Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abate

Numero di risultati: 87 in 2 pagine

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 4 occorrenze

Nelle sue Réflexions critiques sur la Poesie et la Peinture (Parigi, 1719 e 1770), il teorico francese abate Jean-Baptiste Du Bos, pur non negando esplicitamente il motto oraziano «ut pictura poësis», afferma che la pittura fissa un istante temporale ed è dunque caratterizzata da una «staticità situazionale», mentre la poesia si svolge nel tempo e rappresenta un’azione nella sua durata. Forse Du Bos era già a conoscenza di quanto sosteneva Lessing in proposito. Comunque sia, anche lui comincia a riflettere sul fatto che esistono soggetti più vantaggiosi per la poesia ed altri più vantaggiosi per le arti visive.

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Ludovico Urbani (notizie dal 1460 al 1493), San Sebastiano e Santa Caterina d'Alessandria; il profeta Daniele, Matelica (Macerata), chiesa di Sant'Antonio Abate e Santa Teresa. come gli avori, i gioielli e i tessuti. Gli arazzi, in particolare, erano un tipico prodotto suntuario, che si diffuse durante il Medioevo e rimase uno degli arredi più ambiti e costosi anche nel corso del Cinquecento e del Seicento. Prodotti principalmente in Borgogna e nelle Fiandre, venivano acquistati in tutte le corti europee, contribuendo a far viaggiare le forme e a diffondere soggetti profani, tratti spesso dalla mitologia classica o dai poemi cavallereschi e dai romanzi d’amore cari alla cultura cortese. Un altro potente veicolo di diffusione stilistica ed iconografica erano i Libri d’Ore, breviari di preghiere destinati alla devozione privata delle classi egemoni.

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La tecnica della pittura

253650
Previati, Gaetano 8 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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Pagina 278

Lo spagnuolo abate Requeno, soggetto, dice il Lanzi, nel quale si accoppiavano le qualità richieste a disaminare e promuovere la nuova scoperta: «intelligenza di letterato, pratica di pittore, raziocinio di filosofo e pazienza di esperimentatore», prese occasione da questo stato di animi e dalle considerazioni suggeritegli dai vari sistemi di pittura encaustica che dalla Francia facevano capolino in Italia, per tentare le prove che diffusamente esplicò nei suoi Saggi sul ristabilimento dell antica arte dei greci e dei romani pittori, libro corso per le mani di tutti.

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Bachellière che in parte corrispondono colle prime ricerche dello stesso abate Requeno, è così tipico, in fatto di ricette pittoriche, il caso toccato all’erudito abate, che vale la pena di riferire le sue stesse parole: «Leggonsi più piacevolmente i quattro metodi di dipingere all’encausto di M. Bachellière, due dei quali furono rigettati dall’Accademia; ma il terzo premiato ed encomiato col quarto, il quale è una diversa applicazione del terzo. Io però non posso contenermi in questo luogo senza lagnarmi duramente dell’estensore dell’articolo, perchè o per trascuraggine o per mancanza d’intelligenza dell’argomento, tralasciò qualche circostanza necessaria onde poter rendere praticabile il vantato metodo dello scioglimento delle cere. Contro il suddetto articolo opporrò le mie replicate esperienze, senz’animo però di tacciare nè l’Accademia nè il signor Bachellière, giacchè non è punto credibile l’impostura in un uomo onesto, nè la sorpresa negli accademici più illuminati. Io ho fatto per sei volte la prova in diversi tempi del 30 premiato metodo del signor M. Bachellière, avendo in mano l’ultima volta per non mancare di un jota l’articolo copiato fedelmente dall’Enciclopedia, ove è scritta e lodata l’operazione del suddetto autore. Incominciai prima a scaldare l’acqua naturale in un pignattino di terra verniciata e nuovo, poi la satollai di sal tartaro e facendola sgocciolare per carta grigia, vi gettai pezzetti di cera bianca e vergine, i quali con la spatola d’avorio, come si prescrive, mischiai in maniera tale sulle bragie che fecero all’occhio una calda saponata; l’esperienza procedeva benissimo, ma la mescolanza di cera e sal tartaro raffreddata fu tanto lontana dal diventare facile e solubile nell’acqua fresca, come doveva, che tutt’all’opposto acquistò una tale resistenza e durezza quali da sè non ha mai la sola cera. Tornai una o più volte a fare accuratamente la esperienza provvedendomi in diverse officine del sale di tartaro e fino di cremor tartaro: con ambedue questi sali feci separatamente la prova ma senza profitto: ultimamente chiamando due amici, i quali avrei sommamente a grado di poter nominare, sì per dare più peso alle mie asserzioni colla testimonianza di due persone profondamente instrutte nella lettura di sì fatte esperienze, come per dare la meritata lode ai loro talenti, li chiamai, dissi, acciocchè attentamente osservassero, quanto io era nuovamente per eseguire; dopo avere dunque uno di loro letto meco l’articolo «encaustique» dell’Enciclopedia, e con singoiar attenzione il tratto del terzo premiato metodo, del quale feci io un transunto: avendolo io in mano a fine di notare se mancava in qualche picciola circostanza; tomai sotto i loro occhi e col loro ajuto a replicare tutte le operazioni; ed essi puts trovarono la cera raffreddata tanto lontana dal diventare solubile che l’uno degli assistenti amici disse, maneggiandola certo con la spatola, che gli pareva più consistente di prima. Onde conchiusi che l’estensore dell’articolo non aveva data notizia di tutte le circostanze, da riuscire nello scioglimento della cera ».

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La sua composizione, due parti di cera e cinque di mastice o pece greca, oppure tanta cera quanto mastice e colore sufficiente per poterle impastare, non attecchì più degli altri encausti a base di saponi e di oli essenziali, e l’erudito abate sarebbe stato assai mortificato se avesse saputo che a non tanto tempo da lui si sarebbe impiegato il suo composto pel restauro... degli affreschi!

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Leggere un'opera d'arte

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Chelli, Maurizio 2 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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Sant'Antonio Abate: Santo eremita di origine egiziana, viene sempre raffigurato in compagnia di un maiale, mentre tiene una stampella e un campanello il maiale ha un doppio significato: rappresenta il demonio, che il santo ha sconfitto, ma anche l’animale dal quale veniva tratto il lardo con cui si ricavava un medicamento per curare il fuoco di Sant’Antonio. Il campanello invece allude al suono divino con il quale il santo avrebbe vinto le tentazioni.

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San Benedetto: Il fondatore del più antico ordine monastico occidentale ha una iconografia che presenta un considerevole numero di attributi riferiti a diversi episodi della sua vita: il pastorale e la mitra, che lo identificano come abate di Montecassino; un vassoio, riferito ad un suo miracolo, il risanamento di un vassoio che la nutrice aveva avuto in prestito; un bicchiere o un calice infranto, che si riferiscono al tentativo di avvelenamento da parte del suo nemico prete Fiorenzo; un cespuglio di spine, che ricorda il modo con il quale vinceva le tentazioni della carne, gettandovisi sopra.

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L'arte di guardare l'arte

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Daverio, Philippe 2 occorrenze

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Saggi di critica d'arte

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Cantalamessa, Giulio 1 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Pagina 74

Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 9 occorrenze

Si ha un bel ridire che Caravaggio è il fondatore di tutto il '600 europeo, che è quanto dire dell'arte moderna; un bel domandare come si farebbe a spiegare, storicamente, Velazquez, o Rembrandt, o Vermeer, o Frans Hals tirando una tenda sui quadri di Caravaggio e lasciando alla vista, accanto, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, e i secenteschi che abbiam detto, per veder se sia proprio fra di essi figliazione diretta, o se non si senta mancar un anello in quella curiosa catena della storia dei pittori - «ché le molte cose in pittura una vien dall'altra, e ciaschedun Artefice prende da un medesimo luogo, come un certo buono già stabilito per legge» 1, come diceva l'ottimo abate Ciccio Solimena -; questo delle basi caravaggesche del '600 finirà per doventare un articolo, un domma accettato ma non accetto.

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E si attende a questa chiara loquela alcuna risposta conservativa che intavoli da parte di chissà quale conte od abate superstite di Lombardia o della Venezia, Malaspina o Bianconi o Selvatico, una serie di lettere sulla pittura per accrescere di un volume novello la serie del Bottari e del Ticozzi. Lo affideremo ai torchi del Capurro?

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Ma in questo San Gerolamo; più ancora che in quel Sant' Antonio abate, Correggio riesce ad attingere, in una sola figura, quella complessità di modulo chiaroscurale che non pretende più dalla forma la frontalità quattrocentesca, anzi gode di porla attraverso lo spazio diagonalmente, alleandola alle fluttuazioni graduate della luce e dell'ombra.

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Il Signor Abate Luigi Lanzi - Firenze

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Ivi credereste, ornatissimo Signor Abate, ire prima a diporto per una provincia dello Stato Veneto tanti sono i quadri di quella scuola, senza dir dei lombardi, che vi si veggono, e per le chiese, e nelle quadrerie dei signori principali. Aggiugniete che anco que' nazionali medesimi, perché solitamente nodriti nelle migliori accademie italiane e precipuamente in Venezia, tengono tutti di quel gusto e facilmente si accordano co' nostrali. Ah! non conobbe il Bassetti, questo nobilissimo soggetto Veronese, chi non vide il terribile suo quadrone fatto per Monaco a competenza col Saraceno, [figura 179], qui anch'esso tanto più sodo che alla Scala. Che più? Se saria in punto di dirVi che con i voltoni strepitosi di Wurzburg né anco Palazzo Labia non vi ha che fare? Il Signor Zanetti me lo perdoni.

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Veggo Voi, gentilissimo Signor Abate, già schifato al timore ch'io non mi dilati troppo in così fatta schiera, o ditela pur setta, per essermi in quella sempre soverchiamente piaciuto. Non mi chiamaste un giorno scherzevolmente: ecco qua il nostro marchese Giustiniani? Ma perdonatemi alquanto di sfogo alle mie singolari applicazioni, se, in queste parti, v'è chi mi tiene con benevola condiscendenza, per un Husford minore. Infine che mi volete? Se a questo si riduce in ultimo termine il nodo della disputa, che «in picturis alios horrida, inculta, abdita, opaca; contra alios nitida, laeta, collustrata delectant?».

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Venuti ad epoche recenziori Voi sapete, ornatissimo Signor Abate, ch'io non fui giammai svisceratissimo de' Bolognesi che pure occupano gli stalli primari nell'epoca quarta; a' Cignani, a' Franceschini, a' Quaini altrettanto che a' Maratti, a' Massucci, a' Costanzi dovendosi deferire il primo stabilimento di quella eleganza scelta, se si voglia ma fredda, che a dì nostri quasi è provetta a' rigori dell'inanimazione, e della morte. Dicasi nondimeno che il Cignani è al suo solito in Pommersfelden dotto, leccato e soverchiamente rotondo, se ne togliete, ove sia de' suoi primi anni, quel Rinaldo già nominato e qui creduto dell'Albani, e un Isacco che benedice Giacobbe dove l'impasto più ricco e spirante rammenta il Franceschini. Questi poi saria spiritosissimo ove gli convenisse il quadretto del San Domenico che fa limosine*; riferitogli nondimeno, io credo, per esser più scarse in Germania le novelle del Franceschini di Firenze al cui stile è più addetto vedendovisi non so ché di Cortonesco nell'accordo, e nel tingere. Non più oltre de' bolognesi a Pommersfelden.

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Explicit opus, illustrissimo Signor Abate. Ho condotto in porto, come potea la navicella dei miei ragguagli, chiamiamola, se volete, barcone o zattera, a indicar meglio i pericoli del trasporto e la confusione delle mercanzie. Veggo di essermi fin troppo indugiato nel viaggio, ma chi volesse ora sfrondarlo delle lungaggini e, come direbbe il conte Algarotti, de' truismi che vi spesseggiano, gli bisognerebbe più tempo e più fatica che non abbia io durato a regger la barra fin qui.

Pagina 492

Il talismano della felicità

293793
Boni, Ada 1 occorrenze

Pagina 339

L'arte di utilizzare gli avanzi della mensa

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Guerrini, Olindo 1 occorrenze

Pagina 163

Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l'uso di famiglia

322089
Lazzari Turco, Giulia 2 occorrenze
  • 1904
  • Tipografia Emiliana
  • Venezia
  • cucina
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Le persone che fanno acquisto di funghi sui pubblici mercati sono sempre garantite dalla sorveglianza degli agenti municipali ; a quelle che dimorano in campagna e specialmente in luoghi montuosi, favorevoli allo sviluppo dei miceti, consiglierei di procurarsi delle cognizioni rudimentali di micologia e non saprei raccomandare abbastanza l'opera popolare dell'illustre scienziato Abate Giacomo Bresadola I funghi mangerecci e velenosi dell'Europa media *) che saprà toglierle da ogni dubbio e fornirle dei più utili insegnamenti.

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IL BENEFATTORE

662588
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
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Racconti 3

662745
Capuana, Luigi 4 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Oh, d'aspetto, bell'asino alto, robusto, di magnifico pelame, da scambiarsi con uno di quei famosi di Pantelleria, ma cosí testardo, cosí capriccioso, cosí maligno tiratore di calci e morsicature che il povero abate, cavalcandolo, si raccomandava l'anima a Dio. - Voscenza l'ha viziato! - gli diceva la mezzadra. E lui le credeva, in buona fede. Come mai avea potuto viziarlo, se gli avea sempre lasciato fare quel che voleva? Pareva che il triste animale si divertisse a dargli fastidio, e con tale malizia, Signore benedetto! Per un po' di strada trottava tranquillo, con le orecchie ritte, la testa alta quasi orgoglioso di portare addosso un buon servo di Dio. Ma al primo ciuffo di erba che incontrava lungo lo stradone eccolo fermo a brucare, quasi non avesse la pancia già piena di orzo e di paglia! Invano il povero abate lo tirava per la briglia, gli batteva i fianchi coi tacchi degli stivali, giacché non usava sproni; l'asino faceva il comodo suo. E finito quel delizioso pasto, si metteva a ragliare, a ragliare, a far la giravolta, a caracollare, ad andare avanti e indietro prima di avviarsi verso il fondo di cui ben conosceva la strada. Arrivato però al punto dove la viottola biforcava, l'asino prendeva a sinistra invece che a destra, ostinatamente impegnando una lotta con l'abate che tirava invano la briglia. Salti, ragli, giravolte, sgambetti, fino a che qualche contadino che passava, presolo pel morso, non lo metteva su la giusta strada. - Questo, domine, non è animale per voi -. Glielo ripetettero tante volte, che all'ultimo l'abate «Castagna» si decise a disfarsene. Accompagnato dal mezzadro, lo condusse alla fiera di Belverde e là, tra la calca della gente e delle centinaia di bestie, attese che si presentasse un compratore. L'asino attirava gli occhi. Si sarebbe detto che volesse invitar le persone ad acquistarlo, cosí altero teneva il collo, cosí ritte le orecchie, cosí impazientemente agitava la coda. Il mezzadro, tra parecchi fermatisi a osservare l'animale, ne tesseva l'elogio: - Forte come un mulo, vivace come un cavallo. Infaticabile, e poi cosí manso da potersi affidare a un bambino! - Lo tastava, gli passava la mano su la schiena quasi a fargli maggiormente rilucere il pelo, lo faceva spasseggiare su e giú per far risaltare le belle gambe asciutte, gli tirava in su le labbra perché ne osservassero la dentatura e si convincessero dell'età, quattr'anni appena. L'abate, con gli occhiali verdi e l'ombrello rosso aperto per ripararsi il sole, stava là, tenendo abbassati gli occhi e stringendo le labbra. Sembrava mortificato di tutti quegli elogi alla sua bestia e prestava attento orecchio alla discussione impegnata intorno al prezzo con uno che finalmente si era deciso a concludere il negozio. - Dieci once! In parola di onore è regalato! - Facciamo otto, compare! - Né la vostra né la mia parola: - disse il mezzadro - otto once e quindici tarí! Ecco il padrone; potete contargli il danaro -. L'abate «Castagna» alzò gli occhi, aperse le labbra a un dolce sorriso e fece atto di voler parlare - Ah! - esclamò il compratore. - Neppure un grano di piú! - Sta bene, sta bene. Debbo però avvertirvi ... - Niente! - replicò l'altro. - Lasciatemi dire. Per scrupolo di coscienza debbo però avvertirvi ... - Voscenza intaschi il danaro. Oramai il contratto è concluso, come davanti a notaio, con questi testimoni - disse il mezzadro. - Va bene - replicò l'abate. E preso pel petto della giacca il compratore lo tirò in disparte. - Sentite: è vero, l'asino è forte, infaticabile, ma quanto ad esser manso! ... Sentite: per scrupolo di coscienza debbo avvertirvi che, invece, è caparbio, capriccioso, morditore, tiratore di calci, intrattabile ... Se ora vi conviene ... - E quel pezzo d'imbroglione ... ! - Dovettero mettersi in mezzo i testimoni per impedire che colui non si azzuffasse col mezzadro. E l'asino quasi volesse schernire il padrone, si diè a ragliare, tra le risate della gente. Da che il Signore si era portata via in Paradiso suor Celeste, l'abate «Castagna» tra i mezzadri che lo spogliavano a man salva e i finti poveri che trovavano molto comodo il vivere alle sue spalle andando a lamentargli miserie in casa da mattina a sera, spesso spesso digiunava anche senza averne l'intenzione. Il prevosto, che era uomo di mondo e gli voleva un po' bene, alla sua maniera, lo ammoniva tutti i giorni, in sacrestia: - Santo, sí, diventate pure santo; ma sciocco, neppure un santo dev'essere sciocco! I poveri, la carità, non dico di no; i poveri sono fratelli di Gesú Cristo ... Ma bisogna distinguere. Io, prima di dare un grano di elemosina, ci penso su due volte, se chi la chiede se la merita, o no, davvero. Ci sono poveri che se la scialano meglio di voi e di me. E dico voi, cosí, per dire. Vi siete ridotto uno scheletro. E i vostri mezzadri sono grassi che scoppiano, e comprano buoi e fondi ... Voi tenete gli occhi fissi al cielo ... Abbassateli un po' e guardate attorno ... Santo sí; sciocco, no! Picchia oggi, picchia domani, l'anima ingenua dell'abate «Castagna» cominciò ad entrare in diffidenza di sé e degli altri. - Consigliatemi voi, signor prevosto! - Il prevosto lo squadrò da capo a piedi quasi volesse pesarlo e scrutarlo dentro; poi rimase un momento pensoso. Non era uomo di mondo per niente; correva voce che facesse anche lo strozzino; ma allora pensava di trar d'impiccio quel povero sciocco pur proponendogli un affare. - Dovreste fare un vitalizio. - Con chi, Dio mio? - Con me, se non vi dispiace. Stima di beni, calcoli giusti; la casa, da abitarvi fino alla morte. Venite a trovarmi, piú tardi, dal notaio Stella; ne riparleremo con comodo. Il paradiso ve lo siete già guadagnato; ve lo sareste guadagnato anche con meno. Dovete mutar vita. Santo, sí; ma sciocco, no! Datemi retta! - Povero abate «Castagna»! non gli erano riusciti i matrimoni, non gli era riuscito bene neppure il darsi a Dio facendosi prete! Forse non gli sarebbe riuscito neppure il vitalizio, ora che intendeva mutar tenore di vita. Santo non osava credersi; gran peccatore anzi, egli si umiliava innanzi a Dio! Sciocco però era stato ed era! Se ne accorgeva forse troppo tardi! E durante molte nottate, non potendo pigliar sonno, avea fantasticato di servirsi del vitalizio per quel po' che occorreva ai suoi ristretti bisogni, e accumulare il resto per fondare una buon'opera di carità, se il Signore gli dava la vita. Lo ripeté al prevosto, firmato l'atto: - Se il Signore mi darà vita! - Il Prevosto, dentro di sé, aveva detto: - Speriamo di no! - Ma il Signore, per punirlo, allungò gli anni all'abate «Castagna», che rimase un bravo sacerdote, se non fu un santo, e non si macerò piú con digiuni e penitenze per divenirlo a ogni costo. Ingrassò anzi, diventò proprio una castagna, quasi per onorare il suo nomignolo, non ostante che il prevosto lo guardasse ogni giorno con certi occhiacci da buttargli un maleficio addosso! E ogni sei mesi, quando l'abate gli si presentava per esigere la mezza rata del vitalizio, il prevosto lo guardava sbalordito, quasi non potesse credere ai suoi occhi e stentasse a riconoscere in quella vescica piena di sugna - com'egli diceva - il misero corpicciolo che lo aveva tratto in inganno. - Sempre piú grasso! - e pareva ringhiasse. - Per grazia di Dio! - rispondeva umilmente l'abate «Castagna». - Mangiate troppo! Vi prenderà qualche accidente, Badate! Vi si è fin raccorcito il collo! Cattivo segno! Badate! - Voleva impaurirlo, mettergli questa pulce nell'orecchio. - Siamo qua! Quando il Signore ci chiama ... - E l'abate intascava cheto cheto i quattrini. Parve che Domeneddio si divertisse a fare un dispetto a quello strozzino di prevosto! Chiamò prima lui, non si sa se in paradiso o all'inferno, e, otto giorni dopo, l'abate «Castagna» certamente in paradiso.

. - No, caro abate, - rispose il dottor Maggioli. - Lo scimmione morí ... di amore, sentimentalmente; e, forse, compose dei versi come un trovatore o un poetino qualunque; ma li compose nel suo linguaggio e nessuno li capí! - Dottore! Vuol darcela a ingoiare troppo grossa! - Niente affatto, baronessa! Era avvenuto quel che il professore Schitz avea divinato. Poiché la scatola cranica non opponeva piú resistenza, la massa cerebrale avea potuto facilmente aumentare di volume, di circonvoluzioni, e le sensazioni da esse tramandate ai nervi, vi si trasformavano in sentimenti, in maniera primitiva, s'intende. E cosí il povero scimmione, dopo quattro o cinque mesi, libero dalla cuffia e dall'impiastro, si trovava trasformato (prego lor signori di non ridere quantunque la cosa sembri ridicola) in innamorato sentimentale ... E di chi? Della vecchia serva! La guardava con occhiate cosí languide, le indirizzava certi gridi d'intonazione cosí raddolcita quando la vedeva andare per la terrazza ed innaffiar i fiori, a sciorinare la biancheria su le cordicelle tese da un capo all'altro; l'accarezzava cosí delicatamente ora ch'ella aveva ripreso a spulciarlo, da non potersi dubitare di quel che avveniva dentro il cervello del povero animale. I maschi delle scimmie - è notissimo - non sono molto riserbati nelle dimostrazioni dei loro istinti amorosi. E lo sapeva pure la vecchia serva del professore che spesso era scappata via facendosi il segno della santa croce, come davanti all'apparizione d'un demonio ... Ma ora lo scimmione del professore Schitz era mutato. Appariva proprio un innamorato sentimentale; prendeva pose da rêveur , col dito d'una delle sue mani appoggiato alla guancia, con la testa inclinata tristamente da un lato. La vecchia, appunto perché bruttissima, era il suo ideale di bellezza: né poteva averne altro naturalmente, da quello scimmione che era. «E ha avuto un nuovo grido, un nuovo suono, una nuova parola! - esclamava trionfalmente il professore. - È la sua dichiarazione di amore». Dichiarazione che rimaneva inascoltata perché, dopo che il professore aveva detto alla vecchia: «Lo scimmione è innamorato di te!» la vecchia non voleva piú saperne di dargli le solite cure. E il poveretto languiva, languiva come un innamorato sentimentale qualunque. E un giorno ... «Mi pento di aver sperimentato su questo povero animale - ripeteva il professore Schitz, vedendolo morire di consunzione. - Pur troppo, aumento d'intelligenza apporta aumento di dolori! Se avessi potuto prevedere!» E non seppe prevedere neppure quel che seguí. Un giorno - è certo - lo scimmione, disperato di non veder corrisposto il suo amore, fece come tutti gli innamorati violenti: si suicidò strozzandosi con la catena che lo teneva legato. Il professore Schitz ne fu inconsolabile -.

