Sempronio e SempronellaAmbrosini, Luigimarcatura a cura diDottoressa Francesca MarranzanoAccademia della Crusca
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Ambrosini, LuigiSempronio e SempronellaTorino - Milano - Padova - Firenze - Roma - Napoli - PalermoG. B. Paravia e C.1922
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LUIGI AMBROSINI
SEMPRONIO E
SEMPRONELLA
G. B. PARAVIA e C.
TORINO - MILANO - PADOVA - FIRENZE - ROMA - NAPOLI - PALERMO
ILLUSTRAZIONI DEL PITTORE PINOCHI
PRIMA RISTAMPA DELLA
SECONDA EDIZIONE
PROPRIETÀ LETTERARIA
STAMPATO IN ITALIA
Firma autografa dell'autore
Società per Azioni G. B. Paravia e C. - Corso Vittorio Emanuele II, 199 Torino
96 (eB) 19S0.3314
IGNORANTELLI
Sempronio e Sempronella sono fratello e sorella. Essi
volgono le spalle alla loro casetta e scendono dalla montagna.
Hanno sette od otto anni. Non sanno nè leggere,
nè scrivere, nè fare di conto. Non hanno mai avuto un
maestro, non sono mai andati a scuola. Lassù, sui loro
monti, la scuola non c'è ancora.
Senipronio e Sempronella sono così ignoranti, che
non sanno quale è la destra e quale è la sinistra.
Incontrano un vecchietta che va per legna e le domandano:
- Per che parte si va sullo stradone?
- Infilate il viottolo a sinistra e arriverete alla carrozzabile
che mena al villaggio.
- Tante grazie!
LA SCUOLA NELLO STAGNO
Il guaio è che Sempronio e Sempronella non sanno
da che parte è la sinistra. Prendono a destra e vanno
a finire sull'orlo d'uno stagno. Le rane gracidano: qua...
qua...: brech... brech.
Le rane gracidano e i due fanciulli si soffermano
ad ascoltare.
Le rane giocano «alla scuola» nello stagno. Hanno
grembiulini bianchi e calzoncini verdi. Stanno composte
della persona, e cantano in coro: qua... qua...
brech... brech...
La maestra siede su un ceppo di salice, che sporge
dall'acqua e serve di cattedra. Ella fa cenno agli scolari
di cessare il canto e comincia la lezione. I piccini
silenziosi, attenti, fissano sulla maestra gli occhietti lucidi
come capocchie di spillo.
Ad un tratto, una ranocchietta sbuca dal verde, con
una campanella bianca e rossa in mano e allegramente
dà il segnale che l'ora della lezione è finita. È la bidella
delle rane!
Le rane si mettono a saltare, proprio come gli scolari
in ricreazione. Esse hanno bisogno di sgranchirsi
le gambe. Quale si sdraia sull'erbetta. quale si tuffa
a capofitto nell'acqua, altre si rincorrono e giocano a
nasconderello.
- Che proprio anche le rane vadano a scuola? -
domanda Sempronio, che non crede a quanto ha veduto.
- Se invece di andare a zonzo, ci si andasse anche
noi? - dice Sempronella.
I due fanciulli tornano indietro, ritrovano il sentiero,
e cammina, cammina, giungono al villaggio. Si fermano
davanti a un uscio che reca la scritta: SCUOLA.
LA CASA DEL MAESTRO SAVERIO
Sempronio e Sempronella si presentano rispettosamente
a maestro Saverio. Sempronio gli dice:
- Signor maestro, io non so neanche stampare un
O con un bicchiere. Le sarei riconoscente se m'insegnasse
a scrivere!
E Sempronella:
- Io non so contare più là del due. M' insegna l' aritmetica,
perchè io possa almeno contare le uova che
mi fanno le galline?
- V'insegnerò tutto quello che volete - risponde
maestro Saverio, carezzando i due contadinelli. - Entrate,
entrate!
E accoglie in casa i piccoli analfabeti.
Come è felice il buon maestro di avere due nuovi
scolari! Egli è come il pastore che vede aggiungersi
due agnellini al gregge.
Ora maestro Saverio conduce i ragazzi a visitare
la casa.
È una bella casa bianca, ariosa, pulita come uno
specchio: e vede il sole sorgere e tramontare.
Di sotto è il porticato, la stalla con due mucche e
l'asinello, l'orto e il pollaio.
Per una scaletta si sale alla loggia, dove è la dispensa
delle frutta.
Di lassù si mira la campagna, i lunghi filari di viti
appoggiati agli alberi, che in ottobre cominciano a perdere
le foglie. Si vede la terra bruna, lavorata di fresco.
Un'altra scaletta conduce all'abbaino, che dà sul
tetto.
- Guai a voi se salite sui tetti! - dice maestro
Saverio. - Sui tetti lasciateci andare i gatti, e, quando
occorra, i muratori.
- Ecco il pollaio - aggiunge poi maestro Saverio,
facendo girare Sui cardini un cancello.
È un pollaietto con dieci galline impennacchiate e
un gallo maestoso.
- Piro, piro... - fa Sempronella, rovesciando a
terra le molliche che le sono rimaste in fondo alle tasche.
Tutto il pollaio svolazza a' suoi piedi, e chi non può
beccare la mollica becca la cresta al compagno vicino.
C'è anche la conigliera, con due paia di conigli dalle
orecchie lunghe e dagli occhi rossi come lanternini accesi.
- Chi accudisce a questi animali? - domanda
Sempronella.
- Io stesso. Finita la lezione, vengo a dare il becchime
ai polli, ripulisco il covo ai conigli, cambio l'acqua.
Se vuoi, d'ora innanzi, sarai tu la custode del pollaio.
A Sempronella par di essere una regina.
UNO DUE TRE
Uno due tre,la trombeita sveglia il re,sveglia il re che vada alla guerra,con i soldati che dormono in terra.Due tre quattro,i soldati che marciano al passosvegliano i frati, che stan nelle celle:intanto su in cielo tramontan le stelle.Tre quattro cinque,in cielo non c'è più che cinque stelline,stelline di pallido argento, non d'oro;e i contadini vanno al lavoro.Quattro cinque sei,s'alza il sole, si svegliano i miei,io son piccino, e dormo ancora,ma babbo è alzato, mamma lavora.Cinque sei sette,squillano tutte le campanelle,cantano i passeri all'orlo del tetto,io caccio i piedi fuori del letto.E sei e sette e otto,solo il pigrone rimane sotto,solo il pigrone sotto rimanementre alla scuola vanno anche le rane.
SCUOLA E FAMIGLIA
Sempronio e Sempronella pregano maestro Saverio
di scrivere subito una letterina ai loro genitori, a mamma
Venusta e a babbo Terenzio, per avvisarli che essi
non torneranno in montagna se non quando avranno
imparato ben bene a leggere e a scrivere.
Cari genitori,
siamo scesi al villaggio e siamo entrati la prima volta
in una scuola.
Il maestro ci ha accolti come fossimo suoi figlioli.
Ci ha detto che in un anno impareremo a leggere e a
scrivere.
Sono insieme con noi tanti fanciulli e fanciulle. Chi
ha i capelli biondi, chi li ha bruni, chi ha le scarpe dicontadino e chi calza gli stivaletti da signore. Ma questo
non importa niente: l'importante è avere voglia di
imparare, e di farsi onore.
Il vostro Sempronio e la vostra Sempronella in capo
a nove mesi di studio vi scriveranno una bella letterina
di loro mano. Ve lo promettono.
Questa è scritta dal maestro Saverio, il quale vi
saluta e vi prega di venire giù al villaggio appena potrete.
I vostri affezionatissimi figli
SEMPRONIO E SEMPRONELLA.
IL GIORNO DEI MORTI
Due novembre, giorno dei morti.
La gente va verso il camposanto. Le donne sono
vestite di panni neri, gli uomini indossano gli abiti migliori.
Ognuno va a fare una visita ai poveri morti.
Il camposanto è adorno di crisantemi; intorno alle
croci si vedono mazzi, fiori sciolti, corone. Si sono spogliati
i giardini per ornare la dimora dei morti; il camposanto
sembra un giardino fiorito.
Là, sotto terra, riposano i babbi e le mamme degli
orfanelli. Dormono i vecchi nonni con le barbe bianche.
Dormono le nonnine che si stancarono di filare. C'è
anche qualche bambino...
Quassù, chi prega, chi piange.
Quando viene la sera, ognuno accende un lanternino
o una candelina sulla fossa dei propri cari. Il camposanto
risplende di lumini come di stelle.
TRE ELMI
C'erano in un camposantotre fosse vicine.Sulle, tre fosseerano tre croci nere.Sulle tre crocierano tre elmi,tre elmi di soldato.Il primo, grigio verde,era d'un italiano.Il secondo, di colore azzurro,era d'un francese.Il terzo, nero, col chiodo,era d'un tedesco.I tre soldatierano caduti in guerra.Così stavano i tre elmisulle croci nere.Le tre croci nerestavano sulle fosse vicine.E i tre morti in guerra,dormivano accantonel camposanto.
SE I COMPITI POTESSERO PARLARE...
Quando i fanciulli vanno alla scuola, hanno i libri
sotto il braccio, o la cartella a tracolla, (come il postino
porta la busta), o la hanno sulle spalle, (come il soldato
porta lo zaino). I fanciulli vanno alla scuola e porgono
al maestro i còmpiti fatti.
Se i còmpiti potessero parlare racconterebbero al
maestro come sono stati fatti. Essi direbbero al maestro
ciò che gli scolaretti non gli dicono.
Ecco un còmpito pieno di errori. Esso fu scritto in
una bella stanzetta calda, alla luce di una magnifica
lampada, da un fanciullo che ha tutte le comodità della
vita. Ma il fanciullo quel giorno era svogliato, ed ecco
perché il suo còmpito è pieno di errori.
Eccone un altro, di bella scrittura e con pochissimi
errori. Esso fu scritto su un tavolino che traballava sulle
quattro gambe, in una cameretta fredda, alla luce di
una lampada a olio. È il lavoro di uno scolaretto povero,
ma pieno di buona volontà, attento e intelligente,
ed ecco perchè il compito è in bella scrittura e con pochissimi
errori.
Eccone un altro, su un foglio gualcito, e con macchie
d'inchiostro. È forse il lavoro d'uno scolaretto negligente
e sbadato? No, il povero bambino non ci ha
colpa. Egli è figlio di povera gente; a casa sua stanno
tutti in una stanza, e una sorellina piccola ha gualcito
il foglio e con la penna lo ha macchiato d'inchiostro. E
lo scolaretto non aveva più fogli per ricopiare il còmpito.
Finalmente, ecco un lavoro perfetto, che merita
dieci. È il più bel còmpito di tutta la classe. Il suo
autore si vanta di averlo fatto. Ma se il foglio potesse
parlare racconterebbe la sua storia vera. Non fu fatto
dal bambino, ma dalla mamma sua che glie lo dettò.
Lo scolaretto si fa bello delle penne dei pavone.
Se i compiti potessero parlare, essi racconterebbero
al maestro ciò che gli scolaretti non gli dicono.
A CAVALLO
1.
Il soldato va a cavallodi un bel cavallo vivo.Si sente per la stradala bestia scalpitare.Sugli usci e alle finestretutti vengono a vedereil soldato che va a cavallodi un bel cavallo vivo.
2.
Ma i bimbi, che piccoli,non ci potrebbero staresu d'un cavallo in groppa,che trotta e che galoppa,Assai meglio è pei bimbiun cavalluccio a dondolo,di legno un cavalluccio,con in groppa una selladi rosso verniciata:biada non mangia.calci non sferra,galoppa in una stanza,e non li butta in terra.
3.
Ma i più dei bimbi non hannonemmeno il cavallo di legno:prendono un bastone, una canna,prendono una frusta che schiocca,e Avanti! galoppa, galoppa!
PIERINA E LA RICOTTINA
Pierina va al mercato a vendere una ricottina. Pensa:
- Vendo la ricotta e ricavo tre soldi. Con tre soldi
compro due uova. Le uova le metto sotto la chioccia
e nascono due galletti.
