che comincio anch'io a far pratica coi numeri e cogli affari." Ferruccio se ne partiva sempre, dopo questi discorsi, colla mente turbata, ansioso di tornare a Milano come chi, sognando una colpevole compiacenza, è tratto dal naturale rimorso a svegliarsi e a cercare la luce. Ma una volta a Milano, i ciottoli della città diventavano per lui carboni accesi, gli pareva di vivere colla testa, ma senza cuore. Il cuore era là, alle Cascine, che sanguinava, che lo chiamava. Non gli era mai sembrata così serenamente bella, così in colore, così calma e padrona di sé, così forte, di una fortezza dolce e terribile. I pretesti per tornare alle Cascine non gli mancavano. E nell'attesa lusingava e faceva tacere la morbosa inquietudine, lavorando faticosamente a redigere il rapporto della situazione finanziaria della casa, un'azienda che, se era ordinata e scritta nella testa del signor Tognino come in un libro, offriva molte lacune e molti gruppi non facili a essere sciolti. Nella selva del bilancio e delle cifre, Ferruccio penetrò con una specie di voluttà, come chi sfonda arbusti spinosi e ortiche per arrivare a cogliere un mesto ciclamino sull'orlo di una roccia. A questo turbamento doloroso non osava più dare un nome. Ha la lingua umana le parole per questi misteri così profondi? vi può essere una definizione dell'infinito? Possono gli occhi leggere ciò che una mano misteriosa scrive nel buio? Qualche volta usciva di casa la mattina per portare delle carte all'avvocato, o per recarsi allo studio; e mentre il pensiero seguiva l'oggetto o la pratica, come si suol dire nel gergo del mestiere, il tram di Lodi lo trasportava alle Cascine, come una forza che lo sottraesse e lo rapisse a un còmpito noioso, per avvicinarlo a un dolce spettacolo. Capiva però che questo giuoco non poteva durar molto. Era necessario ch'egli se ne ritraesse prima che diventasse crudele, come ogni bel giuoco tirato in lungo. E siccome sentiva parlare del Corpus Domini come di un giorno stabilito per mettere una gran pietra sul passato, stabilì anche lui e si abituò a considerare quel giorno come l'estremo termine di una gioconda "ferie" giovanile, come la chiusa d'un fantastico poema ch'egli aveva scritto solamente per sé. Che cosa sarebbe stato di lui dopo quel giorno non andava a cercare. A che pro? Chi può essere indovino del domani? Ma ad ogni modo egli doveva ritrarsi da una strada erta e pericolosa, dove molti più forti e più temerari di lui lasciano spesso la vita e l'onore. Non osava guardare in faccia ai pazzi pensieri che gli passavano pel capo. C'era da farsi compatire, da farsi fischiare da tutto Milano. C'era da morir dalla vergogna, se lei avesse potuto leggergli nel cuore. Il ragazzo che non aveva saputo trovar la sua strada nel mondo, il figlio del portinaio, il mezzo chierico, il commesso a sessanta lire, in certi sogni esaltati correva a immaginare ch'egli potesse salvare o almeno difendere la buona signora dagli oltraggi della gente, rapirla, fuggire con lei in un paese lontano, al di là dei mari, contrastarla alla violenza e all'egoismo, come gli antichi cavalieri dell'Ariosto, che contro cento mostri combattevano da soli, vestiti d'armi lucenti e incantate. Ma eran sogni: forse era meglio voltare le spalle alla tentazione. Da qualche tempo il padre Barca andava discorrendo di un posto di compilatore e redattore di un giornaletto cattolico, che una pia associazione di Genova voleva impiantare coll'aiuto di una ditta libraria di là. E insisteva presso la Colomba perché persuadesse il nipote ad accettare. Da cosa nasce cosa: il giornale poteva condurre la bottega, e colla buona volontà, cogli studi fatti, con buoni appoggi, Ferruccio era sicuro di farsi una posizione nobile e indipendente. Bisognava aver del coraggio e decidersi: ma non osava dirlo a lei. Tutte le volte che il discorso rasentava questo argomento, egli affrettavasi a confondere le parole, per paura di dir troppo. Un giorno il signor Lorenzo lo incaricò di consegnarle una lettera che aveva messo insieme coll'aiuto letterario e filosofico della zia Sidonia. Chiedeva perdono, si dichiarava pentito, prometteva una vita nuova; la morte di suo padre era stato un tremendo castigo per lui; sentiva il bisogno di rifugiarsi in campagna, di mettersi a lavorare, di fare il contadino, e pregava Arabella di scrivergli una parola di perdono prima del Corpus Domini , tanto che egli avesse coraggio a presentarsi e potesse accettare l'invito della mamma. Ferruccio aveva finita la lunga e bella relazione finanziaria, a cui aggiunse un prospetto riassuntivo, scritto con due inchiostri e con molti bei fregi e svolazzi calligrafici: un capolavoro. Intendeva con questo bilancio di chiedere il suo congedo... e di non lasciarsi più vedere. Dalle parole del signor Lorenzo aveva capito che egli era mandato ambasciatore di pace: e anche lui aveva bisogno di pace. Arrivò alle Cascine che non aveva ancora messe insieme le quattro parole necessarie per dare alla signora le sue dimissioni: e si affrettò a cambiar idea. Le avrebbe scritto da Genova. Quel suo fuggire improvviso, non giustificato, o confusamente giustificato, avrebbe dovuto far senso, ed era appunto in questo non so che di strano e di violento che essa avrebbe cercato delle ragioni; e forse tra le molte avrebbe trovata quell'una, che egli non poteva dire; e l'avrebbe compatito... sorridendo; ma l'avrebbe compatito, povero ragazzo! "È uscita" disse il Pirello. "Se vuol parlarle, la troverà presso la Colorina a pitturare." Ferruccio prese la stradicciuola che costeggiando il canale, mena alla chiesetta in mezzo ai campi. Le siepi mandavano un acuto profumo di robinia fiorita. La strada molle ancora per un'allegra pioggerella notturna, sentendo il caldo del sole, esalava anch'essa il buon odore della terra umida, correndo tortuosa tra il canale e un'alta siepe fino al ponticello dei mattoni, coperto da un bel gruppo di piante. Seduta sopra una delle basse sponde del ponte, Arabella stava schizzando sull'albo quella parte dell'abbazia, che usciva nell'apertura della stradicciuola, tra due pioppi che facevano da cornice sopra lo sfondo sereno del cielo. Essa non si accorse del giovine, se non quando questi le fu vicino; e per un istante egli rimase dietro di lei in silenzio, non vedendo innanzi a sé che il bagliore della luce diluita nel verde dei prati. "Oh..." esclamò per la prima, e non poté nascondere un improvviso turbamento. "Mi ha fatta una paura..." "Sono così terribile?" si sforzò di aggiungere per tenere il discorso allegro e indifferente. "Che novità a Milano? non posso dirle di accomodarsi, ma se si mette là, sul muricciuolo, finisco questo disegno..." "Non sapevo che ella fosse così brava..." riprese il giovine, meravigliandosi con se stesso di sentirsi così coraggioso stamattina. Era il coraggio di chi perde gli ultimi quattrini in un gioco disgraziato, e che, sapendo di non poter più pagare, arrischia anche quello che non ha. "So far di meglio, per sua regola..." rispose Arabella ridendo, senza togliere mai gli occhi dal disegno. Vestita di un abito scuro di lutto, con in testa un cappelluccio tondo di paglia scura, il collo e l'ovale del viso spiccavano d'una bianchezza di smalto. Qualche fiamma di sole, passando attraverso le foglie degli alberi che facevan testa al ponte, accendeva di tenero splendore i capelli accomodati colla massima semplicità. A un soffio d'aria cento fiammelle d'oro l'investivano dando alla sua gentile persona una bellezza spirituale. Questa almeno fu l'impressione che Ferruccio, seduto in faccia sull'altro muricciuolo rosicchiato del ponte, ne ricevette, mentre ardiva contemplarla, quasi senza paura, per tutto il tempo che rimasero soli sulla strada deserta, nel dolce silenzio dei campi. L'acqua molle e verdognola del canale passava silenziosa sotto i loro piedi, scendendo a dare a bere ai prati. Tratto tratto un frullo d'ale. Un passero scendeva a saltellare sulla strada come se non ci fosse nessuno, e volava via. "Ho una lettera del signor Lorenzo per lei." "Lo vede spesso?" "Quasi tutti i giorni." Arabella sollevò gli occhi sull'abbazia e parve dimenticarsi. "Lei sa come sono stata offesa." "Lo so, poverina. Son cose che non si capiscono." "Eppure dicono che è una storia così comune. I romanzi non parlano che di tradimenti e di vittime. Legge lei dei romanzi?" "Non ne ho mai letti. Finché studiavo da prete era proibito; e poi ho dovuto pensare alle mie tragedie." "Ora è guarito..." "Sì, per grazia di Dio; ma per poco quel cane di uno sbirro non mi rompeva la testa. Vede ancora il segno?" Ferruccio indicò una lunga cicatrice sulla fronte, alla radice dei capelli tagliati corti. "Ma credo che il maggior male non sia la ferita: la morte vien sempre dal cuore. Per fortuna ci sono delle anime buone a questo mondo..." "Ci sono?" provò a chiedere Arabella, con un leggerissimo tono di scetticismo. "Sì, ci sono. Guai a noi se non ci fossero. Che conforto avrebbero le anime che soffrono? Crede che nessuno abbia avuto compassione di lei? Quel giorno che ho aiutato a portarla in casa, pensando che fosse morta, ho pianto; quasi ho pregato che fosse morta davvero." "Perché?" "Non so spiegarmi. Mi pareva allora che a una morta si potesse voler bene più che a una viva." Arabella tornò a fissare gli occhi lontano, e mormorò, rispondendo quasi a una lunga questione che ella facesse dentro di sé: "Può essere." Ferruccio, colpito dalla gravità delle parole che gli erano uscite di bocca, quasi venisse meno a un tratto l'esaltazione dolente che l'aveva fatto parlare, si curvò sul muretto, e fissò gli occhi nell'acqua, provando la vertigine d'essere anche lui trascinato lentamente col ponticello e colle piante verso i prati. Chi aveva parlato per lui? La Colomba avrebbe potuto dire che aveva parlato in lui la sua mamma. Ma a Ferruccio era sconosciuta questa legge, per la quale lo spirito dei morti parla nei vivi. Si sentì a un tratto meschino e colpevole. Non osava più sollevare gli occhi in faccia a lei, che, chiusa in un freddo silenzio, continuava a giudicarlo, e a castigarlo, tacendo. Essa gli pareva lontana lontana: non la vedeva quasi più. "Non so se mio marito abbia pensato anche all'Augusta. Gli faccia memoria. Se l'Augusta vuol rimanere ancora con noi, potremo combinarci. Di tornare a Milano non si parla, per ora, né io lo desidero. Mi ha preparata la relazione?" Furono queste parole così fredde e precise, di una importanza così pratica, pronunciate con grave lentezza, che richiamarono Ferruccio alla realtà della sua sorte e gli dimostrarono quel ch'egli era di fronte alla signora. Arrossì come il fuoco: si mosse, balbettò qualche parola sconnessa, e, presentando la lettera e la relazione, disse: "Se lei mi comanda..." Arabella gli stese la mano, ch'egli strinse nelle sue, e portò alle labbra come l'altra volta, mentre grosse lagrime di dolore e di pentimento gli solcavano le gote

Il cappello del prete

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Lo tracannò in fretta, e volendo ribadire una opinione, che nel peggior dei casi avrebbe aiutato a salvarlo, continuò: - Non dico che il cacciatore abbia ucciso il prete piuttosto a Santafusca che altrove. Può essere che siano molti i colpevoli, che l'abbiano affogato in mare dopo avergli rubati i denari, e che uno di loro, cacciatore o meno, abbia gettato il famoso cappello al di sopra del muro di cinta del mio giardino, cinque, sei, dieci miglia lontano dal luogo del delitto per deviare le traccie della giustizia. - Può essere cosí... È alto il muro di cinta? II barone non rispose. I suoi occhi erano fissi alla porta, da dove vedevasi il banco dell'albergatore. - È alto? - Che cosa?, - chiese il barone sempre fisso a quella porta. Cecere si voltò e vide che due carabinieri stavano mostrando un foglio al padrone, chiedendogli delle spiegazioni. Il dialogo fu interrotto dal cameriere. - Che cosa desiderano ancora? - È sua eccellenza che comanda in questi feudi... - disse Cecere. - Per me non so... dite voi... Mi sento la testa pesante e balorda. C'era troppo sole laggiú. Il barone si fregò la testa colla mano come se volesse cancellare le rughe della fronte. - Poiché abbiamo parlato di cacciatori, proviamo un pollo alla cacciatora - disse Cecere. I due carabinieri scomparvero e il padrone tornò al suo posto. Cecere, tutto occupato a consumare il pranzo in salsa gratis, credette sinceramente che il barone avesse preso troppo sole, e gli disse: - Un buon rimedio è un sonnellino... Del resto, eccellenza, ci perdete poco a non aver appetito. Avete mai visto un pollo piú apocalittico di questo? Mi pare di aver sul piatto lo scheletro dei nostro prete... Questi signori si burlano della stampa e dello sport, bisognerà ch'io dica anche questo nell' Omnibus . Cecere scrisse su un taccuino alcune parole: cappello... cacciatore... muro alto... prete e pollo magro - e dopo un gran fiume di parole, che "u barone" non ascoltò colla scusa del suo mal di testa, se ne andò contento della sua giornata. Il barone rimase solo, colla testa appoggiata alla mano e gli occhi in apparenza fissi sulla carcassa che Cecere aveva lasciata sul piatto. Si sentiva veramente male. Quegli stupidi discorsi, l'allegria fatua e volgare di Cecere, la vista di quei due gendarmi, che parevano venuti per cercare qualcuno, avevano rimosso il sangue guasto delle sue vene, ed egli ripiombava ora piú gravemente nella dolorosa contemplazione del suo pensiero. Da venti giorni menava una vita ladra, disperata, piena di scosse e di spaventi, di speranze, di sforzi erculei per sorreggere l'edificio artificiale ch'egli aveva edificato sul suo delitto. Aveva perdute molte notti al giuoco, nell'orgia, e per molte giornate aveva cercato la forza e l'oblio al chiasso, alle stalle, ai cavalli, ai liquori, al vecchio Medoc. Oggi, dopo una giornata di gran sole, si sentiva veramente la testa riarsa e incapace di connettere due buone idee. Era una condizione pericolosa per un uomo che aveva bisogno di ragionar molto bene e di far ragionar gli altri a suo modo. Anche il cuore, quel benedetto cuore già malato, si faceva sentire piú del solito... E intanto non aveva nemmeno fame. Se beveva, lo faceva piú stordirsi che per piacere. Egli non aveva dato ancora quella tale scossa forte alla vita che doveva far cadere tutte le foglie morte, e sentiva che non sarebbe mai uscito dai suoi pensieri, finché non fosse terminato quel maledetto processo. Per fortuna le testimonianze erano tutte concordi per dimostrare l'innocenza di Giorgio della Falda. Ma se per un errore giudiziario il castigo fosse caduto sopra un innocente, avrebbe avuto egli il coraggio di aggiungere questo delitto al primo? Per quanto un uomo valga una lucertola, gli sarebbe ripugnato di far soffrire un uomo vivo. Si può non aver paura degli spettri, ma ci sono pensieri che fanno piú paura degli spettri. Pensare, ecco il castigo! Egli aveva sperato troppo in una scienza: ed era la scienza che aiutava a raffinare la sua coscienza. Quel caro dottor Panterre forse era uno stupido anche lui. Solo le belve divorano senza rimorso; e pace egli non avrebbe trovata mai, mai, lo sentiva, se non a patto di abbrutirsi a poco a poco nell'orgia e nel fango. La bella principessa gli aveva detto "a rivederci"; ma egli non ci sarebbe andato. Quella graziosissima creatura, avvolta in una nube di profumi orientali, dagli occhi vellutati e pensosi, dalla voce piena di note musicali, non avrebbe fatto che ingentilirlo e farlo soffrire di piú. Era già troppo Marinella colla sua giovialità incosciente di bella bestiolina. Il barone di Santafusca non avrebbe mai potuto conciliare il suo cuore pieno di spaventi colla sua ragione piena di principii... Ecco la terribile battaglia che disertava il piccolo campo della sua vita. Questi pensieri passavano in un'ombra l'un dopo l'altro come una nera processione, mentre col capo appoggiato alla mano, gli occhi socchiusi, sentiva bollire il suo vecchio Medoc nella testa già cotta dal sole. Era una brutta vita... Perché non si ammazzava? Questa era una dimanda che non si era mai fatto. Se un uomo val l'altro, perché non aveva fin da principio accoppato sé in luogo del prete? O che forse egli aveva paura del retroscena? - Oh! i grandi imbecilli che siamo - mormorò a mezza voce, e si mosse per uscire. Il giorno dopo l' Omnibus portava il brillantissimo articolo di Cecere intitolato: "Tre giorni a Santafusca". Il cronista descriveva il suo viaggio attraverso a un paese incantato, popolato di case e d'uliveti. Poi seguiva la descrizione d'una villa stile barocco e un cenno storico sulla famiglia dei Santafusca, che Cecere aveva copiato dalle "Famiglie notabili". "Sua eccellenza il barone Coriolano ci venne incontro colla sua solita amabilità (cosí continuava il favolista) e ci strinse cordialmente la mano. Bell'uomo il barone e ha per i giornalisti una speciale simpatia. Aggiungiamo ch'egli è uno dei piú eleganti e arditi nostri gentiluomini, e se le belle gli danno piú di trent'anni, ciò non vuol dire che ne abbia quaranta. "Sua eccellenza (che tra parentesi è molto seccato del chiasso che si fa intorno al suo nome) mi ha fatto vedere il luogo dove, secondo quel che dice la gente, sarebbe stato trovato il famoso cappello. Anch'egli è della nostra opinione che il prete possa essere stato ucciso altrove, e che, per deviare le traccie della giustizia, il cacciatore abbia gettato il cappello al di sopra del muro di cinta. Abbiamo voluto misurare il muro: è alto due metri e quarantasette". E dopo molte altre particolarità di questo valore, che Cecere aveva pescato nel calamaio, l'articolo finiva col motto: "Cherchez le chasseur". Due giorni dopo questi fatti, un bigliettino graziosissimo del cavaliere Martellini pregava sua eccellenza il barone di Santafusca a un colloquio particolare nel suo gabinetto... ma senza la principessa. "Mi dispiace - soggiungeva - darle tanto disturbo per una faccenda che andrà a finire in nulla: e può essere che prete Cirillo, uscendo a un tratto dal suo nascondiglio, risparmi a V. S. S.ILL. anche questa seccatura. "Ma intanto, per esaurire la pratica, come diciamo noi, bisogna che senta anche il padrone di casa. Non pensi di presentarsi al giudice, ma all'amico. Resteremo in famiglia: anzi sarà un'occasione buona per andare poi a colazione insieme. Sento parlare di certe ostriche alla mayonnaise, specialità della "Colomba d'oro" che sono una squisitezza. "La seduta è alle 10". "U barone" lesse, rilesse, ascoltò quello che gli diceva il cuore. Gli parve di essere tranquillo abbastanza. Il tono con cui gli scriveva l'amabile cavaliere era tale da togliere qualunque sospetto. Aveva ancora una notte avanti a sé per riassumere con tutta per tutta comodità le risultanze del processo, i fatti dell'istruttoria, e studiare a memoria la parte che doveva rappresentare in questo dramma. Non era difficile formulare la sua posizione: Egli non sapeva nulla: egli non aveva veduto mai prete Cirillo. Egli sapeva soltanto che alla villa era stato trovato un cappello... e poiché si parlava di un cacciatore, supponeva anche lui che, se c'era stato un delitto questo cacciatore... irreperibile... poteva averci avuta la sua parte. Del resto non sapeva nulla. Questa parola nulla era tutta la sua forza. Dopo aver ripetuto tre o quattro volte queste idee fondamentali come un ragazzo che non vuol far cattiva figura innanzi agli esaminatori, cercò di non pensarci piú; tuttavia non poté chiudere occhio quasi tutta la notte. Verso la mattina soltanto, colle ossa rotte dalla veglia, si addormentò e fece dei sogni incongruenti, sotto i quali, come un carbone acceso posto sul cuore, ardeva sempre il suo dolore latente, insistente, cruccioso. In sogno vide una volta anche un suo fratellino, morto di soli dieci mesi, ch'egli aveva portato in braccio da ragazzo e gli parve ancora di correre col bimbo in ispalla in un campo fitto di papaveri semplici. Oh se egli avesse potuto togliere dodici ore dalla sua vita! Avrebbe date dodici oncie del suo sangue per quelle maledette dodici ore! Per quanto la fatalità gli gridasse: Non aver paura! son io che ti aiuto..., temeva che vi fosse qualche cosa di piú forte ancora della fatalità, per cui era inutile ogni difesa. Quel maledetto prete si muoveva ancora nella sua cisterna. - Quanta vita hanno indosso i morti... disse una volta seduto sul suo letto cogli occhi fissi nel buio. Il tempo che gli era sembrato sempre troppo breve, passava ora a goccia a goccia. Guardando indietro, gli pareva di aver vissuto cinquant'anni dal giorno che prete Cirillo era venuto a trovarlo alla villa. E non era passato un mese.

. - Questo cappello dei diavolo, come ella lo ha giustamente chiamato, apparteneva a un vecchio sacerdote da una ventina di giorni scomparso da Napoli, senza che nessuno abbia mai saputo dar notizia di lui. Siccome c'è ogni ragione per credere ch'egli sia stato assassinato, cosí è necessario che don Antonio offra ogni suo sussidio, affinché la giustizia sia illuminata nelle sue ricerche. Don Antonio non fece che aprire un poco le mani e rimase immobile sulla sua sedia colle labbra aperte, inerte come un uomo assiderato. I sensi dei povero vecchio erano rimasti come inchiodati alla spaventosa immagine di un cappello che era stato in testa a un fratello assassinato, un cappelloche egli aveva portato sulla testa con maledetta presunzione, ch'egli aveva collocato presso gli altari... Altro che la mitra sognata! Altro che il cappello cardinalizio promesso da Martino! Questo era un cappello rosso, ma rosso di sangue cristiano..., di sangue consacrato... - Ella ha detto, don Antonio, di aver lasciato in luogo del cappello rosso incriminato il suo vecchio cappello... Don Antonio disse di sí col capo. La lingua era gelata in bocca. - E sarebbe venuto un giovinotto che sta alla Falda a portar via il cappello colla roba? Don Antonio tornò a dir di sí col capo. Il delegato tirò in disparte il signor maresciallo e gli parlò a lungo sottovoce. Pare che combinassero di mandar subito due uomini alla Falda per arrestare l'oste dei "Vesuvio" che nella mente del bravo funzionario appariva come intricato in questa oscura faccenda. Il valente funzionario cominciava a rallegrarsi d'aver in mano un filo conduttore. Capita a pochi (se ben si considera) di andare in cerca d'un cappello e di trovarne due. Fu chiamato subito anche Jervolino il segretario e fu sentito in paragone di Martino il campanaro. Jervolino aveva avuto la chiave della villa, ma ora questa l'aveva "u barone". Il delegato rifletté un momento se doveva aspettare nuovi ordini da Napoli prima di far scassinare il cancello della villa; ma poi pensò che il paese era già in subbuglio, che i camorristi hanno segreti alleati e che ogni ora perduta poteva far perdere le traccie del prete. Si mandò subito in cerca di un fabbro che aprisse il cancello. Il signor delegato si assumeva sulla sua responsabilità di rispondere in faccia ai giudici e al barone di Santafusca. Non senza qualche fatica fu scassinata la vecchia e rugginosa serratura del cancello verso le scuderie, mentre la gente, messa in agitazione da Martino, veniva a riempire le strade e la piazzuola coll'animo disposto a difendere il suo pastore, il vecchio patriarca dell'antico testamento. Tutti parlavano di questo cappello, e un ragazzo, guardiano di pecore uscí a dire d'aver veduto un giorno un certo prete salire alla villa per il viale degli ulivi; ma nessuno volle badare a ciò che diceva un ragazzo. Condotti dal curato e dal campanaro, delegato e guardie invasero la stanzuccia di Salvatore, di cui fu stesa una breve descrizione. - Il cappello nuovo era sul canterano, ella dice? - Signor sí. E il cappello vecchio sulla sedia? Sulla sedia precisamente. Il delegato notò nel processo verbale anche canterano e sedia, e poiché gli pareva di aver compiuto tutto il suo dovere, lasciò un soldato di guardia al cancello coll'ordine di tener lontano i ragazzi e le donne spettinate, e colla corsa delle undici partí per Napoli. Don Antonio non disse quel giorno la sua solita messa. Quasi invecchiato di trent'anni, si trascinò fino a casa e si buttò sulla poltrona a gemere e a sospirare. - O Signore - diceva - pietà di questo vostro vecchio servo che fu troppo punito del suo peccato. Voi che scrutate le reni e i cuori, pesate colla bilancia della vostra misericordia il mio peccato e sentenziate nella vostra giustizia. Se vi pare che la mia morte basti a lavare la menzogna e la debolezza di spirito di un'ora sciagurata, fatemi morire adesso e chiamatemi a riposare nel vostro grembo. O se volete che questi tormenti siano l'espiazione terrena di un vecchio peccatore, benedetta la vostra mano che castiga, o Signore. Una grande tristezza pesò quel giorno sul paese di Santafusca, come se l'ombra malinconica e triste del cappellaccio coprisse la chiesa e le case.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Vedo che dovrò anch'io regalare almeno una lampada all'altare della Madonna della Noce, quantunque abbia il cattivo gusto di lasciarsi vestir cosí male. Revenons à nos moutons. La ragazza, che fu tenuta finora sotto la protezione di quelle due farfalle angeliche delle tue zie di Buttinigo, sarà per raccomandazione del vescovo inviata a un ospedaletto di suore, fuori della diocesi, dove troverà nei conforti della religione e della carità quel coraggio di cui, poverina, avrà presto bisogno. O iniqui peccatori! Vedete di quali tristi conseguenze siete cagione? e potete ancora andar saccheggiando come i lanzichenecchi le fragili virtú e le riposte dovizie della bellezza? Scherzi a parte, Giacinto; se vuoi proprio bene alla tua povera mammà, come vuoi far credere, non star piú colle mani in mano. Prendi una bella penna e scrivi un letterone coi fiocchi, in cui ti mostri riconoscente di tutto quel che ha fatto per te, e chiedile perdono di tutto quel che le hai fatto soffrire. E prometti di lasciarti guidare da' suoi consigli. Quando si ha una mamma santa e di talento come hai la fortuna di possedere, la strada della virtú è già segnata. E colla medesima penna scrivi allo zio Monsignore un'altra lettera piena di lagrime, che cominci colle parole: "umilmente prostrato a' suoi piedi ." e finisca colla promessa che gli fai di piangere tutta la vita questo tuo giovanile traviamento. Non ti pesi troppo di riempire tre o quattro facciate, che non mai fatica letteraria sarà piú ricompensata. L'esperienza la si deve pagare a proprie spese: ma tu saresti indegno del nome che porti, se da questa esperienza non ricavassi qualche insegnamento e non ne uscissi colla nausea per tutto ciò che è volgare e poco pulito. L'aristocratie c'est de la politesse. Perdona ad una vecchia amica la predica: ma questa volta te la sei meritata. La tua quasi zietta Fulvia. IL CONTE LORENZO A GIACOMO LANZAVECCHIA Cremona, 15 dicembre. Caro Giacomo, Son dovuto partire dal nostro Ronchetto senza prima salutarvi, com'era desiderio mio vivissimo: ma il rigor del verno e questo cuore, che da qualche tempo mi travaglia non poco, mi hanno impedito di scendere a salutarvi alle Fornaci. Sento tuttavolta che andate via via, per quanto di lento passo, riacquistando la sanità, la quale, secondo che parve a tutte le filosofie del mondo, è il miglior dono di natura. Noi abbiamo ritrovato in Cremona le solite nebbie e le tristezze solite; e temo che il verno per le presenti difficoltà politiche non abbia a rimuovere i dolori di questa plebe, cui già troppe voglie mettono in quello stato, che non può trovar posa in sulle piume. Spero nella diligenza vostra (tosto che le forze vel consentano) per dar opera a ordinare un primo catalogo di quelle mie iscrizioni, alle quali è, posso dire, attaccata una parte della mia vita e di quella vanità, che nella vita serve come l'olio delle lampade a rischiarare il sentiero che mena alla morte. Vorrei che l'opera del padre tornasse di sprone al figlio, quando questi occhi saranno morti alla luce del sole, per nobilitarsi, come dice il nostro divino Petrarca, in qualche bell'opera di mano o d'ingegno. La classe nostra, per troppa sete di godimenti sensuali, trascura oggidí quell'arti, che ai nostri maggiori diedero lustro e autorità nel mondo, onde nessuna meraviglia, se all'insorgere dei nuovi ordini e dei nuovi dritti popolari, l'aristocrazia epicurea si mostri impari al compito suo. Questo, come sapete, è mia intenzione dire in quel "Discorso preliminare", che premetterò alla raccolta delle iscrizioni gentilizie e che sarà la mia fatica e il mio ozio in questo tenebroso verno. Vi mando la copia definitiva dell'iscrizione, che ho preparato alla memoria del vostro compianto genitore. "Brevis esse laboro, obscurus fio", posso dire con Orazio: ma nulla è piú tedioso quanto una parola vana; e qui sonmi ingegnato di stringer la maggior quantità di fatti nel minor numero di segni. Ditemi tuttavolta il parer vostro, ché non tanto m'ingegno di piacere quanto di non dispiacere agli amici. Ho dovuto lasciar tale e quale la frase arte laterizia, checché dica quel bon'omo del canonico Ostinelli a cui sono cosí care le cianciafruscole manzoniane. Abbiatemi per vostro. Lorenzo Magnenzio di Villalta. GIACOMO A CELESTINA Fornaci, 15 dicembre. Mia cara e buona Celestina, mia buona sorella, sono stato molto malato, molto malato per te. Per poco morivo del tuo dolore, mia povera innocente. Sarei venuto prima a consolarti, ad asciugare le tue lagrime, se Dio non avesse avuto pietà del mio patimento e non mi avesse per molti giorni tolte le forze e la coscienza di me stesso. Ma verrò, sta certa, appena potrò sopportare questi freddi e le fatiche del viaggio senza pericoli. Ho bisogno di piangere con te e di dirti una parola che ti consoli. Qualunque sia la tua disgrazia, per me è certa l'innocenza tua come è certa la luce del sole. Dio terrà conto de' nostri patimenti e farà giustizia. Se anche la contessa non avesse sostenuta la tua parte contro l'iniquo che ti ha oltraggiata, puoi credere che io avrei dubitato un istante della tua virtú e del tuo affetto? Gli uomini e Dio giudicheranno il colpevole come si merita; ma tu lasciati giudicare da me. Sí, Celestina, il tuo cuore, la tua vita, la tua virtú sono nelle mie mani come il giorno che ho raccolto il tuo primo sguardo d'affetto. Hanno empiamente calpestato questo nostro affetto, hanno trascinata nel fango la nostra virtú, e questo colpo sarà il principio della nostra morte, ma noi possiamo guardarci in faccia senza rimproveri e senza rossore. Io ti assolvo e ti benedico, mia povera figliuola! Se potessi essere costí, vorrei metterti le mani sulla testa per rendere piú fortequesta benedizione. Lascia che essa scenda fino al tuo cuore e lo rinfranchi. Immagino tutto quello di piú spaventoso agiterà i tuoi giorni e le tue notti. Forse avrai maledetta la vita, la fede, la religione, e nel delirio del male avrai meditato cose perverse e terribili. Ebbene, non pensar piú a nulla, non dir piú una parola, non far piú un passo senza prima interrogarmi. Se qualche volta ti par di morire di dolore, come è sembrato a me, pensa che la tua vita non è tua, e che nella tua disperazione io perderei l'ultima forza e l'ultimo sostegno di quel coraggio, di cui ho molto bisogno per me e per gli altri. Se mi vuoi proprio bene, in nessuna maniera potresti dimostrarmelo di piú, come nel mostrarti dolce e ubbidiente a' miei consigli. Fino alle feste di Natale io resterò alle Fornaci: dopo andrò a insegnare in una scuola del Lago Maggiore, a Pallanza, dove hanno bisogno d'un professore supplente per il principio dell'anno. Lascerò accomodare queste nostre cose in modo che non manchino a' miei fratelli i mezzi per lavorare. Se la mamma vorrà venire con me, impedirà che m'intristisca nella solitudine. E chi sa che tu non possa tenerle compagnia? Essa potrebbe avere in te una mano che l'aiuti e nello stesso tempo avresti in lei una dolce e materna assistenza. In paese nuovo molte malinconie passeranno da sé, e può essere che Dio trovi nell'avvenire e per te e per me un compenso a queste terribili prove. Quel che ti scrivo, mia povera creatura, è la voce sincera del cuore, e vorrei scrivere ancora di piú, se non mi sentissi gli occhi velati di lagrime. Ho bisogno di sapere che tu sei buona, tranquilla, obbediente: e poiché queste signore ti usano molta carità, pregale per me di mandarmi spesso tue notizie. Prega l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è presente: anzi, non è mai cosí vicino a noi, come quando ci sembra che ci abbia abbandonati. Il tuo Giacomo. Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce. Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: "Mio zio - le diceva - mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora piú degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò mortodel tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo piú credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma .". - E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.

