Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbigliarsi

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C'ERA UNA VOLTA ... :FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

CARDELLO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Con che animo la disgraziata avrebbe potuto far la parte di Colombina quella sera, se lui stesso prevedeva di non saper dire due parole per conto di Peppe- Nappa e di Peppe-Nino E lei doveva pure abbigliarsi in maglia e veste corta e ornarsi dei falsi gioielli di rame con pietre di vetro colorato; e lui mettersi in camicione col cappellaccio bigio di feltro, per ricevere nel vassoio, alla porta, la buona grazia dei signori che sarebbero intervenuti allo spettacolo! Il dottore non aveva detto niente, ma Cardello da un significativo increspare delle sopracciglia e dalla premura di lui di tornare con la medicina, si era convinto che si trattava di cosa grave. E se durante la rappresentazione la bambina si metteva a piangere, come avea fatto tutta quella giornata quasi senza chetarsi un quarto d'ora? - Ti muovi dunque, pel petrolio? - urlò don Carmelo, Cardello presa la latta, stava per uscire quando s'incontrò col dottore. - Va male? - gli domandò sotto voce. Il dottore scosse la testa ed entrò. Alla vista del vecchietto basso, tutto canuto, che portava in mano una boccetta con la medicina, don Carmelo si fece avanti ossequioso. - Questa sciocca si dispera! È vero che non è niente, signor dottore? Glielo assicuri lei. Me, non mi crede. - Il posto è umido - disse il dottore. Tenetela a letto ... Avete un letto, qui? - Là dietro, un letto alla meglio - rispose don Carmelo. - Questa sera do la grande serata pei galantuomini Se il signor dottore volesse venire a divertirsi ... . La bambina è abituata all'umido; è nata in un magazzino peggiore di questo ... . Un po' di tosse; si sa, i bambini ... . È vero che non è niente, signor dottore? Tranquillizzi questa sciocca; se no, chi sa che pasticcio mi fa questa sera! ... - Sì, sì, non è niente ... . cioè ... - biascicò il dottore, un po' confuso: - Basta: tenetela ben cautelata. Ritornerò domani. * * * Quella sera faceva freddo. Un pezzo di grossolana stoffa di cotone stinta dall'uso impediva che gl'indiscreti potessero vedere da fuori quel che si faceva là dentro; ma non riparava dall'aria frizzante donna Lia in maglia e veste corta, nè Cardello insaccato nel camicione, col cappello grigio di feltro su la nuca, e che gli stava accanto, dietro il tavolino, col vassoio situato tra due candele steariche infisse nei candelieri di stagno. Il pallore della pelle del viso di donna Lia si scorgeva fin sotto il rossetto profuso su le guance per l'occasione. Cardello di tratto in tratto, si soffiava dentro i pugni per riscaldarsi le mani. Don Carmelo, già impaziente di veder riempito il locale dalle notabilità del paese, affacciava la testa capelluta da un angolo del palcoscenico, e sua moglie che se n'era accorta si sentiva su le spine, vedendo affollarsi alla porta coi biglietti in mano, le donne di servizio, i servi, i garzoni di campagna dei cavalieri che non avevano creduto dignitoso per loro andar ad assistere all' opera di don Carmelo. Lo stanzone era già pieno zeppo, e il popolino tumultuava vedendo ritardare l'alzata del sipario. A un cenno di donna Lia, Cardello si mosse per avvertire don Carmelo di dar principio alla rappresentazione. Lo trovò che bestemmiava sotto voce, staccando rabbiosamente dal grosso ferro che li reggeva Santa Genoeffa, l duca, il traditore, il bambino, la cerva e gli altri burattini. Li buttava da parte con mala grazia, uno su l'altro, non curandosi di acciaccarne le teste, di sgualcirne i vestiti, di ammaccarne le corazze, e gli elmi di latta. - Dice donna Lia ... . - Il povero Cardello non potè aggiungere altro, sopraffatto dalla valanga di improperi che don Carmelo pareva stritolasse tra i denti, facendo il miracolo di non urlarli ad alta voce, quantunque i rumori, i battiti di mano, le grida di - Fuori! Fuori! - scoppianti dalla sala avrebbero impedito di udirli anche se non brontolati a quel modo. Cardello bbe un'ispirazione; si mise in bocca il fischio da Pulcinella e fece sentire uno strillo, una specie di risata o di ringhio caratteristico. - Bravo! - Se no non si chetavano, - disse Cardello orgoglioso di vedersi approvato dal padrone. E il sipario fu tirato su tra il profondo silenzio della sala. Cardello avea dovuto prendere in mano Tartaglia mentre don Carmelo, situato nel centro, dietro il fondo, reggeva Pulcinella Lo scenario rappresentava la sala del trono del duca di Brabante, e gli spettatori eran curiosi di sapere come mai Pulcinella e Tartaglia si trovassero là. Non meno curioso e ansioso di loro era Cardello che non sapeva una sola parola di quel che avrebbe dovuto far dire a Tartaglia Si tranquillò vedendo che don Carmelo si affrettava a fare le due parti ora parlando col fischio da Pulcinella ora ingrossando la voce e tartagliando per conto dell'altro burattino. TARTAGLIA. So ... sono arri-arri arrivato in questa città e non co-conosco nessuno. PULCINELLA. Città? Dite porcile! Io non vedo l'ora di scapparmene via. TARTAGLIA. Pe-perchè? PULCINELLA. Perchè gli abitanti sono peggio dei maiali, tutti, dal primo all'ultimo. TARTAGLIA. Co-come? Sono anzi ca-cavalieri, baroni, pri-principi! ... PULCINELLA. Ve lo dico in un orecchio che sono ... ma zitto! TARTAGLIA ( contorcendosi dalle risa . Ah! Ah! ... . Mi mi scappa! Ah! Ah! ... Mi scappa! PULCINELLA, Zitto, vecchio imbecille! Altrimenti queste bestie qui vanno a riferirle ai loro padroni ... . TARTAGLIA. Ah! Ah! ... Mi scappa! ... PULCINELLA (dandogli un calcio) E lasciatevelo scappare! TARTAGLIA ... ... Appena Tartaglia ripetè la parolaccia che Pulcinella gli avea detto all'orecchio, un grand'urlo e un fitto coro di fischi scoppiò nella platea. - Pezzo di ubbriacone! Basta! Basta! - E una seggiola volò sul palcoscenico, poi un'altra, poi un'altra che sfondò la scena di carta, dietro lo squarcio della quale si videro le gambacce di don Carmelo e quelle magroline di Cardello. Sarebbe avvenuto un gran guaio, se il brigadiere e due carabinieri non si fossero trovati là a calmare la gente, a prenderla per le spalle, a farla uscire, assicurando che il domani il burattinaio avrebbe chiesto scusa ai signori e al pubblico per la parolaccia fatta pronunziare al povero Tartaglia, che un colpo di seggiola aveva atterrato sul piccolo palcoscenico. Quando l'ultimo e più riottoso degli spettatori fu messo alla porta, il brigadiere si affacciò dietro il palcoscenico dove il burattinaio già staccava le assicelle dello scenario, dopo aver fatto un gran fagotto dei burattini preparati per la serata. - Signor brigadiere ... . - Ma come vi è passato per la testa ... ? - Li ho chiamati come li chiamano tutti, signor brigadiere. - Va bene: è l' inguiria, come dicono qui, il nomignolo di cui li regalano la gente dei paesi attorno ... . - E l'offesa fatta a me la contate per niente, signor brigadiere? - Quale offesa? - Faccio una serata di onore pei signori, con inviti, a pagamento s'intende, rimettendomi alla loro buona grazia, alla loro generosità; il Sindaco accetta di proteggerla ... . Mi ha mandato cinque lire con l'usciere! E i signori intanto ... . Che cosa si credono? Divinità? ... Bestie che non capiscono niente dell'arte dell' opera ... perchè altrimenti sarebbero intervenuti e non avrebbero mandato invece le loro persone di servizio ... . - Hanno mandato anche quattrini ... . - Gliele ributto in viso le cinquanta miserabili lire che sono ancora là ... Lia, dov'è il vassoio? - E domani che cosa farete? - Domani? Ma io vado via sùbito da questo porcile! - E così parlando, l' Orso peloso non aveva smesso di spiantare le assi del palcoscenico, di piegare le quinte di carta e il sipario, aiutato un po' da Cardello che aveva aperto gli occhi spauriti dalla paura ed era indignato anche lui per l'offesa fatta al suo principale. * * * La povera madre, tuttavia in maglia, col rossetto che le si scioglieva su le guance in larghe righe per le lacrime che le sgorgavano silenziose dagli occhi - e lei non badava ad asciugarle - era curva su la piccina, che, stesa sul pagliericcio dietro il palcoscenico, non tossiva più e non si lamentava più, con nel pettuccio un rantolo che le moriva nella gola e le faceva fiorire di tratto in tratto bollicine di bava su le labbra pavonazze. La povera madre non osava di piangere forte, di gridare: - Figlia, figlioletta mia! - per non irritare di più il marito che bestemmiava e brontolava l' ingiuria contro quel porcile e i signori che lo abitavano; ed erano veri, verissimi porci ... - Sì, signor brigadiere! - Sentendo singhiozzare dietro il palcoscenico, il brigadiere aveva sporto il capo e si era precipitato verso la donna che si dava pugni su la testa e si strappava i capelli. Alla vista di lui, sembrò ch'ella prendesse coraggio, che si sentisse difesa contro la possibile brutalità del marito, e i singhiozzi le proruppero dalla gola e poi l'urlo desolante: - Figlia, figliolina mia! - Cardello diè un salto giù dal palcoscenico, e scoppiò in pianto anche lui, con le mani tese verso la morticina quasi avesse paura di avvicinarsi e la chiamava per destarla, giacchè non gli pareva morta ma addormentata. Anche don Carmelo era accorso; e dimenticando il porcile e quei porci di signori contro cui avea seguitato a brontolare, raccomandava al brigadiere che tratteneva per le braccia la madre desolata: - Lasciatela sfogare, signor brigadiere! Sarà meglio! ... La portiamo via; non voglio lasciarla qui ... . Neppure morta! - E con le grosse mani si asciugava inconsapevolmente le lacrime che non gli inumidivano gli occhi, impietrate dentro ... . - Neppure morta! Neppure morta!

GIACINTA

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

- le ripeté la sera della festa quando terminò di abbigliarsi, davanti allo specchio, mentre Marietta le aggiustava le pieghe del vestito contenta e superba della sua bella padroncina. Appena Giacinta entrò nel salotto già pieno di signore e di invitati presa per mano con la Gina che la faceva sorridere, gettandole, con un rapido movimento del capo, le sue piccole malignità in un orecchio - quella sua aria quasi di sfida fu subito notata. - Vai a ruba - le disse il commendatore entrando in mezzo alle signore che le facevano festa. Le presentava tutti ad una volta, tre impiegati della Banca agricola che desideravano ballare con lei e s'inchinarono, pretenziosamente impomatati sfoggianti le bianchissime e lucide camicie fra il largo sparato dei corpetti, e i polsini dagli enormi bottoni che coprivano fino a metà le mani strette nei guanti. Andava proprio a ruba, specie fra i giovanotti. La signora Marulli vedendola parlare animatissima e ridere fra un gruppo, in un angolo, era sorpresa anche lei dell'insolita spigliatezza di sua figlia. - È troppo ingenua - disse al Mochi. - Bisogna avvertirla. - Elle chasse de race rispose Mochi che si divertiva spesso col punzecchiarla. - Com'è felice la tua figliuola! - venne a dirle da lí a poco la signora Maiocchi. - Osserva ... Dopo la malattia si è fatta piú bella ... Ma brava! Come balla bene! Giacinta sguizzava leggera fra le coppie che ballavano confusamente, abbandonata al suo ballerino che, guidandola, le domandava: - Si sente stanca? - No, punto. E giravano, giravano, sguizzavano; Andrea Gerace un po' serio, ella sorridente, da persona già come abituata, quantunque fosse quello il suo primo ballo. - Lei balla come una meridionale - le disse Gerace in un momento di sosta. - È la prima volta che io non rimpiango le feste di Napoli. - Son lieta - rispose - di rammentarle in qualche modo le signorine di laggiú. - Me le fa dimenticare. - ... Che caldo! Si soffoca. Si soffocava infatti; ed era un continuo agitar di ventagli ora che l'orchestra si riposava. Gli uomini si facevano vento coi cappelli a molla schiacciati. - Gerace, una canzonetta delle vostre! ... La signora Villa gliel'aveva detto con quella smanceria di voce e di atteggiamento bambinesco ch'ella soleva affettare per far piú colpo. - Sí, sí! La signora Rossi, la Mazzi, il Porati, il Gessi e gli altri ch'eran lí appresso approvarono. - La Carmenella! Mastro Raffaele! suggerirono ad una volta Merli e Ratti. Anzi il Ratti andò a prenderlo addirittura pel braccio, e facendogli delle moine come una signorina, fra le risate che scoppiavano da ogni parte della sala, lo conduceva al pianoforte dove già preludiava il Porati. - Che simpatico giovane! Giacinta si limitò ad accennare col capo che era della stessa opinione della Gina. Non voleva perdere una nota. Quella melodia, improntata di una gaiezza mesta, si dondolava col suo ritmo, mollemente, e faceva dondolare, per consenso, tutte le teste: poi, all'ardito strappo di voce che riprendeva la frase allegra del ritornello, correva attorno un mormorio di entusiasmo represso. Gina, presa la mano di Giacinta, gliela stringeva forte nei passaggi piú belli, quasi stesse per isvenirsi. - Canta meglio del solito questa sera! - le diceva sotto voce. Quella sera Gerace aveva anche una singolare maniera di lanciar le note verso Giacinta; ed essa, che se n'era accorta, se le sentiva aggirare attorno alla persona, posar sulla fronte, strisciar lievemente sulle guance e sul collo, solleticanti; e aggrottava le sopracciglia, e si chinava inavvertitamente verso di lui, attratta da quella strana sensazione cosí nuova per lei. Quando alla fine scoppiaron gli applausi, le parve di destarsi da un sogno. - Quella musica era durata un'eternità? ... Un minuto secondo? Non sapeva rendersene conto. Gerace le si era avvicinato per ringraziarla degli applausi. - Son io che debbo ringraziar lei - rispose. - Che musica! Mi è parso quasi di veder Napoli e il suo golfo, che, forse, in realtà non vedrò mai. - Ti diverti dunque, malatina? - venne a dirle Mochi in quel punto. La sorvegliava, inquieto, da un pezzo; e le porse il braccio, mentre Giacinta rispondeva: - Non è difficile, a quel che pare. Vedendoli passare tra la folla degli invitati, la Maiocchi ammiccò alla signora Villa seduta dirimpetto. L'assiduità del Mochi attorno di Giacinta cominciava a dar nell'occhio: - Quel vecchio dissoluto era capace di tutto! La signora Maiocchi notò che Giacinta, tornando in sala sempre al braccio del Mochi, era un po' rannuvolata. Infatti non ballò piú. - Grazie - disse al Ratti che la invitava ad una polka. - Sono stanca. Ho ballato anche troppo; son convalescente. Mi scusi.

