XVIII. disse, ora sono più di due secoli: "Da per tutto dove abbiamo una decisione chiara ed evidente della ragione, non possiamo essere obbligati a rinunciarvi per abbracciare l'opinione contraria sotto pretesto che sia materia di fede: poichè la fede non può avere alcuna autorità contro le decisioni chiare ed espresse della ragione." Vi è un punto nel quale la scienza e la fede vanno d'accordo, ed è nel riconoscere che le cause primordiali sono impenetrabili, e che la mente dell'uomo non è fatta per comprendere l’origine della materia e dell'energia. In un'altra cosa, dobbiamo pure andare d'accordo, qualunque sia la fede e la filosofia che uno professa: ed è il metodo scientifico per studiare le leggi alle quali è soggetto un fenomeno. La fisiologia non riconosce le divisioni artificiali delle scuole e delle credenze: essa procede impassibile nella ricerca del vero, ed ha per iscopo il determinare come un fenomeno in differenti tempi si produca in modo costante, date le medesime condizioni, succeda questo nel cervello o in qualunque altro organo del corpo.
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Non bisogna per questo scoraggiarsi: noi possiamo colla mente uscire dai limiti del nostro orizzonte materiale, ma non possiamo pretendere di abbracciare il cosmo in un unica sintesi. Quando, dopo aver sorvolato sui mondi ed esserci elevati nelle regioni dell'idea pura, vogliamo riposarci e chiudere il circolo, non possiamo riunire i punti estremi dell'indefinito che con un mistero o un errore. Nel primo caso si chiude il circolo cosmico con un atto di umile ignoranza; nel secondo si pone in suo luogo un pregiudizio o un'ipotesi, cioè un errore certo o un errore probabile.
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Si potrebbe ancora abbracciare un campo più vasto, e studiare il piacere nel tempo e nello spazio, considerandolo nelle diverse epoche storiche e nei vari paesi. Adottando il regolo delle condizioni sociali, si potrebbe parlare delle gioie nelle professioni, e si potrebbero fare studi sul piacere in rapporto al grado di intelligenza e alla squisitezza del sentimento; sui piaceri della solitudine e della vita turbinosa della società; e così via. In tutti questi studi non si farebbe che mutar di strada per percorrere lo stesso paese, e per arrivare alla medesima meta; ma siccome le vie, per quanto larghe, non occupano che una parte infinitamente piccola delle regioni che attraversano, ne verrebbe che, seguendo tutte le strade successivamente, e percorrendole tutte dalla comunale alla provinciale, dalla nazionale fino al più umile sentiero, si verrebbe a conoscere palmo a palmo il paese nel quale si viaggia, e del quale si potrebbe dare una vera topografia.
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L'amore, l'amicizia, la gloria, la scienza, vi fanno trepidare di speranza, e sospirare al pensiero che la vostra vita sarà troppo breve per poter abbracciare e comprendere il mondo che vi circonda. Eppure voi sacrificate tutto questo a un miserabile piacere di pochi istanti, che vi lascia avviliti, stupidi e impotenti di tutto. La lucida intelligenza si oscura, la tenace e pronta memoria della vostra età si fiacca, l'immaginazione non riflette, più nel lucido suo specchio i fulgidi colori delle vostre fantasie, la volontà si spunta; una molesta inquietudine vi tormenta e vi fa penare lunghe ore in uno stato di indifferenza e di ozio intellettuale, che dovreste aborrire più che la morte. Anche il vostro corpo è compagno di dolore al sentimento e all'intelletto: le digestioni si fanno difficili; si provano dolorose sensazioni; spesso si ha la nausea; la pelle, specchio della salute generale, impallidisce; e la fisonomia acquista un tal carattere sbattuto e squallido, che quasi sempre svela la colpa all'occhio di un acuto osservatore. Ma tali incomodi riescono tollerabili, e il giovane si accontenta di passare alcune ore nella sonnolenza o in lievi occupazioni, aspettando che il processo riparatore lo abbia messo ancora in grado di abusar di se stesso. Allora l'organismo abituale in cui vengono tenuti gli organi genitali dalle lascive immagini della mente lo fa ricadere nella colpa. Altre volte lo scoraggiamento e l'impotenza di eccitare altre sensazioni per le quali si richiederebbe tutta l'energia, trascinano al malaugurato piacere onde provare una scossa e sentire di vivere. Una vita passata fra occupazioni languide, fra lunghe ore di sonno o di sonnolenza, fra momenti d'ira e di dispetto, e segnata qua e là dalle abitudini sozzure, è miserabile e vile. Voi tutti che, incatenati dai pregiudizi, vi siete chiusi nell'angusto sentiero di una vita modellata dalle esterne circostanze che vi ballottano e vi urtano; voi che vivete senza esservi mai domandato perchè e a che vivete, voi che non siete che morte cifre nella formula di una generazione; continuate pure nelle vostre abitudini depravate, dacchè non potete intendere gioie più elevate o men basse. Ma tutti voi altri che avete infrante le catene del pregiudizio e salendo sulle alture del pensiero spaziate libero lo sguardo sull'orizzonte che vi circonda; voi che intendete la sublime voluttà del pensare, e che indirizzate la vostra vita ad uno scopo, come la religione, la scienza, la gloria o l'affetto; per quanto vi è sacra la vostra dignità di uomo, non cedete ad un vizio che vi farebbe precipitare dall'alto, e vi spezzerebbe fra le mani quelle armi, con le quali dovete combattere i formidabili nemici che ingombrano la via del vero, del bello e del buono. Se ancora non conoscete i solitari piaceri, non tentateli affatto, perchè la prova sarebbe pericolosa. Se fatalmente li imparaste a conoscere in un'età nella quale l'intelletto era ancora bambino, combattete il nemico coll'arme più potente concessa all'uomo, colla suprema facoltà della sua mente: la volontà. Educate questa potenza preziosa: vogliate tutto ciò che è difficile a conseguire; vogliate combattere ciò che è quasi invincibile: vogliate fabbricarvi la vita fin dove in natura ve lo concede; e allora proverete la sublime compiacenza dell'aver voluto e dell'aver vinto, la quale vale assai più del sacrifizio dei fremiti più voluttuosi. Se la natura non vi ha concesso che un fiacco volere, associatevi ad altri, confidate il vostro segreto ad un amico, unitevi a lui per vincere il nemico, e rendetevi degno di una delle vittorie più difficili.
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L'immensità di alcune immagini ci ispira l'idea dell'infinita grandezza del mondo e della nostra piccolezza, in un contrasto piacevole al quale spesso si associa anche la compiacenza di potere col nostro occhio abbracciare tanta vastità di orizzonte. Quando contempliamo dalla spiaggia l'immenso piano del mare e la volta del cielo che, in curva maestosa, si confonde coll'estremo limite di un orizzonte incerto e nebuloso, noi abbiamo sotto i nostri occhi un'immagine sensibile dell'infinito, e con lo sguardo vaghiamo su quel deserto smisurato di acque e di cielo cercando invano un confine e un punto fermo su cui riposare. L'apparire improvviso di una vela, in mezzo a quella solitudine che ci confonde, rianima a vita anche il sentimento, facendolo concorrere al nostro piacere; e nello stesso tempo gustiamo l'idea purissima dell'infinito e l'affetto simpatico per ciò che è vivo ed umano. Questo è l'elemento fondamentale del piacere che si prova alla vista del mare, e che forma quasi il telaio sul quale si possono tessere poi le più splendide combinazioni delle gioie del sentimento e della mente. La piccolezza estrema degli oggetti suscita pure in noi l'idea dell'infinito, mostrandoci in qual modo i confini del microcosmo non abbiano limiti come gli spazi imponderabili del cielo. I piaceri che si provano in questo campo formano l'attrattiva principale delle ricerche microscopiche. È poi veramente singolare il fatto che ci porta molte volte ad amare alcuni oggetti per la sola ragione che sono piccoli. Pare che noi associamo ad essi l'idea della debolezza, e che ci sentiamo ispirati ad averne compassione e a proteggerli, anche quando essi non hanno vita. Altre volte essi ci ridestano il desiderio di possederli; per cui, prendendoli fra le mani e guardandoli con attenzione, atteggiamo il volto all'interessamento e alla simpatia. Questo genere singolare di piaceri non si prova in tutta la sua intensità, che quando l'oggetto è ben definito e costituisce un vero individuo. Difatti, il frammento angoloso di una roccia, per quanto piccolo, non produce in noi il piacere che gustiamo nel contemplare un ciottolino liscio e rotondetto; come pure la barba di una penna d'oca non ci interessa quanto un piccolo fagiuolo. A questi piaceri, per se stessi minimi, si collega spesso l'attrattiva speciale di alcune Il moto concorre ai piaceri morali della vista con molti elementi. Innanzi tutto, essendo uno dei sintomi essenziali di ogni specie di vita, ci ridesta la simpatia che abbiamo per ogni essere vivente. Quando il movimento intenso è prodotto dall'industria umana, noi ce ne rallegriamo, compiacendoci della nostra potenza. Quando invece il movimento è naturale, ci ridesta quasi sempre sentimenti più umili e delicati, a meno che non si sia riusciti colle nostre ricerche a scoprire un moto che non si rilevava spontaneo ai nostri occhi. I movimenti naturali producono due classi di piaceri ben distinti a seconda che siano alterni o continui. In generale i primi ci commuovono ad una affettuosa malinconia, mentre i secondi ci fanno gustare i piaceri grandiosi e tristi che si hanno dalle immagini dell'infinito. L'onda, che fremente si rompe sulla spiaggia e poi si allontana per tornare in alterna vicenda, ci interessa e ci consola, perchè ci rappresenta il moto della vita: il giorno dopo la notte, il riposo dopo la fatica, il riso dopo il pianto, il ritorno dopo la partenza. Invece lo scorrere lento e non interrotto delle acque d'un fiume ci tiene assorti in cupa contemplazione, che riesce piacevole solo per la grandezza delle idee che ci desta. L'acqua che scorre ai nostri piedi, scherza e si muove, ma passa e non ritorna; il vortice che molina e si scioglie è seguito da un altro che lo incalza e poi sparisce; la foglia che cade dall'albero è trascinata via e non ritorna; e sempre instancabile, continua, un'onda segue l'altra e il moto mai non riposa. Questo spettacolo ci offre nei suoi elementi una formula assoluta dell'eternità, un esempio del sempre. Il suicida che s'affaccia ad un fiume per precipitarvisi, ritornerebbe più facilmente addietro, se invece dell'onda inesorabile che passa e non ritorna, vedesse il lieto alternarsi delle onde sulla viva d'un lago. Anche la luce nei suoi diversi gradi di intensità può avere un valore morale. Quando è intensa ci ridesta alla vita; quando è debole e incerta ci ispira alla malinconia e alla calma. La luce di una mediocre intensità, ma tremula, ha una attrattiva speciale, e se ne ha un esempio magnifico nella calma voluttà che ci prodiga l'astro della notte. I colori hanno un valore morale di una certa importanza nei piaceri della vista. Noi chiamiamo allegri il rosso, il bleu e il giallo, che sono i tre colori fondamentali, mentre diciamo tristi il nero, il grigio o il cinereo, puro e verginale il bianco. Questo fatto, che si riscontra in tutte le lingue, dimostra più d'ogni altra cosa la natura intellettuale delle sensazioni della vista. Quasi tutti hanno una speciale simpatia per qualche colore: io, ad esempio, amo con trasporto l'azzurro. Nei paesi caldi si preferiscono i colori più vivi, mentre, là dove il sole sorride di rado, anche gli uomini amano meglio le tinte meno tenui e più cupe. Molte nazioni negre hanno una vera passione per i colori più sgargianti. Alcuni colori poi producono immensi piaceri per le memorie che vi si riferiscono; e l'esule può, in lontani paesi, piangere di gioia alla vista della bandiera tricolore. Gli esseri viventi ci interessano molte volte al solo vederli, per l'affinità naturale che abbiamo con essi; e il piacere riesce in generale tanto maggiore quanto più essi ci assomigliano. I vegetali, per quanto siano lontani da noi per ogni principio di affinità, e per quanto la loro vista sia fredda e priva di movimento spontaneo, pure ci interessano assai più dei minerali per la parte che prendono ai piaceri della vista. Il prigioniero, che tra le connessure delle pietre del carcere scorge una tenera pianticina di lichene, prova un piacere molto superiore che se avesse trovato un minerale pregiato. Le parti di una pianta che in generale ci interessano maggiormente sono i fiori, perchè appunto in essi la vita si mostra in tutto il lusso delle sue forme e dei suoi colori. La bellezza delle forme e la varietà dei colori, infatti, hanno gran parte nel piacere che ci dànno i fiori, ma non ne costituiscono l'elemento principale. Talvolta il fiorellino più modesto ci interessa assai più di un magnifico fiore smagliante, perchè una simpatia misteriosa ci lega a questi esseri delicati, a queste tenere creature del mondo vegetale. Gli animali possono piacere, quando non siano schifosi o non ci incutano paura. Tutti però in qualche circostanza possono concorrere alle gioie della vista. Il rospo si ammira nelle vetrine dei musei, come la tigre ci piace meglio quando è chiusa fra le sbarre di un serraglio. Alcuni animali ci interessano per la loro piccolezza, e il piacere che si prova contemplando una formica che passeggia sulla nostra mano, scomparirebbe del tutto, se quell'insetto avesse la proporzione di un coniglio. Altri animali rallegrano la vista col brio dei colori, colla vivacità dei movimenti, colla stranezza delle forme: alcuni di essi ispirano l'affetto, altri la curiosità. Le fiere ci dilettano per la loro potenza muscolare. L'uomo è l'animale che ci interessa più di tutti gli altri ed è naturale, sia perchè ci riguarda direttamente, sia perchè è l'essere superiore nella scala della creazione. Più d'una volta mi sono sorpreso in atto di ammirare la bellezza delle forme e la nobiltà dell'incesso che lo caratterizzano. La vista dell'uomo poi ci risveglia subito quell'affetto indistinto, che è il fondamento e la ragione prima della società. Il piacere che proviamo in questo caso sale poi di grado, a seconda dei vincoli che ci legano alla persona che vediamo. Fra lo sguardo affettuoso di una madre che divora cogli occhi il bambino che tiene fra le braccia, e l'occhiata distratta che gettiamo a chi passa per via accanto a noi, sta un mondo intero di sensazioni e di piaceri, che si riferiscono al sentimento. L'incontrarsi degli occhi è sorgente di gioie immense. Quando abbiamo dinnanzi a noi un uomo, possiamo contemplarlo e analizzarlo da capo a fondo; ma se egli si allontana senza averci guardato, noi restiamo stranieri l'uno all'altro, e la sensazione e le idee che egli ci ha destate si chiudono nei limiti del nostro io. Ma se ad un tratto i nostri occhi si incontrano, noi ci troviamo in rapporto intimo di fratellanza, e ci mandiamo mentalmente il saluto dell'uomo all'uomo. Questa corrispondenza misteriosa degli occhi non può farsi che fra esseri della stessa specie: e quando anche il nostro sguardo s'incontrasse con quello del cane che ci ama o del cavallo che ci porta, il piacere sarebbe languido e puramente sensuale. L'uomo, invece, col balenar dell'occhio, parla all'uomo e lo intende, e le due coscienze sembrano affacciarsi l'una all'altra. Una sensazione della vista può essere piacevole per le memorie che ridesta in noi. L'esule che, tornando in patria, dall'alto d'un colle scorge una semplice macchia bianca, ch'egli intuisce essere la sua casa paterna, la contempla con un vero delirio di gioia, senza che l'immagine sia per se stessa interessante. Egli contempla un oggetto che gli è caro e di cui adora anche l'immagine, e rimane sospeso fra la sensazione e il mondo di memorie che sta dietro ad essa, ma che ancora non si schiude; ed egli guarda e riguarda e si arresta, piangendo di gioia, sopra un'immagine che è pur sempre la stessa, ma che per lui diventa sempre più interessante, quanto più egli la contempla. Sotto questo aspetto, il valore morale degli oggetti può crescere a dismisura il piacere che ci danno colle loro immagini. La vista di una quercia può far delirare di gioia l'Europeo, che da lunghi anni non vede che palme e felci. Una donna che fila può far piangere lagrime soavi ad un soldato, cui rammenta la sua vecchia madre e i racconti del focolare domestico. Io non posso vedere senza compiacenza il cortile di una casa dove cresca dell'erba, perchè è sull'erba di un cortile che io ho tentato i primi passi, ho trascorso le ore più care della mia infanzia cacciando insetti e giuocando coi ciottoli, e dove ho gustato le sensazioni più vergini. La passione dominante rende piacevole la vista degli oggetti che vi si riferiscono, e produce in questo modo una infinità di piaceri diversi. Il sibarita guarda con gioia la polvere veneranda di una bottiglia a cui sta per dare l'assalto, mentre il bibliofilo palpita di piacere vedendo, ad un tratto, nei palchetti di una libreria un libro che ancora non possiede. In questo modo anche gli oggetti più indifferenti o anche ripugnanti possono essere fonti di gioia. Il malacologo ritorna a casa festoso dalla passeggiata, per una nuova lumaca che è riuscito a prendere; mentre l'anatomico rimane collo scalpello sospeso, nell'atto di una compiacenza superiore, sopra un cadavere ributtante, perchè egli ha sotto gli occhi un caso di inaspettata importanza.