Li vendo e compro una pecorina che farà due agnellini
Li venderò e comprerò una vitellina che mi darà
due manzi.
Venderò i manzi e comprerò una casini col terrazzino.
Io starò sul terrazzino e la gente mi farà la riverenza:
- Buon giorno, signora Pietrina! -
Così dicendo la sciocchina fa una riverenza e la ricotta
schizza in mezzo alla strada
Queste sono cose che succedono a chi, non avendo
che tre soldini di ricotta, fa i castelli in aria.
STORIA DI CINQUE FIGLIOLI
C'era una volta un babbo, che aveva cinque figlioli.
Il babbo era vecchio e non poteva più lavorare. Era
povero, senza un centesimino in tasca. In casa non c'era
legna per fare il fuoco, non c'era farina per fare il pane.
Un mattino il babbo disse ai suoi:
- Che faremo oggi per tirare avanti?
il figliolo maggiore rispose:
- Lascia fare a noi.
Disse una parolina nell'orecchio a ognuno dei fratelli
e uscì. Egli amava molto giocare alla trottola, ma
quella mattina non giocò alla trottola. Andò da un ortolano
a lavorare, e la sera tornò con un cestino d'erbe
e dí patate.
Al secondo piaceva andare a spasso e far castelli in
aria, ma quella mattina non andò a spasso, nè fece castelli
in aria. Offrì i suoi servizi a un mugnaio ed ebbe
da lui una bella scartocciata di farina.
Al terzo piaceva giocare alla palla, ma quella mattina
non giocò alla palla. Prestò i suoi servizi a un droghiere
e rincasò con una boccetta d'olio e un pacchetto
di sale.
Al quarto piaceva molto leggere e scrivere, ma quel
giorno non potè fare ciò che gli piaceva. Uscì, andò pel
bosco e fruga fruga raggranellò un fascio di stecchi.
Il più piccino avrebbe voluto uscire a far qualche
cosa anche lui, ma rimase a casa col padre a fargli assistenza.
Mentre gli faceva assistenza gli leggeva un
vecchio libro e la lettura distrasse il padre dai tristi
pensieri.
STORIA DEL FANCIULLO STUDIOSO
E DELLA LUCCIOLA
- Luccioletta, che vai col tuo lumino, come uno
che cerchi qualche cosa pei campi, si può sapere che
cerchi nel buio, si può sapere perchè giri con quel lumino
sotto le ali?
La luccioletta non risponde alla domanda del fanciullo.
Ma io, che so la storia del lumino, ve la racconto.
C'era una volta un figliolo di povera gente, che doveva
lavorare tutto il giorno e non poteva prendere
in mano nè un quaderno, nè un libro. Eppure, la voglia
d'imparare era in lui così forte, che la sera, quando i
suoi erano a letto, rimaneva alzato a studiare.
Ma la lucerna si spegneva presto e non c'era più
olio nella credenza, perchè la casa era povera.
Il ragazzo apriva le imposte e leggeva al chiaro di
luna, quando'c'era la luna.
La luna tramontava, il ragazzo provava a leggere
al barlume delle stelle, quando c'erano le stelle.
Ma le stelle sono troppo piccoline e lontane, per far
lume ai ragazzi che hanno voglia di leggere.
Voi sareste andati a letto, ma egli s'addolorava di
non poter leggere.
Una sera d'estate, questo ragazzo era alla finestra e
sospirava:
- Avessi un lumicino! Chi mi porta un lumicino? -
Allora gli volò sul davanzale un insetto, che aveva
sotto le ali un lanternino acceso, a cristalli verdi.
- Ecco il lumino - disse la nuova venuta andando
a posarsi sulla pagina del libro.
- Sei molto gentile - le rispose il ragazzo.
E si mise a leggere.
Ogni tanto interrompeva la lettura per domandare:
- Non ti bruci mica?
- Non mi brucio. Leggi pure.
E il fanciullo tornava a leggere. La luce era poca,
eppure bastava, perchè la volontà era grande.
Il lanternino non si spegneva.
- Quanto durerà? - domandava il fanciullo.
- Durerà tutta l'estate.
- Potresti tornare domani sera?
- Posso tornare, - rispose la luccioletta. - Per un
fanciullo come te farò questo miracolo.
Di fatto tornò tutte le sere, per tutta l'estate. E il ragazzo
leggi, leggi, studia, studia, si fece valente.
Alla fine d'estate la lucciola lo avvertì che non sarebbe
più tornata.
- Ti ringrazio di quanto hai fatto per me. Oramai
non ho più bisogno: le cose vanno meglio in casa. Ora
c'è un poco d'olio per la lucerna. Ma io come ti posso
ricompensare?
- Quando mi rivedrai a primavera - disse la lucciola
- non mi tormentare. E di' ai tuoi compagni che
non mi diano la caccia, che non mi uccidano ma ipiù
le mie compagne.
- Non dubitare.
- Addio.
- E grazie, luccioletta!
La luccioletta benefica se ne andò
Da allora in poi soltanto i bambini cattivi dàanno la
caccia alle lucciole col cappello, e le tormentano e le
uccidono. I bambini gentili le lasciano volare liberamente.
Sono così graziose le lucciole.quando, a sera,d'estate o di primavera,volano, volano col lanterninoche fece lume al bambino,che non aveva olio da accendereil suo lumicino!
SEMPRONELLA FRA GLI UCCELLINI
Il suolo era gelato. La neve, cadendo, infarinava ogni
cosa.
I passerotti, sorpresi nell'ora che sogliono svolazzare
in qua e in là in cerca di cibo, invano scendevano dai
letti a terra, da terra risalivano sui davanzali, pipilando
pietosamente. I più forti saltellavano sulla neve.
i più audaci picchiavano col becco ai vetri delle finestre,
i più deboli rimanevano in cima alla gronda, fermi,
imbozzoliti. cori le piume arruffate dal vento.
Quando Sempronio corse per avvertire la sorella che
la neve fioccava, ella era già in cortile e stava aprendo
il cancelletto del serraglio domestico per recare il becchime
ai polli e il mangime ai conigli.
Appena Sempronella fu entrata, un nugolo di uccelletti
si levò da terra, là dove rasente alla parete, sotto
la bassa grondaia, la neve non s'era posata.
C'erano passeri, cardellini, fringuelli, strillozzi, e fin
qualche lodoletta delle praterie vicine, tutti affamati.
Sempronella così sollecita per i suoi animali domestici,
era altrettanto pietosa verso i liberi e selvaggi
abitatori della campagna, e però, appena buttata la
mondiglia ai polli, e foglie e torsi di cavoli e un pugno
di fineno ai conigli, tornò a casa e andò difilata a un ripostiglio,
dove conservava appeso un mazzetto di spighe
di panìco. Le sgranò e uscì tosto a spargere i chicchi
agli uccellini digiuni.
Da quel giorno, per quanto durò la neve, tutte le
volte che Sempronella si recava a dar da mangiare ai
suoi animalucci, era sempre avvolta da un nuvolo di
uccelletti che aspettavano la loro parte di cibo.
SERATE LUNGHE
Come si sono accorciati i giorni! Si fa sera in un
momento.
Quando i ragazzi escono di scuola bisogna già accendere
la lampada nel tinello, altrimenti non ci si vede
abbastanza per fare il còmpito.
Le serate sono lunghe, eterne, ma si passano allegramente
in compagnia, accanto al fuoco, dinanzi alla
fiamma che ha tante lingue rosse, che parlano, cantano,
zufolano, schioccano.
I rami di vecchio castagno, i giovani quercioli, frassini,
gli abeti hanno ognuno da raccontare le storie dei
boschi dove sono nati.
E i vecchi nonni raccontano anch'essi:
- C'era una volta.... -
TROTTOLINA
C'era una volta una bimbetta che avea nome Trottolina:
rosea come una mela, tonda come una palla.
Un giorno la mamma le disse:
- Trottolina, va a prendere in prestito la padella
da comare Assunta. Voglio cuocere quattro frittelle.
- Sì, mamma, corro subito!
Ma sull'aia Trottolina s'imbattè nel gallo, che la
fermò:
- Chicchirichì, Trottolina, dove vai?
- Vado per i fatti miei.
- Se non mi dici dove vai, non ti lascio passare.
- Oh! - disse Trottolina:-- vado da comare Assunta
a prendere la padella, perchè la mamma vuol
cuocere quattro frittelle.
- Ne darai due anche a me? Se no, ti becco.
- Vieni stasera sull'aia, e le avrai, - rispose Trottolina,
compiacente.
Più oltre il gallo:
- Miau, miau, Trottolina, dove vai?
- Vado da comare Assunta a prendere la padella
perchè la mamma vuol cuocere quattro frittelle.
Le frittelle piacciono anche a me. Me ne darai
due? Se no, ti graffio.
- Vieni stasera, e le avrai.
più in là, Trottolina trovò il cane.
- Bau, bau, Trottolina, dove vai?
- Vado a prendere la padella per cuocere quattro
frittelle.
- Ne darai anche a me? Se no ti mordo.
- Vieni stasera sull'aia, e le avrai.
Più in là il lupo:
- U, u, dove vai, Trottolina?
Trottolina ebbe tanta paura e disse:
- A prendere la padella per le frittelle.
- Bene! - disse il lupo. - Promettimene due, se no
ti mangio!
- Vieni sull'aia stasera, e le avrai.
Trottolina arrivata a casa di comare Assunta, dice:
- La mamma mi manda a prendere la vostra padella
per cuocere quattro frittelle.
Comare Assunta staccò la padella dal chiodo e la
diede a Trottolina.
- Grazie - disse Trottolina e via di corsa a casa.
La sera le frittelle erano pronte. Trottolina si metteva
in bocca la prima, quando udì cantare chicchirichì,
e si ricordò del gallo. Sebbene il gallo fosse stato un
prepotente, Trottolina volle mantenere la promessa.
Prese due frittelle e le buttò per la finestra.
Ma, mentre il gallo allungava il becco, ecco sopraggiungere
il gatto, il quale credeva che le due frittelle
fossero per lui, e in un lampo gatto e gallo s'azzuffarono.
Proprio sul più bello arrivò il cane: e già abboccava
le frittelle, quando gli saltò addosso il lupo, e cane
e lupo s'addentarono.
Allora venne fuori la mamma con un grosso bastone
in mano, e giù botte a destra e a sinistra. Il gallo stramazzò
con la testa rotta: il gatto ci perse i baffi; il cane
ci lasciò la coda; il lupo se ne andò tutto spelacchiato.
Queste furono le frittelle che toccarono a quei prepotenti.
E Trottolina richiuse la finestra e mangiò le frittelle,
e da ultimo, come il suo solito, non potè tenersi dal
leccarsi le dita.
IL LUPO E LA VOLPELA CALDAIA DEL RISO
Il lupo e la volpe s'incontrarono un giorno per un
sentiero.
- Uu! - mugolò ferocemente il lupo, e voleva addentare
l'avversaria.
Ma la volpe furba gli disse:
- Lap! lap! prima ti voglio invitare a pranzo e
poi mangerai me.
- Che mi offri da mangiare?
- Un buon piatto di riso.
- Bene, ma dopo la minestra mangerò te per pietanza. -
La volpe non disse nè sì nè no. Menò il lupo a casa
di un contadino. La massaia era uscita e in cucina
sugli alari bolliva una caldaia di riso.
- Tira giù la caldaia - disse allora il lupo alla
volpe.
- Tocca a te, che sei più robusto - ripicchiò la
furbacchiola.
Il lupo, inorgoglito della lode rispose:
- Hai ragione.
Si fece avanti e con le fauci sganciò la caldaia dal
rampino. Ma la caldaia scottava, e il riso gli si rovesciò
sulle gambe.
Per il che il lupo fuggì via urlando. La volpe, furba,
appena il riso si fu raffreddato sul pavimento, lo
mangiò.
