Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbandono

Numero di risultati: 317 in 7 pagine

  • Pagina 2 di 7

Da Bramante a Canova

251200
Argan, Giulio 3 occorrenze

Pagina 276

Pagina 39

Come pura pittura, rivendica le stesse legittimità e la stessa positività della scienza o della politica; e non è mai, neppure per un istante, abbandono o evasione sentimentale.

Pagina 394

La pittura antica e moderna

252729
Farabulini, David 1 occorrenze
  • 1874
  • Tipografia e Libreria di Roma del Cav. Alessandro Befani
  • Roma
  • critica d'arte
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Pagina 50

La tecnica della pittura

254783
Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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Pagina 298

Le due vie

255389
Brandi, Cesare 4 occorrenze

Pagina 120

Che possa rappresentare la nuova strada del cinema è troppo presto per dirlo, ma a noi non interessa tanto di precorrere gli sviluppi futuri, quanto di notare che, in questo abbandono parziale del cinema della posizione di certezza e di univoca verità che sembrava il suo privilegio, si deve riconoscere il modo di adeguarsi alle istanze che si sono recensite, per l’arte, nella coscienza attuale, ma non più il tentativo di modellarsi su questa o quell’altra arte. Non è infatti, che l'Anno scorso a Marienbad o Otto e 1/2 siano più vicini al teatro o al romanzo dei film che li hanno preceduti; la somiglianza potrebbe sembrare accentuata dal fatto dell’uso del flash back che il romanzo, del resto, ha ripreso particolarmente dal cinema: ma la somiglianza non è in proprio col romanzo o col teatro, sta invece nell’accettare o nel cercare di adattare al cinema l’attitudine di integrazione dello spettatore. E l’aspetto più interessante è che, per far questo, non si è cercato di influire sull’oggetto stesso o sulla presa d’immagine, come nel cinema espressionista, ma, lasciando la sua indispensabile qualità di «reportage» oggettivo all’immagine fissata, volgerla poi in modo da evitare che lo spettatore la riceva in una redazione semanticamente unidirezionale. Perciò non si è snaturato il senso di reportage che deve sempre trasmettere la fotografia o la sequenza filmica per risultare autentica, ma si è realizzato un collage di sequenze che dovranno essere interpretate, e come tali richiedono l’intervento attivo e non solo ricettivo dello spettatore. Si è salvata quindi la peculiarità del mezzo di espressione fotografico e si è realizzato un accordo con l’istanza di integrazione della coscienza attuale. Che poi, questo nuovo genere di partecipazione, sia tutto a scapito della Stimmung emozionale che il modo di accedere tradizionale allo spettacolo realizzava, è indubbio, come è indubbio che una Stimmung similare è cessata per la pittura, riguardo a quella che, toto corde, si poteva realizzare, con la pittura quasi fino a venti anni or sono. E per questo, dato che è uno dei mass-media per eccellenza, il cinema, non sappiamo quanto e se potrà continuare su quella strada. Ma resta il fatto che l’esperienza di quei due film indica chiaramente che l’elevazione sulla massificazione della cultura, se si vuole realizzare senza arroccarsi nelle torri d’avorio, occorre che avvenga agendo sugli stessi mass-media che l’hanno massificata.

Pagina 155

Pagina 173

Pagina 181

L'arte di guardare l'arte

257198
Daverio, Philippe 2 occorrenze

Pagina 39

Pagina 53

L'Europa delle capitali

257428
Argan, Giulio 1 occorrenze

Alla metà del secolo XV Niccolò V si era proposto di sollevare la sede del papato dallo stato di abbandono in cui si trovava: composti gli scismi, riaffermata la priorità storica della Chiesa di Roma, le stesse rovine di Roma antica diventavano testimonianze della vita eroica della Chiesa primitiva. Leon Battista Alberti avrebbe voluto ricostruire la città partendo dal restauro delle costruzioni antiche: molto probabilmente il suo trattato dell’architettura, scritto a Roma alla metà del secolo, è stato pensato come una guida alla ricostruzione “umanistica” di Roma. Nello stesso spirito è concepito il rapporto a Leone X sul restauro dei monumenti antichi, già attribuito a Raffaello e ora, dal Forster, al Bramante. Il problema si ripropone dopo le nuove rovine del sacco di Roma nel 1527 e le nuove vie aperte nella seconda metà del Cinquecento già rompono l’accentramento delle abitazioni intorno alla testata di Ponte Sant'Angelo. La vera e propria riforma urbanistica viene intrapresa negli ultimi anni del secolo XVI da Sisto V che ha come tecnico-progettista Domenico Fontana. Superata la fase più pericolosa, di aperta rivolta, della Riforma, il papa sente che, in un’Europa ormai avviata a diventare un sistema di Stati nazionali, il potere spirituale e super-nazionale della Chiesa esige il sostegno di uno Stato temporale. Di questo Stato, economicamente e militarmente debole, Roma è la capitale: il suo prestigio storico e morale è il fondamento della nuova politica di equilibrio tra gli Stati che la Chiesa adotta per principio. È anche la meta di pellegrinaggi provenienti da tutti i paesi cattolici: e questa centralità ha una funzione politica non meno che religiosa.

Pagina 60

Personaggi e vicende dell'arte moderna

260999
Venturoli, Marcello 6 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
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In questo grado esemplare di abbandono pittorico e, senza dubbio, tra le opere più alte e personali di Vuillard, sono i tre interni con figure, di squisito carattere domestico, figure vestite dall’ambiente, si direbbe, fin nel giro di una maglia, nella picchiettatura di una gonna; madri e nonne, bambini e modelle che il pittore ha preso a pretesto per i suoi inventari pittorici: «La pappa di Annette», «La cucinetta del boulevard Malesherbes» e «Madame Vuillard con la caraffa».

Pagina 115

Ognun vede come Argan abbia addirittura interpretato il fare di Picasso dalla piattaforma a questo storicamente successiva, dell’action painting, o della «pittura del gesto»; ma è un fatto che le radici di questa pittura — non tanto l’aspetto «irrazionale», quanto la sua capacità di abbandono — siano in embrione nel metodo di Picasso: che è poi, un antimetodo, è il dispregio consumato e sempre rinnovato dei segreti artifici e delle ricette, fin anche dei compiacimenti e delle raffinatezze.

Pagina 151

Mentre le donnine di Manzù fra le due guerre (come ad esempio la Donna che si regge la calza e Susanna, entrambe del 1937) sembra quasi che attendan la cera per essere compiute, come se lo sguardo del plasticatore non fosse sufficientemente tenero e secchezza e languore, gracilità e abbandono si mescolassero in una materia dolcemente panica, i personaggi femminili di Manzù intorno al 1950 acquistano tensione e robustezza. La melodia tenera della cera cede il posto alla sonorità compatta del bronzo, il modellato, senza arrivare a formulazioni arcaiche come nel primo Marino Marini, si semplifica in una sintesi di piani, in un costruttivismo in cui, se l’insegnamento del cubismo è del tutto ignorato, tuttavia questo vi appare per via analogica, quasi che Manzù avesse dato una visione chiaroscurale e classica del cubismo.

Pagina 305

Tutti ritratti in cui i caratteri sono tutt’uno col Urico abbandono di Levi; alcuni — come appunto quello di Saba — dosatissimi nelle due istanze, la impressionista da una parte e la espressionista — o psicologica — dall’altra, istanze entro le quali si è mossa tutta la pittura di Carlo Levi fin quasi dai suoi inizi. Eppure, lasciando a molte di queste opere il magistero dello stile, esse non presentano personaggi con la stessa drammatica urgenza che si riscontra nei quadri della seconda sala. E si spiega perché: il pittore dipingendo i suoi amici ha fatto leva più sulle sue doti di artista, che sulla sua moralità di uomo, ha espresso di più il clima di una intelligente, appassionata amicizia fra lui e gente come lui, che non la solidarietà dello intellettuale verso la gente dell’«altra classe». Direi, se la frase non assumesse un certo sapore, estraneo al mio palato, che Levi abbia dato agli amici la sua più florida e intelligente esperienza di conservatore, mentre ai compagni incontrati in Calabria abbia dato tutto il suo potenziale rivoluzionario; meno florido, senza dubbio, più inquieto e impacciato, ma assai più ricco di risultati.

Pagina 316

Si giri intorno alla «danzatrice», e si troverà in questa ninfa dall’occhio semichiuso un personaggio fazziniano inconfondibile, tutto preso dal parossismo di un movimento, che è insieme ribellione e abbandono. Il disegno di un viso semicancellato dai capelli, reso indistinto dal turbine, assume la solidità di una plastica rigorosa, esce dalle secche letterarie e simbolistiche, anche in virtù di quel felice appuntirsi delle chiome in una sorta di elmo fogliuto, che è il vertice della scultura.

Pagina 367

Tra gli scultori astrattisti di qualità che espongono all’VIII Quadriennale, il più originale, anche se non il più ricco di esperienze di stile, è Francesco Somaini da Lomazzo, la cui «Verticale N. 3», insieme con «Ferito II» ed altri «pezzi», rappresentano, come in una pagina di antologia, il drammatico incontro dei modi espressionisti e luministici di un Medardo Rosso, con quelli plastici ed astratti di un Brancusi o di un Arp: ma, anziché rimanere in soggezione di queste forme, lo scultore di Lomazzo sembra le adoperi con la più felice consapevolezza, per esprimere un contenuto preciso, oseremmo dire sentimenti che oscillano fra l’estremo abbandono di ogni proposito di riscatto, in un «pianto» tenero e desolato, e un’opposta, imperiosa, esplosione di energia come una lama o un pugno che penetrino e colpiscano lo stato quo ante. Una materia che cola e si sfalda, sul punto di uscire dal mondo della plastica per entrare in quello della pittura, sembra raggiunta e dominata da tagli, scavi, compressioni, schiacciamenti, come un antro cui pervenga all’improvviso una serie di voci, che venga frugato da fasci luminosi; ed ecco allora la vecchiezza e la fragilità di quelle forme slombate assumere una vitalità impreveduta, per quelle campiture di seguito e dentro le superfici grame e sfatte, per quella fusione tra cieca e abbagliante della cera con l’acciaio, per quell’attitudine misteriosa e quasi panica, di riflettere come in uno specchio la immagine plastica di un sentimento. Lo scultore non è nato adulto, ovviamente; già nella sua recente mostra personale alla Galleria «Odyssia» (dove alcuni «martiri» alludevano a una sorta di forma crocifissa, solidificazioni palpitanti di un dolore non elegiaco e non recitato) Somaini metteva in luce la sua partenza plastica e «purista», la sua carriera di scultore.

Pagina 376

Pop art

261500
Boatto, Alberto 1 occorrenze

Seppure le gambe posano sul pavimento con abbandono, il resto del corpo appare rigido e il braccio ripiegato, più che di scompostezza, è indizio di tensione. La giustezza di questo atteggiamento di un anonimo cittadino nello spazio sempre frequentato e sempre sconosciuto della città ci riporta, piuttosto che ad estranee, ad esperienze del tutto mediocri e familiari. Del resto nella scena non mancano numerosi altri ingredienti appartenenti a questo genere frusto: il sedile con la spalliera scomoda e l’imbottitura di finta pelle, il tavolino in fórmica assolutamente autentico, la vera tazza che la donna stringe fra le dita, ed infine il modellato con cui è costruita la figura, che ricalca diligentemente le forme e gli atteggiamenti di una persona viva, rispettandone perfino le esatte dimensioni. Tutti questi elementi ci spingono dunque a dubitare dell’impressione prima e fortissima di estraneità e ad indicare, invece, in Segal il proposito opposto di mettere lo spettatore a suo agio, di muoversi in una cerchia domestica di cose già troppo viste e conosciute. Si potrebbe pensare ad uno scrupolo di ordine realistico, ad una puntuale tranche de vie con la somma di personaggio e di ambiente, di gesto e di utensile, ritagliata e ripresentata testualmente. Conciliare ora queste opposte impressioni richiede l’intervento critico, impegnato a ripercorrere l’operazione di Segal in tutte le sue differenti fasi.

