Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandonato

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Quand'essa si trovò sola, come uno schifo abbandonato in mezzo all'Oceano, quando il cinismo e la depravazione di Parigi e della provvisoria italiana ebbero cessato di agire come un influsso sui di lei nervi, sui di lei appetiti, sulle di lei passioni; quando non avendo più occasione di confidarsi agli adoratori, alle amiche, ai lenoni, fu obbligata di rientrar in sè stessa, di ascoltarsi, di frugare nei ripostigli più segreti del suo cuore inesplorato, ella sentì con non poca sorpresa sorgere in cuore un desiderio, un'idea, che fino allora le era sempre sembrata molto barocca ed assurda, ed alla quale aveva date tante volte la baia quand'erano gli altri che gliela proponevano. Il lettore ha capito. Le offerte di matrimonio fattele tante volte a Parigi ora portavano il loro postumo frutto. Nanà era stata assalita ad un tratto dalle idee di faire une fin di maritarsi con qualche ricco milanese, per vivere tranquilla e riabilitata agli occhi del mondo. Poco a poco quest'idea, che le era entrata in testa senza saper d'onde le fosse venuta, la invadeva tutta e faceva un cammino enorme nel suo cervello e l'avviluppava tutta in una specie di felicità, di cui non aveva gustato mai fino allora neppur il sospetto. "Sì - pensava - io voglio, tornando a Parigi, che si dica, ecco la signora contessa di... quel che sarà, oppure, ecco la principessa di San... qualche cosa. Quel mio povero Mufe come sarà dannato quando lo saprà. E Satin dunque? E tutte quelle bougresses bougressesdi mie amiche, come creperanno di gelosia e di rabbia quando mi vedranno sdraiata in un landau a fianco di mio marito, e sullo sportello tanto di blasone vero ed autentico! A questi pensieri, in cui splendeva la bontà cristiana di quel cuore di donna parigina, ella sentì dei fremiti di felicità inarrivabile. Poi fa assalita da un certo scoraggiamento. "Maritata! Ma e poi? - pensava - Se mio marito fosse geloso? Se esigesse che io mi conservassi casta e tutta per lui? Nanà si conosceva. Ella sapeva bene che di quando la sua natura ardente, le sue lubriche tendenze, i suoi capricci di donna dissoluta, avrebbero preso il sopravvento e le avrebbero fatto commettere dei famosi scarti. Ma allora promise di cuore a sè stessa di essere se non casta almeno cauta, nè più nè meno di un buon curato di campagna. E dopo questa specie di giuramento si trovò la coscienza soddisfatta, incantata di sè stessa e circondata da una gioia viva e di buon augurio. Poco dopo tornava in campo qualche dubbio. "Ma troverò a Milano l'uomo che mi conviene ora che sono io a desiderarlo? Egli vorrà conoscere il mio passato... vorrà sapere... scrutare. E se qui in questa capital morale d'Italia, come ho sentito dire, non trovassi nessuno che s'innamorasse di me al punto da farmi la proposta, che laggiù a Parigi tutti mi ripetevano?..." Stette a pensare mestamente; poi soggiunse parlando fra sè ad alta voce: "E me la fecero tanto seriamente, che si uccisero quand'io negai! È orribile! Bisogna che io vendichi l'ombra di quel povero Giorgio, che mi amava in quel modo! È impossibile che io non faccia il solito effetto su... codesti Milanesi... per quanto m'abbiano detto che sono seri egoisti e scorbellati. Noi vedremo." Quel nous verrons fu una specie di sfida alla gioventù dorata di Milano. I moti di modestia che talvolta sorgevano in Nanà finivano sempre con una sfida all'insensibilità mascolina. Ella si trovava tosto assai stupida e assai stupita di avere potuto concepire un dubbio sulla propria irresistibilità e mostrava immantinenti la nuova certezza nelle proprie forze conquistatrici, con un sorriso leggiadriasimo, in cui c'entrava però un poco d'amarezza e una gran dose di fatuità. Ella aveva sempre - e a ragione - una grandissima stima delle proprie attrattive e della flessibilità prodigiosa de' suoi mezzi uccellatori; ella si rammentava quante volte a Parigi degli uomini seri che pur conoscevano la sua origine bassa, e le sue pazzie sfrenate, e la sua vita vergognosa, si erano rotolati a' suoi piedi supplicanti, a mani giunte, per chiederle la mano di sposa... e si teneva certa di far il suo partito a Milano. L'idea di accasarsi nobilmente, la speranza di poter entrare nel gran mondo, il pensiero di trattar al tu per tu le dame che l'avevano tanto disprezzata, la soggiogavano. Le difficoltà stesse ch'ella prevedeva dovessero insorgere per giungere alla stretta dei nodi, aguzzavano smisuratamente quel suo nuovo desiderio e gli davano una spinta poderosa. Ella stessa si maravigliava, a certi punti, di trovarsi così salda in un proposito e di scoprire ancora in sè stessa, tanto lievito di volontà, di speranza e di entusiasmo. Giunta a Milano di notte, Nanà senza aver pensato a farsi dare a Firenze una indicazione di albergo, disse al cocchiere del calesse di condurla al primo hôtel, al più chic! chic!- E i bauli? - domandò questi. - Li manderemo a prender domani! Sono dieciotto! Il cocchiere naturalmente la condusse all'albergo della Ville VilleOra avvenne che seduti agli ultimi due tavolini del caffè dell'Europa, verso la porta dell'albergo, si trovassero in quel punto Enrico O'Stiary e il marchese Sappia, che eran usciti in quel punto dalla Luisa e pigliavano un grog. Un po' discosto da loro Ernesto Cantis, il giovane di avvocato, beveva una birra. O'Stiary e Cantis videro prima passar dinanzi nel calesse Nanà, poi videro il legno arrestarsi lì accanto all'albergo. Il conte mandò una piccola esclamazione, che fè volger il capo al Sappia. Ma il Sappia, lì per lì, non ravvisò nella bella viaggiatrice la donna, che tre anni prima egli aveva con tanta ansia aspettata invano per tanto tempo, dalla Tricon! Il Sappia aveva la luce delle lanterne negli occhi e non poteva veder bene nelle tenebre. Ma O'Stiary e Cantis, che la luce l'avevano a ridosso, scorsero abbastanza per restarne molto colpiti entrambi. Era l'effetto che faceva sempre Nanà a chi la vedeva per la prima volta. Fu allora che Nanà per discendere dal legno mentre allungava sulla predella il suo piedino, quale a Milano se ne vedono di rado, scoccò senz'accorgersi un'occhiata curiosa, che parve assassina, e scomparve nella porta della Ville accompagnata dal guarda portone che era venuto ad aprirle lo sportello. Cantis balzato in piedi era andato dinanzi alla porta dell'albergo e aveva accompagnata Nanà fin sotto il portico, collo sguardo; e gli era parso, al poverino, di vedere che la bellissima sconosciuta si fosse voltata indietro quasi a salutarlo di nuovo prima di montar le scale. Quella notte aveva creduto bene non di dormire un solo minuto. Una ventina di giorni dopo, il Cantis aveva riveduta Nanà al teatro Milanese. Figuratevi come restasse poi quando il giorno appresso la vide venir dal suo avvocato. Egli le aveva scritta la lettera famosa! Anche Enrico era rimasto assai colpito della bellezza della sconosciuta viaggiatrice e il giorno dopo era ritornato alla Ville a chiederne notizia; aveva saputo il di lei vero nome e cognome e l'aveva riveduta al balcone dell'albergo più bella e più elegante che mai. Lo credereste? Dopo pochi giorni di residenza a Milano, Nanà si accorse senza grande maraviglia, d'essere già desiderata alla follia e contemporaneamente da nove persone molto diverse fra loro di età e di condizione: dal pubescente liceista al vecchio libertino di sessant'anni, dal signor conte di vieille vieilleroche al galloppino dell'albergo che le serviva il pranzo, dal banchiere milionario al parrucchiere che la pettinava ogni mattina. Nove dichiarazioni, delle quali otto in iscritto, ed una col mezzo d'un paraninfo e tutte nello stesso giorno, e in venerdì, era proprio la prima volta che le capitavano! A Parigi non le era mai successa una cosa simile. " C'est l'embarras des richesses pensò Nanà. Essa non potè a meno di riderne. Tanto più che in ciascuna di esse Nanà scoprì un certo non so che, da doverle trovare eccessivamente strane. Quelle nove proteste di amore, o piuttosto di desiderio, che per combinazione le giungevano in frotta come una volata di passeri, e in venerdì per giunta, erano tutte impregnate dalla più deplorabile fatuità. fatuità.Ella si accorgeva che quei nove individui nutrivano già in cuor loro una grande speranza di essere corrisposti e subito; dalla loro protesta d'amore trapelava una certa persuasione di esserle già molto simpatici. Nessuno naturalmente le aveva scritto o detto o lasciato capire chiaramente una tanta immodestia, ma la trapelava, ed essa la subodorava in tutti. Quei nove - non uno eccettuato - alludevano o parlavano chiaramente di una certa sua maniera di guardarli... di una certa sua occhiata assassina... ah, quell'occhiata! Mio Dio! chi non darebbe la vita per una simile occhiata? Nanà aveva un bel rammentarsi le proprie occhiate non giungeva a raccappezzarne una sola che avesse voluto dire qualche cosa di serio. In sostanza però, ella doveva persuadersi che que' suoi nove adoratori credevano tutti di essere stati quasi invitati, accalappiati, fulminati da una di lei occhiata. Ed essa sapeva di non averne data neppure una sola da cui spirasse, o che potesse ispirare la benchè minima simpatia. Questo fenomeno a dir vero non era la prima volta che capitava a Nanà. Ma sopra nove persone, in un colpo solo, le pareva proprio un po' troppo! "Bisogna dire che a Milano le donne abbiano lo sguardo delle Arpie quando fissano gli uomini" pensò Nanà. Le sventure passate, il rimorso e la superstizione le avevano messo nella guardatura e nel muovere delle pupille una particolarità degna di attenzione. Que' suoi occhi, più grandi del vero, a prima vista parevano supplicanti e desiosi. Voi credevate in buona fede che ella vi avesse fissato in quel modo, perchè la vi trovasse bello o piacente, perchè la vi desiderasse, perchè forse... oh Dio! già segretamente la fosse presa delle vostre fattezze. E allora mille fuochi e speranze avvampavano o scattavano nel vostro interno. Avvampavano se avevate il temperamento sulfureo, scattavano se lo avevate fatto a molla. Ebbene? Quand'essa distaccava da voi lentamente le sue pupille, se voi eravate filosofo, se nello sguardo altrui sapevate discernere il vero sentimento che lo ispirava, vi sareste accorto che ella, non che fissarvi, nè desiderarvi, nè amarvi già in segreto, non la vi aveva nemmanco notato, non la si era neppure accorta di voi, non la vi aveva veduto passare che tampoco. Nanà non aveva sguardi che vedessero davvero, se non per le cose che appetiva o per le persone che odiava. Non parlo di quelle che essa amava, per una ragione semplicissima. Che ella, come non aveva amato mai davvero, così non amava nessuno ancora. Fontan lo aveva subito più che amato. Era stato piuttosto un bestiale istinto che una pena di cuore la sua. All'oggetto desiderato o alla persona odiata nessuna creatura al mondo sapeva guardare meglio di Nanà. Ma gli indifferenti? Essa non li vedeva. I suoi occhi difficilmente si occupavano del mondo esteriore, se non per raccogliere alla sfuggita e all'ingrosso i taciti omaggi dei passanti. L'orgasmo continuo e febbrile della sua ambizione non le permetteva di discernere se non quello che premeva a' suoi istinti felini di donna e alla sua smisurata vanità. Nanà ormai guardava più spesso all'indentro di sè stessa che non al di fuori. Le imagini sanguinose, i fantasmi della sua vita passata non erano scomparsi mai dalla sua fantasia. Essa portava con sè la catena d'un rimorso non vivo, nè salutare certamente, ma molesto e perenne. Talchè giammai quella sua plastica bellezza era stata così pericolosa e più procace! Una delle otto lettere d'amore noi la conosciamo già. Nanà l'aveva trovata nel manicotto uscendo dall'avvocato Delguasto, dov'era andata a consulto, per una certa coda di processo ch'è inutile richiamare in questo punto. Nanà ebbe un bel domandare a sè stessa come mai quella lettera avesse potuto capitare nel suo manicotto, e non trovò la risposta. Ella non s'era nemmeno accorta di Ernesto Cantis, non l'aveva veduto, o per meglio dire, non l'aveva osservato. E lui credeva, il povero ragazzo, ch'ella nutrisse già per lui una segreta simpatia!

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Come il cattivo tempo del giorno avanti, quella tristezza di convento abbandonato gli pareva un gran mal augurio, ora che doveva servire a spegnervi il gaio sorriso della sua Eugenia. Oh, piuttosto avrebbe rinunziato al benefizio dell'alloggio gratuito! Ma non si fermò su quest'idea. La vita sarebbe parsa più insopportabile a Eugenia, se avesse dovuto passare le gior- nate con la sola compagnia della suocera, che non si mostrava gran fatto espansiva con lei, neppure dopo aver avuto, nei tre mesi vissuti insieme, sufficientissime prove per vincere l'istintiva ripugnanza del suo cuore di madre. Con l'ufficio e l'abitazione nella stessa casa, fosse stato pure in quell'ex convento pieno della gran malinconia delle cose morte, l'im- mediata vicinanza non avrebbe fatto scorgere a Eugenia (lo sospettava appena finora) quel che c'era di duro, di avverso, di spietato nel contegno della suocera. Egli avrebbe potuto intervenire a ogni istante per impedire uno scoppio, per de- viare un malinteso! Invece, non era avvenuto niente di quello per cui egli s'era con anticipazione afflitto tanto! Eugenia aveva accettato allegramente la strana avventura di dover abitare in un ex convento di frati così spazioso, così isolato da parere un castello medioevale. Mancava appena il ponte levatoio per rendere intera l'illusione. E il giorno che poterono lasciar l'albergo, era stata una festa per tutti e due percorrere a braccetto quei lunghi corridoi, visitare le celle che il Padreterno veniva aprendo una dietro l'altra, dando rapidi schiarimenti: "Queste erano del padre guardiano; questa, di padre Tommaso da Lipari; questa, di padre Inghirami, il famoso pre- dicatore che faceva tremare la gente alla sua predica dell'inferno. Ecco il refettorio; allora vi si mangiava bene; il con- vento era ricco e i frati se n'intendevano di pappatoria. Quando veniva il Provinciale per la visita, invitavano a pranzo tutti i signori del paese ... Questa è l'infermeria; l'ultimo frate che vi ha lasciato la pelle è stato padre Anselmo di Adernò. Saputo che doveva andar via dal convento, disse "Io ne uscirò morto". E infatti ... Un santo! Lungo lun- go, magro magro; lo chiamavano padre Stendardo. Da qui si scende nella selva." Non grande, ma fitta d'alberi diversi, con parecchi viali, qualche aiuola, un pergolato, una fontana in mezzo dove spillava un sottil getto d'acqua dalla pancia vuota d'una statuetta di terracotta e spezzata chi sa da quanto tempo - forse sin da quando ci erano i frati - la selva era rimasta in abbandono da che l'ultimo Agente era partito. Aiuole, alberi, arbu- sti, viali avevano bisogno di essere ravviati, ripuliti. "Me ne occuperò io" progettò Eugenia. Il Padreterno si offerse per lavorare sotto la direzione di lei. Occorreva però un contadino. L'altro Agente aveva fatto così, quantunque zappasse, potasse, innestasse meglio di qualunque altro; perdeva tutto il suo tempo là. Era mezzo mat- to, pover'uomo! "D'estate, sarà una delizia" esclamò Eugenia. "Pranzeremo qui, all'ombra degli aranci o sotto il pergolato; anche la mamma potrà venirci." A questo richiamo della mamma uscito dalla bocca di lei, Patrizio, sentitosi intenerire, le strinse il braccio per rin- graziarla. Poi ritornarono su. Egli volle mostrarle la terrazza. "Che vista! I polmoni si dilatano!" esclamò Eugenia. E vi tornarono alcuni giorni dopo, a sera avanzata, appena la signora Geltrude si era chiusa nella sua camera per mettersi a letto. Serata autunnale dolcissima, irradiata dalla nascente luna piena, che segnava una striscia luminosa sul mare tranquil- lo e simile, laggiù, laggiù, a un immenso specchio messovi a riflettere il cielo azzurro cupo, tutto scintillante di stelle. Si distinguevano i diversi toni del verde della campagna, quantunque molto scuriti, e i serpeggiamenti dei sentieri, e il biancore delle case rurali, dove tremolava qualche lumicino che spariva e riappariva nella crescente oscurità della notte, come il faro di Capo Pachino. Attorno, vicino, lontano, gran silenzio, interrotto soltanto dal malinconico stornello di un contadino dalla melodia monotona e strascicante. Sotto il parapetto della terrazza, l'abisso nero gorgogliava di sordi ru- mori: stormio di fronde, scroscio di acque scorrenti, stridi di uccelli notturni. A intervalli, calma profonda, come se tutte le cose tacessero per lasciar sentire a quei due sposi innamorati, che si tenevano con le braccia attorno alla vita, i rapidi battiti dei loro cuori. "Mi par di sognare!" Patrizio non sapeva esprimere altrimenti la intensa sua felicità. "A me pare, invece, che sia stato sempre così!" rispose Eugenia con voce commossa. "Non ti annoierai in questa solitudine?" "Quando ti annoierai tu!" Gli cinse le braccia attorno al collo, e reggendosi su la punta dei piedi, gli porse la bocca sorridente, con tale abban- dono e tale grazia infantile, che Patrizio, ad arrestare la piena del sentimento, la baciò rapidamente e si affrettò a dirle: "Guarda!" Additava un piroscafo impennacchiato di fumo, che attraversava la tremolante luminosa striscia del mare" e pareva un giocattolo, così rimpicciolito dalla distanza. "Oh!" mormorò Eugenia, scontenta di quella diversione. Patrizio tentava sempre di dominare il profondo turbamen- to da cui veniva assalito a certe carezze di lei. Voleva almeno nasconderlo, non per sè, ma per lei. Aveva osservato più volte che la commozione di lui la sovreccitava maggiormente, ed egli temeva che la delicata compagine di quel gentile organismo non dovesse soffrirne e guastarsi per soverchia tensione dei nervi. Aveva osservato che la giovinetta timida e pudibonda, stretta tra le braccia e posseduta con pari timidezza e pudore nei primi giorni del matrimonio, veniva, di me- se in mese, inattesamente trasformandosi; e la inesperienza di lui, vissuto casto per natura, per educazione e per le cir- costanze d'una vita agitata e piena di tristezza, gli faceva guardare con un misto di stupore e di terrore quel che ad altri sarebbe parso cosa ovvia e naturale. Accorgendosi però dello scontento di Eugenia, rimasta muta con gli occhi fissi laggiù, verso il mare, dove il pirosca- fo filante a tutta corsa si scorgeva appena, avendo già sorpassato la tremola striscia luminosa, Patrizio l'accarezzò col braccio che la cingeva alla vita, e ripetè la sua frase prediletta: "Non ti par di sognare?" Dall'abisso sottostante montava ora più forte lo stormire delle fronde; i lumi si erano spenti per la campagna; la mo- notona melodia dello stornello arrivava al loro orecchio affievolita e a intervalli, dispersa dal vento che la spingeva per l'opposta direzione, gli stridi degli uccelli notturni tacevano tra le rocce; in fondo alla vallata, il rumore delle acque scor- renti si mesceva col fremito degli alberi. E, siccome ella non rispose, Patrizio continuò: "Quattro mesi addietro, quando le difficoltà del nostro matrimonio parevano proprio insormontabili, e io cominciavo a disperare, se qualcuno fosse venuto a dirmi: "Abbi fede; tra non molto tu sarai lontano da questi luoghi dove hai tanto sofferto; starai, abbracciando per la vita la sospirata persona, su la terrazza di un antico convento, all'ombra del campa- nile proiettata dal lume di luna; e là, sotto un cielo divinamente splendido, di faccia alla terra addormentata e al mare lontano, inaugurerete la vostra vita di innamorati solitari, facendo scoccar baci dove i frati non sognarono mai che baci si sarebbero potuti scambiare senza offesa a Dio" se qualcuno fosse venuto a dirmi questo, io avrei creduto che costui volesse farsi beffe di me! ..." "Rientriamo" disse Eugenia. "Hai paura?" "Sì." "Di che cosa?" "Non lo so." Aveva paura anche lui, ma sapeva benissimo di che cosa: della sua cattiva sorte, che superstiziosamente egli credeva stesse in agguato a tramargli qualche crudele sorpresa. E da più settimane ruminava come scongiurarla, con qualche sa- crificio a modo degli antichi, offrendo alla malvagia deità un'ostia che la placasse. Ne rideva talvolta, ma non cessava di pensarvi. E mentre Eugenia si stringeva a lui lungo il corridoio che doveano traversare, quasi temesse l'apparizione del- lo spettro del frate morto ultimo nel convento, egli ripensava quel sacrifizio che ormai gli pareva urgente, se voleva sviare in tempo il pericolo da cui si sentiva minacciato. Entrati nella cella scelta per loro camera, accanto a quella della mamma, il primo oggetto che gli venne sotto gli oc- chi fu un antico vasetto arabo, di cristallo iridato; cimelio salvato, Patrizio non sapeva in che modo, dal disastro seguito alla morte del padre, e del quale non aveva voluto disfarsi neppure nei momenti più difficili, quando la somma offertagli da un amatore inglese lo avrebbe liberato da qualche impiccio. Eugenia aveva collocato il vasetto su una mensolina, in evidenza. Piaceva anche a lei per la stranezza della forma, per la leggerezza, per quel luccichio di colori che pareva lo facesse formicolare come cosa viva a ogni più lieve movimento fra le mani di chi l'osservava. Fu un lampo; egli non esitò. Staccatosi rapidamente dal braccio di sua moglie, si slanciò verso la mensolina, prese il vasetto e levatolo in alto, con gesto di offerta, lo scagliò contro il pavimento ... "Lo scongiuro è fatto!" esclamò, traendo un gran respiro di soddisfazione.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Gli pareva che esso già si disfacesse dalla cancrena di tutti i turpi abbracciamenti ai quali s'era abbandonato. Soltanto il ritratto del Cremona, quella divina figura immortalata dall'arte, gli faceva battere il cuore come una volta. Era stato fatto nei primi mesi del loro matrimonio quando lo splendido fiore della bellezza di lei non era stato ancora inquinato; e tutta la pudica innocenza della vergine diventata appena donna s'era rifugiata su la meravigliosa tela dove il pittore aveva diffuso piú largamente la magica fosforescenza del suo pennello. Giovanni rimaneva ore ed ore in faccia a quel ritratto, che talvolt a gli si muoveva sotto gli occhi quasi agitato da soffio vitale; e se, dopo, incontrava per le stanze lei che lo guardava con gli occhi ingranditi nel volto pallido, ella gli sembrava un'ombra, un fantasma dei giorni tristi; e le voltava le spalle. Poi non piú nausea o repugnanza, fu odio a dirittura. Perché quella donna restava lí? Perché aspettava d'esser scacciata via a colpi di granata, quasi immondezza? Perché non voleva morire, ma gli si teneva fitta alle costole simile a un cattivo destino? Dio! Dio! ... Chi lo tratteneva dallo schiacciarla come un vile insetto, cosí? E una volta, avendola sorpresa piangente, diventò furibondo, cominciò a urlare: - Ah! ... Tu osi piangere? Ah! ... Tu osi rimproverarmi, a questo modo, la mia immensa bontà? Gli s'era inginocchiata ai piedi, credendo d'intenerirlo, e s'era sentita afferrare pel collo da due granfie di belva che tentavano strozzarla. - Perché non me l'hai lasciata finire? - egli disse a suo padre sopraggiunto per caso. - Perché non me l'hai lasciata finire? - Suo padre lo guardò stupito. - Oh, mi sentivo piú felice ... allora! - esclamò Giovanni. E scoppiò in singhiozzi. Mineo, 24@ 24 luglio 1881@. 1881.

La sventura avea spetrato quel cuore di madre, e il pentimento e il rimorso la conducevano alla casa del figliuolo cosí spietatamente abbandonato e, una volta, fatto scacciare dai suoi servitori. William abitava insieme ad Hermann. Quella stessa vecchia che un giorno lo introdusse nella stanza di studio del suo amico gli annunciò la visita d'una gran dama. - Passi - rispose smettendo di lavorare. Una signora vestita a lutto, con un fitto velo sugli occhi si presentava sulla soglia. Esitava ad inoltrarsi. William le era andato incontro. Allora quella signora avea sollevato il suo velo ed era rimasta a testa bassa innanzi a lui. - Mia madre -. William non si era scomposto. Ma la signora, fulminata da quella freddezza, lo fissò in volto. Non vi traspariva nessun indizio di commozione repressa. Suo figlio la guardava attentamente, ma con impassibile tranquillità. Al grido straziante della contessa, e al vederla fuggire inorridita, William avea alzate le spalle ed era tornato al tavolino, a disegnare figure di geometria. Otto giorni dopo, passando davanti la casa dove si espongono i cadaveri non riconosciuti delle persone perite di morte improvvisa o violenta, avea veduto molta gente affollarsi sull'uscio. La curiosità lo avea spinto ad entrarvi. Sopra una bara giaceva il cadavere d'una giovane dai diciotto ai vent'anni. Bella, vestita con eleganza, aveva i capelli rappresi sulla fronte e sul collo; gli abiti ancora bagnati indicavano il genere di morte scelto dalla infelice per finire i suoi giorni. - È Ida Blümer - egli disse; - la riconosco -. Condotto davanti al commissario, vi fece la sua deposizione. La vista di quel cadavere lo aveva lasciato indifferente. Eran passati sei anni. - Che cosa voleva dire quella stanchezza vaga, indefinibile che cominciava ad insinuarsi nella sua vita regolare e monotona? Quei confronti del passato col presente, che gli erano stati cagione di tanta allegrezza, perché ora prendevano un accento di lieve rimprovero? - Fu spaurito di questi sintomi e cercò di svagarsi. Ma come sfuggire la memoria? Si vedeva perseguitato da essa perfino nei sogni. Giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, la stanchezza e la noia aumentavano. Non poteva far nulla per arrestarle; si sentiva inetto a resistere. - La gran legge del lavoro! - Aveva un bel ricordarsene; non gli riusciva di lavorare. Si stancava, si annoiava subito. Gli mancava qualcosa che gli rendesse caro il lavoro. La sua solitudine gli faceva spavento. I momenti piú tristi della sua vita gli parvero preferibili, immensamente, a quella calma di morte che l'operazione del dottor Cymbalus gli avea procurata. - Mamma! Ida! Mamma! Ida! - chiamava ad alta voce, chiuso nella sua stanza, senza voler vedere nessuno. Tentava di riscuotersi con quei nomi dal torpore che lo teneva incatenato fra i suoi terribili nodi. - Ma nulla! - Quelle parole: "Mamma, Ida" gli risuonavano nell'orecchio come due voci che non avessero mai avuto alcun senso per lui. - Ah! Quell'ore di pianto, di disperazione, di strazio mortale passate a guardar da lontano le finestre del palazzo K*** nelle notti d'inverno! Ah! quell'ore d'agonia, quando si struggeva di abbracciare sua madre che perduta tra le feste e i conviti piú non si ricordava di lui! Quelle erano state ore! E quando i furori della gelosia, i folli propositi di vendetta gli avevano sconvolto il cervello, al tradimento di Ida Blümer? Che emozioni! Che divini dolori! ... Ed ora piú nulla! Nulla! Un giorno corse d a sua madre. La contessa K*** si preparava per un viaggio lontano. Nel momento che William saliva le scale del palazzo ricordando la trista scena di parecchi anni fa, essa trovavasi nel suo elegante salotto, abbandonata su una poltrona, col viso fra le mani, piangente. Una cameriera levava della roba da un mobile antico incrostato di avorio e di madreperla, e nominato un oggetto, aspettava che la sua signora le rispondesse sí o no con un cenno del capo. William irrompeva nella stanza. La contessa pareva ammattita dalla gioia. Rideva, piangeva, lo abbracciava, lo carezzava, tornava ad abbracciarlo. William non rifiniva dal baciarla: - Il contatto di quelle labbra dovea fargli rivivere il cuore! Chiamami figlio! Chiamami figlio! - Figliuolo, figliuolo mio! - ripeteva la contessa. Il rimorso, il pentimento, la gioia rendevano sublime l'accento di lei. William smaniava; si scioglieva dalle braccia di sua madre, le metteva una mano sulla fronte per tenerle sollevato il volto: - Voleva contemplarlo bene e assorbire tutti gli splendori di quegli occhi! Qui le tue mani, sul mio cuore! ... Premi forte! ... Ancora piú forte! Ma no! No! Quel terribile gelo non voleva fondersi. Il suo cuore era morto per sempre! Non un palpito! Non una leggiera emozione! Baciava forse una statua? Era un'infamia! Oh, maledetta quella scienza che lo aveva cosí ridotto! - La mattina dopo, senza dir nulla al suo amico, William Usinger prese la strada che conduceva alla villetta del dottor Cymbalus. Era giorno di festa. Allegre brigate di uomini e di donne, sparse pei prati che fiancheggiavano la strada, conversavano allegramente o ballavano al suono del violino e del contrabasso. William si fermava a guardare quelle persone felici; ma non capiva piú nulla di quella loro musica, e di quelle loro canzoni. Quei visi sorridenti gli sembravano atteggiati a scherno o a disprezzo per lui. Il dottor Cymbalus lo ricevette colla sua solita cordialità. William gli espose quel che provava. - Io non v'ingannavo, figliuolo mio! - gli disse il dottore diventato tristo e meditabondo. - Forse sarebbe stato meglio vi avessi lasciato mettere in atto la vostra disperata risoluzione! Non credete per questo che vi fossi indotto da una vanità di scienziato, per tentar l'esperimento delle mie scoperte. Voi calunniereste il mio cuore d'onest'uomo che la scienza fa palpitare vivamente per qualunque creatura che soffre. Fui sedotto da una speranza: osai sperare che la natura non sarebbe stata inesorabile. E ravate cosí giovane! Avevate tanto sofferto! Ma la natura non muta le sue ineluttabili leggi. - Addio, dottore! - disse William. - Abbiate coraggio, abbiate coraggio! - Avrò coraggio -. Il dottor Cymbalus dalla finestra del suo studio seguí coll'occhio il giovane che s'allontanava a capo chino. Lo vide fermarsi per consegnar qualcosa al servo poi sparire nel campo vicino, dietro un folto gruppo di alberi. S'udí un'esplosione d'arma da fuoco. Il dottore corse in fretta, accompagnato dal servo, verso il punto dove l'Usinger era scomparso. William giaceva a terra immerso in un lago di sangue, col petto squarciato da una terribile ferita. Quando il servo consegnò al dottore il foglio ricevuto alcuni momenti prima, il vecchio scienziato lo aperse tremando dalla commozione, colle lacrime agli occhi. Esso conteneva queste brevi parole: "Lascio tutto il mio patrimonio al dottor Franz Cymbalus ed al mio amico Hermann Strauss perché con esso istituiscano una scuola gratuita dove si insegni ad Amare!" Firenze, settembre 1865@. 1865.

E aveva abbandonato tutto ... per lei ... per espiare la colpa d'un istante! - ella pensava trasognata, quasi un'influenza esteriore le spingesse la povera mente verso quel punto e ve la tenesse fissata. E riscuotendosi tutt'a a un tratto, guardava attorno atterrita, feroce contro colui, riboccante di sprezzo di se stessa, con c osí tragico pallore sul viso, e sguardi cosí smarriti, che Giulio tornava a impensierirsi. La gravidanza ora non c'entrava piú. Certe stranezze del carattere di sua moglie diventavano addirittura inesplicabili. Non la riconosceva! Nei momenti, nei giorni ch'ella tentava di rifugiarsi in lui per vincere il tristo demone, egli la vedeva sempre agitata, eccessiva in quei baci ed abbracci piú da amante che da moglie, e affatto diversa da quella ch'era stata fin allora. Poi, ella mostrò improvvisamente desiderio di lanciarsi fuori della cerchia intima e tranquilla che li aveva accolti tant'anni, ignari quasi ed ignorati, paghi e contenti della felicità di amarsi e di sentirsi amati fra le consapevoli pareti dove non giungeva nessun rumore della vita cittadina. E a quegli scatti di sensazioni, a quei capricci di passeggiate, di visite, di teatri, di feste, che lo meravigliavano assai, Giulio cominciò a temere che la gravidanza non avesse lasciato in lei qualche funesto germ e d'esaltazione nervosa ... Il dottore, ripetutamente consultato senza che Teresa ne sapesse nulla, era stato d'ugual parere. Avevano fissato insieme un metodo di cura abilmente combinato: viaggi, bagni, regime ricostituente ... Ed ella aveva subito acconsentito, lietissima ... Capiva che già v'era qualcosa di guasto dentro di sé, di affievolito per lo meno. Lo stesso confessore non le consigliava di distrarsi, di fuggire la solitudine, perché in questa il demonio conduce meglio il suo scellerato lavoro di tentazione? Era andata piú volte ad accusarsi, ingenuamente, chiedendo perdono a Dio della sua debolezza, implorando la forza di resistere; e confessore e dottore, quasi d'accordo, le ripetevano: - Si distragga! - Ma che posso farci? ... Il nemico è accovacciato qui, nel mio interno! - Da un mese ella dormiva soltanto a brevi intervalli; poi le palpebre le si ritiravano in su. Doveva svegliare ogni volta il marito? E il nemico la sopraffaceva. Andati per vedere il bambino, avevano trovato la balia piangente. - Signora mia, non vuol poppare. - Da quando? - domandò Giulio. - Da ier sera dopo le otto. Alle quattro aveva poppato benissimo -. Giulio disse: - Non è nulla ... Riportiamolo in città -. Fingeva di non essere turbato, per rassicurare Teresa che teneva fissi gli occhi su la culla dove il bambino, col viso pallido, i labbrini violacei semi aperti e le manine increspate, dormiva. Che triste ritorno! Ella si era rovesciata in fondo al legno, muta, stringendo una mano di Giulio. La balia seduta dirimpetto, canticchiando sotto voce, cullava il piccino; e la bambina, su le ginocchia del babbo, stringendogli le braccia attorno al collo e appoggiandogli la testina alla spalla, ora guardava lui, ora la mamma, e non osava rompere il silenzio. Solo Giulio, che invece avrebbe voluto piangere, tanto aveva il cuore ingrossato, ripeteva di tratto in tratto, monotonamente: - Non sarà nulla! Non sarà nulla! - Alle prime parole della balia, Teresa aveva avuto un sussulto - Se il bambino morisse! - E il malvagio istintivo movimento era stato subito seguito da un senso di ribrezzo e di orrore. Poi, in casa, attorno al lettuccio del bambino, quando già si poteva leggere in viso al dottore il destino della povera creaturina, la brutale preoccupazione della propria salvezza aveva preso di nuovo il sopravvento, snaturata, senza pietà. Sentendosi quasi affogare, la infelice s'aggrappava a tutto. Pur di salvarsi lei, che doveva importarle degli altri? ... Perciò s'irritava contro suo marito che, inconsola bile, forsennato, pregava, scongiurava il dottore con insistenza bambinesca, quasi lo credesse padrone della vita e della morte e capace di fare un miracolo! ... Il maleficio le pareva legato a quel filo di esistenza che non voleva spegnersi, che non volevano lasciar spegnere ... lui specialmente, suo marito! ... Ed ella vibrava tutta, si sentiva tirare, strizzare tutta; vedeva fiammelle. E immediatamente, senza stacco, cadeva in grande prostrazione, mutata di punto in bianco, con le lagrime agli o cchi per quella creaturina agonizzante; stupita che poco prima avesse potuto desiderare e affrettare coi voti l'empio scioglimento. - Ma sí, ma sí! ... Lo voleva! Aveva sofferto troppo! ... Non resisteva piú! - E vedendo il marito chino sul lettuccio, dolorosamente intento a spiare il mancante respiro del figliolino, si sentiva spinta ad afferrarlo per un braccio e strapparlo di là, e urlargli una terribile parola. Il sangue le affluiva al cervello, le martellava le tempia, un violentissimo tremito tornava a scoterle la persona. - Giulio! ... Giulio! ... - Voltandosi al grido sommesso, egli l'avea vista accostare cautamente, in punta di piedi, con gli sguardi smarriti e un dito sulle labbra. - Lascialo andare, Giulio! ... Lascialo andare! ... - E lo tirava via dolcemente, sorridendo triste, scuotendo la testa con movimento significativo ... - Teresa! Teresa mia! - balbettò Giulio, non comprendendo ancora tutta la sua sventura da quegli occhi smarriti, da quelle parole incoerenti. - Lascialo andare ... Ti vorrò piú bene ... Vorrò bene a te solo. A te solo - ripeteva la misera pazza, tirandolo pel vestito: - A te solo! - Sei mesi dopo, al ritorno della ragione, ella credeva di aver fatto un lungo sogno orrendo, e lo raccontava al marito, domandandogli a intervalli: - Ho sognato, è vero? - Sí, hai sognato - egli rispondeva fremendo. - Abbiamo sognato tutti! - soggiunse all'ultimo. E pensava quasi con invidia al fratello che avea cessato di sognare, uccidendosi in Australia. Roma, maggio 1889@. 1889.

Racconti 2

662688
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Studiacchiata un po' di teologia, come avrebbe studiacchiato un po' di codic e o di medicina all'università, ricevuti gli ordini, la messa, e in fine il canonicato, aveva posto subito i libri teologici a dormire sotto la polvere negli scaffali, e s'era abbandonato interamente alla sua passione giovanile, la caccia. Ora, il vero breviario gli pareva quel fucile a due canne, novità fatta venire da Malta, e costata un occhio; e i colpi sparati alle beccacce, ai conigli, alle pernici, alle lepri, alle volpi, quando capitavano, ai porci spini, anche piú rari, gli suonavano all'orecchio assai meglio di tutti i salmi, di tutte le antifone e dello stesso uffizio dei morti, che pure veniva pagato lí per lí, appena terminata la funzione. A casa sua era un via vai di cacciatori e dilettanti e di professione. Chi lo pregava per ottenere in prestito il bracco o il levriere, o il furetto; chi si raccomandava per un po' di quella polvere miracolosa, che si trovava soltanto presso il signor canonico ed era inutile cercarla altrove; chi veniva a dargli l'avviso di certo posto dove la selvaggina formicolava; chi a raccontargli le peripezie di una partita di caccia andata a male: - Ah, ci voleva il signor canonico! - E il signor canonico, sorridendo invanito, prestava il bracco, il levriere, il furetto, pei quali poco prima s'era lasciato scappare: - Non li presterei neppure a mio padre! - E regalava, due, tre cariche di quella polvere proprio inglese, che, a sentirlo, pareva gli fosse stata portata a dirittura di mano degli angioli, e di cui c'erano al mondo le sole poche libbre da lui possedute. Il gran confidente del canonico però era 'Nzulu Strano, la "prima balestra del paese", com'egli lo aveva battezzato. Arrivava ordinariamente verso un'ora di notte, stanco d'una giornata di caccia, mestiere di cui viveva, allampanato e giallastro, con quel vestito di frustagno color cece, che lo faceva parere piú smorto, coi calzoni infilati negli stivali e la pipa di radica in bocca. Quando portava qualche gran notizia, si fermava nel vano dell'uscio, con le gambe allargate, agitando una mano: - Il Padre Eterno dei bracchi! L'ha un saponaio di Ragusa. - Chi te l'ha detto? - E 'Nzulu, una sera, aveva sfilato una storia che non finiva piú; vita e miracoli di quel Padre Eterno dei bracchi: - Instancabile! E un fiuto! E un fermo! Inchiodava la selvaggina. Il cacciatore poteva con tutto il suo comodo ricaricare il fucile e godersi il colpo; una meraviglia! - Vorrà venderlo? - Neppure a Ferdinando II -. Gli occhi del canonico sfavillarono cupidi: - Se tu riescissi! - 'Nzulu, compreso che significassero quelle tre parole buttate cosí per aria, alzò le spalle masticando il bocchino della pipa: - E se mi arrestano? - Va' là! Il capitan d'armi di Modica è un amico. Ti hanno forse arrestato per Nièula e per Cardillo? Trattandosi di cani, il canonico Salamanca aveva pochi scrupoli, perdeva facilmente le giuste nozioni del tuo e del mio. Per quel Padre Eterno dei bracchi, avrebbe speso mezzo canonicato, senza rifletterci un solo istante; ma poiché il saponaio diceva di no: - Neppure a Ferdinando II! - voleva fargli vedere che lui, povero canonico e nient'altro, si sentiva piú forte del re. - 'Nzulu, se tu riescissi! - Riesciva sempre quel diavolo allampanato e giallastro, maledetto da Dio! E il mezzo canonicato se lo beccava lui, a poco a poco, lamentandosi tutti i giorni del suo brutto mestiere che non andava piú, della selvaggina diventata rara, della polvere cattiva, dei pallini che costavano cari, quasi fossero fatti di argento e d'oro; di quella tristaccia della Capraia, che gli rodeva gli occhi del capo, malata dodici mesi all'anno! - Costei è la mia rovina. Ora ci vogliono sei tarí per un intruglio dello speziale, e non ho nemmeno due grani - Cosí, oggi erano sei, domani dodici tarí, che il canonico gli metteva nel pugno, di nascosto di sua sorella donna Agnese, la quale sarebbe diventata una lima sorda, se se ne fosse accorta. Ella ce l'aveva contro quel pezzo di scroccone, e non dava requie al fratello. Succedeva un battibecco di due ore, quando il canonico le diceva: - Verrà 'Nzulu, per due tumoli di frumento. Poveraccio! Perisce di fame. - Dategli quello del canonicato, che mandate in casa di donna Totò! Chi ne vede un chicco? - E spesso, infatti, egli inviava 'Nzulu da donna Totò, perché il grano del canonicato i fittaiuoli della collegiata andavano a scaricarlo là, con la scusa che il canonico gliel'aveva venduto. - Sta bene, signor canonico! - rispondevano i fittaiuoli. E sacravano sotto voce: - La roba di Dio va al diavolo! - Ogni mattina, donna Totò preparava la pipa al canonico, perché facesse una fumatina, intanto che si riposava della salita, ora che la podagra gli aveva mezze spezzate le gambe. Il fumo non rompeva digiuno; e se Gesú Cristo, entrandogli in bocca dopo la consacrazione, sentiva un po' di puzzo di tabacco, poteva ben compatirlo. Fumava anche il papa! Poi, il caffè di donna Totò aveva un'aroma speciale. Quello preparato da donna Agnese pareva al canonico proprio acqua affumicata. E sua sorella non pensava né a crostini, né a biscotti, né a pan di Spagna da intingere. Indossando il camice e la pianeta, egli già cominciava a sentirsi solleticare le narici da quel profumo delizioso. Al vedere nella patena l'ostia da consacrare, pensava subito ai crostini, che erano assai piú sostanziosi; e si spicciava, si spicciava dall'"introibo" all'"ite missa est", tanto che il sagrestano durava fatica a tenergli dietro con gli "amen" e i "cum spiritu tuo". In campagna, nella chiesola della masseria, egli si sbrigava per un altro verso. Ogni sabato sera, suo fratello don Franco gli mandava la mula, e la partenza del canonico era uno spettacolo nella viuzza dove egli abitava. Tutti i suoi cani, sguinzagliati, abbaiavano, si rincorrevano festosamente, facevano un chiasso indiavolato attorno alla mula sellata, che il garzone teneva per la briglia, aspettando che il canonico scendesse le scale portando in mano il fucile e la carniera ad armacollo. 'Nzulu Strano era lí, alla cantonata, con la pipa in bocca e il fucile in ispalla per fargli compagnia; e carezzava i cani, o li richiamava col fischio e con la voce, se si allontanavano per le vie accosto: - Tèh, Nièula! Tèh, Cardillo! - Tutte le donnicciuole sugli usci. Bambini scalzi e stracciati schiamazzavano insieme coi cani attorno alla mula, che si lasciava tirare per la coda o per la criniera pacificamente, conoscendoli uno per uno, tante volte li aveva visti per la stessa occasione. - Buona caccia, signor canonico! - Felice viaggio, signor canonico! - Solo una vecchierella non gli diceva nulla, comare Nina la sciancata. Il canonico aveva notato che a ogni "Buona caccia, signor canonico" di quella vecchia sciancata, la polvere non gli diceva piú, i cappellotti non prendevano, i conigli si scotevano da dosso i pallini quasi fossero stati goccie d'acqua benedetta, e nell'andarsene via quatti quatti, voltatisi indietro, agitavano le orecchie per canzonarlo. - Voi non dovete dirmi niente, jettatoraccia! Avete capito? - E la povera vecchierella non gli aveva detto piú niente. Alla masseria, il "preparatio ad missam" era la posta pei colombi selvatici. Intanto che il massaio, sonando con la buccina marina l'appello ai contadini per la santa messa, faceva rintronar la vallata, il canonico andava ad appostarsi laggiú, sotto il sorbo, e 'Nzulu buttava sassi di cima alla rupe, tra i fichi d'India e gli oleastri, per ispaventare i colombi e farli scappare dai nidi. Essi scappavano a stormi, con gran fruscio di ale, a ogni sasso che rumoreggiava sbalzando tra le schegge della rupe, i f ichi d'India e gli oleastri; e subito, si udivano due colpi di fucile, uno dietro l'altro, laggiú, di sotto il sorbo. 'Nzulu ne vedeva il fumo; e vedeva anche il canonico raccogliere frettolosamente i morti e riporli nella carniera. E la buccina del massaro continuava ad assordare la vallata; e i colpi di fucile a echeggiare tra le rupi. Nella chiesuola, i cani scodinzolavano e saltavano attorno al canonico mentre 'Nzulu lo aiutava a indossare i paramenti sacri, a preparare il calice e aprire il messale. Il canonico gli aveva insegnato a servir messa. Che quegli storpiasse il latino, non importava; Domineddio capiva lo stesso. E poi, era affare di un quarto d'ora. Un giorno però la messa del canonico durò anche meno. A un " dominus vobiscum ", dalla porta spalancata, in fondo al viale affollato di contadini inginocchiati che la chiesola non capiva, davanti le piante dei carciofi, aveva visto un cane di pelo castagno, piccolo, seduto su le gambe posteriori, col muso all'erta, le orecchie ritte e lo sguardo fisso. Testa intelligente, naso di razza, musino bene affilato da cane da fermo; non poteva sbagliarsi. Da prima, resistette alla curiosità e sbrigò l'evangelo; ma voltatosi di nuovo, a una squadratura piú lunga, da quell'espertissimo cacciatore ch'egli era, poté giudicarlo meglio. Accennò a 'Nzulu, e fingendo di dirgli qualcosa che riguardava il servizio divino, gli soffiò a voce bassa: - Quel cane ... presso i carciofi, guarda. Di chi è? - 'Nzulu, data un'occhiata, rispose con una mossettina di testa e di spalle: - Di chi? Non lo sapeva. - Ma ne domandò al massaio inghinocchiato presso l'altare. Il massaio si rivolse per guardare; e allora coloro ch'erano nella chiesuola si voltarono tutti, intrigati; e fuori, nel viale, seguí un piú rapido movimento di teste alla direzione della carciofaia, un domandare e un rispondere con monosillabi e con cenni ... Nessuno ne capiva niente. Il cane, quasi ne avesse capito qualcosa lui, si levò e disparve, mentre il canonico, aprendo le braccia per un altro " dominus vobiscum ", sgranava gli occhi, arrabbiato che fosse andato via prima ch'egli avesse terminato la messa. Quei cinque minuti, che occorsero per arrivare affrettatamente alla benedizione trinciata in un battibaleno, gli erano parsi un'eternità. Cavatosi il manipolo, la pianeta, il camice, che stracciò a una manica, disse al massaio: - Di chi è quel cane? - Dev'essere di Corda-al-piede - rispose un contadino accostatosi per sapere di che si trattasse. Infatti, presso i carciofi, il figlio di Corda-al-piede lisciava l'animale e gli diceva ridendo: - Hai sentito la messa anche tu? - Il cane salterellava, faceva le viste di volergli mordere la mano, per carezza, ringhiando eccitato e allegro; e abbaiava, a riprese, se qualcuno gli toccava la coda, o tentava di accarezzarlo il padrone. - Che ne fai di questo cane? - gli domandò il canonico. - È di mio padre. - Me lo prendo io. - Neppure per chiasso. Gli costa mezza salma di fave. - Gliene darò una intera. - Niente, signor canonico. Gli vuol bene piú che a me che gli son figlio. - Su: venga a prendersi le fave. Va' a dirglielo -. Ma, un'ora dopo, Corda-al-piede arrivò, trafelato pel cammino fatto, strepitando: - Voglio il mio cane! - Bestia, che te ne fai? - Voglio il mio cane! - Non rispondeva altro. E siccome 'Nzulu e il massaro cercavano d'inframmettersi, cominciò a sbraitare e a dir loro delle parolacce. 'Nzulu lo tirò da parte, vicino al pollaio: - Come? Dite di no al signor canonico? Non lo sapete dunque ch'egli può giovarvi in tutte le circostanze? ... - Voglio il mio cane! - Quel giorno il canonico tornò di malumore al paese; e per una settimana discorse di quel cane con 'Nzulu e con gli altri che venivano a fargli visita, al solito, pel levriere, o pel furetto, o per qualche carica di polvere da caccia, di quella che si trovava soltanto presso di lui ed era inutile cercarla altrove ... Cottone, un altro cacciatore di mestiere, lo conosceva meglio di tutti il cane di Corda-al-piede: - Animale coi fiocchi! Cacciava da sé, e portava i conigli al padrone senza che nessuno l'avesse addestrato. Ma quello zotico non si degnava nemmeno di prestarlo -. Mezzo paese si mise in moto, per far cosa grata al signor canonico. E 'Nzulu andava e veniva, aumentando ogni volta il prezzo che quegli era pronto a pagare. Corda-al-piede piú si vedeva pregato, e piú diventava duro. Il canonico, quando gli riferivano le risposte, si mordeva le mani. Non gli era mai accaduto un caso simile; gli pareva impossibile che quel pezzo di villanzone resistesse alle offerte e alle minacce. Giacché egli, alla fine, era ricorso alle minacce per intimorirlo. Corda-al-piede rispond eva: - Nel mondo, due sono potenti: chi ha molto e chi non ha niente. Che può farmi il canonico? - Questi, tornando a dire la messa in campagna, aveva delle distrazioni. Vedeva sempre, là, in fondo al viale, presso la carciofaia, il cane di Corda-al-piede, che non c'era piú, e non s'era piú visto perché il padrone lo teneva in casa incatenato. - Né io, né lui! - decise il canonico. E trovò chi, con la scusa di dire una parolina a Corda-al-piede, andò a buttargli in casa una polpetta di stricnina pel cane. Ma un sabato sera, il canonico Salamanca, andando a Bardella per la messa della domenica, vide proprio la morte con gli occhi, come diceva 'Nzulu Strano, raccontando il fatto. Corda-al-piede, che attendeva allo svolto della strada, presso il vallone della Lamia, gli puntò il fucile in faccia, esitante: - Per la Madonna! ... Dovrei farvi fare una fiammata e andarmene in galera! - Il canonico, colto alla sprovvista, fermò la mula, pallido come un cadavere, balbettando: - Contro un sacerdote? - Ringraziate la chierica di Cristo, che non siete degno d'avere in testa! - E Corda-al-piede, abbassato il fucile, aveva tirato, per spavalderia su le macchie di rovi del ciglione, avanti che 'Nzulu spiccasse un salto per tentare di disarmarlo. Ahimè! I bei tempi delle grandi giornate di caccia erano già lontani; gli anni e, piú, la podagra, avevano ridotto il canonico a camminare come un invalido, reggendosi su la canna d'india, allorché s'avviava per andare a celebrare la messa, o a recitare l'uffizio. Le sue fermate da donna Totò, grassa e fresca a dispetto dell'età, erano diventate piú lunghe pei malanni e per l'abitudine. Il nuovo vescovo, rigido quanto il predecessore, nell'occasione della visita diocesana, fece al canonico un'altra lavata di capo. - Scandalo! Dovrò levarle la messa? - Che scandalo vuol ella che io dia, monsignore mio? - aveva risposto il canonico con voce di rimpianto. - Non vede come sono ridotto? - E il vescovo s'era stretto nelle spalle brontolando, e lo aveva lasciato in pace. Per ciò ogni mattina si vedeva il canonico Salamanca che, appoggiandosi alla canna d'India, trascinava per la salita le gambe indolenzite, fino alla porta di donna Totò. Ella lo attendeva al terrazzino, sapendo l'ora, e accorreva per aiutarlo con una mano a montare i pochi scalini, levargli il mantello e prendere il nicchio per riporli sul letto, e porgergli la pipa già preparata sul tavolino con accanto la scatola di latta dei fiammiferi di legno. Pareva che, senza quella pipata preventiva, il canonico non potesse né dir messa, né cantare al coro; pareva che, senza lo stimolo di quella tazza di buon caffè e il conforto dei crostini, non avesse potuto piú avere la forza di arrivare a casa. In verità, le sue visite erano oramai la cosa piú innocente di questo mondo. Il canonico si divertiva coi merli e con le gazze che donna Totò ammaestrava per proprio svago e chiamava figliuoli. A uno dei merli, al piú vecchio, ella aveva messo nome Canonico. Non cantava piú; stava appollaiato tristamente sulla stecca della gabbia, quasi seccato di vivere, e si cibava soltanto di zuppa di biscottini, di quelli che il canonico amava intingere nel caffè. Egli lo guardava, mandando fuori grandi boccate di fumo, quasi fosse stato il suo ritratto. - Invalido anche lui, quel povero Canonico, dentro la gabbia! - E gli fischiava, quasi dovessero intendersela bene fra loro, uno piú invalido dell'altro. Canonico rizzava la testa spiumata, scoteva le ali e la coda, mandava fuori un flebile chioccolio, e rimaneva lí, appollaiato su la stecca, immobile, aspettando di morire. Le due gazze intanto accorrevano a beccare familiarmente la punta delle scarpe del canonico, che si compiaceva d'incitarle. Vivaci, striminzite per le ali tagliate assai corte e il codione senza penne, esse gli s'arrampicavano su per le gambe, sporcandogli la zimarra, impertinenti, crocidanti, ciangottando parole con la lingua mozzata a posta per addestrarle a parlare. - Figlio! Figlio! - suggeriva donna Totò, contenta e superba delle sue bestioline. - Chi è? Chi è? - E le gazze ripetevano, roche e stridule: - Figlio! Figlio! Chi è? - Il canonico, continuando a fumare, diceva alla signora: - Prendetemi la cassettina -. Si occupava, là e a casa, fabbricando chioccolii per la caccia delle quaglie; e in quella cassetta, come nell'altra che aveva a casa, stavano riposti pelli di capretto conce, cannellini di stinchi di tacchino, minuzzoli di candele di cera fattisi dare dai sagrestani, matasse di refe grosso, forbici, aghi, un ditale e il legnetto intagliato a vite, con cui dare le pieghe a mantice ai sacchettini dei chioccoli. Ritagliava la pelle sul modello di cartone e ne cuciva gli orli combaciati attentamente; poi, foggiata con le dita una pallottolina di cera, la cacciava in fondo al sacchetto allestito; serviva per dare appoggio al chioccolo sul polpastrello del pollice, quando dovevano suonarlo. Indi, infilatovi il legnetto, avvolgeva la pelle con uno spago tra i pani della vite, perché prendesse le pieghe e servisse da mantice. E che ammattimento quei cannellini di osso, forati in mezzo, da adattare alla bocca del sacchet to con un tappo di cera, pel suono! E quei peduncoli di spago da appiccare in calce al chioccolo, per poterlo tener fermo! ... Lavoro di pazienza, insomma, che svagava molto il canonico. Gli rammentava i bei giorni d'estate tra i seminati della Piana, ai tempi ch'egli e 'Nzulu davano la caccia alle quaglie con reti e fucile! Quacquarà! Quacquarà! E le quaglie accorrevano al richiamo, incappando fra le vaste reti stese sui seminati che si piegavano, cascando fulminate da colpi infallibili: Tum! Tum! Gli pareva di sentirseli ancora dentro gli orecchi. Tum! Tum! Da donna Totò egli lavorava tranquillamente. A casa, sua sorella donna Agnese, a vedergli sciupare quelle buone pelli di capretto che costavano tanti quattrini, brontolava da mattina a sera: - Che ne fate dei chioccoli, ora che non potete piú andare a caccia? Pazzo, pazzo da legare! -E, se lo trovava a frugare pei cassettoni in cerca d'un mozzicone di candela, o d'una matassa di refe, lo sgridava peggio di un bambino: - Non sconvolgete ogni cosa! Non vi bastano ancora cento e piú chioccoli? - Egli stava zitto, e intascava i mozziconi di candele, se ne trovava. Quando non ne trovava, ricorreva fin alle candele benedette della Candelora, che donna Agnese teneva appese al capezzale e dovevano servire in punto di morte. - Scomunicato! E siete sacerdote! Anche le candele benedette! - Donna Agnese non se ne dava pace. Per questo, a ogni accesso di podagra che inchiodava il canonico su la poltrona, e lo faceva trambasciare, non lo compativa, indispettita: - È castigo di Dio! Dovreste intenderlo -. Faceva meraviglia come egli non perdesse la pazienza. - A che siamo co' chioccoli? - gli domandava 'Nzulu, che ora veniva piú di rado. - Quattrocento! - Dovreste darmene un paio; è la stagione delle quaglie. - Serviranno per me, quando sarò morto. - Come mai, signor canonico? - Gli ho destinati ai ragazzi poveri, per testamento; dovranno accompagnare la mia bara, suonandomi dietro: Quacquarà! Quacquarà! - E rideva. Con tal pretesto, non regalava un chioccolo neppure a 'Nzulu Strano. - Non vi si riconosce piú, signor canonico! - Non si riconosceva egli stesso, su quella poltrona maledetta, dove non trovava requie da un mese, né giorno né notte. 'Nzulu gli recava le notizie di donna Totò. Il vecchio merlo Canonico, morto di sfinimento; una delle gazze, la migliore, annegata in un catino d'acqua; donna Totò poverina, n'avea pianto quasi come per una figliuola! E non si sentiva bene neppur lei. Voleva il dottore ... Da lí a qualche giorno, le cattive notizie incalzarono: donna Totò stava male assai. Il canonico dondolava la testa: - Ah, se accade una disgrazia, 'Nzulu! ... - Dove sarebbe andato per la sua fumatina prima della messa? E, dopo, pel caffè coi crostini e i biscotti? Una mattina che si sentí in gambe, cominciò lentamente a vestirsi. 'Nzulu allora, atteggiando a compunzione il viso allampanato e giallastro, credette opportuno dirgli: - Restate in casa, signor canonico ... Fate la volontà di Dio! ... Siamo tutti destinati a morire! Due lagrime rigarono la faccia smunta del canonico; pure volle finire di vestirsi, e scese le scale reggendosi al braccio di 'Nzulu. - Almeno celebrerò la santa messa in suffragio dell'anima sua! - Presero però un'altra strada, per non passare davanti quella porta dove donna Totò gli veniva incontro per aiutarlo a salire i quattro scalini. In sagrestia, rivolti gli occhi al gran crocifisso di carta pesta che sormontava gli scaffali: - Signor Iddio! - esclamò lamentosamente il canonico: - O che non vi bastava Maria Maddalena in paradiso? - E lasciò infilarsi il camice dal sagrestano. Roma, settembre 1891@. 1891.

CENERE

663034
Deledda, Grazia 1 occorrenze

, al lungo gabbano nero, al bimbo che vedeva i morti, agli uccellini nudi del nido abbandonato, ai suoi poveri fratellini, ai tesori di Anania, alla notte di San Giovanni, a sua madre morta; ed ebbe paura e si sentì triste, così triste che, sebbene si ritenesse dannata all'inferno, desiderò di morire.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

che Dio e la sua mamma lo avessero proprio abbandonato del tutto? Ah Cesarino! Spalancò gli occhi per bere la luce del giorno e per liberarsi da quel tremendo incubo che lo trascinava a rivedere suo fratello disteso sotto una stuoia fra le ruote d'una carrozza: e gli occhi andarono a posarsi sopra la tazza di vetro, in cui Arabella aveva collocate le belle rose di maggio. Fisso in quei fiori lasciò che le lagrime colassero un gran pezzo in silenzio, come se dentro di lui si sciogliesse veramente qualche cosa di duro e di irrigidito.

Demetrio, che aveva già dieci o dodici anni, abbandonato all'educazione dei bifolchi e dei famigli, crebbe come si può crescere tra le vacche e i cavalli. Fu un miracolo se imparò a leggere e a scrivere. Man mano che Cesarino diventava grande, crescevano ancora le differenze. A sentire il pà, egli solo aveva ereditato tutto il talento di casa Pianelli; egli doveva fare il dottore o l'avvocato. Appena ebbe raggiunta l'età, fu collocato a Milano, nel collegio Calchi-Taeggi; mentre Demetrio, dopo essere stato qualche anno a Lodi presso un ragioniere a imparare quattro conti, fu presto richiamato a casa a sopraintendere alla stalla delle vacche e alla "casera" del formaggio. Solamente nelle vacanze Cesarino passava qualche dí a casa. Tutto lindo e ripicchiato nella sua divisa di panno nero coi bottoni d'argento e coi ricami d'oro, coi ricciolini pettinati e scompartiti sulla fronte, s'imbatteva in Demetrio che usciva dallo stallone, colle gambe nude fino al ginocchio, i piedi in grossi zoccoli di legno, con in mano una forcona, col corpo sordido e pregno di quel grasso odore che stilla dai letti marci. Era un miracolo se questi due fratelli, incontrandosi, si dicevano un "ciao" a mezza bocca. Stavano a guardarsi un istante, sorpresi, quasi meravigliati l'uno dell'altro, e si voltavano le spalle. Per fortuna alla cascina Cesarino si fermava poco, perché il resto delle vacanze andava a passarlo colla mammina sul lago di Como. La bella Angiolina dopo otto anni di matrimonio, presa dalla malaria, curata male, morí in preda a una terribile febbre d'infezione. Pà Vincenzo rimase indietro piú stupido e piú rovinato di prima. Cominciarono i sequestri: l'Ospedale diede la disdetta d'affitto, e da padroni i Pianelli divennero servitori. Quando sarebbe toccato anche a Cesarino di dare una mano a salvare la casa che barcollava, sempre per consiglio del cavalier Menorini, fu collocato in un battaglione d'istruzione, da dove uscí col grado di caporale maggiore. Poi scoppiò la guerra del '66 e addio casa! Il peso dei debiti, dei protesti, dei sequestri, del padre vecchio, malato, rimbambito, cadde di nuovo sulle spalle del povero bifolco, che non per nulla era nato prima. Mentre la casa si sfasciava da tutte le parti, era bello (bello, per modo di dire) vedere il vecchio pà Vincenzo seduto fuori dell'uscio, al sole, colla bocca aperta, con una berretta di maglia a righe rosse in capo, col fiocchino ritto come si dipinge la fiamma dello spirito santo, le mani sulle ginocchia, gli occhi perduti nell'aria e nel verde pacifico dei prati, in mezzo a un milione di mosche che se lo mangiavano vivo. Demetrio vendette il canterano di maggiolino della sua mamma e coi quattro stracci si ridusse a Milano, dove un suo zio prete, don Giosuè Pianelli, canonico in Duomo, gli procurò un posto provvisorio di scrivano nella cancelleria della Curia arcivescovile. C'era appena di non morir di fame, anche dopo aver venduto tutto ciò che s'era potuto sottrarre alle mani del fisco. A Milano il vecchio Pianelli trovò, se non altro, meno mosche. Tirarono innanzi tre anni, campando colla misericordia di Dio, su qualche ultimo boccone della dote di mamma Teresa, finché non piacque al Dio delle misericordie di chiamare pà Vincenzo in paradiso a trovare la sua bella Angiolina. Quando si trattò di farlo portar via, Demetrio, non sapendo a che santo ricorrere, andò a trovare lo zio prete, un brontolone sempre in collera, che gli prestò cinquantasette lire dietro regolare ricevuta. Demetrio non aveva voluto ascoltare il consiglio di don Giosuè e mandare il vecchio all'Ospedale: cosí gli toccarono in corpo anche le spese del funerale. Eran cose passate da un pezzo: ma queste memorie ripassavano ora davanti agli occhi di Demetrio, come se la ruota della carrozza, girando, ne svolgesse il filo. Né i guai finiron lí. Cesarino, che si trovava in quel tempo a Palermo, scrisse subito a Demetrio per chiedergli i conti ed i residui della sua parte patrimoniale. E a lui di rimando il fratello rispose che il padre era stato sepolto con le cinquantasette lire prestate dallo zio prete; che di roba non c'era piú l'ombra; che le spese di malattia le aveva pagate lui; che era ridicolo parlar di conti e di residui. Cesarino tornò a scrivere che sua madre Angiolina aveva portato cinquemila lire di dote e che, se egli era stato tanto buono e rassegnato finora a non domandare i conti, ora, sul punto di lasciare il servizio militare per farsi una carriera, non poteva piú trascurare i suoi diritti. Demetrio tornò a rispondere al signor sergente- furiere ch'egli non sapeva nulla di dote; che se anche c'erano state le cinquemila lire, il fallimento se l'era mangiate. Venisse e vedesse che cosa era rimasto di casa Pianelli. Il contrasto si fece ancora piú vivo, allorché Cesarino, lasciato il servizio, venne a Milano in cerca d'un impiego. La sua grande aria di superiorità, resa ancor piú altera e imponente da un certo piglio soldatesco, cominciò ad irritare fin dal principio il fratello bifolco, che aveva sul libro vecchio della memoria tutti gli arretrati delle passate mortificazioni. Poiché non c'era piú né babbo né mamma, disse al sor sergente piú d'una verità che gli stava da un pezzo in gola, senza troppo condirla. Cesarino, già fin d'allora molto lord Cosmetico rispose con un risolino ironico di schifo e con un proverbio del paese, che tradotto in lingua povera veniva quasi a dire: da una zucca non può nascere che una zucca. A questa ingiuria, che andava a colpire la santa memoria di sua madre, Demetrio chiuse l'uscio sul muso all'ex-sergente, e da quel dí — cioè da dieci o dodici anni in qua — non si eran parlati, non si eran guardati piú in viso. Demetrio sollevò un momento gli occhi alla cassa e si sforzò di perdonare sinceramente a quel poverino. La morte paga tutti i debiti: cioè non tutti ... pur troppo ... Pur troppo eran passati gli anni, durante i quali Demetrio, lasciato l'impiego provvisorio della Curia, era entrato col grado di terzo bollatore all'ufficio del Bollo straordinario, collo stipendio di mille e trecento lire: poi, per speciale protezione del cavalier Balzalotti, era stato assunto al grado di commesso gerente in uno dei tanti uffici del registro con cento lire di aumento. Cesarino, sempre coll'aiuto e colle raccomandazioni del vecchio cavalier Menorini, col suo bel congedo in regola e colle sue medaglie commemorative, non stentò a trovare un impiego. Entrò dapprima nel personale viaggiante delle Poste sui battelli a vapore del lago di Como; poi ottenne un posto di ufficiale a Melegnano, dove fece conoscenza coi Chiesa, e dopo qualche anno venne traslocato a una Sezione dei vaglia a Milano, con lo stipendio di duemilacinquecento lire. Cosí egli dimostrò a suo fratello bifolco che un uomo di spirito non ha bisogno della carità di nessuno. Con duemilacinquecento lire, un bell'uomo, di talento, elegante, un regio impiegato, educato in un collegio, poteva aspirare a un bel matrimonio ... Non passò molto che una bella domenica Milano poté contemplare sul Corso lord Cosmetico che dava il braccio alla sposa vestita in gran lusso d'un abito di seta color tortorella e in testa un cappellino bianco a piume che si poteva vedere da Monza. Beatrice Chiesa doveva portare nel grembiale quarantamila lire di dote, oltre alle prerogative di una solida salute e di una bellezza senza risparmio. Ma al momento di sborsare i soldi il sor Isidoro non mise fuori che tre o quattromila lire, riservandosi con un'obbligazione di pagare gl'interessi sul resto. Di queste tre o quattromila lire la maggior parte era in corredo di biancheria, il vecchio fondo delle guardarobe di casa Chiesa, cioè piú distintamente ottantaquattro camicie da donna di tela nostrale fabbricata in casa fin dai tempi dei bisnonni (roba che adesso non si fabbrica piú cosí buona); centoventi paia di calze di filo, tutta roba anche questa nata e preparata in casa; venticinque tovaglie grandi, quasi nuove, per trenta persone, che avevano servito qualche volta ai grandi pranzi di casa Chiesa, e piú di duecento tovagliolini di tela eguale, ben grandi da imbacuccare un uomo; quattro dozzine di lenzuola di tela nostrale del 1840 e una grande quantità di foderette e di asciugamani. I coniugi Pianelli menarono subito una vita in grande. Non si nasce lord Cosmetico senza avere il gusto delle belle cose e non si sposa una bella donna senza il desiderio di comparire e di farla comparire. Già il primo anno si cominciò a spendere senza giudizio, dando fondo a quel migliaio di lire che il babbo aveva anticipato sulla dote. In casa Pianelli non si conoscevano le famose grettezze di mamma Teresa, che metteva in disparte i gusci e i mezzi solfanelli! A desinare erano sempre due piatti con frutta e dolci: a colazione si beveva fior di vin di Marsala: la sera si passava al Caffè Biffi, in Galleria, o ai giardini pubblici, o a teatro. D'autunno o era un viaggio sui laghi o un mese di campagna a Erba o a Besana Brianza ... E per questa strada il povero Cesarino aveva finito coll'andare in carrozza. "Eccola qui la carrozza!" mormorò Demetrio, alzando di nuovo gli occhi sul carro funebre, che, passata la chiesetta di San Barnaba, infilava l'altra via quasi deserta della Pace. Ma di tutto questo che colpa avevano quei poveri figliuoli? È vero ch'egli avrebbe potuto stringersi nelle spalle, lavarsene le mani e fingere di non conoscere nessuno; ma son cose che si dicono. C'era di mezzo il nome della famiglia, c'erano di mezzo gli innocenti e non è religione solamente il sentire la messa la festa e il confessarsi a Pasqua. E, come se questi pensieri gli cadessero addosso insieme all'acqua che veniva dal cielo, Demetrio andava rannicchiandosi sotto l'ombrello, mentre la carrozza, passata la Rotonda dei Cronici, entrava nel terreno molle e fangoso del bastione. Sí, una grande responsabilità gli cadeva sul capo! Era proprio necessario ch'egli accettasse questa dolorosa eredità senza qualche beneficio d'inventario? Come poteva colle sue millequattrocento lire all'anno pensare alla vedova e a tre figliuoli? La lettera di Cesarino, che egli andava rotolando in fondo alla tasca del suo paltò, parlava di un grosso debito di mille lire verso il signor Martini ... Grazie! Eppure se c'era un debito sacro era questo, nel quale era compromesso l'onore di tutta la famiglia e la memoria di un povero padre. Nella sua lettera arida, scritta sul tamburo della disperazione, Cesarino parlava di diritti a pensione, e della dote di sua moglie; ma alla Posta non riconoscevano questi diritti, e in quanto alla dote di Beatrice, chi conosceva il signor Isidoro Chiesa, sapeva che il buon uomo non aveva di grande che la blatera e la presunzione ... Ecco come uno va fuori dei fastidi e vi lascia dentro chi resta. Come se di impicci e di strozzamenti non ne avesse avuti abbastanza in tutta la sua vita! Come se, per non averne piú, egli non avesse giurato di morir solo e vivere intanto nel suo guscio, in una soffitta sopra le tegole, lontano dagli uomini e dalle donne. La carrozza funebre svoltò un'altra volta e uscí da Porta Vittoria. Dopo le ultime case del sobborgo, laggiú, presso il vecchio forte militare, la strada si fece piú molle e fangosa. Da lontano, dietro gli alberi umidi e grondanti di pioggia, venivano sopra gli umidi sbuffi d'un vento gelato i tocchi d'una campana, forse da Calvairate. Il luogo non è mai bello per sé con quelle siepi mozze, con quella lunga cinta di camposanto che si accompagna alla strada, con quell'acqua morta che inverdisce nei fossi. C'era di piú l'ora bigia e triste e la giornataccia che andava oscurandosi nella nebbia della bassa pianura. Di tristezza traboccò anche il cuore di Demetrio, che, dopo due giorni di scosse e di irritazione, nel punto che tiravano Cesarino dal carro, sentí al disotto dei vecchi rancori irrugginiti agitarsi un sentimento molle e fraterno di carità e di compassione. Povero figliuolo, povero martire ... , cosí giovane ... , andava ripetendo una voce in fondo al cuore, al disotto di quel gran mucchio di reminiscenze dolorose e cattive che pesavano sulla coscienza come un sacco di chiodi pungenti. Due lagrime dure spuntarono nell'angolo degli occhi, stagnarono nella pupilla e gonfiarono la testa di vapori. I becchini, toltasi la bianca cassa di larice sulle spalle, si avviarono attraverso ai cumuli di terra per un campo melmoso sotto la pioggerella. Demetrio li seguí. Stette a vedere la cassa scomparire nella buca, sentí la terra molle cadere sul legno. Data una robusta scossa ai pensieri che gli tiravano il capo sul petto, disse con un sospiro: Amen . Ritornò in città ch'era già buio, senza mai accorgersi che dietro di lui, col muso basso, camminava un cane. Traversò strade, stradette, piazze e vicoletti col suo passo pesante di bifolco, crollando di tanto in tanto la testa come un cavallo stanco di portare il basto. Giunse in San Clemente, e, nell'androne buio della porta, sentí una voce che lo chiamava per nome. "Che cosa c'è ancora?" esclamò con un fare di uomo seccato. "Sono dell'Ospedale. Ho portato i vestiti e le scarpe del defunto. Se il signore volesse favorire la sua buona grazia ... " Demetrio masticò tre o quattro parole senza senso, si tirò verso la porta, e, al lume del lampione a gas, guardò nel borsellino. " L'hoo propi miss in la cassa come on bombon " continuò la voce dell'uomo che parlava nel buio. Bisognò dare una lira anche a costui.

Demetrio, che nel calore e nello zelo del suo cuore s'era abbandonato quasi all'illusione d'essere arrivato a tempo a far del bene, a questa brusca interruzione, al modo obliquo con cui lo guardava la donna, capí di essere stato prevenuto. Perdette l'equilibrio, si scoraggiò, masticò ancora un fiume di cose amare, raccolse i suoi nervi, spianò le sue rughe irritate e con una voce che cercava d'essere fredda per non essere velenosa, soggiunse: "Scusate, questi debiti io non posso pagarli ... ." "Lo so, non è la prima volta che non potete pagare i vostri debiti ... ." Questa era la frase che il signor Isidoro aveva messa in bocca a sua figlia nel caso preveduto che Demetrio si fosse fatto avanti coi soliti raggiri, e alludeva alla famosa dote di mamma Angiolina. Demetrio ricevette il colpo in pieno petto, chiuse gli occhi, impallidí sotto la scorza dura e nera del suo viso color patata, mosse una mano quasi volesse col gesto aiutare la parola a venire fuori; ma un groppo di pianto stizzoso e furibondo lo strozzava alla gola ... Col dito secco segnò tre volte il fascio dei conti che lasciava sul tavolino, si rannicchiò nelle spalle, sempre con la bocca impiombata dall'ira e dal dolore, e uscí dalla saletta senza dir nulla. Un grimaldello non avrebbe potuto aprire quella sua bocca impiombata di dolore e di sdegno. Uscí, traversò la cucina, smarrito, mal pratico dell'appartamento, passò in mezzo ai due bimbi seminudi che picchiavano e strillavano di fame, e finalmente trovò l'uscio dell'anticamera. Fu un miracolo se si ricordò di prendere il cappello e il bastone. Fu pure un miracolo se non cadde dalla scala. Il Berretta lo chiamò di nuovo: "Ehi! ehi!" dal fondo dello stanzino. Ma egli non sentí o non volle sentire. Uscí; prese la strada a man destra verso il centro, non pensando nulla e non ripetendo nel fondo piú oscuro del suo pensiero che una parola sola: "Asino!" In questa parola, che rappresenta un animale sciocco e paziente, concentrava tutta l'ira, il dispetto, il dolore, la vergogna dell’offesa ricevuta, e la vergogna della sua incapacità morale. Per via Torino, San Giorgio, Zecca Vecchia, uscí al Bocchetto e andò in ufficio. Lavorò meccanicamente, come al solito, senza sbagliare, senza parlare; se non che, di tanto in tanto, come al girare di un quadrante, scoccava in lui quell'unica parola in cui era andata concentrandosi tutta la sua dialettica: "Asino!"

Versione elettronica di testi relativi al periodo 800 - 900 Donna Folgore

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Faldella, Giovanni 3 occorrenze

Lui, fiore di speranza letteraria, Tota Nerina aveva lusingato e abbandonato. Ed egli, fruttificato a gloria europea, non solo aveva riattratta Nerina a sé, ma l'aveva inebriata del suo profumo e del suo sapore insaziabilmente acuto fino al proposito effettivo di rinunziare al titolo comitale e di accettare il suo nome borghese, per goderlo ancora, per goderlo sempre. * Senti, signora Meraldi! Confessiamoci: * Nel rito cattolico la confessione precede il sacramento del Matrimonio. Però meglio dopo che non mai. Io credo che Domine Dio è superiore diretto di ogni prete e di qualsiasi religione non crudele. Faremo piacere a Dio, avvalorando con i buoni propositi di una confessione la benedizione nuziale del Pope. E poi abbiamo qui un nostro concittadino italiano, che è stato testimone delle nostre nozze con l'aspetto di vescovo greco: il letteratissimo Marco Antonio Canini, un milionario di parole, un matematico sfondolato delle etimologie capace di estrarre le radici cubiche da trecento idiomi comparati, ed insieme un emporio di poesie a tutti i gradi di latitudine e di longitudine. Egli ha voluto celebrare le nostre nozze con una anacreontica, in cui si sente la barcarola della sua natia laguna vogare dolcemente vincitrice sopra un Ponto Eleusino. Or bene Marcantonio Canini è pure un vulcano di idee. Ieri sera ristrettomi a lui con quella inesorabilità di mento barbuto, che pare ti inchiodi a sé, egli mi confidò apostolicamente: * L'Italia ha ancora un gran re, Vittorio Emanuele II, un gran profeta, Giuseppe Mazzini, ed un grande capitano popolare, il generale Giuseppe Garibaldi, e deve ancora acquistare la sua capitale Roma. Manca il grande Ministro Cavour, che l'aveva proclamata. Ma seguendo il suo indirizzo, mentre l'Italia acquista Roma, liberandola dal potere temporale dei Papi, si renderebbe grandemente benemerita verso la Cristianità spirituale, liberando dai Turchi Bisanzio, e poi la Terra Santa. Mentre Vittorio Emanuele si incoronerebbe imperatore romano e re d'Italia a Roma, noi a Costantinopoli innalzeremmo Garibaldi imperatore d'Oriente. È un pensiero, che il Gioberti istitutore del Cavour chiamerebbe pelasgico. La Signora Nerina Meraldi stridette in un risolino musicale da belle Helène di Offenbach: * Tu parli come il primo mio marito di felice memoria: Assurement il ne valait pas la peine de changer de gouvernement. Adriano Meraldi si sentì smorzare l'idea pelasgica dallo spegnitojo del ridicolo. Intanto la sua Nerina ardea per un pensiero di pelo assai diverso. Quell'odore di corte musulmana malamente cristianizzata nelle tradizioni diminuite da basso impero, le aveva dato altezzosamente alla testa. Essendo stata presentata al principe danubiano per ringraziarlo della largita cittadinanza, essa concepì e vagheggiò la speranza di sbalzare, sbancare una regina Milena o Militza dal fianco di un re Milanovich, ed anticipando le prodezze e la fortuna infinita di una Draga, tenersi avvinta una coorte di pretoriani, con cui soggiogare perpetuamente la Sobranja, mentre il sapore incomparabile dei suoi baci avrebbe tolta all'Antico Re ogni voglia di ripudiare mai la nuova regina, di cui avrebbe riconosciuto che un solo bacio valeva cento troni. Essa volle guadagnarsi l'alleanza di Marco Antonio Canini, il quale con il capo nelle nubi come un monte non vedeva e non iscorgeva le pozzanghere della valle. Egli a sentirsi lodare il suo milione di etimologie e il suo bilione di poesie erotiche raccolte da tutti gli angoli della terra promise alla generosa signora la collaborazione di quattro vescovi greci, di un convento copto, nonché della Accademia di Iscrizioni e dell'Accademia degli Immortali di Francia, eccettuato qualche membro floscio del partito dei vescovi cattolici e dei duchi reazionarii. Ma alla preziosa e larga cooperazione Marcantonio poneva una condizione, su cui non transigeva: l'impero d'Oriente riservato a Giuseppe Garibaldi. Più che la collaborazione fantastica e fanatica di Marco Antonio Canini giovava alla signora Meraldi la attraenza calcolata della sua beltà europea, la quale esercitava una particolare seduzione in quella corte di non lontana influenza asiatica. Tra quel tosco di odalische, che parevano natanti in un quadro ad olio, ed esalanti sudori profumati, splendeva la sua leggiadria sana, che si sarebbe detta di una purezza cristallina; una statua di schampagne ghiacciato. La voglia di inebriarsene era irresistibile. Già si apprestava un veleno alla regina Milena o Militza; già una congiura di mammalucchi era pronta a sollevare Nerina I al trono. Ma congiuravano pure per acchiapparla la massoneria e il gesuitismo cospiranti da cunicoli sotterranei e sottomarini, che mettevano capo fino in Italia. Quando il principe danubiano aveva posto il più alto prezzo politico ai baci della signora Meraldi, mentre essa riposava in letto, dopo un bagno degno di Venere, venne sorpresa circondata da una schiera di giannizzari rivali dei mammalucchi a lei fedeli, che erano stati disarmati e allontanati. Essa venne imballata nelle finissime lenzuola e trasportata in una vettura chiusa, dove già l'attendevano il marito imbavagliato, e Marcantonio Canini complice, interprete e consolatore del loro ardire e del loro fallimento. La vettura a gran galoppo, interrotto da brevi trottate e pause, andava, andava nell'ignoto. Traversava la storia? Traversava la cronaca? Traversava la gloria? Traversava la farsa? A notte alta e cupa la vettura rullò sotto l'androne di un albergo, donde sbucarono altri giannizzari travestiti da lacchè a trasportare il dolce imballaggio della signora tra le lenzuola in una tiepida stanza, dove essa riebbe le sue vesti. Il marito venne sbavagliato. E Marcantonio si sentì autorizzato a ricuperare il suo scilinguagnolo poliglotta ed il suo scibile enciclopedico. Egli si riconobbe nell'Epiro, un altro dei suoi regni ideali. Egli cantava, e cantando evocava, rianimava in sé l'eroe Scanderberg. Adriano Meraldi si sentiva trascinato dolcemente dal sogno della vita in una viltà giustificata dalla vita del sogno. Alla giustificazione concorreva la sua metamorfosi di scrittore francese. Per un ricorso di letteratura storica si sentiva dominato dalle eleganze muliebri del settecento, in cui gli anatemi alle voluttuose libertà del senso parevano un non senso. Era l'amabile dottrina, secondo la quale Gian Giacomo Rousseau manteneva la sua devota riverenza alla carezzosa e pacioccona madama de Warrens, malgrado i numerosi di lei amanti precedenti, contemporanei e successori. Il filosofo ginevrino pareva dire ad Adriano Meraldi: * Che delitto, che peccato sarà godere e far godere, quando non si fa male a nessuno? Lo scrittore piemontese gallicizzato ripeterà a sazietà quella filosofia ginevrina a giustificazione della sua viltà, finché lo incoglierà gravemente un male veramente francese. Intanto bisognava pensare a provvedere, dove si disegnerebbe il giro delle incredibili avventure e dei vili godimenti. Marcantonio Canini sempre infatuato dei suoi classici e puri sogni propose per orizzontarsi meglio un'ascensione al celebre monastero delle Meteore. A quell'ultimo nido di aquile umane si ascendeva per una fune, a cui era attaccato un canestro da aerostato. La fune tirata dal tornio, cui manovravano di sul promontorio due frati, salì sballottando Adriano Meraldi, Marcantonio Canini, e la signora Nerina, che per ingannare la clausura si era travestita da fraticello. Poco mancò che la galante fraude facesse svenire i due fratacchioni al manubrio del tornio, quando affacciandosi dalla garitta sull'abisso apparve loro, che montasse vago vago l'Arcangelo Gabriele in tonaca monacale. Essi abbandonando il manubrio avrebbero abbandonato al precipizio i tre naviganti dell'aerea nave, se non fossero accorsi a sostegno il padre guardiano ed il frate canovaio attratti al ricevimento. Allorché il canestro areostatico afferrò al promontorio, sbarcandone i tre ascensori, sull'altipiano del convento si palesò un'agitazione maravigliosa, come se abitanti di un altro pianeta vi avessero data la scalata. La devozione eterizzata a superstizione a sei mila metri sul livello del mare propagò in tutti i monaci la credenza che la signora Nerina fosse veramente l'arcangelo Gabriele travestito da fraticello. Il volto della signora era veramente tale da miracolo mostrare . Si determinò nei fratacchioni la follia collettiva di adorarla, e la accompagnarono processionalmente al sublime altare della chiesuola. Dall'altare essa domandò di ritirarsi ad orazione solitaria in sacristia. Quivi, per un trucco combinato dalla fantasia orientale di Marco Antonio Canini, essa traendo dal paniere laminato d'argento una vestaglia e un velo femminile, comparve al Sancta Sanctorum trasformata da Madonna. Ma una Madonna procace. Onde il sospetto e il bisbiglio, che fosse una tentazione diabolica. In quelle carni fratesche addormentate e condensate dall'astinenza si risvegliò terribile il furore erotico di cacciare il diavolo nell'inferno. Come in una fossa di affamati si avventerebbero al gettito di un pane per isbranarlo, si sarebbe fatto scempio della signora Meraldi, se Marco Antonio Canini non avesse salvata la situazione con il suo fascino di vecchio mago. Egli poté aggiungere un nuovo portento al vanto di aver ucciso con un'orazione funebre un assassino. Si dirizzò col mento grigio barbuto su quell'orda di energumeni envergondés assillati dal Demone della libidine; e con voce tonitrua da Deus ex machina : * Questa è per Voi la Madonna; ed io sono il Padre Eterno. Guai a chi le tocca un capello! ... Rispettate, venerate! O vi getto nello spazio! Cadde la minace cupidigia dei fratacchioni sedati. Essi videro spiritualmente in Marcantonio un Gesù invecchiato a Pater noster che proteggeva ex Coelis la ringiovanita Madre divina; e parve loro di penetrare un lembo del mistero della santissima Trinità. Liberi i tre ascesi poterono da quella elevatezza meteorica studiare il panorama dell'Europa da percorrere. I due sposi disegnarono di risalire nella polita frigida Germania per ismorbarsi di quel grassume e tepore d'Oriente. Però la signora Nerina prima di scendere volle ancora confessarsi dal più gagliardo di quei monaci, e dopo la confessione riconciliarsi alle ginocchia del più estatico ed idealizzato novizio. Lasciato Marco Antonio Canini diretto a Costantinopoli con i suoi sogni garibaldini di impero orientale, i neoconiugi Meraldi si diressero a Vienna, dove sotto gli auspicii della poesia metastasiana e all'eco lontana della musica di Cimarosa e Paisiello, la signora Nerina volle ricominciare la sua grande opera dello Studio comparativo di baci nelle Società indo- europee. Per descrivere quest'opera occorrerebbero le Memorie di una nuova signora Casanova di Seingalt. Imperocché Nerina era alla più alta potenza di avventuriera erotica un redivivo Giacomo Casanova di Seingalt. Ma all'inesauribile successo dello spirito avventuriero erotico, e dell'intrigo diplomatico e scientifico, onde riescono pornografiche e mirabolanti le memorie del Casanova, essa univa un predominio assoluto. Sempre più avvalorata di una sensualità combustibile e comburente sopravanzava l'imperatrice Caterina di Russia nello scegliere, comandare e licenziare i suoi amanti. Meritava di pigliare il titolo di Terribile , come la fregata più costosamente agguerrita. Riusciva pallido il paragone classico, che il professore Spirito Losati faceva di lei con l' Ecatomfila di Leon Battista Alberti. Essa era la superdonna per un nuovo Nietzsche; era la Sultana che si riservava un variante harem maschile. Altro che metamorfosi metastasiana! Da Vienna sirena di cabalette e madrigali per improsciuttire quegli arciduchi in tunica bianca, essa passò a Berlino con l'elmo di Minerva armata di tutta la sapienza d'amore: e alla sapienza d'amore univa il brivido fantastico della Dama Bianca. Dal brivido fantastico di fatale spettro notturno essa usciva come una fanciulla vestita da fiore, una fanciulla floreale, che tosto appassisce, se non è amata. Pretendeva sempre essere un fiore incarnato con i suoi amori prepotenti nella più grande varietà. La ricchezza borsuale, di cui non si era mai scordata nelle follie erotiche (anche da fanciulla sotto la rilassatezza del regime paterno si era fatto un ben pinzo borsot ), le permetteva lo sfogo economico dei suoi capricci , che oramai erano più che per pianoforte , erano da organo mastodontico. Ed Adriano Meraldi, il novello sposo, ben poteva tenerle bordone, poiché corrispondente ricercato dai più lucrosi giornali francesi ed inglesi non solo empiva l'Europa delle sue brillanti lettere europee ma gonfiava il suo portafoglio delle più rilevanti ed accreditate banconote. Così la signora Nerina Meraldi, ex contessa De Ritz poté figurare in Russia, come una vergine Nichilina ammirata dai più intellettuali nichilisti non che dai più alcoolizzati arciduchi rispondenti ai nomi di Nicola, Alessio e Sergio. In Danimarca appariva una pazzerella fluida Ofelia, che univa al bruciore delle ghirlande di ortiche il profumo balsamico dei gelsomini lattemiele dei fossi. In Ispagna passava dal tamburello della gitana al crocifisso di Santa Teresa d'Avila modellata nelle più procaci curve dalla bianca lana. In Inghilterra era una perfetta lady, con una gorgiera da Maria Stuarda, a Parigi rappresentava la Dea Ragione per i pronipoti di Robespierre, e una floreale regina Ortensia per la Corte decadente del piccolo Napoleone. Vittor Hugo le dirigeva dallo scoglio di Guernesey un'epistola in versi con un clangore di epopea dei secoli, i cui distici alessandrini coglievano al volo concetti, sentimenti ed antitesi rimando baleni sopra una lavagna azzurra di cielo. Ma quell'epoca erotica spaziante per tutta l'Europa non la appaga ancora. Essa sente reincarnata in sé Ur-Teufelin la più antica diavolessa, la Hölle Rose , la Rosa dell'Inferno, la bandiera dell'eterno diabolico femminile, quella che fu già Erodiade e Kundry, Kundry, che vide il Redentore in croce e ne rise, e ne porta con sé lo sguardo di rimprovero omnipresente. Onde il bisogno di una lavanda spirituale nel Giordano. Lesto lesto essa propone un viaggio in Terra Santa. *** Lo stesso Meraldi rotto a tutte le avventure del romanzo e della vita non può nascondere una ripugnanza di profanazione. Ma Nerina dopo tante avventure profane vuole assaporare l'avventura sacra. Come i raggi diffusi dalla Croce avevano redento il genere umano, essa vuole ricondurre alla originale sorgente benefica del Calvario non solo Erodiade, che pretese la testa di S. Giovanni Battista, non solo Kundry condannata pel sogghigno al patimento del Redentore, non solo Aasvero condannato per la crudeltà di negargli un attimo di sollievo dalla Croce ma altresì Medea furiosa, Fedra tiranna tragica, Giocasta incestuosa col figlio, Mirra incestuosa col padre e tramutata in vacca, tutte le bellezze insidiose insidiate, superbe, abbiette, crudeli, tutte le nequitose o brutali bellezze del mondo classico profano in lei impersonate; e con un supremo compenso spirituale di dedizione e devozione intensificata ottenere l'assoluzione di tutti i vizii, che abbiano sollazzato protervamente od inaridito teneramente il genere umano. Essa comprese in una ascensione areostatica dalla brutalità, che troppo volgare è la filosofia del piacere umano, ristretto alla formola di empir la pelle, vuotar la pelle e fregare la pelle. Tale filosofia è significata eziandio dall'asino in panciolle, che si culla, sgambetta e raglia trionfalmente sfregacciando il dorso sull'erba rasa. Invece alla Terra Santa si va umanamente divinizzandosi anche la bestia più zoliana. Con la sua potenza miracolosa di trasformismo psicologico essa si santificò immediatamente di volontà tanto intensa, che non solo si dichiarava, ma si sentiva offesa allo spettacolo dell'imbottatura, che un Trust turco-nord-americano faceva eseguire dell'acqua del Giordano per distribuirla con un'etichetta commerciale alle varie parti del mondo. Così anche i figli dei Nababbi della City a Londra e di Wall Streett (Via dei Milioni) a Nuova York potevano battezzarsi nelle acque del fiume, dove dal Precursore San Giovanni Battista venne originalmente battezzato oriundo del presepe il divino redentore del mondo ... Profanazione, abbominio per la santità improvvisata della pellegrina signora Meraldi già Contessa Vispi De Ritz! Essa sospirava evocando un bel principe giudio cristianizzato, il Ben Hur del colonnello diplomatico americano Lewis Wallace, che con una spada di Arcangelo sfondasse quelle botti. Essa si era costituita nelle condizioni psicologiche più opportune per entrare nella ragna tesale fino colà da Suora Crocifissa. Mentre il Gesuitismo rappresentato da una rappresentante di Suor Crocifissa aiutava la conversione della signora Nerina al Santo Sepolcro, la Massoneria rappresentata da un Console, agente della compagnia di Esploatazione delle acque del Giordano lavorava per il distacco di Adriano Meraldi da lei. Ambedue le rappresentanze delle suddette forze, che si dividono l'impero sociale del mondo civile ed incivile, riuscirono nel comune intento. Suora Ermellina Diotamo, l'ambasciatrice di Suor Crocifissa, avvolse nell'estasi più vellutata quella grande, splendida convertita, che voleva applicare a se stessa i versi manzoniani: maggiore altezza * al disonor del Golgota * giammai non si chinò. Per compire il miracolo, Suora Ermellina, che era una stupenda gerosolomitana scalza, assunse una voce da arpa davidica: * Senta, signora! Vi è in Piemonte, nell'onda dolce del caldo Monferrato una valletta fresca e romita, una Tempe arcadica, dove il bacio di Dio scende con predilezione e ne sigilla con una delizia, che invano si cercherebbe altrove. Che sono mai le battaglie, le vittorie, le ricchezze, le lautezze, le voluttà di questo mondo, se non si riallacciano alla Misericordia Divina, ossia alla Immensità dell'infinito nel tempo e nello spazio? Sono miserie di zanzare e di mosconi, io sono figlia di un rajah indiano e di una principessa armena signora di cento monasteri. Nacqui nell'immagine terrena della celeste Gerosolima, avrei potuto lisciare la barba più azzurra al mitrato più fulgido di perle; pulsare sul cuore del più glorioso guerriero. E volli consacrarmi a Dio, senza offendere il mio volto con un ferro rovente come fece la martire giapponese per rendersi accetta al cenobio e senza imbrattarmi di fetore, come fece il gesuita per salvare la sua castità dalla moglie del Putifarre indiano. Che merito consacrarsi a Dio, quando siamo repellenti presso l'umanità? * Suora Ermellina! Voi siete divinamente bella; ed io mi lascierò condurre da Voi al Santo Oblio, che mi predicate. Ma io nacqui schiava e regina degli Dei Capricci: tutti i pianoforti suonati a questo mondo, dopo la loro invenzione ad oggi, sommati insieme non hanno ricevuto sulle loro tastiere la percussione di tanti capricci musicali, quanti ne accolsi e vibrai io sola. E sono venuta qui apposta per liberarmi da tale schiavitù e per rinunziare a tale signoria. Sono venuta apposta su queste rive miracolosamente redentrici. Senza che mi sia laureata dottoressa, io veggo il miracolo nella storia: che poveri ed umili pescatori e battezzatori di queste acque, sotto l'influsso di un vero, ma sconosciuto e crocifisso figlio di Dio, abbiano potuto cambiare faccia e fondamento ad una progredita, elevata civiltà umana. Queste acque, che hanno redento il mondo, potranno redimere anche me, ed affrancarmi dai miei capricci. Ma, suora Ermellina, ancora di grazia, mi permetta lo sfogo di un capriccio, in cui annegare tutti gli altri. Mi sia concesso detergermi in queste acque originali del Giordano. E tu, suora Ermellina, siami gemella nel bagno sacro. Suora Ermellina nella lavanderia del Monastero gerosolimitano chiusa da grate verzicanti fece rizzare due botti piene dell'acqua del Giordano destinata all'esportazione nel Canadà. Scoperchiatine i mezzuli superiori, la maestra e la catecumena entrarono nel rispettivo cocchiume, come immersione di anime bianche. A un tratto la signora Nerina emerse, come gentile bàbau da una scatola a sorpresa, e gridò: * Non basta, non basta! Non basta ridursi a giocattoli di Norimberga per attuffare nell'oblio la ricchissima collezionista di amanti e mariti, che sono stata io. Bisogna rinnovare all'aperto il miracolo, che ha lavato e levato i peccati del mondo. Voglio lavarmi con te nel fiume sacro, libera, libera come la Natura e l'Immaginazione. Sai nuotare? * Sì! * Nuoteremo insieme. Si radunò un concilio di badesse e patrassi per consultare, se si poteva concedere quell'ultimo capriccio idraulico. La bocca fiorita di un colto, giocondo e santo francescano, padre Alessandro Bassi, rivendicatore di Emaus, perorò favorevolmente, citando l'esempio del Poeta Divino, che sulla sommità del Purgatorio si era autorizzato un bagno nei fiumi Lete ed Eunoe con promiscuità di sessi (Matelda, Dante e Stazio) davanti le virtù Cardinali e teologali, davanti la stessa Teologia Beatrice e davanti una interminabile processione di luminari della Santa Fede. Fu arriso un consenso a quel Capriccio della signora Nerina, tanto era l'interesse spiegato dal gesuitismo per attrarla al Santo Oblio. Furono prese le disposizioni dal governo Turco con i consoli cristiani e venne scaglionato alla debita distanza un servizio di giannizzeri, perché nessun occhio profano potesse intorbidare il lavacro di quelle bellezze sante o destinate a santificarsi, come nella leggenda di Santa Godiva si chiusero ermeticamente tutti gli usci, le finestre e gli abbaini per la nuda cavalcata della pietosa, che a tale prezzo affrancava la terra dalla esosa imposta. Dove l'onda del Giordano è più tiepida e romita sotto l'ombra verdeazzurrata degli alti palmizi e dei cedri, la signora Nerina, che aveva preteso la scioltezza delle chiome ad entrambe, volle la mano di Suor Ermellina. Plasmate da un velo bianco di vergini martiri cristiane entrarono nel primo solco delle acque; e si diffusero nel gorgo, come se menassero un ballo in tondo acquatico. La signora Nerina guidava la danza subacquea; Suora Ermellina si piegava al capriccio. Le chiome diffuse, parevano alghe natanti, seguaci cappelliere alle rose divine dei volti di ninfe. La signora Nerina provava una letizia sovrumana nel rompere coi seni floreali quelle onde somme nella storia religiosa della umanità. Essa aveva provato con un principe romano il pizzicore salubre mordente delle acque albule nell'originale laghetto d'Averno; essa aveva provato con un arciduca russo l'ebrietà esilarante di un bagno in una vasca ripiena di vino spumeggiante ed aromatico di Sciampagna. Ma tali sensazioni erano state un nulla di fronte all'estasi divina procuratale dal bagno nel Giordano. Le pareva da una valle di baci divini vogare a un oceano di baci divini. Là dentro sentiva annegarsi definitivamente la sua numerosa collezione di mariti ed amanti umani, là dentro affogarsi per sempre i suoi capricci per pianoforte. Essa diveniva cosa di Dio, persona di Dio, spirito di Dio. Neppure la satiriasi cattolica di Barbey d'Aurevilly sarebbe capace di abbarbicarla. Essa scomunicava le immagini degli eresiarchi, che la fantasia le portava sulle rive del Giordano per accivettarla ancora. Via Eutichio antecessore di Strauss e di Renan nello spacciare che in Cristo sia soltanto la natura umana! Via Eutichio della castagna! Ad Ario altr'aria! Via straccio di Strauss! Via, rinnegato di Renan! Via Stefanoni! Via asino, asinone di Podrecca! Indarno le balenavano ancora diaboliche tentazioni di inciprignire le gelosie tra le potenze protettrici del Santo Sepolcro; scagliare nuovamente la Germania contro la Francia, escludere maggiormente la già sempre esclusa Italia ... aggrovigliare le unghie dei carmelitani nelle barbe dei cappuccini ... La signora Nerina emerse dalla santissima onda, in cui era trascorsa allargatasi beatamente lieve come spola, emerse con la chioma stillante come se avesse espuntato dalla superficie dell'acqua un fascio di raggi solari, emerse sentendosi capace di vincere in armi, lettere e scienze l'imperatore Giuliano l'apostata. Con tale sentimento di capacità essa si consegnò spirito e corpo a Suor Ermellina, perché la traducesse al Santo Oblio. Il distacco dal novello marito, che pareva crisi di gran momento, invece fu cosa agevolmente naturale, come lo spicchio di due castagne da un riccio maturo calpesto da un bove. Adriano Meraldi, sebbene serbasse una perennità copiosa di orgasmo, lutulenza e flatulenza nella attività letteraria, era un cervelletto rammollito, un cuoricino rammollito. Aveva adottata la filosofia dell'intrepido maresciallo di Francia settecentista, che avendo colta la moglie nel boudoir tra le braccia del cavaliere servente, chiese scusa di non aver bussato alla porta prima di entrare e levò l'incommodo. Così, se egli avesse sorpreso la moglie carolare nel Giordano non con la candida suora Ermellina, ma con un bronzeo e barbuto monaco armeno, avrebbe reso il saluto militare e se ne sarebbe andato in altra parte. La Massoneria mercantile gli diede occasione di allontanarsi. Speculando sulla sua prodigiosa forza di reclame , lo associarono al Trust per l'esportazione dell'acqua del Giordano, e lo incaricarono di una perlustrazione boschiva in Anatolia e poi in Persia a fine di realizzare una vistosa economia nella confezione delle botti. * * * Ritornando in Occidente sulla fregata o meglio vaporiera mercantile Stella d'Oriente con la dolce e serafica guida di Suora Ermellina, la signora Nerina si paragona trionfalmente a quella principessa del Boccaccio, che navigando sposa venne rapita dai corsari, e dopo averne fatte più che Carlo in Francia e subite più che Taide nella Suburra reddì a casa per vergine. Come di primavera i poggi brulli e secchi dall'inverno trasudano, esprimono una nuova lanuggine di verde verginale, così essa sentiva rinverdire, ringemmare, rifiorire l'anima sua di una virginità rifatta. L'ago dell'anima sua segnava definitivamente una declinazione magnetica verso il Santo Oblio, mentre il Suo ultimo marito ed amante Adriano Meraldi zoppicava arditamente verso le agognate foreste vergini dell'Anatolia, della Persia e forsanche dell'Indostan. Per tal modo allo spirito della signora Nerina si presentava in ombra una commedia o tragedia spirituale intitolata I due zoppi , degna di essere scritta da Spirito Losati: due zoppi calanti per diverse bande dal sommo dantesco emisfero di Gerusalemme. A Genova la Signora Nerina venne ricevuta in un abbraccio da Suora Crocifissa. Alla peccatrice pentita e redenta sembrò di sentire in quell'abbraccio la gloria della Santa Croce Cristiana. Condotta nel Monastero della Visitazione, vide aspettarla in un angolo della foresteria la figura ingrandita di suo padre, che aveva messo pancia. Il Comm. Atanasio Vispi, che aveva risoluto di scontare nell'ultima parte della sua vita i soverchi capricci concessi nella prima parte alla figlia, per riuscire nel magnanimo intento aveva assimilato l'energia democratica del macellaio Baciccia Calzaretta, la cavalleria romantica e l'inflessibilità puritana del suo genero Federico De Ritz, ed egli droghiere emerito di Augusta Taurinorum (direbbe l'abate prof. Vigo Razzoni) si sentiva investito della patria potestà come un antico cittadino romano. Invano Nerina si prosternò davanti quella arcigna figura. Egli non si curvò a sollevarla. Solo la ammonì: * Sii costante a purgare nella penitenza e nella santità il tuo, il nostro disonore. E scenderà ancora sulla tua fronte il bacio di tuo padre con il perdono celeste di tua madre. E forse, forse ... Così dicendo, egli guardava dall'alta finestra nel basso della via, dove pareva sostasse in attesa il fantasma di un cavaliere mortalmente offeso e tradito. Quel fantasma si sollevava, come in una nube ossianesca; era il conte Federico De Ritz proclamato deputato al Parlamento dal suo cappellano maggiore professore Vigo Razzoni; era una camicia rossa di Garibaldino; sotto l'ascella sinistra la gruccia di Mentana; nella mano destra la spada per colpire la moglie infedele, e liberare Roma serva del maggior prete, che deve tornare alla rete. Papà Vispi fece comprendere poco opportunamente all'anima spontaneamente avvinta della figlia, che, se essa fallisse al ritiro del Santo Oblio, c'erano le succursali regie Carceri per una rea di adulterio e bigamia, malgrado l'oscillante giurisprudenza del caso. Accompagnata da Suor Crocifissa e da Suora Ermellina la signora Contessa Nerina fece il suo auspicato ingresso nell'Ospizio del Santo Oblio. Era stata lungamente annunziata a quel popolo preceduto di spirituali recluse. La più sardonica di esse, una sbiobba, quasi per vendicarsi d'essere stata soprannominata dessa supa mitonà , l'aveva preconizzata come una contessa d'coule ch'ai na sta sent su na rama . E contessa cento su na rama fu il nomignolo preparato al Sant'Oblio per la Contessa De Ritz. La capricciosa avventuriera, che aveva fatta una indigestione di amori mondani, ora provò l'estasi del digiuno carnale. In quell'estasi come le parvero abbietti i romanzi sensuali scritti e perpetrati nella bassa vita! cronache, lenocinio di concubiti! Ma come mantenersi alta nell'estasi? Fanciulla inginocchiata davanti al padre e davanti al busto di gesso della mamma non aveva giurato di divenire una moglie onesta? E come aveva mantenuto il giuramento? Opportunamente al Santo Oblio avevano introdotto l'adorazione perpetua del Santissimo Sacramento. Non mai dovevano mancare due adoratrici genuflesse davanti all'altare di Gesù Sacramentato, sotto il lumicino della lampada mantenuto perpetuo come il fuoco delle Vestali. Si era assegnato il turno alle ricoverate; e la signora Nerina, oltre il proprio turno, richiedeva e volontieri soddisfaceva il turno delle compagne indisposte. Quell'abbandono prosternato ad un punto altissimo, immenso, infinito le riempiva l'anima. Un'altra soddisfazione liberatrice le era dato dal godimento del paesaggio. Quella vita verginale le aveva acuito, raffinato il senso delle bellezze naturali, come se la signora Nerina in quel ritiro avesse acquistato la squisitezza artistica dei paesisti Corot e Fontanesi. Essa sentiva, gioiva estremamente la bellezza della primavera nelle delicatezze ceramiche e profumate, con cui fiorivano il biancospino, il pesco, e il ciliegio; godeva e sentiva estremamente il mantello lionato delle messi estive; godeva e sentiva estremamente di primo autunno l'azzurreggiare, il rosseggiare o l'ambrare dei grappoli di uva, zinne vegetali per l'ilarità umana; e nell'ultimo autunno, quando le brine tessevano filigrane danzanti sulle ragnatele delle siepi, e il sole mattinale le risvegliava in brilli di diamante, essa inneggiava a Dio artista. D'inverno la neve le dà il riposo del candore, che confonde ogni cosa nella purezza abbacinante, il riposo del candore, quanto diverso dal riposo, che dà il verde, in cui pullula l'annunzio di nuova vita! Quando la serenità invernale consentiva agli occhi suoi il nitido panorama, essa indugiavasi a godere il diadema delle Alpi, marosi arrestati dal Dito di Dio: sulla pianura del Po e dei confluenti suoi, dai piedi delle Alpi ai candidi poggi monferrini, spaziava, dilagava la nebbia. Allora alla romita contemplatrice pareva di contemplare lo spettacolo da una specola sopra le nubi, da un altro pianeta, dal Paradiso. Il sole saettava la nebbia padana, la illustrava e diradava a fiocchi di bambagia, che principiava a lasciarsi traforare dai campanili; poi negli screpoli, nelle radure comparirono chiese, interi villaggi, isole; poi tutta la pianura del Po scintillante nei solchi e nelle punte, come un'argenteria libera dall'imballaggio. E la Contessa, resasi suora del Santo Oblio, batteva le mani e benediceva all'omnipotenza del Creatore. Prosa non ispregievole dopo tanta poesia. A compire la felicità della reclusa, essa accorgevasi, che la rinunzia al lusso e alla lussuria le aveva anche impreziosito il gusto dei cibi semplici e delle bevande schiette. Ma non ancora è spenta la razza dei diavoli di Dante e della Basvilliana, che si contendono le anime. I diavoli di Nerina sono i capricci. Soddisfattone uno, spregiarlo, e intraprendere la serie degli altri. Che fate, angeli tutelari di Nerina? Dormite? Dormi, anima della madre sua? Dormi un sonno marmoreo, come nel busto del Cimitero di Torino, o sei ingessata, come il modello nel salone di San Gerolamo? Svegliatevi! Provvedete! Non mirate voi, quale sconvolgimento si prepara, quale pervertimento si opera nella psiche complessa, multipla di Nerina? Essa era ormai stanca di regnare su quel piccolo mondo di segregate. Supa mitonà , Bimblana, Gibigianna, Gilda ecc., le preparate a schernirla come Contessa Cento su 'na rama , erano state facilmente avvinte al carro della sua solitudine religiosa, e la riconoscevono regina di rarissime virtù. Ma che diventa mai la solitudine, se l'anima interiore non è riempita dalla grazia di Dio? Dopo una piova primaverile, Nerina contempla sitibonda la pianura del Po, che si rimbarba di verde. E sente poco per volta vuotarsi l'interno dell'anima sua, e incrostarsi la superficie di nuovi desiderii e prudori voluttuosi. Che è mai un eremo alla sua nuova vista? È un buco, un vuoto schiacciato, seppellito, dimenticato dalla Natura, maledetto, escluso dalla Vita; si chiami il convento delle Meteore o l'Ospizio del Santo Oblio. Peggio le pare un'ingiuria, una ritorsione della Natura, che nessuna forca può espellere. La reclusa del Santo Oblio sente il bisogno irrefrenabile di riallacciarsi alla vita mondana. E rapidamente accumula in sé tanta energia di elettricità psicologica, da superare l'orrenda riverenza delle pitonesse nella mitologia antica, o la forza medianica sorgente in Eusapia Paladino. È la precorritrice di una stazione radiografica ultrapotente per una telegrafia senza fili, per una trasmissione telodinamica del pensiero e della volontà femminile. La sua possa di magnetismo animale, per le correnti maravigliose, che la scienza ha già lealmente riconosciuto, sebbene non sia ancora riuscita a spiegarle, arrivava, toccava persino il suo secondo marito nel penultimo Oriente. Adriano Meraldi, lasciando ai colleghi affaristi del Trust per l'esportazione delle acque del Giordano la ricerca del legname più resistente e più economico per le botti, si era dato alla caccia della pantera e della iena con una passione scientifica da imitare il naturalista Michele Lessona, e con una felicità artistica da aspirare a Nembrodt del fucile e della penna. Dalla Persia era calato nell'India sacra, dove aveva incontrato la truppa signorile dei battifolli torinesi in cui era incorporato il baroncino Svembaldo Svolazzini, angelico rampollo del fiero neofeudatario di S. Gerolamo. Le accoglienze oneste e liete, che si fecero il letterato e il baroncino dello stesso paese d'origine, ricordano quelle di Virgilio e Sordello nel purgatorio di Dante. A tanta distanza da S. Gerolamo sparvero le differenze sociali tra il figlio dell'economo cadastraro e il figlio del nobile Mecenate. Che importa, se il professorino aveva nelle ripetizioni delle vacanze annoiato con i latinetti il baroncino? La carità del natio loco, il dolce suon della comune terra livellava in quella lontananza plebeo e patrizio, Chirone ed Achille, lasciando soltanto emergere i vincoli dei soavi ricordi ed affetti. * Illustre professore! * disse il baronetto saltando al collo di Adriano Meraldi. * Dolce tirone! * gli rispose Meraldi, stringendoselo al petto. Il professorino Meraldi a S. Gerolamo aveva trascurata la popolana Gilda per correre dietro alla capricciosa tota Nerina . Ed il baroncino Svembaldo aveva raccolta per sé la purissima popolana; e come un giovane Dio se ne era fatto l'altare della sua religione. I ricci, gli occhi, la luce della fronte e dell'anima di Gilda erano per lo Svembaldo tesori impagabili, non surrogabili. * Umanità! * egli esclamava a se stesso: * Rispetta le pure simpatie dell'amore, che sono tramiti divini. Egli si era afforzata la sua fede amorosa nelle fatiche del viaggio e della caccia alle Indie. L'incontro e la presenza di Adriano Meraldi gli rinfocolò nel cuore un braciere non mai spento. In quella vegetazione feconda di tutto l'amplesso dell'acqua e del sole, egli, come se possedesse il pennello e la poesia di Tullo Massarani, divinizzò l'immagine di Gilda a nuova Sacuntala. Clemente Corte, artiglieria piemontese fusa nel coraggio e nel genio garibaldino, studiava le conquiste inglesi nelle Indie ad ammonimento e correzione delle velleità coloniali d'Italia. Svembaldo Svolazzini anelava ritornare in Italia per la piena, santa, perenne conquista della sua Gilda. Meraldi e il baroncino, sulle rive del sacro Gange, come per un contagio spirituale, risentono insieme gli stimoli dei primi amori di S. Gerolamo; e tali stimoli vengono maggiormente acuiti da una inopinata comparsa. Sbarcava, col suo manto di madonna gerosolomitana, con il collo lungo, che pareva tornito da Fidia, e con il profilo greco non scismatico, Suora Ermellina Diotamo, che dal Santo Oblio veniva a dirigere un Collegio di Dame inglesi a Calcutta. Quando essa si era accomiatata dalla Contessa Nerina, questa con una prosternazione, che mascherava la lampeggiante voglia di un tradimento, la aveva pregata: * Madre santa, se Ella vede quel ... signore, gli dica, gli dica ... * E di più non aveva detto. Suora Ermellina riportò ad Adriano Meraldi il profumo tentatore della diavolessa lontana, i cui tentacoli per vie incognite ritornavano direttamente imperiosi a lui. Provò a disperdere quel profumo nella danza serpentina di una bajadera. Inutilmente desiderò l'incolumità di un fachiro. Egli soggiacque alla terribile ripresa di malore ignobile; per cui si rinnovò la minaccia dell'amputazione chirurgica della gamba sinistra. Ed egli pure dovette adottare l'uso d'una stampella. Invece quale balzo di elasticità angelica darà l'orgasmo di Svembaldo Svolazzini, allorché apprenderà da Suora Ermellina, che anche Gilda è assicurata al Santo Oblio? Appena potranno, Svembaldi e Svolazzini partiranno in guerra contro il Santo Oblio. Ma d'altra parte, che dovrebbe importare irosamente del Santo Oblio a Federico De Ritz? Perché se ne cruccia e se ne tormenta? Che desidera di più? Egli con una votazione magnifica, quasi plebiscitaria, è stato eletto deputato al parlamento Nazionale dal suo ligio feudale collegio di Ripafratta. Si sarebbe detto un compenso popolare alla sua sventura matrimoniale, solatium uxorium , friggeva a se stesso, per paura che l'aria lo sentisse, l'abate prof. Eleuterio Vigo Razzoni, primo cappellano della sua corte, e suo grande, eminentissimo elettore. L'on. Conte nel palazzo dei Cinquecento a Firenze, per votare sì, alzava la gloriosa stampella, come faceva l'eroico Benedetto Cairoli. E l'alzata era più animosa, quando si trattava di sollecitare la liberazione della madre Roma; ciò che induceva a bisbigliare qualche gufo clericaleggiante: * Veh! l'idea nazionale di Roma o Morte si regge sulle grucce. I buzzurri andranno a Roma di gamba zoppa in die judicii. Crepi l'astrologo clericaleggiante! rispose la Fortuna d'Italia; e l'Italia al 20 Settembre del 1870 compiva il suo fatale ingresso a Roma per la breccia di Porta Pia. Federico De Ritz non imitò Enotrio Romano che fece squacquerare le oche del Campidoglio contra l'Italia, come se questa vi salisse a scappellotti e calci. Non mostrò il contorcimento di budella mostrato da Giuseppe Mazzini, per la nobile invidia, di non averla condotta lui l'Italia a Roma. Federico De Ritz con il suo buon senso e con il suo buon cuore sentì che l'Italia compiva a Roma il miglior ingresso patriottico e cristiano con la maschera guerriera e gianduiesca di re Vittorio, con la probità catoniana del flebotomo Giovanni Lanza e con la scienza moderna di Quintino Sella, anzi che con i sonagli della vieta retorica e con i barili di fiele dei profeti in malora. Federico De Ritz ne provò una così sana ed alta soddisfazione, da poter rinunziare alla stampella destra, surrogandovi un bastoncino. Ma come la liberazione di Roma aveva tolto al partito avanzato italiano il programma, per cui combatteva, e inflittagli la necessità di cercare un altro programma di riforme progressive, così a Federico De Ritz quell'estrema soddisfazione patriottica e politica riapriva l'animo ad altre cure personali. Le corna rodono! * Rodono le corna! lo avvertiva un proverbio romanesco sonettato dal Belli. E gli rivogava in seno tutta la complessa filosofia delle corna. Non si addiceva a lui la filosofia allegra, con cui Massimo D'Azeglio terrificava il nipote prossimo ad ammogliarsi: le corna sono la pace di casa, perché la moglie fedele fa scontare la sua fedeltà con le bizze domestiche, mentre la moglie infedele copre la sua infedeltà con le moine al marito. Né meno gli entrava l'erudizione latina, che avrebbe potuto confermargli l'abate Vigo Razzoni: significare le corna presso gli antichi romani forza, potenza. Onde la laude oraziana del vino " addis cornua pauperi" , aggiungi corna, cioè forza al povero che in grazia sua più non trema davanti le Altezze reali e le baionette del Regio Esercito, è una laude, che più delle preghiere cristiane può far parte del programma minimo dei socialisti. Se non che quell'eterno buffo dell'avvocato Ilarione Gioiazza applicava il precetto oraziano " adde cornua pauperi" al ricco padrone di casa, che si godeva la bella mogliera del povero portinaio. Appunto per ricreare, rifiorire l'anima, Federico De Ritz si rivolse all'amico avvocato Ilarione Gioiazza, domandandogli: * Ed ora, che dobbiamo fare, dopo la presa di Roma? * Per me, * gli rispose Gioiazza, a cui le maggiori batoste maritali dell'amico De Ritz non avevano tolto del tutto il rimorso pella supposta primizia peccaminosa di Capri, * per me lasciami fare l'avvocato. Commetti pure un delitto o un crimine. Ed io ti difenderò volontieri davanti al Tribunale Correzionale o la Corte d'Assisie. Commetta un delitto il papa, ne commetta il Re fuori della costituzione; ed io li difenderò volontieri davanti il Senato costituito in alta corte di Giustizia; ma lasciatemi fare l'avvocato. Una simile domanda Federico De Ritz rivolse al prof. Spirito Losati; e ne ottenne questa risposta: * Tolto il potere temporale al Papa bisogna studiare, se occorra togliergli il potere spirituale, o piuttosto spiritualizzare il Papa stesso. Finora non ho risolto a quale appigliarmi delle due corna del dilemma. Federico De Ritz ragionava non potersi dire di lui, che portasse magnificamente le corna, poiché era riuscito ad internare la moglie in un luogo di santità immune. Anzi quasi quasi vantava la gloriola vendicativa, crudele del secondo marito della Pia dei Tolomei. Ma ad ogni modo della sua già empia, ed ora Pia, gli ritornava l'ossessione. Desiderava mortificarla con amplessi tirannici carcerarii, ripugnando al suo carattere nobile il sistema del terribile Orsenigo (novellato da Vittorio Imbriani), il quale Orsenigo uccise di lenta vergogna la moglie con amplessi retribuiti a similitudine meretricia. Il Conte Federico domanda al suocero papà Vispi il consiglio, se visitare Nerina; e papà Vispi gli risponde romanamente: no! * Nerina isolata nel ritiro può divenire una santocchia per un'altra vita. Ad ogni contatto di questa vita si disfarà, come la materia, che resiste sotto la campana pneumatica, e si scioglie al minimo soffio d'aria. Federico De Ritz domandò il permesso di visitare Nerina al Canonico Puerperio, cioè Giunipero. Questi, che aveva già dovuto soffiare: "la Contessa è un diavolo, anzi una donna da perderci l'anima" , gli rispose amabilmente, dimostrativamente di no: * Senta, veda ... ciò che è capitato a un mio collega direttore spirituale ed amministrativo di un manicomio, ossia casa di Salute. Vi era stato ritirato per necessità di decenza un giovine signore, già valoroso ufficiale di artiglieria. La giovine signora volle pietosamente visitarlo. Il marito violò la moglie. Che ne nascerà? Non vorrei accadesse il rovescio a Lei, perché la sua signora contessa è stata certamente una pazza morale o meglio imm ... Lasciamola alla guardia di Dio e della Madonna Salvatrice! Tutte queste ripulse non domarono le voglie di Federico De Ritz verso Nerina. Forse le basse voglie gli sarebbero state vinte da una ripetuta, quasi violenta chiamata telegrafica, che il partito gli fece al Parlamento. Se non che dal Parlamento, dalla smunta politica italiana lo distorse la notizia pubblicata dai giornali di Torino: che vi era giunto l'egregio scrittore piemontese Adriano Meraldi divenuto celebrità europea. La notizia perveniva pure al Sant'Oblio , dove la contessa Nerina, acquistando sul personale un ascendente, da disgradarne quello della superiora suor Crocifissa, aveva organizzato un perfetto servizio postale clandestino a suo comodo, e mediante la speciale abilità di un affascinato curatino si procurava il frutto proibito di giornali freschi, sotto la specie di nocciolo di gomitoli o modelli di vestiario. A quella notizia la Contessa Nerina si sentì secretamente invasata, trionfata dal suo antico carattere meccanico divenuto simbolico: il carattere capriccioso deleterio della signora di Challant, macina di maschi, secondo il novelliere vescovo Bandello, e secondo il poeta drammaturgo Giacosa, Venere sanguinaria, che prometteva e dava mille deliziose agonie, e spingeva l'un contra l'altro armati gli amanti, e baciandole, fatava le spade, che vicendevolmente li trafiggessero. * Ah! Meraldi a Torino! Come lo cercheranno, lo ustoleranno, se lo disputeranno, se lo divoreranno quelle smorfie di signore torinesi, cagne, gatte, carogne! Essa spedì immediatamente due biglietti. L'uno: All'eg.o scrittore Sig.re Adriano Meraldy celebrità europea * Torino "Sempre tua Nerina sposa amante." L'altro: * All'on. sig.re Conte avv. Federico De Ritz * Torino "Tua pentita, penitente Nerina, ma sempre tua, tua per sempre." * * * Adriano Meraldi aveva divisato di partire quella mattina per isciogliere il più santo voto del suo cuore, recandosi ad abbracciare i suoi vecchi genitori a san Gerolamo. Invece il biglietto di Nerina gli diede un altro dirizzone. Il Conte Federico De Ritz nell'accostarsi all'Ospizio del Sant'Oblio sopra una timonella del signor Barolla di Passabiago noto concessionario di vetture pubbliche, si sentiva scalpicciare di dietro un altro veicolo più veloce. Discesero quasi contemporaneamente Federico De Ritz ed Adriano Meraldi al cancello del Santo Oblio; ed ambidue licenziarono le rispettive vetture. Si posero di fronte, ambidue appoggiata l'ascella sinistra sopra una gruccia; e si guardarono. Balenò loro l'esempio di quei due eminenti letterati e patrioti subalpini, rivali anche nella poesia e nella politica, i quali una sera si trovarono sullo stesso pianerottolo, davanti lo stesso usciolino di una famosa e distratta principessa cosmopolita, da cui avevano avuto un appuntamento alla stessa ora precisa? Quei due cavalieri moderni, mostratisi i biglietti come uno scambio di poteri, e filosoficamente persuasi, che niuna bellezza di questo mondo vale la spesa di un rancore, tirarono a sorte chi dovesse entrare. Ma la farsa filosofica qui non era possibile. Invece di una principessa cosmopolita, che dispensava le sue grazie benefica a tutti, come il sole, si annidava al Santo Oblio Nerina dotata dell'incantagione, per cui le serpi affascinano mortalmente gli uccelli. Invece della farsa essa esige la tragedia. Il Conte Federico De Ritz, premendo sulla stampella, alza il bastoncino e grida fieramente ad Adriano Meraldi: * Difenditi! * Ecco i due zoppi di fronte ad avvelenarsi con gli occhi, prima di percuotersi coi bastoni; i due zoppi: Federico azzoppato da Marte per l'amore della patria e dell'umanità; Adriano azzoppato da Venere o più precisamente da lue venerea. Era un vespro del caduco autunno; e l'atmosfera pareva impregnata di vapori e versi ossianeschi cesarottiani. I belligeranti, fiancheggiando la muraglia del Santo Oblio, combattevano sotto una pianta di fischianti foglie. Il loro piede zoppo diveniva piè di vento per scavalcarsi e saltalenare a mo' dei galletti. Ma essi combattevano come i primi uomini, che con la clava si contesero le prime donne (non di teatro); combattevano come i primi uomini selvaggi. E si bastonavano, come burattini al teatrino Gianduja. Nerina accoccolata, contorta, mentre si sbattocchia la battaglia tra Meraldi e De Ritz, grida a se stessa: * Che colpa è la mia, se Dio mi ha creata serpe? * Poi geme: * Sant'Oblio! Sant'Oblio! Soffro, perché sento qualche cosa spegnersi in me. Saranno mortali le bastonature dei due zoppi? Se non di bastone, c'era da morirne di vergogna.

