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PRIN 2012 – Accademia della crusca
Brunella Gasperini
Il galateo
La più famosa e divertente guida
ai misteri del
Brunella Gasperini
Il galateo
La più famosa e divertente guida
ai misteri del
1975 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A. - Milano
1998 Baldini e Castoldi s.r.l. - Milano
- 2003 Baldini e Castoldi S.p.A. - Milano
D 2004, 2010 Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. - Milano
D 2015 Baldini e Castoldi s.r.l. - Milano
ISBN 978-88-6852-236-0
ART DIRECTOR Mara Scanavino
GRAPHIC DESIGNER Alberto Lameri
N COPERTINA illustrazione di cipin design
MISTO
Carta da fonti gestite
FSC In maniera responsabile
FSC C118320
vww.baldinicastoldi.it
info@baldinicastoldi.it
Più che un libro di galateo, questo si può dire un libro di
controgalateo. Il galateo tradizionale infatti è oggi un anacronismo:
una sovrastruttura corrosa, che non regge più alle
spinte del nostro tempo svelto e concreto.
Già la parola, galateo, fa pensare a una sorta di stereotipata
coreografia, a un insieme di regole fisse, passi obbligati, frasi
fatte e gesti di rito, oggi svuotato d'ogni vitalità e d'ogni autentico
significato. Il ritmo, lo spirito, le situazioni del tempo
in cui viviamo richiedono ben altre cose: cose come elasticità,
immediatezza, buonsenso, spirito critico, ironia.
Eppure i cultori del galateo-per-il-galateo sopravvivono, e
come. Per pigrizia, abitudine, scarsa franchezza o chissà che
altro, molti nostri contemporanei esibiscono con orgoglio i
resti di quel bel cadaverino di famiglia che è oggi il galateo:
forse nell'illusione di apparire così dei gentiluomini pur non
essendolo affatto. Gentiluomini, altra parola buffa: ma loro la
usano ancora. «Io sono un gentiluomo. È un vero gentiluomo.
Tra gentiluomini... Ma la prego! Ma non s'incomodi! Ma
si figuri! Ma le pare! Disponga pure di me...», e dietro la
schiena gli brilla, pronto all'evenienza, il coltello.
Allora, il nuovo galateo, o controgalateo, vuol dire sovvertimento,
distruzione, linciaggio del galateo? Ma no: non
proprio, non sempre, non del tutto. Vuol dire se mai revisione,
aggiornamento, discussione, demistificazione. Vuol dire riconoscere
che la cortesia formale, senza il sostanziale contenuto
di reciproco rispetto e disponibilità, è un involucro vuoto,
da buttare. Vuol dire, quindi, cercar di sostituire buonsenso,
spontaneità, elasticità, umorismo a quelle rigide e ormai
logore sovrastrutture convenzionali che intralciano, invece
di agevolarli, i rapporti umani così profondamente mutati.
Questo libro non ha pretese didattiche. È semplicemente
una serie di annotazioni basate sulla realtà, cioè sull'osservazione
quotidiana del nostro prossimo, così come mi capita di
vederlo e di sentirlo nella pratica consueta del mio lavoro e
della mia vita privata. Forse qua e là i lettori si riconosceranno.
O riconosceranno amici, parenti, colleghi, nemici. (Ogni
riferimento è da considerarsi casuale). Forse, anzi di certo,
qualcuno si scandalizzerà: pazienza. Io guardo la realtà com'è,
non come si vorrebbe che fosse. È dall'osservazione della realtà,
e non dai dogmi, che si può cercar di capire che cosa funziona
e che cosa non funziona più, che cosa bisogna difendere, che
cosa abolire, che cosa modificare, che cosa aggiungere.
In conclusione: se il galateo inteso tradizionalmente vuol
dire «guida al modo di apparire», il nuovo galateo, o controgalateo,
vuol dire «guida al modo di essere» e quindi di
vivere il più sensatamente possibile, in questo tempo per molti
versi insensato.
Brunella Gasperini
Sugli annunci ufficiali, o partecipazioni, si scatenano nelle famiglie lotte generazionali. I genitori, ligi alla tradizione, vorrebbero partecipare tutto. I figli, ligi al nuovo costume, non vorrebbero partecipare niente. Il nuovo saper vivere, ligio al buonsenso, si barcamena tra le due tendenze.
Sono in disuso. L'annuncio, se proprio lo si vuole fare, si fa a voce, alla prima occasione. Le partecipazioni di fidanzamento stampate non si fanno più. Menano anche gramo, dicono. Se comunque i genitori della fidanzata ardono di rendere graficamente ufficiale l'impegno, siano loro a darne, dopo i debiti scongiuri, l'annuncio: su biglietto da visita o cartoncino bianco semplice, e nel modo più sobrio possibile: «Mario e Giovanna Rossi annunciano il fidanzamento di Margherita con Giorgio Bianchi». E non: «... sono felici di annunciare il fidanzamento della cara Margherita...», che oltretutto tradirebbe il giubilo dei signori Rossi per aver finalmente sbolognato la cara Margherita. E se poi il fidanzamento si rompe? Altra partecipazione in cui i genitori «sono dolenti di annunciare» che il fidanzamento si è rotto? Per amor del cielo. Date retta: rinunciate alle partecipazioni di fidanzamento.
«Cosa sarebbero?» disse mia figlia a un mese dal suo matrimonio.
«Quelle cose orrende con su scritto che i genitori
annunciano al mondo le nozze dei loro diletti figli e bla bla
bla? Se fate una cosa simile non ci sposiamo. Facciamo i
concubini.» Il tono era allegro, ma la volontà di eliminare i
«vani orpelli» era estremamente seria, e i genitori permissivi
cedettero ben volentieri: le «cose orrende» non furono fatte.
Ma i casi come questo, per quanto sempre più frequenti,
sono ancora una minoranza. Di solito è la tradizione che
vince, ovvero quelle «convenienze» anche pratiche che alla
tradizione stanno attaccate.
In questo caso le partecipazioni vengono redatte a nome
dei genitori nella forma più semplice, rigorosamente priva
di «diletti figli» e di aggettivi qualsivoglia. Possibilmente,
anche di titoli.
Le partecipazioni redatte a nome degli sposi hanno
avuto un periodo di fortuna tra le due guerre: sembravano
più «moderne». In realtà non sono mai state ammesse dai
galatei, e oggi sono tutto fuorché moderne: gli sposi «nuovi»
le partecipazioni non le fanno. Se poi non sono molto
«nuovi», o se esistono situazioni familiari complicate, gli
sposi partecipino pure direttamente le loro nozze, se ci
tengono: sempre nella forma più piana, senza il minimo
tentativo di originalità, lirismo o facezia.
Le partecipazioni «spiritose», di qualsiasi tipo, sono
sempre tremende.
L'invio. Se si fanno, si inviano generalmente un paio di
settimane prima della data fatale; se si desidera una maggiore
riservatezza (ma allora perché si fanno?) si inviano a
matrimonio avvenuto.
felicitazioni. Oggi, se si è pigri o «nuovi», alle partecipazioni
di nozze si può anche non rispondere, oppure
si può farlo con una telefonata. Più tradizionalmente, si
può invece rispondere con un regalo; o con una lettera,
se si è in vena; o con un biglietto; o con un telegramma:
senza abbreviazioni, ma anche senza iperboli e frasi fatte.
Bocciati gli «auguroni», gli «augurissimi», gli «evviva!», i
«cento di questi giorni», espressione questa che è già esecrabile
per un compleanno o un anniversario, ma che è una
Qui l'emozione e l'orgoglio danno spesso luogo a paurose
avarie del buon gusto. Tipico l'esempio di due nostri
conoscenti, persone per altri versi sensate, che alla nascita
del primogenito diramarono migliaia di buste sigillate
con finti nastrini e contenenti fogli di finta pergamena sui
quali, tra campanellini d'argento, stelline d'oro, piogge di
fiori azzurri e angioletti con la tromba, campeggiava una
scritta svolazzante e tornita: «È sbocciato Renatino, primo
fiore di Franca e Piero Ricci». Il che pareva oltretutto
annunciare, in modo vagamente indecente, ghirlande di
secondi, terzi, quarti e passa fiori in procinto di sbocciare
da Franca e Piero Ricci. A parte che dopo quello non
Ma c'è ancora qualcuno che le fa? Smettiamola. Siamo tutti dottori, no? Un diploma così declassato non merita annunci di sorta.
Si fanno generalmente sui quotidiani, e sono generalmente
orrendi. Vi sembrerò brutale, ma vorrei tanto che i familiari
e i «parenti tutti» smettessero di annunciare pubblicamente
la dipartita dei cari estinti con quel linguaggio
enfatico o standardizzato che rende spesso crudelmente
grottesche le colonne dei quotidiani dedicate a questi
annunci: schiere di «parenti tutti» immancabilmente
straziati, orbati, inconsolabili, immancabilmente piangono
la perdita irreparabile, il fulgido esempio, l'anima
«Nel quinto anniversario della morte, l'adorata
moglie Virginia con imperituro dolore ricorda il suo caro ed
illibato defunto, Ernesto Rossi».
Ma si può? La moglie che
si autodefinisce adorata, il dolore imperituro, il defunto
consorte illibato... Qualcuno penserà che sono cinica e che
derido i cari estinti. Ma l'oggetto della mia ironia non sono
i cari estinti, bensì il linguaggio con cui vengono ricordati.
Fossi io l'estinto, mi rivolterei nella tomba. Proprio per
rispetto alla morte, non si potrebbe evitare la decrepita
retorica della morte? Essere sobri nel dolore è anche più
importante che esserlo nella gioia.
Le condoglianze degli amici e dei conoscenti (sul giornale,
per lettera, per telegramma, o di persona) siano di tono
sincero e sobrio, privo di frasi fatte o superpatetiche. So
che poche cose sono difficili come le condoglianze, anche
se sincere: ai funerali una stretta di mano, una carezza, uno
sguardo affettuoso (a seconda dell'intimità e del carattere)
sostituiscono benissimo le parole che, giustamente, stentano
a uscire.
«Fidanzamento?» dicono i giovani nuovi, come se si trattasse
di una parola oscena. «Oggi la gente civile non si fidanza
più. Due si conoscono, si innamorano, poi si sposano,
oppure convivono, oppure si lasciano. Senza intermezzi
convenzionali.»
Ma, si obietta, il rapporto che precede di stretta misura
il matrimonio, come si chiama?
«Si chiama rapporto», rispondono in tono ovvio.
Ma, si obietta di nuovo, rapporto può voler dire qualsiasi
cosa...
«Appunto», rispondono.
E va be'. A parte il linguaggio, che comunque è già
indicativo, è proprio il concetto di fidanzamento che è
superato, almeno negli strati più evoluti della popolazione
giovane.
Ma naturalmente, non ci sono solo i giovani «nuovi»
(intendiamo, di nuova mentalità). Ci sono ancora, intramontabili,
le ragazze che chiamano fidanzato qualsiasi
corteggiatore e fidanzamento qualsiasi
Di solito è meglio non farlo: non è più di moda, i giovani
nuovi lo odiano. Ma una disinvolta riunione, il meno formale
possibile, a volte può far comodo per mescolare gli
amici della famiglia di lei con quelli della famiglia di lui,
a scopo di conoscenza. Questa riunione «di contatto» si fa
tradizionalmente in casa di lei, ma non è affatto detto: si
può fare dove si vuole. Se gli amici e i parenti sono molti
e la casa non è grande, può essere una buona idea fare due
piccole riunioni distinte per età, in modo che i giovani parenti
e amici dei due interessati non siano travolti da legioni
Un fidanzamento può essere validissimo anche senza
traccia di anello, e può essere gravemente invalido anche
con un anello grosso così. Con questo non voglio dire
che tutte le fidanzate debbano disdegnare gli anelli. Se
nel loro ambiente l'anello di fidanzamento è ancora nelle
consuetudini, è lecito che la fidanzata lo desideri e che il
fidanzato, nei suoi limiti, glielo offra. L'importante è che
mai, mai l'anello diventi fonte di sollecitazioni, pretese,
discussioni, lamenti, ironie, attriti: questo è veramente
pedestre, e offre ben scarse garanzie sul futuro matrimoniale
di quella coppia.
Date retta: non fatelo. Le mode cambiano, i gusti e le esigenze
pure, lo spazio nelle case è scarso: perché ingombrare
In privato. Quando sono soli, il comportamento dei
fidanzati non ci riguarda. Noi possiamo solo ricordare,
così per inciso, che le gravidanze premature non sono mai
state eleganti.
In pubblico. I fidanzati non devono comportarsi, per
eccesso di pudore o autocontrollo, come due estranei
compassati. Ma neanche devono eccedere in effusioni e
bamboleggiamenti, sedere sulla stessa sedia, bere dallo
stesso bicchiere, fumare la stessa sigaretta, chiamarsi miciona
e ciccino, stare perpetuamente con le mani nelle
mani e gli occhi negli occhi, tipo ipnosi. I fidanzati così
non sono, lo dico per esperienza, i più innamorati: sono
i più esibizionisti o i più insicuri.
Quando sono tra la gente, due fidanzati intelligenti si
comportano come un uomo e una donna che si vogliono
bene e non hanno nessun bisogno di nasconderlo, ma
neanche di darne continua dimostrazione.
Secondo i testi del galateo tradizionale, due fidanzati potevano
uscire insieme solo per recarsi a teatro, al cinema,
ai concerti. (Non era previsto, in quei testi, che il fidanzato
L'incontro tra una futura suocera e una futura nuora era
una volta, e purtroppo spesso è ancora, imbarazzante se non
addirittura penoso. Se le due future fossero una qualunque
signora e una qualunque ragazza che si incontrano in un
salotto probabilmente si troverebbero simpatiche. Ma
siccome sanno di essere una futura suocera e una futura
nuora, addio: spontaneità, naturalezza, disponibilità colano
a picco in un mare di diffidenze, autodifese, dubbi, agguati
psicologici vari, ed eccole lì con un sorriso non dovranno
vivere insieme.
Oggi, nella maggior parte dei casi, quando il fidanzamento
sta per diventare ufficiale, il fidanzato è già arcinoto
alla famiglia della fidanzata, frequenta già da tempo la
casa, tutti sono al corrente delle sue intenzioni. Però, in
qualche ormai raro caso, può accadere che a un certo
Fate pure gli scongiuri del caso, ma ci sono anche quelle.
Prima di tutto, si spera che la rottura avvenga senza drammi
e faide familiari. Oggi una rottura di fidanzamento non
è un disonore per nessuno, ed è sempre infinitamente più
ragionevole e augurabile di un matrimonio accettato per
debolezza, per stanchezza, per abitudine, per paura, per
non fare parlare la gente. Cosa v'importa della gente? È la
nostra vita che è in ballo: pensate a quella.
Che il matrimonio sia in crisi è un fatto. Basta guardarsi
intorno. Due matrimoni su tre vanno male. La conseguenza
logica dovrebbe essere una diminuzione di nuovi
matrimoni. E invece i matrimoni sono in aumento. Masochismo?
Non credo. Tra i motivi principali, metterei: 1)
il sempre più diffuso e giustificato desiderio dei giovani di
allontanarsi in fretta dalla famiglia d'origine; 2) l'avvento
non ancora abbastanza maturato della libertà sessuale, per
cui molte infatuazioni che in tempi meno permissivi si sarebbero
spontaneamente esaurite senza lasciar tracce, oggi,
alimentate dall'attrazione e soddisfazione sessuale, vengono
urgentemente scambiate per grandi amori e tradotte in
urgenti matrimoni; 3) la sensazione, fortunatamente fondata,
che il matrimonio non sia più un ferreo legame senza
uscita; in fondo, se le cose andassero male, c'è il divorzio,
c'è la separazione legale, c'è l'annullamento, ci sono tante
scappatoie... un modo di uscirne senza sconquasso c'è
sempre: questa è spesso, negli sposi, una riserva mentale
a livello inconscio. Ma c'è. È normale che ci sia. Quel che
ancora non c'è, o non del tutto, è la consapevolezza che
quando un matrimonio fallisce un certo «sconquasso»,
almeno psicologico, è pressoché inevitabile.
Che cosa c'entra questo discorso col galateo? Non c'entra
Va bene che ci si sposa (forse) una volta sola. Va bene che si
è (forse) tanto sognato questo giorno eccetera eccetera, ma
è sempre sconsigliabile voler fare le cose in grande, specie
quando le proprie abitudini sono sempre state piccole o
medie. E invece succede che, mentre gli elegantissimi e
i ricchissimi oggi spesso preferiscono, per diversi motivi,
evitare le pompe nuziali, è proprio la gente piccola e media
che, avendo poche occasioni di grandezza nella vita, afferra
Documenti. Questo argomento mi annoia profondamente,
Divisione delle spese. Questo argomento non solo mi
annoia, ma mi disturba. Oggi, più che in base a regole
superate, la divisione delle spese si fa secondo il buonsenso.
Metti: se la famiglia della sposa non ha una lira e la famiglia
dello sposo ne ha una barca, o viceversa, sarà la famiglia
danarosa a sobbarcarsi la maggior parte delle spese, Senza
farlo pesare, ma come fosse una cosa ovvia: e infatti lo è.
Nessuno deve sentirsi mortificato, o ferito nel suo orgoglio:
questi orgogli oggi non hanno senso. Non è un merito
essere ricchi. Non è una vergogna essere poveri. Bisogna
essere realisti. E invece, in queste occasioni, molti tirano
fuori le «questioni di principio». Ma quali principi? Non
bariamo. Non sono i principi che sono in ballo, qui: sono
i quattrini. Prima tutto andava bene, l'atmosfera tra le due
famiglie era idilliaca: ma appena si comincia a parlare di
spese, ecco che l'atmosfera si raffredda, si fa puntigliosa,
diffidente, ironica, ostile, e si arriva alle nozze in un fatale
crescendo di «tocca a noi tocca a voi». Per piacere, non
fatelo. Siate civili. A prezzo di qualsiasi sacrificio pecuniario
o psicologico, evitate queste odiose discussioni di carattere
economico, che potrebbero lasciare nella memoria degli
sposi tracce nefaste. Ogni famiglia faccia quello che può
e che vuole, e non pretenda che gli altri facciano quello
che non possono e non vogliono fare. In caso contrario,
si consiglia agli sposi di tagliare la corda e vivere a modo
loro: conosciamo più d'una coppia che l'ha fatto, e più
d'una che lo farà.
I giovani nuovi le snobbano: hanno ragione. Ma molti genitori non ci vogliono rinunciare: e pazienza. Le bomboniere, se si decide di farle, vanno consegnate o inviate «dopo» le nozze; inviandole prima si può aver l'aria di sollecitare un regalo anche da parte di chi non ha la minima voglia di farlo. Diffusissimo è l'uso di fare due o magari tre tipi di bomboniere diverse: bellissime per le persone di riguardo, belline per le persone di riguardo medio, bruttine per le persone di nessun riguardo. È un uso tollerato dal galateo tradizionale, ma detestabile, gretto, vagamente razzista. Se proprio volete fare le bomboniere, fatele di un solo tipo, semplice, sobrio, possibilmente utilizzabile in seguito come portacenere o portapasticche o scatolina a vario uso: e che sia uguale per tutti, dai VIP alle vecchie balie.
Questi sono apprezzati anche dai giovani nuovi, specie
se in bolletta. Naturalmente, si preferiscono regali utili.
La famosa «lista dei regali graditi» che si fa circolare, su
richiesta, tra parenti e amici (con l'indicazione dei negozi
dove si trovano i vari articoli e le relative quote) è una
cosa un po' squallida, forse, ma innegabilmente pratica:
evita doppioni e regali inutili, risparmia sforzi di fantasia
ai donatori e facilita le cose a tutti.
Il fare o non fare il regalo non dipende, come molti
pensano, dall'avere o non avere ricevuto la bomboniera,
dall'essere o non essere stati invitati al ricevimento. Dipende
dal grado di amicizia, affetto, interesse che ci legano
agli sposi, nonché dalla nostra «disponibilità» (morale e
Le vere, o fedi che dir si voglia, secondo le tradizioni vanno
scelte dai due sposi insieme (e pagate da lui). La scelta dipende
dai gusti e dalle mode: si va dai modelli classici alle
varianti «originali» (che vivamente sconsigliamo), dalle fedi
di platino o d'oro giallo a quelle d'ottone e di latta, tipo
anello per tendina, scelte da sposi anticonformisti o al verde.
Le fedi dovrebbero arrivare in chiesa, il fausto giorno,
nella tasca dello sposo. Una tradizione superprudente voleva
che uno dei testimoni portasse in chiesa a buon conto
due fedi di ricambio, nel caso che lo sposo, nel suo nuziale
turbamento, le avesse dimenticate. Il che sembra comunque
difficile: non solo perché gli sposi d'oggi non sono più
così sconvolti come quelli di una volta, ma anche perché
prima di uscire per recarsi alla cerimonia, il poveretto si
Testimoni. Possono essere quattro, oppure due (consigliamo
due). Generalmente sono uomini, ma possono essere
donne. L'importante è sceglierli bene, prima secondo
criteri affettivi, e dopo anche decorativi o «di prestigio».
Non si chiede comunque a nessuno di far da testimonio se
non si è certi di fargli piacere. Anche perché la tradizione
(non certo il controgalateo) vorrebbe che il testimonio
facesse un regalo di una certa importanza.
Damigelle. Già la parola, damigella, oggi, è assurda e
leziosa. Personalmente trovo assurdo e lezioso anche il
ruolo, così fuori dal tempo e dal buonsenso. Con questo
non intendo vietare alla sposa tradizionale di scegliersi le
sue due o quattro o magari sei damigelle. Ma mi rifiuto
di dare suggerimenti sui vestiti e sulle funzioni di queste
romantiche comparse, che hanno altresì la tendenza a
comportarsi da primedonne.
Paggetti. Sono già un po' meglio delle damigelle: purché
non si pretenda da questi poveri bambini altra funzione se
non quella di dare un tono gaio alla cerimonia. Conosco
bambini, solitamente timidi e tranquilli, che nella funzione
di paggetti hanno dato sfogo alle loro cariche represse,
rivelando insospettate doti da guerriglieri o da giullari: con
sommo sgomento delle madri e somma soddisfazione mia.
Pressoché scomparsi, ed era ora, i cosiddetti
Secondo la tradizione, se la sposa è in abito bianco lungo,
lo sposo deve essere in Candore. Secondo alcuni, l'abito bianco tradizionale è
ancora simbolo di quel candore: cioè, figuriamoci, della verginità.
quel senso, è vivamente pregato di farsi i fatti suoi, di non
sogghignare, di non alzare il sopracciglio, di non bisbigliare.
«Chi è senza peccato scagli la prima pietra»
: una persona
intelligente non scaglia neanche la seconda.
La chiesa. La chiesa sarà decorata secondo i gusti e le
possibilità finanziarie. A chi ha scarsi mezzi si consigliano
La musica. Va scelta secondo i gusti degli sposi. Si sconsiglia
la musica Fotografi. Sarebbe meglio tenerli fuori dalla chiesa. Ma
molte coppie di sposi, e più ancora di genitori, desiderano
avere un ricordo visivo anche della cerimonia. Raccomandino
comunque la discrezione, o il raccoglimento della
cerimonia sarà gravemente compromesso da scorribande
di ometti irrequieti che scattano, lampeggiano, filmano,
litigano tra loro (c'è molta concorrenza), si acquattano in
pose strane, si arrampicano sulle colonne, e ci si aspetta che
da un momento all'altro una macchina fotografica sbuchi
fuori dalla sottana dell'officiante. Comunque, se così piace
agli interessati... Per conto nostro, sarebbe meglio limitare
i ricordi visivi alla gradinata della chiesa, dopo le nozze. A
meno che il fotografo non sia (come spesso oggi è) un amico
degli sposi, dilettante ma bravissimo, oltre che discreto.
Entrata. Oggi è consuetudine che lo sposo, con i testimoni
e i parenti, preceda di circa un quarto d'ora l'arrivo
della sposa in chiesa, e l'attenda davanti all'altare. Se la
sposa ritarda (ma la si prega di non farlo), lo sposo non
mascheri il nervosismo con battute scontate e minacce di
fuga. Eccola, eccola: sta entrando al braccio del proprio
padre: il sinistro o il destro? Fa lo stesso. Si è notato che
generalmente i re e gli Durante la cerimonia, i testimoni stanno subito dietro ai
due sposi. Tutti gli altri stanno sulle panche o sulle sedie
lungo le navate. Sarebbe meglio che non parlassero con
voci stentoree, che non ridessero rumorosamente, che non
singhiozzassero, che non si soffiassero il naso tipo tromba.
Ma se anche qualcuno lo fa, importa molto? A me no.
Gli sposi, anche se comprensibilmente turbati, cerchino
di controllarsi un pochino, non si comportino come primi
attori e neanche come vittime al macello. Quando dicono
sì, lo dicano possibilmente con voce udibile e normale,
non rauca per l'emozione, e neanche rotta dal riso: il che
a noi non dispiacerebbe, ma all'officiante sì. Nessuno dei
due abbia l'aria troppo impaziente o distratta, e neanche
atterrita o lugubre. Possibilmente.
Uscita. Infilate le fedi, ascoltato o finto di ascoltare il
discorsetto dell'officiante, messe le firme sul registro, gli
sposi scendono dall'altare e si avviano, si spera con aria
lieta, verso l'uscita. Dietro di loro, una volta il corteo era
preordinato; oggi è preferibilmente estemporaneo, e spesso
più che a un corteo assomiglia a un gregge o a un branco.
Purché non muggisca, per noi va bene.
