Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbisogna

Numero di risultati: 16 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Nanà a Milano

656202
Arrighi, Cletto 3 occorrenze

Essa mi abbisogna più che il pane da sfamarmi. Non vivo così! È troppo tormento! È necessario ch'io abbia molto danaro. Essa non mi ama al punto da volermi gratuitamente, per me solo. Essa fu mia ancora... senza interesse... è vero. Ma chissà... per temperamento forse. Ma non vorrei io stesso!" La risultante di tale ragionamento fu questa frase: "È necessario aver danaro." E fra tutte le mariuolerie di cui potesse avere in testa un'idea, andò cercandone qualcuna da metter subito in pratica. Tutt'a un tratto un'idea luminosa lo colpì. Gli tornarono in mente certe parole misteriose che aveva udite per caso, alcuni mesi prima... da un certo tale... parole a cui allora non aveva posto la più piccola attenzione e che ora gli comparivano, come ad un brick che naufraga, l'ancora di salvezza. Fu per lui un momento d'immenso sollievo; la speranza, la meretrice dell'anima, illuminò il suo volto che era divenuto a poco a poco emaciato, e senza pensarci sopra più che tanto, s'avviò. "Chissà che non sia in tempo io stesso a pigliar quel posto" - diceva fra sè. - "Il signor Giacomino me ne saprà dire qualche cosa." Andò difilato in piazza del Duomo. Là cercò l'omnibus per Porta Garibaldi, e tutto infervorato nella sua idea, senza pensare che non teneva in tasca neppur il becco d'un quattrino, vi si cacciò dentro. L'omnibus si mosse e il conduttore gli stese la mano per avere il prezzo della corsa. Fu allora che Marliani si ricordò di non aver danaro. Ma avvezzo ormai a fingere quella manovra del portamonete, mise bravamente la mano destra nella tasca interna dell'abito, poi frugò di qua, frugò di là, fingendo una crescente inquietudine, e finì collo sclamare: - Cristo! M'han rubato il portafogli! - Màghero allora! - disse il conduttore dell'omnibus. - Sicuro. O me l'han rubato o l'ho lasciato in... quella bottega.... Oh povero me! - Scenda, scenda... non importa. Pagherà un'altra volta. Filippo non se lo fece dire due volte. Discese, fe' mostra di rifar la strada verso quella bottega, poi, quando l'omnibus fu scomparso, svoltò di nuovo verso Porta Garibaldi. Giunto a un centinaio di passi oltre il teatro Fossati, entrò in una bottega di parrucchiere - che oggi non c'è più - e ad un figuro di vecchietto che stava là seduto su uno sgabello col sedile a vite, ad aspettare forse qualche pratica, disse: - Lei è il signor Giovannino, non è vero? - Per servirla. Vuol fare la barba? - No, per ora. La faremo dopo, in caso. Io sono venuto da lei per vedere se.... Si ricorda lei di avermi veduto, sarà un paio di mesi, col signor Silvestre Bonaventuri? - Mi ricordo. Lei è il signor Filippo Marliani. - Bravo! Allora ella disse al mio amico che non gli era ancora riuscito di trovare un giovine un po' educato e vestito bene, che volesse assumersi quell'incarico, ancorchè avesse offerto cinquecento franchi al mese.... Si ricorda? - Altro che ricordarmi. - Ebbene, l'ha trovato? - domandò il Marliani col cuore in sospeso; giacchè quella risposta poteva forse decidere della sua vita. - No - rispose il signor Giovannino. - Tutti hanno paura di cader in trappola. - Si può sapere di che si tratta? Se si tratta di avere del coraggio, sono qua. Il signor Giovannino espose la faccenda a Marliani. Questi domandò se si poteva parlare coi signori che proponevano l'affare. - Sicuro che si può. Me ne parlarono giusto anche stamattina. La signora Bibiana sopratutti è scaldata e vorrebbe trovare un giovine come dice lei, che sarebbe certo di far fortuna. - Chi è la signora Bibiana? - È quella che ha il morto. Una vedovona, che ce ne voglion tre di noi per abbracciarla. - Potrei parlare a questi signori? - Lei? È pronto lei ad accettare? - Sì - rispose secco il Marliani. - È giusto l'ora che son riuniti in bottega - soggiunse il parrucchiere. - Andiamoci allora. - Andiamo pure. Cecco, dove sei? Cecco uscì dalla retro-bottega- Io vado un momento con questo signore, e torno subito. Così detto, uscì seguito da Marliani. Dati una ventina di passi parlando fra loro sottovoce, il parrucchiere svoltò dentro in una bottega da rigattiere. Una donnicciuola che se ne stava ebetamente seduta in un canto di quella uggiosa camera all'avvicinarsi dei due sconosciuti allungò il collo e ravvisato il signor Giovannino tornò a raggomitolarsi nella sua cretina immobilità. Il parrucchiere si avvicinò ad un uscio a due battenti socchiusi, che s'apriva nella parte di faccia all'entrata e che metteva in una tetanzuccia o retrobottega e fe' cenno a Marliani di fermarsi. Mise l'occhio allo spiraglio e pronunciò a voce melliflua: - È permesso? - Avanti - s'intese rispondere una voce secca; e sgarbata dal didentro. Il vecchietto si volse al suo compagno gli fè cenno di venir innanzi e schiuse l'uscio. Nella stanza dove erano per entrare il parrucchiere e Filippo Marliani stavano raccolte tre persone due uomini e una donna. Gli uomini erano entrambi in quell'età che non è giovinezza ma che non si potrebbe ancor dire maturità. La donna nei quarant'anni, che vestiva con volgare eleganza e mostrava un viso campagnuolo e rubicondo da farla giudicare per una fittavola o per la moglie d'un pizzicagnolo, era la signora Bibiana. Quelle persone se ne stavano sedute in silenzio a ridosso della luce che entrava da due finestre a vetri smerigliati, a destra e a sinistra d'un altro uscio, che metteva nel cortile. In tal modo i tratti del loro viso restavano in ombra mentre essi avevano il destro di vedere perfettamente rischiarato il volto di chi fosse venuto a parlar con loro. Facevano come certe donne sul tramonto che vogliono nascondere le grinze ai loro visitatori. - Venga avanti signor Giovannino - disse un di coloro al parrucchiere, che aveva domandato licenza di entrare. Questi si fermò accanto all'uscio lasciando il passo a Filippo Marliani. Gli occhi dei radunati si fissarono curiosamente; nelle sembianze del giovane sconosciuto. - La chiuda l'uscio - disse la signora Bibiana al signor Giovannino. - E lei ripigliò volgendosi a Filippo con un sorriso - la tenga pure il suo cappello in capo e s'accomodi. - Comodissimo - rispose questi sedendosi sulla prima sedia che si trovò d'accanto. In questa il parrucchiere domandò licenza di andarsene, ma venne trattenuto dalla donna. - Che fretta! Stia qui un pò anche lei a sentire. Poi voltasi al Marliani: - Lei sarà già informato spero della cosa. - Gli ho spiegato io l'affare all'ingrosso - rispose il signor Giovannino. Egli è pronto a firmare il contratto basta che entro domani gli sieno sborsate due mila lire. - Andiamo adagio - sclamò uno dei tre uomini levando la mano verso il vecchio - una cosa per volta e senza alzar la voce che nessuno qui è sordo. La donna volgendosi allora al giovine riprese. - Capirà anche lei... signor... signor? - Marliani - rispose questi. - Signor Marliani, che prima di stringere un contratto importante come questo, bisogna conoscersi un poco, perchè dove c'è da obbligarsi in faccia ai terzi; le cautele dei galantuomi non sono mai bastanti. - Troppo giusto - disse Marliani piegando il capo in segno di assentimento. Ma i suoi occhi si socchiusero nello stesso tempo con una espressione di ironica malizia. Quel sorriso non isfuggì all'occhio della donna la quale dissimulando riprese. - Dica dunque lei le sue intenzioni su quello che già le comunicò il signor Giovannino. - Il signor Giovannino mi propose di entrare come socio e col mio nome in una ditta commerciale senza esposizione da parte mia di alcun capitale - rispose Marliani. - Va bene - rispose la signora Bibiana. - I signori che lei vede qui riuniti sarebbero appunto i soci fondatori di una casa in pannine, di cui ella assumerebbe la gerenza alle condizioni che forse già conosce. - Le condizioni sarebbero di firmare col mio nome le cambiali della ditta. - Primo. - Nel caso di fallimento ch'io sia pronto a subire tutte le conseguenze conservando il massimo segreto sugli affari della casa. - Va bene. - Che in caso fosse necessario per salvare la ditta di far in prigione l'anno ed il giorno, io debbo esser pronto a prestarmi, e nel caso invece che la ditta credesse meglio, ch'io sia pronto a fuggire. Il giovine si fermò per avere un segno di assentimento. Le tre persone che gli stavano di contro erano immobili come cariatidi. - Non credo si esigano da me altri sacrifizi - rispose il giovine con una espressione di mal celata amarezza. Uno dei due uomini che non aveva ancora aperta bocca, alla nuova intonazione con cui il Marliani aveva pronunciate le ultime parole gli ficcò in viso gli occhi e disse: - Non sono sagrifizî codesti; sono condizioni naturalissime in chiunque si assume obblighi di questa specie. Non c'è nulla che sia fuori del consueto, anzi non faceva neppur bisogno di parlarne, giacchè poi si spera di non aver bisogno di fallire o di andar in prigione o di scappare. - Ho voluto enumerarli! - rispose il Marliani per mostrare a loro signori che io conosco le eventualità a cui posso andare incontro mettendomi in questo affare e per togliere loro il sospetto che io possa essere un novizio o un guastamestiere. - Ora parliamo delle condizioni in favore - disse la signora Bibiana. - Il signor Giovannino ha parlato di due mila lire subito. - Mi sono indispensabili. - Due mila lire è una bella somma - sclamò uno dei tre - ci vorrebbe una piccola garanzia. Marliani si alzò in piedi. - Cari signori - disse - se avessi una garanzia non sarei venuto a esporre il mio nome ai pericoli d'una gerenza commerciale di cui non dovrò tenere la cassa, nè avere neppure una piccola parte nell'amministrazione. Se avessi una garanzia andrei a levar i denari al dieci o al dodici per cento dal primo onesto banchiere che passa in strada, e il signor Giovannino non sarebbe venuto ad offrirmi di fare il prestanome. - Lei s'inganna - rispose la signora Bibiana con voce insinuante. - Io le dirò che prima di tutto non è vero che lei dovrà servire soltanto di prestanome perchè invece dovrà trattare in persona con me gli affari della ditta, far qualche viaggio e avere la sua brava parte di utili nei dividendi. - Se ce ne saranno - osservò uno dei tre. - Sicuro già, se ce ne saranno! - sclamò la donna stizzosamente. - In secondo luogo lei s'inganna se al giorno d'oggi crede di poter trovar danaro al dieci o al dodici per cento, a mena che non porga la garanzia di un proprietario. - Vedo insomma che lor signori non sono disposti a sborsarmi le duemila lire di cui ho bisogno - disse il Marliani. - Caro signore - rispose la donna sempre più dolce. - Il commercio è arenato. Per vivere col decoro che porterà la di lei posizione di rappresentante la ditta Marliani e C. bisognerà che noi le fissiamo anche una bella mesata. Vede bene che farle oggi una anticipazione di due mila lire ci sarebbe impossibile. - Di quanto sarebbe questa mesata? - domandò il Marliani. - Di trecento franchi - rispose la donna. Marliani si alzò e mosse un passo verso la porta lisciando il pelo del suo cappello a tuba e disse: - Siccome i patti non sono quelli che m'aveva lasciato sperare il signor Giovannino, che mi parlò di cinquecento franchi al mese, così mi duole di non poter accettare, e mi tocca di rivolgermi ad altre offerte. - A un'altra volta - rispose uno dei due uomini. - E nel caso che la ditta si risolvesse a fare maggiori sacrifizî il signor Giovannino lo avviserà. Marliani uscì lasciando l'uscio socchiuso. Si capiva che la signora Bibiana era desolata. Un bel giovine di quella fatta! - La chiuda quell'uscio, Giovannino - disse ella. Poi voltasi ai compagni proruppe: - Non bisogna lasciarlo scappare. Sembra fatto a posta pel nostro affare. - Ritornerà. Scommettiamo che ritorna da sè senza mandarlo a chiamare? - Ora una notizia - riprese la signora Bibiana. Sapete che in casa O'Stiary ci ho messo il Giacomo come palafreniere. Egli mi ha dato nuove informazioni sullo stato delle sostanze del conte Enrico suo padrone, che ha firmata ieri un'altra cambiale di diecimila a fine novembre. - Sono buone queste notizie? - Eccellenti. I fondi valgono circa mezzo milione, il palazzo trecentomila, la rendita altri duecentomila. Con Bonaventuri a tutt'oggi è compromesso per quattrocentomila franchi, dei quali fatto il calcolo, gliene avremo sborsati a dir molto duecento. Egli ha poi perduto molto al giuoco dalla Luisa! È sfortunato! In casa della Luisa de' suoi danari ne saranno rimasti per circa cinquantamila. A noi di questi è toccata la metà, dunque bisogna detrarla dai duecento mila. Restano centosettantacinquemila. Sono dunque duecento venticinquemila lire nette in tre anni! Faccio il calcolo che in un paio d'anni ancora, lavorando con prudenza e con disinvoltura potremo portargli via il milione netto come il pomo di Tell. - Tanto meglio. - Ecco dunque il da farsi per domani. Lei Giovannino la cerchi di rivedere il signor Marliani e di indurlo ad accettare la rappresentanza della ditta. Gli dica che ci ha persuasi di portare la cifra della mesata a quattrocento. Gli dica anche che per garanzia della sua riputazione commerciale la ditta è pronta a depositare presso la Banca nazionale o presso la Banca Spagliardi una trentina di mila lire. Lei, signor Bonaventuri - continuò volgendosi ad uno dei due seduti - domani andrà a combinar l'affare con questa signora francese, che chiede cinquemila franchi a tre mesi. Si faccia mostrare le gioie, e se può cerchi di far il pegno. Lei, signor Paolino - ripigliò la signora Bibiana volgendosi all'altro, un uomo sui trentacinque anni, anche lui bene in arnese, con anelli di brillanti al dito mignolo e un catenone d'oro al farsetto - lei, stasera, come siamo intesi, andrà in conversazione dalla Luisa, dove so che ci deve essere anche il conte O'Stiary e comincerà a parlare della vincita fatta in Borsa dal Marliani, e della sua intenzione di mettersi in commercio. Per ora non ho altro a dire. Io debbo andarmene. A domani qui, verso le due. Al domani il signor Giovannino andò a trovare il Marliani che si lasciò persuadere a tornar nel luogo infetto. La signora Bibiana, facendogli già l'occhio pio, trasse di tasca un foglio e cominciò a leggerlo sottovoce al giovane e a' suoi compagni. Era il contratto per la fondazione della società di commercio sotto la ditta Marliani e C.. C..Poi mise sul tavolo un biglietto da mille e una cambiale che il Marliani firmò. Furono fatte poche parole. Quando anche l'atto fu approvato e sottoscritto colla più grande serietà, come se fosse il più regolare e santo contratto del mondo, il signore dai brillanti in dito riprese la parola. - Andremo poi dal notaio per le altre formalità di legge. Prima però la permetta che le esponga qualche cosa. Lei non è un ragazzo e deve avere una certa pratica di mondo; sapere perciò che le parole sono parole e i fatti sono fatti. Noi facciamo sagrifizio di lire mille e le presentiamo inoltre un avvenire. Naturalmente la cambiale è in nostre mani e sarà rinnovata alla scadenza fino a che a lei non piaccia di pagarla... e basta così. Marliani strinse le labbra. - Dal canto suo lei dovrà informarsi alle nostre istruzioni. Prima di tutto ella dovrà sempre andar vestito all'ultima moda, come si conviene al gerente della ditta Marliani e C., che avrà depositato un capitale di trentamila lire presso la Banca. In secondo luogo è necessario che ella cominci a mettersi in buona vista presso i negozianti e presso i banchieri; e che non dia menomamente a supporre di conoscerci e di essere nostro socio, giacchè siccome, glielo dico francamente, noi tutti qui, qual più, qual meno siamo rimasti sotto a delle disgrazie, così è bene che alla Camera di Commercio e in piazza non si sospettino legami fra noi. - Ma - osservò Marliani - il contratto sottoscritto poc'anzi non deve essere noto? - No signore; questo sarà un contratto inter nos per garantire i nostri reciproci diritti e doveri in caso di contestazioni che speriamo non abbiano a sorgere mai. Per la Camera di Commercio v'è un'altra modula a cui penseremo più tardi; del resto lei deve persuadersi che adesso per fare e per ottenere tutto a questo mondo non c'è che l'apparenza. Per l'apparenza dunque le ripeto, ella ha bisogno di vestirai molto bene, di frequentare le migliori società, e se è possibile, di farsi credere conte, o per lo meno nobile. Marliani è un bel nome. Faccia stampare dei biglietti di visita colla corona di conte. Conte... il suo nome di battesimo è? - Filippo. - Conte Filippo Marliani andrebbe a maraviglia. - Le faccio osservare che io sono già molto conosciuto a Milano. - Bene, abbandoniamo la contea e lasciamo supporre che lei abbia fatta una vincita in lotto. - Ma io non mi presterò mai a gabbare il mondo così - disse il Marliani. - Lei non deve che lasciarlo credere - saltò su la Bibiana. - Ci penseremo noi a propalare la notizia come si deve. Lei non dovrà far altro che dissimulare e non dire di no. Questo è facile. - Manco male! - biascicò il Marliani che di transazione in transazione si lasciava persuadere a diventar un fior di briccone. - Fra quindici giorni esporremo la ditta al pubblico e cominceremo gli affari. Intanto dirameremo al commercio le circolari e scriveremo le lettere firmate da lei a tutti i corrispondenti. Il locale della ditta è già preso. È in via Valpetrosa. Se crede adesso possiamo andarvi insieme a vederlo. Su questo invito della signora Bibiana la congrega si sciolse e Marliani, colla grassona, entrarono in un brougham e a cortine calate si fecero portar in via Valpetrosa. Esaminato il locale, il Marliani corse difilato a pagar il suo debito di giuoco col biglietto da mille, per avere il quale aveva venduta la coscienza di galantuomo.

Pagina 151

- Quanto abbisogna a voi per vivere, come sarebbe il vostro desiderio? - Se mi chiedete quanto mi abbisogna per vivere vi potrei rispondere che, amando, mi basterebbero tre franchi al giorno; se mi domandate quanto mi abbisogna per vivere secondo il mio gusto ora che sono annoiata e indifferente, pur troppo vi risponderei che, secondo le mie abitudini, non mi basterebbe un milione all'anno. - Se però un galantuomo vi facesse delle proposte serie, le ascoltereste voi? - Secondo. - Se il galantuomo fosse come me, per esempio? - Allora no. - Perchè? - Prima, perchè non vorrei che la signorina Elisa dovesse odiarmi. E poi perchè non vorrei rovinarvi. - Che importa a voi in caso che io mi rovini? Nanà non rispose; s'accontentò di alzar le spalle con una smorfietta, che poteva essere interpretata in mille sensi. Poteva voler dire: sicuro che a me non m'importa nulla, come poteva voler dire benissimo: mi importa più di quel che pensate! Poteva voler dire: che domanda strana! Come poteva benissimo voler dire: hai indovinato! Astuzia innata di questa sfinge del secolo decimonono. Mezz'ora dopo Enrico entrava come un turbine nella camera da letto del suo amico Sappia che si destava in quel punto e gli diceva: - Ho bisogno di dieci mila franchi. - Che cosa vuoi farne? - Ho paura di essere proprio innamorato. - Innamorato? Ah, capisco! Hai bisogno di dieci mila franchi per farti passar l'amore? - Non per farle un prestito indispensabile... - Si potrebbe sapere chi è? - Indovina. - Non saprei! - È Nanà. - Nanà! - gridò il Sappia balzando a sedere sul letto. - Se non trovo dieci mila franchi per questa sera mi faccio saltar le cervella. - Quand'è così ascolta. Vedrò se mi è possibile di trovare ancora danaro e te lo presterò. Ma sulla mia sola firma ormai non ho più speranza di trovarne. A mio padre nè a mia madre già non posso più ricorrere. Li ho stancati troppo. Ti saprò dire qualche cosa stasera al club. club.- Ma stasera è già troppo tardi. Se io mi presento a Nanà senza una risposta certa, prima di sera sono rovinato. Gliel'ho promesso. - Che ti gira di promettere un prestito senza la certezza di poterlo fare? - Speravo che tu ne avessi o me li potessi trovar subito. Sappia si levò, fece attaccare e andarono in cerca di Bonaventuri, il quale, se il lettore si ricorda, aveva offerto i suoi servigi a Sappia fin da quella sera, che s'eran trovati in casa della Luisa, dove Enrico aveva fatto il primo passo al malcostume. Il Bonaventuri infatti, dal canto suo aveva già fatto prestare più di duecentomila franchi ai due figli di famiglia, e regolarmente alla scadenza rinnovava i loro effetti, sui quali s'accumulava lo spaventevole anatocismo. Di questi, più di centomila li aveva mangiati Enrico O'Stiary. Questi centomila franchi in due anni e mezzo erano diventati circa duecentomila, e alle nuove scadenze toccavano quasi i centocinquantamila. E non erano che la metà de' suoi debiti. Il Bonaventuri faceva credere ai due giovani di essere compromesso fieramente anche lui da quelle scadenze, alle quali poneva la girata per puro favore. Oh, egli era un gentiluomo! Faceva tutto per la grande simpatia che nutriva per que' due poveri giovani, che gli avari parenti tenevano tanto a stecchetto. E si fidava tanto di loro! E sapeva dar loro di quando in quando dei così buoni consigli. E si spaventava di quando in quando con tanta cordialità nel veder ingrossare spaventosamente le somme del loro debito! E si rammaricava con tanta pietà che il padre di O'Stiary avesse messa quella maledetta clausola nel suo testamento. E domandava loro con tanta premura notizie della salute del babbo marchese e del tutore notaio quando li incontrava dalla Luisa! - Aver ancora danaro dalle solite sorgenti - diss'egli a Sappia - è impossibile. Bisognerà che tentiamo nuovi mezzi. - Ne conosce lei? - Io no, ma ho un amico che se ne intende, quantunque da poco in commercio. - Andiamo subito da questo suo amico - disse O'Stiary. - Per farle vedere la mia buona volontà ci andremo oggi. - Come si chiama? - Si chiama Marliani, ed ha lo studio in Valpetrosa. - Oh, diamine! - sclamò il Sappia. - Che fosse mai Filippo Marliani? - Filippo appunto. Quello che era a pranzo dalla signora Nanà...! - Sì, sì. È lui! Come mai s'è dato a vendere pannine? - Lui non vende. Lui è direttore della ragion sociale. - Allora siamo a casa! - sclamò il Sappia tutto allegro. - Ora non è che mezzogiorno - disse O'Stiary. - Troviamoci alle due in qualche luogo. - Dove? - Dica lei. - Dalla Romea? - Va bene. Dalla Romea. E si lasciarono.