Pagina 109

Saggi di critica d'arte

261906
Cantalamessa, Giulio 2 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Pagina 140

Pagina 64

Ultime tendenze nell'arte d'oggi. Dall'informale al neo-oggettuale

267179
Dorfles, Gillo 1 occorrenze
  • 1999
  • Feltrinelli
  • Milano
  • critica d'arte
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Cubismo, futurismo, pittura metafisica, avevano significato una resa più o meno modificata della realtà del mondo esterno, e un progressivo abbandono di canoni naturalistici, ma alla base dell’opera d’arte c’era pur sempre la presenza o la suggestione d’un’immagine, d’un nucleo immaginifico sia esplicito che implicito, e a questo nucleo rimaneva ancorata la composizione stessa. Non' solo, ma l’uso che i pittori facevano di tele e colori, l’uso della pennellata, della "bella materia," non si differenziavano che scarsamente da quelli dei tempi precedenti. Le stesse sculture "a tutto tondo” d’un Boccioni, d’un Archipenko, d’un Laurens, d’un Brancusi, erano, si, assai differenti dalle Lede-coi-Cigni o dalle Madonne-coi-Bambini, ma tutto sommato costituivano sempre una fisicità conchiusa e bilanciata, che traeva vanto dal materiale impiegato, dalla sua levigatezza e lucentezza. Certo, la "prospettiva storica" aiuta a vedere più chiaramente le cose: è possibile che all’uomo del 3000, la nostra arte attuale sembri ancor molto più prossima a quella rinascimentale che non a quella della sua epoca. Ci avvieremmo dunque, già oggi verso una “fine dell’arte’’? La nostra epoca non segnerebbe che. l’inizio d’una sua scomparsa? Non sono affatto disposto a crederlo. Anzi, proprio l’insperato successo commerciale che l’arte "pura," l’arte per le élite, sta avendo, da qualche tempo a questa parte, mi fa pensare che si sia lungi da una sua fine. Molto spesso delle verità "economiche” celano anche delle verità estetiche; il fatto che delle opere di arte modernissima siano disputate a suon di milioni — come non avveniva ancora alcuni decenni or sono — dovrebbe darci da riflettere in senso positivo; dovrebbe farci considerare che il fenomeno non sia soltanto abile montatura di astutissimi mercanti ma una possibile ed augurabile realtà estetica.

Pagina 20

Vietato ai minori

656639
Bonanni, Laudomia 3 occorrenze

C'è un movimento nei banchi, quasi un'inclinazione simultanea, un piccolo abbandono obliquo delle teste. Qualche segno di croce fuori tempo, subito contratto. Scopro libriccini, due o tré corone di rosario: come cose nascoste venute alla luce in un improvviso dimenticarsi. La massa si è sciolta, ha assunto attitudini pose rilassatezze. Si è vagamente e sordamente animata. Il vescovo avanza rapido verso la fila dei cresimandi. Contro il ciuffo crinoso del minore, la bellissima mano bianca raccoglie le dita nel gesto liturgico. Sotto quella mano che sembra una fiammella dello spirito santo, è consacrato soldato di Cristo il ragazzo senza fronte. La ressa dei corpi nei banchi subisce continue modificazioni: certe piegature, certi stacchi, certi incurvamenti, rompono l'uniformità quasi di muro dell'inizio. .Occhi ansiosi spiano nei compagni i gesti da eseguire, ciascun segno di croce viene sgranato dall'uno all'altro in frettolosa successione. Qualcosa di docile, una remissività infantile, coglie anche i più restii. È un agente a far segno di alzarsi e tutti si alzano. Tonfo delle ginocchio sul legno e lunga prosternazione. Esplodono le voci dei cantori sonoramente. L'organista s'è abbandonato al canto col collo gonfio. Così compreso, penso, come bambino nella sacrestia del paese imparò a pigiare i tasti con l'indice e provò la vocetta intonata. Ho perso la nozione del tempo. Mi riscuotono mormorii e piccoli subbugli da scuola, quando i ragazzi stanno per essere chiamati a dire la lezione. Sono gli agenti a muoversi per primi. Uno a uno, quasi avessero finora circolato, risalgono la chiesa con un curioso effetto semovente delle fiammelle azzurre ai risvolti della divisa. Vanno a ricevere essi la comunione e sarà l'unico momento senza custodia. Ma non necessitava custodia. Rannicchiati e come spauriti _ il disagio di uscire dalle file, esporsi _gli uomini si preparano. Al posto delle guardie, subito dopo, il gruppo dell'armonium senza impaccio. Quindi un brusco agitarsi nei banchi, un disincagliarsi, a due a tre, con passi secchi, una sorta di corsa un po' disperata come se si consegnassero. Hanno raggiunto i gradini a testa sotto, quasi cozzando. Non potrei calcolare il numero, è stata una cosa repentina e in certo senso disordinata, a strappi. Si susseguono all'altare scaglioni, dorsi curvi, nuche giovani e vecchie, teste folte calve rapate, spalle rigonfie e spalle cadenti. Una giacca inverosimilmente stazzonata copre una magra schiena dalle scapole prominenti come il residuo di ali mozzate. Scarpe sdrucitissime si mostrano con quell'aria disarmata delle suole esposte. Parecchi indossano le brache dell'uniforme. Vedo presentarsi tra gli ultimi il bei giovane faccia derisoria, l'andatura bighellona e di colpo mettersi giù. Anche lui sotto la giacca sagomata da guappo ha le strisce del carcere, non possiede un pantalone. Due corti piedi da ragazzo, le punte in dentro, ingenue, si uniscono ritti scoprendo calze bianche in certe scarpucce aperte ai talloni. Colgo qualche profilo, il mento tremante, protendersi a bocca spalancata verso l'ostia. Brutte bocche di viziosi e di violenti. Ma non oso più domandarmi chi siano costoro e che abbiano fatto. Le schiene profondamente umiliate, l'annaspo delle labbra timorose, e i piedi, quei piedi uniti come mani, tutto negli uomini prosternati esprime in un modo quasi straziante l'anelito spirituale. Sia pure dell'attimo suggestivo, dell'occasione. Si alzano raccolti in sé come ciechi. Al gesto del frate che li aspetta al passaggio per distribuire un'immaginetta, riscuotendosi trasaliscono. Assise sulla dura poltrona d'ufficio carcerario, il vescovo parla ai suoi figli. Voce suasiva, con poche modulazioni, risulta un dolce lamento. La testa delicata appare giovane, sembra giovane di purezza fisica, la castità come un'ibernazione. Ha le fìsique du rôle . Nel silenzio della cappella si avverte il momento più acuto, e forse il più precario, dell'abbandono. Scopro qualche nobile tratto di fisionomia, occhi patetici, tristi incavi di bocche. Libriccini e immagini sono sui banchi, corone di rosario restano visibili appese a mani nocchiute. So che dopo si vergogneranno e irrideranno l'uno all'altro (è umano, ed essi sono più che umani nel senso della fralezza) ma adesso ascoltano ancora con una specie di avidità, quella cosa che somiglia alla fame e che si sente dentro come un buco. Le mani del vescovo, distese sulle ginocchia, di un rosa lillà un po' livido, le unghie bianche, sembrano essersi appassite. Non gesticola. Il movimento è solo nelle modulazioni della voce. Anche il senso è piuttosto nel suono, in quella blandizie. Parla del Cristo. Là in alto dietro a lui, l'enorme Crocifisso sfigurato stravolto, con grumi e colaticci di vernice vermiglia, opera di un detenuto. Vi si levano tutti gli occhi sgusciando il bianco con una certa somiglianza. Le fronti sono aggrottate nello sforzo. Essi non intendono la lettera. Sfugge il significato delle parole, si smarriscono le mistiche astrazioni: quello che vi è di rarefatto di teologicamente incorporeo nei sermoni cattolici, non li raggiunge. Ma sono indotti a guardare il Cristo con le piaghe, l'eloquenza irrefragabile del sangue. Il cattolicesimo ancora si regge sulla suggestione del rituale liturgico e delle immagini, non soltanto per i semplici, ciascuno vi reperisce qualcosa dal basso o dall'alto. Nel momento che metterà mano all'apparato correrà il più grande rischio della sua storia. Tornando a guardare le file uniformate, non vedo che teste ispide e menti deboli. Nell'aria viziata un sentore di corpi, un lezzo. E di nuovo l'impressione di scuola, quando sta per suonare la campanella, lo stesso tramestio del radunare furtivamente sotto il banco. Sguardi bassi seguono le braccia dei frati che spogliano il loro vescovo. È molto sottile, senza carne, le spalle escono esili da sotto la cappa. Gli agenti hanno ripreso a circolare. Nello spazio sgombro procede il corteo delle autorità fra i detenuti in piedi. Nessuno si sporge a baciare l'anello, forse è stato proibito. O si è spento lo slancio. Le facce inespressive arretrano confondendosi. Dietro la frusciante immacolata veste principesca si leva a grado a grado un brusio, un bisbiglio, un brulicame. E poi, alle nostre spalle, sordo, il clamore incoercibile, sempre un po' minaccioso, della gente ingabbiata. Andiamo a consumare il rinfresco. Cioccolato caldo con paste, dato che Sua Eccellenza e gli altri officiami sono digiuni.

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Il ricovero in riformatorio può avvenire con uno sbrigativo decreto del Tribunale che li definisce disadattati anche se sono in stato di bisogno o di abbandono. Continua a essere disadattato poiché la madre continua a vivere come prima. C'era uno zio a reclamarlo, ma appena dimesso dal manicomio e comunque un poveruomo in miseria. Nonostante le buone intenzioni, se buone erano, avrebbe finito per sfruttare il ragazzo o chissacosa. E il ragazzo, un magnifico esuberante ragazzo, resta dentro. Avevo scritto alla madre. Ma lui avrà tutto il tempo di toccare l'età. Spaccherà molta legna (contro il regolamento) tirerà su perfino un muretto (contro il regolamento) zapperà le strisce-aiuola dell'ingresso e forse l'orto del direttore (sempre contro il regolamento) con la foga di chi dissotterri un tesoro. Muscoli tesi allo spasimo. Solo a tempo debito sarà libero. Una libertà che spesso riporta in carcere. E il caso di Zinzin. Quei piccoli occhi celesti che guardano intenti e speranzosi, con la fiduciosità dell'infanzia, appena velati da un'ombra di timidezza derelitta. Che diamine ha potuto fare un bambino così. È qui da tré anni, non ne ha ancora dieci, vi rimarrà fino a diciotto e magari oltre. (A meno di un'altra guerra: la guerra è finita viva la guerra.) Ma che ha potuto fare? Niente. Ozio e vagabondaggio, sta scritto. Sua madre una prostituta (di guerra) la sua casa un vano di stamberga aperto a chiunque. Lo mettevano fuori anche di notte. Ozio e vagabondaggio. Fu necessario internarlo. O ricoverarlo, come è decentemente scritto. Un bambino di indole quieta, remissivo, mai avuto un rimprovero, addolcisce anche i più violenti. Resterà chiuso fino ai diciotto, magari oltre. E sua madre. Certo lo amava, si vendeva come suoi dirsi per lui (compenso in natura, scatolame di truppa straniera). Dopo si era disperata, voleva riprenderselo, prometteva di cambiar vita. Ma era fradicia, le restava poco. Cercò di rivederlo e fu mandato, bisognò riportarlo via, non si potè lasciarglielo nemmeno un giorno in quelle condizioni. Storie monotone, pare sempre la stessa storia. Per lui, dentro l'infanzia, dentro l'adolescenza. Sembra starci con naturalezza se non volentieri. E che altro ha conosciuto. Per padre e madre gli agenti di custodia, per fratelli i ragazzi che passano e cambiano continuamente, per casa questo carcere. Viene trattato quasi con tenerezza da tutti. (Salvo un tentativo di violenza, però "con buona maniera" e non ha capito, fin adesso.) In definitiva non avrà conosciuto di meglio. Ma sarà stato dentro, rinchiuso. Provare a figurarsi quando questa creatura intimidita e inerme dovrà rientrare nel mondo cosiddetto libero, quello che chiamano reinserimento. Provarsi a pensare Zinzin per la prima volta davanti a una porta che non si apra con stridore di chiavistelli, una porta interna di casa a cui basti girare la maniglia. Zinzin esitante timoroso davanti alle porte aperte. E anche la promessa a lui è mantenuta. Dopo la distribuzione della Befana _ una befanuccia povera povera, una piccola carità stiracchiata pesata registrata _mi si concede di condurre all'ospedale, a portare il dono a un compagno malato, due dei migliori. Scelgo Zinzin e Stelvi. Non dimenticherò questa passeggiata fra i due reclusi con la scorta dell'agente. S'è fatto buio, una sera rigida frizzante di nebbia vischiosa. Ma ai ragazzi piace, anche la nebbia sembra renderli felici. Zinzin trotterella con un risetto irreprimibile sulle labbrucce screpolate. Stelvi scansa i lembi della mantellina gonfiando il petto con assaporata foga. Guardano le luci dei lampioni, smorte nel vapore, come se fossero razzi di festa. Da mesi, o da anni, non vedevano la città notturna, gli sembra splendida prodigiosa. Qualche cosa di esaltante, come eccitante è la nebbia ai polmoni avidi. Più conscio, Stelvi si muove quasi in un impeto di corsa e poi subito trattiene il passo, guardandomi con un sorriso di scusa. Non una volta mostrano di ricordarsi dell'agente che viene dietro. Al ritorno li accompagno fino al primo cancello. Me ne sto ferma a sentire l'inchiavardamento, i passi sulla ghiaia, spenta l'apertura del secondo cancello e il tonfo della chiusura. Oltre il cancello un'altra porta inchiavardata, un altro bottone da premere. E so che Zinzin, trotterellando avanti, tutto felice di poterlo fare, alzandosi sulla punta dei piedi lui stesso pieno di zelo lo piglerà.