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e farà il gesto di dare un bacio, di abbracciare qualcuno, di lavarsi, bere, dormire, bastonare qualcuno, od altri movimenti, ad ogni domanda il penitente risponderà cosa meglio crede.
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Enrichetto avendo compiuti gli studi liceali, e trovandosi perciò sulla soglia dell'Università, doveva chiarirsi intorno alla carriera che intendeva abbracciare. La scelta dello stato, diceva il padre, è la faccenda più importante della vita, come quella da cui dipende il carattere e tutto l'avvenire dell' uomo, e pur troppo s'ha a confessare che in ciò si procede colla massima leggerezza. Senza punto badare alla condizione, all'indole, alle spinte dell'animo, alle facoltà fisiche, morali e, intellettuali, altri si lascia far forza dai genitori o dagli amici, altri cercando solo il tornaconto s'appiglia a quello che gli promette maggior lucro; altri borioso si lascia adescare dalla vanità di un nome, e così accade non di rado che uno si trovi in tale tenor di vita, al quale riesce del tutto disadatto, e quindi continui ripetii, malcontenti, contrasti; quindi quel cambiar di professione e di mestiere, senza mai trovarne uno che gli vada, pari a quegli infelici di Dante, condannati a volgersi continuamente senza posa mai. La maggior parte poi di costoro finisce per far niente. Ripeteva il signor Carlo che tutti debbono avere una occupazione, dal ricco sfondolato all'ultimo operaio, secondo la condizion loro e facoltà; rammentava la professione del Cardinal Federico Borromeo nel Manzoni, che la vita non già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni; ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto. Quindi ben a riprendere devono essere coloro che dicono: «tant' e tanto sono ricco, e non ho bisogno di lavorare; non ho mestieri di prendere una carriera per vivere; oppure io prendo cosi una professione per aver un titolo; ma non voglio punto esercitarla». E chi sei tu, esclamava egli, essere privilegiato che vai esente dal lavoro? Dunque a te inutili strumenti sono e le braccia e le mani e l'intelletto che ti diè la Provvidenza? La società umana è una grande macchina che per volgersi si richiedono le mani di tutti i viventi, e tu vorrai negare le tue, vorrai essere un attrito, un inutile ingombro al girarsi di quella? Il re sul trono, i magistrati ne' tribunali, l'operaio nelle manifattorie, il contadino ne' campi, concorrono tutti nella grand'opera della civiltà. Ogni uomo venne su questa terra per portare il suo sassolino al grande edifizio sociale; chi viene solo per comparsa, è come l'albero che solamente dà foglie il quale aduggia e reca danno a'fruttiferi; o meglio sono piante crittogame che incagliano la maturanza de'frutti. Ogni professione è buona ed onorata, purchè onesta e onestamente si eserciti; l'avvocato, il medico, il legnaiuolo, il ciabattino sono egualmente degni di rispetto, quando nell'esercizio dell'arte loro si mostrino capaci e virtuosi. Laddove per alta che sia la tua carica, tu riuscirai biasimevole e brutale, ove ti mostri inetto, o la deturpi colle tue nequizie. A questo proposito nel giornale di Enrichetto si leggevano le seguenti considerazioni, tratte da Silvio Pellico. « Entra in quella carriera, a cui sei chiamato e » t'innoltra, ma portandovi le virtù che richiede. Mediante » tal virtù ogni stato è eccellente per chi v'inclina. » Il sacerdozio che spaventa chi l' ha abbracciato » per leggerezza e con cuore avido di divertimenti, » è delizia e decoro ad uomo pio e ritirato.... » La toga che molti portano quasi enorme peso, per » le pazienti cure che esige, è grata all'uomo in cui » prevale lo zelo di difendere col senno i diritti del » suo simile. Il nobile mestiere delle armi ha un incanto » infinito per chi arde di coraggio, e sente » non esservi più glorioso atto che l'esporre i suoi » giorni per la patria. Mirabil cosa! tutti gli stati, » dal più sublime, sino a quello d'umile artigiano, » hanno la loro dolcezza ed una vera dignità! Basta » voler nutrire quelle virtù che in ciascuno stato son » dovute. Solo perchè pochi le nutrono s'odono tanto » maledire la condizione che hanno abbracciata. Ogni » via della vita ha le sue spine, dacchè ponesti il » piede in una, prosegui, retrocedere a fiacchezza. Il » persistere è sempre bene, fuorchè nella colpa. E solo » chi sa persistere nella sua impresa può sperare di » divenire alcun che di segnalato ». Enrichetto per altro non ebbe molto a riflettere sulla scelta dello stato. Egli fin da ragazzino era preso d'ammirazione per il medico di sua casa, da cui aveva appreso tante buone massime, e tante profittevoli abitudini, e più cresceva negli anni e più apprezzava la bontà, l'onestà, la scienza, l'operosità, la tenacità nel bene di lui; onde la medicina, che vedeva in figura nella persona di quello, gli pareva la più bella professione che potesse abbracciare. Senza che l'arte salutare, l'andar per le case ad asciugar lagrime, a sollevare dolori, meglio rispondeva a quel bisogno istintivo dell'animo suo di far del bene a ogni persona.
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. - Non abbracciate il guidatore e non lasciatevi abbracciare: si sa che l'amore è cieco, ma appunto per questo in automobile non va bene. - Non chiedete l'auto in prestito: sono pochissimi gli spiriti liberi che possono prestarvi l'automobile senza inenarrabili angosce. È più facile trovare chi presta la moglie.
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No, io lo conosco, io lo indovino il tuo cuore: tu, quantunque forse dama nobile e ricca, non isdegnerai abbracciare teneramente la tua antica maestra, baciare la mano del tuo professore, e ripetere ad entrambi le proteste che oggi al tuo uscir di collegio fai con tanto cuore; proteste di riconoscenza, di amore. Prima di lasciare il collegio, pensa alla cara Madonna, a quella santa verginella che passati nel tempio gli anni della sua fanciullezza, ne usciva con pieno l'animo di santi affetti, ricca la mente di utili e sante cognizioni. Oh! pregala ben di cuore quella cara Vergine, e com'essa e con essa saluta le tue compagne, rientra nella tua casa, e preparati a far del bene. Che cosa vuol dire far del bene? Vuol dire vivere. Che cosa vuol dir vivere? Vuol dir far del bene. Oh! sì, comincia adesso, e continua sempre a far del bene ed a farne tanto quanto puoi, più che puoi, e sarai felice quanto io ti auguro.
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Vi ha un altro amore di carità che dobbiamo, in Dio e per Iddio, a tutta intera la umanità, e questo amore ci fa abbracciare in un solo amplesso gli uomini di tutte le età, di tutti i paesi, di tutte le condizioni, di tutte le religioni, gli amici come i nemici, i lontani come i vicini, poichè tutti ci fa chiamare col nome di prossimo nostro; e dicendo prossimo ci dice che tutti debbono esserci cari, che per tutti dobbiamo pregare, che a tutti dobbiamo far del bene, dimenticando le ingiurie di chi ci ha indegnamente offeso. Ma non è ancora di questo amore che io intendo parlare, perchè questo pure preso così in generale non ha bisogno di essere infrenato, perchè con esso non facciamo che considerare Iddio nelle sue creature. Io intendo parlare di un altro sentimento buono e santo; ma che, se sregolato o sviato dal suo giusto indirizzo, può portare in noi gravissime conseguenze, e pur troppo bene spesso irreparabili. Vi ha chi sentenzia che il cuore umano è un sultano ed un despota al quale non si può comandare; altri lo dice un puledro indomito intollerante di freno. Io lascio al libero pensatore la libertà di pensare come gli talenta, ma per me dico ed affermo che il cuore umano se é un re, può e deve essere un re giusto e non un despota; se è un puledro, non è indomito se non quando gli si gettano le briglie sul collo. Oh! credilo, mia diletta, guai a coloro i quali non sanno infrenare il loro cuore! da indomito ch'egli era diventerà presto indomabile; da fonte di vita, si muterà in fiumana devastatrice che tutti s'ingojerà i frutti passati e perfino i frutti avvenire, ed in luogo di terreno fertile e fecondo non ti resterà che un letto di arena... Attenta, figliuola, non ti lasciar pigliare la mano dal tuo puledro; ma infrenalo, tieni tese le briglie, in modo che sia sempre in poter tuo regolarne le mosse. Lo so essere questa ardua impresa, ma se ogni giorno, in ogni pericolo dirai col cuore: Madonna, ajutatemi! e ne invocherai veramente la protezione, ciò che a tutta prima ti sarà sembrato ostacolo insuperabile, non sarà se non una lieve difficoltà che vincerai in brev'ora. Non finirò mai di ripeterlo, e tu fa di rammentartelo ognora:la briglia al cuore, tieni la briglia al cuore, se non vuoi essere da lui trascinata dove non vuoi, dove non devi; se per poco egli s'accorge che tu lo lasci ire a suo capriccio, ti si metterà a far tali salti, tali capriole, da non lo poter più richiamare al dovere. Ti rechi talora in una conversazione, ad un passeggio, e, mi ripugna a dirlo, perfino in chiesa; e nella conversazione, al passeggio e perfino in chiesa vi ha un cotale che pare abbia il torcicollo, e sia sempre sempre obbligato a guardare dalla parte dove tu sei. Ti trovi talora in una società o ritrovo, e quel cotale non trova bello se non ciò che è tuo o piace a te; non sa discorrere se non con te e di te; trova eloquente il tuo silenzio, affascinante il tuo parlare, e se suoni, o canti, o dipingi, non v'ha per lui chi suoni, canti, o dipinga come tu fai. Io sono ben aliena dal distoglierti dall' idea di un giusto e buon collocamento; ma ti assicuro questa non è la via per ottenerlo, e se ti vedessi attorno uno di codesti vagheggini non esiterei a dirti: metti la briglia al cuore, non è costui che ti vuol chiedere in isposa, non è costui che renderà invidiate le tue nozze e il tuo focolare. Eppure, pare incredibile, io so di qualche giovinetta che si strugge d'invidia, vedendo taluna delle sue amiche soggetto di una simile cortigianeria. Inconsiderata! e non capisci che questo è un agguato del maligno per rubare il cuore dell'inesperta? Sì, probabilmente tu sarai chiamata da Dio a ricevere il settimo Sacramento; ma se lo vuoi ricevere degnamente, devi prepararti ad esso con raccoglimento e con fede. Sì, probabilmente tu sarai chiamata a donare il tuo cuore ad un uomo...; ma se vuoi riceverne il suo in cambio, bisognerà che il tuo si conservi vergine, intatto, non offuscato da nessun alito, da nessuna macchia... Sì, probabilmente il Signore benedirá le tue nozze; ma se vuoi che copiosa scenda la benedizione sul tuo capo, fa che il tuo velo nuziale sia candido ed immacolato come il giglio che rappresenta la tua purezza, odoroso come il fiore d'arancio che s'intreccia nella tua chioma!... Ma forse, forse, neppure tu sei chiamata a porre in dito quell'anello che nel suo circolo senza sortita rappresenta la continuità del vincolo che con esso si suggella: forse tu sei destinata ad essere l'appoggio dei vecchi giorni dei tuoi genitori, ovvero il bastone e la guida dei minori fratelli e dei nipoti... Forse Gesù ti vuol fare sua sposa... Pretenderesti forse, col legare e vincolare il tuo cuore ad un uomo, di mutare il tuo avvenire? Oh! no, il buon Dio vuole per te quello che è pel tuo meglio; vuole per te quello che ogni giorno tu gli domandi dicendo: Sia fatta la vostra volontà; e se sprechi il tuo cuore, se lo sciupi in folli amori, quel povero tuo cuore tornerà a te sanguinante, indebolito, incapace di forti e santi affetti! Fanciulla, io ti amo, ti amo molto in Dio; ma non ti conosco, e, ti conoscessi ancora, sarei bene stolta se pretendessi, nuova Sibilla, vaticinarti la sorte che ti attende. Quello però che so infallibilmente si è che sarai chiamata a formare ed a reggere una famiglia. Colui senza del quale neppur uno può essere toccato dei tuoi capelli, se saprai infrenare gli affetti tuoi, ti presenterà l'uomo del quale assumerai il nome, i diritti, i doveri, vivessi, tu pure lontana dalla società, in un monastero o perfino ti trovassi relegata in una spelonca. Che se sarai chiamata a vivere celibe, l'essere circondata da mille adoratori, nè il brillare in società per le più belle e vistose doti, non ti gioverà punto a procurarti ciò che tanto ambisci e che per te sarebbe certo un male. In ogni modo, sia che ti mariti o no, non devi donare il tuo affetto ad un uomo prima ch'ei t'abbia chiesta in isposa, e prima che tutto sia combinato e sia prossimo i tempo di congiungerti a lui. E poi non basta; dà a quell'uomo il tuo affetto con misura e con ritegno, prima di essere a lui unita in modo indissolubile, perchè potrebbero nascere ostacoli tali da allontanarlo da te, e rendere vane le trattative precedenti. Che ne sarebbe di te se tutto gli avessi abbandonato il tuo cuore? Un fatto si può dir giornaliero, e che tu stessa potrai constatare se addentri un momento lo sguardo nelle famiglie che ti circondano, si è che sono più strette e più invidiabili quelle unioni le quali non sono state iniziate con pazzie amorose. E ciò è ben naturale, se consideriamo che appunto chi è facile una volta a donare il suo cuore, senza ritegno nè precauzione di sorta, non saprà poi infrenarlo allorchè sarà consacrato irrevocabilmente al compagno ricevuto da Dio. I divorzj, le guerre delle famiglie, quelle guerre intestine che ne rovinano gli animi e gl'interessi, quei blasoni caduti nel fango, le discordie d'ogni maniera, se risaliamo all'origine, non la troviamo forse sempre in un amore mal collocato, intempestivo o colpevole? Se tu mi dicessi che ti è fatica porre la briglia al cuore, io ti risponderei che neppur io la credo agevole cosa; ma la credo bensì possibile, possibilissima coil'ajuto di Dio, se conscia della tua fiacchezza ed impotenza ti rivolgerai a Lui per essere sorretta e guidata. Sì, tieni la briglia del tuo cuore in modo che sia sempre in tua mano il dirigerne e regolarne gli affetti, tel ripeto, e qualunque sia lo stato al quale ti chiamerà la Provvidenza, sarai sempre contenta e fortunata, se potrai dire; il mio cuore l'ho custodito gelosamente. Non ti fidare per pietà di te stessa, di chi ti guarda, ti ammira, ti adora! Pensa che Dio solo è degno delle nostre adorazioni: Lui adora, Lui ama, a Lui cerca dirigere sempre il tuo cuore; a Lui pensa prima di donarlo a chicchessia, fosse pure un angelo sceso dal cielo, fosse... A Dio, a Dio il tuo cuore! non lasciarne la briglia a nessuno se non a Colui che te lo ha donato così ricco di affetti, di buone inclinazioni. No, non te lo lasciar rapire: guardati dai ladri!