Pagina 203

In ogni modo ti abbisogna un vestito di lutto. - Sicuro! Quando il colonnello mi disse che il babbo era moribondo e mi lasciò partire, fu tale la mia fretta che non ho neppure fatta la valigia della biancheria. Ora bisognerà provvedere subito a tutto, altrimenti non potrei uscir di casa. - Leopoldo, - disse il tutore al palafreniere, - andate ad avvisare il mio sarto che venga qui subito. - Il suo sarto? - domandò Leopoldo con ironia. - Il portinaio di casa...? - Ma sì, ma sì, il mio sarto, - replicò don Ignazio, - ci vuol tanto? Andate. Poi, rivolgendosi all'Enrico continuava: - Non è certamente uno dei primi sarti di Milano, ma è bravino e mi è tanto raccomandato dal preposto della parrocchia. E poi, è tanto discreto nei prezzi. Vedi quest'abito? - Così dicendo voltava al contino le spalle per mostrargli una palandra, verdolina sgualcita sui gomiti, che gli faceva delle pieghe da tutte le parti. - Mi sta abbastanza bene, n'è vero? Ebbene, indovina un po' quanto me lo ha messo fuori, compreso stoffa, fodere, bottoni, guarnizioni, spedizioni, tutto insomma? Enrico conosceva a un dipresso l'umore di suo zio e non fu sorpreso da quella domanda. Si die' a ridere; però rispose: - Caro il mio zio, non me ne intendo davvero. - Ma perchè ridi? Sono cose molto più serie di quello che tu imagini. Me lo ha fatto pagare ventinove franchi. E nota che l'ho già fatto voltare e rivoltare. Enrico era un po' sulle spine. Tutta questa roba gretta, spilorcia, sordida gli faceva provare una specie di angoscia nervosa. S'intese il campanello. - Saranno le mie donne, - disse il notaio. - Vedrai, vedrai anche la mia Elisa che hai lasciata colle vesti al ginocchio, come si è fatta grande e donna. Enrico arrossì. Il nome di Elisa gli aveva dato un tuffo nel sangue. Erano infatti la signora Eugenia Martelli e la Elisa che tornavano dalla messa. Enrico ed Elisa, primi cugini per parte della madre, erano cresciuti insieme e si erano anche picchiati qualche garontolino giuocando a moscacieca nelle anticamere dell'avito palazzo. Enrico quasi non la riconosceva più, tanto s'era fatta grande, bella e vistosa uscendo dall'età ingrata. I saluti, le condoglianze, le frasi scambiate fra di loro son tutte cose che il lettore intelligente imagina da sè. Elisa negli occhi, nel sorriso, nel colorito del viso, bello e innocente, mostrava una felicità così sincera e grande, che non c'era da sbagliarsi. Povera fanciulla! Ella s'era avvezzata già da qualche tempo a considerare apertamente il contino come il suo amante, come il suo futuro sposo. Era una cosa quasi convenuta in famiglia. Sua madre e la balia glielo ripetevano spesso. La balia qualche volta, non ridendo, la chiamava contessina. La mente dell'Elisa, per non dir ancora il suo cuore, era piena dell'imagine di Enrico, bello, giovine, conte, simpatico, ricco. Perchè non l'avrebbe essa desiderato per marito? Del resto l'Elisa non ne sapeva nulla più in là! Dopo una mezz'ora di condoglianze, di domande, di risposte, di progetti, di spiegazioni la signora, Martelli fece all'Enrico l'ambasciata del marchese d'Arco. - Ci vado subito dal povero vecchio. Mi vuol sempre tanto bene? - Oh sì, - disse la Elisa, - come tutti, del resto. La madre diede a sua figlia uno sguardo significante. Di lì a poco la signora Martelli domandò a suo marito se aveva pensato di invitare l'Enrico a pranzo. - C'è anche Aldo Rubieri, che desidera di conoscerlo. - Non faceva però bisogno d'invitarlo, - rispose don Ignazio, - dove vuoi che vada a pranzare oggi se non è con noi? - Aldo Rubieri, il bravo scultore? - domandò Enrico. - Lui! Io gli faccio tutti i suoi affari, - rispose il notaio. - Oh! bravo, bravo, pranziamo insieme - aveva sclamato intanto l'Elisa battendo le palme una contro l'altra. Ma l'esplosione di gioia erasi troncata di botto perchè ella aveva incontrato di nuovo lo sguardo severo di sua madre. - Non vuoi proprio dunque imparare a dissimulare un poco i tuoi sentimenti? - le diss'ella quando furono sole. - Ma che cosa ho fatto poi? Non m'hai detto tu stessa qualche volta che sono destinata ad essere la sua sposa? - Certo - disse la madre - ma se vuoi che egli prenda molta stima di te, è necessario.... - Ch'io finga di non volergli bene? - interruppe l'Elisa. - Non dico questo.... Tu sei sempre estrema nelle tue frasi. E poi pensa che c'è tempo. Egli non ha che ventun'anni. Figurati quanti ne devono passare ancora prima ch'egli abbia l'età conveniente per sposarti. - Ah, non troppo poi! - sclamò l'Elisa con un adorabile atto di sorpresa - io ne ho quasi sedici, sai mamma, e fra quattro anni sarò già vecchia perchè ne avrò venti. - Oh! - sospirò la madre alzando gli occhi alla soffitta, - esse credono di esser già vecchie a venti anni! Un lungo colloquio ebbe luogo più tardi fra il marchese d'Arco e il giovine conte, che era andato in quella stessa giornata a cercare di lui. - Tu sai come ti ha trattato tuo padre? - gli domandò il marchese fissando negli occhi il giovine con molta attenzione. Enrico piegò leggermente il capo sul petto e rispose: - Sì. - E quali sono le tue intenzioni in proposito? - domandò il marchese con una leggerissima emozione nella voce. Tu fra poco in faccia alla legge sarai maggiorenne. E il suo sguardo nelle pupille di Enrico raddoppiava d'intensità. Era ansioso. - Io voglio rispettare religiosamente la volontà di mio padre, - rispose il giovane alzando la testa con molta naturalezza. Il viso pallido del marchese, si illuminò; gli occhi gli si inumidirono. Allungò le braccia e attirò al petto il giovine conte, che non sapeva spiegarsi bene il perchè di tanta tenerezza. A lui pareva una cosa tanto naturale quella di rispettare l'ultima volontà di suo padre! "Bisogna dire - pensò fra sè - che la cosa a Milano non sia creduta molto facile." Anche il tutore il giorno dopo abbordò la questione del testamento. Don Ignazio, più ancora, del marchese, temeva che l'Enrico si ribellasse alla protratta maggior età e volesse tentare la lite, la quale aveva certamente assai probabilità di essere vinta, ma non la certezza. E s'ingannava! A lui pure l'Enrico dichiarò quello che il giorno prima aveva risposto al marchese, intendere cioè di rispettare il testamento, quantunque fosse persuaso che legalmente parlando quella clausola non avrebbe avuta una sanzione! Il cavaliere Martelli era fuori di sè per la gioia. - Che bravo figliolo! Chi l'avrebbe detto! Che bravo figliolo! Allora discorriamo un poco del tuo avvenire - soggiunse egli col suo miglior sorriso. Il ribollimento del suo dolore, fece scoppiar l'Enrico in nuovo pianto. - Via Enrico - disse il tutore tra l'ammirazione e il compatimento - non rammaricarti poi troppo colle tristi memorie. Tuo padre, come pure la tua povera mamma, erano due degne e sante creature che ti stanno guardando di lassù e che ti proteggeranno contro i pericoli della vita. - Son qua, se lo crede necessario, - disse il giovinetto. - Hai tu pensato qualche volta a quello che vorrai farne della tua vita? cominciò a bruciapelo don Ignazio. - Quello che vorrò farne della mia vita? - ripetè Enrico - -ma credo che farò anch'io nè più nè meno di quello che fanno tutti gli altri. - Gli altri, gli altri! - sclamò il tutore con una smorfia - chi sarebbero secondo te questi altri? Enrico fu un poco sorpreso di questa specie di interrogatorio, ma dissimulando rispose: - I miei amici d'infanzia, i giovani della mia età, i miei compagni di collegio... non saprei io... quelli che conoscerò in società... per esempio, mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Ferdinando Sappia che sono maggiori di me, ma che mi volevano tanto bene, e Alfonso Sant'Albano, che veniva sempre a trovarmi, con la sua mamma e con cui giuocavo... ti ricordi zio? precisamente in questo salotto, prima di andar in collegio.... - Ascolta, caro il mio figliolo; questo già non è il momento di farti un predicozzo sui cattivi compagni, però.... - Come! - interruppe Enrico - mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Santalbano sarebbero cattivi compagni? - Non dico questo... non faccio il nome a nessuno io... parlo in generale. Ti basti di sapere che acqua torbida non fa bel specchio. Qui a Milano ci sono dei giovani, così detti del buon genere, che buttano via il tempo, la salute e i quattrini in cavalli, in cene, in ball... in baldorie, in frascherie insomma, e che so io. - Io non ho davvero queste intenzioni - disse Enrico seriamente. - In collegio mi hanno insegnato che cosa si deve fare per diventare un uomo che possa far onore al proprio paese. - Tu mi consoli, caro Enrico - sclamò con giubilo don Ignazio. - Mi piace sentirti a parlare così dei Barnabiti! Enrico sorrise. - Dunque siamo intesi. Ora veniamo alla morale. Tu già non avrai più nessun danaro di quello che ti ho spedito per fare il viaggio. - Non solo non ne ho più di quello, ma siccome, fatto il conto all'ingrosso, quello che tu mi hai mandato non sarebbe stato sufficiente per venire fino a Milano.... - Come! come! Ti sbagli, - Io non volevo farmi vedere a piangere e ho preso un cuppè tutto per me, caro zio. Tu mi hai mandato il denaro misurato per viaggiare nei secondi posti. - Io viaggio sempre nei secondi. - Io no; sempre nei primi. Mi feci dunque prestare duecento franchi da un compagno a cui bisogna li rimandi subito. - Cominciamo male! - disse il tutore grattandosi in capo. - Dunque non hai più neppur un centesimo? - Ma no, caro zio; l'ultima lira l'ho data al facchino, che portò le mie valigie sul legno, tanto è vero che il cocchiere l'ha pagato la portinaia a cui debbo un altro paio di franchi. - Ma caro Enrico, dovevi sapere che non si dà un franco al facchino della stazione. - Non avevo altro. Non potevo farmi dar indietro il resto in spiccioli. - Io ai facchini do sempre dieci centesimi e sono contentoni. - Sarà benissimo. - E poi che necessità di prendere un legno? C'è l'omnibus della stazione, che passa qui davanti alla porta. Enrico cominciava sul serio a inquietarsi. - Ti dicevo dunque - continuava il tutore - che per metterti nella società che conviene al tuo rango e alla tua educazione ci vuole un po' di denaro in tasca. - Lo credo io! - Però, tu non devi aver bisogno di molto. Qui hai il tuo bell'appartamento di sei camere. Hai la balia per la guardaroba e il palafreniere come cameriere e per la scuderia. Colazione, pranzo e vestiario tutto pagato. È un lusso asiatico. Veniamo dunque al concreto e fissiamo questa benedetta cifra dei minuti piaceri, che è lo scoglio più difficile da sorpassare coi pupilli. Quanto ti pare che - È bello? - Sì, è bellino, ma quello che più importa si è che costa poco. Sono quasi certo di portarglielo via per un tozzo di pane. - A chi di grazia? - Ad un mio amico, che è uno dei primi sensali di zucchero e di cacao di Milano. E nota che è a doppio uso. - Chi, il sensale? - No, il cavallo. Egli lo monta e lo attacca alla carrettella. - Mi pare che sarà un po' difficile che lo possa montar io. - Ma perchè? Il mio amico lo montava tutti i dopo pranzo sul bastione, e bisognava vedere che brio. Adesso, povero diavolo, deve come aver sofferto delle disgrazie nel cacao, e gli tocca di vendere il cavallo per pagare i debiti. - Ma è impossibile! - Si può sapere il perchè? - Caro zio, un cavallo che costa un tozzo di pane o è una gran rozza di figura, oppure è tanto vizioso, che mi farà rompere l'osso del collo in meno di quella. - Tutt'altro invece. Vedi come sbagli - sclamò il tutore credendo aver trovata una gran ragione in contrario. - Quel mio amico non si è mai rotto l'osso del collo, quantunque siano già diciotto o vent'anni che lo monta. Enrico scoppiò in una grande risata. Il tutore capì d'aver detta senz'accorgersi una minchioneria. - Venti, e tre di puledro, ventitre per lo meno. Tu dunque zio vorresti darmi il cavallo dell'Apocalisse? Sarebbe più vecchio di me. Se lo montassi mancherei di rispetto al Luogo Pio Trivulzio! - Bene, bene insomma, al cavallo ci penseremo più tardi, - disse don Ignazio levandosi - Oggi siamo intesi; aspettami qui che ti porterò la prima quindicina dei minuti piaceri. - Cento franchi? - Cento franchi. - Basta! Io penso poi che se non mi basteranno tu zio non vorrai mostrarti crudele verso di me. - Crudele no, mio caro Enrico, ma neppur troppo corrente. Ricordati che c'è un limite a tutto e che il mio dovere di tutore e di esecutore testamentario è quello, non solo di conservarti intatta la sostanza, che tuo padre morendo ha affidata alle mie cure, ma anche di aumentarla; perchè devi pensare che, per uscire dalla minorità fissata da tuo padre nel testamento, ti mancano ancora quasi quattro anni. Con tale considerazione era terminato fra tutore e pupillo questo memorabile dialogo, il quale doveva essere, per così dire, la pietra fondamentale d'un edificio destinato a crollare e a cadere a terra in meno appunto di quattro anni. Enrico O'Stiary s'era dato a fantasticare anche lui sul proprio avvenire, e, cosa non molto strana nella sua posizione, s'era sentito invaso, insieme a un certo desiderio di gloria artistica, giacchè egli adorava, la pittura, da una grande voglia di spendere, di brillare, di far la bella vita. L'avvenire? L'avvenire, pensava lui, come quello della maggior parte dei mortali, che non hanno una meta fissa e sicura o che non possedono la forza d'animo che serve a raggiungerla, è in balìa della fortuna; poteva dipendere dalla prima donna che avesse incontrata sul suo cammino, dalla prima amicizia che avesse stretta al club, dal primo avvenimento che gli fosse capitato sulle spalle. Il tutore dal canto suo non aveva già fatto, senza saperlo, il primo passo per riuscire alla di lui più deplorabile rovina finanziaria? Negandogli i mezzi di vivere dignitosamente nella società del suo rango, obbligandolo a far sicuramente dei debiti, fissandogli nella sua gretta ignoranza del mondo, i duecento franchi al mese, non gli apriva forse dal bel principio la strada al disastro? Qualche volta c'è da pensare volentieri che i Turchi non abbiano così gran torto di credere nel destino! La nostra sorte, la nostra felicità, la nostra vita pur anche, non è forse continuamente in balìa del caso? Se il tal dei tali fosse uscito dalla sua porta il tal giorno, del tale anno, soltanto cinque minuti più tardi, avrebbe forse incontrata alla svolta della via quella straniera, che lo colpì di botto, che si fermò a Milano per lui, ch'egli amò come un pazzo, che lo rovinò miseramente e che lo spinse al suicidio? Se quell'altro tal dei tali, invece di tirar dritto per un'altra via avesse dato ascolto all'amico, che lo pregava di svoltare con lui a sinistra e di accompagnarlo a casa, avrebbe forse trovato quei malandrini che lo accopparono quella famosa notte per rubargli il portafogli e l'orologio? E suo figlio, non orfano, sarebbe certo cresciuto un galantuomo, mentre oggi sta a Procida condannato a vent'anni di lavori forzati! Il primo amico in cui s'imbattè il conte Enrico O'Stiary, lo stesso giorno del suo arrivo a Milano, fu il Marchesino Ferdinando Sappia, che venne a cercarlo in casa. - Finalmente! Sai tu che sono ormai più di tre anni che non ci vediamo? sclamò il Sappia contento di riabbracciare il suo giovine amico d'infanzia. - Come ti vedo volentieri, - disse a sua volta Enrico con uguale espansione. Qui il Sappia, vedendo che Enrico era ancora mezzo vestito da garibaldino, gli domandò se non pensava a mutar d'abito e a uscir di casa. - Certamente, - rispose Enrico, - sto aspettando che il sarto mi rechi il vestito nero. - E chi è mai di grazia il tuo sarto? - domandò il marchese, mentre arrovesciava indietro sull'omero con ineffabile garbo la rivolta del suo soprabito da mattino. - A dirti il vero non lo so bene ancora; ma credo non debba essere gran cosa perchè mi pare di aver udito, non ridere! che sia un portinaio. - Un portinaio! - sclamò il Sappia, balzando in piedi come preso da vero spavento. - Tu conte O'Stiary, discendente... - Bene lascia stare la genealogia!... - Vestito da un sarto portinaio come un diurnista del Municipio? Ma è un tradimento, un disonore, un abbominio! - Che importa? Tu sai che io sono un artista! Io non faccio conto di andar attilato come te. - Prandoni mio caro, - gridò il Sappia, continuando colla intonazione semienfatica con cui aveva incominciato. - Fuori di questo non c'è salute. Il Sappia era un di que' giovani, che quando parlano non ascoltano che sè stessi, e non rispondono mai direttamente all'interlocutore. Per essi l'obiezione, l'affermazione e la negazione di quegli con cui stanno a colloquio non esistono. Si capisce che essi non spezzano mai nella mente il filo delle proprie idee; talchè la parte abbondantissima che essi mettono nel dialogo finisce coll'essere un lungo soliloquio, nel quale non trova posto neppur l'ombra del sentimento altrui. - Che vuoi caro Nando - disse Enrico appena potè avere la parola - sono arrivato oggi stesso dopo essere stato per molti anni nei padri barnabiti e per molti mesi volontario in guerra. Sono ignorante come un pilastro di queste cose. Da quest'oggi, se vuoi, io mi metto sotto la tua direzione. Comincerò col licenziare il sarto portinaio. - Il tuo tutore - ripigliò il Sappia - sarà un bravissimo, notaio, ma non può avere pratica di mondo. Guai a te se io non arrivavo da Parigi. - Ah sei stato a Parigi? - Sono tornato l'altro giorno con Filippo Marliani che è fuggito via dalla Nanà, perchè temeva di pigliare una potente cotta. Anzi l'aveva già pigliata! Ma fu bravo e mi diede ascolto. - Nanà? - domandò Enrico curioso come un fanciullo, udendo quel nome muliebre esotico, e vedendo schiudersi con esso un inaspettato spiraglio del mondo delizioso d'amore a cui sognava. - Sì, un'attrice delle Varietès, una cocotte in gran voga... una bellezza superlativa. - Ah una cocotte! - ripetè quasi macchinalmente Enrico. Il Sappia non fe' caso di quell'esclamazione e tirò via. - Guai ti dico se io non giungevo in tempo. Chissà come ti conciavano. E sopratutto non lasciarti abbindolare dalle stupide ragioni di chi ci dà del leggiero e dell'effeminato, perchè spendiamo qualche migliaio di lire più di loro nel vestirci, nel pettinarci, nell'andare eleganti. Mummie costoro! Il vestirsi bene per noi ricchi e nobili è un dovere nè più nè meno di quello del farci la barba tutti i giorni e del curvarci a raccogliere un ventaglio o una pezzuola sfuggiti di mano a una signora. Notisi che tutte queste cose, esposte dal Sappia con una grande volubilità, non erano che teorie; giacchè, quanto a lui, se lo poteva appena appena, schivava di curvarsi a terra per raccogliere il ventaglio di una signora. Enrico cominciava ad ascoltare il Sappia con quel sorriso a mezza strada fra l'ironia e la sazietà; un sorriso che voleva dire: sono anch'io perfettamente del tuo avviso; non c'era bisogno che tu ti sfiatassi a dirmi cose tanto note; sarebbe stato meglio che tu mi avessi risposto qualche cosa di meglio intorno a quella Nanà.... Il Sappia, dopo un altro paio di tirate su quel gusto, trovando, che Enrico era presso a poco della sua statura, lo invitò a scender nel brougham che teneva alla porta per andar da Prandoni a comandar l'abito di lutto. O'Stiary non se lo fece dir due volte e così uscirono insieme. Quando furono seduti l'uno accanto all'altro nel legno, Enrico disse: - Ora tu devi farmi un programma della mia vita. Come passi tu le ore della tua giornata? Ti diverti o ti annoi a Milano? È bella davvero questa vita milanese o c'è pericolo di stancarsene? - Non è certo tutto oro quel che luce; - rispose questa volta il Sappia, che trovava in quella domanda soddisfatto l'amor proprio. - Si stava meglio a Parigi! Però con un poco di buona volontà e con molti danari.... "Ahi," pensò Enrico. - La giornata la si può passare abbastanza bene anche qui senza studiare e senza far della politica, come vorrebbero che facessimo noi giovani i parrucconi e i gazzettieri utopisti, che ci rinfacciano continuamente il dolce far niente. Povera gente! Essi non sanno che non c'è creatura la quale abbia maggior da fare d'un uomo che non fa niente! E la ragione è chiara; siccome la sola religione di costoro è l'interesse, siccome il solo idolo ch'essi adorano è il danaro, così sapendo che in questo paese non si può guadagnar danaro, che facendo l'avvocato o il notaio o il negoziante, essi non vedono che queste professioni. Del resto tu sei dilettante di pittura e questo basta già a darti il diploma di uomo che fa qualche cosa a questo mondo. - Tutto sta che io trovi il tempo di dipingere.... - Tu discendi da un'antica prosapia irlandese, ed è naturale che i tuoi istinti siano più cavallereschi che artistici o letterarii. Ebbene quella tal genìa col pretesto che a Milano nell'aristocrazia ci furono dei Verri, dei Beccaria, dei Borromei, dei Taverna, dei Litta, dei che so io, vorrebbero che tutti noi fossimo scenziati e letterati e che invece di montare a cavallo, tirar di spada, far delle scarrozzate, amar le belle donne, e divertirci a cena avessimo a studiar tutto il giorno e tutta la notte. Non nego che la cosa in massima non sia eccellente, ma più per tutti gli altri che per noi. Noi abbiamo il dovere di non rubar il mestiere a chi lavora per vivere. Le tre sole carriere che ci convengano sono quella delle armi, quella della diplomazia e quella della chiesa. Ma se si può far a meno!... Capisci. Di diventar arcivescovo, per esempio, io non mi sento la foia. - Neppur io. Tu mi consoli - disse O'Stiary. - Intanto per questa sera tu sei sequestrato - continuò il Sappia. Comincerò col presentarti alla mia amorosa. - Chi è? - Una bella ragazza, che non ha altro difetto che una piccola cicatrice in fronte. Le ho già parlato di te e desidera di conoscerti. - Desidera di conoscermi? - sclamò Enrico ridendo. - Sono dunque diventato già un personaggio in poche ore? Ma no, ti sono obbligato riprese facendosi serio ad un tratto. L'imagine casta e nobilissima della sua Elisa gli si era affacciata a un tratto. - Capisco - ripigliò - che con una signorina di questo genere sarei ancora molto imbarazzato e temo di aver l'aria di un collegiale. - Fidati di me. La è una casa deliziosa. Non perchè gliel'abbia montata io... ma ella sa fare, parola d'onore. Sans gêne come lei, che in illo tempore fu barabbina la sua parte. Dopo cinque minuti ti parrà d'essere in casa tua. La si saluta, poi chi non ha voglia di farle la corte non pensa più nemmeno che essa esista. Tu ti sdrai, fumi, parli, leggi, ridi, sfogli degli albums e senti dire delle enormi sciocchezze e dei calembours impossibili che sono anche quelli che fanno ridere di più. - E la ragazza è contenta che la si tratti così? - Contentissima. L'abbiamo lanciata noi? - Dimmi un po'.... E questa Nanà chi è? - Ah Nanà è un prodigio! È una parigina puro sangue! Bella come una leonessa, matta come una Baccante, calda, piena di spirito. Quel povero Marliani, s'io non lo strappavo da lei, ci lasciava la sostanza, la salute e le ossa. - E tu? - domandò il conte. - Oh, io non mi lascio pigliare! Non appena, nel cervello del marchesino Sappia, fu entrata l'idea, che parlando all'amico di quella gran cocotte di Parigi, il proprio prestigio di uomo di mondo ne sarebbe ingrandito di cento palmi, cominciò a lodare e a magnificare Nanà in tutti i sensi. Da sballone d'ingegno, qual era, inventò su di lei cose inaudite e rare. Parlò delle di lei bellezze, del suo treno di casa, delle sue scuderie, del suo modo di ricevere, del suo appartamento. Cose tutte, tranne la prima, che egli non aveva mai vedute, nè conosciute, che per bocca di Marliani. - Imagina una testa - disse a Enrico - che avrebbe fatto delirare Tiepolo, Giorgione e Tiziano insieme; una testa coi capelli color del pomo d'oro pallido, quando è proprio d'oro, quel colore insomma che la scuola veneta prediligeva; capelli che quando glieli scioglievi, andavano giù fino a terra e la celavano tutta intorno intorno, tanto ne era il profluvio. Imagina tutto ciò che v'ha di più bianco e di splendido nei toni della carnagione, che, come puoi pensare dal color dei capelli, è pari a neve, rosata insieme e calda, con dei riflessi d'oro per la lanugine fulva che la ricopre. Imagina delle linee e delle curve sode e belle come non le hanno mai imaginate neppure gli scultori greci, che si crede abbiano dato il non plus ultra della formosità femminile. Tutte queste bellezze di linee e di curve formano un vero incantesimo, caro il mio Enrico. In quanto al morale imagina una buona pasta di fanciulla, piena di cuore, di voglia di far all'amore, allegra, spensierata, alla mano, una vera bambina di diciannove anni, ma che conosce la scuola erotica come una parigina ch'ella è, e che sa mandarti in paradiso o in inferno a tua posta; imagina tutto questo, e avrai una pallida idea di quello che sia la Nanà di Parigi. Enrico ascoltava il Sappia con quel lieve sorriso adolescente che vuol dire un'infinità di cose gravi. In lui esprimeva anche quel non so qual pudore giovanile, che serve a far vibrare più viva nella fantasia quasi vergine le corde della curiosità voluttuosa. Enrico, per conto proprio, avrebbe continuato a parlare tutto il giorno di questa misteriosa e splendida Nanà. - Chi è che vi ha presentati a lei? - domandò infatti con voce tenue, quasi tentasse di non lasciar iscorgere al Sappia ch'egli si interessava enormemente in quel soggetto. A questa domanda il Sappia non rispose subito. Se egli avesse avuto voglia di dire la verità, avrebbe dovuto rispondere a Enrico che la Nanà, lui e Marliani, l'avevano conosciuta da madama Tricon. Avrebbe dovuto raccontare molto volgarmente, che la bella prima sera del loro arrivo a Parigi erano andati a teatro, e avendo veduta figurare, in una rivista, quella stupenda creatura, avevano domandato conto di lei, all'albergo. Che il cameriere aveva loro insegnato di rivolgersi a madame Tricon dove, mediante una trentina di luigi, avrebbero potuto fare la di lei conoscenza. Fi donc doncE avrebbe dovuto soggiungere, che la mattina dopo, da veri viaggiatori meneghini e sfaccendati che in paese straniero non vedono che donne e non pensano che alle donne, erano corsi, coi loro trenta luigi in tasca, da madame Tricon proponendosi di tirare a sorte la primizia di Nanà. Avrebbe dovuto soggiungere che madame Tricon si rallegrò immensamente di vederli, e fece loro una festa spietata, quando s'accorse che erano forestieri: "Perchè, diceva essa, la Nanà è felice d'essere richiesta da stranieri. Dei parigini essa non ne vuol più sapere. Sarebbe capace di morir di fame ormai, piuttosto che venire da me, se io non la assicurassi che chi la cerca non è francese. Voi siete spagnuoli, non è vero? "Italiani - aveva risposto il Sappia." E avrebbe dovuto ricordare che la Tricon, a quella notizia, aveva fatta una piccola smorfia, punto lusinghiera pel suo paese, e aveva subito domandato loro se tenevano in tasca i venticinque luigi necessarii; e che alla loro affermativa aveva soggiunto: "Debbo avvertirli però che ciascuno di loro due dovrà scegliere un giorno diverso dall'altro, giacchè Nanà non acconsente mai di posare due volte nella stessa giornata." Il lettore che avesse bisogno di maggiori schiarimenti sopra codesta madame Tricon non avrebbe che a scorrere la Nanà di Zola, laddove egli accenna di questa signora: "Zoe - la cameriera di Nanà - aveva veduta una ventina di volte madama Tricon venir in casa e parlare qualche minuto misteriosamente colla padrona; ma essa affettava di non conoscerla, e di ignorare completamente quali fossero i rapporti che esistessero fra questa donna e le signorine che pativano asciugaggine di tasche." La povera - dico povera nel senso cristiano - la povera Nanà quando aveva bisogno urgente di danaro ricorreva alla casa di madame Tricon. "Va, va, ma fille! diceva essa fra sè - ne compte que sur toi. Ton corps t'appartient, et il vaut mieux t'en servir que de subir un affront." "Et sans même appeller Zoè elles s'habillait fievreusement pour courir chez la Tricon. C'etait sa supréme ressource aux heures de gros embarras. Trés demandée toujours sollicitée par la vielle dame... elle ètait sûre de trouver là vincinq louis qui l'attendaient. l'attendaient.Ma tutto ciò, che sarebbe stata la pura e nuda verità, il marchese Sappia non poteva nè voleva più dirlo all'Enrico. Egli, per darsi del tono, si era già compromesso; s'era slanciato a dir mille bugie e mille invenzioni sul conto di Nanà. S'era ingolfato nelle regioni iperboliche di una splendida galanteria. Si guardò bene dunque di accennare neppur per ombra nè alla Tricon, nè ai venticinque luigi necessari, nè ad altre simili bagatelle; e invece impacchiuccò ad Enrico una risposta inventata come tutto il resto, e continuò a parlargli di presentazioni fatte sul palcoscenico, anzi nel di lei camerino, da un amico parigino, che aveva entratura nelle coulisses, coulisses,poi di gite in campagna fatte insieme, e di serate al Mabille, e di cene, e di orgie in cui non c'era la benchè minima ombra di vero, ma che a lui pareva lo posassero in faccia ad Enrico su un piedestallo eccelso. Ciò che v'era poi di più piccante ancora in tutto questo, ciò che costituiva un fatto relativamente grave e ridicolo, si è che, lui, come lui, proprio lui, precisamente lui, codesta Nanà non l'aveva proprio mai toccata neppure colla punta del dito mignolo. I due giovinetti naturalmente, là dalla Tricon, avevano tirato le buschette. Se i lettori trovano questo fatto molto choquant non so che farci. E d'altronde nel caso di Sappia e di Marliani tutti i lettori farebbero lo stesso. La sorte aveva favorito il Marliani. La Tricon allora aveva significato al Sappia, che egli avrebbe dovuto rassegnarsi ad aspettar un altro giorno le grazie di Nanà, perchè quella benedetta ragazza non avrebbe mai acconsentito a passar dalle braccia dell'uno in quelli dell'altro. Il Sappia, di malumore per questo sberleffo della fortuna, pure aveva aspettata Nanà là nel salotto della Tricon, per vederla arrivare, e sentir da lei quando fosse stata di comodo di concedergli il rendez vous vousanche a lui. Essa era venuta infatti, tutta bella, fresca e voluttuosa; ma quand'egli aveva tentato di farsi promettere che il giorno dopo sarebbe ritornata per lui, Nanà aveva risposto: "No, caro signore, domani no. Restate voi a Parigi?" "Certamente, siamo arrivati ieri. Io ci starò finchè a voi piaccia di non essere crudele con me." "Allora vedremo, aveva risposto Nanà, la quale, come si sa, abborriva dal cedere per danaro, e lo faceva soltanto nei giorni di grande arsura. - Vi farò avvisare da madame Tricon, se vi piace. Ma non fatemi importunare troppo dalla vecchia, perchè altrimenti non mi avrete mai più!" Il Sappia ridendo si rassegnò ad aspettar il di lei capriccio. Aveva capito che con quella creatura non era il caso di ottener di più, nè colla preghiera, nè colle offerte. Per venti giorni egli s'era recato ogni mattina a trovare la Tricon, la quale dal canto suo andava un paio di volte la settimana a sollecitare la Nanà; sempre invano. Marliani intanto, senza dir nulla all'amico, c'era riuscito invece ad ottenere da lei un secondo rendez-vous, in tutt'altro luogo, e le aveva mandato una bagattella di braccialetto da cinquemila franchi, i quali se li era dovuti far mandar da Milano. La Nanà aveva trovato il Marliani molto simpatico e non s'era fatta pregare molto a concedergli una seconda visita. Quanto a lui, da buon amico, aveva tentato di dissuadere Nanà a dar ascolto al Sappia. Essa non glielo aveva promesso formalmente, ma glielo aveva lasciato sperare. Invece un bel giorno la Tricon mandò un bigliettino al marchese in cui gli significava che la Nanà sarebbe venuta a casa sua quel giorno per lui, ma che aveva messo per condizione il migliaio. Il marchese, contentone, aveva messo nel suo portamonete il biglietto da mille, e alle due ore era là tirato come uno stecco, ad aspettare la bella donna. La sua frègola era al colmo. Il Marliani gli aveva raccontate cose tali di Nanà che il marchesino ardeva, bruciava, e dopo un quarto d'ora aveva già indosso l'agonia. Passarono le due e mezzo, passarono le tre, le tre e un quarto e Nanà non compariva. Madama Tricon si esibì di andar ella stessa a vedere che cosa diamine fosse successo. Mezz'ora dopo tornò a contare che Nanà aveva litigato con Satin, e che non sarebbe venuta; che l'aveva mandata al diavolo lei, la sua casa, gli Italiani, il biglietto da mille e tutti quanti insieme. Il Sappia era dunque partito da Parigi senza poterla biblicamente conoscere. E siccome aveva conservato pel Marliani in fondo al cuore un po' di rabbietta, perchè egli potesse vantarsi d'averla trattata e lui no, giunto in patria gli aveva voltato l'occhio, e dall'arrivo non s'erano più ritrovati. Quanto al Marliani aveva seguíto a malincuore il Sappia. Quella fatale Nanà - quella cocotte da venticinque luigi - lo aveva ammaliato. Le due o tre volte ch'essa s'era concessa a lui per riconoscenza del braccialetto, gli ballavano nella fantasia una ridda di tali memori voluttà, che capiva non l'avrebbero lasciato tranquillo per un bel pezzo. La carrozza era giunta a casa di Sappia. Montati in camera, questi intraprese la metamorfosi di Enrico, vestendolo di nero; poi andarono dal cappellaio, poi dal Mosconi il calzolaio dei nobili, poi dal Prandoni. Enrico tornò a casa all'ora del desinare e pranzò colla Elisa, la quale di quando in quando, allorchè egli le sorrideva, alzava i suoi occhioni innocenti e belli in viso al garibaldino, mentre due altri sguardi, tutt'altro che indifferenti, andavano spesso a impetrare dalla vergine un amichevol occhiata, ch'ella quel giorno si ostinava di non conceder loro. Erano gli sguardi di un altro giovane invitato a pranzo, e che sedeva accanto alla signora Eugenia, uno scultore, che si era fatto conoscere favorevolmente nella Esposizione di quell'anno e che rispondeva al nome di Aldo Rubieri. Verso le otto e mezza il Sappia venne a riprendere Enrico per andar insieme dalla Luisa, alla quale il marchesino passava seicento franchi al mese. Essa abitava un elegante appartamento a primo piano in Via Solferino. Chi era la Luisa? D'onde veniva? Come aveva conosciuto il Sappia? Nel nostro tempo, una ragazza di diciotto anni: come la Luisa, con discreto ingegno, molta malizia, una gran dose di concupiscenza in corpo, e punto quattrini, se fosse rimasta, quel che si dice, una fanciulla onorata lo avrebbe dovuto indubbiamente ai propri genitori. Non è certamente troppo difficile che anche da una famiglia di galantuomini sorta fuori una ragazzaccia che si butti via; ma sarebbe un vero miracolo se in una famiglia viziosa, disordinata e miserabile, ci fosse una creatura che sapesse conservarsi onesta. La Luisa era nata da un padre briccone e da una madre bigotta e quasi cretina. Suo padre faceva un mestiere proibito dal codice, e, quel ch'è peggio, lo faceva colla coscienza tranquilla di chi crede di non commettere azione disonesta. "Un mestiere come un altro" diceva lui. Egli, sostraro fallito, s'era acconciato a diventare fabbricatore di falso coke, che vendeva a certi suoi antichi colleghi, ladri come lui, a non so quanti centesimi il chilogrammo. Il falso coke è composto di rottami di fabbrica, di vecchi mattoni, di calcinacci e di ciottoli fatti cuocere nella pece e simulanti il coke vero. Per certi venditori di carbone è comodissimo. Fa comparir un quintale di combustibile, ciò che, in sostanza, non è più di ottanta chilogrammi. Essi spacciano alle loro pratiche quattro quinti di coke e un quinto di falso coke fabbricato dal babbo della Luisa, e rubano, con un peso perfetto, il quinto sulla differenza. A Parigi questi e simili truffatori sono colti e pagano delle buone multe. A Milano finora nessuno ci ha mai badato, e le stufe a coke milanesi son tutte piene di mattoni e di calcinacci. I primi col dileguarsi della pece che li ricopre, diventano rossi dalla vergogna, i secondi bianchi dalla paura. Prima che giungesse per la Luisa l'età dei desiderî malfrenati e prima che il mal esempio paterno entrasse a guastarne l'indole, già discretamente perversa, la Luisa era un ciuffetto, ma non dava a pensare che sarebbe diventata la birba che diventò. Ella aveva qualche istinto buono; tant'è vero che aveva cominciato fin dai nove anni e senza addarsene, a trovarsi in flagrante contrasto con suo padre per causa di probità. Una sera - ell'aveva appunto nove anni, e andava come piccina a scuola di stiratora - stavano raccolti nella lurida stanzaccia, che serviva di covile a tutti e tre, e il padre si mostrava lieto più del solito. - Che hai Gana? - domandò la madre. - Ho tirato su un bischero al prezzo - rispose il marito fregandosi le mani lorde. - Che prezzo? - Al mio uso carbone. Oggi ne ho venduta una partita a dieci centesimi al quintale più del solito. Ah, fu una gran bella invenzione la mia! - Babbo! - fece la Luisa. - Che vuoi, pettegola? - È vero che il tuo carbone fa peso ma non fa caldo? - Chi te l'ha detto, stupida marmotta, chi te l'ha detto? - gridò il Gana arrovvellato. - Quando i mattoni sono roventi fanno caldo anch'essi. Chi te l'ha detto? - Me l'ha detto la maestra - rispose la piccina. - Dirai alla tua maestra che la vada a pigliar.... La frase, per quanto vera, non può essere ripetuta. Nessuna teoria al mondo potrà fare mai, che essa sia per diventare artisticamente e umanamente presentabile. Ma la Luisa ebbe allora il coraggio di replicar un'idea sentita da sua madre. - Anche la mamma dice, che questo è un rubare alla povera gente. Non l'avesse mai detto! Il Gana prese un bicchiere sulla tavola, e lo scagliò contro la bimba. Il bicchiere si spezzò sulla di lei fronte; uno zampillo di sangue spicciò da un arteria e andò a bagnar la faccia del feritore, che ne restò sconciamente intrisa. La madre svenne di spavento. Questo era stato il primo grave strapazzo, ma non l'ultimo. Quella bestia di un fabbricatore di coke batteva a sangue la Luisa tutte le volte che sentiva di aver torto. Così, imparando da suo padre, già a quattordici anni ella avrebbe potuto aspirare alla cerchia dove Dante condannò i violenti. Di lì a poco la Luisa s'era già concessa per semplice curiosità, senza lotta e senza amore, al primo scapestrato, che le aveva offerto un anellino e una cena al veglione. Costui veniva spesso dalla maestra stiratora a raccomandarle di dar l'amido più denso o meno azzurrino ai manichini e ai solini da collo. Un giorno regalò alla Luisa uno spillone d'acciaio in forma di stiletto per fermare il profluviante volume de' suoi capegli castagni. La Luisa aveva usato di quello stiletto per ferire malamente una compagna, di scuola, spintavi da subitaneo furore di gelosa picca. L'educazione paterna portava già i suoi frutti cruenti. Quella ferita, fatta in corpo scrofoloso e affetto da lue ereditaria, aveva tratto al sepolcro quella misera compagna, e la Luisa era stata condannata a due anni di carcere in grazia dell'età adolescente e della nessuna premeditazione. In carcere essa aveva compiuta la sua educazione di mariuola e quando ne uscì, ell'era in tutto il rigor del termine, una birba sconsacrata. Immaginatevi ora una fanciulla di diciasette anni bella, poltrona, lasciva, scorbellata, che esce di prigione e che non vuole nè può tornare in casa paterna, dove non è rimasto che un babbo, ancora più briccone, più scioperato e più lascivo di lei. Sua madre, nel frattempo era morta; le anime buone, dicevano di crepacuore, le sue più intime amiche dicevano di catarro. Dal carcere, finita la pena, alla Luisa era toccato di andar difilato alla Questura; e più precisamente a quella sezione dell'ufficio, che provvede alla sanità pubblica e che ha l'incarico di sorvegliare la condotta delle fanciulle, che non avendo di che vivere, non pensano a mettersi un ditale sul pollice e un ago fra le dita. Là le venne domandato naturalmente, che cosa intendesse di fare della sua vita e in qual modo contasse provvedere alla propria esistenza? - Me lo dicano loro! - rispose la Luisa. - Io non lo so. - Noi non possiamo dir niente - rispose il delegato con un sorriso eloquente. - Noi siamo qui per sentire e non per insegnare. Non facciamo il maestro di scuola noi. Bisognerebbe però che prima di tutto tu ti trovassi un qualche galantuomo che venisse qui a rispondere per te. Allora saresti fuori immediatamente da tutti i fastidî. "Bravo - pensò la scorbellata - vuole dire ch'io mi faccia mantenere." - Ma dove vado a pescarlo, così sui due piedi, un galantuomo che voglia rispondere per una povera tosa che esce di prigione? - Prima di entrarci in prigione un amante lo avevi pure! - disse il delegato. - Ma ora non c'è più. Ha pensato bene di buttarsi nel tombone di San Marco, perchè era troppo contento d'esser venuto al mondo. - Cerca qualcun altro allora. - A questo c'avevo già pensato anch' io - riprese la Luisa - ma intanto, come faccio a vivere? - Ti sentiresti di poter tornare una buona figliola? - In che modo buona figliola? - Mettendoti ancora a lavorare! - Io sì - rispose la Luisa, mentendo; giacchè nel suo interno era g'ià scoppiato invece un no risoluto e indiscutibile - Ma dov'è che potrei trovar da lavorare? Se me lo procurano loro lo piglio, se no, non saprei. - T'ho già detto, cara mia, che noi non facciamo di questi uffici. Non eri tu prima da una stiratora? - Oh, come lo sanno loro? - Noi si sa tutto. Tu eri già sul nostro libro prima di andar in prigione. Tu frequentavi le sale da ballo e qualche altro luogo anche peggio. Non è vero? "Ho capito" - pensò fra sè la Luisa. - Va a vedere se la tua antica maestra la ti volesse ripigliare. È una buona donna. - Io no, vede, e lei? Mi canzona? Dopo quello che è accaduto là in quella stanza? L'imagine della ferita, del sangue, delle grida e di tutto il trambusto ch'ella aveva suscitato il fatal giorno, le si affacciò con brusco assalto e impallidì. Il delegato capì e non insistette. - Vedi che cosa vuol dire a fare delle brutte azioni? - Ora quel che è stato è stato; la brutta azione me l'hanno anche fatta pagare carne salata, me l'hanno fatta. - Ricordati che sarai tenuta d'occhio dalle guardie. - Questo lo so senza che me lo dica. Se non ha altri moccoli, perch'io m'aiuti, posso fallare a morir di fame. - Cercati lavoro e non andar in volta di sera e ben poco anche di giorno. Capisci? - Già, e il lavoro verrà da sè stesso a cercarmi a casa mia, n'è vero, il lavoro? E intanto come farò a vivere? - Questo ti riguarda, Arràngiati. Arràngiati.La Luisa continuava a far l'innocentina. - Cosa vuol dire arràngiati? arràngiati?