- E fuori di ogni miracolo, caro abate, se per miracolo lei intende la sovversione delle leggi della natura. Grandissimo miracolo certamente, maggiore di tutti quelli operati dalla scienza finora, se può e dee chiamarsi tale il costringere il nostro organismo a una funzione che la natura, non sappiamo perché (forse perché glien'ha regalate altre piú nobili e piú eccelse) ha conservato e riserbato per organismi inferiori nella scala degli esseri. - Ma, insomma ... Non ci tenga piú su la corda! - disse la baronessa. - Avevamo studiato medicina insieme nell'università di Bologna; io per campar la vita; egli, ricchissimo, pel solo gusto di studiare. E studiava seriamente, assai piú di noi che chiedevamo alla professione il nostro futuro sostentamento. Dopo la laurea, io ero stato nominato medico condotto in un paesetto dell'Umbria; egli aveva continuato ad approfondirsi nella fisiologia con intensa passione. Da vent'anni non sapevo piú notizie del mio collega, quando, al mio ritorno dall'America, c'incontrammo in ferrovia. Mi riconobbe lui. Io non avrei indovinato l'antico condiscepolo, bel giovane biondo, in quell'uomo maturo, precocemente incanutito e invecchiato, che mi sedeva in faccia in uno scompartimento di seconda classe. Fu una festa per tutti e due. E allora, tra tante altre cose, egli mi disse: «Vent'anni addietro ho fatto un sogno che non ho potuto piú levarmi di mente. Mi è sembrato che c'era da cavarne qualche cosa di grande, se fossi stato un Newton, un Galileo, un Volta. Ma sono un povero dilettante di fisiologia. Pure, ho avuto l'orgoglio di tentare ... Non si sa mai!» Aveva sognato di star a sedere nel suo studio. Tutt'a un tratto gli era venuto l'impulso di alzar le gambe, di accostarle, orizzontali ... e si era sentito portar via per la stanza in quella posizione, con le gambe ben tese, e aveva potuto fare il giro della stanza, sollevarsi fino al soffitto, ridiscendere, risalire, leggero come una piuma, sbalordito del fatto che non gli pareva sogno ma realtà. E nel sogno aveva pensato: «Ecco una maravigliosa scoperta che non è passata per la mente a nessun scienziato!» Giacché aveva pure capito in che modo lo stupefacente fatto fosse avvenuto. «Ho avuto l'orgoglio di tentare, e sono quasi riuscito» concluse. Lo guardai negli occhi, dubitando, ve lo confesso, dello stato normale della sua intelligenza. Egli capí, sorrise, e m'invitò ad andare a trovarlo nella sua villa, presso Cento. «Vivo solo colà, da anni, come un eremita. Questa è la prima volta che comunico a qualcuno il gran problema che mi occupa e che credo già vicino ad essere risoluto vittoriosamente. Mi prometti di venire?» «Se credi - risposi - posso venire anche ora». La sua serietà mi aveva scosso, e la mia vivissima curiosità e il mio dubbio non volevano frapporre tempo in mezzo per convincersi se quella che nel mio interno qualificavo fissazione di allucinato, fosse o no proprio tale. Il tentativo di Piero Baruzzi, ripensandoci, non mi sembrava assurdo. Egli partiva dal fatto notissimo che il feto umano, nei primi stadi di formazione, somiglia a quello del pesce, poi del cane ... Dunque ha organi che, nella compiuta trasformazione in feto umano, si arrestano nel loro sviluppo, si atrofizzano, o si mutano in organi con funzione diversa. Che cosa diviene nel nostro corpo la vescica natatoria del pesce? Polmoni, organi di respirazione, dicono i fisiologi. Ma la trasformazione cancella ogni vestigio della primitiva funzione? Piero Baruzzi ha concluso di no; e il fatto ha confermato, riguardo alla vescica natatoria, la divinazione di lui. I polmoni sono poi davvero la trasformazione di quella vescica, o essa sussiste ancora, atrofizzata, resa inutile dal mezzo in cui l'uomo è destinato a vivere? Piero Baruzzi ha speso, coraggiosamente, ostinatamente, i migliori anni della sua vita in questa ricerca. Non posso entrare a discorrere, con particolari minuti, dei suoi difficilissimi studi. Io passavo di stupore in stupore, nel suo laboratorio, in quella villa solitaria posta in cima alla collina e circondata da macchinosi alberi di ulivi e di querce, stando ad ascoltare la chiara ed efficace esposizione dei suoi lunghi studi, dei suoi scoraggiamenti, delle sue gioie di scopritore fortunato. Ma il quasi sovrumano non furono in lui la pazienza, la precisione delle ricerche, il silenzio di tanti anni. Occorreva provare e per ciò trovare un soggetto su cui tentare il miracolo - la parola mi viene spontaneamente alle labbra - di sviluppare nel corpo umano quell'organo atrofizzato e in guisa da permettergli di manovrare nell'aria, come i pesci nel mare; di ridurre l'aria veicolo da eguagliare l'acque marine. Provò sopra di sé, in che modo non saprei dire, ma certamente martirizzando il suo povero corpo con operazioni dolorosissime, con tagli chirurgici, con mezzi che misero piú volte a repentaglio la sua nobile vita. Ed io lo vidi, con questi occhi, sollevarsi per aria, con le gambe riunite orizzontalmente, quasi servissero da timone; non ancora capace di attingere grandi altezze, capacissimo però di muoversi agevolmente in tutte le direzioni, quasi il suo corpo avesse perduto il peso ordinario ... E la prima volta credevo di essere in preda a un'allucinazione, suggestionato dalla sua eloquente parola, dalla strana evidenza del suo paradosso. Volle che giurassi di mantenergli il segreto, e di attendere che quella scoperta avesse raggiunto la perfezione. Ormai era sicuro del fatto suo. Quando lasciai la villa, Piero Baruzzi non mi sembrava piú un uomo, ma un Dio! Passarono altri cinque anni. Un giorno, finalmente, ricevei un suo laconico biglietto: «Vieni; faremo una gran prova all'aria aperta. Ti attendo per giovedí prossimo». Disgraziatamente quel giorno non potei andare e non fui in tempo di avvisarlo che sarei arrivato da lui il giorno dopo. Egli non attese. E la mattina di quel giovedí, alcuni contadini che lavoravano un campo là vicino videro librato in aria, a grande altezza, un animale mostruoso che andava, veniva, facendo ghirigori nello spazio, scotendo certe strane ali ... Egli, per ripararsi dal freddo, aveva indossato un mantello, e il vento e l'aria smossa ne agitavano le ampie falde ... Uno di quei contadini, spinto dall'idea di guadagnarsi un bel premio, vendendo lo sconosciuto uccello a un museo, spianò il fucile da militare che aveva là a portata di mano ... E il povero Baruzzi, colpito al ventre, precipitò giú, sfracellandosi il capo sur un masso. La sua mirabile scoperta era morta con lui! -

Poesie - La morte di Tantalo

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Corazzini, Sergio 1 occorrenze

Un impuro ladro, forse, o un abate incipriato? L'anima è morta ed io ne son sicuro. Come una fonte semplice e tranquilla donò la gioia alle riarse gole degli umani e non seppe, ahimè! tenere per la sua sete giovane una stilla! Morì così, come un ignoto sole spento su le fiorite primavere. Chi batte alla mia porta? sei tu, cara? Vieni con l'alba alla mia cella triste? L'inchiodi forse questa grigia bara? Mi ricordo di te, sola; eri bionda, esile come un sogno giovinetto, pallida come un astro mattutino; te sola, nell'oscurità profonda del mio cuore, t'accorgi per diletto; te sola, con il mio tetro destino. Chi tenta l'ombra che stagnò nei trivi in cui le donne come idee mal certe più volte si volgean tentando i vivi? Chi veste d'auree stole anche le immonde case che il fango d'un amplesso cinge? Chi l'oro ai figli della terra adduce? Ah, sei tu, sole, che le più profonde pupille ferme nell'eterna sfinge avvivi, anima orgiaca della luce?!

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 4 occorrenze

Don Clemente celebrò messa verso le sette, parlò coll' Abate e poi si recò all' Ospizio dei pellegrini. Trovò Benedetto addormentato con le braccia in croce sul petto, le labbra socchiuse, il viso composto a una visione interna di beatitudine. Gli accarezzò i capelli, lo chiamò sottovoce. Il giovine si scosse, alzò, smarrito, il capo, balzò dal letto, afferrò e baciò la mano a don Clemente che la ritrasse con un impeto di umiltà frenato subito dal suo pudore d'anima, dalla coscienza dignitosa del suo ministero. "Dunque?" diss'egli. "Il Signore ti ha parlato?" "Sono nella Sua volontà" rispose Benedetto "come una foglia nel vento. Come una foglia che non sa niente." Il monaco gli prese il capo a due mani, lo attirò a sé, gli posò le labbra sui capelli, ve le tenne a lungo in una silenziosa comunicazione di spirito. "Devi andare dall' Abate" diss'egli. "Dopo verrai da me." Benedetto lo fissò, lo interrogò senza parole: perché questa visita? Gli occhi di don Clemente si velarono di silenzio e il discepolo si umiliò in uno slancio muto ma visibile di obbedienza. "Subito?" diss'egli. "Subito." "Posso lavarmi al torrente?" Il Maestro sorrise: "Va, lavati al torrente." Lavarsi all'acqua che talvolta, per abbondanza di pioggie, suona nella valle Pucceia a levante del monastero e taglia di rigagnoli la via del Sacro Speco sotto Santa Crocella, era il solo piacere fisico che Benedetto si concedesse. Piovigginava; nebbie fumavano lente nel vallone alto, le tremole acque tenui si dolevano a Benedetto fuggendo attraverso la via, gli tacevano contente nel cavo delle mani, gl'infondevano per la fronte, gli occhi, le guance, il collo, fino al cuore, un senso della loro anima casta, dolce, un senso di bontà Divina. Benedetto si versò l'acqua sul capo largamente, e lo spirito dell'acqua gli alitò nel pensiero. Sentì che il Padre lo avviava per novo cammino, che ve lo avrebbe portato nella Sua mano potente. Benedisse riverente la creatura per la quale gli si era infuso tanto lume di grazia, l'acqua purissima; e ritornò all' Ospizio. Don Clemente, che lo attendeva nel cortile, trasalì al vederlo; tanto gli parve trasfigurato. Sotto la Selva umida dei capelli in disordine gli occhi avevano una quieta gioia celestiale, e lo scarno viso di avorio una spiritualità occulta quale fluiva dai pennelli del Quattrocento. Come poteva quel volto accordarsi con gli abiti contadineschi? Don Clemente si applaudì in cuor suo di un pensiero concepito nella notte e già espresso all' Abate: dare a Benedetto un vecchio abito di converso. Prima di concedere o rifiutare il proprio consenso, l' Abate voleva vedere Benedetto, parlargli. L' Abate aspettava Benedetto suonando un pezzo di sua composizione con le nocche delle dita, e accompagnando il suono con diabolici storcimenti delle labbra, delle narici, delle sopracciglia. Udito bussar discretamente all'uscio, non rispose né tralasciò di suonare. Terminato il pezzo, lo ricominciò, lo suonò una seconda volta da capo a fondo. Poi stette in ascolto. Fu bussato ancora, più lievemente di prima. L' Abate esclamò: "Seccatore!" E, strappati alcuni accordi, si pose a fare delle scale cromatiche. Dalle scale cromatiche passò agli arpeggi. Poi stette ancora in ascolto, per tre o quattro minuti. Non udendo più nulla, andò ad aprire, vide Benedetto che s'inginocchiò. "Chi è costui?" diss'egli, ruvido. "Il mio nome è Piero Maironi" rispose Benedetto "ma qui al monastero mi chiamano Benedetto." E fece l'atto di prender la mano dell' Abate per baciarla. "Un momento!" disse l' Abate, accigliato, ritraendo e alzando la mano. "Cosa fate qui?" "Lavoro nell'orto del monastero" rispose Benedetto. "Sciocco!" esclamò l' Abate. "Domando cosa state facendo qui davanti alla mia porta!" "Ero per venire da Vostra Paternità." "Chi vi ha detto di venire da me?" "Don Clemente." L' Abate tacque, considerò lungamente l'uomo inginocchiato, poi brontolò qualche cosa d'incomprensibile e finalmente gli porse la mano a baciare. "Alzatevi!" diss'egli ancora brusco. "Entrate! Chiudete l'uscio!" L' Abate, entrato che fu Benedetto, parve dimenticarlo. Inforcò gli occhiali, si pose a sfogliare libri e a leggere carte, voltandogli le spalle. Benedetto aspettava diritto in piedi, con ossequio militare, ch'egli parlasse. "Maironi di Brescia?" disse l' Abate, con la voce ostile di prima e senza voltarsi. Avuta la risposta, continuò a sfogliare e a leggere. Finalmente si levò gli occhiali e si voltò. "Cosa siete venuto a fare" diss'egli "qui a Santa Scolastica?" "Sono stato un gran peccatore" rispose Benedetto. "Iddio mi ha chiamato fuori del mondo e fuori ne son venuto." L' Abate tacque un momento, guardò fisso il giovine, disse con dolcezza ironica: "No, caro." Trasse la tabacchiera, la scosse ripetendo dei piccoli "no - no - no" quasi sotto voce, guardò nel tabacco, vi piantò le dita e levati gli occhi da capo su Benedetto, gli disse articolando lentamente le parole: "Questo non è vero." Ghermita la presa con il pollice, l'indice e il medio, alzò la mano rapidamente come per gettar il tabacco in aria e proseguì con il braccio alzato: "Sarà vero che siete stato un gran peccatore, ma non è vero che siate venuto fuori del mondo. Non siete né fuori né dentro." Fiutò rumorosamente la sua presa e ripeté: "Né fuori né dentro." Benedetto lo guardava senza rispondere. Vi era in quegli occhi qualche cosa di tanto grave e di tanto dolce che l' Abate riabbassò i suoi alla tabacchiera aperta, tornò a frugarvi, a giocherellare col tabacco. "Non vi capisco" diss'egli. "Siete nel mondo e non siete nel mondo. Siete nel monastero e non siete nel monastero. Ho paura che la testa vi serva come a vostro bisnonno, a vostro nonno e a vostro Padre. Belle teste!" Il viso di avorio di Benedetto si colorò lievemente. "Sono anime in Dio" diss'egli "Superiori a noi; e le parole Sue vanno contro un comandamento di Dio." "Fate silenzio!" esclamò l' Abate. "Dite di avere lasciato il mondo e siete pieno del suo orgoglio. Se volevate lasciare il mondo sul serio, dovevate cercare di farvi novizio! Perché non l'avete cercato? Avete voluto venir qua in villeggiatura, ecco la storia. O forse avevate degl'impegni a casa vostra, dei pasticci, mi capite! Nec nominentur in nobis. E avete voluto liberarvi per farne poi degli altri. E contate delle frottole a quel buon don Clemente, prendete il posto a un povero pellegrino, eh dite su, magari cercando di darla a intendere ai frati, che è facile, e a Domeneddio, che è difficile, con orazioni e sacramenti. Non dite di no!" Il lieve rossore si era dileguato dal viso di avorio, le labbra apertesi un momento a parole pacatamente severe non si muovevano più, gli occhi penetranti fissavano l' Abate con la dolce gravità di prima. E l' Abate parve inasprito da quel silenzio tranquillo. "Parlate, dunque!" diss'egli "Confessate! Non vi siete anche vantato di doni speciali, di visioni, che so io, di miracoli forse anche? Siete stato un gran peccatore? Mostrate che non lo siete ancora! Scolpatevi, se potete. Dite come avete vissuto, spiegate la vostra pretensione che Iddio vi abbia chiamato, giustificatevi di essere venuto a mangiare il pane dei frati a ufo, perché frate non avete voluto essere e quanto a lavorare avete lavorato ben poco!" "Padre" rispose Benedetto e il tôno severo della voce, la severa dignità del volto mal si accordavano con la mansuetudine umile delle parole, "questo è buono per me peccatore che da tre anni vivo, per lo spirito, nella mollezza e nelle delizie, vivo nella pace, vivo nell'affetto di persone sante, vivo in un'aria piena di Dio. Le Sue parole sono buone e dolcissime all'anima mia, sono una grazia del Signore, mi hanno fatto sentire con le loro punte quanto orgoglio vi è ancora in me che non lo sapevo, perché nel disprezzarmi da me sentivo piacere. Come servo, poi, della santa Verità, le dico che la durezza non è buona neppure con uno che inganna, perché forse la soavità lo farebbe pentire del suo inganno; e che nelle parole della Paternità Vostra non è lo spirito del nostro Padre solo e vero, al quale sia gloria." Nel dire "al quale sia gloria" Benedetto cadde ginocchioni, acceso in viso da un fervore augusto. "Sei tu, peccatore tristo, che vuoi fare il Maestro?" esclamò l' Abate. "Ha ragione, ha ragione" rispose Benedetto di slancio, affannosamente e giungendo le mani. "Ora Le dico il mio peccato. Desiderai l'amore illecito, mi compiacqui della passione di una donna ch'era d'altri come d'altri ero io e l'accettai. Lasciai ogni pratica di religione, non curai di dare scandalo. Questa donna non credeva in Dio e io disonorai Dio presso di lei colla mia fede morta, mostrandomi sensuale, egoista, debole, falso. Iddio mi richiamò colla voce dei miei morti, di mio Padre e di mia madre. Mi allontanai allora dalla donna che mi amava, ma senza vigore di volontà, ondeggiando nel mio cuore fra il bene e il male. In breve ritornai a lei, tutto ardente di peccato, conoscendo di perdermi e risoluto a perdermi. Non vi era più un atomo di volontà buona nell'anima mia quando una mano morente, cara, santa, mi afferrò e mi salvò." "Guardatemi bene" disse allora l' Abate senza farlo alzare. "Avete mai fatto sapere a nessuno ch'eravate qui?" "A nessuno. Mai." L' Abate rispose secco: "Non vi credo." Benedetto non batté ciglio. "Voi sapete" ripigliò l' Abate "perché non vi credo." "Lo suppongo" rispose Benedetto piegando il viso. "Peccatum meum contra me est semper." "Alzatevi!" comandò l'inflessibile Abate. "Io vi caccio dal monastero. Ora vi recherete a salutare don Clemente nella sua cella e poi partirete per non ritornare mai più. Avete inteso?" Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all'omaggio di rito quando l' Abate lo trattenne con un gesto. "Aspettate" diss'egli. Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in piedi, alcune parole. "Cosa farete" disse scrivendo "quando sarete fuori?" Benedetto rispose piano: "Il bambino preso in braccia dal Padre mentre dormiva, sa egli cosa il Padre farà di lui?" L' Abate non replicò niente, finì di scrivere, pose il foglio in una busta, la chiuse, la tese, senza voltare il capo, a Benedetto che gli stava dietro le spalle. "Prendete" disse "portate a don Clemente." Benedetto gli chiese il permesso di baciargli la mano. "No, no, andate via, andate via!" La voce dell' Abate tremava di collera. Benedetto ubbidì. Appena fu nel corridoio udì l'uomo incollerito strepitare sul piano. Prima di entrare nella celletta di don Clemente, Benedetto si fermò davanti alla grande finestra che termina il corridoio. Ivi si era trattenuto, poche ore prima, il Maestro a contemplare i lumi di Subiaco pensando la nemica, la creatura di bellezza, d'ingegno, di naturale bontà, venuta forse a contendergli il suo figliuolo spirituale, a contenderlo a Dio. Ora il figliuolo spirituale era misteriosamente certo che la donna male amata da lui nel tempo del suo gravitare cieco e ardente sulle cose inferiori, aveva scoperto la sua presenza nel monastero e sarebbe venuta a cercarlo. Disceso dentro lo Spirito interno al proprio cuore, egli vi attingeva un pio sentimento del Divino ch'era pure in lei, ascoso a lei stessa, una mistica speranza che per qualche oscura via ella pure arriverebbe un giorno al mare di Verità eterna e di amore, che attende tante povere anime erranti. Don Clemente lo aveva udito venire e aperse a mezzo l'uscio della cella. Benedetto entrò, gli porse la lettera dell' Abate. "Debbo lasciare il monastero" diss'egli, sereno. "Subito e per sempre." Don Clemente non rispose, aperse la lettera. Letta che l'ebbe, osservò a Benedetto, sorridendo, che la sua partenza per Jenne era stata decisa fin dalla sera precedente. Vero, ma l' Abate aveva detto: per non ritornare mai più. Don Clemente aveva le lagrime agli occhi e sorrideva ancora. "Lei è contento?" disse Benedetto, quasi dolente. Oh, contento! Come avrebbe potuto dire il suo Maestro, quel che sentiva? Partiva il discepolo diletto, partiva per sempre, dopo tre anni di dolce unione spirituale; ma ecco, l'ascosa Volontà si era manifestata, Iddio lo toglieva dal monastero, lo chiamava per altre vie. Contento! Sì, afflitto e contento, ma della sua contentezza non poteva dire il perché a Benedetto. La parola Divina non avrebbe avuto valore per Benedetto s'egli non la intendeva da sé. "Contento, no" diss'egli. "In pace, sì. Noi c'intendiamo, vero? E adesso raccogliti per le mie parole ultime, che spero ti saranno care." Don Clemente, nel dir così a voce bassa, si colorò tutto di rossore. Benedetto piegò il capo a lui che gl'impose ambo le mani con dignità soave. "Desideri" disse la virile voce piana "dare tutto te stesso alla Verità Suprema, alla sua Chiesa visibile e invisibile?" Come se si fosse atteso a quell'atto e a quella domanda, Benedetto rispose pronto con voce ferma: "Sì." La voce piana: "Prometti tu, da uomo a uomo, vivere senza nozze e povero fino a che io ti sciolga della tua promessa?" La voce ferma: "Sì." La voce piana: "Prometti tu essere sempre obbediente all'autorità della Santa Chiesa esercitata secondo le sue leggi?" La voce ferma: "Sì." Don Clemente attirò a sé il capo del discepolo e gli parlò sulla fronte: "Ho chiesto all' Abate di poterti dare un abito di converso, perché uscendo di qua tu porti sopra di te almeno il segno di un umile ministero religioso. L' Abate, prima di decidere, ha voluto parlarti." Qui don Clemente baciò il discepolo in fronte, significando così il giudizio dell' Abate dopo il colloquio, chiudendo in quel bacio silenzioso parole di lode, non credute convenienti al suo carattere paterno né alla umiltà del discepolo. E non si avvide che il discepolo tremava da capo a piedi. "Ecco" diss'egli "quel che l' Abate scrive dopo averti parlato." Mostrò a Benedetto il foglio dove l' Abate aveva scritto: "Concedo. Fatelo partire subito perché io non sia tentato di trattenerlo." Benedetto abbracciò di slancio il suo Maestro e gli appoggiò la fronte a una spalla, senza parlare. Don Clemente mormorò: "Sei contento? Adesso te lo domando io." Ripeté due volte la domanda senza ottenere risposta. Venne finalmente un sussurro: "Posso non rispondere? Posso pregare un momento?" "Sì, caro, sì." Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l'inginocchiatoio, una grande croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l'anima tua. Infatti qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto sotto: "omnes superbiae motus ligno crucis affigat. " Benedetto si stese bocconi a terra, posò la fronte ov'eran da posare le ginocchia. Per la finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di sghembo, sul dorso dell'uomo prosteso e dell'uomo ritto in piedi con la faccia levata verso la croce grande. Il mormorio della pioggia, il rombo dell' Aniene profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva. Egli si alzò, pacato in viso, vestì, a un cenno del Maestro, la tonaca di converso stesa sul letto, cinse la cintura di cuoio. Vestito che fu, si mostrò, aprendo le braccia e sorridendo, al Maestro, che si compiacque di vederlo così dignitoso, così spiritualmente bello in quell'abito. "Lei non ha inteso?" disse Benedetto. "Non ha pensato una cosa?" No, don Clemente aveva pensato che quella gran commozione di Benedetto fosse stata effetto di umiltà. Adesso capiva che altro gli sarebbe dovuto venire in mente; ma cosa? "Ah!" esclamò a un tratto. "Forse la tua Visione?" Certo. Benedetto si era visto morire sulla nuda terra, all'ombra di un grande albero, nell'abito benedettino; e argomento di non credere nella Visione giusta i consigli di don Giuseppe Flores e di don Clemente gli era stata la contraddizione di ciò con la sua ripugnanza strana per i voti monastici, venutagli sempre crescendo da quando aveva lasciato il mondo. Ora questa contraddizione pareva dileguarsi; pareva quindi risorgere la credibilità di un carattere profetico della Visione. Don Clemente ne conosceva questa parte e avrebbe potuto leggere nel cuore di Benedetto il suo sbigottimento al riaffacciarsi di un misterioso disegno Divino sopra di lui, il suo terrore di cadere in peccato di superbia. Non ci aveva pensato. "Non pensarci neppure tu" diss'egli. E si affrettò a mutar discorso. Gli diede una lettera e dei libri per l'arciprete di Jenne. Intanto l'arciprete lo avrebbe ospitato. Se dovesse restare a Jenne o no, ritornare, in questo caso, a Subiaco o recarsi altrove, glielo farebbe sapere la Divina Provvidenza. "Padre mio" disse Benedetto "proprio non penso cosa sarà di me domani. Penso unicamente questo: "magister adest et vocat me" ma non come una voce sovrannaturale. Ho avuto torto di non capire che il Maestro è presente sempre e chiama sempre: me, Lei, tutti. Basta farsi un po' di silenzio nell'anima, la sua voce si sente." Un raggio fioco di sole entrò nella cella. Don Clemente pensò subito che, se cessasse di piovere, la signora Dessalle verrebbe probabilmente a visitare il monastero. Non disse niente ma la sua inquietudine interna si tradì con un trasalire della persona, con un'occhiata al cielo, che significarono a Benedetto come fosse tempo di partire. Egli domandò in grazia di poter pregare, prima nella Chiesa di Santa Scolastica e poi al Sacro Speco. Il sole si nascose, ricominciò a piovere, Maestro e discepolo scesero insieme nella Chiesa, vi si trattennero in preghiera l'uno accanto all'altro e fu quello il loro solo addio. Benedetto prese la via del Sacro Speco alle nove. Uscì di Santa Scolastica inosservato, mentre fra Antonio stava confabulando col messo di Giovanni Selva. In quel momento, il lume del sole redivivo riaccese rapidamente i vecchi muri, la via, il monte; acuto gioire, ali veloci di uccelletti ruppero in ogni parte il verde, e alle sue labbra salì spontanea la parola: "Vengo."