E poi è andato via, chi sa dove, ed ha abbandonato padre e madre ... Senza cuore! ... Svembaldo Svembaldo invece ... Svembaldo invece ... Giunta al nome di Svembaldo, Gilda quasi non era più buona ad almanaccare: imperocché il nome di una persona amata nella testa di chi ama diventa una musica, un gorgheggio, un'iride, che suona, titilla e scintilla da tutte le bande, e non viene quasi mai un sentimento, che si possa concretare in frasi, come si formulano in frasi i contratti e le obbligazioni civili. * Svembaldo, pensava confusamente e vagamente Gilda sempre più correndo ... Svembaldo è bello, come l'Arcangelo Michele ... Come sono graziose le pieghe che gli fa sotto le ascelle la sua cacciatora di velluto di seta castano! come sono diritte le piume sul suo cappello ... ! Voglio volergli bene, tanto bene a Svembaldo ... Come è buono! ... Ha portato un fascio d'erba a me, egli che è stato nelle città più lontane d'Italia, persino negli Stati del Papa ed ha visto le signore Romane che dicono siano così alte e così ben fatte ... Io sono una povera paesanotta ... * Pure sente di essere venuta al mondo per il suo Svembaldo ... Ma non è come le altre sue compagne: io non mi sono mai adattata a far all'amore con i pizzicotti, con i pugni e con gli urtoni, come fanno i vaccari del paese ... Me lo dice il cuore, me lo dicono il Signore e l'Angelo Custode che Svembaldo è nato per me ... Adriano, brutto, cattivo, era soltanto un passo, uno scalino, un termine verso Svembaldo ... Farei anche la serva a Svembaldo * No! No! la serva ... Alto là: * Perché Gilda è bionda come lui, è eguale a lui, e mi sento capace di guardarlo in una maniera, che egli non mi vorrà serva ma mi vorrà signora. Oh se nel Cielo, lassù, vicino al sole ci fosse una strada ferrata con le rotaie di argento. E volassero su quella strada insieme tutti due, Svembaldo e Gilda ... Camminassero tremolando sul filo di quelle rotaie: Gilda sopra l'una e Svembaldo sopra l'altra ... Tremolassero, camminassero come ciarlatani sulla corda ... Oh Svembaldo che bel pagliaccetto! ... fossero per cadere ... Si abbracciassero ... Cadessero insieme, abbracciati ... e morissero stretti stretti nello spazio che c'è dal sole a San Gerolamo ... Gilda giunta a casa farneticando quella sera non insalò punto la cena al suo babbo Simone. Pur troppo si videro e si rividero, si amarono e si riamarono Svembaldo e Gilda. La sciocca baronessa Svolazzini, che si compiaceva delle belle ragazze come delle belle puppatole e delle belle figurine nei giornali di moda, avendo aocchiata la Gilda, la volle con sé nel palazzo, a cucire e a stirare ... Era autunno logoro ... Più non si parlava di Garibaldi disfatto a Mentana dalle facili e brutali maraviglie dei Chassepots: più non si cacciava alle quaglie ... Svembaldo e suo padre Rollone andavano alla beccaccia ... Svembaldo da più di un mese dormiva poco o punto ... Le strane notti che faceva Svembaldo! ... Vedeva dei mondi a colori forti e iperbolici, troppo rossi, troppo neri, o a bagliori umidi profondi, come la superficie dell'acqua in un pozzo ... Architettava la gloriosa impresa di rendere baronessa la Gilda, la figliuola di un falegname ... caricarla di perle e di diamanti, ondeggiarla, avvilupparla con sferoidi di mussola, e condurla fra gli inchini, i gelati e i motti francesi a un ballo di Corte ... Poi smaniava pensando che la Gilda sarebbe stata tralunata, smemorata, intronata, fra quelle acconciature, quegli strisciapiedi e quelle musiche di convenzione. E non la avrebbero guardata, l'avrebbero lasciata in un canto: o sbeffata alle spalle. Allora egli si adirava contro la Società presente, contro il mondo, che a lui Beniamino non aveva arrecata una graffiatura, che gli aveva ministrato a bizzeffe confetti, caffè e latte, thè, panni morbidi e solini alla moda ... Avrebbe voluto vendicarsi del mondo ... farsi bandito o insorto elegante da melodramma con un pugnale alla cintola, un trombone in ispalla, tenendo a fianco la Gilda, avvinghiandola per la vita, la Gilda che portasse una bandiera rossa e fosse bella e radiante come la Santa Vergine Repubblica. Il roteare di questi mondi trainavano la fantasia di Svembaldo per tutta la lunghezza della notte. Ed al mattino egli formava dei propositi fieri e rubelli ... Ma appena egli calava dal letto e si dava una rinfrescatina d'acqua alla faccia essi svanivano: egli si sentiva, sebbene di contraggenio, forzatamente nel mondo reale: ed egli non sapeva più rintracciare i suoi odii e i suoi bollori davanti le sardelle e frittelle dell'asciolvere ... Pure egli considerò geometricamente la sua condizione morale ... e la risolvette trovando che egli poteva sposare la Gilda ... Anzi secondo la sua persuasione fanciullesca e fisiologica era una legge d'amore che glie lo comandava ... Non era il primo barone che togliesse a compagna una contadina ... Gli pareva una impresa nobile ... Né l'immagine del disagio che avrebbero procurato alla Gilda i balli di Corte più l'atterriva. Egli pensava che l'amore e il dovere fanno di due sposi amanti un nido proprio piccino, in cui possono passarsi d'ogni ballo e d'ogni convenzione terrestre. Svembaldo e suo padre Rollone, come dicemmo sopra, cacciavano la beccaccia ... Era l'autunno moriente ... la cappa del cielo plumbea: l'aria piorna pareva si allentasse a spremere e a sudare pioggia, e non la spremeva non la sudava. I cespi di ontano parevano ali strane, strani ventagli ... i rami dei rovi e dei rosai di rose canine uncinavano malignamente gli abiti dei due cacciatori ... un qual che misterioso ne accoltellava, ne assaettava le viscere, e necessitava un'uscita, uno sfogo. Svembaldo trovò l'uscita dicendo a suo padre in mezzo a una boscaglia di nocciuoli selvatici ... : * Senti, avrei intenzione di sposare la Gilda, di farle una fortuna. Il babbo non andò guari fuori dal secolo ... e rispose: * Quest'oggi le beccacce non ricevono ... Intanto si sentì un grosso sfogliaricciare fra la ramaglia dei nocciuoli: e quindi sopra essi si levò un rullo di ali, un globo nero, areostatico, una beccaccia, una di quelle beccaccie che interroriscono i cacciatori novellini, i quali fuggono svelti per tema di essere eglino cacciati e presi dalla beccaccia. Invece Svembaldo librò pacificamente il suo schioppo, lo sparò e fece cimbottolare la beccaccia per terra con la caduta di un angolo lunghissimo e acutissimo. Il babbo Rollone che alla dichiarazione del figliuolo non si era spaventato, avendola intesa per una delle solite ed inevitabili smargiassate amorose dei collegiali, quando vide che subito dopo una sparata erotica Svembaldo sapeva aggiustare egregiamente una sparata di schioppo si impensierì e conchiuse: che dura ed aspra doveva essere la cote di suo figlio. Durante la caccia evitò di lasciar cascare il discorso sulla Gilda parlando focosamente di politica e di uccellame. Tornato a casa e ristrettosi con la moglie, ebbe dalla baronessa il seguente consiglio puro e semplice: * È presto fatto, per contentare Svembaldo, prendiamo la Gilda come nostra cameriera ... Il barone Rollone ripensando la botta soda di fucile che aggiustava il figliolo subito dopo quella di Amore non si acquietò al consiglio della Baronessa, e deliberò, che bisognava fare scomparire la Gilda. L'opinione pubblica di San Gerolamo non se ne sarebbe maravigliata. Già nel villaggio l'immagine bionda e stellante di Tota Nerina poi Contessa De Ritz era comparsa e quindi scomparsa come una folgore.

Era figliuolo a un diplomatico di Carlo Emanuele ultimo e di Vittorio Emanuele I, che aveva abbandonato l'educazione del figlio per la diplomazia. L'aveva commesso a un prete, Don Procopio. Il tirone, di indole frigida, cioè pochissimo sensuale, si innamorò molto spiritualmente e poco spiritosamente del cappellano. Don Ercolino mostrava e sentiva entusiasmo per le benedizioni ed i santuarii: portava il baldacchino, la pellegrina e le conchiglie in processione: avrebbe fatto dieci miglia a piedi per sentire una messa cantata, accompagnata all'organo da padre David. Si soffiava il naso con fazzoletti dello stesso colore del piviale, che deve variare ogni giorno il prete a messa secondo il calendario rituale. Aveva divisato di immortalarsi con una monografia sulla Confraternita di Santa Caterina. I cosidetti sensi non li conosceva più nemmeno, avendo tarpato loro le ali, appena mettevano il cannone. A quindici anni, quando alcuno gli domandava chi intendesse sposare, egli rispondeva: * Voglio sposare Don Procopio! A venticinque anni, il padre gli replicò la domanda. Ed egli rispose, che voleva sposare la Chiesa. Il padre pianse alla pochezza d'ingegno del figlio, egli che voleva tirarne un diplomatico, un uomo di stato. Gli osservò, come per un figlio unico non c'era luogo a vocazione ecclesiastica, * e che per un nobile né prete, né militare era un disonore non avere moglie. Don Ercolino si acconciò e sposò la contessina Clara Faggio Del Poggio, florida bionda, che dal giorno del matrimonio al contatto di quella cartapecora intristì, fino a morire di lì a sette mesi. Il marchese Ercole ne pianse la morte religiosamente, ufficialmente e coralmente, perché così gli imponevano le sue convinzioni di gentiluomo, di galantuomo e di fedele cristiano. Ma nel suo sé fu contento di essersi spacciato dall'obbligo della moglie, e dal disonore di rimanere nobile celibe senza essere colonnello né monsignore. Durò cinquant'anni di fiera vedovanza, durante i quali fece fabbricare due organi nuovi, pubblicò le sue opere storiche su diverse confraternite e comperò la mula bianca per l'ingresso del nuovo arcivescovo. Protestò contra lo Statuto e l'abolizione del foro ecclesiastico e dei Conventi. Nel 1858 per l'epidemia clericale elettiva fu mandato deputato al Parlamento Subalpino. Vi si recava, dopo avere udito e servito due o tre messe a San Filippo. Avrebbe creduto di commettere un peccato di gentiluomo cattolico, se avesse toccato la mano a Brofferio o a Borella. Non parlò mai. Quando il padre Angius o il conte Solaro della Margherita nominavano il Padre Eterno od il suo figliuolo nostro Signore Gesù Cristo, egli si levava il berrettino pretesco, e si faceva fieramente il segno della Santa Croce in Parlamento. Dopo il sessanta, egli pianse su Casa Savoia e si recò nel suo Castello di Frappaglia, paese quasi tutto suo. Diceva il breviario, come i preti. Abolite le corporazioni religiose anche nel Napoletano, egli ospitò a Frappaglia un monastero di suore carmelitane. Una nobile monacella, dolce come una caramella, la Mirto La Chaine di Mostiafè, la quale non aveva ancora varcato gli ultimi voti, gli presentò nel giorno onomastico un mazzo di fiori con la grazia di un'estasi implorante da reclusa. Il vecchio marchese Passerotto di Frappaglia sentì uno strabiliante effetto di amore a settant'anni. Nell'orgasmo senile la baciò, ed onestamente se la sposò, dopo avere pagata una lauta dispensa alla Dateria apostolica di Roma ed ottenuta per sopramercato una particolare benedizione dal Santo Padre. La marchesina allontanava ogni adorazione altrui con un raggio d'occhio dolcemente superbo. Morì nella maternità martire. Inconscio Barbableu, il marchese Ercole Passerotto di Frappaglia pianse di nuovo ufficialmente e coralmente, e fece venire, oltre l'arcivescovo, due vescovi e dieci canonici per la sepoltura. Finito il rito funebre, convocò l'arcivescovo, i vescovi e i canonici a concilio nel coro della cappella, e tenne loro un'arringa, dicendo che per la salute della sua anima e del suo corpo aveva bisogno di una nuova sposa, purché aristocratica e cattolica; e glie la cercassero. Non fiutarono a lungo i monsignori per trovare la nubenda al vegliardo de cujus . Uno di essi propose la propria nipote baroncina Stella Uvamico, il cui padre era vicino a spiantarsi per la sua imbecillità. Nei primi giorni del suo terzo matrimonio, il marchese Passerotto lasciò in libertà la sposa, che aveva quartiere separato. Al sesto giorno la più vecchia delle dame di compagnia avvertiva la marchesa, che lo sposo sarebbe venuto a farle visita intima di sera, dopo il rosario. Venne ilare, rimpennacchiato, ossia vestito comicamente e lussuosamente alla Goldoni con trine bianche e parrucca nera, spadino e fioretti ... Contento della relativa conquista, egli si arrese a trasportare i lari in città. Quivi dava delle feste da ballo, come glie lo permettevano le sue trecento e cinquanta mila lire di rendita. Mentre gli altri ballavano o si divertivano altrimenti, egli diceva il breviario, e finito il ballo andava a messa. La marchesina Stella paragonò il poderoso scalpitio di un capitano di Nizza Cavalleria alla tosse e allo scricchiolare della carcassa del marchese. Dopo mille rimordimenti di coscienza, diede il suo cuore, la sua fotografia, le sue labbra all'ufficiale cavaliere, per crearsi una nuova vita di felicità perpetua, fedele, amorosa, permessa dalle leggi degli angeli. Il capitano cambiò di guarnigione. Inutilmente essa spedì il marito clericale nella capitale usurpata ad invocare dal ministero massone il ritorno di Nizza Cavalleria a presidio della consorte. Essa voleva fuggire, suicidarsi, farsi monaca ... Voleva recarsi a implorare un santo consiglio da un santo vecchio sacerdote ... Invece capitò a farle visita un giovane e bel canonico. Essa si accorse solo allora, come un prete poteva essere salacemente bello. Subì una dichiarazione amorosa sacerdotale. Stella amava misticamente il canonico, che venne graffiato dalla cuoca e piantò la marchesa, dopo averla accompagnata ostensivamente a braccetto nel visitare le cappelle artistiche del Sacro Monte di Varallo. Delusa dall'abbandono canonicale, la marchesa ritiratasi al Castello di Frappaglia, quivi amò rubestamente un contadino, che aveva adocchiato a un ballo pubblico, e giudicato più bello ed aitante di tutti gli ufficiali e di tutti i canonici ... Se ne disgusta una sera per il puzzo ... Stella non voleva cadere in una stalla. Ritorna in città più formidabile che mai. Allaccia, straccia, stritola, scarpiccia cento vincoli di amore. È un uragano in un bosco d'amore. Il marchese sopporta da gentiluomo del settecento; raccomanda solo di salvare le moderne apparenze. Stella riceveva docile e imperiosa i frequenti assalti, più che omaggi, dei tenentini impertinenti ed impetuosi; e dignitosa gli inchini dei grossi colonnelli, uno dei quali, grosso come un tamburo, nel forte della dichiarazione scappò in un petardo. Sgloriata nuovamente del militarismo, essa volle lasciare un'altra volta l'esercito per la chiesa; finse una malattia e una confessione per sedurre un celebre predicatore. Poscia si invaghì di un giovane pittore, il quale visibilmente segnato dalla Dea Gloria, aveva promesso di sposare al suo paese l'umile figlia di un fornaio, ricciuta come una pecora del sole, perché era stata la sua prima favilla artistica. Stella si fissò di rapire il nuovo Raffaello alla fornarina rusticana. L'artista cede alle lusinghe della superba matrona. Ma dopo la prima eclampsi d'amore, egli, già snebbiato di voluttà, sentì la plebea tentazione di imprecare: porca marchesa! Come il re Teodorico in una ammoniaca spirituale dell'ebrietà banchettante vide nella testa del pesce i teschi delle sue vittime Simmaco e Cassiodoro, così il pittore in una svenia della Donna formidabile vide rifiorire l'immagine della sua unica Fornarina, innocente fanciulla, che lo scacciava dalla filatessa degli amanti di Stella. Per riabilitarsi egli ha bisogno di un gran colpo: trae di tasca un portafogli; ne estrae un biglietto della Banca Nazionale di lire cento, rosso come la vergogna, e lo dà alla marchesa, dicendo: non ho mai pagato tanto niuna ... Se avesse pronunciata la parola, l'avrebbe detta in greco: etaira ... La marchesa urla, ma ritiene il biglietto, lo caccia in un medaglione; poi lo fa inquadrare e spianta la sua corte. Diviene una benefattrice. L'artista ha sposato la fornarina. Il marchese Ercole è morto. Morrà anche la marchesa lasciando il fatto suo allo Spedale. Sarà santificata." " Doctor Malalingua" Alla chiusa ottimista del bozzetto, il professore sollevò lo sguardo carico dall'appendice dell' Eco di Trentacelle, e colse in uno sguardo fragrante l'attacco più che formidabile di Piemonte Reale Cavalleria alla contessa De Ritz, e questa in posa smaniosa di fortezza prendibile, e quasi in accensione di Troia omerica; onde sospirò internamente con una sicurezza di virgiliana immagine: Nerina ruit in pejus.

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Un passo suonò dall'interno, una chiave girò nella toppa, una lama di luce fendette di sghembo la Galleria, si allargò; comparve una figura nera, il prete che aveva abbandonato Benedetto sulla scala. Egli uscì con un atto rapido, richiuse la porta, disse a Benedetto come se niente fosse stato: "Lei sta per trovarsi alla presenza di Sua Santità." Lo fece entrare e chiuse la porta daccapo, rimanendo fuori. Benedetto, entrando, non vide che un tavolino, una lucernetta col paralume verde, una figura bianca seduta in faccia a lui, dietro il tavolino. Cadde ginocchioni. La Figura Bianca stese un braccio e disse: "Alzati. Come sei venuto?" Il viso incorniciato di capelli grigi, singolarmente dolce, aveva una espressione di stupore. La voce, dall'accento meridionale, era commossa. Benedetto si alzò e rispose: "Dal Portone di bronzo fino a un luogo che non so indicare sono venuto col sacerdote che stava presso Vostra Santità; poi sono venuto solo." "Conoscevi il Vaticano? Ti hanno detto che mi avresti trovato qui?" Quando Benedetto gli ebbe risposto che aveva visitato anni prima i musei vaticani, le logge e la Galleria lapidaria una sola volta, che alla logge non era salito dal Cortile di San Damaso, che non sapeva affatto dove avrebbe trovato il Sommo Pontefice, questi tacque un momento, pensoso; poi disse benignamente, affettuosamente, indicandogli una sedia in faccia a lui: "Siedi, figlio mio." Se Benedetto non fosse stato assorto nel volto ascetico e benigno del Papa, avrebbe, mentre il suo angusto interlocutore stava raccogliendo alcune carte sparse sul tavolino, girato lo sguardo non senza meraviglia per quella strana sala di ricevimento, un polveroso caos di vecchi quadri, di vecchi libri, di vecchi mobili, un'anticamera, si sarebbe detto, di qualche biblioteca, di qualche museo dove si fossero intraprese opere di riordino. Ma egli era assorto nel volto del Papa, nel magro, cereo volto che aveva una espressione ineffabile di purezza e di bontà. Si avvicinò, piegò il ginocchio, baciò la mano che il Santo Padre gli stese dicendo con gravità soave: "Non mihi, sed Petro." Quindi sedette. Il Papa gli porse un foglio, gli avvicinò la lucernetta. "Guarda" diss'egli. "Conosci la scrittura?" Benedetto guardò, trasalì, non poté frenare un'esclamazione di mesta riverenza. "Sì" rispose "è la scrittura di un Santo prete che ho molto amato, che è morto e si chiamava don Giuseppe Flores." Sua Santità riprese: "Adesso leggi. Ad alta voce." Benedetto lesse. "Monsignore Affido al mio Vescovo il plico suggellato, chiuso insieme a questo foglietto in una busta recante l'indirizzo a Lei. Lo lasciò a me per essere aperto dopo la sua morte, come sopra vi è scritto, il signor Piero Maironi, ben conosciuto da Lei, prima di scomparire dal mondo. S'egli ancora viva o sia passato di Vita né so né ho modo di sapere. Il plico deve contenere il racconto di una visione di carattere soprannaturale che il Maironi ebbe nel ritornare a Dio dal fuoco di una passione colpevole. Sperai allora che Iddio lo avesse veramente eletto per ministro di qualche singolare opera Sua. Sperai che la santità dell'opera verrebbe confermata dopo la morte del Maironi dalla lettura di questo documento, che se ne rivelerebbe un carattere profetico. Lo sperai benché mi fossi studiato, per prudenza di nascondere al Maironi stesso la mie speranze segrete. Due anni sono trascorsi dal giorno in cui egli scomparve e nulla si è mai saputo di lui. Quando Monsignore, ella starà leggendo quello che adesso io scrivo, sarò scomparso anch'io. La prego di volersi sostituire a me in questa custodia religiosa. Ella ne disporrà secondo la coscienza Sua come crederà meglio. E preghi per l'anima del Suo povero don Giuseppe Flores." Benedetto depose lo scritto e guardò il Pontefice in viso, aspettando. "Sei tu Pietro Maironi?" disse questi. "Sì, Santità." Il Pontefice sorrise con bontà. "Intanto" diss'egli "mi rallegro che vivi. Quel Vescovo ti suppose morto, aperse il plico e credette di doverlo rimettere al Vicario di Cristo. Questo avvenne circa sei mesi sono, vivendo il mio Santo Predecessore che ne parlò ad alcuni cardinali e anche a me. Poi si è saputo che vivevi, e dove e come. Ora ti devo movere alcune domande. Ti esorto a rispondermi la esatta Verità." Il Pontefice fermò gli occhi gravi negli occhi di Benedetto che piegò lievemente il capo. "Qui hai scritto"diss'egli "che stando in quella piccola Chiesa veneta ti sei visto in Vaticano a colloquio col Papa. Cosa ricordi di questa parte della tua visione?" "La mia visione" rispose Benedetto "nel tempo che passai a Santa Scolastica, circa tre anni, mi si venne spezzando nelle memoria, anche perché il mio Maestro spirituale di Santa Scolastica, come il povero don Giuseppe Flores, mi ha sempre consigliato di non tenerne conto. Alcune parti ne restano nette, altre si oscurarono. Che mi ero veduto in Vaticano a fronte del Sommo Pontefice, mi restò sempre fisso nella mente; ma non più di così. Invece, pochi momenti sono, nella galleria buia dalla quale sono entrato qua, mi risovvenni improvvisamente che nella Visione io ero guidato al Pontefice da uno spirito. Me ne risovvenni quando trovandomi solo, di notte, al buio, in un luogo ignoto o quasi ignoto perché c'ero stato una volta sola molti anni addietro, senz'avere un'idea della direzione che avrei dovuto tenere, fui per ritornare sui miei passi e una voce interna, molto chiara, molto forte, mi disse di andare avanti." "E quando hai bussato alla porta" chiese il Papa "sapevi di trovarmi qui? Sapevi di bussare alla porta della Biblioteca?" "No, Santità. Non intendevo neppure di bussare. Ero al buio, non vedevo niente, intendevo di saggiare colla mano la parete." Il Papa stette alquanto sopra pensiero e poi osservò che nel manoscritto ci stava pure: "prima mi guidava un uomo vestito di nero." Di questo, Benedetto non aveva memoria. "Sai" riprese il Papa "che il profetare non è, per sé solo, sufficiente prova di santità. Sai che si possono avere, che si sono avute visioni profetiche, non dico per opera di spiriti maligni, noi ne sappiamo troppo poco per poterlo dire, ma insomma per effetto di forze occulte, forze insite alla natura umana, le quali, a ogni modo, non hanno che fare colla santità. Puoi dirmi le disposizioni dell'anima tua quando hai avuto la Visione?" "Sentivo" rispose Benedetto "un amarissimo dolore di essermi allontanato da Dio, di averne respinto i richiami, una gratitudine infinita per la Sua paziente bontà, un infinito desiderio di Cristo. Mi ero appena viste nella mente, proprio viste, proprio distinte, bianche sopra un fondo nero, queste parole del Vangelo che prima, nel tempo buono, mi erano state tanto care: "Magister adest et vocat te." Don Giuseppe Flores celebrava e la Messa era presso alla fine quando, stando in preghiera, con gli occhi coperti dalle mani, ebbi la Visione; ma istantanea, fulminea!" Benedetto ansava nel ritorno violento delle memorie. "Ha potuto essere un'illusione" diss'egli "Opera di spiriti maligni, no." "Gli spiriti maligni" disse il Pontefice "possono trasfigurarsi in angeli di luce. Possono avere operato allora contro lo spirito buono ch'era in te. Ti sei inorgoglito poi, di questa visione?" Benedetto piegò il capo e pensò alquanto. "Forse una volta" diss'egli "per un momento, a Santa Scolastica, quando il mio Maestro, a nome dell' Abate, mi offerse una veste di converso, la veste che poi mi fu tolta a Jenne. Allora pensai per un momento che questa offerta inattesa confermasse l'ultima parte della Visione e n'ebbi un moto di compiacenza, mi stimai oggetto di una predilezione Divina. Ne domandai subito perdono a Dio e adesso ne domando perdono a Vostra Santità." Il Pontefice non parlò, ma la sua mano si alzò spiegata e ridiscese in un atto di indulgenza. Egli si diede poi a maneggiare le carte diverse che aveva sul tavolino, parve consultarne attentamente più d'una. Quindi le posò, le raccolse, le fece da banda, riprese a parlare. "Figlio mio" diss'egli "ti devo domandare altre cose. Hai nominato Jenne. Io neppure non sapevo che esistesse, questo Jenne. Me lo hanno descritto. Diciamo il vero, non si capisce perché tu ti sia andato a cacciare a Jenne." Benedetto sorrise lievemente ma non volle discolparsi, interrompere il Papa, il quale continuò: "È stata un'idea disgraziata, perché chi può dir bene cosa succede a Jenne? Sai di aver avuto lassù della gente che ti vedeva di mal occhio?" Benedetto pregò semplicemente Sua Santità che lo dispensasse dal rispondere. "Ti capisco" rispose il Papa "e debbo dire che la tua preghiera è cristiana. Tu non dirai niente ma io non posso tacere che sei stato accusato di molte cose. Lo sai?" Benedetto sapeva di un'accusa sola o almeno ne dubitava. Il Papa aveva l'aria più imbarazzata di lui. Egli era sereno. "Ti accusano" ripigliò il Papa "di esserti spacciato, a Jenne, per un taumaturgo e di essere stato causa, per questi tuoi vanti, che un disgraziato morisse in casa tua. Si arriva persino a dire ch'egli è morto per certi beveraggi che gli hai dati. Ti accusano di aver predicato al popolo piuttosto da protestante che da cattolico e anche ..." Il Santo Padre esitò. Al suo pudore verginale ripugnava persino accennare a certe cose. "Di relazioni non lecite" disse "con la maestra del paese. Cosa rispondi, figlio mio?" "Santo Padre" rispose Benedetto, tranquillo, "lo Spirito risponde per me nel Suo cuore." Il Pontefice lo guardò, attonito, ma non solamente attonito; anche un poco turbato, come se Benedetto gli avesse letto nell'anima. Il viso gli si dipinse di un lieve rossore. "Spiegati" diss'egli. "Iddio mi dona di leggere nel Suo cuore che Lei non crede ad alcuna di quelle accuse." A queste parole di Benedetto il Papa contrasse lievemente le sopracciglia. "Adesso" riprese Benedetto "Vostra Santità pensa che io mi attribuisca una chiaroveggenza miracolosa. No, è una cosa che vedo nel Suo viso, che sento nella Sua voce, da povero uomo comune quale sono." "Forse tu sai" esclamò il Papa"chi è stato in questi giorni da me!" Egli aveva fatto chiamare a Roma l'arciprete di Jenne, lo aveva interrogato su Benedetto. L'arciprete, trovato un Papa di suo genio, un Papa ben diverso dai due zelanti che lo avevano intimorito a Jenne, non aveva perduta l'occasione di mettersi facilmente in pace colla propria coscienza, aveva dato sfogo ai rimorsi lodando e rilodando. Benedetto non ne sapeva niente. "No" rispose "non lo so." Il Pontefice tacque, ma il suo viso, le mani, la intera persona, tradivano una viva inquietudine. Egli si abbandonò finalmente sulla spalliera della seggiola, chinò il capo sul petto, stese le braccia al tavolino e appoggiatevi le mani, una presso all'altra, pensò. Mentre pensava, immobile, fissi gli occhi nel vuoto, la fiamma della lucernina a petrolio salì fumigando, rossa, nel tubo. Egli non se n'avvide subito. Quando se n'avvide la regolò e poi ruppe il silenzio. "Credi tu" diss'egli "avere veramente una missione?" Benedetto rispose, con una espressione di fervore umile: "Sì, lo credo." "E perché lo credi?" "Santità, perché ciascuno viene al mondo con una missione scritta nella sua natura. Quand'anche non avessi avuto visioni né altri segni straordinari, la mia natura ch'è religiosa mi imporrebbe il dovere di un'azione religiosa. Come posso dirlo? Ecco, lo dirò ..." Qui la voce di Benedetto tremò di emozione " ...come non l'ho detto a nessuno. Io credo, io so che Dio è il nostro Padre di tutti, ma io sento nella mia natura la Sua paternità. Quasi non è un dovere il mio, è un sentimento di figlio." "E credi avere il cómpito di esercitarla qui, adesso, un'azione religiosa?" Benedetto giunse le mani come se implorasse già di venire ascoltato. "Sì" diss'egli "anche qui, anche adesso." Ciò detto, pose un ginocchio a terra tenendo sempre giunte le mani. "Alzati" disse il Santo Padre. "Di' liberamente quello che lo Spirito ti consiglia." Benedetto non si alzò. "Mi perdoni" diss'egli "io devo parlare al solo Pontefice e qui non mi ascolta il solo Pontefice!" Il Papa trasalì, lo interrogò con gli occhi, severo. Benedetto porse un poco il mento, inarcando le sopracciglia, verso una porta grande alle spalle del Papa. Questi prese un campanello di argento che stava sul tavolino, accennò imperiosamente a Benedetto di alzarsi e suonò. Ricomparve dalla porta della Galleria il prete di prima. Il Papa gli ordinò di far venire in Galleria don Teofilo, il cameriere fedele che aveva portato con sé dalla sua sede arcivescovile del Mezzogiorno. Venuto don Teofilo, egli andrebbe ad attendere Sua Santità nelle sale della Biblioteca. "Ripasserai di qua" diss'egli. Parecchi minuti trascorsero nell'attesa silenziosa che colui rientrasse. Il Pontefice, pensoso, non alzò mai gli occhi dal tavolino. Benedetto, in piedi, teneva chiusi i suoi. Li aperse quando rientrò il prete. Uscito che fu costui per la porta sospetta, il Papa accennò con la mano e Benedetto parlò, a voce bassa. Il Pontefice lo ascoltava stringendo i bracciuoli della sedia, pôrta in avanti la persona e chino il viso. "Santo Padre" disse Benedetto "la Chiesa è inferma. Quattro spiriti maligni sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo. Uno è lo spirito di menzogna. Anche lo spirito di menzogna si trasfigura in angelo di luce e molti pastori, molti maestri della Chiesa, molti fedeli buoni e pii ascoltano devotamente lo spirito di menzogna credendo ascoltare un angelo. Cristo ha detto: "io sono la Verità" e molti nella Chiesa, anche buoni, anche pii, scindono la Verità nel loro cuore, non hanno riverenza per la Verità che non chiamano religiosa, temono che la Verità distrugga la Verità, pongono Dio contro Dio, preferiscono le tenebre alla luce e così ammaestrano gli uomini. Si dicono fedeli e non comprendono quanto scarsa e codarda è la loro fede, quanto è loro straniero lo spirito dell'apostolo che tutto scruta. Adoratori della lettera, vogliono costringere gli adulti a un cibo d'infanti che gli adulti respingono, non comprendono che se Dio è infinito e immutabile, l'uomo però se ne fa un'idea sempre più grande di secolo in secolo e che di tutta la Verità Divina si può dire così. Essi sono causa di una funesta perversione della Fede, che corrompe tutta la Vita religiosa; perché il cristiano che con uno sforzo si è piegato ad accettare quello ch'essi accettano e a respingere quello che respingono, crede aver già fatto il più per servire Iddio, mentre ha fatto meno che niente e gli resta di vivere la fede nella parola di Cristo, nella dottrina di Cristo, gli resta di vivere il fiat voluntas tua , che è tutto. Santo Padre, oggi pochi cristiani sanno che la religione non è principalmente adesione dell'intelletto a formole di Verità ma che è principalmente azione e Vita secondo questa Verità, e che alla fede vera non rispondono solamente doveri religiosi negativi e obblighi verso l'autorità ecclesiastica. E quelli che lo sanno, quelli che non scindono la Verità nel loro cuore, quelli che hanno il culto supremo di Dio Verità, che ardono di una fede impavida in Cristo, nella Chiesa e nella Verità, ne conosco, Santo Padre!, quelli sono combattuti acremente, sono diffamati come eretici, sono costretti al silenzio, tutto per opera dello Spirito di menzogna, che lavora da secoli nella Chiesa una tradizione d'inganno per la quale coloro che oggi lo servono si credono di servire Iddio, come lo credettero i primi persecutori dei cristiani. Santità ..." Qui Benedetto pose un ginocchio a terra. Il Papa non si mosse. Pareva aver abbassato il capo ancora di più. Il zucchetto bianco era quasi tutto nel lume della lucernina. " ...io ho letto proprio oggi grandi parole di Lei ai Suoi diocesani antichi, sulla molteplice rivelazione di Dio Verità nella Fede e nella Scienza, e anche direttamente, misteriosamente, nell'anima umana. Santo Padre, molti, moltissimi cuori di sacerdoti e di laici appartengono allo Spirito Santo; la Spirito di menzogna non ha potuto entrarvi neppure sotto una veste angelica. Dica una parola, Santo Padre, faccia un atto che rialzi questi cuori devoti alla Santa Sede del Pontefice romano! Onori davanti a tutta la Chiesa qualcuno di questi uomini, di questi sacerdoti che sono combattuti dallo Spirito di menzogna, ne sollevi qualcuno all'episcopato, ne sollevi qualcuno al Sacro Collegio! Anche questo, Santo Padre! Consigli esegeti e teologi, se è necessario, a camminare prudenti poiché la scienza non progredisce che a patto di essere prudente; ma non lasci colpire dall' Indice né dal Sant' Uffizio per qualche soverchio ardimento uomini che sono l'onore della Chiesa, che hanno la mente piena di Verità e il cuore pieno di Cristo, che combattono per difesa della fede cattolica! E poiché Vostra Santità ha detto che Iddio rivela le sue Verità anche nel segreto delle anime, non lasci moltiplicare le divozioni esterne, che bastano, raccomandi ai Pastori la pratica e l'insegnamento della preghiera interiore!" Benedetto tacque un momento, spossato. Il Papa alzò il viso, guardò l'uomo inginocchiato che lo fissava con occhi dolorosi, luminosi sotto le sopracciglie contratte, vibrando nelle mani giunte dove si appuntava lo sforzo dello spirito. Il viso del Papa tradiva una commozione intensa. Egli voleva dire a Benedetto che si alzasse, che sedesse; e non parlò per timore di tradire la commozione anche nella voce. Insistette a cenni, tanto che Benedetto si alzò e presa la sua seggiola, appoggiatevi alla spalliera le mani ancora giunte, ricominciò a parlare. "Se il clero insegna poco al popolo la preghiera interiore che risana l'anima quanto certe superstizioni la corrompono, è per causa del secondo spirito maligno che infesta la Chiesa trasfigurato in angelo di luce. Questo è lo spirito di dominazione del clero. A quei sacerdoti che hanno lo spirito di dominazione non piace che le anime comunichino direttamente e normalmente con Dio per domandarne consiglio e direzione. A buon fine! Il Maligno inganna, così la loro coscienza; a buon fine! Ma le vogliono dirigere essi in qualità di mediatori e queste anime diventano fiacche, timide, servili. Non saranno molte, forse; i peggiori maleficî dello spirito di dominazione sono diversi. Egli ha soppressa l'antica santa libertà cattolica. Egli cerca fare all'obbedienza, anche quando non è dovuta per legge, la prima delle virtù. Egli vorrebbe imporre sottomissioni non obbligatorie, ritrattazioni contro coscienza, dovunque un gruppo d'uomini si associa per un'opera buona prenderne il comando, e, se declinano il comando, rifiutar loro l'aiuto. Egli tende a portare l'autorità religiosa anche fuori del campo religioso. Lo sa l' Italia, Santo Padre. Ma cosa è l' Italia? Non è per essa che io parlo, è per tutto il mondo cattolico. Santo Padre, Ella forse non lo avrà provato ancora, ma lo spirito di dominazione vorrà esercitarsi anche sopra di Lei. Non ceda, Santo Padre! Ella è il Governatore della Chiesa, non permetta che altri governi Lei, non sia il Suo potere un guanto per invisibili mani altrui. Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l'autorità che è compatibile con quella di Pietro! Santità, posso parlare ancora?" Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

La regina seduta, con un braccio rigido appoggiato allo sgabello, e l'altro braccio inerte abbandonato a due schiave che lo reggevano accarezzandolo, affannate e dolenti ... E la donna volgeva altrove il profilo inconsolabile dove s'addensa tutta la disperazione umana, la disperazione incolpevole di essere quali siamo, di non poter essere che quali siamo! Amore, in disparte, contemplava sogghignando l'effetto del dardo, l'amore minuscolo come un piccolo demone. Ma l'altro demone, il piccolo demone del tempo nostro, il Mago dei suoni che mi perseguiva fin là col martirio divino del suo stromento! Anche la Zingaresca di Sarasate, gaia e saltellante, non mi dava sollievo! Accarezzai con la mano le pieghe ordinate del peplo tre volte millenario. - Il dolore, il dolore anche qui, eternato nella pietra dura! Cercai la luna, in alto, per dimenticarmi in una cosa morta per sempre, in una cosa che non soffre più, che non soffrirà mai più. - Eleanor, Eleanor! Ah! Perchè non l'avevo vicina? Perchè non aveva consentito al convegno? Fissai il cielo a lungo, troppo a lungo. Quando abbassai gli occhi vidi il disco lunare moltiplicarsi in rosso ovunque posassi lo sguardo; chiusi gli occhi, li premetti a lungo con le dita per cancellare dalla palpebra interna l'immagine del disco sanguigno. Giungeva nel silenzio la Chanson triste di Sinding, il notturno prediletto di Eleanor. La sua anima era veramente vicina? Certo la sua anima l'udiva anch'essa, dalla sua veranda fiorita, ma non soffriva come me! La mia amica infelicissima conosceva il segreto d'esser felice! E il piccolo evocatore lontano moltiplicava gli effetti imprevisti e la musica m'era vicina come se le corde mi vibrassero nelle orecchie. Ma udivo anche un passo lieve lungo il pronao. L'importuno s'arrestò due, tre volte alle mie spalle, con un fruscìo che sembrava cadenzato col ritmo musicale. Io non volli sollevare il volto dalle mani. Non sollevai il volto nemmeno quando sentii che lo sconosciuto scendeva, mi si sedeva vicino. Guardai, a volto chino, dal basso in alto. E vidi i due piedi ignudi, minuscoli, perfetti nel coturno gemmato; poi il peplo ordinato come un ventaglio semichiuso, raccolto alle ginocchia, il peplo che fasciava con grazia attorta il busto perfetto, avvolgeva le spalle snelle, lasciava la nuca e il volto come in un soggolo, non lasciando libero che il profilo; il profilo di Eleanor. Non balzai, non diedi grido. Cercai di convincermi che non sognavo: palpai il granito, mi morsi le labbra, per sentire il freddo ed il dolore. Non sognavo. - Non sogni! Non sogni! Eleanor parlava! Non so dire come fosse la sua voce; forse le sillabe delle sue parole e le note che venivano di lungi erano la stessa cosa. Ma parlava, eretta dinnanzi a me che non trovavo la forza di balzare in piedi; e m'aveva teso le due mani intrecciando le mie dita alle sue dita soavi. La sua persona era assoluta, poichè la parola bellezza è troppo umana per la rivelazione divina che mi stava dinnanzi, per quell'anima fattasi carne in una forma imitata dalle statue immortali. - Non sogni! Non sogni! Ho giurato. Sono venuta. - No, non è vero! - gemevo con le dita nell'intreccio delle sue dita, - mi sveglierò tra poco e tutto sarà come se non fosse stato e non avrò più queste tue mani; non avrò che le mie unghie infisse nella mia palma sanguinante. Conosco l'inganno dei sogni. - Non sogni! Ah, perchè quest'orgoglio di fanciullo dinnanzi al mistero? Perchè ribellarsi? Per tutto ciò che è divino m'hai chiamata. Sono venuta. E venuta quale voglio essere. Tutto è possibile. Anche questo. - Eleanor! Eleanor! Che questa sia la realtà di un attimo e poi venga il buio senza fine. - Verrà la luce. È giunta l'ora. T'aspettavo da anni. È fatto il miracolo! - Eleanor, se questo non è sogno, - e balzai afferrandola alla vita sottile, - lascia ch'io ti porti tra gli uomini, che io gridi alto il tuo nome nel mondo dei vivi! E tentai di trascinare la tepida forma palpitante lungo il pronao, verso l'interno del tempio. - No! no! La fede sola ha fatto il miracolo. Non profanare il mistero! Mi resisteva ed io la cingevo alla vita, deciso di trascinare nella realtà il sogno divino, ben certo che con l'ultima nota tutto sarebbe dileguato nel nulla. E non volevo. Volevo ghermire alle potenze dell'occulto quella forma divina. - No! Bada! Profani il mistero! La fede sola ha fatto questo! Mi perdi per sempre! Lasciami! Lasciami! Fu la resistenza decisa, la lotta ostile per il bene supremo. - Lasciami! Lasciami! Sollevai la persona che riluttava, guizzava come se la portassi alla morte; poi s'allentò con un grido, s'abbandonò senza vita. E la portai tra gli intercolunnii, trionfando di giungere dal sogno alla realtà con quella preda ben certa, di sollevarla al cospetto di tutti gridando al miracolo. Ma fu allora come se cominciassi a sognare. Vidi per un attimo la folla adunata e il piccolo musico che suonava sul plinto. Poi più nulla. E nel buio un grido, molte grida; e nel cervello che si smarriva disegnarsi ancora in sanguigno il disco lunare poi una voce ben vera, la voce di Madame Delassaux, la mia nemica. - Il est ivre, il est fou! Par ici, sauvez-vous par ici, miss Quarrell! Poi più nulla. L'assenza del tempo e dello spazio. La felicità del non essere. - E dopo - dopo quanto? - vidi per prima cosa attraverso le ciglia socchiuse una prateria ondulata, costellata di fiori non terrestri, simili a quelli ritratti dagli occultisti nei paesaggi di Giove e di Saturno e un gelo, un gelo che contrastava con la flora meravigliosa. Ma aprii gli occhi ben vivi alla luce ben vera, vidi che la prateria smagliante era la coperta del mio letto alterata dalla prospettiva dell'occhio recline, e sentii che il gelo veniva dalla benda che mi copriva le tempia. Portai la mano alla fronte, ma fui impedito dal dottor Gaudenzi che mi sorrise, parlando affettuoso e calmo, come se riprendesse un dialogo interrotto mezz'ora prima. - Ieri? Ventitrè giorni fa! Ventitrè giorni sono passati dal concerto famoso. Ma non t'agitare ... ti dirò poi. - Voglio sapere, voglio sapere! - Tutte cose innocentissime e amene. Amena anche la tua meningite, ora che è scongiurata. Ma non ti agitare! Mi rinnovò il ghiaccio sulla fronte, m'impose il silenzio. M'addormentai nuovamente. Due giorni dopo cominciai ad alzarmi, felice di sentire che le gambe mi reggevano ancora. E volli il barbiere subito, per avere l'illusione di riprendere la mia vita consueta. E mentre ero sotto il rasoio, il dottore si decise a parlare, misurando a grandi passi la stanza. - Bada di dirmi la verità! Tanto saprò tutto oggi, da Miss Eleanor. - Miss Elaanor è partita da tre settimane per l'Inghilterra. Non ritornerà in Sicilia mai più. Per quanto inglese e teosofessa, certe lezioni si ricordano una volta per sempre. Ma lasciami parlare! - Allora cose gravi! - Ma no! Importa molto, a un carattere come il tuo, d'essere la favola allegra di qualche migliaio di sfaccendati, per qualche tempo? Dunque nessun guaio. L'unico guaio si è l'aver portato di peso, tra la folla, in pieno concerto, urlando come un forsennato, la povera gobbina svenuta. Avevo allontanato il rasoio, per prudenza, m'ero alzato in piedi, torcendomi le mani. Non potevo ridere, non potevo piangere. - Non è vero! Dimmi che non è vero! - È vero questo soltanto. E non ti descrivo la scena. Ti sarà descritta a sazietà dai volonterosi e dalle volenterose, in tutti i particolari. I quali tornano più a colpa di Miss Eleanor che a tuo disdoro. - Dimmi che non è vero! - Ed è lezione ben meritata per quella incompleta figlia d'Albione. Tutti gli anni ha sempre tessuto qualche idillio, coronato da catastrofi amene. Ha anche avuto qualche amante, forsennati che giuravano d'averla vista con un corpo fidiaco. Ora posso confessarlo. Nei primi tempi ha tentato lo stesso gioco anche con me. Ma io ho un cervello sano. E l'ho vista sempre con due gobbe e alta come uno sgabello. Con te, ridotto come eri, la cosa è stata diversa. Afferrai il rasoio, per gioco. - Non mi resta che il suicidio od il chiostro! Ridevamo perdutamente. Ma lasciai la Magna Grecia per sempre, tre giorni dopo.

LA GENTE PER BENE

678062
Marchesa Colombi 1 occorrenze
  • 1893
  • F. A. Brockhaus - A. Asher e C.- Veuve Boyveau - Ernesto Anfossi
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Però quest'uso, nato pochi anni sono, è già quasi abbandonato. Ed infatti, perchè voler fare da sè, e mettere da parte i genitori, che hanno sempre annunciato loro i matrimonii dei loro figlioli? Sembra che gli sposi si vogliano emancipare con quelle carte da visita personali. Si emancipano già col matrimonio; perchè togliere a genitori quell'ultimo atto di tutela, che non impone nessun vincolo, ed è un segno di rispetto? Io lascerei le carte da visita alle vedove ed alle zitellone orfane. Ma finchè una sposa ha i genitori, qualunque sia la sua età, sono loro che la maritano, è da loro che lei riceve la mano dello sposo che ama…, o che non ama; e tocca a loro annunciarlo alla società. - - - Nell'epoca di positivismo in cui viviamo, si usa fare prima il matrimonio civile, e dopo l'ecclesiastico; prima il contratto, poi la cerimonia; prima la prosa, poi la poesia. Per recarsi al municipio la sposa fa una toletta, elegante quanto vuole, ma sempre una toletta da visita, col cappellino assortito. La sposa, che quel giorno è il personaggio più importante, siede a destra nella prima carrozza, a sinistra sua madre, o quella parente che ne fa le veci. Sulla panchina dinanzi siedono, in faccia alla sposa, il suo babbo, in faccia alla madre, il testimonio della sposa. Nella seconda carrozza si mette lo sposo coi suoi genitori, o se non li ha, con quel parente che li ha suppliti nella domanda di matrimonio, e la signora che l'ha assistito nella compera de' doni, e nell'allestimento della casa; con loro deve entrare il testimonio dello sposo. Nelle altre carrozze si collocano i parenti e gli invitati. Tutto il corteggio parte dalla casa della sposa. Per lo più, tornando dal municipio, si offre agli invitati una colazione, che deve dare la famiglia della sposa in casa sua. A tavola gli sposi siedono vicini; a destra dello sposo la suocera, a destra della sposa il suocero. Dopo la colazione la sposa cambia d'abito. Si veste di bianco col velo ed i fiori d'arancio; oppure toglie solamente il cappello e si mette il velo bianco. Ed all'ora stabilita, coll'ordine di prima si parte pel matrimonio ecclesiastico. La sposa entra in chiesa dando il braccio a suo padre, e ne esce dando il braccio al padre dello sposo. Lo sposo entra accompagnando la suocera. Il babbo, che rimane libero, dà il braccio alla mamma che rimane libera in tutti e due i casi. E nel ritorno, la sposa entra in carrozza colla suocera, ma non prende più la destra. La cerimonia è compiuta, passata. Ella cessa d'essere nella situazione eccezionale di sposa: è una giovine signora, e deve alla suocera, ed alla vecchia signora, il riguardo di cederle la destra in carrozza. Il suocero si colloca in faccia alla sposa; lo sposo in faccia alla propria madre. In molti casi si differisce il matrimonio ecclesiastico fino alla sera o al mattino seguente, ed allora invece d'una colazione, la famiglia della sposa offre un pranzo. Le spose che hanno passato i venticinque anni non si vestono di bianco. Ed ora l'indifferenza scettica da cui siamo dominati va abolendo quel costume anche nelle giovani, ed accade di vedere giovinette di sedici o diciott'anni che vanno a marito senza l'abito bianco nuziale. Non posso a meno di dire che fanno male. Capisco le prime. La loro età richiede una serietà maggiore. Ma una giovine sposa perchè toglierebbe una parte di solennità a quella cerimonia che è la più importante della sua vita? Ho conosciuto una signorina, che per una serie di circostanze troppo lunghe a ripetersi, dovette maritarsi sull'alto d'una montagna, dove possedeva un villino, e nel cuore dell'inverno. Il suo villino non aveva cappella, e c'erano due miglia di strada, impraticabile alle carrozze, per scendere ad una chiesuola del villaggio. E tuttavia si vestì di bianco, e fece, in quel gelido costume, la lunga strada sulla neve, per inginocchiarsi in abito nuziale accanto al suo sposo, che anche lui era rigorosamente in abito nero. Confesso che, quando mi narrò questo particolare delicato, ne fui profondamente commossa. Le signorine mature, per lo più, semplificano la cerimonia andando prima al municipio, e di là direttamente alla chiesa in completo costume da viaggio. Vanno alla colazione così, e partono senza cambiar toletta. Le vedove che si maritano devono fare lo stesso. Nel matrimonio d'una vedova, qualunque pompa è della massima sconvenienza. In chiesa una vedova deve fare il matrimonio a porte chiuse; non deve mandare prima delle nozze la partecipazione della promessa; non fa inviti. Dopo il matrimonio, entro otto giorni, si mandano le circolari coll'annuncio che il matrimonio ha avuto luogo. Le partecipazioni dopo le nozze sono di primissima necessità, e si deve essere larghi nel distribuirle anche alle lontane conoscenze. È un riguardo che lo sposo deve a sua moglie, per non esporla ad incontrarsi, essendo al suo braccio, con qualche compagno di gioventù di lui, che la prenda in fallo, o con qualche signora che esiti a salutarla. Tutte le conoscenze dello sposo debbono essere informate del cambiamento, avvenuto nella sua situazione, ed aspettarsi d'incontrarlo colla moglie, per essere pronte a salutarla come tale. Per questo riguardo anche le vedove debbono mandare le partecipazioni del matrimonio compiuto. Tutte le spese del matrimonio, comprese le carrozze, se le rimesse delle famiglie non le forniscono, sono a carico dello sposo. Una volta era, se non un obbligo, un'abitudine per la sposa di sciogliersi in lacrime nell'andare all'altare. Gli occhi umidi ed accesi, le labbra tumide, il naso rosso come una ciriegia, facevano parte della tenuta di rigore per una sposina ammodo. Lo sposo, se non altro per amore di simmetria, non doveva mostrarsi lieto, in faccia a tanto dolore; si atteggiava al più profondo compianto, dinanzi alla lacrimevole situazione della fanciulla. Il sacerdote, compreso della necessità di mettersi all'unisono, recitava un predicozzo straziante ai due sventurati giovani, e tutte le signore lacrimavano nelle pezzuole ricamate. Se un indiano fosse entrato in una chiesa durante la cerimonia nuziale, al vedere il pubblico, e specialmente la sposa in quello stato di desolazione, l'avrebbe creduta una suttie da ardere sul rogo del marito estinto. La prima sposa giovane che fu veduta maritarsi senza piangere, fu la principessa Margherita. Tutti sanno che a Torino vi sono, o vi erano allora quattro signorine di famiglie patrizie, le quali avevano il gentile diritto di accompagnare all'altare le principesse della casa reale e di portare poi in capo quando andavano a marito, gli stessi fiori portati dall'augusta sposa. Ereditando i fiori della principessa Margherita, quelle signorine ne ereditarono naturalmente il diritto di non piangere. Ed infatti la cronaca assicura che quando si sposarono non si presentarono cogli occhi gonfi e col naso rosso. Fin d'allora dunque le lacrime furono messe da banda, a grande soddisfazione degli sposi, che s'accomodavano male di quelle scene in cui facevano la parte di necrofori, seppellitori di Vestali. Questo non vuol dire che le signorine amino meno la loro famiglia, e ne sentano meno il distacco. Si sono fatte più coraggiose e ragionevoli; hanno compreso che le loro lacrime non farebbero che affliggere maggiormente i loro cari, e che infine, per un matrimonio accettato da loro, e con pieno aggradimento, quell'atteggiarsi da vittime sarebbe un'incoerenza. Al momento poi di dire addio al babbo, alla mamma, alla casa paterna, di entrare in carrozza e di partire, se i singhiozzi fanno gruppo alla gola, se le lacrime fanno violenza alle ciglia, lascino che il loro cuore si sfoghi: non è che un istante. I cavalli scalpitano, i bauli sono già alla stazione; fra pochi minuti il fischio della macchina a vapore dirà alla mamma commossa, che la portiera del coupè s'è chiusa sui due viaggiatori, e che il primo bacio di sposa ha cancellato quelle ultime lacrime di fanciulla. - - - Nota dell'autrice. Nel correggere le bozze mi accorgo che il periodo seguente non ha nulla a che fare colle leggi di convenienza. A scarico di coscienza ne prevengo lealmente le lettrici. Se, come credo, non si curano punto delle mie opinioni personali sul viaggio di nozze, possono saltare queste pagine senza offendere nè me, né il mio libro. LA MARCHESA COLOMBI. Ho udito alcuni sentimentali vaporosi, esclamare che il viaggio di nozze è una profanazione; che: "si vanno disseminando le più care memorie nelle camere d'albergo! Vorrebbero la villetta isolata, e rinchiudervisi: "solo con sola Dido Enea ridotto." ripetersi giorno e notte: * Amoris tui solum et dives sum satis; quando se ne vanno pei fatti loro, le più care memorie, rinchiuderle tutte là sotto chiave. Sono spiriti unilaterali, e non comprendono che una felicità unilaterale. La felicità del viaggio di nozze invece è un prisma. In viaggio gli sposi si studiano, si conoscono, si apprezzano sotto mille aspetti diversi. Pensano: * Come saprà adattarsi agli inconvenienti del viaggio questa persona che ha vissuto sempre fra le agiatezze? Saprà resistere alle fatiche delle lunghe corse, delle abbigliature mattutine, delle visite assidue alle chiese, ai musei? Ed i suoi gusti artistici? Cosa dirà di quel quadro? di quella statua? Che impressione le farà quella musica, quel dramma? Come saprà discorrere nell'espansione della vita intima? Capirà, gusterà le bellezze della natura? Avrà impeti entusiastici, calore d'ammirazione e quella dolce bontà indulgente che porta a vedere alla prima il lato bello e buono di ogni cosa? Ed avrà spirito d'osservazione, intelligenza critica, e carattere pieghevole? Oh, le delizie del viaggio di nozze! Avere innanzi a sè una lunga serie di giorni, completamente liberi da qualunque cura, all'infuori del proprio amore e delle proprie gioie. Andar incontro all'ignoto che si annuncia con tinte color di rosa, come il sole col crepuscolo! E sentirsi nell'anima la convinzione che inebria e riposa, d'avere un essere sulla terra pel quale siamo il primo pensiero, il primo affetto ed anche il primo dovere. E con quest'essere amante e caro, prendersi allegramente a braccetto, ed affrettarsi per le strade, unendo il passo e parlandosi con abbandono; e poter ripetere a se stessi: Abbiamo diritto 'amarci! Lo neghino pure i romanzieri, ma il diritto di amarsi alla luce del sole, senza menzogne, senza rossori, sarà sempre la poesia dell'amore. Ed a poco a poco si comprende che quelle ore di espansione e di delizia non sono più misurate dalla durata d'una visita; che si ripetono senza interrompersi, e si ripeteranno sempre, per un tempo lungo, infinito. L'ora del pranzo, l'ora del riposo non li separa più. Oh la dolce prosa della vita materiale! Sedere insieme ad una mensa d'albergo interrogandosi a vicenda sui propri gusti, confessando di aver appetito, mangiando allegramente * à la guerre comme à la guerre, dandosi del tu resente una quantità di persone, pagando il conto colla borsa comune! Tutto il resto può parere un sogno poetico da menti innamorate; ma il primo pranzo all'albergo, è pretta realtà. Dopo il primo pranzo soltanto gli sposi sentono che quella felicità è vera, positiva, che le loro esistenze si sono congiunte per la vita vera, con tutto il suo corredo di spirito e di materia, di poesia e di prosa. E poi vi sono le ore in cui non sono soli: al teatro, al caffè. E nella piena libertà del viaggio da nozze rigustano il mistero d'una stretta al braccio, d'una mano presa furtivamente, del lungo sguardo appassionato che narra un'illiade di desideri, dello sguardo fuggevole e lampeggiante, che dà il fremito e l'ebbrezza d'un bacio. A traverso quel turbine di godimenti, in quel sogno di delizie, vedono azzurreggiare, in un prossimo avvenire la placida promessa d'una casetta tranquilla, dove saranno padroni e soli, e dove si vedranno sotto un aspetto nuovo, nell'uniformità della vita casalinga... È un'altra serie d'incanti, che promette loro quel dolce riposo dopo tanto movimento. I sentimentalisti che, pel culto delle memorie, hanno cominciato dalla fine e si sono isolati, hanno sacrificate tutte le immense dolcezze del viaggio e non le ritroveranno più tardi, perchè il viaggio di nozze è un frutto che fuori stagione non si gusta più. È vero che non hanno disperse le memorie care negli alberghi, e le hanno gelosamente rinchiuse; ma son ben certi che, a lungo andare, non ci sia entrata la sazietà o la noia, a metterle in fuga come una nidiata di passeri? Per quell'affetto che m'ispirano le mie lettrici le consiglio, qualunque sia la loro età, il loro grado di agiatezza, non rinunzino al viaggio di nozze, anche a costo di qualche sacrifizio d'interesse, di qualche privazione. Tutte le felicità che potrà dar loro l'avvenire, non le compenseranno mai di quella immensa gioia perduta.

Oro Incenso e Mirra

678755
Oriani, Alfredo 4 occorrenze

La magnifica scena del Golgota colla ironia finale della fede, che morta nel redentore ricomincia nel ladrone crocifisso al suo fianco: l'ineffabile malinconia della sostituzione di Giovanni, il più poeta tra i discepoli, come figlio nel cuore di Maria: l'ultimo, delirante appello nel vuoto - Dio, dio, perchè mi hai abbandonato?- e subito dopo tutto il peso della morte nel terribile - consumatum est - questo finale sublime non vale il silenzio di Cristo davanti alla domanda di Pilato: quid est veritas? L'espiezione del redentore è tutta in quel silenzio. Gli altri guardarono all'abate come aspettando uno scatto, ma questo invece si volse a Tebaldi: - A te ora, poiché i poeti, i quali come Osnaghi fanno ancora dei versi, non sentono più Cristo che dipinto. Tu socialista, se davvero il socialismo sarà Un'epoca nello spirito umano, devi intendere quella, dalla quale esce. Ami tu Cristo?. - Io lo odio. - Tanto meglio! Il tuo odio potrebbe averlo compreso più dell'amore di Tarlatti. Cristo non ha egli detto: chi non odia l'anima sua in questa vita non la serberà immortale? Chi odia crede. Tebaldi il più grosso dei quattro si torse verso l'abate appoggiando il gomito sulla tavola e guardandolo fissamente; la sua faccia: quadra, bruna, dai sopraccigli quasi riuniti, esprimeva una fiera energia. - Non ho il vostro ingegno - cominciò - ma io credo; per voi altri la vita è uno spettacolo, del quale vorreste riprodurre i quadri nell'arte, e così pensereste di aver vissuto. Allora come ridete di Bovio? Perchè il suo quadro di Cristo è brutto? E bello a che cosa gioverebbe, se nemmeno la redenzione di Cristo ha giovato? Quando tu, Mattioli, parlavi di Giuda, io ti ascoltavo attentamente: il cristianesimo non ha potuto comprendere il suo tradimento, tu dicevi. Ebbene, io ti rispondo: perchè tradimento non vi fu. In che cosa si poteva tradire Cristo? Qual'era la sua idea? Io non la so. - Il mondo l'ha accettata. - proruppe l'abate.- Rimanendo tale quale, quindi non la sa come me. Egli si proclama figlio di Dio: è questa l'idea? Tutte le mitologie dei suoi tempi n'erano piene. La redenzione dal peccato originale mediante una incarnazione divina? Tutte le mitologie n'erano piene. Un'altra vita in un altro mondo migliore? Tutte le mitologie n'erano piene. L'uguaglianza del genere umano. - Sì. - Ma non osò proclamarla. - Nel cristianesimo schiavo e padrone sono eguali. - Come dunque sono ancora schiavo e padrone? Che egli abbia o no avuto una esistenza di uomo, mi pare la più inutile delle questioni dal momento che sarebbe stato un uomo non superiore al proprio tempo. - Perchè dunque hai detto di odiarlo? Gli altri assistevano quasi ansiosi allo strano duello, ma dinanzi al viso sempre così oscuro di Tebaldi, la fronte dell'abate si rischiarava; ambedue sentivano che i discorsi fatti sino allora non erano stati che divagazioni. - Per la religione del suo nome: essa è ancora il più grande ostacolo al progresso umano colla viltà dei dogmi e l'ipocrisia delle speranze. Il Dio di Cristo crea l'uomo, certamente per l'uomo e non per sè stesso, e nullameno per un primo peccato condanna tutta la sua discendenza: è una fola, lo so, ma questa fola rende ancora timida l'umanità. Cristo si proclama suo figlio, e viene a morire con noi per redimerci dalle conseguenze di questo peccato: dove? - In un altro mondo; e allora a che prò discendere in questo? E la speranza, di quell'altro mondo, che conserva tutte le ingiustizie nel nostro. Se la vita è un pellegrinaggio, perchè preoccuparci della strada? Basta la mèta, molto più che il viaggio è brevissimo. Il mondo invece deve inventare una stazione. - Nell'infinito. Arrestati, se puoi, tu che parli di stazioni: il tuo giorno è un baleno fra due ombre, la tua vita è una corsa fra due mète: hai Dio dietro e Dio davanti. Arrestati: in nessun momento della tua esistenza terrena sei pari a te stesso, solo nella tua anima immortale sta la tua identità. Atteggia, combina il mondo come ti piace, non sarà bello perchè potrà guastarsi, non sarà giusto perchè tu condanni il presente, e non puoi mutare il passato. Se tu vuoi la felicità degli uomini vivi, perchè non la pretendi anche pei morti? Il loro antico dolore non basterebbe dunque a turbare la tua gioia nel nuovo assetto sociale? Tu, che accusi d'ingiustizia l'elezione del popolo ebreo fra tutti i popoli, vorresti eleggere alla beatitudine una generazione e le generazioni di essa contro tutto il numero delle altre: pretendi la felicità, e fuggi dinanzi al problema del dolore! Perchè l'uomo soffre? Fino a quando non avrai risposto in te medesimo a questa domanda, il tuo appello alla gioia sarà per lo meno insensato; tu, l'uomo delle scienze positive, vuoi dunque risolvere l'equazione facendo a meno dei suoi dati?- La società sola riduce l'uomo infelice. - Ancora l'uomo contro l'uomo! Perché? questo se tu li credi eguali? E se invece sono dispari nella natura, solamente in Dio potranno pareggiarsi. L'umanità non è dunque più per te socialista un uomo solo, sempre uguale a sè medesimo, nella cui vita ogni generazione è un minuto, che si ricorda al di là del proprio passato, e presagisce quanto gli si prepara nell'avvenire? Il primo pensiero dell'uomo non è per sè medesimo, ma per il proprio creatore. Provati a non ascoltare la domanda, che ti sale ad ogni istante dalla coscienza: donde vengo io che vado? E subito dopo: dove vado io che passo? E poichè non sai rispondere, il problema diventa triplice: allora chi sono? Domandalo a Dio. - Troppi lo hanno già chiesto indarno. - E tutti chiederanno sempre. - Perchè il dubbio è la nostra unica verità - intervenne Tarlatti. - No, esso ne è solamente la fatica. Dio risponde perchè egli stesso, suscitando in noi queste domande, ha voluto che la nostra vita sia un dialogo ininterrotto con lui. Le vostre arti dilucidano i propri quadri sul panorama della sua creazione, le vostre scienze sillabano le prime parole sul libro delle sue leggi, la nostra storia effimera comincia e finisce nella sua storia eterna. Perchè Dio non sarebbe disceso fino a noi sotto la forma di Gesù? La leggenda mosaica, voi dite, è assurda quanto l'altra cristiana della redenzione: ma che ci resta di più ragionevole? Forse la ragione, che ignora tutti i perchè delle proprie domande e delle proprie risposte? Cancellate creatore e creazione, ma resterete sempre dinanzi al pensiero, che ha potuto tanto cancellare, e alla materia incancellabile anche per il pensiero. Siete dunque al medesimo punto, nella stessa antitesi del finito coll'infinito, dell'uomo con Dio: e poiché nulla può disgiungere materia e spirito, forma e sostanza, ordine e cose, Cristo torna mediatore fra le sue nature inseparabili. Cristo non si riesce a negarlo; tu, Mattioli, lo ammetti nell'arte, tu, Tarlatti, nel dubbio, tu, Tebaldi, nell'odio; mentre egli vi costringe tutti e per sempre nella propria orbita divina. L'umanità tenterebbe indarno di scordarlo, perchè in essa, ciò che fu, dura. Prima di strappare Cristo alla coscienza dell'umanità cercatevi intorno con che cosa riempirete in essa un vuoto di duemila anni. Chi di voi, può proclamare false le figure dello spirito accettando per vere quelle della natura? L'indimenticabile dell'uno non vale dunque l'immutabile dell'altra? Per coloro, che credono, il presente è l'eterno: per quelli, che dicono di non credere, il presente è l'effimero, ma la realtà è ugualmente per tutti nel presente: Cristo è presente nell'umanità. Tu, romanziere, hai confessato che nessun dramma è più intenso del suo: trova tu, poeta, una passione della sua più ineffabile: tu, filosofo scettico, cerca un dubbio più profondo della sua fede - se la nostra vita non viene da Dio, e non torna a Dio per mezzo di Dio, dove va la nostra vita? - Tu, socialista, accumula tutte le risorse della materia, condensa l'immensità del mondo nella brevità del tuo tempo, e costruisciti una vita di piaceri; il più piccolo dei dolori spirituali simboleggiati in Cristo ti renderà per sempre, ugualmente, inconsolabile. Tutti noi portiamo Cristo crocifisso nel cuore, e la nostra passione continua la sua, finchè sia consumata la prova e vinto il mistero. Oggi come sempre il mondo appartiene a coloro che credono. - Chi crede più? - chiesero tutti a una voce. - Coloro che interrogano senza pretendere la risposta, e coloro che rispondono senza essere interrogati: i grandi della scienza che consultano l'universo aspettando ingenuamente le sue rivelazioni, e i piccoli della storia che rispondono, inconsciamente ai suoi appelli. Sono gli eletti di Dio. - E la chiesa, della quale tu vesti l'abito? - intervenne con fine sorriso Tarlatti. - Signori, è ora di chiudere - disse l'oste appressandosi al loro tavolo dopo aver spento senza che se ne accorgessero, quasi tutti i becchi del gas; questo brusco avviso li richiamò come una strappata dalle aeree regioni, nelle quali avevano spaziato sino allora, alla volgarità dell'ambiente. Il fiasco era ancora intatto. - Oh! - proruppe Tarlatti - bisogna pagarlo ugualmente, poichè l'oste ha dovuto sopportare quanto abbiamo detto finora. Si erano rimessi i mantelli e si avviarono per uscire: piovigginava. Scambiarono qualche parola sulle lezioni dell'indomani all'università, erano tutti studenti, poi si strinsero con affetto la mano. - Dunque, caro abate - disse ancora Tarlatti - la conclusione è: Laus Christo, come l'intestatura dell'ultimo capitolo nell'ultimo volume di Renan sulle Origini del cristianesimo. - E a Bovio? - interruppe sardonicamente Mattioli prevenendo la risposta. - Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo - rispose l'abate coll'imperturbabile fede dei mistici.

Aveva sentito che povero, abbandonato, infermo desiderava anche egli di morire? Senza rendersene conto, giacché in questo caso gliene sarebbe mancato il coraggio, ritornò sui propri passi dietro di loro: camminava adagio attardandosi nello svellere qualche germoglio dalle siepi per mantenere la distanza; il suo sguardo si attaccava ad ogni passo di quell'effimera creatura con una inesprimibile emozione, ma non vedeva che il suo abito chiaro e tutto quell'oro sulle spalle sotto un cappellino di una eleganza incomprensibile per lui, che non aveva mai osservato una donna. Ella teneva penzoloni nella mano sinistra, stancamente, un grande merletto bianco per avvolgersene il volto al primo soffio fresco. La mano era sguantata. Ci vollero venti minuti per ritornare sulla strada, che dalla porta della città conduce al cimitero: allo sbocco aspettava una magnifica carrozza con due grandi cavalli bai. Allora egli affrettò il passo inconsideratamente, e poté essere visto dalla fanciulla nel momento che i cavalli partivano al gran trotto; ma nel farla salire sul predellino con quale delicatezza la mamma aveva saputo aiutarla per nascondere agli occhi della gente la sua estrema prostrazione! Alcuni passanti avevano salutato rispettosamente. Egli tornò in fretta da quella porta entro la città, e sull'altra porta di un gran palazzo barocco sorprese fra due donnicciuole questo dialogo: - La contessina non arriverà in fondo al mese. - È tisica marcia: quasi tutti i signori sono così. - Allora la famiglia Naldi è finita. - Bel male! non hanno da morire anche i signori? La contessa vedova tornerà a maritarsi; come ama però la sua creatura!... - Poveretta! - replicò l'altra, addolcendo la voce a questa osservazione, che la toccava nelle fibre di madre. A lui sembrò di aver saputo tutto. Ma da quel giorno la sua vita interiore parve aver trovato finalmente la tenerezza consolatrice, che le era mancata sino dall'infanzia. Quella morente fra tutti gli splendori della ricchezza era una derelitta come lui: glielo aveva letto nei grandi occhi cilestri, pallidi di uno smarrimento, che si sentiva anch'egli nel cuore così spesso. Prima di coricarsi pregò anche per lei, perché la madonna la guarisse, lasciandola quaggiù come una immagine degli angeli adoranti intorno al suo trono. E a poco a poco quella tenerezza si fece più intensa: non era l'amore inevitabile a' suoi diciotto anni, quel primo fervore di tutto l'essere verso di un altro in uno slancio d'ispirazioni infinite, entusiasta e vivace come tutte le illuminazioni della fantasia; ma una passione delicata e profonda, che lo faceva vivere collo spirito di quella sconosciuta, in una confidenza fraterna e nullameno trepidante di riserve. Nessuna immagine impura, nessun volgare sottinteso turbava la serenità ardente del suo affetto. Egli non sapeva nemmeno abbastanza chiaramente che cosa fosse la donna, benché avesse dovuto studiare sui libri la torbida epopea di peccato e di espiazione per la quale essa aveva traversato il cristianesimo fino all'apoteosi di Maria. Poi la sua stessa miseria di seminarista, costretto a vivere con dieci franchi al mese, perdeva ogni dolore dinanzi alla miseria mortale di quell'altra, vacillante come un'ombra fra tutti i riverberi della ricchezza, e già vicina a sparire improvvisamente nel chiarore di un'alba. L'indomani ripassò sotto le finestre del palazzo, avventurandosi per tutta la città sino nello Stradone, un largo viale fiancheggiato di platani, all'ombra dei quali nel pomeriggio le signore uscivano a farsi vedere. Tutto fu indarno, dovettero trascorrere delle settimane prima che la rivedesse in carrozza, poi la incontrò ancora a piedi sempre così lenta, vestita di chiaro, col viso bianco dentro l'aureola dorata dei capelli. Avrebbe voluto conoscere il suo nome, ma quando lo seppe gli parve volgare, Tecla, perché sentì dolorosamente l'impossibilità di aggiungervi un diminutivo; quindi ascoltando, talvolta chiedendo imprudentemente, seppe il resto. Era l'unica figlia del conte Naldi morto tisico dopo pochi mesi di matrimonio colla contessa Crivelli. Tutta la città s'interessava del caso pietoso, perché i più illustri professori avevano già dichiarata perduta ogni speranza. Solo la madre colla sublime assurdità dell'amore confidava sempre. Ma gli esami gli caddero addosso nella prostrazione fantasiosa di quel sogno, dentro il quale oramai rimaneva chiuso, senza avere ancora potuto rendersene un conto abbastanza chiaro. Egli sapeva solo di amarla con tutta la forza dell'anima dal momento che il suo pensiero si perdeva affascinato dietro di lei. La notte ed il giorno, nel silenzio delle scuole o nelle solitudini del proprio granaio, vedendo sempre la sua esile figura di fanciulla passare lentamente cogli occhi cilestri, pallidi di quello stesso smarrimento, che si sentiva nel cuore. - Merlini, che cosa avete dunque da essere sempre così intontito? Lo sgridava talora la voce aspra del professore, mentre gli altri ridevano intorno. Egli si turbava, ma nella purezza della propria coscienza non credette nemmeno di aprirsene col confessore. Quell'anno gli esami andarono meglio, poi restò ancora due giorni in città per tentare di vederla, e la terza mattina ripartì a piedi per il villaggio. Là si ammalò. Un tifo, forse dovuto all'insalubrità del pozzo di casa, lo tenne due mesi tra la vita e la morte: il medico lo aveva spacciato, il parroco volle amministrargli i sacramenti, egli invece era quasi contento pensando che forse anch'ella stava per morire. Il loro breve viaggio, così dissimile eppure egualmente triste, finiva allo stesso modo; avevano appena traversato un lembo della terra, che Dio già impietosito della loro stanchezza li richiamava. Invece guarì. Allora provò tutte le amarezze della malattia, le prostrazioni, gli scoramenti, e soprattutto l'umiliazione della miseria, che gli contendeva di rimettersi in forza coi cibi sostanziosi prescritti dal medico. Intorno a lui il padre e le sorelle erano freddi: oramai credendolo svogliato degli studi e così poco in gambe si erano rassegnati a perderlo, quindi le querimonie scoppiarono alle spese provocate dalla malattia. Egli si sentì discusso, valutato coll'atroce discernimento dei poveri, pei quali tutto deve soggiacere alla misura del danaro. Quando ripartì ai Santi per la città pareva uno scheletro, ma l'appetito gli era tornato in un rigoglio improvviso di giovinezza. Sciaguratamente i dieci franchi al mese non gli avrebbero permesso di mangiare di più, se qualche buona fortuna di chiesa non venisse ad aggiungere loro un altro guadagno. I primi mesi furono terribili, il freddo e la fame gli attanagliarono spesso lo stomaco. Rivide la giovinetta sempre così diafana, coi capelli d'oro sulle spalle, e le guance di un pallore cinereo: forse questo poteva essere un effetto del freddo, ma i suoi occhi incontrandola gli rivelarono subito, come la prima volta, che nulla era migliorato nella sua vita di fantasma. Come la prima volta ella rivolse la testa a guardarlo, ed egli arrossì nuovamente. Essa pure cominciava ad alzarsi solo con quei primi freddi a rovescio di tutte le previsioni, che non le avevano concesso altri giorni dopo la caduta delle foglie. Naturalmente si era ingiallita in un colore d'ambra sottilmente venato: solo l'oro dei suoi capelli regali scintillava agli ultimi soli. Egli la rivide ancora, e non trascorse più giorno che almeno cinque o sei volte non passasse e ripassasse sotto le sue finestre, dacché una mattina aveva creduto di scorgerla fra due tende, altrettanto bianca, col viso ai vetri, immobile. I cristalli di un pezzo solo, purissimi, lasciavano apparire la sua figura sino alle ginocchia. Egli si arrestò di botto come dinanzi ad una di quelle sante dipinte nelle alte vetriate: i capelli d'oro le facevano sul capo un nimbo di gloria attraverso la luminosità dei cristalli, che rendeva quasi trasparenti anche i suoi abiti. Per fortuna in quel momento la strada era deserta, ma quando poté finalmente sottrarsi all'incanto di quella apparizione senza che ella lo avesse ancor veduto, per rattenere uno scoppio di pianto lì nel mezzo del Corso si disse di aver fatto una grande scoperta. Quella era dunque la sua camera? Una voce segreta, inconfutabile, glielo affermava. Infatti tornandovi tutte le sere vi scorse sempre il lume; l'indizio era tutt'altro che sicuro, ma nullameno egli si sentiva certo di non ingannarsi. Quell'anno l'inverno rigido cominciò a San Martino. Egli tormentato sempre più dalla fame aveva finalmente potuto trovare un condiscepolo, al quale ripetere le lezioni di ogni giorno, nel figlio di un calzolaio, che impietosito dalla miseria di questo nuovo maestro lo invitava tutte le sere a cena. Non era un vitto molto fine, ma abbondante come in vita sua non gli era mai capitato: poi il calzolaio gli risuolò le scarpe e sua moglie gli fece un paio di calze in grossa lana nera. Così col mantellone dell'arciprete e lo stomaco pieno non aveva più freddo, ma in quella casa lo trovarono presto svogliato. Durante le ripetizioni, cui l'altro si prestava di mala voglia, frequenti distrazioni gli facevano spesso sbagliare i temi esponendolo alle berte dello scolaro contento di potersi a quel modo mostrare superiore in faccia ai propri parenti. Era una nuova tortura più aspra della fame; poi in quella famiglia il padre ateo e la madre villana non avviavano il figlio al sacerdozio che come ad un mestiere, calcolandone anticipatamente i guadagni senza un riguardo né a se stessi né a lui. I loro discorsi osceni lo facevano soffrire nelle fibre più delicate dell'anima; nullameno resistette per quella necessità di dovere pur mangiare, e soprattutto perché le ripetizioni gli avevano fornito la scusa per ottenere dal padrone di casa la chiave della porta. La libertà gli parve immensa. Tutte le sere sulle dieci ripassava due o tre volte sotto il palazzo Naldi fermandosi a considerare lungamente quella finestra illuminata. La sua sottile ombra nera si disegnava sinistramente sulla bianchezza della neve; talvolta i passanti si voltavano meravigliati a considerarlo, e allora egli riprendeva il passo nascondendo il viso magro nell'alto bavero del mantellone, colto da un senso pauroso di vergogna al pensiero che qualcuno potesse parlarne col vescovo. Perché un seminarista giovane come lui era ancora fuori ad ora così tarda? Ma siccome all'angolo della casa di contro, prima di arrivare al palazzo, v'era una piccola Madonna di maiolica rischiarata da un lampione, tutte le sere si fermava devotamente a dirle tre Salve Regina per lei. Certamente quella neve avrebbe preso prima di sciogliersi la tenue fanciulla nella propria bianchezza per nasconderla agli occhi di tutti, lieve e pura dentro l'ombra di un'altra notte più profonda. Egli lo sapeva già con una certezza che talvolta lo faceva rabbrividire. Infatti imparò presto dalla voce di tutti che la giovinetta, da quindici giorni sdraiata sopra una poltrona nella camera della mamma prospiciente sull'ampio giardino perché non poteva stare a letto, era in fin di vita. Egli ebbe uno schianto al cuore: che cosa vi era dunque in quell'altra camera perennemente illuminata? Poi la notte degli otto dicembre, festa della Immacolata Concezione, nel passare alla solita ora vide dentro l'atrio del palazzo una carrozza bruna con due immensi fanali accesi, che lo rischiaravano come di una luce d'incendio. Nevicava fittamente, silenziosamente, a larghe falde. La neve turbinava ai vetri dei fanali con un battito di piccole ale bianche crescendo pura e fredda sulla strada: nessuno passava. Egli già tutto bianco, colle scarpe sepolte nella neve e il mantellone che vi strideva dietro ad ogni passo, si diresse verso la Madonna. Dentro quella opacità la fiamma del lampione gli parve come di lampada sepolcrale. Improvvisamente sentì un soffio più freddo negli occhi e un bisogno irresistibile d'inginocchiarsi dinanzi alla Madonna singhiozzando sotto il mantello perché nessuno potesse vederlo. Appoggiò la testa al muro e si prostrò col mantello sulla testa congiungendo disperatamente le mani: le sue orazioni salirono a quella piccola immagine quasi invisibile come una fiamma fra il pianto dirotto che gli inondava il viso. La fanciulla moriva: egli se ne accorgeva come la madre ginocchioni anche essa accanto alla poltrona. Era allucinazione? Era una di quelle misteriose visioni, che la scienza nega ancora, e che lo spirito ebbe sempre? Egli mormorava sommessamente le parole del salmista ai moribondi con lo stesso accento monotono dei preti in tali istanti, simile ad un murmure di acque, che avvallino per un fondo senza fine. Quando i ginocchi intirizziti dalla umidità della neve lo fecero rinvenire, si sentì tutto bagnato: tentò di rialzarsi colle mani al muro, ma l'impressione del freddo fu così acuta che gli fece quasi gettare un urlo. Una carrozza passò rotolando sulla neve, mentre il portone si chiudeva strepitosamente. Egli intontito di quanto aveva fatto si avviò rabbrividendo per tornare a casa; nella notte lo colse la febbre.