NEL POZZO
Un'altra volta, il lupo s'imbattè nella volpe ed era
ancora così arrabbiato per l'affare del riso, che, senza
darle tempo, le si slanciò addosso per sbranarla.
- Lap, lap...
La volpe fece uno scarto e disse:
- Abbi pazienza, prima di mangiarmi ascoltami.
- Che c'è?
- Voglio indicarti un posto dove, ora che fa caldo,
potrai trovare un'acqua fresca che farebbe risuscitare
un morto.
- Dove?
- Vieni con me.
La volpe menò il lupo in un orto, dove era un pozzo
con due secchie pendenti dalla carrucola.
- È lì dentro - fece la volpe.
- Entraci prima tu - quasi le comandò il lupo,
che temeva si ripetesse il brutto scherzo della caldaia.
- Questa volta non ti befferai di me.
- Ubbidisco - disse la volpe.
Entrò nella secchia vuota, si calò giù, e bevve quanto
volle. Poi dal fondo chiamo il lupo:
Vieni giù anche tu! Mettiti nell'altra secchia.
- Adesso sì - disse il lupo.
Ed entrò nell'altra secchia e calò giù, ma calando
lui ch'era più pesante fece venire su la volpe ch'era
nell'altra secchia.
Quando la volpe fu sull'orlo del pozzo, d'un balzo
saltò fuori e lasciò il lupo laggiù.
- Lap, lap! Anche questa volta te l'ho fatta.
E se ne andò pei fatti suoi.
Il lupo scornato, sentendosi affogare, cominciò a
mandare urla dal fondo del pozzo.
Accorsero alcuni contadini, i quali, tirata su la secchia,
e scoperto il lupo che s'era seduto dentro, gli furono
addosso coi bastoni e lo accopparono.
Il lupo era più forte, ma la volpe fu astuta...
Non so se questa storiaè vera o fu inventata:a me l'han raccontata.e a voi la dò tal quale,e per quello che vale.
LETIZIA DI PASQUA
La campagna si è spogliata della sua tristezza e ha
disteso al sole i suoi abitini nuovi, i suoi abitini più coloriti
e più freschi. Li ha distesi sui prati verdi, li ha
distesi nei giardini, li ha distesi sul mandorlo e sul
pesco, sul pero e sul melo i suoi abitini di fiori bianchi
e rosati. Li ha distesi sulle siepi. che fino a ieri tremavano
di freddo. L'aria è tiepida, il cielo è d'uno smagliante
azzurro.
Stamane per tempo il pollaio, coi canti argentini, ha
annunziato le uova di Pasqua. Le campane si sono
messe a cantare con voci di gioia.
Bel giorno questo è per tutti: l'operaio se ne va a
spasso con la moglie e coi figlioli, il padrone non apre
il negozio nè l'artigiano la bottega; lo studente lascia
dormire i libri negli scaffali: tutto il paese è fuori per
le strade. Quest'oggi non è giorno di lavoro, ma di riposo
e di festa.
NEL BOSCO
Maestro Saverio si mise in capo la berretta rossa,
impugnò il bastone e disse a Sempronio e a Sempronella:
- Questa mattina voglio condurvi nel bosco verde
a vedere le migliaia di foglie danzare sui rami.
Andarono e trovarono tutto più bello del solito.
Era un incanto. Il musco baciava loro i piedi, le
erbe abbracciavano le ginocchia e i fiori accarezzavano
le mani. Gli arbusti e le siepi sfioravano gentilmente
le guance, le altre piante salutavano con le braccia
immerse nell'azzurro del cielo.
Gli uccellini curiosavano e cantavano il meglio che
sapevano, saltellavano e svolazzavano vispi sui rami; i
fiorellini di bosco gareggiavano in bellezza, un soave
profumo giungeva al cuore.
La natura era in festa e i due fanciulli si sentivano
pieni di gioia. Sedettero, e quasi pensavano di
prendere dimora fra quella moltitudine di piante e di
creature liete.
Essi pensavano all'erica e al musco che vivono contenti
coi loro numerosi amici e vicini, in pace e buona
armonia, sotto la rugiada e le ombre protettrici dei
grandi alberi.
Pensavano ai fiori per quali è sempre una festa
quando il sole li tocca, e li scuote il venticello.
Il maestro, disteso anch'egli sull'erba, con la lunga
barba bianca, li guardava contento.
Si sentiva cantare il cucù.
L'inverno è già passato,la neve non è più;torna la primaveraal canto del cucù.
Il cucù, grosso come una tortorella, si rimpiatta tra
i rami e fa cu cu, cu cu, come giocasse a nasconderello.
Gli sciocchi dicono che chi sente gridare il cuculo e
può far sonare in tasca qualche moneta, avrà danaro
per tutto l'anno.
Un altro annunziatore della primavera è la primula,
che in certi paesi si chiama il fiore chiave, il fiore
che apre la porta agli altri fiori; o anche si chiama:
chiavetta del cielo, perchè nel cielo apre le porte alla
primavera.
COSTANZA E PREVIDENZA
Sempronio segue con l'occhio una formichetta che,
spuntata fuori della sua buca, accorre verso il cadaverino
di un bruco. Sempronio le domanda:
- Formichina, formichetta,fuori della tua buchetta,dove corri fra l'erbetta,formichina, formichetta?
E, o miracolo! la formichina gli risponde:
- Fra l'erbetta è morto un bruco,io lo piglio e lo conducopasso passo nel mio buco,or ch'è morto questo bruco.
Sempronio:
- Formichetta, formichina,ma tu corri per la chinatutto il dì dalla mattina:a che fare, formichina?
E la formica:
- Con costanza e previdenzacorro a empir la mia credenzadi lombrichi, e di semenza,con costanza e previdenza.Io non son senza cervello,non fo come la cicala,che durante il tempo bellocanta, canta, canta e sciala....e al venir del tempo bruttonulla ha più, le manca lutto.Io lo so che il tempo bellopassa presto, non è eterno,io non son senza cervello e provvedo per l'inverno:con costanza e previdenzariempio a tempo la credenza...
GIOTTINO PITTORE
A Sempronio piace molto il disegno. La voglia di
disegnare gli venne un giorno che il maestro raccontò
la storia di Giotto. Giotto era un pastorello, che passava
la giornata custodendo le pecore del babbo.
Il babbo le tosava, il babbo le mungeva, il babbo
aveva da fare le ricottine e il formaggio, che andava
a vendere in città. Il babbo era occupato tutto il giorno.
Ma Giotto piccino non aveva nulla da fare mentre
le pecore pascolavano e, per non annoiarsi, si cercava
un bel pietrone di tufo, aguzzava un sasso, e con la
punta del sasso disegnava le pecorine: faceva i ritrattini
agli agnellini. Gli agnellini erano carini, come sono
gli agnellini di tutto il mondo, ma i ritratti che ne
faceva il piccolo Giotto erano belli come non se ne
era mai veduti.
Un giorno che il pastorello disegnava, passò per
quelle parti un pittore. Vide Giottino che con un sasso
faceva niracoli. Le pecore che disegnava parevano
vive. Il pittore capì che Giottino era un ragazzo di
grande ingegno: andò dal suo babbo, ed ebbe da lui
il permesso di condurre il fanciullo a studio in città.
A Giotto rincrebbe molto di lasciare il babbo e le
sue pecorine. Ma fu felice di andare alla scuola di un
grande pittore. Il babbo veniva a trovarlo spesso, e
Giottino gli faceva vedere i suoi lavori, sempre più
belli. In città vedeva molta gente e faceva i ritratti
agli uomini. La notte sognava gli angeli e il giorno
faceva i ritratti agli angeli. Sognava le Madonne con
Gesù in braccio, e faceva le Madonne belle come il sole.
Tutti lo chiamavano, tutti volevano che facesse dei
quadri: e i quadri di Giotto riempivailo i palazzi e le
chiese. I più grandi artisti andavano a vederli. I più
ricchi mercanti volevano comperarli. Giotto diventò il
più celebre pittore del tempo.
Le sue pecorine di carne chi sa dove andarono a
finire.
Suo padre, poveretto, diventò vecchio, e morì.
Anche Giotto, quando ebbe molto lavorato morì.
Ma il suo nome non morì mai. E alcune delle sue
pitture si conservano ancora e sono fra le più belle
del mondo.
SEMPRONIO DISEGNA
Anche a Sempronio venne la voglia di disegnare.
Quando non aveva nulla da fare, prendeva un foglio
di carta e una matita, e si metteva a copiare ora una
cosa ora un'altra.
Un giorno disegnava un albero: schizzava il tronco,
i rami, le foglie. Un giorno disegnava un fiore, una
rosa o un bel papavero. Se egli avesse avuto una scatola
di colori avrebbe anche dipinto; ma pensando a
Giotto, che cominciò a disegnare sul tufo, Sempronio
si accontentava di avere carta e matita.
Egli era pieno di buona volontà. Non faceva i miracoli
di Giotto, ma ognuno fa quello che può. Ed egli
era contento, perchè il disegnare gli serviva a molte
cose: a non stare mai in ozio e ad osservare gli oggetti
meglio che non faceva prima quando non disegnava,
e meglio che non facciano di solito gli altri
bambini, i quali guardano tutto, ma vedono poco.
Tutti i bambini sanno che il cane e il gatto hanno
due orecchi. Ma solo Sempronio sapeva come sono gli
orecchi dei gatti, e quante forme hanno gli orecchi dei
cani. Egli lo sapeva perchè osservava. E osservando gli
oggetti per disegnarli, il disegno era per lui una istruzione.
IL RITRATTO RIUSCITO MALE
Un giorno Sernpronio fece il proprio ritratto, si mise
davanti a uno specchio e comincio a disegnare. Prima
la testa, i capelli, gli occhietti, il nasetto, la bocca, il
mento, i padiglioni degli orecchi; poi il collo, il petto,
le braccia, le mani, e più giù le altre parti della persona.
Cercò di fare del suo meglio, e appena ebbe finito
corse da Sempronella, le mostrò il disegno e le
domandò:
- Di chi è questo ritratto?
Sempronella guardò curiosa, e capì che era il ritratto
di un fanciullo; ma non s'accorse che assomigliava
a Sempronio, e non seppe dire altro che:
- Mi pare il ritratto di un ragazzo qualunque.
Sempronio si sentì mortificato. Ebbe un moto di
impazienza, stette lì lì per dire alla sorella una brutta
parola; ma tenne a freno la lingua, stracciò il disegno
e andò a chiudersi in camera, come un povero Giottino
riuscito male. Sedè al tavolino, si prese la testa fra le
mani, e cominciò a pensare che era molto difficile fare
il proprio ritratto. A un punto gli venne un'idea.
- Il mio ritratto voglio farlo con le parole. Proviamo
se riesco meglio.
E giù a scrivere
RITRATTO RIUSCITO BENE
«Io ho nove anni. Mi chiamo... I miei capelli sono
color castano, lunghi e ricciuti. Ho due occhi bruni
come il babbo. La mia bocca non è troppo grande,
ma se la spalancassi ci starebbe dentro una albicocca. I
denti sono piccoli e bianchi. Sono bianchi anche perchè
li lavo ogni mattina. Qualcuno me ne manca, ma
sono sicuro che un bel giorno spunterà e si metterà
in fila con gli altri. La mia voce non so come descriverla.
Quando sono contento mi pare dolce dolce. Ma
se mi stizzisco con mia sorella, la mia voce non piace
a nessuno.
Insomma non credo di essere un brutto ragazzo.
Vado a scuola e mi piace molo studiare. Quando ho
un po' di tempo libero, mi diverto a disegnare. Ma
non sono Giotto, e una volta che provai a fare il mio
ritratto, mia sorella disse che era il ritratto di un ragazzo
qualunque».
Appena ha finito di scrivere, Sempronio corre dalla
sorella, le porge il foglio e le dice:
- Leggi e dimmi chi è...
Sempronella legge ed esclama:
- Ecco un ritratto che t'assomiglia. Pròvati a fare
il mio!