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Come regola generale io non esito a dichiarare che i genitori sono i primi, i naturali maestri dei figli, e che essi, meglio degli altri conoscendone lo spirito e la capacità, ponno anche dirigerli e guidarli nella carriera che debbono abbracciare, nello stato al quale vogliono consacrarsi. Ma se tu mi hai ben ascoltato, amica buona, io ti ho detto che i tuoi genitori ponno dirigere e guidare la tua vocazione, mai e poi mai importene una. Come suona, la parola vocazione significa voce che chiama, e questo è ben differente dal sentire desiderio, bramosìa, smania per uno o per altro stato. Molte ottime e brave signore amano, prediligono, se vuoi anche invidiano le Suore della Carità; ma tuttavia non hanno punto errato loro via nel diventare mogli e madri, poichè se dal frutto, come dice il Vangelo, si conosce l'albero, dalla invidiabile loro riuscita si può ben asserire che quello da esse abbracciato era lo stato cui le chiamava Iddio. La vocazione adunque non ti può venire altronde che dal Signore, non mai nè dai parenti, nè dagli amici, e neppure dalla tua volontà, la quale, è innegabile, è però spesse volte lo strumento di cui si serve l'Altissimo per farti sentire la sua, ma che molte fiate rimane estranea e fino divergente. Un tale, che divenne mio parente, in sua gioventù coltivò è vero gli studj e si laureò in parecchie facoltà; ma giovandosi di tutti i vantaggi che gli davano un bell'ingegno, un largo censo, l'avvenenza della persona e le numerose aderenze, si godeva una vita piuttosto libertina che libera. Parve infine volesse metter giudizio, e chiesta ed ottenuta la mano di nobile donzella s'avvicinava il dì delle nozze da entrambi sospirato. Sorge finalmente l'alba aspettata, la giovinetta bianco vestita sta coprendosi del candido velo nuziale; ma ancora lo sposo non arriva. Si corre in cerca di lui, non si trova; si cerca ancora e si sente ch'egli è fuggito sotto mentite vesti da quella città: il fratello della fidanzata lo insegue, ma non gli riesce di raggiungerlo. Alcuni anni dipoi Guglielmo... si presenta al padre e con tono umile, ma risoluto gli dice: « Fino dalla mia prima giovinezza mi sento chiamato al chiostro: ma io non volevo farmi frate, quindi ho tentato ogni mezzo, ho voluto godere il mondo, le sue lusinghe, e vedendo che ancor non bastava a far tacere quella voce potente, ho voluto stringere nozze per ogni rapporto desiderabili ed invidiabili. Al punto di recarmi all'altare a giurar fede ad una donna, più forte quella voce ha gridato dentro di me; quasi una mano di ferro mi ha trattenuto, mi ha distolto dall'appressarmivi. Ho lottato ancora alcuni anni; ho tentato far tacere i miei rimorsi immergendomi nuovamente nel piacere e nel libertinaggio; ora non posso, non voglio più resistere, voglio dedicarmi a Dio. » Non è a dire la meraviglia del padre e dei parenti; ma questa aumenta a mille doppj quando la già orgogliosa testa di Guglielmo riceve umilmente la tonsura; quando, Barnabita, è un miracolo di pietà e di zelo quando fonda scuole, collegi e ad essi dedica non solo i suoi averi, ma più ancora la sua vita; quando, quasi l'Italia non bastasse al suo zelo, fu chiamato a Parigi a fondar scuole; quando finalmente su quel capo venerando posa l'onorevole carica, ch'egli degnissimamente disimpegna, di Generale della Compagnia, fino a quel giorno in cui da tutti venerato e compianto, fino dall'augusto Pontefice Pio IX, il suo spirito ritorna nel grembo di Dio. Mi pare che da questo fatto potrai rilevare tu stessa cosa sia la voce di Dio, la vocazione. È una voce indipendente da noi, indipendente dagli altri, indipendente dalle circostanze; è una voce che da noi ascoltata e secondata come, benchè troppo tardi, fece colui del quale ti ho fatto il racconto, porta frutti di vita; è una voce che da noi attutita, ributtata, ci trascina da un male in un altro peggiore, come lo prova la sua gioventù, e come assai meglio lo provano i grandi apostati della religione. Lutero, Calvino, Zuinglio, e tutta la loro obbrobriosa schiera, è gente che chiamata forse al secoio, ha voluto per seconde mire indossare il sajo e la cocolla; è gente che, sbagliato un passo nel sentiero della vita, è tosto precipitata nel burrone, nel precipizio che la doveva condurre a rovina. Se adunque i tuoi genitori, non contenti di suggerirti lo stato che credono a te più conveniente, osassero importelo, tu, forte della forza stessa di Dio, puoi liberarti da un laccio che ti affoga, ti strozza, poichè qui stanno i confini dell'obbedienza ad essi dovuta. Se essi pretendessero che tu li superassi questi confini, la loro sarebbe una pretesa, non un diritto; e tu potresti liberamente seguire quella voce che ti viene dal Cielo, e che ti si farà sentire chiaramente, nettamente, e dentro di te colle inspirazioni, e fuori di te coi consigli delle persone buone, e soprattutto colla parola illuminata di chi dirige la tua coscienza in nome dell'Altissimo. Tu sei dispensata non solo dall'andar monaca, o dall'andare a nozze se ciò ti ripugna; ma neppure sei obbligata a quel tal chiostro o a quelle tali nozze che ti si vogliono imporre, poichè il Signore, vero amante della libertà, ti lascia quella di scegliere liberamente. Ti ripeto, niuno più dei tuoi genitori ti ama e desidera veramente il tuo bene, quindi sarebbe un delitto imperdonabile il tuo, se non dipendessi dal loro consiglio e dalla loro esperienza. Qualora poi tu veda chiaramente che essi si oppongono alla tua libertà, tu non sei pù obbligata di obbedirli in proposito; ma quando il loro avviso non diverga di molto da quello che senti dover seguire, tu devi cercare di obbedirli, poichè può essere solo un'eccezione quella che ti dispensa da questo dovere. Se il Signore ti chiama al drappello dei vergini, non chiudere gli occhi alla luce; ma volonterosa e gaudente stringi in mano il giglio della purezza, e com'esso diverrà candido ed olezzante l'esser tuo che molto assumerà dell'angelico. No, non calpestare quel giglio; calpesto, ei diverrà marciume fetente e tu com'esso! Oh! se il Signore ti chiama al drappello dei vergini, a quel drappello di cui Egli è capo, non esser tarda a rispondere all'invito; ma corri, ma vola e benedici al Signore d'averti dato la parte migliore. Se il Signore ti chiama al drappello dei vergini, gli è ch'Egli solo vuol essere tuo sposo, egli ti vuol libera da ogni legame terreno: allora, corri, vola, va in braccio a Lui che ti chiama!... Se in quella vece il buon Dio, amante e padrone dei cuori, ha fatto sentire al tuo una voce che t'invita a porre in sul dito l'anello di sposa, attendi pazientemente, ed accetta allegramente quello sposo che da Lui ti verrà presentato, e che per una certa parità di principj, di educazione, di condizione e di età, a te meglio si addice. Tu devi guardarti bene dal seguire in questa scelta il capriccio o la passione; ma qui più che mai t'è d'uopo porre le briglie al tuo cuore per imperarlo, mentre il più delle volte i matrimonj combinati dietro l'impulso della passione sono fatti all'impazzata, senza tener calcolo delle parità e convenienze accennate più sopra, e sono quindi seguiti miseramente da discordie, da divisioni e perfino da gravi delitti. Segui nella scelta dello sposo il parere saggio ed illuminato dei tuoi, quando non ti senta aperta ripugnanza, nel qual caso potrai stare aspettando una circostanza migliore, guardandoti possibilmente dallo stringere un nodo al quale non vada unita la benedizione dei genitori. La benedizione dei genitori è sorgente di tutte le altre benedizioni, ed io tutte le invoco sul tuo capo; sul tuo capo che forte abbastanza per levarsi e seguire prontamente la voce del Signore, saprà altresì umiliarsi per ricevere i lumi di chi glieli comunica per parte di Dio. Riepilogando dirò, che tu sei obbligata sempre ad obbedire il padre e la madre tua; sempre quando il loro comando non sia in contraddizione colla giustizia, od in opposizione al voler del Signore, il quale è unico assoluto padrone delle sue creature non solo, ma delle vocazioni. Sempre tu adunque sei tenuta ad obbedire il padre e la madre tua, e ricordati che sei dispensata, anzi obbligata a non obbedirli, quando per obbedire ad essi tu debba disobbedire a Dio; orbene questa non è nè può essere se non un'eccezione, e questo non te lo dimenticar mai. Se anche tu sarai forzata a trovarti in un'eccezione, quando ti mostrerai e sarai veramente soggetta, devota, affettuosa coi tuoi genitori in tutto quanto è giusto, potrai e saprai dir loro umilmente ma francamente: Dio mi é padre prima di voi, io debbo obbedire Lui solo, e quantunque ti possano essere riserbate delle lotte, e delle lotte acerbe, il tuo cuore, benchè addolorato, conserverà una calma inalterabile, e, non tarderà molto, l'iride della pace ritornerà sull'orizzonte della tua esistenza; cesseranno gli odj, si riuniranno i cuori, poichè Iddio non rifiuta mai la sua benedizione ad un'opera stata iniziata, coltivata o posta a termine sotto i suoi auspicj. Quanto a te, io come amica tenerissima ti amo, e ti desidero che tutta scorra serena la tua esistenza, che mai tu sii forzata a dire ai tuoi genitori: questi sono i confini dell' obbedienza che vi debbo. Oh! risparmiate, buon Dio, alle care giovinette che leggono questo libro un tale strazio, una simile pena; Voi suggerite alla mente, al cuore dei loro genitori quello che a loro si addice, affinchè invece di contrariarne la vocazione, la secondino, l'appaghino, e genitori e figliuole si meritino un giorno di sedere con Voi in Paradiso, dove non più lotte nè dolori, non più responsabilità nè restrizioni, ma gioja, pura, ardente, eterna, sarà il pascolo di quell'anime beate. Padre nostro che siete ne' cieli, sia santificato il nome vostro, sia fatta la vostra volontà come in cielo così in terra! 23
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E credilo fermamente, mia cara; ogni cosa buona che si apprende, torna utile un momento o l'altro; e noi non dobbiamo abbandonarci a quella dottrina poltrona e rovinosa che ci fa attaccare unicamente, e vorrei dire, avaramente, a quanto ci riguarda strettamente oggi; ma pensare e vedere con una testa ed un occhio meno limitato e circoscritto, e quindi abbracciare tutto quello cui possono arrivare le nostre forze e la nostra capacità. Poniamo tu sii la sorella maggiore o mezzana, e che, per circostanze speciali, graviti sulle tue spalle intero o quasi intero il peso della direzione della famiglia, e specialmente dei fratelli e delle sorelle. In tal caso la tua virtù d'annegazione dovrebbe arrivare alla generosità per metterti all'altezza del tuo ministero, e senza rinunciare alla giovialità ed alla semplicità che debbono essere l'abito costante della tua giovinezza, tu dovresti circondare il tuo petto d'una corazza invulnerabile di fortezza d'animo per renderti capace a superare ed a vincere le battaglie della tua condizione. Molto probabilmente qualche sorella e più ancora qualche fratello sfaccendato che vorrà farla da saccente, troveranno grave l'obbligo di stare a te soggetti; ma ove tu adorni il giogo di tenero amore, di un amore che ti renda facile all'ajuto, di un amore insomma che renda quel giogo leggiero e soave; il fratello e la sorella non cercheranno più di scuoterlo, ma saranno contenti di portarlo teco. Per venire però alla spiegazione pratica della cosa, sarà meglio discendere ai particolari, perchè se è bene formare in noi stessi un criterio complessivo che c'indichi i nostri doveri e ci mostri la loro importanza, questo criterio riesce spesso inutile e vago se dall'astratto non scendiamo al concreto di quella vita d'ogni giorno, di quella vita combattuta da quei cento e mille obblighi e contrasti che tentano deviarci dalla retta via, turbando la nostra pace e confondendo le nostre idee. Se a te spetta la direzione della famiglia, io vorrei vederti donnina fin d'ora; non già ch'io pretenda e neppure che io permetta tu ti spogli come t'ho detto poc'anzi della tua giovialità e dello slancio dei tuoi vent'anni; ma io desidero che a questi vantaggi tu aggiunga gli altri di una certa sodezza di principj e di condotta che ti facciano non tanto parere, quanto ti facciano veramente diventare una donnina, una cara donnina. Mi pare quasi di vederti come in uno specchio, lesta il mattino levarti di letto prima degli altri, volare appena ti sia possibile in Chiesa ad assistere all'incruento Sacrificio della Messa, ed intanto recitare le tue preghiere, fare la tua meditazione, prepararti agli avvenimenti possibili della giornata; quindi ornato il cuore e lo spirito dalla grazia e dalla luce che partono dal Tabernacolo Santo, far ritorno alla casa che te sola aspetta per risvegliarsi, per accogliere bramosa, insieme coi raggi del sole, i raggi di carità che emanano da tutta la tua persona. Sì, ho detto i raggi di carità, poichè tu sei pronta ai bisogni d'ognuno, dei grandi, dei piccoli, dei superiori, degli uguali e degli inferiori; hai occhio a tutto e nulla sfugge alla tua penetrazione. Questi ha bisogno di essere sollecitato, quello ha d'uopo di freno; questi ha bisogno una parola di conforto; quello ha d'uopo d'essere corretto, ed a tutti tu rivolgi la parola prodigiosa. Ciò riguardo allo spirito; ma tu sai che l'uomo è composto non di solo spirito ma altresì di corpo, ed a questo pure si rivolgono le tue solerti cure. Tu prevedi i bisogni dei tuoi sudditi, e regnando sovr'essi con un regno di devozione, di sacrificio, ti privi per essi, ti posponi ad essi, e ti sforzi procurar loro il bisognevole vestimento, il nutrimento, l'istruzione, e tutto quanto ponno e debbono desiderare. Ma saggia ugualmente che premurosa, tu misuri il vitto e le vesti alla condizione e, più ancora allo stato finanziario in cui ti trovi, e fedele a quell'assioma: è utile abituarsi piuttosto al meno che al più, abitui te stessa ed i fratelli tuoi ad una vita frugale e scevra affatto da quelle leccornìe e da quelle levigature che ci rendono piuttosto servi che padroni, assuefacendoci a quelle esigenze e quei bisogni che costituiscono altrettante privazioni, quando taluna delle molteplici combinazioni e casualità della vita ci rendono difficile o penoso il conseguirle. Pulito ma semplice e non molto dispendioso sia il vestire, e parimenti semplice e sano il pasto: una sola la voce che chiama i componenti la famiglia alla refezione del mattino, refezione uniforme per tutti, tranne l'unico caso di malattia di alcuno: si contenti oggi il gusto dell'uno, domani il gusto dell'altro; ma, ripeto, ognuno si adatti a quello che è preparato per tutti. Io credo e credo fermamente che non solo dall'osservanza di questa regola sia giovato il buon andamento e l'economia domestica in modo assai rilevante; ma so per prova che altamente ne è giovato l'indirizzo morale e intellettuale degli individui. E perchè ridi a questa mia proposizione? Ti pare strano e quasi incredibile che ci abbiano a che fare tra loro le vivande ed i costumi, le vesti e l'intelligenza? Prendendo la cosa così vagamente si crederebbero davvero impossibili tali rapporti; ma se per poco tu esamini ben benino la faccenda, ci scommetto, converrai perfettamente con me. Ma ora mi avvedo che se mi dilungo in quest'argomentazione, perdo di vista, od almeno mi allontano da quello che più davvicino riguarda i doveri della sorella maggiore; e però mi riservo di comunicarti le mie idee in proposito ai legami che passano tra il vitto ed i principj, nella conferenza che tratterà dei pranzi e quindi della ghiottonerìa. Tu adunque, donnina provvida e previdente, dopo la colazione comune ed uniforme, mandi alla scuola quelli tra i tuoi fratelli e sorelle che ci debbono andare; ma li mandi dopo d'esserti bene accertata che hanno compiuto con diligenza i loro cómpiti, e dopo d'averli tu stessa guidati ed indirizzati al bisogno. Fra il giorno ti occupi della casa, dei genitori, se Iddio te li ha serbati, e quando le tue forze pajono indebolirsi, e il tuo cuore ha bisogno di qualche cosa che lo sorregga, lo levi a Dio, e pur toccando coi piedi la terra, sollevi al cielo il tuo spirito tuffandolo, per così dire, nel mare di dolcezza che è il cuore di Gesù, e ti senti incoraggiata, rinforzata, rinnovata. La convivenza con diverse persone d'indole probabilmente differente e fors'anche opposta, ti costerà non solo fatica, ma bene spesso contrasto: quel contrasto che non potrà essere vinto con altra arme se non con quella della virtù e dell'annegazione, cercando costantemente di correggere il carattere tuo e quello dei tuoi soggetti ed uguali. Qualche volta dal tuo petto uscirà prolungato e mesto un sospiro, le tue braccia come stanche ed abbattute si abbandoneranno in atto di prostrazione; ma se il tuo occhio si solleverà in alto e s'incontrerà con qualche immagine della Vergine Santa, che la tua pietà porrà in ogni angolo della casa, quasi a profumarla, a santificarla, Essa, la Mamma nostra pietosa, t'infonderà una virtù, una forza, che ti renderà capace di tutto fare, di tutto ottenere, di trionfare delle maggiori difficoltà. La tua operosità non interrotta, permettendoti di sollevare tratto tratto il tuo cuore alla fonte dell'amore, renderà amabile la tua compagnia, efficace l'opera tua ed oltremodo feconda, e non ti priverà del necessario riposo della mente e del corpo. Questo riposo ti verrà talora da una passeggiata; talora da una visita carissima fatta o ricevuta; talora da una buona lettura; talora da una combinazione imprevista, che Dio penserà Lui stesso a mandarti se vedrà che l'avrai meritata; ma il riposo in un modo o in un altro verrà, stanne pur certa. Dopo di avere dedicato te stessa ai tuoi fratelli, ti guarderai bene di far loro sentire il peso del tuo sacrificio, poichè essi, oltre al provarne umiliazione, ne sarebbero molto probabilmente irritati, e questo non concorrerebbe sicuramente a rendere efficace l'opera tua, ma l'attraverserebbe e le sarebbe di ostacolo spesso insuperabile. Il tuo regno, tel ripeto ancora, il tuo regno sia regno di amore, di dolcezza, ed essendo condiscendente in tutto quanto non urta il principio e la regola indeclinabile della casa, potrai usare di una santa fermezza in tutto il resto. Le tue cure non saranno interrotte nella giornata, nè dal ritorno a casa dei tuoi, nè dal loro coricarsi, osservando tu sempre pel pranzo e per tutto il resto quelle massime di uniformità e di economia alle quali ho solo accennato, ma che tu hai bene compreso. Guai se tu facessi delle preferenze, o parzialità, guai! ne andrebbe grandemente compromessa la tua autorità e svanirebbe il tuo ascendente! Tu, come angelo della famiglia, appartieni non tanto alla terra quanto al cielo, quindi non devi tenerti paga di curare nei fratelli e nelle sorelle la vita del corpo; tu devi, curare assai più in essi la vita dell'anima, quindi offrir loro in te stessa l'esempio di una fede cieca, operosa, costante. Tu devi avvalorare il tuo esempio con buoni consigli, con saggi ammaestramenti, insegnando tu stessa ai tuoi fratelli ed alle sorelle le verità della religione, le preghiere e le pratiche, ajutandoli a compierle, conducendoli alla Chiesa, ai Sacramenti, alla predica e anche più alla spiegazione della Dottrina Cristiana. Oh! se tu con quella dolcezza insinuante che nella bocca di una giovinetta semplice e virtuosa acquista tale un fascino da cui non sanno sottrarsi neppure le anime inveterate nel vizio e nell'incredulità, se tu con quella dolcezza inviterai, ammaestrerai coloro che teco hanno comune la nascita, l'educazione, la fortuna e perfine il nome, oh! la tua famiglia si manterrà o diventerà una famiglia di santi, una famiglia veramente invidiabile. Che se il demonio riuscirà ad infiltrarsi in quel santuario consacrato dalla tua presenza e dalla tua virtù, e prenderà dominio di taluno dei tuoi cari, oh! non ti perdere di animo, no non ti perdere di animo! il Signore permette che il tuo cuore sia trafitto, ma solo per rinvigorire, per ritemprare la tua costanza! Già ti pare quell'anima diletta sia perduta nell'abberramento dell'incredulità o delle passioni; già ti pare veder quell'anima sull'orlo del precipizio che la deve gettare in un luogo di eterna riprovazione; già tu la vedi precipitata... No, non temere, non temere; là in fondo a quel cuore sopita, ma non morta, c'è l'idea di Dio, anzi la fede in Dio; quell'idea di Dio si risveglierà, la scuoterà, la muterà, la risusciterà, e quello che ti sembrava un tizzone d'inferno, diventerà carbone ardente sull'altare del Dio che tu adori, che tu ami! Oh! è pur bello quel racconto evangelico in cui si narra come gli apostoli si trovavano sul mare, e questo furioso ingrossava, ingrossava; le onde si sollevavano spaventosamente; il vento sibilava con orrido suono e quegli uomini la di cui fede era ancor debole e vacillante, si spaventarono, e svegliarono il maestro divino che sul fondo della barca placidamente dormiva. E, non temete, diss'egli con quella sua voce soave, e levatosi in piedi comandò ai venti ed al mare, e si fece bonaccia. Fatti animo, figliuola, quel fratello, quel padre, quell'anima che ti preme, è la barca in preda alle onde; ma in fondo alla barca 26 c'è Gesù, quel Gesù che vi è stato collocato nell'infanzia, nella primitiva educazione... Destalo tu Gesù in quel cuore, colla tua fervorosa, incessante preghiera, e quel Gesù si alzerà, e dicendo: Non temete, porrà in silenzio il vento delle passioni e ritornerà nel tuo diletto congiunto la calma, la pace... L'arcobaleno sfoggia nel cielo azzurro i suoi bei colori, e ti annunzia il sereno, la fede. Leva a Dio l'inno del tuo ringraziamento!