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GIACINTA

662516
Capuana, Luigi 2 occorrenze

Giacinta stese un braccio sul leggío, vi posò la testa in atto di abbandono e chiuse gli occhi un istante. Andrea l'osservava, ansioso, con le labbra inaridite. - L'avvenire? - ella disse, come destatasi da un breve sonno. - L'avvenire è ... che t'amerò sempre! ... Che non posso, intendi? né voglio amare altro che te! Ma è appunto per questo, intendi? che non saremo mai sposi! ... Lasciati amare cosí, a modo mio. Non tormentarmi! Andrea si sentiva vincere da quella voce carezzevole, insinuante. Ma che significavano tali parole in bocca a una ragazza da cui appena gli era stato permesso, di furto, qualche bacio sulle dita? Non riusciva a capirlo. - E dopo? - insisteva. Giacinta si era fermata a riflettere. - Dopo? ... Oh, no! no! - poi disse, tristamente. - È impossibile; no! L'uomo non è mai generoso. Dimenticare, perdonare non è per lui ... Verrebbe un giorno, arriverebbe un momento che anche tu saresti cosí vile ... E tacque coprendosi la faccia con le mani. Un tremito di ribrezzo le correva per tutto il corpo. - No, è impossibile! ... Tu sai ... Esitava. Evidentemente il parlare le costava un grande sforzo. Andrea le fece cenno di no. - Non mentire, tu lo sai! - replicò con dignitosa alterigia. - In questo punto non saprei tollerare nemmeno la tua pietà: comincerei a disamarti. - T'amo! - rispose Andrea - T'amerò sempre! So dimenticare; l'hai già veduto. Perdonare? ... Non è il caso. - Non m'illudi - lo interruppe Giacinta. - Ti vo' troppo bene da mettermi a repentaglio di doverti odiare o disprezzare, che sarebbe anche peggio. Senti, Andrea; non fare piú scene; te ne supplico! Non far comprendere alla gente che tu sii per me qualcosa piú degli altri ... E se ti pesa l'essere amato a modo mio, se non hai piú la forza o il coraggio di continuare ad amarmi ... lasciami in pace; sarà quel che sarà! ... Che posso dirti di piú? - Ma io t'amo tanto! Giacinta, commossa, abbandonò la mano in quelle di Andrea. - Già, ad una spiegazione dovevamo venirci. Ti vedevo, da qualche tempo, cosí irrequieto, cosí smanioso ... - Come non esserlo? - Ora non piú, è vero? Avrai fede in me, sarai prudente, non t'adombrerai di nulla; è vero? Sono un po' diversa dalle altre donne; forse son fatta male. Non è colpa mia ... Sí, son fatta male! Me ne accorgo ... Ah se tu sapessi quello che ho sofferto! ... Ma non sono cattiva. Orgogliosa, anche troppo. L'orgoglio è il mio coraggio. - E, per l'avvenire? - tornò a ripetere Andrea. - Oh! - esclamò Giacinta. - Vuoi dunque strapparmela per forza la terribile parola? ... Vuoi dunque ... Tentò d'alzarsi; ma un lembo della veste, impigliato sotto il piede dello sgabello, la ritenne. Allora, chinatasi per scostare lo sgabello e nascondendo con quel pretesto il suo imbarazzo: - Ebbene - disse - l'uomo del mio cuore potrà, forse, un giorno ... diventare il mio ... amante; marito mio, no; mai! E si levò, strappando la veste. Andrea, visto rientrare il commendatore Savani con la signora Marulli, gli andò incontro: - Mi aveva detto di aspettarla! ... Eccomi qui. - Ah! ... Mi rammento - rispose il commendatore, prendendogli il braccio - Venite. Buona notte, Teresa. La signora Marulli attese che fossero usciti dal salotto; poi, con una di quelle sue occhiate che dicevano tanto, le gridò sotto voce: - Grulla! - Mamma! - rispose Giacinta sdegnata. - Che c'è? - domandava il signor Marulli apparso sull'uscio. - C'è ... che tua figlia è pazza! - rispose la signora Teresa, passando con tanta furia da dare appena tempo al marito di tirarsi da parte. Giacinta con le braccia tese in giú irrigidite, coi pugni stretti, era diventata bianca come un cencio lavato. - Che vuol dire? - tornò a domandare il signor Marulli, interdetto. - Nulla, babbo - rispose Giacinta frenando a stento le lagrime - Tu lo sai bene ... la mamma! E si sforzava di sorridere.

In un momento di stupido abbandono - sí, sí, stupidissimo! - s'era lasciato sfuggire una mezza confidenza - neppure - delle parole vaghe, degli accenni lontani ... Basta! Gessi, capito assai di piú ch'egli non avesse voluto, forse aveva parlato. Altrimenti come spiegarsi i maliziosi mirallegro del Ratti ogni volta che lo incontrava, da una settimana in qua? Meritava degli schiaffi quell'imbecille! - Ma perché prendersela con gli altri? L'imbecille era stato lui che non aveva saputo frenarsi! Scoppiava col suo segreto in corpo? ... E per sfogarsi contro di qualcuno, sbatteva rabbiosamente la mazzettina sui cespugli e i rami degli alberi spenzolanti dai muriccioli. - Bisognava raddoppiar le cautele, per sviare i curiosi. Quel posticino fuori le mura parevagli al sicuro d'ogni sorpresa. Giacinta arrivava da una parte, lui dall'altra e quei due vecchietti, marito e moglie, erano interessati a non tradirli ... Però, però ... non convien fidarsi. Diraderemo gli appuntamenti ... Si era messo a sedere sulla spalletta del ponticello, fumando, lasciandosi invadere dalla pace silenziosa della campagna, con gli occhi fissi alla viottolina di faccia. Credeva di aver anticipato di mezz'ora. E zufolava, dondolando le gambe, battendo i talloni, guardando qualche volta a sinistra, verso la città mezzo arrampicata sulla collina, colle guglie dei campanili e le cupole, che si intravedevano a traverso il folto fogliame, di là dai merli delle mura. Era già rassicurato. Quel solitario posticino cosí incastrato fra le collinette, gli pareva proprio in capo al mondo. - Le cinque! Giacinta tardava ... Come mai? Si sentì colpire al cappello e alle spalle da due pallottole d'erba lanciate da dietro alla siepe. - Ah! ... Dovevo immaginarlo! E aperto il vecchio cancello di legno, si trovò faccia a faccia con Giacinta che gentilmente lo garriva: - Non ha fretta il signore! Si riposa! A braccetto, s'inoltrarono lungo la siepe di cinta. - Siamo di già, ai sospetti, eh? Giacinta lo canzonava, leggermente, braveggiando contro quel pericolo che lo impauriva. - Non scherzate! - rispose Andrea. - La cosa può diventare grave, gravissima. - In che maniera? - Non lo so. È una voce del cuore. Sono superstizioso; credo al cuore ad occhi chiusi. - Intanto esso non ti ha ancora detto ... ! E fermatasi, lo guardava con le pupille scintillanti di gioia, un po' arrossita, sorridendogli sotto il naso con una smorfietta bambinesca. I polli, razzolanti sul mucchio del concime, scapparono starnazzando, chiocciando, tosto ch'essi volsero a destra, fra le due strisce di lino in fiore che parevano due grandi pezze di velluto verde, con ricami d'argento, sciorinate sul prato. - Che avrebbe dovuto dirmi il cuore? - insisteva Andrea. - Nulla! ... Nulla! ... Com'è bello qui! Il lino ondeggiava al soffio del venticello che faceva stormire le fronde dei gelsi intorno: i festoni di vite con le foglioline novelle, si dondolavano, da un albero all'altro. In fondo, dietro la collinetta mezza nascosta fra gli ulivi, il camino quadrangolare d'una fabbrica di mattoni, di cui si vedeva soltanto il tetto annerito, mandava fuori leggere ondate di fumo che disperdevansi subito. - Non mi vuoi bene quanto dovresti - riprese a dire Giacinta. - Perché? - Sera fa, perdesti al gioco ... Non negarlo ... - Un'inezia ... - E, piuttosto che a me, hai ricorso al Merli per pagare il tuo debito ... Cattivo! - In questo tu non devi entrarci. - Voglio entrarci anzi! Esigo, sopra tutte, questa prova d'amore. Ma se l'ho detto! Mi tratti da amante, ecco. Sei cattivo. - Non giocherò piú! - Benissimo! Per farmi dispetto! ... Gli si staccò dal braccio, imbizzita, e si mise a camminare innanzi, sola. Andrea, raggiuntala con un salto, la prese per la vita. - No, no ... Lasciami! Si dibatteva stizzosamente, per svincolarsi, per evitare che egli la baciucchiasse sulla nuca. - Lasciami! ... Mi fai il solletico ... - Non andare in collera, via! - Sta' fermo! ... Sta' fermo! ... Ma intanto gli si abbandonava sul petto, con la testa indietro broncia broncia, vinta da un languore dolce: - Sai, Andrea? Quel mio sospetto ... sai? Non mi stringere cosí: mi fai male! Io lo credo già una certezza ... - Oh! Voleva baciarla, ma ella era scappata. Andrea le corse dietro. Presi da matta allegria, si inseguivano ridendo e battendo le mani, come due ragazzi. E la vecchia contadina, che stava seduta sopra un corbello rovesciato davanti alla porta della casa rustica, aguzzava gli occhietti maliziosi verso quel diavolino di signora che non si lasciava chiappare.