- gridò Giacomo dal di dentro; e quando ebbi spinto l'uscio: Bravo, - soggiunse - mettiti lí cinque minuti su quella sedia di paglia fin che abbia finito di leggere a Blitz questa bozza di stampa. La posta parte alle nove e non vorrei perdere una giornata. - Fa conto ch'io sia il tuo cane - dissi sorridendo mentre mi mettevo a sedere in un cantuccio. Giacomo, per riconoscere gli errori nelle bozze di stampa, aveva bisogno di leggere a voce alta la sua filosofia a qualcuno; ma, non essendovi alle Fornaci chi avesse la pazienza di stare a sentire le sue astruserie, obbligava Blitz a sedersi nel mezzo della stanza e a dargli ascolto. - "Qual è la causa e qual è l'effetto? - leggeva il filosofo, alzando di tempo in tempo gli occhi verso il cane, che socchiudeva un poco i suoi. - È l'organizzazione il principio della vita o è la vita il principio dell'organizzazione? Quel che Claude Bernard ha detto della vita fisica, io psicologo posso dire della vita morale. Cosa meravigliosa in noi non è tanto la varietà e la molteplicità dei fenomeni spirituali, quanto il nascere e lo svilupparsi dell'uomo morale, che opera e cammina secondo un ideale a cui egli non può resistere". - Ti giuro, Edoardo, che questa bestia capisce tutto, - interruppe Giacomo per lasciare un po' di riposo al cane. - Non solamente egli mi ascolta sempre con quell'immobile attenzione che vedi ora, ma cogli occhi mi dice quando l'idea lo persuade e quando non lo persuade, quando la sentenza è chiara e quando all'incontro è troppo filosofica. Se nel testo c'è poca evidenza, Blitz chiude gli occhi e par che si addormenti come un buon cristiano. Mi lasci andare fino in fondo della pagina? Intanto si scalda l'acqua nel gamellino. - Leggi pure: mi sforzerò anch'io di capire, se non ti par troppa superbia. Giacomo cambiò il foglietto, e, dopo aver richiamata l'attenzione di Blitz, ripigliò a leggere con un tono alquanto declamatorio: "Questo moto verso il miglioramento è la condizione necessaria della nostra vita morale che, nell'inerzia, troverebbe la morte. Ogni passo dev'essere necessariamente un passo avanti nella via del progresso ideale, che è la risultante benefica di tutti gli altri progressi economici e scientifici". Ti pare, Blitz? Il cane mosse un poco il muso e fece dondolare le orecchie. "L'uomo d'oggi è senza dubbio migliore di quello di ieri ." sta attento, Blitz. - E volgendosi a me con uno scoppio di serena ilarità - Guarda, - disse - si direbbe che il vecchio scettico è poco persuaso di questa verità. - "Domani sarà ancor migliore, finché, reso padrone della verità, potrà un giorno sedere ottimo arbitro, giudice conciliatore tra sé e la natura. Dal suo idealismo, come da un trono inarrivabile, il piccolo re dell'universo stenderà sulla natura lo scettro ch'egli tiene per investitura divina e formolerà le leggi eterne della felicità .". Blitz, eccitato dal gesto e dallo sguardo ispirato del suo padrone non seppe piú stare alle mosse, e protestò, se non sbaglio il commento, con due o tre abbaiamenti sgarbati e dispettosi. - Vedi se in lui non c'è lo scettico pessimista? - proruppe Giacomo, abbandonandosi a ridere sulla sua seggiola, che perdeva le paglie per il di sotto. - Tutte le volte che io assicuro all'uomo una qualche superiorità, il mio cane abbaia. Ma abbi pazienza, Blitz: ancora una cartella e poi ho finito. Mentre Giacomo leggeva, e mentre l'acqua del caffè muggiva nel gamellino, sopra una fiamma a spirito in mezzo a un treppiedi di ferro, feci con l'occhio il giro delle quattro pareti di quell'umile cameretta, da dove usciva tanto orgoglio filosofico e tanta fede nella missione conquistatrice dell'umanità. Un letto con un pagliericcio imbottito di foglie secche, quattro sedie scompagnate, un vecchio trumò del settecento, pieno di libri, un tavolino zoppo di tre gambe tenuto ritto da un vecchio Rimario del Ruscelli, ecco tutto l'arredamento. A capo del letto pendeva un quadretto della Madonna del Bosco, di un gusto molto campagnuolo, circondata da un rosario a grani grossi come le noci, e da altri piccoli segni religiosi, che svelavano una mano affettuosa e forse una pia sollecitudine. Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino, piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo, coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di carbone e un arcolaio fuori uso. L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso era il motto della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore, come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la polenta e il merluzzo di casa sua. - Ho bisogno che questa dissertazione sull' Idealismo sia stampata presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera gente . Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri, quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera. - A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno siè lasciato trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina. Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo! ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto, il sapiente, vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche? Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper. Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese: - Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena. - Lo farò volentieri. - Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno. - Tu pensavi forse a prender moglie . Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse: - Sai che io son legato da un'antica promessa . - Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo. - Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro . Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Se si debba credere che lo Spirito Santo, raffigurato in una colomba, abbia un becco reale, ovvero simbolico; 3. Se un prete, che di buon mattino, prima di dir messa, abbia fiutata una presa di tabacco, o fumato un sigaro, o colta per distrazione una fragola nel giardino e mangiatala, possa ancora celebrare. Benché si fosse nel cuore dell'inverno (anche l'inverno ha un cuore, a differenza di certi freddi banchieri d'usura), il prevosto di Monticello si era messo in maniche di camicia per ordinare un pranzo in modis et formis . Egli voleva superare se stesso nel colorire d'oro il pollo arrosto e i fagiuoli dell'aquila imburrati. Marcellina anch'essa, la cuoca, voleva coprirsi di gloria con un budino di molti colori, che raffigurassero da una parte un mazzo di fiori e dall'altro il cane di San Rocco - tutti i colori naturali e sani, di cui nessuno potesse far venire male di pancia. E già essa pregustava nella fantasia una chiamata al proscenio da quei reverendi signori preti, che portano tutti la mozzetta violacea in processione; i quali avrebbero battuto le mani, dicendole: - Brava, signora Marcellina! Vi siete fatto un onore immortale -. Ed ella con i pugni sui galloni li avrebbe ringraziati, facendo loro un inchino da autore drammatico. Ad Orsolina, la bella nipote del prevosto, si era riserbata una parte modesta, ma mignola ( mignonne ): la cottura dello zabaione. Oh povera Marcellina! povera Orsolina! povero prevosto! Quel giorno si è messo a nevicare nella valle in modo deforme . Fioccò molto più della gamba , che il padre dello studente di Torino scrisse al figliuolo. E poi sopra la neve esalò, uscì una nebbia grassa, fitta, che pareva un fumo di torba. Entrava da per tutto: riempiva tutto, non lasciava vedere più nulla alla distanza di un palmo da un naso discreto. Se ci fosse stato allora a Monticello il senatore Ferraris, son sicuro che chi avesse visto il principio della sua proboscide, non avrebbe potuto scorgerne la fine. Si racconta che quel giorno un cane vecchio del paese, il cane del droghiere, smarrì la strada, e non seppe trovarsi a casa all'ora del pranzo, e si fermò per isbaglio al macello. Appena fu, se ritornò al domicilio nell'ora della cena, dopo che si era dileguata la nebbia. Sembrava che le piante alte ululassero nella nebbia, come immaginò un poeta, che mi venne mostrato un giorno, mentre egli sedeva con la toga nera, con la barba nera, con il naso bianco e con gli occhi da aquila al tribunale della Consolata di Torino. Per cagione di quel tempaccio i parroci circonvicini non poterono muoversi per venire alla conferenza di Monticello, al budino di Marcellina e allo zabaione di Orsolina. Alle undici e mezzo antimeridiane il povero mio prevosto sbadigliava contro alla nebbia sull'uscio della Curia, su cui sta scritto: Ostium non hostium , latinetto che i parrocchiani traducono così: Oste non oste , cioè oste che dà dei buoni pranzi senza annacquare il vino e senza presentare il conto. Marcellina, asciugandosi con l'avambraccio la fronte sudata per i vapori della casseruola, borbottava di tanto in tanto in cucina: - Ah! sarebbe un po' bella, sarebbe proprio grigia, che non venisse nessuno..., dopo aver apparecchiato tanta grazia di Dio! E non veniva proprio nessuno. Marcellina e il prevosto erano così mortificati che passeggiavano silenziosi per loro conto, e non avevano più nemmeno il coraggio di sbadigliare e di borbottare. Orsolina in silenzio imbandiva la tavola di quattordici coperti. Finalmente, alle undici e tre quarti, si sentì uno scarpiccìo sotto l'atrio del presbiterio. Il prevosto si affacciò sull'uscio della sala da pranzo, e Marcel1ina si affacciò su quello della cucina. Ad ambidue si era aperto il cuore per la speranza. Essi videro in mezzo alla nebbia nuotare qualche cosa di grosso e di nero, una balena. Pareva un gruppo di quattro o cinque preti, per lo meno di tre preti. Ed invece era un prete solo, un pachiderma con il tricorno, Don Massimo Ganassone, il priore di Micottino. Egli andò subito a salutare la cuoca, toccandole la mano e dandole del lei , perché è massima di Don Massimo, che per pranzare bene da un prevosto bisogna prima del pranzo riverire la signora cuoca. Suonò il mezzogiorno con uno scampanìo lacrimevole, che pareva piangesse il pranzo derelitto. Dopo Don Massimo, non erano sopravvenuti altri convitati; onde il prevosto di Monticello dovette mettersi a tavola con il solo collega di Micottino. Questi gode una riputazione meritata di essere il prevosto di più grosso pasto in tutta l'arcidiocesi. È capace di mangiare e di bere per tre o quattro. Si racconta di lui, che un giorno, prima di un pranzo che si ritardava, aspettandosi ancora qualcheduno, egli nel passeggiare lungo la tavola, così per distrazione, si leccò ventiquattro fette di salame crudo. Si racconta eziandio di lui quest'altro fatto storico-bucolico. Trovavasi in un martedì di mercato a tavola da pasto all'albergo della Botte d'Oro , in Vercelli. Essendo dieci i commensali, il cameriere servì un piatto di dieci quaglie. Ma un commensale, negoziante di riso, per ghiottoneria, o per inavvertenza, tirò giù due quaglie sul proprio tondo; cosicché Don Ganassone, ultimo a servirsi, si vide giungere innanzi il piatto delle quaglie vuoto, senza un crostino. Che cosa fece egli? Visto un grosso tacchino arrosto, già imbandito, fu lesto a porselo innanzi, dicendo: - Lor signori l'hanno già preso l'uccello; ed io mi piglierò questo -. In effetti si mangiò tutto da sé il tacchino, lasciandone spolpato lo scheletro, che pareva l'armatura di una chiesa parrocchiale. Quanto al bere, egli a casa sua non mette mai a tavola il vino in bottiglie; ma lo tiene in un secchione, alla destra della sua sedia, e lo tira su e lo poppa a grosse ramaiolate. Quel giorno Don Massimo mangiò per cinque o per sei; ma non potè sbarazzare un pranzo preparato secondo l'usanza dei villaggi nominalmente per quattordici, ma realmente per ventotto. (Ah! fossero così i valori nominali della Borsa!) Oltre a ciò Marcellina, benché ossequiata strategicamente da Don Massimo, non volle portare in tavola il budino soltanto per quell'orcio . E Orsolina, la nipote, disse che il suo zabaione non era fatto per quella bocca da lionfante . Per questi motivi il povero prevosto di Monticello restò con quattro quinti del pranzo non esitati. Don Massimo non potè seguitare la sua opera di distruzione, avendo promesso quella sera stessa il suo intervento a una cena del maiale ; imperocché (soffrano i benigni questa nota di erudizione necessaria) nei nostri paesi si celebrano con una festa in famiglia l'uccisione e la preparazione dell' animale per antonomasia. Verso sera poi giunse alla canonica di Monticello un espresso del vicario foraneo, che con suo monito rimandava la conferenza o il pranzo dei casi al secondo martedì dopo Pasqua. - Che cosa ne facciamo adesso di tutta questa roba? - disse il prevosto alla sua Marcellina, con le braccia al sen conserte , e picchiando del mento sulla bocca del petto. - Che cosa ne facciamo di tutta questa roba? - rispose Marcellina con le mani dietro la schiena, e guardando verso i travicelli del soffitto. (Il prevosto) - Mah! ( con un sospiro schiacciato ). (Marcellina) - Mah! ( con un sospiro sbuffato ). - Per me, domani invito a pranzo tutti i cantori della parrocchia... - Misericordia! Lasciar andare il mio budino in bocca a quei canarini da ghiande! ... - Eppure, piuttosto che vederlo andare in malora... - Piuttosto che vederlo andare in malora... Marcellina si rassegnò, e l'indomani i cantori della parrocchia furono tutti regolarmente invitati alla tavola del signor prevosto. Vennero tutti con la testa umida, inchinandosi e fregandosi le mani con unzione ecclesiastica. Messisi a tavola, fecero repulisti di quanto comparve loro dinanzi. E del pranzo si può dire, come di Napoleone il Grande: " Ei fu !". Sopra gli altri si segnalò Andrea Tirella, il quale, dopo essersi servito due volte di agnellotti, capovolse la zuppiera, e se la vuotò nel suo tondo, dicendo che voleva leggere il nome del fabbricante di quella maiolica. Uscirono i cantori dalla canonica a corpo pinzo e barcollando allegrociter per il vino bevuto. Giunti in piazza, un frizzo di vento freddo mise di cattivo umore Andrea Tirella, quegli che aveva mangiato e alzato il gomito più degli altri. Il quale, voltosi ai compagni, disse loro: - Miei cari amici, vi siete accorti della brutta figura che ci ha fatto il prevosto? - Quale? - Ci ha tenuti per stoppabuchi ; ci ha invitati a mangiar ciò che aveva già preparato per i signori parroci, i quali dovevano venire alla circonferenza del caso... E noi abbiamo mangiati i rimasugli di Don Ganassone... - È vero - disse uno degli astanti. - È vero - risposero gli altri. - Non vi siete accorti - riprese il Tirella - che il pollo arrostito, il famoso pollo arrostito del colore dell'oro, era bruciato come il caffè; perché sarà stato messo al fuoco chi sa quante volte? - Hai ragione. - Altro che ragione! - ripigliò il Tirella. - Quel pollo credo persino avesse due teste. - E noi minchioni... - Più che minchioni... perché ci lasciammo minchionare da una donna. Sicuro! quella smorfiosa della Marcellina ha pigliato due polli manomessi, ed ha voluto, ha osato farne uno solo intiero, e darcelo a intendere a noi... a noi... che sosteniamo per tutto il santo anno la messa grande, il vespero e la benedizione al suo signor prevosto... - È una cosa che non va... - È una birboneria, è una infamità, dico io, - ringhiò il Tirella. - E il formaggio? Voi non ve ne siete nemmanco addati. Ma io ho alzato il pezzo, ed ho visto che di sotto era già stato grattugiato -I cantori inorridirono tutti, e si separarono di pessimo umore, dirigendosi ciascun verso casa sua. Quivi cominciarono a porgere le loro lagnanze ciascuno alla propria moglie contro i cattivi trattamenti del parroco.

IL FIASCO DEL MAESTRO Chieco (Racconti musicali)

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 2 occorrenze

. - E non hai ancora saputo dirmi che male veramente abbia, cosa legga, dove andrà se non passa l'estate con voi, se scrive lettere o libri, e di cosa parlate fra voi; perché è impossibile che non parliate insieme qualche volta. Non ripetermi la tua scusa che quanto meno mi si parla di lui, tanto meglio è per me. È una scusa comoda che hai trovato ma è sciocca; perché, mi si parli o non mi si parli, è la stessa cosa. La mia speranza è ben morta. Non rinasce. Dunque scrivi a lungo. Sono certa ch'egli ti vuole convertire, che avete insieme delle conversazioni intime e che mi parli poco di lui per questo. Sarebbe una piccola gloria, sai, di convertire te perché in religione tu sei una sentimentale, non hai la visione chiara, fredda e sicura della Verità che ho pur troppo io senz'avere studiato e che tanto non vorrei avere. Quando pensi di ritornare nel Belgio? I tuoi interessi non ti richiamano lassù? Mi hai parlato una volta di un tuo agente che non t'ispirava molta fiducia. Pare che in agosto viaggeremo. Almeno così dice ora Carlino che poi cambia facilmente assai. Mi piacerebbe vedere l' Olanda in settembre, con te. Addio. Dunque scrivi. S'egli legge molto potresti farti prestare un libro da lui e lasciarvi dentro il mezzo foglietto per segno. Insomma, trova! O questo o altro; sei donna. Trova, se pure mi vuoi bene. Penso del resto che non me ne vuoi più niente. È così, di' la Verità. Invece qui all'albergo c'è una signora innamorata di me. Ridi pure, è proprio vero. Vive a Roma. Suo marito è sottosegretario di Stato. Vuole a ogni costo che io passi l'inverno venturo a Roma. Dipenderà da Carlino. La signora lo assedia ed egli si lascia assediare, né ben resiste né ben capitola. Addio, scrivi, scrivi e scrivi. Noemi a Jeanne (dal francese ). Subiaco, 8 luglio ... Ho fatto meglio. Mio cognato gli disse a memoria, in presenza mia, un passo latino che lo colpì, un passo su certi monaci del tempo antico, prima di Cristo. Egli pregò Giovanni di scriverglielo. Eravamo nell'uliveto sopra la villetta, seduti sull'erba. Io porsi prontamente a Giovanni una matita e il mezzo foglietto, presentandogliene il lato bianco. Egli scrisse e Maironi prese il mezzo biglietto, vi lesse il passo latino, se lo pose in tasca senza guardare l'altra facciata. È stato un vero tradimento e ho tradito per amor tuo. Dubiterai ancora di me? Cosa ti potrei dire della sua malattia più che non ti abbia già detto? Per due settimane, circa, gli è stata addosso la febbre. Un giorno il medico diceva ch'era tifoide, un giorno diceva che non era. Cessò ma le forze non sono ancora interamente ritornate, la magrezza è grande, pare che qualche disordine interno persista, il medico è rigoroso riguardo alla qualità dei cibi, egli ha rinunciato al suo regime, prende carni e anche un po' di vino. È venuto ieri da Roma a trovare Giovanni un suo amico, un professore famoso, il professore Mayda. Giovanni lo ha pregato di vedere Maironi, di consigliare qualche cosa. Ha consigliato una cura di acque che Maironi certamente non prenderà. Mi pare di conoscerlo abbastanza per poterlo dire. Da otto giorni in qua ha migliorato sensibilmente, del resto. Lavora nell'orto qualche poco la mattina e qualche poco la sera. Stamani si è levato per tempissimo e non gli è venuto in mente di lavare la scala? Maria rimproverò ieri la sua vecchia fantesca perché la scala non era pulita. Questa vecchia, che dorme a Subiaco, quando venne alle sette trovò il lavoro fatto da Maironi. Mia sorella e mio cognato lo rimproverarono, quest'ultimo quasi aspramente, forse perché è tanto diverso da Maironi e non gli verrebbe in mente di pigliare la granata neppure se si trovasse dentro una nuvola di ragnatele. Cosa Maironi legge? A me di letture sue non parlò che una volta e per breve tempo, come ti dirò. Ti ho scritto che forse passerà l'estate con noi, perché so che Maria e Giovanni lo desiderano. Il mio presentimento è che ora non resterà e che andrà a Roma. Però è una mia idea, niente di più, non ne so niente. Quanto a volermi convertire, io non so se la cosa sia facile né se Maironi ci pensi. Bada, io lo chiamo Maironi scrivendo a te; parlando a lui lo chiamo Benedetto senz'altro, perché il suo desiderio è questo. Sono sicura che a convertirmi ci pensava Giovanni. L'ha trovato tanto facile che non me ne parla più. Di Maironi non lo crederei. Mi pare che per lui il Cristianesimo sia sopra tutto azione e Vita secondo lo spirito di Cristo, del Cristo risorto che vive sempre in mezzo a noi, del quale noi abbiamo, com'egli dice, l'esperienza. Mi pare che la sua propaganda religiosa non abbia per oggetto il Credo di una Chiesa cristiana piuttosto che di un'altra, benché senza dubbio la santità del suo vivere sia rigorosamente cattolica. Quando l'ho inteso parlare di dogmi con Giovanni non era mai per discutere le differenze fra Chiesa e Chiesa, era piuttosto per aprire certe formole della Fede e mostrare la luce grande che n'esciva aprendole in un certo modo. In questo Giovanni è Maestro ma quando parla Giovanni si sente sopra tutto che nella sua mente vi ha un sapere immenso, e quando parla Maironi si sente sopra tutto che nel suo cuore vi ha il Cristo vivo, il Cristo risorto, e ci si accende. Per essere interamente, scrupolosamente sincera, ti dirò che se non credo ch'egli desideri di convertirmi, però non posso esserne certissima. Eravamo un giorno nell'uliveto. Egli e Giovanni discorrevano di un libro tedesco sull'essenza del Cristianesimo che pare aver fatto rumore ed è stato scritto da un teologo protestante. Maironi osservava come questo protestante, quando parla del Cattolicismo, ne parli colla più onesta attenzione d'imparzialità, ma come in fatto non conosca la religione cattolica. Secondo lui nessun protestante la conosce, son tutti pieni di pregiudizi, giudicano essenziali al Cattolicismo certe alterazioni della sua pratica, esteriori e sanabili. C'era lì un panierino di albicocche ed egli ne tolse una bellissima, però un poco guasta. "Ecco" disse "un frutto guasto. Se io offro questo frutto a uno che non conosce ma vuole esser gentile, mi dice che vi è del sano e del buono ma che pur troppo vi è anche del malato e che perciò egli, con dispiacere, non lo prenderà. Così parla del Cattolicismo questo protestante insigne. Ma se io offro il frutto a uno che conosce, egli lo accetterà quand'anche fosse tutto putrido e porrà il nocciuolo immortale nel proprio terreno con la speranza di avere albicocche bellissime e sane." Il discorso era rivolto a Giovanni, ma gli occhi guardavano sempre me. Devo soggiungere che anche a Jenne egli mi aveva detto d'imparare a conoscere il Cattolicismo. A ogni modo se io rimango protestante non è per il conoscere e il non conoscere, è perché così vogliono i miei sentimenti più sacri. Mia cara Jeanne, vi ha un'altra cosa che ti voglio schiettamente dire. Sospetto che tu sia gelosa. Ho paura che tu non possa comprendere il dolore indicibile che mi faresti se lo fossi veramente; ho paura che tu non possa comprendere la gravità immensa dell'offesa che faresti a lui prima e poi anche a me. Adesso io ti apro il mio cuore. Avrei rimorso di non farlo, amica mia; rimorso rispetto a te, rispetto a lui, rispetto a me stessa. Quanto a lui, egli è buono e dolce a tutti coloro che avvicina ma in modo particolare ai più umili, e forse tu potresti esser gelosa della vecchia di Subiaco che viene in casa per i bassi servizî. Con Maria e con me la sua bontà e dolcezza si mostrano silenziosamente più che con parole. Con noi egli è sereno, semplice, affabile; non ha mai l'aria di sfuggirci ma non è mai accaduto che si trattenesse a parte né con l'una né con l'altra. Io sono agli occhi di lui un'anima e le anime sono per lui tutte come erano per mio Padre le menome pianticelle del suo grande giardino, ch'egli avrebbe voluto difendere dal gelo col calore del suo cuore, far crescere e fiorire colla comunicazione della sua Vita. Ma sono un'anima come un'altra, forse appunto colla differenza sola ch'egli mi giudica più lontana dalla Verità e perciò più minacciata dal gelo; benché questo non si vede nel suo contegno. Quanto a me, cara, io provo certamente un sentimento profondo per lui; ma sarebbe abbominevole dire che il mio sentimento somigli anche da lontano a quello che gli uomini chiamano col solito nome. Il mio sentimento è riverenza, è una specie di timore devoto, una specie di awe per cui io sento intorno alla sua persona come un circolo magico che non oserei passare. Nella sua presenza il mio cuore non ha un battito di più. Non lo so, direi piuttosto che ne abbia uno di meno. Non potrei essere più sincera di così, cara Jeanne. Dunque ti prego, ti supplico di non immaginare altra cosa. Per ora non penso al Belgio. Può darsi che vi faccia una corsa più tardi. Salutami tuo fratello, del quale vorrei sapere se ha finalmente portato il vecchio prete e la signorina in Fomalhaut. Ci penso anch'io qualche volta, alla sua Fomalhaut. Digli che se quest'inverno verrete a Roma faremo musica insieme. Addio, ti abbraccio. Benedetto a don Clemente. (Non spedita ) Padre mio, il Signore si è ritirato dall'anima mia, non dico per abbandonarmi al peccato ma per togliermi ogni senso della presenza Sua, e il desolato grido di Gesù Cristo sulla croce freme, a momenti, in tutto il mio essere. Se mi sforzo di richiamare ogni mio pensiero nel pensiero della Presenza Divina, ogni mio sentimento in un atto di abbandono alla Divina Volontà, non ne ho che pena e scoramento, mi par di essere una bestia caduta sotto il carico, che a un primo colpo di frusta fa uno sforzo, ricade; a un secondo colpo, a un terzo, a un quarto trasalisce appena, neppure tenta rialzarsi. Se apro il Vangelo o l' Imitazione, non vi trovo sapore. Se ripeto preghiere mi vince il tedio e ammutolisco. Se mi prostro sul pavimento, il pavimento mi gela. Se mi lamento a Dio di essere trattato così, il Suo silenzio mi par diventare più ostile. Se con l'autorità dei grandi mistici mi dico che ho torto di avere tanto affetto alle dolcezze spirituali, di soffrire tanto per la loro privazione, mi rispondo che hanno torto i mistici, che nello stato di grazia sensibile si cammina sicuri e che invece in questa notte spirituale senza stelle il cammino non si vede, non c'è altra regola che ritrarre il piede quando si sente molle l'erba, e ciò non basta, ch'è anche possibile di porlo addirittura, il piede, nel vuoto. Padre, Padre mio, mi apra le Sue braccia, ch'io senta il calore del Suo petto pieno di Dio! Vi sono cento ragioni per me di non venire a Santa Scolastica, ma in ogni modo preferirei scrivere. Ella è qui presente a me più che nel corpo; io mi unisco, mi confondo meglio a Lei col pensiero che se Le fossi davanti; e ho bisogno di confondermi a Lei col pensiero, ho bisogno di costringere l'anima mia dentro la Sua. Forse Le manderò questa lettera, forse neppure la manderò. Padre mio, Padre mio, mi fa bene di scriverti più che di parlarti, non ti potrei parlare colla foga che ora mi viene alla penna e non mi verrebbe alle labbra. Scrivendo, io parlo, io grido a te immortale, io ti spoglio dalle mortalità che sono anche nell'anima tua e che mi romperebbero, nella tua presenza, questa foga, delle mortalità di conoscenze incomplete delle cose, di prudenze che ti consiglierebbero veli al tuo pensiero. No, non te la spedirò questa lettera, eppure tu l'avrai; l'arderò, eppure tu l'avrai, sì, tu l'avrai, non è possibile che il mio tacito grido non ti raggiunga, forse adesso nelle tenebre della notte, mentre dormi, forse fra due ore, ancora nelle tenebre della notte, mentre preghi con i fratelli nella dolce Chiesa dove tanto abbiamo adorato insieme. Io so perché sono arido, io so perché Dio mi abbandona. Sempre quando Dio mi abbandona, quando tutte le sorgenti vive dell'anima mia inaridiscono e i germi vivi si disseccano e il mio cuore diventa un mare morto, io so perché. Perché ho udita una musica soave alle mie spalle e mi sono voltato, oppure perché il vento mi recò fragranze dai prati in fiore a lato della mia via e mi arrestai, oppure perché la nebbia mi è salita di fronte e ho temuto, oppure perché uno spino mi offese il piede e ne ho concepita ira. Istanti, baleni, ma intanto l'uscio si apre, un soffio maligno entra. È sempre così, basta uno sguardo raccolto, una lode gustata, una immagine trattenuta, una offesa rimeditata, il soffio maligno entra. E adesso è tutto questo insieme! È scesa la notte sul mio cammino, ho messo il piede nell'erba molle, la ho sentita, ho ritratto il piede ma non subito. Perché adopero figure? Scrivi scrivi, mano mia vile, la nuda Verità! Scrivi che questa casa è un nido di mollezza e che se ho gustato il letto soffice, la biancheria fine, l'odore di lavanda, ho molto più gustato la conversazione del signor Giovanni e le letture assorbenti nel diletto della mente, l'aura di due giovani donne pure, intellettuali, piene di grazia, la loro ammirazione segreta, il profumo di un sentimento che una di esse mi è parsa chiudere in sé, la visione di una Vita nascosta in questo nido fra queste persone, lontana da tutto ch'è volgare, ch'è basso, ch'è immondo, ch'è schifoso. Ho sentito il male del mondo con il ribrezzo che se ne ritrae e non con il focoso dolore che lo affronta per strappargli le anime. Istanti, baleni; mi rifugiai come un tempo nell'abbraccio della Croce ma la Croce, poco a poco, altrimenti da un tempo, mi diventò nelle braccia legno insensibile e morto. Mi sono detto: spiriti di nequizia, male volontà sapienti e forti che sono nell'aria, congiurano contro di me, contro la mia missione. Mi sono risposto: superbia, giù! E poi la prima idea mi riprese, ondeggiai cieco in questa vicenda trista, ogni giorno, tutto il giorno. E poiché niente ne ho lasciato trasparire, poiché capivo che il signor Giovanni e le Signore non dubitavano che io non fossi nell'interno così sereno, così puro come il mio esterno pareva, mi disprezzai, certi momenti, come un ipocrita, per dirmi, il momento dopo, che invece il mio esterno puro e sereno mi aiutava a vivere, parlo della Vita spirituale; che il parer forte mi obbligava a esser forte. Mi paragonai a un albero che ha il midollo divorato dai vermi, il legno consunto dalla putrefazione e vive per la corteccia, può dare foglie e fiori per lei, può dare ombra benefica. E poi mi dissi che questo era buono per gli uomini; ma davanti a Dio, davanti a Dio? E poi mi dissi ancora che Dio mi potrebbe sanare perché l'albero divorato nel midollo non è sanabile ma l'uomo sì; e allora mi torturai per la impotenza di fare quello che Dio avrebbe chiesto a me come cooperazione della mia volontà alla Sua: fuggire, fuggire. Dio è nella voce dell' Aniene che dalla sera della mia partenza da Jenne mi dice: "Roma, Roma, Roma"; e Dio è pure nella forza dei vermi invisibili che mi hanno rosô le virtù vitali del corpo. E allora e allora e allora? Signore, ascolta il mio gemito che Ti domanda giustizia. Ho detto tante volte che certamente partirò appena ne avrò la forza e qui mi vorrebbero trattenere e come potrò io dir loro: amici miei, voi mi siete nemici? Ecco, viltà mia! Perché non potrei dirlo? Perché non lo dirò? Ho letto un giorno nello sguardo della giovine protestante: - Se Lei parte che sarà dell'anima mia? Non deve Lei desiderare di condurmi alla fede Sua? Io non mi lascio condurre ancora. - No, non posso, non debbo scrivere tutto. E come scrivere l'espressione di uno sguardo, l'intonazione di una parola per sé indifferente? Non sono sguardi come quello per il quale San Girolamo s'immerse nell'acqua gelata o almeno la commozione mia non somiglia alla sua. Non vale acqua gelata contro uno sguardo puro nella sua dolcezza. Solo il fuoco vi arriva, il fuoco dell'Amore supremo. Oh chi mi libera dal mio cuore mortale che non si move di un solo picciol moto senza movere tutte le fibre del corpo, chi mi libera il cuore immortale che gli è interno come il germe al frutto e si prepara un corpo celeste? Non posso, non debbo scrivere tutto, ma questo sì lo voglio scrivere: il Signore mi tende insidie e lacci! Caduto, mi deriderà! Perché è avvenuto che io scrivessi il passo latino sulla gente che vive in penitenza fra il Mar Morto e il deserto, "sine pecunia, sine ulla femina, omni venere abdicata, socia palmarum" su quel pezzo di carta che recava sull'altra faccia parole di J. D., calde ancora del mio peccato antico e del suo, delle memorie più terribili? Perché una persona così timida ha osato impormi una comunicazione segreta? Il vento mi ha spalancata la finestra. Oh Aniene Aniene, come non ti stanchi di ruggirmi il tuo comando! Che io parta sul momento? Impossibile, le porte sono chiuse. E poi sarebbe indegno di partire così. Disonorerei Dio, farei dire: che qualità di servi ingrati e pazzi ha il Signore? Vieni, spirito del mio Maestro, vieni, vieni, parla, io ti ascolto. Che mi dici? Che mi dici? Ah tu sorridi delle mie tempeste, tu mi dici di partire, sì, ma di partire nobilmente, di annunciare che il Signore me lo comanda. Tu mi dici di obbedire alla voce di Dio nell' Aniene. Ecco che il vento si allontana, pare chetarsi, contento. Sì, sì, sì, con lagrime. Domani, domattina. Lo annuncierò. E so a chi andrò in Roma. Oh luce, oh pace, oh sorgenti redivive dell'anima mia, oh mare morto che ti gonfii in una calda ondata! Sì, sì, sì, con lagrime. Grazie, grazie. Gloria a Te, Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome Tuo, venga il regno Tuo, sia fatta la Tua volontà! _______________________