Don Clemente ne aveva ottenuto il permesso dal Padre Abate, stando lui, Giovanni, al monastero; e gliel'aveva detto subito. Verrebbe e condurrebbe seco quel garzone ortolano di cui gli aveva parlato, per farglielo conoscere. Così un'altra volta l'ortolano verrebbe solo e gl'insegnerebbe a rincalzar le patate nel campicello dietro la villa che Giovanni aveva pure preso in affitto per lavorarlo con le proprie mani. Questa del lavoro manuale era una piccola mania di Giovanni, venutagli tardi, che dispiaceva un poco a Maria, parendole cosa non più conveniente alle sue abitudini, alla sua età. La rispettava, però, e tacque. In quel momento la ragazza di Affile che li serviva entrò ad avvertire che quei signori stavano salendo la scala, e che la cena sarebbe pronta subito. Tre persone salivano infatti per la scaletta a chiocciola del villino. Giovanni scese loro incontro. Il primo era il suo giovane amico di Leynì, che si scusò, salutandolo, di precedere i compagni, due ecclesiastici. "Sono il cerimoniere" diss'egli. E li presentò lì sulla scala: "Il signor Abate Marinier, di Ginevra. Don Paolo Farè, di Varese, che Lei conosce già di nome." Selva rimase un po' perplesso ma poi si affrettò a far salire i suoi visitatori, li avviò alla terrazza dov'erano già disposte delle sedie. "E Dane?" diss'egli, inquieto a di Leynì, pigliando a braccetto."E il professor Minucci? E il Padre Salvati?" "Sono qui" rispose il giovine sorridendo. "Sono all'Aniene. Le racconterò, è tutta una storia, verranno subito" Intanto l' Abate Marinier esclamava uscendo sulla terrazza: "Oh, c'est admirable!" E don Paolo Farè, da buon comasco, mormorava:"sì, bello, bello," col tôno discreto di chi pensa:"Ma se vedeste il mio paese!". Sopraggiunse Maria, si rinnovarono le presentazioni e di Leynì raccontò la sua storia, mentre Marinier girava i piccoli occhi scintillanti per il paesaggio, dalla piramide di Subiaco, quinta fosca del chiaro sfondo di ponente, ai prossimi carpineti selvaggi del Francolano che serra, scuro e grande, il levante. Don Farè divorava con gli occhi Selva, l'autore di scritti critici sul Vecchio e Nuovo Testamento, e particolarmente di un libro sulle basi della futura teologia cattolica, che avevano innalzata e trasfigurata la sua fede. La storia del barone di Leynì era che alla stazione di Mandela tirava un gran vento, che il professore Dane temeva forte di esservisi buscata un'infreddatura, che sospettando di non trovare cognac in casa di un odiatore dell'alcool come il signor Selva, ed essendo anche l'ora in cui soleva pigliare ogni giorno due uova, s'era fermato all'Albergo dell' Aniene per avere le uova e il cognac ; che sulla terrazza della trattoria, verso il fiume, c'era troppa aria e negli stanzini attigui troppa poca; che si era fatto servire il suo pasto in una camera dell'albergo e aveva rimandato le uova due volte; che loro erano partiti a piedi lasciando il professore Minucci e il Padre Salvati a tenergli compagnia. Poiché il delicato, freddoloso professore Dane non c'era, Giovanni propose il cenare sulla terrazza. Ne smise però subito l'idea vedendo che garbava poco all' Abate di Ginevra. L'elegante, mondano Marinier, amico di Dane, aveva la stessa cura del proprio individuo, con maggiore dissimulazione e senza scuse di salute. Non aveva cenato all'Aniene con l'amico suo perché la cucina dell'Aniene gli era parsa, in una sua prima visita a Subiaco, troppo semplice, e sperava dalla signora Selva una cena francese. Di Leynì sapeva bene quanto la speranza fosse fallace; maliziosamente, non lo aveva istruito. Nel salottino da pranzo appena ci capivano i cinque commensali. Guai se fossero venuti anche gli altri due! Per Verità né l' Abate Marinier, né don Farè erano attesi. Altri, invece, mancava. Mancavano un frate e un prete, uomini conosciuti, che avrebbero dovuto venire dall'alta Italia. Si erano scusati l'uno e l'altro, per lettera, con vivo rincrescimento di Selva e di Farè pure, e del di Leynì. Marinier si scusò, invece, di essere venuto. Era stato Dane, il colpevole. E per don Paolo Farè il colpevole era stato di Leynì. Selva protestò. Amici di amici, come non sarebbero graditi? E tanto di Leynì quanto Dane sapevano di potere accompagnare persone di loro fiducia, persone che dividessero le loro idee. Maria non parlava; Marinier le piaceva poco. Anche le pareva che Dane e di Leynì avrebbero fatto bene a non portare altri senza avvertire. Parlò Marinier, dopo aver esplorato con gli occhi, aggrottando lievemente le sopracciglia, una zuppa di fave. "Io non so" diss'egli "se recheremo noia alla signora Selva discorrendo un poco adesso di quello che sarà poi il discorso della riunione." Maria lo rassicurò. Ella non avrebbe partecipato alla riunione ma pigliava moltissimo interesse allo scopo. "bene" proseguì Marinier "allora sarà molto utile per me che io conosca esattamente questo scopo, perché Dane me ne ha parlato non con tanta precisione, e io non posso esser sicuro di dividere le vostre idee in tutto." Don Paolo non seppe trattenere un gesto d'impazienza. Anche Selva parve un po' seccato, perché davvero un consenso in certe idee fondamentali era necessario. Senza di esso la riunione poteva riescire peggio che inutile, pericolosa. "Ecco" diss'egli "siamo parecchi cattolici, in Italia e fuori d'Italia, ecclesiastici e laici, che desideriamo una riforma della Chiesa. La desideriamo senza ribellioni, operata dall'autorità legittima. Desideriamo riforme dell'insegnamento religioso, riforme del culto, riforme della disciplina del clero, riforme anche nel supremo governo della Chiesa. Per questo abbiamo bisogno di creare un'opinione che induca l'autorità legittima ad agire di conformità sia pure fra venti, trenta, cinquant'anni. Ora noi che pensiamo così siamo affatto disgregati. Non sappiamo l'uno dell'altro, eccetto i pochi che pubblicano articoli o libri. Molto probabilmente vi è nel mondo cattolico una grandissima quantità di persone religiose e colte che pensano come noi. Io ho pensato che sarebbe utilissimo, per la propaganda dalle nostre idee, almeno di conoscerci. Stasera ci si riunisce in pochi per una prima intesa." Mentre Giovanni parlava, gli altri tenevano gli occhi sull' Abate ginevrino. L' Abate guardava nel suo piatto. Seguì un breve silenzio. Giovanni lo ruppe il primo. "Il professore Dane" diss'egli "non Le aveva detto questo?" "Sì sì" rispose l' Abate, levando finalmente gli occhi dal piatto "qualche cosa di simile." Il tono fu d'uno che approvasse poco. Ma perché, allora, era venuto? Don Paolo faceva smorfie di malcontento, gli altri tacevano. Vi fu un momento d'imbarazzo. Marinier disse: "Ne parleremo stasera." "Sì" ripeté Selva, tranquillo. "Ne riparleremo stasera." Pensava che avrebbe trovato nell' Abate un avversario e che Dane aveva commesso un errore di giudizio e di tatto invitandolo alla riunione. Si confortò in pari tempo con la tacita riflessione che l'udirsi rappresentare tutte le obbiezioni possibili sarebbe utile; e che un amico del professore Dane sarebbe almeno onesto, non propalerebbe nomi e discorsi ancora da tacersi. Invece il giovine di Leynì si crucciava di questo pericolo, sapendo quante e quanto diverse amicizie tenesse l' Abate Marinier in Roma, dove dimorava da cinque anni per certi suoi studi storici; e si crucciava di non avere saputo della sua venuta in tempo di scriverne ai Selva, per suggerir loro che intraprendessero la sua conquista incominciando dal palato. La mensa di casa Selva, sempre nitidissima e fiorita, era, quanto ai cibi, molto parsimoniosa, molto semplice. I Selva non bevevano vino mai. Il vino chiaretto, acerbetto di Subiaco non poteva che inasprire un uomo avvezzo ai vini di Francia. La ragazza di Affile aveva già servito il caffè quando arrivarono, a un punto, don Clemente a piedi da Santa Scolastica, Dane, il Padre Salvati, e il professore Minucci in un legno a due cavalli da Subiaco. Ma don Clemente, ch'era seguito dal suo ortolano, vista la carrozza movere verso il cancello del villino e non dubitando che portasse gente a casa Selva, affrettò il passo perché Giovanni e l'ortolano potessero vedersi, parlarsi un minuto, prima della riunione. I Selva e i loro tre commensali si erano levati da cena e Maria, uscendo, a braccio del cavalleresco Abate Marinier, sulla terrazza, vide, benché annotasse già, il benedettino sul ripido sentiero che sale dal cancello aperto sulla via pubblica. Lo salutò dall'alto e lo pregò di aspettare, a piè della scala, che gli facessero lume. Scese ella stessa col lume la scala a chiocciola, accennò a don Clemente di volergli parlare e diede un'occhiata significativa all'uomo che gli stava dietro le spalle. Don Clemente si voltò a costui, gli disse di stare ad attenderlo lì fuori sotto le rubinie; e saliti, al muto invito della signora, alcuni scalini, sostò ad ascoltarla. Ella gli parlò, frettolosa, dei suoi tre ospiti e particolarmente dell' Abate Marinier. Disse che stava in pena per suo marito il quale aveva posto tanto amore e tanta fede nell'idea di questa associazione cattolica e ora si troverebbe a fronte di una inattesa opposizione. Desiderava che don Clemente lo sapesse, che fosse preparato. Glielo diceva lei perché suo marito non poteva in quel momento lasciare i suoi ospiti. E si congedava, nel tempo stesso, da don Clemente, non avendo intenzione, lei donna e tanto ignorante, di assistere alla seduta. Forse lo avrebbe riveduto fra pochi giorni, al monastero. Non era il Padre foresterario, egli? Ella verrebbe forse fra tre o quattro giorni a Santa scolastica con una sua sorella ... A questo punto la signora Selva alzò involontariamente il lume per vedere meglio il suo interlocutore in viso, e subito se ne pentì come di un mancato rispetto a quell'anima certamente santa, certamente pari di virile e verginale bellezza all'alta, snella persona, al viso eretto abitualmente in atto quasi di franca modestia militare, tanto nobile nella fronte spaziosa, negli occhi cerulei chiari, spiranti a un punto dolcezza femminea e maschio fuoco. "Ci sarà pure" disse a bassa voce, vergognando di sé "un'amica intima di mia sorella, certa signora Dessalle." Don Clemente voltò la testa di scatto, e Maria n'ebbe il contraccolpo, tremò. Era dunque lui! Egli le rivolse subito il viso da capo. Era un po' acceso ma composto. "Scusi" diss'egli "questa signora, come si chiama?" "Chi? La Dessalle?" "Sì." "Si chiama Jeanne." "Che età può avere?" "Non lo so. Tra i trenta e i trentacinque anni direi." Adesso Maria non comprendeva più. Il Padre faceva queste domande con tanta indifferente calma! Ne arrischiò una essa pure. "Lei la conosce, Padre?" Don Clemente non rispose. Sopraggiungeva in quel momento il povero gottoso Dane, che con grande stento si era trascinato su dal cancello a braccio del professore Minucci. Erano amici di casa l'uno e l'altro; la signora Selva fece loro un'accoglienza gentile ma lievemente distratta. La seduta si tenne nello studiolo di Giovanni. Era così piccolo che il bollente don Farè, non potendosi tenere aperte le finestre per un dovuto riguardo ai reumi di Dane, vi si sentiva soffocare e lo disse con la sua rudezza lombarda. Gli altri finsero di non udire, meno di Leynì, che gli accennò silenziosamente di non insistere, e Giovanni che aperse l'uscio del corridoio e l'altro vicino che dal corridoio mette sulla terrazza. Dane sentì subito un odore di bosco umido e bisognò chiudere. Sullo scrittoio ardeva una vecchia lampada a petrolio. Il professore Minucci soffriva di occhi e chiese timidamente un paralume, che fu cercato, trovato e posto. Don Paolo si fremette dentro: "questa è un'infermeria!" e anche il suo amico di Leynì, a cui pareva che tante piccole cure si dovessero in quel momento dimenticare, ebbe uno spiacevole senso di freddo. Lo ebbe lo stesso Giovanni ma riflesso; sentì l'impressione che del Dane e forse anche del Minucci doveano riportare coloro, fra i presenti, che non li conoscevano. Egli li conosceva. Il Dane, con tutti i suoi reumi e i nervi e i sessantadue anni, possedeva, oltre al sapere grande, una indomita vigoria di spirito, un coraggio morale a tutta prova. Andrea Minucci, malgrado il biondo pelo rabbuffato, gli occhiali, certa rigidezza di movimenti, che gli davano un aspetto di erudito tedesco, era una giovane anima delle più ardenti, provata dalla Vita, non effervescente alla superficie come l'anima del prete lombardo, ma chiusa nel proprio fuoco, severa, probabilmente più forte. Giovanni prese la parola con animo franco. Ringraziò i presenti e scusò gli assenti, il frate e il prete, dolendosi però molto che mancassero. Disse che a ogni modo la loro adesione era sicura e insistette sul valore di quest'adesione. Soggiunse parlando più alto e più lento, tenendo gli occhi sull' Abate Marinier, che per ora stimava prudente non divulgare niente né della riunione, né delle deliberazioni che vi si prendessero; e pregò tutti a considerarsi legati al silenzio da un impegno di onore. Quindi espose l'idea che aveva concepita, lo scopo della riunione, un po' più diffusamente che non avesse fatto a cena. "E adesso" conchiuse "ciascuno dica quel che pensa." Seguì un silenzio profondo. L' Abate Marinier stava per parlare quando si alzò in piedi, stentatamente, Dane. Il suo pallido viso scarno, fine, pregno d'intelletto, era atteggiato a gravità solenne. "Io credo" diss'egli in un italiano esotico, rigido e tuttavia caldo di Vita "che trovandoci noi sul cominciamento di una comune azione religiosa, dobbiamo fare due cose; subito! Prima cosa! Dobbiamo raccogliere l'anima nostra in Dio, silenziosamente, ciascuno la sua, fino a sentire la presenza, in noi, di Dio stesso, il desiderio Suo stesso, nel nostro cuore, della Sua propria gloria. È questo che io faccio e prego fare con me." Ciò detto, il professore Dane s'incrociò le braccia sul petto, piegò il capo, chiuse gli occhi. Tutti si alzarono e, meno l' Abate Marinier, giunsero le mani. L' Abate se le raccolse al petto con un ampio gesto, abbracciando l'aria. Si poté udire un gemer dolce della lucerna, un passo al piano terreno. Marinier fu il primo a guardar sottecchi se gli altri pregavano ancora. Dane rialzò il capo e disse: "Amen." "Seconda cosa!" soggiunse. "Noi ci proponiamo di obbedire sempre l'autorità ecclesiastica legittima ..." Don Paolo Farè scattò. "Secondo!" Un vibrare di subiti pensamenti, un fremere sordo di parole non nate scosse ogni persona. Dane disse lentamente: "esercitata con le debite norme." Quel moto discese a un mormorio di consenso, posò. Dane riprese: "Ancora questo! Mai non sarà odio né su nostro labbro, né in nostro petto verso nessuno!" Don Paolo scattò da capo. "Odio no ma sdegno sì! Circumspiciens eos cum ira!" "Sì" disse don Clemente con la sua dolce voce velata "quando avremo edificato Cristo in noi, quando sentiremo una collera di puro amore." Don Paolo, che gli stava vicino, non rispose niente, lo guardò con le lagrime agli occhi, gli afferrò una mano per baciargliela. Il benedettino la ritrasse spaventato, tutto una fiamma in viso. "E non edificheremo Cristo in noi" disse Giovanni, commosso anche lui, felice di quel mistico soffio che gli pareva spirare nell'adunanza "se non purificheremo nell'amore le nostre idee di riforma; se, quando venisse il momento di operare, non ci purificheremo prima le mani e gli strumenti. Questo sdegno, questa ira che Lei, don Paolo, dice, è una grande potenza del Maligno sopra di noi, appunto perché ha un'apparenza e qualche volta, come nei Santi, una sostanza di bontà. In noi è quasi sempre vera inimicizia perché non sappiamo amare. La preghiera a me più cara dopo il Pater noster è la preghiera dell' Unità, la preghiera che ci unisce allo spirito di Cristo quando prega il Padre così: "ut et ipsi in nobis unum sint." Abbiamo sempre il desiderio e la speranza dell'unità in Dio con i fratelli che sono divisi da noi nelle idee. E adesso, dunque, dite se accettate la proposta di fondare l'associazione che io vi propongo. Prima discutete questo e poi, se la proposta è accettata, si vedrà in qual modo sia da porla in atto." Don Paolo esclamò impetuosamente che il principio nemmanco era da discutere e Minucci osservò in tono sommesso che lo scopo della riunione era stato conosciuto da tutti i presenti prima d'intervenire, che perciò, intervenendo, essi lo avevano implicitamente approvato, avevano implicitamente consentito di legarsi per un'azione comune, salvo appunto a decidere sui modi e le forme. L' Abate Marinier chiese di parlare. "Me ne rincresce veramente" diss'egli sorridendo, "ma per legarmi io non ho portato con me il menomo filo. Io sono pure di coloro che vedono molte cose andar male nella Chiesa e tuttavia, quando il signor Selva mi ha bene spiegato, prima a cena e ora qui, la sua idea che non avevo bene compresa dal mio amico professore Dane, mi si sono affacciate obbiezioni che credo serie." "Già" pensò Minucci che aveva udito parlare di certe ambizioni del Marinier "se vuoi far carriera non ti devi mettere con noi." E soggiunse forte: "Dica!" "In primo luogo, signori" cominciò il fine Abate "mi pare che abbiate principiato dalla seconda riunione. Dirò con un rispetto grande che voi mi parete bravissime persone, le quali si mettano festosamente a sedere per giuocare insieme alle carte, e non possono andare avanti perché uno ha le carte italiane, un altro le francesi, un altro le tedesche e non s'intendono. Io ho udito parlare di idee comuni, ma forse vi ha fra noi piuttosto una comunanza di idee negative. Noi siamo d'accordo, probabilmente, in questo, che la Chiesa Cattolica è venuta somigliando a un tempio antichissimo di grande semplicità originaria, di grande spiritualità, che il seicento, il settecento e l'ottocento hanno infarcito di pasticci. Forse i più maligni di voi diranno pure che vi si parla forte solamente una lingua morta, che le lingue vive appena vi si possono parlare piano e che il sole vi prende alle finestre un colore falso. Ma io non posso credere che siamo poi tutti d'accordo nella qualità e nella quantità dei rimedii. Prima dunque di iniziare questa frammassoneria cattolica, io credo che vi converrebbe intendervi circa le riforme. Dirò di più; io credo che anche quando fosse fra voi un pienissimo accordo nelle idee, io non vi consiglierei di legarvi con un vincolo sensibile come propone il signor Selva. La mia obbiezione è di una natura molto delicata. Voi pensate certo di poter navigare sicuri sott'acqua come pesci cauti, e non pensate che un occhio acuto di Sommo Pescatore o vice-Pescatore vi può scoprire benissimo e un buon colpo di fiocina cogliere. Ora io non consiglierei mai ai pesci più fini, più saporiti, più ricercati, di legarsi insieme. Voi capite cosa può succedere quando uno è colto e tirato su. E, voi lo sapete bene, il grande Pescatore di Galilea metteva i pesciolini nel suo vivaio, ma il grande Pescatore di Roma li frigge." "Questa è buona!" fece don Paolo con un sussulto di riso. Gli altri tacevano, gelidi. L' Abate continuò: "Non credo poi che con questa lega possiate far niente di buono. Le associazioni fanno progredire forse i salari, forse le industrie, forse i commerci; la scienza e la Verità, no. Le riforme si faranno un giorno, perché le idee sono più forti degli uomini e camminano; ma voi, armandole in guerra e facendole marciare per compagnie, le esporrete a un fuoco terribile che le arresterà per un pezzo. Sono gl'individui, i Messia, che fanno progredire la scienza e la religione. Vi è un Santo fra voi? Oppure sapete dove prenderlo? Prendetelo e mandatelo avanti. Parola ardente, grande carità, due o tre piccoli miracoli, suggeritegli quello che deve dire e il vostro Messia farà più che tutti voi insieme." L' Abate tacque e Giovanni prese la parola. "Forse il signor Abate" diss'egli "non ha potuto formarsi ancora un giusto concetto della unione che noi desideriamo. Noi ci siamo associati testé in una preghiera silenziosa e intensa, cercando di tenerci uniti nella Presenza Divina. Questo indica il carattere della nostra unione. Considerando i mali che affliggono la Chiesa, i quali, in sostanza, sono disaccordi del suo elemento mutabile umano con il suo elemento immutabile di Verità Divina, noi ci vogliamo unire in Dio Verità col desiderio ch' Egli tolga questi disaccordi; e vogliamo sentirci uniti. Una tale unione non ha bisogno di intelligenze circa idee particolari, benché alcuni di noi ne abbiamo alquante di comuni. Noi non pensiamo di promuovere un'azione collettiva né pubblica né privata per attuare una riforma o l'altra. Io sono abbastanza vecchio per ricordare i tempi del dominio austriaco. Se i patrioti lombardi e veneti si raccoglievano allora a parlare di politica, non era mica sempre per congiure, per atti di rivoluzione; era per comunicarsi notizie, per conoscersi, per tener viva la fiamma dell'idea. È questo che noi vogliamo fare nel campo religioso. Lo creda il signor Abate Marinier, quell'accordo negativo ch'egli diceva può bastare benissimo. Facciamo che si allarghi, che abbracci la maggioranza dei fedeli intelligenti, che salga nella gerarchia; vedrà che gli accordi positivi vi matureranno dentro occultamente come semi vitali dentro la spoglia caduca del frutto. Sì, basta un accordo negativo. Basta di sentire che la Chiesa di Cristo soffre, per unirci nell'amore di nostra Madre e almeno pregare per essa, noi e i nostri fratelli che, come noi, la sentono soffrire! Che ne dice, signor Abate?" L' Abate mormorò con un lievissimo sorriso: "C'est beau mais ce n'est pas la logique." Don Paolo scattò: "Ma che logica!" "Ah!" rispose il Marinier con una maligna faccia compunta. "Se rinunciate alla logica ...!" Don Paolo, tutto acceso, era per protestare ma il professore Dane gli accennò di chetarsi. "Noi non vogliamo rinunciare alla logica" diss'egli. "Solamente non è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di sentimento, di amore, di fede, come è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di geometria. Nella materia nostra il procedimento logico è occulto. Certo il mio caro amico Marinier, una delle menti acutissime che io conosco, non ha voluto dire questa cosa in risposta al mio caro amico Selva, che quando una persona molto amata da noi cade inferma, è necessario a noi di accordarci sulla cura che le faremo, prima di correre insieme al suo letto!" "Queste sono bellissime figure" disse l' Abate Marinier alquanto vivacemente. "Ma sapete bene che le similitudini non sono argomenti!" Don Clemente, che stava in piedi nell'angolo tra l'uscio del corridoio e la finestra, e il professore Minucci seduto presso a lui, fecero atto di parlare. Subito si arrestarono, volendo ciascuno dei due cedere la parola all'altro. Selva propose che prima parlasse il monaco. Tutti guardarono a quel nobile viso di arcangelo, arrossente ma eretto. Don Clemente esitò un poco, e quindi parlò con la sua voce soffice, velata di modestia: "Il signor Abate Marinier ha detto una cosa che io credo molto vera. Ha detto: ci vuole un Santo. Io pure lo credo. Chi sa? Io non dispero che possa già esistere." "Lui" mormorò don Paolo. "Ora" proseguì don Clemente "io vorrei dire al signor Abate Marinier: siamo in qualche maniera i profeti di questo Santo, di questo Messia, prepariamo le sue vie, che poi significa solo far sentire universalmente il bisogno di un rinnovamento di tutto che nella religione nostra è veste, non corpo della Verità, anche se questo rinnovamento sarà doloroso per certe coscienze. Ingemiscit et parturit! E far sentire tutto ciò stando sopra un terreno assolutamente cattolico, aspettando le nuove leggi dalle autorità vecchie, dimostrando però che se non si cambiano le vesti portate da tanto tempo, fra tante intemperie, nessuna persona civile si avvicinerà più a noi, e Dio non voglia che molti di noi le svestano senza permesso, per un disgusto insopportabile. Vorrei anche dire al signor Abate Marinier, se me lo permette: non abbiamo troppi timori umani!" Un mormorio caldo di assenso gli rispose e Minucci scattò tutto vibrante. Mentre parlava l' Abate Marinier, di Leynì e Selva lo avevano visto bollire accigliato; e appunto Giovanni, che conosceva il carattere fiero di quel mistico asceta, si era proposto, facendo parlare prima don Clemente, di dargli tempo a chetarsi. Egli scattò. La parola non gli veniva fluida, gli si rompeva per soverchio impeto, e rotta gli sgorgava dal labbro a ondate, precisa, però, e potente nel vigoroso accento romano: "Ecco! Non abbiamo timori umani! Noi vogliamo cose troppo grandi e le vogliamo troppo fortemente per avere timori umani! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivo, quanti sentiamo che il concetto della Via, della Verità e della Vita si ... si ... si ...- si dilata, ecco, si dilata nel nostro cuore, nella nostra mente! E rompe tante - come dirò? - vecchie fasce di formole che ci stringono, che ci soffocano, che soffocherebbero la Chiesa, se la Chiesa fosse mortale! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente, quanti abbiamo sete - sete, signor Abate Marinier! Sete! Sete! - che la nostra fede, se perde di estensione, cresca di intensità - a cento doppi, cresca, viva Dio! - e possa radiare fuori di noi, e possa, dico, purificare come il fuoco, prima il pensiero e poi l'azione cattolica - ecco. Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente quanti sentiamo ch'Egli prepara una lenta ma immensa trasformazione religiosa per opera di profeti e di Santi, la quale si opererà con sacrificio, con dolore, con divisione di cuori; quanti sentiamo che i profeti sono sacri al soffrire e che queste cose non ci vengono rivelate dalla carne o dal sangue ma dall' Iddio vivo nelle anime nostre! Comunicare, vogliamo, tutti, di ogni paese, ordinare la nostra azione. Massoneria Cattolica? Sì, Massoneria delle Catacombe. Lei teme, signor Abate? Teme che si taglino tante teste con un colpo solo? Io dirò: dov'è la scure per un tal colpo? Uno alla volta tutti si possono colpire: oggi il professore Dane, ad esempio, domani don Farè, posdomani qui il Padre; ma il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor Abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors'anche, quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell'acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa? - Ma poi mi perdoni, signor Abate, se io dico a Lei e ai prudenti come Lei: dov'è la vostra fede? Esiterete voi, per paura di Pietro, a servire Cristo? Uniamoci contro il fanatismo che lo ha crocifisso e che avvelena ora la Sua Chiesa e se ne avremo a soffrire, ringraziamone il Padre: "beati estis cum persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversum vos, mentientes, propter me." Don Paolo Farè saltò in piedi e abbracciò l'oratore. Di Leynì si affisava in lui con occhi accesi di entusiasmo. Dane, Selva, don Clemente, l'altro frate tacevano, imbarazzati, sentendo, specie i tre ecclesiastici, che Minucci era trascorso troppo, che le sue frasi sulla estensione e la intensità della fede, sul timore di Pietro, non erano misurate, che tutta l'intonazione del suo discorso era stata troppo bellicosa e non si accordava né col mistico esordio di Dane né con le parole usate da Selva a delineare il carattere dell'unione proposta. L' Abate di Ginevra non aveva levato un momento dal viso di Minucci, mentr'egli parlava, i suoi piccoli occhi brillanti. Guardò l'amplesso di don Paolo con un misto d'ironia e di pietà, poi si alzò in piedi: "Sta bene" diss'egli. "Io non so se il mio amico Dane in particolare divida le opinioni del Signore. Veramente ne dubito un poco. Il Signore ha nominato Pietro. Ecco, mi pare che qui ci si dispone a uscire dalla barca di Pietro sperando forse di camminare sopra le onde. Io dico umilmente che non ho fede abbastanza e andrei subito al fondo. Io intendo di restare nella barca e forse tutt'al più adoperarvi qualche piccolo remo secondo la mia intenzione, perché, come ha detto il Signore, sono molto pauroso. È dunque necessario che ci separiamo e non mi resta che a domandarvi perdono di essere venuto. Ho anche bisogno di una piccola passeggiata per la mia vile digestione.- "Caro amico" soggiunse rivolgendosi a Dane "ci ritroveremo all'Aniene." E mosse verso Selva con la mano stesa, per accomiatarsi. Subito gli furono tutti attorno, meno don Paolo e Minucci, per non lasciarlo partire. Egli insisteva tranquillo, arrestava ora con un gelido sorrisetto, ora con una parolina graziosamente sarcastica, ora con un gesto elegante gli assalitori troppo veementi. Di Leynì si voltò a Farè, gli accennò di unirsi agli altri; ma il focoso don Paolo gli rispose con una violenta spallata, con una smorfia di fastidio. Intanto dal gruppo che attorniava il Marinier una voce toscana si alzò sopra le altre: "Stia bono! Non si è ancora deciso niente! Aspetti! Io non ho ancora detto la mia!" Era il Padre Salvati, scolopio, che aveva parlato; un vecchio dai capelli candidi, dal volto rubizzo, dagli occhi vivaci. "Non si è ancora deciso niente!" ripeté. "Io, per esempio, per l'unione ci sto ma io vorrei una cosa e i discorsi che si son fatti me ne arieggiano un'altra. Progresso intellettuale, sta bene; rinnovamento delle formole della fede secondo vogliono i tempi, sta bene; riforma cattolica, benissimo! Io sto con Raffaello Lambruschini, che era un grand'omo; io sto con i Pensieri di un solitario ma per il signor professore Minucci il carattere della riforma mi pare che avrebbe a essere sopra tutto intellettuale e questo, scusate ..." Qui Dane alzò la sua bianca, piccola mano di dama. "Permetta, Padre" diss'egli. "Il mio caro amico Marinier vede che si ritorna a discutere. Io lo prego di rimettersi a sedere." L' Abate levò un poco le ciglia in su, mise un sospiro scettico e obbedì. Gli altri sedettero pure, soddisfatti. Non si fidavano della discrezione dell' Abate, sarebbe stato un grosso guaio ch'egli fosse partito ab irato . Il Padre Salvati riprese a parlare. Egli era contrario a che s'imprimesse al movimento riformista un carattere sopra tutto intellettuale, non tanto per il pericolo di Roma quanto per il pericolo di turbare nella loro fede semplice una quantità immensa di anime tranquille. Voleva che l' Unione si proponesse anzi tutto una grande opera morale, il richiamo dei credenti alla pratica della parola evangelica. Illuminare i cuori era secondo lui il primo dovere di uomini, che aspiravano a illuminare gl'intelletti. Evidentemente non importava tanto di trasformare secondo un ossequio razionale la fede cattolica nella Bibbia, quanto di rendere effettiva la fede cattolica nella parola di Cristo. Bisognava dimostrare che generalmente dai fedeli si onora Cristo con le labbra ma che il cuore del popolo è lontano da lui; dimostrare quanto posto sia lasciato agli egoismi da certe pietà fervorose che credono santificarsi ... Qui don Paolo e Minucci brontolarono: "Questo non c'entra." Il Salvati esclamò che c'entrava benissimo e che avessero la bontà di aspettare. Continuò a dire di un pervertimento generale nel concetto del dovere cristiano intorno alla ricerca e all'uso della ricchezza, pervertimento difficilissimo a raddrizzare perché indurato da secoli e secoli nelle coscienze cristiane con la piena complicità del clero. "Il tempo, signori" esclamò il vecchio frate "domanda un'azione francescana. Ora io non ne vedo segno. Vedo antichi Ordini religiosi che non hanno più forza di agire sulla Società. Vedo una Democrazia Cristiana amministrativa e politica che non ha lo spirito di S. Francesco, che non ama la santa Povertà. Vedo una società di studi francescani; trastulli intellettuali! Io intenderei che noi si provvedesse all'azione francescana. Dico se si vuole una riforma cattolica!" "Ma come?" domandò Farè. Minucci brontolò seccato: "Non è questo." Selva sentiva disgregarsi le anime che si erano unite in un primo slancio. Sentiva che Dane, Minucci, probabilmente anche Farè, intendevano, com'egli stesso intendeva, iniziare un movimento intellettuale e che quella divampata francescana era venuta fuor di tempo e fuor di luogo. Era tanto più inopportuna quanto più calda di Verità viva. Perché molta Verità c'era senza dubbio nelle parole del Padre Salvati, egli lo riconosceva, egli che si era più volte dibattuto nel pensiero il dubbio se non convenisse promovere, per il bene della Chiesa un'azione piuttosto morale che intellettuale. Ma egli non sentiva in sé le attitudini all'apostolato francescano e non le vedeva negli amici suoi, neppure nel più ardente, Luigi Minucci, un solitario, un asceta schivo della folla come lui, Selva. Le ragioni del Salvati valevano a guastare e non a edificare. Giovanni sentiva segrete ironie andare al Marinier e anche al Dane, di cui si conoscevano i gusti poco francescani, il palato difficile, i nervi delicati, gli affetti dati a cagnolini e a pappagalli. Se si voleva riescire a qualche cosa, conveniva correre al riparo. "Mi perdoni" diss'egli "il carissimo Padre Salvati se io gli osservo che il suo discorso, tanto caldo di spirito cristiano, è intempestivo. Mi pare ch'egli consenta con noi nel desiderio di una riforma cattolica. Stasera non è davanti a noi che una proposta; quella di promuovere una specie di Lega fra quanti hanno lo stesso desiderio. Ora decidiamo questo!" Lo scolopio non si arrese. Non poteva comprendere una Lega inattiva, e un'azione secondo le idee degli intellettuali non gli piaceva. L' Abate ginevrino esclamò: "Je l'avais bien dit!" E si alzò per andarsene davvero, stavolta. Selva non lo permise, propose di sciogliere la seduta, pensando di richiamare l'indomani o più tardi il professore Dane, Minucci, di Leynì, Farè. Con Salvati non c'era niente a fare, ed era meglio lasciar partire Marinier dandogli a credere che tutto fosse andato a monte. Minucci indovinò il suo pensiero e tacque, l'inconsiderato don Paolo non capì nulla e strepitò che si doveva deliberare, votare subito. Selva, e per ossequio a Selva, di Leynì, lo fecero aspettare. Fremeva, però; fremeva contro lo svizzero, sopra tutto. Dane e don Clemente erano poco soddisfatti, quale per una ragione, quale per un'altra. Dane era molto irritato in cuor suo contro Marinier e si doleva di averlo portato con sé; don Clemente avrebbe voluto dire che le parole del Padre Salvati erano state molto belle e sante e non intempestive perché anzi era bene che ciascuno lavorasse giusta la vocazione propria, gl'intellettuali per una via, i francescani per un'altra. Colui che chiama provvederebbe a coordinare l'azione dei chiamati; le diverse vocazioni potevano benissimo stare insieme nella Lega. Avrebbe voluto dire così ma non fu pronto, lasciò passare il momento, anche per verecondia intellettuale, per paura di non dir bene, per un riguardo verso Selva, che desiderava evidentemente di troncare. E fu troncato, tutti si alzarono, uscirono sulla terrazzina, meno Dane e Giovanni. L' Abate Marinier intendeva recarsi l'indomani a Santa Scolastica e al Sacro Speco; poi, forse, ritornare a Roma per Olevano e Palestrina, una via nuova per lui. Chi gliela poteva indicare di lì? Gliela indicò don Clemente. Era la stessa che aveva percorso venendo da Subiaco. Passava lì sotto, valicava l' Aniene poco più a sinistra, sul ponte di S. Mauro, volgeva a destra, saliva verso i monti Affilani, là di fronte. L'aria veniva, odorata di boschi, dalla gola stretta ond'esce il fiume sonoro sotto i Conventi. Il cielo era coperto, salvo sul Francolano. Là sopra il gran monte nero tremolavano due stelle. Minucci le mostrò a di Leynì. "Guardi" diss'egli "quelle due stelline come sfavillano! Dante le direbbe le fiammelle di San Benedetto e di Santa Scolastica che sfavillano vedendo nell'ombra un'anima simile ad esse." "Voi parlate di Santi?" fece Marinier, accostandosi. "Io ho domandato poco fa se avete un Santo e vi ho augurato di possederne uno. Queste sono figure oratorie, perché so bene che non lo avete. Se lo aveste, il vostro Santo sarebbe subito ammonito dalla questura o spedito in China dalla Chiesa." "Ebbene?" rispose di Leynì "E se fosse ammonito?" "Se fosse ammonito oggi, sarebbe imprigionato domani." "Ebbene?" replicò il giovane. "E S. Paolo, signor Abate?" "Eh, mio caro, S. Paolo, S. Paolo ...!" Con questa reticenza l' Abate Marinier intendeva probabilmente dire che S. Paolo era S. Paolo. L'altro pensò invece che Marinier era Marinier. Don Clemente osservò che neppure tutti i Santi si potevano mandare in China. Perché non sarebbe laico il futuro Santo? "Questo lo credo" esclamò il Padre Salvati. Invece l'entusiasta don Faré si teneva certo che sarebbe Sommo Pontefice. L' Abate rise. "Idea semplice ed eccellente" diss'egli. "Ma io sento la carrozza che viene a pigliarci, Dane, me e chi vuol venire con noi a Subiaco; per cui vado a congedarmi dal signor Selva." Si chinò dal parapetto a cogliere una frondetta dell'olivo piantato nel terrazzo del piano inferiore. "Dovrò presentargli questo" disse. "E anche a Loro signori" soggiunse con un gesto grazioso, sorridendo. E uscì della terrazza. Si udì infatti, giù nella strada, il rumore di un legno a due cavalli che, venendo da Subiaco, girò lo scoglio sul quale la villetta è assisa e si fermò davanti al cancello. Pochi momenti dopo vennero nella terrazza Maria Selva e Dane col suo gran pastrano e il grandissimo cappello nero a cencio. Seguivano Giovanni e l' Abate. "Chi viene con noi?" disse Dane. Nessuno parlò. S'intesero, sul rumore fondo dell' Aniene, voci e passi che salivano dal cancello verso la villa. Minucci che stava sull'angolo di levante della terrazza, guardò e disse: "Signore. Due Signore." Maria trasalì. "Due Signore?" diss'ella. Balzò al parapetto, vide due figure chiare che salivano lentamente, facevano allora la prima svolta del ripido viottolo. Non era possibile distinguerne le forme, erano ancora troppo giù e faceva troppo scuro. Giovanni osservò che probabilmente si trattava di persone dirette al primo piano, a visitare i padroni di casa. Il professore Dane sorrise misteriosamente. "Potrebbero venire anche al secondo" diss'egli. Maria esclamò: "Lei sa qualche cosa!" e gridò abbasso: "Noemi! est-ce vous?" La voce limpida di Noemi rispose: "Oui, c'est nous!" Si udì un'altra voce femminile dirle forte: "Che bambina! Dovevi tacere!" Maria mise un piccolo grido di gioia e disparve, corse giù per la scala a chiocciola. "Lei sapeva, professore Dane?" fece Selva. Sì, Dane sapeva, aveva veduto a Roma la signora Dessalle, conosciuta da lui nella sua villa del Veneto, nella villa degli affreschi del Tiepolo. Suo fratello, il signor Carlino Dessalle, era rimasto a Firenze. Lei e la signorina d' Arxel volevano fare una sorpresa, gli avevano proibito di parlare. Il nome Dessalle richiamò alla mente di Selva, in un baleno, quello cui subito non aveva pensato, la presenza di don Clemente, il dubbio che fosse lui l'amante scomparso di quella signora, la necessità di evitare un incontro che poteva essere terribile per l'una e per l'altro. Del colloquio fra sua moglie e il Padre egli non sapeva, naturalmente. Intanto si udì Maria scender di corsa il sentiero, poi suonare le esclamazioni e i saluti festosi. Dane, inquieto per la troppo lunga fermata sulla terrazza, propose di scendere. Quelle Signore si erano certo servite della carrozza che veniva a prender lui! Anche don Clemente pareva molto inquieto. Selva si affrettò, dissimulando la commozione propria, di prenderlo a braccetto. "Se Lei non vuole imbarazzarsi con Signore" diss'egli "venga subito con me che La faccio passare dal Casino, per il sentiero alto." Il Padre parve contentissimo, i due partirono in gran fretta, il benedettino senza nemmeno salutare. "È anche tardi" diss'egli "Ho detto all' Abate, chiedendogli il permesso, che sarei ritornato alle nove e mezzo." Scesero a precipizio la scala a chiocciola; ma quando uscirono sul piazzaletto delle robinie, Jeanne Dessalle vi metteva il piede dall'altro capo con Maria e Noemi. Non era tanto buio, sotto le robinie, che Maria non potesse riconoscere suo marito e don Clemente nelle due ombre che uscivano di casa sua. Ella, che a fianco di Jeanne precedeva sua sorella, prontamente piegò e fece piegare a destra la sua vicina, verso il piccolo casino ch'è un'appendice della villa, voltando le spalle a questa. Dal canto suo, Selva, vedendo l'atto di sua moglie, prontamente sussurrò al Padre: "Scenda diritto, subito!" Ma non valse. Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra, si fermò esclamando: "Dove andate?" e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l'ortolano che lo attendeva nell'angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa s'incontra col monte. Chiamò "Benedetto!" e si volse a Selva. "Se Lei volesse mostrargli il campicello?" Giovanni rispose: "A quest'ora?" mentre sua moglie diceva piano a Noemi: "C'è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo qui al casino." Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero. "Perché?" disse. "Sono terribili?" E rallentò il passo. Invece Noemi che aveva afferrato l'intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise troppo zelo a secondarla, abbracciò alla Vita le due compagne, le spinse verso il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di botto dicendo: "che fai?" vide Selva che veniva alla loro volta e che subito salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale, seguito dall'ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la discesa. Noemi, che al saluto di suo cognato si era pure voltata, corse ad abbracciarlo. Intanto Selva si compiacque di vedere che don Clemente era sfuggito all'incontro. Selva, scioltosi dall'abbraccio di Noemi, stese la mano a Jeanne, che non se ne avvide, mormorò, trasognata, qualche incomprensibile parola di saluto. In quel momento uscirono dalla villa Dane, Marinier, Faré, di Leynì, il Padre Salvati. I due Selva mossero loro incontro, lasciando Noemi e la Dessalle ad aspettare in disparte. I saluti di commiato furono abbastanza lunghi. Dane desiderava salutare anche la Dessalle. Maria non la scorse più dove l'aveva lasciata, suppose che lei e Noemi fossero entrate in casa girando alle loro spalle, s'incaricò dei saluti del professore. Finalmente quando i cinque discesero, accompagnati da Giovanni, si udì chiamare da Noemi: "Maria!" Un accento particolare nella voce di sua sorella le disse che era accaduto qualche cosa. Accorse; la signora Dessalle, seduta sopra un fascio di legna, nell'angolo lasciato cinque minuti prima dall'ortolano di Santa Scolastica, ripeteva con voce debole: "niente, niente, niente, adesso entriamo, adesso entriamo."Noemi, tutta palpitante, raccontò che l'amica si era sentita mancare a un tratto mentre quei signori discorrevano e che a lei era appena riuscito di trarla fino a quel fascio di legna. "Andiamo, andiamo" ripeté Jeanne e si sforzò di alzarsi, si trascinò, sorretta dalle altre due, fino all'uscio della villa, sedette sullo scalino, aspettando un po' d'acqua che poi assaggiò appena. Altro non volle e presto si rimise tanto da poter salire, adagio adagio, le scale. Si scusava ad ogni sosta e sorrideva; ma la fantesca che saliva innanzi col lume, a ritroso, venne quasi meno ella stessa vedendo quegli occhi smarriti, quelle labbra bianche, quel terribile pallore. La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo ancora, ch'erano affetti di anemia e che c'era avvezza. Noemi e Maria si parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole "a letto" e assentì del capo con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la migliore camera del piccolo alloggio, la camera d'angolo opposta allo studio di Giovanni, dall'altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il Padre era anche passato quasi di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una statua. Anche il Padre, quando aveva udito sulla terrazza ch'era arrivata la signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente, compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera donna, dell'impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo tutto, della notte che passerebbero l'uno e l'altra; pensosi di quel che accadrebbe l'indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei. "Per queste cose è bene di pregare, non è vero?" disse Maria. "Sì, cara, è bene. Preghiamo ch'ella sappia donare il suo amore e il suo dolore a Dio" rispose suo marito. Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo, pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre. "Povera creatura!" disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell'amore. Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l'uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l'effetto vedutone, che quell'ecclesiastico passato in fretta davanti all'amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre. "È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

