Questa definizione io accetto volentieri, perché sarà facilmente dimostrabile che i clericali non siamo noi. Sapete chi era un clericale, secondo questa definizione? Era clericale il sommo sacerdote Caifas, il quale abusò della religione per mantenere la sua influenza ed accusò Cristo di ribellione alla religione ebrea ed al popolo romano, confondendo religione e politica a seconda che gli giovava. Ma non siamo clericali noi seguaci di quel Cristo che insegnò: «Date a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio». Era clericale, per venire a tempi più vicini, don Abbondio che per paura di don Rodrigo abusava del suo posto per tradire due poverelli che chiedevano la benedizione della religione al loro matrimonio. Era un clericale don Abbondio che non si ricordava dei superiori che per abusarne. Ma non sono clericali i nostri preti che col coraggio di fra Cristoforo affrontano le ire dei signorotti, non sono clericali i nostri sacerdoti che anche nella vita pubblica lavorano in un solo spirito coi loro superiori. E osservate la cosa strana; agiscono da clericali quei sacerdoti i quali sono in stretto accordo coi liberali, Caifas strinse alleanza con Pilato e Pilato è il prototipo dei nostri governanti liberali. Don Abbondio agì da clericale quando si piegò alle voglie di don Rodrigo, e don Rodrigo era un liberale di tre cotte, uno di quei signorotti ch’esistono anche da noi, i quali se non mandano in malora un matrimonio hanno però la forza di impedire la formazione di una cooperativa, di una società operaia! L’oratore passa quindi a dimostrare in che consiste invece il cosiddetto clericalismo dei cattolici per concludere che il nostro clericalismo non è che la difesa e la rappresentanza degli interessi religiosi nella vita pubblica. Di fronte a questo nostro programma anche la classificazione dei partiti trentini diventa più facile e più proficua.
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Non è per noi una novità quella che ho esposto nel duplice aspetto della organicità delle riforme statali e dello spirito animatore, la libertà; gli altri si meravigliano che noi parliamo in nome della libertà, negano che il nostro sia un programma specifico del pensiero popolare; trovano anzi che tutto ciò può rispondere alle linee democratiche o essere accetto anche a socialisti; e che, per giunta, non risolve la crisi dello stato. Anzitutto non nego che le idee della proporzionale, del voto alle donne, del senato elettivo, dei consigli centrali tecnici, del decentramento amministrativo, dell'autonomia locale, della costituzione della regione, del riconoscimento giuridico delle classi, siano patrimonio di studiosi e di uomini politici fuori del campo popolare, e possano essere oggetto di riforme legislative propugnate da vari partiti; quello che però manca in molti è la comprensione organica di tali riforme, la ragione finalistica della loro coesistenza e ampiezza e lo spirito animatore del criterio di libertà morale, organica ed economica, che vi si deve portare. E questo è il merito per noi e la missione del partito popolare italiano; è lo slancio di fede che vi mette per le grandi sorti e l'avvenire della patria, il metodo costante, sicuro di realizzazione e di conquista.
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Così a spiegare i termini che uso nei miei discorsi come popolare mi proclamo democratico, anzi democratico-cristiano, eciò risponde alle premesse teoriche già esposte; e per le stesse premesse combatto lo stato democratico-panteista; accetto, anzi sostengo la libertà, ne esalto il motto di combattimento «libertas» preso dal partito popolare italiano, inserito nello scudo crociato, e combatto la concezione liberale individuale antiorganica, atomistica, che si fonda sulla sovranità popolare come fonte assoluta di diritto.
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