Quella donna non l'avrebbe abbandonato forse in quel medesimo carnevale, dimenticandolo per sempre, fra la turba volgare degli altri amanti? Non era lei la vincitrice, che poteva passare la vita nei piaceri senza perdervi nulla di più importante? Colla abitudine critica di ogni vero artista egli aveva già analizzato abbastanza bene la propria passione; era una frenesia di sensi e di vanità, una forza composta di due debolezze, e profezia forse di una debolezza peggiore. Altri illustri erano caduti in quella stessa passione brutale della femmina, e vi erano morti. Da Shakspeare a Byron, da Molière a Goethe, da Heine a Garibaldi, quale triste odissea di grandi teste singhiozzanti sopra ginocchia aperte a tutto il volgo! Era sempre la stessa tragedia provocata da misteriose ed irresistibili affinità, un vizio che cresceva in un corpo e ne guastava l'anima, distruggendo quasi sempre la vita di entrambi. Forse tutti quei grandi avevano cominciato come lui, con una sensualità o una galanteria, poi l'abitudine si era fatta forte, ed era scoppiata la frenesia di amare nello sforzo impossibile di voler essere amato; e mentre la donna, forse incolpevole a forza di essere inintelligente, seguitava a discendere nelle bassure degli amori senza nome, essi le si attaccavano alle gonne piangendo di adorazione e di vergogna. Intanto quell'avventura diventata pubblica cominciava a nuocergli seriamente, alcuni amici insinuavano con delicata malignità ch'egli non avrebbe potuto durarvi per mancanza di danaro, altri più apertamente dicevano già che la principessa doveva avergliene dato: lo si sorvegliava nelle spese, si valutavano minuziosamente tutte le sue nuove eleganze. Al club pareva una intesa per comprometterlo con ogni sorta d'inviti. Una volta per una partita di caccia alla volpe nella tenuta di un ricco conte, e alla quale la principessa Irma doveva partecipare con quasi tutti gli eleganti del suo circolo e molti ufficiali di cavalleria, egli cercò invano una scusa onorevole per rimanerne fuori: non aveva cavallo. Un ufficiale con gentilezza insidiosa gliene offerse uno dei propri. - Come! le fanno dunque paura i cavalli? - Lelio ebbe la debolezza di arrossire. - No - rispose alteramente. - Ma dunque, signor Fornari, lei non sa montare? - intervenne la principessa. - Una cosa che sanno fare anche i marinai. - Lo sapessi pure, non monterei che un cavallo mio. - Siete così puritano in fatto di bestie? - Tutti sorrisero. Egli le serbò rancore, ma per quanto si fosse giurato di non entrare più in quel salone, vi andò la sera stessa del ritorno dalla caccia; ella sfolgorante di brio e di felicità parve non accorgersi di lui. Lelio invece non l'aveva mai veduta così tentatrice: cercò di affettare l'indifferenza, ma il suo orgoglio soffriva troppo di non potersene nemmeno andare senza una specie di abdicazione, perché vi riuscisse. Quella sera il principe Giulio, cacciatore solamente da uccelli, quindi un po' trascurato fra tutti quei racconti di galoppi e di salti, gli venne incontro. La loro conversazione durò troppo: la canonichessa ne fece l'osservazione in francese come della più bizzarra avventura nel carnevale, l'amante che perdendo la moglie si metteva per consolazione a corteggiare il marito, e Lelio l'apprese poco dopo dal conte Turolla. In quel momento il principino scherzava colla principessa Irma. La canonichessa gelosa impallidì: allora Lelio, che le si era già avvicinato per pungerla con qualche motto crudele, colto da un senso improvviso di pietà verso quella brutta donna, colpita come lui al cuore da una stessa ingiustizia, uscì dal salone. Questa volta era ben deciso a ritornare in campagna, subito, per riguadagnarvi, lavorando, il tempo perduto. Nullameno passarono ancora alcuni giorni, poi la rivide ad un concerto, e la sera medesima sedendole accanto nel palchetto ella si mise a premergli un piede. La mutevole creatura rideva pazzamente di un ufficiale, il più brutto del reggimento, che le faceva dalla barcaccia una corte troppo palese. - Giulio, lo vedi? - si volse al marito. - Oh! sono tranquillo sul conto suo. Infatti il principe doveva andare a Roma l'indomani per restarvi una settimana. - Bada, è troppo bello. La volgarità di questi scherzi ripugnava a Lelio, che ritirò il piede sotto il divano: ella bruscamente si volse a guardare altrove, ma l'indomani si videro per strada. Egli l'accompagnò un tratto. - Venite alla festa della canonichessa? - Non sono invitato. Ella ne fece le meraviglie. - Ah! non siete wagneriano. - Voi andrete certamente. - Sì, da sola... Sono sola sola in casa. Il suo sorriso aveva la solita lubricità, poi si passò rapidamente la punta della lingua sulle labbra. - Invitatemi a pranzo - l'altro proruppe. - Perché sono sola? - Egli capì tosto che acconsentiva. - Trovate un pretesto. - Se non è che questo! Siccome è la prima festa della canonichessa, e vi sarà tutta Bologna, avrete certamente un abito nuovo per eclissare tutte le signore. Verrò a vederlo. Ma si pentì subito dopo di averlo trovato sentendo come fosse volgare. - Sì, è veramente bello! - esclamò la donnina con uno scoppio di orgoglio infantile. Alle cinque e mezzo Lelio in marsina e cravatta bianca entrava trionfalmente nel salotto della principessa, perché a casa aveva trovato un invito per la festa da ballo. La principessa si turbò. - Allora il pretesto non serve più. Se lo sapessero! - Fammi vedere l'abito. - Non vi mostro niente. Il dibattito durò dieci minuti, ma siccome il cameriere entrava nel gabinetto per avvisare che la signora era servita, Lelio troncò ogni difficoltà col chiederle sfacciatamente d'essere invitato a pranzo, e le offerse il braccio. Il pranzo modestissimo era mal servito: ella stava contegnosa, egli disinvolto faceva dello spirito accorgendosi di riuscirle sempre più seccante. Perché? Aveva ella calcolato sulla sua assenza in quella festa, o si pentiva già di compromettersi troppo con quel pranzo, sola con lui, in faccia a tutti i domestici? Allora Lelio si fece vile: conoscendo la sua debolezza per i complimenti si profuse in frasi dolci, piene di scurrili allusioni, e finì per raccontare scherzosamente tutta la storia di un amante, che la contessa Ghigi, la divina impeccabile, avrebbe finalmente trovato in un ufficiale di artiglieria. Ella non lo credeva, ma i particolari erano così minuti e scabrosi che dovette riderne per forza. Poi tornarono un momento nel gabinetto a prendere il caffè. Pareva ridivenuta allegra. Improvvisamente Lelio, inginocchiandosele innanzi per baciarla sulla cintura, le chiese il permesso di assistere alla sua toeletta con Clelia, la cameriera di confidenza, che, al corrente di tutto da un pezzo, non ne avrebbe fatto alcuna meraviglia. Ella gli pose per risposta la mano sulla bocca. - Se invece della festa rimanessimo qui insieme fino alle undici? Poi tu vai a letto ed io faccio altrettanto: lo faresti per me un simile sacrificio? - La proposta era così stravagante che l'altra non la comprese nemmeno. - Vattene, è già tardi. - No, ti aspetterò qui. Voglio vederti prima di tutti gli altri. Ella non badò al tono freddo di quelle parole. Appena rimasto solo, Lelio si voltò verso lo specchio e vi si scorse livido di collera: il gabinetto poco illuminato da una lampada sopra un alto piede dorato, coperta di trine, pareva più piccolo; egli le sollevò dalla grossa palla di vetro appannato gettandole sopra una poltroncina, e in quella luce più viva tornò a guardarsi. Eppure gli pareva d'essere bello, almeno più che il principe Giulio e quell'altro della canonichessa, dalla quale aveva così tardi e forse a stento ricevuto l'invito alla festa. Perché dunque la principessa Irma non lo amava? La puerilità di questa dimanda, che non avrebbe osato rivolgere a nessun altro, in quel momento lo fece soffrire. La sua anima degna di più alte passioni si trovò daccapo in quel gabinetto minuscolo, di un lusso raffinato ed insignificante come la vita della donna, dietro la quale egli si perdeva da un anno; si rammentò tutto, il primo incontro, la gita a Cà de' Varchi, la scena violenta dietro al fienile, tutta la serie dei minimi drammi, i ripicchi, le carezze, i delirii della carne nella più torrida arsura della passione, quando si abbracciavano così strettamente che avrebbero potuto credere per un istante di non lasciarsi più. Poi tutto finiva un istante dopo per ricominciare ancora in una alternativa di luci e di ombre, mentre un gran vuoto gli si allargava in cuore e il cervello spossato gli si intorpidiva sotto una nebbia pesante. Perché durava ancora quella meschina novella, buona tutto al più per raccontarsi in poche pagine? Intanto egli era ancora lì ad attendere fanciullescamente la principessa trionfante nell'abito nuovo, che le avrebbe attirato gli omaggi di nuove passioni. Se ella invece lo avesse amato, quale deliziosa circostanza quella assenza del marito, e come si sarebbero sentiti entrambi felici di rinunziare alla festa per trascorrere insieme la sera, fors'anche la notte, arrischiando per questa beatitudine di poche ore magari tutta la vita! Ella intenta ad abbigliarsi non pensava invece più a lui in tal momento, perché appena incomincia per una signora la toeletta da ballo, questo solo diventa l'amante, e ogni altro scompare. Lelio aveva acceso una sigaretta quantunque sapesse che la principessa non permetteva mai di fumare nel proprio gabinetto; quindi si era gettato sopra un divano. Poi consultò l'orologio, non erano che le otto e mezzo. Quanto impiegherebbe ella a vestirsi? Per un momento ebbe quasi voglia di andarsene. Che cosa faceva lì? Non gli sarebbe toccato di uscire peggio, solo, a piedi, mentre l'altra monterebbe nella propria carrozza, giacché per nulla al mondo ella avrebbe consentito a farsi accompagnare da lui al ballo? Per così segnalato favore Lelio avrebbe dovuto essere per lo meno il principino; allora il mondo non vi avrebbe trovato nulla a ridire, ma un borghese come lui l'avrebbe resa ridicola. Il mondo riconosce parecchie categorie negli amanti come in ogni altra classe di funzionari. E l'idea di un amore profondo, tenace, con una dama bella ed elegante, che avesse potuto comprendere almeno in parte i bisogni della sua anima e la grandezza dei suoi ideali d'artista, gli appariva dentro la magia di un quadro dalle tinte delicate sopra un fondo misterioso; egli vi si sarebbe sentito più uomo nella forte calma della fede inspirata ad un'altra anima, colla soavità di un abbandono, che lo avrebbe riposato dalle virili fatiche del pensiero. Che cosa direbbe suo padre vedendolo in tal momento ad aspettare come un valletto che la principessa fosse vestita? Gettò la sigaretta e tornò a camminare. Era stanco, irritato di quella attesa troppo lunga anche per un vero amante, e nullameno senza gran cosa di anormale, dacché la festa cominciava alle dieci, e la toeletta di una signora non può in simili casi durare meno di qualche ora. Istintivamente si cercò un libro intorno, fuori nevicava. Egli aveva lasciato la pelliccia in anticamera, ma andando alla festa avrebbe avuto bisogno di trovare subito un fiacre per non sporcarsi le scarpe. Questa preoccupazione gli suggerì di chiamare un servo, che glielo andasse a cercare, poi improvvisamente diventò timido e non l'osò. Che avrebbe pensato costui? Daccapo si distrasse: quindi un altro più meschino pensiero lo fece sorridere quasi con gioia nella speranza che l'abito della principessa fosse brutto e non le attirasse che l'ironia delle signore; sarebbe stata sempre una piccola rivincita per lui, che a quella festa non avrebbe avuto alcuna importanza. Ma gli ultimi quarti d'ora furono addirittura convulsi. Finalmente intese un fruscìo. Ella entrò sorridente col viso in alto: aveva sulla testa un diadema e al collo una collana di oro massiccio ad anella e piastrine, qualche cosa di barbaro e di elegante come il diadema e la collana di Elena, che il dottore Schliemann aveva pochi mesi prima scoperto in Grecia, e già diventati di moda a Parigi. La sua bella testa di gitana ne acquistava un'aria bizzarra d'impero. Rimase un istante sull'uscio quasi incorniciata dalle sue modanature in legno pallido; aveva il busto di un rosso cupo a ricami dorati e, sotto, una campana di merletti rugginosi egualmente ricamati d'oro le copriva la sottana, della quale lo strascico si perdeva al di fuori. Ella s'avanzò guardandolo negli occhi per cogliervi il primo lampo di ammirazione, ma appena nel gabinetto si voltò allo specchio. Un odore acuto di sandalo era entrato con lei. Lelio taceva: allora ella trionfante gli sorrise nello specchio. Le sue spalle brune, nude, parevano più delicate sotto quella pesante fornitura d'oro, senza una gemma, e tutto quell'oro nel busto e nella gonna, che le accendeva intorno una strana fosforescenza. Un'idea passò lampeggiando nel cervello di Lelio. Ella sorrideva ancora. Lelio chinò lievemente la testa al suo sorriso e, affettando la massima circospezione, poiché lo strascico del vestito riempiva quasi tutto il gabinetto, le si accostò per di dietro colle labbra tese per deporle un bacio sulla spalla sinistra. La sua testa spuntò dallo sfondo lucente del cristallo, altrettanto bella, forse più pallida nell'abito nero e sopra quella camicia bianca come la porcellana, mentre ella si aggiustava un riccio sotto il diadema; ma Lelio nel piegarsi per darle il bacio traballò improvvisamente incespicando nell'abito, così che per balzare indietro ne sfondò con un piede la campana dei merletti. Lo stridore della seta lacerandosi anch'essa per oltre la metà della loro altezza fece voltare la principessa, che urtò quasi colla testa in quella di Lelio; era diventata verde come i propri occhi, cogli occhi sfolgoranti. - Villano! - gridò raccogliendo nella mano la strappatura. Lelio attese che rialzasse il capo; i suoi sguardi si urtarono allora in quelli della principessa umidi di lagrime. - Avete perduto la scommessa. Nell'ira di quel dolore ella non comprese nemmeno. - Clelia! - esclamò. - Eppure ve lo aveva detto che non avrei mai avuto per voi il valore di un abito! - soggiunse Lelio tristamente. Ma l'altra l'interruppe con un gesto di disprezzo così violento che l'altro dovette indietreggiare; ella rimaneva sempre così piegata colla strappatura fra le mani. Allora Lelio, che nell'iracondo pentimento di quella vittoria stava per rispondere una ingiuria grossolana, le si inchinò freddamente e, prima ancora che la cameriera accorresse, uscì dal gabinetto. Fuori la neve seguitava a cadere. - Dove vai? - lo chiamò una voce amica all'angolo di via Farini. - sei di ballo? - No. Ho mutato pensiero - rispose abbottonando solamente allora la pelliccia, sotto la quale l'altro aveva veduto il piastrone e la cravatta bianca. - Allora vieni con me, abbiamo una cena con cinque o sei sgualdrine del teatro Brunetti. Staremo allegri. Almeno quelle sono donne che si conoscono prima; non c'è pericolo di essere ingannati. - Tanto peggio, mio caro! - replicò l'altro. E si lasciò trascinare.

Lo sentiva ella in quel momento curvo su lei per darle tutto il proprio amore di fratello abbandonato? Non poteva ella rivivere in un miracolo come Dio ne aveva fatti tanti? Tutto era intatto in lei: basterebbe un pensiero di Dio a rianimarla, quel soffio spirato nel primo uomo uscito dalle sue mani di creatore. Si chinò lentamente, sfiorò di un bacio il cristallo sopra la fronte della morta, e ritraendosi colla massima cautela riabbassò il panno sino al basamento come prima. Allora si accorse di aver sciupati troppi fiori colle scarpe per giungere fino lì, ricalcò le proprie orme e tornò ad inginocchiarsi sui gradini della balaustra. Il suo volto livido esprimeva una sofferenza convulsa nello sforzo di mantenersi alto verso l'immagine della Madonna; infatti non lo poté, e gli cadde poco dopo fra le palme delle mani. Intorno a lui i fiori odoravano acutamente, confondendo tutti i propri sospiri in un vapore invisibile, sempre più greve, che ondeggiava sul feretro sotto l'ombra cupa della navata, nel gran silenzio della chiesa. Si sarebbe detto che anche le fiamme delle torce ne provassero l'oppressione spezzandosi tratto tratto per risalire più rapide in un getto. Egli invece vi era immerso: alle sue ginocchia, ai suoi piedi tutti i fiori dagli aromi più penetranti, i garofani, i reseda, i gelsomini, le rose, le gardenie dai grandi occhi pallenti, le magnolie grosse come un frutto, i narcisi, le piccole viole e le piccole gaggie riunite a quella festa della morte agonizzavano dentro i propri profumi, coi petali già vizzi nell'angoscia del mattino imminente. Egli respirava il loro alito con un'asma crescente. Alzando gli occhi vide la Madonna dipinta sull'altare sorridere dolcemente. Le fiamme dei ceri agitavano le ombre del quadro intorno alla sua bella figura bianca, discendente da un trono di nuvole all'appello devoto di san Filippo, inginocchiato nell'angolo colle mani giunte e il viso estatico. Era lei, la divina onnipotente, la Vergine Madre, che piegava Dio a tutti i propri voleri, la pietosa, che intendeva ancora le voci singhiozzanti della terra. Lo splendore del suo volto aveva la dolcezza di un'alba. - Maria, Maria! - sospirò Giannino tendendole le braccia in una ultima delirante invocazione, perché con un miracolo della sua bontà facesse risorgere quella morta. - Oh! Maria, essa è vostra figlia e mia sorella... Oh! Maria, Maria - ripeté ancora mentre la testa gli ricadeva più pesantemente sulle palme. Quindi pianse silenziosamente, vagamente, in una dolcezza di fede, sempre cogli occhi fisi nel sorriso della Madonna, finché le lagrime cessarono, e cogli occhi aperti, immobili, rimase a guardarla adorando. I fiori colti dal freddo crescente della notte esalavano gli ultimi odori. Allora parve a lui che la Vergine discendesse dal quadro lentamente, tutto rimaneva immoto dintorno: sempre così adagio gli si accostò senza che egli potesse tentare un solo atto e stette a mirarlo. Egli non sapeva più se era desto o sognava, ma si accorse di piangere nuovamente. Un sorriso pietoso schiuse le labbra della Madonna. - Non piangere, povero ragazzo. Sai tu chi sono? Duecento trentatré anni fa in un mattino d'inverno mia madre mi condusse nello studio di un pittore a servire da modella nuda per una baccante: io non volevo, ma la miseria e le insistenze furono tali che dovetti presto finire come tante altre. Tre anni dopo incontrandomi in una bettola di carnevale egli mi propose di tornare nel suo studio per una posa di madonna apparente sopra un gruppo di nuvole alle preghiere di san Filippo... Da san Filippo posò un notaio vecchio, uscito allora dal carcere dopo dieci anni per crimine di falso: ma le lunghe sofferenze gli avevano fatto un viso di martire, nel quale due grandi occhi splendevano di un fuoco selvaggio. Da duecentotrent'anni eccoci qui dipinti insieme a fare dei miracoli; tutto il mio quadro, vedi, è ornato di voti. Quante cose ho imparato da Madonna, che non sapevo nella vita malgrado tutti i disastri delle mie avventure! Preghiere e bestemmie salgono dal cuore umano come uno stesso vapore, che il vento spazza, perché il cielo non ne resti macchiato. In duecentotrent'anni fra le centinaia di migliaia venuti al mio altare supplicando non uno, che avesse il cuore puro o chiedesse soltanto per un altro! - Sei dunque la Madonna! - Anch'ella era una donna come me. Non piangere, povero ragazzo; la vita è sempre ugualmente infelice per tutti; nessuna preghiera, nessuna illusione può salvarla, nemmeno quella di un altro mondo. Se Dio esistesse, tutti sarebbero buoni e felici, perché contro di lui chi oserebbe ribellarsi? Invece la triste e cattiva anima umana è costretta a contendere tutto l'universo ad ogni altra anima per tentare di essere egoisticamente felice nel minuto della propria esistenza. Tu solo, povero ragazzo, in duecentotrent'anni ti sei inginocchiato al mio altare pregando non per te. - Oh! Maria, Maria! - egli singhiozzò. Ma l'altra seguitò con voce più dolce: - Tu preghi per lei senza aver preteso prima al suo amore, per lasciare quelli, che ne sarebbero nati, ad espiare nella durata dei secoli umani la vostra voluttà di un minuto. Ora non chiedere che risorga; ma il miracolo che invocavi è già compìto. La mia apparizione ti resterà qui confitta nella mente per sempre fino al giorno della morte. E chinandosi adagio mentre egli la guardava col volto mezzo nascosto fra le palme, lo toccò appena coll'indice della mano destra sulla fronte. - Va: tutto d'ora innanzi sia diverso per te. Ella indietreggiò salendo verso il quadro prima ancora che egli ubbidendo al comando si alzasse colla faccia bianca e gli occhi secchi. I fiori gli mandarono intorno un ultimo buffo di odori. Traversò tutta la chiesa stretto nel mantellone nero come quando era uscito cinque o sei ore prima dall'uscio della sacrestia per andarsene, e spingendo colle spalle il pesante portello si nascose dietro l'ombra del tamburo, nel quale si apriva dal di dentro la porta della chiesa. La mattina il sacrestano ancora assonnato non lo vide nel tirare i chiavistelli; nevicava ancora. Giannino venne dritto a casa e si mise subito a letto sorpreso da un gelo di febbre acutissima: naturalmente la vecchia nei primi due giorni non se ne occupò giudicandolo un caso piuttosto violento di raffreddore, poi gli altri vicini lo seppero, e fu chiamato un medico che abitava al pianterreno. Questi, sinistramente impressionato, invece di spiegarsi sulla diagnosi ordinò dell'antipirina con applicazioni assidue di ghiaccio sul capo. Però mancando i danari per tutto questo, nessuno li offerse. Otto giorni dopo suo padre, disceso alla città per riscuotere la paga e ricevere le istruzioni dell'ingegnere provinciale, seppe il triste caso. Le sue prime parole furono di lagnanza per non avere relazioni sufficienti da far ricevere il ragazzo nell'ospedale; questi invece non parlava, ma riconosceva ancora la gente, e ad ogni domanda si portava l'indice della mano destra alla fronte, appoggiandone la punta proprio dove il dito della Madonna lo aveva toccato. Il miracolo si compiva. Dopo qualche giorno Giannino non riconobbe più alcuno: adesso, da quattro anni, è ancora nel grande manicomio di Imola, sempre vestito da seminarista, cosicché lo chiamano il "vescovo". Questo nomignolo lo ha perseguitato sino laggiù.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 2 occorrenze

Se tu non lo facessi, io dovrei dirgli di partire, e lontano di qui sarebbe anche più abbandonato e infelice. Saprai essere forte contro le sue insinuazioni, Maria? Roberto aveva nella voce e nello sguardo quell'affascinante dono della persuasione, proprio degli apostoli, di coloro che parlano al cuore degli individui e delle masse, fascino indescrivibile che sfugge ali' analisi e che consiste forse nella grande armonia fra il pensiero e il sentimento. Maria subì il fascino delle parole e dello sguardo paterno e si gettò nelle braccia di Roberto, commossa. Egli la baciò affettuosamente e nell'alzarsi disse a bassa voce a Velleda: Ci sarà fatale, Franco? Ella non rispose. I suoi presentimenti erano sinistri, ma non voleva turbare la pace di quella grande anima, e i sibili del vento, la burrasca che si scatenava sulla villa; le parvero in quel momento i prodromi dell'altra che sentiva accumulare sulle loro teste.

Vedendo uscire i guardiani, hanno creduto di poter meglio compire il furto, mentre lo stabilimento era quasi abbandonato. Ecco quello che ha confessato il malandrino e a questa rivelazione lo ha spinto il timore di esser complicato in un affare più grave: quello del rapimento della signorina. Inoltre, pare provato che i malandrini non avessero nessun rapporto con Alessio, il quale la sera del fatto fu visto fino alle nove in un osteria a Castelvetrano, mentre gli altri erano già a quell' ora nei dintorni dello stabilimento e non si sa che sieno mai stati in città negli ultimi tempi. Ma Alessio allora? Probabilmente avrà altri compiici; ma il giudice istruttore è sicuro che il movente dell'attacco allo stabilimento era il furto, mentre qui era invece la vendetta. Ma come è possibile che tanta gente congiuri contro di noi! - esclamò Velleda presa dallo sgomento. I carabinieri, mentr'ella parlava, si mostrarono nel viale, tornando da una perlustrazione. Oh! se si potesse vivere in pace come prima! disse la signora. - Tutti questi timori che ci agitano di continuo, questo malvolere che ci circonda, queste cupidigie insensate che si manifestano con tentativi di rapine e con uccisioni, disgustano della vita e del 0116 soggiorno in questo luogo. Povero signor Roberto! Egli si studia con ogni mezzo di fare il bene e raccoglie invece dolori! E per il primo maggio, a proposito? Ha ricevuto istruzioni? Sì, doman l'altro gli operai lavoreranno fino a mezzogiorno soltanto. Questo è l'ordine. In quel giorno però scemeranno una parte delle sue responsabilità, aggiunse il Varvaro. Come mai? - domandò Velleda. La sera giungerà il signor Roberto: domattina egli parte da Roma. E non me lo diceva! - esclamò Velleda. Avevo ordine di non rivelare a nessuno l'arrivo di lui. Egli non vuole neppure la carrozza alla stazione. Andrà a dormire dai Moltedo; nella sera parlerà con il giudice istruttore e forse con Alessio, che domani sarà tolto dalla corsia comune dell'ospedale, perché nessuno assista alle interrogazioni che vuol rivolgergli il signor Roberto. Da Roma egli ha disposto tutto. Oh! creda, se fosse stato qui, nessuno avrebbe osato turbare la nostra quiete. Egli incute timore e rispetto; egli sa far rispettare la sua persona e i suoi averi. Maria corse sulla terrazza per chiedere un pezzo di zucchero e Velleda si alzò per darglielo. Avrebbe voluto interrogare ancora il Varvaro, sentirlo ancora parlare di Roberto con affetto e ammirazione, ma parevate di aver lasciato troppo tempo solo il duca e rientrò in sala. Ella prese un ricamo: una portiera di raso sulla quale trapuntava grandi fiori in seta, e curva su quella rimase a parlare con Franco. La felicità la rendeva eloquente, e senza dire che Roberto sarebbe tornato tra due giorni gli dipingeva con vivaci colori l'esistenza lieta che avrebbero menato allorché suo fratello fosse stato in mezzo a loro. - Tutto langue ora in questo luogo, - ella diceva, 0117 perché l'anima manca; ma vedrà come ogni piccolo avvenimento si cambia in festa, come ogni cosa risorge. Mentre parlava pareva a Franco che dietro la pelle alabastrina del volto di Velleda si accendesse una face, illuminandola dall'interno. Quella face è l'amore, - pensava Franco fissandola con sorda gelosia. - Basta che senta parlar di lui, che ne parli, perché ella si trasformi. Le spariscono dal volto le tracce delle sofferenze, le svaniscono dalla mente i timori e le ansie; ella rivive, palpita e ogni sguardo contiene un inno di adorazione, ogni parola è una carezza per l'assente. Oh! che adorabile, che unica amante deve essere quella donnina, che si concede tutta col pensiero, che non ha finzioni, non ha reticenze! E la guardava sempre più avidamente, fingendo di seguire con l'occhio i fiori delicati che pareva sbocciassero sotto le sue manine bianche, senza anelli, trasparenti come il volto; quelle manine di cui Franco sognava le carezze blande sulla faccia e nei capelli. A un certo momento il Varvaro si alzò per ritornare alla sua casa e il duca dovette seguirne l'esempio. Tutti e due, ogni sera prima di andarsene, facevano una ispezione al giardino dalla parte interna e poi da quella esterna, insieme coi carabinieri e affidavano a Saverio, che ora dormiva alla villa, la cura di chiudere le porte. Soltanto dopo essersi assicurati che non vi era nulla da temere, andavano allo stabilimento. Essi non permettevano che Velleda si esponesse più, e la signora, per non lasciare sola Maria in camera, vi si rinchiudeva insieme con lei e mentre la bambina dormiva, ella scriveva o leggeva. Costanza dormiva, come si è visto, nella camera accanto, e Saverio, sul ripiano della scala, sopra una materassa che poneva attraverso all'uscio della camera in cui Velleda vegliava. 0118 La felicità quella notte impedì alla signora di sentir la stanchezza. Ella rimase lungamente seduta a una scrivania, rileggendo la lettera memorabile di Roberto, quella cui ella non aveva potuto rispondere subito. Gli aveva scritto però il giorno dopo, senza reticenze, senza false vergogne, col cuore. Non s' era mostrata sorpresa della confessione dell'affetto di Roberto, ne della sicurezza che egli dimostrava di esser corrisposto. Accettava i voleri di lui perché non aveva più volontà propria, ne vita propria; perché soltanto accanto a lui poteva vivere. Dal momento che questo grande affetto mi ha soggiogata, - avevagli scritto, - io ho sentito che nel mondo sussisto la felicità, che la vita ha le sue gioie; come il deserto ha i suoi fiori, e che sui ruderi di una esistenza barbaramente angosciata; può costruirsene una nuova. E la felicità che provo io non la vedo limitata al presente, ali' età delle illusioni, alla breve gioventù che ci riinane; ma io la vedo estesa ai tardi anni della vecchiaia, la vedo raggiare dai nostri volti rugosi, estrinsecarsi in una grandiosa opera d'amore in cui i nostri cuori si rinnoveranno sempre, sempre giovani fino alla pausa suprema, alla quiete della tomba. In questi giorni stessi di angosce continue, io sento la carezza del suo affetto, sento la forza che m'infonde, la lucidità che presta al mio cervello; sento il legame che stabilisce fra noi, a tanta distanza, e che mi sostiene e mi sprona a proteggere tutto ciò che le è caro. L' assicurazione che ella mi da, che senza un ostacolo vivente mi avrebbe fatto il dono del suo nome, mentre mi strappa lacrime di tenerezza, non desta in me nessuna meraviglia. La stima di cui mi circonda; il dominio assoluto che mi ha dato sulla sua casa, la fiducia che ha in me, grande, completa, mi dicono ben chiaro che, liberi entrambi, ella mi avrebbe affidato il suo nome che io avrei accettato umilmente, sentendo tutta la grandezza 0119 del dono e tutta la felicità di riceverlo. Perché io non mi sento umiliata del mio passato. Se sono stata vittima delle colpe altrui, non ho fatto nulla che la coscienza mi rimproveri. E in mezzo alle tentazioni di una esistenza agitata credo mi abbia salvato il presentimento che un giorno avrei incontrato un uomo buono, onesto, dinanzi al quale dovevo poter alzare serenamente gli occhi, cui volevo poter offrire un cuore degno del suo. E questo giorno è venuto e io ho ora un premio insperato che mi compensa della vita solitària, dolorosa; che mi compenserebbe di mille martirj più atroci di quello sofferto. Io sono, mio buon signore in atteggiamento umile dinanzi a lei, come Maria all'annunzio dell'angelo, perché mi piace ringraziarla di tutti i doni che sparge sul mio capo, perché sono commossa; ma non chino la fronte contrita come la Maddalena dinanzi al Signore, il rossore non mi copre le guance; io sono degna di lei. Questo aveva scritto Velleda al suo buon signore, come ella lo chiamava qualche volta soltanto, ma le pareva di non aver saputo esprimere tutta la gioia che provava il suo cuore, di non aver saputo sciogliere l'inno di riconoscenza, che, come melodia divina, sentiva fluttuare nell'anima, e ripensando a quella lettera, guardava la penna posata accanto al calamaio, considerandola come strumento insufficiente a esprimere con parole un sentimento più grande delle cose che si prestano alla descrizione. E intanto che ella affrettava col pensiero il ritorno di Roberto e pregustava la gioia di rivederlo senza rammentare che le ore trascorrevano mentr' ella meditava, un'altra creatura vegliava, a pochi passi da lei; vegliava agitata, rosa dall'amore e dall'odio, due sentimenti che s'erano imposessati del suo cuore. Quella vegliante era Costanza. Da otto anni, cioè dal tempo della nascita di Marla 0120 ella era in casa di Roberto Frangipani. Egli l'aveva fatta venire dalla Piana de' Greci, il paese che dà le più belle nutrici alle famiglie signorili della Sicilia. Costanza aveva perduto il suo bambino un mese prima di partire da casa, e il buon posto che aveva trovato parve a lei e al marito una fortuna. La balia aveva allora diciotto anni ed era un fiore. La morte della signora, il grande affetto che Roberto aveva per la sua piccina, crearono a Costanza una situazione invidiata e comoda alla villa. Ella abitava al primo piano, era servita, pranzava sola e il padrone le faceva continui regali. Ebbe la fortuna che Maria crescesse bella e forte, e di questo si faceva un merito alla nutrice. Chiese un aumento di salario e l'ottenne; era vana ed ebbe vesti sfarzose, ricamate d'oro alla foggia del suo paese, e gioielli come ne portano le paesane della Piana dei Greci. Il benessere, la vita comoda, la speranza di non lavorare più la fecero affezionare alla casa e alla bambina; anzi l'amore per Maria si fece dispotico ed esclusivo; non voleva altre donne in casa, e al marito, che la richiamava supplichevolmente in famiglia, rispondeva inviando denaro perché comprasse terre, ma non movevasi di dov'era. Nell'esser sempre vicina al giovane signore, Costanza vagheggiò il pensiero di farsene amare, di essere la distrazione, se non la consolazione della vita vedovile di lui, ma dovette convincersi che Roberto non la guardava neppure e se non l'allontanava era soltanto perché credeva che nessuna donna avrebbe potuto voler bene alla bambina quanto lei, che avevale dato il suo latte. Di questo disprezzo della sua bellezza, Costanza sentì sempre una ferita alla sua vanità muliebre, ma la speranza di sanarla un giorno e il tornaconto che trovava nel rimanere in quella casa, la indussero a celarla con cura. Durante tutta l'infanzia di Maria, ella dominò alla villa. Il padrone, per non staccarla dalla bambina, la conduceva 0121 seco nelle gite in mare, in carrozza e se andava a Palermo, a Napoli o altrove, Costanza lo accompagnava sempre. Il marito di lei, vedendo aumentare ogni anno i loro possessi, aveva finito per consolarsi della lontananza della moglie e non la richiamava più. Spesso, fino dal tempo in cui Maria aveva cinque anni, Robetto aveva voluto a fianco una signora, ma Costanza aveva tanto pianto, si era tanto disperata, che il padrone commosso avevale lasciato la cura esclusiva di Maria. Ma quando la bambina ebbe circa sette anni Roberto chiamò un giorno Co' stanza e le disse: La signorina deve essere educata ed istruita. Se volete continuare a starle vicina, dovete assuefarvi al pensiero che in casa venga una istitutrice. Se vi opponete, se istigate la bambina contro di lei, vi rimanderò alla Piana de' Greci. Questa volontà ferma fu significata con un tono calmo; che non ametteva replica e Costanza chinò il capo e non dette in ismanie. Fu allora che Roberto scrisse a Firenze per avere una istitutrice. Per più mesi non si parlò più dell'arrivo di quella, ma in quel tempo sopravvenne un cambiamento notevole nei sentimenti di Costanza. Alla villa era stato chiamato a lavorare il più abili: falegname dello stabilimento: Alessio, al quale il padrone voleva molto bene. A lui, per dargli un salario maggiore e anche per poterlo meglio sorvegliare; aveva affidato un lavoro importante, che consisteva nel rivestire di scaffali il suo stadio per collocarvi la biblioteca, che. cresceva continuamente, poiché Roberto riceveva invidi libri quasi ogni giorno. Quelli che si riferivano alla vinicoltura, alla chimica erano tutti allo stabilimento ma i libri di arte, di letteratura, di storia di archeologia stavano alla villa, perché il giovane studioso aveva diviso in due parti la sua vita: una dedicandola al lavoro 0124 - Addio, e tu come ti chiami? - domandò Alessio. Costanza Arcanica. Costanza la strega, ti chiamerò io. Perché? Non lo so; a te, mi pare, debban somigliare le streghe. Tu sarai orribile da vecchia, Costanza. E tu sarai sempre bello, Alessio. La voce di Maria si fece udire dalla sala, e Costanza uscì in fretta dalla stanza. La mattina dopo- l'operaio s'era appena rimesso al lavoro che la donna comparve. Buon giorno, Alessio, - disse. Buon giorno, strega. Ti ho stregato forse? Oh! no, - ribattè il giovane con fare sprezzante, Ci vogliono altre donne che te per un pari mio. Costanza abbassò il capo umiliata. Nessuno mi ha detto mai che fossi brutta. Bella non sei, - disse l'operaio avvolgendola in uno sguardo freddo sotto il quale Costanza tremò da capo a piede e non ebbe più coraggio di restare in quella stanza. A mezzogiorno trovò il mezzo di andargli a portar la colazione nel tinello e lo serviva attentamente. Alessio la lasciava fare e ogni tanto le gettava una parola dura, sprezzante per vederla fremere da capo a piede, per fissarla negli occhi lampeggianti. Perché non te ne vai, come dianzi? - le domandò a un certo punto. Perché preferisco il tuo sprezzo alla tua lontananza ; perché mi hai messo il fuoco addosso. E come lo vuoi spegnere quel fuoco? Con le carezze, - rispose ella, - e con un gesto rapido del braccio destro, gli cinse il collo e lo baciò sugli occhi. Poi fuggì ansante in giardino premendosi il cuore, allargandosi il colletto dalla camicia, come se si sentisse soffocare. 0125 In tutto il giorno non ritornò nella stanza in cui lavorava Alessio, ma la sera era ad attenderlo sul viale della villa, mentre Maria giocava alla palla a poca distanza. Addio strega! - le disse l'operaio quando le fu vicino, - L'hai spento il fuoco? No, ardo più che mai da che ho posato la bocca sul tuo volto, Alessio. Egli fece una mossa indifferente con la spalla e si mosse per andarsene. Ella lo trattenne e gli disse: Alessio, abbi compassione di me; sarò la tua schiava, amami. Ti farò felice. Ho in serbo tesori di tenerezza e li spargerò tutti sul tuo petto. Alessio, amami! Ne riparleremo, - rispose lui e avvolgendosi nel mantello breve, si mise a camminare cantarellando. Costanza rimase a guardarlo per un pezzo, mentre si allontanava fra le piante d'appio e le palmette, ferma e rigida come una statua; poi umiliata, a testa bassa tornò accanto a Maria. Nella notte seguente non dormì mai. Stendeva le braccia in cerca di lui, protendeva le labbra e lo vedeva nelle tenebre sempre dinanzi, con quel ghigno di sprezzo sulle labbra, quegli occhi affascinanti e quei muscoli di uomo forte. Se le veniva fatto di figurarsi che la stringesse fra le braccia poderose, sentiva un brivido correrle per la schiena e intravedeva mille voluttà ignorate nella breve vita coniugale. Oh! se mi amasse! - diceva mordendosi le mani, e le parole sprezzanti di lui tornandole alla memoria acuivano i suoi spasimi amorosi. Era "una febbre violenta che l'aveva assalita, uno di quei ribollimenti improvvisi del sangue che si verificano nelle nature ardenti, condannate a una lunga castità. Così smaniò tutta la notte e all'alba girava per la casa silenziosa iu attesa di Alessio, da cui non osava sperare 0126 conforto, spinta da un desiderio prepotente a rivederlo a implorare da lui la felicità. Nella mattina non potè mai parlargli, perché il padrone era insieme con Alessio, sorvegliandone e dirigendone il lavoro, e in quell'attesa la smania di Costanza si convertì in spasimo. Appena ella vide il padrone uscir fuori della villa, entrò di corsa nella stanza ov' era Alessio, e, senza parlargli, gli buttò le braccia al collo, baciandolo furiosamente sulla bocca. Strega, vattene! - le diceva Alessio senza però respingerla, lusingato da quell' ardente passione che aveva destato nella donna e infiammato dai baci di lei. Costanza non gli dava retta e continuava a coprirlo di carezze. Ora lo baciava sul collo, su quella linea scura che lo circondava come un nastro e diceva fra i baci : Come sei bello! Amore! Vita mia! Da quel momento die ella non si vide più respinta, correva di continuo da Alessio a baciarlo. Ma quei baci non smorzavano il fuoco che la consumava; erano a quella fiamma nuovo alimento. Un giorno Alessio le disse fissandola: Dimmi, strega, quando si fanno le nozze? Ella credè impazzire, benché fosse preparata a quella domanda. Stasera, durante il pranzo del padrone; aspettami nella grotta dopo la capanna del bagno; non ti far vedere da nessuno, sii prudente. Egli fece un gesto come per dire che lasciasse fare a lui: non era un novizio, e con la testa le indicò la porta. Al tramonto s'incontrarono nella grotta, ove l'acqua del mare penetrava nei giorni di burrasca, lasciandovi un letto d'alghe. E su quel letto umido, odoroso e cosparso di conchiglie e di frammenti marmorei, quelle due creature quasi selvagge si unirono senza pronunziare 0127 una parola. Costanza tenne tutte le sue promesse, e quando si lasciarono ebri ancora, egli le disse brevemente : - A domani sera, strega. Ah! dunque tu mi desideri ancora! - ella esclamò trionfante. Alessio non rispose e si allontanò sollecitamente per raggiungere la distesa delle alte piante di fichi d'India, fra le quali era più facile camminare senza esser veduto. Costanza lentamente tornò a casa pallida, con gli occhi ardenti; e salita in camera sua si gettò in ginocchio a pregar la Madonna che proteggesse il suo amore e le serbasse Alessio. Ella non aveva neppure il sospetto di commettere un sacrilegio, tanto la sua religione era impastata di reminiscenze pagane penetrate nella sua coscenza col sangue e di superstizione alimentata giornalmente dalla ignoranza. Nei primi tempi Alessio non mancò mai ai convegni e ora s'incontrava con la Costanza nella grotta marina, ora sotto le lunghe rame di una carrubba, che li avvolgeva col suo fogliame scuro, ora in una casupola abbandonata a poca distanza della villa. Poiché egli fu sazio delle carezze ardenti della donna, si fece pregare, supplicare, e quelle suppliche sollecitavano la sua vanità. Spesso le dava un convegno e poi mancava. Costanza dava in ismanie, pregava la Madonna, poi faceva le carte per vedere se era tradita e non riacquistava la pace altro che quando lo stringeva fra le sue braccia frementi di passione e lo vedeva desideroso di lei. In questo tempo Velleda giunse alla villa e Costanza non l'accolse ostilmente, perché sperava di avere maggior libertà ora che la signora si sarebbe occupata di Maria. Velleda, con la sua grazia tranquilla esercitò subito una specie di fascino su quella creatura quasi 0128 selvaggia. La signora era inoltre delicata, e la bellezza parla sempre alle anime meridionali e le induce alla simpatia. Poi Velleda non era superba; anzi parlava a Costanza con bontà e non le diceva di uscire quando talvolta divertiva Maria narrandole novelle meravigliose, che la contadina ascoltava a bocca aperta, che la distraevano dal pensare ad Alessio e l'aiutavano a trascorrere meno angosciosamente le ore in attesa dei convegni. Alessio aveva terminato di lavorare alla villa e Roberto lo aveva generosamente ricompensato. Ma la generosità del padrone invece di commuovere quell' anima pervertita; gli dette sete di maggiori guadagni. Allo stabilimento lavorava di più e era pagato meno. Fu allora che si diede a sobillare i compagni, spingendoli a chiedere un aumento di salario. Il malcontento, nato nell'officina dei fusti, si propagò ben presto ai magazzini, e un sabato sera, mentre Roberto era occupato a firmar lettere nello studio, si presentò un guardiano ad annunziargli che una deputazione di otto operai chiedeva di parlargli. A Roberto non erano sfuggite le mene e i chiacchierii di quegli ultimi giorni e capì subito di che si trattava, ma dette ordine che passassero. Alla testa degli operai era Alessio ed a lui gli altri lasciarono la parola. - Noi non possiamo continuare a lavorare alle condizioni di prima. - disse. - Vogliamo un aumento di salario. Lo stabilimento prospera e noi abbiamo diritto a viver meglio. Roberto s'era alzato e dominava tutti con l'alta persona. La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679084
Perodi, Emma 9 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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La bella Contessa camminava alla testa dei porcianesi, i quali, vedendo una donna dar loro l'esempio del coraggio, si vergognavano di aver abbandonato il loro signore e fremevano di vendicarlo. Essi incolpavano quei fili miracolosi di averli resi così vili. - Prima si combatteva anche senza quelli e si moriva, - dicevano. - Dopo che non li abbiamo più avuti, c'è mancato il coraggio; ma ora ... I nemici, sicuri che i porcianesi, privati del loro capo, si terrebbero più che mai sulla difesa senza pensare all'attacco, non avevano lasciata nessuna retroguardia. Sicché essi si videro assaliti all'improvviso, e non avevano ancora dato mano alle armi, che la contessa Luisa piombava nelle loro file, brandendo la rôcca e gridando: - Per sant'Anna, alla riscossa! Dietro a lei, volendo lavar l'onta subìta, si slanciarono i porcianesi e, ferendo a destra e a sinistra, passavano come un turbine in mezzo a quelli di Bibbiena e di Fronzola. La Contessa si avanzava sempre fra i nemici sgomenti, che non osavano colpirla, e così giunse a un gruppo di guerrieri in mezzo ai quali riconobbe il marito con i polsi carichi di catene. - Per sant'Anna, alla riscossa! - gridò di nuovo in quel momento. E maneggiando la rôcca, come se fosse stata un'arma, giunse fino a messer Gherardo, intanto che i suoi continuavano a far strage dei nemici. In pochi istanti, di tutti i guerrieri che circondavano il prigioniero, non ne era rimasto uno solo salvo. Allora ella sciolse dai ceppi il marito e, raccolta la spada di un caduto, gli disse: - Ora combatti! Il Conte non aveva bisogno di quell'incitamento. Egli si mise alla testa dei suoi, ritornati prodi come per il passato, e continuò la pugna. Il conte di Fronzola giaceva ferito in terra, il signor di Bibbiena era in un lago di sangue, e le schiere dei due signori si davano a fuga precipitosa. Ben presto sul campo del combattimento non rimase un solo nemico capace di reggere un'arma. Il conte Gherardo fece trasportare al castello i due capi degli assedianti, e subito ordinò che si procacciassero vettovaglie per Porciano. Quindi risalì al suo palazzo con l'amata sposa, che l'aveva salvato con la prontezza e il coraggio. - Ti sono debitore della vita; - le diceva commosso, - senza di te sarei morto, oppure sarei rimasto per sempre prigioniero dei miei nemici. Oramai egli non temeva più nessun attacco, ma non restituì così presto il ferito signore di Fronzola né quello di Bibbiena, per avere in mano ostaggi tali che gli permettessero di dettare patti vantaggiosi di pace. Le trattative furono assai lunghe; i fronzolesi e i bibbienesi consumarono la strada che metteva a Porciano per riavere i loro signori. Prima offrirono forti somme di denaro, che al conte Gherardo non parvero sufficienti; poi unirono a quelle somme l'offerta di molti capi di bestiame, e neppur allora il signor di Porciano l'accettò. Finalmente aggiunsero al denaro e al bestiame armi bellissime e tesori incalcolabili in argenterie, vasellami d'oro, che erano l'orgoglio delle famiglie Saccone di Bibbiena e Tarlati di Fronzola, e il conte Gherardo accettò l'offerta, tanto più che da due anni teneva prigionieri i suoi nemici e che la prigionia aveva ridotto i due fieri signori, due innocui invalidi. Allorché la pace fu conchiusa, egli ordinò grandi feste al suo castello, alle quali volle assistesse anche il suocero, per dimostrargli la gratitudine che gli serbava per avergli dato una moglie modello come la contessa Luisa, e un talismano che nessun altro possedeva. E volle che dell'esistenza del talismano fossero informati amici e nemici, affinché i primi ricercassero la sua alleanza, e i secondi fossero persuasi che era inutile molestarlo. E così da un dotto cappellano, che teneva al suo servigio, fece scrivere e copiare in molti e molti esemplari la storia della rôcca e dell'assedio di Porciano, e inviò questi esemplari per tutto il Casentino e anche più lontano. Poi fece costruire, nel circuito stesso del castello, un oratorio a sant'Anna, e sotto l'altar maggiore depose la cassa d'oro contenente la rôcca miracolosa, la quale si ricoprì di lana e servì a proteggere i porcianesi in ogni guerra. Ma venuto a morte il conte Gherardo e la contessa Luisa, i loro discendenti non ebbero più per sant'Anna la stessa venerazione; anzi, fecero struggere la cassa d'oro per batterne moneta, e la rôcca fu rinchiusa in una cassa di legno. Ma un bel giorno il filo della rôcca perdé la sua miracolosa virtù, e i porcianesi furono vinti e soggiogati. - E qui ha termine la novella, - disse il professor Luigi sorridendo, - la quale insegna molte cose, e fra queste una di speciale importanza. - E quale? - domandarono i bambini. - Che la fede è quella che opera veramente i miracoli. La contessa Luisa, che si slancia nelle file nemiche armata della sola rôcca, non ne è una prova? E questa fede ella non la comunicava soltanto ai suoi, ma anche ai nemici, che fuggivano sgomenti. Di questi fatti se ne hanno mille esempî nella storia; e ora che la fede è quasi morta, i miracoli non si vedono più. Ma allorché quella fede era viva, gli uomini, sicuri di esser protetti dall'alto, operavano sforzi così possenti, da far credere che le loro forze fossero centuplicate. E questa credenza in un intervento soprannaturale, la troviamo nei più antichi popoli. I greci, all'assedio di Troia, quando si credevano protetti da Minerva e da Giunone, operavano miracoli; appena i troiani supponevano da qualche indizio che Venere, la dea con gli occhi glauchi, combattesse nelle loro file o intercedesse presso Giove, baldi tornavano all'assalto. Enea stesso, nel suo periglioso viaggio dall'Asia alle sponde del Tevere, fu sostenuto, in mezzo a mille pericoli, dalla convinzione che il Cielo lo guidasse; i Cristiani poi, animati da questa fede, più volte hanno pugnato contro gl'Infedeli e li hanno vinti. Ora, alla fede nel soprannaturale si è sostituita la fede in un'idea o in un uomo, e si sono visti, anche recentemente, dei popoli insorgere e battere nemici molto più forti di loro, sostenuti soltanto dal pensiero della redenzione di una patria sminuzzata e avvilita. A Garibaldi, all'eroe maraviglioso, non attribuivano i siciliani, che lo avevano veduto sbarcare con i suoi Mille a Marsala, un potere soprannaturale? E quando ebbe corso, trionfante, tutta la Sicilia, dal Lilibeo a Messina, non dissero che era figlio di una Santa, di santa Rosalia, o del Demonio? E questa convinzione che egli fosse aiutato da un'occulta potenza, non dette ai siciliani l'ardire d'insorgere contro i Borbonici, di accorrere a migliaia fra le schiere garibaldine, e di pugnare con coraggio indomito? - Ha ragione: - disse Cecco, - la fede nell'aiuto soprannaturale, la fede in un'idea, la fede in un uomo, la fede in noi stessi, ecco la spiegazione di tanti fatti che ci sembrano miracolosi e che la fantasia popolare ha giudicato tali. - Vedo che mi avete capito; - disse il professor Luigi, - il miracolo io l'ammetto, ma lo spiego diversamente da molti altri. Figuratevi che una volta una mia parente fu morsa da un cane, che dopo cinque giorni morì arrabbiato. Ella non si era fatta bruciare, e, appena morto il cane, ella ebbe tutti i sintomi del terribile male: avversione al cibo e soprattutto alle bevande; desiderio di mordere, spasimi, dolori acutissimi alle ferite prodotte dai denti del cane. - Il padre di lei era uomo molto pio e aveva poca fede nei medici. Sapendo che nelle montagne, che sovrastavano al villaggio ove abitava la famiglia, v'era un santuario dedicato alla Madonna, vicino al quale scaturiva un'acqua miracolosa, fece porre la figlia in una lettiga, solidamente imbavagliata, perché non potesse recar offesa ad altri, e salmodiando la seguì a piedi nudi insieme con la famiglia, la servitù e i contadini. - Appena giunta al santuario e aspersa con l'acqua miracolosa, la ragazza guarì. Ora, non credete che fosse la fede potente che animava la malata, che le rendesse la salute? Io ne sono convinto. La Regina non era persuasa da quella spiegazione, e neppure le altre donne; ma Cecco disse: - La fede è ciò che salva l'uomo! Poi il bell'artigliere tacque, ma non cessò di pensare, e quando il professore Luigi e la moglie si furono allontanati, disse: - Cerchiamo di acquistarla, questa fede, in noi stessi, e vedrete che ci aiuterà a combattere lo scoraggiamento, che è il primo passo verso la rovina. Siamo giovani, siamo uniti, e perché non si dovrebbe trionfare di questa sventura, che pare voglia trascinarci? - Sì, abbiamo fede in noi, - ripeterono in coro i fratelli. La Regina non aveva detto una parola e piangeva in silenzio, commossa. Ella aveva fede e sperava.

La Teresona, disperata nel vederlo così abbandonato, pensò che non poteva lasciarlo in quel luogo, e, curvatasi su di lui, se lo caricò sulle spalle fortissime e pian piano lo portò a casa. Però, sapendo che suo padre era molto avaro e che le avrebbe ordinato di riportare quell'infelice dove lo aveva trovato, invece di metterlo sul letto del sensale o sul suo, lo nascose in soffitta, facendogli alla meglio un letto con foglie di granturco, fieno e coperte. "Se si riavrà, - pensava, - gli darò di che proseguire il viaggio; se morirà, gli scaverò una fossa; ma abbandonare così quest'infelice, non posso." Intanto lo sconosciuto non riprendeva conoscenza, per quanto Teresona gli stropicciasse le tempie e il naso con l'aceto, e cercasse di fargli trangugiare certo vino, che avrebbe rianimato un morto. L'ora del ritorno del padre si avvicinava, perciò Teresona chiuse a chiave la soffitta e, nonostante le rincrescesse di abbandonare l'infelice, scese in cucina a preparare la cena. Il sensale tornò a casa di cattivo umore; in quel giorno non aveva guadagnato un picciolo e, quando gli accadeva un fatto simile, se la prendeva per solito con la figliuola, che accusava di essere sprecona e di non sapere che cosa gli costasse a guadagnare tanto da tirare avanti la vita. Teresona non rispose, perché era una buona figliuola e lo lasciò sfogare quanto volle. Quando lo vide andare a letto e sentì che russava, si levò le scarpe, per non far rumore, e corse in soffitta a veder come stava lo sconosciuto; ma appena ebbe aperta la porta e, al lume della lucerna, ebbe veduto lo sconosciuto in piedi, mandò un grido e tremò da capo a piedi. - Chi m'ha portato qui? - domandò egli. - Io; - rispose umilmente la ragazza, - vi ho trovato svenuto nella selva e non ho voluto abbandonarvi. L'uomo, che aveva gettato uno sguardo di repulsione su quel mostro femmina, sentendo che ella lo aveva soccorso, vinse la ripugnanza che gl'ispirava e, avvicinandosi a lei, disse con voce dolcissima: - Vi sono grato di ciò che avete fatto per me; ma, per carità, non mi abbandonate. In seguito a gravi dolori ho dovuto fuggir da Firenze, e da molti giorni mi aggiro come una belva nei boschi. Sono stato còlto anche da questi lunghi, lunghissimi svenimenti; sono un infelice, soccorretemi! Teresona si sentì intenerire a quelle suppliche e, nonostante temesse l'ira del padre, pure promise allo sconosciuto che, se si contentava di stare in quella soffitta, lo avrebbe ricoverato e nutrito per alcuni giorni; e dopo esser riscesa a prendergli un po' di minestra avanzata dalla cena e un tozzo di pane, lo rinchiuse di nuovo e se ne andò a letto. La mattina dopo il padre uscì al solito per i suoi traffichi, e Teresona, rimasta sola e sicura ormai che per tutto il giorno il padre non sarebbe tornato, invitò lo sconosciuto a scendere per respirare una boccata d'aria. Ma egli ricusò dicendo che si sentiva tanto spossato che non aveva neppure la forza di alzarsi dal giaciglio di foglie e di fieno. Allora Teresona, che era assuefatta a vedersi respinta da ognuno per la sua bruttezza, gli domandò molto umilmente se gli faceva dispiacere che rimanesse a fargli compagnia. - Mi fate un piacere, anzi, - le rispose lo sconosciuto. - Non potete credere come la simpatia di una creatura buona scenda dolce nel cuore dell'esule. Era la prima volta che qualcuno le parlava così affettuosamente, e Teresona fu tutta commossa. Ella prese la rôcca e si mise a filare in un cantuccio della soffitta, senza parlare, accostandosi soltanto allo sconosciuto per domandargli se voleva prendere ristoro. Per quel giorno il forestiero parlò poco, ma il giorno seguente incominciò a narrare a Teresona la sua triste storia e le disse che era un signore fiorentino della famiglia Spini, preso di mira dal partito che governava la città, per la opposizione fatta a certe leggi ingiuste che quel partito voleva imporre. Avvertito in tempo da un contadino che lo cercavano per arrestarlo, era fuggito a cavallo, ma senza nulla. Vagando però nel contado aveva saputo che avevano messo una taglia sulla sua persona, e che i suoi beni erano stati confiscati. Mentre parlava, il ricordo forse delle angustie patite lo fece cadere in un nuovo svenimento. Teresona, vedendo che il giorno incominciava a declinare e temendo che il padre tornasse, dovette lasciare messer Spini svenuto e correr giù a preparare la cena. La povera ragazza era più morta che viva, e mentre attizzava il fuoco, pregava la Madonna che rendesse almeno la salute a quell'infelice, così misero, così solo! Quella sera ella mise una quantità d'olio nella minestra di fagioli, si scordò di salare il castrato, e quando suo padre giunse, nulla era ancor pronto. Il sensale la rimproverò acerbamente e non volle mangiare altro che un pezzo di pecorino dicendo che da allora in poi voleva cenare all'osteria, e a lei non avrebbe lasciato altro che pane e pattona, perché non voleva andare in rovina per quella sprecona di figliuola. Difatti mise ad effetto la minaccia, e fattosi dar la chiave della dispensa, dove teneva la carne salata, il vino e l'olio, la ripose in un canterano dove teneva i quattrini. Teresona andò a letto piangendo. - Madonna Santa, - diceva la ragazza, - come farò a sostenere quell'infelice che è più morto che vivo? E con la testa sul guanciale pensava e ripensava, senza trovare un mezzo per uscire da quel bertabello. Intanto si struggeva di non potere andare in soffitta dal fiorentino a vedere se si era riavuto, perché suo padre, che era rimasto in cucina col fiasco davanti, continuava a brontolare e pareva non avesse nessuna voglia di andare a letto. Teresona era al buio, in preda alla desolazione, quando a un tratto vide dinanzi agli occhi un gran chiarore come se il sole penetrasse sfolgorante dalla finestra, e, in mezzo a quella luce vivissima, scòrse una vecchia dall'aspetto venerando, che si avvicinava a lei, senza che i piedi toccassero il pavimento. - Ragazza mia, - disse la vecchia con voce dolcissima, - la diletta Figlia mia, la Santissima Vergine, che ha pietà degli afflitti e ne raccoglie le preghiere, mi manda a te. Se tu vuoi salvare messer Spini, questa notte stessa devi portarlo via da questa casa. Domani tuo padre andrà a rovistare in soffitta, e se lo trova lo consegnerà alla giustizia come ladro. Rammentati che io sono sant'Anna ... rammentalo! Dopo che la vecchia ebbe detto queste parole, la camera ritornò nelle tenebre e l'apparizione scomparve. Teresona lì per lì fu consolata, ma quando udì che il padre si mise a cantare in cucina con voce avvinazzata, disse fra sé: - Come farò a portare messer Spini fuori di casa, se il babbo non va a letto? Vergine Santa, aiutatemi voi! L'aiuto non le mancò, poiché poco dopo sentì un gran tonfo per terra e udì russare forte il vecchio sensale. Allora si vestì in fretta, senza mettersi le scarpe, e salita nella soffitta l'aprì. Messer Spini era sempre svenuto sul giaciglio. Ella cercò di destarlo, ma era fatica sprecata. Allora se lo caricò sulle spalle, e via, via, finché non lo ebbe deposto sopra un letto di musco a qualche distanza da casa. Però Teresona capì che, vestita da donna, sarebbe stata subito riconosciuta dalla gente, beffeggiata e vilipesa; perciò ella tornò a casa, si tagliò i capelli, si tolse le sue vesti, indossò i panni del babbo e via. Quando fu sulla soglia di casa ebbe un momento d'esitazione. Le dispiaceva di lasciar quell'uomo che, in fin de' conti, era suo padre; quella casa dove aveva vissuto ... e le pareva di far male ad andarsene; ma mentre stava così esitante, credé di udire una voce che le dicesse: - Tuo padre sarà contento di essersi liberato di te; non ti accorgi che non ti può soffrire? mentre l'altro ti vuol bene e ha bisogno del tuo aiuto. La voce era quella di sant'Anna, apparsale poco prima. Teresona non esitò più, e corse in cerca di messer Spini. Questi non era più immobile come Teresona lo aveva lasciato. Ma si dibatteva per terra e mandava gridi che somigliavano a urli di lupo affamato. - Madonna santa, ha il lupo mannaro! - esclamò la ragazza. E fece atto di fuggire; ma, vinta dalla compassione, si fermò, e, curvatasi sull'infelice, gli cinse la testa con le braccia poderose per impedirgli di ferirsi. Così rimase lungamente nel folto del bosco, sgomenta da quegli urli che potevano richiamar gente, sgomenta di non aver nessun mezzo per far cessare il male. A giorno, il malato si calmò; non urlava più, non si batteva più, e finalmente aprì gli occhi inebetiti. - Bisogna fuggire, - disse Teresona, - mio padre si desterà e si metterà a cercarmi; non bisogna che ci trovi qui. Messer Spini capiva poco quello che ella gli diceva, ma Teresona lo alzò da terra e, sorreggendolo, lo fece camminare in direzione del Pian di Campaldino. In mezzo alla vasta pianura sorgeva una casetta disabitata, dove la ragazza fece entrare l'infelice, e anche li trovò il modo di preparargli un letto di foglie e di fieno; ma come avrebbe fatto mai a nutrirlo? Peraltro Teresona era una ragazza coraggiosa, e le pareva che quegli abiti maschili che aveva indossati dovessero renderla irriconoscibile. Così, dopo aver raccomandato all'esule di non muoversi, andò fuori, sperando che le capitasse di guadagnar qualche cosa. Ma prima di uscire passò alcuni minuti in orazione e supplicò la Vergine Maria e sant'Anna di vegliare sul disgraziato fiorentino. La ragazza camminava alla ventura sulla via maestra in direzione di Poppi, quando le accadde di imbattersi in un grosso frate camaldolese, montato sopra un somaro. L'animale s'era impuntato e non voleva andare né avanti né addietro, e il monaco tirava la briglia, menava frustate; ma sì! era come dire al muro. Teresona, che era forte quanto un toro, prese il ciuco per la briglia e lo costrinse a camminare; ma appena lo lasciava, il ciuco impuntavasi di nuovo. - Giovinotto, - disse il monaco, - come vedi io son troppo pingue per far la strada a piedi e debbo trovarmi a Bibbiena prima di mezzogiorno: accompagnami fin là e ne avrai da me larga ricompensa. Teresona non se lo fece dir due volte, e seppe così bene costringer l'asino a camminare, che il monaco alle undici era già sulla piazza della Pieve. Egli scese di sella, e dopo aver messa una moneta d'argento in mano al suo accompagnatore, lo pregò di andarlo a riprendere il giorno dopo per accompagnarlo a Camaldoli, e gli avrebbe dato il triplo. La ragazza si sentì allargare il cuore, e dopo aver comprato a Bibbiena quello che occorreva per nutrire il malato e un pan tondo per sé, mangiando con grande appetito, tornò alla casetta del Pian di Campaldino. Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

Quella sera se l'attirò nel canto del fuoco, che non aveva ancora abbandonato, benché l'aprile fosse vicino, e le disse commossa: - Tu sei la mia ultima consolazione! Vezzosa, per interrompere quel discorso, la pregò di raccontare la novella, e la Regina, dopo essersi asciugate le lacrime, prese a dire: - C'era una volta un oste di Poppi, che era l'uomo più temuto di tutti questi dintorni. Egli non conosceva scrupoli, e, pur di ammassare quattrini, avrebbe rinnegato Cristo. Non c'era affare losco in cui non fosse mescolato, ma nessuno osava accusarlo pubblicamente, perché avea nomèa di feroce, vendicativo e sanguinario. Messer Cione ogni momento perdeva un parente, e il popolo di Poppi diceva che questo avveniva in punizione dei suoi peccati. In pochi anni gli era morto il padre, poi la madre, i fratelli, due figli e per ultimo la moglie, una creatura buona e paziente, che sopportava tutte le prepotenze del marito senza lagnarsi. Credete che per questo messer Cione si mostrasse abbattuto? Neppur per idea. Non s'era vestito a lutto, non aveva fatto dir messe per il riposo dei suoi morti, e a chi gli porgeva consolazioni, rispondeva: - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! Il giorno dei Morti era sempre un giorno di lutto per gli abitanti di Poppi, com'è anche ora, e per tutti. La gente pensava ai proprî defunti, pregava per loro, assisteva alla messa e all'ufizio e portava ceri sulle tombe. Chi poteva, faceva elemosine e ordinava messe, e sarebbe parso un sacrilegio, in quel giorno funebre, di divertirsi. Messer Cione non solo non pregava né si mostrava afflitto, ma canzonava ben bene, di sulla porta dell'osteria, vuota di avventori, quelli che andavano in chiesa a pregare. - Chi muore giace, e chi resta si dà pace! - ripeteva egli. Le donne, nell'udirlo dir così, si facevano il segno della croce; gli uomini abbassavano il capo senza rispondergli: ma sì gli uni che le altre lo riputavano empio, e avrebbero scommesso chi sa che cosa che era già dannato avanti di morire. Un anno, il dì dei Morti, durante la messa, s'era fatto vedere a tavola davanti all'osteria a mangiare e bere con due o tre soggettacci di Romena, gente che lo aiutava nelle faccende losche; quando ebbe mangiato a strippapelle, si fece portare i dadi e si mise a giocare e giuocò tutto il santo giorno, dando scandalo a quanti passavano. La sera, mezzo brillo, accompagnò i tre soggettacci fino a Romena, e dopo di aver fatto baldoria anche là, se ne tornò a Poppi cantando una canzonaccia. Quando passava davanti alle immagini della Madonna, murate nella cappellina o sulle facciate delle case de' contadini, batteva col bastone l'erba delle prode, senza aver paura di ferire le anime che in quella notte popolano la campagna. Così cantando e agitando il bastone, giunse a un punto dove facevano capo due vie scendenti da Poppi. La più lunga era posta sotto la custodia del Signore, mentre la più corta era frequentata dai morti. Molta gente, nel passarvi di notte, aveva veduto cose da raccapricciare; ma nessuno osava raccontarle, altro che in mezzo a una brigata numerosa. Messer Cione, per altro, non aveva paura neppur del Diavolo, e prese la via più breve fischiettando allegramente. Era una notte senza luna e senza stelle e il vento impetuoso faceva turbinare le foglie; i cespugli tremavano come persone che avessero paura, e in mezzo a quel silenzio i passi di messer Cione echeggiavano sinistramente; ma egli non aveva paura. Passando accanto a una casa abbandonata, sentì la banderuola che diceva: - Torna addietro! Torna addietro! Torna addietro! Messer Cione non badò a quell'avvertimento, e giunse a un rigagnolo, ingrossato dalla pioggia caduta poco prima, che diceva: - Non passare! Non passare! Egli non badò neppure a questo secondo avvertimento, e, posato il piede sui sassi che erano attraverso il rigagnolo, passò dal lato opposto. Giunto che fu a una vecchia quercia, col tronco vuoto e coi rami scossi dal vento, sentì dire: - Resta qui! Resta qui! Resta qui! Ma ser Cione percosse l'albero col bastone che aveva in mano e affrettò il passo. Alla fine penetrò nel luogo dove bazzicavano le anime. In quel momento, all'orologio di Poppi e a quelli dei castelli vicini, scoccò la mezzanotte. Un altro sarebbe scappato; ser Cione invece, per dar prova di coraggio, si mise a cantare una canzonaccia. Ma nel tempo che cantava la quarta strofa sentì il rumore di una carretta tirata da cavalli senza ferrare, e la vide, infatti, nel buio, che si avvicinava a lui, coperta di una coltre da defunto. Allorché la carretta fu a breve distanza, la riconobbe per la carretta della Morte. Era tirata da quattro cavalli neri, con le code così lunghe che spazzavano il terreno. Seduta sopra una stanga stava la Morte in persona, con una frusta di ferro in mano e ripeteva sempre: - Tirati da parte o ti metto sotto! Tirati da parte o ti metto sotto! Ser Cione si scansò, ma senza turbarsi. - Che fai qui, madonna Morte? - le domandò sfacciatamente. - Prendo, sorprendo e porto via, - rispose il brutto fantasma col viso di scheletro. - Sei dunque una ladra e una traditrice? - continuò ser Cione. - Sono quella che colpisce senza sguardo e senza riguardo. - Cioè una sciocca ed un'assassina. Allora non mi stupirebbe che in codesta carretta tu ci avessi dei compari per darti manforte a commettere le tue infamie. Ma, dimmi un po', perché hai tanta fretta e martorizzi i poveri cavalli con codesta frusta di ferro, che non ho mai veduto usare da nessuno? - Sappi, - rispose il fantasma, - che debbo andare a prendere messer Cione, l'oste di Poppi. Addio! Ciò detto frustò i cavalli, e via. Ser Cione si mise a ridere e non si turbò per questo. Nel giungere a una siepe di pruni, che metteva al lavatoio, vide due donne bianche e belle, che sciorinavano i panni di bucato. - Perbacco! - disse, - ecco due ragazze che non hanno paura del sereno! Perché, belle fanciulle, state fuori a quest'ora? Il coprifuoco è sonato da un bel pezzo, e a Poppi non potrete entrare fino a domattina. Siccome io pure ho fatto tardi, non sarebbe male d'ingannare il tempo ciarlando; che cosa fate? - Noi laviamo! - risposero le due donne. - Me ne rallegro tanto, ma ora non lavate. - Ora rasciughiamo, - soggiunsero le due donne. - Con questa nottata non rasciugherete neppure un moccichino. - Non dubitare, rasciugheremo, e intanto ci metteremo a cucire. - Che cosa? - domandò l'oste. - Il lenzuolo del morto che cammina e parla ancora. - Ditemi un po', come si chiama questo morto? - Messer Cione, l'oste di Poppi, - risposero le donne. Ser Cione rise più forte della prima volta quando aveva inteso pronunziare il suo nome dal fantasma della carretta, e salì per la viottola che menava al paese. Ma più andava avanti e più gli giungevano distinti all'orecchio i colpi che facevano altre lavandaie di notte, sbattendo i panni sulle pietre del rigagnolo. A un tratto le scòrse e vide che battevano un lenzuolo funereo, cantando il triste ritornello: Se cristian non ci viene a salvare, Sempre sempre bisogna lavare; Prepariamo il lenzuolo pel morto, Che dev'esser qui dentro ravvolto. Appena le lavandaie di notte videro giunger l'oste, cessarono il canto, si misero a gridare, e, correndogli incontro, gli presentarono il lenzuolo imponendogli di aiutarle a torcerlo per farne uscir l'acqua. - Non si rifiuta mai un piccolo servigio ... - rispose ser Cione. - Ma aspettate un momento, perché non ho altro che due mani. Allora posò in terra il bastone, e preso uno dei due capi del lenzuolo che gli presentava la morta, si diede a voltolarlo nello stesso senso in cui ella lo torceva, perché aveva sentito dire dai vecchi che quello era il solo mezzo per non essere torto come il lenzuolo e spremuto. Ma appena ebbe strizzato l'acqua dal lenzuolo della prima morta che gli s'era avvicinata, ne giunse una seconda, poi una terza e molte altre ancora, e tutte circondarono ser Cione pregandolo di aiutarle. Fra tutte quelle donne riconobbe sua madre, sua moglie, le sorelle e le figlie, e quando s'era affaticato a torcere il lenzuolo che gli presentavano, per ringraziamento glielo sbattevano in faccia e gridavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E tutte quelle morte scotevano i capelli, alzavano i lenzuoli bianchi, e lungo tutti i fossi del monte e della valle, lungo tutte le siepi, da tutte le vette, migliaia e migliaia di voci ripetevano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! Ser Cione si sentì rizzare tutti i capelli sulla testa, ma seguitava a voltare il lenzuolo nel senso che torceva la morta per non essere torto e spremuto anche lui. Così lavorò fino all'alba sudando freddo, circondato da uno stuolo di morte, che urlavano: - Maledetto colui che lascia patire i suoi nel Purgatorio! Maledetto in eterno! E dalla valle, dalle balze dei monti, dalle vette, partiva lo stesso grido di maledizione, che l'eco ripeteva migliaia e migliaia di volte. Ma appena l'alba incominciò a imbiancare il cielo, le morte sparirono a una a una, e ser Cione, spossato da tanto terrore, cadde in terra e dormì come un ciocco. Credete che ser Cione nel destarsi fosse pentito? Neppur per idea! Si stropicciò gli occhi e disse fra sé: - Guarda un po' che brutti sogni si fanno quando s'è bevuto un bicchiere di vino di più! Pare impossibile! E cantando tornò a casa sua, aprì l'osteria come al solito, senza serbare sul faccione di luna piena nessuna traccia della paura della notte. E per tutto quell'anno seguitò, come se non fosse stato nulla, a canzonar quelli che andavano in chiesa, che si levavano il boccon dalla bocca per fare elemosine, e ascoltavano messe per i loro defunti. E anche quell'anno ser Cione commise un sacco di ribalderie insieme con altri furfanti del vicinato, e andò lì lì per esser preso sul fatto e impiccato. Ritornò il giorno dei Morti, la triste giornata autunnale in cui tutti avevano la mente rivolta ai loro defunti e pregavano, affinché fossero sollevati dalle pene del Purgatorio. Ser Cione, fin dalla mattina, si mise sulla porta dell'osteria a canzonare quelli che andavano in chiesa, e vedendo passare un lungo stuolo di donne, che dicevano devotamente il De profundis si mise a urlare: - Sgolatevi pure, tanto i ragli degli asini non giungono in Paradiso! Tutto il paese era scandalizzato dalle parole di ser Cione, il quale, avendo invitato come di solito a far baldoria tutti i malanni di Poppi e dei paesi vicini, bevve per dieci, e dopo si diede a percorrere la campagna cantando a squarciagola. A uno a uno i suoi compagni lo lasciarono per tornar alle loro case, ed egli, vedendo che aveva fatto tardi e che al paese non poteva tornare, perché a quell'ora le porte eran chiuse, si rassegnò a passar la notte al sereno, tanto la serata era calma e la pioggia né la neve minacciavano di cadere. Tagliò dunque col coltello, che portava sempre seco, alcuni rami secchi dalle siepi e dagli alberi, e accese una bella fiammata in un punto riparato, a ridosso di un vecchio muro. Appena la fiamma divampò, ser Cione vide un fantasma bianco, rinvoltato in un sudicio lenzuolo a brandelli, accostarsi a lui. - Vattene! - disse ser Cione, - non permetto che altri si scaldi alla mia fiamma. - Lo so che sei un uomo senza cuore, che non hai pietà né dei vivi né dei morti, ma per questa notte io non mi muoverò di qui, - rispose il fantasma, e si sedé davanti alla fiamma. Poco dopo giunse un secondo fantasma avvolto in un lenzuolo anche più sudicio e più sbrandellato di quello dell'altro. - Vattene! - gli disse ser Cione, - non voglio tanta marmaglia d'intorno a me. - So bene che hai una pietra nel posto del cuore, - rispose il secondo fantasma, - che non hai pietà né dei vivi né dei morti; ma per questa notte non mi moverò di qui. Si sedé accanto al fuoco, e quindi soggiunse, rivolgendosi all'altro fantasma: - Ti rammenti come eravamo felici quando ci nacque quel figlio, moglie mia? - Se me ne rammento! Ogni lacrima che mi è costato, mi ha fatto ripensare a quel momento di gioia, marito caro. Io ti ho sopravvissuto, e non puoi credere quello che egli mi abbia fatto patire. Mi sottoponeva alle più dure fatiche, mi maltrattava, mi contava i bocconi, e lui stava tutto il giorno a bere, a bestemmiare e a far di peggio. Tuttavia gli avrei perdonato tutto, se una volta avesse ascoltato una messa, o avesse fatto un'elemosina per sollevare l'anima mia dalle pene del Purgatorio; ma invece quel birbante gozzoviglia in questo giorno sacro a noi, e non ha un pensiero per i suoi morti. Ser Cione, seccato da quei discorsi, si era già alzato per andarsene, maledicendo gl'importuni, ma sentì due mani gelate prenderlo per il viso e trattenerlo dov'era. - Questo è troppo! - esclamò egli. - Io voglio stare dove mi pare e andarmene dove mi accomoda. - Per questa notte, - disse il terzo fantasma, che lo aveva trattenuto, - tu devi ascoltare i nostri lamenti, poiché avrai capito che quei due che parlavano di te furon tuo padre e tua madre, come io fui tua moglie. Ora verranno gli altri morti della nostra famiglia, e spero che t'impediranno di andartene. Ser Cione, di riffa o di raffa, dovette star dov'era, e i due vecchi continuarono i loro lamenti, intanto che la moglie guardava di qua e di là come se aspettasse qualcuno. Finalmente si alzò e corse incontro a due angioletti bianchi, che volarono a lei con le faccine sorridenti, soffuse di luce. La donna li baciò piangendo di gioia: - Ecco i nostri figli, - diss'ella a ser Cione. - Come vedi non hanno bisogno delle tue preghiere, perché sono in Cielo; ma se tu avessi fatto dire qualche messa per me, non sarei più divisa da loro. Di questo solo mi dolgo con te, perché ti era così facile far cessare la nostra separazione. Ser Cione non parlava e neppure osava avvicinarsi ai due angioletti, che s'erano accostati alla mamma e le facevano mille carezze, mentre per lui non avevano nessuno sguardo, nessuna parola. I due vecchi intanto continuavano a imprecare a quello snaturato figliuolo, e alla loro voce si univa quella delle sorelle di ser Cione, sopraggiunte allora e anch'esse avvolte in lenzuoli funerei. Il solo vivo, in mezzo a tutti que' morti, non era più calmo e sprezzante come l'anno prima quando capitò in mezzo alle lavandaie di notte, che gli fecero torcere i lenzuoli funerei, né come poco avanti quando sentiva parlare il padre, la madre e la moglie. Dacché aveva veduto i suoi due bimbi, si sentiva una smania, una irrequietezza che non aveva mai provate. Avrebbe voluto baciare quei due angioletti, ma temeva di vedersi respinto da loro e stava a guardarli intenerito, ripensando a come era triste, ora, nel mondo, senza nessuno. Intanto il vecchio, la vecchia e le sorelle di ser Cione gridavano: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! - Maledetto in eterno! - rispondevano le anime sparse nella campagna e alle quali è concesso, una volta l'anno, di tornare in terra. A un tratto ser Cione scoppiò in singhiozzi. - Son dannato, - diceva, - chi mi salverà? Tutti, tutti mi maledicono! La moglie del ribaldo strinse a sé i due bambini e alternava i baci con le parole che sussurrava loro nell'orecchio. I due piccini risposero alle suppliche di lei: - Non dubitare, mamma, addio! - E per me non c'è neppure un saluto? - domandò ser Cione ai figli. - Per ora no; ma torneremo presto, prestissimo. E volarono su, agili come due colombi. In breve, il chiarore che mandavano si confuse con quello delle stelle che erano sparse nel firmamento. I fantasmi, adunati intorno a ser Cione, non cessavano di lagnarsi di lui, ma egli non li udiva. Aveva nascosta la testa fra le mani e continuava a piangere dalla vergogna dei suoi peccati. La moglie sola non univa la sua voce a quella degli altri, non imprecava contro di lui, ma sibbene pregava per il suo ravvedimento e teneva l'occhio rivolto al cielo, da cui sperava di veder discendere i suoi due angioletti, che erano andati messaggieri a Dio. Ser Cione accostò la bocca all'orecchio della moglie, e le disse: - Credi tu che un uomo macchiato di peccati possa salvarsi? - Lo credo fermamente, - rispose ella. - E con qual mezzo? - Col vero e sincero pentimento, col pentimento che nasce più dal dolore di avere offeso Iddio e di aver recato danno al prossimo, che dal desiderio di sfuggire una punizione eterna, meritata dai peccati. - Io lo provo, questo pentimento, perché ho vergogna di quel che ho fatto, perché soffrirei mille pene, pure di cancellare la mia vita. - Ma senti tu, insieme a questo pentimento, la forza di incominciare un'altra vita, onesta, tutta diversa da quella passata? - La sento, anima santa, e il miracolo non l'hanno operato i miei vecchi con le loro aspre parole, non l'hanno operato le altre anime di morti con le loro maledizioni, ma l'hai operato tu, con la tua dolcezza. Nel vedermi guardare a quel modo dai nostri angioletti ho conosciuto la mia abiezione, ho avuto vergogna e ho sentito che cos'è rimorso e pentimento. In quell'istante ser Cione vide una striscia luminosa solcare lo spazio, e pochi secondi dopo udì due vocine dolci, due vocine care che cantavano: - Osanna! Iddio è grande e misericordioso verso i peccatori pentiti! - Senti, - disse il fantasma della moglie di ser Cione, - sono i nostri figli che tornano dal Cielo e ti portano la grazia; cerca di meritarla. Il solo vivente in quel consesso di morti, cadde in ginocchio, e le sue labbra mormorarono le preghiere imparate da bambino, mentre il suo cuore si dischiuse alla speranza. I due angioletti gli posarono le manine sulla testa, accarezzarono il volto paterno e volarono su nell'etere cantando: - Osanna! Osanna! L'alba incominciava a imbiancare il cielo, e i defunti di ser Cione sparirono a uno a uno, gridandogli: - Maledetto colui che non ha pietà dei suoi morti! Maledetto in eterno! La moglie lo lasciò, invece, dicendogli: - Persevera nel pentimento, lavora per meritarti il Cielo, e allora saremo uniti, uniti per sempre. Il sole, nel levarsi, trovò ser Cione allo stesso posto nel quale lo avevano lasciato i suoi morti, con le mani congiunte e l'occhio rivolto al cielo, dove aveva veduto salire i suoi angioletti. - Che sia stato un sogno? - esclamò egli; ma subito dopo aggiunse: - Anche se così fosse, che bel sogno! Salì a Poppi, e invece di andare a casa sua e mettersi a schernire i devoti dalla porta dell'osteria, entrò nella chiesa di San Fedele, s'inginocchiò in un angolo e si mise a pregare come ogni buon cristiano. Dopo aver lungamente pregato, specialmente per i suoi morti, andò in sagrestia e pose nella mano di un frate tutti i soldi che aveva in tasca, dicendo: - Dite tante messe per le anime dei miei poveri defunti! Il frate, che lo conosceva per un malandrino, sgranò tanto d'occhi, e tutti quelli che lo videro in chiesa, andarono a sparger la voce che ser Cione s'era ravveduto, che ser Cione voleva diventar santo. Quel giorno egli non aprì l'osteria e non l'aprì mai più. Dava ai poveri larghe elemosine, pregava, faceva dir messe per i suoi morti ed evitava d'incontrare i suoi antichi compagni di vita peccaminosa. Se però li vedeva, diceva loro: - Fratelli, ravvedetevi! Le soddisfazioni terrene sono fugaci, le punizioni sono eterne! A Poppi tutti erano edificati di quel cambiamento repentino, e le persone buone e pie, che prima egli aveva offese, ora si avvicinavano a lui e lo esortavano a perseverare nella via del pentimento, nella via che conduce alla salvezza. Ma tutte queste esortazioni non sarebbero bastate, se, durante la notte, non fossero scesi al capezzale dell'uomo solo, privo di famiglia, i suoi due angioletti bianchi, e non gli avessero fatto sulla fronte una lieve e dolce carezza. Così pregando, facendo elemosine e lavorando faticosamente per alleviare le fatiche di quelli che erano deboli o vecchi, ser Cione visse un anno ancora, e la notte dei Morti spirò dolcemente, sentendosi accarezzare la fronte dai suoi due angioletti; spirò da buon cristiano, e le benedizioni di quelli che aveva beneficati lo accompagnarono fin alla tomba e financo al di là, perché molti cuori sono riconoscenti anche dopo che il beneficio è cessato. Si dice che l'anima di ser Cione, che sconta ancora in Purgatorio una parte dei peccati che non ha potuto scontare in vita, torni, nella notte dei Morti, a esortare i peccatori di Poppi a ravvedersi e li attenda per le vie. Almeno così dicono molti che si sono pentiti e che da quell'anima hanno saputo la storia della vita di ser Cione e della sua morte, che altrimenti sarebbe da lunghi e lunghi anni dimenticata. - E qui, figliuoli, la novella è finita, - disse la Regina. - Quest'altra domenica ve ne racconterò una più lieta, più gaia, che vi farà ridere e non vi farà sognare i morti e le anime del Purgatorio. - Come la intitolerete, nonna? - domandò l'Annina. - Non te lo voglio dire; lo saprai domenica. - E domenica sapremo anche quando si faranno le nozze, perché fra otto giorni la tua matrigna sarà guarita, - aggiunse la bambinetta rivolgendosi a Vezzosa. - E domenica, - disse la Carola, - faremo anche i regali alla nostra cara sposina. Non son doni ricchi, ma glieli faremo col cuore. Noi donne specialmente non abbiamo altro che quei pochi soldi che si ricavano vendendo le uova, i polli e i piccioni, e possiamo spender poco; ma quei regalucci le mostreranno che le si vuol bene e che si accetta volentieri in casa nostra. La massaia, come al solito, aveva parlato a nome di tutte le cognate. Cecco era così commosso da quelle buone parole, che uscì e si mise a fischiare per non far vedere i lucciconi; la Vezzosa si era stretta un bambino al petto e lo baciava, tanto per isfogare il suo bisogno d'espansione, e la Regina piangeva. - E che son cotesti lacrimoni! - esclamò Maso. - Mamma, bisogna ridere e non far codesta faccia da funerale. - Quando siam vecchi, - rispose la Regina, - ci si commuove e si piange facilmente. Ma vedrete che saprò ridere il giorno delle nozze, e voglio fare anch'io due sgambetti quando gli altri balleranno. - Così va bene! - esclamò Maso. - Gente allegra, Iddio l'aiuta! Uscirono tutti, meno che le donne, per riaccompagnare le ragazze che erano state a veglia, e s'imbatterono nel padre di Vezzosa, che veniva di corsa a chiamarla. - Che è stato? - gli domandò la figlia. - Vieni presto, devo correre dal medico, la Maria delira, si vuol levare dal letto e le tre ragazze non son buone a trattenerla. Vezzosa disse appena buona notte a tutti e corse via. Cecco la seguì a distanza insieme con gli altri. E quando tutte le ragazze che erano state a veglia furono riaccompagnate a casa, egli, invece di tornare insieme con i fratelli al podere di Farneta, se ne andò mogio mogio a casa di Vezzosa. Ma per non disturbarla bussando, poiché la porta era chiusa, si sedé sopra un muricciuolo aspettando che qualcuno comparisse alla finestra o sull'uscio; e con l'occhio fisso sulla casetta bianca, che pareva un masso di neve illuminata in pieno dalla luna, si mise a pensare all'avvenire. Egli si struggeva non potendo aiutare Vezzosa nelle sue faccende, e non vedeva il momento di essere unito a lei per sempre e di dividerne le gioie e i dolori. A un tratto, senza riflettere, si mise a cantare una canzone del paese. Sentiva il bisogno di dire a Vezzosa che le era vicino e che vegliava anche lui. Dopo poco che aveva incominciato a cantare, sentì aprir l'uscio della cucina, e nel vano vide comparire la bella ragazza. Cecco corse a lei con uno slancio, come se non l'avesse veduta da un anno. - Grazie, - gli diss'ella, - di esser rimasto vicino a me. Cecco mio, la mia matrigna lotta davvero con la morte. In questo momento svaniscono in me tutti i risentimenti, e mi pento e mi dolgo di non essere stata più buona con lei in passato. Cecco strinse le mani della sua fidanzata, quasi volesse ringraziarla di esser così buona. In quel momento si udì un rumore di sonagli sulla via maestra, e di lì a poco comparve il calesse del dottore. Momo era stato a chiamarlo sull'imbrunire, e il dottore, scendendo, si scusava di non esser potuto venir prima. Cecco entrò in casa dietro al medico, e fu lieto di perder la nottata per potere ammirare la diligenza e l'affetto di cui dava prova la sua Vezzosa nell'assistere la matrigna.

. - Quale ragione ti riconduce sotto questo tetto, che hai abbandonato come un malfattore? - gli domandò severamente. - Nessun'altra che l'ardente desiderio di sapere che cosa sia avvenuto della mia sposa, - rispose il giovine. - Come supponi che io possa dirtelo? Corso allora chinò la testa e tacque; ma invece di rimanere in quel luogo, si mise in viaggio per cercare la sua Selvaggia. Dopo un anno d'inutili ricerche, il giovane signore intraprese il pellegrinaggio di Terra Santa, per ottenere dal Cielo la grazia di esser riunito all'adorata consorte. Ma la nave fu assalita dai pirati ed egli, come i suoi compagni, vennero fatti prigionieri da un capo barbaresco e condotti sulle coste africane a lavorare la terra. Però, la sorte di Corso non era tanto dura quanto quella di Selvaggia. Egli almeno respirava l'aria libera, mentre l'infelice donna era rinchiusa in una prigione e s'era veduta strappare la sua creaturina. Selvaggia, in quel carcere, non faceva altro che piangere e pregare; ella piangeva Corso, che supponeva morto in seguito alle ferite, e pregava per la sua bambina, che una voce interna le diceva che era viva. E le sue preghiere, rivolte specialmente alla Madonna, erano così fervide che giungevano fino al trono della Madre di Dio e la commovevano. Passarono molti anni dal giorno che la fanciulla fu raccolta da fra' Buono, ed ella s'era fatta bellissima di viso e di corpo, e tale appariva agli occhi della gente che la scorgeva andando in pellegrinaggio a Fonte-Buona. Tutti le tributavano un gran rispetto, vedendola vestita dell'abito dato da san Romualdo ai suoi monaci, e intenta sempre a leggere nei grossi volumi che le recava fra' Buono, o a guardare le pecore al pascolo, o coltivare i fiori, che crescevano intorno alla sua capanna come se fosse stato primavera. Inoltre il padre forestale raccontava a tutti il miracolo del lupo e faceva vedere a quanti si recavano al monastero la bella Buona, seguìta dalla fiera. In poco tempo la venerazione per Buona era tanto cresciuta nella gente del Casentino, che gl'infermi, gli storpi, i malati d'ogni genere, si facevano portare alla capanna di lei, e la pregavano supplichevolmente di suggerir loro un rimedio o soltanto di toccarli, sperando da quel semplice contatto la guarigione. Buona rispondeva a tutti quegli infelici: - Pregherò la Madonna per voi! E siccome talvolta essi risanavano, così nessuno più dubitava che ella fosse già santa in vita. Ora avvenne che il conte di Poppiano ammalasse gravemente, di una malattia che aveva sede nell'anima. Egli era torturato dal dolore di non vedere più l'unico figlio suo, e invece di mostrarsi più umano verso Selvaggia, la rendeva responsabile della gran sciagura che lo faceva morir disperato. Per curarlo, erano stati chiamati tutti i dottori del Casentino, ma la sua malattia resisteva a ogni rimedio. Allora, siccome egli non poteva più muoversi, gli fu suggerito di chiamare al suo letto la pastorella del Pian del Prete. E Buona, pregata da un frate che bazzicava al castello, se ne andò, scalza e vestita della bianca tunica, presso il vecchio signore, che teneva rinchiusa sua madre in un sotterraneo e che aveva fatto abbandonar lei alla voracità dei lupi. - Signore, - disse Buona quando fu alla presenza dell'infermo, - io non so altro che pregare, e pregherò per voi. Quella voce dolce scese come un balsamo al cuore del vecchio, il quale incominciò subito a migliorare. - Chi sei? - le domandò il vecchio, - e dove stanno i tuoi genitori? - Non lo so. Quindici anni fa, frate Buono mi raccolse fra la neve nel Pian del Prete. Io non ho altra famiglia che i frati camaldolensi, altra madre che la Madonna. - Quindici anni fa, tu dici! - Sì, avevo allora pochi mesi. Tacque il vecchio, e il suo volto rivelava la lotta che si combatteva dentro di lui. - Dimmi, sapresti tu perdonare a chi ti avesse privato della madre? - Io ho imparato da fra' Buono, che non sta a noi giudicare le azioni altrui. - Avvicinati! - ordinò il Conte. Il vecchio le prese le mani e la esaminò attentamente. Non poteva ingannarsi: erano proprio quelli gli occhi grandi e dolci del suo Corso, eran quelli i lineamenti del figlio perduto. Allora, preso dalla tenerezza, il vecchio attirò a sé Buona e disse: - Figlia del figlio mio, ti benedico! Buona non capiva nulla. Soltanto quando il Conte le narrò la storia truce, ella comprese e disse: - Liberate l'infelice madre mia! Questo desiderio fu subito appagato; ma quando Buona fu in presenza della madre, credé di vedere uno spettro. - E tu, Selvaggia, puoi perdonarmi? - domandò il vecchio. - Mi rendete la mia creatura e io dimentico tutto per non rammentare altro che questo momento felice. Il Conte in breve si rimise in salute e appena ebbe riacquistate le forze, cavalcò fino a Camaldoli per fare una ricca offerta al monastero che aveva tenuto Buona come figlia e visitare il santuario eretto in onore di lei. Ma, nonostante che egli fosse circondato dalle cure amorevoli delle due donne, il suo pensiero era sempre rivolto a Corso. Una sera gli fu annunziato che un cavaliere chiedeva l'ospitalità. Il signore ordinò che fosse subito introdotto, e quando il viaggiatore entrò nella sala, gli occhi affievoliti del vecchio Conte non lo ravvisarono; ma dalla bocca di Selvaggia uscì un grido, riconoscendo in quel cavaliere il proprio marito. Corso raccontò che era riuscito a fuggire, e, raccolto da alcuni marinari sulle coste d'Africa, era passato in Sicilia, e di là era tornato in patria. Buona fu per molti anni la consolazione dei genitori, com'era stata la consolazione del vecchio Conte; ma nonostante le ricche offerte di maritaggio, ella volle rimanere libera e non dismise mai l'abito bianco dei Camaldolensi. Rimasta orfana, ella cedé ai parenti il castello di Poppiano e i feudi annessi, e costruitasi una piccola casa all'Abetiolo, accanto al santuario eretto in memoria della sua miracolosa salvazione dal lupo, vi morì in odore di santità. La novella terminò senza che Cecco fosse tornato. Regina, per distrarre Vezzosa, che vedeva malinconica, avrebbe incominciato volentieri a raccontarne un'altra; ma gli uomini si erano già alzati per andare a letto, meno Maso, il quale disse: - Cecco si meriterebbe di dormire sull'aia; stasera lo aspetto io e gli dico il fatto mio! Vezzosa si sentì gelare. Le dispiaceva l'assenza del marito, ma più ancora l'affliggeva che il capoccia lo biasimasse. Per questo disse al cognato che Cecco lo avrebbe aspettato lei. - Tu puoi rimproverarlo quanto vuoi in camera tua, come moglie, ma io voglio rimproverarlo come capo di casa, - rispose Maso. - Nella nostra famiglia nessuno ha mai bazzicato le osterie con gli amici, e non deve essere il primo lui. Vezzosa dovette ubbidire e andare in camera sua, ma non si spogliò finché non udì il passo di Cecco, e rimase inchiodata alla finestra per udire il colloquio fra i due fratelli. I rimproveri che rivolse Maso a Cecco furono così aspri, che Vezzosa non ebbe coraggio di fargliene altri. Ma piangeva la povera donna, come una vite tagliata, e quelle lacrime inasprirono il colpevole, invece di rabbonirlo.

Appena ebbe abbandonato le redini del cavallo a un servo e fu salito in camera sua, una nuova umiliazione gli fece bollire il sangue nelle vene. Durante la sua assenza erano giunti al castello ospiti di riguardo, e il conte Alessandro aveva dato ordine che si allestissero loro tutte le camere attigue a quella di ser Alamanno, compresa quella di lui. Così, giungendo, il giovane vide che i servi avevano aperto tutti i cassetti per votarli, e portavan via carte, abiti, armi, tutto alla rinfusa. - Che fate? - domandò ser Alamanno turbato. - Eseguiamo gli ordini del Conte, - risposero quelli. - Mi caccia forse dal suo palazzo? - chiese il giovane digrignando i denti. - No, - rispose uno dei servi. - Vi manda soltanto all'aria fine, in soffitta. - Sospendete il trasporto di codesta roba, se no me la pagherete, - ordinò ser Alamanno. E corse a chieder spiegazione del fatto al suo potente cugino. - Sarebbe bella che non fossi padrone di disporre delle stanze di casa mia! - rispose il Conte senza scomporsi. - Se non ti piace di star in alto, va' al piano, e vai lontano! Il volto pallido di ser Alamanno si fece livido a quell'ingiuria, ma egli non rispose. Raccolse però tutte le forze di cui disponeva, e disse fra sé: - Mi calpestano, e io mi vendicherò; ma la vendetta sarà tremenda. E ripensando all'incontro fatto poco prima, il suo cuore esultò di una gioia selvaggia. Quella sera, a causa degli ospiti di riguardo giunti al castello, ser Alamanno si trovò, a cena, relegato in fondo alla tavola, fra un buffone e un suonatore di viola, giunti appunto al seguito dei visitatori. Nessuno gli rivolse la parola, né il Conte, né la Contessa, né i figli. La madre del signore di Poppi, la persona più affabile con lui, era trattenuta da un'infermità nella propria camera. Durante la cena, ser Alamanno, fremente, ruminava pensieri di vendetta, e, dimenticando i benefizî ricevuti per molti anni dalla famiglia del suo lontano parente, non rammentava altro che le umiliazioni sofferte, e, rivangando il passato, mangiava pane e veleno. Dopo tolte le mense e allorché la nobile compagnia prendeva diletto alle buffonate del giullare, ser Alamanno si allontanò come un'ombra e, ridottosi nella soffitta assegnatagli, si gettò sul letto. Egli era ancora in dormiveglia quando gli parve di rivedere la grande sala del castello, come l'aveva lasciata poco prima, con la tavola apparecchiata e gli ospiti seduti dai due lati. Però, dal posto d'onore, sotto il baldacchino, era sparito il conte Alessandro e vi era lui, non più miseramente vestito, ma con un ricco giustacuore coperto di ricami, ed una cintura tempestata di gemme. Sul velluto del baldacchino gli pareva che stesse scritto a lettere d'oro: "Premio della vendetta!". Ser Alamanno aprì gli occhi, sbalordito da quella visione, e si alzò dal letto. Era una bella serata primaverile, e le case aggruppate sotto il castello erano illuminate da una chiara luce lunare, che le faceva apparire così bianche, come se la neve le avesse ricoperte. Ser Alamanno s'era affacciato alla finestra, e in quel chiarore vide passare e ripassare un corvo, che andò a posarsi sul davanzale a portata della sua mano. Egli fece per acchiapparlo, e il corvo si lasciò prendere, portare in casa e posare sulla spalliera di un vecchio seggiolone. L'uccello piantò i suoi occhietti gialli in faccia a ser Alamanno, e, battendo le ali, disse con voce distinta: - Vendetta! Vendetta! Vendetta! Poi sbatté di nuovo le ali, e fuggì di dov'era venuto. - Non era dunque un sogno, il mio, ma bensì un avvertimento diabolico; e io voglio seguirlo, - disse ser Alamanno, che rivedevasi ancora al posto d'onore nella sala del castello. - Corvo, se mai io sarò davvero signore di questo luogo, giuro sull'anima mia che metterò un corvo nel mio stemma, col motto: "Vendetta! Vendetta! Vendetta!". Questa parola suona dolcissima al mio cuore. Mentre il castello, nel dì seguente, era tutto in festa per onorare gli ospiti, ser Alamanno stava chiuso nella sua soffitta, e nessuno si curava di lui. In quella solitudine, dimenticato da tutti, egli sentiva viepiù crescere l'odio che gl'ispiravano i suoi parenti e il desiderio di vederli un giorno umili dinanzi a sé, implorando misericordia. Mentr'egli ruminava nella mente questi pensieri, che gli si rispecchiavano sul volto truce e accigliato, ser Alamanno udì bussare lievemente all'uscio di camera sua. Andò ad aprire e vide un vecchio in umili vesti. - Chi sei? - domandò con voce aspra. - Se anche vi dicessi il mio nome, non mi conoscereste, messere. Vi basti sapere che fui scudiero del padre vostro ed ebbi dalle sue mani un dono che debbo restituirvi, ora che mi sento vicino a morte. Mentre parlava, il vecchio aveva tratto di seno un pugnale. Ser Alamanno vi gettò un'occhiata e vide che sulla lama scintillante era incisa una parola che molto spesso, in quegli ultimi tempi, gli era corsa alle labbra. - Vendetta! - esclamò quasi parlando a se stesso. - La voglio tremenda. Me la consigliano i vivi, me la consigliano i morti, e il mio cuore la vuole e la chiede; e vendetta sia! Il vecchio, senza aggiungere parola, era chetamente uscito dalla stanza, e ser Alamanno non pensò a richiamarlo, tutto assorto com'era nei suoi truci pensieri; ma baciò con reverenza il pugnale, che credeva avesse appartenuto a suo padre, e se lo infilò nella cintura. Quella sera egli non comparve neppure alla mensa del conte Alessandro. Scese bensì nella dispensa e, fattosi dare un pezzo di pane, lo mangiò rabbiosamente in camera sua, bevendo acqua della brocca; ma col desiderio affrettava l'ora dell'incontro col fiorentino nel bosco di Fronzola. Quando chiuse gli occhi, a notte avanzata, ebbe un'altra visione, ma una visione dolce. Egli vide una donna, che aveva le sembianze della madre sua, che lo guardava piangendo. La donna gli si accostò, prese il pugnale che egli teneva anche di notte a portata di mano, e, gettatolo in terra, lo calpestò gridando: - Amore! Amore! Amore! Ser Alamanno si destò di soprassalto; l'immagine cara era sparita, ed erano pure spariti dalla sua mente i truci pensieri. Ma a un tratto, come se qualcuno che volesse rievocarli gli si fosse messo accanto, sentì una voce aspra che gli rammentava tutti gli sgarbi, tutte le umiliazioni sofferte, da quando, bambino, era entrato al castello, fino a quel giorno in cui si trovava relegato lassù nella soffitta, senza prender parte a nessuna delle feste che si davano per gli ospiti, senza che nessuno domandasse neppure se era morto o vivo. E allora ser Alamanno balzò dal letto ed esaminò alla luce incerta del giorno nascente la lama del pugnale che portava incisa la tremenda parola. - Vendetta! - esclamò. E, vestitosi in un baleno, uscì senza alcun rimpianto dal castello per recarsi al convegno nel bosco di Fronzola. Questa volta non s'era fatto sellare alcun cavallo. Camminava solo, evitando la gente, rimpiattandosi fra gli alberi appena udiva un rumore di ruote od uno schioccar di frusta sulla via. Non voleva essere veduto, perché sapeva che il suo volto tradiva i pensieri che lo agitavano. Quando giunse al luogo del convegno, guardò da ogni parte, ma non vide il fiorentino, e, sedutosi per terra, con le spalle appoggiate al tronco di un poderoso castagno, attese. Passati pochi minuti dacché era in quel luogo, udì gracchiare un corvo, e subito dopo quell'uccello gli volava accanto e, guardandolo con gli occhietti gialli, diceva distintamente: - Vendetta! Vendetta! Vendetta! E quindi spariva. - Sì, vendetta, a costo della eterna dannazione! - esclamò ser Alamanno. In quello stesso momento gli comparve il fiorentino, mal vestito, ma col solito piglio altero. - Mi fa piacere che tu sia venuto; - gli disse, - questo mi prova che hai riflettuto. - Ho riflettuto: - rispose ser Alamanno, - sono stanco di questa vita di servo; voglio esser ricco e potente. - Adagio col voglio! - esclamò lo sconosciuto. - Prima di parlare così imperiosamente, dobbiamo fare i patti. Sei pronto a cedermi il tuo braccio per compiere la mia missione? - Non solo il braccio, ma anche l'anima mia, di cui non so che farne. - Ebbene, - disse lo sconosciuto, - io farò di te il signore di Poppi. Tutte le terre che dipendono dal feudo saranno sottoposte ai tuoi voleri, e sui terrazzani avrai diritto di vita e di morte; ma ... - Spiègati, - ordinò ser Alamanno. - Ma col pugnale che porti infilato alla cintola e su cui sta inciso: "Vendetta!" devi freddare quel superbo conte Alessandro e i figli di lui. - E chi sei tu per chiedermi questo e per promettermi così larga ricompensa? - Sono colui al quale il mondo si sottomette volontariamente: io sono il Diavolo! - rispose lo sconosciuto. E per provare la verità della sua asserzione, con un movimento rapido della gamba gettò via una scarpa e mostrò a ser Alamanno il piede biforcuto di capra. - Riconosco la tua potenza, re dell'Inferno e dominatore del mondo! - esclamò il cavaliere, - e sono pronto ad ubbidirti. - Ebbene, fa' uso del pugnale, ed allorquando tutti e tre i baldanzosi Conti saranno periti, chiamami, e io ti darò la signoria che ambisci. Dette queste parole, il Diavolo sparì nel bosco e ser Alamanno riprese la via del castello. Quando fu giunto nel severo cortile del palazzo e stava per salire il primo gradino dello scalone di pietra, vide scendere il Conte, seguìto dai figli, tutt'e tre riccamente adorni di vesti trapunte d'oro e di gemme scintillanti. Il Conte, appena vide il cugino, gli gridò: - Lascia libero il passo a me e ai figli miei, villano! A queste parole il sangue ribollì nelle vene dell'insultato, il quale non continuò a salire, ma si fece da una parte, mettendo le spalle al muro in umile atteggiamento. Però la sua destra era corsa all'impugnatura del pugnale, e quando il conte Alessandro gli passò d'accanto senza degnarlo di uno sguardo, la lama dell'arma luccicò un momento, e poi sparì nel petto del conte di Poppi. Un grido disperato gli uscì dalle labbra; ma prima che altri si occupasse di ciò che era accaduto, il pugnale scintillava di nuovo al sole e s'immergeva nella gola del figlio primogenito del Conte, e poi nel cuore del figlio minore. I tre cadaveri rotolarono sulle lastre di pietra del severo cortile, e ser Alamanno, brandendo il pugnale, senza temere i servi che, sgomenti, fuggivano, esclamò: - A me, Satana! In quel momento comparve dinanzi all'uccisore lo sconosciuto del bosco di Fronzola, non più vestito di povere vesti, ma adorno di abiti ricchi, e inchinandosi dinanzi a ser Alamanno, disse: - Vi saluto, o conte di Poppi! I miei uomini custodiscono le uscite del castello, e impediranno che la novella di questa triplice uccisione venga comunicata agli altri Guidi di Casentino ... Su, venite nella sala, e siate sicuro che tutti i servi vi presteranno omaggio. Il Diavolo spinse con un piede i tre cadaveri per lasciar libero il varco al nuovo signore, che guardò impavido le sue vittime, e quindi seguì ser Alamanno nella grande sala del castello. Nell'oltrepassare la soglia, i suoi occhi si posarono sul baldacchino del trono, e sul pendone di velluto a frange d'oro vide scritte, come l'aveva vedute in sogno, le parole: "Premio della vendetta". Ma invece di pentirsi, rammentando per quale seguito di circostanze era giunto fino a toglier la vita a chi lo aveva raccolto in casa sua, sorrise di compiacenza e, con piè fermo, giunse al seggiolone posto sotto il baldacchino e vi si sedé. Il Diavolo gli si pose dal lato destro e, secondo la promessa fattagli, suggerì ai valletti, agli scudieri, ai paggi e ai famigli di andare a far atto di sottomissione al nuovo signore. La vasta sala fu piena ad un tratto, e in tutto il castello non v'era rimasto nessuno ad attendere alle faccende. Mentre tutti prestavano giuramento al nuovo signore, dimentichi già di quello ucciso poco prima, e il cuore di ser Alamanno era gonfio dalla gioia vedendosi riverire da tutti coloro che lo avevano disprezzato, la porta della sala si aprì e nel vano di quella comparve la madre del conte Alessandro, pallida e sconvolta. L'usurpatore, nel vederla, fece atto di alzarsi e di voler fuggire; ma il Diavolo gli pose la mano sul braccio per trattenerlo. La desolata donna rimase nel vano della porta, e, alzando il braccio, disse: - Assassino! Sono io che ti ho raccolto, nutrito, difeso, e così tu mi paghi? Che tu sia maledetto! - Arrestatela! - gridò ser Alamanno alle guardie. E quelle, vedendo il piglio torvo del nuovo padrone, afferrarono per i polsi colei che li aveva curati dalle ferite riportate nelle guerre contro i Tarlati di Fronzola e contro gli altri nemici di Poppi, e osarono trascinarla in una prigione, praticata in fondo alla torre. Il nuovo signore graziò i suoi sottoposti di tutte le pene, e la sera vi fu un banchetto che durò fino a giorno. I tre cadaveri erano stati in fretta e in furia trasportati in una stanza sotterranea e rinchiusi in una sola cassa. Mercè la guardia che i seguaci del Diavolo facevano alle porte del castello, nessuno seppe per qualche tempo dell'eccidio commesso dentro le mura di Poppi, e l'usurpatore aveva cura di tenere la gente in continua allegria per impedire che qualcuno cercasse di eludere la vigilanza e recasse la notizia dell'accaduto ai Guidi di Romena, di Porciano, di Popiano, di Montemignaio e di Stia. Ma intanto che ser Alamanno affogava nelle orgie e nel vino il ricordo del suo misfatto, la povera madre dell'ucciso pensava anche lei alla vendetta, e con le mani palpava la porta e le pareti della prigione per vedere se trovava un'uscita. Dopo alcuni giorni che ella era rinchiusa in quell'antro buio, sentì, in quel silenzio sepolcrale, un lieve rumore all'uscio della prigione, come di chiavi che girassero pian pianino e di chiavistelli tirati con cura. Quando il rumore fu cessato, ella si trascinò fino alla porta e, scossala, sentì che cedeva. In quel momento, dal suo petto affranto uscì un grido di trionfo, e fuori che fu dalla prigione, si accòrse che le chiavi erano nella toppa. Richiuse, tolse le chiavi, e poi, quatta quatta, s'internò per un corridoio oscuro in discesa, che metteva a una uscita segreta, nota soltanto ai signori del castello. Quando la vecchia si trovò in aperta campagna, esclamò: - Ora, se non vendico il figlio mio e i miei infelici nipoti, sono indegna di vivere! E, fattasi forza, prese la via di Romena. Ella vi giunse dopo lunghe, lunghissime ore di travagliato cammino, e quando ebbe posto il piede nel cortile del castello, cadde tramortita. Per fortuna fu riconosciuta da un valletto, il quale corse ad avvertire il Conte che la madre del signore di Poppi era giunta a piedi; lacera e affranta. Il signor di Romena la fece subito trasportare nella camera nobile del castello, e ordinò che le fosse dato un cordiale. Intanto aveva fatto chiamare le donne della moglie per vegliarla, ed egli stava per ritirarsi, allorché l'afflitta madre aprì gli occhi e, riconosciutolo, esclamò: - Non mi abbandonate, signore, io ho bisogno di tutto il vostro aiuto e di quello degli altri parenti nostri, poiché vi sono tre morti da vendicare. - E dove sono questi morti? - domandò il Conte, credendola ammattita. - Essi riposano in una stanza sotterranea e ancora non hanno avuto sepoltura. - Ma voi vaneggiate, madonna; siete forse ammattita? - No, - rispose la vecchia solennemente, - non vaneggio. Ho visto i cadaveri sanguinosi dei miei tre cari, e io stessa fui rinchiusa in una prigione dalla quale sono uscita per miracolo. A voi, conte di Romena, a voi spetta vendicare il sangue dei vostri congiunti. L'assassino, l'usurpatore, è quell'Alamanno, quel serpe che mi sono cresciuta in seno! - Ser Alamanno morrà! - esclamò il conte di Romena. - Ma conoscete voi qualche entrata segreta che metta nel castello? - La conosco, - disse la dama, - e troverò la forza di condurvi voi e i vostri guerrieri, purché vendichiate il figlio mio. - Ebbene, tenetevi pronta, e stanotte compiremo l'impresa. Da Romena partirono subito messi per Porciano, Popiano, Montemignaio e Stia, chiamando alle armi tutto il parentado. Le schiere di essi dovevano mover subito e cinger d'assedio il castello, affinché nessuno ne uscisse; a penetrarvi non visto, pensava il conte di Romena. Quando la notte fu alta, egli uscì da Romena con un drappello di armati, scelti fra i più intrepidi dei suoi. In una lettiga era portata la vecchia contessa di Poppi. La schiera si avanzava lentamente nelle tenebre, e fece sosta appiè del monte ove riusciva la strada sotterranea, già percorsa dalla contessa. Ella fece smovere un ciuffo di pruni e, presa una lanterna, guidò il conte di Romena nei corridoi scavati nei fianchi del monte. Quando fu arrivata nel cortile si fermò. - Udite: - ella disse, - giungono fino a noi le grida e i canti avvinazzati di ser Alamanno e dei suoi. Salite, penetrate nella sala, e fate strage di lui e di tutti! Che Iddio vi protegga! Il Conte si slanciò con la spada in pugno su per la scala; i suoi lo seguirono. Egli penetrò nella sala come un lampo, e mentre i suoi uomini si gettavano sui banchettanti, il Conte andò diritto all'assassino, che era seduto sul trono, e con un colpo di punta lo passò da parte a parte. All'apparire del conte di Romena, il Diavolo, che in tutto quel tempo era rimasto a fianco del traditore, sparì non si sa come. Nella sala avvenne una carneficina. I soldati di Romena, incitati dall'esempio del signore, trucidarono tutti i banchettanti, e siccome il castello non era più custodito dai Demonî, così gli altri Guidi vi penetrarono. Pallida, con lo sguardo truce, la vecchia Contessa entrò nella sala, e vedendo il corpo di ser Alamanno disteso sui gradini del trono, gli tolse il pugnale che portava alla cintura e glielo immerse più volte nel cuore, gridando: - Vendetta è fatta! Dopo l'uccisione dell'usurpatore fu creato conte di Poppi il figlio minore del conte di Romena. La vecchia Contessa però volle che prima fosse gettato in Arno il corpo del traditore, e che il pugnale, lordo del sangue di lui, fosse collocato nella sala, in un cofanetto di cristallo, a perpetua memoria di quel fatto. Si dice che ogni anno, nella notte in cui ricorre l'anniversario della uccisione di ser Alamanno, il sangue accagliato sulla lama del pugnale si sciolga, e un'ombra si aggiri nelle sale del castello. Però nessuno l'ha vista, e forse ora che a Poppi non c'è più il pugnale e che da tanti secoli non vi abitano più i Guidi, quell'ombra avrà cessato le passeggiate notturne. - Brava Regina! - esclamò il professor Luigi accorgendosi che la novella era terminata. - Io mi congratulo con voi: siete inesauribile nel narrare. - Lei, signor professore, ha sentito soltanto tre novelle dalla mamma; - disse Vezzosa, - ma non sa che con questa ce ne ha raccontate trentasette, una più bella dell'altra! - E ne so dell'altre! - esclamò la vecchietta. - Fino all'autunno vi terrò allegri; poi non più, e chi sa che, col terminar delle novelle, non finisca anch'io. - Mamma! - esclamarono tutti i Marcucci in coro. - Forse vi sentite male? - No, ma ho un presentimento; mi pare che al ritorno dell'inverno ... - Zitta, mamma! - gridò Vezzosa che vedeva Cecco soffrire per quei discorsi. - Ai presentimenti non bisogna crederci, e noi vi sapremo difendere dalla cruda stagione e vi terremo nell'ovatta. - Ma non mi saprete difender dagli anni; essi passano per tutti, e alla mia età ogni anno conta per dieci. - Mamma, - osservò Cecco per distrarla, - non avete sempre detto che volevate tenere in collo i miei figliuoli come avete tenuto quelli degli altri miei fratelli? Dunque dovete cercar di star sana, perché i marmocchi miei non sono ancora nati. - Ma nasceranno! - disse la vecchia guardando di sottecchi Vezzosa, - e scommetto che poco dopo il Natale, avremo anche noi la nostra natività in famiglia. Hai ragione, bisogna scacciare i pensieri tristi e cercar di mantenersi in gamba, per accoglier degnamente il nostro bimbo. - Ora sì che siete ragionevole, - rispose Cecco. - Voi, mamma, sarete la comare, e al compare ci penseremo. - Il compare, se non vi dispiace, sarò io! - esclamò il professor Luigi. - Avrò così il diritto di chiedervi ogni tanto l'ospitalità, perché, lasciate che ve lo dica, siete una famiglia esemplare, e vivendo con voi ci si sente allargare il cuore. Cecco gongolava e Vezzosa balbettò: - Si figuri, è un onore per noi! Così fu ufficialmente annunziato alla famiglia ed agli ospiti, che la Vezzosa avrebbe avuto un bambino; ed i piccini, da quel momento, non la lasciarono più in pace. Ogni tanto volevan sapere quando ella avrebbe dato loro un cugino, e chi lo voleva maschio e chi femmina. - Aspettate! - rispondeva Vezzosa ridendo, - sarà quel che Iddio vorrà e voi gli vorrete bene. - Oh! questo è sicuro, - dicevano i bimbi. E attendevano impazienti la nascita del figlio di Vezzosa.