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Di più io trovo debole la persona che vuol sostenere il suo punto a spese della giustizia, perchè non ha nè occhio, nè slancio, nè forza di rigettare il male e di abbracciare il bene, e non isdegna compromettere la propria dignità tollerando un'accusa della quale non potrà mai giustificarsi, perchè giusta e meritata. Giuda Iscariote aveva venduto il suo Maestro per trenta denari; gli dolse del proprio delitto; ma debole e vigliacco non volendo riconoscere il proprio torto, e sdegnando di correre ai piedi del Salvatore a chiedergli perdono, con una corda liberò la terra dalla sua presenza, attirando sopra di sè un'eternità di tormenti e l'obbrobrio delle generazioni future! S. Pietro invece dopo d'aver rinnegato non una ma tre volte il suo Gesù, rientrato in sè stesso se ne dolse, pianse amaramente, ed una pia tradizione dice che si è gettato nelle braccia della Madonna a sfogare il suo dolore e il suo pentimento. E chi ha mai trovato, e chi potrà mai trovare debolezza in quest'atto così sublime, in quest'atto che dinota rettitudine di giudizio, e più ancora sensibilità e delicatezza di cuore? Per me trovo l'eroismo in colui che dice mi pento, anzichè in colui che caparbio non vuol piegare la fronte, e ostinandosi a non riconoscere il proprio torto, si fa conoscere cieco ed ingiusto, ovvero ingannatore. Io amo assai quella bella costumanza di quelle damigelle che, com'è ben naturale accada ad ognuno, accorgendosi d'aver sbagliato per debolezza o per ignoranza, stringendo la mano della mamma o del papà, od abbracciando teneramente i fratelli e le sorelle, chiedono loro perdono e promettono di emendarsi del proprio fallo; pentimento e promessa che esse rinnovano ai piedi del Crocifisso, il quale li compensa con una soddisfazione tanto maggiore, quanto più intima e sincera. E tu, mia dolce amica, sii buona con tutti, guardati dall'offendere chicchessia, e se ti duole abbassarti a chieder perdono, fa di non metterti nella necessità, ma stattene ben bene in guardia sovra te stessa e specialmente sul tuo carattere; ma se per disgrazia hai fallato, umiliati, e non rendere più grave la tua colpa coll'ostinarti a sostenerla. Non essere tarda a far piacere a coloro cui l'opera tua può tornare di ajuto o di conforto; sii obbediente coi maggiori, affabile cogli uguali, condiscendente coi minori fratelli. Ma una cosa, che caldamente sopra le altre ti raccomando, si è di avere nel tuo decoroso contegno un amorevole e sincero compatimento pei difetti altrui, di smorzare la tua suscettibilità, di non tenerti facilmente offesa da quelle che sono o ti pajono mancanze di riguardo: credilo, credilo, mia cara, assai più guadagnerai coll'indulgenza che colla severità. No, non ti pentirai mai di aver troppo compatito e d'avere rinunciato alle soddisfazioni dell'amor proprio; ma bensì d'essere stata inflessibile e d'aver preteso sempre che ti sia resa giustizia. Nel Vangelo vi ha una sentenza, la quale dice che sarà rimisurato a noi colla stessa misura con cui avremo misurato agli altri; e tu ed io, se vogliamo ci venga dal misericordioso Iddio accordato indulgenza e perdono, siamo indulgenti e generosi con tutti coloro che ci avvicinano.
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La giovinezza è naturalmente portata a vagare per l'ignoto, ad investigare nel proprio avvenire, a fare progetti, ad abbracciare idee, sistemi, illusioni, che diretti come sono non ad un punto fisso e conosciuto, ma ad un campo nuovo, inesplorato, nascosto, hanno minore probabilità d'incappare nel vero, di quello non abbia colui il quale confida che la prossima estrazione gli porti un bel terno, anzi un'intera quintina. I numeri del lotto sono novanta, ed i numeri dai quali pretendiamo indovinare il nostro avvenire sono numerati solo da Dio! Un francese chiamò la fantasia, la matta di casa, e il dettato passò in proverbio. La colpa veramente non è tanto sua quanto nostra, che se invece di governarla colla ragione, ci lasciamo da essa governare, la fantasia ci fa deviare dalla giustizia e dalla rettitudine, ci fa disperare cogl'irragionevoli suoi sbalzi, e ci conduce a commettere delle vere pazzie. Pure, lo so, è tanto bello e lusinghiero lasciar vagare la fantasia, sognare, fabbricare nel nostro avvenire un edificio capriccioso, delizioso, superbo... Lo so, lo so che è bello e lusinghiero, ed appunto per questo mi fa paura e desidero porti sull' avviso, affinchè tu non abbi a lasciarti illudere, allucinare dal suo ingannevole bagliore. Alcune fanciulle di famiglia civile, ma privata e modesta, vanno fantasticando viaggi, pompe principesche, cocchi e donzelli, e pescano e trovano una tal quale possibilità di potere un dì esse pure posseder tutto questo; nè ciò basta; esse si figurano il come, il dove, il quando, faranno la loro grande comparsa; studiano i modi, le parole, i complimenti che dovranno usare coi loro soggetti. Che avviene? Il sogno è sempre sogno, quindi un fantasima che corre dentro il cervello colle forme più strane e stravaganti, lasciando però che il corpo percorra in tutta la sua realtà il campo della famiglia, della vita domestica e sociale. Pensa tu l'accozzaglia che faranno tra di loro la testa che si crede regina, e il corpo che si trova suddito; pensa tu cosa di bene possa venir fuori da questo credere una cosa e trovarne un'altra. La poveretta che sogna e fantastica si trova sempre al disotto d'ogni sua aspirazione, e per quanti sieno gli agi che la circondano, i baci, le carezze de' suoi cari, gli sforzi loro per vederla felice, ella è sempre mesta, cogitabonda, spira da tutto il suo individuo una cert'aria di abbandono e di degnazione, il suo riso è mesto e forzato, il suo sguardo languido con caricatura, e lunghi sospiri escono dal suo petto. Io credo che con questi simulacri di giovinette un solo rimedio sia eccellente ed efficace; sai tu quale? Un bel frustino che suoni nell'aria e ne batta vigorosamente le spalle. Ti parrà forse triviale ed antiquato il mio rimedio, e forse discorde dal mio sistema di medicina per le malattie giovanili; ma che vuoi? in questo caso non mi pare ce ne sia un altro capace a surrogarlo, e finchè tu non me lo additi, io insisto per questo. La mamma difficilmente si decide ad adoperare il frustino, ed allora il Signore, colle anime che vuol salvare dalla mattía dell'immaginazione, pensa Lui a mandare i gastighi o le sventure, affinchè dal campo aereo la fanciulla cada naturalmente in quello della realtà, non altrimenti della sonnambula che nella veglia si ricrede di quanto ha detto o fatto durante il sonnambulismo. Le giovinette non si contentano di crearsi nell'ardente fantasia cocchi, castelli e paggi; ma si creano altresì cavalieri; cavalieri che diventano erranti, che si perdono nell'ombra dell'avvenire, perchè corpo non hanno; che sono un'illusione, perchè in essi non v'ha nulla di reale; che sono un inganno, un doloroso inganno a chi in essi si pasce. Non mi regge l'animo di condannarla; ma mi fa un'immensa compassione quella sconsigliata, la quale si strugge in vani desiderj, in stolte immaginazioni, e di ogni giovane che le faccia di cappello, o la saluti con garbo, o le dica una parola graziosa, si fabbrica tosto colla fantasia uno sposo. Dal primo castello in aria altri ne sorgono e crescono a vista d'occhio, e già le pare di ricevere il dono della promessa, d'indossare la veste nuziale, di stringere in dito l'anello; di ricevere i doni, le poesie, gli evviva, di regnare sola nella propria casa, di fare ogni cosa a sua voglia, di vestire a suo capriccio i figliuoletti, e cento altre corbellerie che non hanno maggior corpo, nè meritano maggior importanza delle bolle di sapone, o delle parole di una ciarliera. Oh! tu, non t'abbassi cotanto, da credere non capace la tua condizione a fornirti pensieri e soddisfazioni sufficienti per cercarli nei sogni dell'immaginazione! Nel contentarsi di quanto si ha, io trovo la vera grandezza d'animo e la sodezza dei principj; orbene, questi sono il verdetto di condanna dei visionarj. Vedere uno sposo in ogni uomo azzimato, o ricco, o giovane, o procace? È troppo serio il pensiero di un collocamento per idearlo od accarezzarlo così all'impazzata senza probabilità veruna. Ho sempre visto che coloro i quali hanno vagheggiato lungamente un matrimonio sotto speciali auspicj, hanno fatto come coloro che allungata la mano ad un frutto lontano od immaginario, allorchè hanno creduto di afferrarlo, non vi hanno trovato che un pugno di mosche... Oh! i sognatori sono come i re di scena; re per un momento e sudditi par tutta la vita. Oh! il frustino, il frustino, quanto bene farebbe! Tu desideri, è vero, un onesto e vantaggioso collocamento, mia cara figliuola? E perchè a questa mia interrogazione ti salgono le fiamme al viso e chini il capo in atto di vergogna? Non c'è ombra di male in codesto, purchè il tuo desiderio sia regolato dal criterio e specialmente dalla virtù, ed anzichè rivolto a cercare nell'aria quello che non si trova che nella terra, o dirò meglio nel cielo, in un dolce abbandono tu lo cerchi a chi solo te lo può dare e conservare. Sì, quel che tu cerchi è nel cielo, perchè tu cerchi uno sposo col quale dividere le gioje, le pene e le fatiche dell'esistenza, ed un simile sposo deve avere il suo cuore nel cielo, sì nel cielo, dove si trova anche il tuo... La religione, la virtù non ti proibiscono un regolato desiderio di formarti tu pure uno stato, una famiglia, ed anzi t'insinuano, ti consigliano ad appoggiarlo colla preghiera. Una vecchia signora, che ora non è più, allorchè con inarrivabile soddisfazione mi raccontava come i cinquant' anni trascorsi insieme al suo consorte, erano stati cinquant'anni di pace e di affetto sempre crescente, mi andava ripetendo con viva compiacenza che il suo sposo lo aveva ricevuto da Dio, il quale aveva largamente esaudita la preghiera quotidiana ch'essa gli aveva indirizzata dai suoi quattordici ai ventiquattr' anni:Signore, se volete darmi uno sposo, datemelo, ma buono, proprio buono, poi tre Avemmaria alla cara Madonna. Le figlie nate da sì bene auspicato connubio provano una volta di più che da pianta sana escono frutti sani, e sono tuttora la benedizione delle famiglie dove sono entrate, e che hanno la fortuna di possederle. Per carità, guardati dal sognare, se non vuoi da un sogno fallace e lusinghiero essere balzata ad una triste realtà. Poi se anche tu raggiungessi ciò che hai ideato, non saresti ancora felice, perchè continueresti a vagare colla fantasia, a fare castelli in aria, ed il tuo stato ti sarebbe penoso. Una signorina, mia conoscente, sognava uno sposo nobile, ricco, amante; trovò infatti uno sposo nobile, ricco, amante, ed ognuno le invidiava la grande ventura, tanto più che un caro angioletto era venuto a rallegrare la sua casa. Senonchè ben lungi dall'essere felice quella casa invidiata, la giovane dama continuava i suoi sogni ed aveva finito col persuadersi come aveva fantasticato, che essa, benchè nata in condizione molto inferiore, meritava non solo quella fortuna, ma ben maggiori riguardi. Il marito allora incominciò a farle sentire il peso che andava unito al titolo che le aveva comunicato, a farle sentire la propria superiorità; e siccome essa si ribellava, egli la fece accorta, benchè troppo tardi, che i suoi sogni l'avevano ingannata, acerbamente ingannata, facendole credere che la gioja conjugale consistesse nell'opulenza, nel lusso, nel grado elevato, e non piuttosto nella parità di principj, di convinzioni, di bisogni, di condizione. Non andò molto ed essa, povera illusa, delusa troppo tardi, e quando era forza subirsi il triste effetto di un fatto compiuto, non ebbe forza di sostenerlo; tornò nella modesta e povera sua casa, rinunciando a tutto e non solo alle agiatezze, ai cocchi, alle gale; ma altresì al proprio bambino che le veniva negato, per trascinare una vita nascosta sì, ma senza umiliazioni. Poveretta! Per vivere è obbligata a lavorare, insegnare la musica... Poveretta! Se tu non sognavi cotanto, avresti ugualmente afferrata la fortuna di uno splendido connubio; ma vi avresti recato l'umiltà, la tolleranza, un criterio giusto, una virtù abbondante, e queste doti t'avrebbero salvata dal nuafragio, e ti avrebbero non solo reso sopportabile, ma leggiero e soave il giogo conjugale. O fanciulla, se Iddio te lo vuol dare uno sposo, e se tu lo cerchi a Lui con dolce insistenza e collo spirito retto e pio della mia povera vecchia amica, Egli te lo darà tale che ti sia di premio, non di gastigo; e se porrai freno alla tua fantasia la quale tenta di traviarti, avrai virtù bastevole a godere il bene che Iddio ti dà, a cementarlo, ad aumentarlo, a comunicarlo a chi ti circonda, a farti pregustare nella vita del tempo quella gioja, quella pace che raggiungeranno poi la massima loro perfezione in quell'avvenire che solo è certo, e nel quale soltanto possiamo figgere desioso e consolato lo sguardo, sicuri di non andare ingannati, poichè in esso risiede il suo regno eterno, beato, ed immutabile l'increata sapienza e l'increata bontà. Non sognare, non sognare: se sogni, pensa al frustino!