C'era da aspettare alquanto perché alle nove o poco dopo tutte le chiavi del monastero si portano all' Abate. "Dunque mi permette" chiese Benedetto "di restare fuori?" Le altre volte che il Maestro glielo aveva permesso, egli era salito a passar la notte in preghiera sui greppi nudi del Colle Lungo, imminenti al monastero, o su quelli del Taleo o sulla costa petrosa che si taglia movendo dall'oratorio di Santa Crocella al bosco del Sacro Speco. Il Maestro esitò un poco, non ci aveva più pensato. E il discepolo gli era parso quel giorno più smunto, più esangue del consueto; temeva per la sua salute alquanto logora dalle fatiche del lavoro campestre, dalle penitenze, dal vivere disagiato. Glielo disse. "Non pensi al mio corpo" supplicò il giovane, umile e ardente. "Il mio corpo è infinitamente lontano da me! Abbia solo paura che io non faccia il possibile per conoscere la Volontà Divina!" Soggiunse che avrebbe pregato anche per aver lume circa questo incontro e che mai aveva sentito Iddio come pregando la notte sui monti. Il Maestro gli prese il capo a due mani, lo baciò in fronte. "Va" diss'egli. "E Lei pregherà per me?" "Sì, nunc et semper. " Passi nel corridoio. Una chiave gira nella toppa. Benedetto si dilegua come un'ombra. Il buon vecchio fra Antonio, portinaio del monastero, aperse, non mostrò di essersi atteso a vedere anche Benedetto, e con quel rispetto dignitoso in cui si confondevano la sua umiltà d'inferiore e la sua coscienza di onesto famigliare antico, disse a don Clemente che il Padre Abate lo attendeva nel suo alloggio. Don Clemente salì con un lanternino al corridoio grande dove mettevano l'alloggio dell' Abate e, poco discosto, la sua cella stessa. L' Abate, Padre Omobono Ravasio da Bergamo, lo stava aspettando in un salottino male rischiarato da una povera lucernina a petrolio. Il salottino, nella sua severa modestia ecclesiastica, non aveva di singolare che una tela del Morone, bel ritratto d'uomo, due piccole tavole con teste d'angeli di maniera luinesca, un piano a coda, carico di musica. L' Abate, appassionato per i quadri, la musica e il tabacco da fiuto, dedicava a Mozart e a Haydn gran parte del tempo non largo che gli concedevano i suoi doveri religiosi e le cure del governo. Era intelligente, alquanto bizzarro, ricco di una cultura letteraria, filosofica e religiosa ferma sdegnosamente sul 1850. Piccolo, canuto, aveva una fisonomia arguta. Certi suoi modi orobii, certe familiarità ruvide avevano meravigliato i monaci, avvezzi alle maniere squisitamente signorili del suo predecessore, nobile romano. Veniva da Parma ed era entrato in carica da soli tre giorni. Don Clemente gli s'inginocchiò davanti, gli baciò la mano. "Che mode avete voialtri a Subiaco?" disse l' Abate. "Fate venire le dieci alle undici?" Don Clemente si scusò. Aveva tardato per un dovere di carità. L' Abate lo fece sedere. "Figlio mio" diss'egli. "Voi soffrite il sonno?" Don Clemente sorrise, non rispose. "Ebbene" riprese l' Abate "voi ne avete buttato via un'ora e adesso io ho le mie ragioni di prendervene un altro poco. Vi devo parlare di due cose. Mi avete chiesto il permesso di recarvi a visitare certi signori Selva. Ci siete andato? Sì? Potete dirmi di essere tranquillo nella vostra coscienza?" Don Clemente fu pronto a rispondere con un lieve gesto di sorpresa: "Eh, sì!" "bene bene bene" fece l' Abate; e fiutò, contento, una grossa presa di tabacco. "Io non conosco questi signori Selva, ma c'è a Roma chi li conosce o crede di conoscerli. Non è uno scrittore, il signor Selva? Non ha scritto di religione? Mi figuro che sarà un rosminiano, a giudicare dalla gente che ce l'ha su con lui; gente indegna di allacciar le scarpe a Rosmini, ma intendiamoci! Rosminiani sicuri sono quelli di Domodossola e non quelli che hanno moglie, eh? Dunque stasera, dopo cena, ho ricevuto una lettera da Roma. Mi scrivono - un pezzo grosso, capite, - che appunto stasera si doveva tenere in casa di questo falso cattolico signor Selva un conciliabolo di altri insetti malefici come lui, e che probabilmente vi ci sareste recato anche voi, e che io dovevo impedirlo. Non so cosa avrei fatto, perché se parla il Santo Padre obbedisco, se non parla il Santo Padre rifletto; ma per vostra fortuna voi eravate già fuori. Del resto c'è della brava gente che scoverà qualche eretico anche in Paradiso. Adesso voi mi dite che la vostra coscienza è tranquilla. Dunque non devo credere alla lettera?" Don Clemente rispose che certamente a casa Selva non ci erano venuti né eretici, né scismatici. Vi si era parlato della Chiesa, dei suoi mali, di possibili rimedî, ma come lo stesso Padre Abate avrebbe potuto parlarne. "No, figlio mio" rispose l' Abate. "Ai mali della Chiesa e ai possibili rimedî non ci ho a pensar io. Ossia, ci posso pensare ma non ho a parlarne che a Dio perché ne parli poi Lui a chi tocca. E così fate anche voi. Tenete a mente, figlio mio! I mali ci sono e i rimedî ci saranno, ma questi rimedî, chi sa? possono essere veleni e bisogna lasciarli adoperare al Grande Medico. Noi, preghiamo. Se non si credesse alla comunione dei Santi, cosa si starebbe a fare nei monasteri? E in quella casa, figlio mio, per la nostra pace, non ci ritornare! Non me lo chiedere più!" Passando paternamente così dal voi al tu, l' Abate posò una mano affettuosa sulla spalla del suo monaco afflitto di non poter rivedere quei buoni amici e anche particolarmente di non poter l'indomani mattina conferire col signor Giovanni, avvertirlo del pericolo che correva Benedetto, avvisare insieme al riparo. "Sono cristiani aurei" diss'egli con voce sommessa, dolente. "Lo credo" rispose l' Abate "Credo che saranno migliori assai di questi zelanti che scrivono di queste lettere. Vedi che non faccio complimenti. Tu sei di Brescia, eh? bene, io sono di Bergamo. Noi si direbbe che sono piaghe. Sono infatti piaghe della Chiesa. Io risponderò a tôno. I miei monaci non prendono parte a congreghe di eretici. Ma tu a, casa Selva, non ci ritornerai." Don Clemente baciò rassegnato la mano del paterno vecchio. "Adesso all'altro argomento!" disse costui. "Apprendo che qui nell' Ospizio dei pellegrini, dove di regola non ci dovrebbe abitare stabilmente che il vaccaro, ci sta da tre anni un giovine che ci avete collocato voi; oh, col permesso del mio predecessore, s'intende! Un giovine che vi è molto legato, che voi dirigete spiritualmente, che fate anche studiare in biblioteca. Vero che lavora nell'orto, vero che mostra una pietà grande, ch'è di edificazione a tutti, ma però, siccome non pare che abbia intenzione di farsi religioso, questo suo soggiorno nell' Ospizio nostro dove occupa un posto da tre anni, è poco regolare. Cosa me ne potete dire? Sentiamo." Don Clemente sapeva che alcuni suoi confratelli, e non i più vecchi ma proprio i più giovani, non approvavano l'ospitalità concessa dall' Abate defunto a Benedetto. Neppure andava loro troppo a sangue che don Clemente e lui fossero tanto legati. Qualche dispiacere per questo, don Clemente l'aveva già avuto. Comprese che quei tali non avevano perduto tempo, che stavano già lavorando il nuovo Abate. Il suo bel viso si colorò di rossore. Egli non rispose subito, volendo prima spegnersi dentro il suo corruccio con un atto di perdono mentale; poi disse ch'era suo dovere e suo desiderio d'informarlo. "Questo giovine" diss'egli "è un tale Piero Maironi, di Brescia. Ell'avrà udito nominare la famiglia. Suo Padre, don Franco Maironi, sposò una donna senza nobiltà né ricchezza. Egli allora non aveva più i genitori, viveva colla nonna paterna, la marchesa Maironi, donna imperiosa, orgogliosa." "Oh!" esclamò l' Abate. "L'ho conosciuta! Uno spavento! Mi ricordo! A Brescia la chiamavano la marchesa Haynau! Aveva dodici gatti! Una gran parrucca nera! Mi ricordo! "Io non l'ho conosciuta che per fama" ripigliò don Clemente, sorridendo, mentre l' Abate si faceva passare con una buona presa di tabacco e un mugolio gutturale il cattivo sapore di quell'antipatica memoria. "La nonna, dunque, non volle assolutamente saperne di questo matrimonio disuguale. Gli sposi furono ospitati da uno zio della sposa, ella pure orfana. Lui, don Franco, si fece soldato nel 1859 e morì di ferite. Sua moglie morì poco dopo. Il figliuolo venne raccolto dalla nonna Maironi e, morta lei, da certi Scremin, suoi parenti veneti. La nonna lo lasciò ricchissimo. Sposò una figlia di questi Scremin, che disgraziatamente perdette la ragione poco dopo le nozze, credo. Lui ne fu afflittissimo, condusse Vita ritirata fino a che s'incontrò, per sua sventura, in una signora divisa dal marito. Allora venne un periodo di traviamento; traviamento di costume e traviamento di fede. Quando, pare un miracolo del Signore!, ecco che sua moglie viene a morire e nel morire ricupera la ragione, fa venire il marito, gli parla, muore come una Santa. Questa morte gli volta il cuore verso Dio, egli lascia la signora, lascia le ricchezze, lascia tutto, fugge di notte da casa sua senza dire a nessuno dove va. Siccome aveva conosciuto me a Brescia una volta che ci andai per una malattia di mio Padre, e sapeva ch'ero a Subiaco, siccome anche aveva caro il nostro Ordine e certe memorie della nostra povera Praglia, è capitato qua. Mi ha raccontato la sua storia, mi ha supplicato di aiutarlo a condurre una Vita di penitenza. Credetti che aspirasse a entrare nell' Ordine. Egli mi disse invece di non sentirsene degno, di non aver potuto ancora conoscere, circa questo punto, la Divina Volontà, di volere intanto far penitenza, lavorare colle proprie mani, guadagnarsi il pane, un poverissimo pane. Mi disse altre cose, mi parlò di certi fatti sovrannaturali che gli sarebbero intervenuti. Io ne parlai subito al Padre Abate di allora e si combinò così: alloggiarlo nell' Ospizio, farlo lavorare nella chiusura come aiuto all'ortolano e fornirgli il vitto magrissimo ch'egli desiderava. In tre anni non ha preso né vino, né caffè, né latte, né un uovo. Pane, polenta, frutta, erbaggi, olio, acqua pura: non ha preso altro. La sua Vita è stata una Vita di Santo, ciascuno glielo può dire. E si crede il più gran peccatore del mondo!" "Hm!" fece l' Abate, pensoso. "Hm! Capisco! Ma perché non entra nell' Ordine? Altra cosa: so che ha passato qualche notte fuori." Don Clemente sentì ancora corrersi un fuoco al viso. "In preghiera" diss'egli. "Sarà così ma forse non tutti crederanno. Sapete cosa dice Dante: "Sempre a quel ch'ha faccia di menzogna Dee l'uom chiuder la bocca quant'ei puote, Però che senza colpa fa vergogna." "Oh!" esclamò don Clemente arrossendo, nella sua dignità vereconda, per coloro che potessero aver concepito un vile sospetto. "Scusate, figlio mio" disse l' Abate. "Non si accusa. Si biasimano le apparenze. Non riscaldatevi. È meglio pregare in casa. E questi fatti soprannaturali, dite su, cosa sono?" Don Clemente rispose che erano state visioni, voci udite nell'aria. "Hm! Hm!" fece ancora l' Abate con un complicato gioco di rughe, di labbra e di sopracciglia, come se avesse inghiottito un sorso di aceto. "Avete detto che si chiama? ... Il nome proprio?" "Piero, ma quando è venuto ha desiderato separarsi da questo nome, mi ha pregato d'imporgliene un altro. Ho scelto Benedetto; mi parve il più appropriato." L' Abate, a questo punto, espresse la volontà di vedere il signor Benedetto e ordinò a don Clemente di mandarglielo l'indomani mattina, dopo il coro. Allora don Clemente si turbò un poco, dovette confessare che non poteva prometterlo assolutamente perché appunto anche in quella notte il giovine era uscito a pregare ed egli non sapeva con certezza a quale ora sarebbe rientrato. L' Abate s'inquietò molto, borbottò una sequela di rimbrotti e di riflessioni acide. Don Clemente si decise perciò a raccontare l'incontro colla signora Dessalle, l'antica amante, quel ch'era poi seguito per via, la sua idea di mandare Benedetto a Jenne e di farvelo rimanere fino a che la signora non fosse partita. Il superiore lo ascoltò a ciglia aggrottate, con un continuo brontolîo sordo. "Qui" esclamò finalmente "si torna a san Benedetto! Si torna alle insidie delle peccatrici! Vada vada vada, il nostro Benedetto! A questo Jenne e anche più in là! E non mi dicevate questo? Vi pareva poco? Vi pareva niente che si ordissero intorno al monastero delle trame di questa fatta? Andate, adesso; andate pure!" Don Clemente fu per rispondere che non sapeva se si ordissero trame, se la signora avesse riconosciuto o no il suo discepolo, che a ogni modo egli aveva già espresso a Benedetto il proposito di allontanarlo; ma impose silenzio a questo inutile sfogo di amor proprio, e prese, ginocchioni, congedo. Ritolto il lanternino che aveva lasciato nel corridoio, non entrò nella sua cella. Percorse lento lento il corridoio sino al fondo, scese lento lento, non senza qualche sosta, per una scaletta a chiocciola, nell'altro corridoio strettissimo che mette al Capitolo. Il pensiero del diletto discepolo orante nella notte sul monte, l'aspettazione delle risoluzioni che prenderebbe dopo avere comunicato con Dio, le coperte ostilità dei fratelli, i cipigli e i dubbî dell' Abate, il timore ch'egli ponesse Benedetto nella necessità di scegliere fra i voti monastici e il bando dal convento, gli accumulavano sul cuore un peso spossante. Il fervore mistico di Benedetto, quella sua grande inconscia umiltà, i suoi progressi nella intelligenza della Fede giusta le idee che originavano dal signor Giovanni, certi lumi nuovi che gli scaturivano, conversando, dal pensiero, la forza crescente del mutuo affetto, gli avevano fatto concepire speranze di una prossima rivelazione, in quel naufrago del mondo, della Divina Grazia, della Divina Verità, della Divina Potenza, per il bene delle anime. Lo avevano detto, alla riunione di casa Selva: ci vorrebbe un Santo. Lo aveva detto per il primo quell' Abate svizzero. Secondo altri era desiderabile un Santo laico. E questo era pure il suo pensiero, e gli pareva provvidenziale che a Benedetto ripugnasse la Vita monastica. Quasi quasi gli parve provvidenziale anche la venuta della signora, che lo costringeva a lasciare il convento. Ma che gli succedeva ora sul monte? Che gli diceva Iddio nel cuore? E se ... Questo balenare di un se nuovo, inatteso, formidabile, arrestò il meditabondo nel suo lento cammino. "Magister adest et vocat te." Forse lo stesso Maestro Divino chiamava Benedetto a servirgli sotto le vesti del monaco. Egli cessò, sbigottito, di pensare, e dal Capitolo, posato il lanternino, entrò nella Chiesa, mosse diritto alla cappella del Sacramento. Con quella dignità che nessuna tempesta interna poteva togliere alle movenze signorili della persona, alla pura bellezza del viso, si compose sull'inginocchiatoio nel mezzo della cappella, fra le quattro colonne, sotto la lampada; e alzò gli occhi al Tabernacolo. Il Maestro della Via, della Verità e della Vita, il Diletto dell'anima, era là e dormiva come la procellosa notte sul mare di Genezareth, fra Gadara e la Galilea, nella barca che altre barche travagliate dai flutti seguivano per le tenebre sonore. Era là e pregava come un'altra notte, solo, sul monte. Era là e diceva con la sua dolce voce eterna: - venite a me, voi dolenti; voi cui la Vita è grave, tutti venite a me. - Era là e parlava, il Vivente: credete in me che sono con Voi, ristoro vostro e pace, io l' Umile, figlio del Potente, io il Mite, figlio del Terribile, io lavoratore dei cuori per il regno della giustizia, per la futura unità di voi tutti meco nel Padre mio. Era là, il Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l'invito ineffabile: vieni, apriti, abbandonati a me. E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato neppure a sé stesso. Sentiva nell'antico monastero, tutto, tranne Cristo nel Tabernacolo, morire. Come cellula dell'organismo ecclesiastico, elaboratrice di calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali, simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le correnti dell'aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando alle vitali energie della natura, nell'atto stesso che magnificavano Iddio col canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco a poco, a sentire così della Vita claustrale nelle sue forme presenti, pure essendo convinto che ha indestruttibili radici nell'anima umana. Ma forse ora per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un operaio straordinario; non un soldato dell'esercito regolare, impedito dall'uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo? Ah non era egli già quasi sull'orlo di un peccato mortale? Non presumeva già egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato sull'inginocchiatoio, s'immerse nell' Onnipotente, anelando senza parole al perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da quel momento qualunque fosse. Nell'alzarsi con un naturale defluire dell'onda mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all'altare ma non più fissi nel Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di Benedetto. La mediocre pala di quell'altare rappresenta la martire Anatolia che offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto; per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d'incolpare sé, don Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del Padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a capo basso la Chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li avessero ammazzati, né l'uno né l'altra? E se Audax avesse avuto moglie? E queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e, sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo. Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente dell' Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre, sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di Santo dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d'estate al falciatore in deserti montani una fonte. Ma perché le pietre durassero vive, un continuo fiume di Vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti, contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente accolti in Chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl'insegnavano a discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l'avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. "Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus." E si avviò alla sua cella. Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all'uscio dell' Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole "fiat voluntas tua" che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge Divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l' Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità? La sua cella era l'ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall' Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l' Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch'egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro. Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all'altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l'oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell' Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l' Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell'ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un'altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell' Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d'animo. Allora sorse in lui l'idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un'assenza di amore, un'assenza di dolore, un tedio, un peso, l'aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco ancora l'automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne chetando. "Dio mio, Dio mio" mormorò, inorridito del pericolo corso, dell'abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l'anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l'ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della Chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell'obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell'anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell'Imitazione: "Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit." Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell'ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d'erba che le mani giunte odoravano ancora. L'aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull'erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch'egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell'anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores. Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l'obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell' Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl'indici verso Castel Sant'Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un'ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull' Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: "Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!" E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la Vita, la pace ardente dell'anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l'erbe intorno. "Sei Tu" egli gemette "sei Tu, sei Tu?" Il vento tacque. Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L'anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L'anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l'ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire? Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell'alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a' suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent'ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell'erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell' Aniene, questo? No, il ruggito dell' Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: "devo potere!" esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò. "Cosa faccio?" si diss'egli, cercando raccapezzarsi. "Perché voglio scendere?" Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui: "Io tento Iddio!" Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l' Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: "Non tentare il Signore Iddio tuo." Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come poté, con l'ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l'aria, piegò lentamente all'indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto. Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell'erba. L'anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l' Essere senza tempo e senza spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né del luogo né dell'ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell'aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della Vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell' Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell'odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un'ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con l'aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