Davanti alla chiesa esplodano pure gli auguri, i
Eccezionali una volta (uno su diecimila), oggi i matrimoni
civili sono sempre più frequenti (intorno al dieci per cento,
nelle città del nord). Nel matrimonio civile, che si svolge in
Non è affatto necessario. Ma, anche se gli sposi preferirebbero
evitarlo, i genitori spesso ci tengono. Secondo le regole
tradizionali, il ricevimento o rinfresco o quel che è dovrebbe
essere offerto dalla famiglia della sposa, ma se questa non
ne ha i mezzi o non ne ha l'inclinazione, se ne può incaricare
benissimo la famiglia dello sposo: naturalmente con
un certo tatto e in base ad amichevoli accordi preventivi.
buffet in
piedi, che può assomigliare a un
Non è più molto in voga: i giovani hanno tante altre occasioni di viaggiare, senza bisogno di sposarsi. Comunque, se il viaggio di nozze si fa, la meta dovrebbe rimanere segreta: così vuole la tradizione e così consigliamo noi tuttora agli sposi provvisti di parenti apprensivi o impiccioni. Altri consigli: non fate del viaggio di nozze una maratona, divorando chilometri e tempo, saltando da un mezzo di trasporto all'altro, visitando a rotta di collo città, paesi, monumenti, musei, con l'ansia di vedere tutto, fotografare tutto, godere tutto, incamerare tutto. Avete da godere, prima di tutto, voi stessi: centellinatevi, e centellinate i ricordi da incamerare. Di viaggiare come turisti in ferie avrete tempo altre volte. Infine, non vergognatevi di essere in luna di miele: è capitato ad altri.
Ancora oggi, in questo mondo sovrappopolato, inquinato,
minacciato da un processo di autodistruzione forse irreversibile,
la nascita di un bambino è il «lieto evento» per
antonomasia. Ancora oggi l'espressione «controllo delle
nascite» ha per non poche persone un sapore blasfemo:
regolare i possibili effetti dell'amore coniugale significa,
secondo costoro, trasgredire gli ordini divini o perfino
«andare contro natura». Anche le alluvioni sono un fenomeno
della natura: dobbiamo rinunciare a difendercene?
In quanto agli ordini divini, un sacerdote che conosco mi
assicura che Dio disse: «Amatevi e prolificate»
ma non
disse: «Amatevi solo per prolificare». Anche la Chiesa si è
decisa ad ammettere la necessità di educare le coppie alla
procreazione responsabile: cioè, alla regolamentazione
delle nascite. Come regolarle, è un altro discorso, che non
è il caso di approfondire qui. Una cosa è certa: mettere al
mondo figli che non si desiderano o che non si è in grado
di allevare come si deve, è un atto di incoscienza somma,
di irresponsabilità sociale e umana. Ogni bambino che
nasce in questo mondo pericolante e vorace dovrebbe
almeno essere coscientemente voluto: solo così la nascita
si può chiamare, ancora oggi, un «lieto evento». Lieto per
i genitori, almeno. Per i figli, è da vedere.
Le cicogne, si sa, sono animali capricciosi. Se non si è
sicure (ostetricamente sicure, vorrei dire) che siano in
viaggio, meglio tenere la bocca chiusa. I semi annunci, le
anticipazioni misteriose o furbette sono sempre state, ma
oggi più che mai, di pessimo gusto.
In quanto a quelli che insistono a chiedere alle spose,
in tono allusivo: «E allora, ci sono novità? A quando le
novità?» proporrei la fucilazione sul posto.
Se una donna aspetta un bambino, sarà lei a decidere
quando, come e a chi dirlo. (Dirlo, e non «comunicarlo»
tipo annuncio o bollettino). Il controgalateo si limita
ad augurarsi che le spose d'oggi evitino le tremende
frasi perpetrate dalla peggior tradizione rosa («Tra poco,
amore mio, saremo in tre»; e se poi fossero in cinque?
giusta punizione); che evitino i languori-con-sottinteso,
le frasi sibilline, i
Durante i mesi di gravidanza, la futura madre usi il cervello,
se ce l'ha. È molto stupido che, per mostrare quanto è
moderna e sportiva, si sottoponga inutilmente a sfacchinate,
lavori o Nausee. Se le ha, le sopporti con pazienza, cercando
di minimizzarle agli occhi del mondo, comunque senza
portarsi continuamente il fazzoletto alla bocca e fare versi
strani. Se poi non ha le nausee, eviti di vantarsene: non è
un merito, è solo una fortuna.
Voglie. Se le ha, nessuno le vieta di soddisfarle quando è
possibile: e il marito sarà gentile se l'aiuterà a soddisfarle.
Ma tutti e due sanno benissimo che nessun bambino è mai
nato con una fragola sul naso perché suo padre non uscì,
in una notte d'inverno, a cercare il frutto che la madre
agognava.
Amiche. Amiche e parenti si astengano dal raccontare
alla futura madre le fasi, drammatiche o meno, delle loro
gravidanze e dei loro travagli. Se non richieste, evitino
di dare consigli. Comunque la futura madre sensata non
polemizzi (ci perderebbe più tempo); faccia finta di ascoltare
tutte, madri, suocere, nonne, zie, amiche con cinque
figli, nubili espertissime in gravidanze altrui, dica a tutte
sì, a tutte grazie; ma segua sempre e soltanto i consigli del
ginecologo.
Una volta la maggioranza dei bambini nasceva in casa.
Oggi la maggioranza nasce in clinica o in ospedale. Ma
negli ultimi anni nelle famiglie facoltose c'è stato un certo
Be', qui i consigli ve li dà il ginecologo. Ma il ginecologo
e i suoi assistenti come uomini, e per di più medici,
hanno sempre la comprensione e la solidarietà di cui la
partoriente che si affida inerme nelle loro mani avrebbe
sacrosanto diritto? Direi che purtroppo ce l'hanno molto
raramente. L'assistenza tecnica può essere ottima, quando
lo è; ma l'assistenza psicologica è il più delle volte carente.
Comunque vorrei consigliare la partoriente di collaborare
perché il travaglio sia meno sfibrante possibile per
lei, per chi l'assiste e per i familiari che aspettano fuori.
Aver paura è lecito e normale: ma non è lecito, e neanche
normale, abbandonarsi a scene di isterismo e di panico.
Mantenete la lucidità, ascoltate i consigli di chi vi assiste,
subite con umiltà le eventuali sgridate. Se possibile, non
fate troppo baccano. Certe donne si credono non solo in
diritto, ma in dovere di urlare forsennatamente per tutta
È nato, e ha fatto anche lui la sua brava fatica per venire al mondo: su nostra richiesta. Non facciamogli l'affronto di tenergli il muso perché è una femmina invece che un maschio, o perché è il quinto di cinque ostinatissimi maschi. È nostro figlio, basta. Il nome sarà già stato scelto: senza litigi e faide familiari, si spera. È gentile dargli il nome della nonna o del nonno, ma se questi hanno dei nomi orrendi, o che tali ci sembrano, è più che lecito mettere il nome dell'avo al secondo posto, dove sarà ignorato da tutti, e al primo un altro di più piacevole suono. E se ci sono due nonne e due nonni, tutti in lizza, come si fa? Meglio, per non far torto a nessuno, ripiegare su nomi neutrali. Sui quali non do consigli: ognuno ha i suoi gusti in proposito. Mi permetto solo di mettervi in guardia contro le originalità, che stancano subito, contro le mode, che passano presto, contro gli esotismi, gli snobismi, i nomi impegnativi o celebrativi: una volta cresciuti, i figli non ve li perdonerebbero facilmente. Ad ogni modo, non è il nome che da (o toglie) carattere e simpatia a una persona, ma è la persona che da (o toglie) carattere e simpatia al nome.
La cerimonia. Oggi il battesimo è comunitario, cioè si fa
una volta al mese per tutti i bambini nati in quel mese
in quella parrocchia. Ne vien fuori, almeno nelle chiese
cittadine, una specie di grande sagra, con legioni di neonati
arrabbiatissimi nelle loro pompose bardature, pianti
corali, sacerdoti innervositi, madri che vanno ad allattare
in sacrestia, padri stufi e frastornati, giovani padrini e
madrine in preda al Padrini e madrine, oltre al compito di portare il neonato
al fonte battesimale e di fargli un regalo, avrebbero anche
il compito di assistere il figlioccio in ogni occasione e traversia
fino al diciottesimo anno di età. Questa è oggi una
pia illusione. In base alla quale, certi genitori ambiziosi
insistono a proporre questa incombenza a personaggi
importanti, influenti, danarosi, potenti. E commettono
un grosso errore: a parte l'evidente opportunismo o snobismo
della scelta, questi personaggi generalmente non
gradiscono molto l'incombenza; e se anche, con scarso
gaudio, l'accettano, ritengono di aver fatto fin troppo per
il figlioccio regalandogli la catenina d'oro e apparendo
fugacemente alla cerimonia, dopo di che scompaiono per
sempre nel loro fulgido limbo. Meglio dunque scegliere
padrini e madrine tra giovani zii, cugini, amici intimi,
non importa se ricchi o no. Neanche loro, supponiamo,
terranno fede al compito di assistere moralmente e materialmente
il figlioccio fino alla maggiore età, ma se non
altro gli si affezioneranno un pochino e gli faranno ogni
tanto un regalo. Di più, è vano aspettarsi.
Il ricevimento. Non è affatto obbligatorio. Ma, se si fa,
meglio farlo subito dopo la cerimonia. Tradizionalmente
Negli ultimi anni si è diffusa e si va sempre più diffondendo,
non solo tra i giovani, una certa indifferenza, o
addirittura una dichiarata avversione per le ricorrenze
in genere, Natali, Pasque, compleanni, anniversari e così
via. A volte si tratta di snobismo: e come tale lo squalifichiamo
subito. Ma più spesso si tratta di una sincera
e giustificata reazione all'inflazione dei festeggiamenti
rituali, sempre più strombazzati dalla pubblicità, gonfiati
dal consumismo, e di conseguenza sempre più svuotati
d'ogni significato genuino.
Per ogni ricorrenza, giornali, radio, televisione, manifesti,
persuasori più o meno occulti ci mitragliano di suggerimenti,
lusinghe, Natale. Una volta mi piacevano gli alberi di Natale.
Adesso non li posso più soffrire. Ce ne sono troppi. Troppo
grandi, troppo elettrici, troppo mirabolanti, troppo falsi.
Pasqua. Niente regali. Niente, per piacere, auguri! Un
uovo con sorpresa è gradito ai bambini: decidete voi.
Compleanni. C'è chi ama festeggiarli (e allora regali e
auguri sono graditi). C'è chi preferisce dimenticarsene:
non siate maligni, dimenticatevene anche voi.
Capodanno. Gli auguri scritti, se proprio si vogliono fare,
si fanno insieme a quelli di Natale (senza frasi fatte, si spera:
«Buona fine e miglior principio» è una cosa che si crede di
non dover più leggere né sentire. E invece...). Poi ci sono
gli auguri euforici e chiassosi che si fanno per telefono
intorno alla mezzanotte, intasando paurosamente le linee,
litigando per i turni, e così via: non sarebbe meglio lasciar
stare? In quanto a questa famosa nottata di S. Silvestro,
festeggiatela se potete o volete, con o senza cenone, con o
senza abiti folli. Ma non fatevene un obbligo o un punto
d'onore. Piuttosto che una festa forzata, con brindisi forzati,
allegrie fasulle, facezie stantie, sbronze per principio, è
molto meglio passare la mezzanotte del 31 tranquillamente
in casa coi familiari, o magari a letto con un buon libro, se
non con un buon Festa della mamma. Questa festa di importazione americana
non è, scusatemi mamme, una festa di buon gusto.
Personalmente la detesto. Proprio perché faccio parte della
categoria, mi dà molto fastidio questa oleografica, retorica,
niente affatto spontanea apoteosi, a data fissa, della
Mamma con la maiuscola. Molti fiori, molti regalini, molte
belle letterine e temi in classe, e lucciconi al momento
giusto: ma quanta reale considerazione per questo tanto
decantato e tanto sfruttato (e spesso deprecato) «angelo
del focolare» che è spesso la mamma di oggi? Resta il
San Valentino. Ecco un'altra festa importata, anche
questa dagli Stati Uniti ovviamente, quindi forzata, consumistica,
e per di più leziosa. Io non intendo vietare agli
innamorati di festeggiare San Valentino, se proprio ci
tengono (ma nessun giovane «nuovo» ci tiene). Comunque
lo festeggino almeno a modo loro, senza farsi imbeccare
dalla pubblicità, dai giornali femminili e dalle tremende
«idee nuove» a base di cuori e cuoricini (trafitti o no),
di cartoncini «spiritosi», di
Sbaglia chi ne fa troppi: l'eccesso di regali toglie valore ai
regali stessi, e in un certo senso anche al donatore. Sbaglia
però anche chi, per pigrizia, avarizia, smemoratezza, indifferenza,
non ne fa mai. Tutti, più o meno, siamo contenti
di riceverne qualcuno ogni tanto, specialmente se inatteso.
E tutti, più o meno, dovremmo sentire il desiderio (non
l'obbligo) di farne qualcuno. Anche e preferibilmente al
di fuori delle date di prammatica.
Nella scelta non ci si dovrebbe basare solo su criteri
«p. a.» (per augurio): la
grettezza di quella sigla guasta il più generoso dei regali.
Se siete nemici della penna, scrivete solo la vostra firma.
Poi andate pure a letto a riposarvi.
Come ricevere un regalo, quando il donatore è presente.
Non esagerate in grida di tripudio, ma: se sono fiori, non
Come rifiutare. Si diceva un tempo: i fiori, da chiunque
vengano, non si rifiutano. La regola è ancora valida, con le
sue brave eccezioni. Per esempio: una donna può accettare
dei fiori da un ammiratore anche non gradito, ma non
accetterà da lui un martellamento quotidiano di fiori, e
gliene spiegherà il perché.
Ancora oggi, soprattutto oggi vorrei dire, si dovrebbero
rifiutare tutti i regali che possono avere un secondo fine,
che possono cioè rappresentare una sia pur gentile forma di
intimidazione, insistenza, indiscrezione, se non addirittura
corruzione. È però raramente necessario rifiutare in modo
risentito o glaciale: meglio rifiutare con poche tranquille
parole, orali o scritte: «Mi scusi, ma non posso accettare:
sono certa che mi capirà». Che se poi quello non capisce,
si potrà spiegarglielo in modo più esplicito, senza arrivare
alle escandescenze.
Regali ai bambini. È un grande sbaglio fare troppi o
troppo costosi regali ai bambini: li priviamo così della
gioia di desiderare, e rischiamo di soffocare in loro l'immaginazione,
non per le
promozioni, che rientrano nei doveri normali) o per ispirazioni
improvvise: perché negarcele? Ma non facciamo regali
a mansalva; non facciamo regali-ricatto («se fai questo ti
regalo quello»); e non facciamo regali da coccodrillo («è
vero, non ho tempo per mio figlio, in compenso gli faccio
tanti bei regali» o anche: «ieri ho trasceso, l'ho sgridato
ingiustamente, mi farò perdonare con un regalo»). I figli
non perdonano, e hanno ragione.
Regali utili o dilettevoli? Ognuno si regola come crede
o come può. Io dico una cosa sola: i regali utili, per un
bambino, non sono regali.
Un tempo anche il saluto era una piccola cerimonia, basata su regole formali, frasi e gesti obbligati, e scrupolosamente rispettosa di precedenze, gradi, differenze sociali. Oggi la frequenza degli incontri, l'apparente livellamento delle classi (e dei sessi), nonché la fretta generale hanno spazzato via le cerimonie, semplificando al massimo le cose. Del che non saremo certo noi a dolerci: i convenevoli non sono più sopportabili. Un saluto, oggi, costa veramente pochissimo. Eppure chi è portato a osservare il comportamento dei suoi simili scopre che ci sono molte persone, anche tra la gente abusivamente chiamata «bene», cui un semplice buongiorno o un cenno della testa sembra costare moltissimo: quasi che abbiano paura, salutando, di sprecarsi, di sminuirsi. Questa è gente che non ha capito niente. Il saluto oggi non è una forma di omaggio, o di servilismo, o di confidenza: è semplicemente una forma elementare di civiltà. Quindi il non salutare, o salutare gelidamente o con riluttanza, non è segno di riservatezza e distinzione, bensì di brutto carattere, diffidenza, timidezza patologica o altri poco eleganti «disturbi dell'inconscio». Ma non dovrebbe esserci bisogno dello psicanalista anche per imparare a salutare.
Un tempo esistevano in proposito regole precise: la persona
giovane doveva salutare per prima l'anziana, l'inferiore doveva
salutare per primo il superiore; l'uomo doveva salutare
per primo la donna, e così via. C'erano però delle eccezioni;
in particolare, per la strada l'uomo non doveva salutare per
primo la signora, anzi doveva fingere addirittura di non
vederla, in quanto: 1) la signora poteva trovarsi in quella via
per recarsi a un appuntamento clandestino; 2) la signora
poteva non gradire che i passanti la vedessero scambiare
saluti con un uomo. Cosicché il gentiluomo doveva se
mai aspettare che fosse la signora a salutarlo per prima,
o a sorridergli invitandolo al saluto, il che significava:
«Sono una donna evoluta e moderna, perciò ti concedo di
salutarmi». Ovvio che questa eccezione è ormai defunta,
sepolta dal ridicolo e dall'emancipazione femminile. Ma
anche la regola si può considerare defunta. In base alla
concezione moderna del saluto, che non è, ripetiamolo,
una forma di omaggio o di confidenza, ma di elementare
cortesia, oggi tutti devono salutare per primi, cioè subito e
spontaneamente, senza stare a cavillare sulle precedenze,
sui sessi, sui gradi, sui tocca a me tocca a te. Tra persone
normali, il saluto è contemporaneo.
La forma dei saluti varia secondo il grado di intimità tra
le persone interessate, e secondo i luoghi, le circostanze,
i caratteri. Unica regola fissa, anche per il controgalateo:
guardare in faccia la persona che si saluta.
In privato, gli amici sono liberi di salutarsi come vogliono.
In pubblico, i saluti dovrebbero essere semplici
Nei salotti, nelle riunioni, nei ricevimenti in genere, c'è chi
si ritiene in dovere di scattare in piedi come una recluta
ogni volta che qualche nuovo arrivato entra nella stanza:
zelo in un certo senso patetico, ma non molto opportuno
(specialmente se la recluta è una donna) e piuttosto
fastidioso per gli eventuali vicini di divano e di poltrona,
coinvolti loro malgrado in quel continuo su e giù. Per
contro, ci son quelli che, chiunque entri e si avvicini per
salutare, non si sognano di sollevare le parti posteriori dal
luogo dove le hanno posate, credendo forse di conferirsi
un'aria di signorile noncuranza. Si sbagliano.
Tra i due eccessi, ci sono le sensate vie di mezzo.
Gli uomini (a meno che non siano vecchissimi, infortunati,
macilenti o anchilosati) si alzano in genere per salutare
una signora. I giovani (maschi e femmine) si alzano per
salutare gli anziani. Ci sembra normale.
Le signore possono restar sedute, secondo tradizione, ma
sono abbastanza irritanti quelle giovani dame (alle anziane
si perdona quasi tutto) che dai meandri della poltrona in
cui sono stravaccate, a stento sollevano una languida mano,
senza spostare di un millimetro il resto del loro preziosissimo
o stanchissimo corpo. Se una ha forze sufficienti per
arrivare fino alla poltrona, dovrebbe avere anche quella
di raddrizzare il busto quando saluta, stendere la mano
e sorridere. Anche questo ci sembra piuttosto normale.
Se per la strada, o in un luogo pubblico, si incontra un
conoscente (maschio o femmina) accompagnato da una
persona dell'altro sesso, forse non sospetta, comunque a
noi sconosciuta, sarebbe maligno andargli sotto il naso
dicendo con voce stentorea e confidenziale: «Ehi, ciao!»
Sarebbe anche stupido, però, restare lì pietrificati come se
l'amico (l'amica) fosse un fantasma, o scantonare in fretta,
o passargli vicino voltando la testa per non guardarlo. Una
volta che lo si è visto, lo si saluta: con un normale sorriso,
un cenno della testa o un sobrio buongiorno, ciao. E non
ci si offende se, eventualmente, non si è ricambiati.
Se però siete voi la persona accompagnata, vi esortiamo
a ricambiare sempre, udibilmente e cordialmente il saluto,
anche se (soprattutto se) la persona che vi accompagna è
un
Secondo il galateo, sarebbe la persona di maggior riguardo
che decide il momento del commiato. Ma ci sono persone
di sommo riguardo che non la smetterebbero mai
di parlare (generalmente di sé) e altre di minor riguardo
che all'indomani lavorano e non possono stare svegli fino
all'alba ad ascoltare i vaniloqui dei sommi. Diamo dunque
quella regola per scaduta, ma non presumiamo di sostituirla
con altre. Non ci sono regole, è normale che non
ci siano. Tutto dipende dai luoghi, dalle circostanze, dalla
discrezione, da un mucchio di cose disparate e variabili,
tra le quali troneggia comunque il buonsenso. Secondo
il quale, nessuno interromperà di colpo il discorso di un
altro per salutare e andarsene: aspetti almeno una pausa.
E nessuno, possibilmente, lascerà capire che la decisione
di accomiatarsi deriva dalla noiosità dei discorsi altrui.
Un tempo era impensabile che fossero i padroni di casa
a prendere l'iniziativa di congedare gli ospiti. Oggi questo
rientra nella normalità: basta che se ne spieghino i motivi
(malessere, impegni, levatacce del mattino dopo ecc.). In
genere comunque gli invitati dovrebbero capire, in base
al buonsenso che si spera abbiano, quando è il momento
di andarsene, e in che modo.
Guai a chi dice frasi tipo «tolgo il disturbo», «non voglio
tediarvi oltre», «la compagnia è bella, ma...». Guai! Dite
semplicemente: «S'è fatto tardi, devo andare».
I commiati non devono essere precipitosi, ma neanche
devono essere tirati a lungo. Un tipo di nostra conoscenza
mise in anticamera un quadro con la scritta Saluti brevi:
non imitatelo (se è una battuta è fiacca, se è un ordine è
scortese) ma ricordatevene.
Secondo il galateo classico, l'iniziativa di stendere la mano dovrebbe partire dalla persona di maggior riguardo. Oggi (a meno che non si tratti di alti personaggi, dei quali poco ci importa) non ci si fa più caso: come il semplice saluto, così l'atto di stendere la mano è contemporaneo. Piuttosto, sarebbe opportuno cercar di non fare della stretta di mano un'operazione lancinante, complicata o imbarazzante. Cioè: - Stringete la mano di chi ve la porge: non limitatevi a infilare nella sua una mano inerte e molliccia, tipo fetta di prosciutto tiepido, il che indurrà qualsiasi psicologo dilettante (oggi siamo «tutti» psicologi dilettanti) a pensare che siete subdoli e ipocriti, oppure apatici frustrati, oppure senza carattere. - Non stringete la mano altrui in una morsa di ferro, strappando ululati o stoiche smorfie alla vostra vittima: avrete altri modi per dare dimostrazioni della vostra forza fisica e psichica. - Non prolungate la stretta, mettendo in imbarazzo il vostro prigioniero; non tirate contro di voi la mano altrui come se voleste impossessarvene in esclusiva; non scrollatela come un albero da frutta. La stretta di mano deve essere breve, franca, senza indugi, senza violenze, senza apatie. Possibilmente senza sudore.
Anche di questi tempi, a certe signore il baciamano può
essere gradito. Io non discuto: ognuno ha i suoi gusti. Comunque,
anche di questi tempi, proprio di questi tempi,
il baciamano dovrebbe essere fatto solo da chi: 1) sa come
farlo (sollevando la mano della signora fino a sfiorarla
Devono essere: o spontanei o niente.
Le madri sono pregate di non comportarsi come quelle
signore che dicono: «Saluta la signora, tesoro». Il tesoro
non raccoglie. «Avanti, Gigetto, saluta la signora!» Gigetto
niente. «Se non saluti la signora le prendi, capito?» A questo
punto Gigi comincia a piangere, sua madre a sculacciarlo,
e la signora a desiderare acutamente di essere altrove.
Mettetevi in mente, madri, che la principale aspirazione
dei vostri conoscenti non è quella di venir salutati dai vostri
figlioletti; e che tutti quanti preferiscono di gran lunga
rinunciare a questo onore che essere l'involontaria causa
di una scena del genere.
Le lezioni di saluto, gli insegnamenti, le opere di persuasione
vanno fatte (se volete farle) sempre e comunque in
privato. Se il vostro bambino, nonostante le lezioni, insiste
naturalmente disinvolti,
o timidi, mai saccenti, condizionati, repressi. Fino all'età
di un anno circa, possono salutare con la manina se ne
hanno voglia o non salutare affatto se non ne hanno: è loro
sacrosanto diritto. Fino a quattro o cinque anni possono
dire «Ciao» e basta: anche ai vescovi e ai capi di stato.
Dopo, si potrà cominciare ad abituarli gradatamente, senza
insistenze e pignolerie, a dire «Buongiorno», poi «Buongiorno
signora», infine a stringere la mano come si deve.
È roba da sottosviluppati. Le persone civili, anche se si
detestano, anche se hanno litigato e hanno rotto i rapporti,
il saluto non se lo tolgono mai.
In teoria, la regola base delle presentazioni non è cambiata
coi tempi. Si dovrebbe presentare la persona di minor
riguardo (per età, sesso, grado, intimità con chi presenta)
alla persona di maggior riguardo. Cioè, si dovrebbe sempre
dire prima il nome della persona meno importante e
poi quello della persona più importante. In pratica, oggi
le cose vanno diversamente. A parte che sta diventando
sempre più difficile misurare i riguardi, le importanze, le
superiorità e le inferiorità, si sa che oggigiorno, frettolosi
e distratti come tutti siamo, succede che al momento
della presentazione ci si confonda, si scambino i riguardi,
si rovescino le precedenze. Ebbene, non è affatto grave.
Direi che è normalissimo. Oggi non si fa più caso a queste
meccaniche regolette di precedenza.
Si fa invece ancora caso a certe goffaggini: anzi, direi
che ci si fa sempre più caso man mano che, elevandosi
il livello medio sociale, si diffonde il senso critico e si fa
l'orecchio a certe stonature. Per esempio: presentando la
moglie, un uomo normale oggi non dice: «La mia signora»;
né, credendosi faceto: «La mia metà». Dice sempre e
soltanto: «Mia moglie».
Presentando il marito, la signora normale dice: «Mio
marito», e non «Mio marito, architetto Zani»; e mai: «Il
mio consorte», che fa pensare alle regine o ai necrologi.
Un genitore normale che presenta i figli non dice: «Il mio
Non sbagliate i nomi delle persone che presentate, non scambiateli.
Questa è ancora oggi una scortesia. Ma si sa come
succede: a volte conosciamo benissimo le persone che stiamo
per presentare, sappiamo cosa fanno, chi frequentano,
diamo magari loro del tu... ma come diavolo si chiamano?