Espiazione avrebbe volentieri abbandonato la via maestra per rifugiarsi nei boschi ove sarebbe sfuggito agli insulti; ma una voce che gli parlava continuamente al cuore, gli diceva: - Rammentati che per meritare il perdono devi molto, molto soffrire. Ed egli, ubbidendo a quella voce, cercava gl'incontri e si presentava alla porta dei castelli chiedendo l'ospitalità. Naturalmente nessuno voleva ricoverarlo, e le guardie lo respingevano con insulti e con percosse. - Dio ve ne renda merito! - rispondeva per solito Espiazione. Un giorno giunse a Bibbiena. Il popolo, che non sapeva leggere, lo guardava con una specie di meraviglia e di terrore, ma non capiva quello che portava scritto in petto, Espiazione, che voleva far palese il suo delitto, andò a bussare in casa Dovizi, che era la più sontuosa e magnifica della città, e chiese di parlare al signore. I servi cercavano di respingerlo, ma egli si sedé su un muricciolo accanto al portone, aspettando che il padrone uscisse, e allorché lo vide, gli disse: - Signore, io ti chiedo l'ospitalità; sono sfinito, estenuato; dammi un letto dove riposare e gettami un tozzo di pane. Il signore lo fissò e gli rispose: - Non ospito traditori, ma sono cristiano e non nego un tozzo di pane a chi me lo chiede. E, rientrato in casa, fece gettare dai suoi servi una pagnotta all'infelice. A questa scena avevano assistito molte persone, perché la casa dei Dovizi era situata nella via più popolata della piccola città. Queste, udendo che il forestiero dallo strano ceffo stravolto era un traditore, lo circondarono insultandolo e tirandogli in faccia le immondizie. - Iddio ve ne renda merito! - rispondeva Espiazione. - Di tutto il male che mi farete, io vi renderò sempre grazie, poiché mi spiana la via del Cielo. Il popolo si divertiva a sentirsi ringraziare, e siccome ha istinti feroci, rincarava la dose. Ora non tirava più soltanto all'infelice torzoli, bucce e sterco di cavallo, ma correva in piazza a far provvista di sassi, che scagliava nella testa e nel petto al disgraziato, il quale rimaneva un momento sbalordito, ma appena riavutosi, senza neppur pensare a tergere il sangue che gli correva lungo il volto, ripeteva: - Iddio ve ne renda merito! Egli sorrideva in mezzo ai suoi carnefici, perché udiva la dolce voce, che gli parlava al cuore, ripetere: - Hai molto, molto sofferto; coraggio, il momento del perdono è vicino. Quel baccano chiamò alla finestra la signora del palazzo, la bella e pietosa madonna Chiara Dovizi. Vedendo un uomo disteso in terra e grondante sangue, preso a bersaglio dal popolo, ella ordinò ai servi di raccoglierlo e di portarlo in una camera, sopra un letto, e con le sue stesse mani lavò il sangue delle ferite. Ma Espiazione era giunto all'ultimo istante della sua vita e sorrideva nonostante gli atroci spasimi. Egli chiese un prete, e, confessatosi, morì santamente dopo poche ore. Madonna Chiara, che per volere del morente aveva udito la sua ultima confessione, fece dare al cavaliere della Gherardesca onorata sepoltura nella chiesa di San Francesco, e sopra un mausoleo di marmo fece scolpire lo stemma gentilizio della potente famiglia pisana e il nome che il cavaliere aveva scelto: Espiazione. La badessa Costanza, informata della morte del pentito, scrisse alla famiglia di lui e rimandò a Bolgheri la spada e il pugnale dell'estinto, assicurando che il pentimento sincero aveva lavato la macchia della colpa. - E qui è finita la novella dello stemma sanguinoso, - disse Regina rivolta ai suoi. I ragazzi non erano contenti della fine, e soprattutto volevano sapere se la bella Olimpia era proprio morta in seguito alla ferita, perché dalla novella non si ricavava. - Sì, - rispose la vecchia, - ecco una cosa che avevo dimenticato. I barbareschi, quando la videro esanime, caricarono sopra una barca tutti i tesori tolti alla sposa e quelli che avevano accumulati nella grotta, e andarono a raggiungere una nave che era in alto mare. Intanto il conte Valdifredo si era dato a cercare ovunque la sua bella sposa, e trovatala alfine morta nella grotta, le aveva dato sepoltura nel suo castello. Poi, desolato di tanta perdita, aveva costruito navi per dar la caccia ai barbareschi, e in una di quelle spedizioni aveva perduto la vita. Il castello di Bolgheri era così passato a un cugino, il quale aveva avuto dalla badessa Costanza la restituzione della spada e del pugnale. E dopo una breve pausa, la Regina domandò ai nipoti: - Ed ora siete contenti? - Sì, sì, nonna, contentissimi, e vi promettiamo che domenica saremo meno curiosi. - Peccato che Tonio e l'Annina non sentano le novelle! - disse Gigino. - Ma io le voglio tener a mente, e quando verranno le racconterò. - Che bel pasticcio ne farai! - risposero gli altri. - Pretenderesti forse di saper raccontar come la nonna? Il bimbo, umiliato da quella risposta, arrossì e stava per fare i lucciconi; ma la Vezzosa seppe consolarlo promettendogli che presto sarebbe venuto un bel bimbo, col quale egli si sarebbe potuto divertire; e di quel bimbo disse tante cose carine, che Gigino badava a ripeterle: - Zia, digli che si sbrighi a venire; io mi annoio solo; gli altri sono tutti grandi.

Per non udire questi rimproveri, che in altre condizioni sarebbero costati la vita alla imprudente donna, ser Bindo faceva a meno di farsi assistere da lei, e preferiva essere abbandonato giorno e notte come un cane. Il dottore l'aveva bell'e spacciato; le donne del paese che conoscevano la virtù delle piante, non lo volevano curare; e ser Bindo, in mezzo ad atroci spasimi, si vedeva davanti la morte, che gli metteva un grande spavento perché sapeva che, una volta nel mondo di là, avrebbe dovuto render conto delle sue azioni, e specialmente delle barbarie commesse verso il sangue suo. Un giorno, mentre spasimava e gridava come un cane arrabbiato, si presentò sull'uscio della sua camera un servo, annunziandogli che un frate francescano si offriva di curarlo. - Fatelo entrar subito, - ordinò ser Bindo. Il frate fu introdotto. Era un vecchio con la lunga barba bianca, curvo, cadente. - Fratello, - disse al malato, - io ti reco la salute, affinché tu abbia tempo di pentirti della vita che hai menato. Anche infermo, ser Bindo conservava la violenza dell'animo. Perciò divenne rosso in volto a quel rimprovero, e, drizzatosi sul letto, rispose con voce minacciosa: - Frate, è inutile che tu rimanga presso il mio letto; io non tollero accanto a me chi osa giudicare le mie azioni; vattene! - e con l'indice teso gli accennava la porta. - Non sono le tue ingiurie che mi faranno partire. Vecchio e cagionevole come sono, ho fatto il disagioso cammino dalla Verna a qui, per ordine del beato san Francesco, il quale mi ha ingiunto di disputare la tua vita alla malattia e la tua anima al suo eterno nemico, il demonio. Tu potresti anche minacciarmi di morte, ma io rimarrei! Ser Bindo, non potendosi muovere, urlò, sbraitò, senza che nessuno accorresse alle sue grida; e il frate pregava senza prestar orecchio alle villanìe che il vicario si lasciava uscir di bocca, come se non fossero dirette a lui. Così rimase il frate tutto il giorno accanto al letto dell'infermo, e questi, stanco alfine d'inveire contro di lui, e sentendo aumentare gli spasimi, disse con la sua solita manieraccia: - Se hai un rimedio, usalo, perché io mi sento morir dal dolore. Il frate era sicuro che si sarebbe venuti a questi ferri. Egli cavò da una bisaccia un vasetto di balsamo, e, sfasciate le gambe dell'infermo, le unse tutte con quello, recitando a bassa voce una preghiera. Dopo poco lo spasimo cessò, e ser Bindo, il quale non sapeva più che cosa fosse sonno, dormì profondamente per più ore. Al suo destarsi vide il frate inginocchiato che pregava, benché la notte fosse nel colmo. - Che cosa fai costì? - gli domandò il vicario. - Prego per te e attendo che tu mi chieda di assisterti, - rispose fra' Celestino. - Quale interesse ti spinge a questo? - Nessuno, fratello, altro che quello di redimere un'anima. - Non lo credo. Fra' Celestino non rispose e continuò a pregare. Ser Bindo, invece, si addormentò, ma poco dopo si destò, gridando come un dannato. - Che hai, fratello? - gli domandò fra' Celestino alzandosi e curvandosi su di lui. - Soffri forse nuovi spasimi? Il vicario accennava di no col capo, e quando si fu riavuto un poco rispose: - Frate, io ho veduto in faccia la morte, che mi voleva acchiappare, e dietro a lei v'era una voragine ardente, che ella mi accennava. Dimmi, sull'anima tua, credi tu che quella sia la pena che mi aspetta? - Se non ti penti, lo credo fermamente. L'infermo non aggiunse altro, e poco dopo si riaddormentò. Il frate continuò a pregare con maggior fervore di prima, implorando da san Francesco che intenerisse con un raggio della sua fede quell'anima indurita nel peccato. E san Francesco apparve in sogno al vicario e gli parlò con quella voce dolce che ammansiva le fiere, dimostrandogli la sua perfidia, non solo verso la gente affidata al suo governo, ma principalmente verso la moglie e i figli suoi; e gli fece vedere madonna Bice ramminga per i boschi, portandosi faticosamente in collo i tre bimbi, i tre poveri bimbi storpi, che ella guardava con beatitudine, come se fossero tre angioli di bellezza. - Quella madre è felice, - disse il Santo, - e tu pure potresti esser consolato, poiché la felicità le viene dal sentimento di aver fatto il suo dovere, dalla consolazione di dedicarsi a quelle tre creature. Il cuore indurito del vicario si commosse a quelle parole di san Francesco. - Se potessi ritrovare madonna Bice e ricondurla presso di me! - esclamò. - Se il tuo pentimento è sincero, la ritroverai, e io ti darò una guida sicura per rintracciarla, - disse il Santo, e sparì. Quella volta ser Bindo si destò senza gridare, senza spasimare, e vedendo fra' Celestino inginocchiato e pregante, gli disse: - Frate, metti un poco del tuo balsamo sulle mie ferite: io ho bisogno di guarire, perché debbo rintracciare mia moglie e i miei figli. Il frate non si meravigliò udendolo parlare in quel modo, perché sapeva che san Francesco aveva la virtù di operare grandissimi miracoli; e col balsamo unse le piaghe del vicario. Quelle piaghe si rimarginavano a vista d'occhio, e l'infermo non cessava di domandare quando sarebbe stato guarito, perché era punto dal desiderio di partire presto. Allorché in capo a tre giorni le gambe ritornarono sane come prima, ser Bindo disse al frate: - Ora che il corpo è guarito, curiamoci l'anima, venerando fratello. E inginocchiandosi dinanzi a lui, fece ampia confessione de' suoi peccati, accompagnando la narrazione con lacrime di sincero pentimento. Il frate pure piangeva commosso, vedendosi dinanzi quel grande peccatore ammansito dalla parola di san Francesco, e ringraziava umilmente il venerato capo del suo ordine di averlo scelto per istrumento della conversione di ser Bindo. Appena il vicario si fu alleggerito la coscienza da quel peso, ed ebbe pronunziato l'atto di contrizione, promettendo di scontare con tante opere di carità le sue azioni malvage, ordinò che gli fosse sellato un cavallo, e, vestitosi in fretta, partì alla ricerca di madonna Bice e dei suoi figli. Fra' Celestino lo accompagnò con le sue preghiere, e quando ser Bindo ebbe sceso il monte di Poppi, vide avverarsi la promessa del Santo, poiché da una siepe sbucò fuori un cane da pastori, che prima abbaiò per salutarlo e quindi si pose avanti al cavallo, servendo di guida al cavaliere. Così camminarono lungamente, finché il cane non si fermò sul limitare di un bosco. Il vicario vi spinse il cavallo e avrebbe voluto andar oltre, ma il cane si diede a saltargli alle gambe, quasi lo volesse trattenere. Era già notte, e ser Bindo capì che doveva pernottare in quel luogo, forse per non turbare il riposo della madre e dei bambini. Egli scese dunque da cavallo, e dopo aver mangiato le poche provviste che aveva seco, legò il cavallo a un albero sotto il quale si distese e dormì placidamente come non aveva dormito dopo che la sua anima s'era macchiata da tanti peccati. Gli uccelli, che salutavano il nuovo sole, lo destarono al far del giorno. Allora ser Bindo rimontò a cavallo, e questa volta il cane non si oppose alla sua andata; anzi, abbaiando festosamente, lo guidò fra i castagni, fino a una siepe di foltissimi pruni, che si diede a strappare con le zanne. Il cavaliere capì, e, balzando di sella, trasse la spada e cercò di aprirsi un varco nel prunaio. Ma in questo lavoro si forava le mani, lasciava la pelle attaccata agli spini e sanguinava da tutte le parti. Nonostante non cessava di tagliare per giungere alla moglie; ma ogni tanto il pensiero di vedersi davanti i tre storpiati gli toglieva il coraggio di proseguire, e allora gli veniva la voglia di scappar lontano, di lasciare madonna Bice e i tre bimbi al loro destino. In quei momenti di scoraggiamento sentiva o gli pareva di sentire la dolce voce del Santo che gli diceva: - Prosegui nella via del pentimento; non ti saranno rimessi i peccati altro che se tu ricondurrai a casa la infelice madre e i tre bimbi. E allora ser Bindo riprendeva coraggio e tagliava con più energia i pruni. Finalmente egli forò quella folta parete, e l'occhio suo si portò nel centro della spianata dove sorgeva la fontana. E quale non fu la sua gioia quando, invece di tre bimbi macilenti e deformi, vide saltare tre creature sane, belle e allegre, che si baloccavano con un caprettino di latte e ridevano delle capriole della bestiolina. Ser Bindo, senza pensare ai pruni, fece uno strappo alla pungente barriera, e in pochi salti fu accanto ai bambini e se li strinse al cuore coprendoli di sangue. Essi gettarono un grido, e madonna Bice, che era nella capanna, accorse spaventata. Ma quando ella vide il marito che accarezzava le sue creature, non poté più camminare, non poté più parlare, e cadde in ginocchio alzando le mani al cielo, in atto di profondo ringraziamento. Ella non disse al marito una sola parola di rimprovero per le sue barbarie, e appena poté moversi, corse ad attingere acqua alla fontana e con quella gli lavò le ferite. Il sangue si stagnò improvvisamente, e ser Bindo, commosso da tanta dolcezza, s'inginocchiò dinanzi alla moglie e le disse umilmente : - Mi perdoni? Ella non poté rispondere, ma gli prese la mano e la bagnò di lacrime. Poche ore dopo ser Bindo faceva salire a cavallo madonna Bice, le poneva fra le braccia i due figli maggiori, ed egli, tolto Landino in collo, conduceva il cavallo per la briglia fino al castello di Poppi. In quel momento il cane che lo aveva guidato fece un lancio e, abbaiando, sparì. La gente accorreva meravigliata sulle porte delle case per vedere passare il prepotente signore, ora così umile, e bisbigliava che soltanto un grande miracolo poteva averlo cambiato a quel modo. - Salute, fratelli! Salute, sorelle! - diceva ser Bindo passando accanto alla gente. - Pregate per l'anima mia! Da quel giorno il vicario non commise più nessuna prepotenza a danno del popolo a lui affidato, e fu eccellente marito e padre esemplare. Egli spese tutte le sue ricchezze in elemosine e nella costruzione di una chiesa, che fece erigere nel luogo dove la moglie e i figli suoi avevano passato un anno, e che dedicò a san Francesco. L'acqua della fontana, che aveva servito a togliere la deformità ai tre storpi di madonna Bice, sgorga ancora; ma ha perduto la sua virtù; forse perché nessuno l'ha usata con la stessa fede dell'infelice madre, la quale morì in tarda età, venerata da tutti e invidiata dalle altre donne per il valore, la saggezza e la generosità dei suoi figli. Qui la Regina tacque e la Vezzosa prese a dire: - Anche voi, mamma, siete invidiata per aver d'intorno una nidiata di figliuoli sani, buoni e operosi; ma a voi sono state risparmiate le prove dolorose che ebbe a sopportare madonna Bice prima di conseguire quella felicità, non è vero? La vecchia guardò la giovine sposa, poi chinò il capo, e il suo volto, di consueto così sereno, si rannuvolò. Cecco, che aveva seguìto quella scena muta, si accostò alla moglie e la tirò per la manica, affinché non ripetesse l'intempestiva domanda; poi andò verso la mamma, e, per toglierla dall'abbattimento nel quale l'avevano piombata le parole di Vezzosa, la invitò ad andare a letto. Nessuno osò più parlare quella sera, e la veglia incominciata gaiamente, terminò molto triste. - Ma che mistero c'è sotto? - domandava Vezzosa al marito. - Lo saprai, ma ora taci; non vedi come tutti si sono fatti silenziosi?

Il conte Selvatico riposava col capo abbandonato sui guanciali, e nessuna visione incresciosa ne turbava il sonno. Allorché egli aperse gli occhi, la mattina seguente, domandò alla moglie: - Come mai, madonna, l'ombra del Sire francese mi ha dato tregua? - Gli è, signor mio, - replicò Manentessa, - che il suo corpo riposa in pace, ed io per amor tuo feci atto di cui non mi credevo capace. E costì ella raccontò al conte Selvatico come aveva fatto a rinvenire le ossa del Sire di Narbona. Peraltro ella non palesò al marito l'incontro con le altre ombre, e la promessa che le avevano strappata ma che non poteva mantenere, perché non c'erano più ceri pasquali nella cappella del castello. Furono fatte grandi feste per la guarigione del signore di Pratovecchio, ma intanto che Selvatico riacquistava la forza e la baldanza, la Contessa si faceva bianca come un giglio e si struggeva ogni giorno più. Questo dipendeva dalle angosce che pativa ogni notte, quant'era lunga, poiché appena ella si riduceva nella sua camera, lo stuolo delle ombre incontrate sul limitare del pian di Campaldino, le si faceva d'attorno, e con minacce e con preghiere le rammentava la promessa. - Non vi sono più ceri pasquali e non posso tentare la prova, - rispondeva. - Non importa, sotterraci, sotterraci! - gridavano le ombre. E la trascinavano a forza fuori della sua camera e del suo castello fino al pian di Campaldino, dove la costringevano a prender la terra e a coprirne i monti d'ossami. Quel lavoro durava più ore di seguito, e all'alba la povera perseguitata si riduceva mezza morta nel suo palazzo, dove celava a tutti le angosce della notte. Una febbre continua la limava, ma le ombre implacabili ogni notte la costringevano al duro lavoro, e in breve i mucchi d'ossami non furono più esposti al sole e al sereno, ed ella ebbe un po' di tregua. Ma allora ricominciarono le tribolazioni del signore di Pratovecchio. Una notte, mentre egli dormiva placidamente, sentì la voce del Sire di Narbona, la voce tremenda che lo aveva così a lungo turbato, che diceva: - Le mie ossa sono di nuovo sopra la terra; io non ti lascerò requie finché non le avrai riunite tutte in un sepolcreto. I predoni scavarono la fossa e rubarono il cerchio d'argento che portavo al polso destro; ricuperalo. Il conte Selvatico aprì gli occhi e vide a fianco del letto la solita ombra. Allora, rivoltosi a lei, così disse: - All'alba monterò a cavallo con i miei uomini e batterò i boschi per iscoprire i predoni e ricuperare il tuo anello. Ma facciamo un patto; lasciami otto giorni di tregua. - Accetto, - disse l'ombra, - fra otto giorni soltanto mi rivedrai, - e sparì. Il Conte si armò di tutto punto e partì infatti all'alba per i boschi di Prataglia, dove sapeva si annidavano i predoni, che facevano scorrerìe nel contado. Era seguìto da un forte drappello di gente, parte a piedi parte a cavallo. La Contessa lo accompagnava con le sue preghiere, ma era afflitta, molto afflitta di vederlo partire per una spedizione così pericolosa. Dopo lungo cavalcare per monti e per boschi, giunse il signor di Pratovecchio a un casolare basso e affumicato. In sulla porta vi erano alcuni uomini che, al vederlo, si barricarono nella capanna, e dalle finestrine incominciarono a scoccar dardi contro di lui e contro i suoi. - Arrendetevi! - gridò il Conte, che intanto aveva fatto circondar la capanna da ogni lato. Gli altri risposero con una pioggia di sassi. - Appiccate il fuoco! - ordinò il Conte. In un momento furono radunate molte fascine ai quattro angoli del casolare, e le fiamme in breve ne lambivano le mura. I predoni, vedendo che non restava loro più scampo, salirono dal camino sul tetto, e continuarono a lanciare dardi e tegole. Il conte di Pratovecchio abbatté la porta con l'asta, e quindi, precipitatosi in mezzo alle fiamme, si diede a cercare. Vi erano ammassate in quella stamberga spade, misericordie, elmetti, contesti d'oro, cinture di prezioso metallo, ma il Conte non si curava di tutti quei tesori. Cercava il cerchio d'argento del Sire di Narbona, che trovò ancora infilato all'osso attorno al quale era stato ribadito, e appena l'ebbe intascato uscì da quella voragine. Di lì a poco il tetto crollò con gran rumore, e i predoni caddero nelle fiamme trovandovi la morte. Allorché l'incendio fu spento, gli uomini del conte Selvatico rinvennero fra le ceneri gran copia di argento e di oro fusi, e molte pietre preziose. Essi caricarono tutto sopra una mula e cavalcarono verso Pratovecchio. Due giorni dopo il Conte e la Contessa si recarono in processione al pian di Campaldino, e quivi riuniti in una cassa di quercia i resti mortali del Sire di Narbona li deposero nella cappella della chiesa di San Giovanni Evangelista. Con l'oro e l'argento tolto ai predoni essi fecero scolpire a Firenze, da Giotto istesso, un mausoleo di marmo con l'effigie del Sire di Narbona, vestito della armatura e posto a giacere sulla cassa. Da quel tempo l'ombra del cavaliere non funestò più i sonni del conte di Pratovecchio, ma è certo che la pia Manentessa non riuscì con le sue mani a coprir di terra le ossa di tutti i morti di Campaldino, perché ancora si dice che chi viene a passar di notte in prossimità del campo, vede delle ombre avvolte in lenzuoli bianchi. Per anni e anni l'aratro non è mai passato su quei campi, che bevvero il sangue de' guelfi di Firenze e de' ghibellini di Casentino, ma ora che il piano è di nuovo coltivato, ogni tanto si trovano mucchi d'ossa bianche, sulle quali la contessa di Pratovecchio aveva sparso la terra. E qui la novella è finita. - Voi, babbo, - domandò l'Annina, rivolta a Maso, - voi che passate dal pian di Campaldino anche di notte, per andare alla fiera di Pratovecchio o di Stia, l'avete viste le ombre? - Io no; ho visto bensì qualche volta delle ombre nere sul terreno, ma eran le ombre dei pioppi. L'Annina tempestò di domande tutti gli zii a uno a uno, ma da tutti ebbe la medesima risposta. Ombre non ne avevan vedute. Cecco poi l'assicurò che i morti non tornano. - Ma io non ci passerei davvero, di notte, da Campaldino, - disse l'Annina, dopo che Cecco si fu sgolato a dimostrarle che le ombre non si vedevano. - Domani sera, - disse la Regina, - vi racconterò una novella più allegra. - Come si chiama? - domandarono i bimbi. - La Novella del frate zoppo; - rispose ella, - ora andate a letto e dormite in pace, come in pace riposa il Sire di Narbona.

Di questo mi affliggevo molto, ma non ne facevo parola con nostra madre, la quale, abbandonato il governo dei feudi a Roberto, passava la vita ritirata nelle sue stanze, in mezzo alle donne, occupata in lavori d'ago e in preghiere. - Giunse il giorno malaugurato della giostra, e quei malvagi che mi avevano sempre incitato contro il fratel mio, presero a dirmi che non dovevo lasciarmi sfuggire quella occasione e dimostrargli che lo vincevo in prodezza, in valore, e che più di lui ero degno di portare il titolo di duca. - Mi guardi il Cielo di accusare loro soli del mio peccato; se non avessero trovato in me un uditore compiacente, se la perfidia dell'anima mia non fosse stata loro palese, non avrebbero osato parlarmi in cotal maniera. Stava a me a non prestare ascolto a quelle parole malvage, e purtroppo non seppi né volli farlo! - Da tutte le parti della Sicilia i baroni avevan risposto all'invito del duca Roberto, e il prato dinanzi al nostro fortissimo castello, che cinge tutta la cima di un alto e aspro monte, era pieno di cavalieri pronti a scendere nella lizza, coperti di ricche armature, e montati sopra corsieri impazienti. - In un palco, eretto sul fondo del prato, stava mia madre, e aveva a fianco la fidanzata di Roberto, la contessina Costanza, bella e riccamente adorna di monili gemmati, poiché le nozze si dovevano celebrare il giorno successivo al torneo. - Roberto scese in campo, e io, nel vederlo, mi sentii ribollire il sangue, perché le trombe lo salutarono e i baroni abbassarono la spada in segno d'omaggio. - Corse egli contro un barone e lo scavalcò, e mentre si formava di nuovo il campo, mi presento io con la visiera calata, vestito di un'armatura senza stemma, e cavalcando un cavallo preso a prestito da un signorotto, che era fra i più acerbi nemici del duca Roberto. Mi si domanda il mio nome; io altero la voce e rispondo che non voglio rivelarlo, ma desidero misurarmi col Duca. Questi accetta l'inusitato invito; corriamo, io lo incalzo, lo assalgo come un forsennato per aver la soddisfazione di vederlo dinanzi a me per terra, e ci riesco. Ma che vanto doloroso! - Roberto, nel cadere, era rimasto con un piede nella staffa, e il cavallo, spaventato, s'era dato a correre trascinando seco il cavaliere. - Accorsero i valletti a fermarlo; i baroni circondarono il duca, ma quando gli ebbero sciolto il cimiero e slacciata la maglia, il suo cuore non batteva più. Vidi mia madre cadere svenuta, la bella contessina Costanza piangere, ed io, preso dal rimorso, approfittando di quel momento di confusione, mi diedi a fuggire giù per il monte spronando il cavallo a corsa precipitosa, e non mi sarei mai fermato se l'animale, a un certo punto, non avesse rifiutato di andar oltre. Ormai il rimorso mi perseguitava e non avevo più pace. - Entrai in una casa di contadini e domandai ricovero per la notte. Mi fu concesso in una capanna; ma appena mi fui addormentato, così vestito e armato come ero, sopra un mucchio di fieno accanto al mio cavallo, cui non avevo tolta la sella, venni destato da un rumore di voci. Aprii gli occhi e vidi intorno a me molta gente in atto minaccioso, che mi gridava: - "Ecco l'uccisore di Roberto! Ecco il fratricida!" - Balzai in sella, mi feci largo con la spada e corsi a precipizio nella campagna, inseguìto da quelle grida che mi giungevano al cuore come una maledizione. - Giunto a Messina, volli imbarcarmi sopra una nave che andava a Reggio, per fuggire l'isola, sperando di fuggire il rimorso del mio delitto. - A Messina incontrai quei malvagi che mi avevano incitato nell'odio contro il fratel mio, i quali ad ogni costo mi volevano ricondurre al nostro castello dicendomi che io non dovevo soverchiamente affliggermi, poiché non avevo ucciso mio fratello. Se era morto, lo doveva alla sua imperizia nel maneggiar l'armi e nello stare in sella, e che non era giusto che, per una fisima, io rinunziassi a ereditare i titoli e le baronie che mi spettavano. - Chiusi gli orecchi a quei suggerimenti e volli andarmene ramingo per il mondo a espiare il mio peccato. M'imbarcai infatti, e, giunto in Calabria, mi diedi a difendere i deboli contro i forti, gli oppressi contro gli oppressori. Ma non ero stato un giorno in paese, che, per mia punizione, non venisse scoperto l'essere mio, e non fossi additato come l'uccisore di mio fratello. - Così pellegrinai fino a Roma, cibandomi scarsamente, pregando, combattendo per i miseri. Quivi, in San Giovanni Laterano, feci la confessione generale dei miei peccati, e il buon vescovo che mi assolse, mi disse di sperare nella misericordia divina e di far vita da eremita. - Ripresi quindi il pellegrinaggio cercando un luogo alpestre e solitario, vicino a un paese dove potessi giovare in qualche modo al prossimo mio, e mi stabilii su questo prato. Or sono quarant'anni che vi dimoro, ed è quassù che ho avuto la suprema consolazione di sapere che il mio peccato era perdonato. Me ne sono accorto vedendo che il Signore si è servito di me per beneficarvi, ed ha esaudito le mie preghiere. - Ora sono presso alla morte, e questa confessione spero vi sarà d'esempio a non cedere alle passioni, e a non dare ascolto ai cattivi suggerimenti. Il vecchio ricadde estenuato su quel tappeto di erbe aromatiche e di fiori, e il popolo si affollò intorno a lui, piangente, per baciargli la mano e il saio. La contessa Sofia fece cenno che l'agonia del Romito non fosse turbata, e ordinò alla folla di pregare. E mentre tutti rivolgevano a Dio preci per il morente, l'anima di lui si sprigionava dal corpo e, accompagnata da quel coro unanime, saliva lentamente al cielo. Allora avvenne un fatto non mai accaduto. Si alzò una brezza dolcissima e in un momento si videro turbinare nell'aria migliaia e migliaia di fiori, che andarono a coprire il corpo del santo Romito, mentre su nel cielo tante e tante voci dolcissime cantavano: Osanna! Quando la contessa Sofia, a capo della processione, tornò piangendo in paese, vide che non era più la sola fonte detta Buca del Tesoro che gettava l'acqua salutare, ma che dal terreno sgorgavano in molti punti delle fonti della stessa acqua. Da quel tempo in poi Chitignano salì in rinomanza per le sue sorgenti, e quell'acqua ha sanato più malati che non ci sono stelle in cielo e pesci in mare. La Regina tacque e Maso disse: - Mamma, avete fatto bene a raccontar questa novella. Non si sa mai se nell'anima di qualcuno dei bambini che vi ha ascoltata non vi sia la pianta velenosa dell'invidia. Quest'esempio basterà loro ad estirparla, perché quel Romito, prima di giungere al prato di Casella, deve aver patito quanto Caino. Noi, se Dio vuole, - aggiunse guardando sorridente i fratelli, - l'invidia non abbiamo mai saputo che faccia avesse, e ci siam voluti bene davvero. - E spero che ve ne vorrete anche quando io sarò sottoterra, - disse la Regina. - Fratelli, non è un miracolo che vi vogliate bene, - saltò su a dire la Carola. - Ma che non è una cosa rara di veder quattro cognate che van d'accordo più che sorelle? Scommetto che se giraste mezzo mondo, non ne trovereste altre quattro come noi! E ora tocca a te, Cecco, a mettere in casa una donna buona, e che sia del nostro medesimo sentimento. Moglie la devi pigliare, e di gusto tuo; ma prima di prenderla guarda che sia davvero una donna come si deve. Cecco sorrise e non disse né si né no; ma siccome quel discorso lo noiava, rispose alla Carola che ne lasciava a lei la scelta. Durante questo discorso, Vezzosa s'era tirata da parte e adagio adagio aveva preso a leggere Le mie prigioni Cecco le si avvicinò e le disse: - Pigliate pure codesto libro, poiché non è di quelli che mettono i grilli in testa; anzi, è uno di quei libri che tutti dovrebbero leggere. - Grazie, Cecco, - rispose la ragazza, e lo nascose sotto il grembiale. Quella sera, nel percorrere il breve tragitto che separava il podere dei Marcucci da quello del Vezzosi, padre della bella ragazza, i due giovani parlarono soltanto della bontà d'animo che traspariva dal libro del Pellico fin dalle prime pagine. Peraltro, Cecco, nel lasciare la Vezzosa, le disse: - A domenica, non è vero? - A domenica, - rispos'ella.

La tregua

680003
Levi, Primo 2 occorrenze

Nel campo di Buna abbandonato dai tedeschi la camera degli infettivi, in cui i due francesi e io eravamo riusciti a sopravvivere e ad instaurare una parvenza di civiltà, rappresentava un' isola di relativo benessere: nel reparto contiguo, il reparto dei dissenterici, la morte dominava incontrastata. Attraverso la parete di legno, a pochi centimetri dalla mia testa, sentivo parlare in italiano. Una sera, mobilitando le poche energie che mi restavano, mi ero deciso ad andare a vedere chi viveva ancora là dietro. Avevo percorso il corridoio buio e gelato, avevo aperto la porta, e mi ero trovato precipitato nel regno dell' orrore. Erano un centinaio di cuccette: la metà almeno erano occupate da cadaveri irrigiditi dal freddo. Solo due o tre candele rompevano l' oscurità: le pareti e il soffitto si perdevano nelle tenebre, talché sembrava di penetrare in una enorme spelonca. Non vi era alcun riscaldamento, ad eccezione degli aliti infetti dei cinquanta malati ancora vivi. Malgrado il gelo, il tanfo di feci e di morte era così intenso che mozzava il fiato, e bisognava fare violenza ai propri polmoni per costringerli ad attingere quell' aria corrotta. Pure cinquanta vivevano ancora. Stavano raggomitolati sotto le coperte; alcuni gemevano o urlavano, altri scendevano con pena dalle cuccette per evacuare sul pavimento. Chiamavano nomi, pregavano, imprecavano, imploravano aiuto in tutte le lingue d' Europa. Mi trascinai a tastoni lungo una delle corsie fra le cuccette a tre piani, incespicando e barcollando nel buio sullo strato di escrementi gelati. Udendo il mio passo, le grida raddoppiarono: mani adunche uscivano di sotto le coperte, mi trattenevano per gli abiti, mi toccavano fredde il viso, tentavano di sbarrarmi la strada. Giunsi infine alla parete divisoria, in fondo alla corsia, e trovai chi cercavo. Erano due italiani in una sola cuccetta, stretti fra loro in un viluppo per difendersi dal gelo: Cesare e Marcello. Conoscevo bene Marcello: veniva da Cannaregio, l' antichissimo ghetto di venezia, era stato a Fossoli con me, e aveva passato il Brennero nel vagone attiguo al mio. Era sano e forte, e fino alle ultime settimane di Lager aveva tenuto duro, sopportando valorosamente la fame e la fatica: ma il freddo dell' inverno lo aveva piegato. Non parlava più, ed io, al lume del fiammifero che accesi, stentai a riconoscerlo: un viso giallo e nero di barba, tutto naso e denti; gli occhi lucidi e dilatati dal delirio, fissi nel vuoto. Per lui c' era poco da fare. Cesare, invece, lo conoscevo appena, poiché era arrivato a Buna da Birkenau pochi mesi prima. Mi chiese acqua, prima che cibo: acqua, perché da quattro giorni non beveva, e lo bruciava la febbre, e la dissenteria lo svuotava. Gliene portai, insieme con gli avanzi della nostra minestra: e non sapevo di porre così le basi di una lunga e singolare amicizia. Le sue capacità di ripresa dovevano essere straordinarie, poiché lo ritrovai nel campo di Bogucice due mesi dopo, non solo ristabilito, ma poco meno che florido, e vispo come un grillo; eppure era reduce da una avventura addizionale che aveva messo a estrema prova le naturali qualità del suo ingegno, consolidate alla dura scuola del Lager. Dopo l' arrivo dei russi, era stato ricoverato anche lui in Auschwitz fra i malati, e siccome la sua malattia non era grave, e la sua fibra robusta, era guarito presto; anzi, un po' troppo presto. Verso la metà di marzo, le armate tedesche in rotta si erano concentrate attorno a Breslavia, e avevano tentato una ultima disperata controffensiva in direzione del bacino minerario slesiano. I russi erano stati colti di sorpresa: forse sopravvalutando l' iniziativa avversaria, si erano affrettati ad approntare una linea difensiva. Occorreva una lunga trincea anticarro, che sbarrasse la valle dell' Oder fra Oppeln e Gleiwitz: le braccia erano scarse, l' opera colossale, la necessità urgente, e i russi provvidero secondo le loro consuetudini, in modo estremamente sbrigativo e sommario. Un mattino, verso le nove, armati russi avevano improvvisamente bloccato alcune strade centrali di Katowice. A Katowice, e in tutta la Polonia, mancavano gli uomini: la popolazione maschile in età di lavoro era sparita, prigioniera in Germania e in Russia, dispersa nelle bande partigiane, massacrata in battaglia, nei bombardamenti, nelle rappresaglie, nei Lager, nei ghetti. La Polonia era un paese in lutto, un paese di vecchi e di vedove. Alle nove di mattina non c' erano che donne in strada: massaie con la borsa o il carrettino, in cerca di viveri e di carbone per le botteghe e i mercati. I russi le avevano messe in fila per quattro con la borsa e tutto, le avevano condotte alla stazione e spedite a Gleiwitz. Simultaneamente, e ciò cinque o sei giorni prima che io vi arrivassi col greco, avevano circondato a un tratto il campo di Bogucice: urlavano come cannibali, e sparavano colpi in aria per intimorire chi tentasse di svignarsela. Avevano messo a tacere senza molti complimenti i colleghi tranquilli della Kommandantur, che avevano cercato timidamente di interporsi, erano penetrati nel campo coi mitra all' anca, e avevano fatto uscire tutti dalle baracche. Sullo spiazzo centrale del campo si era quindi svolta una sorta di versione caricaturale delle selezioni tedesche. Una versione assai meno sanguinosa, poiché si trattava di andare al lavoro e non alla morte; in compenso, molto più caotica ed estemporanea. Mentre alcuni soldati andavano per le baracche a snidare i renitenti, e li inseguivano poi in corsa pazza come in un gran gioco di rimpiattino, altri si erano messi sulla porta, ed esaminavano uno per uno gli uomini e le donne che a mano a mano venivano loro presentati dai cacciatori, o si presentavano spontaneamente; il giudizio se "bolnoj" o "zdorovyj" (ammalato o sano) veniva pronunziato collegialmente, per acclamazione, non senza dispute rumorose nei casi controversi. Il "bolnoj" venivano rimandati in baracca; gli "zdorovyj" messi in fila davanti al reticolato. Cesare era stato fra i primi a capire la situazione ("a svagare il movimento", diceva lui), si era condotto con lodevole perspicacia, e per un pelo non era riuscito a farla franca: si era nascosto nella legnaia, un posto a cui nessuno aveva pensato, e ci era rimasto fino alla fine della caccia, ben zitto e fermo sotto i tronchetti, un spalliera dei quali si era fatta crollare addosso. Ed ecco, uno schiappino qualsiasi, in cerca di rifugio, era venuto a cacciarsi là dentro tirandosi dietro un russo che lo inseguiva. Cesare era stato pescato, e dichiarato sano: per pura rappresaglia, perché era uscito di fra la legna che sembrava un Cristo in croce, anzi, uno storpio deficiente, e avrebbe commosso un sasso: tremolava tutto, si era fatto venire la bava alla bocca, e camminava tutto sbilenco, arrancando, trascinando una gamba, con gli occhi strabici e spiritati. Lo avevano ugualmente aggregato alla fila dei sani: dopo qualche secondo, con una fulminea inversione di tattica, aveva tentato di darsela a gambe, e di rientrare nel campo per il buco nel fondo. Ma era stato raggiunto, aveva rimediato una sventola e un calcio negli stinchi, e si era rassegnato alla sconfitta. I russi li avevano portati fino oltre Gleiwitz a piedi, più di trenta chilometri; laggiù li avevano sistemati alla meglio in stalle e fienili, e gli avevano fatto fare una vita da cani. Mangiare poco, e sedici ore al giorno di picco e pala, pioggia o sole che fosse, col russo sempre lì col mitra puntato: gli uomini alla trincea, e le donne (quelle del campo e le polacche trovate in strada) a pelare patate, fare cucina e le pulizie. Era dura; ma a Cesare più che il lavoro e la fame cuoceva lo smacco. Farsi castigare così, come un pivetto, lui che aveva tenuto banco a Porta Portese! Tutto Trastevere ne avrebbe riso. Bisognava che si riabilitasse. Lavorò tre giorni; il quarto, barattò la pagnotta contro due sigari. Uno lo mangiò; l' altro, lo fece macerare nell' acqua e se lo tenne tutta notte sotto l' ascella. Il giorno dopo era pronto per marcare visita: aveva tutto quanto occorreva, una febbre da cavallo, coliche orrende, vertigini, vomito. Lo misero a letto, ci stette fino a che l' intossicazione fu smaltita, poi di notte se ne andò liscio come l' olio, e se ne tornò a Bogucice a piccole tappe, con la coscienza tranquilla. Trovai modo di farlo sistemare nella mia camera, e non ci separammo più fino al viaggio di ritorno. _ Qui ci risiamo, _ disse Cesare infilandosi le brache, cupo in viso, quando, pochi giorni dopo il suo ritorno, la quiete notturna del campo fu drammaticamente rotta. Era un finimondo, una esplosione: soldati russi correvano su e giù per i corridoi, battevano contro le porte delle camerate col calcio dei mitra, urlando comandi concitati e incomprensibili; poco dopo arrivò lo stato maggiore, Marja in cernecchi, Egorov e Dancenko vestiti a mezzo, seguiti dal ragionier Rovi, smarrito e insonnolito ma in alta uniforme. Bisognava alzarsi e vestirsi, subito. Perché? Erano tornati i tedeschi? Ci trasferivano? Nessuno sapeva niente. Riuscimmo infine a catturare Marja. No, i tedeschi non avevano sfondato il fronte, ma la situazione era ugualmente molto grave. "Inspektsija": quel mattino stesso arrivava un generale, da Mosca, a ispezionare il campo. L' intera Kommandantur era in preda al panico e alla disperazione, in uno stato d' animo da dies irae. L' interprete di Rovi galoppava di camerata in camerata, vociferando ordini e contrordini. Comparvero scope, stracci, secchi; tutti erano mobilitati, bisognava pulire i vetri, fare sparire i cumuli di immondizie, spazzare i pavimenti, lucidare le maniglie, togliere le ragnatele. Tutti si misero al lavoro, sbadigliando e imprecando. Passarono le due, le tre, le quattro. Verso l' alba, si cominciò a sentire parlare di "ubornaja": la latrina del campo rappresentava infatti un brutto problema. Era un edificio in muratura, situato nel bel mezzo del campo, ampio, vistoso, impossibile a nascondere o a mascherare. Da mesi nessuno provvedeva alla pulizia e alla manutenzione: all' interno, il pavimento era sommerso da un palmo di lordura stagnante, tanto che vi avevamo confitto grossi sassi e mattoni, e per entrare si doveva saltellare dall' uno all' altro in equilibrio precario. Dalle porte e dalle crepe dei muri il liquame traboccava all' esterno, attraversava il campo sotto forma di rigagnolo fetido, e si perdeva a valle in mezzo ai prati. Il capitano Egorov, che sudava sangue e aveva perduto compiutamente la testa, scelse fra noi una corvée di dieci uomini, e li fece mandare sul posto con scope e secchi di cloro, con l' incarico di fare pulizia. Ma era chiaro a un bambino che dieci uomini, anche se muniti di strumenti adatti, e non solo di scope, ci avrebbero impiegato almeno una settimana ; e quanto al cloro, tutti i profumi d' Arabia non sarebbero bastati a bonificare il luogo. Non è infrequente che dall' urto fra due necessità scaturiscano decisioni insensate, là dove sarebbe più savio lasciare che il dilemma si sciolga per virtù propria. Un' ora più tardi (e l' intero campo ronzava come un alveare disturbato) la corvée venne richiamata, e si videro arrivare tutti e dodici i territoriali del comando, con legname, chiodi, martelli, e rotoli di filo spinato. In un batter d' occhio tutte le porte e le finestre della scandalosa latrina furono chiuse, sbarrate, sigillate con tavole di abete spesse tre dita, e tutte le pareti, fino al tetto, furono coperte da un groviglio inestricabile di filo spinato. La decenza era salva: il più diligente degli ispettori non avrebbe potuto materialmente mettervi piede. Venne mezzogiorno, venne sera, e del generale nessuna traccia; il mattino dopo se ne parlava già un po' meno; il terzo giorno non se ne parlava più affatto, i russi della Kommandantur erano ritornati alla loro abituale e benefica incuria e sciatteria, due tavole erano state schiodate dalla porta di dietro della latrina, e tutto era rientrato nell' ordine. Un ispettore venne, tuttavia, qualche settimana più tardi; venne a controllare l' andamento del campo, e più precisamente le cucine, e non era un generale, ma un capitano che portava un bracciale con la sigla NKVD, di fama lievemente sinistra. Venne, e dovette trovare particolarmente gradevoli le sue mansioni, o le ragazze della Kommandantur, o l' aria dell' Alta Slesia, o la vicinanza dei cuochi italiani: perché non se ne andò più, e restò a ispezionare la cucina tutti i giorni fino a giugno, quando partimmo, senza esercitare visibilmente alcun' altra attività utile. La cucina, gestita da un barbarico cuoco bergamasco e da un numero imprecisato di assistenti volontari grassi e lustri, era situata subito fuori della recinzione, ed era costituita da un capannone riempito quasi per intero dalle due grosse marmitte di cottura, che riposavano su fornelli di cemento. Vi si entrava salendo due scalini, e non c' era porta. L' ispettore fece la sua prima ispezione con molta dignità e serietà, prendendo appunti su un libretto. Era un ebreo sulla trentina, lunghissimo e dinoccolato, con un bel volto ascetico da Don Chisciotte. Ma il secondo giorno aveva scovato chissà dove una motocicletta, e fu folgorato da un così ardente amore, che da allora in poi non furono più visti disgiunti mai. La cerimonia della ispezione divenne un pubblico spettacolo, a cui assistevano sempre più numerosi i borghesi di Katowice. L' ispettore arrivava verso le undici come una tromba d' aria: frenava di colpo con stridore orribile, e facendo perno sulla ruota anteriore faceva sbandare quella posteriore di un quarto di cerchio. Senza arrestarsi, puntava verso la cucina a testa bassa, come un toro che carichi; superava i due gradini con paurosi sobbalzi; descriveva due . frettolosi, con tutto lo scappamento aperto, intorno alle marmitte; volava nuovamente gli scalini all' ingiù, salutava militarmente il pubblico con un sorriso radioso, si curvava sul manubrio, e spariva in una nuvola di fumo glauco e di fracasso. Il gioco andò liscio per varie settimane; poi, un giorno non si vide né motocicletta né capitano. Questo stava in ospedale, con una gamba rotta; quella era nelle mani amorevoli di un cenacolo di aficionados italiani. Ma furono rivisti ben presto in circolazione: il capitano aveva fatto adattare una mensolina al telaio, e vi teneva appoggiata la gamba ingessata, in posizione orizzontale. Il suo viso dal nobile pallore era atteggiato a felicità estatica; così combinato, riprese con impeto appena ridotto le sue quotidiane ispezioni. Solo quando venne aprile, le ultime nevi si furono sciolte, e il mite sole ebbe prosciugato il fango polacco, incominciammo a sentirci veramente liberi. Cesare era già stato in città varie volte, e insisteva perché lo seguissi nelle sue spedizioni: mi decisi infine a superare l' inerzia, e partimmo insieme in una splendida giornata primaverile. Su richiesta di Cesare, a cui interessava l' esperimento, non uscimmo dal buco nel reticolato. Uscii io per primo dalla porta grande; la sentinella mi domandò come mi chiamavo, poi mi chiese il lasciapassare ed io lo presentai. Controllò: il nome corrispondeva. Io girai l' angolo, e attraverso il filo spinato passai il rettangolino di cartone a Cesare. La sentinella domandò a Cesare come si chiamava. Cesare rispose "Primo Levi". Gli chiese il lasciapassare: il nome corrispondeva nuovamente, e Cesare uscì in piena legalità. Non che Cesare tenga molto ad agire legalmente: ma gli piacciono le eleganze, i virtuosismi, mettere il prossimo nel sacco senza farlo soffrire. Eravamo entrati in Katowice allegri come scolari in vacanza, ma il nostro umore spensierato urtava ad ogni passo con lo scenario in cui ci addentravamo. Ad ogni passo ci imbattevamo nelle vestigia della tragedia immane che ci aveva sfiorati e miracolosamente risparmiati. Tombe ad ogni quadrivio, tombe mute e frettolose, senza croce ma sormontate dalla stella rossa, di militari sovietici morti in combattimento. Uno sterminato cimitero di guerra in un parco della città, croci e stelle commiste, e quasi tutte recavano la stessa data: la data della battaglia per le vie, o forse dell' ultimo sterminio tedesco. In mezzo alla via principale, tre, quattro carri armati tedeschi, apparentemente intatti, trasformati in trofei e in monumenti; il prolungamento ideale del cannone di uno fra questi faceva capo a un enorme foro, a metà altezza della casa di fronte: il mostro era morto distruggendo. Ovunque rovine, scheletri di cemento, travi di legno carbonizzate, baracche di lamiera, gente in stracci, dall' aria selvaggia e famelica. Ai crocicchi importanti, segnalazioni stradali infisse a cura dei russi, e curiosamente contrastanti con il nitore e la precisione prefabbricata delle analoghe insegne tedesche, viste prima, e di quelle americane che avremmo viste dopo: rozze tavole di legno greggio, con su scarabocchiati i nomi a mano, col catrame, in caratteri cirillici ineguali. Gleiwitz, Cracovia, Czenstochowa: anzi, poiché il nome era troppo lungo, "Czenstoch" su una tavola, e poi "owa" su di un' altra tavola più piccola, inchiodata sotto. Eppure la città viveva, dopo gli anni di incubo della occupazione nazista e l' uragano del passaggio del fronte. Molte botteghe e caffè erano aperti; addirittura proliferante il mercato libero; in funzione i tram, i pozzi di carbone, le scuole, i cinematografi. Per quel primo giorno, poiché fra tutti e due non avevamo un soldo, ci accontentammo di un giro di ricognizione. Dopo qualche ora di marcia in quell' aria frizzante, la nostra fame cronica si era riacutizzata. _ Vieni con me, _ disse Cesare, _ andiamo a fare colazione. Mi condusse al mercato, nell' ala dove stavano le bancarelle della frutta. Sotto gli occhi malevoli della fruttivendola, colse dal primo banco una fragola, una sola, ma ben grossa, la masticò piano piano, con aria di intenditore, poi scosse il capo: _ Nié ddobre, _ disse severamente. (_ È in polacco, _ mi spiegò; vuol dire che non sono buone _.) Passò al banco successivo, e ripeté la scena; e così con tutti fino all' ultimo. _ Beh? Che aspetti? _ mi disse poi con cinica fierezza: _ Se hai fame, non hai che da fare come me. Certo, non era con la tecnica delle fragole che ci saremmo messi a posto. Cesare aveva capito la situazione, e cioè che quello era il momento di dedicarsi seriamente al commercio. Mi spiegò il suo sentimento: con me era amico, e non mi chiedeva niente, se volevo potevo andare sul mercato con lui, magari dargli anche una mano e imparare il mestiere, ma era indispensabile che lui si trovasse un vero socio, che disponesse di un piccolo capitale iniziale e di una certa esperienza. Anzi, per verità lo aveva già trovato, un certo Giacomantonio dalla faccia da galera, suo vecchio conoscente di San Lorenzo. La forma della società era estremamente semplice: Giacomantonio avrebbe comperato, lui avrebbe venduto, e si sarebbero divisi gli utili in parti uguali. Comperato che cosa? Di tutto, mi disse: qualunque cosa capitava. Cesare, benché avesse poco più di vent' anni, vantava una preparazione merceologica sorprendente, paragonabile a quella del greco. Ma, superate le analogie superficiali, mi resi conto ben presto che fra il greco e lui correva un abisso. Cesare era pieno di calore umano, sempre, in tutte le ore della sua vita, e non solo fuori orario come Mordo Nahum. Per Cesare il "lavoro" era volta a volta una sgradevole necessità, o una divertente occasione di incontri, e non una gelida ossessione, né una luciferesca affermazione di se stesso. L' uno era libero, l' altro schiavo di sé; l' uno avaro e ragionevole, l' altro prodigo ed estroso. Il greco era un lupo solitario, in eterna guerra contro tutti, vecchio anzitempo, chiuso nel cerchio della sua ambizione trista. Cesare era un figlio del sole, un amico di tutto il mondo, non conosceva l' odio né il disprezzo, era vario come il cielo, festoso, furbo e ingenuo, temerario e cauto, molto ignorante, molto innocente e molto civile. Nella combinazione con Giacomantonio io non volli entrare, ma accettai di buon grado l' invito di Cesare ad accompagnarlo qualche volta al mercato, come apprendista, interprete e portatore. Lo accettai, non solo per amicizia, e per fuggire la noia del campo, ma soprattutto perché assistere alle imprese di Cesare, anche alle più modeste e triviali, costituiva una esperienza unica, uno spettacolo vivo e corroborante, che mi riconciliava col mondo, e riaccendeva in me la gioia di vivere che Auschwitz aveva spenta. Una virtù quale quella di Cesare è buona in sé, in senso assoluto; è sufficiente a conferire nobiltà a un uomo, a riscattarne molti eventuali difetti, a salvarne l' anima. Ma in pari tempo, e su di un piano più pratico, essa costituisce una scorta preziosa per chi intenda esercitare il commercio sulle pubbliche piazze: infatti al fascino di Cesare non era insensibile nessuno, né i russi del comando, né i compagni assortiti del campo, né i cittadini di Katowice che frequentavano il mercato. Ora, è chiaro altresì che, per le dure leggi del commercio, quanto è di vantaggio a chi vende è svantaggioso a chi compra, e viceversa. Aprile volgeva al fine, e il sole era già caldo e franco, quando Cesare venne ad aspettarmi dopo la chiusura dell' ambulatorio. Il suo socio patibolare aveva fatto una serie di colpi brillanti: aveva comperato per cinquanta zloty complessivi una penna stilografica che non scriveva, un contasecondi, e una camicia di lana in discrete condizioni. Questo Giacomantonio, dal fiuto esperto di ricettatore, aveva avuto la eccellente idea di mettersi di piantone alla stazione di Katowice, in attesa dei convogli russi che rientravano dalla Germania: quei soldati, ormai smobilitati e sulla strada di casa, erano i contraenti più faciloni che si possano immaginare. Erano pieni di allegria, di noncuranza e di preda, non conoscevano le quotazioni locali, e avevano bisogno di soldi. D' altronde, metteva conto di passare qualche ora alla stazione anche al di fuori di ogni fine utilitario, ma solo per assistere allo straordinario spettacolo dell' Armata Rossa in rimpatrio: spettacolo ad un tempo corale e solenne come una migrazione biblica, e ramingo e variopinto come una trasferta di saltimbanchi. Sostavano a Katowice lunghissimi convogli di carri merci adibiti a tradotta: erano attrezzati per viaggiare mesi, forse fino al Pacifico, ed ospitavano alla rinfusa, a migliaia, militari e civili, uomini e donne, ex prigionieri, tedeschi a loro volta prigionieri; e inoltre merci, mobilia, bestiame, impianti industriali smobilitati, viveri, materiale bellico, rottami. Erano villaggi ambulanti: alcuni carri contenevano quanto appariva un nucleo familiare, una o due paia di letti matrimoniali, un armadio a specchi, una stufa, una radio, sedie e tavoli. Fra un vagone e l' altro erano tesi fili elettrici di fortuna, provenienti dal primo vagone che conteneva un generatore; servivano per l' illuminazione, e in pari tempo a stendervi la biancheria ad asciugare (e a sporcarsi di fuliggine). Quando al mattino si aprivano le porte scorrevoli, sullo sfondo di quegli interni domestici apparivano uomini e donne vestiti a mezzo, dalle larghe faccie assonnate: si guardavano intorno frastornati, senza saper bene in quale punto del mondo si trovavano, poi scendevano a lavarsi all' acqua gelida degli idranti, e offrivano in giro tabacco e fogli della "Pravda" per arrotolare sigarette. Partii dunque per il mercato con Cesare, che si proponeva di rivendere (magari ai russi stessi) i tre oggetti sopra descritti. Il mercato aveva ormai perso il suo primitivo carattere di fiera delle miserie umane. Il razionamento era stato abolito, o piuttosto era caduto in disuso; dalla ricca campagna circostante arrivavano i carri dei contadini con quintali di lardo e di formaggio, con uova, polli, zucchero, frutta, burro: giardino di tentazioni, sfida crudele alla nostra fame ossessiva e alla nostra mancanza di quattrini, incitamento imperioso a procurarcene. Cesare vendette la penna al primo colpo, per venti zloty, senza contrattazione. Non aveva assolutamente bisogno di interprete: parlava soltanto italiano, anzi romanesco, anzi ancora, il gergo del ghetto di Roma, costellato di vocaboli ebraici storpiati. Certo non aveva altra scelta, perché altre lingue non conosceva: ma, a sua insaputa, questa ignoranza giocava fortemente a suo vantaggio. Cesare "giocava nel suo campo", per dirla in termini sportivi: per contro, i suoi clienti, tesi a interpretare la sua parlata incomprensibile e i suoi gesti mai visti, erano distolti dalla necessaria concentrazione; se facevano controfferte, Cesare non le comprendeva, o fingeva testardamente di non comprenderle. L' arte del ciarlatano non è così diffusa come io pensavo: il pubblico polacco pareva la ignorasse, e ne era affascinato. Cesare poi era un mimo di gran classe: sventolava la camicia nel sole, tenendola ben stretta per il colletto (sotto il colletto c' era un buco, ma Cesare la teneva in mano proprio nel punto dove c' era il buco), e ne proclamava le lodi con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni inedite ed insulse, apostrofando a tratti questo o quello fra il pubblico con nomignoli osceni che si inventava sul momento. Si interruppe bruscamente (conosceva per istinto il valore oratorio delle pause), baciò la camicia con affetto, e poi, con voce risoluta e insieme commossa, come se gli piangesse il cuore a separarsene, e vi si inducesse solo per amore del suo prossimo, _ Tu, panzone, _ disse: _ quanto mi daresti per sta cosciuletta? Il panzone rimase interdetto. Guardava la "cosciuletta" con desiderio, e con la coda dell' occhio si sbirciava ai fianchi, mezzo sperando e mezzo temendo che qualcun altro facesse la prima offerta. Poi avanzò esitando, tese una mano incerta e borbottò qualcosa come "pingìsci". Cesare ritirò la camicia al seno come se avesse visto un aspide. _ Che ha detto, quello? _ mi chiese, come se sospettasse di aver ricevuto una offesa mortale; ma era una domanda retorica, poiché riconosceva (o indovinava) i numerali polacchi molto più prontamente di me. _ Tu sei matto, _ disse poi perentorio, puntandosi un indice alla tempia e girandolo come un trapano. Il pubblico rumoreggiava e rideva, parteggiando visibilmente per lo straniero fantastico, venuto dai confini del mondo a far portenti sulle loro piazze. Il panzone se ne stava a bocca aperta, dondolandosi come un orso da un piede all' altro. _ Du ferìk, _ riprese Cesare spietato (intendeva dire "verrückt"); indi, a maggior chiarimento, aggiunse: _ Du meschuge _. Esplose un uragano di risa selvagge: questo l' avevano capito tutti. "Meschuge" è un termine ebraico che sopravvive nel yiddish, e pertanto è universalmente compreso in tutta l' Europa centrale e orientale: vale "matto", ma contiene l' idea accessoria di follia vuota, melanconica, ebete e lunare. Il panzone si grattava la testa e si tirava su i pantaloni, pieno di imbarazzo. _ Sto, _ disse poi, cercando pace: _ Sto zlotych, cento zloty. L' offerta era interessante. Cesare, alquanto mansuefatto, si rivolse al panzone da uomo a uomo, con voce suadente, come a convincerlo di una qualche sua involontaria ma pur grossolana trasgressione. Gli parlò a lungo, a cuore aperto, con calore e confidenza, dicendogli: _ Vedi? capisci? non sei d' accordo? _ Sto zlotych, _ ripeté quello, testardo. _ Questo è de Capurzio! _ mi disse Cesare. Poi, come colto da improvvisa stanchezza, e in un estremo tentativo di accordo, gli mise una mano sulla spalla e gli disse maternamente: _ Senti. Senti, compare. Tu non mi hai capito bene. Facciamo così, mettiamoci d' accordo. Te me dài tanto così _ (e gli disegnò 150 col dito sul ventre), _ te me dài Sto Pingisciu, e io te la mollo sulla groppa. Va bene? Il panzone bofonchiava e faceva di no col capo, con gli occhi rivolti in giù; ma l' occhio clinico di Cesare aveva colto il segno della capitolazione: un movimento impercettibile della mano verso la tasca posteriore dei pantaloni. _ E dài! Caccia 'ste pignonze! _ incalzò Cesare, battendo il ferro finché era caldo. Le pignonze (il termine polacco, dall' ostica grafia ma dall' assonanza così curiosamente nostrana, affascinava Cesare e me) furono infine cacciate, e la camicia mollata; ma subito Cesare mi strappò energicamente alla mia ammirazione estatica. _ A compa': famo resciutte, sennò questi svagano er bùcio _. Così, per timore che il cliente si accorgesse prematuramente del buco, facemmo resciutte (ossia prendemmo congedo), rinunciando a piazzare l' invendibile contasecondi. Camminammo con dignitosa lentezza fino alla cantonata più vicina, poi svicolammo con la maggior rapidità che le gambe ci permettevano, e ritornammo al campo per vie traverse.

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Se avessi abbandonato secchio e cinture, preziosa proprietà comune, mi sarei disonorato per sempre: tirai con quanta forza avevo, afferrai il secchio, rovesciai l' acqua a terra, e via di corsa, impacciato dalle cintole aggrovigliate, verso il treno che già si muoveva. Un secondo di ritardo poteva essere un mese di ritardo: corsi senza risparmio, per la vita, scavalcai due siepi e lo steccato, e mi avventai sui ciottoli mobili della massicciata mentre il treno mi sfilava davanti. Il mio vagone era già passato: mani pietose si tesero verso di me dagli altri, agganciarono le cinture e il secchio, altre mani mi avvinghiarono per i capelli, le spalle, gli abiti, e mi issarono di peso sul pavimento dell' ultimo carro, dove giacqui semisvenuto per mezz' ora. Il treno continuava a procedere verso nord: si inoltrava in una valle sempre più stretta, passò le Alpi Transilvane per il valico di Predeal il 24 settembre, in mezzo a severe montagne brulle, in un freddo pungente, e ridiscese a Brasov. Qui la locomotiva venne staccata, garanzia di tregua, e cominciò a svolgersi il cerimoniale consueto: gente dall' aria furtiva e feroce, con le accette in mano, in giro per la stazione e fuori; altri coi secchi, a disputarsi la poca acqua; altri ancora a rubare paglia dai pagliai, o a fare commerci coi locali; bambini sparsi intorno in cerca di guai o di saccheggi minori; donne a lavare o a lavarsi pubblicamente, a scambiarsi visite e notizie da vagone a vagone, a rinfocolare le liti rimuginate durante la tappa, e ad accenderne di nuove. Subito furono accesi i fuochi, e si cominciò a cucinare. Accanto al nostro convoglio stazionava un trasporto militare sovietico, carico di camionette, mezzi corazzati e fusti di carburante. Era sorvegliato da due robuste soldatesse, in stivali ed elmetto, moschetto a spalla e baionetta in canna: erano di età indefinibile e di aspetto legnoso e scostante. Come videro accendere fuochi proprio sotto i fusti di benzina, si indignarono giustamente per la nostra incoscienza, e gridando "nelzjà nelzjà" imposero di spegnerli immediatamente. Tutti obbedirono, sacramentando; ad eccezione di un gruppetto di alpini, gente coriacea, reduci dalla campagna di Russia, che avevano organizzato un' oca e la stavano arrostendo. Si consultarono con sobrie parole, mentre le due donne imperversavano alle loro spalle; poi due di loro, designati a maggioranza, si levarono in piedi, col viso severo e risoluto di chi si sacrifica coscientemente per il bene comune. Affrontarono le soldatesse e parlarono loro sottovoce. La trattativa fu sorprendentemente breve: le donne deposero l' elmetto e le armi, indi i quattro, seri e composti, si allontanarono dalla stazione, si inoltrarono in un viottolo e sparirono ai nostri sguardi. Ritornarono un quarto d' ora più tardi, le donne avanti, un po' meno legnose e lievemente congestionate, gli uomini dietro, fieri e sereni. La cottura era a buon punto: i quattro si accovacciarono a terra con gli altri, l' oca fu scalcata e ripartita in buona pace, poi, dopo la breve tregua, le russe ripresero le armi e la sorveglianza. Da Brasov la direzione di marcia volse nuovamente ad ovest, verso il confine ungherese. Venne la pioggia a peggiorare la situazione: difficile accendere i fuochi, un solo vestito bagnato addosso, fango dovunque. Il tetto del vagone non era stagno: solo pochi metri quadrati di pavimento restavano abitabili, sugli altri grondava acqua senza misericordia. Ne nascevano contese e alterchi senza fine al momento di coricarsi per dormire. È antica osservazione che in ogni gruppo umano esiste una vittima predestinata: uno che porta pena, che tutti deridono, su cui nascono dicerie insulse e malevole, su cui, con misteriosa concordia, tutti scaricano i loro mali umori e il loro desiderio di nuocere. La vittima del nostro vagone era il Carabiniere. Sarebbe arduo stabilirne il perché, se pure un perché esisteva: il Carabiniere era un giovane carabiniere abruzzese, gentile, mite, servizievole e di bell' aspetto. Non era neppure particolarmente ottuso, era anzi piuttosto permaloso e sensibile, e perciò soffriva acutamente della persecuzione a cui era sottoposto dagli altri militari del vagone. Ma appunto, era carabiniere: ed è noto che fra l' Arma (come si chiama per antonomasia) e le altre forze armate non corre buon sangue. Si rimprovera ai carabinieri, perversamente, la loro eccessiva disciplina, serietà, castità, onestà; la loro mancanza di umorismo; la loro obbedienza indiscriminata; i loro costumi; la loro divisa. Corrono sul loro conto leggende fantastiche, grottesche e scempie, che si tramandano nelle caserme di generazione in generazione: la leggenda del martello, la leggenda del giuramento. Tacerò dell' una, troppo nota e infame; secondo l' altra, a quanto appresi, la giovane recluta dell' Arma è tenuta a prestare un segreto e abominevole giuramento infero, in cui, tra l' altro, si impegna solennemente "a uccidere suo padre e sua madre": e ogni carabiniere, o li ha uccisi, o li ucciderà, se no non passa appuntato. Il giovane infelice non poteva aprire bocca: _ Fai silenzio tu, che hai ammazzato papà e mamma _. Ma non si ribellò mai: incassava questo e cento altri vituperi con la pazienza adamantina di un santo. Un giorno mi prese da parte, come neutrale, e mi assicurò "che la faccenda del giuramento non era vera". In mezzo alla pioggia, che ci rendeva collerici e tristi, viaggiammo quasi senza soste per tre giorni, fermando solo per poche ore in un paese pieno di fango, dal nome glorioso di Alba Julia. La sera del 26 settembre, dopo di aver percorso più di ottocento chilometri in terra rumena, eravamo alla frontiera ungherese, presso Arad, in un villaggio chiamato Curtici. Sono sicuro che gli abitanti di Curtici ancora ricordano il flagello del nostro passaggio: è da credersi anzi che questo sia entrato a far parte delle tradizioni locali, e che se ne parlerà per generazioni, accanto al fuoco, come altrove ancora si parla di Attila e di Tamerlano. Anche questo particolare del nostro viaggio è destinato a rimanere oscuro: secondo ogni evidenza, le autorità militari o ferroviarie rumene non ci volevano più, o ci avevano già "scaricati", mentre quelle ungheresi non ci volevano accettare, o non ci avevano "presi in carico": negli effetti, rimanemmo inchiodati a Curtici, noi e il treno e la scorta, per sette giorni estenuanti, e devastammo il paese. Curtici era un villaggio agricolo di forse mille abitanti, e disponeva di ben poco; noi eravamo millequattrocento, e avevamo bisogno di tutto. In sette giorni, vuotammo tutti i pozzi; esaurimmo le scorte di legna, e arrecammo gravi ingiurie a tutto quanto la stazione conteneva di combustibile; delle latrine della stazione stessa è meglio non parlare. Provocammo un pauroso aumento nei prezzi del latte, del pane, del granturco, del pollame; dopo di che, essendo ridotto a zero il nostro potere di acquisto, si verificarono furti di notte e poi anche di giorno. Le oche, che a quanto pareva costituivano la principale risorsa locale, e inizialmente circolavano libere per i viottoli fangosi in solenni squadriglie bene ordinate, sparirono affatto, in parte catturate, in parte richiuse nelle stie. Ogni mattina aprivamo le porte, nella speranza assurda che il treno si fosse mosso inavvertitamente, durante il nostro sonno: ma nulla era cambiato, il cielo era sempre nero e piovoso, le case di fango sempre davanti ai nostri occhi, il treno inerte e impotente come una nave in secca; e le ruote, quelle ruote che ci dovevano portare a casa, ci curvavamo ad esaminarle: no, non si erano mosse di un millimetro, sembravano saldate ai binari, e la pioggia le arrugginiva. Avevamo freddo e fame, e ci sentivamo abbandonati e dimenticati. Il sesto giorno, snervato e inferocito più di tutti gli altri, Cesare ci piantò. Dichiarò che ne aveva abbastanza di Curtici, dei russi, del treno e di noi; che non voleva diventare matto, e neanche morire di fame o essere accoppato dai curticesi; che uno, quando è in gamba, se la cava meglio da solo. Disse che, se eravamo disposti, potevamo anche seguirlo: ma patti chiari, lui era stufo di fare della miseria, era pronto a correre dei rischi, ma voleva tagliare corto, far su quattrini alla svelta, e tornare a Roma in aeroplano. Nessuno di noi si sentì di seguirlo, e Cesare se ne andò: prese un treno per Bucarest, ebbe molte avventure, e riuscì nel suo proposito, tornò cioè a Roma in aereo, sebbene più tardi di noi; ma questa è un' altra storia, una storia "de haulte graisse", che non racconterò, o racconterò in altra sede solo se e quando Cesare me ne darà il permesso. Se in Romania avevo provato un delicato piacere filologico nel gustare nomi quali Galati, Alba Julia, Turnu Severin, al primo ingresso in Ungheria ci imbattemmo invece in Békéscsaba, cui fecero seguito Hòdmezo5vasàrhely e Kiskunfélegyhàza. La pianura magiara era intrisa d' acqua, il cielo era plumbeo, ma sopra ogni cosa ci attristava la mancanza di Cesare. Aveva lasciato fra noi un vuoto doloroso: in sua assenza, nessuno sapeva di cosa parlare, nessuno più riusciva a vincere la noia del viaggio interminabile, la fatica dei diciannove giorni di tradotta che ormai ci pesavano sulle spalle. Ci guardavamo l' un l' altro con un vago senso di colpa: perché lo avevamo lasciato partire? Ma in Ungheria, malgrado i nomi impossibili, ci sentivamo ormai in Europa, sotto l' ala di una civiltà che era la nostra, al riparo da allarmanti apparizioni quali quella del cammello in Moldavia. Il treno puntava verso Budapest, ma non vi penetrò: sostò a più riprese a Ujpest e in altri scali periferici il 6 di ottobre, concedendoci visioni spettrali di ruderi, di baracche provvisorie e di strade deserte; poi si inoltrò nuovamente nella pianura, fra scrosci di pioggia e veli di nebbia autunnale. Fermò a Szòb, ed era giorno di mercato: scendemmo tutti, per sgranchirci le gambe e spendere i pochi soldi che avevamo. Io non avevo più nulla: ma ero affamato, e barattai la giacca di Auschwitz, che avevo gelosamente conservata fino allora, contro un nobile impasto di formaggio fermentato e cipolle, il cui aroma acuto mi aveva avvinto. Quando la macchina fischiò, e risalimmo sul vagone, ci contammo, ed eravamo due in più. Uno era Vincenzo, e nessuno se ne stupì. Vincenzo era un ragazzo difficile: un pastore calabrese di sedici anni, finito in Germania chissà come. Era selvaggio quanto il Velletrano, ma di natura diversa: timido, chiuso e contemplativo quanto quello era violento e sanguigno. Aveva mirabili occhi celesti, quasi femminei, e un viso fine, mobile, lunare: non parlava quasi mai. Era nomade nell' anima, inquieto, attratto a Staryje Doroghi dal bosco come da demoni invisibili: e anche sul treno, non aveva residenza stabile in un vagone, ma li girava tutti. Subito comprendemmo il perché della sua instabilità: appena il treno partì da Szòb, Vincenzo piombò a terra, con gli occhi bianchi e la mascella serrata come di sasso. Ruggiva come una belva, e si dibatteva, più forte dei quattro alpini che lo trattenevano: una crisi epilettica. Certamente ne aveva avute altre, a Staryje Doroghi e prima: ma ogni volta, quando ne avvertiva i segni premonitori, Vincenzo, spinto da una sua selvatica fierezza, si era rifugiato nella foresta perché nessuno sapesse del suo male; o forse, davanti al male fuggiva, come gli uccelli davanti alla tempesta. Nel lungo viaggio, non potendo restare a terra, quando sentiva arrivare l' attacco cambiava vagone. Stette con noi pochi giorni, poi sparì: lo ritrovammo appollaiato sul tetto di un altro vagone. Perché? Rispose che di lassù si vedeva meglio la campagna. Anche l' altro nuovo ospite, per diverse ragioni, si rivelò un caso difficile. Nessuno lo conosceva: era un ragazzotto robusto, scalzo, vestito con giacca e pantaloni dell' Armata Rossa. Parlava solo ungherese, e nessuno di noi riusciva a capirlo. Il Carabiniere ci raccontò che, mentre a terra stava mangiando pane, il ragazzo gli si era avvicinato e aveva teso la mano; lui gli aveva ceduto metà del suo cibo, e da allora non era più riuscito a staccarlo: mentre tutti risalivamo in fretta sul vagone, doveva averlo seguito senza che nessuno ci badasse. Fu accolto bene: una bocca in più da sfamare non preoccupava. Era un ragazzo intelligente e allegro: appena il treno fu in moto, si presentò con grande dignità. Si chiamava Pista e aveva quattordici anni. Padre e madre? Qui era più difficile farsi intendere: trovai un mozzicone di matita e un pezzo di carta, e disegnai un uomo, una donna, e un bambino in mezzo; indicai il bambino dicendo "Pista", poi rimasi in attesa. Pista si fece serio, poi fece un disegno di terribile evidenza: una casa, un aereo, una bomba che stava cadendo. Poi cancellò la casa, e disegnò accanto un grosso cumulo fumante. Ma non era in vena di cose tristi: appallottolò quel foglio, ne chiese un altro, e disegnò una botte, con singolare precisione. Il fondo, in prospettiva, e tutte le doghe visibili, a una a una; poi la cerchiatura, e il foro con lo spinotto. Ci guardammo interdetti: quale era il senso del messaggio? Pista rideva, felice: poi disegnò se stesso accanto, col martello in una mano e la sega nell' altra. Non avevamo ancora capito? era il suo mestiere, era bottaio. Tutti gli vollero subito bene; d' altronde, teneva a rendersi utile, spazzava il pavimento tutte le mattine, lavava con entusiasmo le gavette, andava a prendere l' acqua, ed era felice quando lo mandavamo a "fare la spesa" presso i suoi compatrioti delle varie fermate. Al Brennero, si faceva già intendere in italiano: cantava belle canzoni del suo paese, che nessuno capiva, poi cercava di spiegarcele a gesti, facendo ridere tutti e ridendo di gran cuore lui per primo. Era affezionato come un fratello minore al Carabiniere, e ne lavò a poco a poco il peccato originale: aveva bensì ucciso padre e madre, ma in fondo doveva essere un buon figliolo, dal momento che Pista lo aveva seguito. Riempì il vuoto lasciato da Cesare. Gli chiedemmo perché era venuto con noi, che cosa veniva a cercare in Italia: ma non riuscimmo a saperlo, in parte per la difficoltà di intenderci, ma principalmente perché lui stesso sembrava lo ignorasse. Da mesi vagabondava per le stazioni come un cane randagio: aveva seguito la prima creatura umana che lo avesse guardato con misericordia. Speravamo di passare dall' Ungheria all' Austria senza complicazioni di confine, ma non fu così: il mattino del 7 ottobre, ventiduesimo giorno di tradotta, eravamo a Bratislava, in Slovacchia, in vista dei Beschidi, degli stessi monti che sbarravano il lugubre orizzonte di Auschwitz. Altra lingua , altra moneta, altra via: avremmo chiuso l' anello? Katowice era a duecento chilometri: avremmo ricominciato un altro vano, estenuante circuito per l' Europa? Ma a sera entrammo in terra tedesca: il giorno . eravamo incagliati nello scalo merci di Leopoldau, una stazione periferica di Vienna, e ci sentivamo quasi a casa. La periferia di Vienna era brutta e casuale come quelle a noi familiari di Milano e di Torino, e come quelle, nelle ultime visioni che ne ricordavamo, macinata e sconvolta dai bombardamenti. I passanti erano pochi: donne, bambini, vecchi, nessun uomo. Familiare, paradossalmente, mi suonava anche il loro linguaggio: alcuni comprendevano perfino l' italiano. Cambiammo a caso il danaro che avevamo con moneta locale, ma fu inutile: come a Cracovia in marzo, tutti i negozi erano chiusi, o vendevano solo generi razionati. _ Ma che cosa si può comperare a Vienna senza tessera? _ chiesi ad una ragazzina, non più che dodicenne. Era vestita di stracci, ma portava scarpe coi tacchi alti ed era vistosamente truccata: _ Ueberhaupt nichts, _ mi rispose con scherno. Ritornammo alla tradotta per passarvi la notte; durante la quale, con molte scosse e stridori, percorremmo pochi chilometri e ci trovammo trasferiti in un altro scalo, Vienna-Jedlersdorf. Accanto a noi emerse dalla nebbia un altro convoglio, anzi, il cadavere tormentato di un convoglio: la locomotiva stava verticale, assurda, col muso puntato al cielo come se volesse salirvi; tutti i vagoni erano carbonizzati. Ci accostammo, spinti dall' istinto del saccheggio e da una curiosità irridente: ci ripromettevamo una soddisfazione maligna nel mettere le mani sulle rovine di quelle cose tedesche. Ma alla irrisione rispose irrisione: un vagone conteneva vaghi rottami metallici che dovevano avere fatto parte di strumenti musicali bruciati, e centinaia di ocarine di coccio, sole superstiti; un altro, pistole di ordinanza, fuse e arrugginite; il terzo, un intrico di sciabole ricurve, che il fuoco e la pioggia avevano saldato entro i foderi per tutti i secoli avvenire: vanità delle vanità, e il sapore freddo della perdizione. Ci allontanammo, e vagando alla ventura ci trovammo sull' argine del Danubio. Il fiume era in piena, torbido, giallo e gonfio di minaccia: in quel punto il suo corso è pressoché rettilineo, e si vedevano, uno dietro l' altro, in una brumosa prospettiva da incubo, sette ponti, tutti spezzati esattamente al centro, tutti coi monconi immersi nell' acqua vorticosa. Mentre ritornavamo alla nostra dimora ambulante, fummo riscossi dallo sferragliare di un tram, sola cosa viva. Correva all' impazzata sui binari malconci, lungo i viali deserti, senza arrestarsi alle fermate. Intravvedemmo il manovratore al suo posto, pallido come uno spettro; dietro a lui, deliranti di entusiasmo, stavano i sette russi della nostra scorta, e nessun altro passeggero: era il primo tram della loro vita. Mentre gli uni si spenzolavano fuori dei finestrini, gridando "hurrà, hurrà", gli altri incitavano e minacciavano il guidatore perché andasse più in fretta. Su una grande piazza si teneva mercato; ancora una volta un mercato spontaneo e illegale, ma assai più misero e furtivo di quelli polacchi, che avevo frequentato col greco e con Cesare: ricordava invece da vicino un altro scenario, la Borsa del Lager, indelebile nelle nostre memorie. Non banchetti, ma gente in piedi, freddolosa, inquieta, a piccoli crocchi, pronta alla fuga, con borse e valigie in mano e le tasche gonfie; e si scambiavano minuscole cianfrusaglie, patate, fette di pane, sigarette sciolte, spicciolo e logoro ciarpame casalingo. Risalimmo sui vagoni col cuore gonfio. Non avevamo provato alcuna gioia nel vedere Vienna sfatta e i tedeschi piegati: anzi, pena; non compassione, ma una pena più ampia, che si confondeva con la nostra stessa miseria, con la sensazione greve, incombente, di un male irreparabile e definitivo, presente ovunque, annidato come una cancrena nei visceri dell' Europa e del mondo, seme di danno futuro. Sembrava che il treno non potesse staccarsi da Vienna: dopo tre giorni di soste e di manovre, il 10 ottobre eravamo a Nussdorf, un altro sobborgo, affamati, bagnati e tristi. Ma il mattino dell' 11, quasi avesse ritrovato ad un tratto una traccia perduta, il treno puntò decisamente verso ponente: con inconsueta rapidità attraversò St. Po5lten, Loosdorf e Amstetten, e a sera, lungo la strada che correva parallelamente alla ferrovia, apparve un segno, portentoso ai nostri sguardi come gli uccelli che annunciano ai naviganti la terra vicina. Era un veicolo nuovo per noi: un' auto militare tozza e sgraziata, piatta come una scatola, che portava dipinta sulla fiancata una stella bianca e non rossa: una jeep, insomma. Un negro la guidava; uno degli occupanti si sbracciava verso di noi, e urlava in napoletano: _ Si va a casa, guaglioni! La linea di demarcazione era dunque vicina: la raggiungemmo a St. Valentin, a pochi chilometri da Linz. Qui fummo fatti scendere, salutammo i giovani barbari della scorta e il macchinista benemerito, e passammo in forza agli americani. I campi di transito sono tanto peggio organizzati quanto più breve è la durata media del soggiorno: a St. Valentin non ci si fermava che poche ore, un giorno al massimo, ed era perciò un campo molto sporco e primitivo. Non c' era luce né riscaldamento né letti: si dormiva sul nudo pavimento di legno, in baracche paurosamente labili, in mezzo al fango alto una spanna. La sola attrezzatura efficiente era quella dei bagni e della disinfezione: sotto questa specie, di purificazione e di esorcismo, l' Occidente prese possesso di noi. Al compito sacerdotale erano addetti alcuni G.I. giganteschi e taciturni, disarmati, ma adorni di una miriade di aggeggi di cui ci sfuggiva il significato e l' impiego. Per il bagno, tutto andò liscio: erano una ventina di cabine di legno, con doccia tiepida e accappatoi, lusso mai più visto. Dopo il bagno, ci introdussero in un vasto locale in muratura, tagliato in due da un cavo da cui pendevano dieci curiosi attrezzi, vagamente simili a martelli pneumatici: si sentiva fuori pulsare un compressore. Tutti e millequattrocento, quanti eravamo, fummo stipati da un lato della divisione, uomini e donne insieme: ed ecco entrare in scena dieci funzionari dall' aspetto poco terrestre, avvolti in tute bianche, con casco e maschera antigas. Agguantarono i primi del gregge, e senza complimenti infilarono loro le cannucce degli arnesi pendenti, via via, in tutte le aperture degli abiti: nel colletto, nella cintura, nelle tasche, su per i pantaloni, sotto le sottane. Erano specie di soffietti pneumatici, che insufflavano insetticida: e l' insetticida era il DDT, novità assoluta per noi, come le jeep, la penicillina e la bomba atomica, di cui avemmo notizia poco dopo. Imprecando o ridendo per il solletico, tutti si adattarono al trattamento, finché venne il turno di un ufficiale di marina e della sua bellissima fidanzata. Quando gli incappucciati misero le mani, caste ma rudi, su costei, l' ufficiale si pose energicamente di mezzo. Era un giovane robusto e risoluto: guai a chi osasse toccare la sua donna. Il perfetto meccanismo si arrestò netto: gli incappucciati si consultarono brevemente, con inarticolati suoni nasali, poi uno di loro si tolse maschera e tuta e si piantò davanti all' ufficiale coi pugni serrati, in posizione di guardia. Gli altri fecero cerchio ordinatamente, ed ebbe inizio un regolare incontro di pugilato. Dopo pochi minuti di combattimento silenzioso e cavalleresco, l' ufficiale cadde a terra col naso sanguinante; la ragazza, stravolta e pallida, venne infarinata da tutte le parti secondo le prescrizioni, ma senza collera né volontà di rappresaglia, e tutto rientrò nell' ordine americano.

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 1 occorrenze

Il suo corpo rimase a lungo abbandonato in mezzo al viale, perché i fascisti avevano vietato alla popolazione di dargli sepoltura. Oggi so che è un' impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta: un uomo come Sandro in specie. Non era uomo da raccontare né da fargli monumenti, lui che dei monumenti rideva: stava tutto nelle azioni, e, finite quelle, di lui non resta nulla; nulla se non parole, appunto.