Cosa puoi dirmi che tu non abbia già detto in quattr'ore?" Il tuono ruggì ma Jeanne oramai non se ne curava più. "Domattina andremo al monastero" diss'ella. "Ma sì, va bene!" "Andremo noi due sole?" "Ma sì, è già inteso!" La voce piagnolosa tacque un momento e riprese: "Tu non mi hai mica promesso, ancora, che qui in casa non dirai niente?" "Dieci volte te l'ho promesso!" "Sai, non è vero, cosa devi dire per quello svenimento di ieri sera, se ti domandano?" "Lo so!" "Devi dire che quel Padre non è lui, che ho perduta una illusione e che mi sono sentita male per questo." "Ma mio Dio, Jeanne, queste son venti, delle volte!" "Come sei cattiva, Noemi! Come non mi vuoi bene!" Silenzio. La voce di Jeanne riprende: "Dimmi quello che pensi. Credi proprio che mi abbia dimenticata?" "Non rispondo più." "Rispondi, invece! Una parola sola! Dopo ti lascio dormire." Noemi pensa un poco e poi risponde asciutta, per finirla: "Ebbene, credo di sì. Credo che non ti abbia mai amata!" "Questo lo dici perché te l'ho detto io" ribatte Jeanne, aspra, senza lagrime nella voce. "Tu non puoi saperlo!" "Bon, ça!" brontolò Noemi. "C'est elle qui me l'a dit et je ne dois pas le savoir!" Silenzio. La voce flebile: "Noemi." Nessuna risposta. "Noemi, ascolta." Niente. Jeanne si mette a piangere e Noemi cede. "Ma, Santo cielo, cosa vuoi?" "Piero non può sapere che mio marito è morto." "bene. E allora?" "Allora non può sapere che sono libera." "E dunque?" "Stupida! Mi fai venire una rabbia!" Silenzio. Jeanne sa bene quale specie di rabbia è la sua. L'amica pensa troppo come lei stessa che vorrebbe tanto essere contraddetta nel suo presentimento doloroso, avere una parola di speranza. Rise un riso lieve, forzato: "Noemi, fai l'offesa, adesso, apposta, per non parlare." Silenzio. Jeanne riprende, mansueta: "Senti. Non credi che avrà della tentazioni?" Silenzio. Jeanne non si cura, stavolta, che Noemi non risponda. Esclama: "Sarebbe bella che proprio adesso non avesse più intenzioni!" Il suo sdegno è tanto comico che Noemi, pure molto scandolezzata, non può a meno di ridere; e ride anche lei. Noemi ride; però anche la sgrida di queste sciocchezze enormi che dice senza riflettere. Perché Noemi conosce Jeanne e sa che Jeanne in questo momento non è la vera Jeanne, conscia e signora di sé; o forse è la Jeanne più vera ma non certo quella che starà a fronte di Piero Maironi se mai s'incontrano. Il tuono tace e Jeanne vorrebbe vedere il tempo che fa, ma le pesa di scendere dal letto, teme di sentirsi male, teme il dubbio di non poter salire fra qualche ora al monastero. Teme poi anche le difficoltà che gli ospiti farebbero se il tempo fosse troppo cattivo; le preme dunque di sapere come si dispone il cielo. Bisogna che scenda Noemi, la schiava cui ben di rado riescono vittoriose le ribellioni. Noemi scende, apre la finestra, esplora il buio con la mano distesa. Minute frettolose goccioline le titillano la mano. Il buio si varia un poco agli occhi di lei. Ella distingue, lì sotto, Santa Maria della Febbre, grigia sul campo nero. Le si rischiara la nuvolaglia pesante, vi nereggiano su le braccia della quercia imminente a destra, i profili delle montagne. Le minute frettolose goccioline titillano titillano la mano distesa, che si ritrae. Jeanne domanda: "Dunque?" "Piove." Ella sospira: "che noia!" come se avesse a piovere in eterno. E le goccioline prendono maggior voce, riempiono di sommesse parole la camera, si affiochiscono ancora. Jeanne non ha inteso le sommesse parole, non ha inteso che l'uomo di cui ha pieno il cuore giace svenuto sulla petraia deserta che la pioggia lava. A mattina inoltrata la signora Selva, un po' inquieta per non avere ancora veduto comparire né l'una né l'altra delle due Signore, entrò pian piano nella camera di sua sorella. Noemi era quasi vestita e le accennò di tacere. Jeanne dormiva, finalmente. Le due sorelle uscirono insieme, si recarono nello studio di Giovanni che ve le attendeva. Dunque? Don Clemente era proprio l'uomo? Marito e moglie desideravano sapere, per regolarsi. Giovanni non dubitava più e sua moglie dubitava ancora. Noemi Noemi doveva sapere! Giovanni chiuse l'uscio, mentre Maria, interpretando il silenzio di sua sorella per una conferma, insisteva: "ma davvero? ma davvero?" Noemi taceva. Avrebbe forse tradito il segreto dell'amica nell'intento di cospirare con i Selva per la sua felicità, se non l'avesse trattenuta il dubbio di un disaccordo con i Selva e anche il senso di qualche cosa di malfermo in sé stessa. Probabilmente i Selva, cattolici, non desideravano che l'uomo fuggito dal mondo vi ritornasse. Lei, protestante, non poteva pensare così. Almeno non lo avrebbe dovuto. Lei doveva pensare che Iddio si serve meglio nel mondo e nel matrimonio. Lo pensava, ma non si nascondeva che se il signor Maironi adesso sposasse Jeanne non lo potrebbe stimare molto. Insomma era meglio tacere la strana Verità. "Cosa pensate?" diss'ella." Che quell'ecclesiastico di ieri sera, che è passato davanti a noi dopo tutta quella vostra mimica, fosse l'amante antico? È quello il vostro don Clemente? bene, non è lui." "Ah! Proprio no?" esclamò Giovanni fra sorpreso e incredulo. Sua moglie trionfò. "Ecco!" diss'ella. Ma Giovanni non si diede per vinto. Domandò a Noemi se fosse ben certa di quello che diceva, e come potesse spiegare il tramortimento della signora Dessalle. Noemi rispose che non c'era da spiegar niente. Jeanne soffriva di anemia ed era soggetta ad accessi di spossatezza mortale. Giovanni tacque, poco persuaso. Se proprio era stato così, come poteva Noemi affermare con tanta sicurezza che don Clemente non era l'uomo? Nelle parole, nel fare, nel viso di sua cognata, Giovanni sentiva qualche cosa di poco chiaro, di poco naturale. Maria s'informò della notte. Come l'aveva passata la signora Dessalle? Inquieta? Ma di quale inquietudine? "È stata inquieta! Che vi debbo dire?" fece Noemi, un po' seccata. E si accostò alla finestra aperta come per spiare le intenzioni delle nuvole. Giovanni fece un passo verso di lei, risoluto di venire a capo delle sue reticenze. Ella lo presentì e si affrettò ad un rifugio, a chiedergli il suo pronostico del tempo. Il cielo era tutto coperto, grandi nuvole basse traboccavano dai dorsi di Monte Calvo sopra i Cappuccini e la Rocca. L'aria era tepida, il fragore dell' Aniene, forte. Giù in basso il curvo nastro della strada di Subiaco traspariva fosco di mota fra i fogliami degli ulivi. Giovanni rispose: "Pioggia." Noemi domandò subito quanta strada ci fosse dal villino ai Conventi. A Santa Scolastica venti minuti. Perché lo domandava? Udito che Jeanne intendeva andarvi con Noemi quella mattina stessa, Maria protestò. Con un tempo simile? L'ultimo tratto bisognava farlo a piedi. Non potevano aspettare, rimandare a domani, a dopo domani? "Quando te l'ha detto?" chiese Giovanni, quasi brusco. Noemi esitò e poi rispose: "Stanotte." Comprese, nel dire la parola, che suggeriva sospetti, specie dopo quell'attimo di esitazione; e attese un assalto, incerta se resistere o cedere. "Noemi!" esclamò Giovanni, severo. Ella lo guardò, soffusa il viso di un lieve rossore. Non disse neppure - che c'è? -; tacque. "Non negare!" ripigliò suo cognato. "Questa signora ha riconosciuto don Clemente. Non negare, dillo, è un dovere di coscienza per te! Non è possibile di permettere che s'incontrino!" "Quello che ho detto è vero" rispose Noemi, ferma oramai della via che terrebbe. Nella sua voce senza sdegno, quasi sommessa, era una implicita confessione di non aver detto la Verità intera. "Non lo ha riconosciuto? Però tu, qualche cosa sai!" "So qualche cosa" rispose Noemi "sì, ma non posso dire quello che so. Vi dico solo di far avvertire subito don Clemente che la signora Dessalle e io si va stamane a visitare i Conventi. Altro non vi dico e vado a vedere se Jeanne si è svegliata." Ella uscì di volo. I Selva si guardarono. Che significava questo voler avvertire don Clemente? Maria lesse nel pensiero di suo marito qualche cosa che le dispiacque, che non avrebbe voluto gli venisse alle labbra. "Scrivi questo biglietto a don Clemente, intanto" diss'ella. Ma Giovanni, prima di scrivere, volle pur dire quello che pensava. Per lui vi era una sola spiegazione possibile. Don Clemente era veramente l'uomo. Noemi aveva promesso alla signora Dessalle di non dirlo ma voleva impedire l'incontro. Maria esclamò vivacemente: "Oh Noemi, mentire, no!" e poi arrossì, sorrise, abbracciò suo marito come se temesse di averlo offeso. Perché appunto Giovanni si era offeso una volta di certe parole sfuggite a lei sulla poca sincerità degl'italiani e adesso un'ombra di quella nube poteva forse ritornare per effetto della sua esclamazione. Egli fu punto infatti, più dall'abbraccio che dalla protesta, e arrossì pure, ricordando, e sostenne che al posto di Noemi anche Maria avrebbe negato. Maria tacque, uscì dallo studio, brillandole negli occhi una lagrima importuna. Giovanni si compiacque, in principio, di avere rintuzzata una tenerezza offensiva e si mise a scrivere il biglietto per don Clemente. Non l'aveva finito di scrivere e il suo corruccio gli era già diventato rimorso. Si alzò, uscì in cerca della moglie. Era nel corridoio con Noemi che discorreva piano. Volse tosto il viso a lui, lo intese, gli sorrise con gli occhi ancora umidi, gli fé cenno di accostarsi e di parlar sotto voce. Che c'era? C'era che Jeanne voleva partire subito per Santa Scolastica. Noemi avvertì ch'era appena svegliata e che questo subito significava un'ora e mezzo, almeno. Ma bisognava mandare a Subiaco per una carrozza, poiché Jeanne non era in grado di fare a piedi che lo stretto necessario, l'ultimo tratto di via. Un tocco di campanello richiamò Noemi. Jeanne l'aspettava, impaziente. "Che cameriera pettegola!" diss'ella, tra sorridente e crucciata. "Cosa sei andata a raccontare a tua sorella?" Noemi la minacciò di andarsene. Jeanne giunse le mani, supplichevole. E le domandò fissandola negli occhi, scrutandone l'anima: "Come mi pettino? Come mi vesto?" Noemi rispose sbadatamente: "Ma come vuoi!" L'altra batté il piede a terra, sbuffando. Allora Noemi capì. "Da contadina" diss'ella. "Sciocchissima creatura!" Noemi rise. Jeanne gemette il solito ritornello: "Non mi vuoi bene! Non mi vuoi bene!" Allora Noemi si fece seria, le domandò se volesse proprio riprenderselo, il suo Maironi. "Voglio esser bella!" esclamò Jeanne. "Ecco!" Ella era veramente bella così, nella sua veste da camera di un giallo ardente, con il suo fiume di capelli bruni, cadenti un palmo sotto la cintura. Era molto più bella e più giovine che la sera prima. Aveva negli occhi quella intensità di Vita che prendevano un tempo quando Maironi entrava nella stanza dov'era lei, quando anche solo ella ne udiva il passo nell'anticamera. "Vorrei la mia toilette di Praglia" diss'ella. "Vorrei comparirgli davanti col mio mantello verde foderato di pelliccia, adesso in maggio. Vorrei che vedesse subito quanto sono ancora la stessa e quanto voglio essere la stessa. - Oh Dio Dio!" Gettò le braccia, con un subito slancio, al collo di Noemi, le impresse la bocca sulla spalla, soffocando un singhiozzo, mormorò parole che Noemi non poteva distinguere. "No no no" diceva "sono pazza, sono cattiva, andiamo via, andiamo via." Alzò il viso lagrimoso. "Andiamo a Roma" diss'ella. "Sì sì" rispose Noemi, commossa "andiamo a Roma, partiamo subito. Adesso domando a che ora c'è un treno." Jeanne l'afferrò di colpo, la trattenne. No, no, era una pazzia, cos'avrebbe detto sua sorella? Era una pazzia, era una cosa impossibile. E poi, e poi, e poi ... Si coperse il viso, si mormorò dentro le mani che le bastava di vederlo, di vederlo un solo momento, ma che partire senza vederlo non poteva, non poteva, non poteva. "Andiamo!" diss'ella, dopo un lungo silenzio, scoprendosi il viso. "Vestiamoci! Mi vestirò come vorrai tu; di sacco, se vorrai, di cilicio." Ell'aveva ricuperato il suo sorriso cruccioso di prima. "Chi sa?" disse. "Forse mi farà bene di vederlo vestito da contadino." "Io guarirei subito" mormorò Noemi; e arrossì, sentendo di aver detto una grossa falsità. Quando la signora Selva bussò all'uscio per avvertire che la carrozza era pronta, Jeanne pregò Noemi, con umiltà comica, di lasciarle mettere il grande cappello Rembrandt che prediligeva. Le nere ali piumate, curve sul viso pallido, sui neri fuochi degli occhi, sull'alta persona avvolta in un mantello scuro, parevan vive dell'anima stessa di lei, cupa, appassionata e altera. Ella sentì, nel dare il buongiorno a Maria Selva, l'ammirazione che destava. La sentì anche negli occhi di Giovanni, ma diversa, non simpatica. Appena lasciatolo per scendere con Noemi al cancello dove la carrozza aspettava, le domandò se avesse detto niente, proprio niente, a suo cognato. Avutane una risposta rassicurante, mormorò: "Mi pareva." Fatti pochi passi, le strinse forte il braccio, esclamò lieta come per una scoperta improvvisa: "Però sono ancora bella!" Noemi non le dava retta. Noemi si domandava: il nome Dessalle avrà detto qualche cosa al quel frate? Lo avrà egli udito da Maironi? Se Maironi gli ha raccontato di questo amore, non potrebbe avere taciuto il nome della signora? In fondo ell'aveva un'acuta curiosità di conoscere l'uomo che aveva ispirato a Jeanne un sentimento così forte ed era scomparso dal mondo in un modo così strano. Ma lo avrebbe voluto vedere da sola. Era uno sgomento di pensare che i due s'incontrassero senza qualche preparazione. Almeno poter prima parlare a questo frate, a questo don Clemente, accertarsi che sa, informarlo se non sa, apprendere da lui qualche cosa di quell'altro, il suo stato d'animo, le sue intenzioni! Basta, pensò salendo in carrozza, faccia la Provvidenza! E assista questa povera creatura! Nel metter piede a terra dove comincia la mulattiera, Jeanne propose timidamente, come chi prevede un rifiuto e lo riconosce ragionevole, di salire ai Conventi sola, colla guida di un monello corso da Subiaco dietro la carrozza. Il rifiuto venne infatti e vivacissimo. Non era possibile! Che mai le veniva in mente? Allora Jeanne supplicò di essere almeno lasciata sola con lui, se lo avesse trovato. Noemi non seppe che rispondere. "E se ti precedessi?" diss'ella. "Se domandassi del Padre Clemente? Se cercassi di capire cos'è, cosa fa e cosa pensa il tuo..." Jeanne la interruppe, esterrefatta. "Il Padre? Parlare al Padre?" esclamò squadernandole ambedue le mani sul viso come per turarle la bocca. "Guai a te se parli al Padre!" S'incamminarono lentamente per la sassosa mulattiera. Jeanne si fermava spesso, presa da tremiti, vibrando come un filo teso al vento. Porgeva allora in silenzio a Noemi le mani gelate perché sentisse e le sorrideva. Nel mare delle nebbie correnti a monte comparve, curioso anche lui, l'occhio smorto del sole.

Malombra

670392
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

"Pur troppo, signor conte, non vi è nessuno al mondo che abbia grande autorità sopra di me." "Io non Vi ho detto che questa persona sia viva." Silla provò una scossa, un formicolìo freddo nel petto. Il conte aperse un cassetto del tavolo, ne trasse una lettera e gliela porse. "Leggete" diss'egli, e si gettò addietro sulla spalliera della seggiola con le mani in tasca e la testa china sul petto. L'altro afferrò rapidamente la lettera, ne lesse la soprascritta e fu preso da un tremito violento che gli tolse di proferir parola. V'era scritto di pugno di sua madre: PER CORRADO Tremava così forte che poté a mala pena aprir la lettera. La voce cara di sua madre gli pareva venir dal mondo degli spiriti per dir parole non potute dire in vita e sepolte nel suo cuore sotto una pietra più grave di quella della tomba. Le parole erano queste: Se ti è cara la memoria mia, se credi ch'io abbia fatto qualche cosa per te, affidati all'uomo giusto che ti dà questa lettera. Dal paese della pace dove spero m'abbia posato la misericordia di Dio quando la leggerai, ti benedico. La mamma Nessuno dei due parlò. Si udì un singhiozzo disperato, prepotente; poi più nulla. Ad un tratto Silla, contro la sua ragione, contro la sua volontà, il suo cuore istesso, guardò il conte con tale angosciosa domanda negli occhi sbarrati, che quegli menò un furibondo pugno sul tavolo esclamando: "No!" "Dio! Non ho voluto dir questo!" gridò Silla. Il conte si alzò in piedi e allargò le braccia. "Amica venerata" diss'egli. Silla piegò la testa sul tavolo e pianse. Il conte aspettò un momento in silenzio e poi disse a bassa voce: "Vidi Vostra madre per l'ultima volta un anno prima del suo matrimonio. Ella mi ha scritto poi molte lettere di cui Voi eravate il solo argomento. Ecco perché io conosco molti particolari intimi della Vostra vita. Dopo il 58 sono stato informato da certi amici miei di Milano. Voi comprenderete facilmente perché abbiate ritrovato in casa mia quelle suppellettili; esse mi ricordano la persona più virtuosa e più rispettabile che mi abbia onorato della sua amicizia." Silla stese ambedue le mani verso di lui senz'alzare il capo dal tavolo. Il conte gliele strinse affettuosamente, le tenne qualche momento fra le sue. "Dunque?" diss'egli. "Oh!" rispose Silla alzando la testa. Era detto tutto. "Bene" rispose il conte "adesso uscite, uscite subito, andate a pigliar aria. Vi faccio accompagnare dal mio segretario." Suonò e fece venire Steinegge che si mise, tutto sorridente, agli ordini del signor Silla. Egli si professava lieto dell'onorevolissimo incarico. Non sapeva se gli abiti che si trovava indosso fossero degni dello stesso onore. Sì? Ringraziava. Se n'andò finalmente con Silla, strisciando inchini e facendo infinite cerimonie ad ogni uscio, come se al di là della soglia vi fosse stata una torpedine. Appena uscito dal cancello del cortile, mutò modi e parole. Prese a braccetto il compagno: "Andiamo a R..." diss e "bisogna bere un poco, caro signor." "No" rispose Silla, distratto, non sapendo ancora bene in che mondo si fosse. "Oh, non dite no, io vedo. Voi siete serio, molto serio; io poi sono serissimo." Steinegge si fermò, accese un sigaro, sbuffò una gran boccata di fumo, batté con il palmo della destra la spalla del suo interlocutore e disse ex abrupto: "Oggi sono dodici anni, mia moglie è morta." Fece un passo avanti, poi voltossi a guardar Silla, con le braccia incrociate sul petto, le labbra strette, le sopracciglia aggrottate. "Andiamo, voglio raccontarvi questo." E, ripreso il braccio di Silla, tirò avanti a passi sgangherati, fermandosi di tratto in tratto su' due piedi. "Io, per il mio paese, mi sono battuto nel 1848, Voi sapete. Io lasciai il servizio austriaco e mi battei nel Nassau per la libertà. Bene, quando si calò il sipario fui gittato per grazia alla frontiera con mia moglie e mia figlia. Sono andato in Svizzera. Là ho lavorato come un cane, col piccone, sopra una linea di ferrovia. Non dico niente, questo è un onore. Sono di buona famiglia, fui Rittmeister, ma fa niente, questo è un onore, di aver lavorato con le mie mani. Il male era che non guadagnavo abbastanz a. Pensate, signor, mia moglie e mia figlia pativano la fame! Allora con l'aiuto di alcuni compatrioti, si andò in America. Sì, signor, sono stato anche in America, a New York. Ho venduto birra, ho guadagnato. Oh, andava bene. Es war ein Traum. Sapete? Era un sogno. Mia moglie ammalò di nostalgia. Si stava bene a New York, si prendevano dollari, si avevano molti amici. Ebbene, cosa è tutto questo? Partiamo, arriviamo in Europa. Io scrivo a' miei parenti. Sono tutti reazionari e bigotti; io sono nato cattoli co, ma non credo ai preti; non mi rispondono. Che importava loro se mia moglie moriva? Scrivo ai parenti di mia moglie. Cose da ridere, signor. Quelli mi odiavano perché avevan creduto dare la ragazza a un ricco e il poco che mio padre non aveva potuto togliermi era stato confiscato dal governo. Oh, è bellissima. Però mio cognato venne a Nancy, dov'ero io. Mia moglie partì con la bambina, sperando guarire presto e ritornare. L'accompagnai alla frontiera. Stava male; dovevamo lasciarci a mezzogiorno. Un'ora prima mi abbracciò e mi disse: "Andrea, ho visto il paese da lontano: basta, restiamo insieme." Capite, signor? Voleva morire con me. Otto giorni dopo..." Steinegge compì la frase con un gesto e si cacciò a fumare furiosamente. Silla taceva sempre, non gli dava retta, forse non l'udiva neppure. "I parenti di mia moglie" continuò l'altro "hanno preso la bambina. È stata una carità perché la piccina non sarebbe stata bene con me solo, e con questo pensiero ch'ella si trovava meglio io ho potuto soffrire molto allegramente. Ma credete che non mi hanno mai data una notizia? Io le ho scritto ogni quindici giorni, sino a due anni or sono; non mi ha risposto mai. Potrebbe anche non essere più al mondo. Cosa è questo? Si beve, si fuma, si ride, ooh!" Dopo questo epilogo filosofico il segretario tacque. Era notte oscura. La stradicciuola tagliava per isghembo un pendìo cespuglioso dal vallone del palazzo alle prime nere casupole di R... Abbasso, il lago dormiva. Nel Palazzo si vedevano ancora illuminate le finestre della biblioteca e altre due nella stessa ala, sull'angolo del secondo piano; una verso ponente, l'altra verso mezzogiorno. Prima di toccar le casupole, il sentiero svoltava fra i due muricciuoli bassi, in un avamposto di granoturco e di gelsi . "Dove andiamo?" domandò Silla affacciandosi all'entrata scura del villaggio. "Solo un poco avanti" rispose Steinegge, incoraggiandolo. "Le sarei grato se ci fermassimo qui." Steinegge sospirò. "Come volete. Fuori del ciottolato, allora." Ritornarono un passo indietro dai muricciuoli e sedettero sull'erba, dalla parte del ponte. "Io faccio come volete, signor" disse il segretario "ma questo è molto male per Voi di non bere. Gli amici delle ore tristi sono pochi e il vino è il più fedele. Non bisogna trascurarlo. Mostrategli di vederlo volentieri, Vi accarezza il cuore: trattatelo male e, se un giorno ne avrete bisogno, Vi morderà." Silla non rispose. Era dolce a contemplare, nello stato d'animo suo, la notte senza luna e senza stelle. Dal vallone spirava una tramontana fresca, pregna d'odor di bosco. Erano lì da pochi minuti quando udirono a destra fra le casupole un suono cupo di molti passi, che si allargò subito all'aperto e si fermò. "Ooh, Angiolina!" chiamò qualcuno. Silenzio. "Ooh, Angiolina!" Una finestra si aperse e una voce femminile rispose: "Che volete?" "Niente, vogliamo. Siamo qui al caffè della valle a prendere come i signori, e vogliamo far quattro chiacchiere." "Maledetti ubbriaconi, è questa l'ora di far chiacchiere? Dovevate stare all'osteria a far chiacchiere." "Ci è troppo caldo" saltò su un altro. "Si sta meglio qui a cavallo de' muri. Non sentite che bel freschino? Come volete fare a dormire? L'è pazzia stare a letto con questo caldo. Non è andato a letto neppure il vecchio del Palazzo stasera. Non vedete che ha ancora acceso il lume?" "Non si vede da qui. Sarà il lume della signora donna Marina." "Oh adesso! Mai più. C'è bene anche quello, ma le due finestre chiare, abbasso, sono quelle dei libri. Ho mica da saperlo? Sono stato giù l'altro giorno a metterci due lastre." "Ci hanno ad essere de' forestieri" disse un terzo. "Sì, c'è un giovinotto di Milano. L'ha detto il cuoco stasera alla Cecchina. Ci deve essere per aria di combinar qualche cosa con la signora donna Marina." "Stia allegro chi la toglie, quella lì, che toglie un bel balocco, sì!" disse la donna. "Ha detto così la signora Giovanna alla Marta del signor curato, che hanno attaccato lite anche oggi e che lui, il vecchio, le ha sbattuto giù il libro dalla finestra, e lei allora ha fatto il demonio. La signora Giovanna tiene dal suo padrone, ma già sono matti tutti e due. Solo per il nome non la vorrei quella lì, se fossi un uomo. Ha un gran nome da strega, sapete. Malombra!" "Oh sì, sì, come ha ragione quella donna, da strega!" disse piano Steinegge. "Questo è divertente." "E mica Malombra, è Crusnelli." "Malombra!" "Crusnelli!" "Malombra!" Si riscaldavano, gridavan tutti insieme. "Andiamo via" disse Silla. Si alzarono e ridiscesero verso casa. Quando giunsero in fondo al seno del Palazzo, dove faceva tanto buio che Steinegge si pentì di non aver preso seco la lanterna, saltò su nel silenzio il suono chiaro e dolce d'un piano. Rischiarò la notte. Non si vedeva nulla ma si sentivano le pareti del monte intorno alle note limpide, si sentiva, sotto, l'acqua sonora. In quel deserto l'effetto dello strumento era inesprimibile, pieno di mistero e di immaginazioni mondane. Era forse un vecchio strumento stanco, e in città, di giorno, si sarebbe disprezza ta la sua voce un poco fessa e lamentevole; pure quanto pensiero esprimeva lì nella solitudine buia! Pareva una voce affaticata, assottigliata dall'anima troppo ardente. La melodia, tutta slanci e languori appassionati, era portata da un accompagnamento leggero, carezzevole, con una punta di scherzo. "Donna Marina" disse Steinegge. "Ah" sussurrò Silla "che musica è?" "Ma!" rispose Steinegge "pare Don Giovanni, Voi sapete: Vieni alla finestra. Suona quasi sempre a quest'ora." In biblioteca non c'era più lume. "Il signor conte arrabbia adesso" disse Steinegge. "Perché?" "Perché non ama la musica e quella lo fa apposta." Silla zittì con le labbra. "Come suona!" diss'egli. "Suona come un maligno diavolo che abbia il vino affettuoso" pronunciò Steinegge. "Vi consiglio di non credere alla sua musica, signor."