MIA SORELLA
«Sempronella ha un anno meno di me. È di poco
più piccola, di poco più grassottella. I suoi occhi sono
grandi e azzurri, con le ciglia nere. Sono gli occhi e le
ciglia della mamma. Una volta ho veduto mia sorella
piangere (una volta sola!) e grosse perle le cadevano
dalle pupille sulle guance. Essa ha il naso piccolo, che
guarda all'insù. I suoi capelli sono biondi, lunghi, lisci,
più fini dei miei. Sempronella ha una boccuccia dove
entra una ciliegia, non un'albicocca. Le mani e i piedi
sono più piccoli dei miei. Essa ha il passo più leggero,
la sua voce è più delicata della mia, ed ella è tutta più
gentile di me.
Mia sorella mi sembra molto graziosa, anche quando
mi fa il broncio. Ma non le càpita spesso di farmi
il broncio, e la colpa è sempre mia.
Mia sorella è allegra, canta come un uccellino, e
sorride per nulla. Ma è molto riflessiva.
Mi pare che mia sorella sia migliore di me, e desidero
che anche chi non la conosce sia del mio parere».
IL VOSTRO RITRATTO
Ognuno di voi provi a fare il proprio ritratto.
Chi vuol disegnarlo a penna o a lapis, avanti, ci si
provi! Ma credo che ognuno di voi farà uno sgorbio.
Riuscirete meglio se farete, come Sempronio, un ritrattino
a parole.
Non importa avere gli occhi azzurri o bruni, avere i
capelli biondi o castani; importa essere più o meno
buoni, più o meno bravi. Fate dunque il ritrattino dei
vostri difetti e delle vostre virtù.
IL CIECO DI GUERRA
C'era una volta un bravo giovanotto; si chiamava
Pinotto. Aveva vent'anni, faceva l'intagliatore. Quindici
anni aveva studiato, quindici anni aveva lavorato
per imparare la propria arte. E studia che studia, lavora
che lavora, prova e riprova, a vent'anni era maestro
nell'arte dell'intaglio.
Venne la guerra, dovè andare soldato. Lasciò a mezzo
i suoi lavori, chiuse la bottega. Lo mandarono in
caserma. In caserma lo vestirono con panni grigio-verdi,
gli misero un elmetto in testa, gli diedero un fucile
in mano, e dopo qualche mese lo mandarono in
trincea. Pinotto si disse: «Farò il mio dovere»; ma
facendo suo dovere pensava alla bottega e ai ferri
del mestiere.
Un giorno cade una bomba sulla trincea. Pinotto fu
ferito alla testa. Urlava pel gran male; lo portarono
all'ospedale. Ma egli non vedeva più niente; era cieco,
era cieco, per sempre! Allora pianse, pianse tanto! Non
piangeva pei suoi occhi, piangeva per la sua arte. Quindici
anni aveva studiato, quindici anni aveva lavorato,
per essere un maestro nell'arte dell'intaglio! Ora
tutto era finito, non poteva più vedere, non poteva più
lavorare! Lo mandarono a casa.
Quando fu a casa si fece coraggio. Si fece condurre
nella bottega, riprese i ferri in mano, li riconobbe
a uno a uno: prese un pezzo di legno, cominciò
un rozzo disegno, intagliava e tastava: qualche cosa
venne fuori. Il suo cuore si aprì alla speranza. Il giorno
dopo volle riprovare. A poco a poco si rifaceva la
mano, ricominciava a lavorare; il lavoro gli veniva,
ma non ancora come una volta!
Ma Pinotto si disse: «Ci vorrà tempo e pazienza;
ci ho messo quindici anni quando avevo gli occhi
buoni». E ogni giorno tornava da capo, ricominciava
a studiare la sua arte. E faceva sempre meglio, lavori
sempre più fini. Pareva ci vedesse con gli occhi di
una volta. E studia che studia, lavora che lavora, e
prova e riprova, dopo un anno di pene s'accorse con
gioia che nell'arte dell'intaglio era tornato maestro, quasi
come una volta!
AL MULINO
É una bella giornata.
Dice Sempronio:
- Andiamo a trovare compare Festo, e così si vede
il mulino!
- Andiamo, io non ho mai visitato un mulino, -
salta su Sempronella - e chi sa che il mulinaro non
mi dia un po' di crusca per le mie galline.
Sempronio afferra un bastoncello, Sempronella si
butta sulle spalle un fazzoletto, e sono in cammino.
La strada si svolge tortuosa fra boschi di castagni.
A un punto, i due viatori incontrano una donna con
una gerla sulle spalle.
- O quella donna, dite, si va per qui al mulino?
- Andate sempre avanti, fino a che non troviate
un sentiero a destra; seguitelo e sarete al mulino.
- Grazie, buona donna.
Ecco il sentiero che volge a destra. Semipronio e
sempronella si guardano e sorridono arrossendo. Perchè?
Si rammentano di quando, prima di andare a scuola,
non conoscevano nè la destra, nè la sinistra, e questo
lontano ricordo li empie ancora di vergogna.
- Che bel sentiero! - esclama Sempronio.
Di fatto, il sentiero che corre all'ingiù verso il fondo
della valle, è circondato di alti castagni, di noci,
di virgulti, di noccioli, di salici e di altre piante acquatili,
che empiono la scena dei colori dell'autunno.
Che cos'è questo rumore? - domanda Sempronella,
soffermandosi ad ascoltare.
- È l'acqua del ruscello che precipita - risponde
Sempronío, dopo avere osservato una striscia d'argento
che riga i prati e scompare giù in fondo tra
le piante. - Il mulino non deve essere molto lontano.
- Eccolo là! - esclama poi il fanciullo, accennando
una casupola chiusa e silenziosa, con una gran ruota
nera che gira a uno dei suoi fianchi.
È il mulino davvero.
Viene fuori un cane e abbaia. Poi s'affaccia il mulinaro
tutto impolverato dí bianco.
- Compare Festo, buon giorno! Il maestro vi
saluta - dice Sempronio. - Veniamo a vedere il mulino.
Compare Festo rabbonisce il cane e porge la mano
ai ragazzi. Egli è ben contento di condurli a vedere il
suo piccolo mulino.
- Questa è la ruota che gira sempre finchè c'è
acqua e fa muovere la mola. Sotto la mola si butta il
grano a stritolare e si uscire dalla gramola.
L'interno del mulino di compare Festo è piccolo e
curioso. S'ode il rumore continuo delle ruote che girano,
il chiocchiolìo dell'acqua che cade. La luce viene da
una finestrella e dalla porta. ln un canto, sulla bocca
di un sacco, c'è un gatto accovacciato, come se avesse
freddo, poichè nella valle del mulino fa molto freddo.
Tutto il giorno compare Festo è là che sorveglia le
ruote, ed empie e vuota i sacchi.
Quando non ha nulla da fare, prende un libro e
legge. Per questo egli ha un cervello pieno di storie.
IL CACCIATORE
A una parete del mulino è appeso un fucile.
Compare Festo, come quasi tutti gli uomini dei campi,
è un gran cacciatore.
- Venendo giù, l'avete incontrata la lepre? - domanda
egli ai ragazzi.
- Noi, no.
- È passata qui davanti poco prima che voi arrivaste.
- E perchè non avete tirato? - domanda Sempronio,
che avrebbe un gran desiderio di vedere tirare
«un colpo».
Compare Festo risponde:
- Non ho fatto a tempo a staccare il fucile dal
chiodo.
- Correva lesta, la lepre? - domanda curiosetta
Sempronella.
- Veniva giù trotterellando; appena mi ha veduto
si è messa a galoppare con quelle gambette lunghe di
dietro, che pareva una saetta.
- Ci sono molte lepri da queste parti?
- Ormai, con tante bocche di fucile che vanno in
giro, ce n'è rimaste poche. Ma ad averci un buon cane
e ad andarsene in giro di prima mattina, qualcuna
se ne scova.
Ciò detto, compare Festo solleva un sacco ammezzato
di grano e lo rovescia nella tramoggia.
I chicchi precipitano scrosciando.
IL GIORNO DEL RIPOSO
I nostri due ragazzi tornarono da compare Festo
qualche giorno dopo, un pomeriggio. Scendendo la valle
udirono il noto rumore del ruscello che scorreva per
la china, ma, giunti davanti al mulino, lo trovarono
chiuso, con la ruota immobile. l ragazzi bussarono all'uscio,
nessuno rispose. Allora disse Sempronio:
- Non abbiamo pensato che oggi è domenica, e
anche il mulinaro riposa.
Dolenti essi stavano per andarsene, quando abbaiò
loro incontro il cane, e poco dipoi comparve compare
Festo, tendendo le braccia in segno di affettuosa accoglienza.
Tutto vestito a festa, con una cravatta azzurra
sotto il mento, un largo cappello calcato sulla
fronte, egli era più allegro del solito.
- Bravi, bravi! M'avete fatto un regalone. La domenica,
sapete, non si lavora; un giorno di riposo su
sette ci vuole. Fa bene al corpo, fa bene all'anima.
Io chiudo il mulino, e dò la via all'acqua: quella non
si ferma mai, non ha domenica, quella! Io, invece, ho
bisogno di un po' di svago, e sapete quale?
- Quale, quale? - domandarono i ragazzi.
- La pesca ai gamberi!
PESCA IN ACQUA DOLCE
Si pesca.
Sempronio, Sempronella e compare Festo non lasciano
più vedere che la schiena, tanto sono curvi sulla
gora.
Hanno aspettatole prime ore del crepuscolo (in fondo
alla valle il sole muore presto), l'ora nella quale i
gamberi escono fuori dei loro nascondigli.
E ora, ognuno con un virgulto di salice in mano, in
capo al quale è legata la carne di un pesciolino mezzo
fradicio, attendono, spiano, col respiro sospeso, con il
cuore che fa... bum..., come si trattasse di dare la caccia
al leone.
Per un pezzo non appare nessuno. Lo specchio dell'acqua
è immobile.
Nel fondo molto basso si contano le pietruzze, le foglioline
morte, ma non passa l'ombra di un gambero.
Il venticello, scherzando tra le foglie dei salici che ombreggiano
la gora, pare che zufoli a bassa voce una
canzone ironica sul capo dei nostri tre pescatori. I gamberi
rimangono tappati in casa.
No: ecco, un usciolinos'apre, e un primo gambero
esce lento e guardingo, camminando all'indietro.
L'esca di compare Festo gli pende quasi sul capo:
l'incauto allarga le pinze, afferra il boccone, e in quella
che lo stringe per portarselo via, il virgulto si solleva
con uno strappone e il gambero anch'esso uscito dall'acqua
va a ruzzolare lì presso nel prato. I ragazzi gli
sono sopra e lo vedono sgambettare.
- A posto, a posto! - ingiunge compare Festo.
Ed ecco di nuovo le tre schiene chine sulla gora
e le braccia tese.
Ora i gamberi escono fuori a due a due, a tre a tre,
come fosse l'ora della passeggiata. Vanno a spasso, vedono
il boccone, abbrancano e... zumpete nel prato! In
un'ora se ne è empita una bella rete.
UN CURIOSO ANIMALE.
Di tutti gli animali sono io forse il più strano,quel ch'ebbe da natura il cervel più balzano:poichè di dieci zampe essendo pur fornito,a fare un passo avanti non son mai riuscito.
IL PONTE DEI BUGIARDI
Tornando a casa, compare Festo narrò ai fanciulli
una storiella.
Una volta due viandanti facevano la strada insieme;
uno veniva di paese lontanissimo e diceva cose mirabolanti
della sua terra: l'altro era del luogo.
Mentre procedevano conversando, una lepre attraversò
la via. Il paesano, ch'era cacciatore, mise un grido,
e non si poteva dar pace di non avere il fucile.
- Oh! - esclamò il compagno - vi meravigliate
tanto per aver visto una lepre così piccola? Da noi
sono grosse come i daini!
L'altro, a sentire quella bomba, si tenne a pena
dal ridere, e, per dare al compagno una lezione, ribattè:
- Da noi c'è ben altre meraviglie!
- Quali, per esempio?