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Ma ella, appena terminato di abbigliarsi, e guardatasi nello specchio, si era vergognata della sua curiosità, quasi si fosse mascherata fuori stagione. «Vi sta benissimo; sembrate un'altra persona», le disse il marchese. «Il marchese grande raccontava che, ogni volta che la marchesa bisnonna indossava questo vestito, egli soleva ripeterle: "Marchesa, approfittate della circostanza; in questo momento non saprei negarvi niente!". Ma la marchesa», egli soggiungeva, «non ne approfittò mai.» «Da donna prudente», rispose Zòsima. Il marchese fece una mossa interrogativa. «Perché una signora», ella spiegò, «non deve chiedere, ma attendere che il suo desiderio sia indovinato.» Per un istante si era illusa intorno alla intenzione del marchese. E vedendolo pensieroso, un po' accigliato, aveva aspettato che le dicesse: «Indovino il vostro desiderio. Sarà fatto come voi volete». Invece egli cambiò discorso. «Verrete domani a Margitello? Faremo l'assaggio dei vini ... È la prima festa della Società Agricola .» «Grazie», ella rispose freddamente. E la mattina dopo finse di dormire per evitare che il marchese ripetesse la proposta sul punto di andar via. Egli si era aggirato un po' per la camera, esitante se dovesse svegliarla o no; si era fermato a guardarla, e la marchesa che teneva gli occhi socchiusi fu meravigliata di vedergli fare un gesto, quasi volesse scacciare con le mani qualche tristo pensiero che lo tormentava, tanto dolorosa era stata l'espressione del suo viso in quell'atto. Soffriva dunque anche lui? Di che cosa? Per qual motivo? Aveva dunque ragione la sua mamma dicendo che tra marito e moglie c'era di mezzo un malinteso, un equivoco, e che il non tentare da una parte o dall'altra di chiarirli o dissiparli, serviva unicamente a prolungare quel penoso stato d'animo e a renderlo peggiore? «Come? La cugina non viene?», domandò il cavalier Pergola che era già montato nella carrozza fermata davanti al portone. «È un po' indisposta», rispose il marchese. «Gli altri ci attendono alla Cappelletta», disse il cavaliere dopo di aver acceso un sigaro. «Ecco don Aquilante!» Don Aquilante arrivava di corsa scusandosi di essere in ritardo. Titta fece schioccare la frusta e le mule partirono di buon trotto. Il cavalier Pergola non poteva trovarsi insieme con l'avvocato senza cavarsi il gusto di provocarlo a qualche discussione. Quando la carrozza raggiunse le altre due coi soci dell' Agricola alla Cappelletta e passò avanti per la discesa, il cavaliere gli disse: «Oggi voglio vedervi prendere una sbornia. In vino veritas ; così ci direte la vera verità intorno ai vostri Spiriti ... Ma ci credete, proprio?». «Non ho mai preso sbornie in vita mia; né ho bisogno di essere ubriaco per dire la verità», rispose severamente don Aquilante. «Bevono vino anche gli Spiriti?» «Potrei dirvi sì; e vi parrebbe una sciocchezza.» Il cavaliere scoppiò in una risata: «Meno male. Se nel mondo di là non si dovesse più bere vino, mi dispiacerebbe assai. Avete udito, cugino? Bisogna turar bene le botti a Margitello; c'è il caso di trovarne qualcuna già vuotata.» E rideva, pestando i piedi, strofinandosi le mani, come soleva quando era di buon umore. «Quel che gli Spiriti non possono vuotare, sono certi cervelli dove non c'è niente», replicò don Aquilante, socchiudendo gli occhi e scrollando compassionevolmente la testa. Il marchese non aveva risposto subito. Da qualche tempo in qua andava soggetto a certe intermittenze di pensiero dalle quali si riscoteva tutt'a un tratto quasi rinvenisse da uno sbalordimento. Doveva fare uno sforzo per rammentare l'idea, o il fatto dietro a cui si era sperduto, e qualche volta non riusciva a rintracciarlo. Gli sembrava di aver camminato, camminato in mezzo a densa nebbia senza distinguere niente attorno a lui, in uno spazio deserto, silenzioso, o su l'orlo di un abisso dove poteva porre il piede in fallo, e di cui risentiva l'orrore rientrando in sé. Aveva fatto un lieve balzo all'interrogazione del cavaliere, e atteggiava le labbra a un sorriso stentato indovinando a chi andasse la risposta di don Aquilante. «Mio cugino è incorreggibile», egli disse mentre il cavaliere rideva. «Ha però in serbo le solite reliquie per quando si vede in pericolo!», rispose don Aquilante senza scomporsi. «Se credete di chiudermi la bocca col rinfacciarmi una debolezza di moribondo!», esclamò il cavaliere. «Ecco, ora son qua in perfetta salute e posso tener testa a voi e a tutti i preti della terra. E a Margitello farò un bel brindisi al Diavolo davanti a la botte grande col migliore vino della Società ... Evviva Satana! Ribellione, O forza vindice Della ragione! ... Li ho letti ieri in un giornale; versi di un gran poeta, diceva il giornale.» «Ai poeti è permesso affermare e negare nello stesso tempo.» «Affermare e negare? ... » «Se non m'intendete, è colpa mia forse? Voi vi figurate di fare chi sa che cosa con un brindisi al Diavolo. Credete in lui dunque; e vi proclamate libero pensatore!» «Siete più irragionevole voi che credete negli Spiriti. Almeno il Diavolo è una potenza, che tenta, induce al male e porta, lui solo, più anime all'inferno che non tutti gli angioli e i santi in paradiso. E a questo suggerisce: "Ruba!". A quegli insinua: "Ammazza!". A uno: "Fornica!". A un altro: "Tradisci! ... ". E tutti ubbidiscono, e tutti gli vanno dietro ... se è vero che esiste! ... » «Volgarità vecchia, stantia, caro cavaliere! Voi siete addietro di un secolo, a dir poco!» «E voi all'infanzia dell'umanità!» «Intanto con questi discorsi facciamo addormentare il marchese», disse don Aquilante. Il marchese era ricaduto in quello stato di intermittenza di pensiero da cui si era destato un istante poco prima; solamente gli risuonavano negli orecchi fioche, quasi indistinte, la parole del cugino: «A quegli insinua: ammazza! A questi insinua: ammazza!». Sì! Sì! Il diavolo gliel'aveva soffiata, ohimè! un'intera settimana la terribile parola ... Ed egli aveva ammazzato! ... Così, dopo, il diavolo aveva suggerito a compare Santi Dimauro: «Impiccati! Impiccati!». E quegli si era impiccato! ... Non si sarebbe dunque mai sbarazzato di questi incubi? Non dormiva, come diceva in quel punto don Aquilante. E dormiva poco da parecchie settimane, nel letto, a fianco della marchesa; giacché non poteva dirsi sonno quel chiudere gli occhi per qualche quarto d'ora e destarsi di soprassalto col terrore che ella, accorgendosene, gli domandasse: che cosa avete? C'era già una incessante interrogazione negli occhi di lei, in quella chiusa rassegnazione, in quelle brevi risposte, che sembravano insignificanti e che significavano tanto, quantunque egli fingesse di non prestarvi attenzione. Aveva un tristo significato anche il rifiuto di andare quel giorno a Margitello. E il notaio Mazza glielo rammentava scendendo dalla carrozza nella corte: «Peccato anche manchi la nostra cara marchesa!». Intanto doveva mostrarsi allegro con gli ospiti, dare una cert'aria solenne a quell'assaggio, battesimo dell'impresa per la quale aveva speso tanti quattrini, tante cure e tanto entusiasmo, e suscitato tante avidità e tante speranze. Fortunatamente erano allegri i soci. Il notaio Mazza si era quasi prostrato in ginocchio davanti a la botte grande, levando in alto le braccia ed esclamando in latino: « Adoramus et benedicimus te !». Il cavalier Pergola, tra una bestemmia e l'altra, parlava di tipi di vini. «Se non si arriva a creare un tipo , tutto è inutile!» E così, da lì a poco, anche il marchese era già eccitato allorché i dieci soci si trovarono coi bicchieri in mano, ascoltando, con qualche impazienza, le spiegazioni ch'egli dava intorno ai tagli operati e alle manipolazioni dovute fare appunto per creare il tipo, che doveva chiamarsi Ràbbato, bello e strano nome da portare buona fortuna. Poi il vino sgorgò dalla cannella della botte Zòsima limpido, di un vivo color di rubino, coronando con lieve cerchio di spuma rosseggiante i bicchieri; ma il notaio Mazza, assaggiatolo, nel punto di fare un brindisi, si era arrestato, assaporando, facendo scoppiettare le labbra, tornando ad assaggiare, guardando negli occhi tutti gli altri che assaggiavano come lui, senza che nessuno si decidesse a dire il suo parere, quasi ognuno avesse paura di essersi ingannato. «Ebbene?», fece il marchese. «Cavaliere, dica lei ... » «Oh! ... Voi, caro notaio, siete assai più fino conoscitore di me.» «Allora, don Fiorenzo Mariani ... », riprese il notaio. «Io?», lo interruppe questi, atterrito di dover pronunziare un parere in faccia al marchese. «Parli l'avvocato, e questa volta da giudice ... » «Dichiaro la mia incompetenza», s'affrettò a rispondere don Aquilante che aveva già riposto nel vassoio il bicchiere ancora colmo. «Tipo Chianti, ma più forte», disse il marchese, dopo aver assaggiato. «Troppo forte, forse!», soggiunse maliziosamente il notaio. «E poi, i vini si gustano a tavola.» «Dice benissimo il cavaliere!» Erano usciti d'imbarazzo così. E a tavola, con la scusa che i vini nuovi sono traditori, tutti avevano bevuto il vino vecchio; e il cavalier Pergola che voleva far prendere una sbornia a don Aquilante, l'aveva presa invece lui, leggerina, sì, come quella di don Fiorenzo Mariani che gli sedeva dirimpetto, ma chiassona e con la fissazione: «Don Aquilante, evocate gli Spiriti, o li evoco io!», mentre don Fiorenzo, levato in piedi col bicchiere in mano, per dimostrar che la sua testa era serena, ripeteva sfidando il cavaliere: «Pietro ama la virtù! Qual è il soggetto della proposizione?». Soltanto il notaio mangiava e beveva zitto zitto. «Tipo Chianti», rifletteva, «un po' più forte! ... Aceto addirittura! ... » «Mi sono ingannato io, o pure? ... », lo interrogava sottovoce il socio che gli sedeva accanto. «Da condire l'insalata, volete dire?» «Questo è il Ràbbato bianco.» Il marchese andava attorno egli stesso per riempirne i bicchieri dei commensali, e giunto dietro al cavaliere, che continuava a gridare: «Don Aquilante, evocate gli Spiriti, o li evoco io!», gli disse in tono severo: «Cugino, via, finitela con questo stupido scherzo! ... ». «Scherzo?», rispose il cavaliere rosso in viso, con gli occhi accesi e la lingua un po' incerta. «Ma io parlo seriamente ... Carte in tavola! ... Dove sono cotesti suoi Spiriti? Vengano, vengano qui. Io vi evoco in nome ... del Diavolo: "Spiriti erranti, che non potete abbandonare il posto dove siete morti ... In nome del Diavolo!". Ah! Ah! Ah! Si fa così ... O ci vuole per forza il tavolino? C'è la tavola qui pronta e c'è il vino ... e anche l'aceto che il cugino ha manipolato ... Cugino mio, questa volta, aceto da peperoni! ... Aceto Ràbbato! ... » Il notaio Mazza e gli altri volevano turargli la bocca, condurlo di là. «Buona persona il cavaliere, ma un dito di vino di più lo mette subito in allegria ... » Il notaio tentava di attenuare la brutta impressione di quella scena, vedendo il viso scuro del marchese che scrollava le spalle e voleva far le viste di non dare importanza alle parole del cugino. Il quale, mentre don Aquilante, appoggiati i gomiti su la tavola, con la testa fra le mani e gli occhi socchiusi non gli dava ascolto, seguitava a ripetere: «Si fa così? Si fa così, gran mago? Evocate compare Santi Dimauro! ... Evocate Rocco Criscione! ... Devono essere in queste vicinanze ... Spiriti erranti! ... O voi siete un mago impostore!». Il marchese, impallidito, gridò forte: «Cugino!». E quel grido di rimprovero parve che tutt'a un tratto gli snebbiasse il cervello; il cavaliere tacque sorridendo stupidamente. Don Fiorenzo, dall'altra punta della tavola, urlava intanto: «Chi non è ubriaco risponda: Pietro ama la virtù! Qual è il soggetto della proposizione?».