- Non so nulla. Ma ricordati di non lasciarti trovar sola a scopar la strada, specialmente dopo il tramonto, se no le guardie ti arresteranno e ti condurranno qui da me. - Me l'ha già detto e ripetuto tre volte a quest'ora. E nella sua testa la Luisa aveva cominciato a mulinare al mezzo di far cascare il delegato in una frase scandalosa. Ella si sentiva in confuso, una gran voglia di far risaltare la così detta immoralità nella bocca di quell'impiegato dei Governo. Voleva che fosse proprio lui a dirle di pensare a vendersi senza tanti scrupoli, e a fare la sgualdrina. - Io le torno a domandare chi è intanto che mi darà da mangiare? - Oh! - scoppiò finalmente a dire il delegato che non sospettando non stava in guardia, ed era anche un po' ammaliato dal bel viso di lei - credi tu che io sia un imbecille, da venir qui a farmi la bambina, dopo essere stata due anni in prigione? Chi t'ha a dar da mangiare? Ma, il primo messere che abbia due occhi in capo, dieci lire al giorno da spendere... sacrr... - e qui giù una specie di bestemmia da regio impiegato - e a cui piaccia il bel sesso. E quando il messere sarà deciso a fare sicurtà per te, conducilo qui che io ti cancellerò subito dal libro. - Ora sono soddisfatta - sclamò la Luisa che c'era riuscita. - Basta così! Il delegato, che la guardava con compiacenza, s'accorse allora dal sorriso maligno di lei, ch'ella era persuasa d'aver riportata su di lui una piccola vittoria. Essa c'era riuscita! E infatti pensava lei a un dipresso: "È il direttore d'una sezione di Questura, è il rappresentante della morale pubblica, è l'ufficiale del governo italiano che m'ha detto di andar alla perdizione. Io farò il mestiere per obbedire al commissario. Se fosse altrimenti, egli penserebbe piuttosto a procurarmi del lavoro. Egli mi lascia in balìa di me stessa, e sa pure che io di lavoro nè posso, nè voglio trovarne, mentre egli sa che di messeri, anche senza il suo parere, ne troverò finchè sarò stufa." La Luisa, uscita di là, si mise dunque in cammino per obbedire al delegato. Essa dava ascolto alla legge, essa si uniformava ai regolamenti di Questura: Non caste sed caute Così che, se fosse anche stato il caso di dover fare il brutto mestiere contro voglia e contro coscienza - ciò che non era - la si sarebbe trovata come si dice colle spalle al muro. Se non che la coscienza e la voce dell'onore nella Luisa era un bel pezzo che tacevano. Anch'essa, come Nanà, quantunque in un grado molto più volgare e più perverso, non sentiva più in corpo che tre grandi inclinazioni molto serie e molto spiccate: quella di non lavorare, quella di far all'amore e quella di non morir di fame. E, quanto alla terza, via! non si saprebbe davvero da qual parte farsi per dare tutto il torto a lei sola. Il diritto non le può essere contestato! Non aveva mossi un centinaio di passi fuor dall'ufficio di Sanità, eh' ella s'accorse d'essere pedinata. Non sapeva bene se erano due o tre, perchè non li vedeva e non si voltò indietro; ma se li sentiva, come per intuizione, nella schiena. Si fermò a guardare in una vetrina di modista per lasciarli passare e sapere almeno se erano gobbi o sciancati, giovani o vecchi. E volgendo il viso per guardarli, passati che furono, scorse dal canto della via, spuntare una donna, un'antica conoscenza, una certa sôra Marianna, la quale teneva sotto il braccio un enorme fardello e veniva un po' barcollando verso di lei, col sorriso che dava a vedere come l'avesse già ravvisata da lungi. Quando le fu d'accosto: - Centini mundi - sclamò questa; la era una sua esclamazione particolare. - Finalmente che la possiam rivedere, la possiamo, questa nostra bellezza! Dove diamine la è stata tutto questo tempo? Sapeva la vecchia che la Luisa era appena uscita di prigione? Le aveva fatta la domanda con malizia e per umiliarla, oppure non ne sapeva nulla? La Luisa, a buon conto, fece la prima supposizione, e rispose non arrossendo e con una specie di impertinenza: - Sono stata a Parigi! E lei, dove va con quel fagotto? - Eh, sa bene! Le solite miserie. Vado a mettere in collegio un po' di roba, perchè è bene che impari anche lei a stare al mondo. In lingua il bisticcio della Marianna non regge; in dialetto fece il suo immancabile effetto, e la Luisa ne sorrise malinconicamente. In dialetto, monte e mondo hanno lo stesso suono. - Anche lei! - disse la fanciulla. - Non c'è dunque che miseria a Milano? - Che vuole, cara Luisa! E lei? - Io? Io, come la mi vede, non so oggi come pranzare. - Possibile! - sclamò la signora Marianna coll'accento incredulo. - Una bella tosa pari sua? Centini mundi S'io fossi in lei, vorrei domandar se Milano è da vendere. Lei non ha a far altro che metter giù il suo bravo grembiale e star lì a veder i merli a fioccarvi dentro colle mani piene di bigliettoni bianchi, rossi e verdi. - Me lo disse poc'anzi anche il... Voleva dire il delegato, ma troncò la frase. La vecchia però aveva già mangiata la foglia. - Oh, diamine! Le toccò di andar laggiù? La Luisa si morse le labbra. Pel gusto di ponzare la sua piccola idea di ribellione ironica contro le incumbenze del delegato e contro la morale pubblica, essa aveva svelato il brutto segreto. - M'ha mandato a chiamare per sapere come faccio a vivere dopo il mio ritorno da Parigi, perchè ha saputo che vivo sola. - Io ne avrei uno che sarebbe un portento per lei - disse la vecchia strizzando l'occhiolino. - Di che cosa? - domandò la Luisa fingendo di non capire. - Un messere, centini mundi Chi vuol che sia? - Chi è desso? - È un banchiere. - Giovane? - Ecco - disse la Marianna - per giovine non è giovine di primo pelo, ma però è benissimo conservato, e ricco. - Quanti anni avrà, insomma? - Io non gli darei più di sessant'anni o sessantadue. - Oh, che strega! - sclamò la Luisa, scoppiando a ridere. - Mi parla di primo pelo! Non è nè di primo, nè di secondo! - È meglio anzi che sia un uomo posato... un uomo che ha già fatta la sua carovana. - Sì, sì, non dico, ma quanto al primo pelo... màghero! màghero!- È capace di farle una posizione. - Crede lei che vorrebbe rispondere per me là da quel caro direttore? - Questo poi non lo so, perchè è ammogliato. - Anche ammogliato! - sclamò la Luisa. Poi riprese: - Meglio allora! - Sicuro che è meglio. Dà minor fastidio. Lo si può tener in gambe, comprometterlo, levargliene quanti si vuole. E poi si è più libere di tenersi il candelliere e il capriccio; si ha sempre il coltello per il.... - Bene, bene, queste cose le penso anch'io - interruppe la Luisa un po' duramente. Quella benedetta parola di coltello, poco o molto, la faceva sempre trasalire, anche quando era pronunciata in una figura rettorica. - Dove si potrebbe vederlo questo banchiere di... terzo pelo? - In casa mia, se vuole. - Lei sta ancora laggiù? - Sì, cara. - E quando? - Magari domani. Il tempo di avvisarlo. - A che ora? - A mezzogiorno. - Bene, domani a mezzogiorno sarò da lei. E si lasciarono. La Luisa si spiccò di là, e vide sul canto della via che uno de' suoi pedinatori stava ad aspettarla. Quand'essa gli passò dinanzi, egli le fe' tanto di cappello. La Luisa rispose con un modesto chinar del capo. L'altro, che era appunto il marchesino Sappia, le si mise accanto. - Si potrebbe aver l'onore di sapere, bellissima creatura, dove siete diretta? - Lei è ben curioso! - Io faccio come il dottor Faust con Margherita, e vi domando il permesso di accompagnarvi a casa. - Non posso darglielo - rispose la Luisa, che, piena di appetito, aveva già messo l'occhio sul suo moscone per farsi pagare da pranzo. - Perchè non può darmelo? - Se io le ripetessi che lei è assolutamente troppo curioso, che cosa mi risponderebbe? - Che la curiosità è la madre della voglia di sapere. - Lei è forse uno di quelli che scrivono sui giornali? - No, no - rispose il Sappia ridendo. - Ma perchè questa domanda? - Perchè lei mi parla molto difficile. Che so io? Poc'anzi era il dottor Faust e Margherita, e ora è la madre della voglia.... - Bene, parlerò più facile. Come avete nome? - Ho nome... ho nome Aquilina. Ma non permetto che mi si dia del voi. - Vi darò del lei. Aquilina, bel nome! Nome superbo, e portato da una donna adorabile. - Me l'hanno detto degli altri. - E se io desiderassi di fare la sua conoscenza, bellissima Aquilina, me ne darebbe lei il permesso? - Mi par bene che stiamo facendola.... - Sì, ma io dico... una conoscenza un po' più intima... a quattrocchi. - Non si rifiuta mai la conoscenza d'una persona educata come lei. - In casa sua dunque non ci si può venir davvero? - Per ora no. In seguito non dico. Ora io vado a pranzo. Quest'oggi si potrebbe tutt'al più trovarsi alla stessa tavola a pranzo. - E se io la invitassi a pranzare con me fuori di Porta? - Dove, per esempio? - Non saprei.... All'Isola Bella. - No - rispose la Luisa - all'Isola Bella c'è troppa gente; piuttosto al Giardino d'Italia. - Allora ci possiamo andar subito. Sono ormai le quattro e mezza. - Come vuole. Il Sappia fece un gesto ad un cocchiere di vettura pubblica, che passava col legno vuoto. Vi montarono, e via pel Giardino d'Italia. Come si vede, la Luisa obbediva largamente al delegato. Essa coglieva due piccioni ad un favo. Aveva trovato un probabile messere e aveva azzeccato il pranzo di quel giorno. - Sapete, bella Aquilina - disse il Sappia quando fu seduto a tavola colla Luisa al Giardino d'Italia - che voi assomigliate in un modo spaventevole ad un'amante che io ho avuto or ora a Parigi? - Davvero? Ciò mi rende orgogliosa! - Naturalmente voi non siete ancora a quel punto.... - Oh, lo credo! - Quella era una cocotte sì, ma una cocotte gran dama. - Ho capito! - Ha nome Teresa, ma tutti a Parigi la chiamano Nanà. Non ha meno di trentamila franchi al mese, ed è sempre in miseria. - Vuol dire che li spendeva. - Sicuro! - Ah, in questo poi non vorrei assomigliarle. - Vediamo, Aquilina. Voi mi piacete in modo enorme. Ci sarebbe speranza di intenderci? Io non v'ho ancora detto il mio nome; sono il marchese Sappia. Io vorrei fare di voi una seconda Nanà. - Che non spende trentamila franchi al mese, però. - Ah, naturale! Tutto dev'essere in proporzione. Milano fa trecento mila abitanti coi Corpi Santi, Parigi ne fa un milione e mezzo; cinque volte tanto. A Milano, una fanciulla come voi può col quinto di trentamila franchi al mese, che sono sei mila far la signora come Nanà a Parigi. - Questo poi non credo. Sei mila franchi sono una miseria anche a Milano. - Ah, ah! Avete delle idee in grande, voi. - Voi ci tenete ad essere solo? - Perchè questa domanda? - Ponete che io sia già impegnata con un vecchio, che non vi potrebbe dare ombra di gelosia. Ponete che io sia qui con voi perchè mi siete simpatico.... - Grazie, Aquilina. Non ne dubitavo. - Io so bene che voi non vorreste che io fossi vostra amante gratis, gratis,n'è vero? - Neppur per sogno. - Se voi non avete difficoltà che il vecchio continui la mia relazione, voi diventerete il mio amante di cuore. Mi farete qualche regalo e tutto sarà detto. - Accettato. - Allora vi dirò che io non mi chiamo Aquilina, ma mi chiamo Luisa. E così era avvenuto il contratto del loro matrimonio morganatico. Il marchesino uscì dalla casa di Luisa verso le nove del mattino del giorno dopo. A mezzodì in punto, la fanciulla montava le scale della Marianna. Il vecchio banchiere non si fece aspettare; dopo mezz'ora di conversazione, trovò che la Luisa era la creatura che pareva creata apposta pe' suoi fini reconditi; le fece delle discrete proposte, ed essa le accettò subito anche quelle, senza farsi pregare: giacchè l'appetito non c'era verso, che non ritornasse ogni mattina e ogni sera a persuaderla che bisognava dar ascolto al delegato. Così in breve la scarcerata di fresco fu accasata come una signora, in mezzo a mobili propri, con due assegni mensili, che uniti ne facevano uno più grosso di quello d'un consigliere di Cassazione e che le venivano dal Sappia e dal banchiere, il primo dei quali era l'amante en entitre l'altro lo spunta-pesi segreto. Poco prima che Enrico O'Stiary giungesse a Milano, essa aveva finto di piantare in asso il vecchio banchiere, per farsi maggior merito presso il suo amante scoperto. Ma in fatti essa era legata al vecchio peggio di prima e da ben altri legami che non fossero i legami dell'amore. - Buona sera, Nando - diss'ella al Sappia, che era entrato con Enrico O'Stiary. E intanto aveva diretta un'occhiata curiosa all'amico che stava dietro di lui un po' in disparte. - Buona sera, Gigia - rispose il marchesino, e volgendosi tosto verso il conte, ripigliò: - T'ho condotto il mio giovine amico, il conte O'Stiary, che farà in tua casa i primi passi al mal costume. Enrico strinse la mano che la Luisa gli porse; e l'indispensabile vermiglio, che accompagna quasi sempre il primo passo al malcostume, si pinse sulla fronte del giovinetto. La Luisa lo invitò a sederle accanto. - Spero bene - cominciò dessa - che Nando le avrà detto, che qui da me sono banditi i complimenti. Dunque la metta giù il suo cappello, giacchè il mio motto è sans gêne Ma quasi mi scordavo di presentare a questi signori; il signor Silvestro Bonaventuri aiutante di... e il signor Paganino di Genova. I due nominati s'inchinarono. O'Stiary fece altrettanto. - Lei è uscito da poco dal collegio, non è vero? - Ora torna dal campo. - Dal campo!... A proposito - disse levandosi; ma disse quell'a proposito precisamente a sproposito, giacchè ciò che stava per metter fuori non c'entrava per nulla col campo - Cominciate a fare anche voi altri il vostro dovere qui su questa lista. Vi avviso che non voglio rovinarvi però. Non accetto meno di venti franchi, ma non accetto neppure più di cento franchi. - Così dicendo, la Luisa aveva levato da un tavolino una borsa, una lista, ed un lapis che presentò colla bocca aperta al Bonaventuri. - Che cos'è? - domandò questi con aria un poco sorpresa. - Ho fatto voto, che tutti quelli che i quali metteranno il piede in questa sala, dal primo all'ultimo del mese, dovranno per una volta almeno aiutarmi a fare un'opera buona. È una colletta per una povera famiglia che muore di fame. - Volontieri - rispose il Bonaventuri. - Che cosa debbo fare? - Scrivere su questa lista il vostro riverito nome e cognome, colla cifra che intendete di mettere in questa borsa, per la mia irresponsabilità. E guardò con un bel sorriso in faccia a O'Stiary. - Spero la mi permetterà di avere anch'io questo piacere di far del bene in sua collaborazione - disse Enrico traendo di tasca il portamonete. - Veramente, per la bella prima volta! - sclamò ridendo la Luisa - è un po' da sfacciata! - Faremo dunque il male in mezzo - fece il Bonaventuri parlando forte. Ecco i miei cinquanta franchi. - Ed ecco i miei - soggiunse il Paganino da Genova, mettendo i suoi cinque biglietti da dieci nella borsa. Il povero Enrico fa sopraffatto da uno sgomento indicibile. Egli aveva pensato in cuor suo di non dare che venti lire, e capiva che bisognava metterne cinquanta come gli altri, e temeva di non averli nel suo portamonete. Dei cento franchi della mezza mesata sborsatagli dal tutore, e che dovevano servirgli per quindici giorni, gli pareva di averne già spesi in guanti, in profumerie, in gingilli, in mancie e al caffè, una metà abbondante. Non sapeva bene quanto gli restasse nel portamonete, ma temeva d'essere a corto. Guardò trepidando in esso, e con lieta sorpresa vi trovò appunto i cinquanta franchi che parevano lì apposta contati. Non gli rimaneva più che un bigliettino sudicio da cinquanta centesimi, che rimase là unico e vergognoso, come una protesta contro la lèsina del tutore. - Ed ecco i miei - ripetè anche lui mettendo l'obolo nella borsa di Luisa, che lo ringraziò col suo più splendido sorriso. "Spero bene - pensò - che il tutore non mi vorrà mangiare se gli racconterò che ho dato cinquanta franchi a scopo di beneficenza - pensò Enrico, dopo che la Luisa lo ebbe ringraziato. - "Io non potevo dar meno di Paganino e di Bonaventuri, che devono essere meno ricchi di me." Poco dopo entrarono nuovi visitatori. Erano il signor Ciambelli colla Romea, un fuseragnolo di donna, con due occhi discreti e una carnagione che arieggiava la porcellana colorata, per amor dell'intonaco ch'ella si praticava sul viso. Ciambelli, suo amante, un pancione nero come un croato, le aveva messa su una buvette, dove la Romea troneggiava dal suo banco, chiamando, col desio e colle occhiate lunghe, i passanti, che non volevano saperne di entrare nella di lei bottega a bevere l'amaro prima di andare a pranzo. La Romea era una sgualdrina come tante altre, ma la si teneva ingenuamente in conto di donna onesta, e parlava delle mantenute col disprezzo d'una principessa! Quanto la godevano per questa pretesa le sue poche pratiche! A un certo punto si parlò di far un piccolo taglio di macao. La Luisa sulle prime fece finta di opporsi, ma poi, vedendo che tutti erano del parere fece recar le carte e lasciò che giuocassero. Enrico, un po' per timidezza, un po' per innata ritrosia, ma sopratutto perchè non voleva far vedere d'essere corto a quattrini stava in disparte. Sappia gli andò vicino: - Non fai conto di giuocare tu? - Ma... non ho voglia.... Non sapevo che si giuocasse.... È meglio che stia a vedere... - Ti pare? Il più giovine della brigata, far la figura del più vecchio? Mi faresti sfigurare. Ricordati che questa sera comincia a formarsi la tua riputazione di gentiluomo e di uomo di mondo. Bisogna che tu provi un po' di tutto, in società, se vorrai starci bene, e se vorrai poter educare con cognizione di causa i figli che avrai dalla signorina Elisa. Enrico si fece tutto rosso in viso. - Che c'entra? Come sai? Chi t'ha detto? - Noi sappiamo tutto - sclamò con aria di mistero il marchesino. - Ma io ho ben poco danaro con me... non sapevo. - Se non è che questo ti servo subito. Figurati! E schiuso il portamonete ne trasse un biglietto da cinquecento e lo diede a Enrico dicendo: - Quando non ce n'è più, ce ne sarà ancora. Avrebbe potuto rifiutarsi ancora il nostro collegiale garibaldino? Andò al tavolo verde. Dopo mezz'ora egli aveva perduto fino all'ultimo i suoi cinquecento franchi. La Romea gliene aveva beccati fuori la metà. Sappia gliene prestò subito altri mille. Il demonio del gioco lo aveva già preso alla strozza. A mezzanotte il disgraziato aveva perduto i mille e giocava già disperatamente sulla parola. Al tocco dopo mezzanotte il Sappia si levò dal tavoliere, e disse: - Mi pare ora di andarcene. - Facciamo i conti - gli disse Enrico che appena cessato l'incanto e l'emozione si trovò di aver indosso una febbre indiavolata. Fatti i conti trovarono di avere perduto fra tutt'e due seimila e trecentoventi franchi. Enrico ne doveva mille e cinquecento all'amico, mille e duecento a Silvestro Bonaventuri, e trecento alla Romea, Il povero giovinetto era così confuso di dover danaro perfino ad una donna, era così spaventato, così abbacinato dalla perdita, dal timore di non poter il giorno dopo farsi onore nelle ventiquatt'ore, dello spavento che il tutore e la Elisa venissero a sapere la sua scappata, che quasi quasi ne piangeva a calde lagrime. Il Sappia dovette scuoterlo più volte. - Ma domani come si fa? Pensa che debbo trecento franchi anche alla signora Romea. - Ci penso io - gli rispose l'amico. - Non seccarti. In ogni caso la Romea ne deve a me cinquecento da sei mesi, che non me li ha mai restituiti. Preso poi in disparte il Bonaventuri, che conosceva, per quel tanto che si conoscono certe persone: - Favorisca - gli disse - a indicarmi dove ella sta di casa. - Oh - sclamò il Bonaveuturi, come schermendosi - la si figuri; ha tutto il tempo; lei è padrone di tutta la mia sostanza... "Buono a sapersi" pensò il Sappia fra se. Enrico quella notte non chiuse occhio e fece il più inviolabile proponimento di non giuocare mai più. Nella ingenua purezza della sua coscienza di vent'anni, egli sentiva di quel fatto un rimorso indicibile. A mattina andò dal tutore e gli spiattellò senza reticenze la sua avventura della sera innanzi. La fu una scena di inenarrabile delusione per lui, una tempesta di maggio, un finimondo. Il tutore gli fece una parrucca che non finiva più. Egli era un di quegli uomini che non crederebbero di far il loro dovere se non quando s'accorgono d'avere ben tormentata la loro vittima. Essi hanno nelle vene, io credo, un po' di sangue di Torquemada. Questo modo di educare, essi lo chiamano saggezza. E certo se facesse l'effetto di render saggio meriterebbe quel nome; ma siccome non ottengono invece che quello di seccare dovrebbe esser chiamato seccatura. seccatura.Allo stringer dei nodi il tutore si rifiutò perfino di pagargli quel primo debito di giuoco. Enrico non sapeva più in che mondo si fosse. Corse a trovare il marchese d'Arco. Questi ascoltò in silenzio il racconto e le giustificazioni del giovinetto; poi senza dir motto si levò, andò al suo scrigno, ne abbassò l'imposta, tirò fuori un cassettino, ne trasse tre bei biglietti da lire mille e li porse al giovinetto dicendogli questa sola frase: - Ma cerca di non giuocare mai più se ti è possibile! Enrico da quel tratto restò assai più confuso che non lo fosse stato prima dalla lavata di capo e dalle smanie esagerate del suo tutore. - Oh, marchese, come è buono lei! - sclamò il giovine buttandosi al collo del vecchio e baciandolo sulle labbra. - Mi prometti sul tuo onore che non giuocherai più? ripigliò sorridendo di gioia e dopo un certo silenzio il marchese. - Sì, glielo prometto in parola d'onore e colla sicurezza di mantenere la mia promessa. - Tu devi sapere Enrico, che a' miei tempi ho giuocato molto anch'io. Allora il giuoco era di bon ton non era proibito, lo si faceva in pubblico. Il governo straniero usava di questo mezzo per demoralizzarci, per distoglierci dalle idee di patria e di indipendenza. Vedi dunque che ti parlo con cognizione di causa. Fin d'allora mi capitava sempre, che perdendo, io pagava puntualmente entro le ventiquattr'ore il mio debito; ma se vincevo pochi lo pagavano a me. - Possibile? - Possibilissimo mio caro Enrico. Credilo pure; la gente che paga i debiti di giuoco non è a questo mondo che un decimo di quella che non li paga. Questa almeno è la statistica della mia dolorosa esperienza! Non so se gli altri saranno stati più fortunati di me nella loro vita. Ma è così! Ora capisci bene. Se tu quando perdi sei certo di dover pagare, e quando vinci sei certo di non essere pagato che dieci volte su cento... la cosa diventa molto seria. Sarebbe necessario perchè tu restassi almeno in pace che vincessi novantacinque volte su cento; il che assolutamente non è possibile avvenga. Hai fatto bene dunque a promettermi che non giuocherai più. E qui si mise a parlargli di tutt'altro. Il marchese artista nell'anima tempestava Enrico di domande sulla sua posizione, sulla pittura, sulle sue idee circa le due scuole, sulle sue speranze di farsi un nome, sull'avvenire sognato. Enrico s'accalorò in quel dialogo. Il marchese godeva enormemente a sentirlo parlare così modesto, così schietto, così sincero e così pieno di illusioni. - Ma non credi tu - gli disse a un certo punto - che il positivismo, il realismo e la democrazia abbiano a uccidere l'arte? - Ah, marchese, al contrario! L'esaltazione del popolo sarà l'esaltazione dell'arte. Il marchese crollava il capo sorridendo. - Ah, entusiaste! - Non lo crede lei? - Io no davvero, - rispondeva il marchese. - Il popolo, e per popolo m'intendo quella parte della popolazione d'un paese che si stacca dall'aristocrazia illuminata e dalla borghesia ricca e studiosa, il popolo non sente bisogno dell'arte, nè la capisce. Mancando assolutamente di sentimento estetico come vorresti tu ch'essa amasse il bello nelle sue manifestazioni? - Eppure se c'è un'esposizione di quadri e di statue vi accorre...! - Il popolo no, non se ne cura. La statistica della affluenza del pubblico alle esposizioni parla chiaro. In ogni modo anche i pochi che ci vanno non vi sono attirati dal bisogno di ammirare il bello, ma dalla curiosità di veder nei quadri dei fatti interessanti, allegri o pietosi. Il quadro sarà pessimo come arte, ma rappresenterà qualche fatto ben volgare, ben chiaro, che squadri al popolo? Sarà il prediletto da lui. Esso non s'accorgerà che artisticamente parlando il quadro è uno sgorbio, un abbominio. Il popolo non monta verso l'arte se non quando l'arte discende giù fino al volgo. E il naturalismo stesso, l'impressionalismo, di cui tu mio caro Enrico, ti dichiari seguace e cultore, non è forse l'arte che abdica in favore dei grossi istinti del volgo? Enrico era impaziente di andar a pagare i debiti fatti la sera prima. Erano i primi debiti di sua vita e gli rimordevano la coscienza. Diede dunque ragione al marchese e se ne andò ringraziandolo di nuovo con espansione. Prima di spiccarsi dal suo vecchio amico, questi aveva cavato da una cartella che stava sulla tavola un foglio di carta e accostando alla mano di Enrico il calamaio gli aveva detto: - Scrivimi qui la ricevuta e la promessa di non più giuocare. Enrico si dichiarò debitore delle tremila lire al marchese e promise nella ricevuta di restituirgliele quando fosse andato in possesso della propria sostanza. Della mesata insufficiente fissatagli dal tutore non si fiatò. Non si ricordò di parlarne. Il marchese non gli aveva neppur lasciato il tempo di spiegare la cosa, e quando Enrico s'era trovato esaudito, col danaro in mano, s'era scordato di entrar in quell'argomento. Enrico corse a casa di Sappia, a cui raccontò il rabbuffo e la crudeltà del tutore e il bel tratto del marchese d'Arco. Volle andar egli stesso nella bottega della Romea, a portarle i suoi trecento franchi, che gli bruciavan le dita e dovette spenderne un'altra quarantina di giunta, in bottiglie di dichampagne ch'essa gli appioppò senza che lui, timido ancora, osasse di rifiutarle. Poi, con Sappia, ritornò a casa. - Parlerò io al tuo signor zio antidiluviano - aveva sclamato il Sappia quando Enrico gli aveva raccontato del fiero rabbuffo avutone. - Lui li chiama minuti piaceri Altro che minuti! Impercettibili, microscopici... piaceri! Il notaio a stento acconsentì di portar l'assegno di Enrico da duecentocinquanta a trecento franchi al mese. - Domando io caro signor marchese - gli disse congedandolo, e colla più profonda convinzione di dir cosa sensata ed onesta - domando io come potrà mai arrivare a spendere più di otto franchi al giorno fuori di casa? - Nei mesi di trentun giorni e negli anni bisestili - disse il Sappia con una finissima ironia che il tutore si guardò bene dal notare - gli otto franchi al giorno sì può calcolare che diventino soltanto sette e novantadue centesimi. - Ho fatto un buco nell'acqua - diss'egli tornato che fu all'Enrico, il quale non s'aspettava nemmeno i cinquanta franchi d'aumento - Bisogna che tu faccia la lite al testamento di tuo padre, che ti ha voluto tener sotto a quel mastodente fino ai ventiquattr'anni; se no finirai, col rovinarti moralmente e materialmente, te lo dico io! - No - rispose Enrico. - Prima di tutto io non vorrei fare questa lite, neppure nel caso che non offendessi l'ultima volontà e la memoria di mio padre. In ogni modo, dato che il tribunale mi desse torto, io sarei perfettamente rovinato, giacchè avrei fatta opposizione; e tutta la sostanza andrebbe ai gesuiti che stanno aspettando al varco la preda. È meglio ch'io mi stia ai primi danni. Così erano passati circa due anni, e a dispetto dei trecento franchi al mese, Enrico O'Stiary era diventato uno dei giovani più brillanti di Milano. Cavalcate, scarrozzate, scherma, cene, club, ballerine, e pur troppo di nuovo, il giuoco - nel quale era ricascato con vivo, quantunque inutile rammarico, con profondo, ma pur vano rimorso - erano le occupazioni delle sue giornate e delle sue notti. E la povera Elisa trascurata, infelice, ma orgogliosa nel suo dolore s'era fatta intanto donna. Il tutore non badava più all'Enrico. Disperava di cambiargli la testa. "Chiudeva un occhio per non inquietarsi" come diceva lui. Il marchese d'Arco dal canto suo, il quale vedeva il suo giovane amico far la vita del gentiluomo, e non s'era curato mai di sapere quale somma il tutore gli avesse fissato pei minuti piaceri, era ben lontano dall'idea ch'egli si stesse rovinando a bagno maria. Egli poi non sospettava che Enrico si fosse rimesso a giuocare. Gli sarebbe parso fargli uno sfregio pensando che un'O'Stiary avesse potuto mancare così alla parola d'onore. Quando si trovavano parlavano d'arte, di cavalli, di politica, e le miserie umane le lasciavano da parte. Enrico dal canto suo, si guardò bene dal ricorrere un'altra volta al marchese per denaro, e lo schivava come un rimorso. Il Sappia pensava largamente a tutto. Suo padre e sua madre gliene davano in una certa abbondanza, ed egli aveva un credito grande presso gli usurai! E anche lui - lo sciagurato - faceva delle orribili operazioni a babbo morto! Ma era venuto un bel giorno che anche il Sappia erasi trovato nella necessità di chiedere danaro ad Enrico. Il povero giovine gli avrebbe data la vita, ma non aveva che i suoi duecento franchi al mese. Risolse di farla finita col tutore; di parlargli fuor dei denti, di ottenere insomma quello a cui gli pareva di aver diritto. Ci pensò un paio d'ore, poi piuttosto che aver a fare con don Ignazio si aperse alla balia. La balia gli aveva detto di avere dodicimila lire alla Cassa di risparmio. Non lasciò che l'Enrico terminasse la frase; corse per quanto glielo permettevano i settantanni nella sua camera, e portò al contino le dodicimila lire in tre bei libretti puliti e fiammanti ch'era un piacere a vederli. - Ma no, non voglio, non voglio - diceva Enrico colle lagrime agli occhi. La balia alzò la destra, e con una specie di entusiasmo, sclamò: - Ma non è forse roba sua codesta? Quale uso più degno potrei fare di questo danaro... io che non ho più nessuno al mondo? Pochi mesi dopo convenne di nuovo rivolgersi altrove. Il tutore, quand'ebbe messa da parte del tutto la speranza di vedere il conte far giudizio, pensando al giorno ormai vicino in cui gli sarebbe toccato rassegnargli la sostanza taglieggiata e forse perduta, intieramente aveva cominciato a cercarsi dattorno un altro sposo per la sua Elisa, che già aveva trascorso il diciottesimo anno. Egli comandò a sua moglie di far di tutto per disingannarla nel caso ch'ella nutrisse ancora qualche speranza di diventare la moglie del contino e si mise a sparlare a tavola del suo pupillo e a tentar di metterglielo in mala vista. Ma egli non pensava che dieci anni di pensieri e d'illusioni accarezzate non si distruggono in un giorno! L'uomo adatto, del resto non tardò a presentarglisi sotto la miglior luce del mondo. Era Aldo Rubieri - che s'era fatto un bel nome e una bella sostanza, e che quantunque artista, parve al babbo un modello di uomo serio e un marito esemplare. Chi mai avrebbe detto a Enrico O'Stiary che quei cinquanta franchi da lui con lieto animo versati nella borsa di Luisa a titolo di beneficenza la sera d'un giorno d'autunno del 1866, dovessero essere il primo anello di una lunga e disastrosa catena di sagrificî, di spese, di perdite, di debiti, di rovesci, che lo dovevano condurre tre anni dopo, quando egli era lì lì per aver la piena disponibilità della propria sostanza, ad essere un uomo rovinato? Ma sopratutto chi gli avrebbe detto che la causa principale, la causa effettiva del suo rovescio, non doveva essere nè l'amico Sappia, non doveva essere la Luisa, non doveva essere il giuoco, ma piuttosto la gretta protervia del suo tutore, che aveva negato fin dal principio di fissargli quel tanto, che nella sua posizione era necessario?