DISPERATAMENTE GIULIA

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Casati, Sveva 1 occorrenze

La casa fredda le dava un senso di abbandono e vestiva d'angoscia la sua solitudine. Era la prima volta che affrontava da sola questo dramma domestico. Una volta c'era Leo, suo marito. L'inverno scorso c'era Giorgio, suo figlio, che con la vitalità dei suoi quattordici anni portava anche nelle situazioni più deprimenti un'ondata di speranza, ma cinque giorni prima il ragazzo era partito per il Galles. Giulia era proprio sola nella grande casa. Dalla strada, oltre il giardino, salì il gemito dell'avviamento di un'auto. Si sentivano passare le macchine sull'asfalto battuto dalla pioggia. Quel grigio albeggiare versava tristezza nella spaziosa cucina. Giulia si strinse addosso la vestaglia di un pallido azzurro, ma non ne trasse alcun calore. Si passò le dita sottili nella folta zazzera scura ricacciando indietro una ciocca ribelle che le scendeva sulla fronte. Decise di farsi un caffè. Poi, magari, avrebbe riletto l'ultimo capitolo del romanzo, del quale non era completamente soddisfatta. C'era qualcosa che non la convinceva. Dal forno veniva un tepore confortevole. Lavorare alla macchina da scrivere era sempre stata la sua medicina, un modo per non accorgersi del tempo che passa, il segreto per restare giovane e vitale. In questo modo, l'ora per chiamare il « caldaiaio » sarebbe venuta prima. Lontano, un imbecille mattiniero fece esplodere alcuni botti di Capodanno. Pensò, senza rallegrarsene, che la stupidità è inevitabile come la pioggia e il sole. Il caffè tostato all'americana, di un bei marrone dorato, spandeva intomo un aroma delicato. Lo versò in una lucente tazza di porcellana a fiori e cominciò a sorseggiarlo, bollente e amaro compera, guardando, fuori dall'ampia vetrata protetta da inferriate verdi, il giardino sfiorito dove i cespugli di rododendri, di azalee e di rose intristivano nell'aria già vecchia del giorno appena nato. L'ultimo giorno dell'anno o l'ultimo giorno del mondo? Giulia si sentiva percossa, sfilacciata e triste come il suo piccolo giardino. Scorse in quella desolazione i rametti scheletriti di un'ortensia che, smentendo la meteorologia e la stagione, stavano mettendo gemme. Quanto ottimismo, pensò con invidia. Lei non avrebbe messo gemme. Mai più. Viveva sensazioni indefinibili, isolata dal mondo e dai suoi stessi pensieri, posseduta da un'emozione intima e incomunicabile. Pensò che se ci fosse stato Giorgio si sarebbe sentita meglio, ma anche lui l'aveva piantata in asso, come la caldaia, sia pure con un preavviso di qualche settimana. « Sai, mammina (la chiamava sempre così quando voleva ottenere qualcosa), mi piacerebbe passare le vacanze di Natale dai Mattu », aveva cominciato a corteggiarla in novembre. I Mattu erano una giovane coppia di indiani con tré figli piccoli, vivevano a Swansea nel Galles e avevano ospitato il ragazzo l'estate precedente per un soggiorno di studio. Lui si era trovato benissimo. « Tesoro », aveva replicato Giulia con affettuosa ironia, « hai mai pensato che una vacanza in montagna, magari con tua madre, potrebbe essere più divertente e meno costosa? » Un mese o un secolo prima? Era comunque un tempo remotissimo in cui c'era ancora spazio per i progetti e la prospettiva di una vacanza sulla neve in compagnia del figlio le accendeva la fantasia e la faceva sentire giovane. Stava scrivendo il nuovo romanzo e viveva il dramma solitario ma eccitante dell'autore che non sa mai se riuscirà a portare a termine la storia che ha in mente. Il calore che usciva dal forno appannava le vetrate della cucina. Pensò con tenerezza a Giorgio che una volta aveva sorpreso a disegnare ingenue oscenità sul vapore rappreso e provò una gran voglia di sentire la voce del figlio. Abbandonò il tepore della cucina e affrontò il rigore del soggiorno per telefonargli. I tappeti color avorio che ricoprivano le mattonelle liberty erano morbidi ma freddi come la tappezzeria che simulava un muro tirato a stucco. Guardò il camino di marmo sovrastato da due candelieri e da una specchiera rettangolare chiusa nella cornice di noce scuro. Pensò che avrebbe potuto accenderlo. Sedette su uno dei due divanetti ricoperti di tela a grandi rose scarlatte su fondo verde e avorio, inforcò gli occhiali e cercò il numero degli amici di Swansea nella rubrica di pelle turchese, appoggiata, sul tavolino di cristallo, vicino a una grande e moderna abat-jour. Erano quasi le otto e Giulia sapeva che a quell'ora i Mattu erano in piedi. Le rispose la voce dolce di Salinda il cui volto, molto grazioso, Giulia aveva visto soltanto in fotografia. « Giorgio is sleeping », disse. « Ha fatto tardi ieri sera? » indagò Giulia sospettosa. « Soltanto mezzanotte », la tranquillizzò Salinda. « C'è stata una piccola festa tra ragazzi. » Giulia si sentì esclusa. Non ebbe neppure il coraggio di gridare che tirasse giù dal letto quel piccolo, sporco egoista, perdio! Prima d'allora non le era mai venuta in mente un'imprecazione di quel genere, per lei quasi una bestemmia, ma adesso, per la prima volta, sentiva irresistibile il desiderio di coinvolgere l'Onnipotente nelle sue questioni private, di coinvolgerlo con rabbia, rimproverandogli la sua latitanza o il suo accanimento. « Vuoi che lo svegli? » chiese Salinda, sempre dolce e comprensiva. « No », disse Giulia rassegnata. « Volevo sapere se è tutto a posto », mentì. In realtà voleva dirgli che stava al gelo, da sola, in quella vecchia casa senza qualcuno che le desse conforto, e che il gatto era finito sotto una macchina alcuni giorni prima pagando con la vita il suo primo anelito di libertà. Avrebbe voluto parlargli anche del dolore che si era annidato dentro di lei, ma nessuno dei due era pronto per quella confessione. E non poteva certamente dirgli che proprio oggi, ultimo giorno dell'anno, doveva andare a Modena, al cimitero, per assistere all'esumazione del nonno. « Davvero, Salinda, va bene così. » « Se vuoi ti faccio chiamare appena si sveglia », propose la giovane indiana che, sempre nella foto scattata da Giorgio l'estate prima, aveva l'aria di una casalinga appagata. « Vi chiamo io a mezzanotte per augurarvi buon anno », tagliò corto. « Abbracciami Giorgio. E ancora grazie. » Riattaccò rifugiandosi nel tepore della cucina. Il freddo le era penetrato fin dentro le ossa. Pensò al nonno, a quello che restava di lui e sorrise al ricordo di quel principe dell'avventura. Il comune di Modena aveva mandato a lei, a sua sorella Isabella e a suo fratello Benny, che mascherava sotto un ridicolo diminutivo il nome scomodo di Benito, una comunicazione firmata da! sindaco: le reliquie di Ubaldo Milkovich sarebbero state collocate in un ossario perenne per onorare la memoria del partigiano Gufo, figura di spicco dell'antifascismo, eroe della Resistenza. Giulia si era ripromessa di partire verso le undici per essere sicura di non mancare all'appuntamento fissato per le due del pomeriggio, ma adesso, con il problema della caldaia, sarebbe riuscita a rispettare il programma? L'orologio elettrico sul frigorifero segnava le otto. Tentò di mettersi in contatto con il tecnico della manutenzione. Si immerse nuovamente nel gelo del soggiorno, alzò la cornetta e si accorse che qualcosa non funzionava nel ricevitore. Invece del segnale consueto sentiva un suono gracchiante, fastidiosissimo. Premette ripetutamente il meccanismo del contatto, provò a formare un numero sulla tastiera e al suono gracchiante si sovrappose il segnale di occupato. Depose il ricevitore e guardò la graziosa sveglia poggiata sul piano di cristallo sostenuto da un basamento a tamburo di legno istoriato e dorato: erano le otto e cinque. Che la dolce Salinda avesse riagganciato male il suo apparecchio, lassù nel Galles? Alzò di nuovo il ricevitore e questa volta l'apparecchio non diede alcun suono. Adesso era chiaro che anche il telefono era andato in tilt, mentre lei aveva un disperato bisogno di comunicare con il mondo. Se alle otto e mezzo in punto non si fosse messa in contatto con i tecnici rischiava di perdere la possibilità di farli venire in giornata. Salì velocemente la scala e tornò in camera da letto, un ambiente molto intimo che amava particolarmente, sui toni pastello del rosa, celeste e grigio perla. Lampade di porcellana chiara, dai paralumi rosati, poggiate sui piccoli cassettoni gemelli, ai lati del letto, diffondevano una luce garbata che accarezzava due poltroncine in stile settecento veneziano. Alle pareti, un crocefisso ligneo e una serie di immaginette sacre ottocentesche in cornici dorate. Giulia evitò di guardare il Cristo dal quale si sentiva ingiustamente abbandonata. Si vestì velocemente. Nell'ingresso infilò un vecchio cappotto di montone e uscì. Attraversò la via Tiepolo facendo lo slalom tra pozzanghere e auto, incurante della pioggia che continuava a cadere. Entrò in un bar tabacchi con l'insegna del telefono pubblico. Un marocchino armato di zelo e di uno straccio sudicio affrontava coraggiosamente un pavimento maltrattato da centinaia di scarpe, ma sembrava destinato a una clamorosa sconfitta. Giulia si avvicinò alla cassa dietro la quale troneggiava una giovane donna che aveva tutta l'aria di essere lì per sbaglio, mentre avrebbe dovuto trovarsi su un aereo per le Maldive. Era di cattivo umore e si vedeva. « Dica », l'aggredì la tabaccala guardando la cliente infreddolita come se fosse una chiazza d'unto sul suo vestito migliore. Un gettone », disse Giulia impaziente allungando duecento lire. « Fuori servizio », sentenziò la tabaccala alludendo al telefono pubblico. « Ma io devo assolutamente telefonare », insistè Giulia sull'orlo della disperazione. « Fuori servizio », ripetè fredda e spieiata come un cobra; quindi si rivolse a un paio di clienti che erano entrati e chiedevano un cappuccino. « Non potrebbe farmi usare il suo? » domandò supplichevole. « Quello lì », soggiunse indicando l'apparecchio accanto alla cassa. « Privato », la gelò senza guardarla, continuando a scambiare sigarette e caffè con danaro contante. « Tabaccala di schifo », scattò Giulia, « città di schifo, gente di schifo, mondo di schifo », gridò coinvolgendo irrazionalmente l'universo intero. Riattraversò il locale sotto gli occhi sbigottiti dei clienti, il silenzioso stupore della tabaccala, l'ingenuo sorriso solidale del marocchino. SÌ diresse quasi di corsa verso il bar latteria di piazza Novelli dove Giorgio e i suoi amici dissipavano la paghetta settimanale in merendine, Coca-Cola e juke-box. Il telefono c'era e funzionava. Giulia compose il numero del tecnico che conosceva a memoria. « Sono Giulia de Blasco », fece appena in tempo a dire all'addetto che aveva risposto all'altro capo del filo. Poi scoppiò in lacrime. Seminascosta fra cassette di birra, Coca-Cola e uno scaffale pieno di pasta e biscotti, nell'odore dolciastro di segatura bagnata, stringendo la cornetta lercia di un telefono pubblico, Giulia pianse senza ritegno. Pianse sulla sua vita sbagliata, sul suo matrimonio fallito, pianse perché anche suo figlio l'aveva lasciata sola, perché quel giorno doveva assistere all'esumazione delle reliquie del nonno Ubaldo. Pianse perché aveva la casa gelida, perché il telefono non funzionava, pianse perché a quarant'anni s'era innamorata come una ragazzina, ma soprattutto pianse perché lei stessa era andata in tilt. Qualcosa nella mirabile costellazione del suo organismo si era inceppato. Le cellule di un nodulo al seno prelevato un mese prima non erano del tipo regolamentare. Erano di quelle che continuano a ripetersi senza fermarsi mai. Come un interruttore che si accende e non si spegne più. Quel giorno accidioso di dicembre Giulia piangeva per molte cose, ma soprattutto perché aveva un cancro.