Al momento della presentazione, phffft, i cognomi sono
svaniti nel nulla. Calma: non prendete un'aria vacua e
atterrita e neanche ferocemente concentrata nello sforzo
di ricordare. Lasciate correre. Dite, come fanno tanti: «La
signora... il signor...», mettendo al posto dei puntini quegli
amabili mormorii che possono voler dire qualsiasi cosa.
che cosa dicono i due presentati? Quel
che gli pare, la cosa importa pochissimo. E invece spesso,
per lettera o per, telefono, mi capita di sentirmi chiedere
da voci ansiose: «Che cosa bisogna dire quando si
vien presentati a qualcuno?» La gente si fa dei problemi
strani. Comunque, «Piacere», è ammesso, ma logoro e
meccanico, e così «molto lieto»; «fortunatissimo», «felicissimo»,
«onoratissimo» e via dicendo, sono enfatici e
antiquati.
Una volta nelle presentazioni (come nei saluti, nella corrispondenza,
nella conversazione in genere) era cosa grave
omettere o sbagliare i titoli. Sbagliarli non è bello neanche
adesso. Se non siete certi del titolo, lasciate perdere.
Omettere i titoli oggi non è affatto grave, anzi, è spesso
più simpatico e più elegante. Per esempio:
Quando un personaggio è famoso indipendentemente dal
titolo che porta, è meglio dirne soltanto il nome: «Indro
Montanelli» e non «Il dottor Montanelli»; «Gianni Rivera»,
e non «Il cavalier Rivera».
Le signore che hanno un titolo accademico, negli incontri
normali vengono chiamate e presentate come «Signora
Rossi», «Signora Verdi»; solo negli incontri di tipo professionale
vengono presentate col loro titolo accademico,
che (fatta eccezione per «dottoressa») dovrebbe rimanere
al maschile: «L'avvocato Bianchi», «L'architetto Verdi»,
anche se si tratta di una femminilissima creatura. Ma
anche se dite l'avvocatessa, pazienza. L'architetta è un
po' peggio.
Quando un tale ha più titoli, se ne cita uno solo. Quale?
Quello che si suppone gli faccia più piacere. O, più praticamente,
quello che vi ricordate.
Non chiamate Maestro l'insegnante di scuola elementare:
solo per i suoi scolari è il signor maestro, per gli altri è il
Eliminate il titolo quando vi presentate da soli. E mai
dite: «Sono il signor Rossi», «Sono la signorina Verdi»,
«Sono la signora Bianchi»: non siete voi a dover dare notizia
della vostra signorilità.
Non chiamate dottore chiunque: son cose da lasciare, per
tradizione umoristica, agli ometti dei posteggi.
In quanto alle altezze reali, ai capi di stato, ai vescovi
e così via, so che ci sono persone che ardono di sapere
come ci si rivolge a questi personaggi che non avranno
mai l'occasione di incontrare: ma non sarò io a soddisfare
queste curiosità insane.
In teoria, il perfetto o la perfetta padrona di casa, facendo
le presentazioni, non dovrebbe limitarsi a dire due nomi e
poi piantare lì l'uno davanti all'altro due tizi che si conoscono
meno di prima; dovrebbe aggiungere, possibilmente,
qualche parola che possa servire da base minima per una
minima conversazione. Metti: «Mariarosa, non conosci
ancora Piero Bruni, vero? Compone e canta delle bellissime
canzoni». Così Mariarosa potrà gentilmente chiedere, e
Piero Bruni gioiosamente fornire, delucidazioni sul tipo
di canzoni che compone. Nella speranza che non si metta
a cantare subito.
Ma oggi, di solito, le padrone di casa non sono così
preoccupate di «mettere a loro agio» con spiegazioni e
piacevolezze tutte le persone che presentano. Molte signore
dicono addirittura: «Siate bravi, presentatevi da voi»; e
Uomini e donne. Secondo il galateo tradizionale, un uomo
non poteva permettersi di rivolgere la parola a una signora
se prima non le era stato presentato ufficialmente da intermediari
aventi diritto, cioè conoscenti o amici comuni. Le
autopresentazioni, tra uomo e donna, non erano ammesse.
Oggi questa regola non ha più senso.
Se a un ricevimento un uomo e una donna che non si
conoscono hanno l'occasione di mettersi a parlare, è normale
che si presentino. È invece assurdo che lo facciano
in fugaci e casuali occasioni, tipo incontro in ascensore,
richiesta di informazioni, viaggio in treno o in aereo ecc.
Se però il viaggio è molto lungo, e la conversazione si fa
fitta e cordiale, l'uomo può presentarsi alla signora: la
quale può presentarsi a sua volta, anche se il prudentissimo
galateo classico le consiglia di astenersene e mantenere
l'incognito. Personalmente mi sembra normale che una
signora, se accetta la conversazione e la presentazione di
un uomo, si presenti a sua volta. Se non vuole presentarsi,
eviti allora una conversazione che autorizzi l'uomo, proprio
per cortesia, alla presentazione. E poi cosa sono queste discriminazioni?
La donna si è o non si è emancipata? Aspira
o no ad avere parità di diritti? Se c'è parità di diritti, c'è
anche parità di doveri, quindi parità di presentazioni. Se
l'uomo si presenta, dunque, la donna non faccia la difficile
e dica il suo nome senza tante storie. A meno che non sia
Mata Hari, nel qual caso userà uno pseudonimo.
Personaggi. Non ci si dovrebbe presentare da soli a un
L'autopresentazione è consigliabile se, durante un ricevimento
affollato, i padroni di casa sembrano latitanti, e il
poveretto che arriva senza conoscere nessuno resta lì come
un pesce fuor d'acqua: scappare non può, rendersi invisibile
nemmeno, allora che fa? Di solito, se è timido, cerca
invano di darsi un contegno: si dedica meticolosamente
all'accensione e consumazione di una o più sigarette, fruga
e rifruga nella borsa come se cercasse tesori nascosti, osserva
quadri e mobili come se fosse incaricato di farne la stima,
e mostra di snobbare gli altri invitati, lasciando correre su
di loro il cosiddetto occhio-che-non-vede, o peggio sogguardandoli con furtiva diffidenza o curiosità. Non fate
niente di tutto questo. Non datevi contegni di sorta. Cercate
di trovare una persona di conoscenza; se non vi riesce,
guardate serenamente gli estranei che vi stanno intorno,
accennando un sorriso quando gli sguardi si incrociano: è
da questi incroci-con-sorriso che può nascere prima o poi,
speriamo prima che poi, la spinta all'autopresentazione:
«Permette? Sono Giorgio Rossi. Temo di non conoscere
nessuno qui intorno...» Ecco fatto.
Gli inviti di una volta, oggetto di preventivo studio e di attente
cure formali, si facevano sempre per iscritto. Gli inviti
di oggi, che nascono spesso da un momento all'altro e non
di rado a vanvera, si fanno generalmente a voce, perlopiù
al telefono. Che sia meglio, che sia peggio, non è il punto:
la realtà è questa. E a me personalmente va benissimo.
Solo nelle occasioni ufficiali o comunque molto importanti
oggi si diramano gli inviti su cartoncini stampati: per
esempio in caso di matrimonio (ne parliamo a parte), o
in caso di ricevimenti in grande stile, pranzi d'etichetta,
inaugurazioni ufficiali, anteprima di gala, lanci di prodotti
o di personaggi, e così via: e di questi non parliamo per
niente, presumendo che chi organizza ricevimenti siffatti
sappia, o abbia sottomano chi sa, come si redigono questi
inviti. Che sono comunque tanto più eleganti quanto più
semplici e chiari. Oggi il buonsenso e il buongusto inducono
a ridurre al minimo le sfilate di titoli nobiliari, accademici,
onorifici, a evitare espressioni come «hanno l'onore
e il piacere di invitare», «la Signoria Vostra» (illustrissima
o meno) e altre assurde ridondanze. La disinvoltura è più
elegante della pompa.
Solo se il cartoncino dell'invito porta in calce la classica
sigla RSVP (
Gli inviti normali, cioè a voce, sono spesso estemporanei e proprio per questo simpatici, ma a volte traditori. Sia per chi invita che per chi è invitato. In genere: non invitate insieme persone incompatibili per interessi, ideologie, recenti o antichi rancori, gelosie, invidie, reciproche maldicenze. Non sparate inviti all'improvviso sui disarmati, sui timidi, sugli scorbutici, sui semisconosciuti. Non lasciatevi prendere da un'euforia momentanea per fare inviti di cui potreste amaramente pentirvi. Meglio un invitato di meno che un invitato sbagliato. Però, quando vi capita (oggi può capitare a tutti) di fare un invito avventato, anche se poi vi rendete conto dell'errore, anche se pronosticate incompatibilità e incidenti a catena, non ritirate l'invito senza aver prima costruito, in fretta e bene, una scusa plausibile. La cortesia consiglierebbe di invitare quella persona un'altra volta, in condizioni più propizie e meno precarie: per quanto scomodo sia il soggetto, è un risarcimento che gli dovreste. A meno che non preferiate sembrare e essere villani nei suoi riguardi: nel qual caso, dopotutto, sono affari vostri.
Siate chiari, espliciti, precisi. Per timidezza, per insicurezza,
o per altri reconditi motivi, certe persone usano formule di
Fate gli inviti con un minimo di anticipo, se potete. Ma
non sempre si può. Molti inviti, oggi, nascono dall'ispirazione
del momento, e proprio la loro estemporaneità gli
conferisce un carattere spontaneo e disinvolto, che non
saremo noi a deprecare (purché chi ha fatto il veloce invito,
altrettanto velocemente non se ne penta o dimentichi).
A volte però non si tratta di ispirazione o di disinvoltura,
ma di una necessità improvvisa, che spesso viene malamente
(e inutilmente) mascherata. L'invitatoNon siate insistenti. Quando invitate una persona, lasciatele
la possibilità e il diritto di rifiutare senza sentirsi
in colpa. Un invito deve essere un'offerta, non un ordine,
non un ricatto («devi assolutamente venire», «guarda che
se non vieni mi offendo», «se non vieni tu non faccio
venire nessuno» ecc.). Se la persona rifiuta, non insistete,
non indagate, non fate suppliche, proteste e querimonie
di sorta. Dite: «Che peccato. Sarà per un'altra volta», e via.
Se poi una persona rifiuta sistematicamente, anche
se cortesemente, «tutti» i vostri inviti, dovrebbe esservi
chiaro che non ha voglia, o tempo, o modo di accettarli.
Che insistete a fare?
Quando accettate un invito accettatelo subito, senza condizioni,
incertezze, dilazioni. Non dite alla signora Verdi che
vi invita: «Veramente sabato sera dovrei andare dai Rossi,
ma vedrò se riesco a liberarmi» (il che non è gentile nei
riguardi dei Rossi, e non lusinga la signora Verdi, la quale
può pensare che quando sarete invitati dai Bianchi potreste
dire: «Vedrò se posso liberarmi dai Verdi»). E neanche dite,
a meno che non siate intimi: «Sabato sera avrei un mezzo
impegno, però non sono sicuro, ti telefono lunedì, va bene?»
Non va bene affatto; alle orecchie di chi vi invita, il vostro
discorso potrebbe suonare così: «per sabato ho in vista
qualcosa di molto più divertente, ma se andasse a monte,
pazienza, potrei accontentarmi della tua insipida serata».
Si rifiuta con rincrescimento, s'intende: almeno apparente. E si spiega il motivo del rifiuto. «Giovedì sono impegnato» non basta, è freddo e sibillino. È gentile spiegare di che impegno si tratta; in poche parole, però, altrimenti al rammarico per il rifiuto si aggiungerà il fastidio per la prolissità della spiegazione. L'insofferenza è un altro male del secolo: teniamone il dovuto conto.
I classici del galateo insegnavano che gli inviti devono
essere sempre contraccambiati; possibilmente nel giro
di un mese, e possibilmente nella stessa forma (pranzo
contro pranzo, serata contro serata, tè contro tè, eccetera).
Consigliavano addirittura di rifiutare gli inviti se non si
era certi di poterli ricambiare nel tempo dovuto e con la
dovuta parità di trattamento.
Queste regole oggi appaiono decisamente decrepite, se
non defunte. Si sa che ci sono persone che possono permettersi
molti inviti, e ci sono persone che per motivi vari
non possono permettersene neanche uno: sarebbe stupido
che questi ultimi, che magari sono persone simpatiche e
socievoli, dovessero rifiutare tutti gli inviti e fare vita claustrale
solo perché non possono ricambiare: certi puntigli
Invitarsi da sé è lecito e ammissibile tra amici veramente
affiatati. Altrimenti è un sopruso. Lo è anche se espresso in
forma di domanda: «Ho sentito che dai una festa giovedì:
mi inviti?» A una richiesta del genere, una persona civile
è costretta a rispondere di sì anche se non ne ha voglia,
oppure a cercare sui due piedi, imbarazzatissima, una scusa
per dire di no senza essere scortese. Mai mettere la gente
in queste scomode situazioni.
Ma ci sono anche quelli che non chiedono nemmeno
l'invito: ti capitano addirittura in casa, e Gli invitati degli invitati. Un invitato civile, se non è
intimissimo, non chiede: «Posso portare un paio di amici?»
Né, peggio, li porta senza permesso, creando così la figura
a volte patetica dell'imbucato involontario: quello che è
stato trascinato lì quasi con la forza da altri amici (invitati,
o magari loro stessi imbucati), che gli han detto: «Ma su,
ma vieni, ma di cos'hai paura, lì entra chi vuole...» E il
poveretto che magari è timido e schivo, ci ha creduto; e
adesso, sballottato in una folla di sconosciuti, mollato dagli
amici che l'han portato lì, guardato con occhio freddo dai
padroni di casa, si aspetta che da un momento all'altro
qualcuno gli punti contro il dito dicendo: «Lei cosa fa qui?
Pussa via!» E desidera acutamente di essere al centro della
terra, su una zattera nell'oceano, ma non lì.
La padrona di casa disponibile (la signora moderna deve
esserlo) intuirà il suo dramma e verrà in soccorso del tapino
portandolo allegramente dai suoi sogni di fuga alla realtà
delle tartine e del
Essere ospitali non significa ospitare molto, e neanche
ospitare con raffinatezza. Significa ospitare con piacere
e spontaneità. Il che non significa caos, assenza totale di
orari e di discrezione; né gli invitati né gli invitanti (tranne
forse i molto giovani) starebbero granché comodi in un
regime di totale anarchia domestica. Ma anche un regime
di cerimonioso formalismo può essere, e oggi sicuramente
è, molto pesante.
Parliamo, in particolare, dell'ospitalità per più di un
giorno, alla quale questo capitolo è dedicato. Un proverbio
antipatico dice che «l'ospite è come il pesce; dopo tre
giorni puzza». Per sgradevole che sia, questo proverbio
ha purtroppo un fondamento di verità. Persone che, per
averle incontrate spesso su terreno neutrale, credevamo di
conoscere bene, quando stanno per qualche giorno sotto
il nostro tetto possono riservarci delle grosse sorprese:
scopriamo magari in loro virtù insospettate, ma più spesso
insospettatissimi difetti. Non sopravvalutate mai le virtù
del vostro ospite. Né le vostre. Né la compatibilità delle
une con le altre. Non aspettatevi che la convivenza possa
essere sempre perfetta: non c'è niente di perfetto a questo
mondo (specie dopo qualche giorno). Siamo tutti insofferenti.
Un po' di disturbo l'ospite finirà per darvelo sempre,
Si sa che nelle nostre case cittadine, sempre più anguste, raramente
esiste una camera per gli ospiti. Questo significa che
ci si deve precludere la gioia (quando è una gioia) di ospitare
un amico che viene da lontano? Ma no: anche per l'ospite
adulto, se è un amico, ci sono diverse soluzioni accettabili.
Se la vostra casa è piccola e non molto attrezzata, l'ospite
amico saprà, perché lo avrete avvertito, di doversi adattare,
quindi accetterà sportivamente una sistemazione di
fortuna: che potrà essere un divano-letto nello studio o
alla peggio nel soggiorno. Non in corridoio però, non in
cucina: a meno che non si tratti di ragazzi (ai quali oggi
basta un sacco a pelo in qualsiasi posto), meglio non ospitare
nessuno in queste condizioni.
Non insistete per cedergli il vostro letto; l'ospite si sentirebbe
in colpa o comunque a disagio. Può invece essere una
buona soluzione cedergli la stanza di uno dei ragazzi di
famiglia, dirottando quest'ultimo sul famoso letto in soggiorno:
posto che si tratti di un ragazzo di buon carattere.
prima dell'arrivo dell'ospite. (Se si tratta di un amico
del figlio o della figlia, ripetiamo, non ci sono problemi:
lasciate, vi prego, che i ragazzi si arrangino a modo loro).
Dovunque sia sistemato, comunque, l'ospite (adulto)
avrà un letto comodo, lenzuola pulite, coperte morbide,
materasso non gibboso. Avrà a sua disposizione, se non
un armadio, una sezione di armadio, con qualche gruccia
per appendere gli abiti, e un paio di cassetti vuoti. A
portata di mano dovrebbe avere (ma se non ce l'ha non fa
che chiedere) anche una coperta di riserva, un guanciale
di riserva, due asciugamani puliti. Ci sarà una lampadina
ben funzionante vicino al letto; un portacenere, se fuma;
una bottiglia d'acqua e un bicchiere.
- Quando l'ospite arriva, non trascinatelo subito, stanco e
frastornato dal viaggio, a visitare tutta la casa, il giardino,
i possedimenti. Accompagnatelo nella stanza o nell'angolo
di stanza che avete preparato per lui, mostrategli
i cassetti, i ripiani degli appendiabiti a lui destinati,
indicategli dove sono gli interruttori, dov'è la stanza
da bagno, indi lasciatelo solo per un po' a rilassarsi e a
sistemarsi liberamente.
- Al mattino, non piombate a ore antelucane nella stanza
dove l'ospite riposa, né lasciate che vi irrompa la domestica
con scope e lucidatrice.
- Non ditegli: «Fa' come se fossi in casa tua», esortazione
che serve solo a ricordargli ancor meglio che non è in
casa sua, ma in casa vostra.
non avere l'aria stanca con un trattamento
del genere?
- E infine non assumete, neanche se l'ospite è un ragazzo,
un piglio militaresco («Svegliarsi! Alzarsi! Si va a tavola!
Si esce! Si va a letto!»). L'ospite non è una recluta, e non
è un bambino bisognoso di cure. È un amico che passa
qualche giorno in casa vostra: lasciate che si senta libero
(di sedersi, di alzarsi, di uscire, di dormire, di tacere).
Non libero di fare i propri comodi infischiandosene delle
esigenze di chi lo ospita: c'è sempre un modo (magari
scherzoso, sempre amichevole) di far capire a un ospite
indiscreto che la nostra casa non è un albergo e noi non
siamo elettrodomestici.
- Non portare troppo bagaglio, sgomentando con un
esercito di valigie gli ospiti che ti hanno magari riservato
un solo cassetto, un solo ripiano, tre sole grucce
nell'armadio.
Non dire: «Oh, per me va bene tutto, per me
è lo stesso, mangio qualsiasi cosa, dormo da qualsiasi
parte, non disturbatevi per me». L'ospite che si affanna
a non disturbare è in genere quello che disturba di più.
-Non passare ore mollemente disteso in bagni di schiuma,
non fare la doccia a ogni piè sospinto, non occupare
eternamente l'agognata stanza nelle ore di punta, non
ingombrare le mensoline con eserciti di bottigliette e
arnesi vari, non lasciare pavimenti alluvionati, saponette
mollicce, capelli sul pettine, tracce dubbie sugli orli della
vasca e dei lavabi.
- Non stare sempre appiccicato ai tuoi ospiti. Ritirati
ogni tanto nella tua stanza o vai a fare una passeggiata,
lasciandoli liberi di fare le poche o molte cose che non
possono fare in tua presenza.,
- Se non in casi eccezionali, non fare telefonate interurbane
(e non chiedere goffamente di pagarle: i padroni
di casa non potrebbero accettare, è cosa da pitocchi).
- Sii gentile con gli amici dei tuoi amici, ma non legare
con loro in modo eccessivo, scavalcando i tuoi ospiti: è
una grossa mancanza di tatto.
- Se la famiglia che ti ospita è all'antica, non cercare di
Quando ospitate qualcuno in casa vostra, avvertitelo prima
se c'è in casa un cane o un gatto, o anche un canarino (c'è
chi non sopporta nemmeno gli uccelli: «penna viva mena
gramo» è un proverbio idiota, ma ci sono i superstiziosi
anche tra le persone intelligenti). E anche quando l'ospite
è avvertito, non pretendete da lui un eccesso di familiarità
coi vostri animali. Per quanto possa sembrarvi inaudito
che il vostro adorato, intelligentissimo, meraviglioso cane
possa non riuscire del tutto gradito a qualcuno, questa
incredibile eventualità si può verificare: non abbiatevene a
male. C'è chi ama gli animali e chi no: si può essere amici
lo stesso, purché gli uni non pretendano di redimere gli
altri. Specie se si tratta di ospiti.
Non è sensato forzare l'ospite schizzinoso a fare amicizia
con l'esuberante cane di casa («ma su, salutalo, fagli una
carezza, fagli i complimenti, lui capisce tutto, non vedi?
Gli manca la parola»). Ma l'ospite schizzinoso pensa alle
pulci, al cattivo odore, alle zampe sporche, ai propri vestiti,
e della parola del cane non gliene importa niente, ci mancherebbe
pure che parlasse, quella bestiaccia invadente!
Così pensa, mentre con un sorriso tirato cerca di tenerlo
a distanza, e rimpiange il momento in cui ha accettato di
venire in questa casa dove i cani intrattengono gli ospiti
in soggiorno.
Ancora più stupido è pretendere che l'ospite che ha
paura degli animali in genere, non ne abbia dei nostri. «Ma
Una volta i trattenimenti erano relativamente pochi come
genere e come numero, e ognuno aveva limiti e seguiva
regole precise. Oggi, in base a quel fenomeno di elefantiasi
che ha investito la società e il costume, i trattenimenti o
Qualche tempo fa un noto e versatile uomo politico, in
periodo preelettorale, ebbe l'idea di invitare a un tè un
gruppo di noti e quotati scrittori italiani; lo strano invito,
cortesemente declinato da molti, suscitò un'ondata di ironici
commenti. Di questi tempi, il tè non è un ricevimento
da scrittori, né da uomini politici. Perfino tra le signore
che ne furono un tempo le regine, il tè delle cinque si va
facendo sempre più raro, soppiantato da quel ricevimento
tutto-fare e tutto-bere che è il
Un tempo, non molto lontano, si diceva: «Ci vediamo da
me per un vermuttino». Il deprecabile diminutivo stava a
sottolineare la modestia dell'evento: cioè un incontro tra il
lavoro e la cena per fare quattro chiacchiere, ma non più di
quattro, in quanto era inteso che ognuno poi cenasse per
conto proprio. Oggi invece, il più delle volte, la riunione-aperitivo
Il Gli onori di casa. Ci sono i Che cosa si offre. Si offre un assortimento il più possibile
vasto e completo di aperitivi e liquori, mescolati e no. In
caso di Come si servono gli ospiti. Anche se il loro bibita manca; non monopolizzeranno il Orari. Non esistono per il chi li ospita? «Mah, chi se
ne ricorda, i
Un tempo non esisteva. Adesso esiste anche troppo ed è
spesso male interpretato. Per non poca gente, infatti, il
pranzo in piedi serve a ricambiare un mucchio di pranzi
(seduti), invitare un mare di gente, tenersi buoni questi,
sdebitarsi con quelli, prender contatto con gli altri, farli
fuori tutti in una volta, con notevole risparmio di tempo
e di lavoro, se non di soldi. Il risultato è spesso un'accozzaglia
eterogenea di gente che vagola intorno col piatto
non si sta in piedi. Gli invitati si servono da soli: ma
una volta procuratisi cibarie e bevande, ognuno deve
poter trovare una sistemazione comoda e civile. Perciò si
consiglia di non invitare più persone di quante la casa, i
servizi e le sedie possano agevolmente reggere.
Su un tavolo vengono posti piatti, posate, bicchieri, pane
(in panini o a fette) e tovaglioli (ammessi quelli di carta).
Su altri tavoli stanno le bevande e le cibarie: che possono
essere le stesse di un pranzo normale, ma già affettate,
condite, pronte per l'uso. Al via dei padroni di casa, ogni
ospite si serve di quel che preferisce, indi va a cercarsi un
posto a sedere qualsiasi.
Non fate ressa intorno alla tavola; non vociate, non spingete,
non date gomitate, non passate col braccio davanti
alla faccia o sopra la testa di altri; non mimate, magari per
ridere, l'uomo delle caverne avido di cibo.
Non riempite e svuotate il piatto a gran velocità per fare
in tempo a provare un poco (o moltissimo) di tutto. Ma
neanche restate lì col piatto vuoto e l'aria critica, a meditare
sulle pietanze. Se siete difficili, o schizzinosi, o formalisti,
il pranzo in piedi non è fatto per voi. Come non è fatto
per gli sbrodoloni, i pasticcioni, gli indiscreti, gli ingordi,
i caciaroni per forza.
Proprio perché è più «libero» del pranzo normale, il
pranzo in piedi richiede un certo senso della misura per
non trasformarsi in un bivacco.
I signori possono offrirsi di versare vino, riempire
Le serate in compagnia possono essere più o meno lunghe,
più o meno affollate, più o meno impegnative, disinvolte,
confidenziali. Possono avere un programma di massima,
ma in genere oggi non si tratta di programmi assoluti,
fissi e inderogabili, che obblighino tutti gli ospiti a fare
sempre e soltanto la stessa unica cosa. Qualche disgressione
è concessa. C'è chi ama la conversazione, c'è chi ama la
musica, c'è chi ama il La televisione. Le serate «a programma fisso» che francamente
non capisco sono quelle basate sulla televisione.
Oggi che in ogni casa c'è un televisore, non si vede che
senso abbia riunire gli amici per schiaffarli tutti davanti
al televisore, bicchiere in mano e occhio imbambolato, a
sorbirsi i programmi fino in fondo, e alla fine buonanotte
a tutti. Tanto varrebbe allora che ognuno si guardasse i
programmi a casa propria, dove almeno può farlo in pigiama,
magari coi piedi sul tavolo o coi bigodini in testa.