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675759
Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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Queste parole furono profferite con tale aria di severità e di comando che ti pareva udire un magistrato che desse delle ammonizioni ad un delinquente che non abbia scusa. «Non è dessa la moglie di Manlio, - s’affrettò a dire Silvia, - sono io! Essa venne solo per accompagnarci e testimoniare all’E. V. ch’ella sin da fanciulla conosce la nostra famiglia e può giurare non esserci noi frammischiati mai in cose politiche. Donna Aurelia può dirlo - continuava incalorendosi la povera Silvia, - ella può dire se mio marito non è un uomo d’una onestà a tutta prova». «D’un’onestà a tutta prova - ripeteva fingendosi corrucciato il malandrino. - E se siete onesti, perché albergate eretici e nemici dello Stato? e l’onesto Manlio, perché fugge violentemente di prigione adoperando mezzi imperdonabilmente colpevoli?». Un momento di silenzio seguì quelle parole e Clelia la quale più d’ogni altro conservava il suo sangue freddo pensò subito: «Fuggito! dunque non è più nelle unghie di questi demonii!» ed un lampo di contentezza sfavillò sulla bella fronte della fanciulla che mormorò: «Fuggito!». «Sì fuggito - ripeteva il chercuto indovinando l’effetto prodotto da quella parola sull’animo di Clelia, - però badate, niuno può fuggire dalla spada della giustizia! e Manlio cadrà sotto la doppia colpa d’essere stato il ricettatore dei nemici di S. Santità e di avere con criminosa violenza forzato l’inviolabilità delle carceri pontificie». Alla povera Silvia le altosonanti parole del porporato fecero l’effetto della folgore. Impallidì, stese le braccia verso la sua Clelia, quindi sentendosi stringere il cuore cadde svenuta. Procopio, agguerrito a questi colpi di scena, non si scosse, anzi ne profittò, chiamò i domestici, ordinò che le donne fossero condotte in altra stanza e si cercasse con ogni cura di richiamare in sé la svenuta. «Oh! voi non uscirete di qui senza avermi pagato un prezioso tributo», pensò tra sé il lussurioso Cardinale tornandosi a stropicciare le mani. Chiamò a sé il Gianni, il quale non s’era allontanato di molto, prevedendo che il suo padrone poteva abbisognare dell’opera sua. «Ebbene, vedete un po’ signor Gianni» (e Gianni sapeva ciò che richiedeva da lui il porporato quando chiamavalo signore). «Vedete, - dicevagli con aria giuliva, - se la provvidenza non ci favorisce meglio che noi sappiate far voi colla vostra abilità!» «Io l’ho sempre detto che l’E. V. è nata sotto una buona stella, è destinata ad esser felice» rispondeva l’eunuco inchinandosi e strisciando come un rettile. «Dunque, ora che la Provvidenza (e dalli colla Provvidenza malmenata da quella bocca sacrilega) ci ha favorito tocca a te il resto. Bada che quelle donne sieno trattate con ogni riguardo. Esse furono or ora condotte negli appartamenti posteriori del palazzo, di là, col pretesto di chiamarle ad interrogatorio presso Monsignor Ignazio (il lettore conosce già il buon soggetto), fate che sieno divise. Quando poi sieno tornate in calma e sciolte da ogni sospetto io avrà bisogno di trattenermi da solo a sola colla Clelia. Siamo intesi, eh!». E dopo essersi passata la mano sul mento con compiacenza, il Cardinale accennando col dito faceva segno a Gianni di andare. Quindi, senza far parola, con un profondo inchino si allontanava l’eunuco accompagnato dallo sguardo semi-austero semi-sorridente del suo padrone. Non appena uscito il Gianni, un domestico annunciò la signorina inglese. «Ma avanti! avanti!» diceva il Prelato e tra sé: «Ma proprio dal cielo mi cade la manna quest’oggi». E passava e ripassava la mano sul liscio mento dove fra le macchie di cui avevanlo chiazzato la lussuria e la depravazione, si scorgeva la pallida e giallognola cute del camaleonte. «Avanti, signorina!» tornò a gridare il Cardinale quando l’uscio s’aperse e fece alcuni passi per prender la mano dell’altiera e bellissima artista. «Che fortuna è la mia di possedervi un istante sotto questo tetto, in questa stanza istessa che fu abbellita una volta dalla vostra presenza e mi sembra deserta da che la vostra preziosa persona l’ha abbandonata». «Quanta galanteria sfoggia questa serpe» pensò fra sé la nostra Giulia, mentre che ascoltava il grandiloquente sermone del cicisbeo, e sedutasi, con poche cerimonie, rispondeva «Gentile e graziosa è l’E. V. e io le ne sono grata. Una volta io veniva qui più spesso per copiare i capi d’opera di cui va adorno questo palazzo, ma già da alcun tempo ho terminate le mie copie ed oggimai qui non saprei quello che dovrei venirci a fare». «Non ci sapreste più che fare?! oh! questa poi è una dichiarazione poco galante da parte vostra, signora Giulia! qui come ovunque voi avrete un culto, bellissima fanciulla!». Biascicando queste e simili frasi melate, Don Procopio cercava di avvicinare frattanto la sua poltrona a quella di lei ma ella ritirava la propria d’altrettanto dimodoché le due poltrone avevano l’aria di onde agitate che si perseguono sempre, e non si raggiungono mai. Stanco di perseguitare la giovine straniera a corso di poltrona, il prelato si alzò e risolutamente mosse verso di lei. «Ma sedete, od io parto!» esclamò Giulia alzandosi e mettendo la poltrona tra lei e l’indecente Cardinale mentre gli figgeva due occhi in volto che lo atterrarono. Il prete si lasciava andare sulla seggiola come colpito dal fulmine e Giulia sedutasi pure cominciò: «La mia visita non è senza grave motivo, già lo sapete che per vedervi non ci verrei. Io son qui a chiedervi notizie d’una famiglia che m’interessa: della famiglia dello scultore Manlio». «Fu qui è vero, ma se n’è andata» rispose Procopio, rinvenuto dal primo stupore. «È molto tempo che se n’è andata?» chiese Giulia, con accento da cui trapelava la sua incredulità. «Sono pochi momenti che le donne lasciarono queste stanze» fu la risposta di Don Procopio. «Saranno dunque a quest’ora fuori del palazzo», ripigliava la straniera. Ed il prete: «lo saranno», rispose colla certezza di mentire. Giulia con un gesto d’incredulità troncava il dialogo e maestosamente ripigliava la sua via, appena salutando con un cenno del capo l’eminente canaglia. Ha pure i suoi vizi i suoi difetti la razza britannica. E cosa v’è di perfetto nell’umana famiglia? Ma se v’è popolo ch’io mi compiaccia a paragonare ai nostri antichi padri di Roma, è certamente l’inglese. Egoista e conquistatore come quelli, la sua storia rigurgita di delitti; delitti commessi nel suo seno e nel seno delle altre nazioni. Molti sono i popoli che egli ravvolse e ravvolge nelle sue spire di ferro per contentare l’insaziabile sua sete d’oro e di predominio. Pur non si può negare che egli non abbia immensamente contribuito al progresso umano e gettato la base di quella dignità individuale che presenta l’uomo diritto, inflessibile, maestoso, davanti alle esigenze dispotiche che padroneggiano l’uman genere. A forza di costanza e di coraggio egli ha saputo conciliare l’ordine governativo colle libertà adeguate ad un popolo padrone di sé stesso. L’isola sua divenne il santuario e l’asilo inviolabile di tutte le sventure, il despota, come il proscritto dal despota, vivono insieme su quella terra ospitale, colla sola condizione di essere uomini. Egli ha proclamato l’emancipazione dei negri oggi felicemente conseguita dalla lotta gigantesca della sua stessa razza sul nuovo continente; a lui infine deve l’Italia in parte la propria ricostituzione, grazie alla maschia sua voce di non intervento da lui fatta risuonare nello stretto di Messina nel 1860. Alla Francia come all’Inghilterra molto deve l’Italia. Alla Francia molto deve l’umanità per la propaganda de’ principi filosofici, per l’affermazione dei diritti dell’uomo. Alla Francia si deve l’annientamento della schiavitù barbaresca nel Mediterraneo. La Francia seppe mettersi alla testa della civiltà umana ma non lo è più. Oggi strisciando davanti al simulacro d’una grandezza fittizia essa distrugge l’opera grandiosa del suo passato. Un giorno la Francia proclamava e propagava la libertà nel mondo, oggi è dessa che cerca distruggerla dovunque. La Dea ragione, quel parto straordinario dell’intelligenza emancipata, essa oggi la rinnega ed i suoi soldati fanno il gendarme al Sacerdote dell’oscurantismo. Speriamo per il bene dell’umanità veder presto le due grandi Nazioni rimettersi insieme all’avanguardia dell’umano progresso.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676051
Ghislanzoni, Antonio 4 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Egli è disceso stamattina prima dell'albeggiare; non è improbabile che la sua gondola abbia portato abbasso uno di quei gabbamondo ... E noi lo conosceremo ... perdio! E s'io riesco a pigliar in mano un filo della matassa ... giuro districarla in pochi giorni ... e vi prometto che quella galera di birboni non farà, quindi innanzi, un lungo viaggio! ... Il Torresani accennò col dito a diversi subalterni, i quali immediatamente gli si fecero appresso, per ricevere alcuni ordini segreti. Poco dopo, entrò nella sala il Bigino, conduttore di gondole.

Potete voi giurare, o fratello Levita, che in queste pagine non vi abbia parola la quale non sia ispirata dalla verità?. Fratello Consolatore portò la mano al petto e rispose: - Pel corso di cinque anni ho diviso tutte le angosce dell'uomo che ci sta dinanzi: la sua anima si è completamente rivelata alla mia e voi la vedrete riflessa in quelle carte ... - Voi fortunati! - esclamò il Virey con un sorriso di sdegnosa ironia - voi che avete il privilegio di scorgere l'anima attraverso le molecole organiche dalle quali risulta la vitalità ... La scienza di noi profani non giunge a tanto. Vedete voi la vostra anima, fratello Levita? - Non la vedo, ma la sento - rispose fratello Consolatore con umile voce. - E siete proprio persuaso che il battito delle arterie, il respiro dei polmoni, la facoltà di pensare e di agire dipendano da una potenza misteriosa che non ha da fare colla materia? - Il giorno in cui in me cessasse una tale convinzione, arrossirei di esser uomo e invocherei di morire. - Mentre io mi occuperò a leggere queste note biografiche - disse il Virey allontanandosi - voi potrete, o fratello, esercitare le vostre pratiche salutari sull'anima dell'infermo. Più tardi, se i vostri rimedi non avranno giovato, io mi permetterò di tentare qualche prova sulla massa corporea. Vi prometto che il vostro metodo di cura non ne rimarrà pregiudicato. Così parlando, il Virey si ritirò nel vicino gabinetto. Fratello Consolatore cadde in ginocchio presso il letto dell'infermo mormorando una preghiera. Trascorsa un'ora, il Primate di medicina rientrò nella stanza. Ai due praticanti magnetisti che lo accompagnavano si era aggiunto un numeroso drappello di giovani studenti, intervenuti spontaneamente al consulto per erudirsi nella dotta e faconda parola dell'illustre scienziato. Il Virey da più mesi non era venuto a Milano; tutti si attendevano che al letto degli infermi egli avrebbe solennemente proclamate e spiegate le sue grandi teorie innovatrici. L'aspettativa non fu delusa. I giovani si schierarono silenziosi intorno al letto, e il Primate con accento solenne prese a parlare: «L'esplorazione magnetica non mi aveva ingannato; la biografia dell'infermo, e più che altro la storia delle sue ultime peripezie ha confermato i miei criterii sulla natura del male che reclama i nostri soccorsi. «La scienza medica ha fatto, nella prima metà del corrente secolo, dei progressi meravigliosi. Oggimai non vi è legge dell'organismo umano che a noi sia ignota, non vi è forza della natura che abbia potuto sottrarsi alle nostre investigazioni ed al dominio delle nostre esperienze. Ogni mistero si è rivelato; l'organismo umano non ha più segreti per noi; la chimica ha messo a nostra disposizione tutte le sostanze vitali disperse negli elementi, tutti i reagenti salutari che rispondono alle umane fralezze. «Possiamo noi inorgoglirci degli stupendi risultati? «Possiamo noi esultare dei nostri trionfi, mentre gettando uno sguardo sulla umanità ci è forza di constatare il suo incessante deperimento? «I nostri legislatori si mostrano sgomentati della frequenza, per verità spaventevole, dei suicidii individuali; eppure - strano a pensarsi - assistono spettatori indifferenti ed improvvidi al suicidio di tutta la specie umana! «Se fosse lecito dubitare della perfezione matematica dell'universo, che implica necessariamente la perfezione dei singoli elementi cosmici, in verità noi dovremmo chiamare assurda ed improvvida questa grande sproporzione che si manifesta tra la facoltà immaginativa e la forza puramente meccanica dell'uomo. Tutte le malattie, tutte le passioni e le ansie che ci contristano la vita ripetono la loro origine e la loro causa efficiente da questo fenomeno implacabile. Il progressivo sviluppo e la conseguente attività delle forze morali segna nell'organismo dell'uomo le fasi del deperimento che conduce alla morte. Questo attrito incessante fra l'uomo intelligente e l'uomo bruto risponderebbe per avventura ad una misteriosa esigenza dell'ordine universale? Questa legge, così assurda nelle apparenze, costituirebbe forse il principio demolitore, o meglio, la potenza trasformatrice della umanità? La razza umana sarebbe mai destinata a scomparire dopo un lasso di secoli, per vivere e riprendere sotto nuovi aspetti la sua attività cooperativa in un mondo ringiovanito? Ammessa una tale ipotesi, per la quale verrebbero ad eliminarsi molti assurdi concetti, volgendo uno sguardo alle condizioni attuali della umanità, ed ai gravissimi indizi di prostrazione che in ogni parte si manifestano, non possiamo astenerci dall'emettere un grido di allarme - l'agonia della nostra specie è cominciata. Il fuoco della nostra intelligenza ha raggiunto il massimo grado della incandescenza; questo fuoco sta per estinguersi. «Noi siamo all'ultimo atto della grande tragedia umana. Il Titano intelligente si elevò ad una altezza non mai raggiunta, ma la sua caduta sarà irreparabile. «Abbiamo spogliate le foreste, abbiamo traforate e abbattute le montagne, abbiamo aperte delle voragini per rapire alla terra le materie combustibili e gazose; abbiamo deviate le correnti elettriche; dapertutto la mano dell'uomo ha portato lo scompiglio e lo sfacelo. «Che più ci resta a tentare? Dopo aver dominato la terra e le acque, ecco le nostre locomotive ci sollevano ai cieli ... Non basta? Fourrier, coll'innesto delle ali, ci comunica una nuova facoltà, ci promette una trasformazione ... «Affrettiamoci, signori! Ciò che abbiamo fatto per suicidarci è poca cosa ... Voliamo alle regioni dove spaziano le aquile! ... Voliamo colà dove per l'uomo si respira la morte ... «E i sintomi mortali si scorgono dapertutto. L'attività febbrile che nello scorso decennio ha operato dei prodigi, oggi accenna ad estenuarsi; la luce della intelligenza umana è quella del lucignolo prossimo a spegnersi. «E frattanto, qual forza ci soccorre? La terra, nostra madre, e nudrice, è ormai stanca delle nostre violenze. Essa comincia a ribellarsi. I cereali intisichiscono, la vite non dà più grappoli; gli animali che più abbondante e vigoroso ci fornivano l'alimento, si ammorbano e periscono sui pascoli insteriliti. «E già i governi mandano un grido di allarme; e il diritto alla esistenza sancito dalle nuove leggi diverrà fra poco una derisione ... Ma a ciò provveda chi deve. «Il nostro compito, o signori, è quello di affermare, per quanto è da noi, la vita individuale, mentre le masse precipitano nella morte. «L'umanità è colpita là dove ha molto peccato. La prevalenza del succo nerveo ha paralizzato le forze del sangue; l'equilibrio degli elementi vitali è cessato; l'uomo vegetale, l'uomo bruto fu invaso dell'uomo pensante. «Dalle cattedre, dai libri, dai giornali noi abbiamo reagito costantemente contro l'invadenza di uno spiritualismo micidiale. Ma la superbia umana ha sordo l'orecchio alle verità che la umiliano. «La religione riformata, accarezzando l'orgoglio dell'uomo e l'idealismo irrazionale della donna, ha messo il colino alla esaltazione. In ogni paese, in ogni tempo, l'ascetismo fu nemico della nostra scienza; ma a nessuna epoca mai come alla nostra, il prete ed il poeta, questi eterni falsarii della legge naturale, questi allucinati o coscienti mistificatori delle plebi umane, esercitarono più micidiale il loro predominio. I fanatici del nuovo culto impazziscono a migliaia. Parigi, la superba città che era nello scorso secolo denominata il cervello del mondo Parigi non rappresenta oggigiorno che un vasto manicomio. «Ma questi signori vi diranno: ciò che a noi importa è la salute delle anime! Orbene! (e così parlando il Virey si volse a fratello Consolatore) non vi par tempo che noi interveniamo? «Vorrete poi permetterci di tentare qualche esperienza profana sugli atomi vitali che per avventura serpeggiano tuttavia in questo corpo estenuato? ... » Fratello Consolatore non rispose e chinò la testa mestamente. Il Virey, per un istante disarmato dall'umile atteggiamento del Levita, riprese la parola con intonazione più dimessa: «La malattia che ha colpito quest'uomo è una delle più comuni oggidì: la lassitudine nervosa complicata e aggravata da un chiodo fantastico «Lo sfinimento dell'apparato nervoso ripete la sua origine da troppo intense e prolungate esercitazioni della macchina cerebrale; il chiodo fantastico è frutto di una troppo costante e inesaudita surreccitazione dei globuli simpatici. Il bagno fosforico e le fasciature elettro-magnetiche applicate con prudente moderazione potrebbero in breve tempo rinvigorire il sistema pregiudicato; ma un tal metodo di cura aggraverebbe la crisi dell'organo più compromesso. «Signori! ... occhio al cervello! ... occhio al padrone, al governatore, al tiranno della casa vitale! Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l'organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere. «Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l'equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l'equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa. «Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L'idealismo! sempre l'idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore! ... Oh! chi scriverà la storia dell'amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l'attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione? «Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l'assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall'organismo gli atomi eterogenei, «Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice! ... «E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto ... Ma, no! ... io stesso sceglierò l'individuo da applicarsi ... «Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare? ... » Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato. - Sta bene! ... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate ... Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

Con quale accortezza e tenacità io abbia lottato per oltre venti anni contro la ribalderia umana, apparirà evidentemente dai registri e dai tesseri che io lasciai negli uffizii. Se non che - lo confesso con immenso rammarico - in questi ultimi tempi la mia e l'attività indomabile de' miei subalterni riuscì in molti casi impotente. Già da oltre mezzo secolo, quei nostri famigerati utopisti che ripetevano la frequenza dei crimini dall'analfabetismo delle masse, hanno dovuto convincersi che l'istruzione universale ha quadruplicato il numero dei falsarii e dei ricattatori. Più tardi, la scienza medica e farmaceutica appresa a tutti indistintamente i cittadini della Unione, moltiplicò gli avvelenatori e gli assassinî domestici. Le locomotive aeree agevolarono le contumacie dei bricconi e favorirono la impunità. La sistemazione e applicazione pratica delle forze magnetiche produsse abbominazioni che fanno inorridire. «A questi, sempre crescenti ausiliarii della iniquità e della corruzione, i governi opposero una resistenza in fino ad oggi abbastanza efficace. Nelle nostre mani le nuove armi fornite dal progresso alla depravazione ed alla colpa divennero una forza riparatrice. La nostra sorveglianza dalla terra e dal mare si estese alle amplissime regioni dell'aria. Abbiamo non pochi esempi di grandi ed audacissimi malfattori, catturati dai nostri agenti a poca distanza dalla luna. «Ma qual pro' da questa caccia affannosa e piena di pericoli? Noi inseguiamo il calabrone malefico, lo afferriamo, lo rechiamo trionfanti, esultanti, sul banco della giustizia, acciò questa si prenda il bel spasso di aprirci il pugno per ridonare il captivo al libero esercizio de' suoi perfidi talenti. «Tante grazie, signori riformatori del Codice penale! ... Ma non vi par tempo di finirla con questa buffoneria che si chiama il Ministero di Sorveglianza pubblica? A che serve lo inseguire, il catturare dei delinquenti, mentre alla giustizia più non rimane alcun serio mezzo di punizione? «Nei secoli addietro, allorquando a migliaia a migliaia i galantuomini, o dirò meglio, gli impregiudicati, morivano di fame, un cotal Beccaria finse di intenerirsi sulla sorte degli assassini appiccati alla forca. Tutti i filosofi dell'epoca fecero eco alla nenia, e la canaglia (ciò si comprende) proclamò il Beccaria altamente benemerito della Società umana. «La pena di morte venne col tempo abolita; tanto è vero che tutte le idee, anche le più strane e più esiziali, seguono il loro corso di rotazione e a lungo andare si traducono in fatto. I briganti, gli aggressori di strada, gli avvelenatori, i parricidi arsero dei ceri alla statua grottesta di Beccaria(23).

Ella andrà a rintanarsi fino a quando non abbia ricuperate le sue spire e il suo veleno. Al primo intiepidirsi della stagione, spiccherà un salto per morderti alla carotide e succhiare il tuo sangue. «Che abbiamo fatto noi? che facciamo, colla nostra rivoluzione tanto vantata e tanto infruttuosa? ... Abbiamo atterrito il dispotismo col tuono di una cannonata - abbiamo lanciato una bomba di carta in mezzo a questo intrigo di rettili. Ma i rettili si ritrassero nelle loro tane sibilando minaccia, e aspettando gli eventi. «Poi misero fuori la cresta, e si sparsero fra il popolo coll'aria mansueta del primo serpente. E noi li vediamo, li incontriamo nelle nostre vie - li accogliamo nelle nostre case - li riscaldiamo nel nostro grembo - e istupiditi dall'oppio, non sentiamo le nuove trafitture. Oh la bella, la grande rivoluzione! «Metà dell'Italia è schiava degli stranieri. I moderati ci promettono il compimento dell'opera, predicando la rassegnazione e la pazienza. - Noi ci prepariamo! - gridano essi. - O che? Forse i tedeschi, i clericali, i nemici nostri non profittano anch'essi della tregua per prepararsi alla lor volta? ... «Aspettiamo! diamo tempo alla reazione di completare la sua trama! Così, il giorno in cui i soldati d'Italia dovranno schierarsi sul Mincio per attaccare i tedeschi, ovvero spingersi a Roma alla conquista di una capitale, nel volgere il capo dietro i loro passi, vedranno sventolare sulle aguglie delle nostre cattedrali i colori abborriti! «Stolti! avete perdonato ai despoti quando essi giacevano nel fango ai vostri piedi! Liberi per un quarto d'ora, tremaste della libertà conquistata più che delle vinte tirannidi. Adulaste gli oppressori caduti, confermando nei vostri Parlamenti le leggi dell'oppressione. Temeste di mostrarvi troppo liberali, e vi lusingaste, col rispetto di un abbominevole passato, conciliarvi le simpatie di chi non potrà in nessun modo allearsi con voi. «Perseguitaste gli uomini della luce, per allearvi, inconsapevoli o colpevoli, agli uomini delle tenebre. Impotenti o malvagi, ritiratevi! Il popolo non è con voi, non può essere con voi. «Guai, se svegliandosi da quel sonno artifiziale che è il prodotto dei vostri narcotici, il popolo si accorgerà di esser tradito! Allora il vostro sangue correrà nelle vie a torrenti; allora tutti gli alberi e tutti i metalli si convertiranno in ghigliottine, in istrumenti di morte, pel vostro completo esterminio. «I Robespierre, i Danton, i Marat sorgeranno a migliaia dalle officine pensanti. E questa volta non sarà l'ottantanove della Francia, ma quello di tutta l'Europa liberale, coalizzata contro i tiranni. Voi vi troverete accerchiati da un milione di baionette, minacciati da un milione di mannaie - e la libertà, come aurora boreale, splenderà sull'universo imporporata di sangue ... «E badate, che i vostri giorni sono contati; che la pazienza è prossima a mutarsi in furore ... In quel giorno, i clericali e i moderati, gli uomini delle tenebre e gli uomini del crepuscolo, saranno travolti dal medesimo turbine. Coloro che si oppongono al progresso come quelli che pretendono moderarlo, rimarranno stritolati sotto le sue ruote prepotenti». Il terribile oratore pose fine alla sua arringa per essiccamento di fauci, e sedette nel cupo silenzio de' suoi ascoltatori. La fronte del signore annunciava un intimo turbamento, sebbene più volte egli avesse dato segno di adesione con un leggero movimento del capo. Il curato, durante il discorso dell'implacabile demagogo, non aveva cessato di interromperlo con delle esclamazioni che parevano giaculatorie. Poichè il farmacista ebbe finito di parlare, il buon prete giunse le mani in atto di orrore, ed ai paesani, che ascoltavano dalla finestra, fece un gesto come dicesse: non vi scandalizzate di tante bestemmie! Il Sindaco aveva ascoltato con moderazione, meditando un'eloquente risposta.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 1 occorrenze

Abbia pazienza! Si calmi! ed intanto prenda questa pozione calmante ? dice la voce, porgendogli una tazza. Egli la respinge bruscamente. - Come posso essere calmo se non mi risponde? - domandò. - Chieda. Risponderò, purché mi prometta di essere molto calmo. ? Mi dirà la verità? - Glielo prometto, purché sia però calmo; che alla prima agitazione da parte sua non parlo più. ? Tiranno! ? E' il medico al quale ubbidisco. ? La rivoluzione è riuscita? - No. - No? - domandò con accento di amarezza. - Il governo la ha soffocata. ? Governo maledetto! Scorse molto sangue? ?Sì. - Anarchico? - Borghese in modo speciale. Viene a rilevare a furia di domande, che gli anarchici hanno bruciato chiese e palazzi, rovinato e saccheggiato case, ucciso preti, frati, monache e molti, molti innocenti. Non potè approvare un tale operato, ma non osò neppur condannarlo. I suoi fratelli nella fede. ? Ed il governo? domandò. ? Ha soffocato la rivoluzione. ? Quali misure intende di prendere? ? Non lo so. Egli fa una pausa lunga, lunga, nella quale riflette. I suoi ideali sono tramontati per sempre come si è spenta la luce dei suoi occhi. Non soffre soltanto perché la rivoluzione non è riuscita; soffre di più, assai di più, per il disinganno che gli hanno recato i suoi, perché ha scoperto che il popolo non è maturo per certi ideali; che l'anarchia è un ideale troppo alto per la società odierna. Il popolo sarà un giorno maturo? ? Ella è ancora qui? ? domanda dopo una pausa. ?SÌ. - Dove mi trovo? - Nel convento dei cappuccini. Nella piccola parte risparmiata dalle fiamme ? è la risposta. ? Ella è dunque? ? chiese spaventato. ? Un cappuccino. La chiesa è diventata pasto delle fiamme; una parte del convento pure: il guardiano e tré frati vennero impiccati e due morirono tra le fiamme. L'abbiamo trovato semivivo sulla via, vicino al nostro convento; cinque giorni fa... ? Cinque giorni! Da tanto tempo era privo di sensi! - Si meraviglia che l'abbiamo raccolto e cercato di conservare la vita? ? domanda il cappuccino. Sapete chi sono? ? domanda. Forse non lo sapevano. Il loro capo. Lo sapevano. - Perché mi avete raccolto, me, il loro capo? - domanda. ? Perché Egli lo vuole. Non chiese altro e meditò la nobilissima risposta. Intuiva chi fosse colui, che aveva imposto la propria volontà a quei frati e per ubbidire al quale essi avevano soffocato l'odio e lo sdegno che sentivano necessariamente contro di lui e gli usavano misericordia, e gli sembrò che una voce gli dicesse: Non l'anarchia ma Lui, Lui solo, è la salvezza di Italia... Si sentiva così stanco; sfinito; le sensazioni gli si sbiadirono. Cadde in un sonno profondo.....