- All'entrata del prossimo paesello, c'è un bellissimo
ponte, costruito da un re antico, che dicono fosse
un mago. Chi lo passa con qualche bugia sulla coscienza
e non la confessa prima, si leva un vento improvviso
che lo solleva e lo sbatte in fondo al torrente.
Il forestiero guardò stupito il paesano, poi diventò
pensoso, e, fatto ancora alquanto di via, si volse domandando:
Quanto siamo lontani da quel ponte che dicevate
ora?
- Non molto, amico, - rispose indifferentemente
l'interrogato.
- Ho fatto così per dire, sapete? ma le nostre lepri
non sono proprio come ì daini: sono come le pecore.
E l'altro zitto. Andarono ancora un poco, e il millantatore
tornò a domandare:
- Quanto ci corre di qui a quel ponte?
- Ci corre un miglio.
- Ho fatto per dire, sapete. ma le nostre lepri saranno
grosse quanto un cagnolo.
E il paesano muto come un pesce.
Ma ecco apparire in fondo alla strada il terribile
ponte. Il forestiero rallentò il passo.
- Ci siamo, amico; vedetelo là.
- Ho fatto così per dire, sapete, - riprese l'altro
fermandosi - ma...
- Ma - interruppe vivamente il paesano - le
lepri sono grosse da voi come da noi; solo i bugiardi
sono molto più grossi. Andate pure adesso, e passate
sicuramente il ponte.
E lo piantò lì, prendendo per una via traversa.
LA COTTURA DEI GAMBERI
Tornano a casa i ragazzi con il frutto della bella
pesca.
Maestro Saverio li attende un po' impazientito, poichè
le prime ombre della sera sono calate.
- Credevo vi foste sperduti.
- Oh, no! - risponde Sempronella. - Abbiamo
pescato in compagnia di compare Festo.
- Oh i bei gamberi! - esclama il maestro, che ne
è ghiotto. - Bisogna cuocerli subito.
- Li coceremo. Ho la mia ricetta.
E la brava bambina si mette subito a sfaccendare
in cucina. Ella vuole ammannire un buon piatto pel
suo caro maestro. Che cosa non farebbe per lui! Ella
è chinata sul paiolo e guarda. I gamberi mutano colore,
mettono su una veste rossa. È segno che sono cotti.
Entra Sempronio e dice:
- Ho preparato la tavola. Sono pronti cotesti gamberi?
- Pronti! - esclama la cuoca, sollevando il paiolo.
Di lì a poco i gamberi fumano sotto la lampada
accesa.
C'ERA LA GUERRA
C'era la guerra. Il babbo dovè andare.Prese lo zaino, l'elmo, la baionetta:lasciò il figlio e la moglie diletta.Passa l'inverno, la primavera, l'estate.buone notizie vengono del babbo lontano.Benchè la vita del fronte sia dura,il babbo scrive che è in buona salute,e ai suoi di casa raccomandache vivano in buona speranza.Ma vivono in pena il figlio e la mamma,La guerra è lunga, mai non finisce,da quasi un anno il babbo è partito.Essi ogni giorno attendono il suo ritorno.Un giorno il figlio legge sui giornali,che c'è stata una grande battaglia.Il babbo non scrive da una settimana:il figlio s'attrista, la mamma piange.Hanno ormai perso tutte le speranze.Ma finalmente giunge una lettera del babbo:dice che c'è stata una grande battaglia,che s'è preso una ferita, ma presto ritornerà!
SCHERZI DELLA LUNA
La lana è burlona. Certe sere ella appare rotonda.
come un disco: altre volte somiglia a una falce. Quando
la luna è piena par di vederci disegnata la faccia di
un uomo, col naso, gli occhi e la bocca. La genie dice
che quella è la faccia di Caino.
Una sera la luna fece uno scherzo a Sempronella.
Il maestro le aveva detto:
Va' in cucina a prendere un bicchiere d'acqua.
Sempronella ubbidì, ma eccola tornare senza bicchiere
e smorta di paura.
Che li è accaduto?
Signor maestro, in cucina c'è un fantasma vestito
di bianco.
Il maestro prese il lume e ridendo disse:
Vieni, vieni, andiamo a prendere il fantasma.
Il maestro andò in cucina verso il luogo indicato
dalla fanciulla e non trovò altro che un panno bianco,
disteso sulla spalliera d'una seggiola, sul quale batteva
in pieno la luce della luna. Il panno s'era agitalo quando
Sempronella aveva aperto l'uscio e così la fanciulla
aveva veduto un fantasma!
CIÒ CHE FA IL SOLE
Io sono il primo ad alzarmi la mattina, perchè ho
da sbrigare una quantità di faccende.
Ricaccio nei nidi oscuri i pipistrelli, i gufi, le civette,
e invito ai canti i passeri, i fringuelli, i pettirossi, le
cincie.
lo debbo riscaldare la terra e l'aria perchè nessuno
muoia ghiacciato. Debbo penetrare col calore nel terreno
e aiutare il seme a germinare, debbo far crescere
gli steli delle messi, i tronchi delle piante; debbo accarezzare
le gemme perchè diano le foglie e i fiori, debbo
curare i fiori perchè maturino i frutti.
Guai se io non sciogliessi le nevi sui monti, non spazzassi
i geli, non rompessi le nebbie, non guidassi le nuvole
lungo gli azzurri sentieri del cielo!
La vegetazione perirebbe, gli animali non troverebbero
nutrimento.
Passato il meriggio, io comincio a discendere. La
luce d'ora in ora si fa più debole, e, lento lento,
calo all'orizzonte, nel punto opposto a quello da cui
mi sono levato la mattina.
Si direbbe ch'io scompaio per non più apparire.
La mattina dopo sono di nuovo il primo a levarmi.
IL SOGNO DI SEMPRONELLA
Sempronella dorme.Dorme e sognache filare le bisognadi stoppa una montagna,per poi tessere una rete,una rete grande grande:che nel cielo si spandee ci si pesca la luna...Fila, fila, fila.poi tesse la gran rete,che ha maglie cento mila,Mai si vide la più grandenè in terra nè sul mare.È proprio una reteda pescarci la luna...Ora sogna la fanciulladi gittarla su nel cielo.In alto in alto in altoil vento gliela porta,gliela portano le nuvole.Ma la luna è lontana,non si lascia arrivare;cammina la luna, cammina,non si lascia pescare.Più la rete le va vicinae più grande si fa la luna...Sempronella in sogno pensache la luna è assai lontana,sembra piccola ed è immensa:non si pesca con la rete.In sua vece la fanciullapensa di pescare il sole...Esce questo all'orizzonte,sembra sia più assai vicino,sembra sia lì su quel monte.Crede proprio di pescarloil bel disco rosso e d'oro.Ma il sole è più lontano,più lontano della luna,non si lascia arrivare,e cammina e cammina,non si lascia pescare;più la rete gli va vicinae più grande si fa il sole...Si fa grande grande grande,riempie tutto il cielo:sulla terra si spande,entra per la finestra.Sempronella si desta,tra le beffe del sole...
LA PIENA
Piovve e piovve. Dopo alcuni giorni il fiume ruppe
gli argini e allagò un vasto tratto di campagna.
Eccola, eccola, la fiumana!
I contadini a fuggire, tirandosi dietro le mucche, e
l'acqua a inseguirli, a entrare nelle case abbandonate,
a invadere le cantine e le stalle.
In una casa c'era un povero vecchio paralitico, che
non poteva più scendere di letto. Rimase con lui un
uomo della famiglia, finchè vennero i soldati con una
zattera e li salvarono tutti e due.
L'inondazione durò tre giorni e i campi tutto all'intorno
si mutarono in laghi pantanosi. Poi, per buona
sorte, la pioggia cessò, il fiume andò scemando rapidamente
e rientrò nell'alveo.
Ogni anno, in primavera e in autunno, s'odono brutte
notizie di inondazioni, e a volte muoiono intere famiglie:
rovinano case, e vasti campi ubertosi rimangono
sepolti sotto un lenzuolo di fango.
LA BARCHETTA
Piegano e ripiegano il foglio, ed ecco, i due fanciulli
hanno fabbricato una leggera, candida barchetta.
ll fiume corre veloce sotto i loro sguadi, e sulle onde
che si inseguono essi gittano la minuscola imbarcazione;
essi varano con grida di gioia il vascelletto di carta,
destinato a una rapida corsa e a un certo naufragio.
La carta non regge alla foga impetuosa del fiume, l'acqua
la bagna e la inzuppa: ben presto i bordi immollati
cedono, la navicella perde a poco a poco la sua forma
slanciata, fino a che un'onda più alta delle altre la copre
di un suo fiotto, la sommerge miseramente. La barchetta
è perduta!
Non aveva nè remi nè vela: non aveva nè passeggero,
nè capitano, nè pilota: era una qualunque barchetta
di carta, di quelle che fanno i fanciulli sulle
sponde dei fiumi e sulle rive del mare. Essa ha durato
quanto dura un piccolo gioco.
La carta con cui l'avevano fabbricata era scritta;
una mano di fanciullo aveva vergato sulle linee
tante parole, l'una dietro l'altra: e le parole formavano
un componimento di scuola. In fondo, il lapis azzurro
del maestro ci aveva stampato un bel nove, perchè
il componimento era bello, con una sola dimenticanza
di punteggiatura. E l'acqua ha stemperato e disciolto
tutta la bella scrittura, il componimento è affondato
insieme con la carta della barchetta, insieme
con quel bel nove azzurro che s'era meritato.
Nessuno versa lacrime su questo naufragio. Anzi i
fanciulli ridono del proprio gioco e dello scherzo del
fiume.
Ma ci sono barche fabbricate col legno e bastimenti
rivestiti d'acciaio, che un bel giorno prendono il mare
e vanno coi remi e con le vele e col vapore, e giungono
sulle onde in tempesta, e lottano, lottano disperatamente
con la furia dei venti e dei marosi, e al fine devono
cedere alla burrasca. Gli alberi cadono schiantati, i
remi vanno in frantumi, le macchine si guastano, il
pilota abbandona il timone, il capitano non sa più che
ordini dare, i marinai si vedono perduti, tutti piangono,
gridano, implorano: la imbarcazione è perduta, galleggia
in balia delle onde, corre alla deriva, sbatte contro
gli scogli, va in frantumi, ed è la morte per tutti!
La violenza dell'acqua è tremenda. Al paro della
carta, ad essa cedono il legno ed il ferro. E come affonda
il piccolo componimentino di scuola, affondano a
decine e decine i corpi e le vite degli uomini, e le sostanze
e i tesori.
IL CONTADINO E LA SCUOLA
C'era una volta, in un paese lontano lontano, un povero
contadino che aveva tre figli. Il maggiore si chiamava
Rustico, il secondo Domestico, e Desiderio il terzo.
Essi avevano dai sei ai nove anni, e crescevano
senza istruzione, perchè il loro babbo non aveva mai
voluto che andassero a scuola.
- Io non ci ho mai messo piede, e non voglio che ci
andiate voialtri: camperete anche senza sapere nè leggere
nè scrivere.
RUSTICO
Alla volontà del babbo Rustico aveva fatto un viso
di festa: egli non desiderava di imparare a leggere nei
libri.
La sua vita era in mezzo ai campi, fra i giochi e
le corse, e gli piaceva molto più andarsene a caccia di
nidi, o prendere a sassate le lucertole che si trastullano
al sole sui muriccioli o che vanno a spasso sulle siepi di
more, che non rinchiudersi tra le pareti di una scuola
a prendere una penna in mano.
Rustico era soddisfatto e contento di avere in sorte
un babbo simile. E quando incontrava un compagno
di ritorno dalla scuola, con la cartella dei libri sotto il
braccio, un po' lo compiangeva, un po' lo beffava, ma
finiva sempre con l'esclamazione:
- Che bravo babbo ho io!...