Se però c'è un ospite che arde di vedere un determinato
programma, lo dica: «Mi lasciate vedere la Domenica
Sportiva?» Chi mai oserebbe dirgli di no! Si metta vicino
al televisore, tenga basso il volume e non pretenda di
coinvolgere nella trasmissione quelli che stanno parlando
di tutt'altro.
E se sono i padroni di casa che ardono di vedere un certo
programma? Di regola, sarebbe meglio non invitare gente
quando c'è una trasmissione che non si vuol perdere. Ma
se, magari per una svista, questo accade, si può dire, come
spesso oggi capita di sentir dire: «C'è l'ultima puntata di
quel giallo... avete voglia di guardarlo?» La maggioranza
degli ospiti avrà o farà finta di averne voglia. I dissidenti
si adattino, e non si mettano a boicottare la trasmissione:
«Ma che boiata... non so come fate a sopportare delle
fesserie simili... Ma guarda lì che roba... È proprio vero
che la televisione è l'oppio dei popoli. Addormenta i cervelli.
Musica. Lo stesso discorso, più o meno, vale per le serate
musicali. Se il dopocena è dichiaratamente dedicato alla
musica, il comportamento dovrebbe essere più o meno
quello che si tiene a un concerto, a parte la maggiore
libertà negli intervalli e le consumazioni non è stato specificato in precedenza che si trattava di una
serata musicale, e se non si sa per certo che gli ospiti sono
tutti patiti di quella musica, non si può costringerli a sentir
dischi per ore filate in religioso silenzio, e guardar magari
male chi tossisce o fa scricchiolare le sedie.
Ci sono poi serate che, pur non essendo dedicate principalmente
alla musica, possono avere un più o meno
consistente intervallo musicale, per esempio quando c'è
qualcuno, e oggi c'è spesso, che sa cantare e suonare la
chitarra (il cantante-chitarrista dilettante ha sostituito,
direi con vantaggio, la signorina-che-suonava-il-piano
nei salotti di una volta). Costui, o costei, non si faccia
troppo pregare a esibirsi, se le richieste sono unanimi e
sincere: prenda la sua chitarra, la accordi (sveltino, grazie)
e attacchi. Il guaio è che questi cantanti-con-chitarra,
magari restii all'inizio, una volta che han cominciato non
Giochi di società. O cielo, i giochi di società! Simulacri
di civiltà sepolte, affossatori dell'allegria collettiva, forche
caudine delle serate mosce: così sono considerati oggi. In
verità, siamo noi che non li sappiamo più fare. I giochi di
società, anche decrepiti, possono rinascere a novella vita
e rivelarsi moderni e divertenti, a patto però che siano
condotti con estro, spirito e senso della misura, tre cose
che difficilmente coesistono nelle nostre serate di gente
prosciugata dalla Che cosa si offre dopocena. Ma il solito: vini (da dessert o
di genere vario, purché ottimi) e liquori (Come ci si veste. Secondo il galateo, spetterebbe all'invitante
far capire se si tratta di una serata elegante o alla
buona. Ma molte padrone di casa, per un senso di modestia
(che bocciamo, in quanto falsa) definiscono «alla buona»
serate che si rivelano poi elegantissime. Ebbene di che vi
preoccupate? Oggi (se non si tratta di quelle serate con
invito scritto e l'indicazione «cravatta nera», il che significa
abito da sera per tutti), il tipo di abbigliamento è sempre
meno importante. Quello che conta è sentirsi a proprio
agio nei propri vestiti, quali che siano (e quali che siano
quelli degli altri).
Se qualche insicura ha dei dubbi in proposito, tenga
presente che è sempre meglio il troppo semplice che il
troppo elegante. I
Ancora oggi, in certe vecchie osterie non solo paesane,
sta appeso l'elenco dei giochi di carte «proibiti»: vi si
scoprono giochi dai nomi incredibili, per esempio il lanzichenecco,
la zecchinetta, il biribisso. (Ci piace immaginare
La posta. Nelle case normali, di solito, l'azzardo non è
gradito. Si può «interessare» il gioco per dargli un po' di
brivido, ma bisogna stabilire in precedenza i limiti della
posta o della puglia, per evitare di mettere in imbarazzo
o in tentazione chi, pur amando il brivido, non può permetterselo
oltre una certa misura. E se anche tutti fossero
in condizione di giocare forte, non è simpatico vedere la
propria casa trasformata in una bisca. Naturalmente, i
gusti sono gusti. L'importante è che uno sappia a cosa va
incontro.
Vincenti o perdenti. Chi vince non si esalti, non si
accanisca sul perdente, eviti di contare bramosamente le
vincite, fare pile di I litigiosi. Nei giochi «di testa» non ha importanza
quanto si vince o si perde, ma come si vince o si perde; ha
importanza, insomma, il cosiddetto bel gioco. Spesso però
I negati. Per giocare bisognerebbe conoscere le regole
del gioco: non presumere o fingere di conoscerle. Mentre
il giocatore novellino ha generalmente l'umiltà di
dichiarare la propria inesperienza, il vero pericolo sta nel
tizio che gioca da anni e anni e che si ritiene quindi un
esperto, mentre invece è una catastrofe, continua a fare
ineluttabilmente gli stessi sbagli, e magari se la prende
con chi, giocando da esperto genuino, gli rovina i suoi
bei programmini da negato. Non cercate per carità di
spiegargli i suoi errori o di muovergli la minima obiezione:
riuscireste solo a farlo imbestialire («giovanotto, sappia
che io giocavo a Le serate miste. Chiamiamo così le serate in cui parte
degli invitati giocano e parte fanno altre cose. Chi non
gioca non si fermi alle spalle dei giocatori a osservare le
loro carte: o, se lo fa, non commenti, non ridacchi, non
faccia cenni: stia fermo e zitto. Chi gioca non dia segni di
impazienza se qualcuno si ferma vicino al tavolo («mi mena
gramo») o se il gruppo dei non giocanti, conversando,
ballando, disturba la sua concentrazione.
E ancora: per quanto amanti delle carte siate, non assillate
il prossimo. Non fate come quei tipi che, mentre gli altri
si divertono in altro modo, stanno lì sulle spine in attesa
di cominciare a giocare, si affannano a cercare compagni
che non gli danno retta, sgomberano inopinatamente un
tavolo, tirano fuori le carte e ci giocherellano da soli con
aria nervosa, facendo passare la voglia di giocare anche a
chi magari ce l'aveva.
Se siete giocatori seri:
- Non prendete in mano le carte prima che il mazziere
abbia finito di distribuirle (ma anche se lo fate non casca
il mondo).
- Non tenete le carte a grappolo, a piramide, pericolanti
l'una sull'altra; non tenetele sotto al tavolo, né strette
al seno guardando con sospetto i vicini.
- Non ritirate una carta dopo averla giocata.
- Quando mescolate, fatelo sobriamente, senza prodezze
spettacolari alla Danny Kaye.
- Quando distribuite le carte, non fatele planare come
aeroplani, non lanciatele come siluri, non buttatele a
mucchietti, non seguite criteri fantasiosi; distribuitele
con ordine e misura, facendole scivolare leggermente
sul tavolo, una per una, da sinistra a destra o da destra
a sinistra (a seconda del gioco).
- Non fate segni, tossettine, ammicchi.
- Non sbirciate le carte altrui.
- Non fate scongiuri, non girate intorno alla sedia per
esorcismo: sono scherzi troppo vecchi (e se non sono
scherzi, peggio).
- Non chiedete di cambiar posto perché la vostra sedia vi
mena gramo.
Anche se «non» siete giocatori seri:
- Non maltrattate e non sporcate le carte.
- Non bagnatevi il dito (orrore) per farle scorrere.
- Non proponete mai di smettere mentre state vincendo.
- Non rifiutate mai la rivincita; ma se state perdendo, non
cercate di rifarvi a tutti i costi, costringendo gli altri a
giocare fino all'alba.
I giovani della generazione precedente si dedicavano al
ballo molto più di quanto non vi si dedichino i giovani
di adesso (che in compenso suonano molto di più). Non
ci importa qui stabilire il perché, ci limitiamo ad annotare
il fatto, a titolo di cronaca. In linea di massima, oggi c'è
comunque molta più libertà (di movimenti e di contegno)
di quanta non ce ne fosse un tempo. Ma libertà non significa,
neppure oggi, trasformare il luogo in cui si balla
in un'alcova, o in una palestra di lotta libera.
Ci sono, grosso modo, tre tipi di ballerini. Ci sono
quelli che considerano il ballo una specie di entusiasmante
esercizio ginnico-musicale, meglio se con acrobazie di vario
genere. Purché non ci siano vecchie zie impressionabili
intorno o inquilini insonni al piano di sotto, non abbiamo
obiezioni; ci auguriamo soltanto che i nati-per-danzare,
anche se scatenati al massimo, badino a dove mettono i
piedi, i gomiti e le membra principali, onde non seminare
intorno a sé panico e strage.
Poi ci sono quelli che considerano il ballo un mezzo
d'avvicinamento, spesso molto stretto, tra due persone
di sesso diverso. Non vi risultava? Certi giovani e meno
giovani signori, che magari non sentono il tempo, odiano
la musica e detestano l'esercizio fisico, vanno a ballare solo
per aver l'occasione di stringere pubblicamente in più o
meno languidi amplessi graziose e arrendevoli fanciulle. È
un punto di vista come un altro. Se al tempo dei lancieri
sarebbe stato inconcepibile, oggi è normale che in ogni
posto, pubblico o privato, in cui si balla, ci siano qua
e là le coppie cosiddette del mattone, pressoché ferme,
appiccicate insieme, incuranti della musica e del ritmo,
Le sale da ballo. Non parliamo dei Contegno. Oggi il tipo che invita la dama con un inchino a
quarantacinque gradi, dicendo: «Mi concede questo ballo?»
o «Posso avere il piacere, eccetera», praticamente non esiste
più, se si eccettua qualche raro esemplare oltre la sessantina.
Ci sembra comunque sensato che il cosiddetto cavaliere
faccia il suo invito con un piccolo accenno di inchino, con
un mezzo sorriso, con un facoltativo «Permette?», e non
con un colpo sulla spalla, un gesto rotatorio dell'indice, una
stretta imperiosa del braccio accompagnata da uno sguardo
stile
Sia pur con qualche variante, ci sono ancora le classiche
festine giovanili di tipo «borghese», organizzate con la
supervisione delle mamme: molte tartine, panini imbottiti,
bibite analcoliche, qualche alcolico per i più vissuti,
giradischi con molti dischi o registratori con molte cassette;
e, come base, il ballo.
Poi ci sono, più frequenti e più amate, le feste di tipo
«non borghese», per le quali la supervisione materna non è
richiesta, anzi è spesso rifiutata: ognuno porta qualcosa da
se voi vi mettete sullo
stesso piano. Tutto sta a fare il primo passo. Ma come!,
dicono molti genitori: tocca ai ragazzi fare il primo passo.
No, cari colleghi genitori, no: tocca proprio a voi, a noi.
Posti. Prenotate i posti in tempo. Non scegliete le poltrone
di prima fila: lasciatele agli esibizionisti. Le poltrone «signorili»
cominciano dalla terza fila. Anche le poltroncine,
assai meno costose, sono ottimi posti, se avete buona vista
e buon udito, e se le prenotate con anticipo, in modo da
potere scegliere la posizione. Gli «ingressi», o «posti in
piedi», vanno bene per persone giovani o comunque resistenti:
solo chi arriva presto riesce a sedersi, gli altri restano
in piedi e sono pregati di non lamentarsi. Le signore non
chiedano ai giovanotti (né, peggio, glielo facciano chiedere
dal marito) di lasciar loro il posto: magari quelli, per potersi
sedere, sono arrivati lì mezz'ora prima: perché dovrebbero
sacrificarsi per questa qua che arriva all'ultimo momento?
Non ci sono precedenze di sessi.
Puntualità. Molti arrivano in ritardo a teatro per abitudine,
come fosse loro diritto far alzare una dozzina di
persone (che a loro volta, alzandosi, disturberanno le
dozzine che stanno dietro), e se ne infischiano se la loro
difficoltosa avanzata, lo scalpiccio, i bisbigli («permesso,
Intervalli.Negli intervalli c'è chi preferisce rimanere
nella sua poltrona, e chi preferisce andare nel ridotto, dove
potrà sgranchirsi le gambe, incontrare amici, chiacchierare,
fumare, commentare la commedia o l'opera, e non i vestiti
altrui, neanche se è una prima.
Quando un uomo è in compagnia di una signora, se
questa esprime il desiderio di andare nel ridotto, l'uomo,
anche se non ne ha voglia, dovrebbe accompagnarcela. Se
invece è l'uomo che desidera andare nel ridotto mentre la
signora desidera restare in poltrona, un tempo si voleva
che l'uomo si sacrificasse, restando seduto pure lui. Oggi,
se non altro col pretesto del fumo o, se non fuma, dei
crampi alle gambe, o infine della libertà, può scusarsi con
la dama e filare. Ritornerà possibilmente con una certa
sollecitudine, non quando il sipario si sta già alzando.
Abbigliamento. Oggi solo alle prime di gala (e neanche
sempre) si va vestiti in pompa magna o quasi. Alle repliche
si va vestiti come si vuole, comunque non da sera.
Contegno. Non fate commenti durante lo spettacolo, o
almeno fateli con voce appena percettibile. Non sfogliate
continuamente il programma con petulante scricchiolio.
Non mugolate la romanza che sta cantando il tenore. Non
ridete sgangheratamente, non singhiozzate, non soffiatevi
continuamente in naso. Se possibile, non addormentatevi.
Applausi e fischi. Secondo il galateo di una volta, una
signora a teatro non doveva mai applaudire: doveva restare
immobile e impassibile come una sfinge, o come una deficiente,
lasciando all'intelligentissimo compagno la facoltà
Uscita. Come non dovete arrivare in ritardo, così non
dovete muovervi in anticipo. Molti invece, per affrettare le
operazioni di uscita, hanno l'abitudine di alzarsi prima della
fine per recarsi al guardaroba e ritornarne, eroiche staffette,
con tutti i soprabiti degli amici: data la difficoltà del passaggio
e il volume del carico, un mucchio di gente si perde, a
causa loro, metà della scena madre. Non ci sembra giusto.
Entrata e uscita. Al cinema si può entrare quando si vuole.
Però, prima di avventurarsi alla ricerca del posto, è meglio
aspettare che sullo schermo ci sia una scena luminosa o
che gli occhi si siano un po' abituati all'oscurità, per non
procedere a tentoni, inciampando, annaspando, ruzzolando
per le scale, scambiando per poltrone libere le ginocchia
altrui. Scegliete il vostro posto senza troppo peregrinare,
senza ripensamenti, alzate e risedute. Non fate alzare gli
spettatori durante una scena culminante, aspettate che
I seccatori. C'è quello che, convinto forse di trovarsi
in una sala di analfabeti, legge forte tutti i titoli, i nomi,
le didascalie, le insegne, le targhe, i messaggi scritti che
compaiono sullo schermo; c'è quello che sa tutto sul film
perché ha letto le recensioni sui giornali, o perché gliel'ha
raccontato un amico, e si crede in dovere di fornire anticipi
di ogni sequenza, soluzione e colpo di scena; c'è
quello che invece non sa niente del film, ma si diletta
di fare pronostici ad alta voce; c'è il sessuorepresso che
saluta con fischi e commenti irripetibili le scene d'amore
e gli attributi anatomici dell'attrice; c'è l'emotiva, quasi
sempre è una donna, che geme nei momenti di suspense
(«Gesù Gesù non posso guardare») e lancia un grido ogni
volta che vede comparire il fellone; c'è l'esuberante che
partecipa all'azione come se fosse reale e incita l'eroe:
«attento!», «presto!», «buttati!»; c'è quello, frequentissimo,
che non capisce niente e chiede in continuazione: «Cos'ha
detto? Dove va? Ma quello lì è dei nostri o dei loro?». E ci
sono quelli che invece di seguire il film chiacchierano per
i fatti loro; e le schiere di amici che si passano richiami e
commenti da un capo all'altro della fila; e infine quelli che,
non apprezzando il film, continuano a sbuffare e a dire:
«Che idiozia, che volgarità, che orrore, se va avanti così
mi viene male». Scegliete con attenzione il film da andare
a vedere; ma se per caso capitate male, i casi sono due: o
andate via, o sopportate in silenzio.
Il bello è che, se vengono zittiti dai vicini, questi spettatori
I pappagalli. Il seccatore che va subito, energicamente
scoraggiato è il seccatore-pappagallo: quello che fa più o
meno lente e insinuanti manovre per entrare in contatto,
diciamo, con la spettatrice sconosciuta che gli siede al fianco.
Questa non farà scene, non chiamerà la maschera, non
mollerà sberle: se il cinema è abbastanza vuoto, si alzerà e
cambierà posto. Altrimenti respingerà le occulte manovre
con decisione, sguardo glaciale e poche, sommesse ma
drastiche parole: in genere, di fronte a una pronta e ferma
reazione il pappagallo batte in ritirata per non rischiare
guai. Più complicata può essere la faccenda quando la
signora non è sola, ma accompagnata da un uomo: se lo
avverte di quanto sta accadendo sull'altro versante della
propria sedia, può venirne fuori una scenata, che invece
è saggio cercar di evitare; ma se l'importunata non reagisce,
l'importuno può sentirsi autorizzato a continuare.
Conosco una signora che, importunata al cinema da un
pappagallo mentre era al fianco del marito, non disse
niente: con la massima impassibilità e serenità si accese una
Applausi e fischi. Al cinema in genere non si dovrebbe né
applaudire né fischiare (se non alle prime, per esprimere
un giudizio critico). Gli applausi ironici, che sottolineano
le scene particolarmente stupide, sono comprensibili ma
inutili: i responsabili non sono lì a sentire. In quanto ai
documentari e alla pubblicità, sappiamo quanto gli uni e
l'altra possano essere noiosi, ma poiché sono pagati, non
possono essere interrotti; quindi fischi, applausi e tramestii
di piedi non fanno che aggiungere alla noia della pubblicità
o del documentario il fastidio del chiasso.
Coppiette. Oggi le coppiette sono più attrezzate di una
volta, quindi gli innamorati che vanno al cinema solo
per stare vicini al buio sono diminuiti; ma ce ne sono
ancora, specie tra i giovanissimi. Non è molto carino, al
riaccendersi delle luci, vedere una fanciulla congestionata e
scomposta vicino a un cavaliere stranito che cerca di darsi
un contegno, ma si può essere indulgenti. Si vorrebbe solo
che non eccedessero: in fatto di scene erotiche, bastano
quelle dello schermo.
Bambini al cinema. Non portate i bambini al cinema
di sera: il loro posto è a letto. Non portateceli neanche di
pomeriggio, se non per vedere film sicuramente adatti a
loro. E per «adatti a loro» non intendiamo solo film che
È cattivo? È CATTIVO?» mentre i genitori, senza
staccare gli occhi dallo schermo, li zittiscono meccanicamente:
«Sssst, ssst, se stai buono poi ti prendo il gelato»,
«zitto! se non stai zitto le prendi», finché si arriva fatalmente
all'esplosione di lacrime, singhiozzi e grida. Tutto
questo, ovviamente, è da evitare. Portate i bambini con
voi dove volete, ma non in posti dove possono annoiarsi,
respirare aria viziata e disturbare il prossimo.
In quanto ai bambini più grandi: ci sono film vietati e ci
sono film permessi ai minori. Purtroppo il criterio con cui
si vietano i film è un criterio di tipo, diciamo, unicamente
sessuofobo. Ci si preoccupa moltissimo dell'«oltraggio
al pudore», ma pochissimo dell'oltraggio all'estetica, al
buon gusto, alla sensibilità; si vietano film che potrebbero
turbare (o istruire) i bambini nella sfera sessuale, ma non
si vietano film che possono traumatizzarli o influenzarli
negativamente in vari modi. Quindi, prima di portare i
bambini a vedere un film «non vietato», informatevi bene:
o dai giornali, o da chi l'ha già visto.
Mai come oggi psicologi e sociologi hanno raccomandato
di «aprire il dialogo», «tener vivo il colloquio», «portare
avanti il discorso». Mai come oggi, tra fiumi di parole, è
stato difficile comunicare.
Per comunicare con successo non occorre essere dei
conversatori brillanti, colti e forbiti; occorre avere interesse
per il prossimo, occorre essere attenti, disponibili,
partecipi. Quanti di noi lo sono? Se la conversazione si è
deteriorata, è perché si sono deteriorati i rapporti umani.
Si dice, non a torto, che la televisione ha dato l'ultimo
ferale colpo al piacere della conversazione. Ma il televisore
non si accende da solo. A monte del rimbambimento
televisivo stanno cose come pigrizia, stanchezza, aridità,
egocentrismo,
- Non parlate troppo in fretta, mangiando le parole,
accavallandole una sull'altra: è una tendenza comune a
molti insicuri, ma chi ascolta si innervosisce.
Io
non sputacchio!» tenetevi un vibrato discorso davanti
allo specchio e contate le bollicine. Se però è un altro
che sputacchia accanto a voi, non fate bruschi scarti
all'indietro, non asciugatevi la faccia; e anche se si
tratta di un intimo non ditegli: «Insomma, piantala di
sputarmi addosso!» Evidentemente il poveretto non lo
fa apposta: non mortificatelo, dopo tutto basta che vi
spostiate un pochino.
- Controllate gli sbadigli mentre gli altri parlano: tanto
più che lo sbadiglio è contagioso, e in pochi minuti una
compagnia di brillanti conversatori può venir travolta
dall'epidemia. Spesso si tratta, più che di noia o sonno,
di un fenomeno nervoso, ma vallo a spiegare.
«molti troverai che non
amano sentire il fiato altrui quantunque cattivo odore
non ne venisse».
- Non toccate le persone con cui parlate (colpetto sulla
spalla, tirata di manica, accaparramento di mano) per
attirarne o trattenerne l'attenzione. Anche secondo il
sullodato Monsignore, non si deve «punzecchiare altrui
col gomito, come molti soglion fare a ogni parola, dicendo:
"Non dissi io vero? Ehi voi? Eh Messer Tale?", e
tuttavia vi frugano col gomito».
I tempi cambiano, ma
i vizi restano. Ricordatevi che ci sono tuttora persone
che detestano esser toccate. Se però siete voi tra queste,
cercate di non divincolarvi tipo Laocoonte, ma di sottrarvi
con pacata graduale astuzia.
Anche in un gruppo di persone dello stesso ambiente e
livello può succedere a volte che la conversazione stenti a
ingranarsi. Non è grave. Non lo si noterebbe nemmeno,
se non ci fossero i soliti ansiosi, impazienti, nervosi, che
subito si affannano a esibire la loro scorta di rampini: cioè
di quei vecchissimi strumenti che servono a iniziare una
conversazione qualsiasi tra persone momentaneamente taciturne.
Politica. La politica è un aspetto fondamentale della
cultura: e se ci fossero meno preconcetti, meno settarismo,
meno qualunquismo, più tolleranza, più spirito
di ricerca e di dialogo, parlare di politica sarebbe utile e
avvincente per tutti. Se, appunto. Purtroppo si sa come
va spesso a finire, anche tra persone per altri versi sensate:
giudizi inappellabili, sarcasmi velenosi, voci alterate, facce
stravolte, attacchi di gastrite. Ognuno resta, furibondo,
della propria opinione, mentre della bella serata tra amici
restano le macerie. Quindi, conclude il galateo, non parlate
di politica. Quindi, concludo invece io, allenatevi alla
tolleranza politica, anche verbale.
Religione. Sesso. Il sesso può essere un argomento pulitissimo, serio
civile, purché se ne parli appunto in modo pulito, serio e
civile, cioè senza morbosità, senza fobie, senza doppi sensi
e allusioni furbette. Anche così, comunque, siate cauti a
parlare di argomenti a sfondo sessuale quando ci sono
presenti dei ragazzini. È probabile, per non dire auspicabile,
che non credano più alla cicogna; è probabile che sul
Descrizioni raccapriccianti o disgustose. Qui, per una
volta, sono d'accordo col galateo. Ci sono persone che si
dilettano di ammannire ai presenti, magari nell'ora della
digestione, particolareggiate descrizioni di incidenti stradali,
mutilazioni, materia cerebrale fuoruscente, occlusioni
intestinali e conseguenze, topi annegati, scarafaggi nella
minestra. E più gli ascoltatori sono orripilati, più loro ci
prendono gusto. Queste persone, nel migliore dei casi,
sono screanzate. Nel peggiore, mentalmente disturbate.
Storie del terrore. Lasciate perdere anche i discorsi a base
di scienze occulte, fantasmi, donne assatanate, emanazioni
ultraterrene, specchi in cui appare l'immagine di una fanciulla
cieca sgozzata in quella casa duecento anni prima. A
voi forse sembra di aver successo, ma è un successo discutibile:
molte persone, proprio le più impressionabili, non
sanno infatti reagire normalmente, restano lì ad ascoltare
come ipnotizzate (il fascino dell'orrore), salvo poi chiedere
di essere accompagnate a casa e vegliate fino al mattino. O
magari era questo il vostro scopo? Vergogna.
Storielle oscene. Un tempo, dopo cena, veniva il momento
in cui le signore si ritiravano in salotto a discorrere
dei loro liliali argomenti, mentre i signori, finalmente
soli tra sigari e liquori, potevano dar sfogo ai loro discorsi
«da uomini». Oggi non ci sono più discorsi da uomini e
Malattie. Evitate di parlare delle malattie in generale
e delle vostre in particolare. Accennarvi (su richiesta) è
lecito, entrare nei dettagli o dilungarvi, no. Quando però,
sono gli altri a parlarvi dei loro malanni, ascoltateli con un
certo rassegnato interesse (non eccessivo: mai dar troppa
corda ai maniaci delle malattie). Non azzardate diagnosi,
non minimizzate, non fate sadici paragoni con quel vostro
amico che aveva gli stessi disturbi e in tre mesi è morto.
