Le signorine di adesso sono, in generale, abbandonate al loro buon senso. Per certo il buon senso delle nostre signorine, si è ora sviluppato e educato in ragione diretta delle esigenze e dei desideri della attuale società. Con tante scuole, tanti studi e conferenze e libri fatti a posta per esse, c' è da essere sicuri, che almeno il buon senso abbia acquistato una certa finezza. E il buon senso è come il direttore di tutte le facoltà morali; le quali se si lasciano da esso guidare e dirigere, rigano diritto senza manco una piccola deviazione. Cosi questo bravo direttore, che ha, prima di tutto, imparato a regolare sè stesso, suggerisce alla signorina, il tempo opportuno e il modo conveniente di muoversi, di parlare, tacere, far mostra di non aver capito, capire a volo : di essere contegnosa con gli uni e abbandonarsi con altri a gentile confidenza. Le sussurra i suoi avvisi, i suoi consigli. Oh se le signorine ascoltassero sempre gli avvisi e i consigli del buon senso!... quante delusioni, quante amarezze e mortificazioni e rimproveri eviterebbero! Non vedrebbero nei complimenti diretti alla loro bellezza, al loro spirito, che una cortesia raffinata, quasi gentile menzogna; non crederebbero con cieca fidanza alla sincerità di certe occhiate, di certe strette di mano, di certe paroline armoniose come una musica soave; non intascherebbero come moneta sonante gli applausi fatti alla loro abilità come pianiste, mandoliniste, cantanti, declamatrici, ecc.; non commetterebbero certe mancanze, in urto con la civiltà pia elementare e qualche volta anche con il rispetto e la pietà.
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Io so d'una giovane istitutrice chiamata ad educare una fanciulla del numero di quelle, che non sanno, nè possono, nè vogliono volere; che sono abbandonate, senza difesa all'impeto delle passioni. Povere creature di cui la volontà è sempre vacillante, e instabile lo stato d'equilibrio; incostanti, mutevoli nei desideri, nelle idee, nelle affezioni. La grande mobilità dello spirito e delle disposizioni affettive, instabilità del carattere e delle idee, erano la ragione dell'impossibilità in cui si trovava la piccola allieva della istitutrice che io conosco, di fermare per qualche tempo l'attenzione su una letterina, uno studio, un lavoro qualunque. La povera piccina, non avendo alcuna forza di resistenza contro sè stessa, faceva subito seguire azione all'impulso. E da qui gli improvvisi scatti di sdegno e di collera, gli entusiasmi spiensierati, il subito abbandonarsi alla disperazione od alla pazza gioia, gli inconsiderati slanci d'affetto, le commozioni rapide, i bruschi trasporti, che le facevano pestare i piedi per terra, spezzare oggetti, battere perfino le persone, quando poteva. La fanciullina, passava da un giorno all' altro, anzi da un ora all'altra, anzi da un minuto all'altro con incredibile rapidità, dalla gioia alla tristezza, dal riso al pianto; in certi momenti ciarlava e blaterava da intontire; in certi altri si chiudeva in un mutismo uggioso; un momento era amabile, gaia, gentile; il momento dopo, di un umore pessimo, irascibile, prendeva tutto a traverso, brontolava, si annoiava e annoiava. Spesso prendeva in uggia le persone cui il dì prima aveva dimostrata una simpatia chiassosa e adorava altre che prima sfuggiva. La sua sensibilità si esaltava per i più futili motivi, non si scuoteva alle dolci emozioni; era qualche volta impassibile al racconto di disgrazie lagrimevoli, e piangeva e si disperava per un nonnulla. A un rimprovero severo stava indifferente, e si rabbruscava per una semplice parola male interpretata e mutava in offesa il più semplice scherzo. Il compito della povera istitutrice non era punto facile e se in esso perseverava, è che per davvero era buona e forte. E per vero, prese a voler bene alla povera fanciullina stenta e gracilina, si interessò di lei e trovò che il suo cuore non era punto punto cattivo. Pensò che con una intelligente cura igienica, rafforzando in essa il fisico, sarebbe riuscita a rinvigorirle le facoltà morali, a renderla capace di volere, a educare la sua volontà. E, prima di pensare a renderla buona, lei, che aveva buon senso, si accinse a curarla pazientemente per rinvigorirla; aveva la convinzione, che una volta sana e robusta, sarebbe diventata una fanciulla a modo. Per prima cosa cercò di guadagnarsi l'affetto della piccina insieme con la sua confidenza, senza i quali non avrebbe in nessun modo potuto esercitare la sua influenza morale, nè guidar l'allieva a sua guisa, con l' autorità, che la gentilezza e affettuosità celano, ma non diminuiscono. Forte ne' suoi propositi, ella pensava, che è da tutti, educare una bambina sana e buona; ma che è solo delle nature energiche e generose, il rafforzare e correggere una povera creatura malaticcia, debole e viziata.
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Se siete stanchi, abbandonate tosto la galleria o il museo, e non disturbate col vostro viso stanco ed annoiato gli altri interessati.
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Abbandonate il negozio ringraziando affabilmente per la fatica. Negozianti o commessi beneducati non daranno mai a divedere il loro malcontento per la non riuscita dell' affare, anzi con doppia affabilità tenteranno di persuadervi a venire ancora altre volte. E' invece un'azione inurbana e sfacciata farsi mostrare mezzo negozio, sapendo
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Non abbandonate la tavola mai senza una conveniente ragione e dimandate il permesso quando lo dovete fare. Fino il pranzo aspettate ad alzarvi che n’abbia fatto cenno il capo della tavola. 21. è pur lodevole costume di chiedere a’commensali se han pranzato bene. Questi consigli non eran mai dimenticati da Enrichetto e più scrupolosamente poi eran praticati quando v’erano forestieri a pranzo, oppure quando andava egli a pranzo in casa altrui.
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Famiglie cariche di ragazzi viventi sulle braccia del padre o della madre; infermi senza modo di sussistenza; donne abbandonate senza pane da' mariti giuocatori e scioperati! eran lacrime in tutte quelle case! Ma la Bettina s'adoperava per renderle meno amare; teneva d'occhio i ragazzi di questa, che andava a opera tutta la giornata; portava un po' di brodo a quella, una minestra a quest'altra, e per tutto una parola di conforto; pareva l'angelo tutelare di quelle soffitte. Quando, poveretta, cadde essa malata! Era sola, nessuno poteva badare a lei, nessuno accenderle un po' di fuoco; onde voleva farsi portare all'ospedale. Ma i vicini: o che! Noi non siam buoni da nulla noi? O sì che vogliamo veder questa, lasciarci portar via di qui il nostro buon genio! Che volete andar a confondervi in un ospizio? là in mezzo a tutti quei letti siete di nessuno! E tutta quella buona gente si divise le cure e non le si lasciò mancar nulla. Era cosa che consolava l'animo veder quella donna, che non aveva più nessuno al mondo, fatta oggetto di tante premure! Enrichetto, chè egli era il medico fatto chiamare, in quella soffitta si sentiva come in un ambiente caldo di amore, e n'era riconfortato. Ogni volta che volgeva qualche parola di lode alle assistenti, si sentiva rispondere: o che, la Bettina faceva ben più per noi; se non fosse di lei tanti e tanti non potrebbero più tirar innanzi; la si pensi che ella era capace di passare le intere notti a' nostri letti; e i suoi guadagni dove se ne andavano? Essa avrebbe potuto far la signora, e ora non ha manco un soldo; tutto consumato in queste soffitte a nostro vantaggio. Proprio sotto la stanza di Bettina, come se Dio avesse voluto mettere a riscontro il buono e il cattivo cuore, cadde malato, quasi nello stesso tempo, un uomo, conosciuto col nomignolo di Raffa. Posto sotto la cura de' poveri, Enrichetto l'andò a visitare. Che differenza dalla ordinata, pulita e tiepida cameretta della Bettina! Una stanzaccia senza mobili, da una tavola sdruscita in fuori e un lettuccio di legno tarlato; le pareti nude e sgretolate, senza fuoco acceso e senza legna per accenderlo; si sentiva un ambiente freddo, uggioso, opprimente. Il medico s' accostò al letto, e sur un guanciale sudicio e mal disposto vide una testa calva, del color dell'avorio ingiallito dal tempo, due occhietti grigiognoli, spenti, sprofondati in occhiaie cave del color del piombo; i zigomi sporgenti davano una conformità alla faccia come se l'avarizia vi avesse impresso su il suo ritratto; e veramente del color del rame ne era la pelle tirata sugli ossi, che si potevan contare. Nessuno intorno al letto, la portinaia che l'aveva accompagnato era subito scomparsa; onde Enrichetto, mosso a pietà, veniva interrogando l'infermo, il quale con voce fioca e stenta esclamava: brutta cosa la miseria; tutti s'allontanano! Il medico lo confortò, e visto che il male non era prodotto che da mancamento di cibo e da prostrazione di forze, gli fece coraggio e cercò di aiutarlo come meglio sapeva. Andò di sopra e si volse ad una di quelle donne che vide tanto caritatevole verso la Bettina, e la pregò a voler anche dar un'occhiata a quell'infelice di Raffa. — A chi, rispose quella con sdegno mal represso, a quel brutto mostro d'usuraio, che, ricco sfondato, lascia morir di fame i suoi parenti, nè farebbe limosina d'un soldo se fosse per morire? A queste parole restò meravigliato Enrichetto, e più ancora quando venne a sapere come quel miserabile dal nulla, a forza di usure e di ruberie, fosse venuto ad ammassare un ricchissimo capitale. — E con tanti denari, continuava la donna, cada il mondo, non spende un soldo; vive di radiche d'erbe e pan muffito. Aveva preso con sè una nipotina perchè gli governasse la casa, ma perché mangiava troppo, subito la rimandò. Non vuol veder nessuno intorno a sè, sospettoso, malfidente se v'e n'è uno. La Bettina quanto aveva era nostro, seguitava essa, ci aiutava, ci vuol un bene a tutti.... è giusto che non la dimentichiamo nemmeno lei, ma quello lì non che aiutarci,ci avrebbe spogliato di questi pochi cenci che abbiamo attorno! È malato, nessuno l'accudisce? Dio è giusto, viva nel deserto che s' è fatto intorno a sè. Che ne seguì? Bettina dopo poco fu pienamente ristabilita in salute; Raffa, a cui nulla potevano giovare le prescrizioni del medico, perchè per non spendere non n'eseguiva alcuna, poco appresso morì. Nessuno lo pianse, nessuno ebbe una parola di compassione per lui. I denari, gli osservava Enrichetto per spingerlo a servirsene, non sono beni, ma solo rappresentanti de' beni, sono non il fine, ma il mezzo e lo stromento per soddisfare a' nostri bisogni; ma era un dir a sordo. I nipoti colla più schietta allegria, ne fecero i funerali, e l'oro con tanti stenti accumulato, in breve sfumò. È il caso di riferire il detto del Vangelo: male parta male dilabuntur; che si può tradurre nel volgare proverbio:La farina del diavolo va tutta in crusca, od anche in quest'altro: Quel che vien di ruffa raffa, se ne va di buffa in baffa.
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Voi dite che gli altri pagan di più e fan lavorar meno; bene, abbandonate questa fabbrica, e andate là. Questo è mezzo legale: e quando il vostro padrone vedrà disertare la sua manifattorìa, penserà meglio a' casi suoi. — Ma il nostro principale, saltò su il primo, ha fatto i milioni col nostro lavoro; è una solenne ingiustizia lui in feste, e noi mancar fin di polenta. — Ebbene, di ripicco Enrichetto, seguite pure nello sciopero, che pro ne avrete? Il vostro principale cercherà altri operai, e ce n'è a iosa, e voi resterete sul lastrico con un palmo di naso, e colle vostre grida in gola, e dopo una settimana andrete di nuovo a domandare per carità, che vi si accetti a qualsiasi condizione. E poi, quanto tempo è che lavorate a tali patti? Siete sempre stati contenti, e ora..... Sapete perchè v'inalberate? Perchè qualcheduno, cui torna a conto che si facciano scandali, vi venne a sobillare; e voi siete ciechi stromenti di non so qual ambizione. Ragioniamo qui alla grossa fra noi, col semplice buon senso. Ora voi avete disertata la fabbrica, e continuerete così una settimana. Voi siete ben lungi dal calcolare i danni che portate a voi e all'industria nazionale. Le macchine non vanno più, il lavoro non si finisce,il fabbricante compera tanto di meno di seta, di lana e via; le materie prime perdono un tanto di valore, e il povero contadino, il bracciante s'affatica invano. Oltreciò l' opera mancata fa sì che il consumatore si volga altrove e anche a fabbricanti stranieri, e quindi minore ricchezza e minore prosperità nella nazione. — Ma intanto, interruppero gli operai, mettiamo in impaccio il fabbricante, e avrà somma grazia di far buon viso alle nostre domande. — Adagio, miei cari. E se il vostro fabbricante, stizzito dalle vostre pretese, si appagasse della già fatta fortuna, e chiudesse la sua fabbrica, e vendesse le macchine?.... Ma facciamo che questo non accada, il vostro principale però sapete che è ricco, che ha scorte; può dunque aspettare. Ma voi, voi non avete scorte, perdete una settimana, son nove lire di meno, che entrano nella vostra case, mentre dovete pur mangiare e quindi consumare senza produzione; anzi stando in ozio e in isciopero, consumate ancora di più, le taverne se ne consolano. Ora mettiamo pure che il vostro principale faccia ragione alle vostre domande, e paghi dieci centesimi in più le vostre giornate, sapete quanti giorni dovete lavorare per compensare il perduto? Tre mesi, capite? Dunque conchiudiamo, invece di dar retta alle subornazioni, che vi han posti sulla mala via, dovevate venir a questo partito: eleggere tre o quattro fra i vostri compagni, quelli che hanno una certa autorità per condotta e per intelligenza, mandarli al padrone ad esporre le vostre ragioni con dignità e con calma. I padroni, se sono prudenti, e vedono una domanda equa, la prenderanno in esame, è del loro interesse accondiscendervi. In questo modo voi senza perdere tempo, senza fare uno scandalo, senza dare cattivi esempi a' vostri figli venivate nel vostro intento. — Ma se il padrone avesse fatto orecchie da mercante? Obbiettarono gli altri. — Allora pazienza, riprese Enrichetto; ciascheduno di voi doveva aspettare il suo bello, continuare a lavorar in pace, e nello stesso tempo cercare dove le paghe fosser maggiori, e appena venuto il colpo piantarlo lì. — Lei, signor dottore, parla bene; ma intanto le par giusto che noi ci leviam la pelle dalle mani per ingrassare il nostro padrone? Perchè sono i nostri sudori che fan crescer le casse del principale; senza di noi non potrebbe far nulla; e noi siam nella miseria, fino agli occhi,e lui va in carrozza. Bella giustizia! le son cose che urtano il senso comune. Al diavolo lui e tutti i fabbricanti del mondo. — Acquietatevi, voi vi lasciate ingannare dalle apparenze. Ma se non vi fossero i fabbricanti, se non vi fossero i ricchi, chi farebbe lavorare i poveri, chi li pagherebbe? — Oh, è qui che lo vogliamo, risposero con aria di trionfo gli operai, se non ci fossero ricchi, non ci sarebbero più poveri; tutto quel danaro, tutte quelle proprietà che hanno usurpato a danno degli altri si distribuirebbero ugualmente fra tutti; chè tutti in fin de' fini siamo uguali. E da quand'in qua due o tre dovranno essere felici e tutti gli altri diseredati? Abbiamo sentito ripetere da quei che sanno, che il guadagno, che i padroni fanno sul nostro lavoro, a buona giustizia dovrebbe essere spartito fra noi operai... — Già, i padroni dovrebbero star paghi di procurare a voi lavoro senza punto di lucro per sè; loro deve bastar la gloria! — Ma lei non bada che se si spartissero le ricchezze non vi sarebbero più padroni. — E allora come fondar laboratorii, come comprar macchine senza capitale?... — Il capitale è il nostro lavoro. — Sentite qui: voi, da quel che intendo, vi siete lasciati imbeccherare da qualche cervello balzano, che ha studiato il diritto commerciale e le dottrine sociali alla carlona per confondere le teste che non han studiato. Ora, sapete voi che cos'è il capitale? È il risparmio sul guadagno del proprio lavoro, e non il lavoro, come voi dite. Ora ascoltatemi bene, il vostro padrone, ad esempio, come venne ricco? Trent'anni fa, me lo disse egli stesso più volte, era semplice operaio, come voi adesso; ma lavorando con buona volontà e non sciupando il danaro, come tanti che conosco io, nelle taverne a ubbriacarsi, fece qualche risparmio, e in questo modo incominciò a raccozzare un po' di capitale, che investì nella fabbrica. Appresso il padrone suo, per premiare e l'intelligenza e lo zelo suo nell' adempiere al proprio dovere, lo fece direttore della fabbrica. Quando poi quegli volle ritirarsi dall'industria, il vostro principale aveva già tanto di capitale, che acquistò egli la fabbrica. Dunque vedete, che se ora egli è ricco è una ricchezza procacciata col santo sudore, della sua fronte. E adesso voi vorreste senza fatica di sorta andar a dividere con lui i suoi risparmi? Ditemi se la è giustizia! — Lei ha ragione, risposero un po' confusi i due lavoranti; ma chi nasce ricco senza punto aver faticato? — Costui, interruppe Enrichetto, eredita il risparmio de' guadagni del lavoro di suo padre e de' suoi maggiori. — E questa cosa par giusta a lei? Passi che uno goda i suoi guadagni, ma chi non ebbe altro merito che di nascere, pare... — Ah, ora siete proprio fuor di cervello, scappò fuori con impazienza il dottore. E per chi lavora il padre se non per la famiglia, per lasciar un po' d'agiatezza a' suoi figliuoli? Voi avete figli tutt'e due; e se ora col lavoro poteste far risparmio d'una trentina di mille lire, vorreste voi risparmiarle per i figliuoli degli altri? I figli nostri sono una continuazione di noi, sono noi, sangue nostro. I due operai si guardarono in faccia e si dissero: pare che il dottore dica bene. Ma poi stati lì ancora un poco pensosi, scossero finalmente il capo e proruppero: ora che lo sciopero è incominciato si debbe tirar innanzi. E fuggirono di lì senza dar tempo ad Enrichetto, che stava per offrirsi conciliatore tra gli scioperanti e il padrone; onde non potè che stringersi nelle spalle e profferir tra i denti:
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La maggioranza dei nostri «peccati» si consuma però nelle soste: auto abbandonate in doppia fila «per una commissione velocissima» o arrampicate sul marciapiede davanti alla scuola per non far fare al pargolo neppure un passo, o che ostruiscono quasi del tutto un passo carraio (mentre fingiamo di credere che «c'è ancora un sacco di spazio per passare»); oppure quando occupiamo, arrivando da dietro, il posto che un altro automobilista stava pazientemente aspettando, con tanto di freccia: un «furto con destrezza» di cui alcune signore sono vere specialiste, con I'istinto tipico del cuculo. Ultimo baluardo del galateo tradizionale delle quattro ruote è la sistemazione dei posti auto: alla persona più importante dovrebbe essere riservato il sedile accanto a chi guida, a meno che non preferisca sedere dietro. Se una coppia ospita in auto una signora, tocca alla moglie sedere dietro; ma se è lei che guida, il marito siederà dietro. E se l'ospite è un uomo? Il galateo direbbe di non cedergli il posto d'onore, ma secondo me è meglio decidere di volta in volta.