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Io lodo altamente, ed invidio quelle anime avventurate le quali sono chiamate da Dio al suo stretto servizio, e ricevono da Lui la forza di tutto abbandonare, casa, averi, parenti, comodi, volontà propria, tutto insomma, per abbracciare la santa povertà e custodire la verginale purezza ad imitazion sua e della sua Santissima Madre. Ma, ti confesso, a quelle risoluzioni subitanee che nascono da una lettura, da una predica, meno ancora poi da un disinganno o da un capriccio, io credo un po' pochino, e vorrei proprio fossero poste in quarantena, sottoposte al maturo giudizio di un savio e prudente confessore, il quale, avendone ricevuto dall' alto il mandato, ha insieme ricevuto i lumi per giudicare se sia oro o lustrino, gemma o vetro, quel luccicore che si presenta sì promettente. Io qui non entro in consigli particolari, poichè il mio scopo diretto è quello di guidare ed accompagnare nella famiglia e nella società la damigella cattolica che vi si sente chiamata, e che desiderosa di seguire il bene sente il bisogno di un'amica, di una maggiore sorella che le comunichi il frutto della propria esperienza ed i lumi ricevuti dal Signore. Ora io suppongo nella mia lettrice il caso più comune, quello cioè che il confessore le dica essere molto dubbia la sua vocazione, o che essa stessa si accorga non essere la sua se non un fuoco di paglia, ed ancora un giuoco dell'immaginazione. Se la tua vocazione sarà vera, e tu vivrai in modo da non demeritarti i doni superni, essa ben lungi dal venir soffocata, tornerà a galla, e tu potrai dar corpo a quella che ora ti si presenta come una nebulosa, lontana ed incerta. Ma intanto, per chi non è decisamente e subito chiamata a monacarsi, sta il debito e il dovere di vivere in famiglia ed in società adempiendone fedelmente gli obblighi, non tanto per parere, quanto per esserne veramente l'angelo dell'ajuto, del buon esempio, del conforto. Qui sta un punto difficilissimo a definire, poichè varia pressochè all'infinito, e subisce cioè i mutamenti e le modificazioni tutte che le imprimono le condizioni speciali degl'individui e delle famiglie; ma per chi, sinceramente volonteroso del bene, unicamente lo cerca, non mancherà il direttore sagace di rappresentare in terra la Provvidenza celeste collo snebbiare ogni dubbio, porre in luce il vero, additare la via sicura. Che se per un impossibile il direttore errasse nel suo giudizio, non erra già chi fedelmente lo segue, poichè il Signore sa volgere in bene lo stesso male, e premiare contro speranza chi fedelmente ubbidisce ed ascolta la parola dei suoi Ministri in quanto è del loro ministero. Ma tu vuoi alcunchè di dettagliato da me; tu pretendi che io trascinata al bivio fra due opposti sentieri, alla tua domanda questo o quello, ti risponda decisamente e senza ambiguità come ho fatto sempre; è difficile e penoso quanto tu esigi da me; ma coll'ajuto della Madre del buon consiglio vedrò di dirti una parola sana, cristiana, efficace, capace a guidarti ed a consolarti. Non credo che molto frequentemente sia lasciata a te liberissima la scelta fra i due sentieri, quello della ritiratezza nel seno della famiglia, e quello di una vita sbattuta e battagliera in mezzo alla società; ma se ti credessi padrona di scegliere, tranne alcuni casi specialissimi, e piuttosto unici che rari, non esiterei a consigliarti ed inculcarti la vita ritirata, e ti porrei innanzi tanti e poi tanti quadri di felicità e di santità nascosti, ma viventi nel segreto delle domestiche pareti, che certo tu acquisteresti coraggio di rinunziare a tutti gli adescamenti, a tutte le lusinghe che una società frivola e leggiera ti vien esponendo allo sguardo. Ma... pur troppo, tu finchè sei figlia di famiglia, sei condannata ad una vita pressochè passiva. Che ho detto, pur troppo? Anzi gli è pel tuo meglio che il buon Dio ti toglie la responsabilità della scelta fino al tempo in cui dotata di maggiore serietà ed esperienza potrai a tua volta sceglierti la parte migliore, vo' dire una vita intima, ritirata, tranquilla, i di cui godimenti hanno minor apparenza, ma maggiore sostanza, ed in cui la lotta tra il volere ed il dovere è meno ardita e gagliarda. Intanto vivi soggetta ai tuoi maggiori, e fa di regolarti in modo che negli anni avvenire la memoria della tua giovinezza ti ricorra scevra da pene, da rimorsi, e tu ne possa con dolcezza ricordare un giorno ai figli ed ai nipoti le gesta innocenti. Se tu fai parte di una famiglia abituata alle visite, ai ricevimenti, alle adunanze, alle feste, me ne duole per te, amica buona, perchè prevedo che la tua virtù sarà contrastata, e se non ha profonde radici in una pietà soda e sincera, a somiglianza del grano della parabola evangelica, seminato sui sassi, seccherà e non darà frutto. Una parola io ti posso dire con sicurezza, una preghiera ho in cuore di farti, ed è questa; che tu sfugga tutte quelle adunanze e quei ritrovi ai quali non sei obbligata, poichè in essi potrebbe mancarti quell'ajuto che Dio non ti lascerà invece mancare in quelli ai quali ti trovi forzata di prender parte. Stabilito il principio che tu devi obbedire i tuoi, seguendoli in mezzo alla società quando essi vi ti conducono, resta a vedere come tu abbi ivi a regolarti, ed è appena necessario notare che mai e poi mai ti è lecito recarti, specialmente ad una festa, senza tua madre od una maggiore sorella maritata; senza insomma una dama di una certa età, poichè il padre od i fratelli non bastano a formare quella siepe di cui è necessario circondare una giovane esistenza. Secondo il tuo stato, la tua età e le tue finanze, ti è lecito un abbigliamento non solo decente, ma discretamente elegante, ed in relazione con quello delle tue coetanee, contenta di stare un gradino sotto per non essere e parere vana ed orgogliosa; ma sotto verun pretesto non ti è lecito mai tradire le leggi della modestia e del pudore, poichè non solo verresti posta in canzone e disistimata dalla stessa gioventù mascolina cui credevi di piacere: ma ben più tradiresti le leggi della tua religione, della virtù; diventeresti forse oggetto di scandalo, e ti caricheresti il cuore di un rimorso. Nè la modestia deve figurar solo nelle tue vestimenta; ma altresì nel tuo contegno timido e riguardoso, nei tuoi tratti, nelle tue parole; e se qualche impudente, uomo o donna non monta, se qualche impudente tocca qualche discorso o fa qualche gesto che leda menomamente il tuo delicato e cristiano sentire, salta a piè pari l'argomento, parla di altro, o con altri; che se l'impudente non desiste dal suo insidioso procedere, e tu non hai il coraggio d'imporgli silenzio nel timore non ne nasca uno scandalo od una pubblicità, levati di botto, corri in cerca della mamma o del babbo, o recati in un altro crocchio, in un'altra sala; credilo, non te ne mancheranno i pretesti, se con pia industria cercherai in tuo soccorso. Non differente dev' essere il tuo procedere coi detrattori, con quelli cioè che mormorano del prossimo, o lo calunniano, o ne giudicano temerariamente; tu, come angelo della famiglia e della società, devi essere la difesa dei deboli e degli assenti, te l'ho già detto nella Prima Parte di questo mio lavoro; ma se condizioni di luogo, di tempo, o di età non te ne danno il diritto, ritirati, e mostra chiaramente che vuoi serbarti innocente da tale lordura. Con coloro i quali ti adulano o t'incensano, tu ben sai come devi regolarti; ora, io credo, ci resta a ragionare soltanto delle chiacchiere vuote ed inutili che ti si faranno d'attorno, e delle quali tu non devi entrar complice, per non diventare chiacchierina ed essere e parere frivola e cinguettiera. Qui ho un consiglio di peso, d'oro massiccio anzi, un consiglio indispensabile a darti, ed 43 è questo; di volgere sempre a serio i discorsi leggieri soliti a tenersi tra fanciulle, rispondendo in fretta, e vorrei dira di fuga, a quelle prolusioni nojosissime che esse hanno l'abitudine di sfoggiare sulla moda, sull' incostanza o sulla durezza della stagione, o peggio ancora sui difetti altrui. Se tu saprai cavar profitto dello spirito che il Signore ti ha donato, ne avrai sempre abbastanza per piegare il discorso dalle schiocche mode ai costumi ed alle usanze dei diversi popoli; dai difetti altrui, ai meriti che sono da essi adombrati o velati; dall'incostanza o durezza della stagione alla compassione che ti fanno i poveri sprovvisti di tutto, ed alla necessità di porger loro ajuto e soccorso colla mano e col cuore. Se tu farai in questo modo, benchè abbigliata un grado meno delle altre, benchè acconciata senza civetteria, benchè timida e forse pure di minor spirito e coltura delle tue compagne, ne diventerai non l'idolo (ciò è illusorio) ma il modello e l'anima; e su te ridonderà gran parte del bene che sarà fatto dietro il tuo esempio, e largo premio n'avrai dal Signore. Nelle adunanze sono compresi i balli, i teatri, i pranzi, le comparse, e se il Signore m'inspirerà quello che sarà pel tuo bene, ti dirò qualche cosa partitamente anche su di essi. Ma, tel ripeto, nè mi stancherò dal ripetertelo; se ti è dato vivere modestamente e lontana da questi ritrovi, oh! fuggili senza indugio, e senza dolore, nè ti lasciar tentare mai da un desiderio insano, da un insano timore, poichè la quiete di una vita intima non turbata da rumori profani, siine certa, procura gioje incomparabilmente maggiori a quei piaceri convulsi, febbrili, che ti potrebbero venire dalle riunioni mondane, dove il pudore, la carità, e sovrattutto l'umiltà, sono esposti ai maggiori pericoli. Se a te è lasciata la scelta fra i due sentieri, quello della casa e quello della società, non ti appigliare a questo ma a quello, te lo ripeto, te lo ripeterò senza posa; non già coll'intendimento di rendere monotona o grave la tua esistenza, ma per rendere il suo corso limpido, dolce e specchiato come l'onda del ruscello che, scesa da eccelsa montagna, scorre gorgogliando placidamente, e lambendo i fiori che costeggiano la riva verdeggiante, fino al flume, per gettarsi con esso nel mare, senza aver punto toccato la città: nella città avrebbe potuto conservare la sua purezza e la sua pace? Questo o quello, tu mi domandi di nuovo? Ama la ritiratezza, la casa; come il ruscello guardati dal mescolare le tue acque con quelle degl'immondi pantani, affinchè dopo un viaggio che ti auguro lunghissimo, tu le possa confondere con quelle del fiume reale, per gettarsi con esse nel mare... La morte sarà per te in allora una rapida e fortunata corrente che ti unirà alla sorgente d'ogni bene; sì, ti unirà a Dio, poichè per una lunga e faticosa carriera l'onda del tuo ruscello avrà saputo serbarsi incontaminata, pura, e sulle sue sponde non avrà fiorito il vizio, ma l'amor santo di Dio e del prossimo suo. Ama la ritiratezza, la casa, la preghiera, e ti sarà facile e spontanea la virtù, anche a costo dei più lunghi e penosi sacrificj.
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Di più io credo che tra lo schiavo dei rispetti umani e l'apostata non vi sia che un passo: quello misura le sue dimostrazioni di fede e di pietà sulle altrui, questo le rinnega apertamente; io non saprei dunque bene se quegli trovandosi una volta appetto ad un apostata, saprebbe rifiutarsi egli stesso ad abbracciare l'apostasia, come altre volte non ha saputo rifiutarsi di ridere cogli altri delle cose più sacre, e perfino di Dio. Forse tu mi accuserai di essere troppo forte ed acre, e d'ingigantire le cose; ma dimmi un po', che stima faresti tu di quel soldato che in tempo di pace grida Viva il re, e che in tempo di guerra gli volta poi ignominiosamente le spalle? E per venire ad un confronto più pratico, che ne dici tu di quell'amica tua, la quale ti prodiga cento carezze nel dì della tua festa, mentre allorquando si trova presso qualcheduno che ti calunnia o ti deride, non sa levare una parola sola in tua difesa, ma invece approva tacitamente o palesemente la condotta degli altri a tuo riguardo? Che dici tu di quella tua amica che dice di amarti, ma che non vuol essere veduta in tua compagnia, e si nasconde quando viene in tua casa? Ma t'intendo. Io ho già parlato troppo, perchè tu più di me hai in odio il rispetto umano, e tu più di me hai deliberato di non voler mai e poi mai astenerti dal fare una cosa, o farne un'altra soltanto per essere veduta o per non essere veduta dagli uomini. E dove sarebbe la dignità personale? Una volta che io so che una cosa è mal fatta, mi vergognerò e asterrò dal farla, non per il biasimo altrui, ma pel male in sè stesso; ma quand'io so che quello che io faccio è bene, non mi vergognerò no davvero di mostrarlo in pubblico, sarò anzi ben lieta di dare a Dio ed al mio medesimo carattere di cristiana una protesta di fedeltà; perfino, lasciamelo dire, mi sentirò più donna di proposito se avrò e sosterrò con fermezza la mia credenza e le sue pratiche. Mi è ben forza convenire con te che la franchezza del tuo carattere ti attirerà talvolta qualche sogghigno e più d'una parola ironica o di scherno; ma credilo e tienlo bene a mente: tutto sommato, quand'anche tu fossi forzata a vivere con persone che la pensano diversamente da te, la tua franchezza ti circonderà di stima e di riguardi. Quelle stesse che t'avranno derisa, non anderà molto, ti faranno comprendere che stimano assai più te per la fermezza delle tue opinioni e per la conformità fra la tua vita e le tue credenze che non hai mai tentato nascondere, di quello non stimino quelle tali figurine chinesi delle quali abbiamo parlato e riso jeri. Che se ci fosse taluno abbastanza ardito da crederti persona dappoco, perchè dichiaratamente credente e perfettamente cattolica, gli potrai rispondere che non t'incresce essere tenuta persona dappoco nella schiera che dal grande Aquinate, a Dante e Manzoni, ha portato alto la stessa bandiera, la quale forma il loro non meno che il tuo vanto. Ma lo so: pur troppo, se ci è facile sopportare e vincere la guerra fatta alla nostra pusillanimità dalle persone che non ci riguardano se non da lontano e colle quali ci troviamo di rado, ci è poi difficilissimo vincere l'altra fattaci dalle persone colle quali viviamo in continuo contatto; ma ciò non toglie che le suaccennate ragioni valgano tanto per le une quanto per le altre. In questo caso sarai però obbligata a raddoppiare i tuoi sforzi, e più forte ti stringe l'obbligo di presentarti a Dio riparatrice dei torti altrui, anche allo scopo di non cadere tu pure ignominiosamente a rinnegarlo, od a servirlo meno fedelmente per rispetto umano. Poi devi cercare ogni occasione per vincerti; e benchè non ti corra grave obbligo di dichiarare apertamente la tua fede se non nelle cose e nelle circostanze di qualche gravità, perderai molto non solo di merito davanti a Dio ma di forza in te stessa, se non sei e non ti mostri sempre coraggiosa nelle piccole come nelle grandi occasioni. Ed infatti se ti vergogni di farti vedere a leggere un libro di pietà, a frequentare i Sacramenti, le prediche, la chiesa, l'orazione; che caparra ti rimane di saper poi dichiarare apertamente la tua fede, quando la vedrai vilipesa o posta in dubbio ed in canzone? No: tu sai che ogni giorno devi piegare le tue ginocchia davanti a Dio per implorare la sua protezione sulla tua giornata dapprima, poi sulla tua notte; dunque, piegale senza rossore anche se havvi alcuno nella tua camera che ne faccia le beffe. Quella persona deve vergognarsi di dileggiare la tua buona azione, non tu di farla. Se un'amica, o più propriamente si dovrebbe dire una nemica, ti deride o ti guarda con compassione perchè ti accosti spesso al tribunale di penitenza e ricevi con frequenza il Pane dei forti, o per qualunque altra tua pratica di pietà dalla più piccola alla più grande; continua coraggiosamente il tuo cammino, ed invece di lasciarti pervertire cerca di convertire l'amica, colla quale sarai sempre buona, amabile e condiscendente come Dio vuole in tutte le cose che non riguardano il divino servizio. Ringraziamo Iddio che ci ha fatte nascere nella sua Chiesa, che ci ha alimentate coi Santi Sacramenti, che ci nutrisce ogni giorno colla sua parola e colle sante sue ispirazioni, e deh! non sia mai che diventiamo ree d'ingratitudine e di apostasia col vergognarci dei doni suoi. Noi siamo deboli, anzi io sono più debole di te; ma facciamoci coraggio, attacchiamoci al pegno di nostra salute, alla Croce, ed ivi troveremo la forza di superare la guerra mossaci dagli altri e quella che ci viene da noi medesime. Ma se ci poniamo appiè della croce, a chi ci troviamo vicini? Alla Vergine addolorata che, nascosta quando il suo Gesù veniva recato in trionfo a Gerusalemme, si presenta coraggiosa a Lui dappresso quando è vilipeso, bestemmiato e crocifisso. Ci troviamo vicini al caro Apostolo vergine che ha posato il capo sul cuore del Salvatore, e alla gran peccatrice la quale sola ha sentito quella grande parola:Va; ti sono rimessi molti peccati, perchè molto hai amato. O buon Gesù, deh! non permettete mai che dopo di aver parlato con tanta convinzione e con tanto cuore, contro il vile rispetto umano, abbia poi io stessa a rendermene rea; questa sarebbe troppo tremenda pena, e Voi, amante e redentore dell'anima mia, me ne libererete mai sempre. Cara Madre Maria, S. Giovanni, S. Maria Maddalena, Santi tutti del cielo, Angelo mio Custode, liberatemi, per pietà, da sì grave delitto!