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Storie naturali

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Levi, Primo 1 occorrenze

Aveva vissuto per lo più in solitudine, abbandonato a se stesso, come è destino comune di tutti i suoi simili. Dormiva all' aperto, in piedi sulle quattro zampe, col capo sulle braccia, e queste appoggiate ad un ramo basso o ad una roccia. Pascolava per le praterie e le radure dell' isola, o raccoglieva frutti dai rami; nei giorni più caldi, scendeva a qualche spiaggia deserta, e qui si bagnava, nuotando alla maniera equina, col busto ed il capo eretti, e galoppava poi a lungo, segnando impetuosamente la sabbia umida. Ma la massima parte del suo tempo, in ogni stagione, era dedicata al cibo: anzi, in tutte le scorrerie che Trachi, nel vigore della sua giovinezza, spesso intraprendeva per le balze e le forre sterili della sua isola nativa, sempre, secondo un loro provvido istinto, portava seco sotto le ascelle due grossi fasci di erbe o di fronde, che raccoglieva nei momenti di riposo. Occorre infatti ricordare che i centauri, benché costretti ad un regime strettamente erbivoro dalla loro costituzione, che è in prevalenza equina, hanno torso e capo a somiglianza di uomini: questa loro struttura li costringe ad introdurre, attraverso una piccola bocca umana, l' ingente quantità di erba, fieno o biada che è necessaria al sostentamento dei loro vasti corpi. Questi alimenti, notoriamente poco nutritivi, esigono inoltre una lunga masticazione, poiché la dentatura umana male si adatta alla triturazione dei foraggi. In conclusione, l' alimentazione dei centauri è un processo laborioso: essi, per fisica necessità, sono costretti a trascorrere masticando i tre quarti del loro tempo. Di questo fatto non mancano testimonianze autorevoli: prima fra tutte quella di Ucalegonte di Samo ("Dig. Phil.", xxiv, ii e xliii passim), il quale attribuisce la proverbiale saggezza dei centauri proprio al loro regime alimentare, consistente in un unico pasto continuato dall' alba al tramonto: questo li distoglierebbe da altre sollecitudini nefaste o vane, quali la cupidigia di ricchezze o la maldicenza, e contribuirebbe alla loro continenza abituale. Né la cosa era sconosciuta a Beda, che vi accenna nella "Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum". È abbastanza strano che la tradizione mitologica classica abbia trascurato questa peculiarità dei centauri. La verità del fatto riposa nondimeno su testimonianze certe, e d' altronde, come abbiamo dimostrato, esso può venire dedotto per mezzo di semplici considerazioni di filosofia naturale. Per ritornare a Trachi, la sua educazione era stata, per i nostri criteri, stranamente parziale. Aveva imparato il greco dai pastori dell' isola, la cui compagnia egli talora cercava, per quanto fosse di natura schiva e taciturna. Aveva inoltre appreso, per sua propria osservazione, molte cose sottili ed intime sulle erbe, sulle piante, sugli animali dei boschi, sulle acque, sulle nuvole, sulle stelle e sui pianeti; ed io stesso notai che, anche dopo la cattura, e sotto un cielo straniero, sentiva l' approssimarsi di una bufera, o l' imminenza di una nevicata, con molte ore di anticipo. Sentiva anche, e non saprei descrivere come, né d' altronde lui stesso lo sapeva, sentiva germinare il grano nei campi, sentiva pulsare le acque nelle vene sotterranee, percepiva la erosione dei torrenti nelle piene. Quando partorì la vacca dei De Simone, a duecento metri da noi, affermò di sentirne il riflesso nei propri visceri; lo stesso accadde quando venne a partorire la figlia del mezzadro. Anzi, mi segnalò in una notte di primavera che un parto doveva essere in corso, e precisamente in un certo angolo del fienile; e vi andammo, e vi trovammo una pipistrella, che aveva appena dato alla luce sei mostriciattoli ciechi, e stava porgendo loro il suo minuscolo latte. Così, mi disse, tutti i centauri son fatti, che sentono per le vene, come un' onda di allegrezza, ogni germinazione, animale, umana o vegetale. Percepiscono anche, a livello dei precordi, e sotto forma di un' ansia e di una tensione tremula, ogni desiderio ed ogni amplesso che avvenga nelle loro vicinanze; perciò, quantunque abitualmente casti, entrano in uno stato di viva inquietudine al tempo degli amori. Abbiamo vissuto a lungo insieme: in un certo senso, posso affermare che siamo cresciuti insieme. Malgrado i suoi molti anni, era di fatto una creatura giovane, in tutte le sue manifestazioni ed attività, ed apprendeva con tale prontezza che ci parve inutile (oltre che imbarazzante) mandarlo a scuola. Lo educai io stesso, quasi senza saperlo e volerlo, trasmettendogli a misura le nozioni che giorno per giorno imparavo dai miei maestri. Lo tenevamo il più possibile nascosto, in parte per suo esplicito desiderio, in parte per una forma di affetto esclusivo e geloso che tutti gli portavamo; in parte ancora, perché ragione ed intuito insieme ci consigliavano di risparmiargli ogni contatto non necessario col nostro mondo umano. Naturalmente, la sua presenza presso di noi era trapelata fra il vicinato; in principio facevano molte domande, anche poco discrete, ma in seguito, come suole, la loro curiosità andò attenuandosi per mancanza di alimento. Pochi amici nostri intimi erano stati ammessi alla sua presenza, primi fra tutti i De Simone, e divennero in breve amici anche suoi. Solo una volta, che la puntura di un tafano gli aveva provocato un doloroso ascesso purulento alla groppa, dovemmo ricorrere all' opera di un veterinario: ma era un uomo discreto e comprensivo, il quale ci garantì il più scrupoloso segreto professionale, e, a quanto so, mantenne la promessa. Altrimenti andavano le cose col maniscalco. I maniscalchi, purtroppo, sono ormai rarissimi: ne trovammo uno a due ore di cammino, ed era un tanghero, stupido e brutale. Mio padre cercò invano di indurlo ad un certo riserbo: tra l' altro, pagandogli i suoi servigi il decuplo dell' onesto. Non servì a nulla: ogni domenica, all' osteria, teneva circolo e raccontava all' intero villaggio del suo strano cliente. Per fortuna, era dedito al vino, e solito raccontare storie strampalate quando era ubriaco; perciò incontrò scarsa credenza. Mi pesa scrivere questa storia. È una storia della mia giovinezza, e mi pare, scrivendola, di espellerla da me, e che dopo mi sentirò privo di qualche cosa forte e pura. Venne una estate, e ritornò presso i genitori Teresa De Simone, mia coetanea e amica d' infanzia. Aveva studiato in città, non la vedevo da molti anni, la trovai cambiata, ed il cambiamento mi turbò. Forse me ne innamorai, ma inconsciamente: voglio dire, senza prenderne atto, neppure in via ipotetica. Era piuttosto graziosa, timida, tranquilla e serena. Come ho già accennato, i De Simone erano fra i pochi vicini che noi frequentassimo con qualche assiduità. Conoscevano Trachi e lo amavano. Dopo il ritorno di Teresa, passammo una lunga serata insieme, noi tre. Fu una serata di quelle, rare, che non si dimenticano: un intenso odore di fieno, la luna, i grilli, un' aria tiepida e ferma. Si sentivano canti lontani, e Trachi prese ad un tratto a cantare, senza guardarci, come in sogno. Era una lunga canzone, dal ritmo fiero ed alto, con parole a me sconosciute. Una canzone greca, disse Trachi: ma quando gli chiedemmo di tradurla, volse il capo e tacque. Tacemmo tutti a lungo; poi Teresa si congedò. La mattina seguente Trachi mi trasse in disparte e mi parlò così: _ La mia ora è giunta, o carissimo: mi sono innamorato. Quella donna è entrata in me, e mi possiede. Desidero vederla e udirla, forse anche toccarla, e non altro; desidero quindi una cosa che non si dà. Mi sono ristretto in un punto: non c' è più altro in me che questo desiderio. Sto mutando, sono mutato, sono diventato un altro. Anche altre cose mi disse, che trascrivo con esitazione, perché sento che difficilmente saprò cogliere il segno. Che, dalla sera prima, si sentiva diventato "un campo di battaglia"; che comprendeva, come mai aveva compreso, le gesta dei suoi avi impetuosi, Nesso, Folo; che tutta la sua metà umana era gremita di sogni, di fantasie nobili, gentili e vane; avrebbe voluto compiere imprese temerarie, facendo giustizia con la forza del suo braccio; sfondare col suo impeto le foreste più fitte, giungere in corsa ai confini del mondo, scoprire e conquistare nuove terre, ed instaurarvi opere di civiltà feconda. Che tutto questo, in qualche modo a lui stesso oscuro, avrebbe voluto farlo davanti agli occhi di Teresa De Simone: farlo per lei, dedicarlo a lei. Che infine, conosceva la vanità dei suoi sogni nell' atto stesso in cui li sognava; e che era questo il contenuto della canzone della notte avanti: una canzone appresa nella sua lontana adolescenza in Colofone, e da lui mai compresa né mai cantata fino ad allora. Per varie settimane non avvenne altro; vedevamo ogni tanto i De Simone, ma dal contegno di Trachi nulla si vide della tempesta che lo agitava. Io fui, e non altri, chi provocò lo scioglimento. Una sera di ottobre Trachi si trovava dal maniscalco. Incontrai Teresa, e passeggiammo insieme nel bosco. Parlavamo: e di chi se non di Trachi? Non tradii le confidenze del mio amico: ma feci peggio. Mi accorsi ben presto che Teresa non era timida come sembrava: scelse come a caso un viottolo che conduceva nel bosco più fitto; era un viottolo cieco, io lo sapevo, e sapevo che Teresa lo sapeva. Dove la traccia spariva, sedette sulle foglie secche, ed io feci altrettanto. Suonavano le sette al campanile della valle, ed ella si strinse a me in un modo che mi tolse ogni dubbio. Quando tornammo a casa era notte, ma Trachi non era ancora rientrato. Ho avuto subito coscienza di aver male operato: anzi nell' atto stesso; ed ancor oggi ne porto pena. Eppure so che la mia colpa non è piena, né lo è quella di Teresa. Trachi era fra noi: eravamo immersi nella sua aura, gravitavamo nel suo campo. So questo, poiché io stesso ho visto, dove lui passava, schiudersi anzitempo i fiori, ed il loro polline volare nel vento della sua corsa. Trachi non rientrò. Il resto della sua storia fu da noi ricostruito faticosamente, nei giorni che seguirono, su testimonianze e su segni. Dopo una notte, che fu di ansiosa attesa per tutti, e per me di segreto tormento, scesi io stesso a cercare del maniscalco. Non lo trovai in casa: era all' ospedale, con il cranio spaccato; non era in grado di parlare. Trovai il suo aiutante. Mi raccontò che Trachi era venuto verso le sei, per farsi ferrare. Era taciturno e triste, ma tranquillo. Si lasciò incatenare come al solito, senza mostrare impazienza (era questo l' uso incivile di quel maniscalco: aveva avuto un incidente anni prima con un cavallo ombroso, ed invano avevamo cercato di convincerlo che tale precauzione era del tutto assurda con Trachi). Aveva già tre zoccoli ferrati, quando un brivido lungo e violento lo aveva scosso. Il maniscalco si era rivolto a lui con quelle voci rudi che si usano coi cavalli; come andava facendosi sempre più inquieto, lo aveva colpito con una frusta. Trachi era sembrato calmarsi, "ma girava gli occhi intorno come un matto, e sembrava che sentisse delle voci". Ad un tratto, con una scossa furiosa aveva divelto le catene dai loro incastri nel muro, ed una appunto di queste aveva colpito al capo il maniscalco, mandandolo a terra svenuto; si era buttato contro la porta con tutto il suo peso, a capofitto, riparandosi la testa con le braccia incrociate, ed era partito al galoppo su per la collina, mentre le quattro catene, che ancora gli impedivano le zampe, gli roteavano intorno ferendolo a più riprese. _ A che ora è successo? _ domandai, turbato da un presentimento. L' aiutante esitò: non era ancora notte, non sapeva con precisione. Ma sì, ora ricordava: pochi attimi prima dello scatenamento era suonata l' ora al campanile, ed il padrone gli aveva detto, in dialetto perché Trachi non capisse: _ Già le sette! Se tutti i clienti fossero difisiôs come questo .... Le sette! Non trovai difficoltà, purtroppo, a seguire il percorso di Trachi furioso: se anche nessuno l' avesse visto, rimanevano tracce cospicue del sangue che aveva perduto, ed i graffi delle catene sulla scorza degli alberi e sulle rocce ai margini della strada. Non si era diretto verso casa, né verso la cascina De Simone: aveva saltato netto la staccionata alta due metri che recinge la proprietà Chiapasso, aveva preso di traverso per le vigne, aprendosi un varco tra i filari con furia cieca, in linea retta, abbattendo paletti e viti, stroncando i robusti fili di ferro che sostengono i tralci. Era giunto sull' aia, e aveva trovato la porta della stalla chiusa col catenaccio dall' esterno. Avrebbe potuto agevolmente aprire con le mani: invece aveva raccolto una vecchia macina da grano, pesante mezzo quintale, e l' aveva scagliata contro la porta mandandola in schegge. Nella stalla non c' erano che le sei mucche, un vitello, polli e conigli. Trachi era ripartito all' istante, e si era diretto, sempre a folle galoppo, verso la tenuta del barone Caglieris. Questa è lontana almeno sei chilometri, dall' altra parte della valle, ma Trachi vi arrivò in pochi minuti. Cercava la scuderia: non la trovò al primo colpo, ma solo dopo di aver sfondato a calci e a spallate diverse porte. Quanto fece nella scuderia, lo sappiamo da un testimone oculare: uno stalliere, che al fracasso della porta infranta aveva avuto il buon senso di nascondersi nel fieno, e di lì aveva visto ogni cosa. Aveva sostato un attimo sulla soglia, ansante e sanguinante. I cavalli, inquieti, scrollavano i musi tirando sulle cavezze: Trachi era piombato su di una cavalla bianca, di tre anni; aveva spezzato d' un colpo la catenella che la legava alla mangiatoia, e trascinandola per questa stessa l' aveva condotta fuori. La cavalla non aveva opposto alcuna resistenza; strano, mi disse lo stalliere, perché era di carattere piuttosto ombroso e restio, e non era neppure in calore. Avevano galoppato insieme fino al torrente: qui Trachi era stato visto sostare, attingere acqua colle mani, e bere ripetutamente. Poi avevano proseguito affiancati fino al bosco. Sì, ho seguito le loro tracce: fino a quel bosco, fino a quel sentiero, fino a quella macchia in cui Teresa mi aveva chiesto. E proprio qui, per tutta la notte, Trachi doveva aver celebrato le sue nozze gigantesche. Vi trovai il suolo scalpicciato, rami spezzati, crini bianchi e bruni, capelli umani, ed ancora sangue. Poco lontano, richiamato dal suo respiro affannoso, trovai lei, la giumenta. Giaceva a terra su di un fianco, ansimante, col nobile mantello sporco di terra e d' erba. Al mio passo sollevò a stento il muso, e mi seguì con lo sguardo terribile dei cavalli spaventati. Non era ferita, ma esausta. Partorì dopo otto mesi un puledrino: normalissimo, a quanto mi è stato detto. Qui le tracce dirette di Trachi si perdono. Ma, come forse qualcuno ricorda, nei giorni seguenti comparve sui giornali notizia di una curiosa catena di abigeati, tutti perpetrati con la medesima tecnica: la porta infranta, la cavezza sciolta o spezzata, l' animale (sempre una giumenta, e sempre una sola) condotto in qualche bosco poco lontano, e qui ritrovato sfinito. Solo una volta il rapitore sembrò aver trovato resistenza: la sua occasionale compagna di quella notte fu trovata morente, con la cervice slogata. Sei furono questi episodi, e furono segnalati in vari punti della penisola, susseguendosi da nord a sud. A Voghera, a Lucca, presso il lago di Bracciano, a Sulmona, a Cerignola. L' ultimo avvenne presso Lecce. Poi null' altro; ma forse si deve riconnettere a questa storia la curiosa segnalazione fatta alla stampa dall' equipaggio di un peschereccio pugliese: di aver incontrato, al largo di Corfù, "un uomo a cavallo di un delfino". La strana apparizione nuotava vigorosamente verso levante; i marinai le avevano dato una voce, al che l' uomo e la groppa grigia si erano immersi, scomparendo alla vista.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Un campo abbandonato, dopo soli pochi mesi, non conserva più alcuna traccia. Bambù, arbusti, banani, pipal, tara, sorgono come per incanto e tutto fanno scomparire. La radura prima coltivata diventa una boscaglia quasi impenetrabile, od una jungla che più tardi diventerà un asilo sicuro alle tigri, alle pantere, ai rinoceronti, ai serpenti, dal morso fatale. Non era quindi da stupirsi se i pirati della Malesia, guidati da Bindar, avevano trovato quel rifugio. Disgraziatamente non pareva che fosse disabitato, come dapprima avevano sperato Sandokan e Tremal-Naik. Quel mugolìo sordo e quei due punti luminosi li avevano subito avvertiti che dovevano pagare prima la pigione con palle di piombo. - Orsù, - disse Sandokan. - Cerchiamo di sloggiare gli inquilini. - Non se ne andranno però senza protestare, - rispose Tremal-Naik scherzando. - In tale caso avranno da fare con noi. Kammamuri, non tremerà il tuo braccio? Se rimarremo all'oscuro non risponderei dello sloggio. - La torcia brillerà sempre dinanzi alle adnara. - Ecco un altro nome. - Le chiamiamo così noi maharatti quelle brutte bestie. - Mettiti dietro di noi. - Sì, Tigre della Malesia. - Sandokan si volse per vedere se i suoi uomini erano a posto, armò la carabina e le pistole e si avanzò verso la porta della pagoda, salendo i gradini. Tremal-Naik lo seguiva, accanto a Kammamuri, il quale teneva ben alta la torcia. Il formidabile pirata era tranquillo come se si trattasse di andar a trovare dei buoni vicini. I suoi occhi però non si staccavano dai due punti luminosi che brillavano sempre fra le tenebre, socchiudendosi a lunghi intervalli. - Sarà sola o avrà un compagno? - si chiese Sandokan, arrestandosi sul pianerottolo. - Temo, mio caro Sandokan, che la pagoda ospiti una intera famiglia di quelle bestiacce, - disse Tremal-Naik. - Sii prudente perché le adnara valgono le tigri. - Forse un po' meno delle nostre pantere nere. Proviamo a fare un buon colpo. Tu non sparare per ora. - S'inginocchiò e puntò la carabina mirando i due punti luminosi. Stava per premere il grilletto, quando questi si spensero bruscamente. - Saccaroa! - brontolò il pirata. - Che quella brutta bestia si sia accorta che volevo la sua pelle e che si sia internata nella pagoda? Ecco degli inquilini che diventano noiosi. Bah! Andremo a trovarle nel loro covo. Avanti Kammamuri! - Il maharatto alzò la torcia, armò una pistola a due colpi non potendo servirsi della carabina con una sola mano, e si avanzò intrepidamente fiancheggiato da Sandokan e da Tremal-Naik. I malesi ed i dayachi si erano disposti in forma di semi-cerchio alla base della gradinata, pronti ad accorrere in aiuto dei loro padroni, nel caso che avessero avuto bisogno del loro appoggio od a chiudere il passo alle belve. Non avevano però trascurato, anche in quel terribile frangente, di mettersi dinanzi il capitano dei seikki ed il fakiro, onde non approfittassero per prendere il largo, cosa però poco probabile, poiché quei due disgraziati erano ancora ben legati. I cacciatori, dopo essersi fermati alcuni istanti sulla soglia del portone, erano entrati risolutamente nella pagoda. Una sala immensa, di forma ovale, quasi nuda, poiché non vi erano che dei cumuli di macerie cadute dall'alto e dalle larghe fessure che si scorgevano lungo le pareti, s'apriva dinanzi a loro. Anche il rivestimento interno, al pari di quello esterno, era crollato cospargendo il suolo di frammenti di statue. Sandokan e Tremal-Naik girarono intono un rapido sguardo e con non poca meraviglia non scorsero, in quell'immensa sala, nessuna belva. - Dove sarà scappata quella pantera? - si chiese Sandokan. - Attraverso i crepacci delle pareti no di certo, non prolungandosi fino alla base. - In guardia, amico - disse Tremal-Naik. - Può essersi nascosta dietro questi cumuli di rottami. - Non mi sembrano tanto alti da coprirla. D'altronde lo sapremo subito. - Dinanzi a lui si trovava un gigantesco dado di pietra che forse in altri tempi aveva servito a sorreggere od una pietra di Salagraman od un lingam, il trimurti della religione indiana. Con un salto vi fu sopra e spinse gli sguardi in tutte le direzioni. - Nulla, - disse poi. - La pantera è scomparsa. - Eppure non deve essere uscita, - disse Tremal-Naik. - I nostri uomini l'avrebbero veduta. - Ah! - Che cosa c'è ancora? - Vedo una porticina all'estremità della sala. - Che metterà probabilmente in qualche galleria, - disse il maharatto. - Purché non vi sia da quella parte un'uscita, - disse Tremal-Naik. - In tal caso ci risparmierebbe il disturbo di cacciarla, - rispose Sandokan. - Andiamo a vedere se quella signora ha preferito lasciarci l'alloggio senza protestare. - Attraversarono la sala e giunsero ben presto dinanzi alla porticina che era aperta. Sandokan e Tremal-Naik avvertirono subito un acuto odore di selvatico. - È passata per di qua - disse il primo. - Attenti a non farvi sorprendere. - Questa galleria deve condurre negli appartamenti dei sacerdoti, - aggiunse il bengalese. - In tale caso avremo da percorrere un bel tratto. Mettiti dietro di noi, Kammamuri. - Appoggiarono le carabine alla spalla onde essere più pronti a far fuoco e s'inoltrarono in quello stretto passaggio che tendeva a salire. Percorsi cinquanta passi, si trovarono dinanzi ad una gradinata che descriveva una curva assai accentuata. - Saccaroa! - esclamò Sandokan, seccato. - Dove si sarà cacciato quel maledetto animale? - Taci! - disse Tremal-Naik. Un sordo mugolìo si udì un po' più sopra. Segno che la pantera si trovava là dentro e che forse si preparava a disputare ai tre uomini la via. Sandokan, risoluto a finirla, si slanciò su per la gradinata e giunto sul pianerottolo, vide un'ombra allontanarsi velocemente entro un secondo corridoio. - Fa' lume, Kammamuri! - gridò. Il maharatto fu pronto a raggiungerlo. Scorgendo ancora l'ombra, la Tigre della Malesia fece precipitosamente fuoco. La detonazione, che risuonò fra quelle strette pareti come un colpo di spingarda, fu seguìta da un urlo strozzato. - Colpita? - chiese Tremal-Naik balzando avanti. - Ah! non lo so, - rispose Sandokan che ricaricava l'arma. - Fuggiva dinanzi a me e non potevo scorgerla troppo bene. Ho fatto fuoco a casaccio. - Andiamo a vedere se vi sono delle tracce di sangue. - S'avanzarono cautamente, cogli occhi e gli orecchi in guardia, tenendosi curvi onde offrire meno bersaglio nel caso d'un improvviso attacco. Il corridoio, che era aperto nello spessore delle pareti, girava come se seguisse la curva della immensa pagoda. Di quando in quando a destra ed a sinistra s'aprivano delle piccole celle, che un giorno dovevano aver servito ai bramini o ai gurum. Ad un tratto Sandokan si arrestò curvandosi a terra. - Una larga macchia di sangue! - esclamò. - L'hai colpita, - disse Tremal-Naik. - Fra poco sarà nostra. - Avanti! - Sicuri di non trovare ormai da parte della pantera grande resistenza, avevano allungato il passo. Le macchie di sangue continuavano e sempre più abbondanti. La palla di Sandokan doveva aver prodotta una ferita gravissima. La dannata bestia però continuava la sua ritirata attraverso a quell'interminabile corridoio. Ad un certo momento e quando meno se l'aspettavano, i tre cacciatori si trovarono dinanzi ad una sala piuttosto vasta, ingombra di statue rappresentanti le eterne incarnazioni di Visnù. - Dobbiamo essere alla fine! - aveva esclamato Tremal-Naik. Aveva appena pronunciate quelle parole quando una massa piombò improvvisamente su di loro, atterrandoli uno sull'altro e spegnendo la torcia. Sandokan fu pronto ad alzarsi ed a far fuoco e anche questa volta a casaccio, imitato da Kammamuri che non si era lasciata sfuggire la pistola. Tremal-Naik, più prudente, aveva conservata la sua carica temendo un ritorno offensivo della belva. Questa, dopo aver spiccato quel gran salto e d'aver gettati i cacciatori a gambe levate, era scappata ritornando nel corridoio. - Quella pantera ha l'anima di Kalì! - esclamò Tremal-Naik. - Eccoci in un bell'impiccio! Chi ha l'acciarino? - Io no - rispose Sandokan. - E nemmeno io - aggiunse Kammamuri. - Dovremo compiere la ritirata all'oscuro? - Conosciamo già il corridoio e credo che il ritorno non sarà difficile, - rispose la Tigre della Malesia. - E se la pantera ci aspetta all'agguato? - Ecco quello che temo. - Ricarica subito e anche tu Kammamuri. Da un istante all'altro possiamo trovarci nuovamente di fronte alla kerkal. - E può anche ... - Il maharatto non finì la frase. Un mugolìo che terminò in un soffio ardente lo aveva arrestato. - Vi è un'altra pantera qui! - esclamò subito Sandokan facendo un rapido dietro fronte. - Ma sì! - rispose Tremal-Naik. - La prima non era sola. - In ritirata! - E presto, - aggiunse il bengalese. - Qui corriamo il pericolo di venire assaliti dinanzi e alle spalle. - Sandokan lanciò una imprecazione. - Tornare indietro ora, quando già erano nelle nostre mani! - Le scoveremo più tardi. Vieni, non perdiamo tempo! - Uscirono dalla sala, indietreggiando lentamente onde non farsi sorprendere. Kammamuri solo, che aveva ricaricata la pistola, aveva volte le spalle alla porta per far fronte alla prima pantera fuggita attraverso il corridoio. Il momento era terribile, eppure quei tre valorosi non avevano nulla perduto della loro ammirabile calma, quantunque fossero più che certi di venire assaliti prima di poter ridiscendere nella pagoda e raggiungere i loro compagni che dovevano essere molto inquieti, non vedendoli ritornare dopo quei quattro spari. - Teniamoci uniti, - disse Sandokan ai compagni. - Se non abbiamo più la torcia possediamo sempre le nostre armi da fuoco. - E appena scorgiamo gli occhi delle belve spariamo subito, - aggiunse Tremal- Naik. La ritirata, fra la profonda oscurità che regnava in quello stretto corridoio, si compiva lentamente, dovendo Sandokan ed il bengalese indietreggiare colla faccia rivolta sempre verso la sala. Kammamuri stava per mettere i piedi sul primo gradino, quando vide, a soli pochi passi, lampeggiare gli occhi verdastri della kerkal, che era fuggita attraverso il corridoio. - Padrone! - disse, dando indietro. - La bestia sta dinanzi a me. - E la seconda ci segue, - rispose Sandokan. - Ecco là i suoi occhi. - I tre uomini si erano arrestati colle armi puntate contro quei quattro punti luminosi. Quantunque provati alle più terribili avventure, non osavano far fuoco per la tema di mancare i loro avversari. Fra loro regnò un breve silenzio, poi Sandokan pel primo lo ruppe. - Non possiamo rimanere qui eternamente. Oltre le armi da fuoco abbiamo anche le scimitarre ed un combattimento a corpo a corpo non mi fa paura. Tu, Kammamuri, fa' fuoco sulla pantera che si trova sulla scala; io cercherò di spacciare l'altra. - Ed io? - chiese Tremal-Naik. - Rimarrai in riserva, - rispose la Tigre della Malesia. Estrasse con precauzione la scimitarra senza staccare i suoi occhi dai due punti fosforescenti che brillavano sinistramente fra quelle fitte tenebre, la strinse fra i denti, poi mirò lentamente, onde essere ben sicuro del suo colpo. Kammamuri dal canto suo aveva puntata la pistola, che come abbiamo detto era a doppia canna. I tre spari formarono una detonazione sola. Al rapido bagliore prodotto dalla polvere, i cacciatori videro le due belve scagliarsi innanzi, poi ruzzolarono l'uno addosso all'altro giù per la scala. Tremal-Naik, che fu il primo a giungere in fondo, udendo verso il pianerottolo un mugolìo minaccioso, sparò più per illuminare, fosse pure per un istante la galleria, che colla convinzione di colpire. Un urlo vi rispose, poi una massa crollò giù dalla scala cadendo addosso a Sandokan che si era fermato sul penultimo gradino. - Ah! Canaglia! - urlò il pirata che aveva avuto il tempo d'impugnare la scimitarra prima di cadere. Alzò l'arma e la lasciò cadere con forza su quel corpo che si dibatteva al suo fianco urlando. - Prendi! Prendi! - Due volte la scimitarra, maneggiata da quel braccio di ferro, tagliò a fondo. - Fuggiamo! - disse in quel momento Tremal-Naik. - Le nostre armi sono scariche. - Tutti e tre si erano slanciati attraverso al corridoio, correndo all'impazzata. Stavano per entrare nella pagoda, quando udirono una scarica echeggiare al di fuori. - I nostri uomini hanno fucilata l'altra, - disse Sandokan correndo verso la porta. Non si era ingannato. Sul vasto pianerottolo giaceva una gigantesca pantera, una delle più grosse che avesse visto fino allora, immersa in una pozza di sangue. La sua splendida pelliccia era crivellata di proiettili. - Sahib, - disse Bindar, facendosi innanzi, - si temeva che ti fosse accaduta qualche disgrazia. - La pagoda è nostra, - rispose semplicemente Sandokan. - Occupiamola. - Sarà morta l'altra? - chiese Kammamuri. - La mia scimitarra è lorda di sangue e quando io meno un colpo, nemmeno una tigre può resistere. Fa' mettere, per maggior precauzione, delle sentinelle dinanzi alle due porte e cerchiamo di riposare qualche ora. Ne abbiamo bisogno. - I malesi ed i dayachi sciolsero i pacchi, stendendo a terra tappeti e coperte di lana e perfino cuscini destinati ai loro capi, mentre alcuni altri accendevano alcune torce piantandole fra le macerie. Il vecchio Sambigliong fece la scelta degli uomini di guardia, portandone tre dinanzi alla porticina che conduceva sulla gradinata della porta maggiore, non essendo improbabile che altre fiere si presentassero. Sandokan e Tremal-Naik, dopo essersi bene assicurati che il fakiro ed il comandante dei seikki avevano i legami intatti, si sdraiarono sui tappeti, non senza aver avuto la precauzione di mettersi a fianco le armi, quantunque si ritenessero perfettamente sicuri contro una invasione da parte delle guardie del rajah. Il resto della notte infatti trascorse tranquillo. Solo alcuni sciacalli, attirati da quella luce insolita, che brillava nell'interno della pagoda, osarono salire la gradinata e mandare qualche urlo. Non essendo pericolosi, gli uomini di guardia non si scomodarono a salutarli con un colpo di fucile, desiderando economizzare le loro munizioni. Preparata e divorata la colazione, Sandokan inviò nella jungla una metà dei suoi uomini, per assicurarsi contro qualunque sorpresa, poi si fece condurre dinanzi il fakiro. Il povero uomo, che già s'aspettava di dover subire un interrogatorio, tremava come se avesse la febbre e dalla fronte gli cadevano grosse gocce di sudore. - Siediti, - gli disse ruvidamente Sandokan, che stava comodamente sdraiato su un tappeto a fianco di Tremal-Naik. - È giunta l'ora di fare i conti. - Che cosa vuoi da me, signore? - gemette il disgraziato guardando con fervore l'antico capo dei pirati di Mompracem, che lo fissava come se cercasse di ipnotizzarlo. - Un uomo che avesse la coscienza tranquilla non tremerebbe come te, - disse Sandokan accendendo il cibuc e lanciando in aria una fitta nuvoletta di fumo. - Narrami ora come hai fatto tu, che hai un braccio solo disponibile, a rapire quella fanciulla. - Una fanciulla! - esclamò il fakiro alzando gli occhi in aria. - Che cosa vieni a raccontarmi tu sahib? Ti ho già detto che io non so nulla, affatto nulla. - Sicché tu non ti sei recato in casa d'una signora indiana per liberarla dal mal occhio. - Può darsi, ma non ti saprei dire quale. - Allora te lo dirà un uomo che assistette alla cerimonia. - Fallo venire, - rispose il gussain, con voce però tutt'altro che ferma. - Kubang! - gridò Sandokan. Il malese, che fino allora si era tenuto nascosto dietro un cumulo di macerie, si alzò e si mise di fronte al fakiro chiedendogli: - Mi riconosci tu? - Tantia lo fissò a lungo, con uno sguardo che tradiva una profonda inquietudine, poi raccogliendo tutta la sua energia rispose: - No: non ti ho mai veduto. - Tu menti - gridò il malese. - Quando tu passasti il bacino dinanzi agli occhi della giovane indiana, mi trovavo a soli tre passi di distanza da te. - Il gussain ebbe un leggero fremito, però rispose subito. - T'inganni: un viso che avesse avuto quella brutta pelle non mi sarebbe sfuggito così facilmente. Te lo ripeto: io non ti ho mai veduto. - Un uomo che ha un braccio anchilosato e che tiene nel suo pugno un ramoscello non si dimentica facilmente - rispose il malese. - Sei stato tu, lo affermo solennemente. - Difenditi ora, - disse Sandokan. - Vedi che quest'uomo ti accusa. - Il gussain crollò le spalle, sorrise ironicamente, poi rispose: - Quest'uomo o è pazzo od ha giurato di perdermi. Tantia però non è così stupido da cadere nell'infame agguato preparato da questo miserabile. - È troppo furbo per compromettersi, - disse Tremal-Naik. - L'interrogatorio però è appena cominciato e non finirà tanto presto. - È vero, - disse Sandokan. - Accusa Kubang. - Io dico che quest'uomo si è presentato nel palazzo della giovane indiana, - riprese il malese, - che ha chiesto di riposarsi, che fu lasciato solo e che alla notte scomparve portando via la padrona: che neghi se l'osa! - L'oso, - rispose il fakiro. - Sicché non vuoi confessare per conto di chi hai agito, - disse Sandokan. - Io non sono che un povero uomo che non ha altro desiderio che di andarsene al più presto nel cailasson. La mia carcassa non servirebbe nemmeno per una cena alla tigre. - Kammamuri, - disse Sandokan, - quest'uomo non ha ancora fatto colazione. Portagli una terrina di carri. Come ha ceduto Kaksa Pharaum, cederà anche questo ostinato. - Il maharatto che stava rimescolando un certo intingolo, che si trovava in una pentola di ferro e che gli faceva lagrimare abbondantemente gli occhi, empì un recipiente e lo posò dinanzi al gussain. - Mangia, - disse Sandokan. - Poi riprenderemo il discorso. - Tantia fiutò il riso condito con droghe fortissime e scosse la testa dicendo con voce risoluta: - No! - Sandokan si levò dalla fascia una pistola, l'armò e accostando le fredde canne ad una tempia del prigioniero gli disse: - O mangi o ti faccio scoppiare la testa. - Che cosa contiene questo carri? - chiese il fakiro coi denti stretti. - Mangialo, ti dico. - Tu mi prometti che non contiene alcun veleno? - Non ho alcun interesse a sopprimerti, anzi desidero che tu viva. Ti decidi o no? Ti accordo un minuto. - Il fakiro esitò un istante, poi prese il cucchiaio che Kammamuri gli porgeva sorridendo ironicamente e si mise a mangiare facendo delle orribili smorfie. - Troppo pimento in questo carri, - disse. - Tu hai un cattivo cuoco. - Me ne provvederò un altro, - rispose Sandokan. - Per ora accontentati di quello che ho. - Il fakiro, vedendo che non deponeva la pistola, continuò a mangiare quella miscela infernale, che doveva bruciargli lo stomaco. Essendo però gli indiani abituati a mettere molto pimento nei loro cibi, specialmente nel carri, il gussain ne risentiva certamente meno gli effetti ardenti. Quand'ebbe finito si batté colla sinistra il ventre dicendo: - Anche questa minestra passerà. - Vedremo se il tuo stomaco sarà così solido, - rispose Sandokan. - Ora a te Tremal-Naik. - Il bengalese e Kammamuri afferrarono il gussain sotto le ascelle e lo misero in piedi. - Che cosa volete ancora da me? - chiese il disgraziato con terrore. - Oh! Non abbiamo ancora finito? - disse Tremal-Naik. - Credevi di cavartela così a buon prezzo? Vuoi evitare il resto? Allora confessa. - Vi ho detto che io non so nulla! - strillò Tantia. - Io non ho preso parte al rapimento di quella donna. Potete strapparmi la lingua, tormentarmi, io non potrò dirvi quello che io non ho fatto. - Lo vedremo, - disse Tremal-Naik. Lo spinsero fuori dalla pagoda e gli fecero scendere la scalinata fermandolo dinanzi ad una buca molto profonda, che due malesi stavano scavando. - Basterà, - disse Sandokan ai due pirati, dopo d'aver dato uno sguardo a quello scavo. - L'uomo non è grasso, tutt'altro anzi. - Il gussain aveva fatto due passi indietro guardando con smarrimento Sandokan, Tremal-Naik e Kammamuri. - Che cosa volete fare di me? - chiese battendo i denti. - Ricordatevi che io sono un fakiro, ossia un sant'uomo, che gode la protezione di Brahma. - Chiamalo che venga a liberarti, - disse Sandokan. - Voi non godrete le delizie del cailasson, quando la morte vi avrà colpiti. - Io mi accontento del paradiso di Maometto. - Il rajah mi vendicherà. - È troppo lontano e poi in questo momento non ha tempo di occuparsi di te. Vuoi parlare sì o no? - Che siate maledetti tutti! - urlò il gussain furibondo. - Lancio contro di voi il malocchio! - La mia scimitarra lo spezzerà, - rispose Sandokan. - Calatelo dentro. - I due malesi s'impadronirono del fakiro, che non poteva opporre che una resistenza debolissima, avendo un solo braccio disponibile e lo cacciarono nella buca lasciandogli sporgere solamente la testa e il braccio sinistro che nessuno avrebbe potuto ormai piegare senza spezzarglielo. Ciò fatto cominciarono a gettare dentro palate di terra in modo da avvolgere completamente quel magrissimo corpo e d'immobilizzarlo. Il gussain che forse aveva indovinato a quale spaventevole supplizio lo condannavano i suoi carnefici, cacciava urla spaventevoli che non producevano però nessun effetto sull'anima di Sandokan, né su quella di Tremal-Naik. - La pentola ora, - disse la Tigre della Malesia, quando il fakiro fu interrato. Uno dei due malesi corse nella pagoda e tornò portando una specie di vaschetta di metallo, colma d'acqua limpidissima e la mise dinanzi a Tantia, alla distanza di qualche passo. - Quando avrai sete te la prenderai, - disse allora Sandokan. Vedendo l'acqua il gussain stralunò gli occhi e le sue labbra s'incresparono. - Datemi da bere! - ruggì. - Ho il fuoco nel ventre. - Allunga il tuo braccio anchilosato e serviti, - rispose Sandokan. - Nessuno te lo impedisce. - Spezzatemelo allora! Io non posso abbassarlo. - È un affare che riguarda te. Vieni Tremal-Naik: quest'uomo comincia a diventare noioso. - A cinquanta passi dalla gradinata s'alzava uno splendido lauro sotto il quale i malesi avevano stesi alcuni tappeti e collocati alcuni cuscini. Sandokan e Tremal-Naik, seguiti da Kammamuri, si diressero verso quella pianta e si sdraiarono sotto la fitta ombra accendendo le loro pipe. Il gussain non cessava di urlare come un dannato, chiedendo acqua. Il pimento cominciava a fare i suoi effetti, tanagliandogli le viscere. - All'altro ora, - disse la Tigre della Malesia. - Kammamuri va' a prendere il demjadar. - Terremo la corte di giustizia sotto quest'albero? - chiese Tremal-Naik scherzando. - Siamo più sicuri qui che nella pagoda - rispose Sandokan. - Eh non so, amico! Tu dimentichi che siamo in mezzo ad una jungla. - Finché i miei uomini battono i bambù non abbiamo nulla da temere. - Pronunceremo un'altra sentenza? - Tutto dipenderà dalla buona o cattiva volontà del prigioniero. - Kammamuri tornava in quel momento col capitano dei seikki. Era questi un bel tipo di montanaro indiano, d'una robustezza eccezionale, con una lunga barba nerissima che dava maggior risalto alla sua pelle appena abbronzata e con due occhi pieni di fuoco. Essendogli state slegate le mani, salutò militarmente Sandokan e Tremal-Naik, portando la destra sull'immenso turbante bianco colla calotta rossa ricamata in oro, che gli copriva la testa. - Siedi amico, - gli disse la Tigre della Malesia. - Tu sei un uomo di guerra e non già un gussain. - Il demjadar che conservava una calma degna d'un vero soldato, obbedì senza batter ciglio. - Io voglio sapere da te se hai preso parte al rapimento d'una principessa indiana insieme col fakiro. - Io non ho mai avuto alcun rapporto con quell'uomo, - rispose il seikko quasi con disprezzo. - Io sono mussulmano come tutti i miei compatriotti e non mi occupo dei santoni. - Dunque tu non sai nulla di quel rapimento. - È la prima volta che odo parlare di ciò. Poi io non mi occuperei di tali cose. Affrontare dei nemici sia pure; lottare con delle donne che non possono difendersi, mai! I seikki della montagna sono guerrieri. - Chi ti ha incaricato di assalirci? - Il rajah. - Chi aveva detto a S. Altezza che noi abitavamo nella pagoda sotterranea? - Io sono abituato a obbedire alle persone che mi pagano e non di chiedere i loro affari, - rispose il seikko. - Quanto ti dà il rajah all'anno? - Duecento rupie. - Se vi fosse un uomo che te ne offrisse mille, lasceresti il rajah? - Gli occhi del demjadar lampeggiarono. - Pensaci, - disse Sandokan, a cui non era sfuggito quel lampo che tradiva una intensa cupidigia. - Mi risponderai su ciò più tardi. Ora voglio sapere altre cose. - Parla, sahib. - Sei tu che comandi la guardia reale? - Sì, sono io. - Di quanti uomini si compone? - Di quattrocento. - Tutti valorosi? - Un sorriso quasi di disprezzo spuntò sulle labbra del demjadar. - I seikki della montagna sanno morire bene e non contano i loro nemici, - disse poi. - Quanto ricevono i tuoi uomini dopo un anno di servizio? - Cinquanta rupie. - Che cosa hai pensato dell'offerta che ti ho fatta? - Il demjadar non rispose: pareva facesse qualche calcolo difficile. - Sbrigati, non ho tempo da perdere, - disse Sandokan. - Il rajah del Mysore ed il guicovar di Baroda, che sono i più generosi principi dell'India, non mi darebbero tanto, - rispose finalmente il seikko. - Sicché tu accetteresti per una tale somma di lasciare il rajah dell'Assam e di passare sotto altre persone? - Sì, purché paghino. Noi siamo mercenari. - Anche se quella persona si servisse di te e dei tuoi uomini per dare addosso al rajah dell'Assam? - Il demjadar alzò le spalle. - Io non sono un assamese, - rispose poi. - La mia patria è sulle montagne. - Risponderesti della fedeltà dei tuoi uomini se si offrissero a loro duecento rupie per ciascuno? - Sì, sahib, assolutamente - rispose il demjadar. - Tutti quei montanari li ho arruolati io e non obbediscono che a me. - Ti farò versare oggi un acconto di cinquecento rupie, ma per ora tu non devi lasciare il mio campo e non cesserà la sorveglianza intorno a te. - Non sarebbe necessaria perché tu hai la mia parola, però fa' come vuoi. È meglio non fidarsi, ed io al tuo posto farei altrettanto. - Ora puoi andartene: devo occuparmi del fakiro. Kammamuri! - chiamò poi; il maharatto che stava accoccolato dinanzi a Tantia ascoltando, impassibile alle urla feroci che mandava il disgraziato, fu lesto ad accorrere. - A che punto siamo? - gli chiese Sandokan, mentre il demjadar si allontanava. - Il gussain non può più resistere: è idrofobo. - Andiamo a vedere se si decide a parlare. Vieni Tremal-Naik: noi non avremo perduta la nostra giornata. - Comincio a sperare che la corona di Surama non sia lontana, - disse il bengalese. - Anch'io, amico: ormai non è più che una questione di pazienza. -

. - Questo è un feretro abbandonato alla corrente, - mormorò. - Che incontro poco allegro! Dopo tutto mi aiuterà a reggermi a galla. - Allungò le mani e s'aggrappò a quella strana bara che la corrente trasportava. Uno sternuto vigoroso lo colse. - Ah! Per Giove! Vi è un morto! Dannati indiani! Col loro sacro Gange cominciano ad annoiarmi. - Infatti, steso su quella funebre tavola, destinata a raggiungere il Gange, si trovava il cadavere di un vecchio indiano, quasi nudo, con una lunga barba bianca, ridotto però in uno stato orribile. I marabù gli avevano strappati gli occhi, divorata la lingua, squarciato il ventre per divorargli gl'intestini e da quelle ferite usciva un odore nauseante che rivoltava lo stomaco. - Puoi andare a finire nel Gange anche senza questa tavola che è più necessaria a me che a te - disse Yanez. - E poi il tuo profumo non mi piace affatto. Va' e buon viaggio! - Con una spinta vigorosa gettò il cadavere in acqua assieme alla lampadina e si issò sulla tavola. - Cerchiamo ora di orientarci, - mormorò. - Gli altri penseranno a mettersi in salvo come potranno. Già, di Sandokan, di Tremal-Naik e dei miei uomini sono sicuro. - Si,guardò intorno e gli parve di riconoscere la riva destra. - È là che devo sbarcare, - disse. Si gettò bocconi sulla tavola e servendosi delle mani come di remi, guidò il galleggiante funebre attraverso il fiume. La corrente non era forte, avendo quasi tutti i corsi d'acqua dell'India pochissima pendenza, sicché gli riuscì facile raggiungere la riva. Abbandonò la tavola e prese terra. In quel luogo non vi erano che delle risaie: capanne, nemmeno una. - Rimontando verso levante giungerò al tempio sotterraneo, - mormorò. - Non deve essere molto lontano. Affrettiamoci, o desterò una pericolosa curiosità io, uomo bianco, senza giacca e senza stivali e con un bagaglio sulle spalle. - Si mise rapidamente in marcia, seguendo sempre la riva, che era fiancheggiata da grossi alberi fra i cui rami cominciavano già a volteggiare delle singalika, quelle magrissime scimmie che sono così numerose in India, alte quasi un metro, con una specie di barba, che dà a loro uno strano aspetto e che sono lo spavento dei poveri contadini, ai quali distruggono senza misericordia i raccolti. Yanez, che vedeva, non senza inquietudine, approssimarsi l'alba, affrettava il passo. Aveva già oltrepassata l'isola su cui sorgeva la pagoda di Karia, non doveva quindi essere molto lontano dal tempio sotterraneo. Di quando in quando s'arrestava un momento sperando di scorgere la bangle e non vedeva invece altro che delle lunghe file di grotteschi uccellacci, d'aspetto decrepito, semi-spelati, col becco lunghissimo e robusto. Erano i marabù che attendevano pazientemente il passaggio di qualche cadavere, umano o animale, poco importava, per dargli addosso ed in quattro e quattro otto farlo scomparire nei loro mai pieni stomachi. Il sole dardeggiava i suoi primi raggi sulle acque del Brahmaputra, quando Yanez giunse dinanzi al tempio sotterraneo, sulla cui porta vegliava un uomo, che aveva l'aspetto d'un fakiro. - Ah! Signor Yanez! - esclamò quell'uomo alzandosi. - Kammamuri! - aveva esclamato il portoghese. - Nella pelle d'un biscnub, signore, - rispose il maharatto ridendo - che non ha però rinunciato né alle ricchezze, né ai piaceri della vita, né ai beni di questo mondo come i miei correligionari. - Sono tornati? - Il signor Sandokan ed il mio padrone? Vi aspettano a colazione da una buona mezz'ora. - E gli altri? - Vi sono tutti. Sono giunti su una bangle. - Ed il ministro? - È sempre al sicuro, ma ho paura che quel povero diavolo muoia di spavento. - I tuoi compatriotti hanno la pelle troppo dura per andarsene così presto in grembo a Siva o a Brahma. - S'aprì il passo fra i cespugli che nascondevano l'entrata e si cacciò nei corridoi del tempio, che erano guardati da malesi e da dayachi armati di carabine e di scimitarre. Quando giunse nell'ultima stanza, che già abbiamo descritta e che era sempre illuminata dalla lampada non avendo alcuna finestra, trovò seduti dinanzi alla tavola Sandokan, Tremal-Naik ed il ministro. - Finalmente! - esclamò il primo. - Stavo per mandare alcuni uomini a cercarti, quantunque io non dubitassi che ci avresti raggiunti. - Non ho potuto raggiungere la bangle. Di ciò parleremo più tardi. Lascia che mi cambi, ché gocciolo da tutte le parti e fa' portare la colazione. Quel bagno mi ha messo indosso un appetito da tigre. - E metti al sicuro la tua famosa conchiglia, - disse Tremal-Naik. - Dopo: bisogna che il signor ministro la veda. - Passò in una stanza attigua e si cambiò rapidamente, indossando un vestito di flanellina bianca, assai leggera. Quando rientrò, la tiffine, o colazione fredda all'inglese, era pronta: carne, birra, biscotti. Il cuoco però aveva aggiunta una terrina di carri per S. E. il ministro, non mangiando carne di bue gli indiani. - Mangiamo per ora, - disse Yanez - e voi, Eccellenza, rasserenate un po' il vostro viso e bevete pure la nostra birra. Vi do la mia parola che non contiene, questa, nessun pezzetto di grasso di mucca. - Invece di rasserenarsi, il ministro si fece ancor più oscuro in viso, nondimeno non respinse il carri che Yanez gli offriva, né una tazza di birra. Mentre mangiavano con un appetito invidiabile, i due pirati della Malesia e Tremal-Naik, si raccontavano le avventure a loro toccate durante la perigliosa evasione. Anche Sandokan e l'indiano avevano avuto da fare non poco a uscire dalle volte sommerse, ma più fortunati del portoghese non avevano incontrata nessuna balena d'acqua dolce ed avevano potuto raggiungere felicemente la bangle dove avevano già trovati i dayachi ed i malesi. Temendo di venire da un momento all'altro sorpresi dai sacerdoti, non avevano indugiato a prendere il largo, convinti che Yanez se la sarebbe facilmente cavata da sé. Quando la colazione fu terminata Yanez accese, come di consueto, l'eterna sigaretta, mise il cofano dinanzi al ministro e l'aprì levando la preziosa conchiglia. - È questa, proprio questa la famosa pietra di Salagraman? - chiese al ministro che la guardava sbigottito. - Rispondetemi Eccellenza. - Kaksa Pharaum fece col capo un cenno affermativo. - Uditemi ora e badate di non rispondermi con dei soli cenni. Esigo da voi delle importanti dichiarazioni. - Ancora? - brontolò il ministro, che sembrava di pessimo umore. - Ci tiene molto il re a possedere questa pietra di Salagraman? - Più di voi certo, - rispose Kaksa Pharaum. - Come si potrebbero fare le processioni senza quella preziosa reliquia, che tutti i gurum c'invidiano? - Qual è la prossima processione che si farà in pubblico? Voi indiani ne eseguite molte durante l'anno. - Quella del maddupongol. - Che cos'è? - È la festa delle vacche, - disse Tremal-Naik - che si solennizza nel decimo mese di tai, ossia del vostro gennaio, per festeggiare il ritorno del sole nel settentrione e che fa seguito al gran-pongol ossia alla festa del riso bollito nel latte. - È vero, - disse il ministro. - Quando deve scadere? - chiese Yanez. - Fra quattro giorni. - Benissimo: per quel giorno il rajah avrà la sua pietra di Salagraman. - Il ministro aveva fatto un soprassalto, guardando Yanez cogli occhi dilatati dal più intenso stupore. - Volete scherzare, mylord? - chiese. - Niente affatto, Eccellenza - rispose Yanez. - Vi do la mia parola d'onore che la pietra ritornerà, per mezzo del principe, nella pagoda di Karia. - Io non comprendo più nulla, - disse Kaksa Pharaum. - Ed io meno di voi, - aggiunse Sandokan che fumava il suo cibuc senza aver, fino allora, preso parte alla conversazione. - Abbi un po' di pazienza, fratellino - disse Yanez. - Ditemi ora Eccellenza, faranno delle ricerche per scoprire gli autori del furto? - Metteranno a soqquadro la città intera e lanceranno nelle campagne tutta la cavalleria, - rispose Kaksa Pharaum. - Allora possiamo essere sicuri di non venire disturbati, - disse il portoghese sorridendo. - Sono già le otto: possiamo andare a trovar Surama e fare un giro per la città. Vedremo così l'effetto che avrà prodotto il furto della famosa pietra. - Staccò dalla parete un altro paio di pistole, che si mise nella larga fascia rossa, si mise in testa un elmo di tela bianca adorno d'un velo azzurro, che gli dava l'aspetto d'un vero inglese in viaggio attraverso il mondo e fece atto d'uscire insieme a Sandokan ed a Tremal-Naik che si erano pure provveduti d'armi. - Mylord, - disse il ministro, - ed io? - Voi, Eccellenza, rimarrete qui sotto buona guardia. Non abbiamo ancora terminato le nostre faccende, e poi se vi mettessimo in libertà, correreste subito dal principe. - Io mi annoio qui ed ho molti affari importanti da sbrigare. Sono il primo ministro dell'Assam. - Lo sappiamo, Eccellenza. D'altronde se volete cacciare la noia, fumate, bevete, e mangiate. Non avete altro che da ordinare. - Il povero ministro, comprendendo che avrebbe perduto inutilmente il suo tempo, si lasciò ricadere sulla sedia mandando un sospiro così lungo che avrebbe commossa perfino una tigre, ma che non ebbe nessun effetto sull'animo di quel diavolo di portoghese. Quando furono fuori del tempio, trovarono Kammamuri sempre seduto dinanzi ad un cespuglio, col suo berretto rosso ed azzurro sul capo, il corpo avvolto in un semplice pezzo di tela, con una corona ed un bastone in mano: era il costume dei fakiri biscnub, specie di pellegrini erranti che sono però tenuti in molta considerazione nell'India, avendo quasi tutti appartenuto a classi agiate. - Nulla di nuovo, amico? - gli chiese Yanez. - Non ho udito che le urla stonate d'un paio di sciacalli i quali si sono divertiti a offrirmi, senza richiesta, una noiosissima serenata. - Seguici a distanza e raccogli le dicerie che udrai. Se non potrai seguire il nostro mail-cart non importa. Ci rivedremo più tardi. - Sì, signor Yanez. - Il portoghese ed i suoi due amici si diressero verso un gruppo di palme dinanzi a cui stava fermo uno di quei leggeri veicoli chiamati dagli anglo-indiani mail- cart, che vengono usati per lo più nei servizi postali. Era però di dimensioni più vaste degli ordinari, e sulla cassa posteriore vi potevano stare comodamente anche tre persone invece d'una. Era tirato da tre bellissimi cavalli che pareva avessero il fuoco nelle vene e che un malese penava a frenare. Yanez salì al posto del cocchiere, Sandokan e Tremal-Naik di dietro e la leggera vettura partì rapida come il vento, avviandosi verso le parti centrali della città. I mail-cart vanno sempre a corsa sfrenata come le troike russe e tanto peggio per chi non è lesto a evitarle. Attraversano le pianure come uragani, salgono le più aspre montagne, le discendono con eguale velocità, specialmente quelle adibite al servizio della posta. Sono guidate da un solo indiano, munito d'una frusta a manico corto, che non lascia un momento in riposo, perché non deve arrestarsi per nessun motivo. Quelle corse però non sono scevre di pericoli. Avendo quelle vetture le ruote alte e la cassa senza molle, subiscono dei trabalzi terribili e se uno volesse parlare correrebbe il rischio di troncarsi, coi propri denti, la lingua. Yanez, come abbiamo detto, aveva lanciato quella specie di birroccio a gran corsa, facendo scoppiettare fortemente la frusta per avvertire i passanti a tenersi in guardia. I tre cavalli, che balzavano come se avessero le ali alle zampe, divoravano lo spazio come saette, nitrendo rumorosamente. Bastarono dieci minuti perché il mail-cart si trovasse nelle vie centrali di Gauhati. Yanez ed i suoi compagni notarono subito un'animazione insolita: gruppi di persone si formavano qua e là discutendo animatamente, con larghi gesti e anche sulle porte dei negozi era un bisbigliare incessante fra i proprietari ed i loro avventori. Si leggeva sul viso di tutta quella gente impresso un vero sgomento. Yanez, che aveva frenati i cavalli onde non storpiare qualche passante, si era voltato verso i suoi due amici strizzando loro l'occhio. - La terribile notizia si è già sparsa, - rispose la Tigre della Malesia, sorridendo. - Dove ci conduci? - Da Surama per ora. - E poi? - Vorrei vedere quel maledetto favorito del rajah, se mi si presentasse l'occasione. - Uhm! Sai che il principe non vuol vedere nessun inglese alla sua corte. - Eppure dovrà ricevermi e con grandi onori, - disse Yanez. - Ed in quale maniera? - Non ho forse la pietra in mia mano? - Che diventi un talismano? - Fors'anche di più, mio caro Sandokan. Oh! Che cosa c'è? - Due indiani s'avanzavano fra la folla, l'uno lanciando di quando in quando delle note rumorose che ricavava da una lunghissima tromba di rame e l'altro che scuoteva furiosamente una gautha, ossia uno di quei campanelli di bronzo ornati con una testa che ha due ali e che vengono adoperati nelle cerimonie religiose per convocare i fedeli. Li seguiva un soldato del rajah, con ampi calzoni bianchi, la casacca rossa con alamari gialli e che portava una bandiera bianca con nel mezzo dipinto un elefante a due teste. - Questi sono araldi del principe, - disse Tremal-Naik. - Che cosa annunceranno? - Io lo indovino di già, - disse Yanez, fermando la vettura. - È una cosa che riguarda noi. - I tre araldi, dopo aver assordato i vicini che si erano radunati in gran numero attorno a loro, si erano pure fermati ed il soldato che doveva avere dei polmoni di ferro, si era messo a urlare: "S. M. il principe Sindhia, signore dell'Assam, avverte il suo fedele popolo che offrirà onori e ricchezze a chi saprà dare indicazioni sui miserabili che hanno rubata la pietra di Salagraman dalla pagoda di Karia. Ho parlato per la bocca del potentissimo rajah". - Onori e ricchezze, - mormorò Yanez. - A me basteranno i primi per ora. Il resto verrà più tardi, te lo assicuro, mio caro Sindhia. Quelle però saranno per la mia futura moglie. - Lasciò passare i banditori che avevano ripresa la loro musica infernale e lanciò i cavalli a piccolo trotto, percorrendo successivamente parecchie vie molto larghe, cosa piuttosto rara nelle città indiane che hanno stradicciuole tortuose come quelle delle città arabe e anche poco pulite. - Ci siamo, - disse ad un tratto, fermando con uno strappo violento i tre ardenti corsieri. Si era fermato dinanzi ad una casa di bella apparenza, che sorgeva, come un gran dado bianco, fra otto o dieci colossali tara che l'ombreggiavano da tutte le parti. Solo a vederla si capiva che era un'abitazione veramente signorile, essendo perfettamente isolata ed avendo porticati, logge e terrazze per poter dormire all'aperto durante i grandi calori. Tutte le abitazioni dei ricchi indù sono bellissime e tenute anche con molta cura. Devono avere cortili, giardini, cisterne d'acqua e fontane non solo nelle stanze bensì anche all'entrata e grandi ventole mosse a mano dai servi onde regni una continua frescura. Devono anche avere intorno delle piccole kas khanays ossia casette di paglia o piuttosto di radici odorose, costruite nel mezzo d'un tratto di terra erbosa e sempre in prossimità d'una tank ossia fontana onde la servitù possa comodamente lavarsi. Udendo il fracasso prodotto dai tre cavalli, due uomini vestiti come gl'indiani che però dalla tinta della loro pelle e dai tratti del viso, duri e angolosi si riconoscevano anche di primo acchito per malesi, erano subito usciti dalla casa salutando con un goffo inchino Yanez ed i suoi due compagni. - Surama? - chiese brevemente il portoghese saltando a terra. - È nella sala azzurra, capitano Yanez, - rispose uno dei due malesi. - Occupatevi dei cavalli. - Sì, capitano. - Salì i quattro gradini seguito da Tremal-Naik e da Sandokan e attraversato un corridoio si trovò in un vasto cortile, circondato da eleganti porticati sorretti da esili colonne. Nel mezzo, da una grande coppa di pietra, zampillava altissimo un getto d'acqua. Yanez passò sotto il porticato di destra e si fermò dinanzi ad una porta dove stavano raggruppate delle ragazze indiane. - Avvertite la padrona, - disse loro. Una giovane aprì invece senz'altro la porta, dicendo: - Entra, sahib: ti aspetta. - Yanez ed i suoi compagni si trovarono in un elegantissimo salotto che aveva le pareti tappezzate di seta azzurra ed il pavimento coperto da un sottile materasso che si estendeva fino ai quattro angoli. Tutto all'intorno vi erano dei divanetti di seta, con ricami d'oro e d'argento di squisita fattura, e larghi guanciali di raso fiorato appoggiati contro le pareti onde i visitatori potessero sdraiarvisi comodamente. All'altezza d'un metro, s'aprivano nelle muraglie parecchie nicchie dove si vedevano dei vasi cinesi pieni di fiori che esalavano acuti profumi. Mobili nessuno, eccettuato uno sgabello collocato proprio nel mezzo della stanza su cui stavano dei bicchieri ed un fiasco di vetro rosso racchiuso entro un'armatura d'oro cesellata, e col collo lunghissimo. Una bellissima giovane, dalla pelle leggermente abbronzata, dai lineamenti dolci e fini, cogli occhi nerissimi ed i capelli lunghi intrecciati con fiori di mussenda e gruppettini di perle, si era prontamente alzata. Uno splendido costume tutto di seta rosa, con ricami azzurri, copriva il suo corpo sottile come un giunco, pur essendo squisitamente modellato, lasciando vedere l'estremità dei calzoncini di seta bianca che s'allargavano su due graziose babbucce di pelle rossa con ricami d'argento e la punta rialzata. - Ah! Miei cari amici! - aveva esclamato, muovendo a loro incontro colle mani tese. - Anche tu, Tremal-Naik! Come sono felice di rivederti! Lo sapevo già che non saresti rimasto sordo all'appello dei tuoi vecchi compagni! - Quando si tratta di dare un trono a Surama, Tremal-Naik non rimane inoperoso, - rispose il bengalese stringendo calorosamente la piccola mano della bella indiana. - Se Moreland e Darma non fossero in viaggio per l'Europa sarebbero qui anche loro. - Come l'avrei veduta volentieri tua figlia Darma! - La riceverai alla tua corte, quando tornerà, - disse Yanez. - Orsù, Surama, da' da bere agli amici. Le vie di Gauhati sono molto polverose e la gola si secca presto. - A te, mio dolce signore, il tuo liquore favorito - disse la giovane indiana prendendo il fiasco ed empiendo i bicchieri di cristallo rosa d'un liquore color dell'ambra. - Alla salute della futura principessa dell'Assam, - disse Sandokan. - Non così presto, - rispose Surama, ridendo. - E che! Vorresti tu, piccina, che noi avessimo lasciato il Borneo ed i nostri prahos e gli amici per venire a vedere solamente le bellezze poco interessanti della tua futura capitale? Quando noi ci muoviamo facciamo sempre qualche grosso guasto, è vero Yanez? - Non siamo sempre noi le vecchie tigri di Mompracem? - rispose il portoghese. - Dove piantiamo le unghie la preda non scappa più. Ne vuoi una prova? Abbiamo già nelle nostre mani la famosa pietra di Salagraman. - Quella del capello di Visnù? - Sì, Surama. - Di già? - Diamine! Mi era necessaria per introdurmi a corte. - Ed il merito è tutto del tuo fidanzato, - disse Sandokan. - Yanez invecchia ma la sua straordinaria fantasia rimane sempre giovane. - E potremo finalmente conoscere i tuoi famosi disegni? - chiese Tremal-Naik. - Io continuo a rompermi inutilmente la testa e guastarmi il cervello senza riuscire a trovare alcuna relazione fra quella dannata conchiglia e la caduta del rajah. - Non è ancora tempo, - rispose Yanez. - Domani però saprai qualche cosa di più. - È inutile che tu lo tenti, amico Tremal-Naik, - disse Sandokan. - Noi ne sapremo qualche cosa quando sarà giunto il momento di rovesciare contro le guardie reali i nostri trenta uomini e di sguainare le nostre scimitarre. È vero, Yanez? - Sì - rispose il portoghese, sorridendo. - Quel giorno non sarà però molto vicino. Con quel Sindhia dovremo procedere molto cautamente. Non dobbiamo dimenticarci che siamo soli qui e che non possiamo contare sull'appoggio del governo inglese. Non dubitiamo però sull'esito finale. O Surama riavrà la corona o noi non saremo più le terribili tigri di Mompracem. - Ah mio signore! - esclamò la giovine indiana fissando sul portoghese i suoi profondi e dolcissimi occhi. - Tu la dividerai con me, è vero? - Io! Sarai tu, fanciulla, che me ne darai un pezzo. - Tutta insieme al mio cuore, Yanez. - Sta bene, aspettiamo però di levarla, dalla testa di quel briccone. Pagherà ben cara la cattiva azione che ti ha usata. Lui ti ha venduta come una miserabile schiava ai thugs per fare di te, principessa, una bajadera; un giorno venderemo anche lui. - Purché non faccia la fine della Tigre dell'India, - disse Sandokan con accento quasi feroce. - Ci sarò anch'io quel giorno! -

IL RE DEL MARE

682274
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Verso mezzanotte Tremal-Naik s'avvicinò a Sandokan, il quale non aveva ancora abbandonato il suo posto. - Amico mio, - gli disse, - che cosa ci rimane da fare? - Prepararci a morire, - rispose la Tigre della Malesia, con voce calma. - Io sono pronto, e le fanciulle? Sandokan invece di rispondere, stese la destra verso l'ovest, e disse: - Eccole: le vedi? - Chi, Sandokan? - Le navi nemiche. - Di già! - mormorò l'indiano che non seppe frenare un brivido. - Accorrono come belve feroci per distruggere le ultime tigri della Malesia. I loro sguardi sono ormai fissi su di noi. Tremal-Naik guardò nella direzione indicata, mentre gli uomini di guardia sulla piattaforma gridavano: - Navi a poppa! Parecchi punti luminosi scintillavano sull'orizzonte ed ingrandivano rapidamente. - Sono pronti i nostri uomini? - chiese Sandokan. - Sì, - rispose Yanez che gli stava presso. - E le fanciulle? - domandò con un tremito. - Sono tranquille. - Vorrei salvarle. - Che cosa dovremmo fare? - Sbarcarle su una scialuppa e allontanarle prima che quelle navi ci rinchiudano. - Si rifiuteranno; mi hanno giurato che se dovremo morire, esse s'inabisseranno con noi. - Vi è la morte qui! ... - L'aspettano. - Salvale, Yanez. - Ti ripeto che si rifiuterebbero; non insistere. - Ebbene, sia! ... Se dovremo morire, non cadremo invendicati! ... A me, tigri di Mompracem! Le navi nemiche accorrevano a tutto vapore, formando un ampio semicerchio, che doveva più tardi restringersi fino a rinchiudersi, per prendere in mezzo il Re del Mare e mandarlo rotto, fracassato, a picco col numero strabocchevole delle loro artiglierie. Sandokan e Yanez, che nel supremo momento del pericolo avevano ritrovata la loro calma, impartivano gli ordini con voce tranquilla. Quando videro che tutti gli uomini erano a posto di combattimento, andarono sulla passerella di comando. Sull'albero militare di poppa avevano fatto innalzare la bandiera rossa colla testa di tigre nel mezzo. Quattro fasci di luce, proiettati dai riflettori, si erano concentrati sul Re del Mare, sempre immobile, illuminandolo come in pieno giorno. - Sì, guardateci: siamo noi, - disse Sandokan. Quattro grosse navi a vapore, senza dubbio le più poderose della flotta degli alleati, si erano silenziosamente disposte in semi-cerchio intorno al Re del Mare, minacciandolo colle numerose artiglierie. Nessun colpo era però stato sparato. Aspettavano l'alba per impegnare la lotta o per intimare la resa, parola questa che non esisteva nella lingua del fiero pirata. Darma si era accostata silenziosamente alla murata di poppa. Era pallidissima, ma tranquilla, come tutto l'equipaggio dell'incrociatore. Il suo sguardo vagava da una nave all'altra con viva insistenza. Che cosa cercava? Certo sir Moreland. Una voce segreta le diceva che l'uomo amato doveva essere vicino, su una di quelle poderose corazzate che dovevano demolire il povero ed ormai impotente Re del Mare. Intanto le navi alleate, che avevano spenti i riflettori elettrici, giravano lentamente intorno all'incrociatore, stringendo sempre più il cerchio. Sfilavano come fantasmi nella notte tenebrosissima e pareva che i loro fanali, come occhi ardenti, si fissassero sanguinosamente sulla loro vittima. Non erano però ancora a portata utile delle grosse artiglierie. Sicuri ormai di tenere le tigri di Mompracem, non si davano premura di stringersi troppo addosso ad esse. Verso le due del mattino, Sandokan e Yanez che non avevano mai lasciato il loro posto, furono veduti scendere lentamente dalla passerella, e dirigersi verso il centro della nave. Erano sempre freddi, impassibili. S'avvicinarono a Tremal-Naik che stava appoggiato ad un argano, seguendo con gli sguardi inquieti sua figlia che vagava, come un fantasma sul castello di prora. - Amico, - gli disse Sandokan con accento triste. - Qui domani si inabisseranno le ultime tigri di Mompracem. Tremal-Naik aveva provato un brivido ed aveva alzata vivamente la testa. - Chi credi che siano quegli incrociatori per poter vincere la tua poderosa nave? - chiese. - I quattro grossi incrociatori che hanno cercato di catturarci nella baia di Sarawak. Noi siamo certi di non ingannarci. - E quelli affonderanno il tuo Re del Mare? - Ne ho la convinzione. - Ed anch'io, - disse Yanez. - Quelle navi devono possedere un'artiglieria formidabile e sono in quattro. - E poi siamo immobilizzati, - aggiunse Sandokan. - Infine che cosa volete concludere? - chiese l'indiano. - Proporti di recarti a bordo di una di quelle navi e di arrenderti, conducendo con te tua figlia e Surama. Tremal-Naik si era rizzato, facendo un gesto di sorpresa e insieme di dolore. - Io allontanarmi da voi! - esclamò. - Oh no, mai! Se qui morranno le ultime tigri di Mompracem a cui io debbo la vita e tanta riconoscenza, morranno anche il vecchio cacciatore della jungla nera e sua figlia. - Io debbo avvertirti però che tua figlia ama ed è riamata da un uomo che potrebbe farla felice, - disse Sandokan. - sir Moreland, è vero? - disse Tremal-Naik. - Me n'ero accorto. Avete informato Darma del grave pericolo che corriamo? - Sì, - rispose Yanez. - Che cosa ti ha detto? - Che non lascerà la nostra nave. - Non poteva rispondere diversamente, - disse l'indiano, con orgoglio. - Il buon sangue non mente. Se il destino ha segnato la nostra fine, si compia il fato. Si strinsero la mano e si diressero tutti tre verso il ponte di comando. Ad un tratto Yanez si fermò, mandando un grido: - Stupido! Ed io che lo avevo ancora dimenticato. - Chi? - chiesero ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. - Il demonio della guerra. Una pazza speranza aveva attraversato il cervello del portoghese. Si era rammentato in quel momento dello scienziato americano, di Paddy O'Brien, che teneva come prigioniero in una delle cabine del quadro, guardato giorno e notte. Scese rapidamente sotto coperta, attraversò la corsia e s'arrestò dinanzi alla stanzetta occupata dall'omiciattolo: - Sveglia il prigioniero, - disse al malese di guardia. - È già in piedi, signor Yanez. Yanez aprì la porta ed entrò. Paddy O'Brien stava seduto dinanzi ad un tavolo e pareva immerso in un calcolo intricatissimo, col naso su un foglio di carta coperto di cifre. - Voi, signor de Gomera? - disse il dottore, assicurandosi gli occhiali. - Qual vento vi conduce qui? È molto che non vi vedo e vi aspettavo. - Dottore, - disse il portoghese senza preamboli, - le navi nemiche ci hanno circondati e stiamo per venire colati a fondo. - Ah! - fece l'americano senza scomporsi. - Voi mi avete detto che siete possessore d'un tremendo segreto. - E ve lo confermo. - Ecco giunto il momento di esperimentarlo, signor demonio della guerra. - Fate portare in coperta le mie casse. - Non farete saltare la nostra nave, invece? - chiese Yanez un po' inquieto. - Salterei anch'io insieme a voi e per ora non ho alcuna voglia di morire, - rispose il dottore. - Signor de Gomera, approfittiamo di questi momenti di calma. Salirono in coperta, mentre i marinai portavano le casse del dottore. - Sono là le navi alleate, - disse Sandokan accostandosi allo scienziato. - Sì e vedo che vi hanno circondato, - rispose Paddy O'Brien, corrugando la fronte. - Ecco quella che salterà per prima. Una nave, un piccolo incrociatore, che prima non era stato scorto, si era staccato dal grosso della squadra e girava attorno al Re del Mare mantenendosi ad una distanza di due a tremila metri. Veniva per spiare o per provocare il fuoco dei pirati di Mompracem? Paddy O'Brien fece aprire le sue casse che contenevano degli apparati elettrici, incomprensibili per Yanez e per Sandokan. Esaminò attentamente ogni cosa, senza fretta e con gran calma, come un uomo sicuro del fatto suo, poi volgendosi verso Yanez che lo sorvegliava colla destra appoggiata al calcio della pistola, gli disse: - Quando vorrete? - Fate funzionare il vostro apparecchio. - Ecco che la nave ci passa a tribordo: salterà, - disse Paddy freddamente. Un brivido era corso per le ossa di tutti i marinai che circondavano l'americano. Sarebbe stato capace di operare quel miracolo quel piccolo uomo? - Attenzione, - gridò ad un tratto l'americano. Aveva appena pronunciate quelle parole che un lampo accecante ruppe bruscamente le tenebre, seguìto da uno spaventevole rimbombo. Una immensa colonna d'acqua s'era alzata attorno al piccolo incrociatore, mentre una tempesta di rottami cadeva tutto all'intorno. Un immenso urlo, sfuggito da centinaia di petti, era echeggiato lugubremente per l'aria, spegnendosi bruscamente. La nave era saltata e affondava rapidamente coi fianchi squarciati. Nel medesimo istante una granata scoppiava sul ponte del Re del Mare fra l'apparecchio e Paddy O'Brien. L'americano aveva mandato un grido ed era caduto quasi ai piedi di Yanez, il quale era sfuggito miracolosamente alle scheggie del proiettile. - Dottore! - gridò il portoghese, precipitandosi verso di lui. - Le ... mie ... le ... mie ... - mormorò il disgraziato inventore, agitando le braccia con un gesto disperato. Si portò le mani al petto, per comprimersi il sangue che sfuggiva da un'orribile ferita. Sandokan si era slanciato verso le casse. Un grido di disperazione gli sfuggì. La granata aveva distrutto l'apparato, e sminuzzato le pile. Yanez aveva alzato dolcemente la testa dell'americano. - Signor O'Brien, - disse, mentre un singhiozzo gli moriva in gola. Il ferito aprì gli occhi fissandoli sul portoghese. Un rauco sibilo gli usciva dalle labbra a lunghi intervalli. - Fi ... nito ... fi ... nito ... - rantolò. Colla destra lorda di sangue strinse quella di Yanez, poi si raggomitolò su se stesso e ricadde. - Morto, - disse Yanez con voce triste. - Ecco la prima vittima, - rispose Sandokan. Yanez depose sulla tolda il disgraziato inventore, gli chiuse gli occhi, lo coprì con una tenda strappata lì presso, poi levandosi in tutta la sua altezza, disse: - Tutto è finito: qui morranno le ultime tigri di Mompracem. Tremal-Naik, Darma, Surama, nella mia torretta e voi, ai vostri pezzi! Le nostre vite sono nelle mani di Dio! ... - Ai vostri posti di combattimento! - gridò Sandokan. - Mostriamo a costoro come sanno morire i pirati della Malesia. L'alba, un'alba rosea che annunciava una superba giornata, fugava rapidamente le tenebre, tingendo le acque di miriadi di pagliuzze d'oro. Un colpo di cannone in bianco partì dall'incrociatore più prossimo, il più grosso dei quattro: intimava la resa. Sandokan fece alzare subito la bandiera rossa, segnale di combattimento. L'incrociatore nemico invece di aprire il fuoco fece dei segnali colle bandiere che significavano: - Prima di cominciare il fuoco, mandate al mio bordo le due fanciulle. Sir Moreland risponde delle loro vite. - Ah! - esclamò Yanez. - Abbiamo l'anglo-indiano dinanzi. Cercheremo di affondargli una seconda volta la nave. Darma, Surama! Le due fanciulle erano uscite dalla torretta. - Si propone a voi di salvarvi su quelle navi, - disse Sandokan. - Accettate voi? Una scialuppa è pronta. - Mai! - risposero energicamente le due fanciulle. - Pensateci. - No, - disse Darma. - Non lascerò nè voi, nè mio padre. - Comunicate la loro risposta, - comandò Yanez. Un quartiermastro americano segnalò subito. Allora si videro salire lentamente sugli alberetti di maestra dei quattro incrociatori, quattro bandiere nere. Un colpo di vento le allargò mostrando nel mezzo, in giallo, una mostruosa figura con quattro braccia che tenevano nelle mani degli strani emblemi. Un grido di stupore ed insieme di furore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Sandokan e di Tremal-Naik. Avevano riconosciuto l'emblema dei thugs, degli strangolatori indiani. Erano dunque quelle le navi del figlio di Suyodhana, del loro implacabile e invisibile nemico? Quelle bandiere lo confermavano. A bordo del Re del Mare successe un lungo silenzio, tanto era lo stupore che aveva invaso tutti, poi la voce metallica di Sandokan lo ruppe bruscamente: - Fuoco! Fuoco! Fuoco! Spaventevoli detonazioni coprono le sue ultime parole. Le granate piovono da tutte le parti sul Re del Mare, che il flusso ha insensibilmente portato verso il banco di Vernon e che si trova sempre immobilizzato coi fuochi spenti. Sono uragani di ferro e d'acciaio che escono dai grossi pezzi della coperta e da quelli di medio calibro delle batterie: ma non sono diretti sul ponte del Re del Mare dove si trovano, entro la torretta blindata, Darma e Surama. Quelle masse metalliche battono invece solamente i fianchi dell'incrociatore, come se gli artiglieri avessero ricevuto l'ordine di risparmiare le fanciulle, i due comandanti e Tremal-Naik che sono con loro. Delle granate vengono però lanciate contro le torri che riparano i grossi pezzi da caccia, cercando d'imbroccarli o di frantumare le grosse piastre di ferro. Il Re del Mare si difende furiosamente. È un vulcano che fiammeggia da tutte le parti. Le ultime tigri di Mompracem sono ben risolute a far pagar cara la vittoria allo strapotente nemico. I suoi grossi obici battono in breccia le navi avversarie, danneggiando i ponti, squarciando le ciminiere e aprendo larghi fori nelle piastre metalliche. In mezzo a quel rimbombo assordante, si ode tratto tratto la voce formidabile di Sandokan che urla: - Fuoco, tigri di Mompracem! Distruggete, massacrate! Ma quanto potrà resistere il Re del Mare al tiro terribile di tante bocche da fuoco? I suoi fianchi, quantunque solidissimi, dopo mezz'ora cominciano a cedere; anche i suoi pezzi uno ad uno vengono smontati e ridotti al silenzio. Le sue torri, ad eccezione della torretta di comando, sempre risparmiata, cominciano a sfasciarsi sotto quella pioggia incessante di granate, e nelle batterie i morti si accumulano. Sandokan e Yanez, chiusi nella torretta, contemplano quel terribile spettacolo, calmi e sereni. Il primo si morde di quando in quando le labbra a sangue; il secondo fuma flemmaticamente la sua eterna sigaretta e sembra solamente un po' commuoversi, quando il suo sguardo s'incontra con quello di Surama. Darma, seduta in un angolo, su un mucchio di cordami, a fianco di Tremal-Naik, colle mani appoggiate agli orecchi per attenuare il rombo assordante delle grosse artiglierie, sembra che guardi nel vuoto. D'improvviso, il Re del Mare, sollevato da una forza misteriosa, sobbalza da prora a poppa, mentre una enorme colonna d'acqua si rovescia sulla sua coperta spazzandola. Tutto il suo scafo vibra e sembra sfasciarsi come se scoppiassero le munizioni del Re del Mare. Horward, l'ingegnere americano, si precipita in quel momento entro la torretta, pallido, esterrefatto: - Hanno torpedinato il Re del Mare! - grida. - Coliamo a fondo! Grida selvagge salgono dalle batterie, confondendosi cogli ultimi spari dei due pezzi da caccia della coperta, ancora servibili. Il fuoco cessa bruscamente sulle quattro navi nemiche. Sandokan volge un triste sguardo ai suoi due compagni, poi dice: - Ecco il momento supremo: la tomba è aperta per le ultime tigri di Mompracem. Alza Darma ed esce dalla torretta, seguìto da Yanez, da Tremal-Naik e da Surama, e si arresta al di fuori a guardare la sua nave. Povero Re del Mare! La superba nave che ha resistito a tante prove e che pareva invincibile, non è più che una carcassa affondante. Ondate di fumo sfuggono dai boccaporti dai quali irrompono, neri di polvere e lordi di sangue, gli uomini delle batterie. - Una scialuppa in mare! - comanda Sandokan. - Non occuparti di noi. Gli equipaggi degli incrociatori vengono a raccoglierci. Infatti numerose imbarcazioni si staccano dai fianchi delle navi vittoriose ed accorrono a forza di remi. Nella prima si vede sir Moreland, il quale sventola un fazzoletto bianco. La scialuppa, montata dalle due fanciulle, da Tremal-Naik, da Kammamuri e da quattro rematori, s'allontana dal Re del Mare perchè la nave affonda sempre. - Ed ora, - disse Sandokan con un gesto superbo, - lassù, avvolto nella mia bandiera. Vieni Yanez: tutto è finito. - Bah! - fece il portoghese, gettando in aria una boccata di fumo. - Non si può mica vivere all'infinito. Attraversarono il ponte ingombro di frammenti di palle e di granate e salirono sulle griselle dell'albero militare, arrestandosi sulle piattaforme. In lontananza, Tremal-Naik, Darma e Surama facevano cenno a loro di gettarsi in acqua. Risposero con un saluto della mano e un sorriso. Poi Sandokan, strappando la sua rossa bandiera che gli sventolava sopra la testa, si avvolse fra le sue pieghe, dicendo: - È così che muore la Tigre della Malesia. Sotto di loro, gli ultimi Tigrotti di Mompracem, un centinaio circa, per maggior parte feriti, aspettavano, impassibili e silenziosi, che il gran gorgo li aspirasse, tenendo gli sguardi fissi sui loro due capi. Il Re del Mare affondava lentamente, vibrando, e si udivano le acque a muggire cupamente entro la stiva. Le scialuppe degli incrociatori facevano sforzi disperati per giungere in tempo a raccogliere quei naufraghi, votatisi volontariamente alla morte. Quella di sir Moreland era sempre la prima ed era subito seguìta da quella montata da Tremal- Naik e dalle due fanciulle che tornava verso la nave, avendo l'indiano compreso il disegno disperato dei suoi vecchi amici. Sandokan, sempre avvolto nella sua bandiera, li guardava impassibile, con un superbo sorriso sulle labbra. Yanez, colla fronte un po' corrugata, fumava la sua ultima sigaretta colla sua calma abituale. Quando le acque cominciarono ad invadere la coperta, il portoghese lasciò cadere la sigaretta quasi finita, dicendo: - Va' ad aspettarmi in fondo al mare! Ad un tratto, quando pareva che lo scafo dovesse tutto sommergersi, la discesa di quella enorme massa cessò bruscamente. Il flusso che aveva spinto la nave verso l'est, doveva averla portata addosso al banco di Vernon, più di quanto l'equipaggio supponeva e la chiglia doveva essersi indubbiamente posata sul fondo. Ed infatti, nel momento in cui le due scialuppe montate una da sir Moreland e da sei marinai indiani e l'altra da Tremal-Naik, Darma e Surama coi rematori malesi giungevano sotto la scala di babordo, lo scafo s'inclinava dolcemente a tribordo coricandosi di sul fianco. Sir Moreland, vedendo la nave ormai immobile, erasi affrettato a salire sul ponte, seguìto subito da Tremal-Naik e dalle due fanciulle. Yanez si era voltato verso Sandokan, la cui faccia appariva assai abbuiata. - Nemmeno la morte ci vuole, - gli disse. - Che cosa vuoi fare? Si sbarazzò della bandiera e scese lentamente la grisella, colla maestà d'un re che scende i gradini d'un trono e si fermò dinanzi a sir Moreland, dicendogli: - Ebbene? Che volete fare di noi? L'anglo-indiano, che pareva in preda ad una viva commozione, si levò il berretto salutando i due eroi della pirateria, poi disse con nobiltà: - Permettetemi una parola, prima, signori. Prese per una mano Darma, che era salita a bordo con Surama e, conducendola dinanzi a Tremal-Naik, gli disse: - Io l'amo ed ella m'ama: io non potrei vivere senza vostra figlia, eppure i numi dell'India sanno quanto io ho fatto per dimenticarla. Colmate con una vostra parola il rivo di sangue che mi separava da voi onde il grido terribile del mio assassinato genitore si spenga per sempre. La sua anima mi è comparsa ieri notte e mi ha detto di perdonare a tutti! - Che cosa dite, sir Moreland? Di qual genitore parlate? - chiese Tremal-Naik, con angoscia. - Darma, mi amate? - chiese sir Moreland, senza rispondere all'indiano. - Sì, immensamente, - rispose la fanciulla arrossendo e abbassando gli occhi. - La guerra è finita fra noi, - disse sir Moreland, - e la macchia di sangue è cancellata. Tremal-Naik benedite i vostri figli. - Ma chi siete voi? - gridarono ad una voce Yanez, Sandokan e Tremal-Naik. - Io sono ... il figlio di Suyodhana! Venite! Siete miei ospiti.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il capitano, che non aveva abbandonato il suo posto a prora, non ne aveva scorto altri. La nebbia però era sempre foltissima, anzi più che sull'altipiano. D'improvviso il fuso tornò a toccare. Si udì un urto, seguito poco dopo da uno scricchiolare di tavole o di rami, accompagnato da grida acute. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Schiacciamo della gente noi? - Mi pare che siamo caduti su un'abitazione - disse il capitano. Urla di terrore risuonavano fra la nebbia, mentre il fuso s'inclinava verso poppa, trattenuto da un impedimento che non gli permetteva di adagiarsi orizzontalmente. A un tratto però l'ostacolo cedette sotto il peso e si sfasciò con mille scricchiolii. L'abitazione doveva essersi spezzata, perché lo "Sparviero" riprese il suo appiombo, rimanendo immobile. - Le armi! Le armi! - gridò il capitano. Attraverso la nebbia aveva scorto delle ombre umane agitarsi. Il macchinista e il suo muto compagno avevano portato in coperta degli Snider e dei Remington. Il capitano era balzato a terra assieme a Fedoro e a Rokoff, gridando in lingua mongola. - Pace! Pace! Non temete! Siamo amici! Degli uomini coperti di pellicce che li facevano rassomigliare ad orsi, si erano accostati. - Chi siete! - chiese una voce imperiosa. - Amici - rispose il capitano. - Da dove siete caduti? Avete schiacciato la mia capanna. - Siamo pronti a indennizzarvi dei danni che vi abbiamo recato. - Siete mongoli? - Europei che non vi faranno alcun male. - Che cosa sono questi europei? - Degli uomini bianchi - rispose il capitano. - Chi comanda qui? Conduceteci dal vostro capo. Quindici o venti uomini si erano radunati attorno al capitano e ai suoi compagni, mentre altri s'aggiravano presso lo "Sparviero", cercando di distinguere che cosa fosse quella massa enorme che cadeva dall'alto schiacciando le case. Un uomo, grosso come una botte, che aveva un enorme berretto di pelo e una casacca di grosso feltro, si era avvicinato al capitano, dicendo: - Se cercate il capo del villaggio, sono io. Che cosa volete? Da qual parte siete scesi in questa valle senza chiedermi il permesso e mettendo in pericolo i miei sudditi? Per poco non avete schiacciato una intera famiglia. - È l'uragano che ci ha fatto cadere qui. Se il vento non ci avesse spinti, non saremmo discesi. - E che cos'è quella bestia? Sarà poi una bestia? - È la nostra casa. - Gettata giù dal vento? E non vi siete uccisi? Siete uomini o demoni? - Vi ho già detto che siamo degli uomini bianchi. - Venite nella mia capanna; voglio vedere se somigliate a quelli che sono passati per di qui molti anni or sono. - Vi consiglio di far ritirare tutti i vostri uomini e di non toccare la nostra casa. Potrebbe scoppiare e farvi saltare tutti in aria. - Allora la vostra casa è una bestia cattiva! - esclamò il tibetano, retrocedendo vivamente. - Non toccatela e non farà male ad alcuno. Se ci accordate ospitalità, noi vi faremo dei regali. - So che gli uomini bianchi sono generosi. Anche gli altri mi hanno fatto dei regali. - A quali europei allude? - chiese Rokoff, cui il capitano traduceva le risposte del tibetano. - A quelli della missione Bonvalot - rispose il comandante. - Questo selvaggio probabilmente ha veduto il principe Enrico d'Orléans, il figlio del duca di Chartres e cugino del pretendente al trono di Francia. Giacché acconsente a offrirci ospitalità, andiamo subito nella sua capanna. Qui fa un freddo cane e non si vede a due passi di distanza. - E il macchinista e il vostro amico? - chiese Fedoro. - Rimarranno a guardia dello "Sparviero". - Che corrano qualche pericolo? - Ho detto loro di montare la piccola mitragliatrice e con un simile arnese possono tenersi sicuri. D'altronde non mi pare che questi montanari abbiano intenzioni ostili. Andiamo nella casa di questo capo. I tibetani, dopo aver ronzato un po' attorno allo "Sparviero", senza poter indovinare che cosa fosse, in causa della foltissima nebbia che lo avvolgeva, a poco a poco si erano dileguati. Era rimasto solamente il capo, il quale continuava a infagottarsi nelle sue pelli. - Vi seguiamo - disse il capitano, dopo essersi fatto dare dal macchinista dei viveri, alcune bottiglie e delle bazzecole che contava di regalare al montanaro. Tenendosi per mano onde non smarrirsi, si lasciarono condurre. A destra e a manca scorgevano confusamente delle masse oscure che dovevano essere o tende o capanne e che erano avvolte fra un denso fumo che il nebbione impediva di disperdersi. Dopo trenta o quaranta passi il tibetano aprì una porta e li introdusse nella sua abitazione formata da una sola stanza ingombra di pelli, di caldaie di rame, di quarti di jacks quasi gelati e ammassi di vecchi tappeti di feltro che dovevano servire da letto. Nel mezzo, su quattro sassi, bruciava dell'argol, il quale non è altro che dello sterco di toro indurito, l'unico combustibile usato sull'altipiano e che produce fumo in abbondanza. Un'apertura però, fatta nel tetto, permetteva che bene o male uscisse; ve ne rimaneva tuttavia tanto dentro, che gli aeronauti credettero per un momento di morire asfissiati. - All'inferno i palazzi tibetani! - esclamò Rokoff, che tossiva fragorosamente. Questa è una tana da volpi! - Ci abitueremo presto a questo fumo - rispose il capitano. Il capo si era intanto sbarazzata del suo immenso mantello, formato da una intera pelle di jack, che portava col pelo all'infuori, e del suo berrettone di pelle d'orso, che gli nascondeva mezzo volto. Era il vero tipo del montanaro tibetano, basso di statura, secco, con occhi piccoli, un po' obliqui come quelli della razza mongola, senza un pelo sul volto e invece con una capigliatura lunga e abbondante, molto ruvida e che portava raccolta in trecce cadenti sulla fronte bassa e depressa e sulle spalle. Aveva gli zigomi molto più pronunciati dei cinesi, il naso grosso, la bocca larga fornita di denti lunghi e acuti come quelli delle belve, male disposti e sporgenti in modo che gli uscivano dalle labbra. La sua pelle poi scompariva sotto un vero strato di sporcizia. Probabilmente quell'uomo non si era mai lavato dal giorno che era venuto al mondo. Prima d'accostarsi agli aeronauti, fece un goffo inchino alzando poi i pollici delle mani fino all'altezza della fronte e cacciò fuori dalle labbra una lingua lunga quasi mezza piede, che lasciò penzolare per alcuni istanti. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, guardandolo con stupore e con disgusto. - Sta appiccandosi costui? - Ci saluta - rispose il capitano. - Con quella lingua! Da dove l'ha cacciata fuori! - Tutti i tibetani l'hanno così lunga. - Dite mostruosa. È ributtante! Sembra quella d'un orso formichiere. - Se saremo costretti a fermarci qui ne vedrete ben altre più enormi. - Mille storioni! Il tibetano, dopo quel saluto, con una mimica molto espressiva, aveva invitato i suoi ospiti a sedersi attorno al fuoco, dove già si trovavano dei grossolani tappeti di feltro. Tutti i montanari di quei desolati altipiani, per lo più non si esprimono che con moti, come se incontrino qualche difficoltà nel parlare. Dipende forse dalle mostruose dimensioni della loro lingua e anche dalla pessima disposizione dei loro denti? Il fatto sta che fra di loro non parlano quasi mai. Si esprimono e si comprendono benissimo con moti della bocca e della lingua, agitando le labbra in vari sensi, aiutandosi anche coi pollici delle mani per meglio far comprendere i loro desideri. Anche quando vogliono salutare, invece di dare un cordiale "buon giorno" o la "buona sera", si limitano a sporgere più che possono la lingua. Il capo andò a prendere un coltellaccio e da un quarto di jack che era sospeso alla parete, staccò alcuni enormi pezzi che depose dinanzi agli ospiti invitandoli a mangiare. - Mille milioni di fulmini! - esclamò Rokoff. - Questo scimmiotto ci prende per tigri o per lupi per darci della carne cruda. - Non usano cucinarla - disse il capitano. Questi montanari vivono nel modo più primitivo che si possa immaginare e non si nutrono che di farina d'orzo e di carne cruda. Immaginatevi che non conoscono nemmeno il tè! - Io non farò onore a questo pasto da cannibali - disse Fedoro. Abbiamo le nostre provviste e vedrete che il capo non si farà pregare per assaggiarle. Aveva portato delle scatole di carne conservata, un pudding gelato, dei biscotti, dello zucchero per prepararsi il tè e due bottiglie di ginepro. Depose ogni cosa intorno al fuoco e invitò il capo a prendere parte al pasto. Il montanaro, vedendo gli ospiti lasciare intatta la carne cruda era rimasto un po' confuso, però aveva subito accettata la parte che il capitano gli offriva, gettandosi avidamente sul pezzo di pudding e sulle gallette e guardando cogli occhi accesi i pezzetti di zucchero. - Io conosco quei pezzi di pietra - disse. - Gli uomini bianchi che sono passati per di qua molti anni or sono, me ne hanno fatto assaggiare. - To'! Li chiama pezzi di pietra! - esclamò Rokoff, dopo aver udita la traduzione. - A te, mio caro selvaggio, addolcisciti la bocca; poi te la riscalderai col ginepro. Terminato il pasto il capo, che era diventato molto loquace dopo parecchi bicchieri della forte bevanda, spiegò al capitano che erano caduti in una profonda vallata racchiusa fra montagne tagliate a picco, che aveva una sola uscita verso il Ruysbruck, il più alto ed imponente picco dei Crevaux e che il suo villaggio si componeva di sessanta famiglie di pastori. Si dimostrava però sempre curioso di sapere in qual modo erano caduti da una così spaventevole altezza senza fracassarsi le ossa e di sapere che cosa era quella massa enorme che aveva schiacciata una capanna. La spiegazione fu laboriosa ma senza successo, non avendo quel tibetano mai udito parlare né di palloni, né di macchine volanti e tanto meno di uomini che viaggiavano fra le nubi. - Se è vero quello che tu mi racconti - concluse il montanaro - tu devi essere l'uomo più potente della terra. Finché però non ti vedrò volare come le aquile, non ti crederò mai, perché solo Buddha, potrebbe tentare una simile cosa. Volle in seguito vedere i fucili degli aeronauti senza poter comprendere come facessero fuoco non avendo la miccia. Gli sguardi d'ardente cupidigia che lanciava su quelle armi erano tali da impressionare il capitano. - Finirà per chiedercele - disse a Rokoff ed a Fedoro. - Noi però non gliele daremo. Si accontenti del suo moschettone a miccia. Dopo un paio d'ore lasciarono la capanna, non fidandosi di dormire in compagnia del capo. Il nebbione non si era ancora alzato e la neve cadeva abbondante anche nel vallone. Il macchinista e lo sconosciuto per riparare il ponte del fuso, avevano in quel frattempo tesa una immensa tenda di tela cerata e messa in batteria una piccola mitragliatrice a sette canne disposte a ventaglio, arma sufficiente per tenere in rispetto i tibetani, nel caso che avessero tentato di saccheggiare o di guastare lo "Sparviero". - È venuto nessuno ad importunarvi durante la nostra assenza? - chiese il capitano. - Abbiamo veduto, a più riprese, aggirarsi fra la nebbia alcune ombre che si sono subito dileguate al mio grido d'allarme - rispose il macchinista. - Si direbbe che voi non siete tranquillo - disse Fedoro, un po' sorpreso. - I tibetani non vedono volentieri gli stranieri - rispose il capitano. - E poi qui, in queste gole, non vivono che dei briganti, non essendovi pascoli fra questi orridi dirupi. E poi sapete che cosa m'inquieta? - Dite, signore. - L'assenza completa delle donne; ne avete vedute voi? - Io no. Dunque non credete che le capanne e le tende siano abitate da famiglie. - Solamente da uomini. - Che ci diano delle noie? - chiese Rokoff. - Non mi sorprenderei. Durante la buona stagione, all'epoca dei pellegrinaggi, tutte le vie che attraversano gli altipiani sono infestate da banditi. Chi mi assicura che non lo siano anche questi? Vegliamo amici e non lasciamoci sorprendere. - Brutto affare, collo "Sparviero" immobilizzato. - Aiuteremo il macchinista ad accomodare l'ala. I pezzi di ricambio sono già pronti. - Sarà lunga la riparazione? - Non avrò terminato prima di domani a mezzodì - disse il macchinista. - Il vento ha spezzato più di mezze verghe. - Al lavoro - disse il capitano. - Intanto uno di noi veglierà passeggiando intorno al fuso, onde i Tibetani non ci guastino i piani orizzontali. Se sventrano la seta, per noi sarebbe finita e l'idea di un viaggio a piedi attraverso il Tibet, specialmente in questa stagione così fredda, vi assicuro che non mi sorride affatto. - M'incarico io del primo quarto di guardia - disse Rokoff. Si gettò sulle spalle un ampio gabbano di tela impermeabile, si calcò in testa il suo berretto di pelo simile a quello che portano i tartari della steppa e armatosi dello Snider balzò a terra, scomparendo nella nebbia.

E sprigionò la scintilla elettrica, servendosi del filo che non aveva abbandonato. Una spaventevole detonazione rimbombò nel vallone, seguita da urla di spavento e da un precipitare di rottami. La spinta dell'aria era stata così violenta da spostare perfino il fuso e da atterrare di colpo gli aeronauti. Per alcuni minuti si udirono dei clamori assordanti che si allontanavano verso l'uscita del vallone, poi una luce intensa s'alzò forando il nebbione. - Il villaggio ha preso fuoco! - gridò Rokoff, il quale si era risollevato. Il capitano si era slanciato verso il cosacco aiutandolo a salire. - Grazie - disse. - Stavamo per venire sopraffatti. - Non avrà sofferto lo "Sparviero"? - chiese Rokoff. - Nulla di guasto - gridò il macchinista, che si era precipitato verso le ali. - E i tibetani? - chiese Fedoro. - Fuggiti - rispose il capitano. - E credo che non torneranno nemmeno più - aggiunse Rokoff. Intanto le fiamme aumentavano, distruggendo tutto ciò che l'esplosione aveva risparmiato. Lingue di fuoco s'alzavano dappertutto rischiarando il vallone come in pieno giorno. Nembi di scintille, che il vento spingeva altissime, facendole turbinare fino ai margini superiori dell'altipiano, solcavano le tenebre come miriadi di stelle. - Capitano! - gridò ad un tratto Rokoff. - Se provassimo a qualche cosa? Vi è la nostra seta in quelle casupole. - È quello che pensavo anch'io - rispose il comandante. - E poi vedo anche delle tende di feltro che potrebbero servire pei nostri piani. Signor Fedoro, venite con noi e voialtri guardate lo "Sparviero". I tre uomini si slanciarono verso il villaggio, il quale ardeva come un fastello di legna secca. La violenza dell'esplosione aveva atterrato una terza parte delle abitazioni e parecchie tende. Le altre però erano ugualmente perdute, perché le le avevano ormai avviluppate divorando i legnami con rapidità incredibile. Sarebbe stata una follia il volersi cacciare fra quella fornace ardente per cercare la seta rubata. Il capitano ed i suoi compagni s'impadronirono di tre vaste tende che erano state gettate al suolo, formate di spesso feltro e le trascinarono presso lo "Sparviero". La stoffa era più che sufficiente per coprire i piani e poteva surrogare, quantunque assai più pesante, la seta presa dai tibetani. - Lasciamo che il fuoco termini di consumare le catapecchie e occupiamoci dell'ala - disse il capitano. - Vorrei andarmene prima che sorgesse l'alba. - Che i briganti ritornino? - chiese Rokoff. - Se hanno altri compagni in questo vallone, non mi stupirei di vederli ricomparire, per vendicare la loro disfatta e punirci d'aver incendiate le loro case. Se il freddo non vi importuna andate a esplorare i dintorni, onde non ci sorprendano nuovamente. - Un cosacco non sente la neve. Contate su di me, signore. Mentre Rokoff s'inoltrava nel vallone, verso la parte donde erano fuggiti i tibetani, il macchinista, il capitano e i loro compagni si rimettevano al lavoro con febbrile attività. Già il macchinista aveva preparate le traverse che dovevano surrogare quelle spezzate dall'uragano e non si trattava che di saldarle, operazione però che richiedeva un certo tempo onde la grave avaria non si ripetesse più tardi per la terza volta e in circostanze maggiormente difficili. Alle quattro del mattino, con uno sforzo supremo, l'ala era accomodata con una serie di robuste saldature, rinforzate da anelli d'acciaio. Non rimaneva che coprire i piani inclinati nei luoghi dove la seta era stata levata, cosa facilissima perché non si trattava che di tagliare il feltro delle tende e d'inchiodarlo. Rokoff non era ancora tornato dalla sua esplorazione. Quel coraggioso doveva essersi spinto ben innanzi per impedire una nuova sorpresa. - Affrettiamoci - disse il capitano. - Fra un'ora potremo innalzarci e riguadagnare l'altipiano. Intanto mettiamo in funzione la macchina. Avevano appena tagliato il feltro e lanciata l'aria liquida attraverso i tubi della macchina, quando udirono improvvisamente echeggiare la voce di Rokoff: - All'armi! Poi uno sparo, seguito a breve distanza da un altro e da un fragore assordante misto a muggiti ed a nitriti. - Quale valanga sta per rovesciarsi su di noi? - si chiese il capitano. Delle grida e delle detonazioni formidabili si udivano in lontananza, verso l'estremità del vallone e si vedevano anche delle linee di fuoco solcare di quando in quando la nebbia. La voce di Rokoff, improntata d'un profondo terrore, era echeggiata più vicina: - All'armi! Preparate la mitragliatrice! Ecco il nemico! Poco dopo usciva dalla nebbia, correndo all'impazzata. I clamori erano diventati assordanti. Muggiti, nitriti, urla umane e spari si confondevano con un crescendo spaventevole. - Signor Rokoff! - gridò il capitano, balzando dietro la mitragliatrice, mentre il macchinista portava in coperta Winchester, Snider, Mauser, Remington e parecchie rivoltelle. - Che cosa succede? - Non so - rispose il cosacco, scavalcando rapidamente la murata del fuso. - Una torma infinita d'animali sta per irrompere addosso a noi. Mi parve che fossero jacks. - E i tibetani? - Spingono le bestie attraverso la valle, spaventandole con colpi di fucile e con rami resinosi accesi. - Mille tuoni! Se quegli animali ci rovinano addosso, fracasseranno i nostri piani. Del fuoco! Mi occorre del fuoco! - Le casupole stanno per spegnersi e poi sono dietro di noi - disse Rokoff. - Ma sì! Possiamo salvarci! Per due o trecento metri potremo sorreggerci anche senza i piani ... Macchinista, è sotto pressione la macchina? - Sì, signore. - Metti in movimento tutto ... ali ... , eliche ... Signor Rokoff! Venite! Il capitano si era precipitato verso il boccaporto, seguito dal cosacco. Un momento dopo risalivano portando ognuno due barili della capacità di cinquanta litri ciascuno. - Partite! - gridò il capitano. - Non occupatevi di noi! Aspettateci dietro al villaggio ... La valanga vivente stava per rovesciarsi addosso allo "Sparviero". Era un'enorme mandria di jacks, probabilmente ammaestrati, la quale scendeva attraverso il vallone a galoppo sfrenato, con mille muggiti. Dietro si vedevano galoppare confusamente numerosi tibetani, montati su piccoli cavalli. Per spaventare i grossi ruminanti, agitavano dei rami di pino infiammati e sparavano colpi di moschetto. Il capitano e Rokoff si gettarono in mezzo alle casupole quasi interamente consunte, stapparono due barili e lasciarono sfuggire il liquido sui tizzoni fumanti. Era brandy e di prima qualità. Le fiamme che stavano per spegnersi, d'un tratto si ravvivarono. Una cortina di fuoco, alta parecchi metri, che mandava dei riflessi sinistri e lividi in un baleno si estese su una larghezza di oltre cento metri. In quel momento lo "Sparviero" s'alzava precipitosamente, appena in tempo per evitare l'urto formidabile di tutti quegli animali, che il terrore rendeva pazzi. Spinto anche dal vento che soffiava in favore, la macchina volante passò sopra la cortina di fuoco, abbassandosi quattrocento passi dietro le ultime casupole. Gli jacks, vedendo fiammeggiare quel fuoco immenso che pareva dovesse divorare l'intera valle, nonostante le urla e le fucilate dei pastori, si erano arrestati di colpo, muggendo spaventosamente. Rimasero un momento irresoluti, poi con un volteggio fulmineo si scagliarono a testa bassa contro i loro padroni, volgendo le spalle alle fiamme. Successe allora una confusione indicibile. I cavalli tibetani, colpiti dalle corna dei furibondi ruminanti, cadevano l'uno sull'altro, sferrando calci in tutte le direzioni, poi i superstiti fuggirono all'impazzata, fra un clamore immenso. - Ecco una disfatta pagata cara da quei bricconi - disse Rokoff. - Se tornano ancora dovranno avere il diavolo in corpo e la protezione di Buddha.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682350
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Aveva abbandonato ogni prudenza e camminava rapidamente, a balzelloni, coi pugni chiusi, gli occhi sbarrati, in preda a una specie di delirio. Non udiva nemmeno la voce di Kammamuri, che lo supplicava di frenare la sua esaltazione. Per fortuna lo scrosciare delle folgori si ripercuoteva sempre sotto le cupe arcate, soffocando il rumore dei passi. D'improvviso il cacciatore di serpenti urtò contro un oggetto acuminato che gli traforò la veste toccandogli le carni. S'arrestò di botto indietreggiando. - Chi è là? - chiese egli con voce stridula, impugnando il coltellaccio e alzandolo. - Cos'hai trovato? - domandò il maharatto, che si preparava ad avventare innanzi Darma. - Qualcuno sta presso di noi, Kammamuri. Sta' in guardia. - Hai visto qualche ombra? - No, ma fui urtato da una lancia. La punta mi toccò il petto e per poco non mi ferì. - Eppure Darma non dà segni d'inquietudine. - Che mi sia ingannato? Non è possibile. - Ritorniamo? - Giammai. Mezzanotte forse sta per iscoccare. Avanti, Kammamuri. Fece per slanciarsi innanzi e sentì la stessa punta acuta che gli penetrò, questa volta, nelle carni. Egli gettò una sorda imprecazione e allungò la man dritta, afferrando una specie di lancia tesa orizzontalmente all'altezza del suo petto. Si provò a tirar a sé, ma resistette; tentò di torcerla ma non fu capace. Tremal-Naik si lasciò sfuggire un'esclamazione di sorpresa. - Cosa significa ciò? - mormorò egli. - Ebbene, padrone? - chiese Kammamuri. - Che ostacolo è? - Una lancia irremovibile, forse infissa nel muro: deviamo. Si volse a destra e dopo qualche passo incontrò una seconda lancia pure irremovibile. La sua sorpresa giunse al colmo. - Forse è un'opera di difesa, - pensò, - e forse qualche strumento di tortura. Volgiamo a sinistra. Qualche via la troverò per tirare innanzi. Camminò per qualche tratto, poi urtò colla testa sotto una volta assai bassa, e mise i piedi su di un gradino. Ne discese con precauzione quattro o cinque, poi si fermò. La sua mano s'incontrò con quella di Kammamuri e gliela strinse fortemente. - Odi, padrone? - chiese il maharatto. - Sì, odo, - rispose Tremal-Naik sommessamente. - Cos'è questo mormorìo? - Non lo so, taci ed ascolta. Tesero l'orecchio trattenendo il respiro. Cosa invero strana, sulle loro teste udivasi una specie di gorgoglìo che l'eco della galleria ripeteva. Un momento dopo, sotto la volta, apparve un disco lievemente illuminato che si spense quasi subito. Un cupo boato vi tenne dietro. Kammamuri e Tremal-Naik si sentirono invadere da una viva inquietudine ed afferrarono le pistole. Passò qualche minuto, poi il disco riapparve e tornò a scomparire seguìto ancora dal rimbombo misterioso. - Comprendi qualche cosa? - chiese il maharatto. - Credo di sì - rispose Tremal-Naik. - Questo sgocciolare e questo gorgoglìo fanno sospettare la presenza dell'acqua.. Forse sul nostro capo scorre un fiume. - E quel disco che appare e scompare? - Forse è una lente di vetro o di quarzo. Il chiarore proviene dai lampi e il boato è il tuono che scroscia al di fuori. - Lo credi, padrone? - Vero o no, non farò un passo indietro. Mezzanotte è vicina. - Siamo in un luogo orribile, padrone. Io tremo come se avessi freddo. Questo silenzio e queste tenebre mi fanno paura. - È inquieta Darma? - No, padrone, è tranquilla. - È segno che il nemico non è ancora vicino. Andiamo avanti. Ripresero la marcia fra le tenebre fredde ed umide, salendo e discendendo, urtando spesso la testa sotto le volte, camminando a casaccio seguiti sempre dalla tigre, che non dava ancora segno alcuno d'inquietudine. Passarono così altri dieci minuti lunghi come dieci ore. I due indiani già credevano di aver preso una falsa via e stavano per ritornare, quando ad una svolta videro una grande fiamma ardere in mezzo alla galleria. Tremal-Naik scorse vicino ad essa un indiano semi-nudo, appoggiato ad una specie di zagaglia, sormontata dal misterioso serpente. Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra. - Finalmente! - mormorò egli. - Cominciavo a temere di essermi inoltrato in una caverna disabitata. Attento, Kammamuri. - Abbiamo il nemico in vista? - Sì, c'è un indiano. - Oh! - esclamò il maharatto, rabbrividendo. - Quell'uomo ci sbarra la via. - Lo uccideremo. - Non si può evitarlo? - Sì, ritornando, ma Tremal-Naik non ritorna. - Farai rumore, egli griderà e gli avremo tutti addosso. - Quell'uomo ci volge le spalle e Darma ha il passo silenzioso. - Sta' in guardia, padrone. - Sono deciso a tutto, anche a pugnare contro mille uomini. Si chinò verso la tigre che fissava ferocemente l'indiano, mostrando le acute zanne ed i lunghi artigli. - Guarda quell'uomo, Darma, - disse Tremal-Naik. La tigre emise un sordo brontolìo. - Va' e sbranalo, amica mia. Darma guardò il padrone, poi l'indiano. I suoi occhi si dilatarono e parve che s'incendiassero. Aveva compreso ciò che il cacciatore di serpenti desiderava. Si abbassò fino a toccare col ventre la terra, guardò un'ultima volta Tremal-Naik che le additava l'indiano e s'allontanò con passo silenzioso, ondeggiando lievemente la coda, come un gatto in collera. L'indiano nulla avea udito né veduto, volgendo la schiena al fuoco. Si avrebbe detto anzi che si era assopito appoggiato alla lancia. Tremal-Naik e il maharatto, colle carabine in mano, seguivano ansiosamente i movimenti di Darma, la quale fissava con occhio ardente la vittima, avanzando con precauzione. I loro cuori battevano fortemente di timore. Bastava un grido dell'indiano, perché l'allarme si spargesse nei sotterranei e l'audace impresa crollasse come un castello di carta - Riuscirà? - bisbigliò il maharatto, all'orecchio di Tremal-Naik. - Darma è intelligente, - rispose il cacciatore di serpenti. - E se fallisse? - Tremal-Naik provò un forte brivido. - Daremo battaglia, - disse poi con ferma voce. - Taci e guarda! L'indiano non aveva ancora udito nulla, tanto era silenzioso il passo del feroce animale; d'un tratto questi si arrestò, raccogliendosi su se stesso. Tremal-Naik strinse fortemente la mano di Kammamuri. La tigre non era che a dieci passi dall'indiano. Passarono due secondi, poi la tigre fece un balzo spaventevole. Uomo e animale caddero entrambi per terra e s'udì un sordo scricchiolìo, come di ossa che s'infrangono. Tremal-Naik e Kammamuri si slanciarono verso il fuoco, drizzando le carabine verso il corridoio. - Brava, Darma, - disse Tremal-Naik passandole una mano sulla robusta schiena. S'avvicinò all'indiano e lo sollevò. Il poveretto non dava più segno di vita ed era inondato di sangue. La tigre gli aveva schiacciato la testa fra i denti. - È proprio morto, - disse Tremal-Naik, lasciandolo ricadere. - Darma non poteva eseguire il colpo con maggior destrezza. Vedrai, Kammamuri, che con questa brava compagna noi faremo grandi cose. Mi pare che la salvezza di colei che amo, sia ora una cosa facile. - Lo credo anch'io, padrone. Sarà un bel colpo, quando Darma si scaglierà in mezzo all'orda: metteremo in fuga tutti. - E noi approfitteremo per rapire Ada. - E dove la trasporteremo? - Alla capanna innanzi tutto; poi vedremo se sarà meglio condurla a Calcutta o più lontano. - Zitto, padrone! - Cosa c'è? - Ascolta! In lontananza s'udì un'acuta nota. I due indiani la riconobbero subito. - Il ramsinga! - esclamarono. Un colpo sordo e formidabile echeggiò sotto i corridoi e si ripercosse parecchie volte. Era un boato simile a quello udito la notte che avevano approdato a Raimangal per cercare Hurti, e che li aveva tanto sorpresi. Tremal-Naik fremette da capo a piedi e gli sembrò che le forze si centuplicassero. Fece un salto da tigre alzando la carabina. - Mezzanotte! - esclamò egli, con un tuono di voce che più nulla aveva d'umano.- Ada! ... Oh! mia fidanzata! ... Non seppe dire di più. Emise un urlo strozzato e s'avventò furiosamente sotto la galleria seguito da Kammamuri e dalla tigre. Pareva una belva, anziché un uomo. Aveva gli occhi iniettati di sangue, la spuma alle labbra e brandiva nella dritta il coltellaccio pronto a sfondare qualsiasi ostacolo. Non aveva più paura di nessuno. Mille indiani non lo avrebbero arrestato nella sua pazza corsa. L'hauk continuava a rullare, destando tutti gli echi delle caverne e delle gallerie, chiamando a raccolta i settari della misteriosa dea, e in lontananza s'udivano le acute note del ramsinga ed un confuso mormorìo di voci. Il momento terribile s'avvicinava; la mezzanotte stava per iscoccare. Tremal-Naik raddoppiava la velocità, poco calendogli che venissero uditi i suoi precipitosi passi. - Ada! ... Ada! ... - lo si udiva rantolare e si scagliava colla furia d'un toro sotto le gallerie, le quali si succedevano le une alle altre. Un chiarore immenso apparve nel fondo ed uno scoppio di grida rintronò nei sotterranei. - Eccoli! - urlò Tremal-Naik con voce strozzata. Kammamuri si slanciò su di lui e radunando tutte le sue forze lo arrestò. - Non un passo! - gli disse. Tremal-Naik gli si volse contro digrignando i denti. - Cosa vuoi dire? - gli chiese con feroce accento. - Se ti è cara la vita della tua Ada, non un passo di più, - gli ripeté Kammamuri avvinghiandosi a lui. - Lasciami, maharatto, lasciami! Ho la febbre ... m'assale il delirio! - È ben perché sei fuori di te stesso, che non voglio che tu vada innanzi. Se tu irrompi in quella caverna prima del tempo, ci perderai. Frenati, padrone, e noi la salveremo egualmente. - Lo credi? - chiese Tremal-Naik. - Ho il cuore che mi balza furiosamente in petto e il sangue che mi bolle. Mi sento tanto forte da scuotere queste mura e seppellire sotto le macerie tutti quei mostri. Odi! ... Non hai udito quel grido straziante? - Non ho udito nulla; ti sei ingannato. - Mi era sembrato di avere udita la sua voce. - È il delirio. Sii calmo, padrone, se vuoi salvarla. - Sarò calmo, ma non arrestiamoci qui, Kammamuri. - No, non ci arresteremo. Vieni con me, ma se commetti un'imprudenza, io ti abbandono. Dammi la mano. Kammamuri afferrò la sinistra di Tremal-Naik e si inoltrarono verso la caverna. Poco dopo si arrestavano dietro una enorme colonna donde potevano vedere senz'essere scoperti. Uno strano spettacolo s'offerse tosto ai loro occhi. Dinanzi a loro si apriva una vastissima caverna scavata nel granito rosso come i famosi templi di Ellora, sostenuta da ventiquattro colonne adorne di sculture più o meno bizzarre, di teste di elefanti, di teste di leoni e di divinità. Ai piedi di essi si scorgevano Parvadi, dea della morte, seduta su di un leone, e la dea Ganesa colle sue otto braccia, seduta fra due elefanti che congiungevano le loro trombe sopra la sua testa. Ai quattro angoli c'erano le statue di Siva e nel mezzo una dea mostruosa con una lingua rossa che le usciva dalla bocca, una cintura di mani e una collana di crani, una dea simile a quella che Tremal-Naik aveva veduta nella pagoda. Dalla volta, coperta di altirilievi, rappresentanti i combattimenti di Rama col tiranno Ravana, rapitore della bella Sita e le guerre dei Kurù e dei Pandù, che contesero per lungo tempo pel possedimento di Babrata Varca, pendevano numerose lampade di bronzo, le quali spandevano all'intorno una luce azzurrognola, livida, cadaverica. Quaranta indiani seminudi col serpente tatuato sul petto, il laccio di seta stretto attorno le reni e ii pugnale in mano, erano seduti all'ingiro a mo' dei mussulmani, cioè colle gambe incrociate, fissando la mostruosa divinità di bronzo. Uno di loro aveva vicino un enorme tamburo, un hauk, ornato di piume e di crini e di quando in quando lo percuoteva facendo rimbombare le volte della caverna. Tremal-Naik, come si disse, si era arrestato dietro alla colossale colonna, sorpreso ed atterrito ad un tempo, ma stringendo convulsivamente le armi. - Ada! ... - mormorò egli, percorrendo con un solo sguardo tutta la caverna. - Dov'è la mia Ada? ... Un raggio di gioia brillò negli occhi del povero indiano. - Il sacrificio non è ancora incominciato! esclamò. - Siva sia benedetto. - Non parlare così forte, padrone - disse Kammamuri, stringendo il collo della tigre. - Se tutti gli indiani che abitano il sotterraneo sono questi, rapire la tua donna sarà cosa non impossibile. - Sì, sì, la salveremo, Kammamuri! - esclamò Tremal-Naik con esaltazione. - Faremo un'orribile strage. - Zitto ... L'hauk batteva dodici colpi e i quaranta indiani si erano alzati come un sol uomo. Tremal-Naik provò una stretta al cuore e s'aggrappò alla colonna, come se temesse di non sapersi frenare. - Mezzanotte! - diss'egli, con voce soffocata. - Calma, padrone, - disse per l'ultima volta Kammamuri, afferrandolo per la cintola. Una porta si aprì con grande strepito ed un indiano di alta statura magrissimo, col volto ornato da una lunga e nera barba, gli occhi scintillanti e avvolto in un ricco dootèe di seta gialla, entrò nella caverna. - Salve a Suyodhana, figlio delle sacre acque del Gange! - esclamarono in coro i quaranta indiani. - Salve a Kâlì ed ai suoi figli, - rispose l'indiano con voce cupa. Tremal-Naik, nel mirare quell'uomo, emise una sorda imprecazione e fe' atto di slanciarsi nella caverna. Kammamuri lo trasse indietro. - Non muoverti, padrone, - gli sussurrò. - Guarda quell'uomo! - esclamò Tremal-Naik coi denti stretti. - Sì, lo so, è il capo di questi uomini. - È lo stesso che mi pugnalò. - Ah! miserabile! Suyodhana entrò rapidamente nel tempio, s'inchinò dinanzi alla mostruosa divinità di bronzo e volgendosi verso gl'indiani gridò con voce tonante: - L'estrema ora della vergine della pagoda è suonata, fratelli. Manciadi è morto. Un mormorìo minaccioso percorse le file degli indiani. - Si dia fiato ai tarè, - comandò il terribile capo degli strangolatori. Due indiani presero due lunghe trombe e trassero alcune note tristi, lamentevoli. Cento indiani carichi di legne irruppero nella caverna e rizzarono, di fronte alla dea, ai piedi di un colonnato, un gigantesco rogo versandovi sopra torrenti d'olio profumato. Un drappello di devadasì si slanciò, piroettando, nella sala, facendo tintinnare campanelluzzi e cerchietti d'argento e circondò la dea Kâlì. I loro abbigliamenti erano sfarzosi, leggiadri, i più acconci che si possa immaginare a far spiccare la bellezza e le grazie. Corazze sottilissime d'oro tempestate di diamanti della più bell'acqua brillavano sui loro petti; corte gonnelline di seta rossa, pendevano sotto la larga fascia di cachemire che stringeva i loro fianchi, e pantaloni bianchi scendevano fino al collo del piede. Anelli di argento e campanellini d'egual metallo portavano alle braccia ed alle gambe, e leggieri veli, dai colori vivissimi, coprivano le loro teste. Al suono dell'hauk e dei funebri tarè cominciarono, attorno alla dea Kâlì, una danza scapigliata, facendo volteggiare in aria i loro veli di seta azzurra o rossa, e formando un intreccio di effetto magico, sorprendente. D'un tratto la danza cessò. Le devadasì sfilarono dinanzi alla dea, toccando la terra colla fronte e si ritrassero da parte, unendosi in un gruppo superbo, pittoresco. Gli indiani che erano tornati a sedersi, ad un cenno di Suyodhana si rialzarono. Tremal-Naik comprese che il supplizio stava per cominciare. - Kammamuri, - balbettò l'infelice appoggiandosi alla colonna, Kammamuri! ... - Calma e coraggio, padrone, - disse il maharatto che batteva i denti. - La testa mi gira, il cuore mi scoppia ... Ada! ... Ada! ... In lontananza echeggiò una scarica di tamburi. Tremal-Naik si raddrizzò cogli occhi in fiamme ed i pugni chiusi attorno alle pistole. - Eccoli! - ruggì egli, con indefinibile accento d'odio. I tamburi s'avvicinavano e il loro rullo si ripercuoteva indefinitivamente sotto le nere volte della caverna e dentro i tenebrosi corridoi. Ben presto si udirono delle voci scordate e selvagge accompagnate dal suono dei tam-tam. - Eccoli!- esclamò una seconda volta Tremal-Naik. La tigre mandò un sordo brontolìo e agitò la coda. Una larga porta si aprì ed entrarono dieci strangolatori con dei grandi vasi di terra cotta coperti di pelle, chiamati dagli indiani mirdengs. Poi dietro a quei dieci ne entrarono altri venti, con dei grandi gautha, sorta di campanelli di bronzo, e quindi altri dodici muniti di ramsinga, di tarè e di tam-tam. Finalmente dietro a quegli uomini, che percuotendo i mirdengs ed i tam-tam, agitando i gautha e soffiando nei ramsinga e nei tarè formavano un baccano spaventevole, apparve l'infelice Ada colla sua corazza d'oro tempestata di diamanti d'inestimabile prezzo, la sottana e calzoni di seta bianca ed i capelli sciolti sulle spalle. La vittima, che quegli spietati uomini si preparavano a scagliare in mezzo al rogo, era pallida come un cadavere, sfinita dai lunghi digiuni e istupidita dalle bevande oppiate fattele prima inghiottire. Due strangolatori coperti da una lunga tonaca di seta gialla la sostenevano, ed altri dieci la seguivano cantando elogi pel suo eroismo e promettendole infinite felicità nel paradiso di Kâlì, in ricompensa delle sue virtù. Il momento terribile era vicino. Già Suyodhana aveva dato fuoco alla pira e le fiamme s'alzavano, a guisa d'immani serpenti, verso la volta della caverna; già gli strangolatori, assordandola con mille urli la trascinavano; già i tamburi e i tarè intuonavano la marcia della morte. D'un tratto la vittima ritornò in sé. Vide la pira che fiammeggiava dinanzi a lei e il pericolo che correva. Attraverso l'ebbrezza dell'oppio, si rammentò della condanna pronunciata dal truce Suyodhana. Un urlo straziante le lacerò il petto. - Tremal-Naik! ... Oh Tremal-Naik! ... In fondo al nero corridoio rimbombò un urlo feroce: - Sbrana, Darma! ... Sbrana! ... - La gran tigre del Bengala non attendeva che quel comando. Uscì dal nascondiglio colla bocca aperta e gli artigli tesi, s'allungò, s'accorciò emise un rauco ruggito, indi spiccò un balzo gigantesco piombando in mezzo alla folla degli strangolatori. Un grido di terrore sfuggì da tutti i petti alla vista del feroce carnivoro che aveva di già atterrati, con due potenti colpi d'artiglio, due uomini. - Sbrana, Darma! ... Sbrana! ... - ripeté la stessa voce di prima. Poi rimbombarono quattro detonazioni che mandarono a gambe levate quattro indiani e fecero cadere in ginocchio tutti gli altri e in mezzo alla nube di fumo apparve il cacciatore di serpenti della jungla nera colla faccia stravolta ed il coltello in pugno. Sfondare con irresistibile slancio le file degli atterriti indiani, afferrare la giovanetta che era caduta a terra priva di sensi, stringerla fra le braccia e scomparire sotto la galleria con Kammamuri e la tigre alle calcagna. fu cosa di un sol momento.