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L'altrui mestiere

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Levi, Primo 2 occorrenze

Certo conosciamo, e ci raccontiamo l' un l' altro, il significato letterale, sto per dire sportivo, dell' impresa: è la più ardita, e ad un tempo la più meticolosa, che mai l' uomo abbia tentata; è il viaggio più lungo; è l' ambiente più straniero. Ma perché lo facciamo, non sappiamo: i motivi che si citano sono troppi, intrecciati fra loro, ed insieme mutuamente esclusivi. Sotto a tutti, alla base di tutti, si intravede un archetipo; sotto l' intrico del calcolo, sta forse l' oscura obbedienza ad un impulso nato con la vita e ad essa necessario, lo stesso che spinge i semi dei pioppi ad avvolgersi di bambagia per volare lontani nel vento, e le rane dopo l' ultima metamorfosi a migrare ostinate di stagno in stagno, a rischio della vita: è la spinta a disseminarsi, a disperdersi su di un territorio vasto quanto è possibile; poiché, notoriamente, le "aiuole" ci fanno feroci, e la vicinanza del nostro simile scatena anche in noi uomini, come in tutti gli animali, il meccanismo atavico dell' aggressione, della difesa e della fuga. Ancora meno, a dispetto della nuova orgogliosa scienza del "futuribile", sappiamo dove questo passo ci porterà. Le grandi svolte tecnologiche dei due ultimi secoli (le nuove metallurgie, la macchina a vapore, l' energia elettrica, il motore a combustione interna) hanno provocato mutamenti sociologici profondi, ma non hanno scosso l' umanità sulle sue fondamenta; per contro, almeno quattro grosse novità degli ultimi trent' anni (l' energia nucleare, la fisica dello stato solido, gli antiparassitari e i detersivi) hanno condotto a conseguenze di misura molto maggiore, e di natura molto diversa, rispetto a quanto chiunque avesse osato prevedere. Di queste, almeno tre minacciano gravemente l' equilibrio vitale del pianeta, e ci stanno costringendo a frettolosi ripensamenti. Nonostante questi dubbi, e nonostante i disastrosi problemi che assillano il genere umano, due uomini calpesteranno il suolo della Luna. Noi molti, noi pubblico, siamo ormai assuefatti, come bambini viziati: il rapido susseguirsi dei portenti spaziali sta spegnendo in noi la facoltà di meravigliarci, che pure è propria dell' uomo, indispensabile per sentirci vivi. Pochi fra noi sapranno rivivere, nel volo di domani, l' impresa di Astolfo, o lo stupore teologico di Dante, quando sentì il suo corpo penetrare la diafana materia lunare, "lucida, spessa, solida e pulita". È peccato, ma questo nostro non è tempo di poesia: non la sappiamo più creare, non la sappiamo distillare dai favolosi eventi che si svolgono al di sopra del nostro capo. Forse è presto, non c' è che aspettare, il poeta dello spazio verrà poi? Nulla ce lo assicura. L' aviazione, il penultimo grande balzo, è vecchia ormai di sessant' anni, e non ci ha dato altri poeti se non Saint-Exupéry, ed uno scalino più in basso Lindberg e Hillary: tutti e tre hanno tratto ispirazione dalla precarietà, dall' avventura, dall' imprevisto. La letteratura di mare è morta con la navigazione a vela; non è mai nata, né sembra pensabile, una poesia ferroviaria. Il volo di Collins, Armstrong ed Aldrin è troppo sicuro, troppo programmato, troppo poco "folle", perché un poeta vi trovi alimento. Certo è chiedere troppo, ma ci sentiamo defraudati. Più o meno consapevolmente, vorremmo che i nuovi navigatori avessero anche questa virtù, oltre alle molte altre che li rendono egregi: che ci sapessero trasmettere, comunicare, cantare quanto vedranno e sperimenteranno. È difficile che ciò avvenga, domani o poi. Dal nero alveo primigenio senz' alto né basso, senza principio e senza fine, dalla contrada del Tohu e del Bohu, non ci sono giunte finora parole di poesia, eccettuate forse poche ingenue frasi del povero Gagarin: null' altro se non i suoni nasali, disumanamente calmi e freddi, dei messaggi radio scambiati con la Terra, conformemente a un rigido programma. Non sembrano voci d' uomo: sono incomprensibili come lo spazio, il moto e l' eternità.

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Tuttavia è possibile che questa interpretazione abbia contribuito alla fortuna del modo di dire, come se, divulgando le malefatte di qualcuno, veramente si "leggesse", in profondità e come in trasparenza, la natura e lo scopo della sua vita, riconoscendone l' intrinseca malvagità: da molto tempo è stato notato che l' anima del linguaggio è pessimista. La vera origine della frase è un' altra. Leggendo un bel romanzo tedesco di Luise Rinser ("Der schwarze Esel", "L' asino nero"), ho trovato un' espressione che non conoscevo, "die Leviten zu lesen", ossia "leggere i Leviti", in un episodio in cui i Leviti e il Levitico non c' entravano per nulla, e in un contesto che faceva invece pensare a "rimproverare, fare rimostranze". La faccenda mi ha incuriosito, forse anche perché coinvolgeva in qualche modo il mio nome, e ho cercato di chiarirmi le idee: si prospettava un' impresa modesta ma gradevole, come tutti i lavori che si intraprendono non per obbligo professionale né per acquistare merito o prestigio, ma per la gratuita curiosità del dilettante inesperto; per allegria e per gioco, per giocare "a fare il filologo", come da bambini si gioca "a fare il dottore" o "a fare le signore". Ho incominciato a sfogliare dizionari e vocabolari. Il vocabolario tedesco, inaspettatamente, registrava la locuzione. Sotto "Levit", levita, aggiungeva laconicamente: "jemandem die Leviten lesen" (e cioè: "leggere i Leviti a qualcuno"): fare un rabbuffo a qualcuno. Pittoresche, ma di scarso aiuto, erano le indicazioni del venerabile Gran Dizionario Piemontese-Italiano di V. di Sant' Albino, che trascrivo testualmente: E poco oltre: Brevissimo, ma risolutivo, è stato invece il Dizionario Etimologico del dialetto piemontese di A. Levi, edizione Paravia, di recente ristampato dalla Bottega di Erasmo. Alla voce vita (leze la) si legge: Inseguendo quest' ultima indicazione bibliografica, ho imparato che già all' inizio del nostro secolo diversi linguisti si erano affannati dietro a questo modo di leggere la vita, e che anche secondo la loro opinione le due espressioni, l' italiana e la tedesca, hanno la stessa origine: a mattutino, e cioè di solito a notte alta, in molti conventi era usanza che, dopo il canto dei salmi e degli inni, e dopo la lettura delle Sacre Scritture ed in specie del Levitico, il priore si rivolgesse poi individualmente ai singoli monaci, lodandoli per i loro adempimenti, e più spesso rimproverandoli per le loro mancanze; quando insomma "si leggevano i Leviti", i rimbrotti stavano per cominciare. Ora, per orecchi italiani, il passo da "leggere i Leviti" a "leggere la vita" è breve. È da pensare che, in qualche ordine monacale dalla regola particolarmente severa, questa lettura sempre ripetuta nelle notti gelide, precorritrice dell' amara medicina dei rimproveri, suscitasse tra i frati più giovani un' angoscia intensa, tanto che i suoi riflessi, quantunque distorti e quasi indecifrabili, sono giunti fino a noi, sul flusso secolare del linguaggio di tutti i giorni. Allo stesso modo, alla foce di un fiume, vediamo galleggiare trascinati dalla corrente i frammenti non più riconoscibili di oggetti familiari, che sono stati divelti a monte in qualche lontana valle ignorata.

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 1 occorrenze

Nel mio scrivere, nel bene o nel male, sapendolo o no, ho sempre teso a un trapasso dall' oscuro al chiaro, come (mi pare che lo abbia detto Pirandello, non ricordo più dove) potrebbe fare una pompa-filtro, che aspira acqua torbida e la espelle decantata: magari sterile. Kafka batte il cammino opposto: dipana senza fine le allucinazioni che attinge a falde incredibilmente profonde, e non le filtra mai. Il lettore le sente pullulare di germi e spore: sono gravide di significati scottanti, ma non è mai aiutato a rompere il velo o ad aggirarlo per andare a vedere cosa esso nasconde. Kafka non tocca mai terra, non accondiscende mai a darti il bandolo del filo di Arianna. Ma questo mio amore è ambivalente, vicino allo spavento e al rifiuto: è simile al sentimento che si prova per una persona cara che soffre e ti chiede un aiuto che non le puoi dare. Non credo molto al riso di cui parla Brod: forse Kafka rideva raccontando agli amici, al tavolo della birreria, perché non si è sempre uguali a se stessi, ma certo non rideva scrivendo. La sua sofferenza è genuina e continua, ti assale e non ti lascia più: ti senti come i suoi personaggi, condannato da un tribunale abietto e imperscrutabile, tentacolare, che invade la città e il mondo, annidato in soffitte lerce ma anche nella solennità oscura del duomo; o trasformato in un insetto goffo e ingombrante, inviso a tutti, disperatamente solo, ottuso, incapace di comunicare e di pensare, capace ormai soltanto di soffrire. Kafka comprende il mondo (il suo, e anche meglio il nostro d' oggi) con una chiaroveggenza che stupisce, e che ferisce come una luce troppo intensa: spesso si è tentati di interporre uno schermo, di mettersi al riparo; altre volte si cede alla tentazione di fissarlo, e allora si rimane abbagliati. Come quando si guarda il disco del sole, e lo si continua poi a vedere a lungo, sovrapposto agli oggetti che ci circondano, così, letto questo "Processo", ci accorgiamo a un tratto di essere circondati, assediati da processi insulsi, iniqui, e spesso mortali. Il processo intentato contro il diligente e gretto funzionario di banca Josef K. si conclude infatti con una condanna a morte; mai pronunciata, mai scritta, e l' esecuzione avviene nell' ambiente più squallido e disadorno, senza apparato e senza collera, con meticolosità burocratica, per mano di due giustizieri-fantocci che adempiono al loro ufficio macchinalmente, senza pronunciare una parola, scambiandosi sciocchi complimenti. È una pagina che mozza il fiato. Io reduce da Auschwitz non l' avrei scritta mai, o mai così: per incapacità e insufficienza di fantasia, certo, ma anche per un pudore davanti alla morte che Kafka non conosceva, o se sì, rifiutava; o forse per mancanza di coraggio. La famosa e commentatissima frase che chiude il libro come una pietra tombale ("... e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere") non mi pare affatto enigmatica. Di che cosa si deve vergognare Josef K., quello stesso che aveva deciso di combattere fino alla morte, e che in tutte le svolte del libro si proclama innocente? Si vergogna di molte cose contraddittorie, perché non è coerente, e la sua essenza (come quella di quasi tutti) consiste nell' essere incoerente, non uguale a se stesso nel corso del tempo, instabile, erratico, o anche diviso nello stesso istante, spaccato in due o più individualità che non combaciano. Si vergogna di aver conteso con il tribunale del duomo, e insieme di non aver resistito con energia sufficiente al tribunale delle soffitte. Di aver sprecato la vita in meschine gelosie di ufficio, in falsi amori, in timidezze malate, in adempimenti statici e ossessivi. Di esistere quando ormai non avrebbe più dovuto esistere: di non aver trovato la forza di sopprimersi di sua mano quando tutto era perduto, prima che i due goffi portatori di morte lo visitassero. Ma sento, in questa vergogna, un' altra componente che conosco: Josef K., alla fine del suo angoscioso itinerario, prova vergogna perché esiste questo tribunale occulto e corrotto, che pervade tutto quanto lo circonda, e a cui appartengono anche il cappellano delle carceri e le bambine precocemente viziose che importunano il pittore Titorelli. È finalmente un tribunale umano, non divino: è fatto di uomini e dagli uomini, e Josef, col coltello già piantato nel cuore, prova vergogna di essere un uomo.

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Lilit

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Levi, Primo 2 occorrenze

Non è chiaro se l' ambiguo suocero romeno abbia agito in buona fede, oppure se abbia fiutato l' inganno e si sia vendicato preventivamente, punendo Cesare e ad un tempo liberandosi di lui. Cesare fu interrogato, spedito a Roma con foglio di via e un viatico di pane e fichi secchi, nuovamente interrogato e poi rilasciato definitivamente. È questa la storia di come Cesare sciolse il suo voto, e scrivendola qui ho sciolto un voto anch' io. Può essere imprecisa in qualche particolare, perché si fonda su due memorie (le sua e la mia), e sulle lunghe distanze la memoria umana è uno strumento erratico, specialmente se non è rafforzata da souvenirs materiali, e se invece è drogata dal desiderio (anche questo suo e mio) che la storia narrata sia bella; ma il dettaglio dei dollari falsi è certo, ed ingrana con fatti che appartengono alla storia europea di quegli anni. Dollari e sterline falsi circolavano in abbondanza, verso la fine della seconda guerra mondiale, in tutta l' Europa e in specie nei Paesi balcanici; fra l' altro, erano stati usati dai tedeschi per pagare in Turchia la spia bifronte Cicero, la cui storia è stata raccontata più volte e in vari modi: anche qui, dunque, a risposta di un inganno. Si dice in proverbio che il denaro è lo sterco del diavolo, e mai denaro è stato più stercorario e più diabolico di quello. Esso veniva stampato in Germania, per inflazionare la circolazione monetaria in campo nemico, per seminare sfiducia e sospetto, e per "pagamenti" del tipo di quello accennato. In buona parte, a partire dal 1942, queste banconote erano prodotte nel Lager di Sachsenhausen, dove le SS avevano radunato circa centocinquanta prigionieri d' eccezione: erano grafici, litografi, fotografi, incisori e falsari che costituivano il "Kommando Bernhard", piccolo Lager segretissimo di "specialisti" entro la recinzione del più grande Lager, abbozzo delle saraski staliniane che saranno descritte da Solzenicyn in "Il primo cerchio". Nel marzo 1945, davanti all' incalzare delle truppe sovietiche, il Kommando Bernhard fu trasferito in blocco, dapprima a Schlier-Redl-Zipf, poi (il 3 maggio 1945, a pochi giorni dalla capitolazione) a Ebensee: erano entrambi Lager dipendenti da Mauthausen. Pare che i falsari abbiano lavorato fino all' ultimo giorno, e che poi le matrici siano state gettate in fondo a un lago.

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È probabile che quel sapiente francese di cui mi sfugge il nome, e che affermava di essere certo di esistere in quanto era sicuro di pensare, non abbia sofferto molto in vita sua, poiché altrimenti avrebbe costruito il suo edificio di certezze su una base diversa. Infatti, spesso chi pensa non è sicuro di pensare, il suo pensiero ondeggia fra l' accorgersi e il sognare, gli sfugge di tra le mani, rifiuta di lasciarsi afferrare e configgere sulla carta in forma di parole. Ma invece chi soffre sì, chi soffre non ha dubbi mai, chi soffre è ahimè sicuro sempre, sicuro di soffrire ed ergo di esistere. È mio augurio che tu divenga un maestro nell' arte nostra, e che tu non abbia mai ad esserne l' oggetto passivo; ma se mai questo ti dovesse accadere, come a me è accaduto, il dolore della tua carne ti fornirà la brutale certezza di essere vivo, senza che tu debba attingerla alle sorgenti della filosofia. Abbi dunque in istima quest' arte: essa farà di te un ministro del dolore, ti farà arbitro di porre termine ad un lungo dolore passato per mezzo di un breve dolore presente, e di prevenire un lungo dolore di domani grazie alla trafittura spietata inferta oggi. I nostri avversari ci scherniscono dicendo che noi siamo buoni a trasformare il dolore in denaro: stolti! È questo il miglior elogio del nostro magistero. Del discorso suadente. Il discorso suadente, detto anche imbonimento, conduce alla decisione i clienti che esitano fra il dolore attuale ed il timore delle tenaglie. È di somma importanza: anche il più inetto fra i cavadenti si industria bene o male a cavare un dente; l' eccellenza nell' arte si manifesta piena invece nel discorso suadente. Esso va profferito con voce alta e ferma e con viso lieto e sereno, come di chi è sicuro, e spande sicurezza intorno a sé; ma, al di fuori di questa, non si dànno altre regole certe. A seconda degli umori che fiuterai fra gli astanti, potrà esso essere giocoso o austero, nobile o scurrile, prolisso o conciso, sottile o crasso. È bene in ogni caso che esso sia oscuro, perché l' uomo teme la chiarezza, memore forse della dolce oscurità del grembo e del letto in cui è stato concepito. Ricorda che i tuoi ascoltatori, quanto meno ti capiranno, tanto maggior fiducia avranno nella tua sapienza e tanta più musica sentiranno nelle tue parole: così è fatto il volgo, e al mondo non è se non volgo. Perciò intesserai nel tuo sermone voci di Francia e di Spagna, tedesche e turchesche, latine e greche, non importa se proprie ed attinenti; se pronte non ne avrai, abituati a coniarne sul momento di nuove, mai prima udite; e non temere che te ne venga sollecitata una spiegazione, perché ciò non avviene mai, non troverà il coraggio di interrogarti neppure quello che salirà il tuo palco con piede sicuro per farsi cavare un molare. E mai, nel tuo discorso, chiamerai le cose col loro nome. Non denti dirai, ma protuberanze mandibolari, o qual altra stranezza ti venga in capo; non dolore, ma parossismo od eretismo. Non chiamerai soldi i soldi, e ancor meno chiamerai tenaglie le tenaglie, anzi non le nominerai affatto, neppure per allusione, ed al pubblico e massimamente al paziente non le lascerai vedere, tenendole nascoste nella manica fino all' ultimo istante. Del mentire. Da quanto hai letto or ora, potrai dedurre che la menzogna è peccato per gli altri, per noi è virtù. Il mendacio è tutt' uno col nostro mestiere: a noi conviene mentire con la favella, con gli occhi, col sorriso, con l' abito. Non solamente per illudere i pazienti; tu lo sai, noi miriamo più in alto, e la menzogna è la nostra vera forza, non quella dei nostri polsi. Con la menzogna, pazientemente appresa e piamente esercitata, se Dio ci assiste arriveremo a reggere questo paese, e forse il mondo: ma questo avverrà solo se avremo saputo mentire meglio e più a lungo dei nostri avversari. Tu forse la vedrai, non io: sarà una nuova età dell' oro, in cui noi soltanto in necessità estreme ci indurremo ancora a cavar denti, mentre per il governo dello Stato e per l' amministrazione della cosa pubblica ci basterà con larghezza la menzogna pia, da noi condotta a perfezione. Se ci dimostreremo capaci di questo, l' impero dei cavadenti si estenderà dall' oriente all' occidente fino alle isole più remote, e non avrà mai fine.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Che abbia fiutato il vento infido? In guardia, amico e trombona bene. - Sul pianerottolo s'aprivano quattro grandiose gallerie, tutte di marmo, con colonne contorte e adorne di teste d'elefanti che intrecciavano artisticamente le loro proboscidi. Ampie tende di seta azzurra e leggerissima, con trama d'oro, d'uno splendido effetto, scendevano fra i colonnati onde ripararle dai riflessi del sole e mantenere una certa frescura. Lungo le pareti dei vasi enormi per lo più d'origine cinese reggevano dei colossali mazzi di fiori e delle foglie di banani. Anche in quelle gallerie v'erano numerose guardie che passeggiavano, armate di picche e di scimitarre. Il ministro fece attraversare a Yanez ed alla sua scorta una di quelle gallerie, poi aprì una porta tutta di bronzo dorato e sculturata e li introdusse in una immensa sala tappezzata in seta bianca con ricami d'oro e che aveva all'intorno parecchie dozzine di divanetti di velluto bianco. All'estremità, su una piattaforma di marmo, coperta in parte da un ricchissimo tappeto, si ergeva una specie di letto, su cui stava sdraiato, appoggiandosi ad un cuscino di velluto rosso, un uomo che indossava una lunga zimarra bianca. Intorno a quella specie di trono, stavano quattro vecchi indiani che sembravano sacerdoti, e dietro di loro, schierati su quattro linee, quaranta soldati seikki, i guerrieri più valorosi che abbia l'India e che vengono assoldati in gran numero dai rajah per farsene una guardia fedele e sicura. Il ministro con un gesto imperioso fece fermare i malesi presso la porta, poi prese per una mano Yanez, lo condusse verso il trono gridando ad alta voce: - Salute a S. A. Sindhia, rajah dell'Assam! Ecco il mylord inglese. - Il sovrano si era alzato, mentre Yanez si toglieva il cappello. I due uomini si guardarono per qualche minuto senza parlare come se volessero studiarsi a vicenda. Sindhia era un uomo ancora giovane, poiché non pareva che avesse più di trent'anni, però la vita dissoluta che doveva condurre, aveva già tracciata sulla fronte del tiranno delle rughe precoci. Era nondimeno sempre un bellissimo tipo d'indiano, dai lineamenti finissimi, con occhi neri che parevano due carboni lucenti. Una rada barbetta nera gli dava un aspetto piuttosto truce. - Sei tu il mylord che mi riporta la pietra di Salagraman? - chiese finalmente, dopo aver squadrato dall'alto in basso il portoghese. - Se è vero quanto hai detto al mio ministro, sii il benvenuto, quantunque io non ami gli stranieri. - Sì, io essere mylord John Moreland, Altezza, ed io riportare a te conchiglia con capello di Visnù - rispose Yanez. - Tu avere promesso ricchezze, onori, è vero? - E manterrò la promessa, mylord - rispose il principe. - Ebbene io a te dare conchiglia. - Si volse facendo cenno al malese che portava il cofano di avvicinarsi. Levò la seta che l'avvolgeva e andò a deporlo ai piedi del principe. - Tu vedere prima Altezza, se quella essere vera pietra rubata. - Vi è un segno sulla pietra che io ed i gurum della pagoda di Karia conosciamo benissimo - rispose il principe. Aprì il cofano e prese la conchiglia facendola girare e rigirare fra le mani. Una vivissima gioia si era subito diffusa sul suo viso. - È la pietra che fu rubata, - disse finalmente. - Mylord, tu sarai mio amico. - Uno dei suoi cortigiani udendo quelle parole portò subito a Yanez una sedia dorata, facendolo sedere dinanzi alla piattaforma. Quasi subito una diecina di servi, che indossavano dei costumi sfarzosi entrarono reggendo dei vassoi d'oro sui quali vi erano delle chicchere piene di caffè, bicchieri colmi di liquori, piattelli con gelati e pasticcini dolci. Il principe e Yanez furono i primi serviti, poi i ministri, quindi i malesi della scorta. - Ed ora mylord, - disse Sindhia dopo d'aver vuotato un paio di bicchieri di cognac, ingollati come se quella vecchia grappa fosse della semplice acqua, - mi dirai come sei riuscito a sorprendere i ladri e perché ti trovi sul mio territorio. - Io essere qui venuto a cacciare le bâg - rispose Yanez - perché io essere molto grande cacciatore e non avere paura di tigri. Io averne uccise molte, tante nelle Sunderbunds del Bengala. - Ed i ladri? - Io essermi imboscato ieri notte per cacciare una bâg nera e grossa molto e ... - Una tigre nera! - aveva esclamato il principe sussultando. - Sì. - Quella che ha divorati i miei figli! - gridò Sindhia passandosi una mano sulla fronte che pareva si fosse coperta d'un gelido sudore. - Come? Quella bâg avere mangiato ... - Taci, mylord - disse il principe quasi imperiosamente. - Continua. - Tigre non venire ed io aspettare sempre - proseguì Yanez. - Sole stava per farsi vedere, quando io scorgere cinque indiani scappare attraverso bosco. Dovevano essere thugs, perché io avere veduto ai loro fianchi, lacci e fazzoletti seta nera con palle piombo. Io odiare quei bricconi e quindi sparare subito carabina poi pistole e ucciderli tutti, poi gettare cadaveri nel fiume e coccodrilli tutto mangiare. - Ed il cofano? - Averlo trovato a terra. - E poi? - Poi io avere udito tuoi araldi, ed io portare qui conchiglia col capello di Visnù perché non sapere cosa farne io. - E che cosa domandi ora, mylord? - chiese Sindhia. - Io non volere denaro, io essere molto ricco. - Ma tu hai diritto ad una ricompensa. La pietra di Salagraman è per noi un tesoro impagabile. - Yanez stette un momento silenzioso, fingendo di pensare, poi disse: - Tu nominare me tuo grande cacciatore, ed io uccidere le tigri che mangiano tuoi sudditi. Ecco quello che io volere. - Il rajah aveva fatto un gesto di stupore, tosto imitato dai suoi ministri ed aveva ben ragione di mostrarsi sorpreso. Come! Quell'inglese originale invece di chiedere ricompense si offriva invece di rendere dei preziosi servigi, quali la distruzione di tutte le belve che tanti danni e tante angosce recavano ai poveri assamesi delle campagne? - Mylord, - disse il rajah, dopo un silenzio abbastanza lungo. - Io ho offerto onori e ricchezze a chi avrebbe ricuperata la pietra di Salagraman. - Io saperlo,- rispose Yanez. - E non domandi nulla. - Io essere contento cacciare bâg ed essere tuo grande cacciatore. - Se ciò può farti felice, io ti offro alla mia corte un appartamento, i miei elefanti ed i miei scikari (7).

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

"Che qualche nuova corrente ci abbia presi?" "Non lo credo, ma è un fatto, però, che noi ci avviciniamo alla costa africana, descrivendo una linea obliqua. Che l'aliseo vada ad urtare contro il Capo Verde, prima di piegare verso l'occidente? Sarebbe una bella fortuna, amico mio." "Se giungeremo in tempo ad avvistarla." "Perché?" "Perché cadiamo, e rapidamente Mister Kelly." "Ancora!" esclamò l'ingegnere, con accento di dolore. Si chinò sul bordo della navicella e fece un gesto di rabbia. "Miserabili!" esclamò. "Quei naufraghi ci hanno rovinati." "Che si siano riaperti gli strappi?" "Non credo, ma il gas sfugge attraverso le cuciture." "Volete, signore, che vada a spalmarle di vernice?" chiese il mozzo. "È inutile, Walter: fra mezz'ora saremmo da capo. Rinforziamo i fusi col gas che ci rimane." "Quanta zavorra ci rimane da gettare?" "Circa duecento chilogrammi. Aiutatemi, amici." "Una parola, Mister Kelly. Se si introducesse il gas nei palloncini interni, non si otterrebbe un effetto migliore e più durevole?" "Avete ragione, O'Donnell. L'idea è buona e non so come mi sia sfuggita. Affrettiamoci, che l'oceano ci è vicino." Il Washington cadeva. Il suo gas, dopo tanti giorni. perdeva rapidamente la sua forza ascensionale, come un uomo che un lungo digiuno sfinisce. Scendeva di minuto in minuto, descrivendo delle larghe oscillazioni e virando frequente di bordo. Gli aeronauti che udivano sempre più distinti i muggiti delle onde, diedero prontamente mano alla manovra, che doveva essere l'ultima, perché dopo non doveva rimanere nella navicella più di un metro cubo d'idrogeno. L'ingegnere, aiutato dai suoi amici, aprì le due manichette dei palloncini e lasciò sfuggire l'aria, provocando una nuova e più rapida caduta dei fusi e introdusse, invece di quella, l'idrogeno che ancora possedeva. La forza ascensionale del Washington si manifestò bruscamente, come per incanto. L'aerostato, che si trovava già a soli venticinque o trenta metri dall'oceano, fece un balzo immenso nell'aria elevandosi a duemilacinquecento. Il lancio in mare della pompa premente, che non era più di nessuna utilità, ora che i palloncini interni non potevano più ricevere l'aria, e di alcune casse vuote, lo portò a 3000 metri. Quel salto straordinario ebbe il vantaggio di far trovare una nuova corrente aerea, che spingeva diagonalmente, sopra gli alisei, in direzione della costa africana. La speranza, per un momento perduta, cominciò a rinascere nei cuori degli aeronauti. La velocità di quella corrente era molto considerevole, più forte di quella che spirava anteriormente, poiché toccava i settanta chilometri all'ora. Essendo lontani circa quattrocento chilometri dalla costa africana, potevano giungervi prima delle quattro pomeridiane. "Come dormirei volentieri sotto un frondoso albero!" esclamò O'Donnell. "E forse questa sera potrò distendere le mie gambe sopra un soffice e fresco tappeto d'erba!" "Se il vento non cambia direzione, noi ceneremo in Africa, O'Donnell" aggiunse l'ingegnere. "E accenderemo un bel fuoco!" "E fors'anche vi metteremo sopra un arrosto. La selvaggina abbonda in Africa" "Mangerei una bistecca di leone, Mister Kelly. Ma dove cadremo?" "Nella Senegambia, se manteniamo la rotta attuale." "C'è pericolo di venire massacrati dai negri?" "No: quei negri sono sudditi francesi e non ardiranno toccarci." "Hurrah per la Senegambia, dunque!" "Non ci siamo ancora." "Ci giungeremo, Mister Kelly: il cuore me lo dice." "Ma il cuore sovente s'inganna, O'Donnell." Intanto il Washington continuava la sua corsa verso la costa africana, mantenendo la diagonale che pareva dovesse passare nei pressi del Capo Verde. Per quanto il gas continuasse a sfuggire attraverso le cuciture, pure si manteneva a quella grande altezza mercé i due palloncini, che serbavano la forza ascensionale sempre a quel livello. Alle due, O'Donnell, che puntava dì frequente il cannocchiale verso l'est, volendo scoprire la costa africana, segnalò delle macchie grigiastre che apparivano sulla superfìcie dell'oceano e verso il nord a una grande distanza. "L'Africa!" esclamò con voce alterata dalla commozione. "Di già?" chiese l'ingegnere. Prese il cannocchiale che O'Donnell gli porgeva e guardò attentamente nella direzione indicata. "Sì," diss'egli "laggiù si stende il continente africano. Quella striscia che si vede al nord dev'essere il Capo Verde." "E quelle isole?" chiese O'Donnell. "Sono quelle che si stendono dinanzi alla foce del Gambia: Santa Maria e Sanguonar, ne sono certo." "Dunque noi ci troviamo ora? ... " "A 13o 30o di latitudine e a 19o di longitudine." "Troveremo dei bianchi laggiù?" "Sì, e numerosi. I francesi hanno parecchie fattorie sulle isole degli Elefanti, degli Ippopotami degli Uccelli e di Saffo, e una importantissima ad Albreda; e ne hanno pure gl'inglesi lungo il fiume, e posseggono una piccola colonia, quella di Bathurst, sull'isola di Santa Maria." "Mi spiacerebbe cadere nelle loro mani, Mister Kelly. Voi sapete che sono ricercato dalla polizia." "Cadremo su territorio francese o sulle terra del piccolo reame di Bar. Ecco la foce del fiume, chee comincia a disegnarsi nettamente. Fra venti minuti ci libreremo sopra le isole dell'estuario." "No, Mister Kelly." "Perché?" "Mi pare che il vento abbia fatto un salto, come dicono i marinai." "Ma ci spinge sempre all'est." "No, Mister Kelly" disse O'Donnell con voce soffocata. "Pieghiamo verso il sud."