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. - Non abbandonate l'ospite a se stesso («io sto fuori tutto il giorno, fa quel che ti pare, ciao») ma non assillatelo con le premure: «Cosa vuoi fare? Stai comodo? Vuoi più luce? Ti metto una coperta sulle ginocchia? Sei certo di star bene? A cosa pensi? Hai l'aria stanca, come mai?» Come potrebbe non avere l'aria stanca con un trattamento del genere? - E infine non assumete, neanche se l'ospite è un ragazzo, un piglio militaresco («Svegliarsi! Alzarsi! Si va a tavola! Si esce! Si va a letto!»). L'ospite non è una recluta, e non è un bambino bisognoso di cure. È un amico che passa qualche giorno in casa vostra: lasciate che si senta libero (di sedersi, di alzarsi, di uscire, di dormire, di tacere). Non libero di fare i propri comodi infischiandosene delle esigenze di chi lo ospita: c'è sempre un modo (magari scherzoso, sempre amichevole) di far capire a un ospite indiscreto che la nostra casa non è un albergo e noi non siamo elettrodomestici.
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La sua vita ha preso un altro indirizzo e le abitudini goderecce vanno abbandonate. Per contro anche il fidanzato è tenuto a dimostrare alla sua fidanzata quell'attaccamento che lo ha indotto a presceglierla fra tutte.
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I gomiti devono essere sempre accostati al corpo e le mani, nei momenti in cui non sono "occupate" con le posate, non vanno mai abbandonate in grembo, cosa che invece avviene normalmente nei Paesi anglo-sassoni. Non agitatele sotto al naso del vicino di tavola, nel corso di una discussione, e non invadete la sua zona con gesti bruschi e sgraziati che possano disturbarlo mentre mangia.
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Se avete intenzione di educare fin da piccoli i vostri bimbi al piacere della spesa sono vostre scelte, ma almeno rendetevi conto di quanto fastidio possono creare a chi già fatica a muoversi nella normale ressa di adulti distratti; ✓ se la persona che vi precede in fila in pescheria ha dimenticato o non si è accorta di dover prendere il biglietto, non fate finta di nulla per fregarla, ma avvisatela o lasciatela comunque fare i suoi acquisti prima di voi; ✓ non abbandonate in giro cibi freschi se avete cambiato idea. Si guastano: lo spreco incide sui costi dei prodotti e sull'economia biologica del pianeta; ✓ quando siete alla cassa, interrompete la confezione dei sacchetti per pagare, quindi spostatevi di lato per proseguire, in modo da non ostacolare il pagamento del cliente successivo; ✓ i carrelli non sono cestini della spazzatura. I guanti per raccogliere frutta e verdura, le liste e altri rifiuti vari non vanno abbandonati lì dentro ma gettati negli appositi contenitori; ✓ le persone che lavorano nei supermercati non sono trasparenti. Salutarle, magari con un sorriso, è doveroso; ✓ infine una attenzione generale: se si ha tempo, perché in pensione o con orari di lavoro diversi dalla maggioranza, è bene cercare di evitare i momenti di maggiore affollamento del supermercato (dopo le cinque e il sabato). Non si tratta solo di una cortesia, ma di un banale accorgimento che potrebbe agevolare tutti. Perché in tanti paiono dimenticarsene?
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Procurate dunque di non distrarvi; non rivolgete la parola a chi vi sta accanto, non fate gesti che possano parere indizi d'impazienza, non tossite, non vi abbandonate insomma ad alcun atto che possa smentire quella premura che aver dovete per la buona accoglienza della lettura che vi vien fatta. Potete peraltro addimostrare la vostra approvazione, se vi sembra opportuno, ma coi debiti riguardi; chè se vi faceste a interrompere troppo spesso il lettore, potrebbe parere che andaste cercando una distrazione nella prodigalità degli applausi. Fareste eziandio cattivo servigio al lettore, se il vostro plaudire lo interrompesse in mezzo a un periodo di maggiore effetto e sul quale fondato avesse le sue più lusinghiere speranze. Non importerà avvertire quanto starebbe male che alcuni si ponessero a far crocchio da sè prima che una lettura sia giunta al suo termine. Le serate musicali presentano pressochè i medesimi inconvenienti, e richiedono le stesse cautele e non meno benevola attenzione. Vi avverrà talora di dover udire un pezzo di musica stentato, eseguito senza grazia, senza armonia; le vostre orecchie non devono mostrarsi infastidite dalle stonature; nè dovete far mostra di volervi astenere dai consueti elogi che peraltro nulla significano. Anche la civiltà ha certi obblighi talora gravosi, ai quali ciascuno, senza bisogno di mostrarsi servile o piaggiatore, deve per benignità e gentilezza d'animo sottoporsi. Il vestiario, per chi vuole debitamente fare onore alla comitiva, è cosa da farne conto; e soprattutto le donne devono saperlo adattare alla circostanza, e perfino alla forma dell'invito. Fuggano sempre ogni sorta di esagerazioni, ma non affettino trascuranza o dispregio delle più ragionevoli consuetudini. Se la grazia è necessaria per sapere assistere ad una riunione festiva, la modestia è ornamento ben più d'ogni altro pregevole. Non saranno mai troppe le cautele delle fanciulle in questo punto, e massime al loro primo comparire nella società. Sfuggano eziandio la estrema vivezza dei modi, l'arditezza degli sguardi, le risa smoderate, i sorrisi maliziosi, tutto ciò insomma che richiamar potrebbe attenzione sopra di loro. Siano disinvolte con naturalezza e con grazia; modeste senza affettazione di eccessiva ritrosia, ingenue, dignitose, prudenti; e si ricordino che spesso dal loro contegno, nei primi passi che faranno in mezzo alla società, può dipendere la futura riputazione in questa parte della umana convivenza. Dobbiamo: Porgere attenzione alla lettura di un componimento a cui abbiamo consentito di assistere; applaudire con opportunità e moderazione; mostrarci benevoli verso chiunque si cimenta nelle ricreazioni musicali: osservare le usanze relative al vestiario da conversazione; essere cautelate in ogni incontro. Non dobbiamo: Assentarci o tirarci in disparte prima che sia posto fine ad una lettura nelle riunioni letterarie; interrompere una lettura o pezzo di musica con applausi fuor di luogo.
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Che se ciò a voi avvenisse, non vi lasciate indurre ad operare contro civiltà; non vi abbandonate a inutili lagnanze ed ingiusti rimproveri. Anzitutto convien sapere esporre con chiarezza e con precisione il fatto vostro; poi non lo dovete impacciare con inutili perditempi; e saria indizio di goffaggine incolparlo della cattiva riuscita della causa, subito che avendolo scelto a vostro difensore l'avete giudicato meritevole della vostra fiducia. V'è da osservare qualche cosa anche intorno alle persone che stanno alla mercatura, professione onorata al pari d'ogni altra. Talchè sarebbe atto di biasimevole orgoglio il non fare buon viso alle garbatezze che vi dimostrano. Quanto più sono costrette a soddisfare alle richieste spesso indiscrete dei compratori, tanto più dovete con urbanità corrispondere alle loro premure, mostrando che fate conto della pazienza da esse usata. Non dovete pagar loro il tempo e la fatica necessari alla scelta che far volete con ogni ponderazione, ed è giusto che ringraziate chiunque s'è mostrato cortese nel dar pascolo alla vostra curiosità. Questo capitolo potrebbe certamente comprendere molte altre avvertenze, ed estendersi a più minute ricerche; ma il già detto deve bastare per far conoscere la necessità della buona creanza in ogni parte del civile consorzio. Dobbiamo: usare moderazione nei rimproveri ancorchè siano giusti e spetti a noi il farli al nostro simile; discretezza nelle amichevoli corrispondenze; cortesia verso chiunque, in particolare molta gentilezza d'animo verso chi ci dà l'opera sua, il suo ingegno, il suo tempo. Non dobbiamo: Mostrare troppa dimestichezza coi superiori, nè tampoco servilità; non albagia con gli eguali o con gl'inferiori; nè fare sfoggio d'ingegno o di sapere studiandoci d'offuscare o di umiliare gli altri; nè fare onta alla fiducia da noi riposta in chi la merita.
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Ecco, allentate le cravatte, abbandonate i bicchieri di cristallo, ogni tanto fatevi un bagno nell'istinto puro e selvaggio e sarà ancora più bello farlo con la compagna o il compagno di sempre. Parlate con la bocca piena, mugolate e date nomignoli rubati al lessico dei ricettari, sono tanto apprezzabili in privato quanto insopportabili in pubblico. Alessandra Graziottin, medico ed esperta in sessuologia, lo consiglia vivamente: «Questa società sta diventando frigida. Il sesso si fa virtuale, il cibo diventa fiction: tutta scena. Basti pensare ai nomi stupendi che tanti ristoranti coniano per cibi che poi risultano insipidi, o alla cura maniacale che si mette nella preparazione della tavola: in fondo tradisce un rapporto cerebrale con il piacere. Io, alle pazienti con problemi sessuali, prescrivo anche di mangiare con le mani. Se gusti la vita gusti anche il cibo». Imboccate, sporcatevi, trangugiate, centellinate, sbrodolatevi, mordicchiate: insomma, nell'intimità trasgredite anche le regole del buon comportamento a tavola. Proprio quelle che sono elencate in questo libro.
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Evitate sempre di trovarvi nella folla, ma se involontariamente vi capitaste, se appena appena sapete di un'altra via che potete percorrere abbandonate quella ove tanta gente si è radunata, se ciò è impossibile aspettate tranquillamente che quell'onda umana si diradi, e non fate, per carità, a gomiti per passare. 34. Certo qualche volta avrete occasione di andare in un cimitero; qualunque sia la ragione che vi guida ricordatevi che è un luogo sacro; quindi è assolutamente proibito dal cuore e dall'educazione di schiamazzare, di ridere, di criticare le epigrafi, di cogliere fiori. 35. A proposito di cimiteri, un'altra parola: se di recente aveste persa una persona carissima, piuttosto di dar spettacolo in pubblico del vostro dolore con grandi lagrime astenetevi dalla visita alla sua tomba, sino a che il tempo avrà lenito la prima angoscia, e vi sentirete di poterla visitare col cuore addoloratissimo ma l'aspetto calmo, che è un rispetto alla stessa sciagura che vi ha colpite. 36. Dietro un funerale andrete in abiti scuri, e serberete un contegno serio e dignitoso, come si conviene alla maestà della morte. 37. Se un povero vi chiede l'elemosina, e non gliela potete fare, rispondete con bel garbo, in modo da non mortificarlo; ricordatevi che non di soli quattrini si benefica un infelice. 38. Avevo una nonna che mi adorava, e temeva continuamente mi potessi far male: ebbene, quando uscivo con lei mi divertivo ad aspettare l'imminente passaggio di una vettura per attraversare la via. La povera signora emetteva grida ch'io odo ancora dopo tanti anni; io penso ora che ero una cattiva e male educata bambina, e vi scongiuro di non imitarmi. 39. Se incontrate per via due guardie che tengono fra loro uno o più individui ammanettati, tirate diretto per la vostra via senza dar segno di averli veduti. Quei miseri benchè colpevoli, anzi per questo, sono infelici, e la pietà verso la sventura è la più bella patente di animo delicato e di educazione squisita. 40. Non vi diportate altrimenti se incontrate un ubbriaco. 41. Una fanciulla non stende mai la mano a nessuno, ma non la rifiuta se la persona che gliela porge frequenta la casa de'suoi genitori. 42. Ventaglio, manicotto vanno tenuti compostamente, non dimenticati qua e là nei negozi, alla scuola, in casa di amiche, ecc. 43. Per il parasole valga quanto dissi per l'ombrello. 44. Le signorine per bene rispettano tutto ciò che non è di loro proprietà più delle cose che a loro appartengono; quindi non toccano mai ciò che sta esposto nelle vetrine, nè sul banco del negozio ove fossero entrate, nè in qualsiasi altro luogo.