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

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ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ed ora che abbiamo veduto abbigliarsi dietro la scena questo nuovo attore del nostro dramma, precediamolo di poche ore sul teatro dell'azione; scendiamo prima di lui nei penetrali della Villa Paradiso

LA GENTE PER BENE

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Per questa ragione io non finirò mai di ammirare l'abitudine degli Inglesi, che, anche in famiglia, non mancano mai di abbigliarsi per andare a pranzo. E pure per questa ragione che le abbigliature da pranzo, parlo dei pranzi d'invito, anche tra noi si usa farle più ardite ed eleganti da quella da visita e da passeggio. Le signorine dovranno scegliere fra i loro vestiti della stagione il più fresco e gaio. O, se si mettono un abito scuro, lo rallegreranno con fiocchi di nastri azzurri, rosei o rossi o di quel colore che la moda favorisce, in modo da far iscomparire la severità della tinta. Del resto, non c'è signora nè signorina che non possieda qualche abito bianco, e quello sta sempre bene ed è sempre elegante. Non dovrei supporre che una padrona di casa, dando un pranzo, possa commettere la sconvenienza di collocare una signorina accanto ad un giovinotto. Ma siccome: "Tutto è possibile sotto il sole" - ed " Errare humanum est - ed "Error non è frode" - ed "Il giusto cade sette volte al giorno" e mille altri proverbi, che non ripeto (perchè il dirne parecchi è una inciviltà condannata dai vecchi galatei), potrebbe darsi che una padrona di casa un po' inesperta cadesse in quell'errore, tanto per dimostrare ancora una volta che "non tutte le ciambelle riescono col buco." Per carità, signorine mie, se codesto accadesse, si guardino bene dal fare la menoma osservazione e neppure un segno di meraviglia. Sarebbe rivolgere un rimprovero crudele alla signora che le ha collocate così. Quando io era giovane, in temporibus illis, ui invitata ad una sagra di villaggio in una famiglia di ricchi proprietarii. Dopo il pranzo e le feste del giorno, si doveva ballare, per cui c'erano invitate molte signorine e molti giovinotti. Quella buona padrona di casa provinciale, avvezza alla semplice verità della natura in mezzo alla quale viveva, doveva aver fatto questo ragionamento: * Se fra due ore i giovinotti e le fanciulle che ho invitati dovranno prendersi per le mani, abbraccíarsi, e circolare appaíati a due a due come colombelle, non ci può essere una ragione al mondo perchè si scandolezzino di trovarsi seduti accanto a tavola. Era una logica da dar dei punti ad Aristotile. E lei agì come avea pensato, e collocò a tavola ogni signorina accanto ad un giovinotto. Tutte fecero " a mauvais jeu bonne mine , e molte mi confessarono che non l'avevano trovato un troppo mauvais jeu. a una, una sola, una signorina di villaggio, che era uscita per l'appunto di collegio, cominciò a guardarsi intorno impaurita, come se i due che aveva ai lati fossero due leoni pronti a farla a brani, o due Don Giovanni venuti là per rapirla. Uno, che non era punto Don Giovanni, ed ancora meno lion si sentì tutto confuso, si fece rosso, e tirò in là la sedia, come se temesse di sporcare quella signorina; ma l'altro fece le viste di nulla, le offrì da bere, e tutti i piccoli servigi che un uomo non manca mai di offrire ad una vicina di tavola. Bisognava vedere l'aria diffidente e l'esagerazione di riserbo di cui s'armò quella poveretta! Parlava a monosillabi. Rifiutava tutto, era tutta sulle difese, pareva che fino i fiocchi del suo vestito appuntassero le nocche ed i capi come armi difensive. Il suo babbo, dall'altro lato della tavola, fremeva, Finalmente, vedendo che era giunta al dessert espingendo ogni piatto, e stava per rifiutare le frutta che il suo vicino le porgeva, le gridò: * Via, accetta una volta! Non è veleno. * Ah! era di questo che aveva paura, signorina? ed io che mi lusingavo che avesse paura di me! le disse il suo vicino. La lezione era meritata. È appunto in tali circostanze eccezionali, che una signorina può mostrare di sapersi condurre dignitosamente senza darsi quell'aria di noli me tangere che la rende antipatica, e senza incoraggiare una confidenza sconveniente. Altre volte era di rigore che le signorine mangiassero pochissimo, e non bevessero vino affatto. Per cui riuscivano commensali punto piacevoli. In qualunque modo si volesse interpretarla, quella continenza cenobitica, era una sciocchezza. Le fanciulle intendevano con quel mezzo di atteggiarsi ad un sentimentalismo ideale, non d'altro nudrito che di poesia e di sogni. Era un'idea da précieuses ridicules. e mamme incoraggiavano quella manìa, ed all'occorrenza l'imponevano, volendo con quel mezzo dire ai giovinotti: * Vedano come mangia pochino la mia figliola. E non beve punto. La sposino, via. Non costa nulla a mantenerla. Era un calcolo da Arpagone. Ora, se Dio vuole, il sentimentalismo è passato di moda. E, non fosse che per quest'unica riforma, benedetto il realismo! Le giovinette sono tornate ad esser loro stesse, col loro appetito giovanile: ed a tavola lavorano coi loro dentini, che è una benedizione, un'allegrezza guardarle. Se qualcuna delle mie lettrici era rimasta in arretrato, ora lo sa. La civiltà vieta soltanto di trasmodare. Ma vieta altrettanto severamente di rifiutare ogni cosa, di mangiare a fior di labbra, di lasciare la roba nel piatto, di rifuggire dai vini, quasi si volesse dire ai padroni di casa: - Io non so che farmene di tutto questo. Il vostro pranzo mi mette la nausea. Quando si è a questi estremi bisogna non accettar l'invito. Se sapessero come è bella e come piace la gioventù robusta, e francamente allegra, che Dio la benedica! Se la padrona di casa fa posare dal servitore il vassoio del caffè, dopo che i convitati sono passati in sala, ed offre lei stessa le tazze, le signorine debbono subito accorrere ad aiutarla. Dovranno però servire soltanto le signore ed i vecchi. Una signorina non porge mai la tazza ad un giovine, a meno che sia suo fratello. Ed ancora ha l'aria d'uno scherzo. Dopo aver assistito ad un pranzo, una signorina è tenuta ad accompagnare la madre nella visita che rende, entro gli otto giorni, alla famiglia da cui ebbe l'invito: e dovrà anche lei lodare la compagnia che vi ha trovata, la disposizione della tavola, i fiori, l'allegrezza che si è goduta, infine quel che c'era da lodare.... ed anche un pochino quel che non c'era - - - In teatro una signorina non va mai scollata. Se l'abito ha lo scollo, lo porta con una modestina dí tulle. È verissimo che ora molte giovinette vanno scollate come le signore; ma la questione è di sapere se fanno bene. Ad ogni modo non sono in regola colle convenienze. Una signorina mi osserva a questo proposito che. "È meglio errar con molti che esser savio solo." Ma io rispondo con un altro proverbio che dice: "L'uso serve di tetto a molti abusi." - E con un altro ancora: "Cosa rara è la più cara." Così, punto scollature. Pochissimi gioielli. I Francesi dicono: Les diamants sont faits pour les têtes brunes; les fleurs sont faites pour les têtes blondes. a, finchè sono teste da fanciulla, anche le teste più brune debbono accontentarsi dei fiori. Per portare i diamanti ci vuole il permesso della Chiesa, ed anche del Municipio. Ma credano a me, signorine, non ci perdono nulla. Il diamante ha un pregio convenzionale: il fiore è una cosa bella davvero. Le arti belle hanno sempre imitati i fiori. Ma soltanto il commercio, che specula sulla vanità, ha imitato i brillanti. Neppure la catenella dell'orologio è concessa ad una signorina che vuole osservare tutte le regole di convenienza. Ed infatti, dacchè quello è il primo dono che le deve offrire lo sposo, se l'ha già portata fin allora, non le fa più quell'impressione nuova; non è più un simbolo. Quando si domanda: * Ma è ben sicuro che la signorina tale sia sposa? Altri risponde: * Pensi! Ha già la catena! L'abbigliatura d'una giovinetta dev'essere semplice. Ma badino certe signorine e certe mamme che hanno l'abitudine di prender le parole a rigor di lettera, che semplice, quando si parla di vestiti, vuol dire appunto d'una stoffa di poco valore, adatta per fanciulle, senza trine antiche, senza ornamenti costosi. Ma la semplicità d'un abito da serata non ne esclude l'eleganza ed il gusto. In teatro, la signorina (non scollata insisto), cederà sempre alla signora, che l'accompagna, il posto d'onore, che è quello di fronte al palco scenico. Le signorine si trovano contentissime di questa combinazione, perchè, voltando il dorso al palco scenico, guardano meglio nella platea e nei palchi, e sono più in vista. Vedono ch'io sono addentro nei loro piccoli segreti. Ebbene credano a me che sono vecchia, non guardino mai fisso nessun giovine, checchè ne dica loro la simpatia. Non c'è cosa più sconveniente di quell'ostentare in pubblico una preferenza, che una fanciulla dovrebbe appena confessare, arrossendo, alla propria madre. Per gl'indifferenti, poi, c'è la legge generale di elementare decoro, che una fanciulla non deve mai fissare in volto un uomo che sta discorrendo. Quelle che se ne emancipano appunto in teatro, dove cento occhi sono là per notare quella sconvenienza, e cento bocche per ripeterla, mi fanno ricordare un ladro che l'estate scorsa, rubò il soprabito di un avvocato nel tribunale criminale, mentre l'avvocato stesso stava perorando la causa d'un ladro. Aveva scelto male il posto per farla in barba alla Questura. A questo proposito ricordo una letterina che ricevetti pochi mesi sono. Debbono sapere che la prima edizione di questo libro mi guadagnò - se fosse meritata o no non saprei dire - la fiducia di molte lettrici, le quali presero l'abitudine di rivolgersi a me, anche senza conoscermi, nei loro piccoli imbarazzi. Un giorno il mio editore mi mandò una lettera d'una signorina che doveva andare ad un ballo, e mi domandava: "come dovesse contenersi, sapendo che dovrebbe incontrar a quel ballo, e che le verrebbe presentato, un giovine il quale da un mese la guardava, e del quale ricambiava gli sguardi!" Ah signorine mie! Non l'hanno capita che non ci deve essere mai un giovine di cui una signorina ricambia gli sguardi? E se quel giovine c'è, è un personaggio da romanzo, un errore; e la signorina pure, è un altro errore. Ed in tal caso, che esce dalla normalità, cerchino di tirar innanzi il romanzo in modo che lo possano leggere anche le signorine. Regole di convenienza pel loro contegno in quella circostanza non posso darne, perchè i personaggi da romanzo e le passioni da romanzo l'hanno sempre fatta in barba a tutti i galatei. Ed hanno fatto bene, ma, in mancanza di una regola di convenienza, posso dar loro un consiglio da amica. Vadano dalla loro mamma e le dicano la verità; confessino tutto: "Che da un mese fanno quell'armeggio d'occhiate; ed ora si trovano imbarazzate all'idea di trovarsi in faccia a quel giovine...." E se la mamma dirà, che in tal caso è bene rinunciare alla festa per evitare quell'incontro, si picchino il petto e dicano Mea culpa. n teatro una signorina non porge mai la mano agli uomini che entrano a far visita in palco, e non dimostra mai di prestare più attenzione agli spettatori che allo spettacolo. Certi atteggiamenti indifferenti ed annoiati, che affettano molte signorine sono di cattivo gusto. Oltre all'offendere le persone che stanno con loro, le fanno apparire disilluse e già incapacì di divertirsi. Oh giovinezza! Si può non divertirsi a vent'anni? All'atto di ritirarsi le signorine debbono mettersi la sortita da sole, o farsi aìutare da una persona della famiglia; non mai da un giovine. E scendendo le scale, daranno il braccio al loro babbo, ad un fratello, oppure rimarranno accanto alla mamma. Così è, signorine mie; i cavalieri serventi sono come i diamanti. Non li hanno che le signore. È ancora una privazione di cui non posso compiangerle. I diamanti hanno almeno un pregio convenzionale. Sono rarissimi e costano cari, quando sono veri brillanti. I cavalieri serventi, invece, spesseggiano come le mosche, e sovente, non valgono di più. Di brillantì poi, ce n'è uno su mille. - - - Ed ora, signorine mie, le conduco in un luogo dove non sono mai state. Ed anche ora non