Egli amava e riveriva Giovanni Selva come un grande cristiano, aveva talvolta a difendersi contro la tentazione di giudicar il suo superiore, l' Abate, che gli aveva interdetto di visitarlo, contro la tentazione di appellarsi dall' Abate a Qualcuno maggiore degli Abati e anche dei Pontefici, interno all'anima sua. Ora Questi gli disse nell'anima: "l'incontro è mio dono" e il monaco si unì lieto agli amici. Maria lo presentò a Noemi ed egli arrossì ancora nel riconoscere la persona che aveva scambiato per la persecutrice di Benedetto. "E la sua amica?" diss'egli, tremando di apprendere che fosse lì presso. Rassicurato, lampeggiò di sollievo nel viso. Noemi ne sorrise ed egli, avvedutosene, rimase confuso. Sorrisero anche gli altri ma nessuno parlò. Il primo a rompere il silenzio fu Giovanni. Certo don Clemente andava a Jenne come loro? E forse ci andava per lo stesso scopo, per vedere la stessa persona, l'ortolano, eh, l'ortolano di quella sera? Ah don Clemente, don Clemente! Sì, don Clemente andava pure a Jenne, ci andava per vedere Benedetto. E quanto all'ortolano, si scusò. Inganno non c'era stato, c'era stato il desiderio che le due anime si avvicinassero senza violenza, nel modo più spontaneo, senza raccomandazioni e informazioni preventive. Preso a salire insieme la costa, parlarono di Benedetto. Noemi, dimentica della stanchezza, pendeva dalle labbra del Padre, e il Padre, appunto per questo, parlava così poco e così circospetto ch'ella ne fremeva d'impazienza, e in breve si sentì stanca da capo. Prese il braccio di Maria, lasciò che don Clemente si dilungasse con suo cognato. Allora don Clemente confidò a Giovanni che aveva una missione penosa. Pareva che qualcuno avesse scritto a Roma da Jenne in modo ostile a Benedetto, accusandolo di tenere discorsi non perfettamente ortodossi, di spacciarsi per taumaturgo e di vestire senza diritto un abito religioso che rendeva gravissimo lo scandalo. Certo da Roma era stato scritto all' Abate e l' Abate aveva dato l'incarico a lui, don Clemente, di recarsi a Jenne e di chiedere a Benedetto la restituzione dell'abito. Don Clemente aveva cercato invano dissuadere il vecchio Abate che se l'era cavata con una barzelletta: "leggete il Vangelo, la Passione secondo S. Marco: chi segue Cristo quando tutti lo abbandonano bisogna che ci rimetta l'abito. È un segno di santità." E poiché qualcuno doveva portare questo messaggio a Jenne, don Clemente preferì di portarlo egli. Aveva poi anche ricevuto una strana lettera dell'arciprete di Jenne. L'arciprete, brav'uomo ma timido, gli aveva scritto che Benedetto, a suo avviso, era veramente un pio cristiano ma che discorreva troppo di religione alla gente e che i suoi discorsi avevano qualche volta un certo sapore di quietismo e di razionalismo; che lo si accusava di esercitare a profitto delle sue idee non tanto ortodosse un potere diabolico; che l'accusa era sicuramente falsa ma ch'egli non aveva potuto, per prudenza, tenerlo ancora presso di sé, che forse il miglior partito sarebbe per lui di andarsene in qualche paese dove non fosse conosciuto e viverci quieto. Il dialogo fu interrotto da una chiamata di Maria. Noemi, spossata dal sole ardente, presa da palpitazione, aveva bisogno di un'altra sosta. Le Signore si erano sedute all'ombra di un sasso. Don Clemente si congedò. Si sarebbero riveduti a Jenne! Maria era molto angustiata per sua sorella, si rimproverava in cuor suo di non essersi opposta a che venisse a piedi. Lei e Giovanni tacevano guardando Noemi che sorrideva loro, pallida. In quel deserto di montagne senza bellezza, su quei sassi bruciati dal sole, il silenzio pesava di un peso mortale. Fu per tutti e tre un sollievo di udire voci di viandanti che salivano. Erano sei o sette persone, avevano seco due muli e salivano cantando il rosario. Quando furono vicini si videro sui muli una giovinetta e un uomo, sparuti ambedue, quasi cadaverici. La giovinetta, visti i Selva, spalancò gli occhi; l'uomo li teneva chiusi. Gli altri guardarono con certe facce compunte, continuando le preghiere. La nenia monotona si dilungò insieme al calpestio dei muli, si perdette nell'alto. Poco dopo la triste processione sopraggiunse dal basso una brigata allegra di giovinotti borghesi che ridevano parlando di Quiriti a caccia piuttosto di Sabine che di Santi. Al vedere Giovanni e le due Signore ammutolirono. Passati, ripresero a ridere e a scherzare; scherzarono su Giovanni che forse era il Santo fra le tentatrici. Una grande nube dagli orli di argento, la prima di una flotta che veleggiava verso ponente, oscurò il sole; e Noemi, alquanto rinfrancata, propose di approfittare dell'ombra per rimettersi in via. Pochi passi sotto la croce sognata, secondo quel Torquato, dall'arciprete, incontrarono un borghese vestito di nero che scendeva sul mulo. "Scusino" diss'egli alle Signore, trattenendo il mulo, "una di Loro è Sua Eccellenza la duchessa di Civitella?" Udita la risposta, si scusò dicendo che un senatore suo amico gli aveva raccomandata questa duchessa, da lui non conosciuta, che doveva capitare a Jenne per vedere il Santo. "Già" diss'egli sorridendo. "Forse anche Loro. Tutti adesso. Una volta ci venivano a vedere un Papa. Sicuro. A Jenne c'era un Papa. Alessandro IV. Vedranno l'iscrizione. "Calores aestivos vitandi caussa." Adesso ci vengono per un Santo. Dovrebb'essere più che un Papa. Ho paura che sia meno! Hanno visto i due malati? Hanno visto gli studenti di Roma? Eh, vedranno altro, vedranno altro! Ma ho paura che sia meno. Buon viaggio a Loro signori!" Oltrepassata la croce, montarono in faccia al cielo aperto, fra i dorsi verdi pendenti alla conca romita di Jenne, incoronata là di fronte dalla povera greggia di casupole che il campanile governa. Giovanni era stato a Jenne altre volte e non gli parve diversa perché ora vi dimorasse un Santo e vi si operassero miracoli. Sua moglie, che ci veniva per la prima volta, ebbe l'impressione di un luogo spirante raccoglimento religioso per quel senso di altezza non suggerito da vedute lontane, per quel cielo profondo dietro il villaggio, per la solitudine, per il silenzio. Noemi pensò con pietà profonda alla povera lontana Jeanne.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Ed io vedo presso una grande finestra prospiciente via Dora Grossa, in sull'imbrunire d'un giorno del 1668, alcune Madame raccolte in un gaietto stuolo: la Contessa di Bouteron, la Marchesa di Pianezza e le sue figliuole gemelle, la Contessa di Saint-Jean, la Contessa di Verrua, Madame d'Olivier, ambasciatrice straordinaria e ordinaria di Francia, con la nipote e il nipotino, accogliere fra alte grida di gioia lusinghiera il giovane abate Conte di Verolengo: - Benvenuto, Monsignore! - Ci si annoiava terribilmente! - E per consolarci ma fille nous agaçait avec les aventures de Télémaque. - Meglio Bertoldo e Bertoldino! ... - Che novità, Monsignore? - Siete stato dalla Duchessa? - Sono stato dalla Duchessa; sono giunto mentre Sua Altezza e la Marchesa di Cavour ... Una balenìo d'occhi e di denti, un corrugare di sopraccigli e di labbra, corre nella penombra elegante. - Scusate, Monsignore - è la padrona di casa che parla - Ortensia, accompagna Cristina e Maria Adelaide e Serafino a vedere la pauvre Gigette è l'ora del miele orzato. Gigette è la canina cinese: sofferente di intestini ribelli e bisognosa di serviziali e di lassativi quotidiani. Le Madame si sono appena liberate dalle Madamigelle che tutte fanno cerchio all'abate sorridente. Il nome della concubina regale ha suscitato in tutte il demone della curiosità. - Ebbene? La Duchessa si è accorta di qualche cosa? - Avanti! - Ci avete promesso ... - Io non ho promesso nulla. Siete voi che non mi lasciate parlare. Oggi sono giunto a Palazzo mentre la Duchessa e la Marchesa di Cavour ... - Ebbene? - Si salutavano, abbracciandosi sorridendo ... Delusione generale, indignazione generale. - Ma non è possibile! - Non è possibile che la Duchessa non sappia! - La Duchessa sa. E per questo abbraccia la Marchesa teneramente, per dare alla rivale la fiducia più temeraria e spingerla all'ultima imprudenza. - Più imprudente di così! L'altro giorno al parco del Valentino, mentre il dottor Operti di Bra recitava a Sua Altezza il complimento dell'Accademia degli Incolti, la Marchesa, che s'annoiava terribilmente, sbadigliò dieci volte, poi s'alzò, passò villanamente dinnanzi a Sua Altezza e alle Dame lasciando il consesso contro ogni etichetta del bel costume. - È vero! Io ero presso una delle finestre che dànno sul Po e vidi la Marchesa scendere le scale, accennare la barca reale dov'erano il Duca, il Conte Rebaudengo e un barcaiuolo e vidi la barca avvicinarsi e la Marchesa balzarvi dentro, e come il Duca le diede aiuto, essa, nel barcollìo, s'abbracciò a lui ridendo, lo tenne stretto assai più del necessario, e il Duca rideva e ridevano il Conte Rebaudengo e il barcaiolo. - E la sconvenienza del giugno scorso, al Castello di Rivoli? Questa, peggio ancora, in faccia alla Duchessa, alla Corte intera, quasi a sfidare la tolleranza di tutte noi. Non ebbe, quella svergognata, la sfrontatezza di salire su un albero di ciliege e di chiamare Sua Maestà con nessuna riverenza e pregarlo di tenderle il cappello mentr'ella lo colmava di ciliege e ne mangiava intanto e schizzava i noccioli dall'alto, bersagliando con motti le dame e i cavalieri? - Ebbe poi l'inaudita impudicizia di presentarsi alla Duchessa, di offrirle le ciliege nel tricorno di suo marito e la Duchessa sorrideva tranquilla, sembrava non vedere, non sentire. - Ma vede, sente, medita, state sicure! - E soffre. La sotto-governante, ieri, passando nei gabinetti di toeletta, la vide riflessa in uno specchio con sulle ginocchia il principino, mentre baciava i capelli del piccolo e piangeva. - Ma Sua Altezza il Duca! Come ha potuto posporre una bella sposa di vent'anni a quella svergognata che ne ha trentacinque? - Trentotto! - Quaranta! - Quarantaquattro! - Signore mie, un momento - interrompe l'abate, che tace sconfitto da qualche tempo. - La verità prima di tutto. Io ho sposata la Marchesa, ho visto il suo atto di nascita. Ha ventott'anni, non ancora compiuti. - Peggio ancora! - Che disastro! Il belletto non le aderisce alla pelle, le traccia un solco tra ruga e ruga ... - Alla luce del giorno è uno sfacelo ... - E non alla luce del giorno soltanto! E le belle madame incrudeliscono e ognuna trova un commento più atroce, ognuna scaglia anatemi e invoca il castigo umano e divino sulla svergonata Marchesa, con veemenza tanto più forte in quanto che ognuna di quelle Dame vorrebbe essere in cuor suo nei panni della concubina famosa ... Oh! Malinconica Torino del seicento, più triste ancora della Torino settecentesca, così triste che io non so immaginarla alla luce del sole, ma la vedo in una perpetua mezz'ombra crepuscolare, nella sua meschinità quasi ancora medioevale, con le sue mura, le sue torri, le sue porte, con la sua piazza del Castello dagli edifici miseri e grigi che ancora attendono di fiorire al genio architettonico di Filippo Juvara! Come trascorreva la vita in quel Palazzo reale che Carlo Emanuele aveva fatto erigere pochi anni prima, squallido edificio ancora ben lungi dall'imponente eleganza e dalla ricchezza che gli conferirono poi Amedeo II e Carlo Emanuele III? In pace trascorreva la vita, da quasi un trentennio, dopo la tremenda guerra civile del 1640. Una grande figura di donna, ormai sessantenne, vi profilava la sua ombra grandiosa: Madama Reale, quella Cristina di Francia che, rimasta vedova di Vittorio Amedeo I, per salvare gli Stati al figlio giovinetto Carlo Emanuele II non aveva esitato a muover guerra ai cognati Principe Tommaso e Cardinale Maurizio, non aveva esitato a fare la cosa inaudita nella storia delle guerre civili, uscire per assediare la sua città bene amata, costringere i suoi cari torinesi alla fame, forzarli, dopo cinque mesi d'assedio atroce, alla resa; e nel 1640 la città s'arrendeva e la Duchessa vittoriosa (cosa commovente e tragica!) rientrava nella sua Torino vestita a lutto per la vittoria riportata contro i suoi sudditi Quasi un trentennio era trascorso. Carlo Emanuele II si era fatto uomo, aveva preso dalle mani della madre lo scettro luttuoso, si era rivelato, a poco a poco, degno nipote di Emanuele Filiberto e degno di esser chiamato l'Adriano del Piemonte. Il Piemonte rifioriva. La Francia esercitava sopra Torino, non per diritto, ma per fatto, un supremo dominio, ma la dipendenza era velata da speciose ragioni di protezione, d'amicizia, di parentela. Si preparavano in silenzio i giorni ribelli e gloriosi di Vittorio Amedeo II. Ma l'influenza della Francia non era soltanto politica, si faceva sentire nell'arte e nei costumi. La Corte torinese era improntata a quella di Parigi e certo sul bell'esempio dei Re Luigi qualche sovrano di Piemonte si concedeva il lusso di qualche favorita. Su Carlo Emanuele II non avevano tuttavia influito nè l'esempio dei cugini d'oltr'Alpe, nè l'eleganza della Senna, delle Grazie madre la sua vita coniugale non lieta, e non per colpa sua, l'aveva costretto a cercarsi altrove altre consolazioni. Le sue prime nozze con quella dolce Francesca d'Orléans, chiamata, per la sua bellezza e la sua grazia, minuscola Colombina d'Amore, nozze felici quant'altre mai, erano state troncate dopo un anno appena dalla feral Parca maligna, come canta un accademico del tempo. E il giovane sovrano aveva consolata la sua vedovanza con varie dame: Gabriella di Mesme di Marolles, moglie del Conte Lanza (sono pettegolezzi di tre secoli, resi pubblici da cento monografie; non è quindi ... indelicatezza far nomi, date, episodi), dalla quale ebbe due figli: Carlo Francesco Agostino, Conte delle Lanze e di Vinovo, e Carlo detto il Cavalier Carlino. Ma Gabriella di Mesme fu congedata ben tosto per Giovanna Maria di Trecesson, Marchesa di Cavour. Il Duca ebbe da lei un figlio: don Giuseppe di Trecesson che fu Abate di Sixt in Savoia e poi di Lucedio in Piemonte, e due figlie: Cristina e Luisa Adelaide. La ragion di Stato, anzi l'amorosa ragion di Stato come canta un altro accademico cortigiano, costrinse Carlo Emanuele II a passare a seconde nozze con Giovanna Maria di Savoia Nemours. Il Duca con questo maritaggio, faceva rientrare nel dominio della sua corona le provincie del Genovese e del Faussigny. Le nozze furono splendide e la sposa, giovinetta, entrò in Torino inghirlandata di tutti i fiori e di tutte le speranze, accolta non come una straniera che giunge, ma come una sorella che ritorna. "Vorressimo scrivere - dice il Castiglione - con penna tolta dalle ali di Cupido le dimostrazioni di pubblica allegrezza per questo inclito maritaggio. "La humana imaginatione non arriva a concepire il giubilo vicendevole dei suoi amatissimi sposi. "Pervenuta la sposa in Torino, Madama Reale voleva andarle incontro in carrozza, ma, non godendo di ferma salute, fu necessitata di aspettarla al castello. "Ascesa, la Regale Sposa, le scale del Palagio fra suoni di trombe, rimbombo di tamburi, spari di moschetterie e di mortaretti, fu incontrata alla porta del salone da Madama Reale, sua suocera, accompagnata dalle principesse e grandissimo stuolo di Dame. Qui accolta, abbracciata e per tre volte baciata con lacrime, indubitati segni di grande affetto, fu da essa complimentata con quei termini che le somministrò la sua naturale gentilezza e facondia incomparabile, veramente regia. "Corrispose in modi ossequiosissimi, molto espressivi dell'amor riverente dovuti a sì gran Madre, la sposa reale. "Volle Madama Reale in ogni modo condurla alle sue camere tutto che resistesse quella quanto potè. "Le loro Altezze passarono interi giorni tra le ricreationi di musiche diverse, fra banchetti solenni, pubblici e alcuna volta privati, ma non men deliciosi, e luminarie e fuochi artifitiali e altri passatempi". Oimè, la luna di miele, col suo alone roseo d'illusioni, doveva durare ben poco e la bella sposa - pur con tutta la ingenuità dei suoi diciotto anni - non doveva tardar molto ad accorgersi che nello stesso Palazzo, accanto a lei, seduta alla stessa mensa, al corso, a teatro, viveva un'altra sposa del Duca, più antica di lei, terribile di tutta la sua bellezza matura ed esperta, forte da anni e anni d'un'influenza incondizionata, armata d'un'alterigia temeraria, armata, cosa più atroce di tutte, di una figliolanza clandestina, ma riconosciuta dal Duca, amata, collocata in vari collegi di Francia e di Lombardia: la Marchesa di Cavour. E certo, la Duchessa baciava tremando il capo d'oro dell'unico figliolo, tremando per sè e tremando per lui. Quale spaventosa tragedia, silenziosa come la fiumana che serpeggia sotterra, doveva tumultuare nel piccolo cuore non ancora ventenne! - La Duchessa? non s'accorge di nulla, non vede nulla, non sente! Vedeva, sentiva, aspettava che il calice fosse colmo ... E il calice fu colmo. La noia dei salotti secenteschi torinesi fu un bel mattino rallegrata da una novella incredibile. La Duchessa è fuggita di Palazzo. Dov'è? Fuggita? Ma no! È a diporto a Moncalieri. A Druent. Ritornerà domani. Non ritornerà mai più. Non ritornerà mai più! S'è accorta di tutto! Ha sorpreso il Duca con la Marchesa. Finalmente! Il Duca aveva lasciata la Corte l'altro giorno per la Venaria dicendo d'aver ritrovo di caccia col cugino, l'abate Visconti, che veniva da Milano. La duchessa era rimasta a Torino accusando vapori al cervello, mettendosi a letto, facendosi anzi praticare due salassi consecutivi dal dottor Vinadi, che le prescrisse riposo per quindici giorni. Invece, nella notte successiva la Duchessa fu vista arrivare alla Venaria alle tre del mattino, in una berlina da viaggio, seguita da due governanti e da quattro staffieri. Balza al portone. Le guardie le proiettano in volto la lanterna rossigna, allibiscono, vietano il passo supplicando, implorano quasi piangendo la Duchessa di non salire; ne va della loro vita! La Duchessa legge la verità negli occhi dei soldati tremanti, spezza la catena delle braccia robuste, balza su per le scalee, irrompe nelle sale. E poi? Poi nessuno ha visto. Qualcuno ha sentito. Dalla grande camera d'angolo detta l'Alcova delle tre Grazie - pure attraverso le finestre chiuse - giungevano le strida della Marchesa di Cavour, la voce convulsa del Duca, la voce irriconoscibile della giovane Duchessa. Poi più nulla. Fu vista uscire la Duchessa livida, disfatta, fu vista raggiungere barcollando la berlina e la berlina partire di gran carriera, seguìta dai quattro staffieri a cavallo. La Duchessa è ritornata in Francia. Torino è annichilita. Passano due, tre, quattro giorni. La notizia è ormai diffusa nella nobiltà, nella borghesia, nel contado; la Duchessa è in Francia? No! Non è vero, impone di credere un ordine di Corte, affisso sulla piazza del Castello. La Duchessa è sofferente e tiene il letto da quindici giorni; si celebrerà anzi un Te Deum per implorare dal cielo la sua certa guarigione. Ma nessuno crede a quella commedia, la verità è risaputa; la Duchessa tradita è ritornata presso la sua famiglia d'oltr'Alpe come una bourgeoise qualunque che ritorna dai suoi. Ma al quinto giorno un'altra notizia sbigottisce Torino: La Duchessa rientrerà fra poche ore in città! Non è stata ammalata, è stata a diporto fino a Chambéry, impone di credere un nuovo avviso di Corte. Il popolo esulta, ma anche in questo è risaputa ben presto tutta la verità. Uno squadrone, dopo la fuga notturna della Duchessa, s'è precipitato, per ordine del Duca, sulle tracce della fuggitiva, ha costretto con le armi spianate la berlina reale a far ritorno a Torino. E la Duchessa ritorna pallida, disfatta, rientra in Torino sorridendo debolmente alla folla plaudente. - Se non fosse di suo figlio - commenta qualche madre fra la folla, - scommetto che si sarebbe piuttosto lasciata ammazzare che far ritorno ... Povera donna! Verità storiche, registrate dagli archivi polverosi, ma noi non cercheremo la conferma nel tedio delle antiche carte. Tutto l'episodio commovente è chiuso in una canzone popolare fiorita in quei giorni, canzone che non si canta più, ma che è certo tra le più belle, e più significative del folklore subalpino, riportata e tradotta dal Nigra nella sua raccolta di canzoni piemontesi. La Marchesa di Cavour Sua Altessa l'è muntà an carossa, An carossa l'è bin muntè, Che a la Venaria a völ andè. Quand a l'è staita a la Venaria, L'à butà le guardie tut anturn Per la Marcheza di Cavour. Bela madamin munta an carossa, An carossa l'è bin muntè, A la Venaria la vol dco andè, Quand a l'è staita a la Venaria, Llà trova le guardie tut anturn Per la Marcheza di Cavour. Bela Madamin sforza le guardie. E le guardie l'à bin sforzè; Per cule stanse la vol andè, Quand l'è staita ant cule stanse, La Marcheza l'à trova cugià E Sua Altessa da l'auter là. - Me ve ringrassio, sura Marcheza. Sura Marcheza, v' ringrassio tan, Che vi sia fait un sì bel aman. Sura Marcheza a j'a ben dì - je: - So - se l'ì pa del me piazì; L'è Sua Altessa ch'a vol cozì. Sua altessa a j'a ben di - je; - Bela madamin, stè chieta vui, La Marcheza l'è più bela ch'vui. Bela Madamin munta an carossa, An carossa l'è bin muntè. Che an Fransa la vol turnè. Quand lè staita a metà strada, Bela Madamin s'svolta andarè, A l'à vist avnì dui vàlè-d-piè- O ferma, ferma, ti dla carossa, Ferma, ferma, che t'farò fermè, E d'entre na tur t' farò butè. Bela Madamin cha j'à ben di - jè: - S'a fussa nen del me fiolin, Già mai, già mai turneria a Turin. Quand l'è staita pr' antrè ant le porte tuti fazio solenità; Bela Madamin a l'è turnà. L'à mandà ciamè sura Marcheza: - Mi vi dag temp sulament tre dì, An sui me Stat fermè-ve pa pi. Traduzione Sua Altezza è montata in carrozza, in carrozza è ben montata, che alla Venaria vuol andare. Quando fu alla Venaria, mise guardia tutt'attorno per la Marchesa di Cavour. La bella Madamina monta in carrozza, in carrozza è ben montata alla Venaria vuol pur andare. Quando fu alla Venaria, trovò le guardie tutt'attorno per la Marchesa di Cavour. La bella Madamina forzò le guardie, le guardie ben forzò; per quelle stanze la vuol andare. Quando fu in quelle stanze, trovò la Marchesa coricata, e Sua Altezza dall'altro lato. - Vi ringrazio, signora Marchesa, signora Marchesa, vi ringrazio tanto, che vi abbiate fatto un sì bell'amante. - La signora Marchesa ben le disse: - Questo non è di mio piacere; gli è Sua Altezza che vuol così. - Sua Altezza ben le disse: - Bella Madamina, state zitta voi. La Marchesa è più bella di voi. - La bella Madamina monta in carrozza, in carrozza ben montò, che in Francia la vuol tornare. Quando fu a metà strada, la bella Madamina si volta indietro, vide venire due staffieri. - O ferma, ferma, tu cocchiere; ferma, ferma, che ti farò fermare e dentro una torre ti farò cacciare. - La bella Madamina ben gli disse: - Se non fosse del mio figliolino, mai più, mai più non tornerei a Torino. - Quando fu per entrare nelle porte, tutti facevano solennità. La bella Madamina è tornata. Mandò a chiamare la signora Marchesa: Io vi dò soltanto tre giorni di tempo, sul mio Stato non fermatevi più. - S'a fussa nen del me fiolin, Già mai, già mai turneria a Turin. El fiolin doveva essere col tempo quel Vittorio Amedeo II, iniziatore d'un'êra veramente nuova e gloriosa nella storia d'Italia. E il sacrificio della Duchessa umiliata, ricondotta alla casa del tradimento come una prigioniera, non doveva essere un vano olocausto del suo cuore di sposa infelice al suo dovere di madre regale. - S'a fussa nen del me fiolin, Già mai, già mai turneria a Turin.