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Non vi abbandonate ad atti di rabbia o d'ira, non scattate come molle inglesi, siate sempre calme padrone di voi stesse per non diventare zimbello degli altri. 28. Tenete la testa diritta, non troppo alta come cavalli restii, nè troppo bassa come se cercaste sempre qualche oggetto smarrito. Del resto tenetelo a mente, più il contegno di una ragazza è modesto e più riesce simpatica a chi l' avvicina. 29. Non vi mordete le labbra, non parlate con voi stesse. 30. Se parlate con persone titolate, ricordatevi di rivolger loro la parola accompagnandola del titolo a cui hanno diritto. 31. Se vi trovate con persona che sapete in rapporti piuttosto freddi con la vostra famiglia regolatevi come se lo ignoraste, e misurate la vostra cortesia al grado di parentela o conoscenza che vi lega. 32. Non siate curiosi di vedere, nè di sapere cose delle quali vi accorgete che si vuol lasciarvi ignorare. 33. Non siate permalose, a rischio di diventare antipatiche a chi vi conosce. 34. Non chiedete un consiglio se non siete decise a seguirlo. 35. Parlando con alcuno tenete gli occhi alzati verso chi vi parla, sfuggire lo sguardo di colui col quale conversiamo risente d'ipocrisia. 36. Se entrate in un luogo pubblico o privato chiudete la porta con garbo in modo che non sbatta e non resti socchiusa. 37. Se siete innanzi a persone che leggono cessate ogni sorta di chiasso, e non parlate neppure sottovoce. 38. Affaciandovi alla finestra non mettete nulla in testa; ma ricordatevi che meno ci state e meglio è. In ogni modo non parlerete mai dalla finestra. 39. Non parlate in coro, per carità. 40. Non riferite mai cose che abbiate potuto vedere o sentire. 41. Se foste portate della mamma in visita salutate con garbo, non toccate alcun oggetto, non parlate se non siete interrogate, non contraddite mai un racconto che facesse chi vi accompagna, state composte, trattenete ogni segno di noja, ecc. 42. Se vi fossero offerti dolci accettate con moderazione e ringraziate. 43. Non è permesso, fanciulle mie, di mettersi in tasca dolci o altro, che ci fossero stati regalati durante una visita; si mangiano seduta stante, senza sporcarsi. 44. Se si volesse proprio che li accettassimo, se quasi ci si facesse forza cacciandoceli in tasca, fa duopo rinunciare anche ad assaggiarli: si mangiano a casa. 45. A chi vi interroga dovete rispondere con grazia con semplici monosillabi sìenoma dovrebbe accompagnare l'affermazione o negazione con la parola signore, e signora; e nel caso aveste a parlare con persona titolata dite anche il titolo qualunque esso sia: per esempio: con piacere, signora contessa; no, signor barone; si, signor capitano, volentieri, signor generale, ecc. 46. Vi potrebbe accadere d'incontrarvi per via o in un negozio con una compagna di scuola di condizione assai inferiore alla vostra; non è necessario, è vero, vi dica, che darete prova di buona educazione salutando cordialmente, e che sarebbe un vero atto inurbano se fingeste di non conoscerla? 47. Con gli operai che potessero venire a lavorare in casa vostra siate anche cortesi, e ricordatevi che sono anch'essi uomini come voi; con le cucitrici, le sarte siate graziose, ma non date loro confidenza. 48. Ho veduti ragazzine guardare sopra le spalle di chi scrive o leggere quanto si va tracciando sul foglio. Sono cose contrarie a ogni nobile sentimento e contrarie ad ogni cortesia. 49. Non tenete le mani sotto il grembiale, nè in tasca sebbene faccia freddo, se non volete esser giudicate senza educazione. 50. Ne è più lecito mettersi le mani in bocca e nelle orecchie, nè pulirsi i denti in nessun modo fuori dalla propria stanza, nè sciaquarsi la bocca, nè tagliarsi le unghie in presenza altrui. 51. In presenza altrui è vietato, sotto pena di sentirsi dare il titolo di zotiche, levarsi i stivaletti, e peggio le calze. 52. Non parlate mai male di nessuno, meno ancora degli assenti, la maldicenza in bocca a una fanciulla diventa una vera sconcezza. 53. Dovendo accennare a una persona presente per dire che ha fatto, ha detto qualche cosa, non dite è stata lei, è stato lui, ma a seconda della persona con la quale parlate, dite è stato il signor tale, e qui nome o grado. 54. Solo trattandosi di una parente, di un'amica dite è stata: è stata Lucia, l'ha fatto Maria. 55. Quando ringraziate non ditelmille grazie,che puzza volgarità dite solo grazie e chinate un pochino il capo. 56. Fanciullette care, conosco un bravo avvocato che d'inverno è la disperazione delle signore con le quali parla, poichè spennacchia loro tutto il manicotto, o qualsiasi altro oggetto di pelliccia la signora rechi in dosso. Finì col sentirsi dire che era veramente un legale che spenna i clienti. Fu una scherzosa lezione che il mio buon amico si era meritata; fate voi di non incorrere nello stesso rischio, e se anche parlate con una sorella, una compagna, non le tirate i bottoni dell'abito, non le aggiustate il golletto, ecc. 57. Non dite mai a chi vi parla.Che ha detto? che cosa? che?Bisogna prestar attenzione a chi vi parla perchè è scortesia far ripetere due volte la frase stessa. Ma se si dà il caso che non abbiate capito domandate scusa, e pregate vi si ripeta quanto vi era stato detto. 58. Se davanti a voi si ferma, e vi parla un estraneo, o un parente maggiore di voi, alzatevi in piedi,e ritte e ferme ascoltate quanto vi si vuol dire. 59. Incontrando una compagna di scuola insieme a qualcuno della sua famiglia, a qualsiasi persona civile chinate il capo, senza segni amichevoli per lei; se è accompagnata da un domestico salutatela come si usa tra fanciulle educate. 60. Camminando non urtate le persone con i gomiti. 61. Se salite in una vettura con vostra madre, col babbo, o qualsiasi altra persona adulta lasciatele loro la destra; se queste persone sono più d'una occupate il sedile davanti; ma non insistete per stare davanti se è un uomo che occuperebbe uno dei posti d' onore, e se vuole cedervelo. Dovendo salire in una vettura lasciate prima passare la mamma, qualsiasi altra signora che accompagnaste; scendendo, siate le prime, e porgete la mano a colui che è con voi. 62. Gli ordini al cocchiere dovete lasciarli dare dai vostri maggiori, o fratelli. 63. Se vi trovate in ferrovia state molto composte; brutto vedere un fanciullo indisciplinato, ma per una C. BUFFONI-ZAPPA 5 ragazza la cosa è ancora meno lecita. Bambini e ragazzi sono lo spauracchio dei viaggiatori, fate di togliere d'addosso alla vostra classe questa prevenzione che vi vuole male educate. 64. In ferrovia non pretendete di tenere i vetri chiusi od aperti ad ogni costo, nemmeno se vi trovate voi stesse allo sportello; e poichè l'igiene vuole che da un solo lato del vagone si tengano aperte le finestre, in modo da evitare le correnti d'aria, così dopo un po' di tempo chiudete la vostra finestra per mettere gli altri nella possibilità di aprire la loro. 65. So che quando viaggiate, o quando semplicemente vi trovate intramvi affacciate alla finestra dimenticando così uno dei più elementari insegnamenti del galateo che è quello di non voltare il dorso alle persone. 66. Sarà difficile, ma forse dovrete viaggiare di notte: in questo caso non è lecito togliervi le scarpe nemmeno se i piedi vi dolessero. 67. Se dormite badate di non recare incomodo agli altri; è una pena quando in un vagone completo una persona si addormenta; dondola da tutte le parti; casca addosso ora al vicino di destra ora a quello di sinistra. 68. Se abitualmente russate, evitate di dormire di giorno. 69. Sdrajarsi in modo da mettere i piedi addosso a qualcuno è villania. 70. Appoggiare i piedi sul sedile di faccia non è meno brutto. 71. Ridere di alcuno che in ferrovia, o su un battello a vapore potesse sentirsi male, è cosa da persona volgare, come l'ostinarsi a stare in pubblico sentendosi male. 72. Se andate in un albergo e non vi è permesso spassarvi nei corritoi, affacciarvi alla soglia delle stanze d'altri viaggiatori, far chiasso, chiamare con la voce i camerieri, farvi vedere nei corritoj mezzo svestite. 73. In treno la fanciulla ben educata non sale in piedi sui sedili, perchè oltre esser questo un atto scomposto disdicevole a una signorina, oltre il portare ad essi un guasto inevitabile, mette gli altri viaggiatori a rischio di insudiciarsi gli abiti. 74. Non s'imbrattano le pareti dei vagoni con sgorbi di matita, nè con qualsiasi altra cosa. 75. Non si strappano le tende dei finestrini, nè le frangie dei sedili. 76. Non si prende d'assalto un finestrino per tenerlo sino all'arrivo. 77. Passando in vista di paesaggi bellissimi non si nasconde ai compagni di viaggio la visuale. 78. So di certe signorine che se fanno appena un viaggio un po' lungo, giunte in vicinanza della stazione d'arrivo si sciolgono i capegli se li ravviano col pettine, e ciò è brutto, brutto, brutto. 79. Anche facendo un viaggio lungo non è permesso, mettersi, come si dice, in libertà, cioè, slacciarsi gli stivaletti, togliersi i guanti, allentarsi abito, ecc. Solo si può senza incorrere in una scorrettezza togliersi il cappello. 80. Le mie lettrici hanno passato tutte gli otto anni quindi se viaggiano, i loro genitori possono ammetterle alla tavola rotonda; vi rinnovo in questo caso tutte le raccomandazioni che vi feci per la tavola di famiglia, più, siccome a questa tavola la regola esige che vi serviate da voi stesse (questo vi avviene anche ogni volta che siete invitate a pranzo) mi raccomando, gli aveste anche appena appena toccati quei cari sette anni, non vi servite in modo che gli altri possano criticarvi. Con ciò voglio dirvi di non scegliere questo o quel pezzo, tasteggiando con la forchetta gli altri pezzi, nè prendere molta roba, perchè si tratta di cosa di vostro gusto, non toccare le frutta per prendere quelle più mature, se vi versate da bere non empite il bicchiere. Il vostro contegno a tavola rotonda sia tale da non permettere ai vostri vicini, nè di rivolgervi la parola, nè di versarvi da bere. 81. Entrando in una sala da pranzo d'albergo, avrete lasciato in camera vostra il cappellino. 82. Se avete occasione di fare il bagno in pubblico non spruzzate d'acqua i vicini, non vi aggrappate a chi nuota, non fate scherzi con l'acqua; non andate nuotando al largo se non è con voi alcuno della vostra famiglia. 83. Le mie lettrici potranno talvolta far parte dei così detti giuochi di società, è inutile ch' io dica loro che anche in queste occasioni la fanciulla per bene si distingue per il suo contegno corretto, senza musoneria, ma senza sguajataggine. 84. Non origliate mai alle porte, non guardate dai buchi delle chiavi. 85. Se avete ricevuto un beneficio serbate in cuore sempre viva la gratitudine, e quando se ne presenta occasione ricordate il bene ricevuto; se invece avete avuto occasione di rendere alcun servigio ad altri non rinfacciategli mai la vostra buona azione, nemmeno se lo vedeste ingrato. 86. Giuseppe Giusti, un poeta che fra poco imparerete ad amare scrisse
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Un uomo che scorti delle signore a teatro offrirà loro dei rinfreschi; non le lascierà mai sole per far delle visite in altri palchi, meno il caso in cui ci fossero parecchi visitatori: ma anche allora la sua assenza dev'essere brevissima, perchè non restino abbandonate. Una signora che non abbia cavaliere, se attempata, può, andando a teatro con un'amica, farsi scortare dal servitore. Ma non deve mai apparir sola in palco, se non vuol esser confusa con persone di condotta dubbia. Un uomo che abbia una signora a braccio non saluterà mai una donna notoriamente disonesta e respinta dalla buona società. Se una sinora incontra, a teatro, un uomo di sua conoscenza con persone di tal genere, non deve guardarlo, nè mai alludere, nemmeno scherzosamente, a quell' incontro. È lecito ad una signora valersi del canocchiale; le signorine però non guarderanno col canocchiale in platea, nè fisseranno gli attori. Le signore non applaudono: gli uomini non dovrebbero fischiare in nessun luogo: comunque, non si fischia mai in palco. Molti considerano il venir tardi a teatro come indizio di superiorità; secondo loro dà l'impronta del chic. Invece il veder i palchetti vuoti fa sfigurare il teatro; e venir alla fine dello spettacolo è un'esagerazione; ma ciò che è più biasimevole si è l'entrare rumorosamente quando tutti ascoltano con attenzione un cantante di vaglia, ed il chiasso quindi disturba l'intero pubblico. Nell'uscire da teatro le ragazze vanno insieme se sono due, lasciando il cavaliere alla mamma: se non c'è che una ragazza, questa uscirà a braccio della madre col babbo per scorta; se oltre il babbo v'hanno altri cavalieri, darà lei il braccio al babbo, lasciando il cavaliere, che non fosse di famiglia, alla madre. Se tutti i cavalieri sono estranei, uscirà con la madre. Prima di chiudere toccherò un argomento delicato. Molte signore hanno il debole di scollacciarsi troppo. Secondo loro è colpa la sarta, è il vestito che scivola... non se ne accorgono... Ad ogni modo le prego di accorgersi in tempo e di credere che quell'uso è molto reprensibile e non piace ad alcuno. La verecondia è sempre apprezzata, anche da chi ostenta di amar il vizio. Galateo della Borghesia. - 6.
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Il re Sole scriveva a Madama di Maintenon che essa era simpatica, attraentissima, piena d'ingegno, ma non sapeva fare la riverenza; punto capitale nel paese dove Madama di Maintenon aveva fondato l'istituto di Saint Cyr, nel quale alla suora Luisa fu amministrato il cilicio solo perchè aveva dato alle educande un po' di vino fuori di pasto, il che le aveva forse esilarate e si erano abbandonate a qualche piccola allegra risata. Infine la disciplina era allora, com'è adesso, una grande operatrice di miracoli nel campo delle qualità esteriori. E questo studio, secondo i loro tempie le loro fortune, non lo sdegnarono Napoleone e Washington, i due usciti dal popolo che più seppero governare e regnare su di esso. E se anche un uomo dovesse restare, come è desiderabile, nella posizione modesta e oscura in cui è nato, il conoscere i modi e le convenzioni della vita civile e della cortesia sarà ancora di un vantaggio incalcolabile; potrebbe, nell'esercizio salutare della gentilezza e della grazia, elevare il proprio io all'altezza di coloro che gli sono anteposti; fuggire la brutalità delle parole e degli atti; temperare l'ira e la rigidezza del suo carattere, e togliersi a quello scherno che, sia pure ingiustamente, perseguita tutti coloro i quali ignorano le regole d'una prammatica consacrata dalla universalità dei popoli, dalla tradizione e dai costumi. In questo però deve essere curato con ogni diligenza che le formalità e le prammatiche della vita elegante e gentile diventino un'abitudine cosi, che vengano spontanee, come nate con noi stessi; il che si potrebbe riassumere in questo precetto: bisogna conoscere sempre il proprio ambiente morale. È indispensabile guardarsi da quegli atti che accusano in sè stesso quello che i Francesi chiamano parvenu o borghese, per cui in Italia fu inventata da un giornalista di genio la parola pacchianesimo. Il pacchiano nell'Italia meridionale è il contadino scelto, gonfio, spaccone, quello che ostenta oro e gioielli, abiti vistosi, e idee fine, senza possederle. È difficile farne la spiegazione precisa: infine il pacchianesimo o il borghesismo è stato definito una mentalità; cioè uno stato d'animo e di mente alquanto grossolano, che non sa adattare le modalità dell'eleganza, e soverchia sempre nell'espressione delle prammatiche e degli usi sociali. Bisogna studiare di essere una ruota sia pure piccolissima del meccanismo sociale e non un nodo allo scorrere delle abitudini generali ed evitare così il ridicolo. Il ridicolo è un'arma pericolosa nella società moderna, ed è poi stata pericolosa sempre. La commedia riesce più a sferzare i troppo ingenui che i birbanti. Anche ciò è naturale nell'uomo; e una prova sta in questo, che quando vediamo un uomo o una donna che va a rischio di cadere, non possiamo impedire un istintivo impulso di riso. Ciò è tanto più ingiusto in quanto se vediamo cadere una bestia bruta ne risentiamo invece un senso di compassione e di pietà. Questo istinto umano così profondo e così invincibile si applica inavvertitamente alle regole di quella che si è convenuto di chiamare la buona creanza. Ecco perchè è utile di notare e di definire praticamente gli usi più indispensabili della vita sociale.
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L'istruzione in sè e per sè, non vale nulla; la trasformazione sociale si è effettuata, le idee si sono moltiplicate; le nazioni sono divenute intelligenti; ma si sono staccate man mano dai loro sentimenti e gli entusiasmi salutari le hanno abbandonate. E così questa grande rivoluzione intellettuale ha stipato i cervelli senza fecondarli e minaccia di abbandonare i popoli alla follia della loro intelligenza. Ora è all'educatrice che è riservato il Sursum corda! E questo otterrà per sè e per gli altri non colle pedanterie scolastiche, coll'orpello d'una laurea, colla vanità d'una patente, colle pretese di un titolo rimbombante, colle arti o colle scienze o col sapere la storia greca, romana, la teoria darwiniana o fare dei versi; ma coll'essersi assimilati gli studi che nel campo morale e intellettuale le vietino le mode bizzarre negli abiti e le maniere virili o scomposte, o sconvenienti. Questa salutare assimilazione le indicherà quella perfetta educazione civile, la quale irradiandosi da lei porterà ne' suoi discepoli l'urbanità, e spronerà allo studio, al rispetto delle consuetudini paesane e delle altrui opinioni e condurrà le giovani menti a venerare in essa non soltanto il sapere ma la virtù; onde poi accoglieranno nei cuori quel possente anelito, per cui la civiltà si diffonde, si stabilisce e rende meno aspro e meno difficile il vivere in comune. PIGORINI-BERI C., Le buone maniere. 11
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Le regine che non sono più regine, o che mai ebbero scettro e corona, sono fuori del regno, esuli, abbandonate, smarrite. Esse si sentono inutili a sè e agli altri, inservibili rottami, pietosi avanzi di naufragio. Camminano su una terra straniera : l' acqua che le disseta, il pane che te sfama, non sono quelli del loro paese ideale : l'aria che esse respirano non è quella che può dilatare il loro petto in un' ebbrezza di felicità. Spodestate, amareggiate di continuo dalla potenza altrui, dall' altrui noncuranza o dall'altrui compassione, le regine esiliate incedono col lutto nel cuore, gli occhi pieni di pianto o tragicamente asciutti ; le labbra suggellate per sempre o schiuse a un sarcastico sorriso. Qualche volta l'affanno accumulato sull' anima loro si converte in veleno e allora diventano malvagie e non potendo possedere un regno s'adoperano per farlo perdere anche alle altre ; talvolta invece il dolore le affina, le eleva, ne fa dei puri spiriti capaci di tutte le abnegazioni e di tutti gli eroismi.