ARABELLA

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Era quella stessa figura elegante, bionda e delicata, che ora dormiva nel molle abbandono della stanchezza, che una donnaccia aveva osato toccare, che una masnada di pezzenti voleva trascinare nel fango, che lui però avrebbe difeso, ringhiando e mordendo, se ciò era necessario. Se il nostro affarista fosse stato un filosofo, capace di frugare in mezzo ai ferravecchi della sua vecchia e ingombra coscienza, forse avrebbe trovato che in questo accanito furore di difesa era in giuoco anche un interesse nuovo e curioso, poco chiaro allo stesso interessato, ma che dava alle sue ragioni una forza nuova e premurosa. Salvare Arabella voleva anche dire salvare quanto di meno disprezzabile era rimasto in lui e insieme quanto di veramente prezioso sentiva ancora di possedere nell'affezione e nell'opinione di questa sua figliuola. Il castigo non poteva essere che questo: il resto... che cosa gl'importava del resto? Ecco perché sospirava l'ora e il momento di vederla fuori dal letto, completamente ristabilita, non solo per sottrarla alle congiure, alle pressioni, alle vessazioni di gente cattiva, ma per collocarla in qualche luogo lontano e sicuro, dove non potessero arrivare le voci dei volgari interessi, dove soffrisse meno con lei qualcheduno o qualche cosa che viveva di lei. Più che vederla e intenderla questa necessità, egli la sentiva con un sollevamento d'animo tutte le volte che poneva il piede nella stanza della malata, tutte le notti che si avvicinava sommessamente al suo letto e che procurava di consolarla, di rassicurarla, di fornirle delle spiegazioni. Curvo, rannuvolato in una oscura commozione, in cui alla pietà mescolavasi un senso irritato d'odio e di vergogna, sollevava di tempo in tempo lo sguardo sulla persona dell'addormentata, che nella placida e lenta quiete pareva morta. Era uno sguardo perplesso, che non osava più, come una volta, penetrare e guardar fisso in faccia alle cose, qualunque fossero, sicuro di sostenerle; ma ritraevasi dal letto colla mortificata e lenta tristezza, con cui l'occhio dell'analfabeta si toglie da uno scritto, che suscita in tutti gli altri una viva e potente commozione e non dice nulla a chi non sa leggere. Forse era già troppo tardi per mettersi da capo a imparare a leggere quel che vi può essere di bello e di santo nel cuore d'una buona creatura. Forse non gli avevano mai insegnato a decifrare questo alfabeto: e se nella prima giovinezza aveva sentito a parlarne, troppo tempo, troppe cose eran cadute in mezzo. Peggio per lui! ma peggio ancora se Arabella avesse letto nel suo, di cuore! Ogni suo sforzo, ogni sua ambizione doveva mirare a una cosa sola: impedire che Arabella diventasse il ludibrio di Milano. Qualche avvertimento in questo senso gliel'aveva dato anche il notaio Baltresca, che considerava la questione coll'occhio pratico del mestiere. Un processo è sempre uno scandalo; si sa dove si comincia, non dove si finisce. Preti, monache e avvocati vi potevano pescar dentro il loro interesse. E anche supposto che l'ortolana venisse condannata a qualche mese di prigione, chi poteva impedire, per esempio, che Arabella fosse chiamata in Tribunale a deporre in qualità di testimonio, in mezzo a quella marmaglia, tra uscieri, sbirri, scribi e farisei, per sentirsi ripetere sul viso infamie di ogni colore?... Se ciò fosse accaduto - e la sola idea gli mozzava il respiro - da qual parte sarebbe stato il reo? e da qual parte il giudice più terribile? Chi avrebbe impedito all'avvocato Baruffa di rifare a modo suo la storia? E Arabella avrebbe dovuto assistere a una bega di questa sorta, bersaglio a Dio sa quali infamità? no, no. Questi pensieri, solamente col passare, gli facevano corrugare la fronte e gli tiravano il capo all'ingiù. Temeva quasi che avessero a turbare e a funestare il riposo dell'addormentata. La bega era grossa e bisognava uscirne al più presto, nel miglior modo possibile. Di cosa in cosa si ricordò d'aver ricevuta una lettera nella quale il Botola gli parlava di avvocati, di processo, di Lorenzo. Col Botola i Maccagno erano legati da un'amicizia che risaliva fino al quarantotto, fino ai tempi che il padre di Tognino, detto il Valsassina, cominciava a guadagnare i primi quattrini in una botteguccia di liquori fuori di porta. Venute le grosse brighe della rivoluzione, mentre gli "italianoni" facevano alle barricate, Botola e Valsassina introducevano in città molte brente di spirito di contrabbando, mettendo in questo modo la base alla fortuna. Nell'agosto tornarono i castigamatti, ma la gente aveva tutt'altro per la testa che di verificare le bollette di dazio. Poi eran passate molte altre cose. Chi andò sulla forca, chi emigrò, chi tornò a portare il baldacchino. Annegò chi non seppe nuotare. E per poco non annegò anche il Botola, troppo corto d'ingegno e d'istruzione, per saper resistere ai tempi nuovi, bianchi, rossi e verdi. Fallito un paio di volte, il vecchio disgraziato vivacchiava meschinamente, facendo il pignoratario su piccoli prestiti. Che cosa gli scriveva il vecchio amico? Cercando nelle tasche, trovò in mezzo a una manata di cartacce un cencio con su disegnati certi scarabocchi grossi e sgangherati, che volevan dire parole, quantunque somigliassero più ai pali di una vigna battuta dalla tempesta, che non ai segni inventati da Cadmo. Il pignoratario riferiva d'aver saputo che i parenti Ratta, Maccagno, Borrola, con altri diseredati, intendevano infirmare il testamento e intentare una causa, perché fosse tenuto valido il testamento anteriore del '78. "Faccian pure la causa!" rispondeva mentalmente colla solita asprezza il signor Tognino, come se qualcuno fosse lì a sentirlo. "In quanto ai signori Borrola, che vantano delle pretensioni, son curioso di sapere su che cosa appoggiano le loro speranze. È tutta rabbia, è tutto veleno, perché ho scoperto il loro giochetto e ho strappato Lorenzo ai loro intrighi. Faccian pure, ma non si lascin trovare da me in un momento cattivo." Arabella mormorò qualche parolina dolente e mosse leggermente la mano sul libro aperto abbandonato sul letto. Il vecchio si scosse da' suoi pensieri, come se quelle voci rispondessero in qualche modo a ragionamenti che egli faceva dentro di sé e sentì che, se gli bastava il cuore di sfidare mezzo mondo, pure di fronte a sua nuora avrebbe avuto tutte le paure. E come se istintivamente si mettesse sulle difese, socchiuse un poco una imposta e si tirò meglio nell'angolo oscuro. La stanza s'immerse ancor di più nella penombra, il fascio di luce che entrava dalla finestra socchiusa andava a stento fino a rischiarare il guanciale e una parte del letto, dove Arabella, di sogno in sogno, di imagine in imagine, percorreva la storia della sua vita. Nei sogni le impressioni tornano spesso sfigurate, sconnesse, più grandi o più piccole della verità; ma non perdono mai il significato che le fa nascere. Avviene non di rado che nell'ingrandimento grottesco ed esagerato o nella riduzione che sopportano, si manifesti a chi sogna, analizzato o riassunto, il significato che inutilmente aveva cercato ad occhi aperti. Il senso è più libero a percepire ciò che la ragione o non osa o non sa, o non vuole intendere: e dai sogni qualche volta s'intende la vita come dal commento il poema. Arabella, ritornando sulle sue memorie, ritornava a soffrire e a godere più vivamente d'impressioni non bene afferrate la prima volta, come se in sogno germogliassero i piccoli semi caduti nei luoghi più oscuri dello spirito. Di cosa in cosa le parve di tornare ai primi giorni del suo matrimonio e precisamente al suo primo entrare nella casa nuova. Suo suocero aveva fatto degli inviti. La casa era come quella sera piena di gente nuova e sconosciuta che la salutavano, si congratulavano, la soffocavano di parole e di baci non chiesti e non desiderati. Una specie di nausea dallo stomaco saliva al capo, effetto forse d'un forte vin "brulé", che alcuni servitori in guanti bianchi portavano intorno sui vassoi. Parevale che tutta quella gente fosse lì per saziarsi in qualche maniera di lei, coi baci, cogli occhi, coi commenti, come fanno i bimbi, che trovato un pezzo di zucchero in un cantuccio, se lo succiano un po' per uno. La zia Sidonia, in un vestito di raso rosso color brace, scollata in una foggia indecente, se la stringeva sul seno morbido e caldo, chiamandola il suo bell'angiolino, mentre lo zio Mauro, seduto al pianoforte, tempestava sopra una canzonetta veneziana di sua invenzione, che faceva ridere tutte le bocche. Sì, ridevano tutte quelle faccie sconosciute di parenti, di mezzi parenti, di agenti di cambio, di amici di suo marito, di cui sentiva ripetere i nomi senza afferrarli in mezzo al frastuono. Solamente papà Paolino colla schiena appoggiata allo stipite dell'uscio guardava in su per non farsi vedere a piangere. C'era la mamma, la più bella donna in mezzo a molte signore brutte, magre, dal tipo volgare, che ripetevano il colore terreo e le mandibole pronunciate della famiglia, che seguitavano a guardarla come se dicessero in cuor loro: "Povera diavola, dove sei capitata!" E stava in mezzo alla folla coll'animo addolorato, quando vide entrare con un passo lesto senza suono, in abito nero anche lui, rigido e smorto come tutti i morti che camminano, il suo povero papà. Come fosse vivo, come venisse alla festa, che cosa le dicesse sottovoce non riusciva a capire. La rimproverava d'essere venuta meno al suo voto? era malcontento anche lui di vederla in questa casa? L'immagine dell'infelice rimasta impressa negli anni in cui la memoria è più viva, mantenuta viva e presente per tutti gli anni successivi da un generoso desiderio di riparazione morale, era troppo famigliare ai pensieri della figliuola perché essa si sgomentasse di rivederla in mezzo a gente viva; anzi se lo strinse sul cuore, forte, teneramente, e cominciò a parlargli con calore per dimostrargli che tutto era proceduto secondo la volontà di Dio, che l'aveva fatto per amore e per compassione della sua mamma; e nell'abbracciarlo sentiva una così profonda compassione, che cominciò a singhiozzare davvero... Il vecchio Maccagno, a sentire la malata singhiozzare, uscì dal buio e dalla tempesta de' suoi pensieri, si accostò al letto. Arabella, agitata da un piccolo fremito, corrugava la fronte collo sforzo di chi mira a liberarsi da una dolorosa oppressione. Egli allora, quasi per liberarla dall'incubo, le prese dolcemente la mano e se la tirò a sé, dolcemente, chinandosi sopra di lei per dimandarle che cosa si sentisse: e in quella Arabella aprì gli occhi pieni di lagrime, li fissò, come chi stenta a orientarsi, in faccia al suo premuroso infermiere. Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l'abbandono inerte della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sé, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sé che un gran bianco, un gran bianco... "Perché piange?" "Non so, un brutto sogno." "Non si sente mica più male?" "Non mi pare." "Devo aprire le imposte?" "Sì: ho dormito un pezzo?" "Forse un'ora." "Lorenzo, dov'è?" "È stato qui: ha visto che dormiva..." "Povero papà!" uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto. Il suocero attribuì a sé la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere per sé e che sua nuora non era mai stata animata a concedere. Colto in un momento di debolezza, s'intenerì ancor di più, e mettendosi con moti frequenti a carezzare i capelli della malata, si abbandonò anche lui, per la prima volta, a darle del tu: "Guarisci, guarisci presto, e andremo in campagna. Vedrai che bel sito! Non sei mai stata in Tremezzina? In primavera è il paese delle rose. Rose dappertutto... Anch'io ho bisogno d'andar fuori dei piedi della gente, sono un poco stanco e malato anch'io e non vedo l'ora di collocarmi in campagna a coltivare le rape e le verze..." E cercò di ridere per combattere la molle malinconia che l'assaliva da tutte le parti. Questa malinconia montava come un'acqua che scaturisce improvvisamente da una vena sconosciuta al rompersi di una roccia. Da dove derivano queste acque fredde e limpide che il passeggero incontra sulla sua strada polverosa in mezzo a un paese brullo, riarso dal sole? La natura ha i suoi misteriosi serbatoi che mandano rigagnoli ai più lontani strati e non di rado spiccia l'acqua pura anche al disotto del fango. Sentendo che insieme all'onda refrigerante saliva qualche cosa di amaro, messo in paura o in sospetto d'una mestizia che lo conduceva a cantare delle arie di gioventù col falsetto del vecchio, spaventato all'idea che egli potesse dire una sciocchezza od una meschinità, accomodò con una certa furia distratta le pieghe del letto e soggiunse, mutando tono: "Ho trovato un vin vecchio sincero che le farà bene: lei ne deve bere un bicchierino. Il dottore raccomanda il vin vecchio. Lo assaggi. Questo è sangue." Versò il vino nel calice e si accostò di nuovo, tenendo il bicchiere colle due mani, per resistere a un tremito convulso che faceva vibrare tutto il corpo. Arabella si sollevò un poco, colla sinistra mandò indietro i capelli folti che scendevano scomposti, e coll'altra mano aggradì il calice, in cui brillava un vino secco color dell'ambra. "Beva, questo è sangue..." ripeté il suocero con un tono monotono d'uomo distratto, socchiudendo gli occhi.

Giacomo l'idealista

663192
De Marchi, Emilio 2 occorrenze

. - O Giacomo - proruppe con voce malata, movendo la testa con un lento abbandono, mentre colle braccia tese si attaccava al collo del giovane. - O Giacomo, perché non siamo morti noi? Giacomo impallidí. Le palpebre velarono la luce de' suoi grandi occhi cerulei. Attese che il doloroso istante passasse e sentendo a un tratto ridestarsi il suo cuore in una nuova e misteriosa dolcezza con una voce in cui scorrevano lagrime invisibili: - Oh contessa! - esclamò - c'è qualche cosa di piú santo della morte. E riaperti a fatica gli occhi come chi si sveglia da un lungo e faticoso letargo, si recò la mano della signora alle labbra, mormorando: - Forse bisogna cominciare da capo.