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Cassandrino andò a trovare un abate, amico suo, e gli disse: - Domani, verso mezzogiorno, trovati a palazzo reale per confessare la Principessa che versa in pericolo di vita. L'abate promise di trovarvisi. Il giorno dopo Cassandrino si presentò a palazzo: - Sacra Corona, oggi farò l'ultimo trattamento della Principessa, ma siccome potrebbe soccombere... - Gran Dio! Che dite mai? - urlarono i Sovrani. - Ho pensato bene di avvisare un abate, per gli ultimi conforti. Sarà qui verso mezzogiorno. Poi salì dalla Principessa: - Oggi vi sottoporrò all'ultimo trattamento, e poiché potrebbe essere fatale, hanno avvisato un abate per la tranquillità della vostra coscienza. La Principessa aveva gli occhi fissi dallo spavento. Sopraggiunse l'abate che fu lasciato solo con l'ammalata e Cassandrino attese in un gabinetto attiguo. Quando il confessore uscì dalla stanza, Cassandrino disse: - Amico mio, favoriscimi alcuni istanti la tua veste. - Sarebbe un insulto alla mia divisa. - Non temere cose sacrileghe. É per ottimo fine. - Cassandrino si vestì della veste sacerdotale e si presentò alla Principessa che gemeva nella sua alcova. - Figliuola mia, temo abbiate dimenticato qualche cosa nella confessione delle vostre colpe... Meditate, cercate ancora... Pensate che siete forse sul punto di presentarvi al giudice supremo. La Principessa allibiva, singhiozzando. - Vediamo - diceva Cassandrino, imitando la voce dell'amico - non ricordate d'aver sottratto... rubato qualche cosa? - Ah, Padre! - singhiozzò la Principessa. - Ho rubato una borsa miracolosa a un Principe forestiero. - Bisogna restituirla! Confidatela a me e gliela farò avere. La Principessa indicò col gesto stanco uno stipo d'argento: e Cassandrino prese la borsa. - E altro... altro ancora, non ricordate? - Ah Padre: ho rubato una tovaglia fatata allo stesso forestiero: prendetela. è là, in quell'arca d'avorio. - E altro, altro ancora? - Un mantello, Padre! Un mantello incantato, allo stesso forestiero. É là, in quell'armadio di cedro... E Cassandrino prese il mantello. - Sta bene - proseguì il falso prete - ora mordete questo pomo: vi gioverà. La Principessa addentò il frutto e subito le squamme verdi si diradarono lentamente e scomparvero del tutto. Allora Cassandrino si tolse la parrucca e la veste. - Principessa, mi riconoscete? - Pietà, pietà! perdonatemi d'ogni cosa! Sono già stata punita abbastanza! I Sovrani entrarono nella camera della figlia e il Re, vedendola risanata, abbracciò il medico. - Vi offro la mano della Principessa: vi spetta di diritto. - Grazie, Maestà! Sono già fidanzato con una fanciulla del mio paese. - Vi spetta allora metà del mio regno. - Grazie, Maestà! Non saprei che farmene! Sono pago di questa borsa vecchia, di questa tovaglia, di questo mantello logoro... Cassandrino, fattosi invisibile, prese il volo verso il paese natio, restituì ai fratelli i talismani recuperati e, sposata una compaesana, visse beato fra i campi, senza più tentare l'avventura.