Ma l' amore le ha tradite, gli uomini le hanno abbandonate quando il piacere lasciò luogo al dovere: le donne oneste rivolgono da esse il volto con disprezzo, una vita di stenti le attende... Che cosa può salvarle dalla disperazione ? Troppo l'amor materno è soffocato dal pentimento, dalle ansie, dall'ira e dalla vergogna : la fede è in esse una debole fiamma offuscata dalle passioni : il sentimento del dovere è travolto nella coscienza turbata. Solo la morte, colla sua immancabile pace, col suo scioglimento tragico e assoluto, apparisce loro come l'unico rifugio: solo la cancellatura violenta delle conseguenze del fallo, sembra a quelle che non hanno il coraggio di morire, l'unica riparazione. Ma è tempo che la società, la quale ha, infine, la sua parte di responsabilità perchè composta di quegli individui stessi che, in un momento o l' altro della loro vita furono soggetti di seduzione o complici d' errori, è tempo che la società prov-veda, e non solo materialmente come fa coi brefotrofi e gli ospizi di maternità, ma moralmente, rialzando nella coscienza pubblica il concetto della donna-madre, in qualunque condizione ella sia, provocando nelle stesse sventurate che sono cadute una salutare reazione, la riabilitazione con la potenza dell'amor materno non più onta, ma conforto, ma nuovo scopo alla vita. Tempo addietro un medico milanese mi diceva che si sono fatte in proposito delle esperienze con ottimi risultati. Negli asili per i bambini lattanti si permette alle madri di recarsi ad allattare la propria creatura, e si sono istituiti dei premi in danaro per quelle che a capo d' un certo tempo ritirano il bambino e lo tengono seco allevandolo amorosamente ed onestamente. Quelle che la corruzione e il vizio non hanno contaminato, si vedono così autorizzate a compiere un atto ch' esse credevano di dover nascondere e si trovano anche aiutate nella lotta per la vita. Così moltissime vanno, e quasi tutte riprendono il loro bambino, poichè non hanno più coraggio di abbandonarlo dopo averlo tenuto per qualche mese al loro seno. Rammento qui una bella e commovente novella di Paul Bourget. Una fanciulla sedotta e resa madre, presa dalla vergogna e della disperazione si propone di far scomparire il neonato. Ma prima, negli ultimi giorni della gravidanza, va a confessarsi da un vecchio e sagace prete. E piangendo gli dice anche il suo triste proposito. Il confessore non si scandalizza, non la riprende acerbamente, non le fa intravedere le pene eterne, come qualunque altro, forse, avrebbe fatto: ma le raccomanda una cosa sola: « Prima di ucciderlo, porgetegli il seno ». Sapeva bene che quando la madre avesse tenuto la sua creaturina appesa al petto non avrebbe più avuto cuore di darle la morte con le sue mani. E fu così. Quel prete aveva la sapienza di Salomone.
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Benedetto se anche fummo ingannate, tradite, misconosciute, abbandonate; anche se il ricordo del passato ci fa parer più fredda, arida e triste la solitudine del nostro presente. Amammo, vivemmo. Amammo e conoscemmo l'estasi più alta, avemmo la visione più fulgida di bellezza, possedemmo la ricchezza più meravigliosa. Misera la donna che non ha appassionatamente amato; che non conosce le attese che sospendono il senso della vita, le emozioni del rivedere un volto adorato che imbiancano il viso come nell'ora della morte; che non sa le notti insonni per la tortura d' una gelosia, d'un dubbio, d'un'ignoranza; che ha atteso una lettera come una sentenza fatale, che non si è sentita, in certe ore, su un culmine, nella gloria abbagliante d' un sole ardente che raddoppiava tutte le sue energie, che le faceva vivere una vita ricca dell'essenza di mille vite, che la dava un' esuberanza di sentimento, di sensibilità, da mutare l'esultanza in una sofferenza fisica: misera la donna che non ha toccato, per un giorno, per un'ora, per un minuto, il limitare del suo sogno...
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E se le figliuole abbandonate a sè stesse crescono infingarde e civettuole, o peggio abusano dell' abbandono ; se i fanciulli annoiati dalle lunghe permanenze in chiesa, pigliano più tardi la religione in uggia e acquistano un falso concetto della preghiera, di chi la colpa ? Della madre loro... Altre donne si servono della religione come di un manto destinato a coprire le peggiori brutture. Seminano la discordia, opprimono i deboli, impongono il loro egoismo, soddisfano i più bassi istinti della loro natura, passano di scandalo in scandalo non curandosi dei cattivi esempi che dànno nella intimità, ma poi, per proteggere la loro fama, vanno ad inginocchiarsi ad ogni altare, appendono voti, fanno parte di tutti i Comitati di beneficenza, trascinando religione e fede nel fango dell' ipocrisia.
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Abbandonate ogni stimolante, come thé, caffè, liquori, pietanze drogate: fate ogni giorno un po' d'esercizio all'aria aperta, dormite almeno nove ore.
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›› E non pensano in quei momenti di sconforto quanti bimbi senza mamma esistono, quante fanciulle abbandonate e pericolanti, quanti vecchi a cui la solitudine e la povertà rendono ancor più gravosa la loro età inoltrata. La beneficenza ai giorni nostri ha preso l' importanza d' una vera istituzione civile, ed una donna che senta il lodevole desiderio di giovare ad altrui non ha che a guardarsi intorno per scegliere quella fra le grandi cause dell' umanità che le inspira più interesse e simpatia. Nè vi è più bisogno di cingere bende e pronunziar voti religiosi, ai giorni nostri, per esercitare questa missione austera e pia. Potrà rimanere nella società, non rinunziare al suo grado e alla sua posizione, continuare a vestire elegantemente se ne ha l' abitudine, e vivere nella sua casa e nella sua città, poichè dovunque vi sono miserie da soccorrere, anime da dirozzare, mali fisici e morali da guarire. Ecco gli asili d'infanzia e i patronati scolastici : una legione di bimbi da proteggere, al cui sano sviluppo organico e spirituale vigilare con previdenza materna, visitandoli, tenendo conto dei più bisognosi e negletti : ecco le provvide istituzioni dell'Infanzia abbandonata, delle Case di deposito e di soccorso per i piccoli derelitti che hanno conosciuto il dolore e la malvagità umana prima ancora di sapere che cosa è la vita : ecco i Ricreatorî festivi per le fanciulle operaie da ingentilire, da ritemprare alle prove della vita, da mantenere nella retta via dell'onestà e del lavoro: le scuole domenicali e le biblioteche per illuminare le loro menti e fornire loro sane e profittevoli letture. Ecco tutte le opere di previdenza sociale, le unioni di beneficenza intese a dar lavoro ai disoccupati : le case di redenzione il cui nobile programma sta tutto nel loro titolo : il patronato dei minorenni condannati col beneficio della legge del perdono e rimasti nelle loro famiglie : le Amiche della giovinetta, opera internazionale che si prefigge di occuparsi delle fanciulle straniere che arrivano in cerca di lavoro; la Cassa d'assistenza per la maternità, bellissima istituzione che vuol garantire la madre e il neonato nei periodi critici della gestazione e del parto ; l'Aiuto materno, che si assume la sorveglianza dell' allattamento, e distribuisce latte sterilizzato e indumenti per i piccini ; le Cucine popolari ; le Amiche dei poveri che dànno lavoro a domicilio equamente retribuito ; le Società per il patronato dei ciechi, che mettono in opera ogni mezzo suggerito dalla scienza e dalla pietà per alleviare la massima fra le sventure ; l'Ufficio indicazioni ed assistenza, il quale si occupa di stendere suppliche, ottenere certificati, elargire consigli ed aiuto, delle visite a domicilio dei poveri ed anche di piccoli prestiti a cui l' indigente può ricorrere sottraendosi alla rapacità degli usurai. A tutti è nota oramai la Cooperativa delle industrie femminili, che oltre rilasciare all' operaia il guadagno netto, si è fatta scuola d' arte e di buon gusto; e una felice innovazione già tentata con buon esito in qualche città è quella delle Cucine per i malati poveri, intesa a fornire a poco prezzo cibi sostanziosi leggeri e igienici per le convalescenze, prima che il malato torni al lavoro e al suo regime frugale. Vi è pure il Comitato contro la tubercolosi, per diffondere fra il popolo nozioni utili d'igiene e di previdenza, visitare gli infermi, distribuire gli alimenti, mandare a cure climatiche i deboli, distribuire sussidî, rendere infine sempre più efficace la lotta contro questo flagello terribile. E con questa avanguardia di soccorso si apre la beneficenza degli ospedali, le cui candide corsie silenziose sono per certe anime percosse dal dolore un salutare rifugio morale. Ecco le Scuole di infermeria e della Croce rossa ; ecco gli Ospizi di maternità, gli Ambulatorî per le malattie infantili ; le Case di convalescenza poste in luoghi ridenti e salubri : gli Ospizi marini dove tanti poveri bambini deboli trovano le forze e la vita. E forse in questa lunga enumerazione ho ancora dimenticato qualche opera provvida, ad ogni modo ne avrò sempre accennato abbastanza per dimostrare che non mancano occasioni di fare il bene secondo qualunque intendimento o tendenza ; di giovare al prossimo nobilmente ed efficacemente; di proporre alla propria attività e al proprio cuore un còmpito utile ed alto.
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Bene spesso le avresti vedute sedere in crocchio sul terrazzo della villa, intese allo studio de' loro disegni e lavori, al canto di care e semplici melodie, o abbandonate a fanciulleschi e sinceri colloqui. Talvolta anche il vecchio lord, oramai convalescente, stando nel suo seggiolone in un angolo del terrazzo, contemplava con segreta gioia quelle tre testoline giovani e aeree, le vedeva chinarsi e levarsi con un tripudio irrequieto, con un sorriso più eloquente d'ogni parola; e l'ampio foglio del Times, che stavagli spiegato sotto gli occhi, cadeva allora dimenticato su le sue ginocchia; e nel cuore l'arida politica cedeva il luogo alla dolcezza d' un senso affatto nuovo. Più spesso le fanciulle andavano a diporto per i paesi
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Là stanno le due donne abbandonate; esse m'aspettano, e io so che han bisogno di consolazione. Permettete dunque, signore, che vi lasci: però vi ringrazio di cuore della bontà che mi avete dimostrato, e vi domando scusa della mestizia delle mie parole. Perdonatemi; e se mai non vi fosse discaro di visitare un prete sconosciuto e solitario, quella è la mia casetta Voi siete così cortese, che vi rivedrò sempre volentieri. Buona notte, signore. » E se n'andò. Arnoldo stette ancora per lungo tempo in quello steso luogo; chè la notte era bella e stellata, e il suo cuore commosso da mille pensieri.
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Quand' erano a fianco del suo letto, sedute insieme nell' ampio seggiolone, con le leggiadre lor teste abbandonate su gli stessi origlieri che lo sorreggevano, quando venivano a confortarlo con quelle parole che a' figli nessuno insegna, e ch'essi soli sanno trovar così bene, egli non sentiva l' armonia delle care voci, che dovevano versare sul suo cuore ferito il balsamo dell'amore. Assorto ne' pensieri che lo facevan dispettoso d'ogni altra cosa, voltavasi bruscamente dall'altro lato, se una d'esse lo chiamava teneramente col nome di padre; poi le congedava con mal piglio , dicendo di volere star solo e di non aver bisogno delle lor fanciullesche carezze. Piangevano silenziosamente le buone giovinette al suo duro parlare, e se n' andavano mute e lente; ma, uscite appena, compativano tra loro al povero padre, chè il male l'avesse fatto inquieto e aspro; e si confortavano a vicenda ad aver pazienza, chè forse, con l'amorose loro sollecitudini, avrebbero medicato il suo dolore, e vinta la sua ostinata tristezza. E si fermavano nella vicina stanza, origliando a ogni più lieve rumore; riscosse, appena che uno sfogo improvviso di tosse turbasse il caro ammalato, accorrevano di nuovo al suo fianco; e lo pregavano, col pianto sugli occhi, che per amor loro bevesse alcuna delle pozioni che gli apprestavano a temperare quella sua angoscia convulsiva. Ma non gli svelarono mai che un medico le avesse ordinate; sarebbe stato un dirgli di spezzarne le bocce contro la parete: bensì, con pietoso inganno, l'assicuravano sempre ch'eran semplici calmanti da esse loro apparecchiati. Ma le innocenti non sapevano come la principal cagione di quel male fosse l' ira dell'egoismo ingannato che lo rodeva, fosse l'estrema rovina delle sue lunghe fatiche, l'ultimo crollo d'un edilizio a cui per tutta la vita aveva lavorato, l'edifizio della sua grandezza! Le novelle venutegli d' Inghilterra per lettere e per gazzette, e confermate pur troppo presto, avevano rivelato a lord Leslie come tutto il suo credito, un tempo così potente, fosse perduto; le sue mene politiche cagionare la caduta della sua stessa fazione; e le nuove elezioni della sua contea, ultima speranza a lui rimasta, esser cadute sopra individui della parte opposta, e, fra questi, sul più conosciuto suo nemico politico. Di più, gli toccò perfino di leggere ne' giornali rapportata la, sua rottura col figlio, travolta, esagerata, come si suole; commentata a suo discredito , quasi fosse stata una domestica tirannide. Tutto ciò, e anche meno sarebbe certo bastato, fini a suscitare nella sua logora salute un subitaneo rovescio; la malattia, che da gran tempo covava, si spiegò violenta; senza l'amore e la paziente attenzione di quelle soavi creature d'Elisa e Vittorina, lord Leslie avrebbe forse dovuto soggiacere a tale ultima offesa dell'orgoglio vulnerato. Non era il mattino, ed Elisa, a passo cauto, leggiero, entrava nella camera del padre ammalato; il suo cuore batteva di speranza e di segreto timore. Ella rimosse con mano tremante la verde cortina dell'alcova, si sollevò lieve su la persona, e guardò. - Suo padre pareva dormire d'un sonno tranquillo; perchè il respirar di lui non era più sì affannoso, e la calva sua fronte, che ombravano due ciocche di grigi capegli, era pallida e serena. La buona figlia sentì allargarsi il cuore, levò al cielo gli occhi, domandò una benedizione all'anima di sua madre, affinchè le desse forza di compiere il generoso proposito, per cui quel giorno ell' era venuta, così di buon' ora, nella stanza paterna. Poi lenta avanzando, s' adagiò cheta cheta nella seggiola, accanto al capezzale di suo padre; e abbandonata a' pensieri ond' era pieno il suo animo verginale, si perdette ne' sogni dell'avvenire, in quell'estasi che un' intemerata speranza dipinge come d' un' iride di felicità. Intanto, senza ch'ella se ne fosse accorta, il padre s'era desto; e il primo oggetto che gli appariva, era l'amorosa fanciulla sedutagli accanto, era quella sembianza angelica e pura, che la faceva parere cosa non mortale. Il vecchio, senza pur muoversi, la guardava, nè ancora ella s'era riscossa; la guardava, mai non l' aveva creduta così bella. - Povero padre ! quel pensiero d'innocente orgoglio nasceva nel suo cuore forse per la prima volta! Continuava a contemplarla; sentiva un piacere mite, segreto, che non aveva provato mai. Allora trasse una mano fuor delle coltri, e strinse con dolce forza il braccio che la figlia pianamente aveva poggiato su la sponda del letto. Elisa a un tratto si risentì, le parve che il padre leggesse ne' suoi pensieri, che quello sguardo la penetrasse sino al fondo del cuore.... I suoi sogni eran così belli! Arrossendo per subitanea tema, si chinò verso di lui, e disse: « O mio padre! io era venuta a spiare il momento che vi sareste svegliato, e intanto i miei pensieri m'avevano rapita lontano lontano, ch'io quasi vi dimenticava, mio caro povero padre! » « Buona Elisa! tu mi vuoi bene, lo so! tu mi sei cara, adesso più che mai! » rispondeva l'ammalato con tale accento di mitezza insolita, che la figlia non credette quasi a sè stessa. « E potrei non amarvi? Ma ditemi, prima, che avete passato una notte quieta, che state meglio d' jeri.... » « Si, sì! Sto bene, bene da vero. » « Corro dunque a dirlo a Vittorina, che aspetta qui fuori questa buona novella. Pure, siete assai pallido, e la vostra mano arde e trema... » « Non importa, sto bene! perchè, sappi, il mio male è qui, qui dentro!... » E con la destra si premeva il cuore. « O padre mio! che pena mi danno le vostre parole! No, non dite così; dite che noi possiam consolarvi, poichè nostra è una parte del vostro dolore! Fatevi cuore, siate giusto con voi medesimo! E se troppo vi pesa, come, dite voi, la cattiveria degli uomini, oh copriteli di disprezzo, d' obblio! E guardate a noi, pensate alle vostre due figlie, e anche al vostro.... sì, al povero.... » Ma s' arrestò d' improvviso, e chinò gli occhi a terra, sbigottita da uno sguardo terribile di suo padre. « Finite! Che cosa volevate dire? » chiese il lord, con tuono severo, ma fatto più dolce in viso. « Oh nulla! » Elisa rispondeva: « non so , io parlava come il cuore mi suggeriva.... mi compatite? » « No! voi lo sapete pure, che non si deve pronunziar quel nome dinanzi a me: bisogna dimenticarlo! » « Dimenticarlo?... non lo potrei. È mio fratello! » « Egli non è più mio figlio, e non lo vedrò mai più! Ho cancellato dalla memoria anche il suo nome. » « Dio! s' io fossi quell' infelice, ne sarei morta! » « Tu, buona fanciulla, non m'avresti fatto il male ch'egli mi fece! « Ma se ora ne piangesse, se non parlasse che di voi, se non avesse in cuore altra speranza che del vostro perdono, che di vedervi ancora una volta? » « Egli? come t' inganni! Tu non conosci gli uomini non sai come certi cuori son fatti! V' ha de' figli che calpesterebbero il cadavere del padre, se fosse messo a traverso della loro via!» « Ah non parlate così! Egli.... era buono; e forse, se il vostro sdegno.... » « Eh non sai tu, che quell' uomo ha rovesciata la mia più lieta fortuna, l' opera di tutta la mia vita? Egli è, che ha gettato nel fango il nome di suo padre, egli che mi lima i giorni, che mi precipita prima del tempo nella fossa! » - E il lord s' era levato su la persona: il suo volto ardeva di tutto l'antico sdegno: ma, indi a poco, raccolse le coltri, e s'abbandonò, come oppresso, sugli origlieri, dicendo con voce mutata: - « Via, non parliam più di lui! non affrettiamo con impeto inutile quell' ora che non tarderà a venire! Povera Elisa! tu sola mi resti, tu che intendi che cosa sia il segreto dolore di tuo padre. Tua sorella è troppo giovinetta, è ingenua, spensierata; essa vede le rughe della mia fronte, non la ferita del mio cuore. » « O padre, se lo sapeste, non io sola, ma tutti piangiamo per voi.... Oh! ricordatevi che l'ultimo voto di nostra madre fu la felicità e la pace di noi tutti.... e che invece!... perchè, anche lui...« « Lui! sempre lui? Lo sa forse ch' io sono qui, presso a morire, in terra straniera, e per sua colpa? Io giuro che se lo sa, ne ride! « « Gran Dio!... » proruppe la figlia, e si coperse con le mani il volto già bagnato di lagrime. « No, non è vero!... oh se vi dicessi!... » « Ma voi, che sapete di colui?... dov' è? dite.... dite! rispondete a vostro padre.» « È qui!... » balbettò allora, con voce timida e sommessa
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I contadini a fuggire, tirandosi dietro le mucche, e l'acqua a inseguirli, a entrare nelle case abbandonate, a invadere le cantine e le stalle. In una casa c'era un povero vecchio paralitico, che non poteva più scendere di letto. Rimase con lui un uomo della famiglia, finchè vennero i soldati con una zattera e li salvarono tutti e due. L'inondazione durò tre giorni e i campi tutto all'intorno si mutarono in laghi pantanosi. Poi, per buona sorte, la pioggia cessò, il fiume andò scemando rapidamente e rientrò nell'alveo. Ogni anno, in primavera e in autunno, s'odono brutte notizie di inondazioni, e a volte muoiono intere famiglie: rovinano case, e vasti campi ubertosi rimangono sepolti sotto un lenzuolo di fango.