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La seconda contraddanza della giovine appartiene di diritto al notaio, senza dubbio per rimpiazzare l'uso che prima esisteva di permettere a questi di abbracciare la fidanzata quand' ella aveva finito di firmare il contratto. Tutte le persone che firmano il contratto di nozze devono fare un regalo alla giovine sposa, secondo la sua posizione sociale.
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La madre corre incontro al marito che torna dall'ufficio, depone il bambino in terra, e il bambino corre barcollando ad abbracciare le ginocchia del babbo. Quando i bambini sono in grado di camminare e di correre, bisogna lasciare che in essi si sviluppi la vita animale; intendo dire che conviene che il loro piccolo corpo cresca liberamente. Ciò non impedirà di reprimere, con dolcezza ma con fermezza, i primi capricci. I bambini si laveranno ogni giorno dalla testa ai piedi (l'uso del bagno giornaliero, per chi ne ha i mezzi, è eccellente); si vestiranno di bianco o di chiaro, ma poi si lasceranno giocare sui tappeti o in giardino, senza troppi riguardi ai loro vestiti. Il vestito dei bambini dev'essere molto semplice. A questo modo, non ci sarà bisogno di tormentarli gridando loro tutto il giorno: - Badate di non insudiciarvi, di non strapparvi i vestiti. - Senza dubbio, è bene insegnar loro per tempo ad esser puliti e ordinati, ma si deve anche capire che, nell'ardore dei loro giuochi, essi non possono pensare continuamente a sorvegliare i loro abiti. I bambini quieti, tranquilli, puliti, sono generalmente di salute cagionevole. Le madri hanno una tendenza a rimpinzare i loro bambini di dolci, guastando loro lo stomaco e l'appetito. Sarà difficile non dare a un bambino, di tanto in tanto, un confetto o un cioccolatino; ma non se ne farà un uso costante, e soprattutto si eviterà l'abuso che è sempre nocevole. Nei pasti, è bene fare in modo che i bambini non sorpassino mai i limiti del loro appetito e che non mangino cibi che eccitano o riscaldano. Ai loro piccoli stomachi non giova nè il vino, nè il caffè, nè la carne in gran quantità. I latticini, i legumi, le uova, un po' di carne bianca sono i cibi che più loro si confanno. Quanto alle bevande, l'acqua pura di fonte o minerale è la migliore di tutte; ma non arriveremo fino a proscrivere, come oggi è di moda, un po' di vino molto allungato. La prima e la seconda dentizione sono talvolta difficili e pericolose. Sarà bene, se si vede che tutto non precede regolarmente, consultare il medico. I bambini hanno bisogno di dormir molto. Si metteranno perciò a letto la sera molto presto, e si farà buio intorno ad essi. È una pessima abitudine tenerli svegli insieme coi grandi, finchè non si addormentano su una poltrona o sulle ginocchia della mamma: il vero sonno riparatore si fa a letto e svestiti. Generalmente, una mamma ha per il suo primo nato attenzioni e cure esagerate. Un po' per inesperienza, un po' per troppo affetto, essa finisce con l'avvezzarlo male e col rendergli necessari e indispensabili tanti riguardi perfettamente inutili e talvolta anche dannosi. Ecco: il bimbo dorme, e tutta la casa deve mantenere un religioso silenzio: guai a chi alza la voce, a chi non cammina in punta di piedi! Così abituato, il bambino si sveglia ad ogni più piccolo rumore: basta che una porta sbatta o un mobile scricchioli. Ancora: il bambino piange se la mamma non l'addormenta cullandolo; e la povera donna, vittima colpevole, passa ore e ore in camera a canticchiare sottovoce, perdendo un tempo prezioso. Care mammine, date ascolto a una mamma piena d'esperienza. Fino dai primi tempi mettete il vostro bambino nella sua culla, accomodatevelo con tutto l'amore e la diligenza possibile, e poi lasciatelo lì. Forse egli piangerà un po'; ma poi s'addormenterà placidamente; e una volta avvezzato così, non avrà mai bisogno d'esser cullato o tenuto sulle ginocchia. Quando dorme, evitate i rumori forti e improvvisi, che potrebbero farlo svegliare di soprassalto, ma lasciate che la vita della casa si svolga regolarmente intorno a lui. Oltre a risparmiarvi preoccupazioni e perdita di tempo, farete anche il vantaggio del vostro piccino. Quando sarà grande avrà il sonno più facile e più profondo, e non gli accadrà, come accade a tanti, di passare in un albergo una nottata bianca, per i rumori della strada o del corridoio.
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Il contadino, incorrotto » figlio della natura, anch'egli sa abbracciare; ma » questa suprema espressione d' amore ei la riserba » all' istante della semina gioia, al rivedere l'amato » figlio reduce dopo lagrimata assenza; l'amicizia » la esprime anch' egli porgendo la mano all'amico, » ma, come quegli che daddovero esprime ciò che » sente, ci mette franchezza e calor verace. Nella » diversità di tutti i quali casi ella però ravvisa » come rimanvi pur sempre ciò che è essenziale » ed universale, voglio dire la tendenza ad accostarsi » l'un l'altro, che è proprio il naturale » effetto dell'amicizia; e ben comprende » come tutta la differenza, dipendente da diversità di » condizioni, sta soltanto nel grado, nell'intimità » dell'unione ed in altre circostanze accessorie, » come sarebbe la delicatezza e l'ottusità del sentire, » il calore o la riservatezza dell'espressione. » Gli abitanti del Madagascar, come quelli che non » conoscono si vivaci espressioni d'amore quanto le » nostre, son paghi del loro sovrapporre l'una mano » all'altra dell'amico, nè tampoco stringerla, e nè » pure son usi d'abbracciarsi. Gli abitanti della nuova » Seelandia attestano il benevolo animo loro, premendo » naso a naso, si veramente come noi Europei » labbra a labbra ». Engel, opera citata. ll tocco delle mani è l'espressione si naturale dell'amicizia che presso gli antichi Persi chi mancava alla promessa accompagnata dal tocco delle mani, commetteva doppio peccato di quel che vi mancava senza averla accompagnta con questa cerimonia. Presso le legioni romane usavasi il dono delle destre. D'oro fosse o d'argento o d'altra materia questo segno rappresentava due destre unite insieme; solea darsi in dono come simbolo d'ospitalità, fedeltà, concordia. Trovasi spesso nelle medaglie coll'epigrafe. fides exercituum, concordia exercituum, consensus exercituum.
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se tu potessi, o fanciulla, abbracciare di un solo sguardo quanto ha vita, moto, esistenza ; noverare le miriadi di stelle che ingemmano a notte i firmamenti, vederti passare sott'occhio le innumerevoli forme degli animanti, penetrare nel fondo dell'oceano o nelle viscere delle montagne, ammirare raccolti insieme le piante, i fiori, le frutta ogni altra produzione che vegeta nel doppio emisfero... e poi domandare a te stessa : V'ha egli nulla di tutto questo che non appartenga a Dio? Che non sia uscito dalle sue mani? E la mente e il cuor tuo, e la voce di tutti gli esseri si ripeterebbe in un suono concorde e solenne: - « Noi siamo creature di Dio ». Che se ogni cosa egli l'ha operata per sé medesimo, l'intero universo altro non è che una lieve manifestazione della sua potenza ; noi, creati, beneficati tanto da lui, 'figli prediletti dell'amor suo, non correremo ad offerirgli la venerazione, l'ossequio dei nostri cuori? Oh! amiamolo molto questo Dio, non solo grande, ma buono, ma provvido, ma tanto sollecito del nostro bene, che improntava l'universo di tanta bellezza, di tant'ordine, di tant'armonia. Ordine, belleza, armonia che pur fra le ombre di morte, di mezzo a cui ci aggiriamo, ne fanno trapelare alcun raggio di quella luce onde la sua parola infallibile ci ha promesso il pieno e perfetto godimento. E non gia quì, ove tuttto è labile, passeggero, caduco; ove la sete di felicità che ne affatica non può essere paga; ove la ricerca del vero stanca l'intelletto e nol fa contento ; ma nella stabile ed eterna dimora in cui su basi d'incrollato adamanto fiancheggia il suo trono.
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Quindi poco stante : «Ti chieggo, o mio caro padre, di permettere alla mia sorella di venirmi ad abbracciare; vorrei pur vedere la mia nutrice, le mie compagne ed amiche ». Quando furon venute, strinse loro la mano, e regalatele ciascuna di qualche cosa che a lei apparteneva : « Conservate, aggiunse loro, questi piccoli doni, siccome miei ricordi: e tu, mia sorella, addoppia cotanto le tue cure e la tua amorevolezza verso il nostro buon padre, ch'egli in te sola riunito ritrovi e l'amor mio e quello della sua sposa ». Non ho cuore di descrivere, come ben l'immagino, quale sarà stato il compianto ed il lamento di tutti gli astanti. Lilia sola pareva di tutti la meno desolata. Mostrar volle per ultimo la sua riconoscenza verso la nutrice, e pregò suo padre a provvederla di danaro e d'una porzion di terreno, sicchè non avesse poi a cadere nell'indigenza, e procacciar potesse a' suoi figli una buona educazione. Già la figlia di Fundano toccava il termine di sua carriera: più non potendo articolar voce, prese per la mano il padre suo e avvicinatolo al proprio seno, diegli una rivolta d'occhi tenerissima, e chiudendo placidamente i lumi, cessò di vivere.
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Infatti, voi credete che il vostro antagonista s'appigli al torto; ora egli non sarà forse restio ad abbracciare la vostra opinione, se gliela presentate nella sua nudezza scortata solo dagli argomenti che la dimostrano. Ma se cominciate dal rendere sospette lo sue intenzioni, voi l'offendete, voi lo provocate, voi non gli lasciate la calma necessaria per ascoltarvi con attenzione. Egli diviene parte contro di voi. Il calore si comunica dall'uno all'altro, i suoi amici s'interessano per lui; e quindi nascono non dì rado de' risentimenti che, estendendosi al di là della discussione associano all'opposizione politica tutta l'asprezza degli odii nazionali. Un uomo di carattere benevolo, modesto nella sua superiorità , generoso nella sua forza , confida solo ne' suoi argomenti, e sdegnerebbe di dovere la vittoria alle intenzioni supposte prave del suo nemico. 3.° Guardarsi dal perdere tempo e parole nel confutare cose palpabilmente false. In questi casi è meglio troncare il discorso e rimettersi all' opinione degli astanti, giacché la discussione recherebbe noia ad essi, senza riuscire a persuader l' avversario. Zenone negava l'esistenza del moto; Diogene, senza spendere parole, si mise a passeggiare: Zenone persistette nel suo paradosso, e Diogene continuó il suo passeggio. Allorchè Didone s' incontra negli Elisi con Enea, da cui era stata sì ingiustamente e sì barbaramente abbandonata, s'arresta ella per argomentare con lui e convincerlo ? Enea cerca di riacquistare il di lei animo, ella gli volge spregevolmente le spalle senza dir verbo. Badate bene che nei caso pratico l'orgoglio potrà ingannarvi ed indurvi a supporre palpabilmente false le altrui idee, o palpabilmente vere le vostre. La noia o l' approvazione che vedrete sul volto degli astanti, vi servirà di norma per troncare la discussione o continuarla. 4.° Non rispondere alle ingiurie che nel calor della disputa sfuggono di bocca all'avversario. Batti, ma ascolta, diceva Temistocle ad Euribiade, il quale alzava il bastone per provar la sua tesi. Questa fermezza d'animo in un uomo che era tutt'altro che vile, ci dice che si devono lasciar cadere GIOJA. Nuovo Galateo. Tom. Il. 9 a terra le ingiurie come nè dette nè sentite, e difendere le proprie con tutto il sangue freddo della ragione. Infatti da un lato nel calore della disputa fuggon di bocca parole che si ritrattano, appena cessato; dall'altro l'altrui caduta non giustificherebbe la nostra. In questi casi una risposta urbana che dimostri serenità d'animo, fa più impressione che non un torrente di villanie. Perché mi dite voi delle ingiurie in luogo di ragioni? Avreste voi preso le mie ragioni per ingiurie? diceva l'amabile Fénélon all'impetuoso Bossuet. Il padre Bouhours, assalito da M.r Menage con una batteria d'ingiurie, ne raccolse un centinaio delle più villane, quindi vi scrisse sotto queste poche parole: E forza convenire che questo sig. Menage é un uomo molto pulito.
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Al tempo di Luigi XIV e XV (fine del XVII e principio del XVIII secolo) i Francesi, oltre di cantare a mensa e bere insieme, si permettevano anco di abbracciare le donne; la quale indecenza cessata ha indotto un poeta a dire:
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Ma se prima di abbracciare una violenta risoluzione egli si abbocca colla moglie, questa gli farà conoscere con quella forza di persuasione che da l'affetto l'inconseguenza del suo procedere, e i tristi effetti di cui può essere cagione; e torna poco a poco alla mente agitata del marito quella riflessione, quella pacatezza che deve ognora procedere una importante decisione. Dicono i S. Proverbii che la moglie prudente viene da Dio. Perché dunque tenere in non cale, colui che ha la ventura di possederlo, un simile tesoro? perchè non approfittarne e stringere, con quelle saggie confidenze, l'affetto che nasce dall'estimazione? Alcuni sciocchi mariti non danno veruna importanza alle cure poste dalla moglie nel tenere in sesto la casa. Considerano questo zelo, questa passion per l'ordine, per la pulizia come una mania, non altro; ed anco qualchevolta ne ridono, quando non se ne mostrano impazienti. E non pensano costoro che con quelle cure minute le donne fanno un considerevole guadagno; giacché in tal modo nulla si guasta, nulla si perde, nulla si consuma inutilmente; sono meno frequenti, perchè più difficili a nascondersi, i furti, gli scialacqui per parte dei servitori. La polvere, la ruggine non ha alcuna presa sui mobili, sugli arnesi: il tarlo non si mangia gli abiti e va dicendo. Vi par poco tutto questo, o mariti?