Come un'edera molle e rigogliosa, che si attacca e si stende sopra un vecchio muro cadente, nel suo abbandono e nella sua incapacità si sentí appoggiata a questa protezione, si adattò al mite e ombroso ambiente, mise volontieri le mani in un lavoro, che parlava già da sé stesso di sacri dolori e di eterne consolazioni. Le crisi divennero meno frequenti, perfino un'ombra di colore riapparí sulla pallidezza del suo volto lavato da troppe lagrime, si abbandonò alle pratiche della pietà, che per gli spiriti umili e bisognosi tengono il posto delle persuasioni che non si possono procacciare; accettò di buon grado tutte le medagliette e tutte le coroncine, che mandava il convento e che le sante dame facevano venire apposta per lei da Lourdes o da Loreto, piccoli segni di quella forza di fede, che è piú facile canzonare che non sia il farne senza. Cosí passò tutto il novembre. Dopo una nevicata, che rallegrò le feste di Sant'Ambrogio e che lasciò le campagne belle bianche, il dicembre seguí eccezionalmente dolce. Il piú bel sole si diffondeva nella stanza dove le pie signore tenevano un vecchio altarino colla statua dell'Addolorata sotto un tempietto di fiori di carta. Donna Gesumina che era bravissimanei lavori pei quali ci vogliono manine di piuma, veniva spesso a trovarla, sedeva con lei davanti al telaio, ordiva il tessuto nuovo, dava qualche suggerimento per il resto. Se il punto era alquanto cruccioso o troppo pigro per sostenere la pazienza, labuona signora intonava sotto voce le litanie su una cantilena facile e girante come un arcolaio, tale da aiutare senza sconvolgerlo il filo del lavoro. Celestina in quella vocina di monaca digiuna faceva entrare a intervalli la bella nota media della sua voce, con cui soleva sostenere le litanie al Santuario, e si lasciava cullare cosí in una dolce dormiveglia piena di oblio. Nelle nature sane pare che anche i dolori perdano del loro veleno e finiscano coll'essere assorbiti, come sono assorbiti dalle sane costituzioni i contagi che persistono. Un secondo dolore non fa piú soffrire come un primo, come se i tristi pensieri, a furia di passare, facessero nell'anima un solco sempre piú inclinato e largo. Come il montanaro si abitua a portare sulle spalle i più grossi carichi e non si sente ben equilibrato sulle gambe, se non quando ha tutto il suo solito peso addosso, cosí si oserebbe quasi dire che la natura dia alle costituzioni robuste, non guaste dalla troppa filosofia, l'abitudine di portare una certa quantità di patimenti. Questo può spiegare come nel rifiorire della pace anche il fisico della ragazza, aiutato da forze spontanee piú potenti della volontà, ricominciasse a fiorire. Nel benessere di tutto il corpo essa provava non rari istanti di ristoro e di nervosa ebbrezza, non priva di godimenti, come capita nei dolci istanti di buona convalescenza. Anima semplice e primitiva, priva di raffinatezze intellettuali, incapace di uscire o di allontanarsi troppo dal momento presente, bastava che l'idea dolorosa fosse momentaneamente assente, perché tutte le altre idee, quasi ancora fanciullesche, godessero di una specie di vacanza. A vederla in certi istanti, uno avrebbe detto che la sua disgrazia era piú grande di quel ch'ella fosse in grado di soffrirne. Pensava qualche volta: - Poiché era diventata cosí indegna, non per colpa sua, Giacomo avrebbe imparato a dimenticarla. Forse era per lui una fortuna. Giacomo aveva camminato troppo avanti sulla strada del sapere, perché potesse contentarsi di voler bene a una povera ragazza come lei. Se la terribile disgrazia doveva fruttare a qualcuno, in mezzo al male era un bene che fruttasse almeno a lui la libertà, e qualche compenso. La contessa aveva promesso che, fin dove un male si può riparare a denaro, Giacomo doveva far conto sugli aiuti della sua casa. Alla famiglia dello zio Mauro non sarebbe mancato piú nulla. Ebbene (seguitava a riflettere, offrendo a sé stessa, non senza qualche orgoglio, questa consolazione), se la mia disgrazia salva questa povera gente dai bisogni e dai creditori, se mette Giacomo nella condizione di poter continuare nella sua carriera e di farsi col tempo un grande onore, perché devo disperarmi? Certo avrei voluto restituire in un altro modo il bene che ho ricevuto; ma poichè Dio ha voluto cosí, sia fatta la sua volontà. Ma non sempre questa rassegnazione parlava cosí forte. Improvvise curiosità intervenivano a interrogarla: "Che cosa avrà detto di me? crederà proprio ch'io sia stata innocente? perché non è venuto ancora a vedermi? perché non mi scrive? gli avranno detta la verità? sa dove sono e in mano di chi?" In questi incalzanti quesiti, a cui non era in grado di dare nessuna risposta e che andava ripetendo a sé stessa con una ostinazione piena di rancore e di compianto, tornava a provare le vecchie ansietà, la sua mente cadeva in paure profonde; agitazioni nuove, accompagnate da una febbrile impazienza, non la lasciavano piú ferma sulla sedia. La contessa aveva le prove della sua innocenza, e Giacomo non poteva non credere a una donna come la contessa; ma, riandando minutamente ai particolari della sua sventura, ora temeva che l'interesse avesse a far rinnegare la verità anche ai santi, ora si accusava di non aver saputo respingere con piú violenza le cortesie del giovine conte, di non aver provato abbastanza ribrezzo di lui, di non averne parlato subito a Giacomo, e malediceva in cuor suo alla floridezza della sua giovinezza, di cui si era servito il demonio per perderla. In questo modo, co' suoi stessi dolori, essa andava fabbricando nuovi strumenti di tortura e finiva col ritrovare la spina del rimorso fin nel fiore dell'innocenza. In certe ore, in modo speciale verso sera, quando, al morire della viva luce del dí sentiamo venir meno in noi molte certezze, la sua stanza le diventava uggiosa come una prigione. Lampi di follia tornavano a guizzare nella tempesta dei pensieri. Stava immobile, cogli occhi perduti in una lenta stupefazione sulla campagna coperta di neve, o fissi alla linea dei monti lontani, tra cui andava ricostruendo qualche nota giogaia. Sentiva di essere piú che morta, sepolta viva, e piangendo, diceva in modo di poter ascoltarsi: - Giacomo, perché mi abbandoni? Vieni a vedere che cosa hanno fatto della tua Celestina. - Non pensi, Adelasia, che quella ragazza possa aver bisogno.di qualche speciale benedizione? - disse un giorno donna Gesumina alla sorella. - Ho letto nella vita di Santa Zita, patrona delle donne di servizio, che il demonio ama tormentare queste ragazze povere e ignoranti per tirarle al male. - Certi diavoli, quando ci sono, non c'è benedizione che li possa scacciare. Bisogna aspettare che se ne vadano da sè. Sono i fenomeni del suo stato. Cosí disse donna Adelasia quasi con solennità scientifica. - Basta, basta, tu sei piú in grado di me di saper giudicare - rispose, umiliandosi, la piú giovine delle due vecchie zitelle; e non tornò piú sull'argomento. Dopo molto aspettare, un giorno arrivarono finalmente due lettere di donna Cristina, una per Celestina, l'altra per donna Adelasia. A Celestina, riferiva in poche righe, non tutte sincere, il risultato del colloquio avuto con Giacomo: "Per quanto il colpo sia stato grande" scriveva la contessa "egli mi ha promesso di perdonare, e sarebbe già venuto a vederti costí, se un po' di febbre buscata con questi freddi non l'obbligasse a letto. La sua pace, la sua salute, il destino di tutta la sua vita dipende unicamente da te, mia cara figliuola. Se tu sarai buona, docile obbediente a tutto quello che ti diranno di fare queste tue benefattrici, vedrai che col tempo proverai una grande consolazione. Io faccio pregare sempre per te." Nella lettera a donna Adelasia la contessa lasciava trasparire invece tutte le paure e le preoccupazioni che aveva ridestate nel suo cuore il primo incontro con Lanzavecchia: "Speravo di trovare nel giovine una maggiore arrendevolezza; ma ho paura di aver sbagliato nel giudizio che mi son fatta del suo carattere. Soffre meno per il fatto doloroso che non per l'orgoglio ferito. Il pensiero che ci deve qualche cosa gli è insopportabile. Quale altra soddisfazione vorrà chiederci? come intende vendicarsi di Giacinto? La mia povera testa si confonde e non sa piú che cosa pensare e che cosa temere. Ora è piuttosto gravemente ammalato, non si sa se per una minaccia di tifo o per una congestione cerebrale, che lo tiene in continuo delirio: e questo dottore non è senza qualche apprensione. Nel mio egoismo non so piú che cosa augurare a me stessa e agli altri. Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sí, sento nel cuore le sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona coscienza. Non c'è donna cosí povera tra queste contadine, colla quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità, nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta, benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio, che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho piú lagrime e non ho finito di piangere, non ho riposo né giorno né notte, e, poiché non posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: cosí almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza."

La Colonia felice: utopia lirica (terza edizione)

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Dossi, Carlo 1 occorrenze
  • 1879
  • Stab. Tip. Italiano DIRETTO A L. PERELLI - Ditta Libraria di NATALE BATTEZZATI
  • prosa letteraria
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Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

675892
Garibaldi, Giuseppe 2 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
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ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676019
Ghislanzoni, Antonio 2 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Un insolito abbandono, una melanconica rilassatezza in tutta la persona. - L'amore, che più tardi rinvigorisce e rigenera la donna, in sulle prime si annunzia coi sintomi della febbre. Al leggero cigolio delle carrucole, che annunziava l'ascensione di Fidelia negli appartamenti superiori, due gravi personaggi mossero ad incontrarla nella galleria. Non appena la sedia ristette, l'un d'essi stese la mano alla fanciulla per aiutarla a discendere - l'altro, il più vecchio, arrestandosi a pochi passi dalla porta d'onde era uscito - figliuola mia, disse con voce severa, tu sai che io non amo di saperti in volta ... ad ora sì tarda della notte ... Fidelia non rispose. - È l'ora legale - disse il più giovane dei personaggi ... - Il richiamo dello vergini suona tuttavìa ... - Sempre da capo con queste vostre teorie della legalità! - proruppe il vecchio con accento di stizza ... - Io rispetto le leggi, e mi adopero con tutto lo zelo per farle rispettare dalla famiglia; ma fra un padre ed una figlia i doveri ed i diritti non vanno misurati alle norme del codice. L'amore che io porto a Fidelia mi impone di ricordarle che l'aria della notte è nociva alla salute, e quand'anche non vi fossero per lei altri pericoli andando in volta ad ora sì tarda, questo solo basterebbe perché ella dovesse piegarsi a' miei desiderii. - Eravamo uscite un po' tardi dal circolo ... Luce e Viola mi hanno invitata ad accompagnarle fino al Larietto per vedere gli apparecchi della macchina ... Fidelia articolava a stento le parole. Ella appoggiò il suo braccio a quello del padre, e tutti insieme entrarono nella sala. - Figliuola mia - disse il vecchio assestandosi in un pieritto,