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I vecchi sembravano inerti, come marionette abbandonate in un angolo dal burattinaio. - D'accordo... Allora ci penso io. Il Bagliotti-Gagginis mosse un passo verso la Pinuccia, che d'istinto strinse più forte la bambina, tanto da farla piangere. Fu questione di un attimo. Argo sgusciò via dalle braccia del suo padrone e si avventò latrando contro il direttore. - Bestia maledetta! - urlò l'uomo, allungandogli una pedata. Il cane si rivoltò e gli azzannò un polpaccio. - Ah! Aiuto.... - Argo, qui! - ordinò concitato il professore. Il cane lasciò la presa, ma continuò a ringhiare sordamente, con il pelo arruffato e le orecchie dritte, come una belva feroce. - A cuccia! Argo si dominò e ritornò indietro, vinto dal richiamo all'obbedienza. Lanciò uno sguardo deluso al suo padrone, come per dirgli: «Perché non mi lasci fare a modo mio?». Poi si accucciò per terra, scornato e triste, spazzando nervosamente il pavimento con la coda. Il Bagliotti-Gagginis, nel frattempo, s'era un po' ripreso dallo spavento. - Chiamerò i carabinieri! - digrignava tra i denti. - La legge è dalla mia parte! La pagherete cara, tutti quanti! Delinquenti... Vi porterò via la bambina, vedrete! E il cane... Quella bestia feroce... Ah, sì! Lo farò abbattere, statene certi. - Questo si vedrà! - disse l'Ernesto, muovendo un passo avanti e sfidando il direttore con tutta la mole del suo corpo robusto. - Giusto - rimarcò la Pinuccia, con un coraggio che le venne in gola insieme al cuore. - Questo si vedrà! - La battaglia è appena cominciata, signor Bagliotti - aggiunse calmo il professore. - E adesso se ne vada. Questa, fino a prova contraria, è la nostra stanza. Lei qui non è gradito. - Via! Via! Vada via! - gridarono tutti gli altri, mentre Argo principiava a mostrare di nuovo i denti. Il direttore si massaggiò la gamba, che aveva cominciato a sanguinare, e giudicò miglior partito ritirarsi, almeno per il momento. Uscì dunque dalla stanza, zoppicando e farfugliando oscuri propositi di vendetta.
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Le scarpe abbandonate sotto la seggiola, ai piedi del letto, la consolano: - La tua sorte è migliore della nostra. Il vitello cui appartenevamo è morto. Lo scuoiarono; conciarono, tesero, picchiarono la sua pelle e ne fecero scarpe. Dobbiamo camminare tutto il giorno con la nostra padroncina che non può star ferma un minuto. Finiremo presto nell'immondezzaio. - Ebbene? - domanda la sottoveste di cotone - anch'io ero più felice, quando pendevo in fiocchetti leggeri da una pianta nei paesi del sole. Mi raccolsero, mi filarono, mi tesserono, mi tagliarono, mi cucirono, mi ridussero quale sono. Ogni settimana mi si mette in bucato e, per tornare candida, devo sopportare la spazzola e il sapone: mi sbattono, mi strizzano, mi sciacquano. Servo però a qualchecosa e il giorno in cui avrò cessato di servire come sottoveste, finirò con te, cara vestina di lana, al màcero, in cartiera. Pensa un po' che bellezza! Diventeremo carta, ci trasformeremo magari in un bel libro stampato e illustrato che tutti i bambini vorranno leggere.
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Le mani abbandonate in grembo, la testa reclina sulla spalla sinistra, la fanciulla guardava ora l'urna dell'Evangelista ricoperta da una finissima tela di bisso trapunta di porpora e d'oro, e sulle sue labbra smorte errava un tenue sorriso. Le pareva ancora di udire la voce del babbo che le narrava come i due mercanti venetici fossero riusciti a eludere la severa sorveglianza che i doganieri saraceni esercitavano sui carichi delle navi in partenza. Dopo aver portato a bordo la sacra reliquia, Rustico e Bon l'avevano nascosta sotto un grosso mucchio di carne porcina, considerata immonda dai Mussulmani; quando i doganieri saraceni videro quella carne, se ne allontanarono inorriditi, lasciando così passare indisturbato il prezioso carico. E come si rallegrava, la piccola Loredana, allorchè il babbo completava la pia leggenda dicendole che, spiegate le vele e raggiunto il mare aperto, i due mercanti avevano portato il prezioso carico nel luogo più bello della nave e l'avevano posto sopra tappeti e drappi lussuosi! Il viaggio di ritorno era stato lungo e avventuroso, funestato anche da una violenta burrasca; ma alla fine erano arrivati felicemente, con tutte le loro navi salve al porto di Rialto. Tutto questo aveva raccontato Lorenzo Sagredo alla sua piccina mentre ella ammirava, come adesso, il bel quadro ricco di movimento e di colore. E le aveva anche detto che, da allora, san Marco era stato eletto patrono della Confederazione veneta, la quale aveva poi adottato come proprio stemma il leone alato, simbolo dell'Evangelista. Ma, quella mattina stessa, il pregevole dipinto che le ricordava la sua infanzia felice doveva essere venduto, seguendo la sorte di molti altri quadri che Lorenzo Sagredo aveva lasciati nel suo studio. Da oltre due mesi la mamma giaceva delirante nel suo letto di dolore, e le spese sostenute per curarla erano state tante. Gli occhi di Loredana, così grandi nel visino smagrito dalle veglie e dal dolore, fissavano estatici il fastoso corteo che accompagnava il martire alla, sua provvisoria dimora in San Teodoro, in attesa che venisse eretto il maestoso tempio che lo avrebbe custodito per millenni. Ed era così immersa in quella contemplazione e nei carie ricordi della sua infanzia che non udì la porta aprirsi e i passi di Alvise che si avvicinava. - Lori! - Ella volse verso il ragazzo il suo visino dolente. - Sono pronta, Alvise, - gli disse, alzandosi di scatto. - Ora avvolgo il quadro in questo drappo, così nessuno lo vede. - Bravo Alvise.... Intanto vado un momentino dalla mamma. - Fai presto, però. - Torno subito. - Uscì, salì al piano superiore ed entrò in punta di piedi nella camera dove Lucrezia Sagredo giaceva, vegliata da nonna Bettina. Loredana si avvicinò al letto e contemplò per alcuni istanti la madre che dormiva, insolitamente tranquilla. Il viso, molto dimagrito e pallido, era incorniciato dalla massa aurea dei bei capelli biondi. Sulla tempia si scorgeva ancora il segno rosso della ferita fatta nella caduta. - Nonna Bettina, se non vi dispiace, esco un momento con Alvise. - Vai pure, Lori, e stai pur sicura che alla tua mamma ci penso io. - Loredana baciò teneramente la mano di Lucrezia, abbandonata sulle coltri come un bianco fiore, e andò a raggiungere Alvise che nel frattempo aveva ricoperto il quadro con un panno. Afferrarono la cornice, uno da un lato, uno dall'altro, e s'incamminarono verso le fabbriche vecchie di Rialto. In una stretta calle teneva bottega un certo messer Antonio Foscarin, rivenditore di oggetti artistici: un bel vecchio, già molto avanti negli anni, con una fluente barba candida che lo faceva somigliare a un profeta biblico. Egli era conosciuto in tutto l'estuario per la bontà del suo cuore e per la generosità con la quale sovveniva ai bisogni di quanti ricorrevano a lui. Loredana e Alvise lo trovarono seduto nel suo fondaco buio e polveroso, intento a lucidare un'artistica lucerna in ottone di evidente provenienza. araba. - Buon giorno, ragazzi! - egli esclamò con la sua voce un po' tremolante di vegliardo. Si alzò e aiutò Alvise a togliere il quadro dal panno. - Vediamo che cosa mi avete portato di nuovo, - soggiunse poi, avvicinandosi alla porta per poter meglio osservare il dipinto. Era veramente bello, e in tempi normali non gli sarebbe stato difficile venderlo a qualche famiglia patrizia. Ma ora, dopo il disastro dell'arsenale e dopo i prestiti fatti alla Repubblica, nessuno spendeva più denaro in cose non strettamente necessarie. Il quadro era dunque destinato a rimanere nel fondaco insieme con qualche altro ch'egli aveva già comperato da Loredana. Il vecchio mercante sospirò. Le sue risorse, purtroppo, non erano illimitate; ma poteva rimandare quella graziosa bambina che con tanto coraggio assisteva la mamma inferma? Egli avrebbe continuato ad aiutarla; Dio, poi, aiuterebbe anche lui a tirare avanti. - Va bene, piccola Sagredo, lo acquisto molto volentieri il Corteo di San Marco. - Diede a Loredana una bella somma e soggiunse, mentre le accarezzava le trecce lucenti: - Brava piccina; cura bene la tua mamma e il Signore ti benedirà! - Usciti dal fondaco, i due ragazzi fecero un giro piuttosto lungo perchè dovevano andare in fondo alla calle dei Fabbri dove si trovava uno speziale che si diceva vendesse farmachi miracolosi per tutti i mali. E Loredana desiderava che la sua mamma guarisse. Camminavano, contenti di respirare l'aria pura del mattino e il fresco odore salso che veniva dal largo. La vita a Venezia aveva ripreso il suo ritmo tranquillamente laborioso, e solo qua e là si scorgevano ancora le rovine dell'esplosione. Buon numero di manovali, infarinati come pagliacci, lavoravano alla rimozione delle macerie annerite dal fumo degli incendi. Si capiva, data l'alacrità degli operai, che presto quel triste spettacolo non sarebbe stato più che un ricordo e che altri edifici, ben più sontuosi, avrebbero preso il posto di quelli rovinati. Attraversarono piazza San Marco, meravigliosa per marmi, ori e sole, mentre dall'alto della torre dell'orologio i «Mori» battevano le nove. Piegarono a destra, di fianco al grandioso campanile sulla cuspide del quale volteggiavano i gabbiani, e si diressero verso il molo. Lo spettacolo che si offrì ai loro sguardi riempì di gioia Alvise. Il vasto bacino di San Marco brulicava d'imbarcazioni. Navi da guerra e navi mercantili si apprestavano a salpare verso i mari lontani: le une per consolidare e difendere la potenza, marinara della Repubblica, le altre per fare acquisto di stoffe preziose e dei ricercatissimi aromi e spezie dell'Oriente. Chiatte di ogni grandezza e «bissone» variopinte trasportavano sul casserò delle navi acqua, viveri e munizioni. Di quando in quando un'elegante e sottile gondola scivolava leggera fra tutto quel brulicare di navi, portando a bordo qualche ricco mercante o qualche marinaro della Serenissima. Alvise non si. sarebbe mai stancato di osservare quanto avveniva lì intorno, ma Loredana gli tirò la manica della giubba. - Andiamo, Alvise, si fa tardi. - Eccomi, eccomi, Lori, - rispose il ragazzo incamminandosi a malincuore a fianco della fanciulla. Ma passato il ponte sul Canal Grande e giunti in campo San Trovaso, un altro spettacolo, che piacque anche a Loredana, fermò di nuovo i loro passi. Si trattava di un vecchio sonatore girovago intento a far ballare, al suono di un piffero, una scimmietta infagottata in un giubbettino vermiglio. Ed erano così leziose le contorsioni della bestiola che nessuno poteva trattenere il riso. Di fianco al sonatore stava accucciato un cane lupo, ispido e feroce come solo i cani lupo sanno essere. Finito il suo buffonesco saltellare, la scimmietta corse ad arrampicarsi sulle spalle del sonatore, il quale le offrì in premio una nocciolina che il piccolo quadrumane si affrettò a sgranocchiare. Subito dopo il cane lupo, afferrato con i denti il sudicio casco del vecchio e tenendolo a mo' di borsa, fece il giro degli astanti camminando sulle zampe posteriori. Loredana e Alvise, che non avevano mai visto una cosa simile, rimasero lì a guardare, a occhi spalancati, anche quando gli altri spettatori se ne furono andati, la maggior parte senza neppur lasciare una monetina in compenso. ....la scimmietta corse ad arrampicarsi.... Piano piano, attirati dal fascino che esercitavano su di loro l'esotica bestiola e il suo rustico padrone, i due ragazzi si erano avvicinati, incuranti del sordo brontolio del cane che evidentemente aveva assaggiato più di una volta la cattiveria umana e non si fidava più di nessuno. Loredana tolse dalla sua borsetta una bella moneta d'argento e la porse al senatore girovago; poi accarezzò il cane, ormai suo amico. Il vecchio, commosso, fece di nuovo ballare la scimmietta per l'esclusivo godimento dei due ragazzi, i quali avrebbero desiderato che quel balletto non avesse mai fine; quindi se ne andò, dopo essersi rimesso il casco in testa e il piffero sotto il braccio. Alvise e Loredana si accòrsero solo allora che il tempo era volato e che il sole era molto alto nel cielo. Messe, dunque, come si suol dire, le gambe in spalla, si diressero verso. casa con il fermo proposito di non lasciarsi sedurre da altri spettacoli. Vi giunsero tutti ansanti e in orgasmo, pronti a subire una buona ramanzina. Ma il grande cuore di nonna Bettina li aveva già scusati, sicchè i due ragazzi furono ben lieti di sentirsi accolti con la consueta, amorevole condiscendenza. - La mamma è stata tranquilla, e dorme ancora. - Grazie, nonna Bettina. - Quando si desterà, le darai la medicina che hai comprato. E ora addio, Lori. - Uscita la nonna., Loredana si sedette ai piedi del letto di Lucrezia, sopra uno sgabello. Era stanca della lunga camminata e della corsa fatta. Un leggero incarnato le coloriva le guance, e i capelli arruffati le folleggiavano intorno al visino assorto. Pensava ancora alla scimmietta danzatrice e al cane lupo che sembrava tanto feroce e che invece si era dimostrato mite come un agnellino. Quando la mamma fosse guarita, la condurrebbe a vedere lo spettacolo grazioso, e allora si divertirebbero insieme. Fuori, il venticello di marzo agitava mollemente i rami ingemmati delle acacie, e sulle zolle dell'orto e sul muretto del rio cresceva una tenera erbetta smeraldina. Loredana contemplava la pace sognante del suo orticello nel quale l'ombra violacea degli alberi, il verde delle zolle, le rosse pietre corrose del muricciolo si univano in una squisita armonia. Com'era bello il suo orto! Piccolo e quasi umile, ma tutto suo, racchiudeva per lei i sogni dei rosei tramonti e delle notti incantevoli. Anche gli uccellini, tornati lì a costruire il loro nido, sembravano appartenerle, come l'olezzo delle corolle che si mescolava nell'atmosfera con l'odore della salsedine. Si voltò per tornare a sedersi sullo sgabello ai piedi del letto e vide che la mamma era sveglia, con gli occhi bene aperti e il viso tranquillo. Le si avvicinò rapidamente. - Mamma! - le sussurrò, ansiosa. - Mamma cara! - Al suono di quella voce Lucrezia Sagredo ritrovò il gesto amorevole che da tanto tempo aveva dimenticato. Sollevò la mano scarna e accarezzò la testolina della sua bimba. - Mia piccola Lori! - Una gioia immensa invase il cuore di Loredana. Finalmente la sua mamma la riconosceva! Il triste incantesimo che da oltre due mesi l'aveva tenuta lontana dalla sua piccola era dunque cessato. - Oh, mamma! - singhiozzò Loredana affondando il viso nel guanciale, accosto a quello di Lucrezia. La scarna mano della mamma continuava ad accarezzare le trecce lucide di Lori, quasi volesse calmare quel singhiozzo che solo rompeva il tranquillo silenzio della camera. - Lori, sono stata molto malata, vero? - SI, mamma, molto. - E quanto è durata la mia malattia? - Non so.... - rispose la bambina, che non aveva pensato a tener conto del tempo trascorso. - Aspetta, ora ricordo. Mi venne male alla notizia - della caduta di Famagosta. - Sì, mamma. - Lucrezia Sagredo emise un sospiro profondo che pareva un gemito. - Il dubbio atroce che il babbo non potesse più ritornare mi abbattè. - Oh, mamma! - E Loredana continuò a singhiozzare, con il visino affondato nel guanciale. Ma non c'era desolazione in quel pianto. Loredana aveva ritrovato la sua mamma, che grazie a Dio non era più, come nelle trascorse settimane, una povera creatura smarrita in un mondo di dolore, come un misero uccellino al quale un'immane bufera abbia distrutto il nido e non sappia più dove posarsi per nascondere il capino sotto l'ala. La sua mamma era ritornata dal dolente paese delle ombre, e con lei erano ritornati tutti gl'incanti dell'infanzia. I singhiozzi alleggerivano il cuore di Loredana. - Piccina mia, non pianger più. - Com'era dolce la debole voce della mamma!... A poco a poco il pianto convulso andava calmandosi, cullato dalle parole e dalle carezze materne. Il viso di Loredana risplendeva di tutta la gioia del suo cuore. - Senti, Lori: vuoi accendere per un momentino la lucerna? - La lucerna, mamma? E perchè? - chiese la bimba, meravigliata. - È così profonda la notte e io non riesco a vederti! E ne ho tanto desiderio, piccina mia! - Loredana indietreggiò, piena di spavento. Tutta la gioia di poco prima era svanita: la mamma si smarriva di nuovo nel sentiero delle ombre. - Vuoi accendere, Lori? - ripetè Lucrezia dolcemente. - Ma c'è il sole, mamma! - gridò la bimba. disperata. - Il sole? - ripetè Lucrezia come un'eco. Con grande sforzo cercò di sollevare il capo dal guanciale e di guardare intorno. - Ma.... allora, io sono cieca, Lori! - Due grosse lacrime scesero dagli occhi spenti, rigarono le tempie e si persero nella massa aurea dei capelli. - Lori, vieni qui, vicino a me. Non dobbiamo più rattristarci. Io offro a Dio la mia pena perchè faccia ritornare il babbo. - Compiuto il sublime olocausto, una grande pace distese i lineamenti di Lucrezia Sagredo. Le sue palpebre velarono le pupille senza luce e la sua mano si posò lieve sui riccioli della figliuola stretta a lei. Così le trovò nonna Bettina quando tornò dalla sua vicina di casa.