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non si tratterebbe di abbracciare la cameriera ogni dieci minuti, o di confidare i segreti palpiti del cuore alla cuoca... bensì di mandare la cameriera per un'ora a Villa Borghese a godere una giornata di sole, venuta dopo una settimana di pioggia, e di assumerci noi la spolveratura di un salotto...; piccola cosa, ma, facendo la quale, avremo progredito nella vita interiore, che è la vita vera, molto più che se avessimo dato cento o cinquecento lire a una sottoscrizione, in cui figura il nostro riverito nome... E poi, sentite: tre anni fa durante la settimana santa, il Padre Tacchi Venturi, l'illlustre gesuita, tenne, presso le Suore del Cenacolo, il solito ritiro pasquale a un centinaio di signore della migliore società, e, - mentre altre volte dei predicatori francesi avevano parlato sì della fraternità, ma in tesi generale, con quella squisita arte francese di non urtare mai nessuno, - egli abbordò l'argomento delle relazioni tra padroni e servi con perfetta chiarezza, basandosi sul Vangelo. E il mercoledì santo disse: «Signore, mentre voi siete qui, nella piazzetta davanti al convento stazionano le vostre automobili, con una sessantina almeno di conducenti: siccome essi hanno il dovere cristiano di fare Pasqua e siccome voi avete il preciso dovere di ricordarglielo e di facilitarglielo, avvertiteli che stasera essi troveranno qui un confessore. Domattina, poi, mentre io porgerò a voi il Dio che predilesse i lavoratori, gli umili e i diseredati, essi pure riceveranno Dio nella vicina cappella...». Ebbene, Signori, credetemi che Padre Tacchi Venturi disse, nel corso del ritiro, delle cose bellissime e sante, ma che diede la migliore lezione pratica, facendo riflettere a questo: nessuno ci obbliga ad essere cristiani, nè ci porta per forza in chiesa, ma, se noi stesse ci proclamiamo tali, se tali vogliamo essere, dobbiamo assolutamente agire come comanda e vuole Iddio, verso le persone che Egli ci ha messo accanto. E ce le ha messe accanto allo scopo di servirci in compenso di una rimunerazione, ma non per essere umiliati o per darci modo di sfogare i nostri capricci, i nostri malumori, i nostri nervi. Signore! credete che se, fino dal primo servizio, una ragazza trovasse buona maniera, pazienza, tolleranza, fiducia; se trovasse ordine e organizzazione in casa, farebbe una almeno discreta riuscita; credete che chi fa del bene riceve bene; ricordate che le nostre popolane hanno un fondo di generosità e di gratitudine, sanno distinguere e sanno apprezzare.
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E quando sapranno questo, i nostri generosi ragazzi italiani, affettuosi, tutto cuore, saranno ben felici di correre ad abbracciare la loro mamma anche se non veste da Patou; di saltare sul tram col babbo, che tutto il mondo cita a modello di onestà... Parliamo loro sempre al cuore, memori del motto di Stefano Türr, il cavalleresco ungherese che adorava la sua bambina: «Senza il cuore niente»... Come allontanarli da persone e da luoghi di corruzione? Facendo penetrare profondamente in essi la convinzione che la violazione di certe leggi, di certi ordinamenti, danneggia le energie fisiche, spirituali e morali dell'individuo, e che, in questi casi, la natura fa cadere su di lui dei castighi e la società li aggrava; facendo toccare con fatti alla mano, con esempi, che è così, che non può essere che così, che non potrà essere che così. Infine, diamo un'abilità, una via di lavoro ai nostri figlioli. Non ne avranno bisogno? Tanto meglio! Ne avranno? Lavoreranno gaiamente o, almeno, coraggiosamente, sapendo che Dio dà e ritira le ricchezze, in quanto possano servire al nostro posto nel mondo, e al nostro miglioramento. E potrei continuare, ma parlo da 40 minuti e non ne ho che cinque disponibili...
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composto, senza approfittarne per abbracciare una graziosa signorina o una bella donna. Quanto ai balli moderni, abbiate il buon senso di rinunciarvi se avete superato i venticinque anni, o per lo meno se non sapete ballarli benissimo. Ma non per questo dovete ostinarvi su una posizione di nostalgia, chiedendo all'orchestra vecchi tanghi o valzer di Strauss oppure insistendo presso la persona che ha l'incarico di cambiare i dischi perché metta in audizione tutti i successi di vent'anni fa. Entrando in un night-club, gli uomini devono precedere la loro dama: e questo non per fare eccezione alla regola che impone di dare sempre la precedenza al gentil sesso, ma per non dare la sensazione alla donna di essere senza accompagnatore. Questo conduce anche a una seconda regola: una donna non deve mai entrare da sola in un locale da ballo. Anche due o più amiche non frequenteranno per nessun motivo un night-club o qualsiasi altro locale da ballo se non c'è almeno un uomo che le accompagni. A che età le ragazze possono andare a ballare? Stando alle regole classiche i diciott'anni sono quelli del debutto in società e del grande ballo in loro onore. In pratica le ragazze d'oggi cominciano a ballare molto prima, magari riunendosi in casa di questa o di quella compagna di scuola o frequentando determinati locali per giovani. Niente di male se tutto si svolge secondo le regole del lecito. Il ballo invece non deve servire da giustificazione e da pretesto per amicizie e riunioni poco consigliabili.
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Si cantano al pianoforte romanze erotiche; il papà si lascia vedere a fare uno scherzo galante alla cameriera, la mamma tante volte flirteggia a sorrisi, a sguardi, a parolette spiritose col più intraprendente dei suoi adoratori; o la sorella fidanzata non si fa scrupolo di lasciarsi abbracciare e baciare dal futuro sposo, in cospetto dei fratellini minori. E gli occhi azzurri o neri che fioriscono nei visetti muti si spalancano, accolgono le visioni di qualche cosa ch' è per essi ancora l' incomprensibile, ma in cui intuiscono già l' illecito, l'impuro. E le orecchie ascoltano, recano per via dell' udito alla mente tenera l' impronta rude delle volgarità, delle miserie, dei pericolosi problemi dell' essere. Ascoltano e ritengono, poichè la profanazione della loro innocenza non è senza frutto ; così si demoralizzano presto, si fanno anzi tempo scettici, maliziosi, opportunisti : spesso diventano complici e imitatori. I buoni esempi additati dai maestri, le esortazioni dei genitori, i consigli dei buoni libri a nulla servono se nella vita dimentichiamo di nascondere ai fanciulli le nostre debolezze, le nostre defezioni: se dimentichiamo il rispetto dovuto all'infanzia che deve corazzarsi di fortezza e di fede. Ogni mamma dovrà dunque assolutamente impedire che davanti ai bambini si tengano certi discorsi, si inizino certe discussioni, si scenda a certi scherzi, non solo, ma vigilerà assai sui domestici, onde le loro parole e i loro atti nulla abbiano di sconveniente, e la vanità, la dissolutezza, la disonestà non si rivelino in azione ai fanciulli con la terribile efficacia dell' esempio. Io ho conosciuto madri di condotta immoralissima, ma che pure erano riuscite a farsi credere dai loro figliuoli modelli di virtù, perchè osservavano scrupolosamente che in loro presenza nessun atto, nessuna parola sfuggisse rivelando il contrario. E sebbene colpevoli, quelle madri dimostravano però col loro rispetto all'infanzia di onorare le purezza e il bene.
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Dice ancora Maria Pezzé Pascolato, consigliando l' operosità alle fanciulle ed esortandole a vincere dinnanzi alla bontà e alla dignità del lavoro ogni rispetto umano : « Se, purificata l' anima dalla vanità e dall' ambizione, credete vostro dovere di cercarvi un impiego o di abbracciare una professione : se avete bisogno di guadagnarvi la vita, o se, lavorando, potete alleggerire la vostra famiglia di un peso, amate il vostro lavoro e siatene fiere ».
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Eccoli tutti pronti: sono andati ad abbracciare lo zio Fil e sono sulla scalinata d' ingresso. - Andiamo, - dice Maria in cammino. Passeremo prima dalla signora Aubry. - E partono. Ma un grido si fa sentire, e la vecchia governante, voltandosi, vede Francesco che, venendogli a mancare un gradino, è caduto lungo disteso per la scalinata. Rialzatosi a stento, nonostante l'aiuto dei fratelli e di Maria, che ha lasciato andare il paniere, ride nervosamente ed esclama: - Che bestia! - Ma appena vuol posare
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La villa, che ancora, a breve distanza di *** vedi sorgere sulla riva destra del lago, fabbricata nello stile malinconico e severo del- l' architettura del secolo passato, ha un bel terrazzo, che su d' una roccia stagliata stendesi alquanto nell' acqua, e lascia allo sguardo abbracciare la pittoresca veduta di quelle cinque miglia di lago, chiuse fra Como e la punta di Torno. Su quel terrazzo, che è come il prolungamento d' un' ala della casa, andavano e venivano, nella stessa mattina, alcuni servi per apparecchiare la consueta colezione de' loro padroni, una colezione E infatti, una famiglia inglese aveva preso a pigione la villa per tutta la state di quell' anno. Era un vecchio signore venuto co' suoi figliuoli a cercare, sotto il ridente nostro cielo lombardo, alcuni mesi di salutare riposo dalle fatiche dell'aristocrazia. Avevano lasciato per la prima volta il cielo nebbioso di Londra e lo splendido tumulto della vita politica e cittadina; chè un viaggio sul continente è, per l' Inglese, medicina d'ogni rovescio; per l'Inglese che, in casa sua, tesse tranquillamente la politica delle cinque parti del mondo; e fuori, sen va a centellare con eguale costanza il suo tè sui ghiacci del Gran san Bernardo, e all' ombra delle Piramidi. « Vieni, Elisa! » diceva una bionda giovinetta, correndo fuori colla più graziosa sveltezza sul terrazzo. « Vieni, dunque! chè le dieci ore sono testè sonate al villaggio, e il mio buon appetito me ne avverte. Nostro padre verrà subito anch' esso.» « Eccomi, cara! » uscendo le rispondeva Elisa, la sorella di Vittorina. « Che bel mattino! che bel cielo! Io aveva letto e sentito dir tante belle cose dell' Italia, ma non pensavo che fosse così bella! » « Bada prima, o sorella, a servire il tè! e poi farai le tue contemplazioni alla buon'ora. Pensa a noi, te ne prego, fantastica creatura. Vedi mo: quest'aria, che in te risveglia la poesia, in me stuzzica l'appetito! » Ma Elisa, la sorella maggiore, una giovinetta malinconica e bella come la Malvina d' Ossian, non dava pensiero alla premura di Vittorina. Ella s' era abbandonata mollemente sul poggiolo del terrazzo, distratta guardava l'acqua del lago, che rompevasi con monotono gorgoglio al piede del sasso, e diceva sotto voce, parlando con sè stessa: - O mia povera madre! se tu pure fossi qui con noi! io t' ho conosciuta appena: ero così piccina ancora, quando ci abbandonasti per andare in paradiso!... Ma pure mi ricordo di te, mi ricordo de' tuoi baci, delle tue carezze.... Tu eri malinconica! Oh se tu fossi qui con noi; non piangerei, ma così!... - E sollevava la faccia al sereno del cielo. Venne in quella sul terrazzo un vecchio signore, d'alta statura, di contegno serio e severo; il quale salutò d' un cenno della mano le due giovinette, poi si mise a sedere. Vittorina gli corse al fianco, e lo baciò in fronte, con una tenerezza infantile, dicendogli: «Buon giorno, padre mio! come state? » « Bene. » « Volete ch'io serva il tè? farei subito colezione ben volentieri! Via, non siate così brusco: l'aria di questo paese non vi rallegra? » « Si, quel che vuoi, cara. Ma Elisa che fa? » « Eccomi, padre mio! perdonate, ero distratta ne' miei pensieri.» Intanto che le due sorelle apprestavano il tè, lord Guglielmo Leslie se ne stava taciturno, corrucciato in viso, e le gomita appoggiate alla tavola, in atto d'interno dispetto; le due' giovinette si sogguardavano tacitamente a ora a ora. Ma la fronte di Vittorina era serena e gaia, e sulla sua bocca scherzava sempre un ingenuo sorriso; Elisa invece levava gli occhi azzurri, intenti, e pareva voler leggere nella cupa meditazione del padre, come sentisse il bisogno di dividere il suo dolore e di confortarlo. Quella era dunque una mattina assai mesta, in faccia a un cielo incantevole, nel giorno più bello della primavera. Dopo un lungo silenzio, e finita la colezione, Elisa si volgeva a suo padre, e vincendo una certa titubanza, dicevagli con tutta soavità: «Perdonategli, padre mio, perdonate al nostro buon Arnoldo! Ditemi che non è vero che voi non l'amiate più!... Dunque, se l'amate ancora....» « Chi mi parla di colui?... » rispose con piglio severo il lord. « È la vostra Elisa, padre mio, la vostra Elisa, a cui pur volete tanto bene.- Ma ne volete anche ad Arnoldo, e nel vostro cuore gli perdonate, non è vero?» « Finitela, » riprese il padre, « finitela! Guai a chi mi parla di riconciliazione con quell' uomo indegno!... È troppo! » - E battè con tal impeto di rabbia il pugno sulla tavola, che la povera Elisa si levò sbigottita; e Vittorina, che già stava per aggiunger la sua alla preghiera della sorella, balzò indietro, e mise un grido di spavento. Il vecchio lord, mormorando ancora: - È troppo! - aggrottava le ciglia; poi, alzatosi dispettosamente, voltava le spalle alle figliuole; e rientrato in casa, chiudevasi dietro le imposte. Elisa e Vittorina rimasero guardandosi l' una l'altra, senza osare seguirlo cogli occhi, nè dir parola. Lord Guglielmo Leslie discendeva da una famiglia antica e chiara. I Leslie avevano avuta non l' ultima parte nelle vicende politiche del loro paese; e quantunque scaduti da quell'antico splendore di potenza famigliare che i secoli e le ricchezze avevano sancita, serbavano tuttavia gli avanzi di quell'orgoglio aristocratico, e di quella superbia, direi quasi dinastica, che i severi Inglesi, più che tutti gli altri, seppero mantenere in mezzo a tutte le loro cittadine libertà e a' loro civili progressi. Non c' è popolo, che al pari dell' Inglese sia così ostinato e sdegnoso sostenitore de' privilegi e delle franchigie che i nobili vantano sui cittadini, e che mentre combatte in pace e in guerra per la causa della libertà delle nazioni, conservi con tanta gelosia le sue prerogative, i suoi diritti; i quali almeno non sono colà, come altrove, una boria ridicola, poichè posano saldi sopra una base di fatto, come il cammino degli avvenimenti e le vicende del potere civile ve li hanno essenzialmente stabiliti. I Leslie di Falconbridge tenevano ancora alcuni vasti poderi in una delle più colte contrade del mezzodì d'Inghilterra. Al principiar del nostro secolo, non erano rimasti di quella famiglia che due fratelli, lord Giorgio e sir Guglielmo. Il primo, dopo che sostenne una grave magistratura dello Stato, andò a ritirarsi nelle sue terre, in seguito d'una mutazione del ministero: il re aveva premiato le sue fatiche e il suo ritirarsi a tempo, col titolo di barone. Ma lord Giorgio non aveva figliuoli, e la sua recente dignità doveva passare nella linea cadetta. Sir Guglielmo dunque tenne aperti gli occhi sull' andar delle cose; accarezzò sempre le opinioni di suo fratello, e aspettò quel giorno che doveva dargli nuovi diritti e nuovi doveri. Nella futura grandezza dell' unico suo figliuolo Arnoldo egli concentrava tutta la propria potenza, tutta quella del nome della sua famiglia, del quale era così geloso veneratore. Altero per costume e per educazione, tenace, fino allo scrupolo, di sua antica nobiltà e delle domestiche abitudini alle quali era stato ligio per tant' anni, dal tempo che viveva nell' antico castello di suo padre, là nell'Hampshire, sir Guglielmo pareva, dispettoso d'invecchiare, senza vedere che le sue speranze s' avverassero mai. Non dirò che avesse desiderata la morte di suo fratello lord Giorgio, per venire in possessione delle sue grandi tenute e per andarne esso pure a sedersi nel parlamento; ma stava ad aspettarla, essendo Giorgio d' alcuni anni più vecchio di lui, e di salute logora e fiacca. A quarant' anni, sir Guglielmo s' era ammogliato con Arabella Randale, che l' aveva fatto padre d' Arnoldo e di quelle due care giovinette, Elisa e Vittorina. La povera Arabella non era stata felice! Sacrificata, come pur troppo avviene spesso anche fra noi, all' orgoglio e all' interesse, era stata gettata, qual vittima, nelle braccia d'un uomo da lei non amato, e che le tolse il suo per darle un nome, che non le fece palpitare soavemente il cuore, se non quando divenne il nome de' suoi figli. Ma l' anima sua era pia, la sua volontà docile e rassegnata. Tutta la vita di lei, che non fu lunga, era stata uno studio costante e secreto d' amar l'uomo ch' girale toccato a compagno, di cercare le più sane e oneste idee della mente di quest' uomo, le sue virtù sebben piccole, e le affezioni del suo cuore, per rispettarlo e amarlo in quelle. Ma sir Guglielmo era uno di coloro a' quali la natura sembra aver rifiutato il dovere amoroso di marito e di padre. Agitato da continui pensieri di fumo e d'ambizione, travagliato da mala vicenda nella domestica economia, era quasi sempre meditabondo, accigliato, dispettoso : fosse il cielo torbido o sereno, si raccontasse di fortune o di miserie, si spargesse la gioia o il dolore nella famiglia o ne' circoli, sempre la stessa nube era sulla sua fronte, lo stesso amaro sorriso sulle sue labbra. Non mai egli sovvenne la disgraziata sua donna di quelle consolazioni che cancellano tante memorie penose, nè mai le fu largo di quelle sollecite cure che medicano anche le più triste piaghe della vita. Arabella avea vent'anni quando fu maritata a sir Guglielmo; a trentadue ella moriva, moriva portando con sè tutto il cordoglio della sua vita sconosciuta e negletta. Aveva compiuto il sacrifizio di tutto ciò che v'ha di più sacro, la fede e l' amore, e non lasciava in terra che un pensiero di rammarico e un ultimo ardente desiderio; il pensiero de' suoi tre figliuoli, i quali, così giovani ancora, restavano senza di lei; il desiderio ch'essi almeno, più di lei, potessero esser felici. Dopo la morte di sua moglie, sir Guglielmo si mise dentro, assai più che prima non avesse fatto, nelle pubbliche cose. Si dimostrò allora uno de' più caldi sostenitori della parte de' tory, come già era sempre stato, e adoperò nome, fatiche e promesse al trionfo di quella. Sebbene non fosse quel che si chiama uom di Stato, e i più lo tenessero in conto di persona di comune levatura, nondimeno aveva quella prudenza politica che insegna di non arrischiar mai troppo, e quell'accorgimento che consiglia i mediocri d'appoggiarsi a' potenti senza farseli necessarii, e di giovarsene a tempo, facendo sembiante d'aiutarli. Mandò, com' è quasi legge pe' ricchi Inglesi, il suo Arnoldo a viaggiare sul continente; affinchè poi, tornato in
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La sua salvezza è dovuta a questo lupaccio - finì col dire Martino e andò ad abbracciare Lico che mugolò di piacere. Tutti erano pensosi al mistero di quella bestia, quando Cherubino domandò: - E gli hanno dato la medaglia?