DOMESTICO
Domestico, il secondo, era un ragazzo ubbidiente e
tranquillo, ma senzavolontà. Egli passava il giorno aiutando
il babbo e la mamma. Se suo padre gli avesse
detto: «Domani andreai a scuola», egli non avrebbe
fatto opposizione, ci sarebbe andatodi buona voglia.
Ma il padre aveva detto anche a lui: «Io non voglio
che tu perda tempo a scuola; preferisco mi dia una
mano nei miei lavori». E Domestico ubbidiva.
Ma quando incontrava un compagno di ritorno dalle
lezioni, con la cartella dei libri sotto il braccio, non lo
compiangeva, nè lo beffava. Diceva solamente:
- Se mio padre mi ci mandasse, studierei volentieri
anch'io.
DESIDERIO
Chi soffriva era il più piccolo. Desiderio.
Egli aveva una gran voglia di studiare, di leggere
libri: la vista dei compagni che sapevano tante cose
ch'gli ignorava, lo mortificava, talvolta lo faceva piangere.
Egli diceva tra sè e sè:
- Come sono sfortunato! Sento che studierei senza
fatica, e in casa non vogliono accontentarmi!
Desiderio non se la sentiva di disubbidire al padre,
ma siccome era pieno di buona volontà, approfittava
delle ore libere per farsi insegnare qualche cosa dai
compagni.
Chi gli insegnò a leggere le vocali, chi gli insegnò
a leggere le consonanti, e chi gli insegnò a leggere i
numeri. Così un po' per giorno a forza di buon volere,
si dirozzava.
Ma egli avrebbe voluto fare ben altro!
IL MINISTRO DEL RE
Capitò un giorno a passare da quelle parti un Ministro
del Re.
Vide Desiderio ch'era molto triste, e gli domandò:
- Che hai?
Il fanciullo rispose:
- Vorrei andare a scuola e non posso.
- Perchè non puoi?
- Mio padre non vuole.
- E perchè tuo padre non vuole?
- Dice che la scuola è lontana e perderei troppo
tempo fra andare e tornare.
- È vero, - disse il Ministro, - la scuola è molto
lontana. Se ne fabbricassimo una più vicina, che direbbe
tuo padre?
- Non mi ci manderebbe, perchè dice che imparare
a leggere e a scrivere è un perdere il tempo. E
io non posso disubbidire a mio padre.
- Tu sei un figliolo ubbidiente, - esclamò il Ministro.
- Ma lascia fare a me: troverò il modo di renderti
contento.
Lo salutò e se ne andò.
LA LEGGE
Il Ministro chiede un'udienza al Re e gli espone il
fatto.
- Maestà, bisogna provvedere, non soltanto per
questo fanciullo, ma per altri che, come lui, non possono
frequentare le scuole.
- Fate la legge, - rispose il Re.
Difatto, fu scritta la legge e presentata al Re per
la firma.
La legge diceva che in tutto il paese si sarebbero
aperte nuove scuole, vicine agli abitanti, di modo che i
ragazzi potessero frequentarle. In queste scuole svrebbero
insegnato maestri e maestre che volessero bene ai
fanciulli. In queste scuole si sarebbero letti i più bei
libri del mondo.
- Adesso i ragazzi del mio regno saranno contenti,
- disse la maestà del Re.
E stava per firmare, quando il Ministro ripensò al
caso del piccolo Desiderio, al quale suo padre non
avrebbe permesso di andare a scuola, perchè s'era impuntato
su quella idea storta che le scuole non servissero
a niente.
- Un momento, Maestà. Bisogna aggiungere un ordine
a questa legge: «Che tutti i genitori siano obbligati
a mandare propri figlioli alla scuola». Ce n'è qualcuno
che non vuol saperne.
- Possibile?! - esclamò il Re.
- È proprio cosi, Maestà.
Allora il Re aggiunse di suo pugno quell'ordine e
la legge fu bandita.
Da allora molto tempo è passato in quel lutese lontano.
Molte scuole furono costruite nelle città e nei villaggi.
Molti maestri e molte maeste hanno consumato
la loro vita nell'insegnare. Molti bei libri sono stati
scritti e stampati per fanciulli. E non c'è più babbo
che non voglia mandare i suoi figli a scuola.
E quanto a costoro, se essi assomigliano a Desiderio
o a Domestico, vanno a scuola come andrebbero a festa:
se assomigliano a Rustico, fanno qualche smorfia e qualche
lacrimuccia le prime volte, ma sono lacrime che
asciugano presto!
OMOBONO E CATTIVERIA
Omobono il secondo, il primo Cattiveriaeran fratelli, nati nella stessa miseria.Il babbo era pastore, la mamma era assai vecchiae tutto il dì filava nella sua catapecchia;filava sino a notte la lana bianca e nera,che davano le greggi tosate a primavera.Sin che fu vivo il padre, le cose andaron bene:di bianco fior di latte eran le secchie piene;cresceva in alte pile il cacio pecorino,che il babbo poi vendeva al mercato vicino.Non c'era da scialare, non dico questo, ma...vivean meglio di tanti che scialano in città...Ma il babbo s'ammalò d'una puntura al petto,presa una notte, fuori, e morì, poveretto!Restarono le greggi, restò la mamma vecchia,i due ragazzi, Fido, la rozza catapecchia.Per lunghe e lunghe sere la vecchia lasciò il fuso...S'udian lunghi singhiozzi, e le pecore il musotenevan chino a terra, tutte smarrite in core,per non veder più l'ombra cara del lor signore.Fido uggiolava in casa, come un anima in pianto,e facea strane gite attorno al camposanto.Non c'era più di babbo che la memoria buona,e i panni di frustagno senza la sua persona.Passati alcuni giorni, il fratello minoresi rasciugò le lacrime (ma gli piangeva il cuore);mamma riprese il fuso (lo prillava pian piano;e pensando al suo uomo le tremava la mano).Ma il grande, che rimasto era sempre in un canto,in volto rabbuiato, con gli occhi senza pianto,mentre Omobono stava per uscire col greggein piedi s'alzò, il tristo! e volle dettar legge.- «Ora che babbo è morto, il padrone sono io:tutto quello ch'è in casa, pecore, roba, è mio!Pur vi lascio due pecore, di più la catapecchia:a te perchè sei piccolo, a mamma perchè è vecchia».La mamma ed Omobono si cercaron con l'occhio:ad essa cadde il fuso, a lui tremò il ginocchio.Sentir quelle parole fu peggio che morire,ma non dissero nulla: lo lasciaron partire.Egli lasciò nel chiuso due pecore soltanto,Due pecorelle nere, accucciate in un canto.E tutte l'altre ormai erano già lontane,quand'egli tornò addietro, chè voleva anche il cane!E lo cerca per tutto, lo chiama, lo minaccia,ma Fido s'è nascosto, non se ne trova traccia.Solo quand'egli è fuori, quand'egli è ben lontano,il cane sporge il muso di sotto un canterano.Passò lento l'inverno, coi ghiacci e con le nevi,con le nottate lunghe e le giornate brevi.Dinanzi alla fiammata si raccogliean la serala mamma ed Omobono, e fuori, la buferarauca strideva. I due si chiedevano spesso:«Dove sarà a quest'ora?» «Che gli sarà successo?»Gli volean sempre bene! Lo seguian coi pensieridel mondo così vasto pei lontani sentieri...Una sera Omobono, mettendo al fuoco il briccodel latte, disse: «Io credo sia diventato ricco.Avrà una casa grande, avrà una bella sposa,avrà di che mangiare, di che vivere, a iosa...».E invece Cattiveria ritornò su una nottecon quattro cenci addosso, e con le scarpe rotte:e s'era fatto magro, giallastro in viso, brutto!Domandò: «Mi volete? Ho scialacquato tutto:le vostre belle pecore ho giocate e vendute,non mi resta più nulla: nemmeno la salute!»Ripetè: «Mi volete?». Allora mamma, in pianto:«Se ti si vuole, figlio! Perchè hai tardato tanto?A te ho pensato sempre, mentre ch'eri lontano,ti si è atteso ogni sera, tutto l'inverno invano!».Omobono soggiunse: «Siedi, fratello mio,Quello ch'è stato è stato. Ora viviamo in Dio».
IL MERLO E LA CANAPA
C'era una volta un merlo nero nero, con un bel
becco giallo, che, quando aveva mangiato e bevuto,
cantava come un organino.
Una bella mattina di marzo, dopo un'acquerugiola
fine e penetrante, questo merlo, seduto sulla frasca,
vide un contadino che seminava la canapa. Allora si
mise a volare pei dintorni, chiamando gli uccelli e dicendo:
- Compagni, correte correte: distruggiamo tutti
quei semi di canapa, altrimenti, vi dico io che ce ne
verrà un gran male.
Gli uccelli intorno si misere a ridere e gli diedero
del pazzo.
Dopo pochi giorni il germoglio della canapa spuntò
e le pianticelle crebbero. In maggio il campo era tutto
una selva fittissima di asticciuole alte e sottili: il canapaio
era fatto. Il pigliamosche aveva fabbricato il nido
nel bel mezzo, legandolo a quattro steli, e trillava allegramente
una canzoncina arruffata.
Allora il merlo si mise di nuovo a correre pei dintorni,
chiamando gli uccelli e dicendo:
- Venite, correte, cerchiamo di sbarbare queste
pianticelle o ce ne verrà un gran male.
E gli uccelli, anche questa volta, a schernirlo!
La canapa giunse a maturazione. Ai primi di settembre
il contadino la tagliò, ne fece delle mannelle, le
portò al macero e le affondò nell'acqua. La canapa
fermentò, infrollì, si cosse. Quando ne fu tratta, il tiglio,
staccato dal canapule, appariva nudo e bianco, come
un osso spolpato. Le mannelle furono sciorinate, ritte
come piccole tende di soldati.
Il merlo, seduto sulla frasca, cantava:
- Poveri noi!
Ma gli altri uccelli non c'era caso gli prestassero
orecchio.
Ecco, una bella notte, al lume di luna, robusti giovinotti
posero le mannelle sul frantoio e a colpi di matterello
infransero i canapuli. Le gramolatrici le maciullarono,
il canapino le pettinò, e le filatrici ne fecero
il capecchio alla conocchia e filarono dell'accia.
La tessitrice fece la tela: il canapino ne torse il filo.
E il merlo, seduto sulla frasca, cantava:
- Ci siamo! Ci siamo!
Di fatto, altre donne presero parte di quel filo e ne
fecero una bella rete. l cacciatori la distesero dinanzi ai
capannelli, e dappertutto erano reti, e reti, e reti.
E il merlo, seduto su una frasca, cantava:
- È finita!
Gli uccelli che passavano, gli facevano grandi risate
di scherno; e andavano a posarsi tra le fronde di un
bel boschetto che pareva offrisse loro un nido sicuro.
Ma era un paretaio e i poveretti finivano tra le maglie
sottilissime della rete!
Allora si ricordarono - ahi troppo tardi! - di quel
mattino di marzo, in cui il merlo li aveva chiamati per
distruggere i semi di canapa.
Quanto al merlo, poveretto, benchè stesse più attento
degli altri, anch'egli fu acchiappato un giorno.
Non fu cotto allo spiedo, ma chiuso in una gabbia: e lì
dentro passò il tempo a zufolare e cantare.
Ma se l'avessero ascoltato!
IL CAMPANARO
Su per la stradicciola in mezzo ai faggivien Momo il campanaro, e sale in frettala scalinata innanzi la chiesetta.È mezzogiorno, e s'odono lontane,pei verdi monti intorno,squillare le campane dei villaggi.Momo correndo saledel campanil le scale,e giunge ansando in vetta.Tosto le corde afferra,s'alza, tira, s'accoscia sui ginocchi,si solleva di terra,e già i rintocchi seguono ai rintocchie il concento si sferra:già romba la Martinae squilla la campana più piccina,e un ronzìo d'oro e un picchiettar d'argentosi propaga nel vento,mentre l'altre campane per l'intesacantano, ognuna su la propria chiesa,cantano ognuna su le proprie casedalla letizia di quei suoni invase.E Momo su, nell'alto, quel fragoredi bronzi roteantimodula come modula i suoi cantichi fa cantar le voci del suo cuore.