Soprattutto non rispondente con disturbo a disturbo, con
malattia a malattia, in un sinistro torneo nel quale nessuno
dei due ascolta l'altro, ma entrambi sono forzatamente
ascoltati da un uditorio annoiato.
Sogni. Non raccontate, di grazia, i vostri sogni: a voi
magari sembrano straordinariamente interessanti, ma per
gli altri sono una noia mortale.
Trame di romanzi o di film. Commentare un libro o
un film insieme a persone che l'hanno visto o letto, può
essere interessante. Ma raccontarne la trama per filo e per
segno è una cosa deleteria. Tanto più che i raccontatori di
trame sono in genere terribilmente prolissi, confusionari,
dimenticano un pezzo e tornano indietro, perdono il filo,
Beghe familiari. Esecrabile è il vizio di quei coniugi
che quando sono in compagnia usano mettere in piazza i
loro reciproci torti e attriti, chiamando a giudici o alleati i
presenti. I quali farebbero bene a non prestarsi: tra moglie
e marito, con quel che segue.
Non parlate di voi stessi, se non su richiesta e brevemente.
Mi rendo conto che è un sacrificio per molti crudele:
ognuno è per se stesso il più avvincente degli argomenti.
Ma appunto per questo, parlare agli altri di loro, e non di
noi, è un modo sicuro per essere considerati degli interlocutori
deliziosi.
Non occorrono studi particolari per diventare dei conversatori
gradevoli: basta ricordarsi di non fare alcune cose,
che purtroppo molti fanno. Per esempio:
Non interrompere chi sta parlando. È un vizio irritante,
che dà spesso luogo a rappresaglie istintive: e se cominciano
le interruzioni a catena e tutti si tolgono la parola
di bocca, è poi molto difficile ristabilire l'ordine pubblico.
Lasciarsi interrompere, invece, è segno di equilibrio,
tolleranza, longanimità verso chi ci ha così bruscamente
detronizzato. È lui, dopo tutto, che fa la brutta figura:
lasciate che la faccia.
Non correggete gli errori altrui. Qualcuno pensa che
correggere sia doveroso. A scuola, forse. Ma dopo, se si
vuole correggere qualcuno «per il suo bene», si deve prima
di tutto farlo in privato e mai di fronte ad altri, poi essere
certi che quella persona non sia suscettibile, infine essere
certissimi che sotto il nostro spirito filantropico non si
nasconda una buona dose di saccenteria. Se non siete certi
di queste tre cose, lasciate che ognuno sbagli come gli pare.
C'erano un tempo persone raffinatissime (mi sembra, ma
non ci giuro, che la fonte sia Proust) le quali, quando qualcuno
sbagliava a pronunciare una parola, non solo non lo
correggevano, ma rispondendo la pronunciavano sbagliata
come lui, per non rischiare di mortificarlo. Questa è roba
da applauso, e nessuno si aspetta tanta delicatezza dai nostri
contemporanei. Però anche oggi chi ha un minimo di tatto
dovrebbe evitare di pronunciare marcatamente bene una
parola davanti a chi la pronuncia male.
Non fate in pubblico domande troppo personali, tipo:
«Che studi ha fatto? Quanto guadagna? È sposato? Sua
moglie dov'è?». Uno può anche non tenerci a informare
l'uditorio che è disoccupato, che vive alle spalle dello zio,
che sua moglie è scappata con un altro e che lui non ha la
laurea. Neanche Marconi e Croce l'avevano, ma ad alcuni
il non averla brucia e bisogna compatirli: ognuno ha le
sue debolezze. Comunque queste domande è meglio non
farle. Lasciatele ai tutori dell'ordine nell'esercizio, si spera
costituzionale, delle loro funzioni.
Non fate troppi complimenti: ne diminuite il valore. Chi
sa fare un complimento al momento giusto si rende gradito,
chi ne fa continuamente si rende uggioso. E non fate
mai complimenti enfatici, caricati: chi li riceve ne prova
Non malignate sugli assenti. Un po' di pettegolezzo,
quando è leggero e spiritoso, è accettabile (alzi la mano
chi non ne ha mai fatto). Non lo è quando è pesante e
maligno. Si dice che gli assenti hanno sempre torto, ma
in questi casi hanno sempre ragione, nel senso che le loro
figure giganteggiano su quelle dei nanerottoli maligni
impegnati a ciarlare di cose non loro.
Non prendete in giro chi non può o non sa stare al gioco:
infierire sugli inermi non è mai stato civile. È triste dire
che questi maramaldi a buon mercato allignano proprio
tra le persone istruite e brillanti a spese di chi lo è meno.
Un gioco troppo facile e meschino, che purtroppo trova
sempre degli alleati: quella dei maramaldi è una categoria
vastissima.
Non sforzatevi di essere faceti, magari con l'altruistico
scopo di «tirar su l'ambiente»: è più facile che lo buttiate
giù. Sforzarsi di ridere o di far ridere è come sforzarsi di
dormire quando si ha l'insonnia: diventa un incubo.
Non siate seri per partito preso, come fanno certi che,
mentre tutti si buttano via dal ridere, restano sempre impassibili,
forse credendo di «fare inglese». Non lo fanno.
L'effetto che fanno è piuttosto quello di essere scemi, o
sordi, o antipatici.
Non rifate il verso a chi parla: è una cosa odiosa. Sono
i bambini che, per mancanza di dialettica, deridono l'avversario
in questo modo rozzo: e anche a loro bisogna
insegnare che non si fa. Mai. Neanche per scherzo.
Non intromettetevi repentinamente nella conversazione
altrui pretendendo di essere immediatamente ragguagliato
Non fatevi trascinare dalla collera, siete voi a rimetterci.
Purtroppo non sono molte le persone che sanno discutere
senza diventare arroganti, aggressive, sprezzanti, insolenti.
Anche se di provocatori è pieno il mondo, non fate il loro
gioco. Chi fa la miglior figura (anche quando ha torto) non
è mai chi trascende, ma chi mantiene lucidità e pacatezza,
tirando del tutto pazzo (e lo sa) il povero iracondo.
Non fate da pacieri se non ne avete la stoffa. L'abilità
del paciere intelligente sta nel non prendere le parti di
nessuno, nel non ergersi a giudice sommo, nonché nella
capacità di sdrammatizzare il tutto. Se non avete questa
abilità, rinunciate all'impresa: o invece di sedare il litigio
rischiereste di venirne travolti.
Non parlate di personaggi noti usando il loro nome di
battesimo per far vedere quanto siete in confidenza con
loro: fa giornaletto rosa. Quelli che dicono Federico, Monica,
Pier Paolo, invece di Fellini, la Vitti, Pasolini, sono
degli Non parlate di cose che non conoscete: fingersi informati
su tutto è assai più stupido che riconoscersi ignoranti su
molte cose.
Non contraddite in modo perentorio (neanche la moglie
o il marito). Non dite «Non è vero!» ma preferibilmente:
«A me sembra che...» Non dite: «Non hai capito niente!»
ma: «Forse non mi sono spiegato». Non è ipocrisia, è tatto.
Non siate prolissi (perdereste l'uditorio a metà strada)
e non divagate. Se perdete il filo, non passate la sera a
cercarlo.
Non pontificate: su nessun argomento e per nessuna
ragione. Non siete i depositari della verità. Sia lode al
dubbio
, diceva Brecht. Nel mio piccolo, lo dico anch'io.
E aggiungo: sia lode agli umili. Non in vista del regno dei
cieli, che esce dalle mie competenze, ma in vista di una
conversazione gradevole.
Il vecchio detto «parla come mangi» non è molto elegante,
anche perché molta gente mangia male. Come si dovrebbe
cercare di mangiar meglio, così si dovrebbe cercare di
parlare meglio. Il che però non vuol dire parlare forbito. I
forbiti sono gente affettata, e l'affettazione non è mai elegante.
Parlar bene, oggi, significa parlare con naturalezza,
semplicità, disinvoltura.
Accenti e cadenze. Entro certi limiti, se si possono attutire
le cadenze regionali troppo pesanti, è meglio. Entro certi
limiti, ho detto: e insisto, perché non c'è niente di più
sciocco di un milanese che toscaneggia o di uno che per
essere stato sei mesi a Londra parla con accento britannico.
Se scherzano è un conto, ma se fanno sul serio, allora
sarebbe davvero meglio che parlassero come mangiano.
Parole straniere. Infiorare la conversazione di inutili
parole straniere non è elegante come alcuni sembrano
credere. Se non in certi ambienti di lavoro, nei quali alcuni
termini stranieri fanno parte del gergo professionale,
è sempre meglio sostituire alla parola straniera la parola
italiana, quando questo è possibile e normale. Ma non
non prendono la esse al plurale: fanno
un po' ridere quelli che insistono puntigliosamente a dire
(e scrivere) i Intercalari. Sono piuttosto imbarazzanti quei tipi che
sembrano cercare continuamente il nostro consenso
coi loro «no?», «ti pare?», «non trovi?», «capisci?», «dico
bene?», che non sono domande, sono soltanto intercalari,
Gergo e luoghi comuni. Sono molte, sono moltissime le
persone che parlano «a orecchio», cioè che infarciscono la
propria già scadente conversazione di parole, espressioni,
La magniloquenza. Evitatela come la peste. Non usate
espressioni enfatiche, giuramenti solenni («mi caschino gli
occhi se non è vero», «lo giuro sulla testa dei miei figli»),
risparmiatevi chiamate di correo a divinità o cari estinti,
rifiutatevi alla retorica e alle frasi d'effetto. Lasciatele ai
ciarlatani e ai politicanti.
Turpiloquio. «Cretini, bestemmiare è salute!» diceva
non ne fanno uso,
ma sanno che non spetta a loro moralizzare il linguaggio
altrui.
Non raccontatele se non siete degli assi. Anche se siete assi, non raccontatene più di un paio. Il barzellettiere di classe è come un eroe del West: arriva al momento giusto, spara poco e bene, sparisce nel mistero. Riapparirà alla prossima puntata. E se è un altro che le racconta? Non dite: «La so già». Anche se l'avete sentita trentacinque volte, siate pietosi, ascoltatela come se fosse nuova (forse per altri lo è) e concedete a chi l'ha raccontata uno stoico sorriso.
Prima regola: non aggiustarla. Si dirà che la prima regola
dovrebbe essere quella di non farne. E infatti: se non si
facessero apprezzamenti avventati («Di', Giorgio, sai chi
è quella grassona orrenda alla destra di Mario?», «Si», risponde
Giorgio, «è mia sorella»), se non si fosse distratti,
madre di Giorgio), né cercate di spiegargli che siete miopi,
che c'è molto fumo, ma che adesso che la vedete bene,
cielo!, com'è graziosa la sorella di Giorgio. Né sforzatevi di
convincere Tadini, tra risatine fasulle, che sapete benissimo
che lui è scrittore, che avete scherzato, che volevate vedere
che faccia avrebbe fatto lui, eccetera eccetera. Per amor del
cielo, non fate niente di tutto questo. Non imbarcatevi in
alcuna spiegazione o rattoppo, o peggiorerete il tutto. Il
miglior modo di riparare a una
Oggi anche al tipo più alieno dalla vita pubblica può capitare
di essere coinvolto in qualche assemblea e sbalzato
sul podio davanti a un gruppo di gente che per lui sarà
sempre una folla immane, sia che si tratti di una riunione
di condomini o di una sagra per i decreti delegati o di un
dibattito al cine
Per concludere: la conversazione è il più prezioso mezzo
per comunicare e per conoscere i nostri simili, purché sia
spontanea, creativa, genuina; e non, come troppo spesso
oggi accade, schematizzata, standardizzata, un vuoto bla
bla bla. Se avete paura di non saper conversare, imparate ad
Che il fumo faccia male alla salute non è una novità.
Purtroppo, le recenti campagne antifumo sono riuscite a
spaventare solo quelli che non fumano. I fumatori, imperterriti,
continuano a fumare; anzi, sentendosi attaccati
su tutti i fronti, facilmente diventano nervosi e fumano
di più. Si direbbe che chi ha condotto quelle campagne
(Digli di smettere!) non solo non sia mai stato fumatore, ma
non abbia la minima conoscenza psicologica dei fumatori:
i quali sanno benissimo da soli che dovrebbero smettere,
e se non smettono, è perché non ne sono capaci. Forse se
si vedessero davanti la Morte con la falce già alzata che gli
dice: «Accendi un'altra sigaretta e sei morto», forse allora
(dico forse) riuscirebbero a smettere. Ma finché è la moglie
che glielo dice, riesce solo a seccarli.
Noi non diremo dunque ai fumatori di smettere. Vorremmo
solo che fumassero cercando di recare il minimo
fastidio possibile agli altri, se non il minimo danno a se
stessi. Per esempio:
Spegnete con cura i mozziconi nei portacenere, perché
non continuino a bruciare appestando ulteriormente
l'atmosfera.
Non spargete la cenere dove vi capita, nei piattini, nei
bicchieri, nelle tazze, per terra o, come fanno certi timidi,
«smettere di fumare
è facilissimo: io ho smesso un sacco di volte».
Se infine siete di quelli che non hanno fumato mai,
non considerate i fumatori come dei reprobi. Chi non ha
il vizio del fumo ne avrà probabilmente qualche altro. E
se non ne ha, è una persona noiosa.
Erba sta per hascisc o
«A tavola non si invecchia», si diceva una volta. In base
a questo luogo comune i pranzi potevano durare ore e
ore, tra portate decorative e vini gloriosi, senza le letali
conseguenze descritte da Marco Ferreri. Oggi il gusto
dello «stare a tavola» si è in gran parte perduto: se a tavola
non si invecchia è per il motivo opposto, perché ci si sta
troppo poco, e male. «Si mangia per vivere, non si vive per
mangiare»: con quest'altro luogo comune si giustifica la
fretta, l'incuria, la sciatteria dei nostri pranzi quotidiani.
E poi c'è l'ossessione della linea, l'insufficienza epatica,
il colesterolo, cui si aggiungono i moniti degli psicologi:
mangiare molto è una nevrosi, ci si riempie lo stomaco per
supplire a carenze di tipo psicologico-affettivo.
Qui comunque non si parla di quanto si mangia, bensì
di come si mangia. È logico che il galateo si adegui alle mutate
esigenze: cose che alle tavole di ieri erano considerate
eleganti, oggi sono inutili e affettate. Le regole conviviali
odierne sono molto più elastiche e spontanee di un tempo,
quindi star «bene» a tavola dovrebbe essere più facile. E
invece i più stanno a tavola malissimo: per mancanza di
allenamento, prima che di educazione o di gusto. Nessuna
«buona maniera» funziona, se non nasce dall'abitudine.
In altre parole, è un'illusione credere di potersi comportare
Ma come non infastidirlo?
Le osservazioni che seguono non si riferiscono tanto alle
buone abitudini da seguire, quanto alle cattive abitudini
da perdere.
Molti testi di galateo dedicavano pagine e pagine, complete
di schemi e diagrammi, sui modi di apparecchiare
la tavola, sulla esatta collocazione geometrico-strategica
dei vari elementi. Se ne ricavava l'impressione che una
signora, prima di apparecchiare la tavola, dovesse fornirsi
di un metro, di una squadra e forse di un regolo.
Oggi tutto questo non ha più importanza: o ne ha solo
per i direttori d'albergo, per i camerieri, per gli allestitori
di pranzi ufficiali. In casa propria, una signora apparecchia
la tavola secondo il suo gusto personale, le sue abitudini
e il suo (speriamo) buonsenso, senza farsi schiava di categorici
schemi, ma tenendo semplicemente presenti alcune
logiche cose.
Un certo ordine, una certa armonia (senza arrivare a simmetrie
maniacali) giovano all'effetto d'insieme e rendono la
tavola più invitante; la sciatteria dell'apparecchiatura può
far presumere un'uguale incuria nella preparazione delle
vivande: il che sarebbe, per i convitati d'oggi, assai più grave.
Ogni ospite dovrebbe avere il suo spazio vitale, diciamo
così, per poter mangiare senza invadere lo spazio e
intralciare i movimenti dei suoi vicini. Le tavole stipate e
sovraccariche sono faticose.
Gli eventuali elementi decorativi, tipo centrotavola,
decorativi finché si vuole, non devono essere di impiccio,
e mai di grandi proporzioni, per non costringere i dirimpettai
a curiose ginnastiche del collo per potersi vedere
mentre si parlano.
Cucchiai e coltelli, secondo logica, andrebbero alla destra
del piatto, visto che è con la destra che si usano; la forchetta,
quindi, andrebbe a sinistra. Con le punte in su o in
giù? chiedono voci ansiose. Ma che v'importa delle punte!
I bicchieri, rigorosamente tersi, devono essere trasparenti,
di vetro o di cristallo, non di plastica: costringere
un intenditore a bere vino in un bicchiere di plastica, sia
pur bellissimo, è somma crudeltà. Quanti devono essere
i bicchieri?, chiedono altre voci ansiose. Quanti vi pare,
dall'uno al cinque a testa. Ricordate solo che per i su citati
intenditori di vino, posto che ne abbiate invitati, è un'empietà
bere vino rosso e bianco (e magari acqua) nello stesso
bicchiere. Ma non è poi strettamente necessario inchinarsi
a tutte le esigenze, o fisime, degli intenditori.
I tovaglioli possono essere, in pranzi confidenziali, anche
di carta. Non sono eleganti, ma sempre preferibili a
tovaglioli magari di lino purissimo che non siano perfettamente
puliti e stirati. Mai la minima ombra o piega deve
far sospettare a un convitato che il suo tovagliolo possa
essere stato usato, magari per sbaglio, da altri: ancora oggi,
non è un sospetto piacevole.
La tovaglia ha un'infinità di variazioni, dalla romantica
odio le tovaglie di plastica. Peggio,
se usate, come capita di vedere, con vasellame di pregio.
Di gran lunga preferibili, posti direttamente sul legno, i
sottopiatti di paglia colorata, altrettanto comodi e tanto
meno squallidi e artificiali. Si dirà che anche qui è questione
di gusti. Ma la plastica è sempre di cattivo gusto. E,
per di più indistruttibile, maledetta lei.
Insomma la odio, va bene? In tutte le sue forme. È un
simbolo di tante cose che mi fanno soffrire e indignare,
dall'inquinamento al consumismo alla falsa e manovrata
civiltà di massa. Ho divagato, chiedo scusa, rientro.
I posti a tavola possono essere o no (io preferisco di no)
contrassegnati dai segnaposti coi nomi. Possono essere o no
fissati in precedenza: nei pranzi molto confidenziali, non
ha importanza. Ma nei pranzi non molto confidenziali,
specie se gli ospiti sono tanti, la spensierata esortazione
«Mettetevi dove vi pare» non è sempre segno di disinvoltura,
ma spesso di pigrizia e insicurezza della padrona di
casa, e può creare tra gli invitati confusione e imbarazzo,
oltre che accostamenti sbagliati. Ora, la riuscita di un
pranzo dipende, sì, dalla qualità della cucina, ma dipende
non deve essere né suscettibile
né formalista: altrimenti è moralmente una cariatide.
Importante finché si vuole, ma cariatide.
Alla base di tutto c'è una sensata naturalezza. Nessuna persona
normale sta a guardare come tenete il coltello o come
mescolate il brodo: se lo fa, non è una persona intelligente e
non è neanche beneducata. Oggi comunque è infinitamente
meglio commettere qualche disinvolto errore di galateo
(nessuno ci farà caso) che avere il terrore di commetterne:
questo lo noteranno tutti. Ciò premesso, ecco alcuni consigli
pratici, anche se assolutamente non categorici, basati
sull'osservazione del nostro prossimo a tavola.
dietro la testa del martire che sta tra di voi, lasciandogli
la possibilità di comunicare col resto del mondo.
Un tempo le signore, per essere eleganti, dovevano
mostrare, una spirituale disappetenza. Oggi per fortuna
la disappetenza non è più fisicamente di questi concertini.
Non è questione di essere schizzinosi (io non lo sono
affatto). È solo questione... vogliamo dire di sensibilità
acustica? Per me non è nemmeno quello. Se mai, si tratta
di eccesso di immaginazione. Bisognerebbe evitare ai commensali
certi collegamenti audiovisivi: e sono eupeptici.
Non augurate «Buon appetito!» ai commensali. Non è
I piatti. Secondo il galateo, non si dovrebbero mai toccare
con le mani. Quante storie: quando è utile, toccarli è
più che lecito. Se per esempio c'è un sugo particolarmente
buono in un piatto crudelmente piatto, nessuno si scandalizzerà
se lo inclinerete per raccogliere quel che altrimenti
andrebbe perduto. Potete alzare il piatto dalla parte vicina
al bordo della tavola, in modo che il brodo o il sugo scivolino
distintamente verso l'esterno e non ingordamente verso
di voi, ma anche qui non staremmo troppo a sottilizzare;
l'importante è che questo gesto, bocciato dal supergalateo
e ammesso dal buon senso, venga compiuto senza ridicola
furtività, ma apertamente. Magari con qualche parola di
compiacimento: in fondo, alla padrona di casa fa piacere
che onoriate i suoi brodi o i suoi sughi.
Le posate. Tenetele come sapete, scioltamente, senza
preoccupazioni e senza affettazione. Il galateo classico
prescriveva che il liquido si sorbisse dal lato e non dalla
punta del cucchiaio: ma è una regola che, essendo oltretutto
illogica, non ci sentiamo di avallare. Il coltello si usa
Il bicchiere. Si tiene semplicemente e saldamente nella
mano destra (senza alzare graziosamente il mignolo).
Quando qualcuno, cameriere o convitato, versa da bere,
non si spinge il bicchiere verso di lui, né lo si solleva; lo
si lascia al suo posto: diminuiscono così le probabilità di
debordamenti e sbagli di mira.
Quando si vuol rifiutare il vino o l'acqua che qualcuno
ci offre, lo si fa con un sorriso e un «no, grazie». Non si
copre il bicchiere con la mano; nessuno intende ubriacarci
proditoriamente. Almeno si crede.
Le tazze. Tutti i liquidi che vengono serviti in tazza
vanno sorbiti direttamente dalla tazza stessa: il cucchiaio
o cucchiaino serve solo per mescolare il liquido, eventualmente
per assaggiarlo. Poi va posto sul piattino, mentre
la tazza, tenuta per il manico, si solleva direttamente alla
bocca. Mi sembra abbastanza logico: se la tazza ha un
manico (o due) ci sarà pure una ragione. Comunque, se vi
va di bere il brodo col cucchiaio, affar vostro: dopo tutto,
che fastidio date?
Il vecchio galateo proibisce di inzuppare pane, grissini o
altro nelle tazze (o nei piatti fondi). Ma oggi non c'è niente
di male se uno dice: «Qualcuno si scandalizza se inzuppo i
grissini nel brodo?» Domanda puramente retorica.
Il pane. Non si fa a pezzettini, sbriciolandolo tipo
mangime per gallina. Non si fanno palline unticce con
la mollica. Secondo il galateo classico, è vietato anche
usare il pane per «fare scarpetta», cioè per raccogliere il
sugo. Storie. Se il sugo è buono, non si vede perché non
Il vino. Va messo in tavola nelle bottiglie originali. Solo
per qualche rosso pastoso, mi dice un raffinato intenditore
amico mio, si può preferire la caraffa: ve la do come l'ho
sentita.
Non bevete il vino come fanno gli assaggiatori, annusandolo,
sciacquandovi la bocca, socchiudendo gli occhi per
mostrare concentrazione. Siete degli intenditori, va bene,
l'abbiamo capito tutti. Ma se dovete esprimere il vostro
apprezzamento, fatelo con la voce, non con la mimica.
A proposito: i sullodati intenditori di vino, o sedicenti
tali, commentino pure ogni vino che viene loro offerto,
ma non si lancino in troppo lunghe e dotte disquisizioni
cultural-enologiche, che sono una grossa seccatura per,
chi, pur non disdegnando affatto il buon vino, non lo
considera un importante ramo della cultura né un interesse,
fondamentale della propria vita.
E poi ci sono anche gli astemi: congeniti o coatti. Che
ne facciamo, li sopprimiamo? Io direi di risparmiarli (sono
io stessa, come forse si intuisce, un'astemia coatta).
L'acqua. Anche se i bevitori di vino ostentatamente la
disprezzano, anche se i camerieri dei ristoranti sono sempre
riluttanti a procurarla, e dal tempo che ci impiegano
sembra che vadano ad attingerla a sorgenti impervie,
l'acqua sulla vostra tavola non manchi mai: abbondante,
fresca, presentata in terse caraffe, e rinnovata subito
quando finisce. Solo l'acqua minerale, per conservare
sapore e gasatura, e anche perché uno sappia che acqua
sta bevendo, va lasciata nelle bottiglie originali, che sono
Una volta, se c'erano ospiti a pranzo, il caffè non si serviva
mai a tavola ma in salotto. Oggi, anche se ci sono ospiti, si
preferisce servire il caffè a tavola: la comodità innanzi tutto.
Si serve il caffè in salotto o in soggiorno solo se si aspettano
per dopo altri ospiti, quelli che a cena non ci stavano,
detti anche con scarsa clemenza «stuzzicadenti»; in questo
caso si cerchi di non indugiare troppo intorno alla tavola,
satolli, discorsivi e ridanciani, tra avanzi di cibo, brindisi
a catena e relative facezie, mentre i poveri stuzzicadenti
stanno lì come pesci fuor d'acqua, incapaci di partecipare,
sobri come sono, a quell'euforica atmosfera
Se c'è una domestica, la padrona di casa l'avrà preventivamente
e chiaramente istruita sul servizio. Non le farà
portare crestina e grembiule inamidato se non c'è abituata.
Non la terrorizzerà con occhiate fulminanti. Non la
confonderà con gesti sibillini. Non commenterà, alla sua
uscita: «Scusatela, è talmente stupida...»