I PESCATORI DI BALENE

682381
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Il sole dopo essersi mostrato per qualche giorno ancora sul fosco orizzonte, sempre più smorto e sempre più freddo, ha definitivamente abbandonato quei paraggi e sugli immensi campi di ghiaccio, riuniti dalle correnti prima e dal freddo poi, si è stesa un'oscurità quasi perfetta che ben di rado la luna riesce a rompere. Nebbioni pesanti, che i venti più furiosi non riescono a disperdere, si succedono gli uni agli altri accompagnati da spaventevoli tempeste, i cui ruggiti formidabili gelano l'anima dei più intrepidi marinai e orribili nevicate. I banchi di ghiaccio, pochi giorni innanzi popolati di foche, di trichechi, di volpi e di qualche orso bianco, sono diventati deserti e così pure hanno disertato in massa gli uccelli che si sono affrettati a raggiungere climi meno rigidi. È già molto se qualche procellaria o qualche ardito gabbiano solca il nebbione e viene a volteggiare attorno alla nave. L'equipaggio, vinto dal freddo che talvolta scende fino ai 40o sotto lo zero, da molto tempo non osa più affrontare l'aria esterna e vive costantemente sotto la tolda ove circola ancora un po' di calore, in preda ad una viva inquietudine che prende proporzioni angosciose ad ogni tremito della nave, ad ogni crollo di un "iceberg", ad ogni fischio più acuto del vento polare. Non è più il baldo equipaggio di prima. I marinai più audaci hanno perduto il loro coraggio; i più forti la loro vigoria; i più allegri il loro buon umore. Lo stesso sig. Hostrup è diventato pensieroso e di umore nero; perfino il capitano Weimar, che pur ha dato tante prove di ardire e di grande fiducia, è abbattuto. I loro sforzi per mantenere vivo lo spirito dell'equipaggio, non riescono più. Le cacce sono finite perchè nessun cacciatore osa abbandonare la stufa; le danze ed i concerti sui quali tanto avevano contato, sono pure cessati, perchè nessuno ha più buon umore; i lavori più o meno faticosi che mantenevano vive le forze sono pure finiti, poichè nessuno più obbedisce nè si sente in grado di intraprendere il minimo sforzo. Più nulla vale a strapparli da quell'abbattimento, da quello snervamento, da quello scoraggiamento che ogni giorno guadagnano maggior campo, minacciando di produrre effetti disastrosi, incalcolabili. Eccoli tutti là, stretti accanto alla stufa che funziona senza posa e che non abbandonano se non spinti da un motivo imperioso e dopo molte preghiere e anche minaccie dei loro superiori. Hanno i visi pallidi, gli occhi infossati, le barbe ispide e coperte sempre di ghiacciuli; i loro movimenti sono incerti, le loro parole sono mozzate da un incessante tremolio delle labbra, la loro volontà è paralizzata, i loro pensieri sono tardi. Il freddo li ha piombati tutti in una specie di torpore che invano cercano di vincere. L'acquavite che bevono già è gelata formando un blocco color del topazio, la carne e il pane che mangiano più non si spezzano che a colpi di accetta, poichè hanno acquistato la durezza del ferro; la legna che bruciano è diventata così resistente dal non potersi quasi rompere, le ferramenta, le armi, gli attrezzi di metallo di cui si servono sono diventati, per l'eccessivo freddo, così roventi che posandovi sopra la mano nuda la pelle vi rimane aderente e la carne riporta dolorosissime bruciature; i bicchieri sono diventati pure tali, e a segno che per servirsene bisogna vuotare il liquido in gola onde le labbra non li tocchino; persino le pipe non funzionavano più, poichè a poco a poco la bocca di chi le fuma si riempie di ghiaccio; persino l'aria che respirano cagiona dolorose sensazioni alla gola e ai polmoni e, strano fenomeno, l'alito si trasforma in piccoli aghi di ghiaccio che cadendo ricordano il rumore che produce un pezzo di velluto che si laceri! Ma è giunto Natale. Dopo una notte burrascosa il gelido vento del nord ha cessato di soffiare e il nebbione si è alzato lasciando liberi i campi di ghiaccio. Una luce biancastra prodotta dall'"ice-blink" e dal luccichio degli astri che ormai sono visibili anche a mezzodì essendo il sole scomparso per parecchi mesi, si è diffusa ovunque e permette di vedere ad una non piccola distanza. Per di più il termometro da 40o sotto lo zero è disceso con un brusco salto a soli 14o. L'equipaggio, strappato al suo torpore da quel raddolcimento di temperatura, si è scosso e ha cominciato a lasciare la camera comune ove la stufa divora continuamente carbone e legna e interi barili di grasso e d'olio di balena. Il tenente ha ripreso il suo buon umore e fa tuonare ovunque la sua voce. - Animo, scuotetevi, poltroni; svegliatevi, dormiglioni. Natale ci porta una buona giornata e vi prometto di farvi passare la malinconia con un lauto banchetto. Non è vero, capitano? - Sì, sì! - risponde Weimar, che ha ripreso la sua fiducia. - Solennizzeremo il Natale con un banchetto. - E pianteremo anche l'albero. - Con dei regali per tutti. - Sì, con dei regali. In breve tempo la camera comune è diventata vuota. Tutti sono saliti in coperta per vedere come stanno le cose al di fuori, sperando forse che quel cambiamento di tempo abbia portato anche una variazione alla situazione pericolosa in cui si trova il "Danebrog". Il campo di ghiaccio, durante quegli interminabili giorni di intensissimo freddo, ha subito delle modificazioni, ma non in meglio per i disgraziati prigionieri. La sua estensione, già prima considerevolissima, si è reduplicata per il continuo avanzarsi dei ghiacci trascinati dalla corrente polare verso la costa americana. Fin dove giunge lo sguardo non si vedono altro che altissimi "iceberg" di tutte le forme possibili ed immaginabili: alcuni ritti, tutti d'un pezzo e terminanti in una punta aguzza che scintilla stranamente fra quella semi-oscurità; altri pericolosamente inclinati e che parevano lì lì per piombare sul campo di ghiaccio, qua e là fessi o traforati come se vi fosse penetrato un immenso cuneo; poi più oltre strane cupole, alcune intere ed altre in parte diroccate dalla potente pressione dei ghiacci, e poi svelte colonne mantenentisi ritte per un prodigio di equilibrio; coni strani e piramidi elevate quanto quelle d'Egitto e poi archi, e finalmente massi enormi accatastati confusamente che parevano le rovine di grandiosi edifici diroccati da un tremendo cataclisma. Del mare nessuna traccia. Forse al di là di quella grande barriera di ghiacci ancora si frangeva sollevato dagli ultimi uragani, ma la distanza era tale che sarebbe stata una vera follia il volersi spingere fino laggiù attraverso a tutte quelle pericolanti guglie. - Siamo proprio accerchiati, e come! - esclamò il tenente. - Ci vorrebbero cento tonnellate di dinamite per aprirci una via. - Fortunatamente la nave resiste sempre! - disse il capitano. - Infatti non mi sembra che abbia sofferto; non ha fatto altro che sollevarsi un pò. - Speriamo che continui, se i ghiacci tornano a restringersi attorno a noi. - E i nostri magazzini avranno sofferto? - interrogò Koninson, guardando a babordo. - Non mi sembra - disse il capitano. - La neve li ha coperti ma non vedo alcuna fessura attorno ad essi. Domani, se il tempo ci permetterà, li visiteremo. - Sì, domani! - affermò il tenente. - Oggi non ci occuperemo che di festeggiare Natale. - E voi vi incaricherete del pranzo, signor Hostrup. - Grazie, capitano, cercherò di farmi onore. Ohè, ragazzi, mandate al diavolo i ghiacci e occupatevi di allestire in coperta una tavola che possa servire a tutti. - Mi metterò io alla loro testa! - disse il fiociniere. - Ehi, mastro Widdeak, al lavoro! I marinai, che altro non desideravano se non di dimenticare i loro lunghi patimenti, non si fecero pregare dai loro capi e tutti di buona voglia si misero alacremente al lavoro, mentre il tenente assumeva l'alta direzione della cucina. Alle 4 pomeridiane il ponte del "Danebrog" offriva uno spettacolo senza dubbio mai più visto in quell'alta latitudine. Koninson e Widdeak, aiutati dai marinai, avevano preparato una lunga tavola che si piegava sotto il peso dei tondi e delle bottiglie di rhum, che il degno tenente conservava da anni per qualche grande occasione. Tutto all'intorno, bandiere di segnali e bandiere di parecchie nazioni s'intrecciavano artisticamente, mentre verso poppa un piccolo pennone, che voleva essere l'albero di Natale, adorno di variopinte fasce, reggeva a grande stento bottiglie, pipe, pacchi di tabacco, coltelli e focaccie. - A tavola! - s'udì tuonare sotto coperta l'allegra voce del tenente. Il capitano, i fiocinieri, i timonieri, i gabbieri, che non aspettavano che quel segnale, si assisero ai loro posti e poco dopo appariva il tenente seguito da alcuni marinai che portavano fumanti pentoloni e casseruole da cui uscivano appetitosi profumi. - Evviva al sig. Hostrup! - urlò l'equipaggio. - Ragazzi miei, lasciate gli evviva in fondo alle vostre gole, - disse il tenente - e invece preparate i vostri denti e il vostro stomaco. I marinai, ai quali era tornato l'appetito, fecero grandissimo onore al pasto e soprattutto alle bottiglie che sparivano rapidamente. Una pazza allegria regnava fra tutti quei lupi di mare che in quel momento dimenticavano di trovarsi imprigionati quasi all'estremità del mondo abitabile e forse alla vigilia di qualche spaventevole catastrofe. Verso le 9 di sera, il tenente, che sembrava il più allegro di tutti, diede la stura alle sue due famose bottiglie ed empiendo fino all'orlo il suo bicchiere si alzò. - Capitano, un brindisi - gridò. - A chi? - domandarono i marinai. - Al nostro valoroso "Danebrog"! Amici, capitano, evviva al "Danebrog"! Il tenente vuotò tutto d'uno colpo la sua tazza, ma nè il capitano, nè i marinai lo imitarono. Si erano tutti, come un solo uomo, alzati guardandosi in viso con una viva ansietà e più di uno era impallidito. - Cosa succede? - chiese il tenente che nulla aveva avvertito. - La nave si è mossa! - disse il capitano, che curvo verso il tribordo, pareva ascoltare i rumori esterni. - Ed io ho udito un sordo boato - aggiunse Koninson. - Forse le pressioni? - chiesero i marinai. Uno scricchiolìo forte, seguito da una scossa che fece oscillare il liquido contenuto nei bicchieri e le lampade sospese al tetto della sala, li rese avvertiti che qualcosa di straordinario accadeva sul grande campo di ghiaccio. - Sono le pressioni! - esclamò il tenente vibrando un formidabile pugno sulla tavola. - E proprio oggi vengono a disturbarci, sul più bello del banchetto. Al diavolo i ghiacci! - Zitti tutti! - comandò il capitano. - Udite! Udite! Ognuno prestò orecchio. In lontananza si udivano strani muggiti che pareva provenissero da un immenso esercito di buoi, e sordi boati che parevano prodotti da esplosioni sotterranee. D'un tratto la nave si alzò bruscamente verso poppa e si udirono i corbetti gemere come se fossero stati potentemente stretti da un'immane tenaglia. - Fuori, fuori tutti! - disse il capitano. I marinai si slanciarono confusamente all'aperto senza badare al freddo che era bruscamente aumentato d'una buona diecina di gradi e si curvarono sulla murata di poppa spingendo ansiosamente i loro sguardi sul campo di ghiaccio. Nulla pareva che fosse accaduto attorno alla nave. Gli "iceberg", le piramidi, i coni e gli obelischi, occupavano le stesse posizioni e conservavano le loro inclinazioni; però al di là di quell'accatastamento di ghiacci si udivano delle sorde esplosioni e degli strani muggiti accompagnati da lunghi scricchiolii i quali, attraversando il campo, venivano a morire sotto la chiglia della nave che subiva delle forti vibrazioni. Senza dubbio all'estremità del banco succedeva una battaglia tremenda fra i ghiacci che la corrente polare trascinava verso sud e che cercavano di aprirsi la via furiosamente sospinti dagli "iceberg" che venivano dietro di loro. - Corriamo qualche pericolo? - chiesero i marinai al capitano la cui fronte si era rabbuiata. - Chi può dirlo? - rispose Weimar. - Temo però che passeremo una brutta notte. - Cosa dobbiamo fare? - chiese Koninson. - Nulla per ora; ognuno però porti il proprio sacco in coperta. - Perchè mai? - chiesero alcuni. - Perchè potrebbe darsi che la nave ... . Non finì. Un'esplosione formidabile che poteva paragonarsi allo scoppio simultaneo di mille pezzi d'artiglieria era avvenuta al di là della linea dei ghiacci, e il banco, malgrado la sua immensa estensione e il suo enorme spessore, erasi spaccato a metà lanciando in aria giganteschi spruzzi d'acqua ed ingoiando alcuni "icebergs". L'equipaggio, atterrito, diede indietro mandando un grido di terrore, - Presto, presto, - gridò il capitano - portate i vostri sacchi in coperta e tenetevi pronti a guadagnare i magazzini e le scialuppe. I marinai si precipitarono nella sala comune, raccolsero alla oscillante luce delle lampade i loro effetti e le loro armi e riguadagnarono la coperta. Una scena spaventevole accadeva allora sul campo di ghiaccio. Fra mille detonazioni, fra mille muggiti, fra mille fischi e mille crepitii, "icebergs", "hummocks", piramidi, cupole, coni e colonne s'inclinavano, si rialzavano, si cozzavano e si frantumavano lanciando ovunque i loro pezzi. Il campo, scosso in tutti i sensi, stretto da ogni parte dalla potente pressione dei ghiacci alla quale nessun corpo resiste, si sollevava or qua e or là fendendosi e vomitando l'acqua del mare. Si sarebbe detto che quella massa enorme, poco prima solida tanto da sostenere una intera città, si fosse tutta d'un tratto convertita in una massa d'acqua agitata da un furioso uragano. La nave, ora rialzata a poppa ed ora rialzata a prua, oscillava spaventosamente, come si fosse trovata in piena tempesta. I suoi fianchi scricchiolavano e minacciavano di cedere, i puntelli s'incurvavano, il ponte si piegava, la chiglia si spezzava urtata e stretta dall'avanzarsi dei ghiacci. L'equipaggio, spaventato, coll'angoscia al cuore, impotente a far fronte a quel nuovo genere di assalto, che nessuna forza umana poteva respingere, si teneva aggruppato a poppa, mentre i suoi capi, che anche in quel terribile frangente si studiavano di apparire calmi, curvi sulle murate seguivano ansiosamente l'alzarsi e lo spezzarsi dei ghiacci sotto i fianchi del legno. Per una mezz'ora, che parve lunga quanto mezzo secolo, il campo fu in piena confusione, poi successe una breve calma interrotta solo dai muggiti che acquistavano maggiore intensità; quindi, quando l'equipaggio cominciava già a sperare, si udì un altro spaventevole rombo seguito da mille scricchiolii, dal rovinare di "icebergs" e di "hummocks" e da una nuova e più formidabile convulsione del campo che parve si piegasse sotto il poderoso sforzo che veniva esercitato sui suoi confini. Il "Danebrog", che a poco a poco aveva ripresa la sua primiera posizione, si risollevò a poppa, indi cadde pesantemente nel suo cavo la cui crosta, sotto l'urto, s'infranse. S'udì tosto un crepitìo di legnami infranti e pochi istanti dopo, in mezzo al crollare dei ghiacci, ai rombi, ai muggiti e ai fischi, una voce gridare: - Si salvi chi può! I ghiacci hanno sfondato il "Danebrog"! Nell'udire quelle grida che annunciavano l'irreparabile perdita della valorosa nave, fiocinieri, timonieri e gabbieri, perduta completamente la testa, si gettarono confusamente verso le murate onde guadagnare i magazzini sotto i quali stavano le scialuppe. Il capitano e il tenente fortunatamente non avevano perduto il loro sangue freddo. Prevedendo a quale pericolo si esponevano i loro compagni su quel banco ancora in piena convulsione, che qua e là si apriva minacciando d'ingoiare chi si fosse arrischiato di attraversarlo, si slanciarono verso le murate gridando: - Indietro, fermi tutti! Il banco si apre! Infatti, a tribordo della nave, dal lato dei magazzini, proprio nel momento in cui i marinai stavano per slanciarsi giù, si era aperta una larga fenditura in fondo alla quale si vedeva spumeggiare furiosamente il mare. - Indietro - ripetè il capitano, respingendo violentemente i più vicini. - Volete farvi stritolare dai ghiacci? - Ma la nave affonda! - disse un gabbiere. - Non ancora! - gridò il tenente. - Tutti a poppa! Mastro Widdeak e Koninson spinsero i loro camerati verso poppa. - Signor Hostrup, - gridò il capitano, cercando di dominare colla voce lo sfracellarsi dei ghiacci - scendete nella stiva. Forse, coll'aiuto di Dio, potremo resistere fino a domani. Il tenente sparve nel ventre del legno seguito dall'inseparabile Koninson e poco dopo riappariva sul ponte. - Ebbene? - chiesero i marinai correndo verso di lui. - È finita per il "Danebrog"? - Non ancora! - rispose egli. - Non affondiamo? - No, almeno per ora. - Cos'è che ha ceduto? - chiese il capitano. - I fianchi del nostro povero legno sono stati sfondati dai ghiacci che ora si riuniscono attraverso la stiva. Il capitano lanciò un'imprecazione, ma riacquistando tosto la sua calma disse, volgendosi verso l'equipaggio che lo circondava. - Non scoraggiamoci, amici. La costa americana non è lontana e noi sapremo guadagnarla a dispetto dei ghiacci. Che ognuno rechi in coperta più viveri e più coperte che può, e si tenga pronto a lasciare la nave. Tenente, credete che potremo resistere sino a domani? - Si, se i ghiacci non cedono sotto il peso della nave. - L'acqua entra? - L'ho udita precipitare nella sentina. - Speriamo in Dio. Ditemi, tenente, vi sentireste capace di guadagnare i magazzini? - Lo tenterò, capitano, se è necessario. - È indispensabile, tenente. Là abbiamo le nostre scialuppe, le quali possono venire ingoiate da un momento all'altro. - Allora andrò ai magazzini, dovessi perdere ambo le gambe. Tu, Koninson, mi accompagnerai, se non hai paura. - Sono ai vostri ordini, sig. Hostrup! - rispose il coraggioso fiociniere. - Ma vi faccio osservare che fra la nave e i magazzini si è aperta una larga fenditura. - La attraverseremo, Koninson. - Affrettatevi dunque, signor Hostrup! - disse il capitano. - Un ritardo di pochi minuti potrebbe esserci fatale. - Vieni, Koninson - disse il tenente. Si diresse verso l'albero di maestra armato di una scure e con ma vigorosi colpi staccò la boma che poi, aiutato dal fiociniere, gettò sul campo di ghiaccio. - Ci servirà per passare il crepaccio! - disse al capitano che lo guardava senza comprendere. - Arrivederci ai magazzini, signor Weimar. - Dio vi guardi, signor Hostrup! - rispose il capitano con voce commossa. Poi gli si slanciò contro e gli strinse energicamente la destra. - Non so, - disse con un tono di voce in cui risuonava un triste accento - io mi sento in questo momento profondamente commosso. Che vi succeda qualche disgrazia? - Non lo credo - rispose il tenente sforzandosi, ma senza riuscirvi, di sorridere. - Addio, capitano, addio! Anche lui, senza sapere il perchè, era profondamente commosso. - Si direbbe che una disgrazia mi minaccia - mormorò, guardando con inquietudine i ghiacci che continuavano a oscillare e a rovesciarsi fra mille fragori. Si gettò ad armacollo il fucile, raccolse il sacco contenente le sue vesti e scavalcata la murata discese sul banco dove già lo attendeva Koninson, completamente equipaggiato. - Affrettiamoci tenente! - disse il fiociniere. - Qui corriamo il pericolo di essere ingoiati. Sento che il ghiaccio si spezza attorno alla nave. Si caricarono della boma e, camminando con precauzione e guardandosi ben bene d'attorno, si diressero verso la fenditura che non distava più di venti metri. Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso. Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero. Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita. - Mi sembra che non abbiano sofferto - disse il tenente dopo una rapida occhiata. - È vero - confermò il fiociniere. - Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi. Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono. - Le scialuppe? - chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto. - Eccole lì! - rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino. - Saremo capaci di spingerle fuori? - Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli. In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal "Danebrog", giunsero pure ai loro orecchi. - Presto, presto, Koninson! - gridò il tenente. - Forse la nave sta per affondare. - Eccomi, signore! - rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri. Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino. Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria. Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva. Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave. - Koninson! - esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione. - Tenente! - rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere. - Aiuto! Si salvi chi può! - s'udì urlare al di fuori. Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti. Il "Danebrog", schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio. I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio. - Capitano! Capitano! - gridò il tenente. - Accorriamo! Accorriamo! - esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare. Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il "Danebrog" e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi! Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

IL PAESE DI CUCCAGNA

682505
Serao, Matilde 4 occorrenze

. - Per carità, per carità, se mi volete bene, andate a chiamare il dottor Amati, - singultava l'inferma, col capo abbandonato, che ogni tanto si sollevava, sbattendo sul cuscino. - È pazza, è pazza, - gridava il vecchio frenetico. - Signore mio, andatevene fuori, ve ne prego, andatevene fuori, - supplicava Margherita, vedendo che la figliuola fissava i suoi occhi, ora carichi di un'intensa collera, ora di un intenso dolore, sul padre e che ciò lo rendeva anche più frenetico. - Me ne vado, me ne vado, ma essa non lo vedrà, il dottor Amati! - gridava, lui, uscendo fuori, sentendo di non regger più. Ma dal salone dove egli aveva portato il suo furore, egli udì un urlo alto, lungo, straziante, come se all'inferma le si attanagliasse la carne: e dopo, altre grida, più basse, ma strazianti ugualmente, tanto vibrava in esse un lamento di dolore insopportabile, e parole alte e basse, che gli arrivavano confusamente. La fanciulla era caduta in convulsioni: a un tratto il rumore si chetava ed allora, tremando ancora, di una complessa emozione d'ira, di pietà, di paura, egli si avvicinava alla stanza, ma non entrava, chiamando la cameriera sulla porta. - Come sta? - Peggio, peggio, - diceva ella, piangendo silenziosamente. - Ma che dice? - Vuole il dottor Amati. - Questo, mai. I brevi dialoghi, però, malgrado che la inferma fosse immersa, a intervalli, in un coma profondo, erano uditi da lei: e due volte, uscendo dal quel torpore, le alte grida erano scoppiate, di nuovo, nella convulsione di tutti i muscoli, specialmente nella spaventosa contrattura di quelli della nuca. Attraverso le grida, quel nome, quel nome che la povera creatura aveva adorato per tanto tempo in segreto, quel nome che era stato per lei il segno della salvazione, quel nome ricompariva, sempre, ostinatamente, in quel delirio, proclamato dall'anima che non conosceva più vincoli, pronunziato imperiosamente, dolcemente, disperatamente, con tale impeto di amore, che Margherita e Giovanni che accorrevano per frenare le braccia della convulsa, si sentivano schiantare il cuore. Di là, come l'inferma levava la voce, ora stridula, ora grave, a invocare il dottore Amati, il marchese Cavalcanti trasaliva, e fremeva di quell'odio ostinato e cieco dei vecchi, che non sanno perdonare. Invano, invano egli cercava di distrarsi, di non udire, di non sentire il dolore disperato di quella invocazione; invano egli chinava il capo, turandosi le orecchie, fuggito nell'ultima stanza dell'appartamento: gli giungeva sempre quel lamento clamoroso, fitto, che nulla arrivava a sopire. Era un incubo, oramai: e malgrado la distanza, malgrado le porte chiuse, egli udiva distintamente, precisamente, le parole di amore e di dolore con cui Bianca Maria invocava il dottor Amati; le parole gli si imprimevano nella mente, gli martellavano il cervello, come una persecuzione. Ciò continuava da un ora e mezzo ed ella non si chetava, non taceva, trovando nuova forza nervosa, per chiamare, per chiamare, come se la sua voce, come se la sua chiamata dovesse passare attraverso le mura, attraverso le strade, dovesse arrivare sino all'uomo che ella voleva, per salvarsi. Ah che incubo, che incubo, udire il delirio della sua figliuola, la quale lo scacciava dal suo tetto e disperatamente faceva appello a un altro uomo! Ogni tanto, come per far finire quella follia parlante, invocante, egli si appressava alla porta della stanzetta, e udiva la voce piana di Margherita che, tenendo abbracciata la sua padrona, cercava di calmarla, mentre costei seguitava, quasi che non avesse più orecchie per altre voci, quasi che ella dovesse chiamare il dottor Amati fino a che lo vedesse comparire nella sua stanza. E il vecchio padre si allontanava, furioso e disperato, tremando di collera e tremando di angoscia, non sapendo più che fare, ora avvilito, ora feroce, indomito sempre, conservando il suo odio, non sapendo placarsi, col sangue che gli bolliva nelle vene, e con un'ambascia che l'opprimeva. Ma a un certo punto, udì suonare il campanello ed entrare qualcuno nell'appartamento e poi nella stanza di Bianca Maria. Formosa restò immobile, stupefatto. Chi era entrato, dunque? Quando Margherita apparve nella stanza ove egli si era rifugiato e lo chiamò con un cenno, egli la seguì, docilmente. Presso il letto dell'ammalata, tenendole le braccia convulse e guardandola negli occhi, era il medico curante, il Morelli, che la povera cameriera aveva chiamato. Ma Bianca Maria, anche sotto le mani ferme del medico, anche sotto il suo sguardo scrutatore, continuava a tremare, convulsamente il capo le si sollevava dal guanciale, dal collo che si tendeva, irrigidendosi: e poi la testa ricadeva di nuovo, accasciata, con un continuo piccolo movimento di va e vieni, mentre instancabilmente ella continuava a dire, ora pian piano, ora acutamente: - Amati… Amati…Amati…voglio Amati… - Ma che ha? - domandò il vecchio padre, congiungendo le mani, con le lacrime negli occhi. - Ha dovuto avere un forte eccitamento, due o tre ore fa, non è vero? - Sì… - Per qualche spavento, per qualche rumore…? - No…non so… - Ma si è esaltata? Ha gridato? - Sì… - Perché l'avete lasciata esaltare? Perché non l'avete contentata in quel che voleva? Sapevate quale pericolo correva vostra figlia! - Io non so…, non so nulla.., che volete che io sappia? - gridò il vecchio, stendendo le mani, implorando come un fanciullo. - Il pericolo della meningite, - disse il medico, a denti stretti. Adesso l'inferma aveva socchiusi gli occhi; il medico le divaricò le pupille: l'occhio apparve vitreo, immobile, come si era immobilizzata tutta la persona. - Dottore, ma che, è morta? - urlò il vecchio, come pazzo. - Paralisi temporanea: è la meningite. - E che si fa? - Eh vedremo. Intanto, vi prego, fate chiamare il dottor Amati. Il vecchio lo guardò, sconvolto. - Che dite? - Mandate a chiamare Amati. Non vedete che ella lo vuole? - …è in delirio. - Sissignore: ma quando lo ha chiesto, doveva esser ragionevole: e anche in delirio, dovete ubbidire, marchese. - Ubbidire? - Vostra figlia è in istato grave, è meglio contentarla… - In istato grave? - Potete perderla, da un'ora all'altra: essa non ha forza, per resistere alla meningite. - Dottore, dottore, non dite questo!. - Oh caro marchese, volete che vi dica la verità? Tanto la povera paziente non può udirci. Voi vi siete negato di chiamare Amati, prima: poi, avete lasciato che la signorina arrivasse a questo stato di esasperazione… Non vorrete continuare in questa negazione, la ragazza muore. - Oh Dio sacrato!… - bestemmiò il marchese. - Andrò io, da Amati… -… non verrà. - Ma perché? Non era il medico curante? E un galantuomo, è un gran medico. -… non verrà. - E andateci voi, marchese. Ora, mentre Cavalcanti faceva un atto di disperazione, la malata si era riscossa, e di nuovo rapidamente, a denti stretti, si era messa a dire: - Amati…Amati… voglio Amati… - Sentite? - disse Morelli. - Ma io non posso, - gridò Cavalcanti, - ma io ho cacciato quell'uomo di casa, non ho voluto che mia figlia lo sposasse, non posso umiliarmi a lui. - Sta bene, ma la fanciulla muore… - disse il medico, trattenendo le mani battenti della fanciulla. - Andate a chiamare Amati, per carità, per amore di Dio, non mi abbandonate, chiamate Amati, - gemeva l'inferma. - Oh Dio! che castigo, che castigo! - esclamava il vecchio, con le mani nei capelli; - ma, dottore, fatele qualche cosa, non la lasciate morire!. - Amati… Amati… voglio Amati, - ella diceva, delirando, stravolgendo paurosamente gli occhi. E ricaduta, abbattuta sul letto, in una nuova paralisi, l'unica cosa viva di lei era la voce che voleva Amati, sempre l'unica idea della sua ragione smarrita era Amati, Amati, Amati. - Gli scriverò, - disse il vecchio, desolatamente, andando di là mentre il medico provava a mettere nuovo ghiaccio, sulla testa infiammata di Bianca Maria. Il marchese scriveva: ma era insopportabile lo sdegno di dover cedere, e le parole non uscivano dalla sua penna. Stracciò due foglietti. Infine ne uscì una breve lettera, con la quale pregava il dottor Amati di andare a casa sua, perché sua figlia era malata: niente altro. Quando dovette scrivere l'indirizzo, fu per ispezzare la penna. E senza guardare in volto Giovanni, gli disse di correre dal dottore… sì, dal dottore Amati. E il poveretto corse, mentre Morelli dava delle pillole di calomelano alla povera delirante che urlava, poiché il dolor di testa era divenuto insoffribile, atroce. Il padre, consumato il primo sacrificio, si sentiva impazzire, a quegli urli: e tremava, temeva di mettersi anche lui a urlare, a urlare, come lei, come se ella gli avesse comunicata la meningite. Adesso che aveva scritta la lettera, consumando un insopportabile sacrificio, adesso il marchese Cavalcanti si metteva a desiderare che il dottor Amati giungesse presto, almeno: gli era impossibile sopportare più quelle grida, quei lamenti, quei gemiti, in cui un solo nome continuava ad apparire, sempre, sempre. E oramai contava i minuti del ritorno di Giovanni, tendendo l'orecchio, se udisse qualche rumore di porta che si schiudeva: il tempo passava e l'ammalata, malgrado il ghiaccio, malgrado il calomelano, delirava, con gli occhi stravolti, in preda alla infiammazione che sembra arda il cervello. Ecco una porta si apriva, qualcheduno si avanzava verso la stanza, in cui il marchese di Formosa aveva ricoverata la sua disperazione. Era Giovanni, solo: e pareva così stanco, così vecchio, così triste, che il marchese tremò, chiedendogli: - Ebbene? - Non viene, il dottor Amati. - Non vi era? - Non vi era, l'ho aspettato sotto il portone: è poi venuto… - E dunque? - Ha letto la lettera… e ha detto che egli era troppo occupato, che la signorina aveva certo qualche altro buon medico… - Non lo hai… pregato? - L'ho pregato, Eccellenza: si è fatto aspro, è andato via mormorando certe parole, che non ho capite. - Dovevi salire… insistere… - Non ho avuto il coraggio… - Ma capisci che senza lui la signorina muore, non lo capisci? - Lo capisco, Eccellenza, ma il dottore mi ha maltrattato, sono un povero servo… - Egli ha ragione, - disse il vecchio lentamente, - io l'ho molto offeso… - Eccellenza, Eccellenza, andateci voi, a voi non dice di no… - Tu sei pazzo!… - Per la signorina, Eccellenza! - Dirà di no, m'insulterà… - Per la signorina… - No, no, è troppo… - Ma, Eccellenza, lo avete detto, la signorina muore. - Va via, - gridò brutalmente il marchese, cacciando il suo servitore. Restò solo. Il suo orgoglio si ribellava potentemente all'idea di umiliarsi innanzi all'uomo che egli aveva ingiuriato: soffriva atrocemente; la voce di sua figlia che ora borbottava in tono basso, ora strideva acutamente, nominando Amati, gli dava il senso di un dolore fisico, di un ferro rovente che bruciava la sua carne. Dentro di lui, però, come il tempo passava, come il pericolo della fanciulla aumentava, si compiva un lavoro di annichilimento, in cui tutte le ribellioni antiche e nuove della sua superbia andavano cadendo: e al posto dell'orgoglio si metteva una immensa pietà, una immensa tenerezza, un immenso dolore. Fuggiva l'ora, mentre egli passeggiava su e giù, rodendo il freno degli ultimi vincoli in cui si abbassava e radeva terra il suo cuore: e non cessava di là quell'eterna voce delirante, che non sapeva dire altro che il nome di Antonio Amati. Oramai egli non trasaliva più di collera, l'odio taceva e quando, di nuovo, si presentò il dottore Morelli, che era andato e che era ritornato, domandandogli, egli rispose: - Non è venuto: vado io. - Lo condurrete? - Lo condurrò. Era ben tardi, però, quando si mise in cammino, a piedi, per andare in via Santa Lucia, dove abitava adesso il dottor Amati: era quasi mezzanotte e la gente si era diradata per Toledo, nella dolcezza della sera di aprile. Malgrado la vecchiaia, il marchese correva per la strada, spinto da una forza nervosa, e quando fu nel grande portone del palazzo che abitava Amati, fece le scale rapidamente, senza neppur rispondere al portiere, che domandava dove andasse. - Dite ad Amati che vi è il marchese Cavalcanti, - disse alla governante che gli era venuta ad aprire. - Veramente… studia… - Diteglielo, ve ne prego, è una cosa urgentissima, - pregò il vecchio, il cui orgoglio era completamente sparito. Ella andò di là, ricomparve subito, facendo cenno al marchese di entrare. Egli attraversò due salotti e si trovò in uno studio, tutto in penombra, dove la luce della lampada si concentrava sopra un gran tavolone, sparso di carte e di libri. Ma il dottor Amati era in piedi, in mezzo alla stanza, aspettando. Quei due uomini, che si erano tanto odiati, si guardarono, con lo stesso dolore che li accomunava, e la pietà della infelice creatura morente troncò ogni astio. Si guardarono. - Che è? - dimandò, con voce fioca, Amati. - Muore, - disse Formosa, facendo un atto disperato. - Di che? - Di meningite. Un pallore terreo si diffuse nel volto del dottore e due pieghe gli si formarono alle labbra. E non osò fare rimproveri al marchese. Non aveva, egli stesso, abbandonata la povera creatura, a cui aveva promessa, giurata la salvazione? Non aveva, per superbia, lasciato il delicato fiore ammalato, in preda a tutti i mali fisici e morali? Ambedue erano colpevoli, ambedue. - Andiamo, - disse. Uscirono insieme, chiamarono una carrozza da nolo, fecero sollevare il soffietto, come se volessero nascondere il loro dolore. Non parlavano, durante il tragitto. Soltanto, mentre mordeva il suo sigaro spento, il dottor Amati, ogni tanto, faceva qualche interrogazione medica. - Da quanto tempo, la meningite? Primo giorno? - Sì: ma ebbe nove giorni di tifo. -Febbre alta? - Da quaranta a quarantuno. - Gran mal di testa? - Atroce. - Convulsioni? - Sì: ogni tanto. - Stravolge gli occhi? - Sì. - Ha contratti i muscoli della nuca? - Sì. -… vi fu qualche causa? - Sì, - disse umilmente il padre, quasi singhiozzando questo monosillabo. - Le hanno dato il calomelano? - Sì. - Non ha calmato? - No, niente. Spesso è paralizzata: ma per poco. - È proprio la meningite, - mormorò il medico, pensoso. La carrozza camminava, camminava alla meglio, con il mediocre cavallo notturno. Non arrivavano ancora e avevano già incitato il cocchiere ad affrettare. - Ha il delirio? - chiese nuovamente il medico. - Non so… Non capisco se è il delirio.., ma parla sempre, convulsamente… - E che dice? - Chiama voi… - Me? - Voi, sempre. Ah il cuore del medico si schiantò, udendo questo! Sottovoce il vecchio padre lo udì dire, come per preghiera sgomenta: - Mio Dio!… Non dissero altro. Trovarono la porta aperta, il povero vecchio Giovanni li aveva attesi sul pianerottolo, appoggiato alla ringhiera, guardando nel portone, ansioso di vederli arrivare, ma certo che il dottore sarebbe venuto. - Come sta? - chiese subito il padre che aveva un continuo bisogno di essere rassicurato. - Come deve stare?… - sospirò il vecchio servo, precedendoli, - sta come prima. - Sempre il delirio? - disse il dottore. - Sempre. Entrarono pian piano nella stanzetta. Il dottor Morelli era andato via da poco, lasciando una letterina pel dottor Amati. Ma costui andò diritto al letto della inferma. La voce di costei, oramai stanca, ma sempre appassionata, andava ancora ripetendo il nome di Amati, ma il capo era affondato nei cuscini e gli occhi socchiusi. Egli vide tutto immediatamente, e lo scompiglio del suo animo, dovette esser tale che non giunse a padroneggiare, egli il forte, egli l'invincibile, il suo volto. Ed esitò un minuto, prima di rispondere alla infelice delirante che seguitava a chiamarlo, temendo di produrre sui nervi di lei una impressione troppo forte: ma non potette resistere a quella fievole voce che gli penetrava sino al cuore e lo faceva struggere di tenerezza. Disse: - Bianca Maria.. Qual grido fu la risposta! Ella si levò, col volto improvvisamente acceso, con gli occhi diventati stragrandi, e gli buttò le braccia al collo, gli appoggiò il capo sul petto, gridando: - O amor mio, amor mio, quanto avete tardato! Non mi lasciate più, non mi abbandonate, è tanto tempo che vi chiamo non mi lasciate. - Non temete, non vi lascio… - mormorò lui, cercando di vincere la sua emozione, carezzandole i bei capelli confusi e arruffati. - Non ve ne andate mai, mai, - gridava ella appassionatamente, stringendogli le braccia al collo, - se mi abbandonate, io muoio… - Calmatevi, Bianca Maria, calmatevi, non dite queste cose. - Le voglio dire, - levò lei ancora la voce, irritandosi della contraddizione,- senza di voi, per me è la morte. Ma tu non mi lascerai morire, eh, non mi lascerai morire? - Creatura mia, taci, taci… - egli disse, incapace di frenarsi, volendo disciogliere la catena di braccia, che gli allacciava il collo. - Non mi levare di qui, non mi levare,- strillò lei, facendo degli atti disperati col capo. - Se mi levi, sento che la morte mi piglia. - Oh Bianca, taci, per carità, non mi uccidere, - le disse il forte uomo, diventando il più debole e il più misero fra gli uomini. - Mi piglia la morte, è qui dietro, la sento, tu solo puoi salvarmi… Non mi lasciar morire, non voglio morire, hai capito, non voglio morire! - Non morirai, zitto, cara, zitto, perché ti ammali assai peggio, io sto qui, non me ne vado, mai più, mai più, non ti lascio… -… e non voglio morire, - concluse lei, di nuovo, calmandosi un poco. Stettero così, qualche tempo. Il padre era ai piedi del letto, appoggiato alla spalliera, con gli occhi bassi, sentendo nel suo orgoglio schiacciato, nella sua anima trafitta, tutto il peso del castigo che il Signore gli faceva aggravare sul capo, in punizione del suo lungo peccato. Pian piano, visto che la fanciulla taceva, che gli occhi le si chiudevano, il dottor Amati tentò di rimetterle il capo sul guanciale: ma ella sentì l'atto, e mentre si abbassava, attirò a se anche lui ed egli dovette chinarsi, poiché quelle braccia non volevano sciogliersi. Restarono così, ella assopita, egli inclinato in una posizione dolorosa, così angosciato di quella malattia e della sua impotenza, che non gli arrivava la sensazione di quel tormento fisico: il dolore assumeva in lui tale una violenza che si sentiva scoppiare, non potendo né piangere, né gridare, né parlare. Ora la infelice fanciulla pareva assopita, ma ogni tanto sussultava, e una espressione di fastidiosa pena le si dipingeva sullo scarno viso. Pareva che le passasse una idea per la mente, o che udisse un rumore che gli altri non udivano, o che vedesse qualche penosa visione, poiché le palpebre le battevano e le labbra si striavano sulle pallide gengive. Poi, ella schiuse gli occhi, come se avesse fissato quel rumore, quella visione, quella impressione fastidiosa e con un soffio di voce, che solo il medico intese, chiamò: - Amore! - Che vuoi? - Mandalo via. - Chi? - Mio padre. Il medico impallidì e non rispose. Dette una obliqua occhiata al vecchio, che era sempre fermo ai piedi del letto, con gli occhi bassi, dolorosamente concentrato. - Ti prego, mandalo via, - ricominciò lei, parlandogli nell'orecchio. - Ma perché? - Così: non voglio vederlo. Mandalo via. Che se ne vada. - Bianca Maria, ma è tuo padre! - Ascolta, ascolta, - diss'ella, attirandolo maggiormente a sé, perché gli potesse parlare più piano. - È mio padre, - mormorò poi con una paura soffocata, con un rimpianto immenso, - ma mi ha uccisa. - Non parlare così, - rispose, lui, volgendo il capo dall'altra parte per non lasciare scorgere le sue impressioni. - Ti dico che muoio per lui. Non ho il delirio, sai, io ragiono, - soggiunse ella, stralunando gli occhi, con quel moto infantile dei fanciulli moribondi, che fa impazzire di dolore le madri. Egli crollò il capo, come se non sapesse più che cosa fare, che cosa dire. - Mandalo via, - diss'ella, insistendo, arrabbiandosi, con le fatali irrompenti furie della meningite. - Io non posso, Bianca Maria… - Se non lo mandi via, tu, tu, io mi levo e gli grido di andarsene, di non comparirmi mai più innanzi, mai più, hai capito? - Aspetta, - egli disse, decidendosi, rassegnandosi. E la lasciò, staccandosi da lei, rimettendole le scarne braccia sulla coltre. Ella lo seguì con lo sguardo, senza mai levargli gli occhi di dosso, come se con lo sguardo udisse quello che molto sottovoce il dottore Amati diceva a suo padre. Il dottor Amati, con molta delicatezza e con un fremito di dolore che faceva tremare invincibilmente la sua voce, gli spiegava che la meningite è una terribile malattia che abbrucia il cervello, che sconquassa i nervi, e che fa delirare per giorni e giorni i poveri infermi che ne sono attaccati, che li induce a continua collera e persino al furore: che la povera Bianca Maria era in preda a questo delirio, che non poteva soffrir nessuno nella sua stanza, e che se egli amava sua figlia, se non voleva udirla dare in escandescenze, facesse la carità di andarsene in un'altra stanza… - Mia figlia vi ha detto questo? - chiese il vecchio, smorto, con le sopracciglia aggrottate. - Sì. - Non vuole nessuno nella sua stanza? -… Nessuno. - Ma voi, sì? - Me, sì. - Mi caccia, mia figlia? - gridò il vecchio. - Per carità, marchese, non v'irritate, abbiate pietà della fanciulla, di voi, di me… - Non me ne andrò, se non me lo dice lei, capite? Bianca Maria? - chiamò il marchese, avanzandosi presso il letto. Ella guardò il padre con tanta intensità, come se gli rispondesse. - Bianca Maria, - gridò l'esasperato vecchio, - è vero che non mi vuoi, nella tua stanza? Dillo tu, se è vero, io non credo a quest'uomo, lo devi dire tu! - È vero, - ella proclamò, a voce chiarissima, guardando suo padre. Egli chinò gli occhi, dove comparvero le ultime lacrime della vecchiezza, chinò il capo sul petto, vinto dall'inflessibile castigo che gli veniva dalla delirante, dalla morente sua vittima. Uscì, senza voltarsi. E cadente come se avesse cento anni, solo, taciturno, si ritirò in quella che era stata la sua stanza da studio, dove restavan solo un tavolino vecchio e una vecchia sedia. Lì, prono, con la testa fra le mani, senza più nozione né di tempo, né di cose, il vecchio peccatore s'immerse nella incommensurabile amarezza della punizione. Ogni tanto, fiocamente, o vivacemente gli arrivava la voce di Bianca Maria che diceva ad Amati, sempre, sempre: - Non voglio morire, non voglio morire, salvami, salvami, ho venti anni, non voglio morire… Quella voce, quelle parole disperate, pronunziate nel delirio, ma che pure parevano un lamento e una maledizione, gli facevano un effetto crudele. Non aveva più la forza di levarsi, per uscire, per andarsene di casa, solo, a morire come un cane sopra gli scalini di una chiesa, non pianto, non rimpianto. Non si levava, per andare presso l'agonizzante, poiché sua figlia lo aveva cacciato, tenendo presso sé l'unica persona che l'aveva amata. - Non voglio morire, amore, non voglio morire, - parlava la demente. - Hai ragione, hai ragione, - pensava il padre, trasalendo. E mentre le ore passavano, egli sentiva di là l'andirivieni del medico che tentava il salvamento della fanciulla, gli ordini frettolosi, l'uscire di Giovanni, di un assistente accorso. Egli non aveva più diritto di presentarsi, di sapere: e difatti lo dimenticavano lì, come se fosse morto da anni e anni, come se giammai un marchese Carlo Cavalcanti fosse esistito. Non sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, poiché tutti lo avevano abbandonato? - E giusto, è giusto, - pensava fra sé. Egli tendeva l'orecchio, ogni tanto, come se i rumori che arrivavano, dovessero dirgli che la fanciulla migliorava, che il medico le amministrava i rimedii energici, capitali. Ma oltre all'affaccendarsi dei servi, dell'assistente, del dottore, egli non udiva altro che il grido straziante, continuo: - Non voglio morire, non voglio morire, amore, salvami! Egli si assopì, coll'antico capo appoggiato alle braccia, verso l'alba, sentendo anche nel lieve e breve torpore quel lamento, quell'angoscioso grido. Fu Giovanni che lo svegliò, a giorno chiaro, portandogli una tazza di caffè. Il padre scacciato dalla camera di sua figlia, interrogò con gli occhi il servo: - Sempre lo stesso, sempre! - mormorò Giovanni, crollando il capo vacillante. - Ma neppure Amati la salva? Neppure lui? - Cerca: ma è disperato. Il marchese Carlo Cavalcanti passò tre giorni e tre notti in quella stanza, solo, senza veder letto, senza quasi toccar il poco cibo che gli portavano: i tre giorni e le tre notti che durò l'agonia di sua figlia, Bianca Maria Cavalcanti. Il volto del vecchio, sempre sanguignamente colorito malgrado l'età, era chiazzato di violetto; i capelli bianchi erano tragicamente arruffati. Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

E il lunedì egualmente, davano da mangiare a un bambino abbandonato, di dieci anni, di cui tutto il vicolo Rosariello di Portamedina, si occupava, procurandogli da mangiare, mentre le sorelle Esposito lo aiutavano in quel giorno fisso, a suffragio delle anime purganti, cui appartiene il lunedì. Era, in qualunque giorno, difficile che un povero battesse a quella porta, senza aver qualche cosa. - Fatelo per san Giuseppe, di cui ricorre la giornata! - Sia lodata la Trinità, oggi è domenica, fate elemosina. Roba da mangiare, un bicchiere di vino, qualche straccio, i pezzenti lo portavano via, sempre: denari, mai. Le sorelle Esposito avevano troppo grande rispetto per il soldo, ome esse dicevano, per farne carità; e spiegavano che era miglior carità dar da pranzo, che incitare al vizio, coi denari. I pezzenti restavano sul pianerottolo: le sorelle Esposito non li lasciavano entrare, temendo sempre pei valori che avevano in casa; portavano fuori il piatto di maccheroni, o di legumi, o di verdura; talvolta il pezzente lo mangiava sulla scala, seduto sullo scalino, borbottando delle benedizioni. Adesso avevano mangiato il formaggio affumicato col pane, lentamente, con quel movimento un po' caprigno delle mascelle, e strappando le successive spoglie dei sedani, le rosicchiavano con gran rumore, come frutta, per levarsi dalla bocca il sapore dell'olio. Quando ebbero finito, rimasero un po' immobili, guardando le chiazze azzurre della tovaglia, con le mani prosciolte in grembo, nel silenzio della digestione e dei loro lunghi calcoli mentali di donne d'affari. La fanticella, Peppina, aveva portato via tutto in un baleno e dall'attigua cucina si sentiva lo strascico delle sue ciabatte, ella andava e veniva, per lavare i pochi piatti, fermandosi ogni tanto a voltare nel tegame i suoi maccheroni che ella aveva messo a soffriggere di nuovo, visto che erano freddi. Ora le due sorelle si erano alzate e dopo avere scosso le gonne dalle molliche, erano andate a riprendere il loro posto, al telaio, curvando il capo, sollevando metodicamente la mano destra carica di anelli, tenendo la mano sinistra sotto il telaio, per trapuntare. Un tintinnìo del campanello si udì: le due sorelle scambiarono una rapida occhiata e ripresero il lavoro: esso, oltre quello che ci guadagnavano, serviva da loro paravento morale e materiale. Due ragazze, due sartine, entrarono, spingendosi a vicenda. La prima, più coraggiosa, era la bionda Antonietta, che lavorava da una sarta a strada Santa Chiara e andava a comperare la colazione per sé e per la sua compagna Nannina, dall'oste rimpetto al palazzo dell'Impresa del Lotto; ma tutte e due erano vestite miseramente, con certe grame gonnelluccie di lanetta, una giacchetta vistosa ma povera di altro colore e uno scialletto nero che volentieri esse lasciavano cadere sulle braccia, per mostrare il busto e un fiocchetto di nastro rosa, al collo. Nannina, la più piccola, era parente delle due sorelle Esposito, ma aveva un sacro terrore delle sue zie, piene di denaro, di gioielli, che la ricevevano sempre con una meditabonda e meditata freddezza. Pure si lasciarono baciar la mano dalla nipote: le due ragazze rimasero in piedi, presso il telaio, guardando quell'alacre lavoro, come mortificate. - Non sei andata al lavoro, oggi? - domandò donna Caterina a Nannina. - Ci sono andata. - rispose subito, volubilmente, la fanciulla, spinta dalle gomitate di Antonietta - ma la maestra ci ha mandato a fare certe spese, qui vicino, e siccome questa compagna mia voleva cercare un favore, a voi, così siamo venute… - Da chi lo voleva, il favore? - disse donna Concetta, levando il capo dalla coltre. - Da voi, proprio, zia… - balbettò la nipote. - Neh! - esclamò quella, con una profonda intonazione ironica, sorridendo e crollando il capo. Le ragazze tacquero, guardandosi: la cosa si metteva male, dal principio. La tenitrice di gioco piccolo, subitamente disinteressata dalla questione, con un paio di forbicette tagliava l'impuntura della coltre, dove era stata già trapuntata, e la sua baschina di lanetta marrone si copriva di piccoli fili bianchi. - Beh! avete perduta la lingua? Di che si tratta? - chiese, ridendo, donna Concetta. - Ecco, donna Concettina, ora ve lo dico io - riprese la biondina Antonietta, mordendosi le labbra per farle diventare rosse. - Mi vorrei fare un vestito nuovo per Pasqua, e un paio di stivaletti, e comperarmi la mussola per farmi tre o quattro camicie. A stringere, a stringere cucendo io tutto, quando ho finito la giornata dalla sarta, mi servono quaranta lire. Io non le ho, quaranta lire, e per metterle da parte, mi ci vorrebbe un anno. Siccome ho saputo che siete tanto buona e fate tanti favori alla povera gente, così ho fatto un pensiero, che voi mi avreste prestato queste quaranta lire. - Hai fatto un malo pensiero, - disse glacialmente l'usuraia. - E perché? Io posso scontare questo debito a un tanto la settimana; guadagno venticinque soldi al giorno; non debbo dare un soldo a nessuno; domandate a Nannina vostra nepote, che mi garantisce… - Nannina dovrebbe trovare qualcuno che garantisse lei… - borbottò donna Concetta. - Ma a che ti serve questo vestito? Quello che hai addosso, non ti basta? Quando non ci sono soldi, non si fanno vestiti! Quando mia sorella ed io non avevamo soldi, non ci facevamo vestiti! Siete tutte matte, voi altre ragazze di adesso.. - Zia, zia, fateglielo questo piacere. Ci ha l'innamorato, e si vergogna di far cattiva figura, - pregò la nipote, per l'amica. - Anch'io ci ho avuto l'innamorato, - replicò donna Concetta - e non se ne vergognava, quando io era mal vestita. - Gli uomini di adesso sono un'altra cosa… - mormorò la bionda Antonietta. - Sicché me lo fate questo favore? - Ragazza mia, io non ti conosco… - Io lavoro da Cristina Gagliardi, a Santa Chiara, numero 18, primo piano: abito a Strettola di Porto, numero 3, vi potete informare… Seguì un silenzio in cui, di nuovo, le ragazze scambiavano un'occhiata allarmata. - Al più, al più, - disse levando il capo, donna Concetta - io posso darti a credito della lanetta per farti un vestito e della mussolina per queste camicie…pregherò un mercante che mi conosce… un buon uomo… ma pagherai la roba di più. - Non importa, non importa, - interruppe subito Antonietta - fate voi… - Di che colore deve essere, questa lanetta? -chiese maternamente donna Concetta. - O blù marino, o verde bottiglia… blù marino mi piace di più… - Ti sta meglio: blù marino, fai una gran figura, - soggiunse Nannina, con aria d'importanza. - E non si scolorisce tanto facilmente, - finì di dire donna Concetta. - Quanti metri te ne servono? La ragazza contava fra sé, agitando le dita come se misurasse, guardandosi la persona, contando e ricontando. - Dieci metri, sì, dieci metri basteranno… - Cinque canne? Gesù! Già, te lo vorrai fare alla moda? - Donna Concettì, compatite… - rispose sorridendo Antonietta. - Va bene, va bene. Per ogni camicia ci vogliono quattro metri di mussola, sarebbero in tutto sedici metri… - E le scarpe? - chiese la ragazza, esitando. - Io non conosco calzolai, figlia mia. - Mi darete il resto delle quaranta lire in danari, - s'avventurò a dire la sartina. - Senti, figlia mia, - disse donna Concetta, - io vengo domani, che è sabato, dalla sarta a informarmi se veramente ti dànno venticinque soldi al giorno e se hai preso danaro anticipato. Là combino con la sarta che invece di darti la paga intiera della settimana, ogni sabato si ritenga due lire per me, per l'interesse delle quaranta lire. - Due lire?! - esclamò la ragazza, sgomentata da tutto quel discorso. - Già. Ne dovrei esigere quattro, un soldo a lira per settimana, ma tu sei una povera giovane e ti voglio aiutare veramente. La sarta mi dà le due lire, per l'interesse: tu poi, dal resto, sconti quello che vuoi del tuo debito, cinque lire, tre, due, come ti fa comodo. Hai capito? - Sì, sì… - esclamava, terrorizzata, la ragazza. - Più presto paghi, meglio per te. Io non desidero di meglio. Però ti avverto che se ti dovessi far pagare prima dalla sarta, o andartene via, o fare qualche altra simile birbonata, io ti arrivo, gioia mia, e ti faccio vedere chi è Concetta Esposito. Io me ne rido di andare in galera, per il sangue mio…mi sono spiegata? - Sissignora, sissignora, - balbettava Antonietta con le lacrime agli occhi. - Però sei sempre a tempo di non farne niente, - conchiuse donna Concetta, gelidamente, riabbassando il capo, per trapuntare la coltre. - No, no, - strillò la ragazza, - tutto quello che volete voi. Promettetemi che venite domani, a Santa Chiara, numero diciotto? - Ci vediamo domani, - disse licenziandola, donna Concetta. - E portate la roba? Portate i danari? - A questo ci debbo pensar io. - Addio, zia, - mormorò Nannina, più pallida e più spaventata della sua amica. - La Madonna vi accompagni, - dissero in coro le due sorelle Esposito, ricominciando a lavorare. Le ragazze se ne andarono silenziose, a capo chino, non trovando più forza né di parlare, né di sorridere. Una donna che saliva, in fretta, le urtò, borbottò uno scusate rettoloso, e andò a bussare alla porticina delle sorelle Esposito. Era Carmela, la sigaraia dagli occhi grandi e pieni di dolorosi pensieri, dal volto consunto: prima di entrare in casa, sospirò profondamente e un rapido rossore le coprì le guancie smunte. - È permesso? - disse, dalla saletta, con voce debole. - Entrate, - si rispose da dentro. - O sei tu, buona cristiana? - disse, riconoscendola, Concetta. - Di' la verità, sei venuta a restituirmi quei denari? La coscienza ti ha rimproverato alla fine, eh? Dà qua. - Voi avete voglia di scherzare, donna Concetta mia, - disse la misera, abbozzando un pallido sorriso. -Se avessi trentaquattro lire, vorrei fare trentaquattro salti. - Sono trentasette lire e mezzo, con l'interesse della passata settimana, - rettificò freddamente l'usuraia. - Come volete voi: chi vi nega niente? Voi dite trentasette e mezzo e io pure dico così. - Hai portato l'interesse, almeno? - Niente niente, - disse disperatamente la ragazza, chinando la testa. - La miseria mi rosica. Sono arrivata a guadagnare una lira e cinquanta al giorno, potrei stare come una signora, ma che! - E tu perché ti fai mangiare i denari? - domandò donna Concetta, cedendo al suo bisogno di far predica di saggezza alle sue debitrici. - Sei una bestia, ecco quello che sei. - Ma come, donna Concè? - gridò desolatamente Carmela; non ho da dare un tozzo di pane a mia madre vecchia? Quando mia sorella crepa di miseria con tre figli, che gliene sta morendo uno, che è una pietà, io le ho da negare la mezza lira? Quando mio cognato Gaetano, con tutti i suoi vizi, non ha da fumare, gli ho da negare i cinque o sei soldi! Con che core, donna Concetta mia? - È Raffaele che ti spolpa, è Raffaele! - canticchiò l'usuraia, infilando un'agucchiata di cotone rosso. - E che ci volete fare? - esclamò la ragazza, aprendo le braccia - quello era nato per fare il signore. Intanto io, se non pago lunedì il padron di casa, quello mi dà lo sfratto. Gli ho da dare trenta lire: ma gliene potessi dare almeno dieci! Ah se mi faceste questa carità, voi! - Tu sei pazza, figlia mia. - Donna Concetta, donna Concetta, che vi fanno a voi, dieci lire? E io ve le restituisco, lo sapete, io non ho mai preso un centesimo a nessuno. Non mi fate buttare sulla strada, donna Concetta, fatelo per chi vi è andato in paradiso! - No, no, no, - canterellò la copertaia. - Sentite, sentite, - soggiunse l'altra, affannosamente, - questi orecchini che porto, furono pagati diciassette lire, quattro ducati, dalla mia comare: io ve li dò, non ho altro, e voi me li restituirete, quando vi avrò restituito le dieci lire. - Io non impegno, - rispose donna Concetta, dopo aver sogguardato gli orecchini. - Ma non è pegno: è un piacere che mi fate. Se dovessi impegnare, mi darebbero cinque o sei lire: si terrebbero l'interesse anticipato e col denaro della cartella, dello scatolino e la mezzanìa, mi resterebbero tre o quattro lire. Fatelo solo per questa volta, donna Concetta, la Madonna vi guarda dal cielo! E convulsamente si levò gli orecchinetti di oro, un po' vecchi, li strofinò con un lembo del grembiule e li posò delicatamente sulla coperta: li guardava ancora, intensamente, licenziandosi da loro. Donna Concetta li prese con una smorfia di disgusto: con sua sorella che aveva levato il capo, scambiarono uno sguardo: la tenitrice di gioco piccolo parve le dicesse di sì, col battere delle palpebre. Muta rigida, donna Concetta si levò, portando via gli orecchinelli, entrando nell'altra stanza del quartiné, dove dormivano le due sorelle: si udirono stridere chiavi nelle serrature, aprirsi e chiudere dei cassetti, con intervalli di silenzio. Poi, donna Concetta ricomparve. Portava nella mano due rotoletti di carta giallastra. - Sono soldi: contali, - disse brevemente, posandoli innanzi a Carmela. - Non importa, non importa, rispose la poveretta, tremando di emozione. - Il Padre Eterno ve lo deve rendere in tanta salute, quello che fate a me. - Va bene, va bene. - conchiuse donna Concetta, rimettendosi al lavoro. - Ma ti avverto che io vendo gli orecchini, se non paghi. - Non dubitate, - mormorò Carmela, andandosene. Per un poco, le due sorelle rimasero sole, trapuntando. - Gli orecchini valgono dodici lire di oro - disse Caterina, che aveva l'occhio acuto. - Già, - disse donna Concetta. - Ma Carmela pagherà, è una buona figliuola. Di nuovo, si udì tinnire il campanello. - Pare il campanello della levatrice, osservò Caterina. Un passo strascicato si udì, col rumore come di una cassa che fosse posata per terra, in un angolo della saletta: e innanzi alle due sorelle comparve tutto storto, gobbo col fianco sollevato come se ancora tenesse la cassetta da lustrare, Michele, il lustrino. Salutò dicendo spagnolescamente: la vostra buona grazia, entre le mille rughe del suo volto di fanciullo rachitico invecchiato, parea emanassero malizia. Le sorelle lo guardavano, pazientemente, aspettando che egli parlasse. - Qui mi manda Gaetano Galiero, il tagliatore di guanti… - Bel galantuomo! - esclamò donna Concetta, mettendo una striscetta di carta nel suo anello da cucire, che le andava largo. - E se non fate parlare la gente, non ci capiremo mai! - soggiunse il gobbo, filosoficamente. - Gaetano ha grandi obblighi con voi, ma voi siete una bella femmina che non vi manca giudizio e gli perdonerete le sue mancanze. Beh! quello che non accade in un anno, accade in un giorno e quando meno ve lo aspettate, Gaetano è qui, coi denari. - Sì, sì… - dissero sogghignando le due sorelle. - E poi lo vedrete. Ma io sono venuto per parlarvi di un affare mio. Io faccio, ringraziamo Iddio, un'arte igliore di quella che fa Gaetano: sto vicino al caffè De Angelis, lla Carità, e non faccio per dire, ma pulisco le scarpe alla miglior nobiltà di Napoli. Quello che voglio guadagnare, guadagno. Io me ne rido della malannata. Quando piove, mi metto sotto l'arco della porta, nel caffè: e più fango si fa nella strada, più scarpe pulisco. Oh belle femmine mie, se avessi la testa buona, a quest'ora sarei un signore! Mah! Ora, per combinare un affare grosso assai, che mi può far mettere la carrozza, io ho bisogno di certi soldi: e poiché voi fate di questi piaceri alla gente, sono venuto a proporvi l'affare. Mi servono quaranta lire, da scontare a tre lire la settimana. Questo, sino a quando non ho fatto la combinazione rossa, perché allora vi restituisco capitale, interesse e vi fo pure un bellissimo regalo. - Non v'incomodate, - disse ironicamente donna Concetta. - Se non li prestate a me, questi soldi, a chi li volete prestare? - rispose audacemente lo sciancato. - Se sto una giornata innanzi al caffè, io mi guadagno due lire, lo sapete? Neanche un giovane i barbiere può dire questo! D'altronde quel posto la mia fortuna, è la mia bottega: se me ne vado di là, non guadagno un soldo, non vi posso scappare, dunque! Domandate al caffettiere, chi è Michele. I denari vostri nelle mie mani stanno sicuri. Il caffettiere vi dirà tutto. - Se il caffettiere garantisce per voi, io vi do i denari, - disse subito donna Concetta. - E allora me li darebbe lui, - obbiettò lo sciancato. - No, no, Michele non ha bisogno di garanzia. Venite domani che è sabato, alle nove, dal caffettiere: e sentirete il suo discorso: e vedrete che mi date non quaranta, ma sessanta lire. Sono galantuomo, sto in faccia a un pubblico, femmine mie. - Bè, ci vediamo domani. Sapete l'interesse? - disse donna Concetta. - Quello che voi volete, - replicò galantemente lo sciancato. - Anche una tazza di caffè, con una pagnottina dentro: al caffè sono padrone io! Avete comandi? - Preghiere sempre, - mormorarono le due donne, mentre egli se ne andava. Dopo una pausa di lavoro, Caterina osservò: - Gli hai detto di sì troppo presto. - Farò fare la garanzia al caffettiere. Eppoi è gobbo: porta fortuna, - soggiunse donna Concetta. - Se ci portasse fortuna, dovrebbe finire per noi questa vita così dura a scorticare, - riprese Caterina, che volentieri si lamentava della sua fortuna. - Eh! - disse l'altra sospirando. - Non abbiamo un uomo che ci dia mano forte, mai; perciò la giustizia ce la dobbiamo fare da noi, sempre. Ciccillo e Alfonso sono due scemi, è inutile… - Che ci vuoi fare! - sospirò l'altra. E le due sorelle, lasciando di lavorare, con le mani abbandonate sulla coperta rossa, si misero al loro segreto cruccio, a quella pena tormentosa che non confessavano a nessuno, a quei due fidanzati loro, due buoni operai dell'arsenale, i due fratelli Jannaccone, che le amavano, ma che non volevano sposarle, nessuno dei due, per il mestiere che esse facevano. Da tre anni esse combattevano quella lotta fra l'amore e il denaro, ma Ciccillo e Alfonso Jannaccone non volevano saperne: lo sposare una tenitrice di gioco piccolo una imprestatrice di denaro a usura, li avrebbe fatti vergognare innanzi a tutto l'arsenale. Erano due operai buoni, semplici, molto taciturni, che non spendevano la loro giornata, avevano qualche soldo da parte e venivano a passare la serata presso le due sorelle. Ostinati in quell'idea, una delle poche che avevano nel loro ingenuo cervello, nessuno slancio di amore e nessuna cupidigia di denaro arrivava a vincerne la cocciutaggine. Varie volte, le due sorelle, accanite al guadagno, offese aspramente da quel rifiuto, avevano litigato coi due fidanzati, li avevano cacciati di casa, ma per breve intervallo: la pace veniva fatta così, naturalmente. Caterina e Concetta promettevano di smettere. Ne dovevano avere del denaro e molto, da parte, le due donne, ma non ne parlavano mai: ed esse stesse, malgrado l'amore per Alfonso e Ciccillo Jannaccone, ritardavano ancora il matrimonio, per guadagnare ancora delle lire, non sapendo spezzare quel giro di affari usurarii, non volendo rinunziare ai vecchi crediti, non resistendo a crearne dei nuovi, e non intendendo la vergogna dei due innamorati, dolendosene come di una ingiustizia. Ah, pareva loro di fare atto di umanità, alle due sorelle, prestando il denaro a usura, facendo giuocare dei biglietti del lotto a un soldo e a due soldi, pareva loro atto di carità: poiché la povera buona gente napoletana, scorticata, strozzata, che prendeva il denaro da Concetta per darlo al Governo e a Caterina, le ringraziava, piangendo, benedicendole! Quando eran ben sole, nei momenti di espansione, le due sorelle si lagnavano del loro destino: altri che non fossero i due fratelli Jannaccone sarebbero stati assai felici di avere delle future spose così industriose, laboriose, con una dote: ma i due operai si ostinavano, invincibili, insistendo che non le avrebbero sposate mai, mai, se non lasciavano quel modo di guadagnar denari. Specialmente Ciccillo, il fidanzato di Caterina, la tenitrice di gioco piccolo, ra duro come una pietra; anzi, ogni tanto, le diceva: - Caterina, un giorno o l'altro tu vai in carcere. - Pago per aver la libertà provvisoria ed esco! Poi, l'avvocato mi fa assolvere, - diceva lei, che conosceva la legge e gl'intrighi della legge. - Se vai in carcere, non vedi più la mia faccia, - ribatteva Ciccillo, accendendo un mozzicone. Sì, quando erano sole, sole, le due sorelle si disperavano. Ma l'amore dei quattrini era così forte, che faceva loro prorogare sempre l'epoca del doppio matrimonio. Pazientemente, i due operai aspettavano, comperando coi loro risparmi, lentamente, i mobili per mettere su casa, insieme, poiché non si erano mai divisi. - A Pasqua, - dicevano le due sorelle, pensando di finirla con tutti i loro impegni, per quell'epoca. - A Pasqua, - annuivano i due fratelli. - A settembre, - dicevano esse, nell'aprile, essendosi invescate più che mai in quella rete di sordidi affari. E sempre, quando erano sole, le due sorelle si lagnavano di essere maltrattate dal destino, di essere misconosciute dagli uomini che amavano e concludevano: - Ciccillo e Alfonso sono due scemi. Ma anche in quel giorno non rimasero a lungo sole. Il triste mestiere continuò sino a sera. Venne un pittore di santi, pittore nel senso che dipingeva il volto, le mani e i piedi dei santi di legno e stucco delle mille chiese di Napoli e di provincia: un pittore malaticcio, che chiedeva denaro e a cui fu concesso solo sulla promessa che avrebbe portato, l'indomani, una statuetta della Immacolata Concezione in abito azzurro cosparso di stelle, protettrice di Concetta, l'usuraia. Venne, disperatamente, Annarella, la sorella di Carmela, a chiedere in prestito, proprio per atto di carità, due lire per quel giorno, voleva fare un po' di brodo al suo bimbo malato: e lì una scena orribile avvenne, le due donne non credevano alle parole di Annarella, le voleva ancora burlare, ancora una volta, poiché ella e Gaetano suo marito avevano un grosso debito e non si vergognavano di prendersi il sangue della povera gente e di non restituirlo: Annarella strillava, piangeva, gridava che sarebbe andata a prendere il suo bambino, bruciante di febbre, per farlo vedere alle due sorelle; avrebbe fatto pietà ai sassi; e singhiozzando, gridava che anche loro avevano ragione, che tutti avevano ragione, ma che si movessero a pietà di quella creaturina che non ne aveva colpa, ora che era svezzata ella avrebbe trovato un altro mezzo servizio, se la Madonna l'aiutava: e infine, per fastidio, per non udire quei gridi, quei pianti, Concetta le diede quelle due lire, giurando e sacramentando che erano le ultime, per quanto era vero quel venerdì di marzo, in cui, forse, era morto Nostro Signore, - poiché non si sa in quale venerdì di marzo sia morto Gesù! Altra gente, fra imbarazzata, rabbiosa e dolente, venne per pagare vecchie rate d'interessi per offrire roba in pegno, per chiedere nuovo denaro; e i dibattiti passavano dalla umiltà all'asprezza, dalla minaccia alla preghiera, dalle promesse solenni alle transazioni vigliacche. Discutendo, litigando, minacciando, Concetta continuava a lavorare, dirimpetto a sua sorella, mentre veniva la sera: e non si stancava, con la parola sempre pronta ed efficace, con la frase sempre lucida, con la intuizione immediata del buono o del cattivo pagatore. Solo per un visitatore discreto, vestito pulitamente, con la faccia rasa dei servitori di buona casa, ella si levò e andò con lui, nella stanza attigua; dove parlottarono a bassa voce, qualche tempo. Si udì il solito rumore di chiavi che stridevano nelle serrature, di cassetti aperti e richiusi; il servitore uscì, con la sua aria riservata, seguito da Concetta. - È il maestro di casa del marchese Cavalcanti? - domandò Caterina quando egli fu partito. - Sì, - disse senz'altro Concetta. Cadeva quella dura e faticosa giornata di venerdì. Le due sorelle, ora che annottava, avevano lasciato di trapuntare la coperta: e Caterina, per la gran giornata del sabato che era la sua, preparava certi grossi registri, scritti a caratteri informi, tutti cifre, in cui ella si raccapezzava benissimo. Sotto il lume a petrolio, chinata sovra il registro, pensando, muoveva le labbra: e Concetta, vedendola immersa nel suo grave lavoro settimanale, taceva, rispettando quella sagace preparazione, sentendo che da essa, l'indomani, sarebbero sgorgati denari, denari, denari.

Tutti avevano aperte le porte di casa, tutti erano alle finestre: ma il racconto confuso e tremante che facevano Francesco e Giovanni, aveva tanto comunicativo spavento, che nessuno osava penetrare nella casa aperta del marchese Cavalcanti e nella cucina dove il cadavere giaceva, abbandonato. Nel salone, le due donne si tenevano sempre strette, tremando, mentre Margherita cercava di vincersi per amore della sua padrona, il cui corpo, nelle sue braccia, ella sentiva a volte ammollirsi come per mancanza di spiriti vitali, a volte irrigidirsi, come in un impulso di convulsione nervosa. Ma il gran susurro del palazzo, dal portone era giunto anche in casa del dottore, che aveva il cuore sempre fremente nell'aspettativa di una catastrofe: messo il capo alla finestra, vide gente dovunque e confusamente arrivò, anche a lui, la vociferazione che s'era trovato un morto, ucciso, nel pozzo del palazzo Rossi e che il morto era nella cucina di casa Cavalcanti. Giusto, Giovanni, ripensando alle due donne lasciate sole, pentito di quel gran chiasso, intendendo che tutto quello scandalo sarebbe ricaduto sulla famiglia Cavalcanti, risaliva le scale: - Veramente, ci è un morto? - gli chiese Amati, non arrivando a nascondere, malgrado la propria forza, il turbamento che lo aveva colpito. - Veramente, Eccellenza, - disse il cameriere, con la disperazione negli occhi e nella voce. - Chi lo ha visto? - Tutti, Eccellenza. - Chi, tutti? Anche la signorina? - Anche la signorina. Il dottore gli gettò una occhiata terribile ed entrò nella casa fatale, dove un fiato tragico aveva sempre soffiato dal primo momento che vi aveva posto il piede, dove tutte le lugubri bizzarrie parevano possibili. Girò per le stanze, come un pazzo, in cerca della fanciulla e la trovò seduta in un seggiolone del salone, così pallida, così stravolta e così muta che Margherita, sgomenta, le si era inginocchiata dinanzi, tenendole le mani, pregandola che le dicesse una parola, solo una parola. Bianca Maria diè un'occhiata ad Amati e parve non lo riconoscesse, tanto rimase fredda e inerte, fissa nella sua espressione di spavento. - Bianca! - disse il medico, con voce dolce. Ella seguitò a tacere. - Bianca! - replicò lui, più forte. E le prese la mano: a quel lieve contatto ella fremette, diè in un grido, ritornando in sé stessa. - Amor mio, amor mio, parla, piangi, - suggerì lui, guardandola magneticamente, cercando di trasfonderle la sua volontà, la sua forza, il suo coraggio. E a un tratto, come se quella volontà e quella forza le avessero dissuggellate le labbra, ella si mise a gridare: - Il morto, portatelo via, il morto! - Ora, ora, non temere, lo portiamo via, sta calma, - le disse il medico. - Il morto, il morto! - gridava lei, con la faccia fra le mani, convulsamente. - Per carità, portatelo via, questo morto, o mi porterà via! Non mi fare portar via, te ne supplico, amor mio, se mi vuoi bene! Con uno sguardo il dottore raccomandò la fanciulla a Margherita e, seguito da Giovanni, andò in cucina: in anticamera vi erano già due o tre persone che parlavano di chiamare il delegato, il portiere, la portiera, le serve di casa Fragalà e di casa Parascandolo, Francesco il facchino, ma nessuno di essi, pure seguendo il dottore, osò entrare nella cucina: lo lasciarono andar solo, aspettando nell'anticucina, in silenzio, vinti, di nuovo, da una gran paura. Il medico, pur avvezzo ai cadaveri, scosso da quella catastrofe che lo feriva intimamente, demoralizzato dal pensiero delle sue conseguenze, entrò in cucina, in preda al più profondo dei turbamenti, che la vista di quella fronte sanguinante, di quelli occhi piangenti, di quelle mani legate e sanguinanti, di quel torso livido, ferito e sanguinante, fecero crescere a dismisura. Ma il sangue freddo dello scienziato, avvezzo alla morte, riprese il sopravvento e accostandosi, egli vide che quel capo aveva la corona di spine: e in una stupefazione immensa, egli comprese tutto. Era l'Ecce Homo. a mezza statua di legno, che rappresentava alla sua naturale grandezza il Divin Redentore legato alla colonna, scolpita e dipinta magistralmente, avea tutto l'orribile aspetto del cadavere sanguinante: e l'acqua del pozzo in cui era stata immersa, ne aveva stinto il color di carne e il vermiglio del sangue, facendolo colare, nella duplice magica apparenza dell'assassinio e del l'annegamento. Pure, il dottor Amati si era sentito stringere il cuore, allo scoprire quella lugubre farsa, quella miscela di crudeltà e di grottesco: e dominata totalmente la stupefazione, l'uomo forte intendeva soltanto l'immensa amarezza di Bianca Maria inferma, addolorata, ferita forse a morte, per una tetra, mistica e puerile follia, in cui vaneggiava il marchese Cavalcanti. Adesso urgeva soccorrerla. - È l'Ecce Homo, - disse brevemente, uscendo fuori, alla gente raccolta nell'anticucina. - Voi che dite, Eccellenza! - gridò Giovanni provando lo stesso senso di stupefazione, aumentato dal dolore di quel sacrilegio. - È l'Ecce Homo, - egli ripetè, guardando tutti coloro freddamente, con quella sua aria imperiosa che non ammetteva replica. - Andate in cucina, asciugatelo e riportatelo nella cappella. Coloro si guardarono, consultandosi, sanati dal terrore del morto, presi dall'orrore di quell'oltraggio alla Divinità. - Dopo farete venire il prete, a benedire, - egli disse, conoscendo il cuore del popolo napoletano. Andò di là, nel salone. La fanciulla era ancora distesa sul seggiolone, con gli occhi coperti dalle mani, mormorando sempre, fra sé: - Il morto, il morto, amore caro, fate portare via il morto... - Non vi era nessun morto, cara, - egli le disse, con quella dolcezza che gli veniva dalla infinita pietà. - Oh sì, sì, vi era.. . - mormorò ella, melanconicamente, crollando il capo, quasi che nulla valesse a persuaderla del contrario. - Non vi era nessun morto, - replicò lui, seriamente, sentendo il bisogno di domare quel vagabondaggio della ragione. E cercò di toglierle le mani dagli occhi: ma esse s'irrigidirono e una espressione di spasimo stirò la fisonomia della ragazza. - Guardatemi un poco, Bianca Maria, - le mormorò lui con voce insinuante. - Non posso, non posso, - disse lei, con voce triste e misteriosa. - E perché? - Perché potrei vedere il morto, amore, amore mio, - ella disse, sempre con quel profondo senso di mestizia che faceva venire le lagrime agli occhi del dottore. - Cara, vi giuro che non vi è nessun morto, - replicò ancora lui, con la dolce insistenza che si fa a un fanciullo malato. E intanto cercava di prenderle il polso, per sentirne le pulsazioni, per sentire la temperatura della pelle. Strano a dirsi, mentre la fanciulla pareva quasi in delirio, la mano era gelida e le vibrazioni del polso erano lente, fievoli. Egli ebbe una stretta al cuore, come se la mancanza di vita e di forza della poveretta, gli desse la prova di una decadenza continua, invincibile. Avrebbe voluto raccapezzarsi in quel morbo singolare, in cui tutto il sangue pareva diventato debolissimo e in cui tutti i nervi fremevano in una acutissima sensibilità; ma troppo il suo cuore amava Bianca Maria, perché la sua scienza conservasse la sua lucidità. Non trovava più, non trovava il segreto di quel sangue impoverito e di quella nervatura frizzante: intendeva soltanto, così, confusamente, che quell'organismo si consumava di debolezza e di sensibilità: non pensava né alle medicine, né ai rimedii eccezionali: pensava solo, confusamente, così, che egli doveva salvare l'amor suo, niente altro. Ah, sì, egli doveva strappar subito dagli artigli di quel pazzo, la povera creatura innocente a cui s'infliggevano le quotidiane paure di una follia che non si guariva; egli doveva torre via da quella miseria crescente dell'anima e del corpo, da quella fatale discesa verso l'onta e verso la morte, la purissima creatura, che sapeva solamente soffrire, e soffriva senza ribellarsi, senza lamentarsi. Egli lo doveva, subito: era un uomo, era un cristiano, doveva salvare la infelice, come altre volte, tante volte, aveva salvato gli ammalati d'idrofobia dalla morte per la rabbia, come aveva salvato, una volta, un disperato colpito dall'implacabile tetano. Subito, subito, doveva salvarla, o non si era più a tempo. Dove era il marchese, dunque, dove era il crudele, il folle che col denaro giuocava il suo nome, il suo onore e la sua figliuola? - Eccellenza, è fatto, - disse Giovanni, facendo capolino nel salone. Il vecchio servitore era pallidissimo: dopo l'impressione orrenda di quello che aveva creduto un cadavere, la grave offesa fatta dal suo padrone alla Divinità, ne aveva sconvolto l'umile coscienza religiosa. Quella figura del Redentore, con la fune al collo, sospeso giù nel pozzo, come la salma gemente sangue di un ucciso, quella immagine del pietoso Gesù, così vilipesa, gli sembrava che avesse dato il crollo alla ragione del marchese, gli sembrava che dovesse portare la maledizione della casa. E chiamò fuori Margherita, per dirle quello che era accaduto, mentre nelle case dei vicini, nelle scale, nei portone, nelle botteghe, si andava dicendo che l' Ecce Homo i casa Cavalcanti aveva fatto un miracolo, salvando un ucciso, mettendosi al posto dell'ucciso: e dovunque, in mille forme, si cavavano i numeri dal singolarissimo avvenimento. - Il morto, il povero morto... - vaneggiava la fanciulla, con la voce che le usciva come un soffio dalle labbra. - Non dite più questo, Bianca Maria, credetemi, credetemi, - soggiunse il dottore, con una dolce fermezza. Non vi era il morto: era la statua dell' Ecce Homo. Che era? - gridò ella, levandosi in piedi, guardando il dottore, con certi occhi stravolti. Egli si scosse: ma credette che questa fosse la crisi di quel lungo vaneggiamento e le ripetette, cercando domarla con lo sguardo: - Era la statua dell' Ecce Homo: ostro padre l'aveva sospesa nel pozzo, con una fune al collo. - Dio! - urlò lei, con voce potentissima, levando le braccia al cielo. - Dio, perdonateci! E cadde ginocchioni, si prostese, toccando la terra con le labbra, piangendo, pregando, singhiozzando, continuando a supplicare il Signore, di perdonare a lei e a suo padre. Nulla valse a calmarla, a farla levare di terra, dove, ogni tanto, si abbandonava, in una crisi di lunghissimo pianto: invano il dottore volle usare la dolcezza, la bontà, la forza, la violenza, non vi riescì: l'emozione di Bianca Maria cresceva; cresceva, con qualche intervallo di stupefazione, per ricominciare più forte. Ogni tanto, mentre parea che si chetasse, un rapidissimo pensiero le attraversava il cervello ed ella si abbatteva al suolo, gridando: - Ecce Homo, Ecce Homo, perdonateci voi! Il dottore assisteva, fremendo, col capo chino sul petto, sentendo l'impotenza della sua volontà, sentendo l'impotenza della sua scienza. Che fare? Aveva chiamato Giovanni e scritte due righe sopra una carta, un'ordinazione di morfina, l'aveva mandato alla farmacia: ma la stessa morfina lo sgomentava, Bianca Maria era già troppo debole per sopportarla. Ella, desolata, con una vitalità nervosa, bizzarra, si batteva il petto, mormorando confusamente le parole latine del Miserere, iangendo sempre, come se inesauribile fosse in lei la sorgente delle lacrime. Fu dopo un'ora che il marchese, silenziosamente, entrò nel salone. Era come più vecchio, più stanco, più rotto dal peso della vita. - Che ha Bianca Maria? - domandò timidamente al dottore. - Che le hanno fatto? - Voi la uccidete, - disse gelidamente il medico. - Hai ragione, hai ragione, figlia mia, sono un assassino, - strillò il vecchio. Quell'uomo sessantenne si buttò ai piedi di sua figlia, tremante di vergogna e di umiliazione, tutto sussultante di un singulto senza pianto. E sotto gli occhi del dottore la compassionevole scena si svolse: quel padre canuto, dal gran corpo cadente, pieno di raccapriccio e di dolore, piangendo le rare e brucianti lacrime dei vecchi, sentendo tutto l'orrore della sua colpa, si piegava innanzi alla giovane figliuola, chiedendole perdono, con un balbettìo infantile, proprio come il fanciullo, che sfoga nel pianto tutto il puerile pentimento del suo errore: e la figliuola fremeva ancora, per la gran ferita che le aveva aperta nell'anima la inconscia crudeltà, per la ferita che frizzava sotto l'insulto del fiele che quella crudeltà seguitava a versarvi, per la ferita frizzante sanguinante che questa umiliazione di suo padre faceva gemere ancora, più dolorosamente: e ambedue, al forte uomo la cui vita era stata sempre una onesta e nobile lotta, una continua via verso i più alti ideali, apparivano così deboli, così miseri, così infinitamente infelici, uno come carnefice, l'altra come vittima, che egli, ancora una volta, rimpianse quel tempo, in cui questa tragica famiglia Cavalcanti non aveva preso nel suo stritolante ingranaggio, il suo cuore: ma era tardi, quella miseria, quella debolezza, quella infelicità adesso lo colpivano così direttamente che lui, il forte uomo, soffriva per tutti quegli spasimi e non poteva più domare il purissimo istinto di salvazione, che era il segreto della sua nobiltà d'animo. - Perdona, figlia mia, perdona al tuo vecchio padre; calpestami, me lo merito, ma perdonami, - andava ripetendo il marchese di Formosa, in preda a un furore di umiliazione. - Non dite questo, non lo dite, io sono una misera peccatrice: cercate perdono all' Ecce Homo he avete offeso, o la nostra casa è maledetta, o noi moriamo tutti e ci danniamo...ci danniamo...per la salute eterna, padre mio, cercate perdono all' Ecce Homo. Quello che tu vuoi, figliuola mia, quello che tu m'imponi, così sia, - egli replicò, umiliandosi ancora, tendendo le braccia in atto di supplicazione, - ma l'Ecce Homo i aveva abbandonato, Bianca Maria, egli mi aveva tradito, ancora una volta, capisci? - finì di dire, lui, di nuovo in preda alla collera che lo aveva indotto all'atto sacrilego, sciagurato e grottesco. - Voi mi fate spavento, - gridò lei, indietreggiando e stendendo le braccia per non farsi toccare da lui, - voi, uomo, avete voluto punire la Divinità di Gesù!... cercate perdono, cercate perdono, se non volete che moriamo tutti dannati... - Hai ragione, - mormorò lui, sgomento, umiliato di nuovo. - Fa di me quel che vuoi, farò penitenza, ti ubbidirò come se tu fossi mia madre, sono un assassino, sono un infame! Il marchese si era buttato sopra un seggiolone, accasciato, col petto ansimante, col capo chino, con lo sguardo vitreo fisso al suolo: e la sua figliuola ritta in piedi, nel bianco accappatoio che castamente la copriva dal collo ai piedi, coi neri capelli disciolti sulle spalle, aveva l'aria trasognata e dolorosa delle sonnambule, svegliate dalle loro errabonde e soavi visioni. Il medico intervenne: - Bianca Maria, - egli disse. - Che vuoi? - ella rispose, fievolmente, mentre il padre era immerso in un profondo abbattimento. - Tuo padre è assai turbato, tu soffri: bisogna che ambedue dimentichiate questa dolorosa scena. Vuoi ascoltare un mio consiglio, umano, buono? - Tu sei la bontà e la umanità, - sussurrò ella, levando gli occhi al cielo. - Parla, ti obbedirò. - Quest'ora è stata assai triste, Bianca, ma forse essa potrà aver frutto di bene. Avete pianto, insieme, tu e tuo padre: le lacrime lavano. Per le comuni sofferenze, per il bene che vi volete, tu devi chiedere a tuo padre, non già che egli si umilii fino a chiederti perdono, ma che ti prometta, in nome di tutto quello che hai sofferto, di fare quello che tu gli domanderai, più tardi, quando sarete calmi: diglielo così, Bianca. La mobilissima faccia della fanciulla, alla parola imperiosa, calma e benevola del medico, a quella voce che aveva il magico potere di ridarle la quiete e la fede nella vita, la faccia sino allora contratta e spasimante, si andava rasserenando. L'anima sua, sconquassata e stanca, si posava. - Così sia, - ella mormorò, come se compisse ad alta voce una preghiera interiore. E avvicinandosi al seggiolone, dove giaceva disfatto suo padre, si piegò verso lui e con una tenerissima voce, gli disse: - Mio padre, voi mi volete bene, non è vero? - Sì, - disse lui. - Voi mi volete fare una grazia? - Tutto, tutto, Bianca Maria! - Una grazia sola, per il mio bene, per la salute e la felicità del mio avvenire, promettete di farla? - Tutto quello che vuoi, figliuola, sono il tuo servo... - ... È una grazia singolare, ve la dirò più tardi quando saremo ritornati in grazia di Dio, quando saremo più tranquilli.., ho la vostra parola, mio padre, voi non avete mai mancato... - Hai la mia parola, - egli disse, affannato, come se non reggesse a quel dialogo. Ella intese. Si piegò e con quel suo consueto atto di sommissione filiale, gli sfiorò la mano con le labbra: egli le toccò la fronte, lievemente, in segno di benedizione. Ella si appressò al dottore, gli tese la mano e lo guardò con tale intensità di amore, che egli impallidì, e per nascondere la sua emozione, si abbassò a baciarle la mano. Lentamente, trascinando la persona sottile di cui le forze mancavano, ella si allontanò, uscì dal salone, lasciando i due, soli. Il vecchio pareva concentrato in profonde e tristi riflessioni, poiché ogni tanto levava la faccia al cielo in atto di angoscia e la riabbassava, crollando il capo, quasi scorato. Ma il medico vedeva che l'ora era giunta. - Potete ascoltarmi? - gli domandò, freddissimamente. - Preferirei… preferirei un altro giorno..., - gli rispose, con voce fioca, il marchese. - Meglio oggi, - insistette Amati, con la stessa freddezza dominatrice. - Sono assai turbato… assai… - Forse in quello che vi dirò, avrete modo di placarvi. Voi sapete se vi sono devoto… - Sì, sì..., - rispose l'altro, vagamente. - Io non so dire molte parole, per dimostrare la mia devozione. Cerco, quando posso, di agire devotamente. Vi sono sinceramente, sinceramente affezionato... affezionato a entrambi... - Lo sappiamo: il nostro debito di gratitudine è grande… - Non parlate di ciò. È da tempo che volevo dirvi una mia speranza e non osavo. Sapete meglio di me, che nessun interesse materiale può guidarmi. Vedete, marchese… Non vorrei richiamarvi alla memoria il passato, è troppo doloroso, ma è necessario il farlo. Voi e questa fanciulla, da anni, siete in dolorose condizioni… oh! non per colpa della fanciulla, certo! Le vostre intenzioni sono affettuose, sono sante, hanno uno scopo alto che tutti gli uomini onesti debbono approvare, la rifazione della vostra casa e della vostra fortuna, la felicità offerta a vostra figlia, sante intenzioni, non lo nego: io stesso vi ammiro in questo desiderio così nobile… Il marchese aveva levato la testa e ogni tanto sogguardava il dottore, approvando con un battito di palpebre tutto quanto egli andava dicendo, cautamente, delicatamente, per non offendere, per non abbattere di più quel vecchio, la cui umiliazione tanto lo aveva fatto soffrire. - Ma i mezzi, certo, - riprese il dottore, continuando, con la stessa cautela, - erano rischiosi, azzardati, pericolosissimi e l'ardore con cui desideravate la fortuna, vi ha fatto trascendere, vi ha fatto dimenticare tutte le sofferenze, che inconsciamente seminavate intorno. Non vedete, marchese? Avete intorno la malattia, la miseria, l'avete intorno e in voi: la passione vi ha portato via, e nel precipizio cade con voi la più pura, la più bella, la più cara fra le donne, vostra figlia! - Povera figliuola, povera figliuola, - mormorò pietosamente il marchese. - Voi amate vostra figlia, non è vero? - chiese il dottore Amati, volendo far risuonare tutte le corde del sentimento. - Io non amo che lei sopra tutte le cose, - disse subito il vecchio marchese Cavalcanti, con le lagrime agli occhi, nuovamente. - Ebbene, marchese, vi è un mezzo, per porre quella giovine esistenza innocente al coperto di tutte le angosce fisiche e morali che la consumano; vi è un mezzo, per toglierla dall'ambiente di malattia, di tristezza, di decente ma penosa miseria, in cui ella soffre per tutte le sue fibre; vi è un mezzo, per assicurarle un avvenire di salute, di agiatezza, di pace, di serenità come merita quell'anima purissima; vi è un mezzo, per cui ella può rivivere e questo mezzo è nelle vostre mani... - Ho tentato, lo sapete, - disse desolatamente il marchese Cavalcanti, fraintendendo, - ma non sono riescito. - Voi non m'intendete, - riprese il medico, frenando a stento la sua impazienza, poiché vedeva sempre acciecato il marchese. - Non vi parlo del lotto che è stato il gran disastro della vostra famiglia, che è il cruccio di vostra figlia, che è il tormento di tutti coloro che vi amano. Come potete supporre, che io vi parli del lotto?... - Eppure, è il solo mezzo per far denari, molti denari: solo con esso, io posso salvare Bianca Maria. - V'ingannate, - replicò sempre più freddamente il dottore. - Vi parlo di altro: si può trovare altrove la quiete e la fortuna. - Non è possibile: le fortune che si possono guadagnare al lotto, non hanno limite... - Marchese, qui si parla seriamente. Queste follie cabalistiche mi lasciano freddo, anzi mi esasperano, quando penso ai dolori che cagionano: posso ammetterle come intenzioni nobili, ma esse rappresentano una passione imperdonabile, non ne parlate giammai con me, giammai! Cavalcanti aveva levato la testa e la fisonomia, fino allora molle e disfatta, si era fatta glaciale e dura. Quel giammai, ronunciato con fermezza da Antonio Amati, gli aveva fatto aggrottare un po' le sopracciglia. - Di che mezzo parlavate voi? - egli domandò con una voce strana, dove Amati udì nuovamente l'ostilità. - Forse oggi siamo troppo alterati... tralasciamo, - mormorò il dottor Amati, che si vedeva in procinto di perdere una grave partita. - Domani. - Non ritardiamo, - insistette con fredda cortesia, il marchese Cavalcanti, - giacché si tratta di Bianca Maria, sono pronto. - Datemi vostra figlia in moglie, disse rapidamente ed energicamente il dottor Amati. Il marchese Cavalcanti chiuse gli occhi; un momento, quasi che una vivida luce lo abbagliasse, come se volesse nascondere il suo sguardo lampeggiante: non rispose. - Credo di poter offrire a vostra figlia una posizione degna del suo nome, - riprese subito il medico, deciso ad andare in fondo, - poiché il mio lavoro mi ha dato denaro e reputazione, è inutile esser modesto: lavorerò ancora, molto di più, perché ella sia ricca, ricchissima, felice, inattaccabile, protetta dal mio amore e dalla mia forza... - Voi amate Bianca Maria? - disse il marchese, senza guardare in viso il suo interlocutore. - Io l'adoro, - disse l'altro, con semplicità. - Ed ella vi ama? - Sì. - Voi mentite, signore, - rispose con voce profonda, il marchese Cavalcanti. - Perché insultarmi? - chiese il medico, deciso a sopportar tutto. - Un insulto non è una risposta. - Vi dico che mentite e che nulla vi autorizza a credervi amato. - Vostra figlia mi ha detto d'amarmi. - Bugia! - Me lo ha scritto. - Bugia! Dove sono le lettere? - Ve le porterò. - Sono false. Tutte bugie! - Domandate a lei. - Non lo domanderò. Mia figlia non può amare,senz'averlo detto a suo padre. - Domandateglielo. - Non si è confidata con me: voi mentite. - Domandate a lei. - Mi avrebbe già parlato: mia figlia è obbediente, mi dice tutto. - Non pare che vi dica tutto. - Sono suo padre, perdio! - Voi lo avete spesso dimenticato: essa, qualche volta, lo avrà dimenticato. - Dottore, non vogliate insistere, - fece il marchese, con la sua fredda, ironica cortesia. - Insisto, perché è il mio diritto. Non ho mentito. Del resto, io ho parlato chiaro. Mi offro a vostra figlia che è ammalata, povera, triste, come marito, come protettore, come amico, per guarirle l'anima e il corpo, per amarla e per servirla, come ella merita. Volete darmi vostra figlia? A questo dovete rispondere. - Non ve la voglio dare. - Perché? - Non ho dovere di spiegarvi le mie ragioni. - Siccome il rifiuto mi offende, ho diritto di chiederle. Forse perché non sono nobile? - Non è per questo. - Non mi trovate giovane? - Neppure per questo. - Avete una particolare disistima di me? - No. - E perché, allora? - Ripeto, non debbo dirvi le ragioni. Non posso rispondervi che questo: no. - Neppure aspettando? - Neppure. - Senza nessuna speranza? - Nessuna. - Per nessuna circostanza? - Giammai, - conchiuse il marchese Cavalcanti. Tacquero. Ambedue, diversamente straziati, erano straziati. - Voi volete veder morta la vostra figliuola, - disse il medico, dopo aver pensato. - Non temete, non morrà; vi è una forza che la sostiene. - Domani, essa sarà all'elemosina, una Cavalcanti! - Io la farò ricca a milioni, signore; ma io soltanto ho il dovere di arricchirla. - Vi ho detto che l'amo. - Nulla può agguagliare la mia tenerezza. - Ma il destino delle donne, delle fanciulle è l'amore, è il matrimonio, sono i figli! - Delle donne comuni, volgari, non di Bianca Maria Cavalcanti. Ella ha un'altissima missione, la compirà. - Marchese, voi perderete quella fanciulla. - Io la salvo: e le assicuro una fama immortale e una vita immortale. - Marchese. io ve ne prego, vedete come ve ne prego, io che non ho mai pregato nessuno: non dite di no, così, ostinatamente, senz'aver neanche interrogata Bianca. Voi le preparate un nuovo grandissimo dolore: voi togliete, a me la possibilità di vivere per lei e offendete un galantuomo, così, senza una ragione. Ve ne prego, pensateci, non vi decidete in questo momento. - O domani, o poi, è lo stesso. È un no, sempre un no, niente altro che un no. Non avrete la marchesina Bianca Maria Cavalcanti, - e sghignazzò diabolicamente. - Ripensateci ancora, marchese. Se mi dite ancora di no, io dovrò allontanarmi, per sempre. Non recidete così bruscamente i nostri legami. - Siete libero di allontanarvi, non ci vedremo più; forse, era meglio che non ci fossimo mai visti. - È vero. Me ne andrò. - Andate pure. Addio, signore. - Prima di andarmene, però, io voglio interrogare la vostra figliuola, qui, voi presente. Non siamo più nel Medio Evo: anche la volontà della fanciulla, conta. - Non conta. - V'ingannate. Io la interrogherò. Andrò via, quando essa mi dirà di andare. Chiamatela, se siete uomo leale, se siete gentiluomo. Il vecchio signore, interpellato in nome della lealtà, si rizzò e suonò il campanello, dicendo a Giovanni di far venire la figliuola. I due nemici stettero in silenzio, fino a quando ella comparve. Con la facilità dei temperamenti estremamente nervosi, ella aveva riacquistata tutta la sua calma: ma un'occhiata rivolta alle due persone che amava, sconvolse il suo spirito, immediatamente. - Lascio a voi la parola, - disse con gentilezza il medico, inchinandosi al marchese. - Bianca Maria, - cominciò con voce grave il padre, - il dottor Antonio Amati dice di amarvi: lo sapete voi? - Sì, mio padre. - Ve lo ha detto? - Sì, mio padre. - Avete tollerato che ve lo dicesse? - Sì, mio padre. - Voi avete commesso un grave errore, Bianca Maria. - Tutti erriamo, - ella mormorò, guardando Antonio Amati, per prender coraggio. - Ma vi è qualche cosa di molto peggio. Egli dice che voi lo amate. Io, in volto, gli ho ripetuto che egli mentiva, che voi non potevate amarlo. - Perché lo avete chiamato mentitore? - È mai possibile che tu abbia smarrito ogni pudore, amando costui e dicendoglielo? - Anche mia madre vi amava, e ve lo ha detto, ed era una donna pudica! - Non divergere, non chiamare testimonianze, rispondi a me, a tuo padre: tu ami questo dottore? - Sì, - ella disse, aprendo le braccia. - Io non ti perdonerò mai questa parola, Bianca Maria. - Che Dio sia più misericordioso di voi, mio padre. - Dio castiga i figliuoli disobbedienti. Il dottore Antonio Amati mi ha cercato te in isposa. Gli ho risposto di no, di no, per adesso, di no, per domani, di no, per sempre. - Voi non volete che io sposi il dottor Amati? - No, non voglio. È vero che neppure tu lo vuoi? Ella non rispose: due grosse lacrime le rigarono le guance. - Rispondete, signorina, - disse il medico, con tale angoscia nella voce, che la poveretta fremette di dolore. - Non ho nulla da dire. - Ma non avete detto che mi amate? - Sì: l'ho detto: lo ripeto. Vi amerò sempre. - E mi rifiutate? - Non vi rifiuto: è mio padre che vi rifiuta. - Ma voi siete libera, non siete una schiava; ma le fanciulle hanno diritto di scelta; ma io sono un galantuomo. - Voi siete l'uomo più buono e più onesto che io abbia mai conosciuto, - diss'ella, congiungendo le mani gracili, in atto di preghiera. - Ma mio padre rifiuta, io debbo ubbidire. - Voi sapete, che mi date il più grande dolore della mia vita? - Lo so: ma debbo ubbidire. - Voi sapete che spezzate la mia esistenza? - Lo so: non posso fare altrimenti, mia madre mi maledirebbe dal cielo, mio padre mi maledirebbe sulla terra. So tutto: debbo ubbidire. - Rinunziate alla salute, alla felicità, all'amore? - Rinunzio, per obbedienza. - E tal sia! - gridò lui, con un atto energico, quasi buttasse via tutta la sua debolezza. - Non diciamo più che una parola: addio. - Voi ve ne andate? - disse ella, tremando come un albero scosso dalla tempesta. - Debbo andare: addio. - Partite? - Sì: addio. - Non tornerete più? - Mai più. Ella guardò suo padre: egli era impassibile. Ma tanta disperazione ella sentiva in sé, ella sentiva nel cuore di Antonio Amati, che tentò ancora: - Poc'anzi, mio padre, mi prometteste in un momento di pentimento e di confusione, che avreste fatto tutto quello che voglio io, e io vi chiesi di fare una sola cosa, una sola. È questa. La parola di un gentiluomo, di un Cavalcanti, è cosa sacra. Manchereste? - Ho le mie ragioni: Dio le vede, - disse misteriosamente il marchese. - Negate? - Sempre. - Nulla può indurvi? Né le nostre preghiere, né il bene che mi volete, né il nome di mia madre, nulla v'induce? - Nulla. - Egli dice di no, amore mio, - mormorò ella, guardandosi intorno, con l'occhio smarrito. Ma Antonio Amati era troppo mortalmente ferito, per provare più compassione delle sofferenze altrui. Adesso non lo teneva che un solo desiderio, quello delle persone forti che, chiusa nell'anima la gran catastrofe di tutta la loro vita, non pensano che a fuggire, a fuggire nella solitudine, sdegnose di sterile conforto. Aveva bisogno dell'ombra, del silenzio, dove nascondersi per piangere, per urlare di dolore. La fanciulla innanzi a lui era l'immagine della desolazione, ma egli non vedeva più, non sentiva più: ogni compassione era sparita dal suo cuore, egli provava tutto l'implacabile egoismo delle immense sofferenze. - Amore mio, amore mio, - ripetette ancora lei, cercando di dar forma alla passione che l'angosciava. - Non pronunziate queste parole, Bianca Maria, - egli disse con l'amaro sogghigno dei delusi, - non servono, non ve le chiedo. Abbiamo parlato anche troppo. Lasciatemi andare. - Restate ancora un minuto, - diss'ella, come se si trattasse di arrestare, per un momento, la morte. - No, no, subito. Addio, Bianca Maria. Egli s'inchinò davanti al marchese, profondamente: il feroce e impassibile vecchio che niente aveva potuto scuotere, i cui occhi non vedevano più altro che le sue pazze visioni, gli rese il saluto. Quando il medico passò innanzi alla fanciulla, per uscire dal salone, costei gli tese la mano, umilmente: ma il dottor Amati non prese quella mano. Ella fece un atto di rassegnazione e guardò il medico con tanta infinita passione, quanta ne può mettere, nello sguardo, l'esiliato che abbandona per sempre la patria. Ma non era più tempo di parole e di saluti, fra loro: violentemente divisi, si lasciavano per sempre, le parole e i saluti erano inutili. Egli si allontanò, seguito dallo stesso magnetico sguardo di Bianca Maria, senza voltarsi indietro, andandosene solo, al suo amaro destino. Ella tese l'orecchio per ascoltare quel passo adorato, che non avrebbe più udito, mai più: udì anche la porta di entrata che si richiudeva, discretamente, come la porta di un carcere misterioso. Tutto era finito, dunque. Il padre suo era seduto nel seggiolone, pensoso, ma calmo, appoggiando la fronte a una mano. Quietamente, ella venne a inginocchiarsi presso suo padre e chinando il capo, gli disse: - Beneditemi. - Dio ti benedica, come io ti benedico, Bianca Maria, - disse piamente il marchese Cavalcanti. - La vostra figliuola è morta, - ella mormorò, e aprendo le braccia, cadde indietro, riversa, livida, fredda, immobile.