Pagina VI

UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

656351
Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

. - Tu sai quanto abbisogna ad un conte. - Messere sì. Conoscere la propria lancia, conoscere il cavallo, non conoscere una cosa sola, la paura. - Ad un cavaliero per farsi con onore porre la propria spada accanto, quando venga calato nella buca dei maggiori? - Avere molti nemici, come diceste voi. - Basta? - Averli vinti, come voglio fare io. - Ricordati che sei di messere Oldrado! - e il padre si strinse con amore guerriero il giovane, ed io affermo che vi ponesse la istessa forza e la istessa intenzione, che usava, serrandosi al suo cavallo, per inseguire un nemico. Ugo moveva ad un armeggiamento ad armi cortesi, per il che il padre lo domandò con scienza sperimentata: - Sai come si chiama il rischio a cui tu corri? - Giuoco. - Si chiama giuoco, perchè, per quanto tu faccia, non potrai mai forare da banda a banda il tuo avversario. Conosci la tua lancia? - O messer sì. L'asta è fatta col legno folto sulle nostre rupi, e il ferro si chiama da passafuora quella è tre volte di lunghezza la persona, per attestare che tre virtù sono necessarie a chi la maneggia, fortezza nel pensare, fortezza nel fare, perseveranza sempre: quello è assicurato da quattro chiovi, per dichiarare che quattro sono i nemici da vincere, quelli dell'onore, quelli del nome, quelli del potere, quelli della religione. - Conosci il tuo cavallo? - Meglio che se fosse mio fratello: è baio sanguigno, balzano della staffa, sulla testa segnato di cometa. - Conosci la paura? - Voi pure non me la dipingeste, conte, ed io dico che ho troppo bene appreso alla scuola vostra. Ugo, afferrata la criniera dell'animale, stava per saltare in arcioni, se non che Oldrado: - Sei pure impaziente! Non vedi che tu, uscendo a cavallo di qui, ti romperesti la fronte nell'arco della porta? Chi t'ha insegnato a metterti in sella come un indiavolato? Il giovane superbissimo di questo rimproccio che tornava a tanta sua esaltazione, ripose il piede in terra, si fece portare la sua maglia e il piastrone del petto, indossò l'una, si affibbiò l'altro, cinse la spada che era appiccata alla colonna, e, come si provò saldo, disse: - Avete ragione, padre, messer Adalberto non ci viene incontro di certo. E il padre: - Conviene esser leali: neppure fuggo. L'armeggiamento fu vinto con assai gloria da Ugo, e, quando questi, alla sera, stava nello stanzone dell'arme, Oldrado, ruvidamente passandogli la mano tra i capegli per disbrogliargli certe ciocche grommate di sangue, Oldrado gli parlava: - Ti ho avvertito: figliuolo, andavi a giuoco: pure se da quello che tu hai operato devo presagire di te e del mio casato, fatti cuore e pensa che il giuoco fu buono. Dimmi: chi ti diede questa? - e il padre gli toccava la scalfittura del capo. - Oberto, nipote d'Ildebrandino! - Oberto, mi dicono lavori assai bene di spada. - Ed io di lancia! Lo pagai a mille doppi, facendolo staffeggiare al primo incontro, ruinandolo giù dalla sella al secondo, schiodandogli il piastrone al terzo. - In oggi sei degno di tuo padre! Ed oggi è deciso che io ti parli assai gravemente, e tu mi ascolti con quella reverenza che si conviene a chi si accinge a prestare un giuramento. Ti ripeto: figliuolo, andavi a giuoco, ma fatti cuore, e pensa che fra poco devi cambiare gli speroni d'argento in altri d'oro, e saranno quelli del padre. Ugo, che per sentirsi dire tali parole avrebbe voluto ritornare dalla lizza anche col petto squarciato o la testa fessa, si toccò la scalfittura, con atto così rozzo e spietato, che il padre gli domandò: - Ugo, che fai? - Voi mi concedete troppo onore: io ho sofferto poco e non lo merito! - Oh pensa! pensa, figliuolo mio: non darti cura se l'operato ti pare così inferiore al guiderdone: questo, sta sicuro, ti offrirà da fare più che tu non creda e più che non comporti il tuo debito. Io condanno il tuo capo ad ogni sorta d'affanno, e tu, pronunciando il giuramento, avvelenerai le tue labbra con tutta l'amarezza della maledizione e ti dilanierai il cuore con lo strazio della vendetta! - lamentò Oldrado. - Accetto il tormento del corpo e dell'anima, se voi mi credete capace di fortissimi fatti! - esultò Ugo. - Figliuolo, sì, ti saranno cinti... Ma ricordati: non è solo la mano scabra del padre che ti porgerà gli sproni: un'altra manina, lenta, dilicata, bellissima... La destra di tua madre! - e Oldrado rise con tetra ironìa. - Requie a lei!... Come? Voi non me ne parlaste mai? Oggi...? - maravigliò Ugo. - Perchè sia requie ai morti, vuolsi guerra tra i vivi! - Padre mio, ditemi! Ed io vi affermo, per la promessa che mi avete fatta, che questa sera medesima mostrerò ai vostri nemici ch' io so reggere l'armi di messer Oldrado! - Io ti dirò! Il figliuolo con piglio militare tolse da un trofeo la spada del padre, se la pose innanzi, appoggiò le mani sopramesse al pomo, e levò la persona così gagliardamente, che e' parve già cavaliero. Messere Oldrado se gli allontanò d'alcuni passi, fece scricchiolare il dossale di un seggiolone, poi si alzò e tremendo nella posa, e colla tempesta nella voce, incominciò: - Figliuolo, quanti anni hai? - Voi sapete: venti. - No, io non so, perchè i tuoi li misurai dall'angoscia, e questa degli anni fa secoli! Dici venti, e sarà bene: da venti anni è morta tua madre, madonna Guidinga! Ascolti? - Ascolto. - E fremi! Qual ricordo hai tu della tua infanzia? - Rammento una sala deserta, oscura, vastissima e in quella una donna. - Non era tua madre! - interruppe irosamente Oldrado. - Sulle sue ginocchia, mi pare... Ma se stavo su quel grembo, ricordo che ci stavo piangendo, e se piangevo, lì vicino... schiacciante e formidabile, al solo mio agitarmi, una mano guantata di ferro, mi sembra mi sorreggesse, dondolandomi, e con aspra cantilena una bocca m'invocasse il sonno. - Tuo padre non sapeva più che fosse carità! - Rammento i portici paurosi, una cappella sempre parata a lutto, e, sotto gli archi, fra i neri drappi, io so di certe strisce candidissime, fumose, che mi apparivano innanzi gli occhi... le dita come di una larva... - La madonna perduta - gemette Oldrado, e si fece segno di croce. - Padre mio, sì, nell'aria c'era qualcosa che mi ammaliava... Io non so... Ero fanciullo, e sempre, sempre solo! Amavo il silenzio, la notte, la vasta oscurità: tacevo, mi rannicchiavo, affranto sotto il peso di un mistero, ficcavo gli occhi nella tenebra... Qualcuno era con me!... Chiamavo, spiavo, salutavo!... Perchè fuggi? Ma chi fuggiva? Fuggiva per ritornare: ritornava per fuggire... Chi era? - Ascolta, figliuolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . - Come l'amai! Oh madonna Guidinga! Ella fu dell'invitto Eude, il quale, conducendola sposa a questo castello, con lieto seguito di baroni, annunziò il suo gaudio nel proclamare che la diletta usciva dal portone degli avi per entrare grande signora in quello di un cavaliere di Lanciasalda. Eude dall'anima altera e fatta audace colle lotte sostenute per conservare la sua indipendenza dalla rapacità dei castellani più forti. Guidinga pose il piede in queste sale, e sorrise! Ma oh la gioia si andò, come suono di salterio nella bufera!... Sorrise! Mi parve bella, immacolata, come le nevi delle nostre cime, promettitrice di pace, come un'alba rosata: colle manine che dovevano spargere fiori! Aveva diciassett'anni o poco meno. Chi era Oldrado? Ella nol conosceva. Messer Eude le aveva detto: - Lo sposerai - ed ella aveva risposto: - Sì, - mestissima, come all'ancella, che sedevale da' piedi, toccando l'arpa nei crepuscoli, e che le rimproverava: - Madonna, non cantate più le laudi? - come all'ancella rispondeva: - No, cara. - Inconscia di tutto, melanconica o gaia, cupida di fantasìe ultraterrene, Guidinga conosceva non l'amore, ma l'irrequietudine, e questa la sospingeva, la sospingeva nei voli del desiderio... Dove aleggiava, sorradendo giardini dalla eterna primavera, la sua mente desiosa? - Chi è il mio sposo? - domandava la gentile al padre, varcando il mio ponte. - Figliuola: i cavalieri della stirpe di Oldrado e le fanciulle della mia usarono sempre di darsi la mano, quelli togliendo la destra dall'elsa della spada adoperata nel combattimento, queste offrendo la ciarpa d'onore al vittorioso. Così si conoscono la prima volta. - Perchè si ritarda adunque dall'armi? Chi sarà il mio sposo? - È Oldrado. - Così diceva messer Eude. Lo sposo doveva essere vincitore: se vinto, supplicava l'avversario di misericordia, e misericordia somma era l'essere ucciso con un solo colpo. Allora la sposa dallo steccato funesto passava diritta al monistero, ove dichiarava all'abbadessa: - Dio Sapiente ben provvide: piuttostochè essere donna di marito fiacco e madre di figli che un dì possano seguire l'esempio del padre col vitupero di mia schiatta, piuttosto consento ad essere sposa del Signore e madre dei poverelli. Ciò a salvazione dell'anima e a soddisfacimento dell'onore. Voglio prendere il velo. Guidinga sorrise ai giovinetti cantori che la salutavano regina della beltà, fiore della gentilezza virginea, speranza del signore e dei vassalli! Sorrise e fece doni, e si ammantò di bianco, e, a mano del padre, attraversando le corti del castello, affollate e rumorose, uscì alla spianata, entrò nello steccato, e s'assise al posto eminente. - Chi è lo sposo? - ridomandò la giovinetta ad Eude. - Ti dissi. - Fate cominciare l'armeggiamento. Figliuolo, in quell'istante io non potei togliere gli sguardi dalla sua bellezza delicatissima. Ero tutto serrato nell'armi, e mi sentivo soffogare dall'ardore di mostrarmi degno di lei, dalla brama perigliosa di cimentarmi con qualunque avversario, dalla preghiera sfidatrice che io lanciavo al cielo: - Mandami il piu formidabile cavaliere! Io ti giuro che ella, non ravvisandomi dall'armi, mi ravviserà dall'imprese superbissime. Ella deve esser mia! Moglie di gagliardo guerriero, madre di figli i cui vagiti si mescoleranno agli squilli vittoriosi delle trombe paterne!... Vengano, vengano i forti! Vennero: arnesati, io non li riconobbi: però il mio scudiero Unfrido mi disse: - Là è Baldo, questo è Aginaldo, quell'altro il Montanaro. Messere, per amore del nostro santo protettore, state saldissimo contro Baldo! Messere, l'altro è debole sulle staffe. Il Montanaro vien sotto, come un toro inferocito, ma nella furia... Ed io: - Lo so. - E pensavo, guardando la bellissima: - O Guidinga, tu attendi! Qui vi sono i cavalieri, nessuno ha distintivo nell'armi, e tu non conosci! Oh il tuo cuore ti dice: «Vedi! eccolo!» Non lo sai?... Vittoria! vittoria! Fra brev'ora lo saprai! Alzerà l'elmo! Lui! eccolo! eccolo il trionfante Oldrado! L'araldo del primo campione gridò: - A cavallo! Lo scudiero mi susurrò: - Messere, ascoltate un fedele: fate il giro dello steccato e fermatevi di là: così non avrete il sole negli occhi. Corsi lo steccato: trovai il cavallo, mi serrai su quello. Ad un tratto mi soccorse un pensiero: - Mi riconoscerà dall'animale bianco!-ma dai pertugi dell'elmo vidi che Unfrido, il quale ancora mi era accanto, faceva un certo viso da traditore che mi sapeva maladettamente, vidi che io non avevo sotto il mio bianco, sibbene un morello! Con l'aiuto d'Iddio, abbattei il primo avversario e il secondo, e lo steccato così suonò d'applausi. Dopo udii che si diceva, non so da chi: - Ma come? Messer Oldrado non si muove? - È sempre là ritto accanto al suo cavallo bianco. - Era lui che doveva fare tante prodezze! - Come sapete che è Oldrado? Non si deve conoscere alcuno nell'armi. - Sì, non conosce chi non vuole. Chi dei castellani a venti miglia tutt'ingiro ha un bianco come quello? E poi rispondetemi se quell'armato là non è Oldrado, se dal cavallo si fa ragione del cavaliero. - Ma vedrete! Io mi tormentavo: - Oh perché mi fu cambiato l'animale? Che giuoco c'è sotto? Ed io non dovevo accorgermi?... Ma Unfrido mi avrebbe dato l'usbergo che si smagliasse o una lancia fessa, o addirittura una coltellata alle reni, quando mi vestiva il saio di pelle! Ma il cavallo me l'avrebbe mutato con uno tristo! E invece questo pare nato per le mie ginocchia! e l'armi saldissime! Chi ha pagato Unfrido? E dov'è? Là proprio vicino al mio bianco e tiene la staffa al cavaliero. Chi è quel cavaliero? Per Dio! quell'animale è tutto fuoco, e crede di reggere il padrone! Chi è quel cavaliero? Facendo il giro dello steccato, passai sotto al seggio di madonna, e sa il cielo che cosa fantasticai: parvemi che una manina tremante mi levasse l'elmo, sorretto da' miei polsi febbrili, e due labbra mi baciassero sussultanti, acclamandomi già vittorioso: mi rizzai sugli arcioni con grande orgoglio e fui lì lì per gridare: - O vergine, voglio per te farmi degno di alto onore! - Dimenticai Unfrido e il bianco mio... No, che non li dimenticai: me li sentii tosto fitti in cuore ad atroce martirio e per opera tanto villana, che, ti dico, poco stetti ch'io non balzassi giù ad adoperare sulle schiene la mia spada, come si usa coi traditori. Senti: proprio sotto a quel palco due garzoncelli parlavano assai clamorosamente, e volti colla facce all'insù, perchè madonna ascoltasse. Diceva uno: - Chi è lo sposo? E l'altro: - Non lo sapete? - Costui che passa, a lancia alzata? - Oh sì! costui sa fare tanto d'andare ruzzoloni nella polvere, come un mastino trattato a calci. - Come? se vinse i due? - In grazia di sortilegio. - Dite vero? - Vedrete la terza impresa se vorrà essere così scempia: la terza si corre tra messere dal cavallo morello e quello là dal bianco. - - Chi è quello? - Evviva lo sposo! Mi sentii le briglie tra mano e la lancia alla staffa, perchè suonò la tromba. L'ignoto avversario mi venne incontro: alle punte opponemmo lo scudo, ma nessuno colpì, per il che, scagliate le aste, diemmo mano alle spade. Era combattimento di due valentissimi... Quando si levava dalla moltitudine il grido di: - Viva lo sposo! - io l'ascoltavo con tale tumulto di gioia e di spavento di non meritarmelo, che tempestavo di braccia, come un fabbro sull'incude, e l'altro addoppiava la furia verso di me. Maledizione! una volta intesi: - Viva lo sposo! - e fu contrapposto, parmi, da due vociacce sotto il palco di madonna: - Viva il cavallo bianco! - Che fossimo in due a meritarci quel grido? Io non sapevo quale, ma certo si celava insidia! Per il che badavo nel tirare le botte ad accompagnarle col nome di qualche santo. Figliuolo, potei finire una litanìa e ancora incominciarla e ancora finirla: pure nessuno di noi consentiva a cedere, e il giuoco cortese s'avviava ad essere duello a tutto transito, con grandissima festa degli spettatori. A un tratto l'araldo squillò, come si usa quando si ingiunge di cessare dall'armi. Nessuno di noi obbedì, tanto eravamo odiosi, e, menando quegli ultimi colpi, procuravamo con potente ira che fossero i mortali. Di nuovo la tromba suonò grave, e allora io, tra il dare un fendente, lui tra il pararlo, ascoltammo queste parole: - Cavalieri, per la cortesìa della dama. - E noi lasciammo andare le braccia penzoloni: in quel momento di posa alla tempesta del corpo in me successe quella dell'anima: il perchè io ruggivo domandandomi: - E chi è questo dannato? - In lui, credo, succedesse altrettanto, perchè ascoltai una bestemmia atrocissima verso Dio! Stemmo l'uno contro l'altro, e, se non era l'araldo a porre il suo bastoncino tra noi, io dico ci avremmo scambievolmente fatto contro qualunque tradimento. Eravamo di posizione vicino al palancato di legno e vicinissimo al palco di madonna. Si alzavano d'ogni intorno le grida: chi parteggiava per il morello, chi per il bianco, chi per lo sposo, chi per l'avversario, chi pel sinistro e chi pel dritto. Messer Eude non poteva restare indifferente a tanta lotta di favori, egli già maestro di cento feste d'armi e già vecchissimo guerriero in cento battaglie, si levò... Non so che facesse, tra baroni, perchè io aveva impedita la veduta dalle gocce di sudore, so che udii anche la sua voce: - Lo sposo principiò colla offesa e finì colla offesa... - Madonna del cielo! Se io avessi potuto vedere come si stava Guidinga! Sì, che vidi ad un tratto, vidi che sventolava una ciarpa! Pesti, ansanti, a fatica retti dai cavalli, prendemmo postura riverente dinnanzi ai gradini della dama, ed ascoltammo l'araldo: questi proclamò, un giudice, messer Eude. Tra il silenzio Eude parlò: - Da valenti cavalieri. Il giuoco fu aperto con gagliardìa, sostenuto con scienza, finito... No, messeri, finito non può dirsi: pure io, re d'armi, dichiaro che sia finito, e ognuno di voi faccia promessa di attenersi al mio detto. L'accanimento mi piacque! Per il che io dichiaro qui che nessuno dei due combattenti procedette per virtù occulta: ambidue invitati a comparire innanzi al seggio della regina. A me è data facoltà di instituire i premi: lo sposo avrà la ciarpa, il valoroso compagno un bacio di madonna. Così si potrà dire che l'uno e l'altro avranno bene meritato. Noi due avversari, scavalcati, ci demmo la mano, poi a paro venimmo sotto al palco di Guidinga. Ella mosse incontro al mio compagno: egli si levò l'elmo... Era messere Adalberto!... Guidinga sorrise! Eude mostrò grandissima sorpresa, e domandò: - Ma chi aveva cavallo, bianco? -Lo sposo mio! - affermò vivacemente la donzella, e di nuovo sorrise ad Adalberto, come ad un arcangelo. Eude mi tolse l'elmo... - Messere Oldrado! - esclamò, e volto a Guidinga tristamente: - A lui il bacio: ad Oldrado la ciarpa - Ed io non so come si tenesse in piedi: - Chi aveva cavallo bianco? - domandò la fanciulla dolorosissima. Adalberto ricevette il bacio... Era bellissimo il giovane: era bellissima la giovinetta! Io, sposo, non potevo che piangere! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Qui il cavaliero narratore interruppe il racconto, tormentandosi gli occhi perché non dessero lagrime; e la luna che entrava dal finestrone fu riflessa da un guizzo; terribile, la spada di Oldrado negli artigli di Ugo. - Figliuolo, che fai? - Vorrei fare quello che non faceste voi! - rampognò trucemente la voce del figlio. - Giudicherai se queste erano parole da dirsi ad un padre! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Adalberto aveva veduto una sola volta Guidinga, ad una caccia, nei lontani monti di lei, quand'ella era a fianco di Eude: ma una sola volta bastò per aizzare nell'anima maledetta una passione così rovente e rodente di desideri, che il cavaliero ghignò di volerla un giorno nelle sue braccia! Inconscia di tutto, melanconica e gaia, inesplicabile e cupida sempre di fantasie ultraterrene, Guidinga conosceva non l'amore, ma la tremenda irrequietudine de' suoi sedici anni e delle sue sventure, e questa la sospingeva nei voli del desiderio... Ella aveva veduto Adalberto! Dal di della caccia fino a quello dell'armeggiamento era scorso un anno senza più che l'uno si abbattesse nell'altra: nulla ella sapeva di lui, neppure il nome: nè mai il padre parlò. Sapeva che per lui, più notti, il cuore le si era scosso nei tumulti febbrili! Poi si sentì spossata! Nei sogni l'immagine di Adalberto veniva, ma coi mesi e coi mesi sempre più sfumata... Ed era vestito di bianco e per lei sorrideva e piangeva (Adalberto!): ma non aveva profilo; le linee si perdevano nell'espressione; era una gioia, un dolore carissimo. E Guidinga sempre più diveniva ansiosa di fantasìe, e spandeva l'anima sua nella immensità dei cieli, ponendo negli azzurri l'ideale della vita poeticissima, e là sfavillava di tutte le luci il suo desiderio, e là la gioia e il dolore avevano tanta voluttà di dolcezza, quanto mistero l'infinito!... Svegliata dal suo delirio abituale, nella vita di quaggiù più non trovava cose degne di lei, provava la noia del cammino dopo lo slancio placidissimo del volo! Svegliata, più non chiamava lo sposo! Quando il padre Eude le disse: - Sposerai Oldrado-ella rispose: - Sì - perché certo pensava: - È lui!... - Ma se è lui... perché sciupare colla realtà l'ideale affascinantissimo che io ho nell'orizzonte tutto mio? E se non è lui... perché vivere, se questa è vita d'anni e quella sognata è eterna e sempre inebbriata d'amore? - e disse all'ancella che più non amava le armonie: la musica è divina e dell'anime blandite dalle lusinghe dell'ignoto... Richiamata alle scosse della esistenza giornaliera, la sua indole fece sì ch'ella dinnanzi agli occhi portasse sempre un lembo di nebbia iridescente, la nebbia dai vortici pieni di sogni, la quale, posandosi sugli oggetti veduti o intraveduti, li rendeva circonfusi di luci mitissime, li tuffava come nel crepuscolo dileguante di una visione. Così l'ideale si sfumava col reale: e il volto del padre cavaliere divenne buono e tutto per lei, la imagine della madre sepolta si presentava alla culla, o quella dello sposo veniva, veniva, come nei primi giorni... Che? il viso di messere Adalberto. Guidinga domandava: - Dov'è lo sposo? - e poi sorrise. - Sarà per me: o lui, o il monistero! E se nell'armeggiamento egli restasse vinto? - E tacque, fidentissima, con Eude. - Messer Adalberto sapeva di struggersi, non sapeva d'essere amato. Per furore di gelosia giurò (perchè non voleva scoprirsi a lei se non con atto tale che facesse parlare tutti i cavalieri) giurò di uccidere me Oldrado e di vituperarmi, insomma in modo che ella fosse non mia, come l'ebbi richiesta! E che non fosse nemmanco del monistero lascia fare a lui! Era prontissimo ad ogni sacrilegio. Così si presentò al giuoco, comperò il mio scudiere, per far credere lo sposo dal cavallo bianco autore di tante prodezze, mentre poi alla fìne Oldrado doveva esser trovato morto, e lui colmo di tutto l'onore! E Guidinga... Oh! fu aiutato dalla fortuna più che non credesse: la decisione del re d'armi lo ammise al bacio della dama! Si levò l'elmo..; O Signore! Guidinga guardò il suo volto e il mio!... Guidinga bestemmiò a me condannato il corpo di lei, ad Adalberto benedettamente dedicava tutta l'anima!.. Ci sposammo, ma, se a vece della ciarpa a toccare il petto dalla parte del cuore, a vece della corona di fiori d'arancio sul capo, ella avesse dato a me tante stoccate, io a lei una corona di spini, noi avremmo offerto a Dio la espiazione delle nostre peccata! Guidinga da angiolo divenne, dimonio! Dopo nove mesi ella portava sozzamente nelle viscere il beffardo frutto dell'odiatissimo nostro connubio, e giurava e spergiurava che perdere madre e figliuolo sarebbe stato opera meritoria. Io la facevo di continuo guardare. Un giorno ella era presa da strazianti dolori; io origliavo all'uscio attendendo... A un tratto di fuori al castello odo un suono di trombe, poi un paggio mi strappa la veste, gridando: - Messere! messere! i nemici! - Chi è? - Adalberto! O Signore! nel castello so che eravamo male apparecchiati, scarsi d'uomini e scarsissimi di vettovaglie. Che fare? Oh che tormento fu quello! Resistere? Il sommo pericolo! Arrenderci? Il vitupero di mia schiatta!... Guidinga udì quel nome, e nel delirio proruppe: - Adalberto! tu vieni a togliermi da questo inferno! - Invocava il nimico, ed io aspettavo da lei uscisse o un bambino un dì destinato ad ascoltare il testamento del padre, o una bambina che avesse a dare ai figli col latte il veleno dell'odio! Ringhiavano le trombe al di fuori. Io mi precipitai dalle scale, ed ecco occorrermi il mio fedele Aimone. - Messere, siamo perduti! - Per Dio! ditemi! fate qualcosa! E quegli dubitava: - Ricorrere alle armi... - Ricorriamo al tradimento! E che fece egli con me? Per Dio! - e mi accordai con lui, e conclusi: - Dammi un pugnale avvelenato, e tu a tempo sbatti la porticina nel corritoio. - Messere sì! - Dammi un pugnale avvelenato: e lascia a me la cura di sgozzare Adalberto! In cima allo scalone ascoltai un grido così feroce che mi rivolsi e temetti di avere alle terga il nominato: guardai e vidi madonna che, nuda, oscenissima e sanguinante, si rotolava giù di gradino in gradino... Accorsi, più che per odio a lei, per amore furioso della creatura che si teneva in seno!... forse già schiacciata per le violenti percosse! Accorsi e la avvinghiai, ed ella con affanno straziantissimo, supplicandomi ed imprecandomi: - Messere, salvate Adalberto! Non fate tradimento! Non fate, per pietà dei sette dolori santissimi! Ed io: - Datemi la mia creatura! - Sì! - Datemela! - Salvatelo! Che vi ha fatto! V'ha fatto troppo! Ma era destino così! Perdo le viscere! - Datemi la mia creatura! - Si, vi giuro! Giurate voi di non fare tradimento! - Lasciatemi! - Ho giurato! E voi siete così sleale! Voi siete cavaliero? Ah so! non giurate perchè siete dannato nell'altra vita! Non credete in Dio! - Madonna! vi giuro! - Vieni, o mio Adalberto! Egli non ti uccide! - rincominciò ella nel delirio, ed io balzai dalla scala!... No! ritornai, e la trasportai nel suo letto, nel nostro talamo! E stetti al suo fianco, attendendo l'istante... Oh quelle tre ore!... Nacque il bambino: - sei tu! Entrò Adalberto nel castello, io gli prestai l'omaggio nella chiesetta. Quando gli dissi ch'ero disarmato e mi dichiaravo vassallo suo, gittai il pugnale, perchè avevo giurato a lei! Poi feci aprire la porticina del corritoio e tutte l'altre delle camere, indovinando il tristo pensiero di Adalberto. Quando il signore, correndo per il castello, venne al letto di Guidinga, trovò una morta, senza lume accanto, senza frate, senza croce fra le mani! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Così rompeva messer Oldrado il suo racconto. E fremeva: - Però nessuna occasione fu da me trascurata! Chiamo in testimonio il bianco spettro di tua madre! Ho ribellato Lamberto, mancai all'omaggio, comparvi al convito colla spada, feci percuotere l'araldo! Combattei! Ma non ebbi mai completa ventura, per maledetta condanna! Figliuolo, sei cavaliero: eccoti gli speroni: figliuolo, sei erede di tutto. Ecco il mio testamento!