Durante il pasto, la signora non dia segni di apprensione,
nervosismo o tensione. Secondo il galateo classico,
anche se dalla cucina arrivano orrendi scrosci di vasellame
o sinistre nuvole di fumo nero, la signora dovrebbe continuare
impavida a conversare, senza che l'occhio vacuo
o la voce tremula tradiscano la sua angoscia. A me questo
sembra eccessivo. È molto più normale che la signora dica:
«Sarà meglio che vada a vedere cos'è successo», e ritorni poi
con un resoconto il più possibile succinto, sdrammatizzato
Pranzi senza domestici. Sono sempre più frequenti,
quindi le signore dovrebbero ormai essersi organizzate. E
invece molte non lo sono, e probabilmente non lo saranno
mai. Mi spiego. C'è la casalinga di ferro, che quando
invita qualcuno a pranzo prepara manicaretti squisiti, ma
ne rovina completamente la degustazione continuando ad
alzarsi e sedersi, a mettere e togliere, a fare vertiginose spole
tra la cucina e il pranzo, rifiutando categoricamente ogni
aiuto, con scarso gaudio degli invitati, i quali preferirebbero
mangiare magari peggio, essere serviti un po' meno,
ma non assistere a questa affannosa non deve esserlo).
Qualcuno apparecchia la tavola (qualche bicchiere rotto è
in preventivo); qualcuno mette l'acqua sul fuoco («e il sale,
ce l'hai messo il sale» Sì, ce l'ha messo, anzi si scopre che ce
l'hanno messo in tre, bisogna buttar via tutto e rimettere
su altra acqua, che forse stavolta non verrà salata da nessuno);
qualcuno prepara la salsa (chi mangia in bianco viene
maledetto da tutti, ma accontentato), qualcuno stappa le
bottiglie, il formaggio non lo vuol mai grattare nessuno e
bisogna tirare a sorte. Ma alla fine, salata o no, in bianco
o con la salsa, con piatti di carta o di porcellana, con o
senza bicchieri rotti, ecco gli spaghetti pronti in tavola (o
anche senza tavola). «Sono scotti!» grida immancabilmente
qualcuno. «Ma se sono crudi!» protesta di sicuro un altro.
Non importa. L'importante è stare allegri. «Ingrasserò
orribilmente», dicono le signore; e chiedono la seconda
porzione. Buone maniere? E chi bada alle buone maniere
per la spaghettata? Basta non mangiarla con le mani, ecco.
Gli incidenti a tavola sono un po' come le
Quando ci sono invitati, i bambini non dovrebbero stare
a tavola coi grandi: non solo per il bene dei grandi, ma
per il bene loro.
In pratica, però, per diversi motivi (di cui la carenza di
personale domestico è il più evidente) oggi spesso non è
possibile far mangiare a parte i bambini. E allora pazienza,
teneteveli a tavola; ma fate che questo non diventi una
sofferenza per loro e per gli altri.
Lo spettacolo di certi poveri bambinetti impalati sulle
sedie, coi gomiti saldati alla cassa toracica e gli occhi impauriti,
che maneggiano le posate come bisturi e sembrano
masticare tritolo, è molto più triste e fastidioso (per chi
ama i bambini) dello spettacolo opposto, quello della
piccola fiera che asperge di minestra il mondo intero,
rovescia bicchieri propri e altrui, si esercita in possenti
gargarismi d'acqua e gettiti di carne masticata, e scoppia
in urli selvaggi se qualcuno cerca di domarlo.
I bambini dovrebbero essere educati gradatamente, e
sempre in privato, a stare a tavola in modo non diciamo
corretto, ma umano. Non pretendete che, solo perché ci
sono ospiti, si comportino improvvisamente da piccoli
Be', questo poi no. Né a tavola, né sotto la tavola, né di fianco. Sappiamo che non è facile resistere agli sguardi patetici che i cani (e perfino i gatti, così alteri in altre occasioni) sanno esibire quando c'è odore di cibo nell'aria. Basta cedere una sola volta a quello sguardo supplice, e si è perduti; ai diritti acquisiti non si rinuncia: qualcosa del genere c'è anche nella Costituzione. Quindi resistete, e chiudete cani e gatti in un'altra stanza all'ora dei pasti, specie quando avete ospiti: non solo per il bene degli ospiti ma anche (soprattutto) per il bene delle bestie, che potrebbero prendersi, sotto il tavolo, furtive quanto vigorose pedate dalla signora che teme per le sue calze e dal signore che non ama farsi annusare le scarpe.
A parte le rare occasioni eleganti, oggi il ristorante ha
funzioni prevalentemente pratiche: ci si può andare per
non cucinare, per parlare d'affari, per non affrontare traffico
e famiglia nelle ore di punta, per fare inviti che non
si è attrezzati per fare in casa, per passare qualche ora con
gli amici senza dover sfacchinare o fare tardi. Il contegno
(come l'abbigliamento) deve essere adeguato: quindi semplice,
pratico, disinvolto. Ma non sciatto.
Prenotazioni. Se si tratta di ristoranti alla moda e di
serate di punta (sabati, domeniche) prenotate il tavolo,
onde non fare code. Prenotatelo sempre quando si tratta
Tavolo. Se non l'avete prenotato, sceglietelo tenendo
conto delle esigenze ma anche delle possibilità: evitate le
discussioni, gli andirivieni e i ripensamenti.
Posti. Nel caso di grandi tavolate, se chi invita non ha
già fissato i posti (seguendo lo stesso criterio dei pranzi
in casa), uomini e donne si alternino senza lotte evidenti,
senza scopi sospetti, secondo elastici criteri di buon senso.
Nel caso delle classiche due coppie, di solito le signore
preferiscono sedere con le spalle alla parete, onde poter
meglio guardare ed essere guardate; si sceglie comunque la
disposizione che fa più comodo, senza stare a sottilizzare
sulla destra e la sinistra.
Ordinazioni. Se c'è un invitante, di regola è lui che
raccoglie le indicazioni dei suoi ospiti e le trasmette al
cameriere. Se però si tratta di una grande tavolata, sarà
il cameriere, che è provvisto di Cameriere. Non chiamate il cameriere «Ragazzo!», «Signore?»,
«Capo!», «Ehi lei!» Non dategli del tu. Non attirate
la sua attenzione battendo le mani, o facendo risonare il
coltello sul bicchiere. Dite semplicemente: «Cameriere»,
o fategli un cenno.
Gli altri tavoli. Come non si guarda il piatto dei convitati,
così non si guardano i tavoli dei vicini, se non di
sfuggita e impersonalmente. Non si commentano (né si
indicano!) i modi, le facce, i vestiti, le voci, le pietanze
dei vicini. Non si pianta in asso la propria compagnia per
andare a salutare altri amici ad altri tavoli: salutateli da
lontano, o fermatevi un momento (se è il caso) all'uscita
o all'entrata.
Inconvenienti. Se il vasellame non sembra perfettamente
pulito, non si provvede a strofinarlo col tovagliolo; non
lo si guarda sospettosamente controluce, non si fanno
scene al cameriere; si dice semplicemente, a bassa voce:
«Per piacere, mi cambi questo piatto». Senza spiegare la
ragione: lui capisce. In caso di vivande mal cucinate, o non
fresche, o non rispondenti all'ordinazione, non se ne discute
lamentosamente o drammaticamente coi commensali:
si rimanda il piatto, questa volta spiegandone il motivo
al cameriere, senza comunque alzare la voce, discutere,
attirare l'attenzione del circondario.
Il conto. Se si tratta di un pranzo combinato collettivamente,
alla romana, ognuno paga la sua parte; ma senza
calcoli algebrici, collette, scambi, andirivieni di soldi attraverso
il tavolo, piramidi di mille lire sul piatto del conto.
Paghi uno solo per tutti: alle suddivisioni si provvederà
Il vecchio galateo diceva che il vero signore, come la vera signora, per la strada passa inosservato. A diverse più o meno vere signore del giorno d'oggi, che dovunque ci tengono a «distinguersi», questa regola appare inconcepibile. E invece è ancora abbastanza buona. Vediamo di interpretarla insieme.
Abbigliamento. I vostri gusti in fatto di moda, checché ne
pensi il galateo, sono affar vostro. Una donna moderna
per la strada veste come le pare. Se oltre che moderna è
sensata, evita gli eccessi: voglio dire, non si barda come
una cavalla alla fiera e non va in giro come una barbona,
non porta con naturalezza,
senza mostrarsene soverchiamente preoccupata, senza vergognarsi
e senza esibirsi. La regola vale anche per i signori,
che comunque dovrebbero essere meno portati a questo
tipo di eccessi. Per quanto, a pensarci bene... Sì, la regola
vale anche per i signori.
Andatura. Per la strada, secondo il galateo, non si
dovrebbe correre. In effetti, una elegante signora che
«non deve l'uomo nobile
correre per via né troppo affrettarsi, che ciò conviene a
palafreniere, non a gentiluomo»
. Oggi anche il «gentiluomo»
può aver fretta; se deve inseguire un
Secondo il galateo, l'uomo non deve prendere l'iniziativa di fermare una signora per la strada: è la signora che deve prenderla. Mi sembra una regola consunta. Come il saluto deve essere contemporaneo, così dovrebbe essere contemporanea l'iniziativa di fermarsi o no. Tutto dipende dal grado di confidenza e di fretta. Se vediamo uno che va di gran carriera (uomo o donna che sia), lo saluteremo sorridendo e tireremo dritti. Se invece vediamo che rallenta e tende la mano, mentre siamo noi che abbiamo fretta, non mostriamoci gelidi o bruschi: fermiamoci un attimo, stringiamogli la mano, spieghiamogli che siamo in ritardo, e con un «ci vediamo» o un «ti telefono» tagliamo la corda. Mai comunque due o più persone dovrebbero fermarsi a lungo a chiacchierare in mezzo al marciapiedi, magari su un angolo strategico. Il meno che possa capitare sono spintoni e anatemi. Mi sembra normale.
Ma c'è ancora qualcuno che passeggia? Be', diciamo,
quando si cammina per la strada in tanti, non si avanza
tutti insieme come un inscindibile battaglione: ci si divide
in ragionevoli scaglioncini di due, tre persone alla volta.
E qui il galateo classico spara fuori un sacco di regole
superstrategiche su chi sta a destra, chi sta a sinistra, chi
sta in mezzo, chi sta vicino al muro... Lasciamo perdere,
d'accordo? Oggi la disposizione di chi cammina per la
strada è casuale, estemporanea, basata sulla spontaneità e
il buonsenso. Quindi il signore molto cavalleresco faccia
il piacere di non continuare a guizzare intorno alla signora
per stare sempre sulla mano giusta: la signora ne sarebbe
Se avete bisogno di un'indicazione (via, fermata d'autobus,
Sono una razza tanto fastidiosa quanto intramontabile.
Come neutralizzarli? Non con insulti, non con sberle, e
neanche con grida d'aiuto: diavolo, al giorno d'oggi non
siamo capaci di cavarcela da sole con un misero pappagallo
della strada? L'
Non adorate l'automobile. Non vezzeggiatela. Non decantatela.
L'automobile non è un idolo, non è una conquista
sociale, non è un caro congiunto bisognoso di cure continue.
L'automobile è un mezzo di trasporto: trattatela
come tale.
Non camuffate l'utilitaria da bolide sportivo. Rinunciate
alle marmitte spaccatimpani, alle trombe risuscitamorti;
non adornate l'auto di scritte deliranti,
Nelle vecchie berline il posto d'onore era dietro, a destra.
Ma l'avvento delle utilitarie e delle macchine sportive ha
rivoluzionato il tutto. Su un
Chi sale sulla vostra auto, fosse pure la moglie, è vostro
ospite, e come tale andrebbe trattato. Quindi:
- Anche se siete degli assi del volante, adattate la vostra
guida alle esigenze dei passeggeri, che non sono sicuri
della vostra guida come lo siete immodestamente voi.
Niente velocità folli, curve su due ruote, gimcane, sorpassi
forse a ridimensionare le sue esibizioni.
- Non abbracciate il guidatore e non lasciatevi abbracciare:
si sa che l'amore è cieco, ma appunto per questo in
automobile non va bene.
Non fate rumore. Uno che fa baccano con l'auto senza
necessità è paragonabile a uno che puzza, che sporca, che
commette atti osceni in luogo pubblico, o quasi. Quindi:
niente marmitte a canne mozze tipo lupara, niente colpi
di gas dimostrativi, frenate agghiaccianti quanto inutili,
ulular di gomme, suonar di trombe da giudizio universale.
Non usate, nemmeno in campagna, trombe di fantasia:
neanche per gioco sostituite al clacson gracidii, musichette,
muggiti. Ci sono persone che già si infuriano se uno gli
chiede strada correttamente, ma che diventano addirittura
isteriche se a chieder strada è una mucca.
- Non chiamate la gente coi clacson. Non sbattete le
portiere più forte e più spesso del necessario.
- Non fate le corna. Per certuni è ancora un'onta da lavarsi
col sangue. Comunque è un gesto incivile. Se l'altro è
incivile quanto voi, può venirne fuori un caso da cacciavite;
se è civile, si limita a uno sguardo di compatimento,
e voi avrete fatto una figuraccia: di fronte a lui, di fronte
ai vostri eventuali ospiti e di fronte a voi stessi.
- Lasciate passare chi vi raggiunge e chiede strada. Non
è detto che voglia umiliarvi. Forse ha solo fretta: siate
comprensivi. E se invece vuol proprio umiliarci? Se è il
solito dritto? Se ci lancia il guanto di sfida? Lasciamo
che vinca, che ce ne importa? Ognuno lancia i guanti
che può.
Un tempo le donne che guidavano erano pochissime,
quindi oggetto di diffidenze e facezie a non finire. Oggi
sono moltissime, a volte più brave degli uomini, e perciò
odiate. Pazienza. A ogni modo, gentili signore, ricordate
che una donna che siede al volante non ha solo il dovere
di guidare benissimo, ma anche quello di rinunciare a tutti
quei vantaggi (precedenze, indulgenze, favori) cui il sesso
debole, secondo alcuni, avrebbe diritto. Dal momento
in cui siede al volante, una donna smette di essere una
donna per diventare un'automobilista femmina, creatura
di sesso incerto e comunque infida. Ricordatevene, gentili
specialmente se avete ragione; e accettate
con spirito il fatto che i più cavallereschi e galanti
signori, quelli che quando siete a piedi vi cedono il passo,
vi dedicano inchini e baciamani, non appena vi mettete al
volante sono i primi a gratificarvi di compite e soprattutto
moderne espressioni sul tipo: «Ma va' a fare il brodo!» Non
risentitevi, gentili signore. Non rispondete per le rime.
Sorridete. Proseguite. Ignorate. Sono le piccole rivincite
dei poveri maschietti spodestati: fingere di non sentirle è
la risposta più elegante, e la più crudele.
I pedoni (cui sono assimilabili, per certi versi, i ciclisti) sono una razza dura a morire. Sotto un aspetto sovente dimesso custodiscono indomabili tradizioni anarchiche. L'automobilista, dopo mezzo secolo di genocidio organizzato, scopre che i pedoni non solo sopravvivono ma preparano grandi rivincite: aumentano di numero e fondano vaste Isole Pedonali in territori di grande valore. Meglio usare una tattica prudente con così subdolo nemico. Si sia quindi indulgenti verso il pedone distratto che traversa col rosso; tolleranti col maligno che passa con premeditata lentezza sulle strisce; benigni con l'indeciso che saltella davanti e indietro tipo gallina; pazienti col polemico che ci apostrofa malamente sentendosi vittima di oscuri soprusi. Non facciamoli sobbalzare con un colpo di clacson a un palmo di distanza, non sterziamo per spaventarli, non insultiamoli. Questa non è solo tolleranza e civiltà, ma anche astuzia: non è forse lontano il giorno in cui a piedi (o in bicicletta) ci andremo tutti.
Per la sicurezza loro e altrui, conviene abituarli alle cinghie
di sicurezza; e situarli il più lontano possibile dagli eventuali
ospiti. Non pretendete che stiano zitti e fermi come
mummie, ma abituateli a non cacciare strilli improvvisi, a
non imitare a gran voce clacson e motori, a non scalciare,
a non fare lagne. E vietate loro di sporgere testa e mani
dai finestrini.
Molti bambini soffrono il mal d'auto (e non tutti, anzi
pochi, sopportano le apposite pastiglie). Fateli viaggiare sui
sedili davanti, col finestrino un po' aperto; non incitateli a
dormire, spesso è peggio; e non chiedete continuamente:
«Stai bene? Stai male?»: è un richiamo pressoché certo al
mal d'auto in agguato. Lasciateli stare, parlate d'altro, e se
vedete che cominciano a sbadigliare e impallidire, fermate
la macchina, fate fare loro un giretto, fategli mangiare
qualcosa di solido (mai bere). Può darsi che funzioni e può
darsi di no. È comunque conveniente abituare i bambini
all'uso dei sacchetti di plastica, come in aereo. Dopo l'uso,
aspettate a sbarazzarvi del sacchetto in un posto adatto,
non in mezzo alla strada.
Chiaro che a questi bambini l'automobile piace pochissimo.
In compenso ce ne sono altri a cui piace moltissimo,
in modo direi abnorme: piccoli mostri che a sei
anni sanno tutto sui motori, le carrozzerie, gli accessori,
la guida, riconoscono le marche e la cilindrata di tutte le
auto che passano, ne recitano ad alta voce i pregi e i difetti
con un linguaggio da tecnici consumati. «Che fenomeno»,
dicono i padri con orgoglio. Già, un fenomeno dei nostri
tempi: a parer mio molto deprimente. Al posto di quei
padri non ne sarei affatto fiera, ma piuttosto sgomenta. Va
Il cane. Le prime volte che lo portate in macchina, il cane
in genere si spaventa moltissimo, uggiola, ansima, sbava, e
se ci sono curve e traffico è facile che si senta male: tenetevi
pronti all'eventualità. Poi, a poco a poco, il cane si abituerà
e diventerà un ottimo passeggero. A volte dormirà. Più
spesso, seduto vicino al finestrino, non col muso fuori (gli
piacerebbe, ma gli fa male), guarderà con interesse il traffico,
abbaierà solo in casi eccezionali e avrà in genere un'aria
soddisfatta. A molti cani l'automobile infatti piace moltissimo.
Conoscevo (il verbo al passato mi dà ancora dolore)
un imponente pastore scozzese, vivacissimo e amatissimo, il
quale aveva una tale passione per l'automobile, che appena
ne vedeva una qualsiasi con la portiera aperta (magari mentre
i proprietari stavano caricando il portabagagli) prendeva
la rincorsa e ci si ficcava dentro: si può immaginare con
quali reazioni da parte di chi, già seduto o in procinto di
entrare nella propria macchina, si trovava davanti questa
belva fulva ringhiante che voleva estrometterlo (per lui tutte
le automobili erano dei suoi padroni, e guai agli intrusi).
Abbiamo passato, con quel cane, momenti molto imbarazzanti,
perché non tutti gli automobilisti amano i cani
(specie se così grossi) e non tutti hanno senso umoristico.
Noi sì: e ci costava una notevole fatica, dopo aver tirato
giù il cane per la collottola, sgridarlo severamente senza
ridere. Credo che lui sapesse che dentro di noi ridevamo,
perché non imparò mai la lezione. Lo chiamavamo «cane
Non lasciate mai il cane nella macchina chiusa al sole:
poiché non suda, starà malissimo, avrà crisi di asfissia, e
al vostro ritorno potreste trovarlo morto o in agonia. Ricordatevene:
prima di lasciarlo, aprite i finestrini di pochi
millimetri, gli basterà per respirare.
Il gatto. Passeggero molto più difficile del cane, raramente
si abitua all'automobile. Se lo lasciate libero
nell'abitacolo, balza follemente di qua e di là in cerca di
scampo, miagolando cavernosamente, graffiando sedili e
gambe, ed è capace di continuare così per tutto il viaggio.
Se lo si mette al guinzaglio si spaventa ancora di più,
sbava, si aggroviglia, si strozza, ulula, fa impazzire tutti.
Se avete questo tipo di gatto (largamente il più diffuso)
è meglio metterlo in un cestino o nelle apposite scatole
bucate, dove beninteso miagolerà orribilmente per tutto il
tempo, ma almeno starà fermo e non metterà in pericolo
la sopravvivenza vostra e sua; dentro il cestino (che deve
avere chiusure solidissime, essendo il gatto uno scassinatore
provetto) mettete un tappetino di cerata e di plastica,
perché il gatto rinchiuso spesso vomita l'anima sua: forse
per paura, forse per vendetta.
Nel periodo del cosiddetto
Un posto a sedere è solo un posto a sedere: non un traguardo
per cui battersi selvaggiamente, rischiando l'incolumità
e la dignità personale. Se potete raggiungere un posto senza
colluttazioni, spintoni, sgambetti, acrobatiche torsioni del
busto e di quel che al busto fa seguito, bene. Altrimenti
pazienza, starete in piedi: dopo tutto una persona sana e
civile dovrebbe aspirare a qualcosa di meglio nella vita che
a un posto a sedere in
Le frenate brusche, la fretta, la stanchezza, la ressa sono
fucine di pestoni. Perciò, quando vi capita di prenderne
uno, non ululate, non fate rantoli e smorfie strazianti;
soprattutto non arrabbiatevi. Un pestone è un pestone,
non un tentato omicidio. Dopo tutto, bisogna pensare
che la gente non va in
Non ingombrate le portiere. Non fate come quei tanti che vi
si piazzano in permanenza davanti, come se fosse una loro
specifica missione quella di impedire alla gente di scendere.
E poi si lamentano se prendono calci negli stinchi.
Non sollevate la gonna o il soprabito dietro di voi prima
di sedervi: è un gesto orrendo, goffo, che mostra oltretutto
una pignolesca preoccupazione dei propri vestiti. E a te che
te ne importa, voi dite. Avete ragione, mi scuso. Quel gesto
mi dà fastidio, ecco tutto. È un gesto da travet, tristissimo.
Se avete ombrelli, badate a non farli sgocciolare sulle
Non leggete i giornali o i libri dei vicini, cosa per alcuni
oltremodo irritante. Ma neanche pretendete, in un Non litigate con altri passeggeri, non tirate in lungo le
discussioni; qualsiasi discussione in luogo pubblico è di
cattivo gusto, e in Non perdete i biglietti: se vi succede, e se il controllore vi
becca, non dilungatevi in vane e complesse ricerche, non
rovesciate l'intero contenuto delle vostre tasche e borse
sotto il naso dell'impaziente funzionario, non mettetevi
carponi a cercare il biglietto latitante tra i piedi dei passeggeri.
Pagate la multa e Se vedete un amico in un tram affollato, non pretendete
di raggiungerlo subito fendendo la ressa a colpi di gomito,
né intavolate con lui una conversazione altisonante da un
capo all'altro del
I bambini piccoli, si sa, del galateo tranviario se ne infischiano
altamente: e con pieno diritto. Se sono di cattivo
umore, il
L'inconveniente del taxi, tariffe a parte, sta nella difficoltà
di trovarlo. Potete chiamarlo per telefono, ma nei giorni di
pioggia e nelle ore di punta le linee sono intasate. Potete
recarvi al posteggio più vicino; se, come spesso accade,
La settimana corta, i ponti più frequenti, le ferie più lunghe
hanno aumentato le nostre possibilità di viaggi e di vacanza.
Dovremmo stare tutti meglio, essere più ilari e distesi.
E invece no, dicono i sociologhi: adesso c'è il problema
del tempo libero. I nostri fantasmi, che durante il lavoro
riusciamo a esorcizzare, sono lì pronti a saltarci addosso nel
tempo libero: che spesso, più che libero, ci sembra vuoto.
Allora ci prende l'ansia, la frenesia di riempirlo, riempirlo
in qualsiasi modo, e come è logico, dati i condizionamenti,
lo riempiamo male. E dopo la vacanza siamo più logori di
prima. Gente allegra, questi sociologhi.
Noi non abbiamo una così funesta visione del tempo
libero. Certo è che un viaggio di piacere, una vacanza
dovrebbero essere un'evasione, non una diversa prigionia;
un riposo, non un diverso assillo; un cambiamento di
abitudini e di pensieri, non una ripetizione campagnola
o marina o esotica del tran-tran e delle nevrosi feriali.
Cerchiamo dunque di liberarci il più possibile dai condizionamenti
e partiamo con un po' di sano ottimismo.
Ma non con esagerate aspettative: non cerchiamo nelle
vacanze la realizzazione dei sogni perduti o la risoluzione
dei nostri problemi esistenziali. Le vacanze non sono il
nirvana. Ma possono essere, se le prendiamo con lo spirito
Se viaggiate durante il periodo estivo, prenotate i posti.
Non usate il sistema di mandare avanti una staffetta, generalmente
giovane e mite, carica di borse, guanti, berretti,
a segnare i posti per tutti: non è simpatico per la staffetta
e non è simpatico per gli altri viaggiatori, che nutriranno
a ragione forti dubbi su tutti quei viaggiatori fantasmi; ne
potrebbero nascere discussioni incresciose con intervento
di controllori e così via.
Merende. Se potete, pranzate al vagone ristorante. Se non
potete, non trasformate le vostre merende in uno sciatto
non butterete
dal finestrino, ma negli appositi cestini.
Comportamento. Entrando e uscendo da uno scompartimento,
salutate. Durante il viaggio, moderate i vostri
bisogni. Il viaggiatore bennato non ha continuamente ,
bisogno di bere («Birra! Birraaaa!»), di mangiare, di aprire,
di chiudere, di sgranocchiare, di pettinarsi, di sbuffare per
il caldo, di lamentarsi per il freddo, di fumare, di chiedere
informazioni, orari e giornali in prestito; di uscire e
rientrare continuamente nel corridoio. Se fa un pisolino
non si toglie le scarpe, non prende pose spampanate, non
mette i piedi sul sedile di fronte, non pencola addosso ai
Conversazione. La conversazione non è affatto obbligatoria.
Naturalmente, se il viaggio è lungo, qualche parola
si può scambiare, e può anche darsi che ne venga fuori una
conversazione divertente: ma badate che non lo sia solo
per voi.
Vagone ristorante. Salutate le persone che siedono al vostro
stesso tavolo. Non siete tenuti a conversare, ma rispondete
gentilmente se i vicini vi rivolgono la parola. L'uomo mesce
il vino alla signora, anche se sconosciuta: e questa se lo lascia
mescere. Non fumate prima che i vostri compagni di tavolo
abbiano finito di mangiare. Non discutete il conto.