L'usuraio, freddo, continuava a fumare le sue sigarette, mentre l' assistito tremato di forze, aveva abbandonato la testa sulla spalliera della sedia. Quella casa che era stata il carcere di un mese, aveva adesso anche l'orrido aspetto della sordidezza, e quella luce artificiale di lampada, in pieno giorno, stringeva il cuore, simile a fiamma di cerei intorno a una bara. In realtà, don Pasqualino pareva un morto. - E vi siete messi in tanti, contro uno? - domandò lo strozzino, senza rivolgersi direttamente a nessuno. - Perché non ha dato prima i numeri? - strillò Colaneri, raggiustandosi il colletto con un moto pretino. Nessuno gli avrebbe fatto niente. - Queste sono cosa da galera, capite? - disse l'usuraio, assai freddamente. - Non parlate di galera, voi! - fischiò la voce dell'ex-prete, - voi ci dovreste andare venti volte. L'altro si strinse nelle spalle e: - Don Pasqualino, avete la forza di levarvi? - chiese all' assistito. - Vi voglio portar via. I quattro si guardarono, subitamente pallidi. Era naturale che, scoperta la cosa, l' assistito e ne andasse: ma l'idea che egli venisse tratto all'aria aperta, in libertà, potendo andare e venire, raccontando quello che gli era accaduto, sfuggendo alle loro vessazioni, li gettava in un profondo sgomento. - Non ho la forza di muovermi, cavaliere, - disse don Pasqualino, lamentandosi. - Se mi volevano uccidere, non potevano trovare un miglior modo.., eh, Dio glielo renderà, a tutti - e sospirò profondamente. Bussarono, due volte, alla porta. E le altre due coppie entrarono, Ninetto Costa e l'avvocato Marzano, Gaetano il tagliatore di guanti e Michele il lustrino. Non contenti di venire ogni giorno, ogni due ore, per turno, a domandare i numeri all' assistito, on la insistenza monotona del trappista che dice all'altro trappista, bisogna morire, l venerdì vi era sempre riunione plenaria: era la tortura in massa, la tortura di coloro che sono caduti in fondo all'abisso e ancora vogliono sollevarsi: la tortura di tutti coloro in cui imperversa una passione e che più non vedono lume. Anzi, la loro ostinazione feroce era cresciuta in ragione della mala azione che avevano consumata e che consumavano contro don Pasqualino: invece di sentir rimorso, provavano una collera profonda, che neanche questa loro violenza fosse riescita a nulla, poiché non uno dei numeri, dati simbolicamente o dati proprio come cifra dall' dall'assistito urante la sua cattività, era venuto fuori. La prima doccia fredda, sulla loro aberrazione, fu la presenza di don Gennaro Parascandolo: fu allora solamente che videro la tristezza e la sudiceria del carcere dove avevano tenuto chiuso quell'uomo, e la crudeltà dipinta nella faccia del carceriere dottor Trifari, e le sofferenze dipinte nella faccia e nella persona di quel disgraziato sequestrato: allora solo intesero che tutti loro potevano esser processati per tale delitto e che erano alla mercè di don Pasqualino de Feo e di don Gennaro Parascandolo. Muti, freddi, attoniti, con gli occhi bassi, non chiedevano neppure come fosse stato scoperto quel carcere. Sentivano adesso quel grave peso sul cuore che è il castigo primo, morale, intimo della colpa. Più di tutti era avvilito il marchese Cavalcanti, egli si rammentava di aver condotto colà l' assistito, edeva già il suo nome trascinato dalla questura alle carceri, dalle carceri al tribunale. Adesso i cabalisti volgevano delle occhiate supplichevoli ai due arbitri del loro destino. Don Gennaro, flemmaticamente, fumava la sua sigaretta. - Anzi tutto, dottore, - egli disse, buttando in aria il fumo, - smorzate questo lume e aprite le finestre. - Io non accetto ordini! - gridò Trifari, che era il solo indomito ed era furioso di vedersi sfuggire la preda. - Volete proprio andare a San Francesco? - domandò quietamente l'usuraio, accennando alla maggior prigione napoletana. - Dovrebbero metterci voi! - urlò lo sfegatato cabalista, che era diventato mezzo pazzo, a furia di sorvegliare don Pasqualino. - Aspetto prima che mi paghiate quelle molte lire che mi dovete, - osservò lo strozzino. - State fresco, - mormorò Trifari, sfacciatamente. - Eh, qualcuno pagherà, vostro padre, vostra madre, di fronte alla querela per truffa… - soggiunse lo strozzino, senza turbarsi. Tutti si guardarono, gelidi. Ognuno di loro doveva dei denari allo strozzino: finanche don Crescenzo. I soli due esenti erano Gaetano il tagliatore di guanti e Michele il lustrino, ambedue torturati dalla usura egualmente spietata di donna Concetta. Lo stesso Trifari tacque: l'idea del disonore, nel suo paesello, a quei vecchi contadini di cui già egli era il segreto tormento, lo faceva dolorare come una bestia ferita. Macchinalmente andò ad aprire le finestre e spense il lume che fumicò, mandando un orribile puzzo di lucignolo carbonizzato. Le palpebre degli astanti batterono, a quella viva luce del giorno: tutte le facce erano pallidissime; e l'aspetto del miserabile assistito pparve simile a quello di un morente. L'usuraio gli dette ancora un sorso di cognac, he questi bevve a goccia a goccia, non potendo resistervi. - Ora faccio venire una carrozza, - disse don Gennaro. - Come, lo porti via? - osò chiedere disperatamente Ninetto Costa. - Vuoi che lo lasci qui, perché lo portiate via cadavere? - Che esagerazione, - mormorò l'altro, vagamente. - Don Pasqualino è abituato a star chiuso. . . e tu ci rovini, Gennarino… - Pensa agli altri guai tuoi, - disse seriamente lo strozzino. L'altro, colpito, tacque. Tutti quanti tremarono, vedendo che l' assistito entava di alzarsi, lentamente, appoggiandosi al tavolino e che a furia di sforzi, pigliando fiato ogni minuto, aprendo quella sua bocca livida, dai denti corrosi e neri, vi riesciva. L'incanto era spezzato, totalmente. Adesso l' assistito fuggiva loro, per sempre: sarebbe andato a denunziarli per sequestro di persona, per sevizie, per maltrattamenti, ma in fondo questo finiva per parer loro meno grave della libertà dell' assistito, he per vendicarsi non avrebbe loro dato mai più un numero, mai più. Ah fosse pure venuto il carcere, ma prima i numeri, col denaro della vincita avrebbero corrotta la giustizia, sarebbero scappati via! Il sogno era fuggito: la sorgente delle ricchezze fuggiva via, s'involava. Niente, niente più avrebbe indotto l' assistito fornir loro i numeri certi, nfallibili. Ogni passo che egli, sulle sue gambe magre e vacillanti, tentava di fare, era uno strappo al cuore che essi provavano. - Se non vi fate coraggio, don Pasqualino, restiamo qua fino a stasera, - osservò don Gennaro, che aveva premura di andar via. Certo, la sua posizione fra quei cabalisti non era rassicurante: tutti gli dovevano del denaro e se avevano già avuta l'audacia di consumare un sequestro, potevano bene consumarne un altro, più utile, più proficuo. Don Gennaro, è vero, li dominava con la sua freddezza e con la sua forza; ma non erano dei disperati, costoro? E anche essi provavano quella spezzatura di forze fisiche e morali, quella debolezza che sopravviene anche nei più raffinati malfattori, quando hanno compiuta la loro opera malvagia e vi hanno buttato tutta la loro potenza, vera e fittizia. A ogni modo, era meglio uscire. - Signori miei, vi saluto, - egli disse, prendendo il cappello e la mazzetta, vedendo che l' assistito trisciava con le scarne mani sui vestiti, tentando di pulirli. - Vorrei dire una parola a ognuno di questi signori, - chiese l' assistito. i fu un mormorio, tutti si affollarono attorno a colui che parlava con gli spiriti, mentre Parascandolo era già nell'anticameretta e aveva aperta la porta di uscita, per precauzione. - A uno alla volta, - disse l' assistito. - È una specie di testamento che fo: voglio lasciare un ricordo a tutti. E si appartarono, uno alla volta, con lui, nel vano della finestra. Egli li guardava in faccia, toccava loro la mano, con le dita deboli e fredde. Il primo fu Ninetto Costa: - Senti, Ninetto, non ti disperare: rammentati che alla fin dei fini, vi è sempre una rivoltella. - È vero, - mormorò quello pensando, cercando i numeri di quella parola. Il secondo fu Colaneri, l'ex-prete- Per te ci sta il Vangelo, esso ti apre le braccia, - sussurrò l' assistito. Grazie, - rispose l'altro con una espressione fra lieta e dolorosa, intendendo nella sua duplice forma il consiglio. Il terzo fu Gaetano, il tagliatore di guanti. - Perché sei ammogliato? Ti avrei consigliato di sposare donna Concetta, quella che ha tanti denari. - Tanti, ne ha? - Oh, moltissimi! - Avete ragione: sorte infame! Il quarto fu Michele il lustrino, lo sciancato gobbo. - Se tu non fossi così storto e vecchio, ti consiglierei di sposare donna Caterina, quella che fa il gioco piccolo. - Ma sono storto. . . - disse desolatamente il lustrino. - Eh, industriati. Il quinto fu il vecchio avvocato Marzano, dalla testa crollante, ma ancora arso dalla passione. - Sapete che di carta bollata se ne vendono centinaia e migliaia di fogli, in Napoli. Perché non cercate una privativa? Il vecchio a cui queste parole erano state susurrate più che dette, guardò con meraviglia e diffidenza l' l'assistito si allontanò, chinando il capo. Il sesto che si avvicinò, fu il dottor Trifari: era esitante, aveva troppo maltrattato l' assistito, n quei giorni di carcere. Pure, costui lo trattò con molta soavità: - Per liberarvi dalle noie, perché non vendete tutto al paese, facendo venire qui i vostri genitori? - Non vi ho mai pensato: vi penserò. Il settimo fu don Crescenzo, il tenitore del Banco lotto al vicolo del Nunzio, con cui don Pasqualino aveva antica relazione di amicizia. Si parlarono sottovoce, nessuno potette udire nulla. - Quanto è stupido il governo! - disse l' assistito, ardeggiando uno sguardo suggestivo a don Crescenzo. - Che dici? - chiese costui, sgomento. - Dico: quanto è stupido il governo! - Non ti capisco... - Mi capisci perfettamente. L'ottavo ad accostarsi, fu il marchese Cavalcanti, anche costui un po' timido, sentendosi in maggior colpa verso don Pasqualino. - Lo spirito mi ha parlato ancora, marchese. - E che vi ha detto? - Mi ha detto che la marchesina Bianca Maria è un anima perfetta, lucida, veggente: ma che, come vi ho già detto, il contatto con l'uomo la deturperebbe, la renderebbe ottusa e infelice, incapace di aver più qualunque visione. - La marchesina Bianca Maria morirà vergine, ditelo allo spirito, - rispose fieramente il folle vecchio. - Ebbene, don Pasqualino, vogliamo restare qui sino a stasera? - disse lo strozzino, rientrando. - Avete finito, con questi signori? - Sì, sì, ho finito, - rispose l'altro, con voce più forte, come se stranamente avesse ripreso le forze. Mentre l' assistito i cercava nelle tasche per vedere se avesse un lacero fazzoletto e certe carte sudicie che portava sempre addosso, e poi si metteva l'ignobile cappellaccio, i cabalisti si erano riuniti in un gruppo, ma non parlavano fra loro. Ciò che egli aveva detto loro, nel suo senso vero e in quello simbolico, come insinuazione, come consiglio, li aveva profondamente turbati. - Signori miei, Iddio vi perdoni, - esclamò con un bizzarro accento e con un lieve sorriso l' assistito, ndandosene. Fu appena appena se lo salutarono, dandogli un'occhiata di rimpianto; nessuno di loro osò scusarsi, per il male che gli avevano fatto: ognuno di loro sentiva nell'anima ribadirsi il chiodo che l' assistito i aveva messo. I due scendevano pian piano la scaletta, poiché l' assistito inacciava sempre di cadere. Fino a dargli braccio l'usuraio non vi era giunto, poiché l' assistito ra troppo, troppo sporco. Quando costui apparve sulla soglia del portone e si guardò intorno, assorbendo l'aria libera, gli vennero le lagrime agli occhi. - Credevo che non sarei più uscito, - disse, salendo nella carrozza. - Dove volete andare? - chiese Parascandolo. - Alla questura, - disse l'altro, nuovamente, con voce fioca, sdraiato nella carrozza come un infermo grave. Don Gennaro aggrottò lievemente le sopracciglia, e per non darsi in spettacolo alla gente, fece sollevare il soffietto della carrozza: si avviarono a via Concezione. - Volete denunziarli? - domandò freddamente. - Voi non sapete che torture mi hanno inflitto… - mormorò l'altro, battendo col capo contro il mantice, a ogni scossa della carrozza, come se non reggesse il capo sul collo. - Dunque, li denunziate? - Per trenta giorni, un infelice, ammalato, chiuso, senz'aria, con un lume a petrolio puzzolente: mentre anche quelli che hanno commesso dei delitti, escono a passeggiare! - Ma perché non avete loro dato i numeri? - Per questo, - disse l'altro, enigmaticamente. - Don Pasqualì, voi i numeri non li sapete! - disse don Gennaro, ridendo. - E a voi, che ve ne importa? - Proprio niente. Ma con me dovete parlar franco. - Sissignore, sissignore, - disse l' assistito milmente, - ma essi perché mi hanno buttato alla morte? Che avevo fatto di male, io, povero innocente? - Don Pasqualì, voi vi siete mangiato varie migliaia di lire, di quei signori, - continuò, sullo stesso tono, ridendo, l'usuraio. - Elemosine, cavaliere mio, elemosine! - Proprio tutte elemosine, proprio? - ghignò satanicamente don Gennaro. - Qualche piccola cosa, per me… - sospirò don Pasqualino, con un lampo di acquiescente malizia negli occhi. - Allora è inutile salire alla questura... - Andiamoci, don Gennaro, andiamoci lo stesso, che sarete contento di me. Scesero innanzi al gran portone, nella via Concezione, dove andavano e venivano le guardie di Pubblica Sicurezza: una fatica enorme fu salire le scale: all' assistito li mancava il fiato a ogni scalino. - Un poco di forza, eh! - ripeteva l'usuraio. - Non mi lasciate, non mi abbandonate, - sospirava l' assistito. lla fine giunsero al primo piano, dove don Gennaro, salutato rispettosamente dagli uscieri, chiese se vi era il questore. Non vi era: vi era il suo capo di gabinetto, che li fece entrare subito, che si sprofondò in cerimonie. - Vi è qui il signor Pasqualino de Feo che vuoi fare una dichiarazione, - disse l'usuraio mettendosi a fumare una sigaretta, dopo averne offerta una al capo di gabinetto, guardando negli occhi l' assistito. Volevo conoscere, - disse costui, flebilmente, - se qualcuno è venuto a dichiarare la mia sparizione… L'ispettore prese un grosso registro e lo sfogliò fumando. - Sissignore, - disse, - è venuta Chiara Stella de Feo, abitante alle Centograde, moglie di Pasqualino de Feo, a dichiarare l'inesplicabile assenza di suo marito, temendo un sequestro o una disgrazia... - Ma che sequestro, che disgrazia! - esclamò l' assistito, orridendo ironicamente. - Le donne fantasticano sempre... - Ha detto che foste sequestrato, altre volte, senza volere o saper precisare le circostanze… - E perché mi avrebbero sequestrato? - Per strapparvi i numeri del lotto. - Mia moglie ha detto che io so i numeri del lotto? - disse, con un lieve riso, l' assistito. Non gli credete, ispettore, sono frottole, - soggiunse Parascandolo, ridendo. - Volevo dichiarare, a scanso di equivoci, che trovandomi a Palma Campania, qui, in villa del cavalier Gennaro Parascandolo, mi ero così ammalato da dovervi restare un mese, senza aver modo di poter scrivere a mia moglie. Poi… contavo di tornare ogni giorno… - Voi testimoniate che è la verità, cavaliere? - disse sbadatamente, senza darvi importanza, l'ispettore. - Sissignore. - Allora, tutto va bene. Vi avrà dato i numeri, eh cavaliere, in questo mese di malattia? - chiese, sempre ridendo, l'ufficiale di polizia. - Sicuro! - affermò Parascandolo in pieno buon umore. - Ma a voi, che servono! Non dico di noi, poveri mpiegati… mpiegati…- Don Pasqualì, se avete la forza, date i numeri all'ispettore. - Voi mi volete burlare, - mormorò l' assistito. i licenziarono, mentre l'ispettore raccomandava a De Feo di andar subito da sua moglie, che doveva stare in pensiero. - Avete visto se vi ho servito bene, cavaliere? Ho perdonato a quelli che mi hanno offeso… - e scendevano le scale. - Siete troppo buono, - rispose l'altro, con una velatura d'ironia. - Non voglio farmi un merito, che non ho: non avrei mai denunziato quei signori… - Ah! - disse l'altro, fermandosi. - E perché? - Non mi conveniva - Capisco. Allora perché siamo venuti? - La dichiarazione era necessaria, la questura mi cercava. - Così ingenua è vostra moglie? - Mia moglie? Quella mi vuol tanto bene, che trema sempre per me e dice sempre che ci dobbiamo ritirare dalla professione - E che professione fa? - Non lo sapete? è la famosa fattucchiara elle Centograde, Chiara Stella… - Ah… sì, sì, mi ricordo… e le sue fatture sono come i vostri numeri? - Le sue fatture sono vere, - disse pensosamente, sinceramente, don Pasqualino. - E lei ci crede alla vostra assistenza? Sì, ci crede, - disse l'altro, chinando il capo, - mia moglie ha per me una grande passione. - Per voi? - Per me. - Siete curiosi, voi altri, - disse lo strozzino, filosoficamente. - Intanto li avete salvati, quegli otto furfanti… - Che… salvati, salvati! Avete inteso i consigli che ho dato, a tutti loro? - No, - rispose don Gennaro, sorpreso dal tono perverso di quel discorso. - Ho lasciato loro un ricordo, a ognuno - continuò lo spiritista, la cui voce si era fatta stridula. - E vi obbediranno, credete? - Come è certa la morte, - disse l' assistito, ugubremente. ugubremente.Salutò don Gennaro e, quasi rinvigorito, si avviò prestamente verso piazza Municipio. Quello, lo guardò andar via: e per la prima volta sentì il ribrezzo che dà la glaciale malvagità.

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683001
Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Hai abbandonato il tuo babbo, la tua mamma, le tue sor... - Ma si è interrotta all'improvviso, come se le fosse venuto male. Certo si ricordava in quel momento che le mie sorelle non l'avevano voluta alla festa. - È naturale! - ha soggiunto. - Quelle ragazze farebbero perder la pazienza a un Santo!... Vieni in casa, figliolo mio, a lavarti, che mi sembri un bracino; poi mi racconterai tutto... - Intanto io guardavo Bianchino, il vecchio Barboncino che è così caro alla zia Bettina, e alla finestra della villa il vaso di dìttamo al quale ella è così pure affezionata. Nulla è cambiato dall'ultima volta che ci venni, e mi pare di non essermi mai mosso di qui. Quando mi fui lavato, la zia Bettina si accòrse che avevo un po' di febbre e mi mise a letto, benché io tentassi di persuaderla che era tutta questione d'appetito. La zia Bettina mi fece alcuni rimproveri a mezza bocca, ma in fondo mi disse che stessi pur tranquillo, che da lei non correvo nessun pericolo; e io fui così commosso dalla sua bontà, che volli farle assaggiare un pezzetto di torrone che avevo in tasca dei calzoni, e la pregai di prenderlo, ché così ne avrei mangiato un po' anch'io. Difatti la zia Bettina fece per metter la mano in tasca, ma non fu capace di aprirla. - Ma qui c'è la colla! - disse. Che era successo? Il torrone, col calore del fumo rinserratosi nella garetta, si era tutto strutto e aveva appiccicato la tasca dei calzoni per modo che non era più possibile di aprirla. Basta: la zia mi fece compagnia, finché, alla fine, la stanchezza non mi fece prender sonno... e da allora mi sono svegliato in questo momento, e il primo mio pensiero è stato per te, giornalino mio, che mi hai seguìto sempre, mio fido compagno, a traverso a tanti dispiaceri, a tante avventure e a tanti pericoli... Stamani la zia Bettina s'è molto inquietata con me per uno scherzo innocente che, in fin dei conti, era stato ideato con l'intenzione di farle piacere. Ho già detto che la zia è molto affezionata a una pianta di dìttamo che tiene sulla finestra di camera sua, a pianterreno, e che annaffia tutte le mattine appena si alza. Basta dire che ci discorre perfino insieme e gli dice: - Eccomi, bello mio, ora ti dò da bere! Bravo, mio caro, come sei cresciuto! - È una sua mania, e si sa che tutti i vecchi ne hanno qualcuna. Essendomi dunque alzato prima di lei, stamattina, sono uscito di casa, e guardando la pianta di dìttamo m'è venuta l'idea di farla crescere artificialmente per far piacere alla zia Bettina che ci ha tanta passione. Lesto lesto, ho preso il vaso e l'ho vuotato. Poi al fusto della pianta di dìttamo ho aggiunto, legandovelo bene bene con un pezzo di spago, un bastoncino dritto, sottile ma resistente, che ho ficcato nel vaso vuoto, facendolo passare a traverso quel foro che è nel fondo di tutti i vasi da fiori, per farci scolar l'acqua quando si annaffiano. Fatto questo, ho riempito il vaso con la terra che vi avevo levata, in modo che la pianta non pareva fosse stata menomamente toccata; e ho rimesso il vaso al suo posto, sul terrazzino della finestra, il cui fondo è di tante assicelle di legno, facendo passare fra l'una e l'altra di esse il bastoncino che veniva giù dal foro del vaso e che io tenevo in mano, aspettando il momento di agire. Dopo neanche cinque minuti, eccoti la zia Bettina che apre la finestra di camera, e incomincia la sua scena patetica col dìttamo: - Oh, mio caro, come stai? Oh, poveretto, guarda un po': hai una fogliolina rotta... sarà stato qualche gatto... qualche bestiaccia... - Io me ne stavo lì sotto, fermo, e non ne potevo più dal ridere. - Aspetta, aspetta! - seguitò a dire la zia Bettina. - Ora piglio le forbicine e ti levo la fogliolina troncata, se no secca,... e ti fa male alla salute, sai, carino!... - Ed è andata a prendere le forbicine. Io allora ho spinto un po' in su il bastoncino. - Eccomi, bello mio! - ha detto la zia Bettina tornando alla finestra. - Eccomi, caro!.. - Ma ha cambiato a un tratto il tono alla voce ed ha esclamato: - Non sai che t'ho da dire? Che tu mi sembri cresciuto!... - Io scoppiavo dal ridere, ma mi trattenevo, mentre la zia seguitava a nettare il suo dittamo con le forbicine e a discorrere: - Ma sì, che sei cresciuto... E sai che cos'è che ti fa crescere? È l'acqua fresca e limpida che ti dò tutte le mattine... Ora, ora... bello mio, te ne dò dell'altra, così crescerai di più... - Ed è andata a pigliar l'acqua. Io intanto ho spinto in su il bastoncino, e questa volta l'ho spinto parecchio, in modo che la pianticella doveva parere un alberello addirittura. A questo punto ho sentito un urlo e un tonfo. - Uh, il mio dìttamo!... - E la zia, per la sorpresa e lo spavento di veder crescere la sua cara pianta a quel modo, proprio a vista d'occhio, s'era lasciata cascar di mano la brocca dell'acqua che era andata in mille bricioli. Poi sentii che borbottava queste parole: - Ma questo è un miracolo! Ferdinando mio, Ferdinando adorato, che forse il tuo spirito è in questa cara pianta che mi regalasti o desti per la mia festa? - Io non capivo precisamente quel che voleva dire, ma sentivo che la sua voce tremava e, per farle più paura che mai, ho spinto in su più che potevo il bastoncino. Ma mentre la zia vedendo che il dìttamo seguitava a crescere, continuava a urlare: Ah! Oh! Oh! Uh!, il bastoncino ha trovato un intoppo nella terra del vaso, e siccome io lo spingevo con forza per vincere il contrasto, è successo che il vaso si è rovesciato fuor della finestra, ed è caduto rompendosi a' miei piedi. Allora ho alzato gli occhi e ho visto la zia affacciata, con un viso che faceva paura. - Ah, sei tu! - ha detto con voce stridula. Ed è sparita dalla finestra per riapparire subito sulla porta, armata di un bastone. Io, naturalmente, me la son data a gambe per il podere, e poi son salito sopra un fico dove ho fatto una grande spanciata di fichi verdini, che credevo di scoppiare - Quando son ritornato alla villa, ho visto sulla solita finestra un vaso nuovo con la pianta di dìttamo e ho pensato che la zia, avendo rimediato al mal fatto, si fosse calmata. L'ho trovata in salotto che discorreva con un facchino della stazione e appena mi ha visto, mi ha detto con aria molto sostenuta mostrandomi due telegrammi: - Ecco qui due dispacci di vostro padre. Uno di iersera che non ha avuto corso perché la stazione era chiusa, e uno di stamani. Vostro padre è disperato non sapendo dove vi siete cacciato... Gli ho risposto che venga a prendervi col prossimo treno! - Io, quando il facchino è andato via, ho tentato di rabbonirla, e le ho detto con la mia voce piagnucolosa che di solito fa un grande effetto perché ci si sente il ragazzo che è pentito: - Cara zia, le chiedo scusa di quel che ho fatto... Ma lei ha risposto arrabbiata: - Vergognatevi! - Però - ho seguitato a dire con voce sempre più piagnucolosa - Io non sapevo che nel dìttamo ci fosse lo spirito di quel signor Ferdinando che diceva lei... - A queste parole la zia Bettina si è cambiata a un tratto. È diventata rossa come il tacchino della contadina, e ha detto balbettando: - Zitto, zitto!... Mi prometti di non dir niente a nessuno di quel che è successo? - Sì, glielo prometto... - Ebbene, allora non ne parliamo più: e io cercherò di farti perdonare anche dal tuo babbo... - Il babbo arriverà certamente col treno delle tre, non essendovene altri né prima né dopo. E io sento una certa tremarella... * * * Sono qui, chiuso nel salotto da desinare, e sento di là nell'ingresso quella vociaccia stridula della zia Bettina che si sfoga contro di me con la moglie del contadino e ripete: - È un demonio! Finirà male! E tutto questo perché? Per aver fatto il chiasso coi figliuoli del contadino, come fanno tutti i ragazzi di questo mondo, senza che nessuno ci trovi nulla da ridire. Ma siccome io ho la disgrazia d'avere tutti parenti che non voglion capire che i ragazzi hanno diritto di divertirsi anche loro, così mi tocca ora a star qui chiuso e sentirmi dire che finirò male ecc. ecc., mentre invece io volevo che la zia Bettina finisse col pigliarci gusto anche lei al serraglio di bestie feroci, che m'era riuscito così bene. L'idea m'è venuta perché una volta il babbo mi portò a vedere quello di Numa Hava, e da allora ci ho sempre ripensato, perché il sentire nell'ora del pasto tutti quegli urli dei leoni, delle tigri e di tanti altri animali che girano in qua e in là nelle gabbie stronfiando e raspando è una cosa che fa grande impressione e non si dimentica tanto facilmente. E poi io ho sempre avuta molta passione per la storia naturale e a casa ho i Mammiferi illustrati del Figuier che li leggo sempre, guardando le figure che mi son divertito tante volte a ricopiare. Ieri, dunque, nel venire qui alla villa avevo visto nella fattoria che confina col podere della zia due operai che tingevano le persiane della casa del fattore di verde e le porte della stalla accanto di rosso; sicché stamani, dopo il fatto della pianta di dìttamo, appena mi è venuto l'idea del serraglio, mi son subito ricordato dei pentolini di tinta degli operai, che avevo visto ieri alla fattoria, e ho detto fra me che avrebbero potuto far comodo, come difatti mi sono stati molto utili. Prima di tutto mi son messo d'accordo con Angiolino, il figliuolo del contadino della zia, un ragazzo che ha quasi la mia età ma che non ha mai visto nulla nella sua vita, sicché mi sta sempre a sentire a bocca aperta e m'ubbidisce in tutto e per tutto. - Ti voglio far vedere qui sull'aia il serraglio di Numa Hava - gli ho detto. - Vedrai! - Voglio vedere anch' io! - ha esclamato subito la Geppina che è la sua sorella minore. - Anch'io! - ha detto Pietrino, un bambino di due anni e mezzo che non sa ancora camminare e che si trascina per terra con le mani e con le ginocchia. Lì nella casa del contadino non c'eran che questi tre ragazzi perché i loro genitori e i fratelli maggiori eran tutti nel campo a lavorare. - Va bene,... - ho detto. - Ma bisognerebbe, poter pigliare i pentolini delle tinte alla fattoria! - Questo è il momento buono, - ha detto Angiolino - perché è l'ora che i verniciatori vanno al paese a far colazione. - E siamo andati tutt'e due alla fattoria. Non c'era nessuno. Da una parte, a piè di una scala, c'eran due pentoli pieni di tinta a olio - in uno la tinta rossa e nell’altro la tinta verde; e c'era anche un bel pennellone grosso come il mio pugno. Angiolino ha preso un pentolo; io ho preso l'altro e il pennello, e via, siamo ritornati sull'aia di casa sua, dove Pietrino e la Geppina ci aspettavano ansiosi. - Cominceremo dal fare il leone, - ho detto. A questo scopo avevo portato con me dalla villa, Bianchino, il vecchio can barbone della zia Bettina, al quale ella è così affezionata. Gli ho attaccato al collare una fune e l'ho legato alla stanga del carro da buoi che era sull'aia, e, dato di piglio al pennellone, ho incominciato a tingerlo tutto di rosso. - Veramente - ho detto a quei ragazzi perché avessero un'idea precisa dell'animale che volevo loro rappresentare - il leone è colore arancione, ma siccome manca il giallo noi lo faremo rosso, che in fondo viene a esser quasi lo stesso. - In poco tempo Bianchino, interamente trasformato, non era più riconoscibile e, mentre esso si andava asciugando al sole, ho pensato a preparare un'altra belva. Poco distante da noi c'era una pecorella che pascolava; l'ho legata alla stanga del carro, accanto al cane, e ho detto: - Questa la trasformeremo in una bellissima tigre. - E dopo aver mescolate in una catinella un po' di tinta rossa e un po' di tinta verde le ho dipinto sul dorso tante ciambelline in modo che pareva proprio una tigre del Bengala come quella che avevo visto da Numa Hava, meno che, per quanto le avessi tinto anche il muso, non aveva quell'espressione feroce che faceva una così bella impressione in quella vera. A questo punto ho sentito un grugnito, e ho domandato ad Angiolino: - Che ci avete anche un maiale? - Sì: ma è un maialino piccolo: è qui nella stalla, guardi, sor Giannino. E ha tirato fuori, infatti, un porcellino grasso grasso, con la pelle color di rosa che era una bellezza. - Che se ne potrebbe fare? - ho domandato a me stesso. E Angiolino ha esclamato : - Perché non ci fa un leofante? Io mi son messo a ridere. - Vorrai dire un elefante! - gli ho risposto. - Ma sai che un elefante è grande come tutta questa casa? E poi con che gli si potrebbe far la proboscide? - A questa parola i figliuoli del contadino si son messi a ridere tutt'e tre e finalmente Angiolino ha domandato: - O che è ella, codesta cosa così buffa che ha detto lei, sor Giannino? - È, come un naso lungo lungo quasi quanto la stanga di questo carro e che serve all'elefante per pigliar la roba per alzare i pesi e per annaffiare i ragazzi quando gli fanno i dispetti. - Che brutta cosa è l'ignoranza! Quei villanacci di ragazzi non mi hanno voluto credere, e si son messi a ridere più che mai. Io intanto riflettevo per trovare il modo di utilizzare il maialino color di rosa che seguitava a grugnire come un disperato. Alla fine ho risoluto il problema e ho gridato: - Sapete che cosa farò? Io cambierò questo maialino in un coccodrillo! - Sul carro c'era una copertaccia da cavallo. L'ho presa e l'ho fermata da un lato, legandola con una fune intorno alla pancia del maialino; poi, risollevando tutta la parte di coperta che avanzava strascicando di dietro, l'ho legata stretta stretta a uso salame, in modo che rappresentasse la lunga coda del coccodrillo. Fatto questo, ho tinto di verde tanto il maialino che la coperta, in modo che, a lavoro compiuto, l'illusione era perfetta. Dopo aver legata anche questa belva alla stanga del carro da buoi, ho pensato di farne un'altra servendomi dell'asino che ho preso nella stalla e che, essendo di color grigio, si è prestato benissimo a far da zebra. Infatti è bastato che gli dipingessi sul corpo, sul muso e sulle gambe tante strisce, dopo aver mescolato daccapo il rosso col verde, per ottenere una zebra sorprendente, che ho legata con gli altri animali alla solita stanga. Infine, siccome per rallegrare la scena mancava la scimmia, con lo stesso colore ho tinto la faccia di Pietrino che appunto stava berciando e sgambettando come una bertuccia, e servendomi d'uno straccio strettamente legato gli ho anche fabbricato una splendida coda che ho assicurata alla cintola del marmocchio, sotto la sottanina. Poi, per rendere la cosa anche più naturale, ho pensato che il vedere la scimmia sopra un albero avrebbe fatto un bellissimo effetto e perciò, aiutato da Angiolino, ho messo Pietrino su un ramo dell'albero che è accanto all'aia, assicurandolo con una fune perché non cascasse. Così ho completato il mio serraglio e ho incominciato la spiegazione. - Osservino, signori : questa bestia a quattro zampe con la groppa tutta rigata a strisce bige e nere è la Zebra, un curioso animale fatto come un cavallo ma che non è un cavallo, che morde e tira i calci come i ciuchi ma che non è un ciuco, e che vive nelle pianure dell'Affrica cibandosi dei sedani enormi che nascono in quelle regioni, e scorrazzando qua e là a causa delle terribili mosche cavalline che in quei paesi caldi hanno le proporzioni dei nostri pipistrelli... - Accidempoli! - ha detto Angiolino. - O che può essere? - Può essere sicuro! - ho risposto io. Ma tu devi stare zitto, perché mentre si dà la spiegazione delle bestie feroci, è proibito al pubblico di interrompere perché è pericoloso. Quest'altra belva, che è qui accanto, è la Tigre del Bengala che abita in Asia, in Affrica e in altri luoghi dove fa strage degli uomini e anche delle scimmie... - A questo punto della mia spiegazione Pietrino ha incominciato a piagnucolare di sull'albero e, voltandomi in su, ho visto che la fune con la quale l'avevamo legato al ramo s'era allentata ed egli stava sospeso con gli occhi fuor della testa per la paura. In quella posizione pareva proprio una scimmia vera quando sta attaccata agli alberi con la coda, e io ho approfittato subito della circostanza per richiamar l'attenzione del pubblico su questa nuova bestia del mio serraglio. - Hanno udito, signori e signore? Al solo nome della tigre la Scimmia si è messa a stridere, e con ragione, perché essa è spesso vittima degli assalti di questo terribile animale ferino. La scimmia che loro osservano lassù sull'albero è una di quelle che si chiamano volgarmente bertucce e che vivono abitualmente in cima agli alberi delle foreste vergini, dove si nutrono di bucce di cocomero, di torsoli di cavolo e di tutto quel che si trova a portata delle loro mani. Questi curiosi e intelligenti animali hanno il brutto vizio di scimmiottare tutto quel che vedono fare agli altri, e questo è appunto il motivo per cui i naturalisti hanno messo loro il nome di scimmie... Bertuccia, fate una riverenza a questi signori!... - Ma Pietrino non ha voluto saperne di far la riverenza, e ha seguitato a piagnucolare. - Faresti meglio - gli ho detto - a soffiarti il naso... Ma intanto noi passeremo al Leone, a questo nobile e generoso animale che ben a ragione è chiamato il re di tutte le bestie perché col suo bel manto e la sua forza impone soggezione a tutti quanti, essendo capace di mangiarsi anche una mandra di bovi in un boccone... Esso è il carnivoro più carnivoro di tutti i carnivori, e quando ha fame non porta rispetto a nessuno, ma non è tanto feroce come altre belve che ammazzano la gente per puro divertimento; esso invece è un animale di cuore, e si racconta anche nei libri, che una volta, trovandosi egli a Firenze di passaggio, e avendo incontrato per la strada un piccolo bambino che si chiamava Orlanduccio e che si era perso, lo prese delicatamente per la giacchetta e lo riportò pari pari alla sua mamma che se non morì di paura e di consolazione fu un vero miracolo. - Molte altre cose avrei potuto dire intorno al leone; ma siccome Pietrino seguitava a berciare sull'albero che pareva lo scannassero, mi sono affrettato a passare al Coccodrillo. - Guardino, signori, questo terribile anfibio che può vivere tanto nell'acqua che nella terra e che abita sulle sponde del Nilo dove dà la caccia ai negri e ad altri animali facendoli sparire nell'enorme bocca come se fossero piccole pasticche di menta!… Esso si chiama coccodrillo perché ha il corpo ricoperto di grosse squame dure come le noci di cocco fresco che si vendono nei bar, e con le quali si difende dai morsi delle altre bestie feroci che si aggirano in quei paraggi... - In così dire ho dato una buona dose di bacchettate sul groppone del maialino che ha incominciato a grugnire come un disperato, mentre il pubblico rideva a più non posso. - La caccia al coccodrillo, signori e signore, è molto difficile appunto perché su quel groppone così duro le armi a punta come la sciabola e il coltello si spuntano, e le armi a fuoco sono inutili perché le palle rimbalzano e se ne vanno via. I coraggiosi cacciatori però hanno pensato un modo molto ingegnoso per pigliare i coccodrilli, servendosi di uno stile a due punte in mezzo al quale è legata una corda, che adoperano così... - E perché quei due poveri ignoranti capissero qualcosa, ho preso un pezzo di legno, poi col temperino vi ho fatto le punte da tutt'e due le parti e vi ho legato uno spago nel mezzo; fatto questo, mi sono avvicinato al maialino, gli ho fatto aprir bocca e vi ho introdotto dentro arditamente il pezzo di legno, seguitando la mia spiegazione: - Ecco qua; il cacciatore aspetta che il coccodrillo faccia uno sbadiglio, ciò che gli succede spesso, dovendo vivere sempre sulle sponde del Nilo dove anche una bestia finisce per annoiarsi; e allora ficca il suo dardo nell'enorme bocca dell'animale anfibio che naturalmente si affretta a richiuderla. Ma che cosa succede? Succede che chiudendo la bocca viene a infilarsi da sé stesso le due punte del dardo nelle due mascelle, come possono osservare lor signori... - Infatti il maialino, richiudendo la bocca s'era bucato e mandava certi urli che arrivavano al cielo. In quel momento, voltandomi, ho visto il babbo e la mamma d'Angiolino, che venivano giù dal campo trafelati. Il contadino gridava: - Oh, il mi' maialino!… - E la contadina sporgeva le braccia verso quel moccione di Pietrino che seguitava anche lui a piangere, e diceva: - Uh, povera la mi' creatura!... - È inutile. I contadini sono ignoranti, e perciò in tutte le cose si lasciano sempre trasportare all'esagerazione. A vederli correre affannati e fuor della grazia di Dio pareva che gli avessi ammazzato tutti i figliuoli e tutte le bestie, invece di cercare, come facevo io, di istruire que' villani tentando di far entrare in que' cervellacci duri, delle spiegazioni sulle cose che non avevano mai visto. Ma sapendo quanto sia difficile di far entrar la ragione in quelle zucche, per non compromettermi ho sciolto alla svelta tutte le bestie feroci e, montato sul ciuco, gli ho dato un par di legnate, e via a precipizio su per la strada maestra, con Bianchino dietro, che abbaiava a più non posso. Dopo aver girato un pezzo, finalmente sono arrivato alla villa. La zia Bettina è corsa sulla porta, e vedendomi sul ciuco ha esclamato: - Ah, che hai fatto!... - Poi, vedendo Bianchino tutto tinto di rosso, ha dato un balzo indietro impaurita, come se fosse stato un leone davvero; ma l'ha riconosciuto subito e allora gli si è buttata addosso, tremando come una foglia e gemendo: - Uh, Bianchino mio, Bianchino caro! Come ti hanno ridotto, povero amor mio?... Ah! È stato di certo questo manigoldo!... - E si è rialzata tutta inviperita. Ma io ho fatto più presto di lei, e buttatomi giù dal ciuco, son corso in questa stanza e mi ci son chiuso. - Starai lì in prigione finché non viene a ripigliarti tuo padre! - ha detto la zia Bettina: e ha chiuso la porta di fuori, a chiave. Dopo poco ho sentito la contadina che è venuta a far rapporto di tutto quel che ho fatto sull'aia, s'intende esagerando ogni cosa. Ha detto che il maiale sputa sangue, che Pietrino è in uno stato da far pietà, ecc. Basti dire che mi si tiene responsabile anche di quel che non è successo, e infatti è la decima volta che quell'uggiosa ripete: - Ma ci pensa, lei, sora padrona, se il mi' Pierino cascava giù dall'albero?... - Lasciamola dire, bisogna compatire le persone ignoranti, perché loro non ci hanno colpa. Tra pochi minuti arriverà il babbo e speriamo che egli saprà distinguere quel che è la verità...

Eva

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Verga, Giovanni 1 occorrenze