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

- Che è il migliore ed il più potente incrociatore che io abbia veduto: una vera meraviglia, - rispose l'indiano con entusiasmo. - Sì, sono dei bravi costruttori gli americani. Vent'anni or sono ricorrevano all'estero per formare le loro flotte ed ora nelle loro costruzioni vincono tutti. Solide e potenti, ecco come sono le loro navi d'oggidì. Con questa noi daremo ben da fare ai nostri avversari. - E se l'Inghilterra ci lanciasse addosso le migliori navi della sua flotta? Hai pensato a questo, Sandokan? - Le faremo correre, mio caro, - rispose la Tigre della Malesia. - L'oceano è vasto, la nostra nave è la più rapida, e dei trasporti inglesi da assalire per privarli del loro carbone ne troveremo sempre. Non ho la pretesa di poter continuare indefinitamente questa guerra, ma prima di quel giorno in cui noi avremo recati enormi danni ai nostri avversari, tali da fare loro rimpiangere il giorno in cui ci hanno cacciati dalla nostra isola. Accese il suo splendido narghilè, prese sotto il braccio l'indiano e dopo d'aver passeggiato per qualche minuto fra la ruota del timone e le torri poppiere, disse: - Sai che il capitano va migliorando? - sir Moreland? - chiese Tremal-Naik. - Sì, malgrado l'orribile ferita, non ha che una leggera febbre. Il signor Held è stupefatto e credo che abbia ragione. Che fibra meravigliosa ha quell'uomo! - Ti ha riconosciuto? - Sì, anche or ora. - Deve esser rimasto stupefatto di vedersi in nostra mano. Non credeva certo di dover trovarsi così presto coi suoi antichi prigionieri. Dorme? - Sì e anche tranquillamente. - Non ci darà dei fastidi quell'uomo? - Può darsi, ho dei progetti su di lui. - Quali? - Non so ancora nulla per ora, - disse Sandokan. - Ci penserò a che cosa potrà giovarci. Cerchiamo innanzi a tutto di farcelo amico. Ci deve bene un po' di riconoscenza per averlo strappato alla morte. - Indovino il tuo pensiero, - disse Tremal-Naik. - Tu speri di aver da lui qualche notizia sul figlio di Suyodhana. - È vero, - rispose Sandokan. - Combattere un nemico sconosciuto, che non si sa dove si trovi, nè che cosa stia tramando, inquieta assai. Bah! Un giorno o l'altro si svelerà, si mostrerà, suppongo, e quel giorno la Tigre divorerà anche il tigrotto dell'India. Il dottor Held era in quel momento comparso sulla porta del quadro. Quell'americano, che come abbiamo detto, aveva accettato le proposte fattegli da Sandokan, proposte che potevano costargli però la vita, era un bel giovane di ventisei o vent'otto anni, alto, piuttosto magro, dallo sguardo intelligentissimo e vivo, colla fronte spaziosa ed il viso roseo come quello d'una fanciulla, adorno d'una barbetta bionda tagliata a punta. - E dunque, signor Held? - gli chiese Sandokan muovendogli sollecitamente incontro. - Ormai rispondo della sua guarigione, - rispose il medico. - Fra quindici giorni quell'uomo starà perfettamente bene. Quegli anglo-indiani hanno la pelle ben dura. La campana che annunciava il pranzo interruppe la loro conversazione. - A tavola o Yanez s'impazienterà, - disse Sandokan. Mentre scendevano nel salone del quadro, il Re del Mare continuava la sua corsa verso il sud-sud-ovest. L'oceano era sempre deserto, percorrendo la nave una zona pochissimo frequentata dai velieri e dai piroscafi, i quali ordinariamente si tengono più al nord o più al sud, gli uni per evitare le calme e gli altri per evitare i banchi sottomarini che sono numerosissimi intorno alle coste di Borneo. Di quando in quando una banda di volatili calavano sulle coffe degli alberi, prendendone possesso e lasciandosi avvicinare dai marinai senza dimostrare di spaventarsi. Erano dei grossi uccellacci, specie di procellarie giganti, colle penne brune, chiamati dai marinai rompitori d'ossa e dagli scienziati quebranta huesos, formidabili pescatori, armati d'un rostro così acuto e così robusto che permette loro di affrontare i più grossi pesci, colpendoli mortalmente nel cranio. Anche qualche splendido albatro veniva a volteggiare intorno alla nave, salutando i marinai con dei grugniti da porco e attraversando senza paura la tolda, nonostante le fucilate che sparavano i malesi. Magra selvaggina però, perchè se sembravano immensi, misurando le loro ali unite perfino tre metri e mezzo, è molto se i loro corpi pesano otto o dieci chilogrammi, senza contare poi che le loro carni sono coriacee e impregnate d'un pessimo odore di pesce. Comunque erano ammirabili nei loro voli, essendo dei volteggiatori straordinari. Certi momenti rimanevano quasi immobili al di sopra dell'incrociatore, vibrando appena le loro gigantesche ali, poi partivano come fulmini e calavano in mare a pescare i piccoli cefalopodi, i loligo, dei quali si nutrono di preferenza. Le prede d'altronde non mancavano a quegli avidissimi volatili, perchè le acque dell'oceano si mostravano straordinariamente ricche di pesci, con molto piacere anche dei marinai, i quali o con reticelle o con fiocine, nonostante la rapidità dell'incrociatore, s'ingegnavano di prenderli onde variare la minuta di bordo. Oltre a grosse bande di dorate, di piccoli delfini e di serpenti di mare, lunghi un metro, di forma cilindrica, colla pelle bruna nera e la coda gialla, si vedevano a galleggiare un numero sterminato di diodon, pesci assai strani, che abitano quasi esclusivamente le zone torride e che hanno l'abitudine di navigare col ventre in aria e di gonfiarsi fino a diventare completamente rotondi. Salivano dagli abissi dell'oceano a centinaia e centinaia, mostrando le loro spine acute che coprono i loro corpi, facendoli rassomigliare ai ricci terrestri, a tinte però svariate, bianche, violacee o macchiate in nero, mentre in mezzo a loro sfilavano, coi tentacoli al vento onde approfittare del menomo soffio d'aria, lunghe file di nautilus. Di quando in quando un improvviso terrore si manifestava fra tutti quegli abitanti dell'oceano tropicale. Le dorate scomparivano precipitosamente, i diodon si sgonfiavano rapidamente, lasciandosi colare a picco; i nautilus ripiegavano i loro tentacoli, rovesciavano la loro conchiglia navigante fino allora come una leggera barchetta, e si sommergevano. Un nemico terribile e avidissimo, si era bruscamente scagliato in mezzo alle bande colla formidabile bocca spalancata, irta di denti acuti come quelli delle tigri. Era un vorace charcharias, un pescecane di cinque o sei metri di lunghezza, che aveva sparso quell'improvviso terrore, un nemico pericoloso anche per gli uomini. Con rapidità fulminea ingoiava i ritardatari, poi scompariva, sempre preceduto dal suo pilota, un grazioso pesciolino colla pelle azzurra porporina, a striscie nere, non più lungo di venticinque centimetri e che serve di guida al suo formidabile padrone e protettore. Cessato però il pericolo, le dorate ricomparivano giuocherellando e i diodon si rigonfiavano ballonzolando sulle onde e le splendide conchiglie dei nautilus dai margini di madreperla raddrizzavano gli otto tentacoli leggermente arrotondati all'estremità. Verso il tramonto, quando Sandokan e Yanez scesero nella cabina dove trovavasi l'anglo-indiano, constatarono con piacere che il ferito si trovava in condizioni migliori che al mattino. La febbre era quasi cessata e la ferita, sapientemente cucita dall'abile americano, non dava più sangue. Quando entrarono, sir Moreland stava parlando, con voce abbastanza chiara, col signor Held, chiedendo informazioni sulla potenza della nave corsara. Vedendoli, l'anglo-indiano fece uno sforzo per alzarsi a sedere; Sandokan con un gesto glielo impedì. - No, sir Moreland, - disse. - Siete troppo debole e per ora dovete evitare qualsiasi sforzo. È vero, mio caro Held? - La ferita potrebbe riaprirsi, - rispose il dottore. - Vi ho proibito, Sir, di fare qualsiasi movimento. L'anglo-indiano porse la mano all'americano, a Yanez e a Sandokan, dicendo loro: - Grazie di avermi salvato, signori, quantunque avessi desiderato di affondare assieme alla mia nave ed ai miei disgraziati marinai. - Vi è sempre tempo a morire per un marinaio, - rispose Yanez, sorridendo. - La guerra non è ancora finita, anzi per noi è appena cominciata. Una nube oscurò la fronte dell'anglo-indiano. - Credevo che la vostra missione terminasse colla liberazione di quella fanciulla e di suo padre, - disse. - Non avrei acquistata una nave di tale potenza per una simile impresa, - disse Sandokan. - I miei prahos sarebbero stati sufficienti. - Sicchè voi continuerete a corseggiare? - Sì e finchè avrò un solo uomo ed un pezzo d'artiglieria servibile. - Io vi ammiro, signori, ma credo che le vostre corse finiranno presto. L'Inghilterra ed il rajah non tarderanno a farvi inseguire dalle loro squadre. Come resisterete voi a simili attacchi? Il carbone vi verrà meno e sarete costretti ad arrendervi o a farvi colare a picco dopo una inutile resistenza. - Lo vedremo ... Poi Sandokan, cambiando bruscamente tono, chiese: - Come state, sir Moreland? - Relativamente bene; il dottore mi assicura che io potrò alzarmi fra una diecina di giorni. - Avrò molto piacere di vedervi passeggiare sul ponte della mia nave. - Sicchè contate di tenermi prigioniero, - disse l'anglo-indiano, sorridendo. - Anche se volessi rendervi la libertà in questo momento non potrei farlo, perchè siamo ben lontani dalle coste. - Risalite verso il nord? - No, sir Moreland, andiamo invece verso il sud; desidero vedere la foce del Sarawak. - Vi comprendo, signore. Tenterete un colpo di mano sui depositi di carbone del rajah. - Non lo so ancora. - Signor Sandokan, desidererei una spiegazione, se lo permettete. - Parlate, sir Moreland, - rispose la Tigre della Malesia. - Poi, se me lo permettete, vi farò anch'io qualche interrogazione. - Desidererei sapere perchè avete coinvolto nella guerra anche il rajah di Sarawak. - Perchè noi siamo convinti che egli sia il protettore dell'uomo misterioso che ha scatenato contro di noi gli inglesi di Labuan e che in un solo mese ci ha recato tanti danni. - Chi è costui? Sandokan fissò sull'anglo-indiano uno sguardo acutissimo, come se avesse voluto leggergli fino in fondo al cuore, poi disse: - È impossibile che voi, che appartenete alla marina del rajah, non lo abbiate conosciuto. Qualche cosa, come un fremito, passò sul viso di sir Moreland, il quale rimase per qualche istante muto. - No, - disse poi, - non ho mai veduto l'uomo a cui voi alludete. Ho udito però a narrare che un individuo misterioso, che pare possegga delle ricchezze favolose, ha visitato il rajah, mettendogli a sua disposizione navi e uomini per vendicare James Brooke. - Un indiano, è vero? - Non lo so, - rispose sir Moreland. - Io non l'ho mai veduto. - È quell'uomo che ha spinto gli inglesi ed il rajah contro di noi? - Così mi hanno narrato. - Il figlio d'un famoso capo di thugs indiani. - Non ve lo saprei dire. - E vuole misurarsi colle tigri di Mompracem? - Ed è anche certo di vincervi. - Cadrà come è caduto suo padre e come è caduta tutta la sua setta, - disse Sandokan. Un secondo fremito passò sul viso dell'anglo-indiano, mentre negli occhi nerissimi balenava come una fiamma. Stette un'altra volta qualche istante muto, come se qualche improvviso pensiero lo turbasse, poi disse: - L'avvenire ve lo dirà. Poi, cambiando bruscamente discorso, chiese: - Sono sempre a bordo quell'indiano e sua figlia? - Non ci lasceranno, perchè la loro sorte è unita alla nostra, - rispose Sandokan. Sir Moreland si lasciò sfuggire un sospiro e s'abbandonò sul guanciale. - Riposate tranquillo, - gli disse Sandokan. - Non accadrà nulla questa notte. - Uscì insieme a Yanez e salì sul cassero. Surama e Darma stavano prendendo il fresco, chiacchierando con Tremal-Naik. Vedendo Yanez, Darma gli si appressò, interrogandolo collo sguardo. - Tutto va bene, - le sussurrò il portoghese col suo solito sorriso. - Potrò visitarlo? - Domani nessuno te lo impedirà, se ... La frase gli fu spezzata dal grido della vedetta istallata sulla coffa dell'albero di trinchetto: - Fumo all'orizzonte! Guarda all'ovest! Quel grido aveva fatto balzare in piedi Sandokan, che si era appena allora seduto presso Tremal-Naik e fatto accorrere in coperta tutto l'equipaggio. Sul cielo ancora fiammeggiante, non essendosi il sole ancora completamente immerso, si vedeva una sottile colonna di fumo alzarsi nella limpida e tranquilla atmosfera. - Che sia qualche nave da guerra in cerca di noi? - chiese Yanez, - o un pacifico piroscafo in rotta per Sarawak? - Sospetto più che sia una nave da guerra, - disse Sandokan, che aveva puntato un cannocchiale recatogli da Sambigliong. - Ah! Toh! Sembra che si allontani verso l'ovest; il pennacchio di fumo si è piegato verso la nostra parte. - Che ci abbia scorti? - chiese Tramal-Naik, che li aveva raggiunti. - Come noi ci siamo accorti della sua presenza, è probabile che il suo comandante abbia veduto anche il nostro fumo. - Mi viene un sospetto, - disse Yanez. - Quale? - Che sia qualche esploratore. - È possibile, Yanez, - rispose Sandokan. - Che cosa risolvi di fare? - Seguirlo a distanza. Domani, ai primi albori, ci metteremo in caccia e tanto peggio per lui se appartiene alle squadre del rajah o di Labuan. Passeremo la notte in coperta. Le tenebre che calavano rapidissime non permettevano più di poter scorgere quel pennacchio di fumo, ma il Re del Mare aveva messa la rotta a ponente per seguirlo nella sua rotta. Colle sue poderose macchine era certo di raggiungerlo prima dell'alba e di catturarlo o di affondarlo colle sue formidabili artiglierie. La guardia franca, per precauzione, era stata tenuta in coperta, potendo darsi che durante la notte gravi avvenimenti accadessero. - A dodici nodi! - aveva comandato Sandokan. - Lo seguiremo da presso. Il comando era stato appena dato che il Re del Mare ripartiva colla prora a ponente. La notte era splendida, una vera notte tropicale piena di fascino e d'incanto, come solo si possono vedere in quelle regioni delle calme quasi eterne. Quantunque il sole fosse scomparso da parecchie ore, pareva che avesse lasciato dietro di sè una porzione della sua luce, perchè nel firmamento non regnava oscurità completa. Un vago chiarore, scialbo, d'una trasparenza incredibile, regnava lassù e si proiettava sulle acque dell'oceano, permettendo agli uomini di quarto di spingere i loro sguardi a distanze infinite. Le acque, tratto tratto, parevano incendiarsi. Dai profondi abissi del mare salivano a battaglioni le meduse, mentre gli splendidi anemoni schiudevano le loro brillanti corolle rosee, bianche azzurre, gialle e violette, ondeggiando mollemente le loro frange sfolgoranti. In mezzo a quelle ondate di luce sottomarina, di quando in quando si vedevano scivolare dei mostri, i quali spargevano il terrore e la confusione fra quei molluschi. Ora erano dei charcharias, pericolosi e sempre affamati squali; ora dei calamari giganti dal becco da pappagallo, gli occhi glauchi e fissi e i tentacoli coperti da ventose. Ora invece, una massa enorme appariva bruscamente a galla, lanciando in alto spruzzi fiammeggianti e ricadendo poi con un tonfo cupo. Era una balenottera dal dorso nero-verdastro, lunga una quindicina di metri, cetaceo ancora abbastanza comune nei mari intertropicali, nonostante la caccia accanita delle navi baleniere. Sandokan e Yanez, quantunque la giornata fosse stata assai faticosa e nessun pericolo, almeno apparentemente, minacciasse la loro nave, non si erano coricati. Non era già per godersi quella splendida notte, nè per ammirare i fulgori variopinti degli anemoni, spettacoli oramai troppo noti a loro, vecchi naviganti dei mari della Malesia. Un segreto timore li tratteneva sul ponte. Camminavano con una certa agitazione, fermandosi sovente per fissare i loro sguardi verso ponente. Quel fumo li preoccupava vivamente, temendo che quel legno fosse l'avanguardia di qualche flottiglia. - Hai scorto qualche cosa? - chiese Yanez, verso la mezzanotte, vedendo Sandokan arrestarsi per la decima volta e puntare il cannocchiale verso ovest. - Io giurerei d'aver veduto, alcuni minuti or sono, un punto bianco, splendidissimo, brillare nella direzione ove è scomparso quel pennacchio di fumo, - rispose la Tigre. - Il fanale del trinchetto di quella nave oppure una stella? - No, Yanez: nè l'uno nè l'altra. Poi, dopo una breve pausa, riprese: - Credi tu che la squadra di Labuan non ci cerchi? Non sarà certo rimasta inoperosa a Victoria, dopo la nostra dichiarazione di guerra. - Colla velocità che possediamo, non ci sarà difficile lasciarla indietro. - Ed il carbone ci mancherà presto, - rispose Sandokan. - Le nostre carboniere sono ormai semi-vuote. - Ci riforniremo a spese del rajah. - Se potremo giungere alla foce del Sarawak. - Che cosa temi? Sandokan non rispose. Guardava attentamente sempre verso ponente, percorrendo tutta la linea dell'orizzonte. Ad un tratto abbassò il cannocchiale. - Un lampo, - disse. - Dove, Sandokan? - È brillato nella direzione presa da quella nave. Mi parve un lampo di luce elettrica. - Sì, signore, - confermò l'americano Horward, che per un momento aveva lasciato la sala delle macchine. - L'ho scorto anch'io. - Che quella nave corrisponda con qualche altra? - chiese Yanez. - È quello che temo. - rispose Sandokan. - Fortunatamente l'orizzonte è chiaro e vedremo subito il nemico. Signor Horward, date ordine in macchina che si preparino a portare la nostra velocità a quattordici nodi. Sono curioso di sapere chi potrà gareggiare con noi. - L'americano aveva appena trasmesso il comando, quando un nuovo lampo balenò nella direzione di prima. Pareva che una lampada elettrica di grande potenza, avesse proiettato un ampio fascio di luce sull'oceano. Un momento dopo una sottilissima striscia di fumo s'alzò sull'orizzonte. - Un razzo, - disse Yanez. - Sono due navi che corrispondono e una deve essere quella che è fuggita al nostro avvicinarsi. Segnala di certo la nostra rotta. - Signor Sandokan, - disse l'americano. - Se non m'inganno vedo un punto nero scorrere sull'oceano. Sta attraversando un tratto d'acqua fosforescente. - Un punto! Allora non può essere una nave. - E che si muove con rapidità straordinaria, a quanto pare. - Che sia qualche scialuppa a vapore? Allungò nuovamente il cannocchiale, mantenendolo orizzontale per qualche minuto. Il punto nero, che ingrandiva rapidamente, aveva attraversato la zona fosforescente confondendosi colla tinta cupa delle acque, ma più oltre ve n'era una seconda formata da migliaia di nottiluche, di anemoni e di meduse. - Sì, sembra una grossa scialuppa a vapore, - disse Sandokan. - Non è che a duemila metri. La manderemo a far compagnia alle meduse. Mastro Steher!

. - Che peccato che sir Moreland non ci abbia fornito qualche spiegazione sul nostro nemico, - disse Tremal-Naik. - Uhm! - fece Yanez. - Io ho il sospetto che quell'anglo-indiano sia più ai servigi del figlio di Suyodhana che a quelli del rajah di Sarawak. - Ragione di più per non risparmiarlo, signor Yanez, - disse Kammamuri. - Dovevate lasciar tuonare tutte le artiglierie contro la sua scialuppa a vapore, invece di danneggiarla solamente. - Che cosa vuoi, mi rincresceva lasciar massacrare quel giovane valoroso, - rispose Yanez. - Così piacevole e cortese, - aggiunse Tremal-Naik. - Con noi si è mostrato un vero gentiluomo, quand'io e Darma eravamo suoi prigionieri, specialmente verso la mia figlia. - Fino dal primo istante? - Veramente no, - rispose l'indiano. - Nei primi giorni appariva estremamente freddo, anzi mi guardava sovente con un brutto sguardo che mi dava non poche preoccupazioni, poi a poco a poco cambiò. - Ah! - fece Yanez, sorridendo. Riaccese la sigaretta che gli si era spenta e s'avviò verso il cassero dove si erano in quel momento mostrate Surama e Darma. - Non avrete già avuto paura, mie buone fanciulle - disse guardando specialmente la figlia dell'indiano con una certa malizia. - Grazie signor Yanez, - gli sussurrò Darma, prendendogli la destra e stringendogliela fortemente. - Che cosa sai tu? ... - Ho sentito tutto. - Ti sarebbe assai spiaciuto se fosse stato ucciso, è vero Darma? - Sì, - sospirò la fanciulla. - Amor fatale! ... - Bah, finita la guerra vedremo di scovarlo quel coraggioso giovane. Chissà! ... Tutto potrebbe finire bene e fare di voi due felici, poichè me ne sono accorto che anche sir Moreland ti ama ardentemente. - Eppure, sahib bianco, - disse Surama, - mi hanno detto che aveva tentato di far saltare la nostra nave. - Danneggiarla gravemente forse e approfittare della confusione per rapirci Darma, - disse Yanez. - Oh, non l'avrebbe certo lasciata annegare. Toh! ... La nebbia si alza e vedo laggiù a diffondersi un poco di luce. È l'alba che sorge; vedremo se le navi degli alleati ci sono ancora alle spalle. Infatti la nebbia, che aveva così opportunamente protette le tigri di Mompracem, cominciava ad alzarsi, cacciata via dalla brezza mattutina. Quando tutti quei vapori scomparvero verso il nord, il mare apparve deserto. La squadra degli alleati, che non poteva competere colle poderose macchine del Re del Mare, doveva essere rimasta molto indietro e fors'anche ritornata verso la foce del Sarawak. Anche verso il nord l'orizzonte appariva sgombro, essendosi tenuto l'incrociatore molto lontano dalle coste bornesi, per non farsi scorgere da qualche nave costiera. Non si vedevano altro che degli uccelli marini, assai numerosi in quei paraggi e che volteggiavano con una leggerezza ed una velocità veramente ammirabili. Il Re del Mare continuò la sua corsa velocissima tutto il giorno, volendo Sandokan non solo conservare il suo vantaggio, ma aumentarlo, onde avere il tempo necessario per trovare la Marianna. Prima del tramonto l'incrociatore navigava già nelle acque che bagnano la costa del Sedang. - Possiamo considerarci, almeno per ora, fuori di pericolo, - disse Yanez a Horward il quale, assieme a Darma, contemplava il tramonto del sole. - Sì, però fra giorni, anzi forse fra quarant'otto ore, saremo costretti a ricominciare la musica, - rispose l'americano. - Le navi degli alleati non ci lasceranno tranquilli. - Ah! ... che superbo tramonto! ... - esclamò in quel momento Darma. - Quelli che si ammirano in questi mari sono infatti i più splendidi. - disse Yanez. - Hanno delle tinte che non si vedono in altri luoghi. Se state attenti vedrete il famoso raggio verde. - Un raggio verde! - esclamarono l'americano e Darma. - È splendido, mia piccola Darma: è un fenomeno meraviglioso che si può ammirare solamente nei mari della Malesia e nell'Oceano Indiano. Il cielo è purissimo, quindi anche tu lo vedrai. Aspetta solamente che l'orlo superiore del sole stia per scomparire. - Possibile che da tutto quel fulgore infuocato possa sprigionarsi un raggio d'un tal colore! - esclamò. - Sono certo di non ingannarmi: state attenti. Il sole tramontava in un oceano di luce, le cui tinte a poco a poco variavano certo a causa dello stato più o meno igrometrico dell'atmosfera e della distanza dell'astro dallo zenith. Mentre stava, per modo di dire, per affondare nell'oceano, pel cielo si diffondeva una luce rosso-giallognola la quale prendeva rapidamente una tinta quasi violacea che si perdeva insensibilmente in un fondo azzurro-grigiastro. Il margine superiore del disco stava per sparire, quando apparve improvvisamente un raggio assolutamente verde, d'una bellezza tale da strappare all'americano ed a Darma un grido d'ammirazione. Si proiettò per qualche istante sulle acque, poi scomparve di colpo, mentre l'ultimo lembo dell'astro diurno si celava dietro l'orizzonte. - Splendido! - aveva esclamato Horward. - Superbo! - aveva detto Darma. - Non avevo mai veduto un raggio d'un tal colore! ... - Perchè non hai percorso che di rado questi mari, - rispose Yanez. - E non si può vederlo in altri luoghi? - chiese Kammamuri che si era unito a loro. - È difficilissimo, perchè occorrono eccezionali condizioni di limpidezza ed una grande purezza d'orizzonte e solamente in queste regioni si possono avere con maggior frequenza tali condizioni. Ecco la campana che ci chiama a cena. Approfittiamone finchè nessun pericolo ci minaccia, - disse Yanez, offrendo il braccio alla giovane anglo-indiana. Due ore dopo il tramonto, il Re del Mare, che non aveva diminuita la sua velocità, si trovava di fronte alla foce del Sedang, ad una distanza di qualche mezza dozzina di miglia. - Che la Marianna sia nascosta entro il fiume? - chiese Kammamuri a Yanez che esplorava la costa con un cannocchiale. - Il suo comandante non sarà stato così sciocco. Deve essersi celato in mezzo alle scogliere di levante, che formano parecchi canali. Avanzeremo lentamente in quella direzione. La nave, che aveva moderata la sua velocità, fece una punta fino a breve distanza dalle foci del fiume, poi si diresse verso l'est, dove si scorgevano lunghe file di scogliere. Già si trovava a poca distanza dalle prime rocce che emergevano come minuscoli isolotti, quando si udirono rombare in lontananza alcune deboli detonazioni. Sandokan, prontamente avvertito da Kammamuri, si era affrettato a salire in coperta assieme a Tremal-Naik ed a Horward. Esaminato attentamente l'orizzonte in tutte le direzioni, nessuna nave, nè a vela, nè a vapore, apparve in vista. Eppure quegli spari, tre, se gli uomini di guardia non si erano ingannati, erano stati uditi da tutti. Una viva inquietudine si era dipinta sul viso di Sandokan. - Che qualche nave abbia sorpresa la mia vecchia Marianna e l'abbia cannoneggiata? - si chiese. - Da quale parte venivano quegli spari? - Da occidente, - disse Yanez, che era di guardia. - Non hai veduto prima, in quella direzione, alcuna colonna di fumo? - Niente; l'orizzonte era purissimo. - Quelle detonazioni erano deboli? - Debolissime. - Quelle cannonate devono quindi essere state sparate ad una grande distanza, - disse Horward. - Sì, considerato che il vento soffia appunto dall'est. - Sandokan, - disse Tremal-Naik, la cui fronte si era oscurata. - Cerchiamo subito la Marianna. - È quello che faremo, - rispose la Tigre delle Malesia. - Se non la troveremo dietro a quelle scogliere, torneremo verso il Sedang. Manda Kammamuri con dei gabbieri sulle coffe e con dei buoni cannocchiali onde esplorino attentamente l'orizzonte. Il Re del Mare aveva continuata la sua corsa verso l'est, seguendo la costa ad una distanza di un paio di miglia per non urtare contro qualche banco di sabbia; tuttavia nessuna nave appariva in vista. Una profonda ansietà aveva invaso l'equipaggio e soprattutto Sandokan e Yanez. L'assenza del loro praho, che doveva trovarsi in quei paraggi già da parecchi giorni e forse da qualche settimana, inquietava assai tutti, temendo che fosse stato scoperto da qualche nave nemica ed affondato. Sambigliong era furioso, più di tutti, e girava e rigirava fra le torricelle dei grossi cannoni, promettendosi di fracassare l'audace che aveva osato di abbordare la vecchia Marianna. La corsa del Re del Mare durò un'ora, senza che i gabbieri avessero potuto scoprire in alcuna direzione il veliero, poi ad un comando di Sandokan l'incrociatore virò di bordo, accostandosi ad una barriera d'altissime scogliere che formavano un braccio di mare fra esse e la costa. Ormai tutti erano convinti che una disgrazia fosse toccata alla povera nave. - Attivate i fuochi! - aveva comandato Sandokan. - Se giungiamo in tempo, faremo pagar caro agli inglesi questo colpo di mano! ... - Che ci raggiunga la squadra degli alleati? ... - chiese Tremal-Naik a Yanez. - Dobbiamo avere un vantaggio d'una dozzina d'ore almeno, - rispose il portoghese. - Giungerà troppo tardi. La nave filava come una rondine marina, a tiraggio forzato. Tonnellate di carbone venivano precipitate nei forni, sprigionando un calore così intenso che macchinisti e fuochisti penavano a sopportare. La notte, chiarissima, essendo sorta la luna poco dopo le undici, permetteva di discernere sull'argentea superficie del golfo qualsiasi punto nero, i gabbieri però, ad ogni domanda che veniva loro indirizzata rispondevano sempre negativamente. Nulla, sempre nulla! ... Nessun punto nero sull'orizzonte! ... - Che quei colpi di cannone abbiano segnata l'agonia della Marianna? - si chiedevano tutti, con crescente ansietà. Alla mezzanotte le coste orientali di Sedang cominciarono a delinearsi, nerissime per la massa imponente delle loro foreste secolari. Ad un tratto, quando il Re del Mare aveva già imboccato il canale che s'apriva dietro le scogliere, una voce risuonò sulla piattaforma del trinchetto. - Fumo dinanzi a noi! ... Yanez aveva puntato un cannocchiale nella direzione indicata. Un grosso punto nero, che emetteva una fitta colonna di fumo, filava fra la costa e le scogliere, fuggendo verso levante. - Una nave a vapore! - gridò il portoghese. - Duemila metri! ... Buon tiro per dei valenti artiglieri! Fermiamola! ... Cento rupie a chi la tocca! ... Non aveva ancora terminata la frase che il vecchio quartiermastro americano, che aveva già guadagnati i duecento dollari, era dietro al suo pezzo, sotto la torretta proviera di babordo. Vedeva perfettamente la nave che cercava di fuggire. La luna la illuminava in pieno. La distanza era ragguardevole, però il vecchio cannoniere aveva fiducia nei suoi occhi e nel suo pezzo. - Ora li accomodo io! - disse. - Le cento rupie balleranno nelle mie tasche in attesa di comperare una montagna di tabacco ed un barile di ginepro. Attese che la nave passasse attraverso la prora dell'incrociatore e fece fuoco rapidamente. Aveva colpito nel segno, causando all'avversario qualche grave danno o l'aveva mancato? Gli fu impossibile saperlo, perchè quasi nell'istesso momento la nave scompariva dietro un ostacolo, che la distanza non aveva permesso prima di distinguere, un isolotto o qualche scogliera. Il Re del Mare si era messo in caccia, rallentando però la corsa, perchè da un momento all'altro poteva trovarsi dinanzi a uno dei tanti numerosi banchi sabbiosi che si estendono dinanzi alle foci del Sedang. Giunto ad un chilometro dalle spiaggie, Sandokan aveva dato il comando di scandagliare. Non conosceva che imperfettamente quei paraggi e non osava avanzarsi alla cieca, per paura di arenare l'incrociatore. La nave però, contro la quale l'incrociatore aveva fatto fuoco, pareva che fosse scomparsa. Certo aveva approfittato delle scogliere che si vedevano numerose verso il nord, per cacciarsi in qualche canale e dileguarsi o cercare un rifugio entro qualche piccola baia. Il Re del Mare, nella sua seconda corsa, doveva essere rimontato molto verso il levante del Sedang, quindi Yanez e Sandokan presero il partito d'abbandonare il fuggiasco, che doveva essere troppo debole per osare di contrastargli il passo, e di tornare verso ponente per cercare la Marianna. Era sorto in loro il dubbio che il praho, per potersi sottrarre all'inseguimento, avesse cercato pure qualche nascondiglio o si fosse gettato alla costa. Marciava da un quarto d'ora, a velocità ridotta, continuando a perlustrare, quando presso un gruppo di scogliere apparve una massa nerastra fornita d'un'alberatura altissima, dove si vedevano delle vele ancora spiegate. - Nave alla costa! - gridarono in quel momento le vedette delle coffe. - Deve essere la nostra Marianna! - gridò Yanez. - Finalmente! ... Il Re del Mare aveva subito virato di bordo, avanzandosi lentamente verso quelle scogliere. Tutti si erano precipitati verso prora per meglio osservare quella nave, la cui immobilità però dava luogo a non poche inquietudini, tanto più che pareva si trovasse addossata alle rocce. Un fanale elettrico era stato subito volto verso di essa, illuminandola come in pieno giorno, eppure, cosa strana, pareva che nessuna persona si trovasse in coperta. - Accendete tre razzi, - comandò Yanez. - Se a bordo vi sono degli uomini risponderanno di certo. - Che sia proprio la Marianna? - chiese Tremal-Naik, il quale condivideva le apprensioni dei due comandanti. - Non te lo posso ancora dire, - rispose il portoghese, - quantunque le vele siano d'un grosso praho o per lo meno d'un giong. - Mi nasce un dubbio. - Che quella nave, per sfuggire alle cannonate dell'inglese si sia gettata addosso a quelle scogliere, arenandosi? È così Tremal-Naik? - Sì. - E temo che tu abbia indovinato. - E l'equipaggio? Non si vede nessuno? - E nessuno risponde, - disse Sandokan che si era accostato, mentre tre razzi lanciati da Kammamuri e da Sambigliong si spegnevano dopo di aver sparso in aria un nembo di scintille multicolori. - Allora gli inglesi hanno fatto prigioniero l'equipaggio, - disse Tremal-Naik. - E noi andremo a liberarli, dovessi inseguire quella nave fino entro il Sedang. Fa' calare in acqua una scialuppa e andiamo a vedere se si tratta veramente della Marianna. L'incrociatore aveva rallentata la marcia, sempre per tema di trovarsi improvvisamente dinanzi a dei bassifondi. Gli scandagli avevano già dati solamente dodici metri e pareva che il fondo si elevasse rapidamente. La gran barca a vapore fu calata e Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, con venti malesi armati, vi entrarono, dirigendosi verso la scogliera. Il Re del Mare aveva virato di bordo tornando un po' al largo, essendo l'ondata piuttosto forte. La scogliera non distava che cinque o seicento metri. Era una lunga fila di rocce, di colore molto scuro, tagliate a mo' di sega, coi fianchi sventrati e corrosi dall'eterna azione delle onde. La nave si era arenata verso la punta settentrionale e nell'urto, che doveva essere stato violentissimo, si era piegata su un fianco, appoggiandosi colle bancazze ad una roccia elevata quanto l'alberatura. Temendo una sorpresa, Sandokan comandò a dieci uomini di armare i fucili, poi spinse la scialuppa contro una caletta formata da una cintura di scogli, dove l'acqua era tranquilla. Lasciati sei marinai a guardia dell'imbarcazione, cogli altri raggiunse la nave. - La Marianna! - gridò ad un tratto, con accento di dolore. Il disgraziato veliero, od in causa d'una falsa manovra, o spintovi appositamente, si era sventrato sulle punte delle scogliere in così malo modo, da ritenerlo per sempre perduto. Le rocce assai aguzze, gli avevano fracassata la carena, causandole uno squarcio così enorme, che le onde entravano liberamente nella stiva, rumoreggiando continuamente. - In che stato è ridotto quel povero legno! - esclamò Yanez, che pareva non meno commosso della Tigre della Malesia. - Che l'abbiano costretto a gettarsi su queste scogliere? E il suo equipaggio? - Vi è una scala di corda a babordo, - disse Tremal-Naik. - Saliamo. - Preparate le armi, - comandò Sandokan. - Vi possono essere degli inglesi a bordo. - Pronti! - disse Yanez. Salì pel primo, quindi Sandokan, poi gli altri, tenendo in mano i fucili e le pistole. Un silenzio di morte regnava sulla nave, ma che disordine sulla tolda! ... Si vedevano casse e barili sventrati per ogni dove, fucili e spingarde rovesciate, poi a prora un buco enorme che pareva fosse stato prodotto da qualche granata. Il boccaporto maestro era aperto e giù, nella profondità della stiva, si udiva l'acqua a muggire cupamente. - Non vi è nessuno qui, - disse Yanez. - Che cosa sarà successo dei miei uomini? - si chiese con ansietà Sandokan. - E del carico che aveva la nave? Mi pare che la stiva sia stata vuotata. In quell'istante sulla cima dello scoglio, contro cui s'appoggiava la Marianna, si udì una voce a gridare: - Il capitano! ... Sandokan e Yanez avevano alzata vivamente la testa, mentre i malesi, per precauzione, armavano rapidamente le carabine. Un uomo dalla pelle oscura e semi-nudo, scendeva rapidamente la roccia, tenendo in mano un parang, la cui larga lama scintillava vivamente ai raggi della luna. In pochi istanti raggiunse la murata di babordo e balzò in coperta, dicendo: - Vi aspettavo, capitano. - Tu, Sakkadana! - esclamarono ad una voce Yanez e Tremal-Naik, riconoscendo in lui il pilota della Marianna. - Che cosa è successo qui? - chiese Sandokan. - Siamo stati sorpresi ieri sera da una nave a vapore, che ci ha costretti a gettarci su queste scogliere, avendoci prodotto due squarci sotto la linea di galleggiamento. È fuggita vedendo giungere il vostro incrociatore. - Ha saccheggiato la Marianna il suo equipaggio? ... - Sì, Tigre della Malesia. Ha portato via armi e munizioni. - Ed i tuoi compagni dove sono? ... - Hanno guadagnato il Sedang. - E tu sei rimasto? - Non vi era più posto nella scialuppa, essendo stata l'altra spaccata da una palla di cannone. - Non vi siete abboccati coi capi dayaki? - Sì, - rispose il pilota, - otto giorni or sono, ma nulla abbiamo potuto concludere. Il rajah, sospettando di loro, ne ha fatto imprigionare per precauzione una buona parte ed altri li ha esiliati lontani dalle frontiere. - Maledizione! - esclamò Yanez. - Ecco una notizia che non m'aspettavo. Addio speranze! ... - Forse abbiamo tardato troppo, - disse Sandokan. - Il rajah ci ha prevenuti. - Che cosa faremo ora, Sandokan? ... - Non ci rimane che lottare sul mare, - rispose la Tigre della Malesia. - Ritorneremo verso il nord, giacchè il grosso degli alleati si trova nelle acque di Sarawak e riprenderemo la guerra contro le navi mercantili, arrecando alle linee di navigazione il maggior danno possibile. Se sarà necessario ci spingeremo fino nei mari della Cina. A bordo, amici! ... Non perdiamo tempo. Stavano per ridiscendere nella scialuppa, quando udirono un colpo di cannone rimbombare a bordo del Re del Mare. Sandokan aveva trasalito. - Che segnali la flotta degli alleati? - si chiese. - Lo suppongo, - rispose Yanez. - Vedo che si muove e che punta la prora verso di noi. - Guardate! - gridò Tremal-Naik. Verso l'ovest una luce vivissima illuminava l'orizzonte che poco prima era ancora tenebroso. La flotta degli alleati, composta d'una mezza dozzina di navi, muoveva velocemente per impedire all'incrociatore di prendere il largo. - Presto, a bordo! - gridò la Tigre della Malesia. Si lasciarono scivolare l'un dietro l'altro giù per la fune e la scialuppa mosse velocemente verso il Re del Mare, che dal canto suo le muoveva incontro. Le navi nemiche, quantunque fossero ancora lontane, avevano aperto il fuoco e le cannonate si succedevano alle cannonate e qualche proiettile s'inabissava a poche dozzine di metri dall'imbarcazione. Fra qualche minuto quelle masse metalliche dovevano giungere a destinazione. Il Re del Mare era però ormai a poche gomene. Manovrò in modo da coprire la scialuppa dai tiri delle artiglierie avversarie, opponendo ai proiettili i suoi poderosi fianchi, poi la scala fu abbassata d'un colpo solo. L'ingegnere Horward, Darma e Surama con Kammamuri erano usciti dalla torretta di poppa, gridando: - Presto! ... Presto! ... Salite! ... Alcuni marinai avevano già calati i paranchi per issare la scialuppa. Yanez, Sandokan, Tremal-Naik ed i loro compagni si slanciarono sulla scala, dopo d'aver assicurato i ganci. - Finalmente! - esclamò l'americano. - Credevo che non arrivaste in tempo. - A posto gli artiglieri! - gridò Sandokan. - Doppi timonieri alla ruota! ... - Avremo da fare per sbarazzarci della squadra; però siamo forti e veloci, - disse Yanez.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