Il cappello del prete

663107
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

. - Il signor marchese la prega di ordinare liberamente ciò che le abbisogna. - Allora cominciamo da un caffè! ma prima dimmi se ho dormito un pezzo. - Da ieri fino a oggi, e sono le dieci. - Cospettina! c'è della morfina in quel vino. E dici che tornerà stasera il marchese? - Sissignore. È andato a Napoli per qualche combinazione per le corse di domani. - È vero, domani gran giorno di corse. E quelle signore d'ieri...? - Son partite subito. - Dimmi ancora: perché ho fasciata la mano e la testa? che c'è? sangue? - Vostra eccellenza è caduta sulla grande lastra di vetro del balcone e si è tagliata qui e là. Il pavimento è cosí lucido... - Altro che morfina! Portami il caffè. "U barone" si mise a sedere sul letto, e si toccò la testa e la mano. Non erano che scalfitture. Altre volte ne aveva toccato di peggio. Infine non è una disgrazia risvegliarsi in un bel casino in riva al mare dopo aver dormito diciott'ore d'un profondo sonno. Poiché l'amico di Spiano era tanto cortese, Santafusca intendeva approfittare della sua bontà e rimanere alla "Favorita", finché avesse avuto il tempo di mandare a Napoli a prendere dei vestiti piú decenti. Dalla baldoria il vecchio libertino era uscito come un cane da una chiesa. Vino e sangue dappertutto. - Vino e sangue! che bel titolo per un romanzo d'appendice! L'idea del romanzo richiamò l'altra dei giornale, e questa l'altra del Piccolo colla storia famosa di un cappello. - Era un fatto vero od era stato un sogno di un uomo ubbriaco? Il servo entrò col caffè. - Ci sarà un concorso enorme dimani: vedremo elegantissimi equipaggi. Il premio Sebeto quest'anno è di tremila lire, e di duemila e cinquecento il premio del Ministero. Sento che molti scommettono per "Andreina". Il marchese è fortunato. L'anno scorso ha vinto le ottomila lire del premio Ottaiano con "Rodomonte". Un bel cavallo, corpo del diavolo, quel "Rodomonte"! Che testa! Hai il Piccolo di ieri? Guarderò, ci deve essere. Il servo, versato il caffè, usci. Era stato un sogno, dunque, o veramente il Piccolo aveva riportato la storiella di un cappello mandato da don Antonio in una scatola a un cappellaio di Napoli? Già un'altra volta aveva fatto un sogno meraviglioso. La sua fantasia non dormiva più e si sa che i sogni son fatti coi frastagli che cadono dalle nostre idee. "U barone" fissò l'occhio nel fondo della chicchera come se vi cercasse dentro la chiave di un enigma. Il servo entrò con un pezzo di giornale sciupato, fatto a brani. Era quanto rimaneva del Piccolo . - Lascia vedere... queste corse. "U barone" accomodò i pezzi sul letto e tornò a vedere la grossa scritta: IL CAPPELLO DEL PRETE Non era piú il caso né di sogni né di vino traditore. Il caffè aveva dissipata la nebbia del capo. Sebbene la storiella fosse monca qua e là, "li barone" poté leggerla e toccarla con mano. Non era piú ubbriaco. Non dormiva. Non delirava. Ricordava benissimo anzi che quel foglio assassino gli aveva fatto salire il vino e il sangue alla testa. Vino e sangue non era un titolo da romanzo, ma la vera storia orribile della sua vita. E questa storia minacciava di non finir mai. Era uno spavento, un castigo, un tormento insopportabile di sentire qualcuno che camminava, incalzava dietro le spalle e di non poter fermare quel fantasma, di non poter farsi una ragione delle cose. In qual maniera il cappello del morto avesse potuto uscire dal fondo del mare ed arrivare col mezzo della ferrovia dentro una bella scatola suggellata fino nelle mani del procuratore del re, era anche questo un mistero che egli rinunciava di decifrare. C'è forse al disopra delle cose e della ragione una forza operatrice piú potente delle cose e della ragione? Era ancora la mano invisibile che scendeva lunga lunga fin negli abissi dell'Oceano a pescare il suo delitto? - No, Santafusca, questa è della filosofia trascendentale. Guarda bene: ciò è accaduto perché tu hai sbagliato. O tu hai sottratto un altro cappello, o il procuratore del re ha pescato un granchio... Ragioniamo, per carità. Quel prete non aveva due cappelli, come non aveva due teste. Se la giustizia prende un granchio, se ne accorgerà subito, e prete Cirillo ripiomberà nel suo nulla quasi per forza d'inerzia. Se ho sbagliato io... ebbene, vediamo, che male me ne può derivare? Sí, è stato trovato un cappello da prete. Ebbene? che significa ciò? ("U barone" immaginava una disputa tra lui e il procuratore). - Vediamo, signor procuratore, che significa ciò? - Ma il cappello è stato trovato nei dintorni di Santafusca. - Bravo, me ne rallegro, e cosí? - Il prete non si vede piú. - E lo conta a me? - Si dice che sia stato ucciso. - Che colpa ne ho io, caro commendatore? - È stato trovato nella sua villa. - Chi?... il cappello o il prete? - Il cappello. - La mia villa è la casa di tutti, e le capre di Salvatore sono piú padrone di me. Piano, piano, non si lancia con tanta leggerezza una accusa sopra un gentiluomo, sopra una delle piú antiche famiglie del reame. E chi è questo prete? io non l'ho mai né visto né conosciuto... To'... Anzi, mi meraviglio altamente di non essere stato avvertito subito, e protesto contro l'abuso che si fa del mio nome. Il barone faceva questi discorsi, mentre si raccomodava un poco gli abiti addosso. Recitando a sé stesso la sua difesa, andava persuadendosi egli per il primo di ciò che credeva di dover persuadere agli altri. Non aveva nessun motivo per temere, e quando avesse potuto rimuovere i soliti spaventi dell'immaginazione non avrebbe avuto paura, lo sentiva, di sostenere anche la vista del morto. Solo costui poteva accusarlo; ma si può pescare un cappello, non si fa parlare un morto. D'altra parte, non gli parve prudente nemmeno di stare colle mani in mano. Se era da uomo sciocco ed ubbriaco perdere la testa per un cappello, non conveniva permettere che i giornali si impadronissero del fatto, e andassero a cercare cinque piedi al montone. Poiché Santafusca era implicato in questa faccenda, era dover suo correre, interrogare, andare dallo stesso procuratore del re a sentire quanto c'era di vero in fondo a questo cappello. Anche il troppo tacere in una cosa, in cui direttamente o indirettamente entrava il suo nome, poteva destare qualche sorpresa nella gente. Una parte bisognava pur rappresentarla in questo processo, almeno quella di padrone di casa. Bisognava assolutamente ch'egli tornasse a Napoli: si lavò le mani, acconciò le vesti, chiamò il servo e dimandò se c'era una carrozza chiusa che lo portasse in città. - Ella deve comandare tutto ciò che desidera. - Dirai al marchese... ma spero di vederlo io stesso fra un paio d'ore. Bisognava ch'egli vedesse i giornali della mattina, e se era necessario pubblicasse qualche rettifica. - Maledetti i giornali! - diceva "il barone" sdraiato nell'angolo della carrozza a due cavalli che volavano verso la città. - Maledette le ciarle stampate! Se io fossi il padrone, vorrei affogarli tutti i giornalisti! Il sentimento feudale dei vecchi Santafusca ribolliva in lui, e il sangue ribellavasi con furore a questo sistema detto di democrazia che consiste nel raccoglieresu un foglio stampato i pettegolezzi, che le pescivendole sparpagliano sui loro usci. Colla scusa di un "si dice", si stampano cose che nessuno dice, che nessuno vorrebbe dire, e nemmeno sentire a dire. Arrivò a Napoli che stava ancora impiccando in idea un giornalista. Diede una mancia al cocchiere e corse in casa a farsi decente e presentabile. Maddalena venne ad aprire e ripeté le solite frasi, che il padrone per vecchia abitudine non ascoltava piú. Mentre si rivestiva, ripeté a sé stesso la sua difesa, e vide ch'egli non aveva a temere niente dagli uomini, tanto meno dal Padre Eterno. Desiderando vedere il marchese per fargli le sue scuse, uscí quasi subito, e andò al circolo ove di solito Vico di Spiano faceva colazione. Era anche il modo piú breve per vedere tutti i giornali della mattina. Entrando in anticamera, senti il portiere che diceva a Raffaello: - L'hanno arrestato. - Chi? - domandò repentinamente "u barone" come se la parola fosse stata rivolta a lui. - L'assassino del prete, eccellenza.