Vidi come un baleno dell'avvenire; mi trovai povero, solo, meschino, ridicolo, abbandonato su quella soglia, tremante di freddo e divorato dall'invidia! Che cos'ero io per disputare quella donna a quegli uomini felici? Provai dispetto, vergogna, gelosia rabbiosa; sentii che la vertigine di quella sera mi strappava violentemente da tutte le mie affezioni, e mi gettava nell'ignoto. Ebbi paura, e l'orgoglio mi diede la forza di giurare che mai più avrei riveduto quella donna, la quale si sarebbe vergognata di confessare il suo amore per me. Non dirò che quel giuramento non mi costasse, e molto; ma ebbi la forza di mantenerlo - per invidia, per dispetto, per orgoglio, per gelosia ... non lo so ... *** Il giorno dopo, nell'ora in cui avevo promesso di andarla a trovare, combattei una lotta terribile. Venti volte fui sul punto di uscire, di correre a buttarmi ai suoi piedi. Mi afferrai a due mani a tutte le mie più dispettose passioni, e non mi mossi ... e se piangevo ero felice che nessuno mi vedesse piangere. Così suonò un'ora. Allora respirai con forza, come se avessi superato una gran prova. Faceva freddo. Di fuori un vento impetuoso scuoteva i vetri, e gemeva per le strette viuzze di oltr'Arno. Guardavo i rari fiocchi di neve che svolazzavano sui vetri, e pensavo alla mia famiglia lontana, e a tutte le tranquille gioie che avevo abbandonato per correre dietro a larve affascinanti. Mi sentivo invadere da cento ispirazioni gigantesche, e sognavo tutte le ebbrezze della gloria. All'improvviso fu suonato violentemente all'uscio. Saltai sulla seggiola come se il filo del campanello fosse stato attaccato al mio cuore. Presi un lume e andai ad aprire tutto tremante, come se attendessi una disgrazia ... Indietreggiai stupefatto. *** Era Eva, tutta imbacuccata, pallida e tremante dal freddo, che mi guardava con certi occhi dove avrei giurato che ci fossero delle lagrime. Mi aspettavo rimproveri, scene drammatiche; nulla di tutto ciò. Ella entrò, sedette accanto al camino spento, e mi disse tranquillamente: "Non siete venuto!" "Voi!" Ella sorrise dolcemente. Aveva gli stivalini tutti coperti di neve. "Siete venuta a piedi?" "Sì." "Perché?" "Non so. Avevo bisogno di farmi perdonare l'altra sera." E si sforzava di non tremare, di non far scricchiolare i suoi dentini, come se avesse temuto di rimproverarmi il freddo glaciale che regnava nella mia cameretta. Sebbene cotesta delicatezza mi commovesse, io ero tutto vergognoso, pel mio camino spento, pei miei mobili più che modesti, e pel mio vecchio mantello che avevo gettato su di una seggiola. Ruppi il cavalletto e accesi il fuoco nel camino. Ella sorrise; aveva la labbra violette e stese le manine tremanti sulla fiamma che le rendeva quasi trasparenti. "Oh! che bel fuoco!" ripeteva. Io m'inginocchiai ai suoi piedi; asciugai i suoi stivalini con un lembo del mio mantello, e poscia glielo stesi sotto i piedi a guisa di tappeto. Ella mi lasciava fare, ridendo come una bambina; guardava all'intorno con curiosità, e mi sembrava che in cotesta curiosità, così espressa, non ci fosse più nulla di mortificante pel mio amor proprio. "È la vostra camera?" mi domandò. "Sì." "Come siete felici voi altri artisti!... Quanti bei sogni dovete aver fatto fra queste pareti." Oh! il bel sogno ch'era la sua leggiadra figurina, col sorriso dolce, gli occhi umidi, le bianche mani incrociate sulle ginocchia, e la veste bruna che si piegava mollemente sulla sua persona come carezzandola, là, in quel povero angolo della mia cameruccia, illuminata dalla fiamma del mio camino! Ella aveva capricci improvvisi, bizzarri, dietro ai quali si smarriva volentieri il proprio buon senso come dietro al sorriso di un bambino. "Fatemi vedere!" disse. E si mise a rovistare in tutti gli angoli, in tutti i miei disegni, in tutti i miei cartoni, ponendo tutto sottosopra, scappando in mille ingenue esclamazioni, facendomi mille domande prive di senso e piene di grazia. "Oh! bello!" e seguitava a metter tutto sossopra, battendo le mani dinanzi alle mie tele. "Come fate a creare tante belle cose?" mi domandò facendosi seria - e senza aspettare la mia risposta: "Regalatemi qualche cosa." "Scegliete voi stessa." "Datemi quel paesaggio. È una spiaggia di mare?" "Sono I Ciclopi" "Che cosa sono I Ciclopi " "Si chiamano così certi scogli giganteschi sulla spiaggia di Aci-Trezza." "In Sicilia?" "Sì." "Oh, come sono belli!" Prese un pennello e sul margine della tela scrisse: " Eva - 22 Marzo . "Così ci avrò lavorato anch'io!" aggiunse con quel sorriso vago. E poi, facendosi seria: "Voi altri dovete trovare un paradiso da per tutto." Girò all'intorno uno sguardo sorridente e riprese: "Son contenta di essere venuta. Così ho visto il vostro nido." Il suo sguardo cadde sul modesto lettuccio, e sorrise vagamente senza dir motto. Poi tornò a sedersi accanto al fuoco, con un atto di dimistichezza carezzevole, e soggiunse guardandomi fisso: "Sì, son contenta di esser venuta; ma mi avete pur dato un grande dispiacere!" "Perdonatemi!" "Oh, non ho nulla da perdonarvi! Non vi ho nemmeno domandato perché non siate venuto. Quando non vi ho visto, all'uscire dal teatro, ho subito indovinato il motivo che vi faceva mancare alla vostra promessa ... e son venuta." Mi stese le mani, mi guardò negli occhi sorridendo, e soggiunse: "Siete ancora geloso?" "Oh ..." "Mi amate molto?" "Mi par d'impazzire." "Molti mi hanno detto la stessa cosa." "Oh, Eva!... perché mi dite questo?" "Ma a voi vi credo. Dovete amarmi così! Oh, Dio mio! com'è bello essere amata così! Ho dovuto piacervi molto per farvi pensare di me a quel modo ... Se sapeste che cos'è per una donna il sapere di aver tanto piaciuto! Quanto durerà questa impressione in voi? Chi lo sa! Ma non importa. È pur dolce l'averla destata, anche per un momento solo. Anch'io vi amo." "Voi! voi!" "Sì, vi amo perché vi piaccio tanto." Mi guardava con tanta serenità, che quelle semplici parole avevano un senso affascinante. "E poi, in questo momento, anche voi mi piacete." "Ah! in questo momento!..." "Sì, mio Dio!... bisogna mentire per farvi piacere! Con voi credevo che potessi aprire il cuore schiettamente. Potreste giurare che mi amerete sempre come oggi?" "Sì! oh, sì!" "Fanciullo!" esclamò essa con un triste sorriso, "Quanti me lo hanno detto!" "Non mi parlate in tal modo, Eva!" "Che v'importa, se in questo momento non amo che voi! Mi crederete almeno, giacché sono così franca! Sì, sarà un capriccio, sarà una pazzia. - Vi amo perché siete ingenuo, perché non siete ricco, perché non siete elegante, perché avete in cuore tutte le follie dell'arte, perché mi guardate con quegli occhi, e anch'io divento come voi, non mi riconosco più! - Ecco perché vi amo. Domani forse mi piacerà di più la cravatta di un bel giovane, come a voi piaceranno le mani rosse di una sartina. Avremmo avuto torto per ciò di godere insieme questo momento di felicità? O saremmo più stimabili se mentissimo oggi con promesse per mentirci ancora domani con menzogne? Io ne ho amati tanti! Anche voi chissà quante donne avete amato! Oggi mi piacete, vi piaccio, e son felice di dirvelo, ecco! Domani ... Chi lo sa il domani? Dunque vedete che se vi parlo con tanta franchezza avete torto di essere geloso." C'era tanta sincerità, direi tanto cuore, in quelle cose dure, che le rendeva affascinanti. Avrei potuto farmi saltare le cervella, ma non avrei potuto abbandonare la mano di quella donna che mi diceva di amarmi in tal modo, facendomi indovinare il giorno in cui non mi avrebbe più amato. Ella era seduta di faccia a me, dinanzi al camino, e quasi le nostra ginocchia si toccavano; teneva le mani nelle mie e i suoi piccoli polsi bianchi e rotondi uscivano fuori dalle trine delle maniche; mi guardava sorridente, fiduciosa, con abbandono, felice di espandersi così sinceramente, e di parlarmi col suo cuore, povera e modesta come me. Ella mi disse anche: "Vedete che vi amo davvero, se ve lo dico qui, quasi al buio, così infagottata, senza che possiate trovarmi bella ..." Il fuoco s'era spento. Ella s'inginocchiò dinanzi al camino - ella sì elegante, sì delicata, che avevo vista circondata di tutti gli splendori del lusso - s'inginocchiò dinanzi al mio povero camino, affumicato e pieno di cenere, e cercò di rianimare le poche braci. Io andavo attorno per vedere che cosa potessi sacrificare al gran freddo che faceva. Ella si avvide del mio imbarazzo e mi disse: "Vogliamo andare a prendere il thè?" "Dove?" "A casa mia." "Ma come? a piedi?" "A piedi, come due scapati. Voi mi darete il vostro mantello." "Andiamo." Faceva un freddo di gennaio; le strade erano tutte bianche di neve; ella tremava. Allorché fummo in piazza d'Azeglio, il mio primo sguardo cadde su quelle finestre del primo piano ancora illuminate. Ella che si stringeva al mio braccio, lo sentì trasalire, e lo premette leggermente come per attaccarsi a me. "Non ci ho colpa, vi giuro!" esclamò con voce supplichevole. "Speravo che a quest'ora fossero partiti! ..." Mi prese per mano, come un bambino, e mi fece salirle scale appresso a lei. "Zitto!" mi sussurrò all'orecchio. "Non voglio che vi vedano; spegnete il gas." Io girai la chiavetta. Eravamo al buio, e sentivo il profumo del suo fazzoletto, il soffio del suo respiro. Essa cercò tastoni il campanello e suonò quasi timidamente. Venne ad aprire una leggiadra cameriera. Eva le disse all'orecchio qualche parola, mi spinse in un andito, e scomparve senza far rumore da un altro uscio a vetri. La cameriera mi fece entrare in una stanza da letto, debolmente illuminata, e scomparve anche lei. *** La camera era piccola e imbottita di seta bianca come un elegante scatolino. In un canto c'era un letto tutto velato di trine, con certe cortine diafane che sembravano i vapori di un sogno d'amore, e lasciavano trasparire certe coperte color di rosa, di cui la seta doveva carezzare l'epidermide, e nascondere nelle sue pieghe scrosci di risa soffocate, di palpiti virginei. C'era un profumo singolare in quella camera, un profumo di cosa viva, un profumo di donna e di donna amante. C'erano in tutti gli angoli quei piccoli oggetti che luccicano e che hanno forme e colori leggiadri. C'erano negli specchi come il riflesso di chiome bionde, come il lampo di occhi lucenti e di sorrisi giovanili; vi si riverberavano ombre leggiere, colori delicati; il moto dell'orologio era silenzioso; il tappeto era spesso, bianco e carezzava i piedi. Nell'altra stanza si udivano voci di uomini, e di tanto in tanto delle risa allegre. Si udì anche per qualche istante il suono del pianoforte, e ad intervalli la voce di Eva, fresca, spensierata, giuliva. Poi si udì un rumore di tazze mosse. Improvvisamente una luce più viva invase la camera ed entrò Eva. Ella corse verso di me; mi afferrò improvvisamente il capo, senza dire una sola parola, e mi diede un bacio. "Ecco il tuo thè!" mi disse. *** E quand'io la baciavo, quand'io la soffocavo di carezze deliranti, ella metteva un piccolo grido: un grido pieno d'amore e di voluttà. "Ahi! mi fate male!" Si svincolò ridendo dalle mia braccia; mi guardò fisso, con quegli ardori negli occhi, stendendo le mani per tenermi discosto ed esclamò: "Come sei bello! Come devi amare tu! Vieni!" soggiunse sottovoce, prendendomi per la mano. "Zitto! vieni qui, accanto a me!" Lisciava i miei baffi, arruffava i miei capelli e li intrecciava coi suoi, mi prendeva la testa fra la mani per guardarmi a lungo negli occhi, e mormorava: "Bambino! bambino mio bello!" Ad un tratto si fece seria; mi affissò con certi occhi attoniti, e mi disse: "Mi pare di amarti davvero, guarda!" Saltò dalle mia ginocchia come un uccello, corse all'uscio e girò la chiave. "Buona notte, signori!" disse, e volgendosi verso di me, con uno scroscio di riso infantile: "Se ci vedessero!" Si udì uno scoppio di voci e di recriminazioni al di là dell'uscio. "Ho sonno!" ripeté Eva, "Buona notte!" "Che imbecilli!" soggiunse poi "si credono in diritto di annoiarmi anche quando sono felice!" Stette ad ascoltare, e ripigliò dopo alcuni istanti: "Se ne vanno; finalmente! Verrai domani, non è vero?" "Sì." "Alla stessa ora, mi aspetterai in teatro?" "Sì." "Anzi, fai così: m'aspetterai in fiacre, in piazza Santa Maria Nuova. Verrò a trovarti io stessa. Prendi il fiacre numero nove; è la data del giorno in cui mi hai conosciuta. Ora che farai?" "Come vuoi ch'io te lo dica se non lo so ... se non ho più la testa, se ho la febbre!..." Ella aveva i capelli sciolti, e me ne sferzava il viso con certi movimenti felini. "Ebbene," mi disse, "se hai la febbre vai a casa." "No, starò a vederti dormire." "Eh?!" "Starò a guardare le tue finestre dalla via, e ti vedrò dormire." Ella sorrise in modo inesprimibile, e mi avventò un bacio come un morso. "Birbone!" Scostò colle sue mani i capelli dalla mia fronte; mi guardò con certi lampi abbaglianti negli occhi - mi guardò a lungo così, tenendomi la fronte fra le mani - e poscia, come rispondendo a se stessa: "Vattene!" mi disse "vattene!" E non mi lasciava, e sporgeva verso le mie le sue labbra sitibonde, e chiudeva gli occhi. Mi richiamò di nuovo, quand'ero sulla soglia dell'uscio. "Dammi qualche cosa di tuo" mi disse; "dammi il tuo fazzoletto." E poscia un'altra volta: "Aspetta! Voglio che anche tu pensi a me." Si staccò dal seno uno spillo d'oro, e mi punse leggermente sulla mano. "Bravo!" esclamò dandovi su un bacio. "Ora vattene. Addio!" Attraversai l'andito al buio, e andavo tastando tutte le serrature dell'uscio, senza trovar modo di aprirle. Al di là dell'altro uscio udivo un fruscio di vesti e di passi, come se Eva andasse e venisse per la camera. Questa situazione si prolungava e cominciava a farsi imbarazzante. Non potevo tornare indietro, e non potevo chiamare la cameriera. Tutt'a un tratto udii uno scoppio di risa fresco, gaio, argentino - uno scoppio di risa che mi chiamava per nome, e comprendeva tutte le mie follie. Mi trovai, non so come, sull'uscio della sua camera; sollevai la portiera, e vidi quella leggiadra testolina che si affacciava fra le cortine del letto incorniciata dai biondi capelli e dai candidi merletti - saettandomi il delirio del suo sorriso, le ebbrezze dei suoi sguardi, e il fascino del suo silenzio. *** Io non saprei dirti quanto durasse cotesto sogno febbrile, e quello ch'io vi provassi. Avevo in seno tutte le gioie, tutti gli entusiasmi, tutte le frenesie ... e mi soffocavano. Sembravami che il cuore mi si dilatasse talmente, per tanta piena di affetti, che il mio petto non bastasse a contenerlo. Provavo nello stesso tempo tal fastidio di me, tal rimorso, come un dolore pungente. Sentivo che ero tremendamente felice. Passavo i giorni sognando ad occhi aperti, alla finestra, o presso il camino, o gironzolando per le vie - senza vedere, senza udire, senza pensare - e la notte divoravo avidamente tutte le ebbrezze. Partivo da lei all'alba, di nascosto, come un ladro che ha rubato il paradiso. Provavo sgomenti inesplicabili; di tratto in tratto il cuore mi palpitava di gioie improvvise, acri e dolorose; sentivo arcane e infinite ispirazioni artistiche che non avrei neppure tentato di esprimere, e impotenze desolanti. *** Ella mi amava veramente. Quell'amore sarà stato un capriccio, ma in quel momento era sincero. Le arrecavo paura e diletto. Delle volte mi guardava timidamente, e all'improvviso mi saltava al collo, ebbra anch'essa d'amore. Aveva certe strane curiosità di sapere come fosse fatto il mio cuore che l'amava in tal modo. Mi chiudeva gli occhi con le mani, metteva la sua bocca nella mia per sentire come fosse caldo il mio alito, ed appoggiava l'orecchio sul mio cuore per udire come battesse. Mi voltava e rivoltava in tutti i sensi, scomponeva i miei capelli, e quando l'affissavo a lungo negli occhi, li chiudeva con un piccolo grido di paura. "Se avessi saputo di doverti amare così" mi diceva, "non ti avrei più cercato. Mi fai male!" *** Delle volte voleva che le suonassi al pianoforte la musica dei suoi balli, ed ella mi appariva improvvisamente dinanzi nel suo leggiadro costume, e spiegava intorno a me tutte le seduzioni - per me! per me solo! - il sorriso inebbriante, gli sguardi pieni di promesse, i capelli disciolti, il seno palpitante ... E tutte le volte finiva saltandomi sulle ginocchia, e annegandomi in un'onda di velo. "Come ti amo!" mi diceva. "Come ti amo!" *** Un giorno mi disse, quasi paurosa: "Come farò a non amarti più?" *** E un'altra volta: "Sai ch'è più di un mese che ti amo così!" Erano esclamazioni di una commovente ingenuità, ma mi arrecavano aspri dolori. "Non mi amerai sempre così?" le dissi. "Oh, sempre!" mormorò con mestizia. "Neanche tu m'amerai sempre così!" *** In cotesto delirio, che si prolungava tanto, capirai che il mio tenore di vita era molto cambiato. Non lavoravo più, non ricevevo più nessuno, non scrivevo più nemmeno alla mia famiglia, tranne delle brevissime lettere, ad uso telegramma, e tutte le volte per chieder danaro. Non puoi immaginare come una tal passione sia divorante per uno che si trovi nella mia disgraziata condizione, e come divori specialmente il denaro, ch'è la cosa più preziosa. Io non spendevo un soldo per Eva, nemmeno per regalarle un mazzolino di viole, ma provavo mille nuovi bisogni: avevo comperato degli abiti nuovi, avevo bisogno di essere elegante, di lavarmi le mani con acqua di Colonia, di essere ben alloggiato, di desinare da Doney, di portar dei guanti - e tutti questi nonnulla sono enormemente dispendiosi per un pensionato del Comune a centocinquanta lire. Ohimè! Vorrei credere che fossi pazzo, perché fui assai vigliacco, perché fui infame. Io divenni esigente sino all'impossibile verso la mia povera famiglia - fino a strapparle il necessario per comprarmi delle cravatte. - Non scrivevo altro che per chiedere denaro, e mentivo anche l'affezione! Oh, mia povera mamma! Oh, padre mio!... e non arrossivo allorché vedevo giungere quel denaro che costava tanti stenti ai miei genitori! No! Non arrossivo! - E allorché le mie richieste si fecero più frequenti, più insistenti, vidi le lagrime di mia madre, lo sconforto di mio padre per non potermi mandare più nulla - e non provai altro dolore che la paura di rimanere senza quattrini - e non esitai, no! ad abusare dell'inesauribile affetto paterno fingendomi ammalato, e scrivendo di aver bisogno di denaro a ogni costo - e non pensai al dolore immenso, alle ansie morali dei miei genitori che per specularci sopra ... Ah! cos'ero divenuto, mio Dio!... dove avevo la testa? che se n'era fatto del mio cuore? Non pensai neanche a morire; non pensai a buttarmi in Arno - avevo bisogno di vivere. La risposta non si fece attendere. Ricevetti un vaglia di centoventicinque lire e una lettera che mi avrebbe lacerato il cuore se non l'avessi avuto di pietra. Mia madre ci aveva aggiunto i suoi scarabocchi e li aveva inzuppati di lagrime; mio padre mi scongiurava di vendere tutto quello che possedevo, se quei denari non mi fossero bastati per fare il viaggio, e di ritornarmene a casa, giacché non poteva mandarmi più nulla. Riscossi il vaglia e lacerai la lettera. Ero malato, non è vero? Avevo un'orribile malattia di cervello o di cuore! Ero pazzo! Non ero io! *** Alcune volte, quando aspettavo Eva delle ore intere nella sua camera, mentre ella riceveva i suoi numerosi amici, mentre la sentivo ridere e folleggiare nel suo salotto, provavo delle collere sorde ma selvagge contro di lei. Allora tutte le amarezze che quell'amore mi costava mi sfilavano davanti agli occhi. Ero geloso, e mi vedevo ridicolo, nascosto dietro il suo uscio a divorare in silenzio la mia gelosia. - Alcune volte sembravami che tutta quella gran gelosia non si riducesse ad altro che ad una febbrile impazienza di stringermi Eva tra le braccia. Poi ella compariva, sorridente, inebbriante - la luce si faceva e mi abbagliava. Ella trovava cento pretesti per venire a stare con me due o tre volte durante quelle visite, e in quei due minuti in cui ella mi saltava sulle ginocchia aveva tali carezze, tali baci, tali parole da farmi impazzire. Sembrava che gli ostacoli irritassero il suo amore e gli dessero mille nuove attrattive. Noi ci dicevamo delle cose futili, sciocche, senza significato, sottovoce, tremanti, estatici. - Poi ella mi lasciava con un bacio e scappava via. *** Una volta mi trovò che ridevo. "Che hai che ridi così?" mi domandò. "Penso alla bella figura che ci fanno quei tuoi amici di là, mentre tu sei qui con me ..." "Oh, mio Dio!... ma ne ridi in un certo modo!..." *** Un altro giorno le dissi: "Senti Eva, delle volte mi assale la tentazione di entrare all'improvviso in quel salotto, e schiaffeggiare tutti quei bei signori." "Sei matto?..." "Lo so anch'io. È una pazzia; ma ci avrei gusto, ecco!" *** Una sera ebbi la tentazione di origliare dietro l'uscio e di guardare dal buco della serratura. Lo feci con un gran battito di cuore - non di vergogna, ma di paura. Quand'ella venne da me, mi trovò così pallido e corrucciato che mi domandò dolcemente che cosa avessi. Io le dissi con amaro sorriso: "Che persone sono quelle, Eva?" "Oh, della migliore società." "Infatti sembrava che si tenessero molto al di sopra di voi. Vi fumavano in faccia!" "Hai visto?" "Sì!" esclamai con un sogghigno dove cercai di mettere tutto il fiele che avevo in cuore. Ella non mi rimproverò la mia indiscrezione. "Hai fatto male" mi disse semplicemente facendosi triste. "Ho avuto torto, lo so." "Non dico ciò per me, ma per te." "Oh, per me!" "Non ridere così, Enrico! Ascoltami; se vuoi essere felice contentati di amarmi e di essere amato come io ti amo. Tu hai il cuore caldo e la mente esaltata. Certe curiosità a mio avviso ti farebbero male." "Ah! voi lo sapete!" "Sì," rispose tranquillamente, guardandomi con tutta franchezza. "Ma che vuoi farci? Tu sai che cosa sono: mi hai amato appunto per questo. Ora per essere quella che sono bisogna che io mi rassegni a siffatte visite, anche quando mi annoiano." "Soltanto questo?" "Soltanto questo." "Oh! non basterà!" "Basterà ... perché ti amo!... Hai torto a lagnarti!" Mi guardò a lungo negli occhi con tanto amore che avrei giurato fosse sincero; mi prese entrambe le mani, e mi disse con serietà - ella che non era mai seria: "Ti amo ancora e voglio che tu mi ami. Mi prometti una cosa?" "Di'." "Giurami che non starai ad origliare dietro quell'uscio." "Ah!" mormorai amaramente con un riso ch'era una contrazione dolorosa del cuore. "Oh, mio Dio!" esclamò torcendosi le mani "Che timore potrei avere di essere spiata se volessi ingannarti?" "Perché non volete dunque che io ascolti?" "Perché ... tu l'hai visto ... Perché quelle familiarità insolenti che per me sono soltanto una mortificazione d'amor proprio, per te sarebbero morsi acuti di gelosia ... Per risparmiarti dispiaceri ..." "Che m'importa se questi non mi vengono da voi!" Ella lesse nei miei sguardi tutta l'amarezza che non c'era nelle mie parole, chinò gli occhi e mi disse solamente: "Come siete ingiusto!" C'era tal suono di verità nella sua voce, e così schietta e dignitosa franchezza nelle sue parole, nei suoi occhi, e nel suo gesto, che mi facevano soffrire orribilmente per tutte le sciagurate contraddizioni della vita. "Sì, lo sento che sono ingiusto!" esclamai. "Ma soffro orribilmente! sono geloso, Eva! Son geloso di te, di tutti quelli che ti vedono in teatro perché tutti ti desiderano; son geloso di tutti quelli che ti parlano, perché ti parlano per averti ..." "Oh!" esclamò Eva con uno scoppio di risa schiette e gaie "se sapeste come dovrebbero invidiarvi quei signori di cui siete geloso!" "Non importa; essi vi fanno la corte!" "Oh, non tutti! Ci sono quelli che vengono per prendere il mio thè, gli altri per trovare gli amici, altri perché la mia casa è di moda, altri pur di far sapere che ci vengono." "Io vorrei che non foste obbligata a ricevere tutte quelle persone, Eva." "Sono tutti abbonati, giovanotti chic, di quelli che dispongono dell'esito di uno spettacolo, ed io appartengo al teatro." "Io intendo che la donna che mi ama appartenga a me anzitutto!" "Allora non avresti dovuto innamorarti di una ballerina." "Oh, io mi innamorai della donna, perdio!" Ella sorrise tristamente. "La donna la vedesti un momento, nel dietro scena ... e scappasti via." "Ma io vi amo così, come siete!" "Lo sai tu come sono? Una donna non è che come vuol essere. Sai tu che cosa sarei senza la mia gonnellina corta e le mie scarpine di raso? Sarei una modesta operaia colle dita punzecchiate dall'ago, e con un vecchio ombrello sotto il braccio; una ragazza che potrebbe dirsi bellina se non avesse gli stivalini rotti e il cappellino di traverso - che andrebbe al mercato, farebbe la cucina, e se avesse fortuna sposerebbe un cuoco o un cocchiere. Ecco che cosa sarei, mio caro; invece ecco che cosa sono: faccio fare anticamera a tanti signori che sarebbero gelosi di te - e tu che non mi avresti neanche guardato se m'avessi vista andare attorno colle scarpe rotte, tu hai fatto delle pazzie per me. Oh! lo so bene ch'è assai meglio non esser costretti a far buon viso a quelli che ci sono uggiosi, e a soffrire delle galanterie insolenti. Ma che vuoi farci? Non son nata duchessa!" Venne a sedermi sulle ginocchia; mi cinse il collo delle sue braccia, e mi baciò a più riprese. "Andiamo, via! non piangere, bambino mio! amor mio! non piangere! mi fai male! Io ti amo davvero, sai! Non ho nulla da sperare da te, anzi potresti nuocermi, vedi che son sincera! Mi credi dunque che ti amo?" "Se tu non mi amassi così io farei una cosa semplicissima, mi ucciderei." "Ah! no!" esclamò essa con quel riso da bambina, tenendosi appesa al mio collo colle mani intrecciate, e dondolandosi sulle mie ginocchia. "Non voglio che tu ti uccida perché sei il mio amore, il mio amore bello! il mio amore bello!" e nella voce aveva la dolce cantilena con cui si cullano i bimbi. *** Alcune sere quelle visite si prolungavano molto innanzi nella notte. Era un giuoco di scherma fra quei signori a chi dovesse rimaner padrone del campo. Una volta Eva entrò improvvisamente e come se fuggisse. Era rossa in viso, e avea le narici dilatate. Chiuse l'uscio a chiave, si gettò su di me con passione, e nascose il mio viso sul suo seno, baciandomi sui capelli, come per impedirmi di uscire, o per nascondermi qualche cosa. "Che hai?" le chiesi svincolandomi dalle sue braccia, vedendola tutta turbata e colle lagrime agli occhi. "Nulla!" rispose. Io impallidii, e non osai domandarle altro. *** Il giorno dopo ella mi vide così cambiato che mi domandò anche lei. "Che hai?" E stavolta fui io che risposi: "Nulla!" Ella si fece pensierosa e parlò d'altro. Passammo quella notte come le altre, soffocando le ciarle infantili sotto i guanciali e scambiandoci i sorrisi nelle dolci ombre dei cortinaggi; però sentivamo che fra noi due c'era qualche cosa che ci faceva morire il bacio sulle labbra ed il riso in cuore. Ella mi guardava con quei suoi grand'occhi spalancati, col gomito sul guanciale, il mento sulla mano, il braccio trasparente attraverso la nebbia dei merletti, e i capelli che gettavano onde dorate sui candidi lini. - Aveva degli accessi quasi tristi e paurosi di tenerezza; mi gettava al collo le braccia nude, e mi nascondeva in petto la sua bionda testolina. - Poi mi stava di nuovo a guardare fisso senza dir parola, colla testa affondata nella tela batista, ed il braccio disteso, mentre le sue piccole dita giocherellavano colla trina della coperta. Una volta, mentre si parlava d'altro, esclamò: "Come son pazza ad amarti così!" E più tardi, dopo uno scoppio di risa tanto allegre e matte che mi facevano un senso di pena: "Come farò quando non mi amerai più?" Poi, senza badare a quel che rispondessi, mi parlò della sua sarta, delle sue vesti, dei suoi cavalli, dei suoi fiori, del teatro, di musica, di balli, mi parlò della mia arte, di me, del mio paese - giammai ella non mi aveva parlato della mia famiglia; era una circostanza che incominciava a sorprendermi. Era delicatezza? era istinto di gelosia? Allorché partivo, sull'alba, ella mi richiamò, mi attirò sui guanciali, allacciandosi tenacemente al mio collo, e mi domandò collo stesso tono della prima volta, come se fra la prima domanda e la seconda non ci fossero passate tutte quelle ore e quelle follie. "Che hai?" "Nulla." "Oh, non partire così!" esclamò colle lagrime nella voce. "Perché me lo domandi? Non mi ami? Non ti amo? Non siamo felici?" Ella appoggiava la testa sul cuscino, rivolta dalla mia parte, e mi fissava senza parlare, coi suoi grandi occhi pieni di lagrime. "Credimi," soggiunsi, "la nostra curiosità è funesta. Io l'ho capito, e non ti ho domandato altro, quando l'altra sera mi hai risposto: nulla." Mi prese le mani e le baciò - le sentii umide di lagrime. "Non mi ami più!" disse. "Dio lo volesse!" esclamai con un'esplosione di tutte quelle angosce che mi rodevano da due giorni. Ella si rizzò a sedere di botto, splendida di bellezza, sotto la fine batista, come una statua greca, e mi si buttò al collo, coprendomi di lagrime e di baci. "Si, tu mi ami! tu mi ami!" singhiozzò "ed io pure ti amo come una pazza!" Poscia, tenendosi allacciata a me come l'edera, nascondendo il suo capo nel mio seno, e parlandomi sottovoce, come vergognosa per quello che doveva dirmi: "Non credi che ti amo?" "Sì!" "Temi che io possa ingannarti per un altro?" "Oh, no!" E chinando maggiormente la testa, e abbassando di più la voce, e abbracciandomi più strettamente: "Perché quella domanda adunque?" "Perché ti amo! Perché son geloso ... in un altro modo." "Come?" "Oh!... non lo so!... non te lo dirò mai!" Tuttavia sembrò aver compreso, poiché allentò le braccia, non disse molto, e ricadde sul guanciale, nascondendovi il viso. "Ascolta!" mi disse vivamente, afferrandomi per le mani, mentre era per partire. "Piuttosto che cessare di amarmi ... quando lo vorrai ... domandami quello che vuoi ... Ti giuro che lo farò!" *** "Non voglio che tu venga a teatro" mi avea detto altre volte. "Perché?" "Perché ... perché ... È una fanciullaggine, lo so ... ma se ti sapessi là ... in mezzo a quella folla ... ciò mi farebbe pena." Io le fui grato di cotesta delicatezza, e promisi, e un giorno, la sera della sua beneficiata, con la logica così strana del cuore umano, le domandai di sciogliermi dalla mia promessa. Ella mi guardò sorpresa. "Perché?" "Voglio vederti." "Non mi vedi adesso?" "No! vederti là ... a quel modo!..." "Mi vestirò qui per te." "Oh, è tutt'altro!..." Ella sorrise e mi disse: "Orgoglioso!" "Orgoglioso?" "Si, vuoi godere del tuo trionfo, e dire: Quella donna che tutti desiderano mi appartiene!" "È vero ... sì!" "Ebbene," soggiunse semplicemente, "dillo pure giacché è la verità." La sua cameriera l'attendeva per pettinarla; prima di lasciarmi ella mi disse, come risovvenendosi: "Però mi prometterai di non essere geloso!" Ahimè! prevedeva forse che avrei dovuto esserlo? Non l'avevo più vista sul palcoscenico, e quando la rividi mi parve tutt'altra! Io comprendo come si possano fare quelle cose che si dicono pazzie - e sono brani di cuore strappato da penose voluttà, brani di ragione torturati dal delirio - per coteste donne che hanno un pubblico per amante, che ci sbattono sul viso tutte le seduzioni, inchiodandoci ad una poltrona d'orchestra, e che ci abbruciano gli occhi col lampo della loro bellezza, costringendoci ad affissarle avidamente. - Cotesta voluttà che s'inebbria di suoni, che abbaglia di luce, che sollecita con acri profumi, che vi fa ondeggiare dei veli dinanzi alla curiosità spasmodica, che ha il sorriso sfacciato, e la nudità pudica, che idealizza tutte le vostre più sensuali passioni, è mostruosa del pari, con tutte le cecità, con tutte le frenesie - e lo spasimo di sguazzarci dentro, le mani, i piedi, il petto, i capelli, di abbeverarsene, di affogarvi la coscienza, il cuore, il sentimento della vita, ha le medesime estasi inenarrabili, i medesimi splendori, le stesse torture, le stesse infamie ... Se si potesse vedere in cuore ad uno di quei felici mortali, su cui passa il turbine di una tal passione, e che va invidiato dalla moltitudine!... Quella donna per cui gli applausi avevano fremiti di desiderio era mia, avea posato la testa sul mio guanciale; ma io non ci pensai che per essere geloso delle sue spalle nude, della trasparenza dei suoi veli, di quei cannocchiali che sembravano baciarla con lingue di fuoco, di quelle mani inguantate che mi sembrava accarezzassero le sue spalle. Partii come un pazzo, assai prima che fosse terminato il ballo, ed andai ad attenderla in casa sua, arso di gelosia, di corruccio, di desiderio - spiegami tu questo contrasto. E allorché udii il suo passo leggiero per le scale, allorché me la vidi comparire dinanzi ancora ansante, allegra, ridente, colle guance rosse e gli occhi brillanti di giubilo, me le gettai al collo, stringendola freneticamente come se temessi di vedermela strappare dalle braccia. Ella credette che fosse l'entusiasmo destatomi dal suo trionfo! "Oh! come son contenta che tu sia stato lì!" mi disse senza scorgere il male orribile che mi facevano quelle parole. "Fu un vero entusiasmo, non è vero? Vedi quanti fiori!" E si pavoneggiava ingenuamente in mezzo agli enormi mazzi che il domestico aveva portato in sala. Io dovevo avere l'aria orribilmente stralunata; ma ella era così compresa della gioia del suo trionfo che non se ne avvide. Si aggirava intorno alla stanza con movimenti bruschi, vivi, quasi serpentini. Si mirava nello specchio, mi abbracciava e mi baciava, come baciava quei fiori, per sfogare la sua contentezza. "Quanto sono felice, mio Dio!" esclamava, senza avvedersi che egoismo c'era nella sua felicità. Suonarono il campanello. Eravamo nel salotto; ella mi prese per mano, e mi fece entrare nella sua camera. "Aspettami qui" mi disse. "È inutile, giacché me ne vado." "Te ne vai! E perché?" "Avrete molte visite ... È la vostra festa ..." "È vero!" disse tutta giuliva. "Vedete che mi rassegno anch'io ..." Ella mi guardò in volto con sorpresa. "Fai il broncio alla mia contentezza? Uh, brutto!" "No." "Davvero?" "Davvero." "Domani dunque?" "A domani." "Buona sera" Io non risposi; ella non se ne accorse. Era impaziente, tutta commossa di gioia, si contentava facilmente della mia affermazione, e non mi leggeva nulla in cuore. *** Partii con tal corruccio in cuore che mi sembrava di odiarla. Quando fui istrada piansi come un bambino. E il giorno appresso, dopo una notte di collera, di gelosia, e d'amore, appena furono le dieci corsi da lei. Avevo bisogno di vederla, di vedere i suoi occhi chiusi, di vederla dormire, e di sognare ancora le dolci notti di abbandono e d'amore. Avevo bisogno di schiudere le sue cortine, e di vedere il sorriso incerto di quelle labbra vermiglie ancora tiepide del respiro notturno, e quegli occhi ancora socchiusi che cercavano i miei. Entrai nella sua camera in punta di piedi, ma trovai ch'era già alzata, e che leggeva una lettera accanto al caminetto. Vedendomi entrare all'improvviso, si scosse bruscamente, come sorpresa, e fece un movimento istintivo e impercettibile quasi per nascondere la lettera che stava leggendo. Non fu che un lampo, ma bastò al mio occhio acutamente sospettoso. Si alzò, venne a gettarmi le braccia al collo, e mi disse con effusione: "Ah! bravo! Mi hai fatto un gran bene!" E gettò la lettera con tutta naturalezza sul marmo del caminetto. "Perché?" io le dissi. "Ieri sera mi lasciasti in tal modo! Vedi, ero così commossa che non mi avvidi che partivi in collera. Tu sei più buono di me ... Ci ho pensato tutta la notte ... Sei ancora in collera?" "Oh, no!" "Ma perché eri in collera? che ti avevo fatto?" Io chinai la testa senza rispondere. "Vedi", soggiunse, "se io avevo ragione di temere quello ch'è avvenuto! Ho più giudizio di te, io, o piuttosto t'amo di più." Mi prese per mano e mi fece sedere accanto al fuoco. "Come sei pallido!" mi disse. "Non hai dormito stanotte?" "No." "Caro! caro! caro!" esclamò con trasporto infantile baciandomi in fronte. Indi con improvvisa e ingenua vivacità: "Vedi, io t'amo per questo! T'amo perché mi ami così, perché sei matto, perché sei geloso, perché sei ingiusto e cattivo. Mi piaci così, ecco!" In questo momento sorprese i miei occhi che involontariamente si fissavano sulla lettera, e credette forse che la mia curiosità fosse rivolta a un braccialetto ch'era anch'esso sul marmo del camino, accanto alla lettera. "Ti piace quel braccialetto?" mi disse prendendolo in mano onde prevenire i sospetti che credeva scorgere in me. "Non l'avevo visto." "Ah!" esclamò come sconcertata. Aprì e richiuse due o tre volte la busta di velluto, facendo scintillare i raggi delle gemme, e soggiunse per riprendere un certo contegno, o per disarmarmi colla franchezza: "È un regalo per la mia beneficiata." "Oh!" "È bello, non è vero?" Io, che avevo la testa a tutt'altro, risposi: "Bellissimo." "È di gran valore." "Varrà per lo meno duecento lire." "Oh!" esclamò Eva, dimenticando a quella mia ingenua scappata tutte le sue preoccupazioni in una schietta risata. "Ne vale almeno duemila!" Ebbene, francamente, io fui umiliato della mia ignoranza sul valore delle gemme. "A che pensi?" ella domandò con una certa inquietudine. "Penso che sono ben fortunati coloro che possono offrire regali di duemila lire." "Tu mi dai il tuo amore che vale assai di più!" Io sorrisi amaramente. Si parlò un po' di tutto, ora serii, ora innamorati, ora quasi giulivi. Ad un tratto, le gettai fra i piedi questa domanda, che la fece trasalire, tanto era fatta bruscamente: "Chi t'ha regalato quel gioiello?" Ella rispose con la maggior franchezza. "Il conte Silvani. Saresti geloso di lui?" soggiunse vedendo che m'ero fatto serio. "Oh, avrei torto!" "E avresti torto davvero!" esclamò essa con tale accento dignitoso che mi umiliò. "Oh, Eva, perdonami!" esclamai quasi fuori di me, "Io m'avvengo che sono ingiusto e cattivo! Faccio dispetto a me stesso!... Ma son geloso! orribilmente geloso!" Per tutta risposta ella mi dette un bacio. "Perché non hai rimandato quel braccialetto?" le domandai dolcemente. Ella mi guardò con tanto d'occhi spalancati, come se stentasse a capire il significato delle mie parole. "Come, rimandarlo? Ma vuol dire rifiutarlo!" "Sì, rifiutarlo." Quel rifiuto sconcertava tutti i suoi principii sinceramente e francamente accettati da tanto tempo. "Ma non si usa in teatro!" mi disse sorridendomi come si fa ad un bambino che ha detto una sciocchezza. "Ah!" sogghignai. "Credevo che ci fosse della dignità anche fra le persone del teatro!" "Ma, mio caro, è un altro genere di dignità. C'è l'uso di far dei regali agli artisti in occasione delle loro beneficiate, e ciò non ha nulla di umiliante pel loro amor proprio. Perché ridi?" "Rido perché sono uno sciocco, un provincialetto, perché non so tutte coteste cose, e soprattutto perché non oserei mai offrire un regalo simile ad una signora per bene ... senza temere di farmi rosso in viso, o di farmi gettar dalla finestra dai suoi domestici." "Ma un'artista non è una duchessa, mio caro! te l'ho già detto." E ci metteva tanto candore che avrebbe disarmato tutt'altro risentimento che non fosse stato il mio. Andavo su e giù per la stanza, ed ella mi teneva dietro con gli occhi, tenera, amorosa, quasi timida - ella che era così orgogliosa! Io sentivo quello sguardo attaccato su di me, e sentivo che cercava il mio, che vinceva la mia collera, e m'irritava. Improvvisamente mi arrestai dinanzi al camino, soverchiato dal fascino mordente che quella lettera esercitava da un'ora su di me, e la presi in mano. Ella trasalì, ma non si mosse. "Entrando ho interrotto la tua lettura"; le dissi, e le porsi la lettera. Ella la prese vivamente. "Oh, nulla d'importante." "Ebbene, leggila pure." "L'avevo già letta", e con un gesto naturalissimo la buttò nel camino. Io non seppi dominare un movimento come per buttarmi sul fuoco. "Chi ti scrive?" le domandai facendomi rosso in volto. "Il conte Silvani." "Ah!" "Mi pare che la mia franchezza dovrebbe disarmare i tuoi pazzi sospetti!" "Tanto più che adesso devo contentarmi della franchezza!" le dissi amaramente, additando il foglio che ardeva. "Oh!" esclamò ella celandosi il viso fra le mani. "Oh!" Sentivo montarmi alla testa dei caldi soffi di collera selvaggia. Ella rimase un istante in silenzio, col viso rosso di vergogna, poi esclamò: "Siete pazzo!" "Avete ragione!" le dissi mettendo tutta la mia amarezza in un sorriso; e aspettai che mi rispondesse qualche cosa per sfogarmi di tutti i sarcasmi che mi bollivano in seno. Ella non mi diceva più nulla; attizzava il fuoco colle molle e aveva l'aria severa. "Quella lettera naturalmente accompagnava quel gioiello!" ripresi dopo un lungo silenzio, poiché sentivo il bisogno ch'ella dicesse qualcosa. "Sì" rispose seccamente. Allora, irritato di tanta calma, le domandai bruscamente: "Perché l'avete bruciata?" "Perché non vi riguardava." Perdei la testa: "È vero;" le dissi, "io non posso farvi dei regali di duemila lire!" Ella si rizzò come se l'avessi morsa al cuore, pallida, con certe lagrime ardenti negli occhi, e mi disse con un accento che non dimenticherò giammai: "Adesso siete più che ingiusto e più che cattivo!" C'era tanta collera nel mio cuore che non ne fui scosso. Rimasi com'ero, appoggiato al caminetto, duro, pallido, fosco. Ella fece due o tre giri per la camera, asciugandosi dispettosamente le lagrime; poi venne a me all'improvviso; prese le mie mani, e mi fissò in volto i suoi occhi lagrimosi. "M'avete fatto molto male!" mi disse. "M'avete detto quello che nessuno m'ha detto; mi avete rinfacciata la mia condizione come io sentivo di meritarmi, ma come nessuno osava dirmelo ... Ora che volete che io faccia?" "Scacciatemi." "Oh, no! ti amo troppo!" "Tu vedi come ti amo, come son geloso, giacché ti faccio piangere, e non fai nulla per togliermi da quest'inferno!" "Che cosa vuoi che io faccia? tutto quello che posso fare per provarti il mio amore non l'ho fatto? Tutto ciò che posso dissimularti per risparmiarti dei dispiaceri non te lo dissimulo? E tu me ne ringrazi con un aumento di sospetti ingiuriosi e d'insulti! La mia sincerità dovrebbe rassicurarti e t'irrita! Gli stessi fastidi che mi prendo per nasconderti quelle cose che possono ferire il tuo amore o il tuo orgoglio dovrebbero provarti che io ti amo tanto, sino a mentire per te!" Io la guardai in viso coll'occhio freddo e scintillante di collera come una lama di acciaio, e le piantai in faccia queste parole, come una pistolettata a bruciapelo: "Non vi credo!" Ella si celò il viso tra le mani, e si lasciò cadere sulla poltrona, come se quelle parole le avessero schiantato il cuore. Poscia levò verso di me il viso tutto bagnato di lagrime, e i singhiozzi le soffocavano la parola: "Perché?" balbettava "perché?" "Perché ti ho visto fingere allo stesso modo sul palcoscenico; perché il tuo volto è una maschera; perché dubiterò sempre che tu mentisca; giacché la tua arte è una menzogna!" gridai fuori di me, sputandole in faccia tutta la mia rabbia, tutta la mia gelosia e tutto il mio amore. Mi attendevo un'esplosione di collera. - Ella si alzò, pallidissima, si tenne ritta in faccia a me, piangendo silenziosamente e cogli occhi come attoniti per tanto dolore. Le labbra le tremarono due o tre volte prima di poter parlare. "Non mi credi!" balbettò. "E che dovrei fare perché tu mi creda? Dillo." "Dovresti abbandonare il teatro." "Oh!" "Dovresti romperla con tutto il mondo." "Oh!" "Dovresti venire a vivere con me." "Oh, no! non lo farò mai, perché ti amo!" mi rispose con uno scoppio di pianto. "Ah! è una ragione singolare!" "Si! Tu pel primo te ne pentiresti, tu!... No! no! no!" Allora, due o tre volte, feci per precipitarmi su di lei, e strangolarla; le gettai in faccia un sorriso che valeva uno schiaffo, e scappai via. Quando la notte tornai a casa, con tutte le smanie, tutte le frenesie, tutte le più pazze risoluzioni in cuore, trovai Eva, sulla soglia della porta, che mi aspettava. "L'hai voluto:" mi disse semplicemente, "ecco che t'ho obbedito." *** Credetti di esser felice. Ella mi apparteneva intieramente; non aveva che me. Mi pareva di avere avvinto più solidamente la sua esistenza alla mia, rompendo tutti i legami che l'attaccavano al mondo esteriore. Io più non sarei stato geloso di tutta Firenze, e avrei potuto uccidere come un cane colui che avesse osato stendere la mano verso la mia felicità. Mille volte avevo fatto quel sogno senza sperare di realizzarlo giammai, e l'avevo abbellito con seducenti particolari. L'idea sola di avere Eva accanto a me, ad ogni ora della mia vita, sotto il mio medesimo tetto, mi avea creato altre volte delle estasi di paradiso. Avevo sognato le ridenti follie di una eterna luna di miele, le passeggiate in campagna, la fiamma del caminetto, la lucerna della sera, i giuochi infantili, e i dolci silenzi. Avevo pensato a tutte le parole più comuni che ella avrebbe potuto dirmi nelle più insignificanti congiunture. L'avevo vista come un raggio di sole in tutti gli angoli della mia camera. Ahimè! il domani, allorché la vidi sotto le povere cortine del mio letto, allorché ebbe freddo e non ebbi altro da metterle sui piedi che il mio paletò, allorché accese il fuoco del mio camino e si tinse le mani - quelle candide manine - e tossì due o tre volte pel fumo, allorché dovette trascurare i suoi capelli per fare il caffè, provai un dolore nuovo e come una spaventosa sorpresa; mi parve che la fata fosse svanita, e non rimanesse più che una bella donnina - di quelle che piacciono - ma io avevo bisogno di adorarla! Un demone maligno si assise sogghignando al capezzale del mio letto sin dalla prima notte, per trascinare nel volgare e nel ridicolo tutte le mie illusioni. La realizzazione dei miei castelli in aria era diventata la sorgente di mille fastidi, di mille sorprese, ed anche di mille dolori. Ero costretto a starmi fuor di casa la maggior parte del tempo per non spoetarmi intieramente l'anima alla vista di lei che, con un'abnegazione senza pari, affaccendavasi nelle cure domestiche. Mi era parso che lo starle sempre vicino dovesse essere una felicità sovrumana, e quella felicità, vista da vicino, aveva particolari così volgari che mi facevano chiudere gli occhi e sanguinare il cuore. Delle notti intiere, col gomito sul guanciale, vedendola dormire accanto a me, bella, serena, quasi felice anche nel sonno - lei che mi aveva tutto sacrificato - domandavo a me stesso se ella soffocasse, come me, le medesime dolorose impressioni, oppure se non le provasse nemmeno perché mi amava di più, o in un altro modo, o se nella donna ci fosse, come un istinto provvidenziale, l'affetto del focolare domestico ... oppure se la sua condizione, l'educazione ricevuta, i suoi sentimenti, la tenessero molto al di sotto della mia ombrosa e delicata suscettibilità ... E finivo per darle torto - a lei! di non aver la delicatezza di risparmiarmi certi particolari volgarissimi che mi sembrava affrontasse con la più volgare disinvoltura ... Non cerco di spiegarti cotesto mostruoso mistero che chiamasi cuore. Non mi sono mai sognato di giustificarlo. Ti faccio osservare un fatto. Cotesta disillusione, cotesta amarezza intima, m'invadeva tutto, la mente come il cuore. L'arte mi negava anch'essa le sue ispirazioni; era forse gelosa, o la vita mi assorbiva troppo per potermi sollevare sino ad essa. Però fu un altro gran dolore per me. Provare la febbre e l'impotenza di creare! L'hai tu provato? Ero stato delle ore intere dinanzi a quel cavalletto, accanto a quella donna che mi aveva riempita l'anima di tanta luce e di tanti colori, che adesso attaccava i bottoni ai miei vestiti, e mi rendeva ebete; e qualche volta mi ero strappato i capelli, qualche altra volta avevo pianto di rabbia, o avevo tirato giù linee o pennellate che il giorno dopo scancellavo. Ella mi guardava con sorpresa, mi stringeva le mani, mi diceva delle parole affettuose. Io le rispondevo sgarbatamente, infastidito, quasi iroso, e delle volte, trovandomi l'anima così vuota, piangevo tutt'altre lagrime. Intanto i bisogni materiali della vita si facevano sentire più che mai. Quel pochissimo di cui potevo disporre era stato dissipato in un lampo; ero indebitato fin sopra ai capelli coll'oste, col padrone di casa, con tutti i miei amici, ed anche coi semplici conoscenti, poiché la necessità mi aveva reso sfacciato. Avevo momenti di preoccupazione tale che le carezze di Eva mi avrebbero fatto montare in collera. Non osavo più scrivere ai miei genitori perché avevo l'orgoglio del mio fallo, ed il mio amore sciagurato non era abbastanza potente per assorbire anche e soffocare il rimorso di strappare il pane di bocca alla mia famiglia onde prolungare la mia dolorosa follia. Ero troppo orgoglioso per far trapelare ad Eva la menoma mia preoccupazione; e allorché ella si mostrava più affettuosa, più sommessa, e cercava timidamente di prender parte alle mie angustie e di venirmi in aiuto, avevo per lei modi aspri e parole dure. Per vivere alla meglio avevo accettato una delle più umili occupazioni - dipingevo ad oleografia; il mio cervello si atrofizzava, ma si tirava innanzi. *** Il verno era ritornato, e rigidissimo. Io andavo al caffè tutte le sere a bere il ponce e a leggere il giornale, mentre Eva mi aspettava a casa. Mi occupavo delle quistioni internazionali e tenevo dietro al corso dei valori pubblici con interesse! Leggevo sino alla quarta pagina; poi facevo quattro chiacchiere coi vicini, e tornavo a casa sbadigliando. Una sera avevo trovato il ponce freddo; la politica volgevasi contraria al mio colore - poiché avevo già un colore politico! - il mio vicino era stato sgarbato; fioccava maledettamente, e tornando a casa avevo trovato il camino spento. "Perdio!" dissi ad Eva aspramente; ella lavorava presso il lume. "Non vien certamente la voglia di tornare a casa." Essa levò su me i suoi occhi sempre dolci e sereni, e non rispose. "Con una notte come questa farmi trovare una ghiacciaia!" ripresi. Vedevo che ella avea il viso livido, che tremava dal freddo sotto il suo scialle, e non pensai che in quella ghiacciaia ella avea dovuto pur starci tutto quel tempo in cui io avevo acconciato l'Europa a modo mio, seduto in un angolo ben riscaldato del caffè. "Non è freddo" rispose. "Perdio, s'è freddo, si gela." "Non c'è più legna", soggiunse timidamente. "Non ce n'è più in Firenze?" Ella chinò il capo sul lavoro e stette zitta. "Non hai danari?" domandai. Era la prima volta che quella parola mi veniva sulle labbra, e malgrado fossi tanto cambiato, mi fece una singolare impressione, come se avesse suonato altrimenti della mia intenzione. "No", rispose Eva dolcemente. "Come! non hai danari?" replicai, senza che la parola quella volta mi ripugnasse. "Hai fatto delle spese straordinarie?" "No." "Ma non siamo che ai venti del mese." "È vero." Malgrado il mio abbrutimento un raggio di luce si fece nella mia mente, e mi parve che attraversasse la parte più sensibile del mio cuore come uno stile di acciaio. "Vuol dire ..." esclamai, sentendo che la voce mi tremava, "vuol dire che i danari che ti ho dato ciascun mese ... non bastavano!" "Che importa?" mi diss'ella sorridendomi con la stessa dolcezza. "Ma allora ... come hai fatto?..." "Avevo del danaro." "Tu!!!" e mi nascosi il volto fra le mani. Il mio orgoglio si contorceva dolorosamente, poiché il mio cuore non si commoveva più. "Sì." "Tu non avevi nulla quando venisti." "Avevo quei pochi gioielli." "Li hai venduti?" "Sì." "Ah!" Ella venne a me dolcemente; mi rialzò il capo, e mi baciò in fronte. "Non mi ami più?" disse. "Perché?" "Perché quello che io ho fatto ti dispiace." "No." "Ti fa arrossire." "Sì." "Non mi ami più! Io non mi son vergognata di quello che hai fatto per me." "È tutt'altra cosa; io sono un uomo." "È lo stesso quando si ama!" Io le baciai le mani, e la guardai con occhi che avevano le migliori intenzioni di adorarla. Ella aveva una cuffietta assai modesta; alcune ciocche di biondi capelli le scappavano attraverso i nastri scoloriti; sul suo seno s'incrociava un leggiero scialletto; aveva le labbra pallide e le mani livide. Le prime parole che mi vennero in bocca furono: "Ed ora come si fa?" "Bisogna aver coraggio!" "Oh, se potessimo contentarci delle belle parole!" le dissi aspramente. "Mio Dio!" rispose ella timidamente, come per rabbonirmi, "non sono stata mai ricca, tu lo sai; quella bella casa e quei bei mobili non mi appartenevano, e, pur troppo, tutto il mio danaro lo spendevo malamente per vivere in un certo lusso; sicché quando gli ho voltato le spalle possedevo ben poco. Ho fatto tutto quello che ho potuto, e te l'ho nascosto per risparmiarti un dispiacere di più. Adesso non ho più nulla." "Io non vi ho chiesto nulla!" le dissi amaramente. "Oh!" "E se l'avessi saputo non vi avrei permesso di infliggermi questa umiliazione che adesso mi rinfacciate!" "Oh!" ripeté Eva con un raddoppiamento di dolore. Io non ebbi cuore per prendere le sue mani, con le quali si celava il viso, e asciugarle le lagrime che vedevo scorrerle fra le dita. "Enrico!" mi disse ella dolcemente come nei nostri più bei giorni d'amore, "vedi come sei diventato? Vedi se m'ingannavo presagendo quel ch'è successo? Tu te ne sei pentito pel primo!" L'abbassamento morale, direi, era così pronunziato in me che non pensai nemmeno di protestare per illuderla; e non pensai che quel mio lugubre silenzio doveva pesarle sul cuore come piombo fuso. Poi, quando me ne avvidi, dopo un lungo e mortale indugio, non trovai di meglio per consolarla che sciorinare un'imprecazione. "Arte pitocca e bugiarda!" esclamai stendendo il pugno verso il cavalletto "che vai tronfia d'orgoglio e non dai pane da sfamare!" Eva mi guardò sorpresa, quasi addolorata. Io le risposi quel ritornello che riepilogava tutte le mie abbiezioni: "Ed ora come si fa?" Non rispose. "Se tu tornassi al teatro?" le dissi con tutta naturalezza, compiacendomi, direi, della mia vigliaccheria. "È impossibile;" rispose colla stessa calma rassegnata; "non è la sola abilità che forma l'artista; ma la carriera fatta, il palcoscenico, il pubblico, i giornali teatrali, i cartelloni degli spettacoli, gli agenti, gli impresari. Bisogna vivere in questo mondo per appartenervi. Io ne sono uscita, e nessuno più mi conosce. Per rientrarvi bisognerebbe che incominciassi da capo." Allora soltanto mi balenò dinanzi agli occhi tutta l'estensione del sacrificio che ella avea fatto alle mie folli esigenze. "E tu sapevi tutto questo?" le dissi. "Sì" rispose tranquillamente "e sapevo anche che doveva arrivare questo giorno." "Ti giuro," esclamai, "che ti renderò tutto quello che mi hai sacrificato, o mi ucciderò!" Ella mi guardò in modo singolare con quei suoi occhi mesti e dolci, e mi disse quasi con un soffio di voce: "Io non me ne sono mai lagnata, e tu non mi avevi mai promesso di ucciderti." *** Passai la notte in magnanime risoluzioni, e appena fu giorno cominciai a darmi le mani attorno per cercare altre occupazioni che mi fruttassero qualcosa. Ma le magnanime risoluzioni non riuscirono che a procurarmi un modesto impiego, presso un fotografo. Di meglio in meglio, dalle nebulose altezze della grande arte io ero arrivato a stendere i colori dietro le fotominiature che si vendevano a dodici lire l'una. E neanche questo bastava. Io ero inquieto, irascibile, dispettoso. Ella trascurava il suo vestire, era triste, e qualche volta stizzosa; aveva certi suoni di voce aspri, certi sorrisi che non la rendevano bella. Io credevo coscienziosamente di farle dei veri sacrifici andando a casa la sera invece di andare al caffè, e fumando la pipa accanto a lei, leggendo il giornale, mentre ella lavorava. Ambedue senza dire una parola, sentendoci gravare quel silenzio sul petto come un peso enorme. Dopo alcuni giorni osservai in lei un cambiamento che mi avrebbe sorpreso se il mio cuore fosse stato più all'erta. Ella cantava per la camera, sembrava allegra, aveva comperata una veste di seta e degli stivalini nuovi coi suoi risparmi - faceva già dei risparmi! - Aveva dei guanti e si abbigliava con cura! Quell'aria di festa si era stesa anche al mio focolare e sulla mia mensa - ed io ne godevo come un parassita! Mi accadde due o tre volte di non trovarla in casa, e non le domandai dove fosse stata. Una sera trovai la chiave nella serratura. La camera era buia. La chiamai e non rispose. Accesi il lume e vidi la camera vuota; sul camino, appoggiata allo specchio, e messa con cura in evidenza, c'era una lettera aperta; era per me - ecco che cosa lessi: " Mio caro Enrico, tu non mi ami più, io non ti amo più nemmeno - e siamo pari. Te l'avevo predetto! Tu mi hai visto attizzare il fuoco, e far la calza; io ti ho visto stendere tranquillamente i colori sulle tue stupide fotografie, senza ispirazione e senza entusiasmo; ecco perché non ci amiamo più. Le asprezze, i diverbi, le amarezze, son degli accessori. Domani forse saremmo arrivati a picchiarci! Ti lascio, e credo fare del bene anche a te. Tu hai bisogno di sognare per buscarti gloria e quattrini; io non ho che la mia giovinezza, e bisogna che ne approfitti se non voglio andare a finire all'ospedale. Tu hai il cuore buono; ti ho parlato con franchezza, e credo perciò di non lasciarti in collera. Io ti voglio sempre del bene, e te lo proverò, quando potrò. Eccoti 500 lire. " *** Devo confessare che la prima impressione destatami da quella lettera fu di sollievo. Tutto quello che c'è di falso e di malsano in tali legami si scorge al sentimento inesplicabile di soddisfazione che si prova rompendoli, anche quando il romperli costi qualche lagrime. Poi, quando la tempesta è passata rimangono qualche volta nei bassi fondi limacciosi le serpi che si sono avviticchiate più strettamente al cuore, e che hanno più tenace vitalità: - il dispetto, l'amor proprio ferito, la vanità schiaffeggiata. Trovandomi solo in quella camera ove m'aveva aspettato tante volte, non pensai ad altro che al modo con cui ella l'aveva abbandonata; e quando mi avvicinai a quei guanciali che conservavano ancora l'impressione del suo capo non pensai a quell'altro letto dove ella forse dormiva, se non perché non era il mio. Non pensai a quei baci che più non desideravo se non perché un altro li aveva. E al nuovo giorno il raggio di sole che veniva dalla finestra era così allegro, diceva tante belle cose della giovinezza, dell'arte, dell'avvenire, della mia famiglia, cui non avevo rivolto il pensiero prima senza una spina nel cuore, che mi trovai con sorpresa l'animo in festa: esso non voleva rammaricarsi ad ogni costo dell'abbandono di Eva. Scrissi ai miei genitori, fumai la mia pipa, riordinai tutti i miei utensili da dipingere, come se non dovessi che ritornare all'arte perché l'arte mi sorridesse, e non pensai ad Eva che pel dispetto di aver trovato fra la cenere del caminetto una busta mezzo arsa, ove l'indirizzo di lei era scritto con quello stesso carattere elegante della lettera che accompagnava il braccialetto del conte Silvani - e per quel biglietto di cinquecento lire che, tutto sdegnato, misi nel portafogli, col fermo proposito di buttarglielo in volto quando l'avessi vista. Ahimè! io non la rividi! non le buttai nulla in viso! Il vuoto che si era fatto nel mio cuore, a furia di vivere soltanto per esso, mi avea prostrato intieramente, e aveva isterilito il mio ingegno. Tutte le orride lingue della miseria del cuore, dell'intelletto e della borsa, lambivano la mia esistenza. L'avvilimento mi snervava, e logorava la mia vita nell'ozio, sulle panche di un bigliardo o di un caffè. I debiti, l'inerzia, e la miseria mi affogavano; tutta l'attività del mio spirito non aveva altra mira che di farmi acconciare alla meglio in quel fango - ed io mangiai tranquillamente il biglietto di cinquecento lire. *** Poi anche questo finì. E allora incominciai un'altra lotta più bassa, più accanita, più dolorosa, la lotta degli espedienti, delle transazioni d'amor proprio, delle viltà, contro un desinare. Dopo aver venduto tutto quello che era vendibile, le tele, i disegni, le scatole, i colori, gli abiti, le scarpe, tutto, mi trovai senza pane, quasi senza vesti, alloggiato come in ostaggio del mio debito, con cinque lire in tasca, e certe allucinazioni come quelle che si devono provare al momento di smarrire la ragione. *** Mi venne in mente di giocare. Mi ricordai di tutte quelle storielle e di tutti quei bei romanzi ove si parla di guadagni enormi fatti con un nulla, e mi parve d'esser ricco possedendo cinque lire e quella bella idea. Salii senza esitare le scale di una casa ove gli artisti e gli studenti poveri andavano a disputarsi l'un l'altro il pane quotidiano; arrischiai una lira, poi l'altra, poi l'altra, poi l'ultima. Vedevo delle fiamme abbaglianti passarmi dinanzi agli occhi, e provavo degli improvvisi sbalordimenti. Mi parve che si facesse un gran vuoto nel mio cuore e ne sentii tutta la penosa sensazione, nel momento in cui si voltava la carta che doveva decidere dell'ultima mia lira. Tu non sai quel che voglia dire l'ultima lira; vuol dire il pane dell'indomani, e si ha lo stomaco vuoto! e i fantasmi dei tuoi bisogni ti attraversano in un lampo lo spirito!... Poi sentii una gran calma improvvisa, come una specie di benessere, una terribile lucidità d'idee. Avevo perduto. Almeno non avevo più nulla! Scesi le scale con passo fermo. Avevo la vista chiara e la mente tranquilla. Passeggiai per le vie più frequentate; lessi gli annunzi degli spettacoli; passai dinanzi alle vetrine di parecchi caffè provando una strana soddisfazione a veder la gente che vi era; andai pel Lungarno alla Pescaia, e stetti una mezz'ora a guardare i bizzarri riflessi del gas sulle acque del fiume, senza pensare un istante che sarebbe stato anche più bello trovarvisi in mezzo. Poi, quando suonò la mezzanotte, mi trovai come per abitudine nella mia strada. Avevo freddo, e mi ricordai che non avevo meglio da fare che andare a letto. *** Il giorno dopo pensai che era naturalissimo di andare a chiedere qualche cosa in prestito al solo amico che non mi voltasse ancora le spalle, come tutti gli altri, Giorgio, e mi meravigliai come quell'idea non mi fosse venuta prima. Quell'idea non mi fruttò che una lunga corsa, ed io non ero molto in forze. Giorgio non era in Firenze. Domandai quando sarebbe ritornato; mi risposero, fra dieci o quindici giorni. - Dieci o quindici giorni! Quella risposta mi lasciò come istupidito; tornai indietro colle mani nelle tasche, e zufolando un'arietta fra i denti. Mi venne in mente di fumare. Cercai in tutte le mie tasche, e non vi trovai che uno scatolino di fiammiferi; era pieno. "Se potessi cambiarlo con un sigaro!..." pensai, "o con un pezzo di pane!" E credo anche che scappai a ridere! Avevo una preoccupazione insistente; quella di ammazzare il tempo come se aspettassi qualche avvenimento e l'indugio mi pesasse. Pensai di trastullarmi colle mie fantasticherie, giacché non avevo più fiducia nell'ispirazione, e di andare alle Cascine per cercarvi la solitudine. Ahimè! la mia mente era vuota, come il mio cuore, come il mio stomaco. Andavo baloccandomi come un imbecille pei viali, ora guardando correre le nuvole più basse e brune su di un cielo di piombo, attraverso gli incrociamenti dei rami nudi, ora tenendo dietro con grande curiosità ai passeri che correvano sull'erba riarsa dal gelo in cerca di cibo - anch'essi avevano fame. Tutt'a un tratto udii uno scalpito accelerato e un grido "guarda!" e mi gettai sul ciglione, tutto sossopra, come se ne valesse la pena! E vidi passare come frecce due cavalieri, anzi un cavaliere e un'amazzone. L'amazzone era lei, Eva! - la riconobbi al riso, rideva allegramente, e alla persona: ma non la vidi in faccia; era rivolta verso il suo compagno, gli parlava e non mi vide - credo almeno che non mi abbia visto. Il suo cavallo era coperto di sudore, aveva le narici rosse e mandava nugoli di fumo. Ella era leggermente inclinata sulla sella; acconsentiva la mano alle redini e tutta la persona ai bruschi movimenti del cavallo, con grazia ardita e sicura. Si udivano stridere il cuoio e le cinghie della sella; il velo le svolazzava dietro coi biondi capelli, e la lunga veste ondeggiava come un prolungamento della sua persona. Il giovane che l'accompagnava aveva la sigaretta fra le labbra, il brio spensierato, e nel sorriso, nel gesto, nel guanto, aveva come l'insolenza di tutte le ricchezze, della gioventù, della salute, dell'avvenenza, della condizione e del danaro. Non so se Eva mi vide; so che vedendola così bella e accanto a quel bel giovane mi parve tutt'altra donna; mi parve che non avrei giammai osato di stringerle la punta di un dito. Più non sentivo il menomo desiderio di lei. C'era come un abisso fra di noi. Ella era così lontana, così in alto, che non provavo né desiderio, né memorie - o erano di tutt'altro genere. - Se mi avesse gettato un pezzo da cinque lire, non l'avrei preso, ma se mi avesse buttato un pezzo di pane, chissà ... quando ella avesse svoltato l'angolo del viale!... *** Verso le sei mi trovai senza avvedermene dinanzi all'osteria dove solevo desinare. Mi sentivo stanco, e mi rammentai che non avevo mangiato dal giorno innanzi. Allora provai una paura improvvisa, rapida come un lampo. "Dio mio!" balbettai, "se lo sapesse mia madre!" Mi aggirai tutta la sera per le vie come un fantasma, senza direzione, senza sapere che fare, guardando stupidamente tutti quelli che incontravo, non per altro che per cercar d'indovinare se avessero desinato. *** Il freddo mi arrecava le convulsioni; avevo le vertigini; la mia camera era gelata, e le coltri della padrona erano povere come il mio vestito. Tutta la notte non potei chiuder occhio: provavo degli stiramenti convulsivi di stomaco, delle nausee che mi facevano assai soffrire. Mi rammentai di Eva, di averla incontrata alle Cascine, e quel ricordo fu come di persona che avessi conosciuto molto tempo addietro. Nella mia mente c'era un penoso sonnambolismo che faceva correre incessantemente il mio pensiero stanco dietro certe larve senza forme precise, o dietro le memorie del passato. Mi ricordavo di tutti i particolari del mio amore per Eva, anzi una forza che non era nella mia volontà vi costringeva quasi ostinatamente il mio pensiero, e parevami che mi ricordassi di un fatto accaduto ad altra persona, o narratomi molto tempo addietro. Non mi sorprendevo nemmeno di non esserne geloso. Prima di tutto l'amore sta in un complesso di circostanze, e in me allora non c'erano che circostanze negative. L'avevo amata quando la mia immaginazione e il mio cuore sarebbero stati ricchi. Quanto alla gelosia, essa richiede, se non un grande amore, almeno una certa dose di amor proprio che renda possibile un parallelo anche ipotetico fra due rivali. - Io avevo fame! *** Avevo anche preoccupazioni lugubri. Pensavo alle ore che mi rimanevano ancora di vita e alle sofferenze che dovevano accompagnare tal genere di morte, come per conciliarmi con quell'idea. Non osavo uscir di casa, non ne avrei avuto la forza, e sembravami che tutti dovessero leggermi in viso la fame. Avevo ancora dell'orgoglio! L'aria era frizzante. Dalla finestra vedevo la gente andar lesta, certuni avevano la cera sorridente: molti una tranquilla spensieratezza; tutti erano certi di trovare a casa il desinare. Vedevo i camini che fumavano, e, attraverso i vetri delle finestre di faccia alla mia, donne affaccendate e fumo di vivande. Vedevo tutto ciò con una dolorosa lucidità di mente, e fermavo il mio pensiero in mezzo a tante domestiche felicità, che vedevo o che indovinavo, con una penosa voluttà; e domandavo a me stesso, con immenso sconforto, se fosse possibile che tutta quella gente felice potesse credere che a venti passi c'era un uomo che moriva di fame. *** La sera le mie sofferenze si fecero insopportabili. Uscii come un pazzo. Mi trascinai dinanzi a tutti i caffè e a tutti i teatri, nascondendomi fra i monelli, cercando il buio, esitando lungamente. Poi, tutt'a un tratto, mi trovai abbietto, rassegnato, contento di esserlo. Vidi uscire una coppia di giovani eleganti dalla Pergola; la donna bella, coperta di pellicce e sorridente; l'uomo con la cravatta bianca, e guardava lei con occhi innamorati. Ella montò in una bella carrozza, gli strinse la mano e gli sorrise. Egli la vide partire, col cappello in mano e gli occhi intenti; allo svolto della via un guanto bianco si affacciò allo sportello del legno, e il giovane salutò nuovamente quel guanto; poi si avvicinò al gas e lesse un piccolo bigliettino che aveva in mano; - gli occhi gli raggiavano, sembrava felice, doveva esser buono. Me gli avvicinai col cappello in mano e gli dissi: "Ho fame." Cotesta terribile verità doveva leggersi chiaramente sul mio volto, poiché quel giovane mi guardò sorpreso, senza parlare, e mi diede un biglietto da cinque lire. Dovette accorgersi delle lagrime che avevo negli occhi febbrili; si fermò a guardarmi e mi disse: "Voi siete giovane, e sembrate sano; come va che avete fame?" Però non attese altra risposta da me - io non avevo alcuna da dargliene - e soggiunse: "Se volete occuparvi venite a questo recapito domani alle undici." *** Era giovane, amato, ricco, felice, aveva del cuore, e quel ch'è più raro, la delicatezza del cuore. Egli mi fece fare il suo ritratto, me lo pagò benissimo, non solo, ma risparmiò anche il mio amor proprio comprendendo le cinque lire che mi aveva anticipato nel prezzo del lavoro. Egli mi aiutò in tutti i modi, col danaro, con le raccomandazioni, cogli incoraggiamenti, ed anche, posso dirlo, colla sua amicizia. Mercè sua entrai in un'altra vita, nella vita operosa, lauta e onorata. Povero giovane! aveva il cuore pieno e l'espandeva! Un bel giorno la sua felicità si esaurì – egli avea creduto che fosse inesauribile. - La sua amante era una gran dama, portava un bel nome, e cambiava spesso d'abiti e d'amiche intime. - Egli ebbe un duello, per una quistione di giuoco, con un capitano di cavalleria, e fu ucciso - il marito fece da secondo del capitano. - I suoi migliori amici gli diedero torto; dissero che egli spingeva le cose sino al romanticismo, che aveva mancato di delicatezza e di saper vivere che l'avea ricompensata di tutti i sacrifici ch'ella gli avea fatti pel passato, e della felicità che gli avea regalato, compromettendola; che era ridicolo mostrarsi più geloso del marito. Egli pagò con la vita. *** Perché ti ho narrato anche questo episodio estraneo al mio racconto? Tant'è, acciò serva a qualche cosa, ti dirò che, non so perché, pensai ad Eva che non era ricca, che non era gran dama, che non aveva un bel nome, e che era nella condizione di dover smungere borsa dai suoi amanti, come la gran dama smungeva i cuori dei suoi. *** Io avevo vissuto vent'anni in dieci mesi, e mi sentivo forte, pieno di vita, di cuore, di memorie e d'immaginazione. Se non avessi tanto goduto e tanto sofferto credo che non avrei mai avuto tanta vigoria di mente e d'anima, tanta felicità di trasmettere nelle mie opere cotesta sovrabbondanza di vita. Avevo una bella riputazione, ero quasi ricco, e godevo la vita - io che avevo avuto l'anima piena di sogni luminosi e di aspirazioni ideali, e l'avevo ancora qualche volta! La contraddizione che c'era nella mia esistenza fra le passioni e i sentimenti, si rivelava nelle mie opere. Ero falso nell'arte com'ero fuori del vero nella vita - e il pubblico mi batteva le mani. Quegli applausi, delle volte, mi umiliavano agli occhi miei stessi, ma sovente mi ubbriacavano. Sembravami che andassi tentoni in cerca di non so che; mi sentivo isolato, e spesso ridicolo; avevo una menzogna per l'arte che avvilivo e per la società che ingannavo; mi inebbriavo di tutti i piaceri, e di tanto in tanto sentivo il bisogno di uscir fuori da quell'atmosfera come un nuotatore che annega. Non mi rimanevano che le passioni più sterili, e le arricchivo di tutte le esuberanze del mio cuore, poiché sentivo il bisogno di avere delle passioni ad ogni costo. Non credevo più nell'amore, dopo averne fatto lo sciagurato esperimento, e dopo aver veduto nelle braccia del grosso capitano di cavalleria quella donna per la quale il mio benefattore avea dato sorridendo i suoi venticinque anni, quella donna così elegante, così delicata, così poetica - e mi sbramavo nel capriccio. Non avevo un caldo sentimento religioso; il sentimento civile lo vedevo sciupato nelle lotte dei partiti, e intorbidato dalle dispute di giornali, rare volte convinti di aver ragione. Vivevo lontano dalla famiglia, in mezzo ad un mondo di usurai e di egoisti e di gaudenti; l'atmosfera era calda di effluvi giovanili. - Come vuoi che io potessi comprender l'arte in tali condizioni?... mettendomela sotto i piedi! Arrossivo delle mie illusioni di una volta, e per non ridere di me che mi ostinavo ancora a sognare in mezzo a tanti che tenevano gli occhi aperti, risi di quella buffonesca serietà, e di quella sordida preoccupazione generale. Risi del contegno ipocrita per nascondere il marcio, della frase elegantemente vaporosa che conteneva desideri volgari, del pudore del velo, e dell'innocenza dello sguardo. Ero ricco di giovinezza, di gloria e di fiducia in me. Più di uno stivalino altiero, di quelli che avevo sognati, avea toccato per me il lastrico della via, e si era posato furtivo sul tappeto della mia scala. Più di un guanto profumato era stato dimenticato sul mio canapè. Ti giuro che i miei sogni valevano assai più della realtà! Ah! le mie duchesse di via Santo Spirito! Se avessi saputo che la scienza della vita dovea costarmi tante e sì care illusioni, io avrei preferito la miseria, l'oscurità e i miei castelli in aria. Non ti dirò di chi fosse il torto, anzi probabilmente era il mio, perch'ero sognatore, perch'ero ombroso e diffidente, perch'ero divenuto scettico, perché amavo da osservatore, e mettevo sempre del riserbo, direi della restrizione mentale, nelle espansioni del cuore. Quando nei trasporti amorosi non si mette lo stesso abbandono dalle due parti, una delle due è ridicola di certo - Non so quale. *** Nei crocchi eleganti che frequentavo sentivo spesso parlare di Eva come si parla del miglior cavallo da corsa, dell'opera in voga, e della più bella pariglia. Era un'appendice necessaria a quella vita di lusso e di piaceri. Io avevo buttato dalla finestra le poche memorie che mi rimanessero di lei - i suoi nastri scoloriti, i suoi stivalini rotti, i suoi guanti scompagnati. - Avevo lasciato da molto tempo quella cameretta dov'ella aveva dormito tanti sonni - ed ora, a volte, sentivo un ardente desiderio di rivederla, d'incontrarla, di gettarle in faccia il lusso della mia felicità. - Non era più amore, ma era vanità. - Io non so quale dei due sentimenti sia più forte; certo spesso si scambiano l'uno per l'altro. Non l'avevo più vista. La dicevano bella come prima, elegante come un mazzo di fiori, e corteggiata come una regina. Molti entusiasmi giovanili si scaldavano parlando di cotesta donna che avevo visto attizzare il fuoco del mio camino; e non rammentai altro che la sua bellezza, la sua eleganza, e il suo sorriso - ricordi che mi montavano alla testa. - Ero dispettoso che la fosse così, e che sembrasse ancora così agli altri. *** Una sera ero al Pagliano, in uno di quei palchetti dove è favore distinto essere ammesso, dove i numi dell'olimpo fiorentino si pigiavano come ad una mostra, per scambiare un sorriso o una stretta di mano, in faccia ad un pubblico di gelosi, con la dea del santuario. Io le sedevo accanto, e la dea mi largiva parole e sorrisi. Tutt'a un tratto la vidi aggrottare il sopracciglio, da vera dea, prendere l'occhialetto, e dirigerlo bruscamente su di un palchetto di faccia - era uno di quei gesti espressivi che usano le gran dame quando non vogliono scendere alla parola - ma siccome non mi curavo di seguire il capriccio di lei, così mi contentai di guardare quel braccio nudo, tanto bello ch'era pudico, e si nascondeva nel guanto sino a metà. Però l'osservazione di lei era così insistente che, senza volerlo, seguii la direzione di quell'occhialetto, e ne vidi un altro che gli rispondeva come una pistola da duellante. La dea si stancò per la prima, e distese mollemente il braccio sul velluto del parapetto. Allora anche l'altro occhialetto scomparve, e riconobbi Eva - Eva sfolgorante di tutta la sua bellezza, colle spalle e le braccia nude, i diamanti fra i capelli, i merletti sul seno, la giovinezza, il brio, l'amore negli occhi - anzi, la voluttà - e il sorriso inebbriante - il sorriso che faceva luccicare come perle i suoi denti. "Chi c'è nel palco numero tre, in seconda fila?" domandò la dea con quell'accento inimitabile che hanno le dee quando parlano dei semplici mortali. L'officioso più lesto e più fortunato rispose: "Il conte Silvani." "È un pezzo che non si vede il conte!" "È stato in Germania." "E ha preso moglie?" "No." "Ah!" Nel vestibolo incontrai di nuovo Eva di faccia a faccia. Ella mi lanciò di bruciapelo uno di quei tali sguardi, come se mi desse un pugno al cuore. La dea aveva un altro genere di sguardi, quelli della lente che vi tiene a distanza poiché l'occhio non vi vuol riconoscere, e domandò, con quel muto linguaggio, all'insolente che osava fissare gli occhi su di lei, come non rimanesse abbagliata da tanto splendore. Eva si contentò di sorridere, levando il capo per dire qualche parola al suo compagno, mentre si appoggiava al suo braccio con un raddoppiamento di leggiadra civetteria; - il conte era alto e le dava il vantaggio di levare il capo verso di lui per parlargli, vantaggio grandissimo per le donne che sanno farlo in un certo modo! - Lasciò anche scivolare la mantiglia sulle spalle, e mi pare che osservasse con la coda dell'occhio se io facessi attenzione a tutta cotesta manovra. Quelle due donne che non si conoscevano nemmeno, che non si sarebbero incontrate giammai, dovevano odiarsi cordialmente. Io non potei dimenticare un momento quegli occhi che mi avevano dardeggiato, e che si erano volti sorridenti verso il conte. *** Un giorno all'improvviso Eva venne da me, leggiadra, pazzerella, sorridente come sempre, girando per tutte le stanze, toccando tutto, facendo frusciare gaiamente la sua veste sul tappeto, come se ci fossimo lasciati il giorno innanzi. Mi domandò se fossi in collera con lei, se avessi pensato a lei, se l'amassi ancora; mi disse che non mi aveva mai dimenticato, che era contenta di vedermi in quello stato, che era orgogliosa di avermi amato; mi disse cento cose seducenti come ella le sa dire, scaldandosi al fuoco, e sollevando la veste per posare i piedini sugli alari. È impossibile esprimerti tutto quello che c'era nelle sue parole, nel suo riso, nei suoi occhi e nei suoi gesti. Mi parlò del passato; mi domandò dei miei amori, e come amassi, e come fossi amato, e se amassi di più o in un altro modo, - e mi diede anche un bacio come mi avrebbe dato una stretta di mano. Poi, dopo ch'ebbe fatto ardere il mio sangue con quella grazia così calma e nello stesso tempo così spensierata, con quei suoi sguardi sorridenti come ad un fratello, col profumo del suo fazzoletto e coi tacchi degli stivalini, ella si alzò tranquillamente e mi stese la mano. - Se ne andava! erano le due, doveva andare dalla modista, dalla sarta, da Marchesini, a fare un giro alle Cascine. Alle sei poi davano in tavola - mille ragioni inoppugnabili! Io chiusi la porta e le presi le mani; ella me le strappò, e si mise a correre per le stanza, ridendo, folleggiando come una bambina, e poi mi si abbandonò tutta tremante, collo stesso sorriso, con un movimento infantile e inebbriante. *** "Matto! matto!" mi disse lisciandosi i capelli allo specchio. "Ed io più matta di te! A proposito, e la tua dea?" "Quale dea?" "Quella del Pagliano, la superbiosa. L'ami molto?" "Punto." "Ti credo. Siete così orgogliosi entrambi! Dovete bisticciarvi sempre. L'amerai per vanità." "Sono troppo orgoglioso per avere di coteste vanità." "Come sei diventato!" e mi guardava tutta sorpresa, con cert'aria ingenua che possedeva ancora. "Dimmi come amano le gran dame" e annodava i nastri del cappellino. "Come le piccole." "Adulatore! Ma io perdo il mio tempo con te! Addio." "Verrai a trovarmi?" "No." "Verrò io?" "No." "Come, no! Ma non capisci che ho bisogno di vederti!" Ella mi guardò e scoppiò a ridere. "Proprio?" mi disse. "Come dell'aria per respirare!" "Sei pur stato tanto tempo senza, e non sei morto!" "Perché sei venuta dunque, maliarda? perché mi hai fatto ardere il sangue colle stesse febbri?..." Ella mi guardò nello specchio, con quel sorriso! e mi disse: "Ero gelosa!" "Dunque mi ami!" "No. Tu non capisci coteste gelosie di donna, tu! e sei un uomo di spirito! Andiamo, via, non più sciocchezze!" riprese con dolcezza dopo alcuni istanti, accarezzandomi la mano per rabbonirmi. "Ti voglio ancora del bene, ma bisogna essere ragionevoli. Non scherziamo più col fuoco!" Ella seguitava ad accarezzarmi le mani, e vedendomi sempre accigliato soggiunse: "Ti giuro che se avessi prevista cotesta nuova follia non sarei venuta!" "Ah! non lo sapevi?" "No! Mi pareva di trovarti più ragionevole." "Ma adesso che vedi come non lo sono, e che son più pazzo di prima, e che son geloso non del tuo cuore, ma del tuo corpo, e che un lembo della tua veste se mi tocca mi fa perder la testa, perché non seguitare, se non ad amarmi, almeno a lasciarti amare?" Eva mi guardò in viso in modo singolare e mi disse tranquillamente: "Perché ho più giudizio di te." "Non mi ami più?" "No." "Perché sei venuta dunque? dimmelo, maledetta! maledetta! Fu un capriccio?..." "Sì ... e se durasse sarebbe una follia ... per te, e per me." Allora io andai all'uscio, senza far motto, e l'apersi. "Senza rancore!" diss'ella stendendomi la mano. E lasciandola cadere dopo aver aspettato inutilmente soggiunse: "È pure una gran disgrazia che siate fatto così." Uscì stringendosi nella veste per non toccarmi. Io corsi a nascondere il viso e le lagrime nei guanciali ancora odorosi del profumo dei suoi capelli. *** Quelle due ore avevano gettato sul mio cuore il soffio ardente delle tempeste del passato. Io l'adoravo, sì, l'adoravo così com'era, l'adoravo perch'era così! Avevo il desiderio frenetico dei suoi guanti che si lasciava strappare e lacerare ridendo, e dei suoi stivalini di cui la seta strideva fra le mie mani. Feci mille pazzie per lei, la cercai, implorai, piansi, passai le notti sotto le sue finestre, vidi l'ombra di lei accanto all'ombra di un uomo dietro le cortine, seguii di notte la sua carrozza per le vie e vidi il suo capo sull'omero di lui. - Ella mi ravvisò, e chiuse le imposte o si tirò vivamente indietro, o volse il capo dall'altra parte. - Sirena! maliarda! che mi aveva inebbriato coll'amore, ed ora mi intossicava con la gelosia! Le scrissi; le scrissi umile, delirante, minaccioso. Ella mi rimandò le mie lettere con un sol motto: " Una follia non si fa due volte o diventa sciocchezza ". - Una sera la rividi in teatro; ella non mi gettò che un'occhiata dal suo palchetto - a me che divoravo la sua bellezza con tutti i sensi e ne ero geloso! La vidi uscire raggiante, superba, colla testa alta, il cappuccio sugli occhi, e il braccio nudo appoggiato a quello di lui. Io feci stridere la seta della sua veste imprigionata sotto al mio piede; ella si volse vivamente e mi gettò in faccia un'occhiata di collera, forse senza riconoscermi. *** E così la seguo da mesi, con questo acre desiderio di lei ch'è memoria e gelosia mischiate insieme; e cerco di vederla; e frequento i luoghi dove spero incontrarla; e la riconosco al portamento, al posare del piede, al muover della testa; e stasera la riconobbi subito appena la vidi, sebbene mascherata, e quando potei farla parlare ed accertarmi ch'era proprio lei non la lasciai più, da lontano o da vicino, e so quel che ha fatto, quel che farà, l'ora in cui la carrozza verrà a prenderla, e poco fa, mentre era seduta nel ridotto, nel momento in cui vidi allontanare il conte per andare a comprarle dei dolci, sedetti accanto a lei e mi tolsi la maschera. "Voi!" esclamò. "Ancora!" "Sì! non tentate di sfuggirmi; voglio il tuo amore!" "Siete pazzo!" mi disse, gettandomi in faccia la doccia fredda della sua calma. "E voi senza cuore!" "Io! che vi ho sacrificato dieci mesi della mia giovinezza, i più belli! che vi ho sacrificato la mia carriera, e che avete messo alla porta quasi in cenci!" "Ah! e volete vendicarvi!..." "No, ve lo giuro. Non sono in collera con voi. Non lo sarei che ove vi ostinaste in questa follia. Noi ci siamo trastullati con una cosa pericolosa, abbiamo preso sul serio il romanzo del cuore; ecco il nostro torto, perché anch'io ci ho creduto per un istante. Ma non siamo abbastanza ricchi per permetterci questo lusso." "Non credete all'amore?" le dissi insolentemente. "non ci credete più?" "Oh, tutt'altro! È il ferro del mestiere. Ma credo a quello degli altri. Anche voi dovete crederci, ma in tutt'altro modo, per scaldare la vostra fantasia e farne risultare dei bei quadri che vi frutteranno onori e quattrini." "Oh, è un'infamia!" Ella si drizzò come una duchessa cui si fosse mancato di rispetto e mi disse seccamente: "Me l'avete insegnata voi! Ora andatevene, ché viene il conte." "Oh! tanto meglio! Voglio conoscerlo questo felice mortale che vi paga i baci e le menzogne!" "Ah!" esclamò con un sorriso che non avevo mai visto in lei "mi ricompensate così! Ma guardatevi! che il conte, oltre il pagarmi tutto questo, regala anche dei famosi colpi di spada!" "Pel nome di Dio!" mormorai ebbro di collera e di gelosia, "che egli non ti pagherà più nulla, e domani sarai sulla strada se non vorrai venire a chiedermi ospitalità!" "Tu sai che ho scommesso!" finì Enrico guardandomi con occhi sfavillanti. *** Enrico si passò la mano sugli occhi, per scacciarne la frenesia che vi lampeggiava, e riprese dopo alcuni istanti di silenzio: "Sono pazzo! lo so anch'io! Ma la ragione mi è insopportabile. Non ho più fede nell'arte, nella vita, di cui posso contare i giorni che ancora mi rimangono, nell'amore ... e son geloso!..." "Hai visto le sue braccia nude?" mi domandò dopo un istante con voce rauca, come se parlasse in sogno. "Ma la tua famiglia?" gli dissi. Non rispose. Poscia, dopo un lungo silenzio e asciugandosi gli occhi. "È il solo dolore che mi rimanga!" "Potrebbe anche essere un conforto, e tale da compensarti ampiamente." Enrico mi rise in faccia con un'ironia quasi insolente. "Mio caro, i sentimenti puri non sono che per le anime pure. Che cosa porterei in mezzo alla mia famiglia che ha sacrificato tutto al mio egoismo?... i miei infami sogni? i miei sozzi desideri? i miei disinganni colpevoli? Grazie a Dio, non sono arrivato così in basso da non comprendere che morrei di vergogna pensando ad Eva, nelle braccia di mia madre, e che profanerei vilmente le labbra di mia sorella, coi baci che ho dato a quella donna!" Si alzò bruscamente, come se temesse qualche altra osservazione. "Fra mezz'ora," mi disse, "al buffet; il conte vi ha dato appuntamento ad un suo amico che parte per Parigi col primo treno. Sono le quattro; hanno ordinato la carrozza per le cinque; sono certo di non mancare." Mi toccò appena la mano, ed uscì. *** Egli mi aveva rovesciata addosso quella narrazione come una valanga, tutta di un fiato, quasi fosse stato uno sfogo supremo e disperato, con parole rotte, con frasi smozzicate, con accenti che solo il cuore sa metter fuori, e cui solo lo sguardo sa dare un significato. Io non potrei accennare la millesima parte dell'impressione che faceva quella dolorosa frenesia, irrompente, concitata e febbrile di un uomo col piede diggià nella fossa, che gemeva, si contorceva ed urlava nel suono della voce, nel tremito delle labbra, nelle lagrime degli occhi, mentre la folla delle maschere urlava anch'essa ebbra di vino e di musica rimbombante. Tutto ciò mi saliva alla testa, mi ubbriacava. Ero rimasto attonito, quasi annichilito dinanzi a quella tempesta del cuore, come dinanzi ad una tempesta degli elementi. Uscii dal palco dopo di Enrico, e lo cercai inutilmente pei corridoi, in platea, sul palcoscenico, da per tutto. Dov'era andato? Vidi l'elegante coppia che aveva attirati tutti gli sguardi dirigersi verso il buffet, e la seguii. Quella strana avventura mi aveva gettato in una singolare preoccupazione. Il trovatore si tolse la maschera; era veramente il conte Silvani, bel giovane, ricco, prodigo, coraggioso. Era l'ora in cui la stanchezza, o il caldo, o il vino, o la follia, fanno cadere tutte le maschere, ed anche Eva si tolse la sua. Aveva il viso rosso, volse in giro un'occhiata quasi timida; poi si assise di faccia al suo compagno. Lo sciampagna spumeggiava nei bicchieri, gli occhi brillavano, e l'eguaglianza sociale regnava in un modo che mai democrazia al mondo ha sognato possibile. A poco a poco vidi radunarsi nella sala tutti quei giovanotti che si erano trovati impegnati, senza saper come, in quella bizzarra scommessa. Si guardavano attorno con curiosità, sorridevano, e si parlavano a bassa voce. Di quando in quando Eva volgeva uno sguardo sulla folla che andava e veniva dall'uscio, e poi tornava a ridere e a parlare col conte. La mezz'ora suonava. Io tenevo gli occhi fissi su di Eva, e tutt'a un tratto la vidi impallidire lievemente, chinarsi all'orecchio del conte e dirgli qualche parola; questi sorrise e accennò negativamente; prese il bicchiere di lei, e lo riempì di sciampagna. Seguii la direzione degli occhi della donna, straordinariamente spalancati, e vidi Enrico, che si teneva sulla soglia, senza maschera, con certa faccia pallida di malaugurio che gli dava l'aspetto di un cadavere. Non so perché - non conoscevo, direi, costui che da due ore - ma il cuore mi batté forte. Infatti vi dovea essere veramente qualcosa di straordinario nel suo aspetto, poiché tutti lo guardarono in un certo modo come di sorpresa. Anche il conte si volse a guardarlo, vedendo che tutti lo guardavano, e sorrise. "Tò! ancora quell'originale!" Enrico gli si avvicinò con tutta calma, e si tolse il berretto con comica serietà. "Ti diverti?" gli disse sorridendo il conte per dire qualche cosa, giacché quel saluto gli avea tirato addosso l'attenzione generale. "Sì! in fede mia, si! quando ti vedo mi diverto." "Mi conosci?" "Diavolo! Chi non ti conosce!" "Bevi alla mia salute, dunque", gli disse porgendogli il bicchiere spumeggiante. "In coscienza non posso; ché tu stai molto male!" "Ah! ah! una delle solite facezie!" sghignazzò il conte rivolto ad Eva. "Adesso ci dirà i nostri segreti!" Io guardai Eva e la vidi pallida come cera. "Oh! oh!" rispose Enrico ridendo come avrebbe potuto ridere uno spettro se gli spettri potessero ridere; "il segreto di pulcinella!" Il conte sembrò imbarazzato per un istante; ma non era uomo da darsi per vinto alla prima, e replicò: "Sapevo la tua risposta: è vecchia come il tuo travestimento." "Da arlecchino d'onore, no! Anzi, per provarti che non sono un ciarlatano, ti dirò quelli di lei" e accennò ad Eva. "Non i segreti del suo cuore, poiché non ne ha; ma posso dirti quelli della sua vita." Eva fece un movimento per alzarsi, quasi avesse perduta la testa, e agitò due o tre volte le labbra pallide senza poter parlare. Attorno a quel gruppo si era formato un cerchio di curiosi, di cui il centro era occupato da quei due uomini che sorridevano. Ci fu un istante di silenzio. Evidentemente il conte avrebbe fatto a meno di quella lotta di frizzi, ma come trarsi indietro? Enrico gli sorrideva sempre, col suo viso cadaverico e gli occhi luccicanti come quelli di un fantasma. "Ah! davvero? E come lo sai?" disse il conte con uno sforzo d'audacia, perché era imbarazzato egli medesimo del suo silenzio. Enrico appoggiò ambe le mani sul marmo del tavolino, si chinò verso di lui sin quasi a soffiargli in faccia le parole, e rispose lentamente: "Lo so, perché sono stato l'amante della tua amante." Nell'occhio del conte passò un lampo, e le sue labbra si contrassero sforzandosi di sorridere ancora. Sembrò ondeggiare un istante sul partito da prendere, e istintivamente volse attorno uno sguardo furtivo e lo fermò su di Eva. Ella era pallidissima, avea le labbra livide e l'occhio smarrito quasi stesse per svenire. Tutti quegli occhi che si fissavano sul conte sembrarono raddoppiare il sangue freddo di lui. Egli esitò un solo momento; poi alzò il bicchiere ricolmo all'altezza del naso di Enrico ed esclamò: "Alla salute dei tuoi amori passati dunque!" e vuotò il bicchiere d'un fiato. Ci fu uno scoppio di applausi. "Bravo!" disse anche Enrico. "Sei un uomo di spirito!" "Grazie!" "Io lo sapevo, e perciò ho fatto la scommessa." "Davvero?" "Sì, ho scommesso che avrei dato un bacio alla tua amante, e che tu non l'avresti avuta a male." "Eh, caro mio! Scommessa arrischiata!" rispose il conte che cominciava a farsi serio. "Ohibò! Sei un uomo ammodo! Guarda!..." E senza precipitazione, con quella calma che non l'aveva abbandonato un solo istante, si chinò su di Eva, la quale era quasi fuori di sé, e non si aspettava certamente quell'eccesso di follia, e la baciò sulla guancia. Il conte si rizzò come un fulmine, e gli applicò un sonoro schiaffo. "Oh, oh" esclamò Enrico senza scomporsi, sorridendo ancora del suo lugubre riso, e passandosi la manica sulla guancia rossa. "Vedi che avevo ragione di non bere alla tua salute." *** Le condizioni del duello furono stabilite quasi subito fra due amici del conte e due dei giovanotti che avevano impegnato la scommessa con Enrico. Silvani era partito. Io accompagnai il mio amico che sembrava diventato un altro, indifferente a tutto, anzi un po' inebetito come quando girava fra la calca del veglione. I suoi occhi luccicavano da pazzo: era la sola manifestazione di quello che dovea chiudersi in petto. Passando attraverso la ridda frenetica dei ballerini e delle maschere sorrideva in modo strano; e un momento si fermò a guardare come uno sfaccendato che si balocca con la sua spensieratezza. - Quella musica, quell'allegria scapigliata e quell'uomo che guardava sorridendo, mi stringevano il cuore. Allorché fummo in carrozza, m'accorsi che Enrico tremava come chi è colto da febbre. Volli dargli il mio paletò; lo rifiutò. "Non occorre;" mi disse, "fa caldo." "Hai la febbre!" "Lo so. Son parecchi mesi che l'ho tutte le sere ... Passerà." E rideva. Era ancora buio. Nella notte era caduta molta neve che imbiancava le strade e i tetti sicché la carrozza vi correva sopra senza far rumore, come se facessimo un viaggio fantastico. Lasciammo il legno al piazzale delle Cascine, e ci mettemmo a piedi per un lungo viale. L'aria era frizzante; i primi chiarori dell'alba imbiancavano debolmente il cielo attraverso l'incrociarsi dei rami inargentati dalla neve; una sfumatura opalina si disegnava in fondo al viale sull'orizzonte, e il viale stesso appariva come una lunga striscia candida su cui risaltava, ad una certa distanza, un'ombra indistinta che si avvicinava senza far rumore, facendo tremolare due fiammelle rossigne ai due lati. L'alba si era fatta più chiara quando il conte e i suoi testimoni ci raggiunsero. Erano avvolti nei loro mantelli e avevano il sigaro in bocca. Ci fu uno scambio generale di saluti fatti in silenzio. Quei due uomini si guardarono senza batter ciglio, quasi non si fossero conosciuti mai. Gli uccelli cominciavano a pispigliare, e un raggio indorato corse come una freccia sui rami più alti. Il conte accese un'altra sigaretta mentre si compivano le formalità preliminari, ed uno dei testimoni alzò il naso verso il cielo dicendo: "Sarà una bella giornata." Poscia tutti i sigari si spensero, e tutti i volti assunsero la maschera di circostanza. Enrico si tolse l'abito e lo piegò accuratamente; vi sovrappose il cappello, rimboccò le maniche della camicia sino al gomito, prese la spada che gli presentavano, la piegò in tutti i sensi sulla punta del piede, e frustò l'aria con essa. Successe un istante di silenzio. Poi si udì una voce: "A voi, signori!". E le due lame scintillarono. Ho ancora dinanzi agli occhi quel triste spettacolo. Enrico avea la guardia un po' spavalda, ma ferma come il bronzo, che gli spagnoli ci hanno lasciato a noi del mezzogiorno; sembrava tutto d'un pezzo dalla punta della spada alla punta del piede, e parava con un semplice movimento del pugno. Il conte era bravo spadaccino, snello, agile, nervoso; la spada gli guizzava fra le mani come un baleno, cavando e ricavando colla rapidità di un mulinello; si raccorciava, si nascondeva quasi sul fianco, e vibravasi improvvisamente come un giavellotto a spuntarsi su quei pochi centimetri di coccia, dietro alla quale Enrico riparavasi come dietro ad uno scudo che coprisse tutta la sua persona. Dopo alcuni istanti il conte ruppe di un passo, e si rimise in guardia come per vedere con chi avesse a che fare. Due o tre minuti rimasero immobili, con il ferro sul ferro, gli occhi negli occhi, l'odio che si scontrava con l'odio. Enrico ritirò la sua spada facendola strisciare lento lento su quella dell'avversario con un movimento felino. Parve che un fremito si fosse comunicato dal suo ferro a tutto il suo corpo, ed assaltò bruscamente. A un tratto si piegò come un arco colla rapidità del lampo, ed io che gli stavo alle spalle vidi luccicare la punta della spada nemica dall'altra parte del suo petto. "Alto!" gridarono i secondi, mettendo la spada fra i duellanti. "Non è nulla!" disse Enrico scoprendosi il petto. "È una scalfittura." Il ferro però aveva fatto quel che avea potuto, e aveva portato via quello che aveva incontrato. Una striscia di carne lacerata solcava il petto di Enrico e la camicia, ch'era stata meno lesta di lui, era stata bucata netta. Il chirurgo - un nostro carissimo amico, molto conosciuto a Mentana come il dottore dal cappello bianco - esaminò la ferita; era infatti orribile a vedersi, ma non era grave, e quei signori potevano ancora seguitare a bucarsi la pelle. "Diavolo!" esclamò Enrico. "Non credevo che ci fosse ancora tanta carne nelle mia ossa." Il dottore voleva fasciargli la ferita. "No," egli rispose; "il signore ha diritto di aver nudo il suo bersaglio." Il conte s'inchinò. Non c'era che dire, quei due bravi giovanotti si scannavano da perfetti gentiluomini Tornarono a mettersi in guardia; ma stavolta erano pallidi entrambi di un pallore sinistro. Lo scherzo di buona società cominciava a farsi serio. Enrico sentiva al certo che non aveva tempo da perdere, perché il sangue gli scorreva fra le dita della mano che si teneva sulla ferita, e la mano e la camicia gli si erano fatte rosse. Si vedeva una terribile tensione in tutta la sua persona, nell'occhio intento, nei movimenti nervosi, nel garretto saldo, nel corpo piegato all'indietro: sembrava una molla d'acciaio che stia per scattare. Il conte l'assaliva colla furia di chi capisce d'avere a che fare con un temibile avversario, e sente di dover uccidere per non essere ucciso. Tutt'a un tratto si vide una striscia di luce correre e serpeggiare come una biscia sulla spada del conte, Enrico andare a fondo tutto d'un pezzo, e saltare indietro levando in alto la spada. Il conte portò vivamente la sinistra sul petto, stralunò gli occhi, abbandonò la guardia e si appoggiò un istante alla spada che si piegò sotto il suo peso; poscia barcollò e cadde su un ginocchio. Tutti si precipitarono su di lui. Enrico si fece ancora più pallido, e lo guardò cogli occhi di un mentecatto. Il dottore dal cappello bianco s'inginocchiò presso del conte, mentre uno dei suoi secondi gli teneva il capo sui ginocchi, e gli aprì la camicia. La ferita non doveva essere grave; era appena visibile, fra la terza e la quarta costola, e mandava pochissimo sangue. Sembrava davvero una cosa da nulla. Il dottore non ebbe bisogno che di una sola occhiata, per ordinare, con quell'accento che hanno soltanto i medici in certe occasioni, rialzandosi bruscamente: "La carrozza! presto, la carrozza!" *** Passarono alcuni mesi senza che io più rivedessi Enrico Lanti. Ero tornato in Sicilia, ma non ne avevo avuto più notizia. Un mattino, verso gli ultimi di ottobre, mi fu recapitata da un contadino una lettera urgente in Sant'Agata-li-Battiati, ove mi trovavo. Il carattere di quella lettera che veniva a cercarmi con urgenza mi era assolutamente sconosciuto, e sembrava tracciato con mano tremante. Però non ci volle molto per correre alla firma, giacché la lettera era brevissima; era di Enrico Lanti e diceva: " Amico mio, vorrei vederti, e siccome me ne rimane pochissimo tempo ti prego di affrettarti, se vuoi rendermi quest'ultimo servigio. " Mi misi in viaggio immediatamente, facendomi guidare dal contadino che aveva recato la lettera. Fuori Aci Sant'Antonio, dopo un cinque minuti di corsa per quella bella strada che svolge agli occhi del viandante l'incantevole panorama della vallata di Aci, tutta seminata di ville e di villaggi, fra le vigne e i boschi di aranci, sino al mare, la mia guida mi additò una casetta elevata su di un ciglione. Bisognò lasciare la carrozza e metterci per una viottola attraverso i campi. Alla svolta del sentiero mi si presentò la casa ridente ed ariosa, ornata di viti e di rosai, con una bella spianata sul davanti, e due magnifici castagni che le facevano ombra. Sotto un di quegli alberi c'era una poltrona colla spalliera appoggiata al tronco; un mucchio di guanciali le dava l'aspetto doloroso che hanno le poltrone degli infermi. Vidi una scarna e pallida figura quasi sepolta fra quei guanciali, e accanto alla poltrona un'altra figura canuta e veneranda - la madre accanto al figliuolo che moriva. Corsi a lui con una commozione che non sapevo padroneggiare. Com'egli mi vide mi sorrise di quel riso così dolce degli infermi, e fece un movimento per levarsi. Si vedeva diggià il cadavere: il naso affilato, le labbra sottili e pallide, l'occhio incavernato. Lo tenni stretto fra le mie braccia, ed egli mi baciò più volte; quel bacio era caldo di febbre; tutta la sua epidermide era riarsa, e l'anelito frequente ed affannoso gli si sprigionava dal petto con un sibilo. Sedetti di faccia a lui. Egli non volle abbandonare le mie mani, e cercava di sorridermi ancora quantunque dovesse molto soffrire, a giudicarne dalla contrazione dei suoi lineamenti, che di tratto in tratto non poteva dissimulare. "Grazie!" mi disse tutto commosso. "Tu almeno non mi hai dimenticato!" Tacque subito, sopraffatto da un violento scoppio di tosse, che, ahimé!, non ebbe neanche la forza di prorompere, ma si contentò di lacerare quel povero petto, facendolo sobbalzare convulsivamente. Poi si abbandonò sui cuscini cogli occhi chiusi, sfinito. Quali occhi! Le palpebre nerastre si affondavano nell'occhiaia incavata, e quando si riaprivano scoprivano qualche cosa che parlava dell'altro mondo. Nell'impeto della tosse tutto quel poco sangue che gli rimaneva sembrava correre, con rossori fuggitivi, sulla mortale pallidezza delle gote; poscia quella pallidezza si faceva più mortale ancora. La madre teneva abbracciati i cuscini dove si perdeva quasi il corpo del figlio, e guardava quelle sembianze adorate, ove la morte sbatteva diggià la sua livida ala, con l'occhio asciutto, quasi il cuore avesse bevuto tutte le sue lagrime. Feci un movimento per alzarmi. Egli che possedeva la squisita percezione di tutto ciò che si faceva vicino a lui, come l'hanno i moribondi di quel male, mi strinse le mani, senza riaprir gli occhi, e mi fece cenno di non muovermi. Dopo qualche secondo volse lentamente il capo, e fissò un lungo sguardo negli occhi di sua madre. Negli occhi della madre e in quelli del figlio non c'erano lagrime: c'era un silenzio che spezzava il cuore. "Mamma!" disse Enrico, e la sua voce fioca vibrava come una carezza in quella dolce parola. "Ecco il mio amico. Tu gli vuoi bene, non è vero?" La povera donna mi stese la mano, ed io la baciai religiosamente. "Dove sono gli altri" domandò Enrico con la curiosità inquieta, particolare al suo stato. "Tuo padre è andato ad accompagnare il medico, e l'Agatina è andata a coglierti una manata di gelsomini che ti piacciono tanto." "Il medico!..." mormorò il moribondo con accento che stringeva il cuore. Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere. "Ti ho disturbato forse?" mi domandò dopo alcuni istanti. "Oh, no!" "Avevo bisogno di vederti ... e di parlarti." Mi fissò col suo sguardo espressivo e lucidissimo, e soggiunse: "Noi non fummo mai intimi; ma ci siamo incontrati in una tal epoca della mia vita che mi pare di non avere altri amici che te. Eppoi" e sorrise dolorosamente "ho diritto alla tua indulgenza ... come tutti quelli che se ne vanno verso quelli che rimangono ..." "Enrico!" esclamai stringendogli le mani con dolce rimprovero, e rivolgendo involontariamente uno sguardo alla madre di lui. Anch'egli rivolse su di lei quegli occhi che dopo alcuni secondi di angosciosa contemplazione gli si riempirono di lagrime. "Mamma!" le disse dopo una qualche esitazione, "non vorresti dire all'Agatina di fare anche un mazzolino pel nostro amico?" La povera madre si levò in silenzio, e si allontanò. Rimasti soli ci guardammo senza aprir bocca. Nessuno di noi due trovava la prima parola, e quel suo sguardo mi trafiggeva il cuore. "Io muoio!..." diss'egli finalmente, con un accento che non potrò mai dimenticare. "Lo vedi!..." Non potei frenare le lagrime, e gli strinsi la mano con forza. "Coraggio, povero amico mio!" "Credi dunque che mi rincresca di morire?... Io non avrei bisogno di coraggio ... se non fosse per quei poveri vecchi che mi spezzano il cuore!" I suoi occhi, dove soltanto sembrava essersi raccolta la vita, luccicavano di lagrime, mentre li volgeva su tanto sorriso di cielo, su tanto azzurro di mare, su tanto verde di giardini che gli stava attorno. Il suo cuore d'artista, che possedeva la squisita suscettibilità d'idealizzare quelle impressioni dei sensi, doveva grondar sangue parlando di morte fra tante ricchezze di vita. Non ebbe più a lungo la forza di dissimulare l'angoscia che doveva lacerarlo a quelle parole, e mormorò con un sospiro a stento represso: "Com'è bello tutto ciò!... Io solo posso sentirlo in quest'ora ..." Rimanemmo qualche tempo in silenzio. "L'hai veduta?" mi domandò tutt'a un tratto, come se non ci vedessimo soltanto da pochi giorni, o come se seguitasse un discorso incominciato. "No!" risposi con ripugnanza, poiché il ricordo di tal donna mi pareva una profanazione in quel momento. Egli capì, e sorrise ironicamente. "Ah! voi altri puritani!... come siete sciocchi!" Aprì la camicia sul petto per cercarvi un pacchetto di carte. Le ossa sembravano forargli la pelle gialla e arida come cartapecora. "Guardala!" mi disse trionfante, svolgendo da quelle carte una piccola miniatura, "e dimmi se il vostro puritanismo vale il suo sorriso!" Quel disgraziato, diggià per tre quarti cadavere, faceva un ultimo sforzo onde delirare per quella donna che gli sorrideva ancora nel ritratto, e che non si ricordava più di averlo amato. "Quando sarai al punto in cui sono," mi disse Enrico, "o quando sarai vecchio, il che è peggio, maledirai la tua saviezza che ti ha fatto insensibile alla luce, ai profumi, alle dolcezze della giovinezza!..." E c'era tanto calore nel paradosso di quel moribondo che lo rendeva, direi, solenne. "Oh, povero amico mio! Interroga la tua coscienza, interrogala senza rimpianti e senza collera, e non dirai più così." "Che m'importa!" saltò su Enrico con tal impeto quasi un serpe l'avesse morsicato. "Che m'importa della coscienza, e di tutti quei fantasmi che voi altri avete creato a furia di paroloni! Che m'importa del vero e del falso!... Ho tempo di perderci la testa, io?... e neanche voi altri ce l'avete ... voi che m'isterilite il cuore mentre la giovinezza fugge come un lampo! Tu, vedi, sei giovane, sano, forte ... tu mi guardi forse con maggior sorpresa che compassione, e domandi a te stesso come mai sia possibile che la vitalità che senti in te rigogliosa e robusta possa giungere a tanta miseria di deperimento ... Eppure, vedi! Tutta cotesta robustezza, tutta cotesta forza ... un soffio ... e se ne vanno!... E l'uomo ... l'uomo che sente dentro di sé ancora tutto questo inesplicabile mistero di desideri, di speranze, di gioie e di dolori, che la malattia non ha né indebolito, né ucciso, l'uomo che lo sente più forte e tumultuoso per quanto più infiacchiscono le sue forze, domanderà a se stesso, come te, cosa sia dunque questa vita, e questa incognita che chiamano cuore!... Chi lo può dire?... Nessuno. E se nessuno lo sa, chi può dargli torto o ragione?" Tacque anelante, rifinito al pari di un uomo che abbia fatto una lunga corsa; e dopo un triste silenzio ripigliò con esaltazione morbosa: "Ho visto tante mostruosità rispettate, tante bassezze cui si fa di cappello, tante contraddizioni di quello che chiamate senso morale, che non so più dove stia la verità. Tu che mi parli di gioie false dimmi quali sieno le vere: quelle che costano più lagrime, o quelle che lasciano più rimorsi? - O perché rimorsi? – Qual è l'amor vero, quello che muore, o quello che uccide? - E qual è la donna più degna di amore, la più casta, o la più seducente? - dov'è l'infamia? nella donna che ama per vivere, o nell'uomo che vive per godere? - o che tiene il sacco dell'adulterio colla complicità del silenzio - o che gli s'inchina quando lo vede passare in carrozza? Chi sentenzia del bene e del male? Il mondo! Che cos'è? Quali sono i suoi diritti? - e non mentisce? - e non s'inganna? - e non è ipocrita? o non ha altra scienza che quella di negare? - e quell'altra di biasimare?" Si arrestava di quando in quando, e agitava la testa sul cuscino come se i pensieri che gli martellavano il cervello non potessero più irrompere. La parola gli usciva rotta, a sibili, a rantoli: era uno spettacolo straziante. "I pazzi son più felici di voi" e ripeté due o tre volte questa frase. "Se vivete di menzogne, se non avete di certo che le illusioni, perché le maledite quando son belle?... Voi altri savi ... che vi affannate dietro ad illusioni che non raggiungerete giammai ... o che sconfesserete quando le avrete raggiunte, chiamate pazzo colui che si vive beato nelle sue illusioni!... il pazzo come vi chiamerà, voi altri savi?" "E l'arte ..." soggiunse dopo poco, "Menzogna anch'essa!... Menzogna ... o illusione!" Dopo coteste parole stette a lungo in silenzio, cogli occhi chiusi come se la vita l'avesse abbandonato intieramente. Era un lugubre silenzio. Poscia fissandomi in volto uno sguardo relativamente calmo, e dove c'era una tinta di sorpresa: "È strano!" mormorò; "mi pareva che avessi bisogno di parlare di lei ... e che tu mi dicessi che ella ti ha parlato di me ... Ora non lo desidero più ... Ho pensato ad Eva ... e alla mia giovinezza ... e li ho veduti lontan lontano ... Sarà perché sono stanco!" E dopo un altro silenzio: "Posso contare le ore che mi restano di vita, posso dire: Domani ... fra due giorni ... quando quel bel sole farà scintillare l'immensa pianura d'acqua che si stende laggiù, e colorirà del suo bell'azzurro questo cielo ... quando lo stesso albero getterà la stessa ombra sulla mia povera casa, e quegli uccelli schiamazzeranno fra le foglie ... io sarò morto ... non vedrò e non sentirò più nulla ... nemmeno i pianti desolati dei miei genitori che mi chiameranno ... Che rimarrà di me? di tutta cotesta confusione di pensiero che sento in così fragile involucro?... Non lo so! nessuno me lo sa dire! Ciò è ben triste!... Non è vero?" Volse gli occhi lentamente, con stanchezza, su tutto l'orizzonte che lo circondava, e con una certa inesprimibile amarezza: "La vita!..." mormorò chiudendo gli occhi di nuovo, come se quella vista l'affaticasse, o gli lacerasse l'anima, e dopo una lunga esitazione: "Sì! sì ... c'è qualche cosa di vero nell'arte!..." Il dolore m'opprimeva. Non sapevo far altro che stringere fra le mie quelle povere mani scarne. "Tu non muori, tu!" mi disse egli con una sublime e lacerante ingenuità "e forse la vedrai! Prendi" soggiunse dopo qualche secondo d'esitazione consegnandomi quel pacchetto che non aveva abbandonato. "Se mai la rivedrai un giorno ... se si rammenterà di me ... dagliele ... Se no ... fanne quello che vuoi ... bruciale ... Domani forse sarò morto, e mia madre, e mia sorella ... non devono vederle ..." Ed esitò ancora lungamente prima di darmi il ritratto. In questo momento si udirono le voci dei suoi parenti che si avvicinavano. "Maledetta!" esclamò trasalendo e buttando il ritratto per terra. "Maledetta! Menzogna infame che mi hai rubato la felicità vera! Maledetta! E maledetta anche te, arte bugiarda che c'inebbrii con tutte le follie! Maledetta!" Un accesso di tosse sembrò soffocarlo; il corpo era troppo debole; ma lo spasimo lo faceva sollevare sulla poltrona, agitando le braccia smaniosamente; e tentava quasi colle mani contratte di strapparsi dalla bocca e dal petto quel dolore insoffribile. In quel momento temei sul serio che mi morisse tra le braccia. Allorché sopraggiunsero i suoi parenti era abbandonato sui cuscini, con un soffio di vita sulle labbra, cogli occhi fissi e le lagrime che gli rigavano le guance. Qual più doloroso spettacolo di persone che si adoperano, che hanno la terribile certezza di doversi separare per sempre, che hanno il cuore a brani pel dolore, e che devono nasconderselo reciprocamente! Nella madre quel dolore era sovrumano, ma rassegnato, quasi sacro; nel padre era cupo e profondo; nell'ingenua e candida giovinetta era meno dissimulato, ma anche meno vivo, forse perché a quell'età non si crede giammai intieramente alla sventura. "Eccoti i tuoi gelsomini, Enrico!" diss'ella scuotendo il suo grembialino sulle ginocchia del fratello. "Ed ecco per lei ..." aggiunse arrossendo con un grazioso sorriso e inchinandosi con bel garbo. La ringraziai, commosso al vivo. Il desolato genitore venne a stringermi la mano. Vidi la madre che si chinava sui cuscini del figliuolo e gli diceva qualche parola all'orecchio. Dal triste sorriso con cui il figlio rispose indovinai che gli aveva domandato come si sentisse - quella dolorosa domanda che si ripete più spesso quanto minori sono le speranze di avere una risposta rassicurante. Il padre che aveva lasciato il medico pochi momenti prima, non ebbe il coraggio di domandargli. Lo sguardo intelligente del moribondo si affissava con indefinibile espressione sui suoi cari, come se volesse saziarsi della felicità di vederseli accanto mentre sentiva l'angoscia di allontanarsene sempre più ogni secondo. "Perché mi lasci così spesso?" diss'egli al padre con accento che spezzava il cuore, stendendogli la mano che ricadde senza forza. "Accompagnai il dottore, figliuol mio ..." rispose il povero vecchio facendo sforzi sovrumani per dissimulare le sue lagrime. "Ah! ... il dottore!..." esclamò l'ammalato stringendosi nelle spalle. Nessuno osò aprir bocca. Mi alzai, poiché non mi sentivo le forze di assistere più a lungo a quello spettacolo, e perché mi sembrava di dover rispettare il pudore di quelle angosce. "Te ne vai diggià?" diss'egli stendendomi la mano. "Si." "Verrai domani?" "Verrò." Credeva ancora al domani! "Domani!..." esclamò quindi tristamente. "Chi lo sa?... Ad ogni modo," soggiunse stringendomi le mani, "baciamoci ... come due amici che si lasciano per lungo tempo ..." Quel bacio caldo, in cui si sentiva già l'anelito del moribondo, mi trafisse il cuore. Egli mi seguì con quello sguardo che strappava le lagrime finché svoltai l'angolo della viottola. Il padre suo insisteva per accompagnarmi sino allo stradale. Mi parve un delitto rapirgli quegli ultimi e solenni momenti che poteva passare ancora presso il figlio che la morte gli rapiva. Partii addolorato profondamente. Tutta la notte non potei dormire. Sembravami di sentire al mio capezzale il rantolo di quel moribondo, e di vedermi dinanzi agli occhi quello sguardo e quel sorriso nuotanti nell'agonia. Il giorno dopo, di buon mattino, ritornai ad Aci Sant'Antonio. Sulla strada di Valverde incontrai i contadino che mi avea recato la lettera di Enrico il giorno innanzi. Lessi tutta la verità nell'occhiata che egli mi volse, e l'interrogai col solo sguardo. "All'alba!" mi rispose levandosi il cappello e segnandosi. Ordinai al cocchiere di tornare indietro; mi buttai in fondo alla carrozza, e piansi. FINE.

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Vita intima

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Vertua Gentile, Anna 1 occorrenze

Riguardati dunque come stabilimenti destinati a raccogliere l'infermo celibe abbandonato, solo, viaggiatore, gli ospedali devono considerarsi come una delle istituzioni sociale non solo più benefiche ma anche più necessarie; e non è possibile muovere il più piccolo dubbio su la loro utilità. Ma non così assoluto può essere il giudizio che dobbiamo portarne, ove li riguardiamo come ricoveri abituali e permanentemente aperti ai malati della popolazione indigente sedentaria. Riguardo a questa, l’influenza degli ospedali non è cosi innocente e così benemerita come molti possono supporre. E nondimeno è precisamente per queste classi sociali , che la maggior parte degli istituti ospedalieri sono fondati; è specialmente con lo scopo di assicurare ai poveri affetti da malattia e residenti in paese, un asilo e una cura medica che in ogni tempo si è provveduto a la fondazione degli ospitali. E sebbene il primitivo intento della cristiana ospitalità , sia stato quello di soccorrere i pellegrini ed i viandanti ammalati, questi, al di d’oggi, non formano più che la menoma parte degli ospiti, abitualmente raccolti nelle case di pubblica cura; la regola è divenuta eccezione, Ora questa profonda e radicale mutazione nell’indole e nella destinazione degli ospedali, si che i moderni stabilimenti cosi notabilmente differiscono dagli antichi, deve essa riguardarsi come un progresso o come una degenerazione ? … Merita di venire promossa e lodata o di essere segnalata come un pericolo ed una fonte di irreparabili danni sociali ? E’ un fatto pur troppo avverato e notorio , che là dove esistono grandi ospedali nei quali è a chiunque agevole ottenere l'ammissione, si manifesta una tendenza nella popolazione a ricorrere, durante le malattie alle cure gratuite ch'essa è certa di trovarvi. Or bene, una tale tendenza, in sè medesima considerata, non può che riuscire contraria tanto ai precetti della morale quanto a quelli dell'economia. Quando l'ammalato ha una famiglia, è nel suo seno che dovrebbe ricevere i soccorsi dei quali abbisogna ; avvezzare i poveri a respingere da sì; e dalla propria casa i loro più prossimi parenti nel momento della malattia, quando le forze fisiche e morali sono abbattute da! morbo , per metterli a carico della carini pubblica, è tale cosa di cui è difficile concepirne alcuna più dissolvente e più funesta per il sociale ordinamento. E specialmente durante la malattia che rivelasi, in tutta la santa potenza, la fecondita morale della famiglia. I doveri adempiuti e i benelizi ricevuti, la riconoscenza da una parte e la tenerezza dall'altra, le notti passati da una madre o da una moglie al capezzale del febbricitante figlio o marito , i timori le speranze le consolazioni, la solennità medesima della morte, tutti questi sono elementi di educazione di perfezionamento, di virtù, che sarebbe colpa il disconoscere, che è gravissimo errore il trascurare e spegnere nei cuori della popolazione. Per poco che vi si rifletta, è impossibile non sentirsi attristati e quasi sgomenti dal gran numero di pessimi istinti, dall'egoismo, dalla crudeltà, elle in molte famiglie del popolo sviluppa e mantiene l'abitudine di mandare a l'ospedale i loro congiunti non appena questi sono affetti di una di quelle affezioni morbose, che dovrebbero essere una propizia occasione a fare svolgere tutta la potenza d'amore e di pietà di cui è capace il cuore umano. Tali sono gli effetti che dal lato morale produce la spedalità male intesa ed improvvisamente amministrata. Né meno deplorevoli sono gli effetti economici. Fra tutte le qualità necessarie ad assicurare il progresso della umana associazione, niuna importa maggiormente di promuovere e mantenere viva nell'anima, della previdenza. Per misurare la bontà e l'utilità delle pubbliche istituzioni, non vi ha più sicuro criterio di quelle di osservare quale influsso esercitano su questa virtù; quelle che la destano, la secondano e l'incoraggiano sono da encomiarsi come sono da respingere quelle che la deprimono. A questa stregua, chi non vede i pericoli che circondano gli ospedali, aperti gratuitamente chiunque voglia ricorrervi, non richiedendo per l'ammissione che condizioni troppo facili e comuni ? .. Quando — dice un altro scrittore — accostandosi a la maturità della vita, il lavoratore pensa formarsi una famiglia, egli deve previamente accettarne i pesi e i doveri. Ora, supporrà egli di adempire a questi doveri, man-dando a l'ospedale la moglie e i figli malati, riguardando l'ospizio come un rifugio aperto alla sua vecchiezza ? . . . Tale è pure tuttavia la tentazione che gli dà la vicinanza di questi stabilimenti, congiunta con l'abitudine che egli ha sempre veduto seguire dai suoi compagni, con gli esempi che gli vengono continuamente dati. Ciò gli farà dimenticare di risparmiare durante l' età del lavoro: gli farà trascurare i salutari consigli che gli offrono, per i giorni difficili , le associazioni di previdenza; vivrà la dipendente vita del proletario, perdendo quasi la dignità e l'indipendenza del cittadino, logorerà il capitale sociale invece di apportare la sua pietra a l'edificazione del progresso generale dell'umanità. Oltre agli ospedali quali e quanti altri istituti di beneficenza non apre la società, ai poveri, agli abbandonati, agli orfani, ai pericolanti, a l'infanzia, soccorrendo a ogni bisogno della famiglia, con illuminata previdenza ! .. . Sono istituti che dicono altamente il generale sentimento di umanità, il desiderio del progresso morale, l'amore che é il solo legame, la sola religione universale; l'amore, principio di unione , di fratellanza, che Dio ha messo nel cuore, non nello spirito dell'uomo; l'amore, fonte inesauribile di carità. Un amore, una carità previdenti, provvidenziali, che danno la smania di aiutare i disgraziati, di migliorare la condizione del povero, di impedire il male, di diminuire il dolore e avviare al bene ogni classe di persone. Questo amore, questa carità, che pure, salvano da tanti guai, riparano a tante miserie, possono indebolire il sentimento di affetto fra i membri della famiglia; ma come fare altrimenti ? La società è così costituita che è indispensabile provvedere ai mille bisogni di tanti e tanti soffocando forse nella grande opera pietosa gli affetti più naturali. Come provvedere ai bisogni morali e materiali dei bambini e dei fanciulli poveri, dei giovinetti discoli , dalle fanciulle pericolanti , dei ciechi e dei sordomuti, di adulti spostati e incapaci di lavorare, dei vecchi affraliti che sarebbero di spesa alle famiglie ? .. E ci sono, perciò varie specie di ospizi; quello dell'allattamento dei neonati, gli asili d'infanzia, gli orfanotrofi, i ricoveri per i discoli, le case provvidenziali per le giovinette in pericolo , per gli adulti che hanno bisogno di lavoro, per tutti i disgraziati o quasi. Che sarebbe di questa moltitudine di poveretti se la società non pensasse a provvedere ai loro bisogni ? . . . Basterebbe l'affetto della famiglia a soccorrerli, a salvarli dal male ?... . Il cuore, il buon senso, il desiderio della famiglia, logicamente e santamente costituita, fanno pensare con una certa incresciosità agli istituti — per esempio — dell'allattamento dei neonati. Addolora l'idea che una madre deva assoggettarsi a la necessità di staccarsi dal seno la propria creatura, di affidarla per l'intera giornata alle cure degli altri ! E chissà quante poverette rinuncieranno con angoscia, quasi con gelosia, al dovere di allattare i loro piccini, di circondarli delle delicate cure richieste dalla loro debolezza! E vi rinuncieranno per mancanza di mezzi materiali, di tempo, magari Chi sa quante poverette dovranno sacrificare al lavoro nelle casi industriali, nei negozii, nelle famiglie, il piacere di tenersi presso i propri bambini in fasce. Ma come fare se il lavoro è necessario al pane della famiglia ? Sicuro; tutti lo sentono, tutti lo sanno: l'allattamento materno è desiderabile, come quello che offre, oltre molti altri vantaggi, quello di rafforzare i legami della famiglia, di mantenere le affezioni domestiche. La vista della culla eccita l'attività, insegna la previdenza, compensa la moderazione, impone rispetto all'uomo per la donna, comanda il sentimento della protezione. E il bimbo riceve cure, se non più igieniche, certo più tenere; e in tanto gli si figge nel cervello la rappresentazione della madre che lo allatta, del padre che lo accarezza, degli oggetti che lo colpiscono; e le prime impressioni che riceve dal mondo esteriore sono quelle della casa e dell'ambiente nel quale è destinato a vivere. L'alattare i proprii figli è uno dei più santi e cari doveri della madre. « Partorire con dolore — dice Mantegazza — è della femmina. Allattare il proprio figlio, riscaldarlo del calore del proprio petto, dargli un altra volta la vita con l'alimento del seno, è della madre ». Ma pur troppo ci sono delle madri che non sentono questo santo dovere e rinunciano con un sospiro di sollievo a l'incomodo di curarsi dei loro bimbi in fasce, e fanno impegni per affidarli, anche senza bisogno, agli istituti di allattamento. E che dire delle altre molte appartenenti alle classi agiate, che con tutta indifferenza affidano le loro creature alle balie, rinunciando al dolcissimo piacere di allattarle per schivare seccature, per non avere impicci, per non recar danno a la fresca bellezza ?.. Il sentimento della famiglia non può certo trovarsi nel cuore di queste madri: nè per esse gli istituti di allattamento saranno una prova di affievolimento nelle affezioni più intime. Vi sono bambini che passano i giorni della prima infanzia via di casa sempre o quasi. Sono mandati a balia, in campagna, o affidati per l'intero giorno a l'istituto di allattamento; a l'età di due, tre anni, li accolgono i giardini d'infanzia, da mattina a sera. Dai giardini d' infanzia passano alle scuole elementari, e nelle ore che corrono fra la fine della scuola e la sera, sono raccolti nella scuola e famiglia, ove la generosità pubblica li sorveglia mentre fanno i compiti o studiano le lezioni, procura loro svaghi sani e innocenti e quasi sempre del pane per la merenda. Questi fanciulli non si trovano in casa propria che la sera, quando i genitori sono tornati dal lavoro, e stanchi e spesso inaspriti, specie le donne, dalla continua obbligata assenza dalla casa, dalla necessaria mancanza dei doveri di madre di famiglia e di massaia, non sentono altro bisogno, altro desiderio che quello del riposo e del nutrimento non sempre corrispondente alle fatiche sostenute. Quel ritrovo della famiglia non è certo sempre allegro nè allietato dalla pace serena. In simili condizioni di cose come possono rafforzarsi i legami fra genitori e figli, fra sorelle e fratelli ?.. Poi che la società è costituita in modo che in molte classi, i genitori devono disertare la casa per il lavoro, e la donna non ha tempo o pochissimo di occuparsi della famiglia, conviene benedire agli asili, agli ospizii, alle scuole ed ai riareatori laici o religiosi, che nel miglior modo possibile, cercano di supplire a la famiglia raccogliendo i bambini, i fanciulli, gli adolescenti, per proteggerli contro la inerzia, l'abbandono, il malo esempio, per distoglierli dalla via del male che conduce a perdizione, che si oppone al morale progresso, a la economica floridezza della società. Un'altra istituzione che si deve benedire come provvida e pietosa è quella dell'ospizio dei vecchi. Non sono più capaci di lavorare, sono, acciaccosi, e dopo di avere cresciuto i figli, sentono che i figli non possono senza grave sacrificio sostenerli nei loro ultimi giorni di stanchezza, che dovrebbero per molti essere giorni di riposo meritato. L'ospizio li raccoglie, la carità li strappa a la miseria, offre loro tetto, vesti, vitto. La necessità li stacca dalla famiglia; non più vecchi o ben pochi nelle case del povero, non più la saggia voce dell'esperienza, la scuola del rispetto, l'affezione santa fra nonni e nepoti!... Un altro crudele, necessario strappo alle affezioni della famiglia !... Strappo crudele che ferisce il cuore e fa pensare. Ma non sorgerà dunque mai, mai una società abbastanza ricca e devota al dovere, che permetta al vecchio povero di morire dove ha vissuto, fra la gente che ama, seguendo le abitudini incontrate, circondato dall'affetto dei suoi ?.. Perchè la società non è costituita in modo da lasciare il vecchio povero nel posto che Dio gli ha assegnato, là dove l'uomo giovane e forte dovrebbe aiutarlo, la donna averne cura, i fanciulli sorridergli ed ascoltarne riverenti le parole ? E’ così dolce vedere la debolezza sorretta dalla forza, la infermità alleviata dalla salute fiorente, il capo canuto curvo su i riccioli biondi !... E’ invece triste l'ospizio ove sono raccolte tante vecchiaie, ove giacciono sepolti i ricordi, i desiderii, le languide speranze, non di rado il rammarico, qualche volta la sorda, impotente ribellione contro l'ingiustizia. E pure che sia mille volte benedetto l'ospizio che toglie il vecchio povero al freddo, a la fame e pur troppo anche a l'ingratitudine ! Ma che si possa sperare in un tempo in cui la famiglia sia costituita in modo che cessi d'essere necessaria questa pietosissima e grandiosa opera di beneficenza, in un tempo in cui le condizioni sociali sieno tali che l'amore e la gratitudine possano unirsi insieme, per offrire un posto d'affetto e di riconoscenza in seno della famiglia, ai vecchi affievoliti e impotenti al lavoro ! In Danimarca si concedono pensioni ai vecchi poveri. Per ciò fu approvata una legge il 9 aprile 1891: legge che andò in vigore il primo luglio dello stesso anno per tutto il regno, salvo Copenhagen e il suo sobborgo Frederiksberg, in cui andò in vigore nel 1892. Scopo della legge è di accordare pensioni, su fondi pubblici, ai poveri che hanno superati i 60 anni e che possono dimostrare come la miseria non sia per essi cagionata da vizi, o da condotta irregolare o dall' essersi privati di tutto a vantaggio dei figli o di altri. Gli aspiranti a la pensione, espongono lo stato loro e le rendite di cui godono, i debiti se ne hanno, gli aiuti che già hanno ricevuto ecc; e queste loro dichiarazioni devono essere attestate da due persone minacciate da severe pene se dicono il falso. Allora si fa un'inchiesta e si accorda la pensione se ne è il caso. Si può però appellare contro la risoluzione dell'autorità che ha applicato la legge. Nell'anno 1897 furono date in tutto il regno, 52,930 ensioni. Nel 1893, sopra 220 ersone, che avevano varcati i 60 anni, ve n'erano 30 he rice- vevano la pensione e dodici che da loro dipendevano (figli, mogli, ecc.); ma al principio del 1897, il numero dei pensionati era cosi cresciuto, che solamente su 180 persone sopra i 60 anni si trovava la stessa quantità di pensionati. In alcuni luoghi i pensionati sono alloggiati in case, alcune delle quali sono specialmente assegnate a loro soli, e nel 1896 ve n'erano 426 che ricevevano questo trattamento a Copenhagen, e 339 nelle altre parti del regno. Soccorrere con una pensione i vecchi, i quali se hanno famiglia possono vivere con essa senza essere di peso e soffrire avvilimento, cosa che prova il progresso nel sentimento filantropico. Come in tutto, anche qui c'è qualche inconveniente. Per esempio; molti che hanno o stanno per avere i 60 anni, cambiano di residenza per andare in luoghi dove sperano di poter ottenere una pensione più grande di quella che avrebbero liquidato se fossero rimasti nel luogo di origine, e ciò avviene principalmente dalle campagne a la città. Nè mancano questioni e difficoltà che debbono ancora essere risolute, come per esempio: se chi possiede una piccola proprietà possa godere della pensione accordata su i fondi pubblici, o se debba restare a l'autorità il diritto di rivalsa su la proprietà lasciata da un pensionato dopo la morte di costui. Li ogni modo questa legge ha un'azione benefica anche in riguardo ai suoi effetti morali. Il primo di tali effetti è quello di accordare al vecchio la possibilità di passare i suoi ultimi anni con le persone della famiglia; di evitare uno strappo crudele di abitudini e di affetti. Un altro quello di influire su la condotta. Il pensiero, il desiderio, la speranza della pensione, non possono a meno di essere di sprone al ben condursi, al meritare la stima pubblica, e insieme con la stima una sincera testimonianza di regolarità per il momento opportuno. Nel secolo XIX la famiglia del povero fu soccorsa e istruita; ma i vincoli fra i membri che la compongono non vennero rafforzati. E pure non mancò il desiderio di educare negli animi il sentimento della famiglia. Molti sono gli esempi che lo dimostrano, e fra questi il seguente, che si riferisce agli orfanelli. L'istituzione degli orfanotrofi é antichissima. La sorte dei poveri fanciulli privi dei genitori, ha sempre impietosito, ha sempre destato un sentimento generoso. Ma gli antichi orfanotrofi non miravano ad altro che a dare agli sventurati fanciulli senza difesa, un asilo ed una protezione, contro i pericoli d'ogni genere che li minacciavano, senza curarne l'educazione, se si toglie la religione, grossolanamente impartita. Al genio della moderna carità era riserbato di risguardare sotto un aspetto più largo e più filantropico questo genere di benefici stabilimenti. Gli orfanotrofi si propagarono rapidamente in Italia più che negli altri paesi. L'ospizio degli orfanelli fondato in Roma nel secolo XVI, destinava e preparava ad utili professioni i ragazzi ricettati, e il cardinale Salviati vi unì un collegio per i fanciulli che a dodici anni, mostrassero di avere attitudine a l'istruzione letteraria. Papa Innocenzo XII fondò poi un secondo orfanotrofio annesso al grande ospizio apostolico, di S. Michele, nel quale si insegnano le arti meccaniche e le liberali. I due grandi stabilimenti per gli orfanelli di Milano, i Martinetti e le Stelline rivaleggiano con quelli di Roma, Tutte le città ormai hanno il loro orfanotrofio. E i ricoverati ormai non sono tutti obbligati a star reclusi il giorno intero nello stabilimento. Si trovò che nell'officina dell'ospizio, il fanciullo compie per lo più senza passione il suo dovere. Non vi è nulla che ecciti il suo ardore; nulla che lo divaghi e con la divagazione gli rafforzi la volontà. Si è quindi pensato di disseminarli nelle botteghe e nei negozi privati. Così gli orfani possono scegliere il mestiere o l'arte verso cui si sentono inclinati ; la speranza del lucro e l'emulazione servono loro di stimolo; imparano non solo l'arte o il mestiere, ma anche il modo di vivere in società; quindi a fare frequenti e utili osservazioni sul proprio carattere; e sopra tutto a farsi un'idea della famiglia, ne respirano l'aura vitale e educano nel loro cuore quei sentimenti d' affetto che non possono essere svegliati e sviluppati in un ospizio.

Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

Non aveva continuato l'opera mia; per fuggir le tentazioni della donna, l'aveva abbandonato a se medesima, e i dubbii ch'ella era andata volgendo in quelle ore di solitudine, adesso, grazie alla abilità satanica del barone Lorenzo, la prendevano alla testa, la gettavano in un abisso, le facevan perdere la nozione della realtà, la turbavano, l'annientavano, la rendevano neutrale, in quella battaglia formidabile; nè per lui, nè per me. - Sei tu, dunque? - ella insistette, - Sei tu, che m'inganni? sei tu, che accetti le mie follìe per rendermi impossibile qualunque avvenire? Sei tu che inventi i romanzi e mi laceri il cuore, per il gusto di strapparmi all'affezione e alla stima di un uomo onesto?..... Rispondi, in nome di Dio, o divento pazza!.... Rispondi, per carità! - Ascoltami - dissi. - Mettetevi a sedere in una poltrona, e ascoltatemi. Non vi posso rispondere, se non so prima che cosa vi abbia detto cotesto fidanzato elastico. Che vi ha raccontato, quel pipistrello, quel pendaglio da forca, quel barone degli agguati? Che cosa vi ha messo in testa?... Vuoi lottare con me, a viso aperto, cotesto mandante di bricconi? O ha intenzione di atteggiarsi a rivale cavalleresco e di sfidarmi per davvero? Non so quel che vi abbia detto, per eccitarvi a questa maniera; ma se vi scivola ancora per casa, annunziategli che il suo calunniatore lo attende, mandatelo da me, costui; mandatelo da un galantuomo il quale non desidera che un colloquio di pochi secondi, a quattr'occhi; e poi, non dubitate, ve lo rimanderò, dopo la cura.... Ditegli che varchi quella soglia, l'innocente, l'innamorato, il calunniato..... Venga a domandarmi conto degli affari miei, venga ad accusarmi di avergli rapito la sua donna!.... Egli vi ama non è vero? Ha detto che vi ama, senza dubbio, e quasi tutti i giorni vi segue a rispettosa distanza, credendo che voi veniate qui, per me. E non muta nulla, e si atteggia sempre a fidanzato, ed è sempre pronto a sposarvi! Dove ha il sentimento dell'orgoglio, dove ha l'amor proprio, dove sono i medesimi sensi più volgari, in cotesta costruzione rudimentale di uomo e di maschio?..... Vi porta quasi in casa mia, e poi si rotola ai vostri piedi, sul vostro tappeto, scongiurandovi di sposarlo?.... Buffone?, vigliacco, svaligiatore di femmine! Sentendo un groppo alla gola, di repente mi asciugai le labbra, e vidi che una leggera bava era venuta a bagnarmi la bocca. - Perdonatemi - dissi lentamente - perdonatemi, Clara! Non so quello che mi dica: parlo senza misurar le frasi.... Ma voi mi avete colto alla sprovvista, e non mi son potuto frenare! Ah! creatura diabolica, se io riesco a scovarti dal buco ove ti rintani, non troverai una donna! Sono un minerale che ancora manca alla tua raccolta, o caricatura losca di pedante!.... E stendevo il braccio nel vuoto, come per afferrare il nemico e girare il pugno, soffocandolo. - Silenzio, per carità! - mi disse Clara. - Hai la bava, alla bocca! Bevi, calmati, riposa un poco; ti racconterò poi tutto! Come soffri, mio Dio! Che cosa posso fare per te? Ella diceva queste cose recandomi un bicchiere alle labbra, e asciugandomi colla pezzuola la fronte madida, e susurrando, e accarezzandomi, e sforzandosi a sorridere. - Che cosa posso fare per te? - ella andava ripetendo. - Mio amore, mio amico, non soffrire tanto.... E' colpa mia; ti ho aggredito all'improvviso, poveretto!.... Ma ho sofferto, soffrirò io pure!... Dio, com'è pallido! Ha chiuso gli occhi.... - No, no - dissi, allontanandola un poco. - Non ti spaventare: è passato..... Ora sto bene!...... - Stai meglio davvero? - incalzava Clara. Non parlar più di lui, non ci pensare, non nominarlo.... Ti senti bene?...Che cosa posso fare per te?... Ella era scivolata ai miei piedi senza avvedersene e stava, accoccolata per terra, e alzava gli occhi a cercare i miei occhi, e fremeva di spavento e d'inquietudine. Io tremava ancora di rabbia. M'era balenato un pensiero e volevo effettuarlo subito. - Senti, - dissi. - Ho bisogno di riposare. E' una scossa di nervi, tu mi conosci, sai che i miei nervi sono d'una sensibilità spasmodica..... Lasciami solo: ho bisogno di dormire..... Tornerai domani; stasera verrò da te, se mi sarà possibile. Non ti offendi, cara, se ti mando via? Sono così stanco!..... - Ma no, ma no; hai ragione, - interruppe la donna. - Ripòsati; non venire da me questa sera; mandami un biglietto, perché io sappia come stai. Non sarà nulla, è vero? - Nulla; solo un po' di stanchezza, Ma se colui ritorna? - Non ritornerà, - disse Clara levandosi in piedi. - Che cosa gli hai detto per finirla? La giovane mise l'indice destro verticalmente sulle labbra, sorridendo. - Zitto, - susurrò; - devi riposare oggi. Ti dirò tutto domani, purché tu oggi non ci ripensi. Non appena ella si fu allontanata, io indossai il soprabito, presi il cappello, i guanti, la canna, e in carrozza mi feci condurre all'Albergo Savoia. - Il barone Lorenzo Scavolino? - disse il portiere, ripetendo il nome che gli chiedevo. - Da una settimana non è più all'Albergo. - Avrà lasciato un indirizzo, - insistetti. - Devo comunicargli cose di molta importanza. Vogliate informarvi. Il portiere entrò a parlare col proprietario, e un istante appresso tornava. - Il signor barone ha preso in affitto la villa Capriccio, in via Dante da Castiglione, - egli disse. - Grazie!... Alla villa Capriccio! - gridai al cocchiere. Capriccio! Egli si rintanava in una villa Capriccio, come una cocotte cocottepresa dai rimorsi; e in qualche giardino delizioso trascinava l'ira, il sospetto, i timori molteplici di quei giorni; e io andava a coglierlo nel suo romantico asilo, a gridargli che non v'era più speranza per lui, che tra la sua concupiscenza e Clara m'ero posto io, e che di me si doveva prima sbarazzare per giungere alla donna agognata..... La carrozza che mi trasportava non correva lesta abbastanza per il mio desiderio: la via Romana ingombra di carri e di vetture, parve interminabile; il cavallo scivolava ad ogni poco; vi fu un diverbio tra il mio cocchiere e il conduttore d'un carro: ambedue volevan passare nel medesimo tempo e pel medesimo spazio; i veicoli urtarono, i mozzi delle ruote batterono, cadde una grandine di bestemmie e d'invettive: sempre bestemmiando e insultandosi, i due uomini scesero e s'aiutarono a trarsi d'impaccio, osservarono i danni recatisi, appuntando l'indice sugli sfregi e le ammaccature: poi, tra una nuova tempesta di contumelie, il vetturale e il carrettiere risalirono al loro posto, frustarono e ripresero la via. Il cocchiere ebbe la bontà di volgersi per ispiegarmi l'accaduto e farsi dar ragione. - Va al diavolo! - gli dissi. - Non capisci che ho fretta? - Non la stia ad indugiare per così poco, - egli rispose, - che si arriverà lo stesso. Ci si arrivò, infatti. La villa Capriccio, giallognola con le persiane cineree, s'ergeva in fondo ad un bel giardino, e dapprima mi sembrò ch'ella rassomigliasse alla villa del barone, sul lago di Como: egli aveva un gusto speciale per le case un po' tristi, monotone. Si sarebbe detto che fra sé e la luce vivida, egli cercasse di porre sempre qualche ostacolo, il grigio di un'ombra, il riparo degli alberi, qualche cosa infine che facesse della casa un asilo di mistero e di silenzio. Anche il servo, comparso alla mia scampanellata, era curioso. Mi squadrò attento, aguzzando gli occhi e piantandomeli in faccia con insistenza quasi sconveniente. - Cerca? egli disse. - Cerco del barone. - Quale barone? - Voi dovete conoscerlo meglio di me: suvvia, annunziatemi. - Il signor barone è fuori, - disse il servo con un lievissimo accento di trionfo. - Non posso quindi annunziarla. Io pensai che i servi, come gli animali domestici, sanno fiutar da lungi il nemico del padrone. - E torna? - domandai celando a pena la mia impazienza. - Generalmente verso le sette, per mutarsi d'abito e recarsi a pranzo. - Dove pranza? - Cambia, sa? Ora in un posto, ora in un altro. - Ma alle sette c'è sempre? - Generalmente. Guardai l'orologio;eran le quattro; impossibile aspettarlo tre ore. - - Se viene alle sette, ditegli che abbia la cortesia di attendermi: non tarderò di certo. - Il signore vuoi favorirmi la sua carta da visita? - E' inutile, - dissi, comprendendo che la mia carta da visita riavrebbe fatto trovare il nemico sempre assente. E aggiunsi, per un'idea venutami d'improvviso, la quale mi pareva ottima a coglierlo in trappola: Il barone non mi conosce, ma potete dirgli che ero venuto a trattar la compera della sua villa sul lago di Como e che tornerò alle sette, perché devo sbrigarmi non essendo a Firenze che per questo scopo. Il servo, ammansato, s'inchinò e mi riaccompagnò fino alla carrozza. Comprargli la villa di Como, la villa nella quale, secondo la fantasia della buona Anastasia, vagava l'ombra della uccisa signora! Ma era un sogno per il barone; egli mi avrebbe aspettato fino a notte, senza dubbio, pur di concludere. Rassicurato così, risalii in carrozza, tornai in citta e mi feci condurre a casa. Passai alcune ore trepidando; m'imaginavo la scena, parlavo ad alta voce con un barone fantastico, divertendomi ad insultarlo con le più sanguinose espressioni del vocabolario italiano...... Ah, lo tenevo in pugno, finalmente! A quattr'occhi, con voce sorda, guardandolo in viso, avrei potuto finalmente dirgli ch'era un mandante di assassini; l'occulto maleficio che egli credeva non avesse avuto testimoni all'infuori della sua coscienza, m'era noto, e glielo avrei fatto rivivere episodio per episodio, giorno per giorno, con la minuta indagine la quale m'era riuscita così efficace innanzi a Clara, scettica e incredula..... Poi, quando avessi visto l'uomo annientato dallo spavento, gli avrei imposto le condizioni: rinunziare al suo nuovo matrimonio, partire entro ventiquattr'ore, non farsi mai più vivo nè presso Clara nè presso di me. Io avrei taciuto e dimenticato, felice solo di avere strappato ai suoi artigli la donna ignara e buona sulla quale il malfattore aveva osato alzare gli occhi. Questa era la scena che andavo imaginando; l'odio, lo sdegno, la passione, m'avrebbero suggerito le parole; tremende parole, come quelle d'un giudice. Tornato poco prima delle sette alla villa Capriccio, non trovai che il servo. - Il signor barone è ancora, assente, - egli mi disse. - Ma non può tardare oltre. S'ella desidera accomodarsi in salotto.... Il servo sfoggiava ora tutta l'urbanità di modi e di frasi ch'egli riservava evidentemente agli uomini i quali comprano le ville; forse subodorava un regalo, a contratto concluso; non per nulla a quel contratto aveva egli pure modestamente collaborato, agevolandomi il ritrovo col barone. Il buon uomo intuiva, con soverchia rapidità mentale, come io recassi nel portafoglio i quaranta o cinquanta biglietti da mille che la casa poteva valere. Mi accomodai nel salotto; un piccolo salotto illuminato a luce elettrica, disposto bizzarramente, con bei tappeti ai muri e per terra; sul tavolino, in un angolo della finestra laterale, era un vaso di maiolica azzurra, snello, riboccante di fiori. La stufa accesa spandeva un piacevole tepore. - Ha ordini? - mi chiese il valletto rimanendo inappuntabilmente diritto, a pochi passi dalla poltrona sulla quale m'ero adagiato. - Niente; grazie. E' da molto tempo che il barone si trova in questa villa? Da una settimana circa. - E' una villetta deliziosa, un po' triste. Il servo non trovò opportuno esprimere la sua opinione. - Il barone finirà per annoiarsi, - continuai. - Ci sta poco, - disse il servo. - Di giorno fa molte visite. - M'imagino: un uomo come lui, così noto e stimato, deve conoscere la migliore società fiorentina...... Avevo deciso, rapidamente, di far cantare anche colui, e mi assumevo di buon grado la parte di ricco ingenuo, di rozzo possidente, di villano rifatto. - Il signor barone, - disse il servo intuendo, ancora con soverchia rapidità mentale, a quale classe appartenevo, - il signor barone frequenta molto la colonia stranieri, specialmente americana e inglese. - Tutti ricconi? - domandai, spalancando la bocca. - Si capisce, - confermò il mio interlocutore. - Bisogna vedere quando giuocano....... Io frenai a stento un moto subitaneo di gioia..... Il barone giuocava! S'era rintanato alla villa Capriccio per giuocare; si allontanava da Clara per giuocare!.... - Ah, giuocano!- osservai. - A che cosa? A tresette, ai tarocchi? Il servo non riuscì a dissimulare un gesto di orrore. - Eh, no! A macao, a faraone, a bèzigue, a poker..... - Che nomi! - esclamai ridendo come un idiota. - Mai sentiti! Saranno giuochi americani! Da noi, in campagna non si usa. Io giuoco molto ai tarocchi. Il valletto sorrise bonariamente e restò silenzioso, guardandomi dall'alto delle Piramidi. - Per certi giucchi bisogna esser ricchi, - seguitai, e aggiunsi con la più ingenua naturalezza: - Sono ricco anch'io, ma non mi piace, buttar via i quattrini, che costaron tanta fatica a papà.... Ora compro la villa sul lago di Como; è una pazzia, la sola che io mi faccia lecito.... Devo prender moglie e allora, poiché sono incamminato a commettere delle bestialità, compro anche la villa; ma poi, tornerò a fare economia. Il mio interlocutore, sempre dritto e rispettoso, ascoltava quelle confidenze con l'aria di non volerne abusare. - Come vi chiamate? - gli dissi improvvisamente, poiché il suo silenzio cominciava a seccarmi. - Giacomo. Quell'uomo, innanzi a un signore d'antico linguaggio o di maniere convenienti, si sarebbe chiamato Jack o James; ma per me era Giacomo, con la massima semplicità. - Bravo Giacomo! - gli dissi, battendogli sulla spalla. - Sapete quanto chiede il barone della sua casa di campagna?... Dieci, ventimila lire? - Non saprei - rispose Giacomo - forse di più, perché credo vi sian dei poderi intorno. Quaranta o cinquanta mila lire... - Questo sarebbe il prezzo di una volta; ma ora, dopo il delitto, anche il barone non potrà tener duro. Se non la compro io, tanto per fare una bestialità, chi volete osi metter piedi nella villa? Il valletto aggrottò le sopracciglia. - Dopo il delitto? - ripetè attonito. - Sì! hanno ammazzato una donna in quella casa, tre anni or sono, - aggiunsi con indifferenza. Giacomo non ne sapeva nulla; non era un vecchio servitore di famiglia. Temendo che le parti mutassero e che egli volesse ora far cantare me, cambiai discorso. Aspettiamo il barone, dunque - ripresi. - Sono le sette e un quarto. - Non può tardare - assicurò Giacomo di nuovo. S'inchinò, sollevò la portiera ed uscì. L'astuta faina d'anticamera non nutriva alcun dubbio di aver parlato con un ricco mercante di porci, che voleva darsi il lusso d'una villa, per far morire d'invidia il segretario comunale del suo paese. Mi guardai in giro: v'erano due larghi divani, con molti guanciali soffici sulla tavola parecchi romanzi, intonsi; a una parete, dall'alto in basso si seguivano molti ritratti d'uomini, tutti d'uomini. Osservai meglio: il ritratto della defunta baronessa non c'era; sparita la donna, sparita ogni memoria, se non ogni rimorso. Il mio ospite non aveva alcuna voglia di rivederne le sembianze, ma io avrei desiderato farmene un'idea, poiché me l'ero imaginata così languida e stanca. Andai scrutando ovunque, sbirciando anche negli angoli; l'uomo era capace d'averne messo il ritratto in qualche angolo penombroso, dove si sarebbe e non si sarebbe veduto, come un omaggio alle tradizioni, una noia conveniente. Invano; la povera vittima non esisteva più, nemmeno in effige. Aveva seguìto, nel turbine delle cose umane, la sorte delle sue ricchezze. Non vidi nemmeno la famosa raccolta di minerali; forse era in un'altra camera; forse ripreso dalla mania del giucco, il barone aveva gettato le sue pietruzze in un canto. Certo si è, che il non vederle mi fu poco spiacevole: esse mi ricordavano quella serata in cui aveva avuto la noia di parlare la prima volta al mio nemico. Guardai sulla tavola i romanzi; quasi tutti francesi, le novità recenti; v'era anche qualche fascicolo delle riviste italiane più note, esso pure intonso. Che lettore assiduo, quel barone! Ma toccando uno dei volumi, l'ultimo sotto gli altri, m'accorsi che era un libro finto, sottile, elegantissimo, chiuso a chiave; senza dubbio un portaritratti. Avevo messo la mano sul tesoro nascosto ed intimo; il volto languido e stanco della povera baronessa mi sarebbe stato noto, finalmente, e avrei avuto l'imagine della donna le cui sofferenze m'ispiravano una tenera pietà. Nel mentre giravo il finto libro tra le mani, esso si aperse, e mi fece fare un balzo. Clara!... Aveva innanzi agli occhi non già la defunta baronessa, ma il ritratto di Clara, sorridente, dritta e superba in un abito scollato... Non le avevo mai visto in casa quel ritratto, nè le conoscevo quell'abito; con un pensiero delicatamente femminile, aveva serbato l'uno e l'altro per lui, pel fidanzato. E sotto la fotografia stava scritto Clara al suo amico Lorenzo con data di tre mesi prima. Nulla di più logico e naturale. Tre mesi addietro, ella ignorava di quali crimini fosse capace il barone: tre mesi addietro tutto si svolgeva lietamente, sicuramente, e il matrimonio era certo: il regalo d'una fotografia con una dedica affettuosa non aveva nulla di men che onesto. Pur tuttavia, per qualche istante rimasi a guardare il ritratto, tremando. Come s'era fatta bella, per lui! Come gli sorrideva, com'era contenta e fiduciosa! Se in. quell'attimo in cui ella offriva tutta la propria persona perché l'imagine rimanesse indelebile sulla lastra e innanzi alla mente del barone, se in quell'attimo qualcuno le avesse sussurrato il mio nome, si sarebbe ella ricordata di me, dei nostri giorni morti e dei baci ch'ella m'aveva dato? Forse avrebbe scosso il capo fastidiosamente... Ora viveva un'altra vita, ora pensava a un altro, si preparava a un altro festino; ed io ero solo. Rinchiusi tristemente il finto libro, e lo rimisi al posto. - E io m'aspettava di veder la baronessa! - pensai. - Si può ricordare una morta, quando c'è costei, viva, da conquistare? Tornai a prendere il ritratto e lo guardai di nuovo attentamente. - Il tuo amico Lorenzo!- dissi, quindi ad alta voce: - te l'ho strappato dal cuore, il tuo amico Lorenzo! Sono qui ad attenderlo, il tuo amico Lorenzo; sono qui per te, sono qui a difenderti. Ah, come hai fatto bene a balzarmi innanzi, perché dal tuo ricordo, io acquisti la fiducia e l'audacia! Il tuo amico Lorenzo! Mentre parlavo, andavo cercando di sottrarre il ritratto alla sua custodia; ma vi era ficcato così saldamente che m'indolenzii le dita senza ottenere il mio scopo. - Va! ti lascio dove sei - dissi, imitando la volpe sotto i grappoli ti lascio dove sei, che tanto non m'importa nulla nè di te, nè del tuo amico! Lo deposi ancora al suo posto; e guardai l'orologio. Erano le otto; aspettavo da più di un'ora; la villa era immersa in un silenzio sepolcrale, interrotto solo dal ticchetic esasperante d'un pendolo in anticamera. Comparve Giacomo, il quale veniva a dare una occhiata alla stufa e a me. - Sono desolato - egli disse elegantemente - sono desolato d'averla incoraggiata ad aspettare. Il signor barone non ha mai tardato tanto. - Peggio per lui - risposi, continuando nella mia commedia. - E' un buon affare che gli scappa. - Il signore non aspetta più oltre? - domandò il servo, vedendosi scappare alla sua volta la gratificazione sognata. - Via, dieci minuti; ancora dieci minuti poi, saran quaranta mila lire che risparmio. - Se sapessi dove acciuffarlo! - mormorava Giacomo, dimenticando la sua compostezza di valletto all'inglese. - Ma temo che sia andato a pranzo. E' la prima volta, dacché son qui, che non viene a casa a mutarsi d'abito. - Ma stasera, dopo pranzo, ritorna? - Certo, verso le undici... Soltanto - aggiunse il servo con prudenza - non mi sembra sia quello il momento di avvicinarlo. Ha un convegno qui con mister Alfred Brian, col colonnello Percy Gresham e con altri signori. Giacomo pronunziò questi nomi alteramente, come un direttore di circo equestre fa fischiare e schioccare la frusta invitta. - Giuocano a quei ridicoli giuochi americani, nevvero? - domandai. - Al cacao, al marrone, al diavolo che se li porti... Eh, è così? - Sì, signore; salvo i nomi dei giuochi... - E il vostro padrone perde e diventa una bestia; voglio dire, non pensa a vendere la villa... Eh, è cosi? - Ci penserebbe, anzi, allora più che mai - rispose Giacomo con una certa profondità di vedute psicologiche. - Ma davanti a quei signori, ella mi capisce.... In quel momento squillò il campanello elettrico al cancello del giardino. - Eccolo! - disse Giacomo. Io era innanzi a uno specchio, accomodandomi la cravatta: e mi vidi impallidire, vidi le mie labbra serrarsi spaimodicamente; la maschera dell'idiota arricchito scomparve, e mi lampeggiarono gli occhi. Era lui! Ancora un minuto e ci saremmo trovati a viso a viso!... Gettai un rapido sguardo sulla tavola, dove riposava il ritratto di Clara. - Ebbene? Che cosa fate lí? - domandai ruvidamente a Giacomo, il quale non si era mosso. - Non gli andate incontro? Il servo mi guardò stupito; egli pure, forse, trovava sul mio volto una espressione nuova e dura, fredda e ferma, che lo sbigottiva. - Non è lui! - disse poscia malinconicamente... - Come lo sapete? - Se fosse il signor barone, a quest'ora suonerebbero tutti i campanelli. E' ordine; e il portiere lo sa... Dev'essere il portalettere, invece. Irritato da quell'attesa, da quelle alternative continue, dalla noia, dal ricordo di Clara al suo amico Lorenzo non potei frenarmi. - Ah, per Dio! - esclamai. - Non ho mai fatto tanto in vita mia; un'ora e venti minuti d'anticamera! Dite al vostro padrone che quando si vogliono vendere le ville, si sta in casa! E mentre Giacomo m'aiutava a infilare il soprabito, continuai: - Io sono ricco, ve l'ho detto; ma per vendere una casa da quarantamila lire, m'inchioderei sulla poltrona! Potete figurarvelo, se per comprarla ci rimetto il pranzo e sto ad attendere un imbecille quasi due ore! Afferrai il cappello e me ne andai ridendo. - Signore, signore! - gridò Giacomo, il servo inappuntabile, correndo dietro pel giardino, - mi lasci il suo indirizzo. Ci penso io! Ma il mercante di porci si tirò appresso il cancello e spari nella via oscura.

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