Vagone letto. Prenotate con anticipo. Se siete in cabina
singola, non vogliamo sapere quel che ci fate. Se siete in
cabina doppia, cedete spontaneamente alla persona più
anziana la cuccetta inferiore, più comoda. Spogliatevi
e lavatevi senza reciproco spettacolo ma senza esagerati
pudori. Se non riuscite a dormire, pazienza: leggete (ovviamente
con la lucina piccola a capo della cuccetta), contate
le pecore, fate le parole incrociate, ma non continuate a
rivoltarvi, a scendere e salire, a muovervi a tentoni nella
cabina, a gemere. Non chiamate lo
Bagaglio: se supera il peso, pagate il supplemento senza
discutere. E senza discutere, né fare dello spirito, sottoponetevi
ai controlli antiterroristici. Lo so che non siete
dirottatori né attentatori: ma non l'avete scritto in faccia.
Paura. Le statistiche dimostrano che viaggiare in aereo è
meno pericoloso che viaggiare in treno ed è di gran lunga
più sicuro che viaggiare in automobile. Con tutto questo,
a dispetto di ogni statistica, la terraferma sembra tanto
più sicura del cielo, e molti in aereo hanno paura, anche
se dicono di no, che non si tratta di paura, è che soffrono
di claustrofobia, di mal d'aria, oppure che preferiscono il
treno o l'auto perché si vedono tante più cose, o infine
che la loro mamma sta male se sa che viaggiano in aereo.
Ma dài!
Una volta a bordo, comunque, non ostentate una
disinvoltura e una noncuranza che non avete: la paura
vi si legge addosso. Ammettetela (non è una vergogna)
ma controllatela, per non opprimere o esilarare coi vostri
terrori chi vi sta vicino. Non guardate fuori se soffrite di
vertigini; non gemete a ogni sobbalzo; non aggrappatevi
spasmodicamente ai braccioli (non sono quelli che vi terranno
su). Guardate gli altri passeggeri: visto? Leggono,
chiacchierano, sorridono: va tutto bene. Eppure almeno
la metà di loro, anche se non lo confessa, ha paura; ma sa
dominarsi. Imparate anche voi: ci si fa presto l'abitudine.
Se poi siete dei veterani dell'aereo, non datevi arie, non
ricoprite i novellini di discorsi tranquillizzanti: potreste far
nascere in loro paure che non avevano. In caso di decolli
o atterraggi mozzafiato, non dite con indulgenza: «Non è
niente, è solo un pilota un po' brocco». Se si balla molto,
La scelta del posto non ha molta importanza: se si casca,
si casca tutti. Forse per chi soffre il mal d'aria son meglio
i posti davanti, ma non è assodato.
Se vi sentite male, recatevi nello «stanzino di decenza»;
se il malessere è improvviso e tumultuoso, servitevi degli
appositi sacchetti, da consegnarsi poi alla
Di questo avventuroso, anticonformistico modo di viaggiare,
i galatei tradizionali non fanno neppure cenno,
e quelli che vi accennano lo fanno solo per bocciarlo
incondizionatamente, come cosa illecita e disdicevole.
Il mio parere, basato sull'esperienza, è un po' diverso. Se
un ragazzo (gli adulti lasciamoli fuori) è moralmente e
fisicamente attrezzato per farlo, l'auto
Anche nei posti di villeggiatura (specie in quelli) le motociclette
sono diventate una calamità ineluttabile. Proibire
ai novelli e meno novelli centauri di usare l'adorato (da
loro) cavallo d'acciaio, sarebbe vano e anche ingiusto.
Si chiede solo, perlopiù invano, che lo usino in modo
corretto. Che non traversino i paesi a velocità forsennate.
Che controllino i loro scappamenti. Che non sostino col
motore acceso davanti alle abitazioni. Che non spingano
il motore, anche da fermi, a ruggiti dimostrativi. Che non
portino la moto in spiaggia. Che non trasformino i luoghi
del
In un albergo di lusso come in una modesta pensione, il comportamento di una persona normale è simile a quello che si terrebbe se si fosse ospiti di conoscenti non troppo intimi. Il fatto che si paghi non autorizza nessuno a fare i propri comodi, a ignorare orari e esigenze di servizio, a conversare ad alta voce nei corridoi, a camminare sbatacchiando zoccoli, a far scrosciare l'acqua del bagno o della doccia nelle ore del riposo, a buttare cenere e cicche per terra, a sentire la radiolina in ogni ora del giorno e della notte, a spargere olio solare e sabbia in ogni dove. Se vi fermate in un albergo per le vacanze, non isolatevi tipo principe in incognito o ricercato dall'Interpol, come fanno certuni che rifiutano ogni contatto, dialogo, sguardo con gli altri ospiti, e lasciano capire con tutto il loro atteggiamento che solo per caso si trovano in quell'albergo così scadente, in quel posto così indegno di loro. Se l'albergo non vi va, se il posto non è degno, andatevene. Se non ve ne andate, smettete questo ridicolo atteggiamento. Incontrando nei corridoi, nei soggiorni, in sala da pranzo altri ospiti dell'albergo, salutate sempre: buongiorno, buonasera, sorriso. Coi vicini di camera e di tavola, potete anche scambiare qualche parola, sempre che la vostra iniziativa risulti gradita. La cortesia è normale, la cordialità è simpatica, la familiarità può essere temeraria.
Rumore. Se nelle nostre riviere è diminuito l'afflusso dei
turisti stranieri, e anche dei turisti italiani meno cannibali,
una delle ragioni è proprio il rumore. Nei mesi di luglio
e agosto gran parte delle nostre spiagge sono i variopinti
Doccia. Se non potete evitare di fare la doccia nelle ore di
punta, fate la fila con calma e buonumore, non accampate
precedenze di sorta, e quando è il vostro turno sbrigatevi:
non fate della doccia in spiaggia una complicata e meticolosa
operazione di pulizia, né una compiaciuta esibizione
di atteggiamenti plastici. Nessuno vi ammirerà.
Ombrelloni. Non sempre l'affollamento della spiaggia
consente di avere l'ombrellone nel posto preferito: pazienza.
Non chiedete ogni giorno al bagnino di cambiarvi
posto. Non occupate ombrelloni e sdraio d'altri, neanche
quando questi sono assenti. Coi vicini di ombrellone il
saluto è d'obbligo, qualche scambio di frase è normale,
l'invadenza è proibita. Se i vicini d'ombrellone vi chiedono
un favore (i fiammiferi, l'olio solare, il giornale in prestito)
acconsentite cortesemente ma senza troppo entusiasmo: i
Bagni e bagnasciuga. Non correte in acqua come Spiaggia libera. Oltre che gratuita, può essere meno
rumorosa, più Motoscafi. Anche se siete piloti superlativi, non partite
mai dalla riva a motore acceso. Sappiamo che per molti
padroni di motoscafi metter mano ai remi è cosa disonorevole,
ma così vogliono regolamento, buon senso e buona
educazione. Non portate mai il motoscafo in mezzo ai
bagnanti; neanche ad andatura ridotta. Neanche se è «solo»
un gommone: è il motore che conta.
A proposito di gommone: questo simpatico natante,
che non dà problemi di trasporto e di parcheggio, ha però
l'inconveniente del motore che va portato avanti e indietro
Una volta i campeggiatori italiani erano pochi. Adesso
stanno diventando troppi e lo stanno diventando troppo
in fretta, senza avere Io spirito adatto. Molti tendono a
Rispettate la natura: già abbastanza minacciata
e devastata dall'inquinamento senza che vi ci mettiate
anche voi coi vostri vandalismi.
- Se accendete fuochi, badate alla direzione del vento; non
lasciate braci fumanti: versateci sopra un po' d'acqua,
Non lasciate i bambini piccoli soli in albergo (c'è anche
un regolamento in proposito) né pretendete che il personale
si occupi di loro quando desiderate darvi alla vita
notturna. Non permettete che strillino come aquile nella
sala da pranzo comune perché non vogliono la minestra:
piuttosto non dategliela. Oppure fateli mangiare a parte.
Non tutti gli ospiti amano mangiare in una bolgia di
bambini vociferanti.
Lasciate un po' di libertà ai vostri figli: non assillateli con
troppe apprensioni e proibizioni. Ma neanche immergetevi
nel bagno di sole, occhi orecchie e cervello in disarmo,
limitandovi a gridare ogni tanto «Bambiiiini!» o a chiamare
i nomi dei figli con voci tanto acute quanto meccaniche
e indifferenti, mentre i figli continuano, come è logico, a
fare quel che stanno facendo. Gridate meno (c'è già tanto
rumore) e agite di più. Se i bambini stanno facendo giochi
o pericolosi per loro o fastidiosi per gli altri, coraggio,
alzatevi e intervenite, distraendoli con decisione ma anche
con buonumore; mai con sberle e scenatacce, per piacere,
o sareste molto più fastidiosi voi dei vostri figli.
E quando invece siete voi a essere infastiditi dai bambini
altrui? Se uno o più bambini insistono a sconfinare
nel vostro spazio, a calpestarvi piedi, borse e occhiali, a
In albergo il cane come si deve mangia in camera; non entra
mai in sala da pranzo; sporca ben oltre i recinti dell'albergo;
nei corridoi e nei soggiorni è tenuto al guinzaglio. Il
vostro cane, anche se amabilissimo, non fa eccezione. Non
permettete che annusi o dia zampate alla gente. Lo fa per
amicizia, voi dite? Resta il fatto che non tutti sono propensi
a fare amicizia con lui. E non pretendete che le cameriere
rassettino la stanza in presenza di un cane ringhiante o
anche solo confusionario.
Sulle spiagge private i cani non sono ammessi; nei
campeggi sono ammessi, purché sorvegliati a vista o
legati. Sulla spiaggia libera possono essere sciolti, purché
non infastidiscano le persone, non rubino gli zoccoli, non
scavino buche sparando sabbia tutt'intorno, non entrino
e escano dall'acqua scrollandosi addosso ai bagnanti, non
abbaino forsennatamente in continuazione, o, come usa
fare un cane di nostra stretta conoscenza, non corrano
incontro a ogni persona che esce dall'acqua leccandola
coscienziosamente, non si sa bene se per asciugarla o per
bere. I cani di carattere troppo estroverso, o acquatico,
vanno tenuti inesorabilmente al guinzaglio.
La casa dovrebbe essere concepita e arredata a nostra
immagine e somiglianza.
Invece è facile che oggi la si
arredi in funzione degli altri (per far figura, per ricavarne
prestigio, ecc.); così la si affida all'architetto di grido, e
non importa se alla fine delle operazioni ce la sentiremo
estranea e scomoda, se ci ispirerà soggezione o viscerale
antipatia; potremo dire: «l'ha arredata l'architetto Famosi».
Questa ci sembra una cosa triste, sciocca e alla fin fine
pacchiana, come è sciocco e pacchiano seguire pedissequamente
la moda anche quando ci sta male. Se nonostante
la proliferazione delle riviste e degli inserti di arredamento
non abbiamo ancora occhio, gusto, idee di cui fidarci, chiediamo
pure, se ne abbiamo i mezzi, il parere e il contributo
dell'architetto. Ma mettiamoci dentro anche un po' di noi
stessi, della nostra fantasia, delle nostre esigenze pratiche
oltre che estetiche, del nostro modo di vedere e sentire la
casa come casa e non come vetrina d'esposizione o come
altare delle nevrosi domestiche.
La casa è fatta per viverci comodamente dentro. Ma
per non poche signore casalinghe la casa sembra fatta
soprattutto per venir continuamente pulita, riordinata,
Coi coinquilini siate gentili sempre, ciarlieri mai; servizievoli
all'occasione, mai invadenti. Non chiedete favori
(«mi guarda mezz'ora il bambino mentre scendo a far la
spesa?»). Evitate di chiedere prestiti (mezzo limone, un
dado, i fiammiferi, ecc.); se una volta, per un caso che
non si ripeterà, siete costretti a farlo, restituite il tutto con
abbondanza e rapidità.
Rumori. Non fate correre l'acqua nel bagno dopo mezzanotte.
Non tenete il televisore o il giradischi al massimo
volume. Non camminate avanti e indietro, con gran batter
di tacchi, sulla testa degli inquilini di sotto. Se una sera
ricevete amici e prevedete un po' di baccano, chiedetene
Finestre e balconi. Potete affacciarvi alla finestra o sostare
sui balconi per godervi il sole (non nudi), per innaffiare
i fiori (senza sgocciolare di sotto), per battere i tappeti
(solo nelle ore lecite); non per sbirciare nelle finestre dei
vicini, per chiamare a squarciagola chi passa di sotto, per
intrecciare altisonanti conversazioni con altre signore o
cameriere del casamento.
Scale. Non fermatevi a chiacchierare sui pianerottoli o
per le scale. Ma salutate sempre tutti quelli che incontrate;
rivolgete un cenno o un buongiorno anche a quelli che
non conoscete.
Ascensore. Se l'ascensore non arriva alla chiamata, non
arrabbiatevi subito, pestando pugni e calci nella porta e
urlando «Ascensore! Ascensore!», come gridereste al fuoco
in caso di incendio. Non fate gare con l'inquilino di
sotto o di sopra per arrivare primi a schiacciare il bottone
Portinai. Ricordatevi di dar loro la mancia a Natale,
Pasqua, Ferragosto: è fatale. Salutateli sempre per primi,
fermatevi pure un momento a scambiare qualche parola;
ma non parlate dei fatti vostri e assolutamente mai di
quelli dei vicini.
Bambini. Non lasciateli urlare, scorrazzare e saltare in
casa per troppe ore filate, con scarso gaudio del vicino di
sotto. Insegnate loro a non scendere le scale a rompicollo
facendo rimbombare la casa, a non cantare, a non gridare,
a non giocare per le scale. A non seminare cartacce e cicche
americane usate. A salutare le persone che incontrano. A
non usare l'ascensore per divertimento; a non decorarlo
di scritte e disegnini.
Cani. In quasi tutte le case cittadine il regolamento vieta
di tenere cani, e in quasi tutte le case cittadine ci sono
inquilini che hanno il cane. Se voi siete tra questi, fate in
modo che il cane assolutamente non disturbi. Se un cane
è maleducato, la colpa non è sua, è dei suoi padroni.
Non entrate col cane in ascensore, se ci sono altre persone.
Insegnategli a non abbaiare sconsideratamente, a
non far festa saltando addosso alla gente, a non rompere
le calze della vicina, a non addentare le caviglie ai postini,
a non fare pazzi caroselli per le scale, e così via. Per insegnargli
tutto questo non occorre picchiarlo (picchiare un
cane è sempre stupido e ingiusto): basta sgridarlo con voce
severa e dito alzato ogni volta, ma proprio ogni volta che fa
La crisi del personale domestico è un fatto. Non è nostra
intenzione fare discorsi di tipo sociologico, tanto meno
sindacale. Ma riteniamo che chi lamenta la carenza o il
cattivo rendimento o le rozze maniere del personale di
servizio odierno, facendo paragoni coi meravigliosi domestici
del tempo andato, dovrebbe: 1) tener presente che
il tempo andato è andato; 2) fare un obiettivo e attuale
esame di coscienza. Le signore avrebbero tutti i vantaggi a
trattare i domestici con liberalità, umanità, rispetto (nonché
massimo scrupolo per le norme sindacali), mentre i
domestici avrebbero tutti i vantaggi a rispettare il lavoro
che fanno e a cercare di farlo bene, proprio per ottenere
quella «considerazione» di cui si sentono privi. Ma tant'è:
la crisi ha radici sociali troppo profonde per essere estirpate.
Mi sento esonerata dal parlare di quelle case e di quelle
famiglie che hanno alle loro dipendenze legioni di servitù,
due cameriere, una guardarobiera, una cuoca, una bambinaia,
un autista, un uomo di fatica, un giardiniere, nonché
un maggiordomo di nome Battista. Ho l'impressione che
i maggiordomi siano una categoria in via di estinzione, o
che siano diventati anche loro tuttofare e non si chiamino
più Battista, ma Salvatore o Gennaro; allo stesso modo,
dovrebbero essere in via di estinzione le famiglie (non
parlo di famiglie reali o divistiche) così fantasticamente
ricche di servitù. Se ancora ce ne sono, comunque, cosa
A dispetto della definizione, la tuttofare non può fare
tutto. Una signora moderna e civile sa che una colf,
anche se robustissima, è un singolo essere umano, con
due sole braccia, due sole gambe, un solo cervello, non
sempre eccelso. Non pretende da lei il genio di Einstein,
la memoria di Pico della Mirandola, i modi di un diplomatico.
Le chiede soltanto, coi tempi che corrono, un po'
di buona volontà e di buon senso, e l'aiuta con l'esempio
a migliorare.
Se volete una domestica garbata, siatelo voi per prime.
Se volete una domestica ordinata, cominciate a esserlo
voi. Se volete essere efficacemente servite, imparate a dare
disposizioni efficaci: il che non significa usare un tono da
Alloggio. Non si mette la domestica a dormire in cucina
o in un ripostiglio: le si dà una cameretta tutta per lei, piccola
ma decorosa, con un letto comodo, una finestra, un
armadio decente, e una lampadina che renda possibile la
lettura. Se in casa non c'è questa stanzetta in più, si rinuncia
ad avere la domestica fissa e se ne prende una a giornata.
Se c'è un bagno di servizio, la domestica vi riporrà i suoi
arnesi da Orari e libertà. Una domestica a tempo pieno non deve
lavorare più di otto ore al giorno distribuite secondo le
esigenze reciproche e il buon senso (se una volta ne deve
lavorare dieci, la si compensa in qualche modo). Non le si
chiede di alzarsi a ore antelucane: basta che si alzi in tempo
per preparare la prima colazione; se poi è lei che preferisce
alzarsi prestissimo per «portarsi avanti coi lavori» (cioè
per finir prima la sera) la si prega di non svegliare tutta la
famiglia con andirivieni, sbatacchiamenti, acqua corrente
tipo Niagara, ronzii perforanti di elettrodomestici.
Non solo dal punto di vista sindacale ma anche dal
punto di vista del saper vivere aggiornato, una domestica
ha diritto, come tutti i lavoratori, alla domenica intera di
libertà (se una domenica la signora ha bisogno di lei, le
darà un altro intero giorno di libertà), più un pomeriggio
da concordarsi. Se la domestica è maggiorenne, può anche
uscire di sera. Anche se non esce, comunque, ha la serata
libera: la passerà in camera sua, nel modo che preferisce.
Alle domestiche in genere piace molto la televisione. Ma
non a tutte le famiglie piace dividere con la domestica il
televisore e l'intimità serale. In questo caso, si consiglia di
procurare alla domestica un piccolo televisore, che terrà in
camera sua: non è una grossa spesa, ed è psicologicamente
e praticamente un ottimo sistema.
La confidenza. Secondo il galateo tradizionale, la signora
doveva trattare la domestica cortesemente ma impersonalmente,
senza mai sconfinare dai rapporti di lavoro. Oggi
questo sarebbe (per me lo era anche ieri) un trattamento
Il personaggio della non chiamare
al telefono tutte le sue conoscenze maschili e femminili. Al
ritorno dei genitori fa un breve resoconto della serata, senza
drammatizzare gli eventuali inconvenienti o sottolineare
il suo spirito di sacrificio. Se non ha macchina, il padre
del bambino la riaccompagna a casa con la propria auto;
oppure, se è stanco, se è pigro, se ha una moglie gelosa,
le offre un taxi.
I soldi: un argomento che non mi piace. Non che io sia
uno spirito superiore: i soldi mi servono come a chiunque
altro. Solo, mi annoia parlarne. Quindi me la caverò con
poche frettolose osservazioni pratico-psicologiche.
Non valutate le persone in base a quel che guadagnano (e
abituate i figli a non farlo).
Se siete economi, non giudicate prodighi tutti quelli che
non lo sono: forse sono soltanto generosi (o ricchi).
Se siete prodighi, non giudicate tirchi tutti quelli che non
lo sono: forse sono soltanto economi (o poveri).
Pagate subito i conti: fuori il dente, fuori il dolore. Specie
se siete smemorati, rimandando soffrireste due volte: quando
ricevete il conto, e quando, dopo esservene scordati, ve
lo ritrovate da pagare (o siete sollecitati a farlo: così, oltre
alla sofferenza, c'è la brutta figura).
Non tirate sui prezzi per principio. Contrattare, in determinate
circostanze, può essere lecito e utile (sempre che ne
siate capaci); ma contrattare sempre, dovunque e comunque,
è inutile e controproducente, oltre che deprimente.
Se certi conti fantasiosi, certe note spese indecifrabili
fino all'ultima cifra, certe voci sibilline vi fanno nascere
dei sospetti, non vergognatevi di chiedere spiegazioni
(stranamente, non sono mai i ricchi che si vergognano
Non chiedete sconti ai medici, baroni o no; non chiedeteli
agli avvocati, ai professionisti, ai consulenti in genere: che
si tratti di un'unica salatissima consulenza, o che si tratti di
un conto semestrale o annuale, pagate senza batter ciglio.
Prima di consultare un medico o un avvocato, bisogna
sapere quali sono all'incirca i suoi onorari. Sarebbe giusto,
per questioni etico-fiscali, chiedere regolare fattura. Ma chi
è quel malato che ha il coraggio di inimicarsi il medico?
E il medico, sfortunatamente, lo sa.
Non parlate troppo spesso di soldi. Né dei vostri, né di
quelli altrui. In particolare, non dite quanto guadagnate,
né chiedete agli altri quanto guadagnano; non dite i prezzi
di ogni cosa che possedete (villa al mare, paio di scarpe,
quadro del Morlotti, vino d'annata): fa nuovo ricco, o falso
povero. E mai chiedete agli altri quanto hanno pagato le
loro: fa cafone.
Abituate i bambini e i ragazzi a essere responsabili nei
confronti dei soldi, assegnando loro quella che viene
familiarmente chiamata «la paghetta»: cioè una cifra settimanale
(da stabilirsi secondo le possibilità, le esigenze,
l'età) che copra tutte le loro piccole spese, e che dovranno
amministrare da sé. Se qualche volta sballano, se a metà
settimana non hanno più nemmeno i soldi per il
Si diceva un tempo, e molti lo dicono ancora, che il lavoro
nobilita l'uomo. Personalmente, non sono di questo parere.
La catena di montaggio non nobilita nessuno. Più in generale,
un lavoro monotono e alienante, o semplicemente
inadatto alle capacità, alle aspirazioni, al sistema nervoso
di chi lo fa, difficilmente può nobilitare qualcuno. Può,
al contrario, umiliarlo e logorarlo. Questo però dipende
anche molto da noi, dalla nostra disponibilità e vitalità.
Per stupido che sia il nostro lavoro, non lo miglioreremo
odiandolo, disprezzandolo, facendolo male; riusciremo
solo a peggiorarlo, a rovinarci il fegato e i nervi. Non voglio
difendere, Dio guardi, il lavoro-per-il-lavoro. Il mio
discorso è tutt'altro. A parte poche eccezioni, cui questo
libro non è rivolto, tutti dobbiamo lavorare. Alcuni (pochi)
possono scegliersi il lavoro, altri (molti) devono prendere
quel che c'è. Non è giusto, anzi è sbagliato, ma è con la
realtà che dobbiamo fare i conti. Quindi: dato che il lavoro
è necessario, cercate di prenderlo per il suo verso, invece
di fargli la guerra: soffrirete di meno. Non solo: ma chi
lavora bene ha probabilità di migliorare le sue condizioni
professionali, sociali, umane, più di quante non ne abbia
chi lavora male, boicottando sterilmente quello che fa.
Dal datore di lavoro all'ultimo dei subalterni, la fauna
per cui e con cui lavoriamo si può classificare in molte
categorie. Un individuo libero e intelligente dovrebbe,
comunque, saper rimanere se stesso coi superiori come coi
subalterni. Al limite: un villano che è villano con tutti è
più simpatico e apprezzabile del villano camaleonte, che
diventa zuccherino con chi sta più su di lui.
Ma se sono detestabili quelli che trattano con sufficienza
i subalterni e si genuflettono davanti alle divinità aziendali,
non sono molto simpatiche neanche le divinità aziendali
che elargiscono paternalismo e ostentata benevolenza ai
loro sudditi. Non ci si dovrebbe sforzare di essere «democratici»
con gli inferiori, ci si dovrebbe convincere che
non si hanno inferiori. Uno può essere di grado inferiore
o superiore sul piano gerarchico-aziendale. Ma sul piano
Abbigliamento. Va adattato, entro certi limiti, all'ambiente
in cui si lavora. Non vestitevi in modo stravagante o
Umori. Non trasferite in ufficio i nervosismi di casa.
Non siate austeri: un sorriso, uno scherzo, una parola Confidenza. Non usate il turpiloquio corrente, ma se i
colleghi o le colleghe a volte lo usano, rassegnatevi: è la
moda. Non esibite tendenze da erotomani, ma neanche da
sanluigi o santemariegoretti: nell'uno come nell'altro caso,
sono atteggiamenti da sessuorepressi. Non fulminate il collega
che racconta storielle pesanti, ma non incoraggiatelo.
Non respingete né troncate bruscamente le confidenze di
un collega, ma non sollecitatele mai. Non fate i misteriosi,
ma neanche buttate in pasto all'ufficio la vostra vita privata,
completa di particolari.
Amicizie e flirt. Anche se il manuale del perfetto-capo-del-personale
dice che non va bene, l'amicizia tra colleghi
va invece benissimo: basta che non si formino
Rispettate il lavoro altrui, anche se il vostro è o vi sembra
più importante. Non potete conoscere lo sforzo di chi
lo compie, quindi non interrompetelo se non è proprio
necessario, e non considerate le vostre necessità come
prioritarie, solo perché sono le vostre.
Ammettete i vostri errori. Gli infallibili non sono soltanto
dei presuntuosi: sono anche dei bugiardi. La persona
intelligente e leale sbaglia e lo ammette, senza tentare lo
scaricabarile. Ognuno accetti per intero le proprie responsabilità
e riconosca i propri errori in modo semplice e
credibile, senza improvvisare scene di rimorso o cospargersi
il capo di cenere.
Non strafate. Non sobbarcatevi più lavoro di quanto
possiate realisticamente fare. È una debolezza fatale a molti,
o perché sono masochisti, o perché non sanno dire di no,
o perché si sopravvalutano, o perché bramano di essere
lodati, o per mistico attaccamento al dovere, ma il risultato
è generalmente catastrofico: un giorno si ammalano,
impazziscono, e alla loro dipartita si scopre la scrivania
imbottita di pratiche inevase.