NEL FRUTTETO
Sempronio e Sempronella non avevano mai veduto
un frutteto. Immaginate la loro letizia il giorno in cui
maestro Saverio li condusse a visitare quello di un signore
amico suo, che abitava poco fuori del villaggio.
- Il signor Cominetti - narrava il maestro cammin
facendo - accudisce lui stesso alle sue piante, e
una gran parte della sua giornata trascorre in mezzo
ad esse. Egli s'interessa alla loro vita, le osserva crescere
di settimana in settimana e produrre di stagione
in stagione. Egli le ha seminate e trapiantate, inaffiate
e potate, è stato in attesa d'ogni primo fiore e lo ha ammirato:
nel fare tutto questo, una parte della sua vita è
come passata nelle sue piante.
Non appena i due fanciulli furono entro il recinto,
si guardarono in volto l'un l'altro, come per dirsi:
«Avremmo noi mai immaginato una cosa simile?».
A metà maggio, i peri, i meli, i mandorli, i peschi
innalzavano sui tronchi i mazzi del loro verdeggiante
fogliame. Le ciliege rosseggiavano a coppie, a mazzi e
parevano dondolarsi a cavalluccio dei rami. Gli albicocchi
a spalliera rivestivano tutto un muro e mostravano
i bei frutti gialli, che facevano venire l'acquolina
in bocca.
- Nel recinto di questo frutteto - disse il signor
Cominetti - la natura osserva il suo calendario, come
fa nei giardini e nei campi. Di mese in mese ella inscrive
i suoi messaggi sugli alberi e sui frutti, anzi ogni
settimana ella opera i suoi mutamenti, che indicano il
passaggio delle stagioni. Voi dovreste venire spesso a
trovarmi, per seguire da presso i progressi delle mie
piante, e gustare le più squisite qualità di susine, di pesche,
di pere, di mele, di nespole. Intanto prendete là
quel panierino ed empitelo di fragole.
I nostri piccoli amici scesero alcuni gradini, e, percorso
un vialetto fiancheggiato da una folta siepe d'uva
spina e di ribes, si trovarono in una specie di vasto
campo tutto lavorato a solchi, e sotto un denso fogliame
videro le piccole, odorosissime fragole. Il signor Cominetti
raccomandò ai ragazzi di raccogliere solo le più
mature e di passare guardinghi da un solco all'altro,
per non danneggiare le pianticene.
Sempronio e Sempronella deposero alcune foglie sul
fondo del cestello, poi raccolsero i frutti, posandoli con
cura, e ogni tanto abboccandone qualcuno. Erano così
dolcigne e così profumate quelle fragole!
Quando il cestello fu ripieno, i due ragazzi si levarono,
così contenti del bel dono, che non trovarono parole
per ringraziare l'amico del loro ottimo maestro.
A tavola le fragolette furono condite con zucchero e
vino bianco, e furono la delizia dei tre commensali.
LA VESPA E L'APE
Disse la vespa all'ape industriosa:- Sai tu dirmi perché tanto lavori?perché suggi dal timo e dalla rosai dolci umori?Il meglio l'uom dell'opra tua si prende:togliesi il miele, togliesi la cera:di quel si nutre, con questa egli accendecandele a sera.E tu, così, per far l'altrui piacere,al buio t'addormenti e mangi male.Oh, davvero che hai scelto un bel mestiere.sciocco animale! -- Di far l'altrui piacere io son contenta,nè m'assomiglio a voi - l'ape rispose -che pur pungete chi non vi tormenta,bestie invidiose. -
TUNA, LA TESSITRICE
Il suo nome era Rosa, ma tutti la chiamavano Tuna.
Tuna, da Fortuna, poichè la buona vecchietta soleva
dire che la fortuna del poverello è nella salute e nella
voglia di lavorare. E la Tuna era sempre vissuta sana
come un pesce, sana da ragazza, sana da maritata, sana
anche ora che i settant'anni sono suonati. La vedovanza
e la solitudine gravavano sulle sue spalle senza curvarle.
Quanto alla voglia di lavorare, ella poteva essere esempio
anche ai più giovani e più intraprendenti. E forse
nulla aveva tanto contribuito alla sua sanità e forse
anche alla longevità quanto l'attività di ogni giorno e
di ogni ora. Se l'ozio può essere paragonato alla ruggine,
che corrode anche l'acciaio, ella non aveva avuto
tempo per arrugginire.
Ai primi chiarori dell'alba, al primo canto del gallo,
così d'estate come d'inverno, ella era in piedi. Rifaceva
la cameretta, e scendeva quei pochi scalini di legno
tarlato che dalla camera da letto, mettevano nella sottostante
cucina: e lì cominciava a sfaccendare. Mandava
a razzolare nel viottolo le due o tre gallinelle che
possedeva, brontolava un po' con quel pigrone del gatto
che osava chiederle la colazione con insistente miagolìo,
preparava la sua solita tazzina di caffè, fatto
di orzo, cicoria e malva, e vi inzuppava un boccone di
pan nero, che le fermava lo stomaco fino all'ora della
colazione.
In quella cucina dai muri velati di nero, a cagione
del fuoco che, secondo le abitudini primitive delle nostre
più povere case di campagna, ardeva in mezzo al
pavimento, era in un canto un telaio, certo più antico
dell'antica sua proprietaria. Due grosse travi tenevano
fissa al muro l'intelaiatura, sulla quale erano tesi i fili
che si svolgevano dal roccchettone man mano che la tela
s'ordiva e s'arrotolava intorno al cilindro. La Tuna, sorbito
il caffè, sedeva al telaio: sedeva, per modo di dire,
poichè, appena messa in corsa la spola, le mani e le
braccia non avevano più requie, e i piedi e le gambe
facevano una ginnastica ininterrotta: di modo che la
vecchierella s'appoggiava appena sul duro sedile.
E allora, per ore e ore, non si udiva più che il tic tac,
secco e regolare, del telaio, che non cessava se non ai
primi richiami argentini delle campane di mezzogiorno.
La spola andava e tornava, quasi come una lucertolina
chiusa fra le pareti di un corridoio, costretta a
fuggire da destra a sinistra, da una mano all'altra. Tic
tac, tic tac, mentre fuori la neve cadeva a larghe falde
in silenzio, coprendo il paesello di una miriade di fiocchi
bianchi come fiori di cotone; tic tac, mentre fuori
la primavera copriva di un abito verde i castagni ed
i noci: tic tac, mentre l'estate ardeva nel gran cielo azzurro
come un campo di lino; tic tac, tic tac, mentre
fuori le piogge d'autunno insistenti maceravano le foglie
cadute dagli alberi: tic tac, tic tac, fino a che, le
ombre della sera non immergevano la stanza nella più
profonda oscurità.
A settant'anni la Tuma aveva la resistenza di una
ragazzotta di venti. Quando veniva una promessa sposa
per farsi tessere la tela del corredo, la Tuna parlava
dei suoi tempi molto lontani, quando ogni sposa filava
e tesseva da sè la tela occorrente al proprio corredo. O
come sono mutati i tempi! Adesso si fa tutto a macchina!
Il telaio era posto sotto una finestrella a grata, che
dava sul vicoletto tortuoso, e tutti quelli che passavano
di là si soffermavano a scambiare quattro parole con la
Tuna, che non cessava il suo lavoro.
Sempronio e Sempronella si affacciavano anch'essi
sovente alla grata, e guardavano entro e conversavano.
Asciutta di carni, e un po' giallognola in volto per la
vita passata in gran parte all'aria chiusa e nella semioscurità
della sua casupola, la Tuna pareva una di
quelle vecchie fate delle fiabe che operano prodigi con
la rocca e con l'ago: e alle quali i fanciulli che hanno
molta fantasia credono, quasi esistessero veramente,
mentre non tutti credono che ci siano ancora al mondo
delle vecchierelle di settant'anni, che, senza essere maghe,
vivono con due o tre galline o con un gatto grigio
in una povera capanna, alzandosi all'alba per lavorare
e coricandosi la sera per riposare qualche ora e poter
riprendere la mattina l'usato lavoro, che fanno ormai
non più per sè, ma per gli altri, intessendo la tela
alle spose giovani che cominciano ora la vita, e che preparano
le fasce per le creaturine che verranno.
I TELI SUL PRATO
Un colpo dopo l'altrotic, tac, nella stanzetta,fra l'andare e il tornaredell'alacre spoletta,il telo fu tessuto.Poi tolto dal telaiofu bagnato, e distesosul prato ad imbiancare.Il sol della mattinasopra il telo cammina:cammina sopra il teloil sole alto nel cielo.E quella stradicciolaformata dalla spola,e distesa sul verde,fra i fioretti di croco,imbianca a poco a poco,nel suo passare il sole.Come latte l'imbianca,come lana d'agnello,come spuma di mare,il sol nel suo passare.Ed ecco senle il teloun buon odor di prato,sente il telo imbiancatoun buon odor di cielo.
CARI RICORDI
Vi ricordate di quando Sempronio e Sempronella calarono
giù al paese dalla montagna? Essi avevano allora
l'uno sette, l'altra otto anni; non sapevano nè leggere,
nè scrivere, nè fare di conto. Là sui monti, non
avevano mai avuto un maestro, non erano mai andati
a scuola, perchè, lassù la scuola elementare non c'era
ancora.
Babbo Terenzio e mammaa Venusta non erano più
istruiti dei due loro figliuoli.
Ebbene, da quei giorni lontani, sono passati quasi
due anni. E nel frattempo molte cose sono mutate. Non
parlo dei genitori, í quali, poveretti, in questi due anni
hanno messo qualche capello bianco; intendo parlare
dei ragazzi. La compagnia e la scuola di maestro Saverio
li hanno mirabilmente educati, ingentiliti, istruiti.
Senza avere ancora messo piede in una grande città, i
due fanciulli non sono più nè ignoranti nè selvatici
come erano un giorno, quando ancora non s'erano tolti
alla vita di abbandono e di solitudine, nella quale la
miseria della famiglia, la nessuna istruzione dei genitori
e le cure e le fatiche dei campi li avevano fino
allora allevati.
Maestro Saverio è stato per essi meglio di un babbo.
L'amore che i due scolaretti gli portano, è un amor di
figliuoli devoti. E benché essi non abbiano dimenticato
nè il babbo nè la mamma, pure sentono per maestro
Saverio una riconoscenza che, quasi quasi, nel cuor loro
non ha l'eguale.
SI CHIUDONO LE SCUOLE
Ora ecco che, venendo l'estate, chiudendosi le scuole,
Sempronio e Sempronella hanno da tornare su ai
monti. La gioia dei loro cuoricini, commossi al pensiero
dei genitori, è turbata dall'altro pensiero di dover dire
addio al caro maestro, e separarsi da lui. E pure come
si fa? Bisogna cedere alle circostanze e rassegnarsi.
Addio, dunque, scoletta, nella quale, lungo un anno
di studio, il maestro ci ha insegnato tante cose! Addio,
vecchi banchi, che serbate qua e là le tracce, non tutte
gentili, del nostro quotidiano convivere fra voi. Addio,
vecchi quadri murali, sui cui colori distinti dagli anni,
i nostri occhi posarono svagati negli istanti di distrazione
o di stanchezza. Addio, cari compagni ed amici, di
ognuno dei quali ci è noto il nome, ci è nota la voce,
l'espressione del volto e la figura. Diamoci un bacio ed
un abbraccio, quasi che ognuno di noi debba partire per
un lungo viaggio. Chi sa se un altro anno ci rivedremo?
E addio a lei, caro maestro; addio con le lacrime
agli occhi e con il cuore così commosso che ci vieta di
parlare. l nostri sguardi le dicano che lontani non la
dimenticheremo mai; non la dimenticheremo più nella
vita. I consigli ch'ella ci ha dati ci torneranno alla
mente nelle ore di dubbio, e ci parrà di udire la sua
voce buona ogni volta che saremo più soli nel mondo.