vi possono entrare che in ispirito, e sotto la mia seria tutela di nonna centenaria; in un circolo di giovinotti. Ben inteso che, entrando in ispirito, loro non sono vedute; e però non s'interromperanno i discorsi incominciati.... Oh! non s'inquietino, signore mamme, so press'a poco di cosa si parla; ed anzi, ci conduco le loro figliole per questo; è il domani d'un ballo, di che s'ha a discorrere? Per quanto meritino poco di essere elevati a questa dignità, i giudici delle signorine, alle feste da ballo, sono i giovinotti. È vero che, in compenso, i giudici dei giovinotti sono le signorine; ma questo è un giurì non troppo accreditato perchè pecca d'indulgenza. Per ora ascoltiamo l'altro che non ha questa debolezza. * Non c'era male la signorina Tizia, con quell'abito azzurro, sentenzia un piccolo Giove Ansuro, con l'esperienza dei suoi diciott'anni. * Non c'era male? osserva un conoscitore più esperto. Ma hai a dire che era una bellezza addirittura. Soltanto che è una bambola col meccanismo; una ruota ed una cordicella per ogni monosillabo o bisillabo. La mamma l'aveva caricata prima d'uscire, e lei da brava bambola ha articolato uno dei suoi monosillabi o bisillabi per ogni domanda, che faceva da cordicella: "Sì. No. Grazie. Basta. Poco...." E così via., * Doveva avere delle rotelle anche ai piedi, perchè ballava diritta, stecchita come un fantoccio. * Bambola, bambola. * E le signorine Sempronie? entra a dire un terzo. * Ah! quelle sono due berte. Non sanno tacere un minuto. E che tono confidenziale pigliano discorrendo col ballerino! Un vecchio gentiluomo mi disse: "Quelle signorine devono avere una famiglia numerosissima. "Perchè? domandai compiacentemente per fargli finire il suo motto. "Perchè tutti i giovanotti con cui ballano mi sembrano loro fratelli." Infatti andavano da una sala all'altra, ed al buffet on questo e con quello, e senza la loro mamma, e si dice che ballassero anche con qualcheduno che non era stato presentato. * A te piaceva la signorina Caia, che ti si abbandonava mollemente nelle braccia, come se fosse al quarto atto d'un melodramma.... Avevi sulla spalla dell'abito la cipria delle sue guancie. . * Il color della dama. Mi piaceva per una sera, però. Non la vorrei fra le concorrenti, quando mi decidessi a gettare la mia pezzuola per trovare una sposa. * Io ho fatto un giro colla signorina Ipsilonne, che, ad ogni complimento che le facevo me ne rispondeva un altro, come se si giocasse di scherma. * Pazienza, era ingenua.... Tu avessi udita la signorina Zeta, che, per far la spiritosa, canzonava le tolette ed i modi delle altre signorine e dei giovinotti! * Ah! dev'essere stata curiosa. Cosa t'ha detto di me? * E di me? * E di me? * Ha detto che le pareva d'essere una tazza di miele, perchè si vedeva ronzare intorno tanti mosconi. * Oh Dio! Che barba! * Caro quel miele! * I mosconi volano anche intorno.... Via; la porta è chiusa e non si ode altro. Ma credo che basti. Vedono, signorine mie, che ogni medaglia ha il suo rovescio; ogni festa il suo dimani. "Ahi gioie umane, d'amarezza asperse!" La civiltà francese fa della fanciulla una bambola muta, compassata, insignificante, tutta artificio. Le inglesi sono severe, fredde, vaporose. Le americane sono emancipate. Le tedesche sono libere. Loro sono italiane; hanno lo spirito vivace, l'immaginazione pronta; sono entusiaste ed espansive. Volerle ridurre come automi modellati su figurine straniere, sarebbe una profanazione, una finzione. Siano loro stesse. Ma sappiano contenersi in modo da non meritarsi le censure che hanno udite. Si può essere amabili, schiette, allegre, anche senza staccarsi da quella dignità di contegno che s'addice ad una fanciulla. Il buon senso naturale, ed il naturale decoro, devono guidarle. Io domando soltanto di scrivere sul loro taccuino una massima di Victor Cherbullier. La leggano sempre prima di andare ad un ballo, dove la loro mamma non può udire tutte le parole che scambiano coi ballerini: "Rien ne rafraîchit plus le sang, que le souvenir d'une sottise que l'on n'a pas dite." * "Mi ricordo quand'era fanciulla" come la vecchia Pipelet di gioconda memoria, e nel carnovale, la mia zia, che mi teneva il posto della povera mamma che avevo perduta, invitava una mia cugina a tenermi compagnia. Cara quella compagnia! Aveva l'abilità di sacrificarmi completamente. Non sapeva pettinarsi da sè; bisognava che ogni mattina la cameriera di casa perdesse ad acconciarle il capo un tempo tanto più prezioso, in ragione di quell'aumento di personale in famiglia. Noi si faceva colazione per solito alle nove, ma la Teresina era alla toletta a quell'ora, oppure veniva a tavola spettinata ed in abito da camera. E guai se la zia osservava, che le signorine non debbono farsi vedere in abito da camera: che è permesso appena di portarlo nella loro stanza da letto! Diceva che a quell'ora era materialmente impossibile d'essere in ordine. E bisognava che noi s'avesse pazienza e si differisse la colazione. Tutte le lezioni, che prendevamo insieme, dovevano pure spostarsi per fare il suo comodo; ed i miei maestri non le piacevano mai. Erano un branco di ignoranti. E tutti i mobili della casa avevano qualche difetto o erano mal collocati. E le mie amiche le erano antipatiche. S'io doveva far delle visite, lei non poteva adattarsi a venire da quelle signorine pedanti, nè da quelle altre sguaiate. Quando s'andava in teatro o in compagnia, ipotecava addirittura la cameriera per farsi vestire, e la zia ed io dovevamo aiutarci a vicenda. In palco, poi, si metteva al posto di contro alla zia, ed io era relegata tutta la sera sullo sgabello in mezzo. Non c'era caso che mi offrisse una volta di cambiar posto. E, per ospitalità, non potevo domandarglielo, nè fare osservazioni. Bisognava che le offrissi i fiori da scegliere prima. E se li provava tanto in capo, sul petto, e si serviva così bene, che a me rimanevano degli avanzi appassiti. In carrozza pure, prendeva posto accanto alla zia, senza che occorresse neppure dirglielo. Qualche volta le mie povere abbigliature si sciupavano tutte, strette così, accanto al babbo sulla panchetta dinanzi. Ma la Teresita si stendeva a suo agio, seppelliva la zia sotto le sue gonne e arrivava fresca come una rosa. In casa, poi si prendeva l'incarico di studiare tutti i caratteri, come se ci fosse venuta con quella missione. Io aveva quel difetto, e quel pregio; e la zia era placida, e troppo indulgente; ed il babbo era avaro; e le persone di servizio ci derubavano come tanti briganti. * Come! Voi spendete tanto per la carne? E tanto per le ova? E questo pollo è costato tanto Ma buona gente! A casa mia si mangia meglio assai, e si spende la metà. Quel pollo è magro, tíglioso. Si può avere per trenta soldi. Il resto se l'è tenuto la cuoca. Io non so come la sopportiate. Non sa cucinare. A casa mia le bistecche sono tutt'altro: queste sembrano suole di scarpe. Ed ogni giorno aveva fatta una scoperta nuova sull'ordine della nostra casa, ed erano sempre indiscrezioni. Quando poi veniva in campagna l'autunno, era un raddoppiamento di biasimo. Si trovava addirittura ad un bivacco. Tutto era incomodo, tutto rozzo. Quasi quasi si meravigliava che nei sentieri del giardino non si stendessero tappeti per farla camminare sul liscio. E combinava lei le gite, i píc-nics. Ed entrava in confidenza coi vicini di villa, prima e più di noi; e passeggiava cogli altri ospiti, anche s'erano giovinotti, sola con loro per delle ore in giardino, ed usciva quando noi si stava in casa; e stava in casa quando noi s'usciva. Mie giovani lettrici, se sono ospiti in casa altrui, badino, le prego, di non lasciarvi le tristi memorie che m'ha lasciate la Teresina. La persona ospitata deve fare una completa abnegazione della propria volontà, delle proprie abitudini, dei proprii gusti. È necessaria questa rinuncia assoluta, per bilanciare l'immensa deferenza della famiglia che la ospita, e metterci un limite, affinchè non abbia a diventare un sacrificio di tutte le ore. E qui mi viene a proposito di avvertirle, che nulla è più scortese di quell'abitudine tanto generale, pur troppo, di far esaurire tutte le formole di preghiere inventate da Adamo in poi, prima di aderire a sonare o a cantare, in compagnia. La padrona di casa, che per quella sera le ospita, è messa in grave imbarazzo. Deve unire le sue insistenze alle altre, ed aver l'aria di imporre un sacrificio? O deve astenersene, e dimostrare che non desidera di ascoltarle? Difficile alternativa. - - - Non ho mai compreso perchè le signorine, che debbono rimanere sotto gelosa custodia nella loro città, dove sono note loro e la famiglia, ed hanno un mondo di amici e conoscenti intorno, debbano poi godere una libertà relativa, ma sicuramente soverchia, quando si trovano in viaggio o alle bagnature, ignote fra gl'ignoti; dove potrebbero anche essere prese in fallo. Il nuoto è uno degli esercizi prediletti dagli Inglesi e dagli Americani. Ma non credo necessario, per adottare la loro abitudine delle bagnature, adottarne pure la flirtation nsidiosa e sconveniente. To flirt, coqueter, ono parole che in italiano non hanno riscontro. Le traduciamo: flirteggiare, civettare; a le parole sono barbarismi nella nostra lingua, come la cosa è un barbarismo nei nostri costumi. Noi, espansivi e schietti, ci pieghiamo male a quella meschina scherma di parole, che giocano su sentimenti frivoli; e, quando riesciamo a scimiottare le signore straniere, lo facciamo a scapito del nostro carattere. Credano a me, signorine, non si lascino attirare da quello scoppiettìo di frasi leggere, brillanti e fuggevoli come fuochi d'artificio. Quando si disperdono e svaniscono nell'aria, portano sempre con sè qualche briciola del loro decoro. Briciole appena visibili, atomi, ma che importa? "Gatta cavat lapidem." In campagna come in città, ai bagni come altrove, una giovinetta non deve mai uscire da sola, a meno di trovarsi in un paese non frequentato da colonie di villeggianti avventizi. Nel contrarre nuove relazioni deve usare la massima prudenza e lasciarsi dirigere completamente da' suoi genitori. Alla tavola d'albergo, se non ha due persone della famiglia fra le quali sedere, ed il caso le colloca da un lato uno sconosciuto, non deve scambiare con lui che le parole strettamente necessarie, finchè non sia stato presentato alla signora che l'accompagna, e questa gli abbia accordata la sua relazione. L'unico punto su cui in campagna ed ai bagni le signorine possono permettersi qualche libertà, è il vestire colori più vivaci, foggie più ardite, un cappellino un po' bizzarro o un po' sull'orecchio, fori naturali in capo a tutte le ore, ed anche passeggiare a capo scoperto... Tutto questo è concesso; ma quanto al contegno, deve essere tanto più riserbato in quanto che sono meno conosciute, e chi le osserva deve giudicare dall'apparenza. - - - Se una signorina è stata ospite in una casa, appena ritornata in famiglia, dovrà scrivere una lettera espansiva alla signora od alla signorina che l'ha ospitata, ringraziandola delle cortesie ricevute. Non scrivano a molte persone, signorine mie. Oltre le lettere di dovere ai parenti vecchi, alle maestre, possono tener corrispondenza con qualche amica. Ma siano vere amiche, di quelle a cui si scrive non per fare dello stile epistolare, ma per vero affetto, e col linguaggio dell'intimità. Non occorre dire che, in tutta la loro corrispondenza non ci deve essere una parola che la mamma non possa leggere. Quanto a formole, non s'aspettino ch'io ne dia. Le lettere tengono luogo di discorsi. Scrivano come discorrerebbero e basta. L'introduzione, la chiusa, sono storie del tempo trapassato remoto. La lettera comincia con quello che s'ha a dire, e finisce quando non s'ha più nulla a dire. Ecco la sola regola ch'io ammetto. Non si firmino mai serva, perchè le signore non sono mai serve di nessuno. Non facciano litanie di saluti in fine nè sfoggio di aggettivi sulla soprascritta, a tutto beneficio del portalettere e dei portinai. Non usino carta colle iniziali, come non usano carte da visita; siano semplici, schiette; se hanno dello spirito, non ne privino le loro corrispondenti, e lascino andare i loro giovani pensieri come "La rondine alla primavera e la preghiera al cielo."