. - Bisogna che io abbia in mia mano la testa del capitano Macpherson. Il sergente ruppe in uno scoppio di risa. - Pazzo, non sai che il capitano non è più qui? - Tremal-Naik s'alzò. - Il capitano non è più qui! - esclamò con disperazione. - Dov'è andato? - Non te lo dirò. - Ma non sai adunque, che io ho giurato di portare ai thugs la sua testa? - Ne faranno a meno. - No, Bhârata, no! ... Bisogna che compia la mia missione! Dov'è il capitano? ... Voglio saperlo, dovessi rovistare tutta l'India dall'Himalaya al capo Comorin. - Non sarò certamente io che dirò dove egli sia. - Ah! ... - esclamò Tremal-Naik. - Tu lo sai? - Lo so. Tremal-Naik alzò la rivoltella mirando l'indiano in fronte. - Bhârata, - gli disse con voce furente. - Parla! - Puoi ammazzarmi, ma dalla mia bocca non uscirà sillaba. Sono un sipai! - Bada, Bhârata, che non si ritorna più, una volta scesi nella tomba. - Uccidimi se vuoi. - È la tua ultima parola? - L'ultima. Tremal-Naik aveva steso il braccio armato. Già la canna s'era fermata a pochi passi dalla fronte del sergente, già stava per far partire il colpo, quando al di fuori echeggiò un fischio che si ripeté tre volte. - Nagor! - esclamò Tremal-Naik, che aveva riconosciuto il segnale dei thugs. Rimise nella cintura la rivoltella, afferrò Bhârata turandogli con una mano la bocca, e lo gettò al suolo. - Non fare un gesto, - gli disse, - o ti uccido davvero. Lo legò solidamente con una corda, lo imbavagliò, poi corse ad una finestra, alzò la persiana e rispose al segnale con tre fischi differenti. Dietro ad un cespuglio s'alzò una forma umana, la quale strisciò svelta svelta in direzione del bengalow. Si arrestò proprio sotto la finestra, alzando la testa. - Nagor! - bisbigliò Tremal-Naik. - Chi sei? - chiese il thug, dopo qualche istante di esitazione. - Tremal-Naik. - Devo salire? Tremal-Naik guardò a destra e a manca con attenzione e tese l'orecchio. - Sali, - disse poi. Il thug gettò il laccio che si fermò ad un gancio della finestra, ed in un baleno giunse sul davanzale. Era un uomo assai giovane, poco più che ventenne, alto, magro, dotato di una agilità straordinaria e, a quanto pareva, di un coraggio a tutta prova. Era quasi nudo, unto di recente d'olio di cocco, tatuato come gli altri settari e armato di pugnale. - Sei libero? - chiese egli. - Lo vedi, - rispose Tremal-Naik. - I sipai? - Dormono. - Il capitano? - Quell'indiano mi ha detto che non è più qui. - Che abbia sospettato qualche cosa? - chiese il thug, coi denti stretti. - Non lo credo. - Bisogna sapere dove è andato. Il figlio delle sacre acque del Gange vuole la sua testa. - Ma il sergente non parla. - Parlerà, lo vedrai. - Or che ci penso, questi uomini m'hanno fatto trangugiare una bevanda che mi ubbriacò e mi fece parlare. - Qualche limonata di certo, - disse il thug sorridendo. - Sì, è una limonata. - La faremo bere al sergente. Balzò nella stanza, gettò uno sguardo su Bhârata che attendeva tranquillamente la sua sorte, prese un bicchiere ripieno d'acqua e preparò la stessa limonata che il capitano Macpherson aveva fatto bere a Tremal-Naik. - Trangugia questa bevanda, - diss'egli al sergente, dopo di avergli tolto il bavaglio. - Mai! - rispose Bhârata, che aveva già indovinato di che cosa si trattava. Il thug gli prese il naso fra le dita e lo strinse forte. Il sergente, per non morire asfissiato, fu costretto ad aprire le labbra. Bastò quel momento, perché la limonata gli fosse versata in bocca. - Ora saprai ogni cosa, - disse Nagor a Tremal-Naik. - Hai paura dei sipai? - gli chiese il cacciatore di serpenti. - Io! - esclamò il thug, ridendo. - Mettiti dinanzi alla porta e fa' fuoco sul primo uomo che tenta salire la scala. - Conta su di me, Tremal-Naik. Nessuno verrà ad interrompere il tuo interrogatorio. Il thug prese un paio di pistole, guardò se erano cariche e uscì mettendosi in sentinella dinanzi alla porta. Il sergente cominciava allora a ridere ed a parlare senza arrestarsi un sol istante. Tremal-Naik, sorpreso, ascoltava quel torrente di parole, e raccolse a volo il nome del capitano Macpherson. - Bravo sergente, - diss'egli. - Dov'è il capitano? - Bhârata nell'udire quella voce, si era arrestato. Guardò Tremal-Naik con due occhi che scintillavano e chiese: - Chi mi parla? ... Mi pareva di aver udito la voce di un thug ... ah! ... ah! ... Non vi saranno più thugs fra breve. Il capitano lo ha detto ... e il capitano è un uomo di parola ... un grand'uomo che non ha paura. Li assalirà nei loro covi ... Li distruggerà colle bombe ... Sarà bello vederli scappare coll'acqua alle calcagna ... ah! ... ah! ... ah! ... - E andrai anche tu a vederli? - chiese Tremal-Naik, che non perdeva parola. - Si che ci andrò e verrai anche tu! ... Ah! ... ah! ... sarà uno spettacolo bellissimo. - E sai tu dov'è il loro covo? - Sì che lo so. L'ha detto Saranguy. - Ah! ... miserabili! ... - esclamò Tremal-Naik. - Ma anch'io saprò qualche cosa da te. - Egli aveva bevuto la limonata, - ripigliò il sergente, - e narrò tutto. - E c'era il capitano, quando Saranguy parlò! - chiese Tremal-Naik, fremendo. - Ma sì, e partì subito per sorprenderli nel covo. - Per Raimangal forse? - No, no! - esclamò vivamente il sergente. - I thugs sono forti e occorrono molti uomini per ischiacciarli. - È andato a Calcutta? - Sì, a Calcutta, al forte William! ... E armerà un bastimento ... e imbarcherà tanta gente ... e tanti cannoni ... ah! ... ah! ... che spettacolo bellissimo. Il sergente tacque. I suoi occhi si chiudevano, si aprivano, ma tornavano a chiudersi per quanto facesse per tenerli aperti. Tremal-Naik capì che l'oppio a poco a poco faceva il suo effetto. - So quanto volevo sapere, - mormorò. - Ed ora, a Raimangal!

. - Dove vuoi che abbia trovato degli uomini, di notte, in mezzo alla jungla? - Ve ne sono, Saranguy, e più d'uno. - Non ti credo. - Hai udito parlare dei thugs'? - Gli uomini che strangolano? - Sì, di quelli che adoperano il laccio di seta. - E tu dici che sono qui? - chiese Tremal-Naik, affettando terrore. - Sì, e se cadi nelle loro mani ti strangoleranno. - Ma perché sono qui? - Sai chi è il capitano Macpherson? - Non lo so ancora. - È il nemico più spietato che abbiano i thugs. - Comprendo. - Noi facciamo a loro la guerra - La farò anch'io. Odio quei miserabili. - Un uomo coraggioso come te, non è da rifiutarsi. Verrai con noi quando batteremo la jungla, anzi ti metterò a guardia di uno strangolatore che è caduto in nostra mano. - Ah! - esclamò Tremal-Naik, che non riuscì a frenare il lampo di gioia che balenò negli occhi. - Avete un thug prigioniero? - Sì, ed è uno dei capi. - Come si chiama? - Negapatnan. - E io veglierò su di lui? - Sì, veglierai su di lui. Tu sei forte e coraggioso e a te non scapperà. - Sono persuaso. Basterà un pugno per ridurlo all'impotenza, - disse Tremal- Naik. - Vieni sulla terrazza. Tra poco vedrai Negapatnan e forse avremo bisogno del tuo coraggio. - Per che farne? - chiese Tremal-Naik con inquietudine. - Il capitano ricorrerà a qualche mezzo violento per farlo parlare. - Capisco. Diventerò carceriere ed all'occorrenza torturatore. - Sei molto perspicace. Vieni, mio bravo Saranguy. Entrarono nel bengalow e salirono sulla terrazza. Il capitano Macpherson vi era di già, fumando una sigaretta, sdraiato indolentemente in una piccola amaca di fibre di cocco. - Mi rechi qualche novità, Bhârata? - chiese egli. - No, capitano. Vi conduco invece un nemico acerrimo dei thugs. - Sei tu, Saranguy, questo nemico? - Sì, capitano, - rispose Tremal-Naik, con accento d'odio naturalissimo. - Sii allora il benvenuto. Sarai anche tu dei nostri. - Lo spero. - Ti avverto che si arrischia la pelle. - Se la giuoco contro le tigri, posso giuocarla contro gli uomini. - Sei un brav'uomo, Saranguy. - Me ne vanto, capitano. - Come ha passato la notte Negapatnan? - chiese Macpherson, rivolgendosi al sergente. - Ha dormito come uno che ha la coscienza tranquilla. Quel diavolo d'uomo è di ferro. - Ma si piegherà. Va' a prenderlo; comincieremo subito l'interrogatorio. Il sergente fece un mezzo giro sui talloni e poco dopo ritornava conducendo Negapatnan, solidamente legato. Il thug era tranquillissimo, anzi un sorriso sfiorava le sue labbra. Il suo sguardo si posò subito, con curiosità, su Tremal-Naik, il quale si era messo dietro al capitano. - Ebbene, mio caro, - disse Macpherson con accento sarcastico, - come hai passata la notte? - Credo di averla passata meglio di te, - rispose lo strangolatore. - E cos'hai deciso? - Che non parlerò. La mano del capitano corse all'impugnatura della sciabola. - Che sieno tutti eguali, questi rettili? - gridò egli. - Pare che sia così, - disse lo strangolatore. - Non dirlo così presto, però. Ti dissi che posseggo dei mezzi terribili. - Non abbastanza terribili pei thugs. - Dei mezzi che martirizzano al punto da invocare la morte. - Mezzi che non valgono i nostri. - Lo vedremo quando ti contorcerai fra gli spasimi più tremendi. - Puoi cominciare subito. Il capitano impallidì, poi un'ondata di sangue gli salì al volto. - Non vuoi proprio parlare, adunque? - gli chiese con voce strozzata dall'ira. - No, non parlerò. - È la tua ultima risposta? Bada ... - L'ultima. - Sta bene, ora agiremo. Bhârata? Il sergente s'avvicinò. - C'è un palo nel sotterraneo? - Sì, capitano. - Legherai solidamente quell'uomo. - Bene, capitano. - Quando il sonno lo vincerà, lo terrai desto a colpi di spillo. Se fra tre giorni non parlerà, farai macerare le sue carni a colpi di frusta. Se si ostina ancora, verserai dell'olio bollente, goccia a goccia, sulle sue ferite. - Fidatevi di me, capitano. Aiutami, Saranguy. Il sergente e Tremal-Naik trascinarono via lo strangolatore, il quale aveva ascoltato la sentenza senza che un muscolo del suo volto trasalisse. Discesero una scala a chiocciola molto profonda ed entrarono in una specie di cantina molto vasta, sostenuta da volte, ed illuminata da una feritoia aperta a fior di terra, difesa da solide sbarre di ferro. Nel mezzo ergevasi un palo, a cui fu legato lo strangolatore. Bhârata vi pose accanto tre o quattro spilli lunghi e colla punta acutissima. - Chi veglierà? - chiese Tremal-Naik. - Tu, fino a questa sera. Poi un sipai ti darà il cambio. - Va bene. - Se il nostro uomo chiude gli occhi, pungi forte. - Ti obbedirò, - rispose Tremal-Naik con calma glaciale. Il sergente risalì la scala. Tremal-Naik lo seguì con lo sguardo fino che poté, poi, quando ogni rumore cessò, si sedette di fronte allo strangolatore che lo fissava tranquillamente. - Ascoltami, - disse Tremal-Naik abbassando la voce. - Hai anche tu qualche cosa da dire? - chiese Negapatnan, beffardamente. - Conosci Kougli? Lo strangolatore udendo quel nome trasalì. - Kougli!- esclamò. - Non so chi sia. - Sei prudente, sta bene. Conosci Suyodhana? - Chi sei tu? - chiese Negapatnan, con manifesto terrore. - Uno strangolatore come lo sei tu, come lo è Kougli, come lo è Suyodhana. - Tu menti. - Ti do una prova che dico il vero. La nostra sede non è nella jungla, né a Calcutta, né sulle rive del sacro fiume, ma nei sotterranei di Raimangal. Il prigioniero rattenne a gran pena un grido, che stavagli per uscire dalle labbra. - Che sia vero che tu sei dei nostri? - chiese egli. - Non ti ho dato le prove? - È vero. Ma perché sei venuto qui? - Per salvarti. - Per salvare me? - Sì. - Ma come? Con qual mezzo? - Lascia fare a me e prima di mezzanotte sarai libero. - E fuggiremo assieme. - No, io rimango qui. Ho un'altra missione da compiere. - Una qualche vendetta? - Forse, - disse Tremal-Naik con aria tetra. - Ora silenzio e aspettiamo le tenebre. Lasciò il prigioniero ed andò a sedersi ai piedi della scala, aspettando pazientemente la notte. La giornata lentamente passò. Il sole scomparve dietro l'orizzonte e l'oscurità divenne profonda nella cantina. Era il momento opportuno per agire. Fra un'ora e forse meno, il sipai doveva scendere. - All'opera, - disse Tremal-Naik, alzandosi bruscamente e traendo dalla cintola due lime inglesi. - C'è da fare? - chiese Negapatnan, con emozione. - Devi aiutarmi, - rispose Tremal-Naik. Taglieremo le sbarre della feritoia. - Non s'accorgeranno che tu mi hai aiutato a fuggire? - Non s'accorgeranno di nulla. Sciolse i legami che stringevano il corpo, le braccia ed entrambi i piedi del prigioniero, e assalirono vigorosamente i ferri, cercando di non fare rumore. Tre sbarre erano state di già divelte e non ne rimaneva che una, quando Tremal- Naik avvertì uno scalpiccìo che veniva dalla scala. - Fermati! - diss'egli rapidamente. Qualcuno scende. - Il sipai forse? - Certo è lui. - Allora siamo perduti. - Non ancora. Sai gettare il laccio? - Giammai fallii il colpo. Tremal-Naik sciolse il laccio che portava stretto attorno al corpo, nascosto dal dubgah e glielo diede. - Mettiti presso alla porta - gli disse, estraendo il pugnale. - Il primo che appare, uccidilo. Negapatnan ubbidì prendendo il laccio nella mano dritta. Tremal-Naik si mise di fronte a lui, dietro allo stipite della porta, col pugnale alzato. Il rumore andava avvicinandosi. D'un tratto un lume rischiarò la scala e apparve un sipai, con una scimitarra sguainata. - Attento, Negapatnan, - bisbigliò Tremal-Naik. La faccia del thug divenne terribile. Gli occhi mandavano sinistri bagliori. Le labbra lasciavano a nudo i denti, le nari si dilatavano. Pareva una bestia assetata di sangue. Il sipai si arrestò sull'ultimo pianerottolo. - Saranguy! - chiamò. - Scendi, - disse Tremal-Naik. - Non ci si vede più. - Va bene, - rispose, e varcò la soglia della cantina. Negapatnan era lì. Il laccio fischiò nell'aria e si strinse così fortemente attorno al collo, che il sipai cadde al suolo senza emettere un lamento. - Devo strozzarlo? - chiese il thug, ponendo un piede sul petto del caduto. - È necessario, disse Tremal-Naik, freddamente. Negapatnan tirò a sé il laccio. La lingua del sipai uscì un palmo dalle labbra, gli occhi schizzarono dalle orbite e la pelle da bronzina divenne nera. Agitò per qualche istante le braccia, poi si irrigidì. Era morto. - Che la dea Kâlì abbia il suo sangue, - disse il fanatico, sciogliendo il laccio. - Spicciamoci, prima che scenda qualche altro. La feritoia fu nuovamente assalita e la quarta sbarra fu spezzata. - Passerai? - chiese Tremal-Naik. - Passerei per una feritoia molto più stretta. - Sta bene. Ora legami solidamente e imbavagliami. - Il thug lo guardò con sorpresa. - Io legarti? E perché? - chiese. - Perché non si sospetti che io sono uno dei tuoi. - Ti capisco. Sei più astuto di me. Tremal-Naik si gettò in terra presso al cadavere del sipai, e Negapatnan lo legò e lo imbavagliò. - Sei un brav'uomo, - disse il thug. - Se un giorno avrai bisogno di un amico fedele, ricordati di me. Addio. Si slanciò verso la feritoia, dopo di essersi armato delle pistole del sipai, vi si issò e scomparve. Non erano trascorsi ancora dieci secondi, che s'udì un colpo di fucile ed una voce gridare: - All'armi! Un uomo fugge!

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682518
Serao, Matilde 2 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Così passano quattro, cinque, fino a dieci settimane, senza che la povera donna abbia mai potuto riunire le cinque lire: e ogni lunedì le tocca pagare l'interesse del dieci per cento per settimana, e dopo la quinta settimana donna Carmela è diventata una iena, bisogna pregarla perchè non gridi, perchè non faccia delle scene, essa vuole il suo denaro, vuole il sangue suo , l'interesse non le serve, le servono i quattrini del capitale. Sulla soglia delle porte, alle porte delle officine, ogni sabato, ogni lunedì, si ode la voce irosa di donna Carmela : essa, dal mattino, è in giro per esigere, ricoglie , e fa tremare uomini e donne, con il suo tòno alto e imperioso. In un posto ha da esigere una lira, in un altro due, in un altro cinque: e non osano ribellarsi a lei, non avendo da pagarla, non osano ribellarsi, potendo aver sempre bisogno di lei. Quella donna grassa è implacabile: sa la sua potenza: se una serva non paga, essa minaccia di fare uno scandalo con la padrona, se una donna non paga, essa minaccia di dirlo al marito, se un operaio non paga, essa sa l'indirizzo del capo officina, e cui va a denunciarlo. Ella è astuta e cauta, audace e sboccata: ella resta sempre nella posizione di una benefattrice, a cui codesti ingrati rodono le fibre e bevono il sangue. E infatti nessuno le dà una coltellata, nessuno la bastona, nessuno la insulta, e quel che è più forte ancora, nessuno ha il coraggio di negarle i quattrini: l'onestà del popolo napoletano non è neppur capace di truffare una usuraia. Non le danno neppure torto nelle sue escandescenze: e cercano sempre di mansuefarla. Quando una povera donna napoletana ha bisogno di un grembiule, di un vestito, di un fazzoletto da collo, di un paio di camicie, non avendo quattrini per comperarle, si decide ad andare da donna Raffaela che dà la robba cu a credenza . Quest'altra usuraia prende, a basso prezzo, tela e percallo e fazzoletti di cotone dai negozi: e li rivende alla povera gente. Ogni oggetto, naturalmente, è pagato molto più caro del suo valore: primo guadagno. Poi, come all'altra usuraia, bisogna pagare l'interesse del dieci per cento alla settimana, sulla somma. Questi debiti, complicati continuamente, pesano sulla esistenza delle povere donne, per mesi e mesi: talchè, molto spesso, il grembiule si è consumato, la veste è lacera, le camicie sono bucate, e la povera donna ne ha pagato tre volte il valore, e il debito rimane uguale: donna Raffaela è furibonda, ella grida come una energumena, vuole strappare dal collo della donna il fazzoletto che le ha venduto, vuole sciogliere dai fianchi il grembiule e va gridando: Chesta è robba mia! T'aie arrobbato lu sango mio! Come l'altra, ella finisce per incassare quattro o cinque volte il capitale; come l'altra, ella è necessaria alla povera gente, la quale non reagisce mai contro queste violenze; come l'altra, ella non arrischia mai che piccoli capitali, preferendo di far piccoli e molti affari, dove non vi sono rischi, a grossi affari che offrono sempre dei pericoli. Le agenzie private di pegni rappresentano l'usura organizzata in modo legale. Queste agenzie non sono succursali del Monte di Pietà, che debbano conformarsi alle tariffe del grande istituto di misericordia; ma sono speculazioni debitamente autorizzate e viventi con capitali proprii. Per lo più sono esercitate da donne, profondamente sottili nella loro volgarità, nella loro ignoranza, e vengono messe su con pochi capitali. Anzitutto, in queste agenzie, l'oggetto è deprezzato vilmente, specie se non è oro: e il primo guadagno è su questo. Vi si paga un fantastico diritto di registro, poi un tanto per la cartella, poi l'interesse anticipato per un mese, tutto questo così complicato, così bene salvaguardato, così apparentemente legale, che queste agenzie esigono il cinque per cento d'interesse al mese, senza che nessuno abbia il diritto di lagnarsi. So di una moglie di impiegato che dovette impegnare il suo unico vestito di seta, il vestito delle nozze, che era costato duecentocinquanta lire, in una di queste agenzie, tenuta da una grossa donna Gabriela : n'ebbe trentasei lire, di cui ritirò soltanto trent'una, lasciandone cinque per interesse, per la cartella ed il diritto di registro. Per sei mesi, tremando che non le vendessero il suo vestito e non avendo le trentasei lire, le toccò pagare, ogni mese, cinque lire, vale a dire che restituì i quattrini presi: al settimo non ebbe neppure quelle cinque lire ed il vestito fu venduto. Accorse, per vedere di prendere il di più, poichè il vestito era nuovo, e si era dovuto vendere bene: invece era stato liberato per trenta lire; almeno così apparve dal libro. Ebbe poi il piacere d'incontrare donna Gabriela al teatro col suo vestito indosso e carico di oro e di gioielli, ricomprati dall'agenzia. Poichè molte di queste amano di sovraccaricarsi degli oggetti che hanno in deposito, e più di una popolana vede passare l'impegnatrice che va alla passeggiata, portando al collo il laccetto d'oro che ella ha dovuto impegnare, alle orecchie gli orecchini di una vicina, e sulle spalle il mantello di velluto della signora del terzo piano: e dietro le porte, dietro le finestre, quando l'impegnatrice passa, vi sono dei sospiri repressi, delle lagrime inghiottite, dei pallori subitanei: l'impegnatrice sembra un idolo indiano a cui si sacrifichi oro e sangue. Alcune impegnatrici, più astute e più calcolatrici, impegnano di nuovo, ma al Banco, gli oggetti di oro e di valore, guadagnandoci ancora, poichè il Banco dà onestamente il terzo del valore ed esse neppure il quinto: così aumentano i loro capitali, e mettono gli oggetti al sicuro. Ma perchè - si domanda - la povera gente non si rivolge ai due Banchi dello Spirito Santo e di Donnaregina? Perchè si fa spogliare da queste agenzie? Gli è che a questi Banchi governativi, il tramite è molto lungo - e molta gente non ha pazienza, non sa come fare, vuole sbrigarsi presto, è presa da una necessità urgentissima e preferisce entrare in una delle prime agenzie che trova dove la servono subito, senza formalità e senza parole; gli è che in questi Banchi governativi, la pubblicità è sempre grande, e una persona timida vi arrossisce di vergogna e preferisce entrare nella penombra discreta delle agenzie private, dove tutto sembra fatto con grande segretezza; gli è che il venerdì e il sabato, poichè il popolo napoletano deve giuocare al lotto, e ha giuocato, la folla è così grande che i Banchi governativi non bastano più e il popolo si riversa nelle agenzie private. Ora, calcolate. Ogni vicolo ha la sua donna Carmela , ogni strada la sua donna Raffaela , ogni angolo di piazza ha la sua agenzia autorizzata; e in certe strade nere, ogni tre botteghe, s'impegna. Calcolate, moltiplicate, pensate alla miseria, pensate al lotto: da un lato l'avidità e la furberia: dall'altro l'onestà e l'ingenuità, il bisogno, la miseria. Di questo cancro, l'usura, agonizza in una infelicità infinita la gente napoletana.