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Mentre procedeva pensoso con le redini abbandonate sul collo del cavallo, esce da un tugurio una vecchia centenaria, nera come un tizzo spento, con gli occhiacci cispellosi, i capelli tutti bianchi, e stendendo la mano adunca fino ad afferrare il cavallo per il morso, dice nella sua lingua: - Io, Re potente, so molte cose che nessuno sa. Se tu rinunzi a pregare oggi Maria di Nazareth, se volgi briglia ed entri nella moschea maggiore e preghi Allah e il suo profeta, io ti rivelerò dove tuo padre nascose tutti i tesori che tolse ai Siciliani quando ritirò tutta la moneta sonante e dette invece moneta di cuoio con la sua effigie. -
Quando il malato fu fuori di pericolo, egli rimase in uno stato singolare d'atonía per ore e ore, con le pupille vitree fisse dinanzi a sè nel vuoto, con le braccia abbandonate lungo il corpo su le coltri, mentre le mani magre e ceree a tratto a tratto gli si contraevano con brevi moti convulsi. In queste ore egli prendeva macchinalmente qualunque cosa gli si mettesse in bocca; in altre, invece, era lui che, con un fil di voce rauca e malinconica, chiedeva da mangiare, sempre da mangiare. — È allupato! — esclamava la grossa padrona di casa strabuzzando gli occhi. E allora suor Istituta, sorridendo, doveva frenare con parole ragionevoli l'appetito del suo convalescente, il quale stizzivasi come un bimbo delle privazioni che gli venivan consigliate; ma finiva quasi sempre col sorridere, anche lui, d'un sorriso smorto. - Sono molto cattivo, eh, lo dica lei! — chiedeva egli alla monaca, qualche rara volta che aveva forza e volontà di far quattro chiacchiere. La cornetta candida s'agitava negando indulgentemente: ci vuol pazienza, si sa; bisogna offrire a nostro Signore ogni patimento, farlo per mortificazione... e allora si sopporta tutto volentieri... In piedi, accanto al capezzale, ella pronunziava queste frasi d'umiltà e di rassegnazione un po' rapidamente, a mezza voce, come ripetendo a se stessa una giaculatoria, che fosse il ritornello obbligato della sua esistenza. Soltanto una volta scoppiò in una risatina infantile, quando il tenente, in tono corrucciato e confidenziale, le disse: — Ma che lei pretenda di schiaffarmi in paradiso per forza, è troppo! — A mano a mano che la convalescenza progrediva, il giovane mostravasi più nervoso e irascibile; a segno che in certi, momenti trattava quasi con egual severità il suo soldato e l'infermiera. In vece, certe sere, quando aveva molto dormito in giornata, di quel sonno riparatore delle forze ch'è tanto necessario a chi esce da una grave e penosa malattia, egli si sedeva su 'l letto, con una pila di cuscini dietro le spalle, e raccontava lentamente qualche episodio marinaresco occorsi a lui o a qualche suo compagno, evocando genti e paesi lontani dall'aspetto singolare e dagli usi mal noti. E allora quelle immagini che prima, durante il suo delirio, egli, inconscio, aveva come fatte balenare vertiginosamente dinanzi alla impressionabile, inesperta, spaventata fantasia della suora, a poco a poco si delineavano nitide e si fissavano nella mente di lei, ormai avida di novità, formate, colorite e chi sa quanto abbellite dalla poesia del descrittore. Giammai, un accenno, nè meno il più vago, usciva dalle labbra di lui intorno alla donna così appassionatamente chiamata e bramata nella crisi del male. A suor Istituta, che sedeva, immota, accanto al suo letto, egli non parlava d'idoli orrendi; ma ora soleva descrivere un lume di luna sotto l'equatore, somigliante a un meriggio mitemente roseo, nella cui luce diafana disegnavasi qualche pagoda dalle molteplici cupole che proiettavan lievi ombre azzurrognole, e da quella pagoda, vaporosa come un sogno, emanava un profumo soprannaturale; una quiete solenne e dolcissima era intorno. Dalle porte aperte del chimerico tempio si scorgevano ardere, sospese alla volta, tutta trafori, lampade d'oro massiccio in forma d'uccelli e di pesci; in fondo s'ergevano schiere d'idoli circondati di simboli ignoti, a' cui piedi era sparsa una folta fiorita di gelsomini e di tuberose senza stelo... O ricordava un'isoletta sotto un'ampia cupola di palmizi dal tronco sottile, come scolpito a bassorilievo. Là giù, le fronde a mazzi cresputi s'alzano come pennacchi o si piegano ondulando con languido ritmo alla brezza marina. E', sotto quelle piante, come un crepuscolo verde: singolare contrasto, per chi guarda l'isola dal mare, con la luce d'oro che colora in alto l'esterno del padiglione vegetale, e con la zona sterminata delle acque che la fasciano tutta d'un azzurro di turchese. Una sera, minacciava un temporale. L'aria, di calda ma elastica, s'era fatta pesante e afosa; Contessa Lara. 3 sbuffi di libeccio, come uscenti da una fornace, frusciavano con violenza tra le fronde agitate del giardino, sconquassavano e ingolfavansi dalla finestra nella stanza, gonfiando le cortine come vele, sparpagliando su'l pavimento i fogli che s'ammucchiavan su la tavola, sbattendo gli usci tra sibili e mugolii lugubri e frementi. Il tenente era stato molta parte del giorno taciturno, cupo, accigliato, quasi che l'avesse perseguitato un'idea fissa. Aveva mangiato meno del solito, dichiarando mal fatta ogni cosa preparata per lui; e finì col bestemmiare come un ossesso, perchè nel versarsi ei medesimo da bere, s'era rovesciato un po' di vino su 'l lenzuolo. Suor Istituta andava e veniva per la camera, servendolo senza far motto, con gli occhi più persistentemente chini al suolo, con le labbra serrate, come una bimba che si fa forza per trattenere il pianto. Il soldato, svelto e ubbidiente, correva, sempre scalzo, dove uno sguardo o un cenno della monaca gl'indicavano. Gli animi, come l'aria, eran gonfi di qualcosa, che aveva bisogno di sfogo. Finalmente, quando la sera fu scesa, il temporale estivo scoppiò in tutta la sua rumorosa violenza. Lampi e tuoni si succedevano senza interruzione, illuminando le cose d'una luce fulva e sinistra, e facendo oscillar cupamente la stanza del malato, come egli aveva tante volte sentita oscillare la sua cabina di bordo. Si sarebbe detto che tutta la pioggia, la quale da tre mesi non cadeva, si fosse rovesciata a torrenti straripanti su'l piccolo giardino, i cui rami si torcevano, gemevano, schiantavano. Il vento ululava peggio d'una belva. La suora, tremante, con la sua corona stretta in una mano, cercava, con l'altra, di riparar la fiammella del lume, che ondeggiava, lingueggiando, nella continua minaccia d'estinguersi; da che il malato, per un suo capriccio fisico, aveva assolutamente voluto che la finestra restasse spalancata. - Respiro! Respiro! Adesso respiro! - esclamava mettendo un lungo respiro di suprema soddisfazione — Bisognava dunque che l'inferno si scatenasse così, perch'io stessi meglio! — In quel medesimo momento, una raffica più forte dell'altre portò dentro un'ondata di pioggia che s'abbattè su 'l pavimento: il lume si spense, e mugghiò un tuono che parve una cannonata sparata lì accosto... Con un piccolo grido e un involontario balzo a dietro, suor Istituta, colta di terrore, erasi buttata presso il letto dell'infermo. Questi diede in una di quelle risate spontanee, giovanili e sane, che certo non lo rallegravano da un pezzo, e la sua mano cercò la manina gelata e tremula della monaca. - Che c'è? Ha paura? — esclamò egli in tono canzonatorio; e soggiunse continuando a ridere: — Ha paura che il diavolo si presenti da vero? - Ella ebbe un brivido per tutto il corpo; un brivido che le corse giù fino alla punta delle dita affusolate, che l'ufficiale teneva strette. - Paura... no; ma è un tempo... un tempo orribile! - - Un tempo che mi fa tanto bene! - disse lui - Non è contenta lei ch'io mi senta meglio? - Al bagliore d'un lampo, egli vide un sorriso beato su le labbra pallide della sua infermiera. Allora insistè: - Dica, non è contenta? - - Non desidero altro... altro al mondo! — confessò ella con un fil di voce dolcissima. Il malato la guardava fisso, come attratto verso di lei da un fascino nuovo e singolare. Perchè mai era così bianca, quasi spettrale? Perchè tremava ella tanto, per modo che, appoggiata al letto, gl'imprimeva un lieve, rapidissimo moto? — Mi vuol dunque bene, lei?... — La suora mise un altro piccolo grido, come quando lo scoppio della tempesta l'aveva spaurita, ma più soffocato e come interno; si fece al tempo stesso un segno di croce, svincolando la sua mano dalla mano virile che la premeva, e corse a riaccender la candela e a chiudere le invetriate. Quando il lume, ch'ora sembrava giallo, rischiarò la camera, il volto di suor Istituta parve roseo: ella sorrideva; era tornata serena; non tremava più; s'era vinta. — Non doveva esser pallida; era l'effetto dei baleni; e tremava soltanto perchè aveva paura dei tuoni — fece tra se il tenente, con un senso d'ironia dispettosa. Chiese da bere; poi serrò gli occhi, forse per dormire, forse per pensare.