Oro Incenso e Mirra

678753
Oriani, Alfredo 3 occorrenze

La futura regina è nella propria casetta, sola con la madre, alla quale raccomanda di svegliarla presto l'indomani per avere il tempo di abbigliarsi: domani è la gran festa, si dà il premio della bellezza, la più bella sarà nominata regina. Essa ha già contato i voti, sono tutti suoi. Nella ingenua vanteria dei primi trionfi la regina non sa frenarsi e come Delfi particolareggia alla madre piangente di gioia le proprie bellezze. L'apertura della scena è vera, il ritornello, che come un'eco delle ovazioni imminenti interrompe quel soliloquio, ha una grazia e una leggerezza inimitabili. Come le frasi leggermente retoriche tornano e vibrano nelle sue spezzature! Ma ecco che dalla ragazza prorompe la vergine. Ella non ha mai amato e non ama: la hanno detto che ha un cuore selvaggio, ma non ha risposto perché non avevano colpito nel segno. Molti giovani, dei quali non ricorda più il nome l'amarono. Uno solo, Rubino l'ha colpita. Ella lo vide sempre solo, raccolto in sé stesso, schivo della gente: Rubino l'ama senza averglielo mai detto. Questo riserbo è la sua superiorità sugli altri giovani, l'unica ragione per la quale ella talvolta pensa a lui; anche Rubino deve essere vergine, ma ha una fisonomia pura e malinconica, il riflesso dei lunghi sogni sulla fronte. Ma la ragazza ripiglia il sopravvento, e perdendosi già con la fantasia nel tumulto glorioso dell'indomani, con versi esultanti e sapienti, forse troppo sapienti, dipinge alla madre il quadro della festa entro il paesaggio calmo della valle che somiglia alle valli di tutte le descrizioni. Vi è persino il rivolo, che mormora tra i sassi, il sole, che al tramonto indora le cime delle colline. All'ultimo scoppio del ritornello si sente lo scoppio del bacio, che la futura regina dà alla mamma intenta a rimboccarle le coperte. Passò un anno. La regina è ammalata di tisi, la malattia delle vergini e delle sante: quando l'anima sola vive il corpo non ha che morire. Si è levata sentoni sul letto e prega la madre di svegliarla all'alba per vedere l'aurora del nuovo anno. Il soliloquio prosegue lento e stentato: un lumicino rischiara la camera, nell'aria pesa la nausea di un alito viziato, ma l'inferma perdendosi nei ricordi della propria incoronazione vorrebbe vivere fino alla prossima primavera. Perché? È un rimorso, che le sale dal corpo disfatto come un bisogno supremo di sentire la natura prima di abbandonarla? O il desiderio di avere molti fiori al proprio funerale? Chi lo sa? Quindi coll'intenerimento contagioso dei malati parla della chiesetta parrocchiale, rammenta il piccolo camposanto, finché ripresa improvvisamente dalla vanità della ragazza, con un irresistibile impeto d'affetto espresso in versi mirabili, scongiura la mamma a seppellirla sotto la spinalba, che nel mattino trionfale di maggio le fece da baldacchino al trono. La vanità è dunque la sua unica passione, come la tisi doveva essere la sua unica malattia, s'ella non vuole che corone e non sogna che di mostrarsi dall'alto, sui gradini di un altare o di un trono? Forse, ma i sermoni del buon pastore le sovvengono a tempo e, soffocando tutte le voci dell'orgoglio, le sgorgano dalle labbra scolorite in tante consolazioni per la mamma. Povera mamma! Come dev'essere dolorosa la morale evangelica in bocca di una figlia morente, come consolerebbe di più il sentirla piangere nel dolore dell'abbandono che il vederla rassegnata alla necessità della partenza! Il desiderio dell'ammalata fu esaudito: la primavera è tornata battendo con le foglie delle pianticelle rampicanti ai vetri della sua finestra. Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d'inferma, o è stato un difetto nel poeta. L'agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell'azzurro, la chiama. - Addio sorella, addio mamma! La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell'anima, e in quel sogno s'addormenta. Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell'angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l'altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione. L'idillio di Tennyson è dunque un'elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell'accompagnamento, nella voce o nell'accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson? Adesso l'Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d'amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità. Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell'elegia e aspirammo alla sana giocondità dell'idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch'essa di ritornare all'antico per interrogare la natura con nuove intenzioni. La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l'Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell'atrio del proprio monumento un'altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro "all'ingresso di ogni opera d'arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano".

Prudenza doveva avere un comò più bello per le proprie camicie più fine e una specchiera per abbigliarsi. Ella aveva sorriso della spiegazione. Poi il comò era uscito un giorno dall'alcova e il canterano vi era rientrato. - Perché? - chiese Gaspare tornato a casa. - Non sono più bella. Non era vero, ma egli lasciò che Prudenza facesse il voler suo. Gaspare si alzò; fossero quelle memorie o il riverbero del camino, aveva il volto acceso: cominciò a passeggiare fermandosi tratto tratto in un pensiero col volto sempre più animato da una gaiezza giovanile. - Che cosa dirà mai! - esclamò improvvisamente. Aveva una grande idea. Intanto che Prudenza assisteva alle tre messe del Natale egli rimetterebbe il comò al posto del canterano e stenderebbe sul letto la coperta di seta gialla che c'era stata solamente la prima notte di matrimonio e il giorno del battesimo. La coperta doveva essere nell'ultimo cassetto del comò. Chissà che cosa Prudenza direbbe di questa sorpresa: era l'ultimo scherzo, egli ne rideva e ne sorrideva. Colla mano già leggermente tremula tirò il cassetto e cercò la coperta: era ravvoltolata in quattro fazzoletti rossi di cotone ancora tutti di un pezzo. Ma s'interruppe, perché quella doveva essere l'ultima cosa: prima bisognava portare il canterano in mezzo alla camera e sostituirlo col comò. Vi si accinse. Siccome tutte le biancherie grevi da tavola e da letto erano nell'armadione, il canterano non pesava troppo. Lo scostò d'ambo i lati, e lo piegava già verso la colonna ai piedi del letto, quando intese cadere qualche cosa lungo il muro con un suono secco di carta. Nel timore di aver commesso qualche malanno corse a prendere la candela e, curvandosi sino ad inginocchiarsi, cercò: era un piccolo pacco. Per istinto, prima ancora di formare un pensiero, ricollocò con due spintoni il canterano a posto e tornò al camino: quindi cercò gli occhiali. La prima era una lettera indirizzata a Prudenza; disciolse il plico, lo aperse a ventaglio: tutte le lettere andavano a Prudenza. Che cosa erano? Egli non ne sapeva niente; sulle prime si vergognò, erano forse lettere di famiglia, pettegolezzi che essa gli aveva nascosti con bontà di sposa, forse di gente già morta. Istantaneamente gli venne quasi fatto di gettarle sul fuoco per ritornare al canterano, ma la curiosità aguzzata dalla solitudine lo punse più profondamente, e ne aperse una. Alla prima parola impallidì, la lettera incominciava: "Angelo mio! Il nostro bambino sta dunque bene...". Ma egli non comprendeva ancora. Tremante, ansante, portandosi istintivamente la mano agli occhiali, quasi dubitasse di leggere bene, proseguì; non v'era dubbio, quelle lettere venivano a Prudenza. A un certo punto era scritto: "perché il nostro bambino non potrà mai chiamarsi Fernando di Steinmetz?". Gaspare ricadde sulla poltrona. La camera aveva sempre lo stesso aspetto calmo, le bragie del camino sorridevano ancora: si sentiva strozzare. Il significato di quelle lettere era così assurdo, il racconto di quel fallo sino allora ignorato così incomprensibile, che in sulle prime non arrivava ad orizzontarsi. Sussulti nervosi gli scrollavano il cuore, convulsioni indefinibili gli capovolgevano il cervello: poi gli si fece come una pace morta nell'anima; e si rammentò l'aneddoto dell'ufficiale al battesimo. Sicuramente era lui. Nullameno era strano. Tutta quella vita di Prudenza che egli conosceva non dava presa al minimo sospetto; le maniere di lei erano sempre state le stesse, i suoi occhi sempre calmi, sempre quieti, il suo sorriso sempre casto. Una simile avventura era dunque impossibile. Ma allora la sua lunga esperienza del mondo gli ricordò centomila casi egualmente impossibili e veri, e rammentandosi la sua antica inferiorità di omino brutto ed insipido vicino a quella donna bella come una divinità, e che aveva sempre vissuto nella modestia della sua vita d'impiegato con una rassegnazione inalterabile quasi da essere strana per lui stesso, allibì. Quindi interpretandola più esattamente gli parve come una rassegnazione di prigioniero; ma tutti i prigionieri non erano colpevoli. Egli lo sapeva, sulle prime non osò condannare. Prudenza aveva dunque amato un altro? Quell'ufficiale, egli ricordava, aveva tutto quanto mancava a lui; era bello, nobile, ricco: naturalmente doveva esserle piaciuto più di un povero impiegato mal vestito, senza spirito, che aveva appena un buon cuore, e non sapeva che amare e rispettare. Quindi una malinconia dolce, piena di generosi rimpianti per se stesso, gli strinse l'anima. Poi si ribellò ancora. Infine egli non ci aveva colpa di essere stato così: perché ella dunque lo aveva sposato? Che cosa poteva rinfacciargli? Non l'aveva sempre tenuta sopra un altare? Non era sempre stato un uomo onesto? Tutti non lo rispettavano? E riandando agli ultimi cinquant'anni della sua vita, così morigerata ed attiva, si disse che valeva bene quella di un altro, giacché egli non aveva d'arrossire in faccia a nessun gran signore. Ma una voce sorda ed ostinata gli gridava nullameno dal fondo della coscienza che il torto era suo: la primavera è dei fiori, e nella stagione dei fiori un buon frutto è senza pregio. Egli non era mai stato altro. Prudenza infatti lo aveva sempre apprezzato, ma un fiore misterioso le aveva fatto un giorno girare la testa. Povera donna! Mentre tutte le altre fanno scontare al marito la propria colpa di sensi o di cuore, ella invece lo aveva egualmente prediletto. Allora l'immagine di Prudenza ai bei giorni gli riapparve, quando il suo volto puro come quello di una madonna imponeva quasi silenzio alle voglie brutali dell'amore; o lungo i passeggi nella domenica quando tutti la guardavano, ed egli sentiva in quella ammirazione di tutti come dei rimproveri per se stesso. Egli non era degno di Prudenza; se non avesse profittato della sua inesperienza per sposarla, forse Prudenza sarebbe diventata una gran signora. Ed ella non se n'era mai lagnata. Ma con tutte queste ragioni il suo cuore soffriva sempre. Sciaguratamente per tutti la vita era fatta così, la bellezza aveva anch'essa i propri diritti e la gioventù era piena di passioni. A settant'anni egli doveva saperlo quanto un altro. Perché dunque se ne lamentava? La sua vita, legata con quella di Prudenza a una profondità prima d'ora nemmeno sospettata, si era sempre pasciuta di una illusione, illusione l'amore delle prime notti, illusione l'amore del primo ed unico bambino! Adesso gli sembrava di non avere più passato. La sua vita, semplice impiego nell'amministrazione di un gran signore, serie di conti e di conteggi, perdeva ogni significato: che cosa era dunque venuto a fare nel mondo? E ora tutto era fatto! Persino questa suprema e totale disgrazia era così lontana che non si poteva più parlarne. Nell'oppressione di quest'ultima idea gli parve che una mano di ferro stringendogli lo stomaco gli ricacciasse tutte le castagne mangiate nella sera su per la gola con un'amaritudine di purgante. Per reazione si alzò. La sonnolenza tiepida ed onesta della camera gli fece male, forse la camera conosceva tutto quel triste secreto. Girò due o tre volte per l'alcova sempre colle lettere in mano, e si fermò dinanzi al ritratto di Fernando, alto nella parete sopra quello stesso canterano cui voleva mutare posto. Quell'idea di ricordare a Prudenza la prima notte di matrimonio gli morse allora il cuore. Chissà quante volte ella sopportando le sue carezze aveva pensato con un sospiro al bel ufficiale! Ma Fernando era proprio loro? Si appressò al canterano, lo assettò con un altro spintone al solito posto ed allungandovisi sopra con uno sforzo staccò il ritratto dalla parete. Fernando era miniato, nudo nello splendore della innocenza sopra un cuscino. Egli lo strinse nella mano tornando con passi febbrili verso la poltrona: si mise a guardarlo. La delicata e superba bellezza del bambino finì di atterrarlo, gli si smarrirono i sentimenti, gli si confusero le idee: Fernando non poteva essere suo. Quindi tutte le gioie e i dolori provati per lui gli ripassarono lentamente nella memoria come un corteo di funerale per un cimitero. Gli sembrò di averlo ancora in braccio, mentre la mamma col seno slacciato li guardava tutti e due sorridendo; gli sembrò di insegnargli a camminare, di mettersi carponi perché il piccino potesse movere i primi passi reggendoglisi con una mano ai capelli; si ricordò tutti gl'incidenti per strada, a pranzo, a letto, poi, quando il bimbo ammalò, il terrore delle notti insonni, i lamenti della creaturina che soffriva, il medico intenerito che piangeva quasi, le vicine che venivano in punta di piedi e se ne andavano singhiozzando; poi la morte, il vestitino bianco, la bara coll'angioletto, i fiori, i pianti, Prudenza che ebbe a morirne, lui mezzo morto che doveva consolare tutti e bastare a tutto. Si ricordò che di notte era andato diverse volte solo a piangere lungo le mura della città, si ricordò di tutto e in mezzo a tanto squallore di memorie, fra gli echi di questi lamenti, la figura ilare di Fernando sorrideva ancora ai suoi occhi incantati, mentre la sua vocina gli batteva a strilli sul cuore. Perché dunque Fernando non era suo? Non avrebbe potuto anche esserlo? Che cosa aveva avuto quell'uomo per soverchiarlo così in tutto? Forse in quelle carte c'era più di una spiegazione. Si pose il ritratto sulle ginocchia e riaccostando il mazzo delle lettere agli occhiali si mise a cercare nei bolli l'ordine delle loro date. Voleva leggerle in fila per capire meglio, ma all'improvviso un insulto di sdegno, di tristezza, di dignità amareggiata e nullameno trionfante gli fece gettare il pacco sulle bragie respingendo dispettosamente la poltrona da un lato. Le lettere arsero subito, si contorsero sotto le lingue curiose delle fiamme: qualcuna si aperse, s'involarono su pel camino per ricadere in tanti cenci minimi ed aerei. Egli aveva già ripreso il ritratto e se lo teneva dinanzi gli occhi per non vedere le fiamme: forse non vedeva nemmeno cogli occhi il ritratto, ma la sua anima non lo ammirava che meglio. Oramai non sapeva più di avere settant'anni, né quando avesse perduto il bambino; invece gli contava i ricci sulla fronte e mettendogli un mignolo in bocca gli diceva: - Mordi, Nando, mordi, Nando! - E Nando, grosso e biondo come un vitellino, era lì, c'era sempre stato, ci sarebbe sempre, gli saltava sopra un ginocchio ed allungandogli le manine cogli occhi strizzati, i labbruzzi protesi, si metteva a battergli coi talloni gli stinchi strillando: - Cavallone, cavallone! - Egli rideva, ritornava bambino, poi sollevandolo a tutta l'altezza delle proprie braccia gli domandava: - Nandino, vuoi più bene a me o alla mamma? - Una mano lo percosse sulla spalla. Gaspare si voltò di soprassalto rimanendo col ritratto alzato sopra la testa. - Che cosa fai, Gaspare? - chiese Prudenza con voce intenerita, indovinando quella contemplazione. Gaspare ebbe una scossa violenta, si scrollò, la guardò un istante cogli occhi sbarrati, parve che un lampo gli schizzasse dalle pupille, che la bocca gli si contraesse ad una parola: tremava, aveva la faccia smarrita, le mani vibranti. Prudenza affagottata ancora nello sciallone, col viso calmo, un po' giallo, un viso di buona vecchia che ha pregato ed è contenta di se stessa, lo guardava con amorevole rimprovero. - Gaspare.... A quella voce egli si arrese, abbassò la testa, una lagrima, che l'altra non vide, gl'inumidì gli occhi, e baciò il ritratto. Ella più commossa fece un gesto carezzevole per toglierglielo, ma Gaspare sollevò il capo, le prese una mano e stringendogliela esclamò finalmente: - Ah! se fosse vivo....