Oro Incenso e Mirra

678755
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Non discuto che il dramma di Bovio, io sono un artista: tu, Tarlatti, che sei un filosofo scettico: tu, abate, che sei un mistico: tu, Osnaghi, che sei un poeta: tu, Tebaldi, che sei un socialista, discuterete l'idea. Che importa una idea nell'arte, se non vi crea una figura? L'arte è vita. Bovio aveva trovato l'opposizione drammatica, Cristo e Giuda, l'eroe e il traditore, questa necessità di tutte le tragedie, questo segreto di tutte le catastrofi, dalle quali si sprigiona una idea. Ma che cosa diventa Giuda nella scena di Bovio? Un patriota in ritardo, che congiura in piazza fra due legionari romani e una etèra greca, i quali parlano come lui, tutti in un modo, a concetti aforistici, con formule liriche; non personaggi bensì maschere, dalle quali soffiano il pensiero e le parole di Bovio, come purtroppo le prodiga da anni nei libri e nei discorsi; seicentismi di pensieri e di parole in un'asma di stile, entro i vuoti del quale molti operai ed alcuni studenti cercano indarno la profondità. Vi è del sonnambulo e del ventriloquo in quell'uomo. La scena - si rivolse all'abate - giacchè bisogna ripensarla tutta per discuterla, si svolse sulla piazza di Gerusalemme: dalla porta aperta della sinagoga si vede e si ode lo Sheliach leggere il parascà al paragrafo di Ester, mentre per la piazza passano fallofore di Lesbo, tribadi di Sparta, batilli, una etèra e Giuda con due congiurati. L'etèra l'apostrofa dalla lettiga con uno squarcio di filosofia della storia per spiegargli la impossibilità di una rivolta giudaica contro Roma, un centurione la soccorre d'argomenti rinfacciando agli ebrei di non avere nè un Gracco, nè un Catilina: poi l'etèra pesando con la rapidità femminile le sue filosofie, che secondo lei si dividono il mondo, quella di Epicuro e quella del Rabbi di Nazaret, conclude rivolta al centurione: "se tu a Roma non mi troverai fra le compagne di Tiberio cercami fra le seguaci del Messia". La prima cortigiana ha parlato, e da buona pronipote di Aspasia proibisce ai Farisei di uccidere Cristo, perchè dopo cinquanta e cinquanta olimpiadi il mondo non ha ancora perdonato agli Eliasti e ad Atene la morte di Socrate. Per una etèra, che arringa in piazza dalla lettiga, bisogna accontentarsene: evidentemente i discorsi di piazza non erano allora come adesso, se l'etère vi parlavano come i moderni professori di filosofia del diritto. La prima cortigiana ha declamato il proprio pezzo: aspettiamo la seconda, Maria di Magdala. Ma Giuda rimasto solo sulla piazza disegna a sè medesimo il proprio ritratto in un monologo ritmato come un recitativo, e che comincia con una invocazione all'etèra già lontana. Nella leggenda cristiana Giuda è il traditore, ma siccome il tradimento è fatto ad un Dio, Giuda vi diventa meno di uomo vendendo inesplicabilmente il maestro per trenta denari, duecento cinquanta franchi moderni, ed impiccandosi subito dopo per il rimorso. Il Cristianesimo nello sforzo di fare il Cristo un Dio ha violato intorno a lui tutti gli elementi umani: ma Giuda perchè tradì? Questa oscura domanda ha sempre pesato sul sentimento cristiano; il traditore nella prima parte della vita di Cristo rimane insignificante, quindi la sua negazione scoppia improvvisa ed assurda per dissiparsi subito dopo entro l'ombra. Nell'arte la figura di Giuda non fu mai disegnata, e Dante stesso, il poeta dei poeti, il più pensatore dei poeti come dice Bovio, vi ha fallito mettendolo in fondo all'inferno in una delle tre bocche di Satana fra Cassio e Bruto. Dante, che applica sul Satana biblico la triplice maschera del cerbero virgiliano, e nella gamma divina delle espiazioni pareggia deicidio e legicidio! Eppure è Dante, il poeta della Tolomea, nella quale i peccatori traspaiono come paglie nel ghiaccio e, mentre piangono per lo spasimo, le lagrime si gelano loro dentro gli occhi! Nullameno Dante ha fallito, Bovio altera le date della leggenda cristiana per condensarne il significato; la famosa frase - qualcuno tradisce - pronunciata all'ultima cena cogli apostoli, la suppone detta prima dell'aneddoto coll'adultera, pel quale ha concepito il proprio dramma. Giuda comincia col pensare il problema di Socrate: ebbe egli ragione di morire per le leggi della sua città anzichè per la propria dottrina? "Sarà più grande di lui questo idealista di Nazaret?" Perché Giuda applica a Cristo questa parola moderna e nel più moderno significato? Poi definisce gli apostoli: "Pietro che trema, Giovanni che delira, Giacomo che gonfia, Tomaso che dubita", ma Pietro nella tragedia cristiana tremerà e rinnegherà veramente il maestro solo nel cortile di Caifas, Giovanni delirerà vecchio nell'Apocalisse, Tomaso resterà celebre per il proprio dubbio contro Cristo risorto e riapparso alle donne e agli altri apostoli, Giacomo gonfia o gonfierà... che cosa? Io non lo so. Un sorriso apparve sulle labbra di tutti quei giovani. - Lascia, lascia, tutto questo sarebbe nulla: non è Giuda che parla, ma Bovio, il quale nel l894 crede di poter giudicare ognuno di quei quattro apostoli con una sola parola. E sempre l'uomo, che nella propria Filosofia del Diritto scriveva: "Spartaco ebbe un successore, Cristo", ed ecco pareggiata una guerra servile di Roma a tutto il cristianesimo. Ma Giuda sente una fatalità di tradimento intorno a Cristo: la battuta questa volta è buona, se non che Giuda dovrebbe sentirla in sè stesso per alzarsi a figura drammatica rivale di Cristo, e invece arzigogola sul tradimento, il quale è secondo lui nell'aria, nella folla, nei discepoli, nei fratelli stessi di Cristo se il genio può averne, per finire al solito in una lirica, dubbiosa bestemmia: "Se dietro al tuo patibolo il traditore sono io, la complicità si addensa dal genere umano a tuo Padre". - Ma lo sai dunque tutto a mente? - chiese Osnaghi. - Ecco tutto il Giuda di Bovio: che cosa è quest'uomo? Parrebbe un patriota giudeo, poi si perde nel vaniloquio, non ha una passione, una idea, un carattere, un temperamento. Parla come un retore, declama peggio d'un istrione essendo a sè stesso teatro ed attore, e, come questo non bastasse, ecco ancora Maria di Magdala a fargli l'ultima lezione di filosofia. L'etèra della prima scena avrebbe dovuto essere la donna pagana, abbastanza fine per cogliere i primi sottili aromi di un pensiero nuovo anche se religioso; questa della seconda sarebbe già la passione novella, l'amore umano purificato dal contatto divino e sublimatosi nel sacrificio di sè medesimo sino a diventare più limpido della innocenza. La figura di Maddadena così bella nella penombra della leggenda cristiana, schizzata con due o tre tocchi, sentite come parla: "Potrai trovare ancora un fatto, un pensiero, che superi - solo - la malizia del mondo? "E Giuda rimbecca: "Sarà un pensiero di genio". Maddalena: "Innanzi al quale il Nazareno è vile: chi sarà l'eroe? "Giuda guarda a terra, e io sono tentato di fare altrettanto, perché non credo di aver capito più di lui. Quindi disputano su Cristo; Maddalena, con un linguaggio imitato dalle eroine di Dumas figlio, accenna alla propria caduta e al perdono del Rabbi senza potersi decidere come Giuda a prendere Cristo nè per un uomo, nè per un Dio, quantunque sia venuto un giorno a sedersi sul verone della sua, casa, e lì, sognando senza forse, gli sia sfuggito dalle labbra pallide - non mandarmi questo calice, sudo Sangue, non abbandonarmi, perdona loro perchè non sanno quello che si facciano - tutti i gridi supremi, che segneranno il crescendo spasmodico del suo sacrificio. E quasi ciò non fosse abbastanza falso drammaticamente riferisce a Giuda il giudizio su lui di Cristo, così: "Giuda non è la fede di Filippo, di Bartolomeo e degli altri semplici, nè il pensiero del filosofo di Stagira: è la mezza mente che, posta fra due mondi, oscilla fra due fini e rasenta il tradimento". "Se egli si uccide, somiglia a quel tumido Uticense che stimò di non poter sopravvivere a repubblica morta da gran tempo: se mi uccide somiglia a quel Cassio iracondo che tentò rifare una repubblica disfatta sopra un uomo ucciso" Infine questa disputa di accento scolastico e di volgarità moderne finisce all'ultima moda socialistica: questo ti riguarda, Tebaldi. Giuda accusa d'insufficienza la teorica di Cristo e, profetizzando che i prelati ricchi dell'avvenire non lo riconoscerebbero se gli saltasse il ticchio di risuscitare dopo un millennio, urla contro la promessa di una seconda vita: "Ahi!... qua il solco, qua il seme, qua la spiga, qua il diritto! - Di là c'è frode". - Tutto questo è goffo, lo so: ma aggiungi ancora la bella parola: "Il venditore di Cristo non sono io: verrà!" - disse Osnaghi guardando Tebaldi, che non aveva ancora parlato. - La sola bella di tutta la scena, perchè le ultime parole di Maria di Magdala sono di una fraseologia ancora più torbida: "Se il tuo redentore è nel numero, la tua redenzione non è destinata. Va e cerca nel numero il tuo Messia che non sa liberare sè dalla turba. Addio". - Pazienza se fosse qui finita! - sogghignò Tarlatti - ma invece siamo ancora al prologo del dramma scritto solo per il motto finale nella scena dell'adultera: Chi è senza peccato scagli la prima pietra". Naturalmente tutti restano colle pietre in mano tranne il centurione, che getta il proprio bastone di vite per raggiungere Cristo dietro le quinte. - Oh! - interruppe Osnaghi - perchè non ripeti la formula frugoniana del centurione?" "Restitusci a Roma questo mio bastone di vite, e dille che una parola è nata più equa del diritto del pretore". Quale capitano di fanteria declamerebbe oggi così? - E siccome Giuda piange, Maddalena per consolarlo gli dice anch'essa il proprio giudizio: "Innanzi a te Egli è già un mito, e tu innanzi a Lui sei già la posterità incredula che simula adorazione" - La lezione è terminata! - conchiuse Osnaghi stringendosi nelle spalle. - Se l'arcivescovo di Napoli avesse saputo tacere, questo Cristo alla festa di Purim non lo si sarebbe rappresentato come non lo si era letto. - Oh - ribattè l'abate - tutto ciò che tocca Cristo diventa importante. La chiesa ha creduto di opporsi a questa opera di Bovio certo non per quello che vale, ma per quello che significa. - Forse hai ragione - disse Tarlatti. - Riassumiamo prima - si ostinò daccapo Mattioli. - Che cosa c'è in questo Cristo di Bovio? Cristo no, Giuda nemmeno, ma tre donne, una ètera di Grecia, la cortigiana di Magdala, l'adultera di Gerusalemme: una triade femminile, dentro la quale avrebbe dovuto mostrarci l'idea di Cristo. La prima non è già più una ètèra per il semplice fatto di sentire anche da lungi la sua presenza, la seconda diventa una pitonessa per avergli parlato, la terza si salva dalla lapidazione per aver ottenuto senza nemmeno chiederla una sua risposta. Null'altro. Cristo che chiama Aristotile il filosofo di Stagira è dà del tumido Uticènse a Catone, dell'iracondo a Cassio, della mezza mente a Giuda, mandandolo a pensare la verità messianica nel deserto perchè la larghezza dello spazio gli suggerisca quello che la lunghezza dei secoli dovrà rivelare: e che passa sulla terra unicamente per risolvervi un caso di adulterio come un pretore... tale Cristo è davvero la più sconoscente ingiuria proferita contro di lui in questo secolo, che dopo avergli conteso la divinità gli ha negato perfino l'esistenza. Mai più vacua corpulenza di pensiero si sgonfiò in più informi sembianze di arte, e più inetta soggettività di autore, si atteggiò drammaticamente per falsare figure ed ambiente, idea e linguaggio... - Perchè perdi in questo momento tu stesso la misura? - Perché il dramma c'era. - T'inganni. Nel medioevo la chiesa rappresentò la Passione nei Misteri, ma quando sorse il teatro nessuno dei grandi poeti pensò di trarre dalla Passione una tragedia, e bada che nè Lopez, nè Calderon sono grandi poeti. - Tu opponi un fatto ad un'idea: è troppo poco. - Forse!- intervenne Osnaghi - ma io ti opporrò idea a idea. Tu credi al dramma di Cristo, io no: tu vedi d' ambiente e la scena, Gerusalemme divisa fra partiti politici e sacerdotali, la doppia tirannia di Erode e del Sanhedrin, poi Roma più in alto. Cristo appare dal popolo, secondo te; i discepoli gli si stringono intorno, le donne s'innamorano della sua parola, i partiti si acquetano per ascoltarla. Scene di miracoli e scene domestiche abbondano gli apostoli formano una prima Tavola Rotonda, alla quale Cristo annunzia il tradimento, perché come tutti i veramente grandi egli ha presentito la catastrofe e indovinato il rivale. La bravura dei discepoli messa a dura prova nel processo soccombe, la prima fede del popolo si dissipa; Pilato, l'indulgente magistrato romano, spicca originalmente fra le sinistre figure dei pontefici, e l'ultimo atto si compie sul Golgota colle donne sotto alla croce. Ebbene, mio caro, il dramma non c'è. Se di Cristo fai un uomo, urti nel fantasma divino, che di lui è in tutte le coscienze, e in questo dissidio l'anima del pubblico si frange. Se tu lo mostri Dio, tutto il suo valore umano non è più che un simbolo vuoto. Il dramma non può oltrepassare i limiti della individualità, noi dobbiamo cozzare nel fato, in Dio, non esserlo. - Eschilo ha scritto il Prometeo. - Tragedia umana, mio caro, perchè Prometeo e Giove non superano le proporzioni di due eroi, e l'Olimpo non è più alto del Caucaso. Cristo nell'arte non può apparire che solo, figura umana, dalla quale traspare lo spirito divino, nè uomo, nè donna alla fisonomia, di una bellezza vera e non reale, come lo rappresentarono i grandi pittori antichi. Guarda i loro crocifissi: il corpo non spenzola come dovrebbe dalla croce, lo spasimo della sua faccia è ineffabile, ma non vi si sente alcuna fitta corporea, il suo dolore è divino e ha atteggiato di sè stesso la bellezza del volto. Oggi credono di fare del realismo dipingendo un uomo crocifisso: la verità è nell'altro, il Crocifisso. - La poesia è fede - esclamò l'abate: - tu sei vicino ad accoglierla. - No - interruppe Tarlatti, - la più grande poesia è nel dubbio: ecco perchè ho amato la figura di Cristo. Tu no, abate, non puoi rileggerle perchè hai la seconda vista dei mistici; ma voi altri pigliate ancora una volta le sue parabole, allineate le sue risposte. Vi è in tutte una mestizia irresistibile, una ironia sottile, che Renan solo ha saputo cogliere. Il dubbio trema nell'anima del Messia: attraverso i racconti ingenuamente impossibili degli evangelisti si comprende che il suo dubbio tocca gli altri, giacchè nemmeno i suoi miracoli più stupefacenti. come quello di Lazzaro, bastano a persuadere coloro stessi che vi assistono. All'altezza, cui è salito, la vista gli vacilla: il mondo troppo grande anche pel suo occhio di veggente sarà sempre più antico (e più vasto di qualunque opera, e la sua redenzione trionfandovi non avrà redento che pochi. Allora, il redentore preso nella vertigine della propria illusione prova nel freddo della caduta i primi brividi del nulla. Ecco il dramma di Cristo, l'impossibilità di credersi Dio e di farlo credere prima di morire. Infatti tutte le sue affermazioni sono ambigue, i discepoli, che lo seguono, non le comprendono più di colui che dovrà tradirlo: l'avvenire gli è chiuso come il passato, la morte stessa, dando agli altri la fede nella sua divinità, non gli basta più. Nessun processo somiglia a quello di Cristo, giacchè tutto vi si riassume in una parola: qui est veritas. Il silenzio di Cristo davanti a questa dimanda di Pilato è la sua sconfitta di Dio. Che importa il resto? La magnifica scena del Golgota colla ironia finale della fede, che morta nel redentore ricomincia nel ladrone crocifisso al suo fianco: l'ineffabile malinconia della sostituzione di Giovanni, il più poeta tra i discepoli, come figlio nel cuore di Maria: l'ultimo, delirante appello nel vuoto - Dio, dio, perchè mi hai abbandonato?- e subito dopo tutto il peso della morte nel terribile - consumatum est - questo finale sublime non vale il silenzio di Cristo davanti alla domanda di Pilato: quid est veritas? L'espiezione del redentore è tutta in quel silenzio. Gli altri guardarono all'abate come aspettando uno scatto, ma questo invece si volse a Tebaldi: - A te ora, poiché i poeti, i quali come Osnaghi fanno ancora dei versi, non sentono più Cristo che dipinto. Tu socialista, se davvero il socialismo sarà Un'epoca nello spirito umano, devi intendere quella, dalla quale esce. Ami tu Cristo?. - Io lo odio. - Tanto meglio! Il tuo odio potrebbe averlo compreso più dell'amore di Tarlatti. Cristo non ha egli detto: chi non odia l'anima sua in questa vita non la serberà immortale? Chi odia crede. Tebaldi il più grosso dei quattro si torse verso l'abate appoggiando il gomito sulla tavola e guardandolo fissamente; la sua faccia: quadra, bruna, dai sopraccigli quasi riuniti, esprimeva una fiera energia. - Non ho il vostro ingegno - cominciò - ma io credo; per voi altri la vita è uno spettacolo, del quale vorreste riprodurre i quadri nell'arte, e così pensereste di aver vissuto. Allora come ridete di Bovio? Perchè il suo quadro di Cristo è brutto? E bello a che cosa gioverebbe, se nemmeno la redenzione di Cristo ha giovato? Quando tu, Mattioli, parlavi di Giuda, io ti ascoltavo attentamente: il cristianesimo non ha potuto comprendere il suo tradimento, tu dicevi. Ebbene, io ti rispondo: perchè tradimento non vi fu. In che cosa si poteva tradire Cristo? Qual'era la sua idea? Io non la so. - Il mondo l'ha accettata. - proruppe l'abate.- Rimanendo tale quale, quindi non la sa come me. Egli si proclama figlio di Dio: è questa l'idea? Tutte le mitologie dei suoi tempi n'erano piene. La redenzione dal peccato originale mediante una incarnazione divina? Tutte le mitologie n'erano piene. Un'altra vita in un altro mondo migliore? Tutte le mitologie n'erano piene. L'uguaglianza del genere umano. - Sì. - Ma non osò proclamarla. - Nel cristianesimo schiavo e padrone sono eguali. - Come dunque sono ancora schiavo e padrone? Che egli abbia o no avuto una esistenza di uomo, mi pare la più inutile delle questioni dal momento che sarebbe stato un uomo non superiore al proprio tempo. - Perchè dunque hai detto di odiarlo? Gli altri assistevano quasi ansiosi allo strano duello, ma dinanzi al viso sempre così oscuro di Tebaldi, la fronte dell'abate si rischiarava; ambedue sentivano che i discorsi fatti sino allora non erano stati che divagazioni. - Per la religione del suo nome: essa è ancora il più grande ostacolo al progresso umano colla viltà dei dogmi e l'ipocrisia delle speranze. Il Dio di Cristo crea l'uomo, certamente per l'uomo e non per sè stesso, e nullameno per un primo peccato condanna tutta la sua discendenza: è una fola, lo so, ma questa fola rende ancora timida l'umanità. Cristo si proclama suo figlio, e viene a morire con noi per redimerci dalle conseguenze di questo peccato: dove? - In un altro mondo; e allora a che prò discendere in questo? E la speranza, di quell'altro mondo, che conserva tutte le ingiustizie nel nostro. Se la vita è un pellegrinaggio, perchè preoccuparci della strada? Basta la mèta, molto più che il viaggio è brevissimo. Il mondo invece deve inventare una stazione. - Nell'infinito. Arrestati, se puoi, tu che parli di stazioni: il tuo giorno è un baleno fra due ombre, la tua vita è una corsa fra due mète: hai Dio dietro e Dio davanti. Arrestati: in nessun momento della tua esistenza terrena sei pari a te stesso, solo nella tua anima immortale sta la tua identità. Atteggia, combina il mondo come ti piace, non sarà bello perchè potrà guastarsi, non sarà giusto perchè tu condanni il presente, e non puoi mutare il passato. Se tu vuoi la felicità degli uomini vivi, perchè non la pretendi anche pei morti? Il loro antico dolore non basterebbe dunque a turbare la tua gioia nel nuovo assetto sociale? Tu, che accusi d'ingiustizia l'elezione del popolo ebreo fra tutti i popoli, vorresti eleggere alla beatitudine una generazione e le generazioni di essa contro tutto il numero delle altre: pretendi la felicità, e fuggi dinanzi al problema del dolore! Perchè l'uomo soffre? Fino a quando non avrai risposto in te medesimo a questa domanda, il tuo appello alla gioia sarà per lo meno insensato; tu, l'uomo delle scienze positive, vuoi dunque risolvere l'equazione facendo a meno dei suoi dati?- La società sola riduce l'uomo infelice. - Ancora l'uomo contro l'uomo! Perché? questo se tu li credi eguali? E se invece sono dispari nella natura, solamente in Dio potranno pareggiarsi. L'umanità non è dunque più per te socialista un uomo solo, sempre uguale a sè medesimo, nella cui vita ogni generazione è un minuto, che si ricorda al di là del proprio passato, e presagisce quanto gli si prepara nell'avvenire? Il primo pensiero dell'uomo non è per sè medesimo, ma per il proprio creatore. Provati a non ascoltare la domanda, che ti sale ad ogni istante dalla coscienza: donde vengo io che vado? E subito dopo: dove vado io che passo? E poichè non sai rispondere, il problema diventa triplice: allora chi sono? Domandalo a Dio. - Troppi lo hanno già chiesto indarno. - E tutti chiederanno sempre. - Perchè il dubbio è la nostra unica verità - intervenne Tarlatti. - No, esso ne è solamente la fatica. Dio risponde perchè egli stesso, suscitando in noi queste domande, ha voluto che la nostra vita sia un dialogo ininterrotto con lui. Le vostre arti dilucidano i propri quadri sul panorama della sua creazione, le vostre scienze sillabano le prime parole sul libro delle sue leggi, la nostra storia effimera comincia e finisce nella sua storia eterna. Perchè Dio non sarebbe disceso fino a noi sotto la forma di Gesù? La leggenda mosaica, voi dite, è assurda quanto l'altra cristiana della redenzione: ma che ci resta di più ragionevole? Forse la ragione, che ignora tutti i perchè delle proprie domande e delle proprie risposte? Cancellate creatore e creazione, ma resterete sempre dinanzi al pensiero, che ha potuto tanto cancellare, e alla materia incancellabile anche per il pensiero. Siete dunque al medesimo punto, nella stessa antitesi del finito coll'infinito, dell'uomo con Dio: e poiché nulla può disgiungere materia e spirito, forma e sostanza, ordine e cose, Cristo torna mediatore fra le sue nature inseparabili. Cristo non si riesce a negarlo; tu, Mattioli, lo ammetti nell'arte, tu, Tarlatti, nel dubbio, tu, Tebaldi, nell'odio; mentre egli vi costringe tutti e per sempre nella propria orbita divina. L'umanità tenterebbe indarno di scordarlo, perchè in essa, ciò che fu, dura. Prima di strappare Cristo alla coscienza dell'umanità cercatevi intorno con che cosa riempirete in essa un vuoto di duemila anni. Chi di voi, può proclamare false le figure dello spirito accettando per vere quelle della natura? L'indimenticabile dell'uno non vale dunque l'immutabile dell'altra? Per coloro, che credono, il presente è l'eterno: per quelli, che dicono di non credere, il presente è l'effimero, ma la realtà è ugualmente per tutti nel presente: Cristo è presente nell'umanità. Tu, romanziere, hai confessato che nessun dramma è più intenso del suo: trova tu, poeta, una passione della sua più ineffabile: tu, filosofo scettico, cerca un dubbio più profondo della sua fede - se la nostra vita non viene da Dio, e non torna a Dio per mezzo di Dio, dove va la nostra vita? - Tu, socialista, accumula tutte le risorse della materia, condensa l'immensità del mondo nella brevità del tuo tempo, e costruisciti una vita di piaceri; il più piccolo dei dolori spirituali simboleggiati in Cristo ti renderà per sempre, ugualmente, inconsolabile. Tutti noi portiamo Cristo crocifisso nel cuore, e la nostra passione continua la sua, finchè sia consumata la prova e vinto il mistero. Oggi come sempre il mondo appartiene a coloro che credono. - Chi crede più? - chiesero tutti a una voce. - Coloro che interrogano senza pretendere la risposta, e coloro che rispondono senza essere interrogati: i grandi della scienza che consultano l'universo aspettando ingenuamente le sue rivelazioni, e i piccoli della storia che rispondono, inconsciamente ai suoi appelli. Sono gli eletti di Dio. - E la chiesa, della quale tu vesti l'abito? - intervenne con fine sorriso Tarlatti. - Signori, è ora di chiudere - disse l'oste appressandosi al loro tavolo dopo aver spento senza che se ne accorgessero, quasi tutti i becchi del gas; questo brusco avviso li richiamò come una strappata dalle aeree regioni, nelle quali avevano spaziato sino allora, alla volgarità dell'ambiente. Il fiasco era ancora intatto. - Oh! - proruppe Tarlatti - bisogna pagarlo ugualmente, poichè l'oste ha dovuto sopportare quanto abbiamo detto finora. Si erano rimessi i mantelli e si avviarono per uscire: piovigginava. Scambiarono qualche parola sulle lezioni dell'indomani all'università, erano tutti studenti, poi si strinsero con affetto la mano. - Dunque, caro abate - disse ancora Tarlatti - la conclusione è: Laus Christo, come l'intestatura dell'ultimo capitolo nell'ultimo volume di Renan sulle Origini del cristianesimo. - E a Bovio? - interruppe sardonicamente Mattioli prevenendo la risposta. - Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo - rispose l'abate coll'imperturbabile fede dei mistici.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679057
Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Cecco avrebbe voluto domandare se era andata a letto perché si sentiva male; ma tacque indispettito, e la Regina prese a dire: Tanti ma tanti anni fa, il Papa era in guerra con l'imperatore Federigo, e questi, per creargli impicci, mandò a chiamare un santo abate del monastero di Strumi, che apparteneva all'ordine di Vallombrosa, per nome Giovanni Ungheri, e lo creò Papa sotto il nome di Calisto III. Questo abate, prima di partire dal monastero, ordinò a un orefice una bellissima corona d'oro e, fattala ornare di pietre preziose, la pose in capo a una Madonna di legno, grande al naturale, che era nella chiesa del monastero, considerando che la scelta dell'Imperatore fosse avvenuta per ispirazione della Madonna, di cui egli era devotissimo. Dopo aver fatto questo donativo, Calisto III lasciò Strumi, e fu eletto in sua vece un certo frate Lamberto, di origine tedesca, uomo molto avaro e cupido di ricchezze. Questo abate Lamberto, tutte le volte che si trovava in chiesa a pregare, posava gli occhi sulla corona d'oro della Madonna, e tutte le volte pensava che era un peccato di lasciare infruttifere tante migliaia di fiorini quanti ne valeva quella corona, mentre una di similoro avrebbe fatto la stessa figura. Un giorno capitò nel monastero un orefice di Arezzo, per ridorare una croce che l'abate soleva portare in processione, e fra' Lamberto, nel parlare con l'artefice, venne a ragionare della famosa corona e di quello che era costata. - Ora vale anche di più, - disse l'orefice, - perché chi l'ha lavorata è morto, e tutto ciò che è uscito dalle sue mani ha raddoppiato di costo. L'abate, nel sentir questo, disse all'orefice: - È un'imprudenza di lasciare una cosa di tanto valore esposta alla tentazione del primo venuto; sapresti tu farmi una corona eguale a quella, ma di metallo più vile, e ornarla di gemme false? La vera allora si terrebbe riposta e non si metterebbe fuori altro che nei giorni solenni. - Saprei ben farla, e così somigliante che neppure papa Calisto riuscirebbe a riconoscere quella donata da lui, dalla mia. - Allora mettiti al lavoro; - replicò l'abate, - ma bada bene di non rivelare a nessuno il segreto. L'orafo tornò ad Arezzo, e dopo poco tempo portava all'abate Lamberto una corona perfettamente eguale alla vera. Il cupido frate, dopo averlo pagato, si affrettò a scendere in chiesa e, approfittando di un momento in cui nessuno lo vedeva, tolse di sul capo della Madonna la corona preziosa, vi pose la falsa e, nascondendo sotto lo scapolare il gioiello, andò nella sua cella per guardarla bene e giudicare quanto ci avrebbe guadagnato vendendola. In paese c'era un uomo che trafficava in Romagna, e pensava di affidarla a costui per venderla. L'abate era tutto occupato in questi calcoli, quando sentì bussare all'uscio e comparve il frate sagrestano col viso tutto rabbuffato: - Padre abate, - disse tremando, - in chiesa è avvenuto un miracolo. - I miracoli che avvengono in chiesa non possono spaventare un buon cristiano: parla. - Mentre accendevo le lampade dinanzi all'immagine della Madonna, questa ha incominciato a scrollare il capo, prima piano e poi forte, e le è caduta di testa la corona. - L'avrai inciampata con la canna che regge il moccolino. - Padre abate, no; e poi in chiesa c'era molta gente, e ora si sarà già sparsa per il paese a narrare il miracolo. La cella dell'abate, intanto, si era empita di altri frati, e uno di essi, che era tenuto in conto di molto sapiente perché copiava continuamente antichi manoscritti ornandoli di belle iniziali fregiate, disse: - È naturale che la Madonna abbia gettata in terra la corona. La Santa Madre del Signore non vuole il dono di un frate che è divenuto antipapa a dispetto di Sua Santità Alessandro III, eletto nel conclave dei cardinali. La spiegazione che fra' Ilario dava del miracolo, confortò molto l'abate. - Avete parlato saggiamente, - diss'egli, - e noi metteremo un'altra corona sulla testa della Beatissima Vergine. E, senza indugiare, scese in chiesa, raccolse la corona falsa, e avviatosi nella stanza dov'eran conservati gli oggetti preziosi, tolse da un armadio una corona d'argento che egli stesso posò sul capo della Madonna. Quella sera, a refettorio, non si parlò d'altro che del miracolo, e nel castello di Strumi, come pure in paese, tutti traevano da quel rifiuto della Vergine l'augurio che ella si volesse costituire protettrice di papa Alessandro e della Lega dei comuni contro l'imperatore Federigo Barbarossa. - Vedete! - dicevano i paesani, - già due antipapi, creati da Federigo, sono periti di mala morte; presto toccherà anche a Giovanni Ungheri, il quale avrebbe fatto meglio a non cambiare l'abbazia di Strumi con la tiara che non gli viene da Dio. L'abate Lamberto, impensierito da quel fatto e da tutti i discorsi che suscitava, appena fu nella sua cella pensò esser prudente cosa il nascondere la corona in un ripostiglio a lui solo noto, e non parlar di venderla con anima viva. In seguito, tutto si sarebbe calmato; e quando il fatto fosse dimenticato, poteva, senza pericolo, mandare il gioiello magari anche in Francia. Egli dormì pacificamente, e, destato dalla campana che sonava a mattutino, andò in chiesa. Ma appena si presentò sulla porta che dal monastero metteva nel coro, ecco venirgli incontro molti frati spaventati. - Padre abate, - dicevano, - mentre stavamo a far la giaculatoria alla Madonna, l'immagine ha incominciato a muovere la testa, prima piano e poi tanto forte che la corona d'argento è caduta in terra: questa non è la corona dell'abate Giovanni, dell'antipapa; qui sotto c'è un mistero! L'abate Lamberto li calmò dicendo che probabilmente egli aveva posato male la corona e per questo era caduta; ma tanto lui quanto i suoi monaci, quella mattina, dissero distrattamente il mattutino e furon lieti che terminasse: l'abate, per tornar nella sua cella a meditare sull'accaduto; i monaci, per riunirsi fra loro e commentare lo strano avvenimento, del quale, ora, neppur fra' Ilario sapeva dare spiegazione, perché la corona d'argento era un donativo della buona contessa Matelda di Toscana, e la Madonna non poteva rifiutare un ornamento che veniva dalla pia dama. Perché dunque quel fatto avveniva tanto per la corona dell'antipapa Calisto, quanto per quella di colei che aveva lasciati i suoi feudi alla chiesa? - Misteri! - sentenziò fra' Ilario, e tornò ai suoi manoscritti, che gli facevano dimenticare le cose di questo mondo, e anche quelle del mondo di là. Dopo la refezione, l'abate Lamberto adunò i suoi monaci e propose loro di mettere un'altra corona alla Madonna e di legargliela sulla testa con un filo di argento. E tutto il convento andò in processione a togliere dall'armadio una bella corona di argento, ornata di smalti e portata a Strumi da Guido di Besagne, il capo dei conti Guidi di Casentino, l'unico superstite della potente famiglia, che aveva i suoi feudi in Romagna. Egli aveva regalata quella corona alla Madonna di Strumi in ringraziamento di una grazia da lui ottenuta, ed era un pregevole lavoro di Bisanzio. Questa volta l'abate non osò mettere la corona in testa alla Madonna; aveva la coscienza sudicia e temeva che l'immagine santa facesse un terzo miracolo per isvergognarlo in presenza di tutti: perciò disse a fra' Ilario: - Salite voi sulla scala e legate forte la corona in testa alla Vergine. Fra' Ilario prese un filo d'argento e un paio di tanaglie, e assicurò ben bene la corona sulla testa della Madonna, per modo che, per togliervela, sarebbe occorsa una lima. Quando questo lavoro fu terminato, l'abate Lamberto ordinò ai suoi monaci d'inginocchiarsi, e poscia intuonò la Salve Regina Ma neppur dopo questa preghiera era più tranquillo, perché gli pareva che la Madonna tenesse fissi su lui gli occhi che avevano perduto l'espressione buona e dolce, e s'erano fatti severi. Neppur quello sguardo crucciato della Madre di Gesù, bastò a farlo ravvedere. Con poca fatica avrebbe potuto togliere la corona dal nascondiglio e metterla nell'armadio al posto della falsa; ma quando pensava al valore di quel gioiello, sentiva ridestarsi in cuore tutta la sua cupidigia, e gli pareva già di vedere le belle monete d'oro che ne avrebbe ricavate, vendendolo. Allora i due miracoli gli apparivano cosa naturalissima, e diceva che la corona falsa e quella d'argento eran cadute perché nella fretta non le aveva bene accomodate sul capo della sacra immagine. L'abate Lamberto fece anche quella notte tutto un sonno, e avrebbe dormito fino a tardi se le campane non lo avessero destato per andare a mattutino. Scese in chiesa, a passo lento, come si conveniva a un uomo rivestito di un'alta carica, ma giunto sulla porta si fermò. Che volevano dire quelle genuflessioni dei monaci, quel silenzio e tutte quelle lampade accese, nella chiesa ancor buia? Fra' Ilario, che lo aveva scòrto fermo sul limitare della chiesa, glielo disse in poche parole. Un istante prima, mentre i monaci recitavano la giaculatoria, la Madonna aveva alzato le braccia e, staccatasi la corona, l'aveva gettata sul pavimento dov'era ancora. A questo racconto l'abate Lamberto impallidì, tremò, e non ebbe coraggio di accostarsi alla immagine. - Adunate il Capitolo, - suggerì fra' Ilario all'abate. - Aduniamolo, - rispose questi. Prima che il sole fosse alto, tutti i monaci che facevan parte del Capitolo erano convenuti in una grande sala attigua alla cella dell'abate, e questi stava seduto nel fondo di essa, sotto un baldacchino, perché gli spettavano gli stessi onori che ai signori di feudi, e aveva giurisdizione sulle terre dipendenti dall'abbazia di Strumi, e diritto di vita e di morte sugli abitanti. Tutti i monaci aspettavano che l'abate cominciasse a parlare, ma l'abate taceva. Fra' Ilario allora prese a dire: - Fratelli, finché si trattava della prima corona caduta dalla testa dell'immagine della Madonna, si poteva supporre che la Madre di nostro Signore avesse orrore di un donativo fattole da un antipapa, cioè da un nemico della Chiesa fondata da Pietro per ordine di Gesù; in quanto alla seconda corona si poteva ammettere che il nostro abate non l'avesse collocata solidamente sul capo dell'immagine; ma oggi voi tutti avete veduto l'atto della Madonna; che cosa ne pensate? - Miracolo! Miracolo! Miracolo! - si udì ripetere da tutte le bocche, - Miracolo sì, ma il miracolo è stato fatto a uno scopo; questo è l'effetto, ma la causa di questo miracolo, qual è? Un profondo silenzio si fece nella sala, e allora l'abate Lamberto, ripreso imperio su se stesso, prese a dire: - Fratelli, mi pare atto da ribelli il voler indagare la mente della gloriosa Madre di Gesù; sottoponiamoci al volere di Lei e non tentiamo più di alienare da Strumi la sua valida protezione, volendole porre in testa una corona che rifiuta; chiniamo la testa e preghiamo. L'astuto abate, con questo scappavia, aveva creduto di rimediare a tutto, e i monaci, assuefatti all'obbedienza, accettarono la proposta dell'abate, il quale, alzatosi dal ricco seggiolone, ordinò ai fratelli di seguirlo in chiesa, e congiungendo le mani si avviò avanti a tutti verso l'altare. Entrato che fu in chiesa, s'inginocchiò dinanzi alla Madonna, sopra un guanciale di drappo d'oro, e intonò le litanie. Si era fatto appena il segno della croce, quando tutti i monaci, che tenevano gli occhi fissi sull'immagine, dettero un grido. La Madonna, lentamente, aveva alzato il braccio destro e, puntando l'indice sull'abate, lo accennava agli altri. Frate Lamberto spalancò gli occhi, dette un grido e cadde tramortito per terra; i monaci fuggirono spaventati, e intanto l'abate rimase disteso sulle lastre di pietra, senza che nessuno gli desse aiuto. - È dannato! è dannato! - si sentiva bisbigliare per il monastero dai monaci sgomenti, che andavano a rinchiudersi nelle celle per pregare. Il sagrestano e fra' Ilario ebbero compassione dell'abate, e dopo poco ritornarono in chiesa per veder se si era riavuto. - Io ritengo che sia morto, - diceva il sagrestano, - e allora che sarà stato mai dell'anima sua? - No, fratello, non è morto. La Madonna, che è così pietosa anche per i più ostinati peccatori e intercede il Divin Figlio per loro, non può aver permesso che l'abate Lamberto muoia in peccato, poiché la sua anima certo non è scevra di macchie. Solleviamolo di qui, portiamolo nella sua cella e forse potremo guarirlo. Fra' Ilario, che nel copiare manoscritti dell'abbazia aveva imparato a conoscere la virtù di certe erbe medicinali, quando ebbe collocato l'abate sul letto, lasciò il sagrestano a guardia del malato e andò in cerca dei semplici che credeva lo potessero guarire; ma per quanto gli aprisse la bocca, gli facesse inghiottire decotti e gli applicasse degli empiastri, l'abate Lamberto non apriva gli occhi e non dava segno di vita. I monaci, sempre impauriti, udendo fra' Ilario andare e venire sotto i loggiati del cortile, mettevano ogni tanto il capo fuori dell'uscio della cella e domandavano notizie. Fra' Ilario passava, scrollando la testa come per dire che non c'era nulla di nuovo. Il sagrestano rimase tutta la notte a vegliare l'abate; ma il monaco, vinto dalla stanchezza, chinò il capo sul petto e s'addormentò saporitamente. Egli avrebbe dormito fino a giorno, senza rammentarsi di suonar mattutino, se non lo avessero destato grida strazianti. Aprì gli occhi e vide l'abate seduto sul letto, con gli occhi sbarrati e fuori della testa, che accennava la porta, che era in faccia al letto, ed era stata aperta senza sapere da chi né come. E da quella porta vide lentamente entrare l'immagine della Madonna, col volto crucciato, fermarsi in fondo al letto e accennare l'abate. Il sagrestano non volle veder altro. Scappò via come un pazzo, facendo svolazzare la tonaca bianca per i loggiati e per i corridoi, e giunto in sagrestia si attaccò alle campane e suonò all'impazzata, finché non gli rimase in mano la fune. I monaci si destarono credendo che l'abbazia bruciasse; la gente del paese si spaventò, e tutti, senza pensare a vestirsi, scapparon dal letto: i monaci, per correr in chiesa; la gente, per andar sulla piazza a veder quello che accadeva. Il sagrestano spalancò le porte della chiesa, e ai frati che giungevano dal convento e ai terrazzani che entravano di fuori non sapeva dir altro che: - La Madonna! La Madonna! Allora tutti guardarono, e si accòrsero che la sacra immagine non era più al suo posto. Questa sparizione agghiacciò ognuno dalla paura, e il popolo cadde in ginocchio atterrito, mentre i monaci fuggirono nelle celle. Fra' Ilario andò in quella dell'abate, e con grande meraviglia vide la Madonna appiè del letto e il malato per terra, malamente caduto e livido in faccia. Allora riunì i monaci e disse che la Madonna bisognava riportarla in chiesa in processione e che probabilmente era voluta andare a benedire l'abate prima che morisse, perché questa volta era morto davvero. Infatti le sue membra si erano irrigidite, ed egli era ghiaccio come un pezzo di marmo. Alcuni monaci ubbidirono, altri non poterono, perché lo spavento li teneva inchiodati nel letto; ma, come Dio volle, la processione si fermò e la Madonna, collocata sopra una barella, fu riportata in chiesa sul piedistallo. Fra' Ilario, aiutato da due monaci meno paurosi degli altri, vestì il corpo dell'abate della bianca tonaca e dello scapolare; lisciò la sua lunga barba, congiunse le mani del morto, e, dopo avergli messo sul petto la croce d'oro e le insegne del suo grado, lo fece portare in mezzo alla chiesa per rimanervi esposto. Appena la notizia della visita della Madonna nella cella dell'abate e della morte di lui si sparse nel contado, venne la gente a frotte e, credendo che Lamberto fosse santo, ognuno voleva toccarlo e portar seco una reliquia del defunto. Così, chi gli stracciava un pezzetto di tonaca, chi qualche pelo della barba, chi i capelli. La sera, quando due novizî furono lasciati a guardia del cadavere per pregare, l'abate pareva un Ecce Homo Ma la chiesa era quasi buia, la nottata lunga, e i due novizi s'addormentarono a un certo punto senza neppure terminare un De profundis che avevano incominciato; e nel destarsi, trovarono il cadavere con una gamba fuori della bara, per cui, invece di ricomporlo, scapparono per il monastero. Fra' Ilario, che fu tra i primi a correre in chiesa, confortò i monaci dicendo che i cadaveri si muovono talvolta perché i muscoli si rilasciano ; e alla meglio ricondusse la calma negli animi agitati, ma consigliò che il cadavere fosse presto calato nell'avello per far cessare tutte le cause di paura e di sgomento. E, come fra' Ilario aveva suggerito, fu fatto. La salma dell'abate fu calata quella mattina stessa nel sotterraneo, dopo essere stata aspersa di acqua benedetta; la pesante lapide di pietra cadde con fracasso sul pavimento e ne fu chiusa l'apertura. Quel giorno fu detto l'uffizio dei morti, e la mattina dopo venne cantata una messa per il riposo dell'anima dell'abate. Il popolo era tutto adunato in chiesa, i monaci avevano indossato i paramenti neri e gialli e stavano aggruppati intorno all'altare, quando tutti gettarono un grido. La lapide che chiudeva l'avello si alzava lentamente, e da quella sbucava fuori la testa livida di fra' Lamberto, con gli occhi sbarrati e la barba spelacchiata dai fedeli. - È risuscitato! È risuscitato! - si sentiva gridare. Fu un fuggi fuggi generale. La gente si affollava alla porta per uscire, le donne urlavano, il monaco che diceva la messa scappò col calice in mano, gli altri si sbandavano per il convento, e in breve in chiesa non rimase altri che l'abate, il quale faceva sforzi sovrumani per sollevare sempre più la lapide e aprire un varco alla sua persona. Vi riuscì finalmente, ed estenuato, cadendo ogni dieci passi, giunse alla sua cella senza esser veduto da alcuno. Ma qui le forze gli mancarono e rimase lungamente disteso per terra. I monaci s'eran chiusi in tre o quattro nelle celle e non osavano fiatare; fra' Ilario soltanto, dopo il primo momento di paura, tornò in chiesa, vide la lapide ancora sollevata, guardò nell'avello, e scorgendo la bara vuota si diede a cercare l'abate per il convento. "Forse non era morto; - pensava, - e chi sa, poveretto, quant'ha sofferto?" Nell'entrare in camera lo vide lungo disteso per terra, e corse a prendere vino e cibo per ristorarlo. Dopo poco l'abate Lamberto aprì gli occhi e, veduto frate Ilario accanto a sé, gli disse con voce spenta: - Fratello, volete farmi la carità di ascoltare la mia confessione? - Dite pure, abate reverendo, - rispose il monaco. Lamberto allora si accusò di tutti i suoi peccati di cupidigia, fino a quello della sostituzione della corona. - Ora mi rimane da dire il più grosso! - esclamò. - Dite pure, abate reverendo, io vi ascolto, e la misericordia di Dio è grande. L'abate narrò minutamente le tentazioni alle quali aveva soggiaciuto, i calcoli avari che avea fatti, l'indifferenza con cui aveva accolto gli avvertimenti palesi della Madonna. - Sono un gran peccatore! - disse terminando la confessione. - Siete pentito, sinceramente pentito? - gli domandò fra' Ilario. - Tanto pentito e sgomento del mio misfatto, che se mi diceste di andare in Terra Santa in pellegrinaggio a farmi trucidare dagli infedeli, vi andrei. - Non è questo che io v'impongo, ma bensì di ripetere pubblicamente in chiesa l'accusa contro voi stesso, e di venire in processione al nascondiglio a prender la corona per rimetterla con le vostre mani sulla testa della Vergine Santissima. - Ebbene, fra' Ilario, fate bandire per tutta la terra di Strumi che oggi stesso tutto il popolo sia adunato in chiesa prima del vespro per udir la confessione dell'abate. È inutile dire che la chiesa era gremita di gente quando l'abate vi scese sorretto da fra' Ilario e da un altro monaco. Egli s'inginocchiò nel centro della navata maggiore, sulla lapide che chiudeva l'avello, e, a capo chino, incominciò a snocciolare la lunga corona dei suoi peccati. Finché disse che aveva venduto indulgenze, che s'era appropriato il denaro del povero, che aveva ingannata la gente in ogni modo, il popolo tacque, ma quando giunse a confessare di avere spogliato la Madonna del prezioso donativo di Giovanni Ungheri, allora da cento bocche uscì una terribile parola infamante: - Ladro! Ladro! L'abate Lamberto chinò la testa e continuò la confessione; poi, alzatosi, si avviò alla sua cella seguìto dai monaci, e poco dopo ritornava in chiesa recando sopra un guanciale la preziosa corona, che riponeva sulla testa della Madonna. Quindi, come se non credesse completa la espiazione, si fece portare la corona falsa, e, postasela in testa, disse: - Questa io la porterò sempre affinché tutti sappiano del mio peccato. Quello stesso giorno l'abate Lamberto rinunziava alla sua carica, vestiva l'abito da pellegrino e col capo grottescamente ornato della corona, partiva per Terra Santa. Da quel giorno la Madonna di Strumi rimase immobile sul piedistallo, e la preziosa corona non si mosse più dalla testa di lei. Intanto la fortuna dell'Imperatore era assai scemata in Italia, e Alessandro III, il Papa eletto nel conclave dei cardinali, acquistava sempre maggior potenza. L'antipapa Calisto III, eletto dall'Imperatore, fu preso dal rimorso, e dopo lunghe incertezze depose la tiara e si riconciliò col Papa vero, con Alessandro. Questi, per ricompensarlo della sua sottomissione, gli restituì l'abbazia di Strumi abbandonata da fra' Lamberto, che tornato dopo alcuni anni dal pellegrinaggio di Terra Santa, senza essersi mai tolto di capo la corona che gli attirava le beffe di quanti lo incontravano, venne a stabilirsi in un Eremo poco distante da Strumi, menando vita solitaria ed esemplare. Quando Lamberto venne a morte, lasciò detto che desiderava esser sepolto con quella corona, che era stata per lui una vera corona di spine. L'abate Giovanni Ungheri non rimase molto a governare l'abbazia di Strumi. Papa Alessandro lo nominò arcivescovo di Benevento e la sua carica passò all'abate Ridolfo, il quale, edificata l'abbazia di San Fedele a Poppi, andò a stabilirvisi abbandonando Strumi. Ora dell'abbazia e del palazzo non restano altro che pochi avanzi, sui quali è stata costruita una casa di contadini; ma chi scava nei dintorni, trova scheletri grandissimi, e chi dice che sian di monaci, chi dei conti Guidi. In quella casa ci andò sposa una mia sorella, e per questo so tanto bene vita, morte e miracoli dell'abate Lamberto e dell'antipapa. Le mura non parlano, la terra neppure, ma parlano gli uomini, e così parlando, la storia dell'abate Lamberto si è risaputa di padre in figlio e io ho potuto raccontarvela, - terminò la Regina. - Grazie, mamma, - disse Maso, - ma non sarò io che potrò raccontarla come voi; farei un bel pasticcio se mi risolvessi a farlo. - Io però la so benissimo, - disse l'Annina, - e non dubitate, nonna, che questa e le altre novelle che ci avete raccontate, le ho tutte qui, - e accennò il capo. - Così potessi narrarle ai miei nipotini, come fate voi! I Marcucci continuarono un bel pezzo a parlare del monastero di Strumi e delle sue vicende, senza accorgersi che Cecco era sparito alla chetichella. Tutta la sera era stato inquieto, pareva che non avesse terren fermo, e appena la mamma aveva cessato di narrare, era uscito dalla parte che metteva nel cortiletto della stalla, e una volta fuori s'era diretto a passi precipitati verso la casa di Vezzosa. In cucina il lume ardeva ancora e il padre della ragazza stava sull'uscio a fumar la pipa. - Buona sera, Momo? - aveva detto Cecco. L'altro aveva risposto, e da un discorso all'altro eran venuti a parlare delle veglie, e Cecco aveva domandato al contadino: - Come mai non ci avete mandate le vostre figliole stasera? - Oh! queste donne! - esclamò Momo. - Non sanno star d'accordo. Che volete che vi dica; la massaia ha rimproverato Vezzosa perché dice che coll'andar fuori a veglia la domenica, svia tutti quelli che verrebbero da noi a far due chiacchiere; e Vezzosa se l'è avuto a male ed è andata a letto. Vedete, io voglio bene alle figliuole ed è per loro che ho ripreso moglie; ma se sapevo che sarebbero state insieme come cani e gatti, vi giuro io che non avrei messo un'altra donna in casa. - La pace tornerà appena avrete maritate le figliuole, - rispose Cecco. - Maritarle! È una parola. Per Vezzosa s'era presentato un partito; Felice del Masi, lo conoscete? Ebbene, lei non lo vuole; la mi' moglie vorrebbe darglielo, e da qui scene continue, e addio pace! Cecco sossultò a quelle parole, ma non ebbe coraggio di spiegarsi. Bisognava che prima interrogasse la mamma, i fratelli, le cognate, e se il maggior numero di loro si fosse opposto al parentado con Vezzosa? Quella sera Cecco andò a letto tutto turbato e dormì male, cosa che non gli era accaduta mai.