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Rossella sorreggeva teste abbandonate, perché le labbra aride potessero bere, versava secchi d'acqua su corpi impolverati, febbrilmente, nelle ferite aperte per procurare un attimo di sollievo ai disgraziati. Si avvicinava coi secchielli in mano ai conducenti delle ambulanze e chiedeva col cuore in gola: - Che notizie? Che notizie? E da tutti aveva la stessa risposta: - Niente di certo, signora. È troppo presto per poter dire qualche cosa. Giunse la notte soffocante. Non un soffio d'aria; le fiaccole di pino tenute dai negri rendevano l'atmosfera ancora piú calda. La polvere ostruiva le narici di Rossella e inaridiva le sue labbra. Il suo abito di calicò color lavanda, cosí ben stirato e inamidato la mattina, era macchiato di sangue, di sudore e di sudiciume. Ecco ciò che intendeva dire Ashley quando scriveva che la guerra non era che sudiciume e miseria. La stanchezza dava alla scena un aspetto irreale, fantomatico. Non poteva esser vero... perché se fosse stato vero, il mondo doveva essere impazzito. Altrimenti, perché ella si troverebbe qui, nel tranquillo prato dinanzi alla casa di zia Pitty, in mezzo a luci oscillanti, a versar acqua sui suoi spasimanti moribondi? Infatti molti dei feriti le avevano fatto la corte e vedendola cercavano di sorridere. Vi erano tanti uomini che vacillavano su quella strada buia e polverosa, uomini che ella conosceva bene e che morivano sotto i suoi occhi, coi volti insanguinati coperti di zanzare, uomini coi quali aveva riso, ballato, per i quali aveva suonato e cantato e che aveva stuzzicato, confortato anche... amato un pochino. Trovò Carey Ashburn fra un mucchio di feriti in un carro da buoi, ancora vivo benché avesse una pallottola da fucile nel capo. Ma non poteva trarlo dal carro senza disturbare altri sei feriti, quindi lo lasciò andare all'ospedale. Piú tardi seppe che era morto prima ancora di esser veduto da un dottore, e che era stato sepolto non si sapeva precisamente dove. Ne erano stati sepolti tanti in quel mese, nelle tombe scavate frettolosamente nel cimitero di Oakland. Melania fu molto addolorata per non aver potuto tagliare una ciocca di capelli di Carey da mandare a sua madre ad Alabama. La notte trascorse; Pitty e Rossella avevano la schiena indolenzita e le ginocchia che si piegavano per la stanchezza, ma continuavano instancabilmente a chiedere: - Che notizie? Che notizie? E dopo lunghe ore ebbero risposta: una risposta spaventosa. - Stiamo indietreggiando. - Ci ritiriamo. - Sono migliaia e migliaia piú di noi. - Gli yankees hanno tagliato la strada alla cavalleria vicino a Decatur. - Bisognava mandar dei rinforzi. - Tutti i nostri saranno fra poco in città. Rossella e Pitty erano attaccate l'una al braccio dell'altra sorreggendosi a vicenda. - Stanno... vengono... gli yankees? - Sí, signora, vengono; ma non c'è d'aver paura. «Non abbiate paura, Miss, non possono prendere Atlanta.» «No, signora, abbiamo costruito troppe fortificazioni intorno alla città.» Ho sentito il Vecchio Joe dirmi personalmente: posso tenere Atlanta indefinitamente.» «Sí, se ci fosse il Vecchio Joe. Ma...» «Sta' zitto, imbecille! Che bisogno hai di spaventare le signore?» «Gli yankees non potranno mai conquistare Atlanta.» «Ma perché non andate a Macon o in qualche altro posto? Non avete parenti?» «Gli yankees non possono prendere Atlanta; ma certo sarebbe meglio che le donne non rimanessero qui, sia pure per assistere al tentativo.» L'indomani, in una giornata soffocante e piovosa, l'esercito sconfitto affluí ad Atlanta: migliaia di uomini esauriti dalla fame e dalla debolezza, demoralizzati da 70 giorni di battaglie e di ritirate, coi cavalli macilenti e spauriti, i cannoni e i cassoni tenuti insieme da pezzi di corda e strisce di vecchio cuoio. Ma non venivano col disordine di un esercito in rotta. Marciavano in buon ordine, malgrado i loro stracci, con le rosse e lacere bandiere di battaglia sventolanti sotto la pioggia. Avevano imparato a ripiegare col Vecchio Joe, il quale aveva fatto della ritirata un elemento strategico come un'avanzata. Le file di uomini barbuti e laceri percorsero la via dell'Albero di Pesco, cantando: «Maryland! O mia Maryland!»; e tutta la città venne fuori a salutarli. Vincitori o sconfitti erano i suoi soldati. La Milizia di Stato, che era andata in campo poco tempo prima, splendente nelle sue nuove uniformi, si distingueva a malapena dalle truppe stagionate, tanto i suoi componenti erano in disordine. Nei loro occhi era una nuova espressione. I tre anni, durante i quali non avevano fatto che giustificarsi, spiegando la loro assenza dal fronte, erano ormai dietro di loro. Essi avevano abbandonato la sicurezza delle retrovie per i pericoli della battaglia; molti di loro avevano lasciato una vita facile per una morte dolorosa. Ora erano dei veterani, veterani di un servizio breve, ma veterani ugualmente per la maniera in cui s'erano comportati. E cercavano nella folla i volti degli amici, fissandoli con fierezza. Adesso potevano tenere la fronte alta. I vecchi e i ragazzi della Guardia Nazionale marciavano: i primi movendo a stento il passo, e i secondi col volto di bimbi stanchi che avevano troppo presto conosciuto le tristezze della vita. Rossella scorse Phil Meade e stentò a riconoscere il suo volto nero di polvere e di sudiciume, irrigidito dallo sforzo e dalla stanchezza. Zio Enrico si avanzava zoppicando, senza cappello sotto la pioggia, col capo riparato alla meglio da un pezzo di tela impermeabile. Il nonno Merriwether era in un carro d'artiglieria coi piedi nudi avvolti in ritagli di coperte. Ma per quanto guardasse non riuscí a scorgere John Wilkes. I veterani di Jonhson, però, camminavano col passo instancabile che avevano avuto per tre anni, ed avevano ancora la forza di sorridere alle belle ragazze e di insolentire gli uomini senza uniforme. S'avviavano alle trincee che circondavano la città; non fossati scavati in fretta, ma trincee costruite in piena regola, con parapetti all'altezza del petto, rinforzati con sacchi di terra e travi di legno. Erano miglia e miglia di solchi purpurei, che attendevano gli uomini che dovevano riempirli. La folla salutava le truppe come le avrebbe salutate se fossero state vittoriose. In ogni cuore era la paura; ma ora che si conosceva la verità, ora che il peggio era accaduto, ora che la guerra era tra loro, un mutamento sopravvenne. Non vi era piú panico né isterismo. Ciò che era nel cuore non si leggeva sul volto. Ciascuno cercava di mostrarsi coraggioso e fiducioso dinanzi ai soldati. E tutti ripetevano ciò che il Vecchio Joe aveva detto proprio prima di essere esonerato dal comando: «Terrò Atlanta indefinitamente.» Ora che Hood si era dovuto ritirare, molti desideravano, come i soldati, il ritorno del Vecchio Joe; ma non osavano dirlo e si limitavano a ripetere la sua frase: «Conserverò Atlanta indefinitamente!»
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E uno sbandarsi improvviso: gente che scappa quasi impazzita, urli, bestemmie, uomini che cadono come mosche, e il leprino, sanguinante, che grida: - Zi' Croce, fratello mio, non mi abbandonate! Essere scampati vivi da quell'inferno gli era parso un miracolo. - Zi' Croce, fratello mio, non mi abbandonate! Il leprino aveva una palla nella coscia; e lo zi' Croce ora lo reggeva col braccio, ora lo prendeva su le spalle; così si erano trovati alla riva del Fiume Grande, tra una gran calca di fuggiaschi, con un immane ingombro di carri, di carrozze, di animali, e uomini, donne, vecchi, fanciulli, d'ogni condizione, tutti col terrore del massacro in viso, tutti con gli occhi rivolti verso Catania che bruciava e fumava sinistramente nella notte serena, lontano, quasi l'Etna, squarciati i suoi fianchi, riversasse sulla città fiumi di lava.
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Fortunatamente le loro carte, fatte dal Sindaco, erano in regola; e verso mezzogiorno, marito e moglie, raggianti di gioia, scendevano le scale di quel vecchio palazzo che sembrava una prigione, con quelle povere creaturine abbandonate là in mano di balie mercenarie, e di suore che non potevano intendere niente della maternità, poichè vi avevano volontariamente rinunciato. - Figlio mio, sono la tua mamma! E questo è tuo padre! - diceva la donna al bambino che li guardava sbalordito, quasi diffidente di quei visi nuovi. Ed erano stati davvero padre e mamma per lui. La loro casetta silenziosa ora risuonava allegramente di grida e di strilli infantili. La povera donna, che non aveva mai sentito il sussulto delle viscere per una creatura sangue suo, sembrava pazza di gioia alla vista di quel bambino di origine ignota, fino di lineamenti, biondo di capelli, con occhioni così azzurri da parere quasi neri, gracilino ma ben fatto; e, in certi momenti, ella credeva le fosse piovuto dal cielo per speciale grazia di Dio, in ricompensa delle tante preghiere da lei fatte, delle tante elemosine date ai poveri perchè glielo impetrassero con le preghiere loro, forse più efficaci delle sue. Ispirazione della Madonna, s'ella aveva detto al marito: - Prendiamo un trovatello!
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Sono creature di Dio, disgraziate, abbandonate. - Ai muli deve pensare il re! Lo zi' Cola appoggiava il mento su le mani sovrapposte al suo bastone di ciliegio e socchiudeva gli occhi, aggrottando le sopraciglia. Pensava all'antica: per lui i trovatelli erano muli; e a loro doveva provvedere soltanto il re, che voleva dire: il governo. Ma Rosa, in risposta, baciava forte il bambino, dicendo: - Questo è barone, principe, re di casa mia! E suo marito, grave, con le mani su le ginocchia, guardava lei e il bambino, e non diceva niente. Le vicine, invidiose e maligne, vedendo quel trovatello vestito come un signorino, lo chiamavano, per dispetto: il mulo di Rosa. E Rosa, se le udiva, lasciando d'impastare il pane, si affacciava su l'uscio con le braccia nude intrise di pasta, e cominciava a sbraitare: - Femminacce senza educazione e senza cuore! Muli saranno i figliacci vostri, se non avete carità per una povera creatura che non vi fa nessun male! - Con chi parli, pettegola? - Parlo con tutte! Romperò il muso a qualcuna! E quando il ragazzo, già cresciuto, nel fare il chiasso con gli altri suoi pari, si bisticciava e si azzuffava con essi, e tutti gli gridavano: - Mulo! Mulo! - ed egli si metteva a piangere perchè lo chiamavano come la sua mamma non voleva, Rosa diventava una furia, e correva addosso ai ragazzacci dando spintoni e scapaccioni. - Se non ne storpio uno, non sarò più Rosa Zoccu! Suo marito, arrivando dalla campagna la trovava in lagrime per questo. - Lasciali dire! - la confortava. - Gli tolgono forse il pane di bocca? Il pane lo avrà meglio assai dei figli loro. È tutta invidia! Lasciale dire. Ora lo manderemo a scuola.
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Madonnina benedetta, non mi abbandonate! Oggi é la vostra festa!... Liberatemi voi! Non reggo più! Liberatemi voi!...
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Ora come farò se voi mi abbandonate?
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Pallidissimo, come di cera, col busto sorretto da un monte di origlieri, la camicia squarciata e sanguinosa che lasciava vedere una larga fasciatura, le braccia abbandonate da una parte e dall'altra, Andrea Luclovisi ripetè, più debolmente: - Costanza! Ella era caduta in ginocchio accanto al letto, aveva presa la sua mano fredda e sbiancata, stringendola fra le sue, coprendola di baci fra i singhiozzi che le spezzavano le parole. - Andrea!... Andrea mio!... Che hai fatto!... Andrea mio!... Oh, Signore!... pietà!... Cercando di liberare la sua mano, egli disse: - Calmati, Costanza... calmati... se mi vuoi bene! Alzati, fatti più vicina... così... che io ti veda tutta... che io ti baci... purchè tu non pianga, Costanza.... - Ma perchè, Signore! perchè... - e, parlando, ella gli passava una mano sui capelli, lievissimamente - perchè hai fatto questo?... Andrea Ludovisi chiuse un istante gli occhi. - Senti... io non potevo vivere con l'idea che quell'uomo... ti avesse... amata. Ella si rialzò con un tremore in tutta la persona. - Oh... ancora! Andrea, per quel Dio che ci vede, per quel Dio che deve ridarti all'amor mio, no! non è vero! non è stato mai!... - Allora... quella lettera? - Ma quale? Quale lettera?... - Una di quelle, la lettera che tu volesti mostrarmi.... Un sorriso sfiorò la bocca della baronessa, mentre, curva di nuovo sul ferito, ella tornava ad accarezzarlo. - Ma come quelle ve ne sono tante altre, povero amore!... Tu, amore, non l'hai letta!... Perchè non l'hai letta?... Sono delle dichiarazioni con le quali mi hanno perseguitata da per tutto!... Se sapessi quante me ne ha mandate colui!... Se sapessi da quante parti me ne sono piovute, da gente che non conoscevo neanche di nome!... Se sapessi come si tratta una donna nella mia posizione! Come tutto pare possibile, come tutto pare permesso!... Ma non era che questo, bambino?... Perchè non lo hai detto prima? E nella gioia di vedere dissipato il malinteso che era stato causa di quella tragedia, ella quasi ne dimenticava le conseguenze: - Povera Costanza! - esclamò Andrea, rivolgendole uno sguardo di compassione profonda. - Oh, sì, povera, povera tanto! Quante amarezze, quante umiliazioni! Quanta codardia in tutti questi uomini che ci circondano!... Tu solo, tu solo sei nobile e generoso, tu solo mi hai amata.... - È vero? Strettamente abbracciati, gli occhi negli occhi, pareva che essi volessero trasfondere Ie anime in quello sguardo supremo. - Sì, è vero: tu solo! Tu, che hai avuto paura di confessarmi l'amor tuo! Tu, che mi hai rispettata prima di amarmi! Tu, che hai esposto la tua vita per me! Tu, che sei stato geloso dei miei pensieri e dei miei ricordi! Tu, che non hai mai voluto conoscerli!... - Ancora!... ancora!... - Tu, Andrea, che mi hai fatto rinascere; tu, che mi hai fatto credere a tutte quelle cose di cui avevo disperato, alla bontà, alla sincerità, alla fede, all'amore.... No, io non sono mai stata amata, così! Non sono stata amata niente! Non lo sai? Mio marito mi ha lasciata otto giorni dopo il nostro matrimonio! Mi ha presa per la mia fortuna, che ha rovinata a metà! Mi hanno data a lui, perchè ero di peso in casa, e perchè aveva un nome! Ed ho subìto gl'insulti più atroci, le vergogne più innominabili. Allora, capisci, io non ero corazzata d'acciaio contro le seduzioni... Feci.... - Costanzal... te ne scongiuro!... - Zitto, bambino! Lascia fare a me. - E riprese, rapidamente: - Feci... come molte altre. Credetti d'avere incontrata la felicità; credetti - hai capito? - Fu una tregua soltanto. L'amore di... colui, finì presto... se pure cominciò mai... No, no; hai ragione, non cominciò mai!... Un sentimento di falso dovere non gli fece dir nulla; e, in cambio, mi oltraggiò... capisci come? preferendomi una... delle altre. Mi sentii sferzata a sangue. Vidi tutto abietto intorno a me; in quell'abiezione volli cadere anch'io, per vendetta, per rabbia impotente.... Fu una volta sola, e fu abbastanza... Andrea, te lo giuro, per l'amor nostro!... Andrea!... Andrea, che cos'hai?... Egli si era fatto ancora più pallido, spaventosamente, ed aveva portato una mano al petto. - Il sangue! il sangue! il sangue di Andrea! il sangue generoso versato per questa indegna! E accostate le mani alla fasciatura tutta madida, le portò al viso. - Che io mi lavi nel tuo sangue, ch'io lavi le mani, ch'io lavi la fronte, ch'io lavi la bocca, che io mi lavi tutta, ch'io mi purifichi - è questo? - sì, così... così.... - Tu sei redenta.... Al contatto di quelle labbra ghiacciate che si posavano sulle sue mani sanguinose, ella sentì un brivido passarle per tutto il corpo. - Lasciami... ch'io chiami.... - Non ancora, Costanza!... Un silenzio. A un tratto s'intese la pendola suonare le due. Egli rivolse alla donna uno sguardo pieno di passione, e disse, con voce che si sentiva appena: - A quest'ora.... sotto gli eucaliptus.... Ella non fece a tempo a contenere uno scoppio di pianto. Disperatamente, si lasciò cadere in ginocchio, mettendosi in bocca, per frenare i singhiozzi, un lembo del lenzuolo pendente. Ad un tratto, si senti chiamare: - Costanza... soffoco... l'aria.... Ella corse a schiudere la finestra. Come si voltò vide gli occhi di Andrea rovesciarsi e la bocca contorcersi un poco.... Al sordo rumore di un corpo che cadeva di peso, gli aspettanti si precipitarono nella stanza; e mentre il dottore, con un gesto disperato, accertava la morte, il duca di Majoli si curvava sulla irrigidita Costanza di Fastalia, sollevandola paternamente.
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Approfittando della confusione sorta da un brindisi si allontanò chetamente ed entrò in chiesa; una chiesuola rustica, primitiva, scrupolosamente pulita, con quell'odore indefinibile delle chiese abbandonate e quei lumicini spaventati tra l'economia e la divozione. Visitò i tre altari, esaminando i voti appesi e leggendo qualcuna delle ingenue dedicatorie; molte fra esse erano vecchie di due secoli, scritte con vernice bianca su rozze tavole di legno. Guardò le palme di fiori di carta piantate nei loro vasettini di vetro celeste, le tovaglie delle mense, gialline, ornate di pizzi all'uncinetto; la Via Crucis, con un Cristo gigantesca vestito di rosso, replicato quattordici volte; e poi si raccolse in un banco, senza pregare, assorbendo con tutta l'anima la calma mistica del tempio, meravigliata di trovarsi sempre nel cuore, accanto alla pace riconquistata, tin fondo di malinconia. Fuori, sul prato, trillava la vocetta acuta di Sofia in mezzo al cozzare dei bicchieri. Maria si mosse e senza sapere il perchè, guidata dal desiderio crescente della solitudine, passò davanti all'altare maggiore e uscì dalla porticina della sacristia. Là il silenzio era perfetto; sembrava di essere ai confini della terra. Un sentiero strettissimo girava dalla parte opposta della montagna, scoprendo i fianchi di un burrone irto di massi granitici, in fondo al quale, alla profondità di un duecento metri, scorreva mugghiando il torrente. Maria prese quel sentiero, a passi lesti come se qualcuno, la chiamasse. Una brezza freschissima, un po' umida, le scioglieva i capelli sulla fronte, le spianava i ringonfi dell'abito; un ramo spinoso le strappò il pettine, che cadde sui sassi e si ruppe. Ella sembrava non se ne accorgesse. Camminava, camminava, fuggendo il mondo, beata dell'aria pura e della libertà, compiacendosi di immaginarsi sola in quella natura incontaminata. A un tratto le apparve un uomo, ritto sul tronco di un albero rovesciato. Per un senso istintivo di pudore portò le mani nei capelli e alle vesti scomposte. L'uomo voltò la testa dalla sua parte; lo riconobbe, era lui. Egli la vide avvicinarsi senza pronunciare una parola, senza fare un gesto. Quando Maria gli fu accanto si accorse con terrore che il tronco dell'albero sporgeva dritto sull'abisso, ad una altezza vertiginosa. - Che fate? - gli domandò, sorpresa e spaventata. Non rispose subito; ma stette a mirarla con una disperazione negli occhi, con uno smarrimento di tutto il volto, fino a quando accostandosi ella vieppià, le disse a bassa voce: - Datemi la vostra mano. Maria credette che non potesse da solo rimettersi sul sentiero e fu pronta a tendergli la destra. Egli la baciò con affetto riverente e poi la sciolse. Il tronco scricchiolò, torcendosi sotto il peso del corpo che vacillava. Ella comprese tutto. Non ebbe che un grido: Emanuele! e slanciandosi forsennata lo prese nelle braccia, trascinandoselo sul petto, retrocedendo con quel corpo sempre stretto contro il suo, finchè caddero entrambi sulla roccia, quasi esanimi.