IL Santo

670171
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Il morente si raccolse alcuni istanti, rispose: "Siate poveri, vivete da poveri, siate perfetti, non compiacetevi né di titoli né di vesti di onore, non dell'autorità personale né dell'autorità collettiva, amate coloro che vi odiano, astenetevi dalle parti, pacificate nel nome di Dio, non accettate uffici civili, non tiranneggiate le anime né vogliate governarle troppo, non fate culture artificiali di sacerdoti, pregate Dio di esser molti ma non temete di esser pochi; non crediate che vi abbisogni molta scienza umana, solo vi abbisogna molto rispetto per la ragione e molta fede nella Verità universale e inscindibile." Ultima si avvicinò Maria Selva. S'inginocchiò a due passi dal letto. L'infermo le sorrise, le fe' cenno di alzarsi. "La ho già benedetta in Suo marito" diss'egli. "Non li so distinguere. Ella è una parte dell'anima sua. Ella è il suo coraggio, lo sia sempre più nelle ore penose che lo aspettano. E siate insieme la poesia dell'amore cristiano fino all'ultimo. Fermatevi ora qui un poco tutt'e due." La luce venne meno rapidamente nella camera mentre i discepoli uscivano. Si udì il rombo del tuono, la suora andò a chiudere la finestra. Prima guardò nel giardino, esclamò: "poverini!" Benedetto udì, volle sapere, apprese che il giardino formicolava di persone venute per vederlo, che una pioggia tempestosa era imminente. Pregò i Selva di attendere e Mayda di far entrare il popolo. Un calpestio pesante suonò sulla scaletta di legno. La porta si aperse, parecchi popolani entrarono adagio in punta di piedi. In un momento la camera fu piena. Una calca di teste scoperte si affacciava alla porta. Nessuno parlava, tutti guardavano Benedetto, smarriti, riverenti. Benedetto salutò colle due mani, a braccia aperte. "Vi ringrazio" diss'egli. "Pregate come certo a qualcuno di voi ho insegnato. E Dio sia con voi, sempre." Un omone grande gli rispose, tutto rosso: "Noi si pregherà ma Lei non more, sa. Lei non creda sta cosa. Però ce benedica." "Sì, ce benedica" suonò da ogni parte. "Ce benedica." Intanto dalla scaletta venivano voci impazienti di gente che voleva e non poteva salire. Benedetto disse qualche cosa, piano, a don Clemente. Don Clemente ordinò che i presenti sfilassero davanti al letto uscendo poi dalla camera perché potessero sfilare anche gli altri. A uno a uno passarono tutti. Erano genterella del Testaccio, operai, garzoni di negozio, venditrici di frutta, piccoli merciaiuoli, accattoni. Benedetto andava ripetendo di tanto in tanto, con voce stanca, parole di congedo. - Addio. - Pregate per me. - A rivederci in paradiso. - Chi passando davanti lui piegava il ginocchio in silenzio, chi toccava il letto e si faceva il segno della croce, chi gli raccomandava sé o persone care, chi gli diceva benedizioni. Uno gli domandò perdono di aver creduto ai suoi calunniatori. Fu allora una sequela di "anche a me, anche a me." Passò la gobbina di via della Marmorata, cominciò a raccontargli piangendo che il suo vecchio prete si era confessato e avrebbe voluto dirgli tutta la sua gratitudine. Chi seguiva la spinse via ed ella passò per sempre dagli occhi di lui. Tanti così gli passarono davanti l'ultima volta e piangendo si allontanarono da lui per sempre, ch'egli aveva consolati nello spirito e nel corpo. Molti ne riconobbe e salutò col gesto. Quelli giravano via pure girando il volto lagrimoso continuamente a lui. La fila che scendeva sfiorando sulla scaletta la fila che saliva, le antecipava le impressioni della camera dolorosa. - Ah che viso! - Ah che voce! - Dio, muore! - È un angelo di Dio! -Vedrete! - Ci ha il paradiso negli occhi! - E non pochi mormoravano maledizioni agi'infamacci che lo avevano calunniato, non pochi parlavano, fremendo, di veleno e di assassinio. Dio, portato via dai questurini, ritornava così! Un lugubre tuonare continuo e il gran pianto uguale della pioggia coprivano i sussurri pietosi e irosi. Finito di scolare il fiume del popolo, Mayda fece aprire la finestra perché l'aria si era viziata. Benedetto pregò che gli alzassero un poco il capo, desiderando vedere il gran pino inclinato al Celio. La verde livida corona dell'ombrello tagliava obliqua il cielo tempestoso. La guardò a lungo. Riadagiato il capo sul guanciale, accennò a don Clemente di piegarsi verso di lui, gli disse, quasi all'orecchio: "Sa, quando mi hanno portato qua dalla villa, ho sentito un fortissimo impulso a pregare che mi portassero sotto il pino che si vede dalla finestra, per morire lì. Ma ho anche pensato subito ch'era una cosa troppo voluta, e che non era buona. E poi - soggiunse sorridendo - sarebbe sempre mancato l'abito." Un lieve moto delle labbra di don Clemente gli rivelò ch'egli aveva recato l'abito con sé da Subiaco. N'ebbe un assalto di commozione intensa. Giunte le mani, stette in silenzio fino a che durò la lotta interna fra il desiderio che la Visione si compiesse e la coscienza che non si sarebbe compiuta naturalmente. Si raccolse in un atto di abbandono alla Divina Volontà. "Il Signore vuole che io muoia qui" diss'egli. "Però mi permette di avere almeno l'abito sul letto prima di morire." Don Clemente si chinò sopra di lui e lo baciò in fronte. Intanto i Selva attendevano in disparte. Benedetto li chiamò a sé, disse loro che avrebbe ricevuto la signora Dessalle fra mezz'ora, ma che la pregava di non venire sola. Poteva venire con loro. Insieme ai Selva uscì anche Mayda. La suora dormicchiava. Allora Benedetto pregò don Clemente di recarsi poi dal Pontefice, di dirgli come la fine della Visione non si fosse avverata, come quindi tutto l'apparente miracoloso della sua Vita svanisse, come finalmente egli avesse sentita con grande dolcezza, prima di morire, la benedizione del Papa. "E gli dica" finì "che spero di poter parlare ancora nel suo cuore." L'ambascia era diminuita ma la voce si affiochiva, le forze venivano mancando colla febbre. Don Clemente gli prese e tenne a lungo il polso. Poi si alzò. "Lei va a prendere l'abito?" mormorò Benedetto con un sorriso dolcissimo. Il bel viso del Padre si coperse di rossore. Egli vinse presto il sentimento umano che gli consigliava di simulare, e rispose: "Sì, caro. Credo che sia il tempo." "Che ore sono?" "Le cinque e mezzo." "Lei crede alle sette? Alle otto?" "No, non così presto, ma desidero che tu abbia questa consolazione subito." In un salottino della villa, Giovanni Selva, guardato l'orologio, disse a sua moglie: "Andate." L'intelligenza era che con Jeanne andassero da Benedetto Maria e Noemi. Questa stese le mani a suo cognato. "Sai" diss'ella, tutta tremante " vado a dargli una notizia che riguarda l'anima mia. Non ti offendere se la do a lui prima che a te." Jeanne intuì la notizia che Noemi avrebbe portato al morente: la sua prossima conversione al Cattolicismo. Tutta la forza ch'ell'aveva raccolto in sé per il momento supremo l'abbandonò. Abbracciò Noemi e scoppiò in lagrime. I Selva le fecero animo, ingannandosi circa quel pianto. Ella pregò, fra i singhiozzi, che andassero, che andassero; a lei era impossibile di venire. Noemi sola intese. Jeanne non voleva venire perché aveva indovinato e non poteva fare quanto avrebbe fatto lei. La supplicò, la scongiurò, le mormorò tenendola abbracciata: "perché non cedi, in questo momento?" Jeanne rispose solamente, singhiozzando: "Oh tu mi capisci!" E perché Noemi protestava di non voler più andare, la supplicò alla sua volta di andare, di andare subito, di non tardare a dargli questa consolazione. Ella non poteva, non poteva, non poteva! Non ci fu verso di smuoverla. Un domestico venne a chiamare Selva. Maria e Noemi uscirono. Rimasta sola, Jeanne ebbe un momento l'idea di raggiungerle, di arrendersi, di andargli a dire ella pure una parola di gioia. Cadde ginocchioni, stese le braccia, quasi a lui che le stesse davanti, singhiozzò: "caro, caro, come ti potrei ingannare?" Aveva lottato più volte col proprio scetticismo imperioso e sempre invano. Uno slancio di dedizione alla fede, lo sapeva, non sarebbe stato durevole. "Perché non mi vuoi sola?" gemette ancora, sempre ginocchioni. "Perché non mi vuoi sola? Perché le coscienze pie non si offendano? Perché la mia disperazione non ti turbi? Perché non mi vuoi sola? Posso io dire davanti a loro quello che ho dentro di me? Tu che sei buono come il tuo Signore Gesù, perché non mi vuoi sola? Oh!" Ella scattò in piedi, convinta che se Piero la udisse risponderebbe "sì, vieni." Stette un attimo come impietrata, colle mani alle tempie; e mosse poi lentamente, simile a una sonnambula, uscì del salotto, attraversò il vestibolo, scese in giardino. Pioveva tanto dirottamente, il cielo, corso tuttora di tempo in tempo dal tuono, era tanto fosco che prima delle sei, quella sera di febbraio, pareva già quasi notte. Jeanne entrò come stava, a capo scoperto, nella pioggia fitta e fredda, prese, senz'affrettar il passo, non il viale degli aranci a destra ma il sentiero che scende a sinistra fra due righe di grandi agavi a un boschetto di lauri, di cipressi e di ulivi cui si aggrappano rose. Passò dal gran pino che guarda il Celio e girando al basso verso destra per un lungo arco di via, si condusse alla fonte che un avello antico raccoglie nel pendìo ripido fra una cintura di mirti, pochi passi più giù che la casina del giardiniere. Ivi si fermò. Una finestra della casina luceva; certo la finestra di Piero. Vi passò un'ombra; forse Noemi!Jeanne sedette sull'orlo marmoreo della vasca. Era possibile di affogare lì dentro? Avrebbe cercato di morire se non ci fosse Carlino? Pensieri vani; non vi si trattenne. Attese, attese, sotto la pioggia fredda, con gli occhi e l'anima fermi alla finestra lucente. Altre ombre. Partono, adesso? Sì, forse partono Maria e Noemi ma non lasceranno Piero solo. Ci sarà Mayda, ci sarà il benedettino, ci sarà la suora. Ebbene, ella tenterà. Un passo frettoloso nel viale degli aranci; qualcuno che si avvia alla casina. Jeanne, che si era alzata, torna a sedere. Ecco, quell'ignoto è entrato. Movimento di ombre alla finestra. Due persone escono parlando vivacemente; le voci del professore e di Giovanni Selva. Pare che parlino di qualcuno venuto a prendere notizie. Altre persone escono, l'acqua delle grondaie mormora sugli ombrelli. Devono esser loro, Maria e Noemi. Jeanne si alza da capo, si avvia. Passa l'uscio della casina, vede gente nella cucina del giardiniere, prega una ragazza di salire a vedere presso l'ammalato, chi ci sta. Quella esita, cerca schermirsi, ma poi va, scende subito. Ci stanno il prete e la suora. Jeanne domanda un po' di carta, una matita, un lume. Comincia a scrivere: "Padre - Mi rivolgo ..." S'interrompe, sta in ascolto. Qualcuno scende la scaletta di legno. Un passo d'uomo; dunque il Padre. Allora gli parlerà. Butta via la matita, gli va incontro sulla scaletta. È scuro, don Clemente la scambia per Maria Selva. "È quieto" dice, prima ch'ell'apra bocca. "Pare che dorma. Gli ha fatto tanto bene quello che Sua sorella gli ha detto. Il professore crede che passerà la notte. Faccia venire anche l'altra signora. L'ha domandata. Credevo che fossero andate a prenderla." Jeanne tace, si fa da banda. Egli dice "permesso" e passa senza guardarla, va in cucina per avere un po' di pane e un po' d'acqua, digiuno com'è dalla sera precedente. Jeanne trema come una foglia. Egli l'ha domandata! Queste parole, il favore del caso le danno le vertigini. Sale piano piano, spinge l'uscio piano piano. La suora la vede, fa per alzarsi. Ella le accenna, col dito alla bocca, di non si muovere, si accosta piano piano al letto, vede una lunga cosa nera distesa sulle coltri, si arresta esterrefatta, non comprende. Ode un lievissimo gemito. Il giacente alza la mano destra con un gesto vago, come se cercasse qualche cosa. La suora si alza ma Jeanne, più pronta, è di slancio al guanciale, si china su Piero che ha ripreso a gemere, ad agitar la mano. Jeanne lo interroga affannosa, egli non risponde, geme, guarda qualche cosa accanto al letto e Jeanne offre un bicchiere d'acqua, gli vede scotere il capo, si dispera di non capire. Ah, il Crocifisso, il Crocifisso! La suora alza il lume da terra, Jeanne porge il Crocifisso a Piero che gli affligge le labbra e la guarda, la guarda con gli occhi grandi, vitrei, dov'è la morte. La suora getta un grido, corre a chiamare il Padre. Piero guarda Jeanne, guarda Jeanne, si sforza di prendere il Crocifisso a due mani, di alzarlo verso lei, le sue labbra si agitano, si agitano, non ne esce suono. Jeanne si raccoglie nelle proprie le mani di Piero, bacia il Crocifisso di un bacio appassionato. Egli chiude allora gli occhi, il suo volto s'irradia di un sorriso, si piega un poco sulla spalla destra, non si move più. FINE.

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675842
Garibaldi, Giuseppe 3 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Io non consiglio una subita ritirata perché anche il Governo abbisogna di tempo per fare i suoi preparativi. Ma da qui innanzi, fa mestieri usare tutta la vigilanza possibile, per conoscere le mosse del nemico e non essere sorpresi. Voi, Principe, dovete tornare a Roma. La vostra presenza qui non è necessaria per ora, mentre là, potete esserci utile, credetemi, di un’utilità somma. Potete dire che vi abbiamo posto in libertà sotto il vincolo della vostra parola d’onore, di non combattere contro di noi. Dimettendovi dal servizio voi non potete temere di essere molestato». Rispose il Principe. «Il vostro consiglio è savio ed io farò quanto voi dite. Comprendo che più utile vi potrò essere in Roma e vi dò la mia parola d’onore che sarò con voi per la vita e per la morte!». Attilio fu della stessa opinione, quindi soggiunse che per le relazioni sulle mosse del nemico bisognava far capo a Regolo, e Regolo darebbe avviso di tutti i movimenti delle truppe papaline. Poi, avendo il Principe desiderato un mezzo sicuro per restare in relazione con loro, Attilio, su d’un pezzettino di carta tanto piccolo da potersi inghiottire al bisogno, scrisse a Regolo una linea di riconoscimento pel Principe. Il resto della giornata fu impiegato a seppellire i morti, che non eran pochi, ed alla cura dei feriti, sì gli uni come gli altri quasi tutti papalini. I liberali ebbero tre feriti soli, e questi non gravemente perché nella pugna i valorosi pericolano meno e se si desse un colpo d’occhio alla statistica di tutte le battaglie, si vedrebbe sempre che i fuggenti hanno perduto un numero immensamente maggiore di uomini che i vittoriosi. Nella notte il Principe partì per Roma e sapete con che guida? con Gasparo, il Cesare dei banditi di tutte le età, divenuto anche lui uno sviscerato liberale, siccome lo avea provato nell’ultimo combattimento facendo prodigi coll’infallibile sua carabina. Io sono di natura tutt’altro che pessimista e quindi credente nel miglioramento umano sotto tutte le forme e se l’umanità non migliora con sensibile progresso la maggior colpa l’hanno i governi. Coi buoni trattamenti e le carezze si dominano, si addomesticano le belve e se ne migliora l’indole feroce. Cosa volete sperare da un popolo ridotto alla miseria dalle vostre esazioni, dalle vostre imposte, dalle vostre tasse? Egli sa che queste tasse, imposte ed esazioni non sono, come voi dite, per la difesa dello Stato e per mantenere l’onore nazionale, ma per ingrassarvi ed ingrassare la sterminata caterva di parassiti, qualunque sia la loro denominazione, parassiti che sono pel popolo quel che gl’insetti per il corpo, i vermi pel cadavere, atti soltanto ad immiserirlo e divorarlo. Chi negherà che le popolazioni dell’Italia meridionale non fossero migliori, perché meglio governate, nel 1860 che non lo sieno al giorno d’oggi? Allora, appena si sospettava il brigantaggio e non v’eran prefetti, non gendarmi non birri. Oggi all’incontro con quell’immensità di satelliti, che minano le finanze dell’Italia esiste nella parte meridionale della penisola, l’anarchia, il brigantaggio e la miseria. Povere popolazioni! Dopo tanti secoli di tirannide e dopo la brillante rivoluzione del 60, esse speravano un Governo riparatore, un’era di riposo, di progresso e di prosperità e non l’ottennero! Sì! Gasparo si era battezzato alla vita dei liberi col sangue degli oppressori. Egli fu accolto dalla giovine brigata con indulgenza, con entusiasmo ed ebbe l’importante missione di guidare il Principe I.... fuori della foresta, fin sulla via di Roma. Le previsioni d’Orazio sugli apparecchi del Governo papale si avverarono. Dopo il rovescio del castello di Lucullo i mitrati decisero in consiglio d’inviare a quella volta tutto il loro esercito con artiglieria e giacché, pensarono con ragione, i liberali, non staranno molto tempo ad aspettare la tempesta, bisogna mettere il disegno immediatamente in esecuzione. E non soltanto i soldati papalini ma si divisò d’impiegare in quell’ardua impresa tutta la truppa straniera, che si trovava al servizio del Papa. Un generale straniero di gran fama fu chiamato a dirigere la grande campagna e tutto si preparò con alacrità per giungere in tempo che il famoso attacco cadesse nel santo giorno di Pasqua, generalmente propizio ai preti, poiché in quel giorno grasso essi satollano meravigliosamente la pancia, loro divinità principale, alla barba dei divotissimi fedeli. Orazio ed i suoi compagni non dormivano frattanto. Informati da Roma di quanto vi accadeva e degli strepitosi preparativi che vi si facevano i quali, benché il governo cercasse di tenerne segreto lo scopo, erano senza dubbio al loro indirizzo, dapprima i nostri amici eseguirono una minuta esplorazione dei sotterranei conosciuti da Orazio e da taluno de’ suoi, particolarmente dal vecchio Gasparo, già tornato dalla sua missione col Principe.

- ripigliava Attilio - questa fanciulla più infelice che colpevole, abbisogna di protezione e tu generoso non gliela niegherai. Vanne e l’accompagna, ed il giorno della riscossa, noi siamo certi, non mancherai al tuo posto». E Silvio era generoso davvero e amava ancora la sua disgraziata Camilla. Costei alla vista dell’amante parve quasi per incanto calmata dal morboso furore, e tacita, rannicchiata era diventata docile come un agnello. Silvio le si accostò, sollevolla, l’avvolse nel proprio mantello e dolcemente tenendola per mano, la condusse fuori del Colosseo verso l’abitazione di Marcello. «Per il quindici alle Terme di Caracolla, e pronti a menar le mani!...». «Pronti! Pronti!» ripeterono i trecento. Ed in pochi minuti il deserto delle rovine avea ripreso la sua tetra spaventosa solitudine.

Non ha l’Italia molti nemici ancora, e non abbisogna essa di tutte le braccia de’ suoi figli per scuoter le secolari catene? Cessate dalla lotta fratricida, ve lo chiedo, ve lo impongo in nome della madre comune! Cessate! non rinnovate le gare antiche, retaggio fatale degli incauti, scellerati padri vostri, che precipitarono questa bella patria in tanta abbiezione! Tornate amici. Tornate fratelli! Domani voi proverete allo straniero che tenterà ancora di strapparvi le vostre sostanze e le vostre donne, chi dei due sia più valoroso». Le onde dell’Adriatico infrangevansi contro gli scogli granitici che arginano i murazzi con più effetto delle parole patriottiche ed umanitarie del vecchio sull’ostinata risoluzione di quei due assetati di sangue ed il principe, con certo piglio di dispetto, che chiariva l’aristocratica origine intimò al vegliardo: «ritiratevi». Si ripresero da capo i segnali, le battute di mano si seguirono, ed alla terza gli avversarii marciarono ad incontrarsi colla pistola armata nella destra e coll’occhio fisso l’uno sull’altro senza battere palpebra col meditato intento dell’omicidio. A dodici passi sparò il principe e la palla sfiorò passando la parte destra del collo di Morosini: lo ferì e ne sgorgò il sangue, ma fu ferita leggera. Il soldato di Calatafimi, più freddo dell’avversario, s’avvicinò di più a forse otto passi. Sparò ed il fratello della nostra Irene si aggomitolò cadendo sul terreno come uno straccio. La palla gli avea traversato il cuore. Il Sant’Ufficio dal Vaticano sorrise di quel sorriso infernale con cui si rallegrò ogni volta che un olocausto di sangue sparso dal pugnale della discordia bagnava questa terra infelice. E chi lo versò quel sangue italiano? Una mano italiana, consacrata alla redenzione del suo paese.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676058
Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Questa notte io mi lascierò cadere su Milano, e spero, se il diavolo mi assiste, scoprire nello spazio di due giorni quanto mi abbisogna. Ad ogni modo, io sarò di ritorno posdomani verso le nove e mezzo di notte. Verrò con una gondola; voi tenetevi pronti a discendere immediatamente, perocchè, nel caso nostro, la rapidità è la condizione più essenziale per ottenere il successo. - Io non credo prudente - osservò uno dei quattro - che voi, per tornare alla nave, vi serviate d'una gondola cittadina. Questi sorveglianti di gondole sono altrettante spie della Sorveglianza, e noi rischieremmo di venir segnalati a quel vecchio birbone di Torresani ... - Non ti prenda pensiero - rispose il Casanova coll'accento della più ferma sicurezza - io so scegliere i miei uomini. Noi abbiamo degli equilibristi perfino tra gli agenti della Polizia. - E se mai, durante la vostra assenza, ci vedessimo esplorati ... inseguiti? - Reagite colla volontà! - Noi siamo pochi di numero ... - Ma concordi ... e potenti ... ! - Il vecchio Torresani tiene a' suoi ordini duecento magnetisti ... - E fra questi, sessantaquattro spiriti avversi. Alla distanza di mille e ottocento metri, venti volontà compatte e risolute possono tener fronte a cento magnetisti discordi e spossati. In ogni modo, i poliziotti non potranno agire sulla nave oltre cinque minuti, - e se mai, durante il fermo, voi vedeste avvicinarsi qualche brik del Torresani, - scaricate le pile contro esso, e avvenga che può. Una volta liberati dall'attrazione, manovrate per l'alto in linea diretta. Nel nostro serbatoio c'è tanta aria respirabile pel consumo di quattro giorni! I quattro uffiziali non mossero altre obiezioni. Il Casanova uscì dalla cabina, venne fuori all'aperto, esplorò la posizione da un immenso chatvue collocato all'estremità della nave, indi, spiegato l'ombrello di salvezza spiccò un salto dal ponte. In meno di due minuti, il Casanova toccava terra nel mezzo dell'anfiteatro dell'Arena. Le testimonianze prodotte dal Bigino dinanzi al Tribunale del Torresani erano state veritiere. Antonio Casanova, la sera dell'otto ottobre, fece ritorno alla sua nave colla gondola del conduttore settario. Il nostro industriante avea studiato il terreno e fissato il suo piano strategico. Appena fu a bordo della nave, egli adunò nuovamente nella cabina i suoi quattro confidenti per metterli al fatto di quanto egli aveva operato, ed impartire ad essi degli ordini. - Oramai io so tutto quanto mi giovava sapere, non restano che alcuni particolari di niun conto dei quali voi dovrete incaricarvi. Com'io aveva preveduto, all'indomani dell'esperimento per la pioggia artifiziale, il Consiglio di Milano ha decretato all'Albani un sussidio di due milioni di lussi, elevandolo in pari tempo alla dignità di Primate. L'Albani è un apostata vile, che per orgoglio ha disertato dalla nostra setta; l'Albani è ricco e potente, e fa parte di quelle caste privilegiate che noi dobbiamo perseguitare e distruggere. I suoi milioni ci appartengono; noi abbiamo il diritto di confiscarli a benefizio della nostra idea. Fratelli: io voglio sperare che voi converrete pienamente nelle mie vedute, e vi adoprerete a secondarle con tutte le vostre forze, con tutto il vostro zelo. - Da Omega ad Alfa - risposero i quattro alzando la mano. - Sta bene! Una circostanza molto favorevole ai nostri disegni la è questa, che l'Albani, in seguito alla sua petizione di matrimonio ha dovuto assentarsi da Milano per consumare, a distanza legale, il mese di dilazione imposto dalle leggi. Noi dunque potremo agire con sicurezza. L'Albani, prima di partire, ha comperato una deliziosa villa, la villa Paradiso, sorgente sulla sponda destra del Canale Lariano a poca distanza di Camerlata. Egli ha dato trecentomila lussi all'architetto mobiliare Perroni perché provveda a decorare quell'incantevole albergo durante la sua assenza. Il resto dei due milioni venno depositato presso il Custode della Villa. La sommetta è appetibile alla nostra cassa, un po' esausta, quel denaro può servire. Io mi incarico di far volare il marsupio alle alte regioni del firmamento, purché voi mi aiutiate fedelmente. Scendete tutti e quattro su Milano, nella gondola che ho espressamente trattenuta. Uno di voi si rechi alla Villa per informarsi se l'Albani vi abbia messo di guardia qualcuno dei suoi leoni. Un altro vada domattina allo Stabilimento Rota a levare il ritratto fotoplastico da me ordinato, badando di confrontarlo colla prima copia per veriflcare se sia veramente identico. Presentando alla Dama di commercio la mia carta di visita che porta il nome di Don Fernando Blaga Gran Torreadore di Saragozza, il ritratto vi sarà consegnato. Un terzo raccolga i diversi vestimenti da me ordinati ai cinquanta sarti dei quali vi trasmetto la nota. E il quarto finalmente, si tenga in comunicazione cogli Agenti di Sorveglianza affigliati alla setta, per avvertirmi in tempo utile se mai il Torresani venisse a fiutare le orme nostre. Il Casanova aggiunse a questi ordini non poche ammonizioni di lieve importanza; poi stretta la mano a' suoi quattro colleghi, li accompagnò sul ponte della nave. Il Bigino era là ad attenderli. I quattro calarono nella gondola, e immediatamente sprofondarono nelle tenebre. All'indomani tutti gli ordini del Casanova erano stati eseguiti. I quattro si ricondussero alla nave, portando un ritratto fotoplastico dell'Albani di perfettissima somiglianza, due canestri ripieni di vestiti, ed altri piccoli attrezzi necessari alle strategie di tal genere. Il Casanova fece recare quegli oggetti nella sua cabina, e quivi si rinchiuse per alcune ore in compagnia di un giovane napolitano, certo Anselmo Furlay, abilissimo metamorfo. Parrà inverosimile quanto io sto per narrare, e voi che mi udite, farete delle esclamazioni di meraviglia, forse anche crollerete il capo da increduli. Voi non riescirete a concepire questi nuovi perfezionamenti della acconciatura, dove la guttaperca è chiamata ad operare delle trasformazioni prodigiose. Ma io non avrò certo la pazienza di spiegarvi tutto un processo, che d'altronde può essere facilmente indovinato dagli spiriti arguti. A me basta accennare il fatto, a me basta di porre in rilievo i mezzi che concorrono a crearlo. La maschera ritratto non è una invenzione del secolo ventesimo; se avete letto i Cento anni di Rovani, vi sovverrete degli orribili scandali che ebbero a prodursi a Milano fino dal secolo precedente, per questo trovata della menzogna e della frode. Ma a quei tempi non si conoscevano le meravigliose proprietà della guttaperca, si ignoravano quegli altri mezzi chimici, che ora, nel ventesimo secolo, concorrono a trasformar completamente un profilo, una fisonomia, riproducendo in un individuo le sembianze di un altro. Nella cabina del settario equilibrista venne dunque ad operarsi una di codeste meravigliose trasformazioni. Uno strato di guttaperca modellato al ritratto fotoplastico dell'Albani, iniettato di cera rosea e di liquido vitale trasformò il Casanova completamente. Il metamorfo Furlay questa volta fu sublime di trovati, fu vero artista. Egli riprodusse l'originale nella maschera con insuperabile precisione. E non solo nei contorni del viso e del collo, ma nel colorito delle guance e delle labbra il Casanova rappresentava così fattamente l'Albani, che quegli, mirandosi nello specchio, provò un fremito di terrore, quasiché l'imagine riflessa dovesse accusarlo e svelare l'inganno. Il Casanova, parlando dell'Albani a' suoi colleghi, aveva detto: quell'uomo mi va come un guanto! Il capo degli Equilibristi aveva calcolato perfettamente. Ed ora che abbiamo veduto abbigliarsi dietro la scena questo nuovo attore del nostro dramma, precediamolo di poche ore sul teatro dell'azione; scendiamo prima di lui nei penetrali della Villa Paradiso

Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

677393
Gozzano, Guido 1 occorrenze

Nonsò guardò attentamente la bestia e disse: - Signore, quello è il destriero che mi abbisogna! - Tu scherzi! - Signore, compratemelo e ne sarò felice. Il Principe si sdegnò quasi, poi vedendo Nonsò supplicante, cedette alle sue preghiere e comperò la giumenta. Il mugnaio, consegnando la bestia a Nonsò, gli disse all'orecchio: - Vedete questi nodi nella criniera della cavalla? Ogni volta che ne sfarete uno, essa vi porterà sull'istante a cinquecento leghe lontano. Ritornarono a casa. Pochi giorni dopo il Principe venne invitato dal Re, e Nonsò fu ospite col suo signore nel palazzo reale. Una notte di plenilunio passeggiava nel parco e vide appesa ad un albero una collana di diamanti che scintillava alla luna. - Prendiamola, dunque... - disse ad alta voce. - Guardati bene o te ne pentirai! - fece una voce ignota e vicina. Si guardò intorno. Chi aveva parlato era il suo cavallo. Esitò un poco, ma poi si lasciò vincere dal Desiderio e prese la collana. Il Re aveva affidato a Nonsò la cura di alcuni suoi cavalli e di notte egli illuminava la sua scuderia con la collana sfavillante. Gli altri stallieri, gelosi di lui, cominciarono ad insinuare che nella scuderia di Nonsò splendeva una luce sospetta, che egli si dava a stregonerie misteriose. Il Re volle spiarlo; e una notte, entrando di subito nella scuderia, vide che la luce veniva dalla collana abbagliante, appesa ad una mangiatoia. Fece arrestare il giovane e convocò i saggi della capitale perché decifrassero una parola scritta sul fermaglio della collana. Uno studioso decrepito scoperse che il monile era della Bella dalle Chiome Verdi, la Principessa più sdegnosa del mondo. - Bisogna che tu mi conduca la Principessa dalle Chiome Verdi - disse il Sovrano - o non c'è che la morte per te. Nonsò era disperato. Andò a rifugiarsi dalla vecchia giumenta e piangeva sulla sua magra criniera. - Conosco la causa del tuo dolore - gli disse la bestia fedele, - è venuto il giorno del pentimento per la collana presa contro mio consiglio. Ma fa' cuore ed ascoltami. Chiedi al Re molta avena e molto danaro, e mettiamoci in viaggio. Il Re diede avena e danaro e Nonsò si mise in viaggio con la sua cavalla sparuta. Arrivarono al mare. Nonsò vide un pesce prigioniero fra le alghe. - Libera quel poveretto! - gli consigliò la cavalla. Nonsò ubbidì, e il pesce, emergendo con la testa sull'acqua, disse: - Tu mi hai salvata la vita e il tuo benefizio non sarà dimenticato. Se tu abbisognassi di me, chiamami e verrò. Poco dopo videro un uccello preso alla pania. - Libera quel poveretto! - gli consigliò la giumenta. Nonsò ubbidì e l'uccello disse: - Grazie, Nonsò; quando ti sia necessario, chiamami e saprò sdebitarmi. Giunsero dinanzi al castello della Principessa. - Entra - disse la giumenta - e non temere di nulla. Quando vedrai la Bella, invitala ad accompagnarti qui. Io danzerò per lei danze meravigliose. Nonsò bussò al palazzo. Aprì una dama bellissima, ch'egli prese per la Principessa in persona. - Principessa... - Non son io la Principessa. E l'accompagnò in un'altra sala dove l'attendeva una fanciulla più bella ancora. E questa a sua volta l'accompagnò in una sala attigua da una compagna più bella di lei; e così di sala in sala, da una dama all'altra, sempre più bella, per abituare gli occhi di Nonsò alla bellezza troppo abbagliante della Bella dalle Chiome Verdi. Questa lo accolse benevolmente, e dopo un giorno accondiscese a vedere la giumenta danzatrice. - Saltatele in groppa, Principessa, ed essa danzerà con voi danze meravigliose. La Bella, un poco esitante, ubbidì. Nonsò le balzò accanto, sciolse uno dei nodi della criniera e si trovarono di ritorno dinanzi al palazzo del Re. - M'avete ingannata - gridava la Principessa, - ma non mi do per vinta, e prima d'essere la sposa del Re vi farò piangere più d'una volta... Nonsò sorrideva soddisfatto. - Sire, eccovi la Bella dalle Chiome Verdi! Il Re fu abbagliato di tanta bellezza e voleva sposarla all'istante. Ma la Principessa chiese che le si portasse prima una forcella d'oro tempestata di gemme che aveva dimenticato nello spogliatoio del suo castello. E Nonsò fu incaricato dal Re della ricerca, pena la morte. Il giovane non osava ritornare al castello della Bella dalle Chiome Verdi, dopo il rapimento, e guardava la sua giumenta, accorato. - Ti ricordi - disse questa - d'aver salvata la vita all'uccello impaniato? Chiamalo e t'aiuterà. Nonsò chiamò e l'uccello comparve. - Tranquillati, Nonsò! La forcella ti sarà portata. E adunò tutti gli uccelli conosciuti, chiamandoli a nome. Comparvero tutti, ma nessuno era abbastanza piccolo per entrare dalla serratura nello spogliatoio della Bella. Vi riuscì finalmente il reattino, perdendovi quasi tutte le penne, e portò la forcella al desolato Nonsò. Nonsò presentò la forcella alla Principessa. - Al presente - disse il Re - voi non avete più motivo per ritardare le nozze. - Sire, una cosa mi manca ancora e senza di essa non vi sposerò mai. - Parlate, Principessa, e ciò che vorrete sarà fatto. - Un anello mi manca, un anello che mi cadde in mare, venendo qui... Venne ingiunto a Nonsò di ritrovare l'anello, e quegli si mise in viaggio con la giumenta fedele. Giunto in riva al mare chiamò il pesce e questo comparve. - Ritroveremo l'anello, fatti cuore! E il pesce avvertì i compagni; la notizia si sparse in un attimo per tutto il mare e l'anello venne ritrovato poco dopo, tra i rami d'un corallo. La Principessa dovette acconsentire alle nozze. Il giorno stabilito s'avviarono alla cattedrale con gran pompa e cerimonia. Nonsò e la cavalla seguivano il corteo regale ed entrarono in chiesa con grave scandalo dei presenti. Ma quando la cerimonia fu terminata, la pelle della giumenta cadde in terra e lasciò vedere una Principessa più bella della Bella dalle Chiome Verdi. Essa prese Nonsò per mano: - Sono la figlia del re di Tartaria. Vieni con me nel regno di mio Padre e sarò la tua sposa. Nonsò e la Principessa presero congedo dagli astanti stupefatti, né più se n'ebbe novella.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679076
Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Ogni volta che essa lo cingerà alla vita, quel grembiule, per voler mio, si empirà di tutto ciò che le abbisogna. Pianse, la povera madre, a quella promessa che le faceva la Madre di Dio, e non sapendo come procurarsi il lino per filare il grembiule, si trascinò fino al castello e chiese di madonna Laura. - Signora, - le disse appena si trovò alla sua presenza, - io mi sono privata dei ricchi abiti, delle gemme, di tutto ciò che costituiva per me un ricordo della passata esistenza, ma non ho mai osato separarmi da un anello con lo stemma del padre mio, sperando che quell'anello potesse un giorno servire di riconoscimento alla mia Chiara. Ora, madonna, mi occorre del lino, e io vi offro in cambio quest'anello. E nel dir questo le mostrò un cerchio d'oro, ornato di un onice nel quale era incisa la croce dei conti di Morienna. - E voi dite, - domandò Laura, - che questo è lo stemma del padre vostro? - Sì, o signora. Ma il padre mio mi ha discacciata dalla sua corte, perché ho osato amare un semplice cavaliere e seguirlo dopo averlo sposato. Mio marito è morto al servizio della Repubblica fiorentina, ed io, rimasta sola con Chiara in estraneo paese, sono venuta a nascondere la mia miseria e il mio dolore in questi boschi. La castellana pianse nell'udire quella triste storia e dette alla povera Bianca quanto lino voleva, pregandola di tenersi l'anello, che costituiva la sua ricchezza. La Forestiera, tornata alla sua Grotta, benché si sentisse stremata di forze, si diede a filare il lino per la sua bimba, e filò giorno e notte; poi, chiesto in carità a una contadina di farla tessere al suo telaio, tessé la tela necessaria al grembiule e lo cucì con le sue mani. Tre giorni dopo si spengeva dolcemente, raccomandando a Chiara di serbare sempre l'anello e di cingere il grembiule ogni volta che le occorreva qualche cosa. Appena al castello di Fronzola giunse la notizia della morte della Forestiera, madonna Laura ordinò che il cadavere di lei fosse onorevolmente sepolto, e che sulla lapide fosse scolpito lo stemma dei conti di Morienna e il nome della defunta. A una sua ancella poi ella disse di recarsi alla Grotta e di condurre Chiara al castello. La bambina, che contava allora appena quattro anni, vi giunse piangendo, e le carezze della signora e del piccolo Guglielmo non riuscivano a calmarla. Ma allorché si sentì rivolgere dalla Contessa la parola in lingua provenzale, nella favella della madre sua, Chiara cessò di piangere, e da quel giorno concepì un vivissimo affetto per la castellana. Madonna Laura addestrava Chiara nei fini lavori d'ago; Amato le insegnava a leggere le canzoni della Provenza, e la bambina cresceva bellissima nel castello di Fronzola, ed era così buona di carattere e così pia e caritatevole, che tutti ricorrevano a lei per soccorsi; ed ella, che non abbisognava di nulla, cingeva per i poveri il grembiule filatole dalla madre e scendeva di continuo dai castello per recare soccorsi di vesti e di cibo ai poveri del contado. Queste uscite di Chiara furono osservate da una donna del castello di Fronzola, certa Geltrude, creatura astiosa e maligna, la quale, non osando fare alla contessa insinuazioni contro Chiara, andò dal Conte a dirgli che la ragazza, raccolta per pietà dalla signora, rubava tutto ciò che trovava. - Osservatela, messere, quando ella esce furtivamente dal castello, e domandatele che vi mostri ciò che reca nel grembiule. Il Conte, senza dir nulla alla moglie, spiò Chiara quel giorno stesso mentre varcava il ponte levatoio, e fermatala le domandò bruscamente: - Che cos'hai nel grembiule? La bambina arrossì e lasciò andare le cocche, ma invece di cadere in terra cibi e vesti di cui era pieno in quel momento, piovvero ai piedi del Conte rose e garofani. Si pentì il Conte di averla, anche per un momento, sospettata, e aiutandola a raccattare i fiori, le disse: - Portali pure dove vuoi; suppongo che sieno destinati al tabernacolo della Madonna. Chiara, senza rispondere, corse via, ma aveva fatto pochi passi che, gettando appena gli occhi nel grembiule, vide che i fiori ne erano spariti e che esso conteneva di nuovo cibi e vesti per i poveri. Chiara capì però che qualcuno doveva averla calunniata presso il Conte, e non volendo che nessuno sapesse la virtù miracolosa del suo grembiule, fu più guardinga e non lo cinse altro che quando era già fuori del castello. Così passarono alcuni mesi, e Geltrude, la quale non aveva raggiunto l'intento suo, che era quello di far cacciare Chiara dal castello, perché era gelosa della preferenza che la contessa concedeva alla figlia della Forestiera sopra a tutte le sue donne, non cessava di spiarla, e saputo che portava soccorsi nelle case dei poveri, tornò alla carica col Conte, nominandogli le case dov'ella andava e la roba che vi recava. Il castellano, insospettito, chiamò a sé Chiara, e con fare burbero le disse: - Tu non hai nulla e vivi della carità nostra. - È vero, messere, e io vi sono così grata del bene che mi fate, che non cesso di pregare per voi e la vostra famiglia. - Ma intanto tu la danneggi, privandola di ciò che costituisce la sua ricchezza per darla a questa masnada di bisognosi che si aggruppa intorno al castello. - Io non ho mai donato un boccon di pane che vi appartenesse, - rispose Chiara con la voce strozzata dal pianto. - E di chi è dunque tutto quello che dispensi? - domandò il Conte. - Dei poveri, soltanto dei poveri, - disse con accento di sincerità la fanciulla; quindi aggiunse dignitosamente: - Signore, credetemi, poiché non ho mai mentito. - Allora tu hai fatto un patto col Diavolo, ed è lui che ti fornisce tutto. - Ho cercato di star sempre in grazia di Dio e non ebbi mai rapporti con l'eterno nemico. - Dunque c'è un mistero, e io voglio saperlo. - Cacciatemi, messere, poiché siete nel vostro diritto; ma dalla bocca mia non saprete mai nulla. - Ebbene, vattene, e guarda bene di non parlare prima di partire a madonna Laura, poiché non voglio che ella interceda per te. Chiara, offesa di tanta durezza, mostrò al Conte un volto afflitto, ma non lacrimoso, e disse, prima d'uscire: - Signore, concedetemi che io vi ringrazi dei vostri benefizî, e se le preghiere di una infelice non vi sono discare, io pregherò sempre per voi. Il Conte non rispose, e Chiara se ne andò dal castello senz'altro bagaglio che il grembiule miracoloso e l'anello di sua madre, e col cuore afflitto da tanta ingiustizia si rifugiò nella grotta del Serpente. Ma prima di coricarsi ornò di fiori il tabernacolo della Vergine, sua protettrice. Ho detto più sopra che Fronzola era una continua minaccia per il forte Castello di Poppi, e il conte Guido, che ne era signore, non meditava altro che la rovina del conte Tarlati, suo natural nemico. Erano continue guerre per impossessarsi di Fronzola, che finivano sempre con perdite dalle due parti, ma senza che i Guidi riuscissero a togliere ai Tarlati la fortissima rôcca. La notte dopo che il conte Tarlati ebbe cacciata Chiara dal suo castello, una numerosa schiera di uomini d'arme di Poppi salirono quatti quatti sul colle Tenzino e poi sul poggio di Fronzola, e prima che le vedette delle torri dessero l'allarme, erano penetrati nelle case del paese, avevano fatti prigionieri gli abitanti e stretto d'assedio la rôcca. Il conte Tarlati, quando fu destato da questa notizia, andò su tutte le furie e ordinò di lanciar sassi e quadrella sugli assedianti; ma essi resistettero all'offensiva e le file loro si accrebbero il dì seguente di nuovi armati, spediti da Papiano, da Porciano e da Romena. Il castello di Fronzola era ben fornito di vettovaglie, e per più giorni resisté all'assedio; ma le persone che vi stavano rinchiuse erano molte, e il conte Guido, disperando di prendere la rôcca con le armi, attendeva che la mancanza di cibo inducesse il conte Tarlati a offrire la resa. All'autunno era succeduto l'inverno crudissimo; e la povera contessa Laura, desolata della scomparsa di Chiara, e afflitta, vedendo che la gente intorno a lei languiva di fame e soffriva il freddo, temeva da un momento all'altro che la più orribile delle sventure si abbattesse sulla sua famiglia e che il conte Guido s'impossessasse di Fronzola. È vero che il marito e il figlio, giovinetto, davano l'esempio della più energica resistenza e dividevano le privazioni degli assediati; ma la fame é cattiva consigliera, e il grano era esaurito, esaurite le provviste di carne, e i soldati si stimavano felici quando potevano mettere in pentola qualche civetta o qualche corvo, scovati nei merli del castello. L'assedio, nonostante la carestia, si protraeva ancora. I cavalli erano stati uccisi, uccisi i muli, e non restava agli assediati che una scarsa razione di fagioli per otto giorni ancora, quando una sera Chiara, che dalla Grotta del Serpente aveva assistito alle vicende dell'assedio, si presentò nella casetta dalla quale il conte Guido dirigeva le operazioni della guerra, e chiese di essere ammessa alla presenza del signore. - Che vuoi? - le domandò bruscamente il signore di Poppi. - Messere, - rispose ella, - io sono una infelice immensamente beneficata dal conte e dalla contessa di Fronzola. So che la difesa è ormai inutile e che essi debbono arrendersi o morire. Concedetemi di penetrare nella rôcca e di morire insieme con i miei benefattori. La soave espressione del volto di Chiara, la voce dolcissima di lei, e più di tutto la nobiltà dei sentimenti che ella esprimeva, commossero il conte Guido, il quale ordinò ai suoi valletti di sventolare bandiera bianca per chiedere di parlamentare. Fu abbassato il ponte levatoio e un drappello di assediati, pallidi e macilenti, si avanzò verso i valletti del signore di Poppi, i quali consegnarono ai fronzolesi la bionda fanciulla. Il ponte levatoio fu rialzato, e Chiara venne condotta nella sala d'armi, dove passeggiava inquieto e turbato il conte di Fronzola. - Che vieni a far qui? - le domandò il signore. - Vengo a portarvi la salvezza, se la rôcca può resistere ancora. - Non far nascere nel mio cuore vane speranze, - disse il Conte. - La fame c'incalza e fra breve non avremo più forza di resistere. - Questa forza, signore, ve la saprò procurare io con l'aiuto della Vergine Santissima. Destinatemi un luogo ove io possa esser al coperto dalla curiosità, e ad ogni ora venite a prendere quanto può occorrervi di vettovaglie. Il conte di Fronzola aveva poca fiducia in Chiara e credeva che ella macchinasse un tranello per vendicarsi di essere stata espulsa dal castello; ma, ridotto a quei ferri, credé obbligo suo di non respingere l'aiuto che ella gli offriva. Tuttavia, a fine d'impedirle di nuocere agli assediati, la rinchiuse in una stanza attigua alla sala, che prendeva luce dalla vôlta, e si allontanò. Dopo un'ora il Conte andò ad aprire e fu molto meravigliato di vedere la stanza, che prima era vuota, essere ora piena di mucchi di farina, di cacciagione e di agnelli scannati. - Con quali arti ti sei procurata tutto questo ben di Dio? - domandò. - Con l'aiuto della Vergine Santissima, come mi procuravo tutto quello che dispensavo ai poveri del contado. Il signore riprese coraggio e ordinò subito che fosse fatto il pane e arrostita tutta la carne, che dispensò ai difensori. Intanto la stanza ove stava Chiara si riempiva sempre, ora di vino, ora di carbone, ora di sassi per lanciare sugli assedianti, e la rôcca resisteva validamente agli attacchi del conte Guido, il quale, dopo lunghi mesi d'assedio, stanco alla fine di tanta resistenza, tornò a Poppi insieme con i suoi, e Fronzola riprese a fronzolore con grande molestia di lui. Figuriamoci se, dopo quel fatto, Chiara si ebbe ringraziamenti dal conte e dalla contessa Tarlati! La chiamarono col nome di "liberatrice", e se fosse stata figlia loro, non avrebbero potuto amarla di più. Anzi, per non separarsi mai più da lei, le offrirono di sposare il loro Guglielmo. Le nozze furono celebrate con molta pompa, e quel giorno, quando Chiara cinse il grembiule, la Madonna glielo fece trovar pieno di pietre preziose, degne di una regina di corona. Così non entrò povera nella famiglia dei conti Tarlati, di cui fu la benedizione, poiché col grembiule miracoloso non solo sollevò tutti i miseri del contado, ma assicurò ai conti di Fronzola la ricchezza. Disgraziatamente, quando ella era già vecchia, un incendio distrusse le stanze di madonna Chiara e anche le vesti di lei, nonché il grembiule miracoloso, che era stato la salvezza del castello. Questo, dopo la morte di madonna Chiara, cadde in potere del conte Simone di Poppi, che lo prese con l'aiuto de' fiorentini. Il Conte ne rese grandi grazie al comune di Firenze, e andando egli in quella città vi mandò la campana di Fronzola in segno di ricordanza. - Oh, se l'avessi io pure un grembiule come quello! - esclamò l'Annina. - Che ne faresti? - domandò la nonna. - Vorrei farvi stare bene tutti e empir la casa di tanta roba che non si potesse finire per anni e anni. Me lo rammento, sapete, quando càpitano gli anni cattivi, quando le raccolte vanno male, quando il babbo si arrabbia e soffre e voi vi affliggete. - Bambina mia, tutto non è sempre sereno nella vita, e i giorni tristi sono più frequenti di quelli lieti; ma quando si lavora e si cerca, nell'adempimento del proprio dovere, il coraggio per resistere alle avversità, si finisce per vincere l'avversa fortuna. Il grembiule miracoloso sarebbe una bella cosa, ma noi dobbiamo invece affidarci al lavoro, nient'altro che al lavoro. La terra è il nostro grembiule miracoloso; le affidiamo un chicco di grano e ci rende una spiga granita. - Le vostre parole sono d'oro, mamma! - esclamò Cecco facendosele accosto, - e se i vostri nipoti le ricorderanno, sapranno certamente trionfare sempre in ogni avversità. - Per quest'anno, - disse Maso che era un po' superstizioso come molti contadini, e non sentiva parlar volentieri di disgrazie, - se Dio vuole, la raccolta promette bene. Già siamo alla porta co' sassi, e se non si scatena qualche diavolo contro di noi, potremo contarlo fra gli anni migliori. - Ma anche se fosse cattivo, - ribatté la vecchia, - voi trovereste la forza di lottare contro l'avversità. Avete fortuna di volervi bene, di star d'accordo, e l'unione nella famiglia è già una forza. Le famiglie disunite sono quelle che vanno in perdizione. Vi rammentate dei Ducci? Avevano un podere che era una fattoria, braccia robuste per lavorarlo; ebbene! Non andavan d'accordo, ognuno tirava l'acqua al suo mulino, e ora son tanti pezzenti. - A proposito, nonna, - disse l'Annina, - m'ero scordata di dirvi che oggi, su a Camaldoli, abbiamo visto il capoccia dei Ducci, il cieco, guidato dal nipotino. - L'avete incontrato lassù? E che faceva? - domandò la Regina. - È venuto dall'ispettore Carli a chiedere l'elemosina. Aveva il bussolotto di stagno in mano, proprio come gli accattoni di professione. - E i figliuoli lo lasciano andare a chieder la carità? - domandò commossa la Regina. - I figliuoli sono ora tutti sparsi per il mondo; - rispose Maso, - i nipoti si sono allogati per garzoni nei poderi, e se il capoccia mangia, è in grazia della gente caritatevole, se no sarebbe morto di fame, lui e quel piccinuccio che gli hanno lasciato. - Se lo aveste conosciuto, quel capoccia, una trentina d'anni fa, - riprese a dire la vecchia, - sareste anche più meravigliati di vederlo elemosinare. Pareva il padrone di questi posti. Non c'era fiera, non c'era mercato, non c'era festa dove non si recasse, guidando un cavallo che andava come il vento; e spadroneggiava, dava consigli, s'intrometteva nelle contese fra contadini, insomma era per tutto, sapeva tutto, pagava da bere e da fumare a quanti gli si accostavano. Intanto i figliuoli, seguendo le sue orme, trascuravano il podere, e la povera massaia se ne stava a casa a piangere e a disperarsi. È morta di dolore, quella infelice; poi, sparita lei, che lavorava, tutti sono andati in rovina, e quel che è peggio, hanno preso a odiarsi scambievolmente. I figli accusavano il padre, questi accusava loro, e adesso tutti soffrono. Brutta fine hanno fatto, ma il loro esempio è stato giovevole a molti, e ora, quando si vede fratello questionar con fratello o padre con figli, si dice: "Faranno come i Ducci". I bimbi avevano ascoltato con il solito religioso silenzio le parole della nonna, e Gigino, per mostrarle che ne aveva capito il significato, tirò per la manica l'Annina, che gli era seduta accanto, e le disse: - Io ti voglio tanto bene! Quella scappata del Rossino fece rider tutti, e l'ilarità dileguò nell'animo dei bimbi il ricordo delle meritate sventure della famiglia Ducci.

Vita intima

683528
Vertua Gentile, Anna 2 occorrenze

Perciò si è pensato di aprire le scuole serali e le scuole festive, ove i figli del popolo, obbligati a guadagnarsi prematuramente la vita o a imparare il mestiere nelle botteghe e nelle officine , possono progredire nello sviluppo intellettuale e morale, facendo in tal modo l'interesse dell'industria, la quale vivendo essa stessa dalla scienza, sia teorica, sia applicata, abbisogna di lavoratori istruiti e pratici. Si è pure pensato di fondare dei circoli popolari ove, per mezzo di conferenze e di letture, si cerca di diffondere la moralità popolare, che è il primo e il più vitale dei grandi interessi nazionali. In Italia non vi ha città, non vi ha borgata nè paese, che non abbia le sue scuole serali e festive. E in molte città e paesi, vi sono pure i circoli popolari per davvero fondati a scopo morale. In Germania, oltre a una quantità di istituzioni private per giovinetti, c'è un insegnamento primario pubblico, domenicale, per i fanciulli e le fanciulle dai dodici ai diciotto anni. In ogni borgo, in ogni villaggio, si danno lezioni ogni domenica, fuorchè a l'epoca della mietitura. I giovani e le fanciulle non possono sposarsi se non provano d'avere assiduamente frequentate queste lezioni domenicali. Vi sono pure, in Germania , a complemento delle scuole elementari, le scuole « borghesi » corrispondenti presso a poco alle scuole elementari superiori; e queste scuole sono, per la maggior parte, domenicali e festive. In Svizzera, la scuola complementare è ordinariamente di tre anni; e in molti cantoni la frequentazione è obbligatoria per tutti i giovinetti e le giovinette, che hanno compiuto gli studi primarie non frequentino una scuola secondaria. A tale scopo, in Francia come in Italia, molto si adoperano gli istituti cattolici, che come i laici offrono a la giovinezza, oltre a l' istituzione , il mezzo di svagarsi e divertirsi igienicamente. In Inghilterra, poi, gli istituti d'istruzione e di educazione a complemento della scolastica si moltiplicano continuamente. L'inghilterra ha una « estensione universitaria » le sue « colonie universitarie » i « suoi palazzi del popolo » e un' infinità di patronati. E tutte le classi sociali , dall' aristocrazia alle corporazioni operaie e ai singoli lavoratori, contribuiscono a l'educazione popolare con mirabile slancio. A New York, nel marzo del l898, alcuni di quei riformatori sociali, che non corrono dietro alle chimere, ma si tengono sul terreno della pratica, si adoperarono per far istituire dei corsi di lezioni per gli operai adulti ; lezioni che prendono le mosse dalle principali questioni politiche del giorno, nelle quali, si dovessero discutere specialmente, problemi storici politici e sociali. Oratori e dotti di fama riconosciuta, si dichiaravano pronti a prestare l'opera loro, e il risultato della prova superò l'aspettativa, giacché gli operai mostrarono per quelle lezioni il più vivo interesse. Incoraggiti dal successo del primo tentativo, gli organizzatori pensarono di dare maggiore estensione e regolarità a l' opera loro e disposero le cose in modo, che, durante l'inverno passato, le lezioni si davano di sera, tre volte la settimana. Ci sono locali che contengono da mille a mille cinquecento uditori i quali accorrono a sentire la parola istruttiva e educatrice di valenti oratori. L'ingresso è libero; il programma delle lezioni interessantissimo. Non si predica contro il socialismo; si cerca invece di elevare la coltura generale degli operai, d' interessarli a considerare le cose dal punto di vista storica, a guardare al di là dei loro interessi immediati. L' esempio di New York è già imitato in altre città. L' Italia lo segue con le Università popolari. Interessare i fanciulli e i popolani a l'istruzione e a l'educazione, è toglierli al pericolo di piaceri pericolosi, renderli forti contro le insurrezioni 'degli agitatori, favorire il bene della famiglia. Nel secolo XIX tutti riconoscono, che si fecero studi, tentativi e opere d'ogni maniera per educare seriamente il fanciullo e il popolo a beneficio dello Stato e della famiglia. Mai come in questo secolo fu favorita l' idea dell' educazione liberale, che vuoi dire: saper sottomettere le passioni a la volontà, la quale obbedisca a sua volta a una coscienza delicata; avere una intelligenza che sia, per cosi dire, uno strumento di logica lucida e calma, di cui tutte le parti siano della stessa forza e in ordine perfetto, quasi macchina a vapore applicabile a ogni genere di lavoro; avere uno spirito nudrito delle conoscenze delle verità fondamentali della natura e delle leggi delle sue operazioni; aver imparato a comprendere e ad amare tutte le bellezze, quelle della natura come quelle dell'arte; a detestare la viltà; a rispettare gli altri come se stessi. Che vuol dire, essere, quanto è possibile a l'uomo, in armonia con la natura, la quale farà di lui quanto è possibile a l'uomo di essere, mentre egli trarrà da essa tutto il possibile vantaggio. Mons. Geremia Bonomelli Vescovo di Cremona, nel suo libro « Seguiamo la ragione » che è la prima parte di un lavoro « vasto e arduo qual è il compendio razionale della nostra fede » dice: « E’ vero; sono molti oncora al giorno d'oggi, che, nati in famiglia credente, cresciuti in una società cristiana, senza fatica alcuna, hanno ricevuta la fede, come una eredità non contesa, la conservano e camminano speditamente per dritta via. Per essi, i primi e santi affetti di famiglia si confondono con quelli della religione, né mai sorge ombra di dubbio a turbare la pace della loro fede; e se talvolta sorge, prontamente la scacciano. Anime felici ! per le quali nascere a la terra è nascere al cielo e a le quali il tesoro della fede è dato prima ancora di conoscerlo, e più che una conquista, è una eredità veneranda e resa cara dall'amore della famiglia ... Ma vivono altri (e oggidì sono moltissimi) i quali, quantunque nati in un ambiente religioso e cristiano e per alcuni anni nutriti col latte della fede, colpa dei tempi e degli uomini, a poco a poco ne ritrassero le labbra, poi respinsero la madre, che loro la porgeva, e finalmente consumarono il loro divorzio dalla Religione, che aveva rallegrati i giorni della loro infanzia, corsero dietro ai predicatori del libero pensiero e caddero nella miscredenza. La miscredenza teorica o pratica ! ecco il terribile morbo che da circa due secoli travaglia la società cristiana e che ai nostri tempi ha preso proporzioni non più viste e che ogni di più si dilata. Nei tempi remoti era una malattia pressoché ignota, ristretta tutt'al più a qualche individuo, e per essere rarissima, al popolo ispirava un cotal orrore. Ora questo tremendo contagio siè diffuso dovunque e in particolar modo si è applicato alle classi colte e istruite. Una credenza, quale che si fosse, nei secoli andati, era comunissima : se alcuni uscivano dalla Chiesa cattolica (e talora uscivano intiere nazioni) formavano una Chiesa a sè, o abbracciavano una religione già esistente, o la creavano a lor modo, ma non vi è esempio di un popolo senza una religione positiva, più o meno determinata e pubblicamente professata. L’ elemento sovrannaturale e divino sotto le forme più svariate ed anche contradittorie apparisce dovunque e sempre, e brilla in tutte le manifestazioni dell'umanità come il sole rifulge in cielo sul suo capo. Solamente sul finire del secolo XVIII, comincia una fase nuova che nel nostro è smisuratamente cresciuta. E una fase, in cui gli occhi di molti non si levano più in alto, ma si fisssano in basso e cercano intorno e dentro sè quello che cercavano fuori di s., in cielo. Gli uomini della scienza, pressochè tutti, ora fanno parte a sè in materia di religione, ciascuno tiene ciò che gli taleuta e anche nulla se così gli piace. Non si vuol più accettare una regola suprema, eguale per tutti, esterna; si sostituisce praticamente il proprio modo di vedere, e questa è la norma del credere e dell'operare. Il protestantismo poneva, qual norma assoluta e comune di religione, la Bibbia; ora vi si mette la ragione di ciascuna e perciò si hanno tante religioni quante sono le teste; è l'individualismo più assoluto che si possa mai immaginare in religione. Tutto il sovrannaturale si dilegua: resta la sola ragione dell'uomo; e troppo spesso in luogo della religione, la passione arbitra inappellabile di tutto. Di qui l’indifferentismo, o scetticismo la miscredenza, he invadono la società moderna. In questa fase o evoluzione dello spirito umano, è impossibile una religione novella; non si hanno che atomi disgregati, impotenti a formare un corpo organico. La miscredenza moderna è dissolvitrice per eccellenza; nell'opera sua distruggitrice , si lascia indietro qualunque scisma , qualunque eresia e lo stesso paganesimo. Ella fa di sua natura il vuoto più perfetto, annienta ogni religione e tende a fare della irreligione la religione universale, come altri francamente ebbe a confessare. E questa la malattia religiosa caratteristica della nostra società istruita. In quali classi sociali la miscredenza trova i suoi proseliti ? . . . Non certo nel popolo, che lavora sui campi e che suda nelle officine: qui troverete forse l'indifferenza, il dubbio, l'ignoranza della religione, anche, se volete la superstizione, non la miscredenza nel senso rigoroso della parola. La miscredenza fredda, risoluta, che ha coscienza di ciò che dice e vuole la miscredenza sistematica, per convinzione (non cerco se sincera e in buona fede o mascherata) la si incontra soltanto nelle classi istruite. Essa scende dall'alto al basso: non ascende dal basso all'alto ». L' illustre pensatore, indagando le cause della miscredenza del secolo XIX, scrive ancora : « Si disse : questa piaga sì larga e gangrenosa della società cristiana istruita, deriva dalle passioni, prima delle quali, l'orgoglio. Causa della miscredenza, dicono altri, sono le passioni politiche e le lotte fra le due autorità, religiosa e civile. E il rispetto umano che relegando la fede nel santuario della coscienza, fa pompa d'una miscredenza che non ha e ne ingrossa fuor di misura le file ? E lo spirito di curiosità, la smania di tutto conoscere e spiegare, quello che ci ha dato la miscredenza ? - Così altri. La ragione umana è finita e debolissima ; qual meraviglia, che volendo fissare lo sguardo nelle cose divine, ne rimanga abbagliato, perda l'equilibrio e cada nel dubbio e rigetti con superbo disdegno ciò che non può comprendere? ...E il ragionamento di parecchi uomini dotti. E a questo ragionamento di uomini dotti, egli aggiunge. « Si farebbe oltraggio a la verità se non si riconoscesse il progresso grandissimo che la ragione ha fatto in questi due secoli ». Conclude dicendo « che la moderna incredulità trae la sua precipua origine dalla scienza e cresce in ragione de' suoi progressi » l' incredulità è una malattia propria d'una società colta e progredita, come, nell'ordine fisico, lo sono il suicidio, gli enormi eserciti stanziali, le sètte anarchiche, i colossali fallimenti e andate dicendo. E spiega questa sua conclusione, che pare stolta, assurda, empia, condannata dalla chiesa. « Guardimi il cielo di considerare la scienza per se stessa quasi madre della miscredenza e nemica della religione ! Quando dico che la miscredenza si origina dalla scienza e cammina sui suoi passi, lo dico in quel senso nel quale il Vangelo afferma, che Cristo è posto in ruina e in salute di molti ; lo dico in quel senso, in cui altri potrebbe dire, che le acque distruggono le messi, che il sole brucia i campi, che la luce accieca, che il vino è un veleno, che le ricchezze corrompono, che l'ingegno è una sventura. Ciascuno intende che tutte queste cose per se stesse sono buone, utili, anzi necessarie ; ma pure sovente accade che per loro difetto, o per il loro eccesso, o pcl mal uso che se ne fa, anzichè vantaggio, rechino danno ed estrema ruina. La scienza fu ed è causa, o meglio occasione di miscredenza, per molti rispetti … E uno dei principali rispetti lo trova nella mancanza quasi assoluta della istruzione religiosa in quasi tutte le famiglie, nelle Università, nei Licei, nei Ginnasi, negli Istituti Tecnici e si può dire in tutte le scuole governative. Una delle cause più efficaci della miscredenza moderna e la massima, vuolsi calcolare nella separazione totale o parziale della istruzione religiosa dalla scientifica e nello squilibrio immenso tra questa e quella ; la prima è rimasta fanciulla, la seconda è divenuta adulta, e questa naturalmente, disprezza e schiaccia quella. E il Bonomelli a tal proposito riporta il linguaggio santamente audace che l'arcivescovo Ireland di S. Paolo negli Stati Uniti, ci fa sentire. L'epoca nostra è un' epoca intellettuale. Ella adora l' intelletto. Tutte le cose sono messe a la prova della ragione ; l'opinione pubblica, il potere che governa, sono formati da essa. La Chiesa stessa sarà giudicata a la stregua della ragione. I cattolici devono tenere il primo posto nella scienza religiosa. Essi devono mostrarsi in prima linea in ogni movimento intellettuale. Un'opera importante nel secolo futuro, sani, costruire scuole, collegi, seminari, e ciò clic è ancora più importante, inalzare le presenti e le future istituzioni al più alto grado di grandezza intellettuale. Solo le migliori scuole daranno a la Chiesa gli uomini di cui abbisogna. E queste scuole devono essere moderne nel corso degli studi' e nel metodo, per modo che gli scolari che escono dalle loro aule, siano uomini del secolo ventesimo. . . . Cercate gli uomini ; parlate loro un linguaggio non affettato e in istile del secolo XIX, ma ardente, che vada al cuore e a la mente ; rendete popolare la religione fin dove possibile. Se vogliamo guadagnare questa società, che nella parte sua più eletta, ha fatto divorzio quasi totale dalla Chiesa, e tenere nel suo seno quello che ancora vi sta, non illudiamoci ; dopo la virtù sia la scienza ; scienza vera, moderna, forte, spigliata, sciolta, da certe pastoie vecchie, create da un ridicolo convenzionalismo, accessibile a tutti; sia l'arma a cui diamo di piglio. Chi tiene le masse, regna ; le masse non sono tenute che dal loro Intelletto e dal loro cuore. Nessun potere le domina se non quello che tocca le loro anime libere ». Le legittime e veramente gloriose conquiste del progresso scientifico, non furono dunque sconosciute dal sincero pensiero cristiano nel secolo XIX. Il pensiero cristiano in urto con il progresso scientifico, sarebbe in urto con se medesimo. La via che la Provvidenza aperse al bene, a la verità , e al meglio a sollievo delle creature e a la loro esaltazione, non può essere disertata da chi perla in nome della verità e del bene. La scienza che dà ragione d' ogni cosa e studiando la bellezza dell' universo, innalza la niente commossa e grata al Creatore ; la scienza che avvicina i popoli rendendo possibile, anzi favorendo la santa fratellanza e la diffusione del bene ; che .allevia il dolore e diminuisce le malattie ; che stenebra la mente, distrugge i pregiudizi, insegna com' formata la terra e quali forze sono negli elementi, che indaga le vicissitudini del tempo, il moto degli astri , la natura della vita animale, le segrete virtù della vegetazione, la forza dei venti, non che un nuovo legame fra l'uomo e Dio.