Al tempo dei tempi. Fiabe e leggende delle Città  di Sicilia

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Perodi, Emma 1 occorrenze

La tenne sempre chiusa nel bel palazzo, e prima che la moglie gli desse l'erede tanto desiderato, prese un abate che era stato precettore suo per affidarglielo, perché a quei tempi i giovani nobili erano sempre affidati a un precettore che era sempre abate. Quest'abate conosceva tutte le faccende della famiglia, sapeva che il Principe non aveva nessun parente e più volte aveva frugato nell'archivio dove si serbavano i documenti e gli atti di compra e di possesso dei beni che gli avevano fatto sempre gola. La Principessa, quando fu il momento, fece un maschio, ma ella, poveretta, soffrì tanto che di lì a tre giorni morì. Il Principe, dal dolore di vederla morire, morì egli pure. Che fa allora l'abate che sapeva tutti i fatti di famiglia ? Licenzia la balia del Principino orfano col pretesto che aveva poco latte, e, invece di procurarne un' altra, una sera rinvolge il Principino in una coperta e va in campagna, dalla parte di Piana de' Greci dove sapeva che abitava un mugnaio con la moglie. La donna allattava un suo bambino già grandicello e l'abate tante gliene disse che la persuase, per il lacchezzo d'un buon salario, a divezzare il suo e a prendere ad allattare il piccino che le aveva portato, senza però dirle chi fosse. Per qualche mese l'abate andò a vedere il Principino, portò il salario alla balia e qualche regaluccio, le fece sperare un bel paio di pendenti quando all'allievo fosse spuntato il primo dente, una bella collana quando sarebbe andato solo.... insomma, fece molte chiacchiere, ma quando la balia e il marito gli domandavano come si chiamava, dove stava, chi erano i genitori del bambino, rispondeva con una barzelletta, li trattava di curiosi, ma non dava nessuna risposta concludente. L'ultima volta che andò al mulino, al Principino era spuntato il primo dente. - Evviva la nutrice ! - esclamò l'abate. - Quest' altra volta che vengo avrete i pendenti. E saranno belli, sapete. Con tre rubini e tante perle ; pendenti da regina e non da mugnaia. E poi, quando il piccino camminerà, avrete il resto. Io sono uomo di parola ; anzi, prometto sempre meno di quel che mantengo. Figuriamoci come gongolasse la nutrice! Fece cenno al marito, che subito andò a prendere un boccale di vino di quello buono, ella fece le frittelle e mangiarono e bevvero allegramente. Ma aspetta l'abate con gli orecchini, l'abate non venne più e non si curò di mandar neppure il salario. Il mugnaio sbuffava, la mugnaia pure e un bel giorno, stanca di dar latte a ufo, divezzò il bimbo e lo tirò su con un po' di pappa, mentre prima tutte le premure erano per lui. Il mugnaio, vedendo passare i mesi senza che l'abate ricomparisse, andò a Palermo a cercarlo, e cerca di qui, cerca di là non gli venne mai fatto d'incontrarlo. Ogni persona che fermava, dicendo : "Scusi, lo conosce un abate così e così ?" gli rideva in faccia, perché il nome non lo sapeva e abati ce ne erano tanti e tanti. Se ne tornò dunque al mulino con le pive nel sacco e prese a perseguitare il piccino che s'era figurato dovesse portare la ricchezza in casa sua, e che invece doveva campare a sue spese, perché a chi poteva renderlo ? A desinare il mugnaio non permise più al bimbo di stare a tavola con lui, la moglie e il loro figlio. Gli faceva mettere un po' di minestra in un tegamino rotto e nero, e lo mandava a mangiare col gatto e col cane per terra, in un cantuccio. A dormire non volle più che stesse in camera con loro ; gli fece mettere un po' di paglia in uno stanzino buio, e lì lo teneva, e quando il figlio lo chiamava a baloccarsi con lui, il mugnaio diceva : - Lascialo stare ; quello lì non è fatto per baloccarsi ; se vuol mangiare un pezzo di pane deve guadagnarselo e deve ripagare a tua madre il latte che gli ha dato e il resto. Quello lì non è tuo fratello ! - Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi : sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano : - Ti teniamo per carità ; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu dammela! - Ma tu non sei fratello mio ! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va'-e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre ! Come si cura del figliuolo ! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva : - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto ? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi ? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, si é impossessato del tuo. Va' a Palermo, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te ! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perché sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d' andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Vicerè, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli : - Alzati, mendicante ; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l' ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli : - Va' oltre, pezzente ! - E andò oltre, finché non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, e disse al padrone : - Mi prenda come garzone ; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non di elemosina, il tono con cui era fatta e l' aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che si imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva : - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò : - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori ? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - II poverino non voleva narrare l' apparizione della madre perché quel segreto era la sua sola gioia e la sua sola ricchezza. Per questo alla domanda del fabbro rispose : - Che so? m' hanno detto che sono figlio del principe di Cattolica e che quel perfido abate s'è impossessato di tutti i miei beni. - Era presente al discorso la moglie del fabbro, la quale provò un senso di pietà sentendo che quel ragazzo, figlio di principi, nato in un palazzo, in mezzo all'oro, dovesse fare tutte le faticacce. - Senti, - disse al marito - io non posso vedere che questo ragazzo fatichi a questo modo. Non sarebbe meglio farlo studiare, invece che lavorare ? Anche se non ricupererà i suoi beni, una volta istruito ci darà sempre aiuto, perché è tanto buono e riconoscente ! Del resto la figlia nostra non potrebbe tirare avanti la bottega ! e lui lo farà bene, avendo un po' d'istruzione. - Il fabbro si lasciò convincere dalle parole della moglie e tolse il Principino di bottega a tirare il mantice, lo mise a scuola e spese di bei quattrini per fargli insegnare prima a leggere e scrivere e fare di conto, e poi il latino, le scienze e tutto quello che si insegnava allora. Intanto il Principino raggiunse l'età maggiore e il fabbro fece fare l'albero genealogico della famiglia di Cattolica, cavò tutti gl'incartamenti e gli atti per intentar lite all'abate e provare che non lui, ma il giovinetto era l'erede dei titoli e delle ricchezze. Incominciò il processo, e l'abate, che sapeva d'aver torto marcio, non si stancava di mandar rotoli di doppie d'oro, ora ai giudici, ora al presidente del tribunale. E via via che il tempo passava e che si avvicinava il momento della sentenza, quei rotoli aumentavano di volume. Il fabbro, poveretto, si limitava a pagar gli avvocati e faceva già un gran sacrifizio, ma non aveva mezzi per battersi con l'abate a rotoli di belle doppie di Spagna. E quando dopo due anni venne pronunziata la sentenza, fu, naturalmente, favorevole all'abate. S'appellarono, e il fabbro, che non voleva darsi per vinto, vendette diverse case per sostener le spese e non badava a spendere; ma l'altro ungeva sempre le ruote, e ogni momento rinfrescava la memoria dei giudici e del presidente a forza di rotoli di belle doppie d'oro sonanti e, naturalmente, vinse. Il Principino, vedendo i gran sacrifizi fatti dal fabbro per lui, lo pregò e lo supplicò di non continuare la causa. - Lasci che mi metta a lavorare in qualche modo per rifarla delle spese incontrate per me, - gli diceva - ma rinunzi a far valere i miei diritti. Io non posso permettere che lei vada in rovina, continuando una lite che l'abate saprà sempre vincere perché dispone di tanti mezzi. - In queste cose non t'ingerire. Io ho una figlia sola e la sua dote è assicurata. Di quel che ho guadagnato con le mie braccia sono padrone di fare quel che voglio, e intendo di continuare la lite, dovessi rimetterci anche la camicia. Lasciami pensare al mezzo di richiamare al dovere questi giudici comprati dall'abate, e poi.... - II Principino intanto si struggeva dalla pena, non perché desiderasse le ricchezze, ma perché, andandone al possesso avrebbe potuto rendere al fabbro tutto quello che aveva speso nella lite. S'accorgeva bene che in casa avevano limitato le spese, che la moglie aveva impegnato l'oro, che nessuno si faceva più un vestito nuovo. E tutto perché ? Per quel processo che non finiva mai. Una notte il Principino non poteva dormire, agitato da mille pensieri, uno più doloroso dell'altro. A un tratto esclamò : - Madre mia, aiutami tu, non permettere che il tuo figlio non possa sdebitarsi con questa brava gente che lo ha raccolto povero, estenuato dalla fame e che per lui ha fatto tanto ; madre mia, aiutami ! - II giovane Principe, dopo questa invocazione, sentì una manina delicata accarezzargli la fronte e una voce debole debole e lontana lontana, disse : - Figlio mio, nessuno ti può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ti può far rendere giustizia. Figlio mio, abbi dunque pazienza, costanza e fermezza ! - La voce tacque, ma, il giovane Principe si sentì consolato, e ogni volta che parlava col fabbro (sempre parlavano della lite, perché, si sa, la lingua batte dove il dente duole) gli ripeteva : - Nessuno ci può aiutare, se non il re di Spagna. Lui solo ci può far rendere giustizia. Ci vuoi pazienza, costanza e fermezza ! - II fabbro, a forza di sentir questo, si convinse che, di fatto, il Re solo poteva far rinsavire i giudici e, zitto zitto, di nascosto anche alla moglie, vende un' altra casa e le annunzia che deve partire per certi suoi affari. Invece s'imbarca per la Spagna, sbarca a Barcellona, piglia pratica alla Sanità e se ne parte per Madrid. A palazzo non conosceva nessuno e non era vestito come le persone di Corte ; per questo tutti lo sbirciavano con disprezzo, ma egli non ci badava. Era giorno di udienza e il Re riceveva tutti. Dopo lungo aspettare il fabbro fece passare l' ambasciata al Re, disse che veniva da Palermo e fu ricevuto. Appena alla presenza del Re, che era nientemeno che Carlo V, disse, gettandosi in ginocchio : - Maestà, grazia per il principe di Cattolica ! - Il Re lo guardò maravigliato perché non pareva davvero un Principe, e lo invitò a rialzarsi ed a parlare. Il fabbro allora cavò fuori tutte le carte che comprovavano le ragioni del Principino e le copie delle sentenze. Il Re, senza indugio, le esaminò, chiamò un suo giureconsulto a esaminarle, poi un altro ancora, e vedendo che si commetteva a Palermo certe nefandezze, esclamò : - Povero me, come sono ben servito ! Così si amministra in Sicilia la giustizia in mio nome ? - Proprio così, Maestà, - rispose il fabbro - soltanto chi ha quattrini ha ragione, anche quando commette una sfacciata usurpazione. - Ma questo non accadrà più, - assicurò il Re, e preso penna, carta e calamaio, scrisse una lettera per il Vicerè che doveva esser comunicata ai giudici, la munì del suo reale suggello e consegnandola al fabbro, disse: - Tenete, andate in Sicilia e abbiate fiducia che nessuno oserà più trasgredire agli ordini miei. - II fabbro, tutto consolato e pieno di speranza tornò a Palermo, consegnò la lettera del Re al Viceré, fece riaprire la causa, ebbe di nuovo una sentenza contraria e non se ne curò. Però il Principino se ne afflisse molto, e la notte dopo che fu pronunziata la sentenza, non riuscì mai a dormire. Sempre invocava la madre ed esclamava : - Madre mia, ma la giustizia è proprio morta a Palermo ? Come, non è rispettata neppure la volontà del Re ? Come, dovrò vedere quel perfido abate godersi i beni della mia famiglia e non potrò neppure rimborsare quest'eccellente popolano dei sacrifizi che fa per me? Non vedi, madre mia, che s'è disfatto di tutto quel che possedeva , non vedi che stenta per mantenere tuo figlio ? Non credi che questo sia uno strazio per me ? - L'infelice, dopo questa invocazione sentì un alito freddo sfiorargli il viso e due labbra gelate si posarono sulle sue, e quindi la solita voce affettuosa pronunziò lentamente queste parole : - Figlio mio, abbi pazienza, costanza e fermezza. Io pregherò per te. - E suggellando la promessa con un lungo bacio, si allontanò. Il fabbro sbraitava per la sentenza dei giudici, e tante ne disse che stavano per arrestarlo; ma il Vicerè non lo permise perché aveva nelle mani la lettera del Re e temeva qualche guaio serio. Il Principino, intanto, a tutti gli sfoghi del suo benefattore, rispondeva invariabilmente con le parole della madre : - Ci vuol pazienza, costanza e fermezza ! - Ma che pazienza ! - gridò una volta il fabbro. - Te lo faccio vedere io che cosa ci vuole! - E vende l'ultima casetta che possedeva con la bottega e tutto, e se ne va in Ispagna di nuovo. La moglie, che fino a quel momento non s'era lagnata e le era parso tutto giusto quel che il marito aveva fatto per il Principino, quando vide chiuder la bottega e dovette lasciar la casa, divenne una vipera. - Mio marito è pazzo ! - diceva a chi non voleva sentirla - è pazzo da legare! S'è mai veduto che un padre dia fondo a tutto quello che ha, riducendo la famiglia alla miseria, per far valere i diritti di uno che non è neppur suo parente ? Ecco qui, la nostra Angelina, non per vantarmi, era la ragazza più ricca di tutto il rione, e ora ha appena la camicia ! Chi se la piglierà così nuda bruca ? Nessuno. Ed ella ci rimprovererà sempre di averla sacrificata. - Non lo farò mai, mamma, - disse la fanciulla. - Io sono felice e non mi dispiace punto di non trovar marito. Sto bene così. Non vi pentite di quel che avete fatto per il Principino; io vorrei col mio lavoro, aiutarlo.- Angelina era abilissima nel fare ricami sulla tela, riproducendovi cacce, cortei reali e tante altre cose, che davano un pregio singolare alla biancheria. Ella si mise a lavorare e lavorava per le nobili dame e guadagnava tanto da campare sè e la madre mentre il fabbro viaggiava per la Spagna. Il Principino s'era rimesso a lavorare pure, e così la moglie del fabbro non mancava di nulla. Ecco che il fabbro sbarca a Barcellona, giunge a Madrid e si presenta al Re. - Maestà, il Vicerè di Sicilia ne fece un bel conto della vostra lettera ! - II Re si turbò. - Che sentenza hanno pronunziato i giudici ? - domandò. - Una bella sentenza ! Hanno dichiarato che l' abate ha tutto il diritto di valersi dei beni del principe di Cattolica e che il Principino è un truffatore. E l' abate se la gode nel palazzo e il Principino tira il mantice e suda a battere da mane a sera il ferro sull'incudine ! - Al Re vennero i brividi nel sentir questo. Poi incominciò a gridare e a battere i piedi. Prese la corona e la scaraventò contro il muro dicendo : - Che mi vale questa corona se non sono Re in Palermo ? - Poi prese lo scettro e lo scaraventò in terra dicendo : - A che mi vale questo scettro se non comando nulla in Sicilia e i giudici comandano più di me? - Poi prese il manto d'ermellino e lo strappò tutto, dicendo : - A che mi vale questo manto mentre nel mio Regno mi contano quanto Pulcinella ? - II fabbro, nel vederlo così infuriato, credeva che se la sarebbe presa anche con lui e l'avrebbe mandato a marcire in qualche prigione o a remare su qualche galera. Invece il Re, tutto buono si volse a lui e, mettendogli in mano una borsa piena di doppie d'oro, gli disse : - Andate a Palermo e udrete di gran notizie! - Il pover uomo ringraziò ed uscì lesto lesto. Più presto che potè s'imbarcò su una nave che faceva vela per la Sicilia e con quelle doppie d'oro rabbonì la moglie e levò il Principino da battere il ferro sull'incudine e da limare chiavi e toppe. Ma torniamo al Re. Subito subito fece chiamare un suo fido servitore. - Don Josè, - gli disse - io debbo partire per un lungo viaggio, ma non voglio partire da Re. Qui farete credere che sono all'Escurial a far gli esercizi religiosi e che non voglio esser disturbato, avete capito ? - Maestà, sì. - Procuratemi un vestito da abate, ma vecchio e bisunto, tagliatemi i baffi, fatemi la chierica.... - Don Josè credeva che il Re fosse impazzito. - Presto, don Josè, andate e stasera portatemi il vestito che v'ho chiesto. Non vi movete? Sono o non sono il rè di Spagna, d'Aragona, di Castiglia, di Leone, di Sicilia e del Nuovo Mondo ? Il discendente di Ferdinando e d'Isabella di Castiglia, sono o non sono Carlo V re e imperatore ? - Sì, Maestà, siete il più potente sovrano del mondo e sui vostri domini non tramonta mai il sole; ma appunto per questo, mi pare che l' etichetta richieda che il Re ne' suoi viaggi sia accompagnato.... - Al diavolo l' etichetta e tutto il resto, obbedite ! - E don Josè obbedì e la sera stessa portò il vestito da abate al suo Sovrano e dovette tagliargli i fieri baffi, la barbetta prepotente e col rasoio fargli una bella chierica nel centro della testa. Così trasformato il Re uscì dal Palazzo Reale di Madrid senza esser riconosciuto da nessuno, montò un ronzino, procurategli pure da don Josè e su quello pian piano percorse solo le strade maestre del suo Regno, accorgendosi che molte cose andavano male, che molte altre non erano come gli davano ad intendere ministri e cortigiani, e s' imbarcò finalmente a Barcellona. Una burrasca gettò la nave sulle coste di Trapani, dove il Re comprò un mulo e su quello si avviò alla capitale dell' isola. Ma se le cose andavano male in Ispagna, andavan peggio in Sicilia. Strade non ce n'erano, le campagne erano incolte e deserte, e il Re fu fermato tre volte nel viaggio dai malandrini. I primi gli presero la borsa con le monete d'oro, i secondi il mulo, i terzi, non potendo prendergli altro, gli levarono le scarpe con le fibbie d' argento, il mantello e l'abito talare, cosicché dovette fare il viaggio a piedi e scalzo e senza nulla che lo riparasse dal freddo e dalla pioggia. Figuriamoci che umore avesse quando pose finalmente il piede nella sua fedele città di Palermo. Se gli fosse capitato davanti il Vicerè che governava in suo nome, lo avrebbe per lo meno mandato alla forca. Fortuna che sapeva l' indirizzo del fabbro e andò a trovarlo! Il brav'uomo lo riconobbe subito e lo ristorò, lo calzò e lo vestì, altrimenti il Re sarebbe morto di fame ne' suoi felicissimi Stati. Il fabbro tempestò, fece l'ira di Dio perché di nuovo il Tribunale discutesse la causa e la discusse. Il Re quel giorno era nell'aula vestito da misero abate. A. un certo momento s'accorse che un giudice faceva una soperchieria, e pian piano disse : - Ma perché, signor giudice, non usate giustizia? - Ah, padre abate, occupatevi dei fatti vostri ! Se non ve ne andate, vi tiro il calamaio ! - II Re non voleva altro. Si sbottona la tonaca, si apre il colletto della camicia e fa vedere il Toson d'oro. I giudici rimasero come morti. - Giudici infami, - esclamò il Re drizzandosi - così vendete la giustizia ? Ordino e comando che subito questi cinque furfanti siano legati alle code dei cavalli e trascinati per la città. Voglio che il popolo veda che le loro ingiustizie, le loro infamie non sono approvate dal Re. - Subito questi giudici furono presi, legati alle code di focosi cavalli, trascinati per le strade e in un battibaleno erano bell'e morti. Poi furono squartati, scorticati e con la pelle dei giudici il Re fece fare tanti seggi e su questi seggi ordinò che sedessero sempre i giudici quando dovevano giudicare e condannare, perché non dimenticassero quel che era capitato ai loro predecessori. Il perfido abate perdette la causa e finì la vita in una prigione, e il Principino fu reintegrato nei suoi titoli e nei suoi beni e per riconoscenza sposò Angelina, la figlia del fabbro. Il Re fece alla sposa doni sontuosi e volle che le nozze fossero celebrate nella cappella Palatina, nel Palazzo Reale. Il Vicerè, poveretto, la passò brutta e così tutti i funzionari che governavano l' isola a nome del Re, il quale, facendo giustizia, si acquistò l' amore e la riconoscenza dei Siciliani. Il principe di Cattolica gli fece fare una statua che fu messa di fronte alla casa del presidente Airoldi nel Vicolo degli Agonizzanti. Il vicolo prese il nome di Cortile del Re, e la strada per la quale furon trascinati i giudici rei, fu chiamata la Calata dei Giudici e così si chiama ancora. Angelina e il Principe furono felici e contenti e lei fu Viceregina e il Principe Vicerè dell'isola per anni e anni.

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TAVOLOZZA

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Praga, Emilio 1 occorrenze

MILANO IN PERCORSA IN OMNIBUS COMPILATA DA GAETANO BRIGOLA ED ILLUSTRATA DA NOTIZIE STORICHE ED ARTISTICHE DA FELICE VENOSTA

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Brigola, Gaetano 2 occorrenze
  • 1871
  • Editore Librajo -PRESSO GAETANO BRIGOLA
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Nella Piazza di Sant'Alessandro, dicontro la chiesa, vedesi il palazzo Trivulzi; esso è di una soda costruzione, e ragguardevole per le cose rare e preziose che vi si contengono, fra cui una ricca libreria ed un, museo di pregevolissime antichità, formato in gran parte dal filologo abate don Carlo Trivulzi, morto nel 1789, dal fratello di lui Giorgio, morto nel 1802, e continuato dai discendenti della famiglia, la quale cortesemente ne permette la visita al forestiero.

USI,COSTUMI E PREGIUDIZI DEL POPOLO DI ROMA

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Zanazzo, Giggi 1 occorrenze

Li cornacopi e li sordati so’ pprotetti da San Martino; le serve e le cammeriere da Santa Brìcida e Ssanta Zita; li norcini da li Santi Benedetto e Scolastica; li libbrari e li legatori de libbri da San Tomasso d’Aquino; l’imbiancatori, li stuccatori, e li muratori da San Gregorio; li pittori, li scurtori e li scarpellini da San Luca; l’artebbianca, l’orzaroli e li nevaroli da li Santi Sebbastiano e Valentino; li friggitori da San Lorenzo in Pìscise (in piscibus); li pecorari da Sant’Antonio abate; arbergat ori e llocandieri da San Giuliano l’Ospitatore; materazzari e rigattieri da San Biacio; banchieri, cambiavalute, borsisti da San Matteo; bbarcaroli e ffiumaroli in genere da li Santi Rocco e Martino; barilari tanto d’acqua che dde vino da Santa Maria in Cappella; li battiloro da Santa Barbera: li carzettari da Santa Caterina de la Rôta; li cappellari da San Giachimo Maggiore. Li carbonari cianno pe’ protettore Sant’Alesandro; li caprettari la Madonna de li Monti: li credenzieri, acquavitari, tabbacari, liquoristi e ccaffettieri Sant’Elena; le donne partorente, Sant’Anna; li spezziali, San Lorenzo in Miranda; li medichi e cerusichi, San Pantaleo; li côchi, l’infornatori e li pasticceri li Santi Vincenzo e Anastasio; li ssediari der papa, li scopatori segreti, li palafregneri, Sant’Anna; li tessitori, Sant’Agheta; li cavudatari, Santa Maria de la purità; li cucchieri li Santi Ange li; li copisti, scrivani, ecc., li Santi Evangelista e Nicolò; li coronari e li medajari, San Tomasso in Parione; fornaciari der vetro, Sant’Antonio abbate; fornari e panattieri, la Madonna de Loreto; li guantari, San Sarvatore a le Cupelle; li lanari e ccopertari padronali, Sant’Ambrocio; li lanari e ccopertari garzoni, San Biacio; li molinari, San Bartolomeo; li monnezzari, San Rocco. L’ortolani, li pizzicaroli, fruttaroli, pollaioli, vermicellari, sensali de Ripa, so’ pprotetti da la Madon dell’Orto; li garzoni d’osteria da l’Assunta; li pellicciari da San Giovanni Batista: li pescivennoli da li Santi Pietro e Andrea; li poverelli, li stroppi, li ciechi, guerci, zoppi, sciancati, da Santa ’Lisabbetta; li saponari e ll’ojarari da Santa Maria in Vinces: li scarpellini da li Santi Quattro incoronati; li scarpinelli da Sant’Aniano; li vascellari da la Madonna der Carmine e er Santissimo Sac ramento; li bbeccamorti da San Giuvannino de la Marva...