Siate franchi. Quando un collega intralcia il vostro lavoro,
discutetene con lui, senza alzare la voce, senza chiamare
a giudici altri colleghi. Non aspettate che esca per criticarlo
pubblicamente. E mai, si capisce, andate a lamentarvi di
Quindi, non fate la spia. So che molte persone fremono
nel vedere mancanze non punite, so che i dritti sono irritanti
dappertutto, e più che mai sul lavoro; ma la spia nonsi fa.
Non andate in giro chiedendo in prestito biro, matite,
blocchi e altri arnesi che avete smarrito. C'è chi non ci bada
e presta a sua volta (perdendola) la sua dotazione di scriba,
ma ci sono quelli che si affezionano in modo maniacale
alle loro matite, e se ne restano privi, o se trovano anche
minimamente manomesso l'altare sul quale lavorano, si
sentono lesi nei loro affetti. Ci auguriamo che non siate
di questi. Comunque, siate autonomi anche in fatto di
matite.
In teoria, tutti sono pronti a esaltare la meravigliosa missione
della casalinga: moglie, madre, educatrice, portatrice
della fiaccola familiare, e così via. In pratica, il suo lavoro
è considerato zero. «Non voglio che mia moglie lavori»,
«beata te che non lavori», sono frasi che la casalinga esausta
si sente ripetere spesso. Lei che non lavora, già: è un
equivoco duro a morire. In realtà il mestiere di casalinga
è un lavoro a tutti gli effetti, che si distingue dagli altri
per le seguenti peculiarità: niente retribuzione, niente liquidazione,
niente pensione, orario illimitato, isolamento
sociale, scarsa considerazione da parte del datore di lavoro
(il marito) nonché delle altre mogli che lavorano (fuori).
dell'uomo in famiglia?
Non gli si chiede necessariamente di lavare i piatti, ma di
rispettare e capire la funzione della moglie, di collaborare,
di dividere con lei, su un piano di parità, le fatiche, i
problemi, le responsabilità del tutti e due hanno il compito di custodire. L'auspicata
liberazione della donna passa attraverso la liberazione
L'andazzo delle poste, per cui oggi imbucare una lettera è
un po' come affidarla a un piccione viaggiatore lunatico,
ha dato un ulteriore incremento al già incrementato telefono.
Le linee straripano, i contatti infuriano, le bollette
raggiungono cifre iperboliche, ma tutti continuano a telefonare,
telefonare, telefonare come pazzi. Il telefono oggi
assomma, interpreta e simboleggia le migliori e le peggiori
caratteristiche del nostro tempo: ansia, velocità, progresso,
comodità, meccanicità, indiscrezione, aridità, noia, pigrizia,
fretta, angoscia, invadenza, paura del tempo, paura di
se stessi, solitudine. Adorato e maledetto, temibile e indispensabile
come tutti i grandi protagonisti, il telefono, di
per sé, è uno strumento del tutto innocuo: siamo noi che
ne facciamo, troppo spesso, un uso detestabile. Invece di
maledirlo, impariamo a non lasciarcene condizionare e a
non servircene per condizionare gli altri.
- Quando siete voi a chiamare, dovreste dire subito, per
prima cosa, chi siete, e solo dopo chiedere chi parla. Una
telefonata è sempre una piccola violazione di domicilio:
toccherebbe quindi a chi la fa, e non a chi la riceve,
dire per primo il proprio nome. Invece quasi tutte le
Ci sono persone che telefonano nel cuore della notte («Stavi
mica dormendo, vero?»), altre che telefonano regolarmente
all'ora dei pasti («Stavi mica mangiando, per caso?»).
Se siete vittime di questo tipo di persone, la prima volta
lasciate correre; la seconda dite, inghiottendo udibilmente:
«N-no, dimmi pure», oppure, sbadigliando: «Be', ormai
sono sveglio». Se la cosa rischia di diventare un'abitudine,
siete autorizzati a difendervi decisamente: «Sì, a quest'ora
dormo sempre», «Sì, a quest'ora sono sempre a tavola. Ti
dispiace chiamarmi in un altro momento?»
Secondo le regole, non si dovrebbe mai chiamare nessuno
prima delle nove del mattino e dopo le dieci di sera:
ma anche questa è una regola che ormai vacilla, la gente
Le persone molto importanti, o molto occupate, o che ci tengono a sembrare tali, usano spesso far chiamare la gente dalla segretaria o dalla domestica: questo sistema, che non è gentile in caso di telefonate private, è abbastanza normale per le telefonate di lavoro: purché colui che fa chiamare si tenga pronto a prendere il ricevitore non appena la segretaria avverte che la persona cercata è in linea. Anche se siamo importantissimi e occupatissimi, non siamo autorizzati a far aspettare in linea per più di due minuti (son già molti) una persona che abbiamo fatto chiamare noi. Fosse pure un «inferiore». E non valgono le giustificazioni tipo: «Scusa, sai, ma sono preso fino al collo». Se è così, aspettate a chiamare la gente quando avete il collo libero.
Il concetto di brevità telefonica è estremamente soggettivo.
Per molte persone (generalmente, duole dirlo, femmine)
una telefonata che non superi i quarantacinque minuti
è brevissima. Ammetto che nei confronti dell'eternità
quarantacinque minuti sono meno d'un attimo, ma nei
confronti del telefono e di chi ha da fare sono un secolo
abbondante.
Intendiamoci: se siete soli in casa, e se l'altra persona
è sola in casa, se siete certi che non ha niente da fare, e
che nessuno abbia bisogno di telefonare a voi o a lei, non
i casi in cui è veramente obbligatorio essere brevi
(sotto i cinque minuti):
Quando si è a un telefono pubblico. Quando si ha un
In teoria, al telefono sarebbero ammesse solo conversazioni
utili e concrete, informazioni, affari, inviti, appuntamenti,
ordinazioni ai fornitori, al massimo quattro chiacchiere
(ma quattro) coi parenti e gli amici; sempre comunque
telefonate di carattere informativo. In pratica, questo è
pretendere troppo; oggi si ammettono anche telefonate
di carattere psicologico-sentimentale: proprio perché si
ha così poco tempo, il telefono spesso è l'unico mezzo per
sentirsi vicini alle persone care, o per rompere il cerchio
incombente della solitudine. Quindi usiamolo pure per
telefonate non unicamente pratiche: purché non siano
troppo lunghe e purché siano discrete.
Evitate, a buon conto, gli argomenti compromettenti,
o in qualsiasi modo rischiosi, sia per voi che per la persona
che sta all'altro capo del filo. A parte le microspie,
che si sperano passate di moda, ci possono essere sempre
delle interferenze. Se poi si tratta di argomenti «intimi»,
effusioni amorose e così via, il telefono è un mezzo anche
psicologicamente inopportuno: meccanizza, amplifica,
minimizza, deforma.
E ancora: cercate di capire al volo se la persona chiamata
non può parlare liberamente. Se vi risponde roma per
toma, se tossicchia, indugia, emette vaghi monosillabi, non
spazientitevi, non chiedete: «Ma cos'hai? Cosa ti prende?
Se vi risponde un numero diverso da quello che cercate, non fate come tanti che sbattono giù il ricevitore brontolando o imprecando, quasi che il colpevole fosse l'altro; non partite in una solenne diatriba contro la società («è una vergogna, neanche il telefono funziona più, siamo tutti intasati, dove andremo a finire, governo ladro»); e neanche fatela troppo lunga con le scuse, fornendo spiegazioni non richieste e non pertinenti, che faranno perdere ulteriore tempo e pazienza a chi è già stato disturbato per errore. Dite semplicemente: «Mi scusi, deve esserci un contatto». E se, per quanta attenzione mettiate rifacendo il numero dell'amico, vi risponde sempre il signor Vattelapesca, non insistete a bombardare di squilli l'involontaria vittima. Se proprio avete urgenza di parlare con l'amico, chiedete al Vattelapesca di staccare per un momento (ma che sia proprio un momento) il ricevitore, nella speranza di eliminare il contatto. Se non avete urgenza, eliminate invece la telefonata con l'amico, rimandandola di un'ora o di un giorno. Se poi siete voi le vittime dello sbaglio o del contatto, non trattate male il disturbatore, vittima quanto voi. Non fate gli spiritosi («Vuoi parlare con Leone? Mi dispiace, qui non abbiamo leoni, solo un gatto siamese: se le può servire...»). Siate precisi e sensati: «No, signora, questo è il numero 2715958. Prego.» Ricordatevi che i contatti infuriano, e che domani potreste essere voi a cercare Leone in casa Gatti.
Se, mentre avete ospiti (non intimi) qualcuno telefona in casa vostra chiedendo di parlare con uno degli invitati, non domandate chi parla: non è discreto. E non andate di là gridando: «Mariella! C'è uno che ti vuole al telefono, dalla voce mi sembra Giorgio Segreti». Dite, prudentemente: «Mariella, ti vogliono al telefono», senza specificare «È un uomo» o «È una donna», e senza intonazioni misteriose o furbette. Comunque una persona sensata evita di telefonare e di farsi telefonare in casa d'altri. Se proprio ci è costretta, deve: 1) scusarsi; 2) dire perché e a chi deve telefonare; 3) essere brevissima; 4) parlare con voce normale, senza bisbigli, tossette, puntini di sospensione («no... non posso... no, non adesso... capito?»): le comunicazioni clandestine, se proprio dovete farle, fatele in un posto pubblico o in casa vostra. Non in casa d'altri.
Gli addetti ai centralini, che sono poi spesso delle addette,
hanno un lavoro incalzante e sfibrante: non mettetevi
dunque a far convenevoli, non fate richieste vaghe e nebulose,
non dite nomi incerti «aspetti un momento che
controllo, non ricordo bene, ehm, uhm.» Siate rapidi,
precisi, possibilmente cortesi: anche se lo sembrano, le
signorine dei centralini non sono robot, sono creature
umane, spesso stanche; se sbagliano non aggreditele. E se
loro aggrediscono voi, portate pazienza, pensate che sono
vittime dei nervi loro e altrui.
Con tutto questo, nel bene loro, le centraliniste dovrebbero
evitare di rispondere con tono da mastino disturbato
«socedi rosdicamentattend»
(società editrice Rossi, dica, un momento, attenda), dopo
di che tutto sparisce nel nulla e il poverino sta lì e non sa
se ha sbagliato, se è caduta la linea, se deve richiamare,
se deve tacere, se deve dire, se deve attendere, chi, cosa,
quando, perché. Il centralino è sovraccarico, e va bene: ma
una sillaba in più non compromette il futuro dell'azienda
né quello della centralinista. Siate pietose, signorine del
telefono, non mitragliate la gente: usate voce umana e parole
comprensibili. Non è questione di tempo: è questione
di non lasciarsi stritolare da una
Se siete voi che avete la segreteria telefonica, lasciate sul registratore messaggi udibili e chiari. Evitate di usare la prima persona («Sono uscito, chiamatemi più tardi»), per non mettere in confusione chi è ancora poco avvezzo a sentirsi rispondere da un fantasma. Se invece siete voi che chiamate e una voce metallica vi risponde: «Studio dell'architetto Rossi. L'architetto al momento non c'è. Siete pregati di lasciare il vostro nome e lo scopo della vostra telefonata. Aspettate il segnale acustico prima di parlare... Bip», non spaventatevi, è soltanto la segreteria telefonica. Non buttate giù il ricevitore senza una parola (come fanno i più). Al bip dite chiaramente e brevemente chi siete e perché avete telefonato. Grazie.
Molti pensano che la corrispondenza sia una cosa superata:
oggi c'è il telefono, chi scrive più una lettera? Si perde
troppo tempo. Ma non è solo una questione di tempo. Il
telefono, pur essendo un mezzo immediato, è anche un
mezzo dispersivo: spesso uno perde e fa perdere più tempo
in chiacchiere, preamboli, digressioni al telefono di quanto
non ne perderebbe e farebbe perdere scrivendo una lettera
o un biglietto. Proprio perché scrivere comporta un minimo
di riflessione (e perché non consente al destinatario
di interloquire, interrompere, divagare) la corrispondenza
spesso ci spinge a essere più concisi, a spiegarci meglio, o
a dar maggiore rilievo ai nostri messaggi.
Naturalmente, ci sono ancora quelli che scrivono
troppo, scrivono sempre: soprattutto quando non ce n'è
bisogno, soprattutto a gente che non ha voglia di leggere
e pensa con orrore all'eventualità di rispondere. Fogli e
fogli coperti di fitta e minutissima calligrafia, con molte
sottolineature, molti punti interrogativi, esclamativi,
puntini di sospensione (i grafomani fanno così, di solito)
contribuiscono a riempire i cestini delle redazioni, delle
autorità, dei divi, nonché dei conoscenti indaffarati e
impazienti.
Ci auguriamo che voi non siate della categoria grafomani.
Secondo il galateo, le cartoline si dovrebbero inviare soltanto
in busta chiusa. Figuriamoci. A parte che nessuno
ne spedirebbe più (e questo non sarebbe un gran male),
oggi una persona normale che ricevesse una cartolina di
saluti pudicamente avvolta in busta chiusa la girerebbe con
curiosità da tutte le parti per cercar di scoprire il perché
di tanta segretezza.
Che cosa si scrive sulle cartoline? C'è chi riesce a scriverci
dei mezzi romanzi, girando e rigirando la scrittura
in tutti i sensi, talché decifrare il testo diventa una specie
di gioco enigmistico. Se avete tante cose da dire, meglio
dirle per lettera. Le cartoline non si addicono ai lunghi
messaggi; né agli sfoghi, ai pettegolezzi, agli scherzi salaci:
non è il caso di coinvolgere nelle facezie postini e
Una volta si usavano moltissimo, per le visite come per i
duelli. Oggi sono in ribasso, anche se il nome originario
gli è rimasto, si usano più che altro per auguri, ringraziamenti,
rapporti di lavoro.
Alcuni hanno due tipi di biglietti da visita: uno per uso
professionale, col nome e cognome preceduto dall'eventuale
titolo e in calce l'indirizzo; l'altro per uso personale,
senza indirizzo e senza titolo. Molti però amano ancora
far stampare il titolo, salvo poi cancellare il «dott.» con
un modesto tratto di penna. Questa abitudine appare
oggi comica, oltre che superata. Se non ci tenete al titolo,
non fatelo stampare. Se ci tenete, non cancellatelo: le false
modestie non funzionano, oggi.
Coniugi. Nei biglietti da visita coniugali, si mette prima
il nome del marito o quello della moglie? Pare che
ancora molti si dibattano in questo dilemma. Un tempo
si sosteneva che il marito, essendo il capofamiglia, deve
essere nominato per primo; a questa tesi si è poi opposta
quella che il marito, essendo un cavaliere, deve dare la
precedenza alla moglie. In base alla liberazione femminile,
entrambe le tesi sono sbagliate; il marito non deve essere
L'uso del telegramma, una volta riservato ad avvenimenti eccezionali (chi ne riceveva uno rischiava l'infarto), oggi si è esteso a comunicazioni anche banalissime: si fa un telegramma quando l'urgenza non consente di scrivere una lettera e quando una telefonata è troppo macchinosa (se non c'è teleselezione, per esempio), o troppo costosa; si usa normalmente il telegrafo nel campo degli auguri, dei rallegramenti, delle felicitazioni, delle condoglianze: il telegramma ha una vibrazione che il biglietto non ha. I telegrammi di tipo pratico si possono abbreviare per economia, purché l'eliminazione di parole non ne renda difficile o ambigua o comica l'interpretazione. Nei telegrammi di felicitazioni e condoglianze, è invece opportuno usare un linguaggio normale, conciso ma completo: nei momenti di gioia o di dolore uno non dovrebbe star lì a economizzare qualche lira di congiunzioni, articoli e preposizioni. Quindi: «Ti sono vicina nel momento del dolore e ti abbraccio con affetto. Tua Giovanna» e non «Vicina dolore abbraccioti. Giovanna.»
Oggi ognuno è libero di scegliere la carta da lettera che più gli piace. Mi limito a sconsigliare la carta istoriata (decorata con fiorellini, cuoricini, motti «spiritosi» o altre terribili bellurie) e la carta variopinta: stanca la vista, oltretutto.
Una volta si scrivevano a macchina solo le lettere d'ufficio,
a mano tutte le altre. Oggi la regola è molto ammorbidita:
se si scrive una lettera molto lunga, spesso è meglio scriverla
a macchina: non solo per chi la scrive, ma anche per
chi la riceve. Ci sono però ancora persone, ligie all'antico
galateo, per le quali una lettera scritta a macchina equivale
a una mancanza di riguardo. Per conto mio è assai più
irriguardosa una lettera scritta con una grafia indecifrabile
o comunque faticosa.
Se scrivete a mano, comunque, non fate come tanti,
che cominciano le lettere con una calligrafia pressoché
normale e poi, via via che la missiva si allunga e la mano
si stanca, i caratteri si appiattiscono, si deformano, la
grafia si fa gradatamente squinternata e incomprensibile.
Intendiamoci: non importa affatto che la calligrafia sia
bella o brutta, importa solo che sia chiara: costringere una
persona a rovinarsi gli occhi e lambiccarsi il cervello per
decifrare i nostri scritti non è gentile. Ve lo dice una che
ha quotidiane tristi esperienze in proposito.
Scrivete con spazi e margini ragionevoli, con inchiostro
decente, con tutte le correzioni che volete, purché chiare;
e senza troppi richiami, postille, aggiunte di frasi perpendicolari
al testo già scritto (come fanno i matti: anche di
questo ho tristi esperienze).
Non fate troppi
Non aspettatevi da me suggerimenti di stile e di imposta-
zione. A parte le lettere ufficiali, d'etichetta, o commerciali,
la corrispondenza oggi non ha e non deve avere delle regole:
il linguaggio in una lettera è tanto più elegante, simpatico
e attuale quanto più si avvicina al linguaggio parlato. A
«parla come mangi» oggi si aggiunge «scrivi come parli».
Niente schemi fissi, niente formalismi, niente ricerche
stilistiche, (per me oltremodo irritanti) niente lettere simili
a temi in classe o a esercitazioni
Parliamo qui di lettere personali, non professionali.
Coi familiari e con gli amici usate gli inizi e le chiuse
che vi pare, non sarò io a metterci becco.
Nelle lettere non confidenziali, secondo il galateo
tradizionale tutti gli appellativi andrebbero scritti con la
maiuscola: Signore, Signora, Ingegnere, perfino Amica
(«Gentile Amica» è l'appellativo che certi testi consigliano
a un uomo per scrivere a una signora «che gli mostri benevolenza»).
Come ho già avuto occasione di dire, io detesto
le maiuscole, nonché le benevolenze. Mi sembra meglio
scrivere: «Caro signor Rossi», «Caro dottore», «Gentile
signora», «Cara amica».
Scrivere a una signora «Gentilissima» virgola e a capo,
è molto affettato. «Spettabile» si addice forse a una ditta,
non a una persona. Ridicolo è scrivere «Amabilissima
Signora», «Esimia Dottoressa», «Illustrissimo Commendatore»,
Ognuno deve scriverle come sente di scriverle, senza prendere
l'imbeccata da nessuno. Ma poiché metter becco è il
mio destino professionale, eccomi a suggerire alcune cose
anche sulle lettere d'amore.
- Non scrivetene troppe: le svalorizzate. Come ogni altra
cosa, anche le parole d'amore, se troppo spesso ripetute,
perdono efficacia. Possono perfino venire a noia.
- Non scrivete cose di cui potreste vergognarvi domani
(
Lo sappiamo già: sono il fondo dell'abisso, il colmo della
grossolanità, dell'ipocrisia, della meschinità. Non si scrivono
A volte si è così inferociti (per un trattamento scortese, un'accusa ingiusta, una menzogna, una calunnia, una delazione, altre migliaia di cose) che par di scoppiare se non si scrive una lettera di protesta. E va bene, scrivetela, vi servirà a sfogarvi. Ma date retta: non speditela subito. Rileggetela due ore o due giorni dopo, a freddo: troverete molte cose da correggere, smorzare, o togliere del tutto. Forse non la spedirete più. O forse ne spedirete un'altra, un ben calibrato saggio di «dignitosa ironia» e non quell'escandescenza scritta che poi vi costringerebbe forse a scrivere di nuovo: per scusarvi, stavolta.
Le lettere commerciali, o comunque d'ufficio, sono quel
che sono: dal punto di vista linguistico, orrende. Spetterebbe
ai dirigenti, ai funzionari, ai capi d'azienda dare un
tono meno pedestre alla corrispondenza degli uffici che
presiedono; ma i più non lo fanno: forse non ne son capaci,
o forse hanno paura, scrivendo civilmente, dl creare
scandalo nel mondo degli uffici.
Le lettere di lavoro comunque non devono essere belle:
devono essere chiare, esaurienti, precise, e rispettare certe
formule ormai sancite dall'uso. Come sarebbe ridicolo
usare un linguaggio commerciale per le lettere personali,
così sembrerebbe azzardato usare un linguaggio personale
Il galateo portava alle stelle la cavalleria maschile. Il controgalateo
la considera con diffidenza. Ma spieghiamoci.
Secondo il galateo classico, erano moltissime le cose che
gli uomini dovevano (o non dovevano) fare «davanti a una
signora». Solo per fare qualche esempio, dovevano cederle
il posto in forse è un uomo gentile. Ma
se poi lo stesso signore (e son proprio questi tipi ultracavallereschi
che più spesso lo fanno) durante una seduta di
lavoro o nel corso di una discussione, politica o no, tende
a spingermi sia pure gentilissimamente da parte facendomi
benevolmente intendere che, in quanto donna, certe cose
non le posso capire e tanto meno fare o dire, eh allora no!
Questo non è un uomo gentile, è un ipocrita paternalistico,
che non mi rispetta affatto. Quindi non so che farmene dei
complimenti, delle precedenze, degli inchini, delle porte
aperte, e in quanto ai fiori, solo un residuo di signorile
controllo (unisex) mi vieta di tirarglieli in testa.
PREMESSA 5
1. PARTECIPIAMO O NO? 7
Partecipazioni di fidanzamento 7
Partecipazioni di nozze 8
Partecipazioni di nascita 9
Partecipazioni di laurea 10
Annunci di morte 10
2. CHIAMIAMOLO FIDANZAMENTO 13
Il ricevimento 14
Anello 15
Corredo 15
Comportamento 16
Libertà 16
Suocera e nuora 19
Suocero e genero 20
Rottura 21
3. SE QUESTO MATRIMONIO S'HA DA FARE 23
Preparativi 24
Bomboniere 27
Regali 27
Anelli nuziali 28
La «scorta d'onore» 29
Lao-tse, Il libro della saggezza
Raul Montanari, Strane cose, domani
Diego Novelli, Nicola Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo
Maria Tarditi, La venturina (2ª ediz.)
Dom Sagolla, 140 caratteri. La guida per essere brevi con stile
Gian Luigi Paracchini,Vita Prada. Personaggi, storie, retroscena d'un
fenomeno di costume
Jonathan Ames, Sveglia, Sir!
Brunella Gasperini, Più botte che risposte
Walter Bonatti, In terre lontane (2ª ediz.)
Brunella Gasperini, Rosso di sera
Rita Levi-Montalcini, Senz'olio contro vento
Brunella Gasperini, Noi e loro
Virginia Woolf, Flush. Biografia di un cane
Claudio Fava, Il mio nome è Caino
Aldo Busi,El especialista de Barcelona
Maureen e Bridget Boland, Il giardino delle vecchie signore
Mesa Selimovic, Il derviscio e la morte
René Prédal, Cinema: cent'anni di storia
L'istituzione negata, a cura di Franco Basaglia
Giorgio Faletti, Io uccido
Giorgio Faletti, Io sono Dio
Giorgio Faletti, Pochi inutili nascondigli
Rita Levi-Montalcini, Elogio dell'imperfezione (2ª ediz.)
Peter H. Duesberg, Aids. Il virus inventato
Che cos'è la psichiatria?a cura di Franco Basaglia
Francesca Ramos, Una come me
Francesca Romana Capone, Quello che non ti ho detto
Norberto Bobbio, Dal fascismo alla democrazia
Beppe Viola, Quelli che...
Nicky Persico, Spaghetti Paradiso
Pap Khouma, Io, venditore di elefanti
Tom Robbins, Il nuovo sesso: cowgirl
Sof'ja Tolstaja, Amore colpevole
Mario Sconcerti, Il calcio dei ricchi
Brunella Gasperini, Il galateo
Stampato nel marzo 2015 per conto di Baldini e Castoldi s.r.l. da LegoDigit s.r.l. - Lavis (TN)
«Più che un libro di galateo, questo si può dire un libro di
controgalateo. Il galateo tradizionale infatti è oggi un anacronismo:
una sovrastruttura corrosa, che non regge più alle
spinte del nostro tempo svelto e concreto...»
Così scriveva Brunella Gasperini nel 1975, nella premessa
alla prima edizione di questo spiritoso (ma perciò non meno
utile) manualetto. E aggiungeva: «Allora, il nuovo galateo
vuol dire sovvertimento, distruzione, linciaggio del vecchio
galateo? Ma no... vuol dire se mai revisione, aggiornamento,
discussione, demistificazione... vuol dire cercare di sostituire
buonsenso, spontaneità, elasticità, umorismo a quelle rigide
e ormai logore sovrastrutture convenzionali che intralciano,
invece di agevolarli, i rapporti umani... Questo libro è
semplicemente una serie di annotazioni basate sulla realtà,
cioè sull'osservazione quotidiana del nostro prossimo, così
come mi capita di vederlo e di sentirlo... In conclusione: se
il galateo inteso tradizionalmente vuol dire "guida al modo di
apparire", il nuovo galateo, o controgalateo, vuol dire "guida
al modo di essere" e quindi di vivere il più sensatamente
possibile, in questo tempo per molti versi insensato». Parole
sante, Brunella, e ancora così attuali...
Brunella Gasperini (1918-1979) è vissuta a Milano dove si è laureata in
lettere classiche e filosofia. Nel 1950 ha iniziato a scrivere per i periodici e il
«Corriere della Sera». Su «Annabella» ha redatto per venticinque anni una pagina
di colloqui con i lettori; ha tenuto una rubrica di critica cinematografica
e una di critica televisiva. Ha scritto romanzi, racconti, cronache umoristiche,
recensioni, inchieste.