Fidelia non aveva voluto staccarsi dalla sua sorella di amore Ella appoggiava il braccio a quello di Speranza, e senza divagare dal grande viale che metteva al palazzo, camminava a passo lento in quella direzione, e parlava all'amica con angelico abbandono: - Dieci giorni ancora! ... sai che sono lunghi ... dieci giorni! - Cosa sarebbe l'amore, cosa sarebbe la gioia - esclamava Speranza con accento ispirato - senza i giorni del desiderio e della aspettazione! Io credo che Viola avesse perfettamente ragione, quand'ella, nel circolo, ha dato dell'amore quella sublime definizione così poco apprezzata dalle sorelle. L'amore è desiderio. - L'amore è perdono! - mormorò Fidelia con un sospiro. E questo concetto era per lei una soave reminiscenza, queste parole erano una melodia sommessa che le inebbriava tutti i sensi. Giunsero al palazzo. Le porte erano abbassate, e la sala terrena sfarzosamente addobbata splendeva di fantastica luce. Una tavola oblunga, sfolgorante di preziose suppellettili e imbandita di vivande vespertine attendeva la gioconda comitiva delle ospiti fanciulle. All'entrare di Fidelia, l'anziana del palazzo e le quattro volonterose che stavano a guardia della sala, spruzzarono di faville i vasi purificatori e da questi subitamente elevossi una nuvola bianco-rosata che, dissipandosi nel vano, imbalsamava l'atmosfera di atomi odorosi. - Fra un'ora saranno qui tutte! - disse Fidelia alle donne. - Frattanto io e la mia buona sorella di amore visiteremo gli appartamenti. - Non vi sono appartamenti in questo palazzo - disse sorridendo l'anziana - o piuttosto ve ne sono tanti, quanti ne può ideare la umana fantasia; ma voi potete vederli tutti senza uscire da questa sala. Fidelia e Speranza si ricambiarono una occhiata di sorpresa. - Ebbene - domandò l'anziana. - Volete voi godere il meraviglioso spettacolo? Compiacetevi di sedere su quel piccolo divano di muschio satinato, e noi vi mostreremo una ventina di appartamenti, vi offriremo allo sguardo tale varietà di mobilie e di addobbi quale non saprebbe ideare la mente più ingegnosa. Io credo che la moderna architettura non abbia ancora prodotto un palazzo più sorprendente di questo in nessuna città della Unione Europea. Fidelia e Speranza, tenendosi per mano, quasi impaurite, andarono a collocarsi sopra il divano loro assegnato. E tosto, per un cenno dell'anziana, le quattro volonterose corsero ad occupare i quattro angoli della sala, e toccando ciascuna un bottone sporgente dalla muraglia, produssero uno di quei cambiamenti di scena che in teatro producono tanto effetto. La parete di fondo scomparve ... Ciò vi sembra prodigioso, non è vero? Orbene: eccovi in due parole la spiegazione del miracolo. Quella parete non era che un grandioso ventaglio di taffetà americano, il quale, disteso, formava un abbagliante sipario azzurro dorato come il lapislazzulì. Le quattro volonterose, premendo i bottoni che lo tenevano dispiegato, ottennero che immediatamente si contraesse, formando di tal modo una colonna quadrata per cui la vasta scena veniva a dividersi in due grandi scompartimenti. Al di là di quella colonna si apriva un mondo incantevole, che offriva allo sguardo tutte le seduzioni della natura, e non era di fatto che un meraviglioso accordo di tutte le industrie, di tutte le arti umane. Fidelia e Speranza rimasero alcun tempo assorte nella contemplazione di quel nuovo spettacolo, mentre l'anziana con affettuosa compiacenza descriveva alle due fanciulle le bellezze del quadro. - Da quella parte ... al lato destro - accennava l'anziana - voi vedete una collina di facile pendìo, dei praticelli, delle grotte, dei chioschi, dei cespugli di fiori. Sono altrettante camere, altrettanti ricoveri copiati fedelmente dalla natura. L'architetto, nel costruire quei nidi di velluto, quei chioschi di bambagia, quelle nuvole di guttaperga, era ispirato dall'amore, come il Dio della Genesi nella creazione del paradiso terrestre. Il primo palazzo di Eva, ideato dall'architetto divino, non poteva essere più confortevole e più delizioso. Voi stupite, o gentile Fidelia! ... Voi non credevate che un pensatore di case potesse elevarsi a tanta sublimità di concetti ... Quella nuvola che vedete agitarsi mollemente al di sopra della collina è la stanza che deve accogliervi fanciulla per iniziarvi ai misteri deliziosi dell'amore ... Osservate quella grotta! ... Da quelle stalattiti bianche trasudano gli unguenti più odorosi, i balsami più delicati. È il vostro gabinetto di acconciatura. Attraversandolo, ne uscirete profumata e vivificata. A poca distanza da quella grotta, una magnolia gigantesca distende i suoi rami di un bel verde opaco ... Quella è la vostra biblioteca. I libri stanno raccolti nel tronco dell'albero, e le eleganti legature formano intorno a quel tronco una corteccia di oro e di gemme. Abbassate lo sguardo a quella pianura lucente ... a sinistra della colonna! Non vi sembra che quel tappeto imiti perfettamente le onde tremolanti di un lago? È un tappeto di mercurio bianco imprigionato in una tela di vetro elastico. Voi sentite il mercurio agitarsi sotto il vostro piede, e la illusione di passeggiare sulle acque è tanto verosimile, che quasi vi meravigliate di poterne uscire a piede asciutto. Come vedete, due gondole eleganti galleggiano su quel piccolo lago artifiziale. Una di quelle gondole è destinata ad essere il vostro gabinetto musicale. Noi vi abbiamo collocato un pianoforte a corde di cigno, ed un'arpa magnetica. Assisa al pianoforte, per la rifrazione dei vari specchi mirabilmente congegnati, vi parrà di trovarvi isolata in mezzo ad un lago senza confini. I vostri canti, i vostri suoni si ispireranno nella poesia della solitudine e delle onde ... Quel pianoforte ha due pedali, per cui potrete modificare a grado vostro la calma e le procelle del piccolo oceano. Il tappeto mercuriale, sotto la pressione del vostro piede, potrà fingere tutti i commovimenti della marina. L'altra gondola è una sala di refezione; e questa, a piacere dei naviganti, può scivolare fino alla estremità della pianura, dove, per una porticiuola che da questo luogo non si scorge, essa uscirà dal lago artifiziale per islanciarsi nel lago vero. Qual sorpresa per voi, qual gioconda sensazione, al finire di una cena iniziata nel palazzo fra le carezze ed i baci dello sposo, uscire sulla prora della gondola, e veder sfilare le cento ville del Lario, una meravigliosa fantasmagoria di palazzi e di giardini emergenti dalle onde! Ma basti! ... Gli è un vero peccato quello che io sto commettendo, un peccato di indiscrezione che il vostro sposo non saprebbe perdonarmi. A che buono svelarvi tutti i misteri di questo meraviglioso palazzo? ... Che altro è la gioia se non la sorpresa del nuovo, dell'inaspettato? ... Ma pure io mi ravvedo in tempo ... Io non vi ho palesato che la millesima parte delle delizie che qui vi attendono. L'ho fatto a fine di bene; per serenare l'animo vostro, per alleviare colle promesse dell'avvenire le crudeli impazienze del presente. Ho tracciato il cammino alla vostra fantasia di fanciulla e di amante. Se in questi giorni di dilazione che ancora vi rimangono, il vostro spirito verrà a spaziare su questi prati di seta, fra questi alberi a foglie di piume che stillano rugiade di diamante, fra queste onde di metallo animato; voi troverete una distrazione soave alle cure che vi opprimono. Io però mi tengo sicuro che voi non riescirete mai ad indovinare la centesima parte delle meraviglie qui adunate da quei due creatori sublimi di poesia che sono il vostro Albani e Regolo Mengoni pensatori di edifizii Poiché l'anziana ebbe finito di parlare, la fidanzata dell'Albani, nell'ingenuità della sua anima innamorata, si lasciò sfuggire una esclamazione che rivelava tutto il suo cuore: - Ma egli! ... il mio sposo! ... - Comprendo il vostro pensiero - affrettossi a dire l'anziana. - Egli ... il vostro Albani non verrà a dimorare in questa villa, che tutta vi appartiene. Vi spiegherò il suo concetto come io credo di averlo compreso. Dell'Albani voi non dovete conoscere che l'amante e lo sposo. Egli verrà in questo luogo per portarvi il suo amore, per cogliervi il vostro, per godere dei vostri tripudii, per consolare le vostre afflizioni, per chiedere a sua volta il diletto e la forza a sostenere i dolori della vita. I vostri rapporti, in una parola, non devon essere che rapporti d'amore. Perché riesca feconda di bene, l'unione coniugale vuol essere circondata di poesia. In altri tempi, quando era obbligatorio agli sposi convivere sotto il medesimo tetto, vedersi a tutte l'ore del giorno e della notte, dividere le cure disaggradevoli e qualche volta un po' volgari del regime di famiglia, avveniva sovente una rilassatezza di affetti, che a lungo andare degenerava in fastidio, in avversione. C'è molta differenza fra il vedersi spesso e il vedersi sempre. L'augello che rinnova così frequenti i trasporti dell'amore, si allontana dalla sua compagna dopo l'ebbrezza vivace del connubio, e si perde negli spazi finché quella non lo richiami co' suoi gorgheggi, finché quella non gli dica coi suoi gemiti melodiosi: ritorna! ho bisogno delle tue carezze, dei tuoi baci! Desideriamoci, se vogliamo amarci eternamente! Il vostro Albani, ispirandosi a questo concetto, verrà in questa casa come un ospite. Egli vi apparirà inaspettato - egli giungerà fino a voi per cento vie misteriose. Lo vedrete uscire da questa gondola, lo troverete adagiato in quella grotta, udrete la sua voce carezzante rispondervi da quella nube, Quando i vostri due cuori si chiameranno per quella voce arcana che esala dall'amore, vi sentirete allacciati da soavissimo amplesso. Io credo, Fidelia, che il vostro animo gentile avrà compreso il delicato pensiero che io ho tentato di esprimervi. Lo sguardo di Fidelia splendeva di angelica luce. Quell'anima giovane era inebbriata di felicità. Si levò in piedi, e con timida voce, qual di fanciullo che non osa manifestare un capriccio per paura di vedersi contrariato, disse all'anziana: - Vi par egli che io sia troppo indiscreta nel domandarvi una concessione? ... Amerei di attraversare quel lago ... di salire in quella gondola ... di provare, sull'istromento che dovrà essere l'interprete dei miei pensieri, una canzone che ho composta per ... lui! Sarà la canzone di richiamo. E tu, mia buona Speranza, tu l'ascolterai da questo luogo, e mi dirai qual effetto essa avrà prodotto sull'animo tuo! ... E poi! ... ho in mente un pensiero ... Mi pare che i suoni di quel cembalo debbano attraversare gli spazii immensi ... e giungere fino a lui. - Non vi è ragione perché io mi opponga a così onesto desiderio - rispose l'anziana - venite! La fanciulla, dopo essersi congedata con un bacio dalla sorella di amore sorvolò con piede leggerissimo al mobile tappeto, salì nella gondola, e disparve colla sua guida. L'anziana, per un sentimento di deferenza e di rispetto che erale imposto dalla sua condizione, non si intrattenne con Fidelia nel piccolo gabinetto. D'altronde, ella aveva l'obbligo di far gli onori del palazzo, e in quel momento suonava l'ora di refezione, e le amiche della fidanzata, giusta il patto convenuto, entravano nel vestibolo. - Rilasciate il gran ventaglio! rilevate le mense! - ordinò l'anziana alle volonterose - prima che le ospiti fanciulle fossero entrate nella sala. E subito la scena mutò di aspetto, e l'incantevole panorama scomparve dietro il velario ondulato, che formava una muraglia di lapislazzulì. Nel momento in cui le fanciulle entravano nella sala, dalla sua gondola invisibile Fidelia sciolse la voce. Speranza portò il dito alle labbra, e le fanciulle ristettero ad ascoltare coll'estasi in volto. Erano le più dolci note che mai si modulassero pel labbro di una vergine innamorata. Quelle note, attraversando l'azzurro padiglione, parevano il canto di un cherubino smarrito negli spazii del firmamento. E davvero Fidelia aveva dimenticato la terra. Ella si sentiva isolata nel suo piccolo gabinetto come una sirena sugli scogli dell'oceano. Immersa negli elementi più vergini del creato, nell'aria e nelle acque, la sua anima possedeva le ali bianche e il melodioso sospiro del cigno. Le parole della sua canzone esprimevano questi pensieri gentili: «Iddio ha creato la terra, ma l'amore soltanto ha creato il paradiso. «No! questo non è il paradiso, dacché, aggirandomi fra i miracoli della creazione, io sento che il creatore è lontano. «Quando il creatore sarà tornato, quando l'aria di questo giardino sarà l'alito della sua bocca o il dolce fremito del suo cuore, allora io potrò dire: egli mi ha riportato il mio paradiso. «Oh venga presto colui che può creare il paradiso, perché il paradiso è in lui, soltanto in lui!» Il canto di Fidelia era una estasi voluttuosa. Mentre il labbro scioglieva le note, mentre il cuore modulava gli accenti, lo sguardo della fanciulla errava nelle illusioni di un mondo fantastico. Questo mondo fantastico si creava dinnanzi a lei per una combinazione di specchi metallici, i quali ritraevano perfettamente un cielo di zaffiro, un lago placido e sereno. Gli occhi di Fidelia aspettavano che quella solitudine di spazio e di acque si animasse improvvisamente di una figura umana, di una figura che per lei, per la fanciulla innamorata, avrebbe rappresentato il Dio animatore. Era delirio? ... Era sogno? ... La fanciulla sentì mancarle le forze, la sua voce si spense, un tremito le invase tutte le membra ... Quella vasta solitudine si era davvero animata: l'uomo dell'amore, il Dio era comparso ... Fidelia non osava li volgere il capo, ma lo specchio inesorabile che le stava dinanzi riproduceva una figura umana, riproduceva un essere vagheggiato e invocato, che per lei aveva nome di Redento Albani. Quell'uomo, ritto ed immobile dietro il seggio della fanciulla, pareva assorto nel contemplare le forme perfette di lei. La fronte di quell'uomo era calma; i tratti del volto non rivelavano veruna commozione; ma l'occhio irrequieto, iniettato di viva luce, aveva una espressione quasi sinistra. Fidelia ne fu atterrita più che sorpresa. Dalla sua fronte sgocciolava il sudore a grosse stille, pure non aveva forza di portarvi la mano ad asciugarle. Come si spiega questo terrore della fanciulla alla vista di un amante, di un fidanzato, di lui che era l'oggetto de' suoi ardenti desiderii, delle sue invocazioni? Se quell'uomo fosse stato l'Albani, Fidelia non avrebbe esitato un momento a levarsi dal seggio, ad avvincerlo tra le sue braccia, a inondarlo di baci. Ella esitava ... tremava ... Erano le sembianze ben note; la sua statura, i suoi capelli ondeggianti e fosforici, il suo labbro perfettamente delineato, i suoi denti pieni di sorriso. Ma pure, qualche cosa mancava a quell'uomo per essere l'amante, il fidanzato di Fidelia. Mancava la magnetica corrente che si espande dai cuori innamorati, il flusso che non si può suscitare dai nervi e dal sangue, se questi nervi, se questo sangue non sieno agitati da una vera passione. La fanciulla non poteva penetrare l'orribile inganno di quella apparizione. Ella fissava quella larva con occhio attonito; meditava quelle sembianze come si medita un sinistro problema. Quella contemplazione, quella meditazione angosciosa doveva risolversi per lei in un giudizio altrettanto erroneo che tremendo: «Egli è ben desso, ma egli ha cessato di amarmi». Era la logica più naturale che il cuore della fanciulla innamorata potesse seguire, la sola spiegazione che ella potesse ammettere dello strano turbamento che l'invadeva. A sì triste convincimento, Fidelia nascose il volto fra le mani e proruppe in dirotto pianto. Ma il Casanova (noi gli daremo il suo vero nome) non era uomo da smarrirsi di coraggio per quella fredda accoglienza. Magnetista di prima potenza, egli contava sulla forza del proprio volere per dominare quella gracile fanciulla estenuata dalle commozioni dell'amore e della paura. Egli stese la mano sul capo di Fidelia, e accarezzando le chiome odorose per innondarle del suo fluido irresistibile, parlò con accento animato: - Fidelia! ... mia buona ... mia bella Fidelia! ... non era mestieri che tu mi chiamassi ... . Sarei venuto ugualmente ... . Anch'io numerava i giorni e le ore. Avevo bisogno di vederti. Un bacio, un solo tuo bacio potrà darmi la forza per reggere a questi ultimi giorni di prova ... . Fidelia! ... I momenti sono contati. Nessuno mi ha veduto entrare, nessuno mi vedrà uscire da questo luogo ... . Non c'è a temere di nulla! ... Oh! la mia bella Fidelia! Abbandonati agli istinti del cuore ... . Poichè mi ami ... poichè hai giurato di esser mia ... . Mia sorella ... mia sposa ... . Tu mi ami: Io sapeva bene che tu non avresti negato questa gioia! ... Le tue fibre sono commosse ... . Allacciami il collo colle tue braccia di neve ... . Che io respiri il fresco alito della tua bocca! ... Le mie labbra erano arse, e la sete di amore mi avrebbe consumato, senza il refrigerio di un tuo ... bacio divino! Così parlando, il Casanova si era impadronito della fanciulla attraendola al proprio petto colla potenza affascinante della volontà. Fidelia, inebbriata da quelle parole, da quelle carezze, si abbandonò a lui come un corpo morto. I dubbi, i terrori erano svaniti. La sua faccia inondata di lacrime era divenuta radiante. In quel momento di suprema illusione, la fanciulla sognava il paradiso. Quel sogno fu un lampo. Nell'amplesso di quella larva adorata, Fidelia si attendeva una inondazione di delizie. Ma appena le labbra dell'avventuriero ebbero sfiorate le sue, la fanciulla arretrò con ribrezzo, mandò dal petto un grido affannoso, e cadde al suolo tramortita. Il bacio di quell'uomo, o piuttosto di quella maschera umana, le era sembrato gelido come il bacio di un morto. Tutta questa scena era passata rapidamente, mentre le sorelle del Circolo, nel compartimento anteriore del palazzo, attendevano che Fidelia ripigliasse la canzone, ovvero ritornasse nella sala per prendere parte al convito. Il grido della fanciulla destò lo sgomento nella piccola comitiva. L'anziana fece allentare il gran ventaglio, e le amiche di Fidelia accorsero tutte verso la gondola. Quand'esse posero il piede nel gabinetto musicale, il Casanova era già scomparso; nessun indizio, nessuna traccia di lui. Fidelia giaceva a terra coll'abbandono della morte. Le sue chiome, le sue vesti scomposte davano a supporre che ella avesse dovuto soccombere ad un assalto violento. Le fanciulle non si perdettero in vane esclamazioni. Improvvisarono una catena magnetica, e scaricando il loro fluido sulla giacente, in men che non si pensi, la ridonarono alla vita. Fidelia si levò in piedi, girò intorno gli occhi smarriti come chi, risvegliandosi da un orribile sogno, tremi di rivedere una larva. Poi sorrise alle amiche, e appoggiandosi al braccio di Speranza uscì con quella dal gabinetto. - Domani ti dirò tutto - disse Fidelia alla sua prediletta. E per quella serata non si tenne più parola del misterioso avvenimento. Durante la cena, le fanciulle ripresero insensibilmente la loro abituale gaiezza. Fidelia sorrideva alle amiche, e pareva dividere i loro ingenui tripudii. Di tratto in tratto ella trasaliva, portava la mano agli occhi come a rimuovere un velo, a dissipare una nube. E subito, dopo quel gesto, la sua fronte tornava serena, e l'occhio riacquistava la sua luce. Ai primi squilli del richiamo delle vergini quella gioconda comitiva uscì dalla villa Paradiso per disperdersi nei varii compartimenti della città. Fidelia baciò le amiche ad una ad una, e salita in una gondola volante si fece ricondurre al palazzo di famiglia. Quella sera, il Gran Proposto era di umore assai lieto. Quell'inesorabile partigiano delle antiche discipline, che non poteva tollerare nella propria famiglia ciò che egli chiamava insubordinazione legale agli ordini della natura; quel padre severo che non aveva mai perdonato a Fidelia le lunghe assenze notturne, mosse ad incontrarla con volto radiante, l'accolse con insolita profusione di amorevolezze. C'era qualche cosa di misterioso, qualche cosa di sinistro nella bonomia di quel vecchio. Le sue carezze parvero a Fidelia una affettazione di cattivo augurio, ond'ella, per sottrarsi a quell'impeto di tenerezza paterna, pose in campo un pretesto e ritirossi nel suo appartamento. Il Gran Proposto, dopo averla accompagnata com'era suo costume, e salutata col bacio del buon sogno rientrò nel suo gabinetto. Sullo scrittoio del primo funzionario dell'Olona stava spiegato un dispaccio portante il timbro del Ministero di Sorveglianza pubblica. Erano poche linee di scrittura, ma il vecchio non si saziava di rileggerle, e pareva che da quel foglio uscisse un riflesso di beatitudine ad irradiargli tutto il volto. Il dispaccio era così concepito: «Onorevole Gran Proposto, «Ho la soddisfazione di annunziarvi che il nostro zelo, le nostre sollecitudini, la nostra pertinacia hanno trionfato di ogni difficoltà. Redento Albani ha violato la legge di dilazione. Questa notte egli era a Milano, ha visitato la Villa Paradiso si è intrattenuto col Custode-direttore, ed ebbe anche un segreto colloquio con vostra figlia nel piccolo gabinetto musicale addetto alla villa stessa. Non è mestieri che io vi aggiunga altre parole; vostra onorevolezza sa troppo bene ciò che le resta a fare. Aggradite, onorandissimo Gran Proposto, gli umili ossequi del vostro subordinato devotissimo, e comandatemi in ogni occasione. «Dato dal primo gabinetto di Sorveglianza pubblica la notte del ventisette settembre 19 ... «TORRESANI DEGLI EX-BARONI.»