E allora, per chi abbia anima sensibile questa strada assume un simbolo elettissimo, è l'emblema della solidarietà umana che, dall'alto del trono, del governo dello Stato, del governo della Città, sente la necessità di elevare prima fisicamente e poi moralmente il popolo, dando ad esso i beni primari della vita, la luce, l'aria, la nettezza, la salubrità, dandogli la via e la casa, dandogli il modo di acquistare la sanità del corpo che è la gioia dell'anima, sottraendolo alle infermità, alle degenerazioni, all'epidemia, e sottraendolo, così, anche alla disonestà e al vizio. Questo, nella mente di chi lo volle, dopo la strage del 1884, dopo la visita ai tugurii e alle catapecchie fatta dal Re, dopo l'orrore che ne ebbe l'animo dei maggiorenti, questo era il compito del Rettifilo, che si è chiamato e si chiama Risanamento, con tutto il suo progetto di diramazioni, di colmate, di traverse. Il Rettifilo doveva salvare il popolo napoletano: e poichè gli occhi che guardano poco e fugacemente, poichè le labbra che domandano, non sempre sono esaudite da labbra che conoscano la verità, poichè il difetto di cui tutti siamo malati, è la fretta, poichè noi siamo, anche, malati di superficialità, poichè nessuno ha il tempo di fare quel che vorrebbe, nel mondo, poichè nessuno ha la volontà necessaria a eseguire tutto quello che vorrebbe, poichè tutto ci sfugge, per esser profondi, così, noi possiam credere che, veramente, il Rettifilo abbia dato al popolo napoletano tutto quello che gli mancava, e, sovra tutto, lo posson credere tutti coloro che passano qui un giorno o un mese! Eppure, questa illusione non resisterebbe a una osservazione più minuta. Alla seconda, alla terza, alla decima volta che voi attraversate questa magnifica strada, volgendo gli occhi, a manca, a dritta, lo scenario seducente ha dei grandi strappi. Un imponente palazzo, rossastro, pomposo, si pavoneggia con le sue cento finestre: e, accanto, voi scovrite un vuoto, e un muretto basso si prolunga, si prolunga, un muretto su cui la pubblicità allegramente appende i suoi quadri, da anni e anni, e dietro questo muretto, molto più indietro, sorgono delle masse di case lercie, cadenti, miserabili, di tutte le misure, macchiate di tutte le stigmate della povertà e del vizio. Ciò sparisce: un'altra costruzione moderna tenta ridarvi una parvenza di civiltà, ma, fatto accorto, voi cercate ficcar l'occhio, ai fianchi, alle spalle, e subito dietro, a otto o dieci metri, ecco, di nuovo, un affogamento di topaie, dalle cui finestrette pendono i cenci più indecenti, magari con la poesia del vaso di basilico e del popone appeso al giunco. Così, otto, quindici, venti volte, dalle due parti, ma sovra tutto, a diritta, andando verso la ferrovia, questo sipario lacerato bruscamente, vi mostra degli spettacoli improvvisamente brutti, nauseanti, schifosi: è la cattiva parola, ma è la parola e invano voi tentate di rifare le fila del vostro sogno di una via maestosa e ricca, di una via nobile e purificante, di una via che serva egualmente alla salute, alla fortuna e alla felicità del popolo. Queste continue apparizioni, fra le enormi nuove costruzioni, di quelle immonde costruzioni vecchie, non lontane, vicine, non lontane, accanto, non lontane, alle spalle, vi hanno distrutto tutta la vostra tela d'illusione. Cercate le traverse che dovevano portare da sinistra, dai quartieri più alti al Rettifilo, bonificando la regione che comincia a santa Maria la Nova e continua pei Banchi Nuovi, san Giovanni Maggiore, Mezzocannone, Università, sino all'Annunziata, sino a Capuana, e non ne trovate che due sole, complete, su venti, quelle attorno al Sedile di Porto, e tutte le altre sono abbozzate, sono pezzi di via, di otto o dieci metri, con il loro bravo nome, di un qualche nostro illustre cittadino - e anche di voi, o Francesco Serao, o avo mio! - e niente altro, salvo, dopo questi dieci metri, che una cortina di antiche case non abbattute, una cortina che chiude le comunicazioni, che urta lo sguardo. Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta, dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e Vicaria. Su venti, ve n'è una sola, completa . Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo , vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s'intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l'inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere? E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell'enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams , specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l'ardente e dolente segreto dell'intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull'orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo , sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l'orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un'amante, un'amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un'aggressione. In quell'ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano! Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un'altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l'angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683085
Bertelli, Luigi - Vamba 4 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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Pare che il babbo, visto che mi son corretto dal miei difetti, abbia intenzione di mettermi un maestro in casa per farmi poi pigliar l'esame regolare a fìn d’anno. Speriamo bene! Oggi finalmente ho rivisto Gigino Balestra. Per l'appunto mia sorella ha un'amica, una certa signorina Cesira Beni, che sta di casa in un quartiere accanto a quello dove abita Gigino, e siccome oggi Ada è andata a far visita a questa sua amica io ho colto l'occasione di farne una al mio amico. Quanto abbiamo parlato delle nostre avventure passate! A un certo punto dei nostri discorsi mi s'è riaffacciata alla mente la curiosità di sapere come mai nel collegio Pierpaoli era venuto l'uso di chiamare il signor Stanislao col nome di Calpurnio. - Mi hanno detto che è levato dalla Storia Romana, e a questo ci arrivavo anche io. Ma che significa? Perché l'hanno adattato al Direttore? Lo sai tu? - Gigino Balestra si è messo a ridere; poi ha preso una Storia Romana che era nel suo scaffaletto, ha cercato un po' e mi ha messo il libro dinanzi agli occhi aperto nelle pagine dove sono raccontate le guerre di Giugurta; e lì ho letto questo pezzetto che mi son ricopiato perché volevo metterlo qui nel mio giornalino proprio tale e quale: "Dopo che Giugurta ebbe fatto torturare e uccidere il cugino profuse oro a destra e a sinistra perché il misfatto fosse taciuto. Ma il tribuno Caio Memmio manifestò dinanzi al Fòro la scelleraggine di Giugurta e il Senato bandì contro lo sleale principe numida la guerra che affidò a uno dei consoli eletti, per l'anno successivo, e che chiamavasi Lucio Calpurnio Bestia…" - Ah! - gridai smascellandomi dalle risa. - Ora ho capito finalmente! Lo chiamavano Calpurnio perché... - ... perché anche se sentiva, - concluse Gigino, non avrebbe capito che gli si dava della bestia! È un ingegnoso strattagemma, non c'è che dire. Ma sarebbe stato molto meglio che l'avessi conosciuto prima, perché allora chiamando Calpurnio il signor direttore del collegio Pierpaoli ci avrei provato più gusto. Ho parlato con Gigino Balestra anche di un altro importante argomento: dei pasticcini. - Vedi se puoi passare domattina dal negozio, verso le dieci. Il babbo a quell'ora ha una adunanza per le elezioni... Ti aspetto sulla bottega. - Infatti ho saputo che ci sono le elezioni politiche, perché quello che era deputato è diventato pazzo a un tratto, per il motivo, - dicono tutti quelli che s'intendono di politica, - che aveva preso le cose troppo sul serio. E i nuovi candidati sono il commendatore Gaspero Bellucci, zio di Cecchino, e l'avvocato Maralli mio cognato. Pensare che nel dicembre scorso, proprio il giorno prima che ci si rovinasse in quella disastrosa corsa in automobile, con Cecchino Bellucci ci pigliammo a parole appunto sulla maggiore o minore probabilità che avrebbero avuto di diventar deputati i due che oggi si trovavano in lotta davvero. A sentir Gigino Balestra parrebbe che l'elezione del Maralli fosse sicura; e lui è al caso di saperlo perché il suo babbo non solamente è un pasticciere, ma è il grande elettore del suo partito e dice che di riffe o di raffe questa volta il collegio deve essere conquistato dai socialisti e che è già sicuro della vittoria. Per questo ha messo fuori un giornaletto intitolato Il sole dell'avvenire he è in grande polemica con l'Unione Nazionale he sostiene lo zio di Cecchino. Gigino Balestra mi ha fatto vedere questi giornali e mi ha detto: - Il babbo ora non ripara a dar retta a tutte le commissioni, ed è sempre occupato a scrivere nel giornale... Domani siamo sicuri che in bottega non viene. Non mancare! -

- E questo me lo diceva con un risolino così maligno, che non so come abbia fatto a non rispondergli male. Io domando chi gli dava il diritto, a questo corvo spelacchiato che non so nemmeno come si chiama, di mettere in ridicolo la mia disgrazia, e se io non avevo tutte le ragioni d'averlo preso in uggia e di accarezzare l'idea di fargli qualche tiro che gli servisse di lezione... E il tiro gliel'ho fatto ieri ed è riuscito anche peggio di come l'avevo architettato io. Bisogna sapere prima di tutto che il bagno di luce che fa il signor marchese consiste in una specie di cassa piuttosto grande, dentro la quale il malato si mette a sedere su un apposito sedile, e ci riman chiuso dentro con tutta la persona, meno la testa, che sporge fuori da un'apertura rotonda nella parete superiore. Dentro questa cassa vi sono moltissime lampade rosse di luce elettrica che rimane accesa e nella quale dicono che il malato fa il bagno, mentre invece non si bagna per niente e resta asciutto come quando ci è entrato, se non di più. Io, dunque, avevo visto un paio di volte il signor marchese entrare in codesto cassettone, che è in una stanza molto distante da quella dove io mi facevo il massaggio, e rimanervi un'ora, trascorsa la quale l'inserviente andava ad aprir la cassa e a levarlo di dentro. E lì in quella stanza ieri si è svolta la mia feroce ma giusta vendetta. Avevo portato con me una cipolla che avevo trovato in cucina a casa di mia sorella. E dopo fatto il massaggio, invece d'andar via, sgattaiolai nella stanza del bagno di luce dove si era recato poco prima il signor marchese. Egli era là, infatti, ed era così buffa quella sua testa tutta ritinta sporgente fuori da quel cassone, che non potei fare a meno di ridere. Egli mi guardò meravigliato, e poi, col suo solito risolino canzonatorio, mi disse: - Che venite a far qui? Perché non andate a fare una passeggiata in automobile, oggi che è una bella giornata? - Io non ne potevo più dalla rabbia. Tirai fuori la cipolla e gliela stropicciai forte forte sotto il naso e tutt' intorno alla bocca; ed era buffo il sentirlo agitar gambe e braccia dentro il cassone dov'era chiuso, senza poter difendersi in nessuna maniera, e vederlo fare con la faccia le più ridicole smorfie, cercando di gridare, ma inutilmente, perché l'odore acutissimo della cipolla quasi lo soffocava... - Ed ora, - gli dissi - se permette, vado a far una giratina in automobile! - E me ne venni via, richiudendo la porta della stanza. Stamani ho saputo che, passata l'ora del bagno gli inservienti andarono per levarlo dal cassone, e vedendolo col viso rosso e tutto in lacrime, chiamarono d'urgenza il professor Perussi che esclamò subito: - Questa è una crisi nervosa... Presto, fategli una doccia... - E il signor marchese fu inaffiato ben bene, malgrado le sue proteste e le sue grida, le quali non facevano che confermar sempre più il professore nella sua opinione che si trattasse di una terribile sovraeccitazione nervosa. Inutile dire che il professor Perussi si è affrettato a informare dell'accaduto il suo amico e mio cognato Collalto, pregandolo di non mandarmi più a far la cura elettrica; ed è anche inutile aggiungere che il Collalto me ne ha dette di tutti i colori, terminando con queste parole: - Bravo davvero!... Gian Burrasca non poteva incominciar l'anno meglio di così... Ma in quanto a proseguirlo, caro mio, lo proseguirai a casa tua, perché io ne ho abbastanza! -

- Non solo l'ha visto, ma prima hanno discusso a lungo, lui e il babbo, se conveniva di farlo, e da ultimo hanno deciso di sì, perché, come ha detto il Maralli, il suo zio nel testamento stesso dichiara che lascia eredi i poveri in ossequio alle idee del nipote e sebbene abbia scritto questo per canzonarlo, da chi non conosce come stanno le cose può essere preso benissimo sul serio. "Almeno," ha detto il tuo cognato "avrò avuto un utile morale!...". - Sicché ha approvato tutto? - Ha approvato? Altro che! Anzi, il principio dell'articolo lo ha scritto il Maralli stesso... - Io sono rimasto di stucco: ma Gigino Balestra, che è più infarinato di me di cose elettorali, mi ha detto: - Ti fa meraviglia? Non è nulla ancora! Ora, vedi, incomincia la polemica con l’Unione Nazionale sentissi che cosa non si dicono!... Ma il babbo, mentre gliene scrive di quelle da levare il pelo, ci ride e ci si diverte... Se il mio babbo non facesse il pasticciere, sarebbe un giornalista di prim'ordine, lo dicono tutti: ma lui dice gli rendono più i pasticci con la crema che quelli scritti! - E come anderà a finire l'elezione? - Eh! Il Maralli ha tutte le probabilità di riuscire perché c'è l'unione dei partiti popolari... - Meno male! - Bisogna che dica la verità; io avrei piacere che il mio cognato fosse eletto deputato. Perché? Non lo so neppur io precisamente; ma mi pare che avere un deputato in famiglia sia una cosa utile e da averci delle soddisfazioni, e ho in idea che se il Maralli riuscisse, mi perdonerebbe; e allora mi piacerebbe molto d'andar con lui nei comizi elettorali dove tutti urlano, anche i ragazzi, senza che nessuno li sgridi… - Anzi, - mi ha detto Gigino - più che si urla e più ci hanno piacere. Se vuoi venire domenica si va a Collinella dove c'è una gran fabbrica con di molti operai e lì il babbo vuole che si gridi: Evviva la lega! - Ci anderei volentieri, ma non so se il babbo mi ci manderà... Vedremo.

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

683200
Brigola, Gaetano 1 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
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Il Torre vuole che in esso questo santo abbia ricevuto le acque battesimali dal vescovo Ambrogio; ma è più facile il credere che fosse uno dei due battisteri che erano in que' tempi in Milano per dare l'acqua lustrale ai primi cristiani. Di contro all'atrio di Ansperto vedesi la chiesuola di San Sigismondo, presso la quale abitò, dall'anno 1353 al 1355, Francesco Petrarca. Prendendo la via per andare a San Vittore, giunti al ponte, dove il Naviglio disvolta alla Porta Ticinese, scorgesi una torre che conserva ancora tutti i caratteri di opera fortilizia. Essa è avanzo della pusterla di Sant' Ambrogio, eretta l'anno 1171. Fu a questa porta che Gian Galeazzo Visconti fece, il 0 maggio 1385, a tradimento, prigioniero lo zio Barnabò coi figli di lui Rodolfo e Lodovico. Macello pubblico. _ In vicinanza di questa torre presentasi la nuova via Olona, in fondo alla quale è il Pubblico macello. _ Ha questo edificio forma rettangolare, e la superficie complessiva di oltre 37,000 metri. La fronte principale prospetta la via di San Calocero. All'ingiro si trovano, oltre i locali per l'amministrazione, per la Questura e per la Finanza, le stalle di deposito per le bestie, i magazzeni, il macello di ovini e le tripperie. Al centro il parco col padiglione per l'esazione delle tasse; a ponente il macello dei suini, i porcili, il locale delle macchine per l'innalzamento delle acque al serbatojo e per lo sviluppo del vapore. Le celle macellatorie per le bestie mastre e soriane costituiscono quattro corpi di fabbricati isolati fra loro e suddivisi da strade coperte. Le celle macellatorie sono di varia dimensione ed assegnate a seconda dell'importanza de' macellai. L'acqua viene distribuita ad ogni singolo locale mediante tubi sotterranei. Fu costrutto nell'anno 1862 su disegno dell'ingegnere civico cav. Agostino Nazari per cura del Municipio, a spese di una Società privata.

Il maleficio occulto

684179
Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

Tu crederai ch'io esca dalle braccia di Clara, ch'io torni da un convegno, ch'io abbia ancora nelle carni il profumo di alcova.... Oh imbecille!: per te, ho fatto di meglio: ti ho strappato lo sgabello di sotto i piedi, come si usa coi pari tuoi, quando si lanciano nel vuoto..... Ho distrutto il tuo paziente edificio d'ipocrisia e di menzogna: ti ho tolta la maschera, o uomo dal rostro inquietante! E seguitai a parlare, avviandomi a casa, in preda a un'alterazione di nervi, forse conseguenza della grande stanchezza. Eran le quattro del mattino. Gettandomi sul letto, non chiusi occhio. Avevo nelle vene e nei polsi un'inquietudine divorante: pensavo che la donna, sola, abbandonata a se stessa, poteva ricader nei dubbi, trovar delle lacune in quanto le avevo narrato, esser ripresa dalla necessità volgare delle prove. Se, per caso, il barone avesse potuto riavvicinarla, s'ella si fosse lasciata sfuggire una parola, un accenno, egli avrebbe trovato chi sa quali frasi, chi sa quali gesti, per distruggere a sua volta la mia opera! Quantunque la riamassi d'un tratto con l'impeto di mille fiamme, io non nutriva illusioni sul carattere di Clara. Era facile alla passione; mobile, intelligente, nervosa, s'assimilava agevolmente le idee altrui e le riviveva con intensità; un uomo forte e imperioso la dominava. Io aveva, anzi, perduto il suo amore per questo: la tenerezza soverchia m'impediva di dettarle la mia volontà, e non sentendo il freno, non avendo a temermi, a poco a poco s'era trovata libera e indipendente. In realtà, non aveva alcun bisogno di me, per essere sola; così ella m'aveva detto un giorno, molto tempo addietro, con la sincerità crudele e rara ch'ella metteva in tutte le cose sue. Nella mia implacabile ostinazione stava dunque il segreto della vittoria: ripetere, rammentare, approfondire indelebilmente nel cervello di Clara la convinzione del maleficio occulto di cui l'uomo era stato capace: far balzare dall'ombra il misfatto che vi si celava, perché sfolgorasse agli occhi di lei come stava intero innanzi agli occhi della mia mente; l'opera caparbia e tenace che mi spettava. Ma non ebbi nemmeno a cercarla, Clara. Quel medesimo giorno in cui l'avevo lasciata sull'alba, la vidi giungere da me, verso il tramonto. Io abitava in due camerette, Lungarno Acciaioli, e stavo alla finestra guardando il fiume bieco e giallastro per recenti pioggie. I colori sul Ponte Vecchio, sulle case antiche di fronte, e giù, a destra fino a Ponte alla Carraja, avevano una delicatezza squisita; e quella luce, quell'ora, quella torpida calma, svelavano l'anima della città, in altri giorni così cupa e veemente di passioni insaziabili. Vidi giungere Clara; la vidi alzar la testa e sorridermi: qualche passante levò la testa pure, guardando ov'ella guardava. - Che cosa avviene? - le dissi, correndole incontro per le scale, come un ragazzo. - Nulla; son venuta a trovarvi - ella rispose, mentre continuava a salire. - Vi spiace? E quando fu nella mia camera, ella seguitò: - Alle cinque è venuto il barone: gli feci dire ch'ero indisposta; egli restò a gironzare per via Tornabuoni; io allora mi son vestita e sono corsa qui, fingendo di non vederlo, ritto innanzi a un caffè. Egli mi segue, naturalmente. Dalla finestra potreste scorgerlo certo. - Grazie! - mormorai. - E' inutile ch'egli veda me. - Avete ragione - disse Clara tranquillamente sedendosi. - Egli deve credere che mi siate corso incontro abbracciandomi, baciandomi, portandomi in giro per la camera, come una statuetta di gesso. Rimarrò qui un'ora, un'ora e mezza, quanto basta. - Quanto basta a che cosa.? - domandai. - Ma.... a convincerlo ch'io vi amo più che mai.... - Per bacco! - dissi ridendo. - Vi ha vista entrare quì; che cosa potrebbe imaginare se non un convegno? Rimanete anche fino a stanotte, se vi par necessario. - Ah no, per esempio! - esclamò la giovane. - Sapete che non ho ancora dormito un istante? Dopo il vostro racconto, avevo quasi paura, lo confesso: ogni scricchiolar di mobili mi dava un colpo al cuore. Vedevo ladri e assassini ovunque. - Tanto più che il barone stava ad aspettarmi in istrada - interruppi. - Davvero? - disse Clara con un gesto di meraviglia. - Era facile prevederlo; voleva sapere esattamente quanto sarebbe durato il nostro colloquio e per questo rimase appostato fino alle quattro di stamane. - E vi ha veduto uscire di casa mia? - Se io ho veduto lui....! Non è arrivato in tempo a scantonare, ed io lo riconobbi. - Clara stette silenziosa un poco; quindi osservò: - Se l'avessi saputo, vi avrei risparmiato la noia della mia visita. - Repetita juvant Un colloquio fino a tarda ora della notte poteva anche insospettirlo: la vostra visita, oggi, ha invece la forma di un convegno amoroso, un po' ardito; i sospetti natigli ieri, oggi prendono tutt'altro colore; non teme più ch'io vi dica ciò che so di lui! crede di trovarsi innanzi ad un rivale qualunque.... E' una cosa diversa. Clara si guardò attorno. - Sapete, - disse improvvisamente, - son venuta qui senza avvisarvi, perché voi mi assicuraste mille volte che non ricevete nessuno; per ciò non ho temuto d'interrompere qualche visita più divertente. - Avete fatto benissimo, osservai. - Ora avete la prova che non ho mentito. Per voi la casa è aperta a qualunque ora. Ma non potremmo lasciar le cerimonie inutili, Clara? Seguitate a scusarvi, come se aveste sbagliato l'uscio..... La donna sorrise..... - Mi date un libro da leggere? - domandò, guardando la biblioteca aperta. - Un'ora e mezza sarà lunga. - Non volete parlare con me? - chiesi alla mia volta. Clara tornò a sorridere; parve impacciata. - Avete detto di non far cerimonie. - rispose. - Ebbene, senza cerimonie, vi assicuro che preferisco leggere. Non vi offendete; siete un bel parlatore; ma preferisco leggere. - Come volete, - dissi. - Ed io tornerò alla finestra. - No, alla finestra no! - interruppe Clara. - Il barone è nella via, a spiarci.... Se vede voi alla finestra, non ci capirà più nulla! - E' vero - osservai ridendo. - Io devo portarvi in giro per la camera, come una statuetta di gesso! Da tanto tempo ho perduto queste abitudini!..... Che libro desiderate? - seguitai, avvicinandomi alla biblioteca. - Il primo che vi viene sott'occhio. Nel recarle il libro le diedi uno sguardo. Era vestita di nero. - Cotesto abito lo conosco, - dissi. - L'avevate alle Cascine, ieri quand'eravate in carrozza con lui. Vi sta molto bene. - Si, mi sta bene - ella ripetè, guardandosi istintivamente la gonna e le maniche. Si levò, si mise dentro la luce dorata del tramonto che prorompeva nella camera dalla finestra aperta. I capelli scintillarono; la figura scultoria rimase un breve istante incorniciata in quella luce di fiamma. - Ho visto, ho visto! - dissi, mordendomi le labbra per non annoiarla con qualche frase di rammarico. Ella tornò a sedere e cominciò a leggere; io, in una poltroncina molto lungi dalla sua, fumavo, guardandola di tratto in tratto. La mia statuina di gesso faceva una lettura assai disattenta; era preoccupata: le mani a poco a poco le si abbandonavano col libro, ed ella si perdeva a pensare, gli occhi sbarrati nel vuoto. - Pare un sogno! - esclamò di repente. - Che cosa? - domandai con inquietudine. - Che cosa? Tutto! Tutto pare un sogno; da stanotte, mi sembra di vivere una vita nuova..... Chinò la testa sul libro e continuò la lettura. - C'è la finestra con le persiane spalancate, - osservai dopo qualche tempo. - Ciò non si usa in un convegno. Volete che chiuda? Accenderò il lume. - No: mi fa melanconia - rispose la giovane, continuando a leggere. - Piuttosto, avete chiuso la porta a chiave? - Me ne sono dimenticato. Del resto, è un particolare ch'egli ignorerà. - Non si sa mai..... - mormorò Clara, senza alzar gli occhi dal volume. - Supponete che egli abbia l'imprudenza di salire in casa mia? - La gelosia non ragiona. Io mi misi a ridere. - A quest'ora - dissi - un uomo geloso mi avrebbe già provocato. Clara depose il libro vivamente sulle ginocchia e fece un gesto di paura. Mio Dio, - proruppe. - A questo non avevo pensato! Sì, egli può provocarti, batterti, ucciderti! Come non ho pensato a questo? Ho commesso una imprudenza stupida, e tu ne avrai le conseguenze più dolorose. Io lo irrito, lo esaspero, ed egli non può nulla contro di me. A chi farà scontare la sua rabbia? A te certamente. Come non ho visto una cosa tanto semplice? Adagiato nella poltrona, io la lasciava parlare, compiacendomi egoisticamente di quella sua affezione che prorompeva. Ella agitatissima, e parlando, mi guardava quasi per implorare un conforto, una parola che la rassicurasse; io ascoltava, godeva e taceva. - Ti farà del male, di'! - ella seguitò. - Due uomini che si odiano sono terribili: e voi vi odiate furiosamente. Ah, che cosa ho mai fatto, amico mio! Ho giuocato la tua vita, come una pazza! Egli può ucciderti. Ecco in qual modo io ti ringrazio. Ah, quale follìa ho commesso! Ma io gli dirò che non ti amo: che vengo qui per isfuggire lui, non per essere la tua amante. Glielo dirò oggi stesso, ora, subito....... Devo salvare te, prima di tutto. - Clara! - esclamai, vedendo ch'ella si levava in piedi e si dirigeva alla porta. La giovane si fermò. - Che vuoi? - chiese. - Non c'è tempo da perdere: egli può provocarti quando esci di casa. Ora vado da lui e gli parlo. - Clara - mormorai - non ti credevo tanto sciocca. La poveretta restò presso la porta come fulminata. - Sì, sciocca - seguitai crudelmente. - Bisogna essere sciocchi per supporre che colui venga a cercarmi. Egli non farà nulla, egli non agisce mai per conto proprio, direttamente; è una bestia viscida e tu lo temi come un leone furibondo. Siediti, va! Non commettere altre ragazzate. Sei qui: rimani; egli deve credere che tu sei la mia amante; farglielo credere. Non lasciarti prendere da tenerezze ridicole. Dal modo con cui ella tornò a sedersi, umile e sommessa, compresi di avere trasmodato; ma la mia ira non si calmò. - Del resto, - soggiunsi - pensi che queste inquietudini mi commuovano molto? Sei la sorella, tu; me lo dicevi anche ieri. Ma io non posso essere un fratello, per te, e la tua affezione casta m'irrita. Non mi ami, ma mi vuoi bene: quali invenzioni, che piccinerie, che puerilità! Se mi uccidono, sarai disperata perché ti è morto il fratello d'anima! Quanto è goffo tutto questo; che settecento irrancidito, che smorfiette isteriche!.... - Eppure - susurrò Clara - se ho torto, potresti perdonarmelo. - Perdonare non è tacere, - osservai freddamente. - Prima ti dico quel che penso, e poi ti perdono! Quanto a me, non avere inquietudini..... Sarebbe troppo risibile ch'io mi facessi ammazzare per una sorella di passaggio. Ah, la frase volgare m'era scappata! Mi morsi la lingua troppo tardi, e mi serrai furiosamente le mani per richiamarmi alla realtà, al rispetto, al dovere. Ma mi giunse quasi in un soffio la voce di Clara, dolce, stanca, velata di lagrime: - Che posso fare di più? Quando vuoi, sono tua, anche ora. Ti devo tutto: mi hai salvata. Dimmi che mi vuoi, e sono cosa tua. - Morta, fredda, senz'anima, morta, fredda, - mormorai. Clara prese il libro e continuò la lettura. - Lo sapevo - ella disse - che non si può parlare con voi. Vi avevo pregato di tacere. - Verrai anche domani? - - chiesi, impaurito ch'ella mi sfuggisse. Devi venire qua, se vuoi che la finzione abbia un significato. La giovane dissimulò a stento un sorrisetto malizioso. In realtà, continuando con quella commedia, il barone avrebbe finito per credermi il più indomito amatore del secolo. Guardandoci negli occhi, vi leggemmo lo stesso pensiero, ed io mi arricciai i baffi per trattenere qualche parola piena di rimpianti. - Verrò, - ella disse, - s'egli verrà a cercarmi, benchè non creda che vi divertiate molto. Non penso a divertirmi, ora; penso a rendere impossibile il vostro matrimonio, senza provocare spiegazioni difficili fra voi due. Tacemmo: io mi avvicinai alla finestra e guardai cautamente giù, sul Lungarno. Il barone non si vedeva, forse stava celato in un negozio vicino, indugiando fino al ritorno di Clara. - Non andartene così, - dissi, vedendo che la donna si levava, e abbassava il veletto del cappellino - Aspetta ch'io chiami una carrozza. - Ma sono a due passi da casa mia, - ella obiettò. - Non importa; di costui non mi fido. In un istante son di ritorno..... Uscii: il barone seguitava ad essere invisibile; tornai con una carrozza chiusa; ciò era più romantico. La giovine vi saliva qualche istante appresso, ed io, dalla finestra, seguii dello sguardo la carrozza che si allontanava rapida e voltava per via Tornabuoni. - Anche voi siete fraterno, nelle vostre idee, - ella m'aveva detto, stringendomi la mano, e partendo. E il complimento, nello stato in cui mi trovavo, non poteva essere più sarcastico.

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