Allora diremo: «Il nostro maestro ci avrebbe consigliati
così, e noi ci atterremo ai consigli del nostro
maestro»
CHI RIMANE SOLO
I fanciulli tornano alle proprie case, e in esse ritrovano
i genitori, i parenti, e talvolta gli stessi compagni
di scuola, e se non quelli, altri ancora. La scuola si
chiude, ma essi non rimangono soli.
Il maestro, egli sì, rimane solo. La scuola è deserta,
silenziosa, piena di malinconia; la polvere cade a poco
a poco sui banchi vuoti. Il maestro sale ancora una volta
sulla cattedra, dalla quale soleva vedere tutti i suoi
piccoli e le piccole con i visini rivolti verso di lui, con
gli occhietti vivaci, con le fronti incorniciate da capelli
biondi o bruni o castani, illuminate dalla gioia dell'ascollare
e dell'imparare. Il maestro era come il sole per
quelle tenere menti. Esse si aprivano ad una ad una,
come i fiori al raggio del mattino, al tocco della luce.
Ed ora il maestro rimane solo. I saluti che gli porgono
gli scolaretti lo commuovono come se i piccini
fossero tanti suoi figliuoli, e andassero lontano lontano.
Il maestro è molto innanzi negli anni! Potrebbe anche
darsi che al tornare dell'autunno i suoi scolari non
lo trovassero più.
- Addio, cari, e siate buoni, e ricordatevi di me.
Li saluta a uno a uno, li accarezza, li bacia: dinanzi
ai migliori nasconde in un abbraccio lungo la
commozione che lo vince.
- Addio! addio!
TORNANO AI MONTI
Sempronio e Sempronella tornano ai monti. Hanno
annunziato ai genitori il loro arrivo con una letterina
spedita giorno innanzi. Nè babbo nè mamma sanno
leggere, ma qualche vicino di buona volontà renderà
loro questo favore.
Camminano in silenzio, tenendosi per mano, proprio
come quando vennero giù la prima volta, e - ricordate? -
avevano smarrito il sentiero. Ma adesso, dopo due
anni, le cose sono mutate. Una grande novità è accaduta.
In vece del sentiero di allora, che serpeggiava
fra i campi e i boschi, adesso c'è una bella strada
larga e battuta, che li mena verso la loro capanna sul
monte. Sicuro! Hanno aperto la strada nuova, la strada
carrozzabile, che dal paese dov'è la scuola, conduce al
paese più piccolo vicino alla loro dimora.
In due anni non soltanto essi sono mutati in meglio;
ma anche le cose sono migliorate. Essi hanno studiato,
e altri ha lavorato. Due comuni hanno votato la bella
spesa di questa strada; gli ingegneri hanno fatto il
disegno, gli operai hanno eseguito il lavoro, ed ora è
molto più facile camminare, è molto più comodo recarsi
da un punto all'altro di quelle terre.
Sempronio e Senipronella guardano attorno con gli
occhi pieni di stupore i segni di quel gran mutamento
avvenuto mentre essi erano intenti a studiare.
LA STRADA NUOVA
Ormai chi vorrà scendere o salire non dovrà più
portare a spalla il gerlo carico di roba. Ormai i carri
arriveranno su, fino al lontano paese, e d'estate le carozze
recheranno a frotte i villeggianti, che prima andavano
su rari rari in groppa ai somarelli.
Quando i nostro due fanciulli lasciarono, or sono due
anni, il paese, della strada nuova non c'era che il tracciato.
Alcuni picchetti indicavano la via che avrebbero
seguita i manovali nel lavoro di sterramento, prima, poi
quello di rinforzo coi muri a secco, là dove il terreno
era più friabile, o nei punti dove doveva costrursi
un ponticello attraverso il torrente che corre tra i
fianchi di un'amena valletta.
Gli ingegneri, i geometri, i canneggiatori avevano
preso le loro misure, avevano disposto l'ordine dei lavori
di livellamento, avevano indicate le cave dalle
quali si sarebbe estratta La pietra.
In luogo dell'antica stradetta mulattiera, quella che
tutti battevano con stento e fatica, correva ora la strada
carrozzabile larga e pianeggiante: correva tra le rive
verdi smaglianti e le fresche cascatelle, tra il suono argentino
delle campane dei villaggi sparsi tutto intorno,
all'ombra dei meravigliosi castagni e dei faggi fronzuti.
Pareva la strada di un parco, tanto il piano era
liscio e pulito. Ci si camminava ch'era un piacere.
La strada pareva costruita appositamente affinchè
il passeggero potesse ammirare a una a una le bellezze
del paese all'intorno. In realtà era stata costruita per
ragioni di utilità pubblica. Di fatto essa doveva congiungere
l'uno all'altro due paesi che prima d'allora
vivevano separali e quasi divisi dalla mancanza di comunicazioni
facili e pronte.
Lassù dove era la capanna di Sempronio e Sempronella
non era mai arrivata una carrozza, nè una bicicletta,
nè un'automobile. La diligenza, che faceva il
servizio postale fino al paese dove era la scuola, non poteva
proseguire in mancanza di strada. Ed ecco che il
paese di Sempronio e Sempronella era stato sempre
come tagliato fuori dalla civiltà. Lassù non s'era mai
aperta una scuola, lassù non c'era l'ufficio postale, lassù
il dottore andava difficilmente.
Adesso le cose prenderebbero un ben altro avviamento.
Tra un anno o due si sarebbe costrutto un piccolo
edifizio scolastico, si sarebbe aperto il piccolo ufficio
delle poste e forse anche dei telegrafi, poichè la
nuova strada avrebbe reso più frequenti le comunicazioni,
i carri avrebbero potuto recare lassù i materiali
da costruzione con spesa minore, il piccolo commercio
locale si sarebbe ravvivato, la gente avrebbe potuto
guadagnare più facilmente qualche soldo, e la prosperità
del paese sarebbe a poco a poco cresciuta con vantaggio
di tutti.
Quello era dunque un piccolo angolo d'Italia che si
rinnovava. E chi avesse veduto i nostri due fanciulli
camminare a passi lesti e con aria allegra lungo la via,
avrebbe pensato: «Ecco che non solo il paese si rinnova,
ma anche gli abitanti. Come gli ingegneri hanno
aperto una strada nuova, così il maestro, diffondendo
l'istruzione, ha redento due piccole anime dall'ignoranza,
ha tracciato anch'egli nelle loro menti una nuova
strada che li guida verso l'istruzione e la luce».
Di fatto una nuova vita cominciava allora per Sempronio
e Sempronella. Essi erano usciti per sempre dalle
ombre dell'ignoranza, e alla loro tenera età la mente
era più ricca di cognizioni che non fossero quelle dei
loro genitori; essi sapevano leggere e scrivere, essi
avrebbero potuto imparare da soli sui libri tante cose,
che babbo Terenzio e mamma Venusta non avevano
mai sapute.
E voi, miei piccoli lettori, pensate che quello che accadde
allora nel luogo di cui vi parlo, accade oggi in
tutta Italia: nuove strade si aprono da paese a paese,
nuove scuole si inalzano nei borghi più appartati dalla
società.
La nuova Italia, quella di cui voi fate parte, migliora
di anno in anno, si fa più istruita, più educata, più
ricca. L'Italia è in progresso, e voi quando sarete uomini
la vedrete fatta più grande e più potente che ora
non sia.
BABBO, MAMMA!
I nostri due viaggiatori stavano per giungere al paese.
Si scorgeva, tra gli alberi fronzuti, la vetta del campanile:
le campane che suonavano mezzogiorno pareva
dessero il benvenuto ai due ospiti che si avvicinavano
alla mèta.
Ed essi, prima d'entrare in paese, sostarono qualche
istante a una fontana che chiocchiolava lungo la via.
La fontana non c'era quando essi lasciarono il paese.
Essa era stata costruita insieme con la strada, e qualche
donna era lì con i secchi ad attingere la fresca acqua
corrente.
Una lapide infissa dietro la fonte indicava il nome
di colui che l'aveva donata al paese. Era uno del luogo
che tornato dall'America con una discreta fortuna, aveva
elargito al piccolo comune una somma affinchè la la
fontana fosse costruita a beneficio di tutti. Ecco come
un buon cittadino era stato utile al suo paesello. L'acqua
gorgogliando dalla cannella pareva cantare una
canzone di riconoscenza al modesto benefattore, di cui
in paese si sarebbe sempre conservata la cara memoria.
E allora Sempronio fece un proponimento: promise
a se stesso, in silenzio, di farsi onore nella vita, di lavorare,
di studiare, per potere un giorno essere utile
al proprio paese. Egli non sapeva ancora che cosa sarebbe
stato di lui in avvenire. Che mestiere avrebbe
fatto? Dove sarebbe andato a trascorrere la sua gioventù?
Forse in una grande città? Forse in un paese
lontano? Egli non poteva saperlo. Ma la coscienza gli
diceva che, dovunque egli fosse andato, qualunque mestiere
avesse scelto, sarebbe stato un giovane probo, un
buon cittadino. La scuola gli aveva insegnato la via
dell'operosità e del dovere; gli aveva fatto intravvedere
la patria grande e lontana, l'Italia dolce e cara, per la
quale tutti i figli debbono lavorare e produrre.
Sempronella, nel suo cuore di donnina, non aveva
altri proponimenti. La vita sarebbe stata diversa per lei,
eppure anch'ella avrebbe potuto seguire il fratello in
qualche grande città, avrebbe forse fatto l'operaia in
una grande fabbrica, anch'ella sarebbe stata utile al
proprio paese. Che se la sorte le avesse riserbato una
vita più ritirata e più tranquilla lassù fra i suoi monti,
ella si sarebbe accomodata anche a questa. In ogni
stato, in ogni luogo si può essere utili al proprio simile.
Basta essere operosi, basta essere buoni.
In questi pensieri essi a un tratto levando gli occhi
scorsero in lontananza due figure che s'avvicinavano
con gesti di saluto. Erano babbo e mamma che avevano
scorto i propri figliuoli.
Sempronio e Sempronella si misero il correre loro incontro,
e si gettarono nelle loro braccia. Essi erano felici
di quella felicità che ci fa battere il cuore forte
forte e c'inumidisce gli occhi con le lacrime più dolci.
I PRIMI PASSI
Ignoranielli PAG. 3
La scuola nello stagno 4
La casa di maestro Saverio 5
Uno due tre 8
Scuola e famiglia 9
Il giorno dei morti 10
I tre elmi 11
Se i còmpiti potessero parlare 12
A cavallo 14
Pierina e la ricottine 15
Storia di cinque figlioli 16
Storia del fanciullo studioso e della lucciola 17
LE PRIME LUCI
Sempronella fra gli uccellini PAG. 23
Serate lunghe 24
Trottolina 25
Il lupo e la volpe:
La caldaia di riso 28
Nel pozzo 29
Letizia di Pasqua 31
Nel bosco 31
Costanza e previdenza 33
Giottino pittore 35
Sempronio disegna 37
Il ritratto riuscito male 38
Il ritratto riuscito bene 39
Mia sorella 40
Il vostro ritratto 41
Il cieco di guerra PAG. 41
Al mulino 43
Il cacciatore 45
Il giorno del riposo 47
Pesca in acqua dolce 48
Un curioso animale 49
Il ponte dei bugiardi 50
La cottura dei gamberi 52
C'era la guerra 53
Scherzi della luna 54
Ciò che fa il sole 55
SULLA VIA SOLEGGIATA
Il sogno di Sempronella PAG. 59
La piena 61
La barchetta 62
Il contadino e la scuola:
Rustico 64
Domestico 65
Desiderio 66
Il ministro del Re 66
La legge 67
Omobono e Cattiveria 69
Il merlo e la canapa 72
Il campanaro 75
Nel frutteto 76
La vespa e l'ape 78
Tuna, la tessitrice 79
I teli sul prato 83
Cari ricordi 84
Si chiudono le scuole 85
Chi rimane solo 86
Tornano ai monti 87
La strada nuova 89
Babbo, mamma! 92