L'ALTARE DEL PASSATO

676779
Gozzano, Guido 1 occorrenze

Lady Mac Lewis mi fissava con un abbandono, una tenerezza più temeraria del solito. Confinata all'estremità del terzo tavolo, presso il decrepito monsieur Lebaud, celebre oceanografo, essa teneva il cubito sul tavolo, con una grazia un poco inurbana, si reggeva la nuca con la mano arrovesciando il volto di bronzo chiaro, sogguardandomi di tra le ciglia tenebrose; quando il mio sguardo incrociava il suo, sorrideva malinconicamente, e il bianco degli occhi, il bianco dei denti balenava in un tremolìo di perla. - Quella donna mi guarda, quella donna è mia! Oh! grande Ferravilla! O mio solo ammonitore nella vita, sempre! La tua voce mi rideva dentro, come un oscuro presentimento ... Eppure ... eppure come non vedere che quella era una donna disfatta dalla passione e che l'oggetto della sua passione ero io?

LA DANZA DEGLI GNOMI E ALTRE FIABE

677035
Gozzano, Guido 1 occorrenze

POESIE

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MICHELSTAEDTER, Carlo 3 occorrenze

«No, la morte non è abbandono» disse Itti con voce più forte «ma è il coraggio della morte onde la luce sorgerà. Il coraggio di sopportare tutto il peso del dolore, il coraggio di navigare verso il nostro libero mare, il coraggio di non sostare nella cura dell'avvenire, il coraggio di non languire per godere le cose care. Nel tuo occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona la triste spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t'affidi senza timore ben più forte saprò navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro mare. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte a chi libero la sfidò». - Carsia, 2 settembre 1910

I sogni dell'anarchico

678241
Mioni, Ugo 2 occorrenze

Pagina 28

Pagina 46

Teresa

678607
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
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Pagina 197

FIABE E LEGGENDE

679286
Praga, Emilio 1 occorrenze

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679353
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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Magra scusa quando altri, quando un innocente, per riparare al suo abbandono, mettono a repentaglio tutta l'esistenza. Crudele egoismo! La requisitoria era compiuta e la condanna non si faceva troppo aspettare. La mattina seguente accadde a Baccio cosa tanto straordinaria che egli, per la prima volta in trenta anni di esercizio, si lasciò precedere nel suonare il mezzodì dal sacrestano di Sumasco, noto per la sua negligenza. E c'è di peggio. Egli piombò nello studio del curato tenendo in mano, per distrazione, il raggio d'oro delle grandi solennità. Mansueta gli corse dietro, don Luigi si avanzò rapidamente ad incontrarlo, ma entrambi dimenticarono tosto la stranezza del suo contegno perchè egli balbettò: - Il sindaco la vuole in sacristia. Incredibili parole che, per l'affanno, non potè ripetere. Don Luigi era già uscito per corrispondere alla richiesta del sindaco, che il pover'uomo era ancora sbalordito ritto in mezzo alla camera. Il signor Angelo non era certo venuto con delle buone intenzioni. Il colloquio fu breve, non durò più d'un quarto d'ora, che però alla nostra ansietà sembrò interminabile. Nessuno assistè. Il linguaggio del sindaco deve essere stato violento al solito: uscito dalla sacristia, sul sagrato si volse indietro e disse: - Pensateci dunque: fra tre giorni o mi date quelle carte o preparatevi a ciò che vi ho detto. Don Luigi, pallidissimo, rispose: - Sarà quel che Dio vorrà. Non capivo la minaccia del sindaco, e il curato non mi fe' quel giorno alcuna confidenza. Si ritirò nella sua camera e non ne uscì per tutta la giornata. Mansueta, sollecita della salute del padrone, si recava sovente in punta di piedi a spiare dal buco della serratura, ed ogni volta tornava tentennando dolorosamente il capo. Don Luigi passò tutte quelle ore ginocchioni pregando. I dì seguenti il sindaco passò e ripassò più volte davanti al presbiterio coll'aria provocante di un creditore inesorabile. Le sue occhiate, volta a volta beffarde e furiose, causarono una quantità di disordini. Mansueta lasciò due volte struggersi la cena sul fuoco. Il solo appressare del noto passo la metteva in convulsione. E la non poteva sapere qual nuovo genere di tortura colui avesse potuto trovare, ma capiva che doveva essere formidabile dal contegno di Don Luigi, che da quel colloquio in poi non aveva più ricuperato la sua calma e anzi diventava sempre più inquieto e sofferente. Pertanto io cominciavo a trovarmi a disagio. Ero rimasto per riguardo a Don Luigi, e avrei voluto davvero essergli utile in quel frangente di cui mi era ignota la gravità. Ma la sua afflizione non pareva di quelle che si alleviano colle parole. Il curato si manteneva stavolta chiuso con me come con tutti; noi ci vedevamo appena all'ora solita e si capiva che malgrado tutti gli sforzi egli non riusciva a dominare la cura segreta dell'animo. Non volevo, al postutto, dargli soggezione.

Trasparenze

679528
Praga, Emilio 1 occorrenze

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682197
Salgari, Emilio 1 occorrenze

Racconti fantastici

682814
Tarchetti, Iginio Ugo 1 occorrenze

Pagina 147

IL GIORNALINO DI GIANBURRASCA

683043
Bertelli, Luigi - Vamba 1 occorrenze
  • 1912
  • MARZOCCO Sessantunesima edizione
  • prosa letteraria
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