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Terminava allora un walzer, e le signore uscendo dalle braccia dei ballerini, avevano tutte un'aria languida, trasognata; si lasciavano cadere sulle poltrone come sopra un letto, abbandonate, quasi vinte dalla mollezza, cogli occhi che non vedevano. Sofia scuoteva le spalle, sferzate da lievi brividi di piacere, allargando le narici come una giovane cavalla che fiuta il vento. La Guidobelli, enigmatica, teneva le palpebre abbassate, umettandosi delicatamente, colla lingua, le labbra; chiusa in sè stessa, come se volesse assorbire fino all'ultimo la voluttà che svaniva. Ognuna di quelle signore che, nel ballo, si era stretta ad un uomo, aveva concesso qualche cosa; ognuno di quegli uomini, eccitato dal contatto, si trovava più che mai disposto a vedere una donna in ogni signora. Sedendo, curavano meno di allontanare le sedie; erano già stati così vicini! Parlavano più liberi, accostando i volti e i ginocchi come persone che ebbero già un precedente di intimità; dai seni delle signore cadevano i fiori mezzo avvizziti; gli uomini li raccoglievano, senza renderli, giuocherellando con essi, mordendoli leggermente. Un fumo sottile d'ebbrezza serpeggiava da coppia a coppia, in quella festicciuola alla buona, dove nessun cerimoniale e nessuna etichetta frenavano gli istinti del piacere. Dopo si combinò la quadriglia. C'era un gran movimento; la preoccupazione delle signore era quella di assicurarsi un cavaliere. - Lei non balla più? - le chiese la Guidobelli, scrutandola co' suoi occhietti impertinenti. Maria, rispose di no, e per evitarla, diede di capo nella Bonamore la quale, premurosamente, le fece osservare che aveva l'abito gualcito. Maria si scusò dicendo che s'era sentita poco bene; e andò a rifugiarsi dietro un paravento, nell'angolo del camino. In quel momento di calma, tornò a passarle nel cervello la visione della casetta solitaria dove avrebbe potuto nascondere agli occhi di tutti il suo amore, dove rotto ogni legame col mondo ella si sarebbe creata un Eden di felicità. Le risuonava all'orecchio la voce pregante di Ema- nuele: domani a quest'ora lontani di qui.... E guardando diritto innanzi a sè vedeva le coppie che si preparavano per la quadriglia, cinguettanti, allegre; Sofia più allegra di tutte. Pensava che ad onta dei suoi rapidi pentimenti, Sofia finirebbe col cedere al dottore od a qualche altro. Questa sicurezza le faceva salire alle labbra un sogghigno di amara ironia. per sè stessa, per i suoi inutili martiri, per il suo sacrificio incompreso. E profonda, pungente in fondo al cuore un'altra riflessione la torturava: Emanuele l'avrebbe disprezzata, l'avrebbe maledetta. Da quell'ultimo crollo delle sue illusioni, ella lo sentiva, doveva scaturire inflessibile per Emanuele il più cinico scetticismo. Maria rabbrividì tutta - esitò ancora un momento, l'ultimo. Poi sicura si mosse, facendo il giro della sala per non disturbare la quadriglia. Emanuele era in piedi presso il direttore; ella, nel passargli a tergo, ne fu urtata. - Perdono - fece egli voltandosi, guardandola lungamente. Maria sorrise, pallida sotto il rossetto. Sofia, che aspettava la sua volta per la dama seule, abbandonò il suo cavaliere per venire a chiederle come stava. - Meglio - rispose Maria, e sorrise anche a lei, attirandola con una pressione dolce. Si trovavano alle spalle dei ballerini, quasi nel cantuccio della porta. Maria avanzando la bocca la baciò lieve sui capelli, tremando. - Quanto sei buona! - esclamò Sofia, commossa da quel bacio inaspettato. - Ricordalo - mormorò Maria a fior di labbra, - e tornò a baciarla. Poco dopo il direttore della quadriglia ordinava: grande chaîne: e nel medesimo istante una carrozza ruzzolava sul deserto selciato di via Monforte, trasportando Maria. Allo svolto del bastione ella mise la testa allo sportello, fissando intensamente i lumi che brillavano nell' appartamento di Emanuele, con uno sguardo ardente; poi i lumi sparvero - ed ella ricadde sui guanciali, mordendo il fazzoletto, colla disperata sicurezza che questa volta lo perdeva per sempre. FINE.
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L'idea di dover morire e dover lasciare abbandonate di nuovo alla loro mala sorte quelle poverine, lo faceva smaniare. Prima sarebbe stato felice di andarsene all'altro mondo, a dormire accanto alla moglie e alle figliuole nella sepoltura dei Cappuccini. Ogni sera, recitato il rosario alle sue care morte, si raccomandava: — Venite a prendermi; che ci faccio più qui, senza di voi? — Ora invece....ora non poteva più morire tranquillamente. Come sarebbero rimaste quelle li? Quand'anche gli avesse lasciato tutti i suoi beni.... Che ne avrebbero fatto? Chi le avrebbe garantite, chi le avrebbe difese dalle male persone?.... Ed ecco il bel risultato della sua carità!...Il pretore aveva ragione: perché aveva egli voluto prendersi quella gatta a pelare? Vecchio rimbambito, che non era altro! E si voltava e rivoltava nel letto, brontolando. Già questa insonnia era un cattivo segno. Quando mai gli era accaduto di entrare in letto e non addormentarsi subito ? Ah, ah, credeva di dover campare quanto Matusalemme!... Quasi ci fosse qualcuno che potesse levargli i settantadue anni d'addosso!... E per ciò s'era presa quella gatta a pelare! Oramai le parole dal pretore erano diventate un ritornello per don Paolo. Infine, se si rammaricava di dover morire — il Signore lo vedeva! — se ne rammaricava soltanto per le povere orfanelle... Oh, si, il Signore e la Madonna Santissima dovevano farlo campare almeno un'altra diecina d'anni. Che ne avrebbero fatto lassù, in paradiso, che avrebbero fatto di un vecchio catarroso come lui? Non gli bastavano le tre anime giuste che s'erano prese tutte a una volta? Campando, egli avrebbe assestato le bambine, le avrebbe maritate, con la dote, ora che si potevano dire proprio sue figliuole; e allora.... allora avrebbe chiuso gli occhi in santa pace. Non chiedeva altro. Ci voleva forse un miracolo per farlo arrivare a ottant'anni ? Ripeteva ogni notte le stesse cose; e le rimuginava nella giornata, quando si vedeva attorno le orfanelle che spazzavano, raviavano, ripulivano, come due donnine, vispe, allegre, attente a eseguire gli ordini, e che già facevano parecchie cosette anche da se, senza bisogno che il nonno le suggerisse. ***
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Erano orfanelle, abbandonate da tutti..... Il Signore se l'è prese.... Sia fatta la volontà di Dio! Come vi chiamate? Lisa? Giovanna? Si chiamavano così anche le mie creature. Se volete stare con me e servirmi ora che sono vecchio, faccio testamento e lascio ogni cosa a voi... Il padrone sono io. Ma qui non ci voglio più stare; voglio andarmene a casa mia. Prendete le chiavi; andiamo, andiamo ! E bisognava secondarlo, perchè non s'arrabbiasse e non urlasse. Lisa fingeva di mettersi lo scialle — e spesso bastava buttarsi addosso una salvietta, un asciugamani — e gli dava braccio per le scale. Scendevano giù, in istalla o in cantina, e risalivano : — Eccoci in casa nostra! — Ah, come si sta bene qui ! Colà non mi ci potevo vedere !...In casa altrui uno non può fare a modo proprio. Si erano abituate a queste stranezze; spesso le prevenivano, le secondavano sempre, visto che era il miglior mezzo per non farle prolungare; e anche ci si divertivano, quando il povero vecchio si sfogava a parlare del passato lontano, molto lontano, che gli veniva alla mente con lucidità e precisione meravigliosa. Si divertivano quasi, anche quando se la prendeva con loro, con quelle ingrate che lo facevano morire di fame, che non potevano più vederselo dinanzi, perché il padrone era lui e loro volevano tutta la roba per sè... — Ma le gastigherò io! So io come gastigarle! — Come? — Straccerò il testamento, le lascierò nude in mezzo a una via! — Fate bene, — gli diceva Lisa ridendo. — Dovreste lasciare la roba a noialtre. — A voialtre? Che c'entrate voialtre? La roba mia è delle mie figlie, delle orfanelle che ho cresciute, nutrendole con la carne del mio cuore, col sangue delle mie vene! Che c'entrate voialtre? Esse soltanto mi vogliono bene ; e pregheranno per l'anima mia quando sarò morto; che c'entrate voialtre? ***
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Quanto erano belle, quelle corone fresche con quei delicati fiori di novembre che pare nascano appositamente per adornare le tombe dei morti, nel giorno della commemorazione; quanto erano fragranti, mollemente, con una fraganza fine e malinconica, tutti quei fiori sorgenti dagli steli e che avrebbero teneramente esalata la loro dolce vita sulle pietre di marmo del camposanto, covrendo della loro breve esistenza, la freddezza e la durezza delle lapidi, un anno abbandonate! Ella riprese coraggio e chiese: - Qual'è il minimo prezzo di una bella corona, dite? E Lamarra la guardò, questa volta, con una ciera sprezzante, poichè trovava che quella ragazza gli faceva perdere troppo tempo, e le rispose, seccamente: - Trenta lire. - Ah! -esclamò lei, con voce sommessa. Voltò le spalle, lentamente, Carmela, e uscì dalla bottega del fioraio, in preda a uno scoramento profondo. Perchè era entrata colà, quando non possedeva che diciotto lire? Perchè aveva voluto vedere tutti quei bei fiori, posto che non glieli poteva portare ad Amina Boschetti? Perchè questa follia in lei, così povera, così meschina così abbandonata, senza risorse che le sue gambe di ballerina di cui spesso gl'impresari non volean sapere, senz'altro pane che quello guadagnato coi battements e gli entrechats che si pagano a due lire, a due lire e cinquanta la sera, quando tutto va bene, quando è San Carlo che paga? Ella camminava verso il basso della strada di Chiaia, facendo a sè stessa i più duri rimproveri per tanto orgoglio, per tanta vanità, per tanta presunzione. Che si credeva di essere? Una miserabile ballerinetta, bruttina, poco graziosa, senz'altro pregio che la gioventù, senz'altra qualità che la sua instancabilità: e osava voler portare una corona di fiori freschi ad Amina Boschetti! Ad Amina Boschetti? Ma non era stata, forse, la Boschetti, la stella più alta, più fulgida, indimenticabile, insuperabile, insuperata, del teatro San Carlo? Non era stata un'apparizione di grazia indicibile, di seduzione muliebre, una lieve forma affascinante nei suoi veli bianchi, nello scintillìo dei suoi busti tessuti di oro e di argento, come il corpo di una farfalla? E mentre camminava, così, senza meta, Carmela Minino si rammentò la figura poetica, ideale della grande Amina Boschetti nei vestiti napoletani della Muta di Portici, se la rammentava distesa per terra, con le due braccia che facevano arco alla testa, dove si ammassavano i bruni capelli, se la rammentava sorridente di quel sorriso profondo che rendeva divino quel volto dove la beltà aveva la sua sede. In quella sera Carmela Minino aveva sentito nel suo cuore di bimba, decenne, l'adorazione per quella creatura quasi sovrannaturale e aveva voluto, teneramente, baciare i due piedini alati della sua madrina. Ora, ora, come tutti i ricordi si affollavano nella sua mente, com'ella si ricordava di quell'essere bello di una bellezza strana e possente, vivente una esistenza di lusso e di piaceri, strappata ai suoi palazzi, alle sue ville, ai suoi amori in piena giovinezza, in piena beltà, Carmela Minino provava più forte, più acre il desiderio di gittare dei fiori, molti fiori, molti bei fiori e non altro, sovra una tomba simile, essa provava l'orrore della sua povertà, della sua impotenza. E tornò indietro, subito, rientrò da Lamarra coraggiosamente. - Sentite, sentite - ella disse, in fretta, emozionata, tutta pallida, toccante il braccio di Giovanni Lamarra. - Voi dovete farmi una corona di fiori freschi, per quindici lire. Costui, non rudemente, colpito dal tono fremente di quella richiesta, le rispose con familiarità: - Figliuola mia, non è possibile. - Vedete , vedete di farmela... - balbettò lei, sempre più turbata, reprimendo - i singhozzi a stento. - I fiori son cari... - osservò Lamarra, già scrollato nella, sua implacabilità di primo fioraio napoletano. - Non importa... me la fate più piccola... per quindici lire... quindici lire... - Ma ci debbo rimettere, io, forse? - gridò Lamarra, con un falso tono d'ira, ma già commosso da quella insistenza, da quel pallore, da quella voce. - Rimetteteci: fate una carità, del resto. Io non ho che quindici lire - diss'ella, a bassa voce, ebbra di umiliazione, quasi avendo chiesto la elemosina. - E va bene - disse il fioraio, subito. Tacquero. Ella teneva gli occhi bassi, si appoggiava al muro: cavò le sue quindici lire e l'occhio acuto del fioraio vide subito, in quell'esiguo portafogli, che ve ne erano solo altre tre, di lire. - Dove debbo mandarla? - disse egli. - La prendo io: la porto io stessa. - Non è fatta. - Aspetterò. Egli si allontanò, passò nell'altra stanza, ritornò. - L'avete ordinata? Come l'avete ordinata? - ella chiese, ansiosamente. - Di crisantemi bianchi. - Ah! va bene. Metteteci qualche rosa... - Rose di ogni mese, queste ci posso mettere. - Sì, sì, qualche rosa, ve ne prego. Il fioraio si allontanò di nuovo. Carmela Minino restava nella prima bottega, fra la gente che andava e veniva, in un cantuccio, paziente, fra l'umidore dell'ambiente pieno di fiori bagnati, di erba molle d'acqua, tra le fragranze molto sottili di quei fiori autunnali. Quando ritornò, Lamarra, passò vicino a Carmela per prendere un cespo di rose bianche, rose di serra, magnifico, dalla vetrina: e cominciò egli stesso ad annodarlo, sotto una grande palma verde, con sapiente cura. Questa corona serve per vostra madre? - domandò curiosamente, ma benignamente, il fioraio. - No - disse Carmela Minino - Per la mia comare. - Oh Le volevate molto bene, allora? - Sì, molto bene. Anche adesso le voglio bene. - Era vecchia quando andò in paradiso? - No, era giovane e bella. Pareva un angelo - ella mormorò, a occhi socchiusi, quasi innanzi ad una visione paradisiaca. - Che siamo noi! - disse filosoficamente il fioraio - È morta da poco? - No, da sei anni. Io ne avevo quindici - e un velo di lacrime le appannò gli occhi. - Non ci pensate - soggiunse il fioraio, seguitando ad annodare le bellissime rose bianche, sotto la palma. Ora, vi metteva intorno un nastro di amoerro bianco, dove stava scritto, a lettere di oro: «Cara Maria, aspettami - Carlo.» E Carmela Minino che tutt'osservava, disse: - Non ci si potrebbe mettere un nastro, una iscrizione, su questa mia corona? - Sì, ora ci scriviamo una lettera, sopra, coi fiori! - esclamò ironicamente Lamarra. - Almeno il nome? Il suo solo nome? - disse l'altra, congiungendo le mani, pregando. - Come si chiamava? - Si chiamava Amina Boschetti - diss'ella, più piano. - Come la ballerina, si chiamava? Come la nostra Boschetti? - - Era lei, la mia madrina - soggiunse la povera Carmela Minino, mentre due lunghe lacrime le scendevano per le gote. Egli la guardò, sorpreso assai. La giovane era così meschinamente vestita, stringeva nella mano un ombrello così vecchio, i suoi guanti neri erano così bianchi su tutte le cuciture, che il fioraio, pensando alla luminosa Dea della danza, che aveva fatto delirare di ammirazione e di amore le calde platee, quasi non le credette. - Ella mi ha fatto bene, in vita e in morte - disse Carmela, con un impetuoso accento di sincerità. - E io debbo ricordarmelo sempre. - Era una grande signora, buona, bella, generosa, rispose il fioraio. - Voi avete conosciuta, eh? - Sì - gliene ho portato fiori, sul palcoscenico, in certe serate! Ne ho guadagnato denaro, con quelli che impazzivano per lei! Ma lei se ne rideva, di tutti questi innamorati, me ne rammento. Che serate! Pareva una fata, quando ballava! - Ora è morta - soggiunse la fanciulla, con voce infranta. - Giacchè l'avete conosciuta, ve ne prego, scriveteci il nome, sopra la corona, con le rose.