Ella intenta ad abbigliarsi non pensava invece più a lui in tal momento, perché appena incomincia per una signora la toeletta da ballo, questo solo diventa l'amante, e ogni altro scompare. Lelio aveva acceso una sigaretta quantunque sapesse che la principessa non permetteva mai di fumare nel proprio gabinetto; quindi si era gettato sopra un divano. Poi consultò l'orologio, non erano che le otto e mezzo. Quanto impiegherebbe ella a vestirsi? Per un momento ebbe quasi voglia di andarsene. Che cosa faceva lì? Non gli sarebbe toccato di uscire peggio, solo, a piedi, mentre l'altra monterebbe nella propria carrozza, giacché per nulla al mondo ella avrebbe consentito a farsi accompagnare da lui al ballo? Per così segnalato favore Lelio avrebbe dovuto essere per lo meno il principino; allora il mondo non vi avrebbe trovato nulla a ridire, ma un borghese come lui l'avrebbe resa ridicola. Il mondo riconosce parecchie categorie negli amanti come in ogni altra classe di funzionari. E l'idea di un amore profondo, tenace, con una dama bella ed elegante, che avesse potuto comprendere almeno in parte i bisogni della sua anima e la grandezza dei suoi ideali d'artista, gli appariva dentro la magia di un quadro dalle tinte delicate sopra un fondo misterioso; egli vi si sarebbe sentito più uomo nella forte calma della fede inspirata ad un'altra anima, colla soavità di un abbandono, che lo avrebbe riposato dalle virili fatiche del pensiero. Che cosa direbbe suo padre vedendolo in tal momento ad aspettare come un valletto che la principessa fosse vestita? Gettò la sigaretta e tornò a camminare. Era stanco, irritato di quella attesa troppo lunga anche per un vero amante, e nullameno senza gran cosa di anormale, dacché la festa cominciava alle dieci, e la toeletta di una signora non può in simili casi durare meno di qualche ora. Istintivamente si cercò un libro intorno, fuori nevicava. Egli aveva lasciato la pelliccia in anticamera, ma andando alla festa avrebbe avuto bisogno di trovare subito un fiacre per non sporcarsi le scarpe. Questa preoccupazione gli suggerì di chiamare un servo, che glielo andasse a cercare, poi improvvisamente diventò timido e non l'osò. Che avrebbe pensato costui? Daccapo si distrasse: quindi un altro più meschino pensiero lo fece sorridere quasi con gioia nella speranza che l'abito della principessa fosse brutto e non le attirasse che l'ironia delle signore; sarebbe stata sempre una piccola rivincita per lui, che a quella festa non avrebbe avuto alcuna importanza. Ma gli ultimi quarti d'ora furono addirittura convulsi. Finalmente intese un fruscìo. Ella entrò sorridente col viso in alto: aveva sulla testa un diadema e al collo una collana di oro massiccio ad anella e piastrine, qualche cosa di barbaro e di elegante come il diadema e la collana di Elena, che il dottore Schliemann aveva pochi mesi prima scoperto in Grecia, e già diventati di moda a Parigi. La sua bella testa di gitana ne acquistava un'aria bizzarra d'impero. Rimase un istante sull'uscio quasi incorniciata dalle sue modanature in legno pallido; aveva il busto di un rosso cupo a ricami dorati e, sotto, una campana di merletti rugginosi egualmente ricamati d'oro le copriva la sottana, della quale lo strascico si perdeva al di fuori. Ella s'avanzò guardandolo negli occhi per cogliervi il primo lampo di ammirazione, ma appena nel gabinetto si voltò allo specchio. Un odore acuto di sandalo era entrato con lei. Lelio taceva: allora ella trionfante gli sorrise nello specchio. Le sue spalle brune, nude, parevano più delicate sotto quella pesante fornitura d'oro, senza una gemma, e tutto quell'oro nel busto e nella gonna, che le accendeva intorno una strana fosforescenza. Un'idea passò lampeggiando nel cervello di Lelio. Ella sorrideva ancora. Lelio chinò lievemente la testa al suo sorriso e, affettando la massima circospezione, poiché lo strascico del vestito riempiva quasi tutto il gabinetto, le si accostò per di dietro colle labbra tese per deporle un bacio sulla spalla sinistra. La sua testa spuntò dallo sfondo lucente del cristallo, altrettanto bella, forse più pallida nell'abito nero e sopra quella camicia bianca come la porcellana, mentre ella si aggiustava un riccio sotto il diadema; ma Lelio nel piegarsi per darle il bacio traballò improvvisamente incespicando nell'abito, così che per balzare indietro ne sfondò con un piede la campana dei merletti. Lo stridore della seta lacerandosi anch'essa per oltre la metà della loro altezza fece voltare la principessa, che urtò quasi colla testa in quella di Lelio; era diventata verde come i propri occhi, cogli occhi sfolgoranti. - Villano! - gridò raccogliendo nella mano la strappatura. Lelio attese che rialzasse il capo; i suoi sguardi si urtarono allora in quelli della principessa umidi di lagrime. - Avete perduto la scommessa. Nell'ira di quel dolore ella non comprese nemmeno. - Clelia! - esclamò. - Eppure ve lo aveva detto che non avrei mai avuto per voi il valore di un abito! - soggiunse Lelio tristamente. Ma l'altra l'interruppe con un gesto di disprezzo così violento che l'altro dovette indietreggiare; ella rimaneva sempre così piegata colla strappatura fra le mani. Allora Lelio, che nell'iracondo pentimento di quella vittoria stava per rispondere una ingiuria grossolana, le si inchinò freddamente e, prima ancora che la cameriera accorresse, uscì dal gabinetto. Fuori la neve seguitava a cadere. - Dove vai? - lo chiamò una voce amica all'angolo di via Farini. - sei di ballo? - No. Ho mutato pensiero - rispose abbottonando solamente allora la pelliccia, sotto la quale l'altro aveva veduto il piastrone e la cravatta bianca. - Allora vieni con me, abbiamo una cena con cinque o sei sgualdrine del teatro Brunetti. Staremo allegri. Almeno quelle sono donne che si conoscono prima; non c'è pericolo di essere ingannati. - Tanto peggio, mio caro! - replicò l'altro. E si lasciò trascinare.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682217
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Quand'ebbe finito di abbigliarsi, vuotò a sua volta un bicchiere di aguardiente, poi, volgendosi verso il guascone, gli disse: - Ed ora lasciatevi legare ed imbavagliare. Scendendo avvertiremo qualcuno che è toccato un accidente al signor Barrejo, cosí verranno a liberarvi. - Siete gentile, signor conte, ma preferirei non sentirmi un fazzoletto sopra i baffi. - Le tentazioni sono pericolose per tutti. Potreste pentirvi dell'affare concluso e mettervi a gridare dietro di noi: al ladro! Il guascone fece un superbo gesto di diniego, poi si voltò per lasciarsi legare. Mendoza e Martin che, come tutti i marinai, non mancavano mai di corde, in pochi momenti ridussero il soldato all'impotenza; lo imbavagliarono per bene e lo gettarono sul letto. - Buona fortuna - disse il basco un po' ironicamente. Il guascone si agitò un po' tentando di rispondere, poi restò immobile come se si fosse addormentato di colpo. Il figlio del Corsaro Rosso si calò l'elmetto sul viso per non essere riconosciuto, aprí la porta con la chiave che il guascone gli aveva data e scese tranquillamente da una lunghissima scala, seguito dai suoi due uomini. Erano entrati in una vecchia casa a tre piani che aveva i gradini ormai consumati e le pareti annerite, abitata certamente da popolani. Stavano per uscire sulla via, quando sulla porta s'incontrarono con una vecchia negra, la quale portava sulla testa lanuta un gran canestro pieno di banane. - Buon giorno, signor Barrejo - disse vedendo il corsaro. - V'ingannate, buona donna - rispose il conte. - Sono un suo amico. Anzi, appena potrete, salite nella sua soffitta, perché pare che quel povero uomo non stia troppo bene. Ciò detto varcò la soglia e si allontanò velocemente, sempre accompagnato dai due filibustieri, i quali potevano benissimo essere scambiati per due marinai frettolosi d'imbarcarsi. La via era quasi deserta, poiché gli abitanti di tutte le città spagnuole del Golfo del Messico hanno l'abitudine di sospendere da mezzogiorno alle quattro i loro affari per schiacciare un sonnellino. - Martin, tu che conosci a menadito la città, guidaci verso il porto - disse il conte, quando si trovarono in mezzo a degli orti. - Non ne siamo lontani che due tiri d'archibugio - rispose il mulatto. - Mi preme di vedere come hanno circondato la mia fregata. - Ma non potremo raggiungerla senza destare dei gravi sospetti - osservò il prudente Mendoza. - Lo so, ed è questo che mi dà noia. Come potremo noi metterci in relazione col mio luogotenente? Ecco la gran questione. Io non dubito che egli possa aprirsi un varco fra i galeoni, le caravelle e rifugiarsi tranquillamente alla Tortue. Eppure è necessario che io m'imbarchi, prima che il segretario del signor di Montelimar si rechi nei Messico. - Forse a me riuscirebbe - disse Martin. Un mulatto non può destare gravi sospetti, e voi sapete che io nuoto meglio d'un pesce e che so anche percorrere dei tratti lunghissimi sott'acqua. - Lo so bene - rispose il conte. - Ed appunto per questo ti ho arruolato. - Non sarà quindi una faccenda difficile per me calarmi inosservato in mare e raggiungere la fregata. - Potrebbero scorgerti e ucciderti. Degli ordini severissimi saranno stati dati perché io non possa raggiungere la mia nave, o mandare qualche messo. - Non vi occupate di ciò, capitano - rispose il mulatto. - Se gli spagnuoli sono furbi, io non lo sono meno di loro. - Vedremo - rispose il signor di Ventimiglia, il quale appariva molto pensieroso per la brutta piega che prendevano le cose. Si erano rimessi frettolosamente in marcia, attraversando dei giardini e delle piccole piantagioni di banani, e tenendosi prudentemente lontani dalle rare case che sorgevano qua e là. Un quarto d'ora dopo giungevano in vista della rada, sbucando in un luogo quasi deserto. Il conte si era bruscamente fermato e borbottava stringendo i pugni. - Affare serio! - disse Mendoza. E l'affare era veramente grave. Quattro galeoni, quelle grosse navi per lo piú destinate a portare i prodotti delle preziose miniere del Messico e dell'America centrale in Europa, e cinque caravelle avevano lasciato i loro ancoraggi ed erano andate a radunarsi presso l'uscita del porto, disponendosi su una doppia fila: i primi dinanzi, le seconde, molto piú deboli e meno equipaggiate, di dietro. In mezzo alla rada, del tutto isolata, stava la fregata del conte, una splendida nave a tre alberi, lunghissima e stretta, e armata di ben ventiquattro pezzi d'artiglieria lungo i fianchi e di due grosse caronade in coperta, sull'alto cassero. Sulle calate, ingombre di mercanzie, numerosi alabardieri passeggiavano, sorvegliando attentamente, a quanto pareva, le navi mercantili e le barche da pesca che dovevano probabilmente aver ricevuto l'ordine di non lasciare gli ancoraggi. - Come se la caverà il luogotenente? - si chiese il conte, il quale con un solo sguardo aveva abbracciato la situazione. - Che cosa ne dici tu, Mendoza? - Io dico, signor conte, che il signor Verra si leverà d'impiccio con molto onore, e che darà una terribile lezione ai galeoni e anche alle caravelle - rispose il vecchio filibustiere. - Ha un bel numero di bocche da fuoco e della gente che ha un cuore che non ha mai tremato. - È vero, ma ... - fece il figlio del Corsaro Rosso, scuotendo la testa. - Voi sapete, signor conte, quale paura hanno gli spagnuoli dei filibustieri. Ci credono figli del diavolo. - Non dico di no, Mendoza. - E allora vedrete quali miracoli saprà compiere il vostro equipaggio guidato dal signor Verra! Forse che i liguri non sono sempre i primi marinai del mondo? - Ma una palla di cannone può uccidere l'uomo piú audace del mondo. - Non un filibustiere però - rispose Mendoza, - specialmente quando ha in mano un buon archibugio o si trova dietro a un pezzo di cannone. Il corsaro sorrise, senza mostrarsi peraltro troppo persuaso dalle parole del vecchio filibustiere. - Cerchiamo un po' d'ombra - disse dopo qualche momento. Il sole è caldo nel grande golfo. A cinquanta passi da loro, presso una scogliera scendente ripidissima verso la rada, s'alzavano dei maestosi banani con foglie enormi. La raggiunsero e si gettarono sotto quegli splendidi vegetali, già carichi di enormi grappoli. - Armiamoci di pazienza ed aspettiamo - disse il conte. - Io sono certo che, appena le tenebre caleranno, i galeoni e le caravelle daranno battaglia alla mia nave. - Io spero di raggiungere la fregata innanzi che si spari il primo colpo di cannone - disse il mulatto. - Datemi le vostre istruzioni, signor conte. - Non avrai da dire al mio luogotenente che una sola cosa: che ci aspetti al capo Tiburon e che sorvegli attentamente il passaggio della Santa Maria. - Permettetemi, capitano, che aggiunga una cosa - disse Mendoza. - Parla pure, amico. - Suppongo, Martin, che tu aspetterai che il sole scompaia per gettarti in acqua. - Non è necessario - rispose il mulatto. - Nuoterò sempre sott'acqua. - E come faremo noi a sapere se giungerai alla fregata? È troppo lontana per poter scorgere un uomo. - E vuoi concludere? - chiese il conte. - Che ci faccia segnalare se ha potuto dare al luogotenente le vostre istruzioni. - Sei sempre furbo, tu. Dirai al signor Verra, Martin, che accenda quattro fanali verdi disposti in fila sul cassero. - Sarà fatto, capitano - rispose il mulatto. Si levò la casacca, i pantaloni, gli stivali e gettò a terra le pistole e la spada. Non portando né camicia né mutande, era rimasto completamente nudo. - Che Dio vi aiuti, signor conte, - disse - Io non dimenticherò le vostre istruzioni. - Va, amico, e guardati dalle palle degli spagnuoli - disse il signor di Ventimiglia. - Addio, camerata - disse Mendoza. - Guardati anche dai pesci-cani. - Io me ne rido di quelli - rispose il mulatto. Spiccò tre o quattro salti, come per provare l'elasticità delle sue membra, poi si gettò fra le rocce che scendevano accavallate bizzarramente verso la rada, strisciando come un serpente. In pochi istanti raggiunse il fondo e, con un magnifico salto di testa, scomparve sott'acqua. - È un vero diavolo! - disse il conte. - Io non ho mai veduto un nuotatore piú abile di lui. - Scommetterei la mia spada contro una carica per la mia pipa - rispose il marinaio - che egli riuscirà ad eludere la sorveglianza degli spagnuoli e a passerà sotto i loro nasi senza che se ne accorgano ... Là! là: lo vedete? È rimontato. A duecento metri dalla riva un punto scuro era comparso sulla superficie della rada scomparendo poi quasi subito. Il mulatto aveva fatta la sua provvista di aria, mettendo fuori solamente il naso, poi si era rituffato, nuotando sempre sott'acqua. Era impossibile che i soldati, che vegliavano sulle calate che si trovavano alquanto discoste dal luogo occupato dai due corsari, avessero potuto accorgersi di qualche cosa. E poi quella macchia bruna si poteva anche benissimo scambiare per una testa di pesce. Altre due volte il conte e Mendoza, i quali spiavano ansiosamente la superficie della baia, videro spuntare il naso del mulatto, poi piú nulla. La distanza era ormai troppo considerevole e cominciava a scendere l'oscurità. - Giungerà? - si chiedeva ansiosamente il conte. - Non pensate a lui capitano - rispondeva Mendoza. - È piuttosto della fregata che noi dobbiamo occuparci. Io non so che cosa aspettino i galeoni e le caravelle. - La notte. - Io, se fossi il comandante della squadra, assalirei subito. - Il combattimento non tarderà ad impegnarsi. Non vedi che delle scialuppe cariche di soldati si staccano dalle calate e prendono il largo? - Pessima manovra, signor conte! Non ne sfuggirà una alle bordate della fregata. Il conte si era alzato e si era messo a passeggiare nervosamente intorno ai banani; Mendoza invece aveva caricato la sua pipa e fumava placidamente. Quella calma del vecchio marinaio era piú apparente che reale, poiché di quando in quando si dimenticava di tirare e la pipa si spegneva. Intanto le tenebre scendevano rapidamente avvolgendo la città, il porto e le navi. La fregata, che si trovava presso la bocca d'uscita, non si scorgeva quasi piú. Ad un tratto il corsaro mandò un grido: - Il segnale! Ah, bravo Martin! Quattro fanali verdi, che spiccavano vivamente nella profonda oscurità, disposti l'uno dietro l'altro, erano comparsi sull'altissimo cassero della fregata. - Ve lo avevo detto io, capitano, che quel diavolo sarebbe riuscito - disse Mendoza vuotandosi la pipa. - Ora potremo andare un po' in campagna a gustare i vini di San Josè. Si dice che siano squisitissimi. - Adagio Mendoza. La fregata non è ancora fuori del porto. - Se è per questo, riaccendo la pipa; sono sicuro che passerà fra i galeoni e le caravelle. Una volta fuori del porto, le diano la caccia se ne sono capaci. - Se riesce ad aprirsi il varco, sarò pienamente tranquillo, mio bravo marinaio. Nessuno può raggiungerla e nemmeno ... Un colpo di cannone interruppe il suo discorso. La Nuova Castiglia aveva aperto il fuoco, sfidando le navi spagnuole a battaglia. Quel sinistro rimbombo, che si ripercosse fragorosamente contro le case della città, fu seguito da un breve silenzio, poi si udí una seconda cannonata. Il corsaro e Mendoza avevano scalate rapidamente le rocce, per meglio assistere alle diverse fasi del combattimento. L'uno e l'altro, quantunque avessero piena fiducia nella robustezza e nell'armamento della nave e nel coraggio dell'equipaggio, formato interamente d'intrepidi filibustieri reclutati alla Tortue, erano in preda ad una profonda angoscia. Sapevano bene che la Spagna aveva pure valenti marinai, capaci di disputare lungamente la vittoria. Un altro mezzo minuto trascorse, poi terribili bordate partirono dai galeoni e dalle caravelle. La battaglia era cominciata.