Quando l'ammalato ha una famiglia, è nel suo seno che dovrebbe ricevere i soccorsi dei quali abbisogna ; avvezzare i poveri a respingere da sì; e dalla propria casa i loro più prossimi parenti nel momento della malattia, quando le forze fisiche e morali sono abbattute da! morbo , per metterli a carico della carini pubblica, è tale cosa di cui è difficile concepirne alcuna più dissolvente e più funesta per il sociale ordinamento. E specialmente durante la malattia che rivelasi, in tutta la santa potenza, la fecondita morale della famiglia. I doveri adempiuti e i benelizi ricevuti, la riconoscenza da una parte e la tenerezza dall'altra, le notti passati da una madre o da una moglie al capezzale del febbricitante figlio o marito , i timori le speranze le consolazioni, la solennità medesima della morte, tutti questi sono elementi di educazione di perfezionamento, di virtù, che sarebbe colpa il disconoscere, che è gravissimo errore il trascurare e spegnere nei cuori della popolazione. Per poco che vi si rifletta, è impossibile non sentirsi attristati e quasi sgomenti dal gran numero di pessimi istinti, dall'egoismo, dalla crudeltà, elle in molte famiglie del popolo sviluppa e mantiene l'abitudine di mandare a l'ospedale i loro congiunti non appena questi sono affetti di una di quelle affezioni morbose, che dovrebbero essere una propizia occasione a fare svolgere tutta la potenza d'amore e di pietà di cui è capace il cuore umano. Tali sono gli effetti che dal lato morale produce la spedalità male intesa ed improvvisamente amministrata. Né meno deplorevoli sono gli effetti economici. Fra tutte le qualità necessarie ad assicurare il progresso della umana associazione, niuna importa maggiormente di promuovere e mantenere viva nell'anima, della previdenza. Per misurare la bontà e l'utilità delle pubbliche istituzioni, non vi ha più sicuro criterio di quelle di osservare quale influsso esercitano su questa virtù; quelle che la destano, la secondano e l'incoraggiano sono da encomiarsi come sono da respingere quelle che la deprimono. A questa stregua, chi non vede i pericoli che circondano gli ospedali, aperti gratuitamente chiunque voglia ricorrervi, non richiedendo per l'ammissione che condizioni troppo facili e comuni ? .. Quando — dice un altro scrittore — accostandosi a la maturità della vita, il lavoratore pensa formarsi una famiglia, egli deve previamente accettarne i pesi e i doveri. Ora, supporrà egli di adempire a questi doveri, man-dando a l'ospedale la moglie e i figli malati, riguardando l'ospizio come un rifugio aperto alla sua vecchiezza ? . . . Tale è pure tuttavia la tentazione che gli dà la vicinanza di questi stabilimenti, congiunta con l'abitudine che egli ha sempre veduto seguire dai suoi compagni, con gli esempi che gli vengono continuamente dati. Ciò gli farà dimenticare di risparmiare durante l' età del lavoro: gli farà trascurare i salutari consigli che gli offrono, per i giorni difficili , le associazioni di previdenza; vivrà la dipendente vita del proletario, perdendo quasi la dignità e l'indipendenza del cittadino, logorerà il capitale sociale invece di apportare la sua pietra a l'edificazione del progresso generale dell'umanità. Oltre agli ospedali quali e quanti altri istituti di beneficenza non apre la società, ai poveri, agli abbandonati, agli orfani, ai pericolanti, a l'infanzia, soccorrendo a ogni bisogno della famiglia, con illuminata previdenza ! .. . Sono istituti che dicono altamente il generale sentimento di umanità, il desiderio del progresso morale, l'amore che é il solo legame, la sola religione universale; l'amore, principio di unione , di fratellanza, che Dio ha messo nel cuore, non nello spirito dell'uomo; l'amore, fonte inesauribile di carità. Un amore, una carità previdenti, provvidenziali, che danno la smania di aiutare i disgraziati, di migliorare la condizione del povero, di impedire il male, di diminuire il dolore e avviare al bene ogni classe di persone. Questo amore, questa carità, che pure, salvano da tanti guai, riparano a tante miserie, possono indebolire il sentimento di affetto fra i membri della famiglia; ma come fare altrimenti ? La società è così costituita che è indispensabile provvedere ai mille bisogni di tanti e tanti soffocando forse nella grande opera pietosa gli affetti più naturali. Come provvedere ai bisogni morali e materiali dei bambini e dei fanciulli poveri, dei giovinetti discoli , dalle fanciulle pericolanti , dei ciechi e dei sordomuti, di adulti spostati e incapaci di lavorare, dei vecchi affraliti che sarebbero di spesa alle famiglie ? .. E ci sono, perciò varie specie di ospizi; quello dell'allattamento dei neonati, gli asili d'infanzia, gli orfanotrofi, i ricoveri per i discoli, le case provvidenziali per le giovinette in pericolo , per gli adulti che hanno bisogno di lavoro, per tutti i disgraziati o quasi. Che sarebbe di questa moltitudine di poveretti se la società non pensasse a provvedere ai loro bisogni ? . . . Basterebbe l'affetto della famiglia a soccorrerli, a salvarli dal male ?... . Il cuore, il buon senso, il desiderio della famiglia, logicamente e santamente costituita, fanno pensare con una certa incresciosità agli istituti — per esempio — dell'allattamento dei neonati. Addolora l'idea che una madre deva assoggettarsi a la necessità di staccarsi dal seno la propria creatura, di affidarla per l'intera giornata alle cure degli altri ! E chissà quante poverette rinuncieranno con angoscia, quasi con gelosia, al dovere di allattare i loro piccini, di circondarli delle delicate cure richieste dalla loro debolezza! E vi rinuncieranno per mancanza di mezzi materiali, di tempo, magari Chi sa quante poverette dovranno sacrificare al lavoro nelle casi industriali, nei negozii, nelle famiglie, il piacere di tenersi presso i propri bambini in fasce. Ma come fare se il lavoro è necessario al pane della famiglia ? Sicuro; tutti lo sentono, tutti lo sanno: l'allattamento materno è desiderabile, come quello che offre, oltre molti altri vantaggi, quello di rafforzare i legami della famiglia, di mantenere le affezioni domestiche. La vista della culla eccita l'attività, insegna la previdenza, compensa la moderazione, impone rispetto all'uomo per la donna, comanda il sentimento della protezione. E il bimbo riceve cure, se non più igieniche, certo più tenere; e in tanto gli si figge nel cervello la rappresentazione della madre che lo allatta, del padre che lo accarezza, degli oggetti che lo colpiscono; e le prime impressioni che riceve dal mondo esteriore sono quelle della casa e dell'ambiente nel quale è destinato a vivere. L'alattare i proprii figli è uno dei più santi e cari doveri della madre. « Partorire con dolore — dice Mantegazza — è della femmina. Allattare il proprio figlio, riscaldarlo del calore del proprio petto, dargli un altra volta la vita con l'alimento del seno, è della madre ». Ma pur troppo ci sono delle madri che non sentono questo santo dovere e rinunciano con un sospiro di sollievo a l'incomodo di curarsi dei loro bimbi in fasce, e fanno impegni per affidarli, anche senza bisogno, agli istituti di allattamento. E che dire delle altre molte appartenenti alle classi agiate, che con tutta indifferenza affidano le loro creature alle balie, rinunciando al dolcissimo piacere di allattarle per schivare seccature, per non avere impicci, per non recar danno a la fresca bellezza ?.. Il sentimento della famiglia non può certo trovarsi nel cuore di queste madri: nè per esse gli istituti di allattamento saranno una prova di affievolimento nelle affezioni più intime. Vi sono bambini che passano i giorni della prima infanzia via di casa sempre o quasi. Sono mandati a balia, in campagna, o affidati per l'intero giorno a l'istituto di allattamento; a l'età di due, tre anni, li accolgono i giardini d'infanzia, da mattina a sera. Dai giardini d' infanzia passano alle scuole elementari, e nelle ore che corrono fra la fine della scuola e la sera, sono raccolti nella scuola e famiglia, ove la generosità pubblica li sorveglia mentre fanno i compiti o studiano le lezioni, procura loro svaghi sani e innocenti e quasi sempre del pane per la merenda. Questi fanciulli non si trovano in casa propria che la sera, quando i genitori sono tornati dal lavoro, e stanchi e spesso inaspriti, specie le donne, dalla continua obbligata assenza dalla casa, dalla necessaria mancanza dei doveri di madre di famiglia e di massaia, non sentono altro bisogno, altro desiderio che quello del riposo e del nutrimento non sempre corrispondente alle fatiche sostenute. Quel ritrovo della famiglia non è certo sempre allegro nè allietato dalla pace serena. In simili condizioni di cose come possono rafforzarsi i legami fra genitori e figli, fra sorelle e fratelli ?.. Poi che la società è costituita in modo che in molte classi, i genitori devono disertare la casa per il lavoro, e la donna non ha tempo o pochissimo di occuparsi della famiglia, conviene benedire agli asili, agli ospizii, alle scuole ed ai riareatori laici o religiosi, che nel miglior modo possibile, cercano di supplire a la famiglia raccogliendo i bambini, i fanciulli, gli adolescenti, per proteggerli contro la inerzia, l'abbandono, il malo esempio, per distoglierli dalla via del male che conduce a perdizione, che si oppone al morale progresso, a la economica floridezza della società. Un'altra istituzione che si deve benedire come provvida e pietosa è quella dell'ospizio dei vecchi. Non sono più capaci di lavorare, sono, acciaccosi, e dopo di avere cresciuto i figli, sentono che i figli non possono senza grave sacrificio sostenerli nei loro ultimi giorni di stanchezza, che dovrebbero per molti essere giorni di riposo meritato. L'ospizio li raccoglie, la carità li strappa a la miseria, offre loro tetto, vesti, vitto. La necessità li stacca dalla famiglia; non più vecchi o ben pochi nelle case del povero, non più la saggia voce dell'esperienza, la scuola del rispetto, l'affezione santa fra nonni e nepoti!... Un altro crudele, necessario strappo alle affezioni della famiglia !... Strappo crudele che ferisce il cuore e fa pensare. Ma non sorgerà dunque mai, mai una società abbastanza ricca e devota al dovere, che permetta al vecchio povero di morire dove ha vissuto, fra la gente che ama, seguendo le abitudini incontrate, circondato dall'affetto dei suoi ?.. Perchè la società non è costituita in modo da lasciare il vecchio povero nel posto che Dio gli ha assegnato, là dove l'uomo giovane e forte dovrebbe aiutarlo, la donna averne cura, i fanciulli sorridergli ed ascoltarne riverenti le parole ? E’ così dolce vedere la debolezza sorretta dalla forza, la infermità alleviata dalla salute fiorente, il capo canuto curvo su i riccioli biondi !... E’ invece triste l'ospizio ove sono raccolte tante vecchiaie, ove giacciono sepolti i ricordi, i desiderii, le languide speranze, non di rado il rammarico, qualche volta la sorda, impotente ribellione contro l'ingiustizia. E pure che sia mille volte benedetto l'ospizio che toglie il vecchio povero al freddo, a la fame e pur troppo anche a l'ingratitudine ! Ma che si possa sperare in un tempo in cui la famiglia sia costituita in modo che cessi d'essere necessaria questa pietosissima e grandiosa opera di beneficenza, in un tempo in cui le condizioni sociali sieno tali che l'amore e la gratitudine possano unirsi insieme, per offrire un posto d'affetto e di riconoscenza in seno della famiglia, ai vecchi affievoliti e impotenti al lavoro ! In Danimarca si concedono pensioni ai vecchi poveri. Per ciò fu approvata una legge il 9 aprile 1891: legge che andò in vigore il primo luglio dello stesso anno per tutto il regno, salvo Copenhagen e il suo sobborgo Frederiksberg, in cui andò in vigore nel 1892. Scopo della legge è di accordare pensioni, su fondi pubblici, ai poveri che hanno superati i 60 anni e che possono dimostrare come la miseria non sia per essi cagionata da vizi, o da condotta irregolare o dall' essersi privati di tutto a vantaggio dei figli o di altri. Gli aspiranti a la pensione, espongono lo stato loro e le rendite di cui godono, i debiti se ne hanno, gli aiuti che già hanno ricevuto ecc; e queste loro dichiarazioni devono essere attestate da due persone minacciate da severe pene se dicono il falso. Allora si fa un'inchiesta e si accorda la pensione se ne è il caso. Si può però appellare contro la risoluzione dell'autorità che ha applicato la legge. Nell'anno 1897 furono date in tutto il regno, 52,930 ensioni. Nel 1893, sopra 220 ersone, che avevano varcati i 60 anni, ve n'erano 30 he rice- vevano la pensione e dodici che da loro dipendevano (figli, mogli, ecc.); ma al principio del 1897, il numero dei pensionati era cosi cresciuto, che solamente su 180 persone sopra i 60 anni si trovava la stessa quantità di pensionati. In alcuni luoghi i pensionati sono alloggiati in case, alcune delle quali sono specialmente assegnate a loro soli, e nel 1896 ve n'erano 426 che ricevevano questo trattamento a Copenhagen, e 339 nelle altre parti del regno. Soccorrere con una pensione i vecchi, i quali se hanno famiglia possono vivere con essa senza essere di peso e soffrire avvilimento, cosa che prova il progresso nel sentimento filantropico. Come in tutto, anche qui c'è qualche inconveniente. Per esempio; molti che hanno o stanno per avere i 60 anni, cambiano di residenza per andare in luoghi dove sperano di poter ottenere una pensione più grande di quella che avrebbero liquidato se fossero rimasti nel luogo di origine, e ciò avviene principalmente dalle campagne a la città. Nè mancano questioni e difficoltà che debbono ancora essere risolute, come per esempio: se chi possiede una piccola proprietà possa godere della pensione accordata su i fondi pubblici, o se debba restare a l'autorità il diritto di rivalsa su la proprietà lasciata da un pensionato dopo la morte di costui. Li ogni modo questa legge ha un'azione benefica anche in riguardo ai suoi effetti morali. Il primo di tali effetti è quello di accordare al vecchio la possibilità di passare i suoi ultimi anni con le persone della famiglia; di evitare uno strappo crudele di abitudini e di affetti. Un altro quello di influire su la condotta. Il pensiero, il desiderio, la speranza della pensione, non possono a meno di essere di sprone al ben condursi, al meritare la stima pubblica, e insieme con la stima una sincera testimonianza di regolarità per il momento opportuno. Nel secolo XIX la famiglia del povero fu soccorsa e istruita; ma i vincoli fra i membri che la compongono non vennero rafforzati. E pure non mancò il desiderio di educare negli animi il sentimento della famiglia. Molti sono gli esempi che lo dimostrano, e fra questi il seguente, che si riferisce agli orfanelli. L'istituzione degli orfanotrofi é antichissima. La sorte dei poveri fanciulli privi dei genitori, ha sempre impietosito, ha sempre destato un sentimento generoso. Ma gli antichi orfanotrofi non miravano ad altro che a dare agli sventurati fanciulli senza difesa, un asilo ed una protezione, contro i pericoli d'ogni genere che li minacciavano, senza curarne l'educazione, se si toglie la religione, grossolanamente impartita. Al genio della moderna carità era riserbato di risguardare sotto un aspetto più largo e più filantropico questo genere di benefici stabilimenti. Gli orfanotrofi si propagarono rapidamente in Italia più che negli altri paesi. L'ospizio degli orfanelli fondato in Roma nel secolo XVI, destinava e preparava ad utili professioni i ragazzi ricettati, e il cardinale Salviati vi unì un collegio per i fanciulli che a dodici anni, mostrassero di avere attitudine a l'istruzione letteraria. Papa Innocenzo XII fondò poi un secondo orfanotrofio annesso al grande ospizio apostolico, di S. Michele, nel quale si insegnano le arti meccaniche e le liberali. I due grandi stabilimenti per gli orfanelli di Milano, i Martinetti e le Stelline rivaleggiano con quelli di Roma, Tutte le città ormai hanno il loro orfanotrofio. E i ricoverati ormai non sono tutti obbligati a star reclusi il giorno intero nello stabilimento. Si trovò che nell'officina dell'ospizio, il fanciullo compie per lo più senza passione il suo dovere. Non vi è nulla che ecciti il suo ardore; nulla che lo divaghi e con la divagazione gli rafforzi la volontà. Si è quindi pensato di disseminarli nelle botteghe e nei negozi privati. Così gli orfani possono scegliere il mestiere o l'arte verso cui si sentono inclinati ; la speranza del lucro e l'emulazione servono loro di stimolo; imparano non solo l'arte o il mestiere, ma anche il modo di vivere in società; quindi a fare frequenti e utili osservazioni sul proprio carattere; e sopra tutto a farsi un'idea della famiglia, ne respirano l'aura vitale e educano nel loro cuore quei sentimenti d' affetto che non possono essere svegliati e sviluppati in un ospizio.

Il maleficio occulto

684168
Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

Per acciuffare il ladruncolo, gli abbisogna una legione di carabinieri, un esercito; ancora un po' e pretenderà l'artiglieria!.... Di questo grazioso episodio s'è riso molto al processo: il pubblico che non potè vedere il barone perché malato, si imaginò un omuncolo vigliacchetto e deboluccio, una specie di Don Abbondio senza il tricorno; qui dove la sua condotta comincia a diventar quasi imprudente, la comicità di tante precauzioni coperse il vero fine dell'individuo. " Meglio ancora quando si seppe che d'improvviso il barone era partito quel medesimo giorno con l'ultimo battello a vapore. Aveva pretestato una lettera urgente arrivatagli allora, la quale esigeva la sua presenza a Milano. Il presidente delle Assise non potè trattenersi dall'osservare che il barone in quel momento, era stato temerario Temerario, senza dubbio, ma a spese altrui: egli arrischiava, con un coraggio leonino..... la vita di sua moglie! Egli, che aveva dovuto confessare la necessità di chiamar la pubblica forza per difendere i propri averi, forse la propria esistenza, lascia la casa ad un tratto, lascia una donna in balia dell'ignoto e corre ad un supposto convegno di non sappiamo chi, di non sappiamo che cosa! Il Boldrella compiuto il furto, non era potuto rimaner tranquillo: qualche ora dopo essere stato visto in iscuderia dalla baronessa, attacca i cavalli ed esce per muoverli. " Ha paura: alcuni che l'hanno incontrato sulla strada comunale, dichiararono che aveva spinto i cavalli a corsa velocissima, e li sferzava, li eccitava con la voce a rischio di non dominarli più.... Ha paura: la sua opera diuturna e scaltra sta per essere svelata: bisogna giuocare una carta ultima, o veder tutto miseramente perire. Ma che fare? Quale occasione gli si offrirà? e quando?..... Ha udito susurrar di perquisizioni, di carabinieri, di arresti. Forse, tornando a casa, troverà il maresciallo sulla soglia.... Sarà difficile provare che il ladro è lui, perché la refurtiva è ben nascosta: ma intanto possono tendergli qualche tranello.... Poi il barone ricorda l'episodio della biada, e lo narrerà e quello sarà il filo conduttore che dipanerà la matassa..... " Lentamente, coi cavalli stanchi, verso sera egli si decide a ritornare; passando il cancello, non vede alcun carabiniere; tutto quieto, monotono e triste come ogni giorno.... Che più? In breve, egli viene a sapere che il barone è partito per Milano. E' un lampo di luce! L'occasione si offre da sé, nessuno l'ha cercata, bisogna approfittarne; pazzo chi non ne approfitta!.... Ma la baronessa?.... domanda; e il massaio, che, da galantuomo, ha l'antipatia istintiva per i mascalzoni, non gli risponde. " Che volete saper voi? " gli dice il massaio. "Ah non vuol parlare? Ebbene, il Boldrella spia; egli conosce le abitudini di tutta la casa e vede che le abitudini non si ripetono: la finestra della baronessa ha le gelosie socchiuse: alla sera non le recano il tè, come di solito: la cameriera, contro il solito, va a dormir presto. La baronessa non si vede, non si sente, la baronessa è partita, la casa è in mano di lui, la breccia su nel granaio, gli apre il passaggio e stanotte il colpo decisivo, il colpo maestro sarà compiuto. Il Boldrella ha qualche ora di gioia incontenibile. L'America è nel suo pugno, come le casa del barone! Egli canta, in iscuderia, canta sfrenatamente, di gioia spaventosa..... - Come sai tutto questo? - interruppe Clara, drizzandosi a guardarmi. - L'ha confessato lui, capisci? Ha confessato che la partenza del barone gli diede l'idea di finirla con un colpo d'audacia.... Era un'attenuante per l'assassino: ma i giurati la respinsero, nonostante gli sforzi del difensore.... Poi, il resto fu narrato dai testimoni e confermato a me da gente del paese..... -Ah, che orribile, che orribile cosa! - esclamò la donna, serrandomi le mani. - Non potrò più reggere alla sua presenza: mi sento un brivido freddo, pensando che egli è stato qui, ha toccato le mie mani, e verrà ancora..... - Vedremo, - dissi. - Ora ascoltami per poco; ho quasi finito. - Si, sì, ti ascolto.... Ma tu, dimmi, tu l'hai veduto, l'assassino? - Il Boldrella? Certo, per una settimana, ho passato lunghe ore a due passi da lui, perché col mezzo di certi amici avvocati m'ero fatto dare un posto, sotto la gabbia..... Allora non imaginavo che avrei parlato tanto di lui, e a te, in questa notte!.... Piccolo e magro, sembrava lo si potesse atterrare con una stretta, ed era un uomo che sollevava un peso di cento chili senza difficoltà.... Aveva occhi rotondi, come quelli del gufo, e lucentissimi: baffi scuri che gli celavan la bocca; fronte stretta, zigomi sporgenti, le tempia appiattite; non aveva mento, quasi: pareva che il volto finisse con i baffi; colorito pallido. Il suo sguardo non si poteva dimenticare; dritto, fisso, indagatore; nè si potevan dimenticare le sue mani, enormi di lunghezza e sempre instabili.... Quando lo conducevan nell'aula, non se ne udiva il passo: egli compariva, si sedeva; e risuonava appena il chiavistello della gabbia; il suo passo era sordo, quasi egli camminasse sulla bambagia..... " Fu quest'uomo, o meglio questa faina, questa volpe, quest'animale da preda, che spaccò il cuore alla giovane signora! - Come avvenne, di', come avvenne? - domandò Clara, guardandosi istintivamente attorno e stringendosi nella mantiglia. - S'è saputo bene? - S'è saputo molto e s'è indovinato il resto, - seguitai. - Pare che dopo una serata tristissima, in cui non volle veder nessuno, nemmeno la cameriera, dalla quale pure si sapeva amata, la baronessa si sia coricata affranta, e che verso le due di notte, quando il ladro cautamente forzò l'uscio, ella non abbia udito. Dormiva, come si dorme dopo aver pianto molto. Il Boldrella, sicuro di non trovare alcuno, entrò e si diresse a uno stipo ch'egli sperava di forzare come l'uscio. C'era la luna, e un po' del suo chiarore penetrava nella camera tagliandola quasi a metà; ombra dov'era la giovane signora coricata: luce dov'era il Boldrella. " La baronessa si sveglia e vede; non grida, non dà l'allarme; forse non osa; si lascia scivolar dal letto, e lestamente cerca di uscire per chiudere il ladro in trappola..... Ma il letto ha scricchiolato; il Boldrella si volge, si sente perduto, non ha nemmeno il tempo di meditare un piano.... - Dio! - esclamò Clara con un brivido, che la scosse. - Fa un balzo alla porta, verso la figura bianca: la vede in faccia, l'afferra, le chiude la bocca con la mano enorme e terribile: "Non gridare! - dice come in rantolo - non gridare, o sei morta! " Ma la baronessa, si divincola. L'orrore è troppo forte: lei, quasi nuda. fra quelle braccia! - Ah, non dire, non dire più nulla! - mormorò Clara. - Ella si divincola per fuggire: egli la serra sul petto in un abbraccio spaventoso, e colla mano libera cerca in tasca, trova una lima acuminata, la vibra nell'aria, l'affonda nel seno palpitante della donna, che gli manca tra le braccia, senza un grido.... Tutto questo in un attimo, in un lampo, sulla soglia, quasi senza parole..... Vi fu un lungo silenzio. Clara piangeva, come aveva pianto l'umile Anastasia, al ricordo della scena: e lo spettacolo di quelle donne che davan le loro lagrime più pure alla memoria della sacrificata era tenerissimo e nobile. Non diversamente, forse, le belle giovinette pagane piangevano la compagna immolata a qualche barbarica cerimonia. - Ho fatto male a raccontarti tutto? - domandai sottovoce, accarezzando lievemente la mano, che Clara aveva abbandonato lungo il fianco. - No, hai fatto bene: devo sapere, fino in ultimo, - ella rispose con impeto. E guardando un piccolo orologio, che stava in un angolo, sopra una mensoletta, aggiunse: - Sono appena le due. Abbiamo tempo....

Pagina 29