Racconti fantastici

682776
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Fatta questa risoluzione finì di abbigliarsi infilzò i suoi stivali impenetrabili, si buttò il fucile ad armacollo, accomiatò le due livree verdi che lo solevano accompagnare e uscì circondato da tutti i suoi limieri, i quali agitando la testa, facevano scoppiettare le loro larghe orecchie, e gli si cacciavano ad ogni momento tra le gambe accarezzando colle lunghe code i suoi stivali impenetrabili. Il barone di B. si avviò direttamente verso il luogo ove aveva veduto posarsi i colombi selvatici. Era nell'epoca delle seminagioni, e nei campi arati di fresco non si scorgeva più un arbusto od un filo d'erba. Le pioggie dell'autunno avevano ammollito il terreno per modo, che egli affondava nei solchi fino al ginocchio, e si vedeva ad ogni momento in pericolo di lasciarvi uno stivale. Oltre a ciò i cani, non assuefatti a quel genere di caccia, rendevano vana tutta la strategia del cacciatore, e i colombi avevano appostate qua e là le loro sentinelle avvanzate, precisamente come avrebbe fatto un bravo reggimento della vecchia guardia imperiale. Stizzito da questa astuzia, il barone di B. continuò nondimeno a perseguitarli con maggiore accanimento, quantunque non gli venissero mai al tiro una sola volta; e sentivasi stanco e sopraffatto dalla sete, quando vide lì presso in un solco una pianticella rigogliosa di lamponi carica di frutti maturi. -Strano! disse il barone, una pianta di lamponi in questo luogo ... e quanti frutti! come sono belli e maturi! E abbassando la focaja del fucile, lo collocò presso di sè, si sedette; e spiccando ad una ad una le coccole del lampone, i cui granelli di porpora parevano come argentati graziosamente di brina, estinse, come potè meglio, la sete che aveva incominciato a travagliarlo. Stette così seduto una mezz'ora; in capo alla quale si accorse che avvenivano in lui dei fenomeni singolari. Il cielo, l'orizzonte, la campagna non gli parevano più quelli; cioè non gli pareano essenzialmente mutati, ma non li vedeva più colla stessa sensazione di un'ora prima; per servirsi d'un modo di dire più comune, non li vedeva più cogli stessi occhi. In mezzo a' suoi cani ve n'erano taluni che gli sembrava di non aver mai veduto, e pure riflettendoci bene, li conosceva; se non che li osservava e li accarezzava tutti quanti con maggior rispetto che non fosse solito fare: parevagli in certo modo che non ne fosse egli il padrone, e dubitandone quasi, si provò a chiamarli: Azor, Fido, Aloff! I cani chiamati gli si avvicinarono prontamente, dimenando la coda. -Meno male, disse il barone, i miei cani sembrano essere proprio ancora i miei cani ... Ma è singolare questa sensazione che provo alla testa, questo peso .... E che cosa sono questi strani desideri che sento, queste volontà che non ho mai avute, questa specie di confusione e di duplicità che provo in tutti i miei sensi? Sarei io pazzo? ... Vediamo, riordiniamo le nostre idee .... Le nostre idee! Sì perfettamente .... perchè sento che queste idee non sono tutte mie. Però ... è presto detto riordinarle! Non è possibile, sento nel cervello qualche cosa che si è disorganizzata, cioè ... dirò meglio ... che si è organizzato diversamente da prima ... qualche cosa di superfluo, di esuberante; una cosa che vuol farsi posto nella testa, che non fa male, ma che pure spinge, urta in modo assai penoso le pareti del cranio .... Parmi di essere un uomo doppio. Un uomo doppio! Che stranezza! E pure ... sì, senza dubbio ... capisco in questo momento come si possa essere un uomo doppio. Vorrei sapere perchè questi anemoni mezzo fradici per le pioggie, ai quali non ho mai badato in vita mia, adesso mi sembrano così belli e così attraenti ... Che colori vivaci, che forma semplice e graziosa! Facciamone un mazzolino. E il barone allungando la mano senza alzarsi, ne colse tre o quattro che, cosa singolare! si pose in seno come le femmine. Ma nel ritrarre la mano a sè, provò una sensazione ancora più strana; voleva ritrarre la mano, e nel tempo stesso voleva allungarla di nuovo; il braccio mosso come da due volontà opposte ma ugualmente potenti, rimase in quella posizione quasi paralizzato. -Mio Dio! disse il barone; e facendo uno sforzo violento uscì da quello stato di rigidità, e subito osservò attentamente la sua mano come a guardare se qualche cosa vi fosse rotto o guastato. Per la prima volta egli osservò allora che le sue mani erano brevi e ben fatte, che le dita erano piene e fusolate, che le unghie descrivevano un elissi perfetto; e l'osservò con una compiacenza insolita; si guardò i piedi e vedendoli piccoli e sottili, non ostante la forma un po' rozza de' suoi stivali impenetrabili, ne provò piacere e sorrise. In quel momento uno stormo di colombi si innalzò da un campo vicino, e venne a passargli d'innanzi al tiro. Il barone fa sollecito a curvarsi, ad afferrare il suo fucile, ad inarcarne il cane, ma ... cosa prodigiosa! in quell'istante si accorse che aveva paura del suo fucile, che il fragore dello sparo lo avrebbe atterrito; ristette e si lasciò cader l'arma di mano, mentre una voce interna gli diceva: che begli uccelli! che belle penne che hanno nelle ali! ... mi pare che sieno colombi selvatici ... -Per l'inferno! esclamò il barone portandosi le mani alla testa, io non comprendo più nulla di me stesso ... sono ancora io, o non sono più io? o sono io ed un altro ad un tempo? Quando mai io ho avuto paura di sparare il mio fucile? quando mai ho sentito tanta pietà per questi maledetti colombi che mi devastano i seminati? I seminati! Ma ... veramente parmi che non sieno più miei questi seminati.. Basta, basta, torniamo al castello, sarà forse effetto di una febbre che mi passerà buttandomi a letto. E fece atto di alzarsi. Ma in quello istante un'altra volontà che pareva esistere in lui lo sforzò a rimanere nella posizione di prima, quasi avesse voluto dirgli: no, stiamo ancora un poco seduti. Il barone sentì che annuiva di buon grado a questa volontà, poichè dallo svolto della via che fiancheggiava il campo era comparsa una brigata di giovani lavoratori che tornavano al villaggio. Egli li guardò con un certo senso di interesse e di desiderio di cui non sapeva darsi ragione; vide che ve ne erano alcuni assai belli; e quando essi gli passarono d'innanzi salutandolo, rispose al loro saluto chinando il capo con molto imbarazzo, e si accorse che aveva arrossito come una fanciulla. Allora sentì che non aveva più alcuna difficoltà ad alzarsi, e, si alzò. Quando fu in piedi gli parve di essere più leggiero dello usato: le sue gambe parevano ora ingranchite, ora più sciolte; le sue movenze erano più aggraziate del solito, quantunque fossero poi in realtà le stesse movenze di prima, e gli paresse di camminare, di gestire, di dimenarsi, come aveva fatto sempre per lo innanzi. Fece atto di recarsi il fucile ad armacollo, ma ne provò lo stesso spavento di prima, e gli convenne adattarselo al braccio, e tenerlo un poco discosto dalla persona, come avrebbe fatto un fanciullo timoroso. Essendo arrivato ad un punto in cui la via si biforcava, si trovò incerto per quale delle due strade avrebbe voluto avviarsi al castello. Tutte e due vi conducevano del paro, ma egli era solito percorrerne sempre una sola: ora avrebbe voluto passare per una, e ad un tempo voleva passare anche per l'altra: tentò di muoversi, ma riprovò lo stesso fenomeno che aveva provato pocanzi: le due volontà che parevano dominarlo, agendo su di lui colla stessa forza, si paralizzarono reciprocamente, resero nulla la loro azione: egli restò immobile sulla via come impietrato, come colpito da catalessi. Dopo qualche momento si accorse che quello stato di rigidità era cessato, che la sua titubanza era svanita, e svoltò per quella delle due strade che era solito percorrere. Non aveva fatto un centinaio di passi che s'abbattè nella moglie del magistrato la quale lo salutò cortesemente. -Da quando in qua, disse il barone di B. io sono solito a ricevere i saluti della moglie del magistrato? Poi si ricordò che egli era il barone di B., che egli era in intima conoscenza colla signora, e si meravigliò di essersi rivolta questa domanda. Poco più innanzi si incontrò in una vecchia che andava razzolando alcuni manipoli di rami secchi lungo la siepe. -Buon dì, Catterina, le disse egli abbracciandola, e baciandola sulle guancie; come state? avete poi ricevuto notizie di vostro suocero? -Oh! Eccellenza .... quanta degnazione ... esclamò la vecchia, quasi spaventata dalla insolita famigliarità del barone, le dirò ... Ma il barone l'interruppe dicendole: Per carità, guardatemi bene, ditemi: sono ancora io? sono ancora il barone di B.? B.?-Oh, signore! ... diss'ella. Egli non stette ad attendere altra risposta, e proseguì la sua strada, cacciandosi le mani nei capelli, e esclamando: io sono impazzito, io sono impazzito. Gli avveniva spesso lungo la via di arrestarsi a contemplare oggetti o persone che non avevano mai destato in lui il minimo interesse, e vedeali sotto un aspetto affatto diverso di prima. Le belle contadine che stavano sarchiando nei campi coll'abito rimboccato fin sopra il ginocchio, non avevano più per lui alcuna attrattiva, e le parevano rozze, sciatte e sguaiate. Gettando a caso uno sguardo su' suoi limieri che lo precedevano col muso basso e colla coda penzoloni, disse: «Tò! Visir che non aveva che due mesi adesso sembra averne otto suonati, e s'è cacciato anche lui nella compagnia dei cani scelti.» Mancavangli pochi passi per arrivare al castello, quando incontrò alcuni de' suoi domestici che passeggiavano ciarlando lungo la via, e, cosa singolare! li vedeva doppi; provava lo stesso fenomeno ottico che si ottiene convergendo tutte e due le pupille verso un centro solo, per modo d'incrociarne la visuale; se non che egli comprendeva che le causa di questo fenomeno erano affatto diverse da quelle; poichè vedeali bensì doppi, ma non si rassomigliavano totalmente nella loro duplicità; vedeali come se vi fossero in lui due persone che guardassero per gli stessi occhi. E questa strana duplicità incominciò da quel momento ad estendersi su tutti i suoi sensi; vedeva doppio, sentiva doppio, toccava doppio; e, - cosa ancora più sorprendente! - pensava doppio. Cioè, una stessa sensazione destava in lui due idee, e queste due idee venivano svolte da due forze diverse di raziocinio, e giudicate da due diverse coscienze. Parevagli in una parola che vi fossero due vite nella sua vita, ma due vite opposte, segregate, di natura diversa; due vite che non potevano fondersi, e che lottavano per contendersi il predominio de' suoi sensi - d'onde la duplicità delle sue sensazioni. Fu per ciò che egli vedendo i suoi domestici, conobbe bensì che erano i suoi domestici; ma cedendo ad un impulso più forte, non potè a meno di avvicinarsi ad uno di essi, di abbracciarlo con trasporto e di dirgli: oh! caro Francesco, godo di rivedervi; come state? come sta il nostro barone? - e sapeva benissimo di essere egli il barone - ditegli che mi rivedrà fra poco al castello. I domestici si allontanarono sorpresi; e quello tra loro che erane stato abbracciato, diceva tra sè stesso: io mi spezzerei la testa per sapere se è, o se non è veramente il barone che mi ha parlato. Io ho già inteso altre volte quelle parole ... non so ... ma quella espressione ... quell'aspetto ... quell'abbraccio ... certo, non è la prima volta che io fui abbracciato in quel modo. E pure ... il mio degno padrone non mi ha mai onorato di tanta famigliarità. Pochi passi più innanzi, il barone di B. vide un pergolato che s'appoggiava ad un angolo del recinto d'un giardino, per modo che quando era coperto di foglie doveva essere affatto inaccessibile agli occhi dei curiosi. Egli non potè resistere al desiderio di entrarvi, quantunque vi fosse in lui un'altra volontà che l'incitava ad affrettarsi verso il castello. Cedette al primo impulso, e appena sedutosi sotto la pergola, sentì compiersi in sè stesso un fenomeno psicologico ancora più curioso. Una nuova coscienza si formò in lui: tutta la tela di un passato mai conosciuto si distese d'innanzi a suoi occhi: delle memorie pure e soavi di cui egli non poteva aver fecondata la sua vita vennero a turbare dolcemente la sua anima. Erano memorie di un primo amore, di una prima colpa; ma di un amore più gentile e più elevato che egli non avesse sentito, di una colpa più dolce e più generosa che egli non avesse commesso. La sua mente spaziava in un mondo di affetti ignorato, percorreva regioni mai viste, evocava dolcezze mai conosciute. Nondimeno tutto questo assieme di rimembranze, questa nuova esistenza che era venuta ad aggiungersi a lui, non turbava, non confondeva le memorie speciali della sua vita. Una linea impercettibile separava le due coscienze. Il barone di B. passò alcuni momenti nel pergolato, dopo di che sentì desiderio di affrettarsi verso il villaggio. E allora le due volontà agendo su di esso collo stesso accordo, egli ne subì un impulso così potente che non potè conservare il suo passo abituale, e fu costretto a darsi ad una corsa precipitosa. Queste due volontà incominciarono da quell'istante a dominarsi e a dominarlo con pari forza. Se agivano d'accordo, i movimenti della sua persona erano precipitati, convulsi, violenti; se una taceva, erano regolari; se erano contrarie, i movimenti venivano impediti, e davano luogo ad una paralisi che si protraeva fino a che la più potente di essa avesse predominato. Mentre egli correva così verso il castello, uno de' suoi domestici lo vide, e temendo di qualche sventura, lo chiamò per nome. Il barone volle arrestarsi, ma non gli fu possibile; rallentò il passo e si fermò bensì per qualche istante, ma ne seguì una convulsione, un saltellare, un avvanzarsi e un retrocedere a sbalzi per modo che sembrava invasato, e gli fu gioco forza continuare la sua corsa verso il villaggio. Il villaggio non pareagli più quello, parevagli che ne fosse stato assente da molti mesi: vide che il campanile della parocchia era stato riattato di fresco, e quantunque lo sapesse, gli sembrava tuttavia di non saperlo. Lungo la strada si abbattè in molte persone che sorprese di quel suo correre, lo guardavano con atti di meraviglia. Egli faceva a tutte di cappello, benchè comprendesse che nol doveva; e quelle rispondevangli togliendosi i loro berretti, e meravigliando di tanta cortesia. Ma ciò che sembrava ancora più singolare era che tutte quelle persone consideravano quasi come naturale quel suo correre, quel suo salutare; e pareva loro di aver travisto, intuito, compreso qualche cosa in que' suoi atti, e non sapevano che cosa fosse. Ne erano però impaurite e pensierose. Giunto al castello si arrestò; entrò nelle anticamere; baciò ad una ad una le sue cameriere; strinse la mano alle sue livree verdi, e si buttò al collo di una di esse che accarezzò con molta tenerezza, e a cui disse parole colme di passione e di affetto. A quella vista le cameriere e le livree verdi fuggirono, e corsero urlando a rinchiudersi nelle loro stanze. Allora il barone di B. salì agli altri piani, visitò tutte le sale del castello, e essendo giunto alla sua alcova, si buttò sul letto, e disse: «Io vengo a dormire con lei, signor barone.» In quell'intervallo di riposo, le sue idee si riordinarono, egli si ricordò di tutto ciò che gli era avvenuto durante quelle due ore, e se ne sentì atterrito; ma non fu che un lampo - egli ricadde ben presto nel dominio di quella volontà che lo dirigeva a sua posta. Tornò a ripetersi le parole che aveva dette poc'anzi; «Io vengo a dormire con lei, signor barone.» E delle nuove memorie si suscitarono nella sua anima; erano memorie doppie, cioè le rimembranze delle impressioni che uno stesso fatto lascia in due spiriti diversi, ed egli accoglieva in sè tutte e due queste impressioni. Tali rimembranze però non erano simili a quelle che aveva già evocato sotto la pergola; quelle erano semplici, queste complesse; quelle lasciavano vuota, neutrale, giudice una parte dell'anima; queste l'occupavano tutta: e siccome erano rimembranze di amore, egli comprese in quel momento che cosa fosse la grande unità, l'immensa complessività dell'amore, il quale essendo nelle leggi inesorabili della vita un sentimento diviso fra due, non può essere compreso da ciascuno che per metà; Era la fusione piena e completa di due spiriti, fusione di cui l'amore non è che una aspirazione, e le dolcezze dell'amore un'ombra, un'eco, un sogno di quelle dolcezze. Nè potrei esprimere meno confusamente lo stato singolare in cui egli si trovava. Passò così circa un'ora, scorsa la quale si accorse che quella voluttà andava scemando, e che le due vite che parevano animarlo si separavano. Discese dal letto, si passò le mani sul viso come per cacciarne qualche cosa di leggiero ... un velo, un ombra, una piuma; e sentì che il tatto non era più quello; gli parve che i suoi lineamenti si fossero mutati, e provò la stessa sensazione come se avesse accarezzato il viso di un altro. V'era lì presso uno specchio e corse a contemplarvisi. Strana cosa! Non era più egli; o almeno vi vedeva riflessa bensì la sua immagine, ma vedeala come fosse l'immagine di un altro, vedeva due immagini in una. Sotto l'epidermide diafana della sua persona, traspariva una seconda immagine a profili vaporosi, instabili, conosciuti. E ciò gli pareva naturalissimo, perchè egli sapeva che nella sua unità vi erano due persone, che era uno, ma che era anche due ad un tempo. Allontanando lo sguardo dal cristallo, vide sulla parete opposta un suo vecchio ritratto di grandezza naturale, e disse: «Ah! questo è il signor barone di B. Come è invecchiato!» - E tornò a contemplarsi nello specchio. La vista di quella tela gli fece allora ricordare che vi era nel corridojo del castello un immagine simile a quella che aveva veduto poc'anzi trasparire dalla sua persona nello specchio, e si sentì dominato da una smania invincibile di rivederla. Si affrettò verso il corridojo. Alcune delle sue cameriere che vi passavano in quell'istante furono prese da uno sgomento ancora più profondo di prima, e corsero fuggendo a chiamare le livree verdi che stavano assembrate nell'anticamera, concertandosi sul da farsi. Intanto nel cortile del castello si era radunato buon numero di curiosi: la notizia delle follie commesse dal barone si era divulgata in un attimo nel villaggio, e vi aveva fatto accorrere il medico, il magistrato ed altre persone autorevoli del paese. Fu deciso di entrare nel corridojo. Il disgraziato barone fu trovato in piedi d'innanzi ad un ritratto di fanciulla - quella stessa che era sparita mesi addietro dal castello - in uno stato di eccitamento nervoso impossibile a definirsi. Egli sembrava in preda ad un assalto violento di epilessia; tutta la sua vitalità pareva concentrarsi in quella tela; pareva che vi fosse in lui qualche cosa che volesse sprigionarsi dal suo corpo, che volesse uscirne per entrare nell'immagine di quel quadro. Egli la fissava con inquietudine, e spiccava salti prodigiosi verso di lei, come ne fosse attratto da un forza irresistibile. Ma il prodigio più meraviglioso era che i suoi lineamenti parevano trasformarsi, quanto più egli affissava quella tela, ed acquistare un'altra espressione. Ciascuna persona riconosceva bensì in lui il barone di B., ma vi vedeva ad un tempo una strana somiglianza coll'immagine riprodotta nel quadro. La folla accorsa nel corridojo si era arrestata compresa da un panico indescrivibile. Che cosa vedevano essi? Non lo sapevano: sentivano di trovarsi d'innanzi a qualche cosa di soprannaturale. Nessuno osava avvicinarsi, - nessuno si moveva; - uno spavento insuperabile si era impadronito di ciascuno di essi: un brivido di terrore scorreva per tutte le loro fibre ... Il barone continuava intanto ad avventarsi verso il quadro; la sua esaltazione cresceva, i suoi profili si modificavano sempre più, il suo volto riproduceva sempre più, esattamente l'immagine della fanciulla ... e già alcune persone parevano voler prorompere in un grido di terrore, quantunque uno spavento misterioso li avesse resi muti od immobili, allorchè una voce si sollevò improvvisamente dalla folla che gridava: «Clara! Clara!» Quel grido ruppe l'incantesimo. «Sì, Clara! Clara!» ripetereno unanimi le persone radunate nel corridojo, precipitandosi l'una sull'altra verso le porte, sopraffatte da un terrore ancora più grande, e quel nome era il nome della fanciulla sparita dal castello, la cui immagine era stata riprodotta dalla tela. Ma a quella voce, il barone di B. si spiccò dal quadro, e si slanciò in mezzo alla folla gridando: «Il mio assassino, il mio assassino!» La folla si sparpagliò, e si divise. Un uomo era in terra svenuto - quello stesso che aveva gridato - il giovane guardaboschi su cui pendevano sospetti per la sparizione misteriosa di Giara. Il barone di B. fa trattenuto a forza dalle sue livree verdi. Il guardaboschi rinvenuto domandò del magistrato, cui confessò spontaneamente di aver uccisa la fanciulla in un eccesso di gelosia, e di averla sotterrata in un campo, precisamente in quel luogo dove, poche ore innanzi, aveva veduto lo sfortunato barone sedersi e mangiare le coccole del lampone. Fu data subito al barone di B. una forte dose di emetico che gli fece rimettere i frutti non digeriti, e lo liberò dallo spirito della fanciulla. Il cadavere di essa, dal cui seno partivano le radici del lampone, fu dissotterrato e ricevette sepoltura cristiana nel cimitero. Il guardaboschi, tradotto in giudizio, ebbe condanna a dodici anni di lavori forzati. Nel 1865 io lo conobbi nello stabilimento carcerario di Cosenza che mi era recato a visitare. Mancavangli allora due anni a compiere la sua pena; e fu da lui stesso che intesi questo racconto meraviglioso.

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