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Voglio abbracciare il piccolo dio!... Voglio abbracciare la bimba! Voglio abbracciare tutti! Bene!... Come ci divertiremo!... Voglio far paura a Tylette.... Bau! Bau! Bau!... LA GATTA Signore, non ho il piacere di conoscervi. LA FATA (minacciando il Cane con la sua bacchetta) Sta' fermo, tu; se no ti faccio rientrare nel silenzio fino alla fine dei tempi.... (Nel frattempo la scena magica continua a svolgersi. L'Arcolaio in un angolo si è messo a girare vertiginosamente dipanando dei meravigliosi raggi di luce. Dall'altra parte la Fontanella si mette a cantare con voce acutissima, e, trasformandosi in fontana luminosa, inonda l'acquaio di un torrente di perle e di smeraldi dove si getta l'anima dell'acqua, simile a una fanciulla scapigliata, grondante di pioggia, e tutta in lacrime. Essa si azzuffa subito col Fuoco). TYLTYL E quella signora tutta bagnata?... LA FATA Non temere. È l'Acqua, che scappa fuori dalla cannella.... (Il Bricco del latte si rovescia, cade in terra, si spezza. Dal latte sparso s'inalza una figura alta, bianca e pudica, che ha l'aria di aver paura di tutto). TYLTYL E quella signora in camicia, così spaurita?... LA FATA È il Latte che ha rotto il suo bricco.... (Il Pan di zucchero posato ai piedi dell'armadio cresce a poco a poco e rompe l' involucro di carta, dal quale sbuca fuori un essere sdolcinato e mellifluo, vestito con una cappa mezza bianca e mezza celeste, che sorridendo beatamente si avanza verso Mytyl). MYTYL (impaurita) Chi è?... LA FATA Non vedi? È l'anima dello Zucchero!... MYTYL (rassicurata) Chi sa se avrà lo zucchero filato?... LA FATA Sì, certo; in tasca non ha che zucchero filato, e ogni dito della mano è di zucchero filato.... (La Lampada cade a terra, e appena caduta, la sua fiammella si raddrizza e si trasforma in una vergine luminosa d' incomparabile bellezza. È coperta da lunghi veli trasparenti e abbaglianti, e rimane immobile, come in estasi). TYLTYL È la Regina!... MYTYL È la Madonna!... LA FATA No, bambini miei. È la Luce. (Intanto le cazzeruole sulle mensole si mettono a girare come tante trottole. L'armadio della biancheria spalanca i suoi sportelli, e ne escono fuori stoffe magnifiche color di sole e color di luna, alle quali si uniscono dei cenci e degli stracci dall'aspetto non meno sontuoso, che scendono giù dalla scaletta del granaio. Ma a un tratto si odono tre colpi bruschi alla porta a destra). TYLTYL (spaventato) È il babbo! Ha sentito!... LA FATA Gira il diamante!... Da sinistra a destra.... (Tyltyl gira in fretta il diamante). Non così in fretta! Dio mio! È troppo tardi.... L'hai girato troppo presto.... Non faranno più a, tempo a riprendere il loro posto e avremo delle noie, ho paura.... (La Fata riappare di nuovo sotto l'aspetto di una brutta. vecchia; le pareti della capanna perdono il loro splendore, le Ore ritornano dentro all'orologio, l'Arcolaio si ferma, ecc. Ma nella fretta e nella confusione generale, mentre il Fuoco corre pazzamente intorno alla stanza in cerca del focolare, uno dei Pani Tondi da quattro libbre che non è riuscito a trovar posto nella madia, scoppia in singhiozzi urlando dallo spavento). Che cosa c'è?... IL PANE (piangendo) Non c'è più posto nella madia?... LA FATA (guardando dentro alla madia) Ma sì, ma sì.... (spingendo gli altri Pani che hanno ripreso il loro posto). Via, presto, stringetevi un po'.... (Bussano di nuovo alla porta). IL PANE (smarrito, sforzandosi invano di entrare nella madia) Non c'è rimedio.... Mi mangeranno prima degli altri! IL CANE (saltando intorno a Tyltyl) Mio piccolo dio!... Io son sempre qui!... Posso parlare ancora!... Ancora! ancora! ancora... LA FATA Come, anche tu?... Sei sempre qui?... IL CANE Ho avuto fortuna!... Non sono potuto tornare nel silenzio. La botola si è chiusa troppo presto.... LA GATTA E la mia pure.... Che cosa succederà?... Siamo forse in pericolo?... LA FATA Ecco, debbo dirvi la verità: tutti quelli che accompagneranno i due bambini, moriranno alla fine del viaggio.... LA GATTA E quelli che non li accompagneranno?... LA FATA Sopravviveranno pochi minuti.... LA GATTA (al Cane) Vieni, rientriamo nella botola.... IL CANE No, no, non voglio!... Voglio accompagnare il mio piccolo dio!... Voglio parlargli sempre!... LA GATTA Scimunito!... (Bussano di nuovo alla porta). IL PANE (piangendo a calde lacrime) Non voglio morire alla fine del viaggio!... Voglio tornar subito dentro la madia!... IL Fuoco (che nel frattempo non ha smesso un istante di correre vertiginosamente intorno alla stanza, con sibili d'angoscia) Non trovo più il focolare!... L'ACQUA (tentando invano di rientrare nella cannella) Non mi riesce più di rientrare nella, cannella!... Lo ZUCCHERO (affannandosi intorno all'involucro di carta) Ho lacerato la, carta che m'involtava... IL LATTE (linfatico e pudico) Mi hanno rotto il bricco! LA FATA Che stupidi, Dio mio!... Stupidi e vili.... Preferireste dunque di continuare a vivere in quelle brutte scatole, nelle botole o dentro alle cannelle piuttosto che accompagnare i bambini nella ricerca dell'Uccellino Azzurro?... TUTTI (eccettuati il Cane e la Luce) Sì, sì! Lo preferiamo!... Oh, la mia cannella!... La mia madia!... Il mio focolare!... La mia botola!... LA FATA (alla Luce, che contempla pensosa i resti della sua lampada infranta) E tu, Luce, che cosa ne pensi?... LA LUCE Io accompagnerò i bambini.... IL CANE (abbaiando di gioia) Anch'io!... anch'io!... LA FATA Meno male! È troppo tardi, in ogni modo, per tornare indietro. Non sta più in voi di scegliere; perciò verrete tutti con noi.... Ma tu, Fuoco, abbi cura di non avvicinarti a nessuno; e tu, Cane, non punzecchiare la Gatta e tu, Acqua, procura di star bene diritta e di non sgocciolare dappertutto.... (Si odono novamente dei colpi violenti alla porta di destra) TYLTYL (ascoltando) È il babbo, di nuovo.... Questa volta si è alzato davvero, lo sento camminare.... LA FATA Usciamo dalla finestra.... Verrete tutti a casa mia, e cercherò di vestire come si conviene gli animali e le cose.... (Al Pane) Tu, Pane, prendi la gabbia nella quale metteremo l'Uccellino Azzurro.... L'affido a te.... Presto, presto, non perdiamo tempo.... (La finestra si allunga a un tratto e si trasforma in una porta. Escono tutti, dopo di che la finestra riprende la sua forma primitiva, e si richiude come se nulla fosse. La stanza è ritornata buia, e i due lettini sono immersi nell'ombra. L'uscio a destra si schiude, e attraverso lo spiraglio fanno capolino Babbo Tyl e Mamma Tyl). IL BABBO Non era nulla, te lo dicevo.... è il grillo che canta.... LA MAMMA Li vedi?... IL BABBO Sì. Dòrmono quieti quieti.... LA MAMMA Li sento respirare.... (L'uscio si richiude). CALA LA TELA
Gli vennero le lacrime agli occhi e si precipita ad abbracciare Cuddu, che scoppiava in pianto, balbettando: - Oh, compare Ignazio! - Che cosa è stato? Che cosa è stato? - Non lo affaticate facendolo parlare. Non vedete com' è commosso? - Scusi, signora... - Ve lo dirò io : si è battuto, è stato ferito... È vivo per miracolo. È vostro parente? - Paesano. - Potete esserne orgoglioso. Si è fatto onore; avrà una medaglia. Compare Ignazio non credeva ai suoi orecchi. - Ti sei... battuto?... Possibile? Com' è stato? Che hai fatto? Cuddu, a cui riusciva oscuro il significato di quelle parole: - Ti sei battuto? - spalancava gli occhi in viso a compare Ignazio, sorridendogli col solito sorriso da scioccherello che gli veniva alle labbra ogni volta che egli non capiva quel che gli domandavano. - Com' è stato? - insisteva compare Ignazio. - Non lo fate affaticare parlando; i dottori non vogliono. - Scusi, signora mia... E si voltò a un gran rimescolìo che avveniva in fondo alla sala. - Il Generale! Garibaldi! Il Generale! - correva di bocca in bocca. Tra i dottori, le signore e un séguito di camicie rosse, Garibaldi si fermava davanti a ogni letto, interrogava i feriti, diceva una buona parola, dava una stretta di mano. Parecchi feriti laggiù si erano rizzati a sedere sul letto, gridando: Viva Garibaldi! Cuddu accennò a compare Ignazio di farsi da parte. Aveva cessato di piangere; il viso, pallido per le sofferenze, gli si era improvvisamente acceso di viva fiamma ; gli occhi gli brillavano e sorridevano assieme con le labbra. - Lasciatemi vedere! - Non ti agitare; verrà anche da te! - gli disse la signora. - Io lo conosco; gli ho portato una lettera! - balbettò Cuddu, battendo le mani dalla gioia. La signora, che era tra quelle che più si erano affezionate a Cuddu per l'età, si sentiva già presa da forte commozione. Avrebbe visto Garibaldi da vicino! Gli avrebbe parlato! Lo aveva intravisto soltanto da lontano, dal balcone di casa, il giorno che il Generale era entrato a Messina, dopo la vittoria di Milazzo. E lo diceva al paesano di Cuddu con voce alterata dall'emozione. Un ferito, due letti più in là, aveva preso la mano del Generale e gliela baciava, tenendola stretta fra le sue, e gliela ribaciava, bagnandogliela di lagrime di riconoscenza e di gioia. Garibaldi sorrideva, gli diceva certamente belle parole, perché il ferito riprendeva a baciargli la mano con più forza, e non sapeva risolversi a lasciargliela libera. A piè del letto di Cuddu, il Generale si era fermato quasi dubitando che anche quel ragazzo potesse essere uno dei feriti. Cuddu credette che lo avesse riconosciuto e, togliendosi vivacemente il berretto bianco, articolò con un fil di voce: - Voscenza benedica! - Ferito al fianco, a Milazzo... Ha tredici anni! - si affrettò a spiegare la signora. - È in via di guarigione? - domandò il Generale, - È fuori di pericolo - rispose la signora. - Come ti senti? Sei stato bravo! - soggiunse il Generale, accostandosi al capezzale e accarezzando affettuosamente la testa del ragazzo. - È uno dei picciotti... Anche voi siete delle Squadre? - domandò a compare Ignazio, che si era messo sull'attenti e respirava appena. - Eccellenza, sì!... Questi è mio paesano. - Vi ho portato una lettera a Palermo - disse Cuddu rincuorato. Garibaldi stette un istante pensoso, quasi cercasse di ricordarsi. - Mi mandava mastro Sidoro - riprese Cuddu. - Lo mandò il Comitato. Alla dilucidazione di compare Ignazio il Generale accennò lievemente col capo e sorrise. - Come ti chiami? - Cuddu. - Domenico Costa - corresse compare Ignazio. - Di che paese? - Da Ràbbato, provincia di Catania. - Prendete nota - disse il Generale rivolto a uno del suo séguito. - Come avete detto? - domandò questi a compare Ignazio. - Domenico Costa, da Ràbbato, provincia di Catania. Ma, appena Garibaldi si fu allontanato, compare Ignazio, che non sapeva spiegarsi come Cuddu fosse stato ferito e non poteva affatto credere che si fosse battuto coi soldati borbonici, tornò a domandargli: - Com' è stato? Che hai fatto? - Niente - rispose Cuddu. Intervenne la signora: - Ora zitto! Ricòricati! Lo aiutò maternamente a rimettersi sotto la coperta, togliendo via parecchi guanciali, e: - Lasciatelo tranquillo - raccomandò a compare Ignazio. - Quella poveretta di tua madre!... Le faccio scrivere! Tornerò domani. E compare Ignazio uscì dall'ospedale, gesticolando come chi non arriva a spiegarsi quel che ha veduto e sentito. In verità Cuddu non avea fatto nulla da farsi scambiare per un eroe. E ora, dopo parecchi anni, ora che lo chiamano Mastro Cuddu, o meglio col nomignolo di Gambalesta, perché fa il manovale e anche l'espresso quando a qualcuno occorre di dover spedire una lettera d' importanza e avere sùbito la risposta, se gli domandano dei fatto di Milazzo, egli fa una mossa di compatimento. Non vuole ingannare la gente e farsi prendere per quel che non è stato, quantunque, per un anno, avesse indossato la camicia rossa, con la medaglia attaccata sul petto, e Garibaldi fosse rimasto un sacro ricordo per lui. Spesso, però, pensando alle sue scappate di ragazzo, rimpiange: - Se avessi dato retta alla mia povera mamma, ora non farei questo mestieraccio! Suol dire anche: - A questo mondo ci vuol fortuna! Mi hanno dato la medaglia, chi sa perché? Tanti altri, che forse se la meritavano davvero, non l' hanno avuta. Accade spesso così, pur troppo! Il nomignolo di Gambalesta, questo, sì, me lo merito e ci tengo. Guadagno più pane con le gambe che con le braccia! Si vede che il Signore mi ha fatto a posta per correre qua e là, e per portar sassi e calcina. Sia fatta la volontà di Dio! O forse Domineddio mi ha castigato perché ho disobbidito alla mamma!
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ABBRACCIARE il partito di... Frase poco elegante, pagina 69. ABUSO. Da non iscambiarsi con l' uso, pag 28, 49. ACCATTARE. Turpe mestiere da oziosi, pag. 189. ACCENTO MOBILE. Vedi DITTONGO MOBILE. pag. 18. AMALASUNTA, regina d'Italia prima martire della civiltà italiana, pag. 13. A MENO CHE. Congiunzione presa per barbara, pag. 45. AMOR filiale. Mirabile esempio di esso, pag. 272. ANNIBALE. Suo complimento a Scipione, pag. 100 ANTIPATIA. Suo vero significato, pag. 18. APOSTASIA. Brutta cosa difficilmente onesta, pag. 109. APOSTATA. È disprezzato da tutti, pag. 109. ARCADIA. Che cosa è l'Accademia d'Arcadia; e che cosa sono i Pastori e le Pastorelle d'Arcadia, p. 213, 214. ARTE DI SCRIVERE. Precetti intorno ad essa, p.27, 28. ARTICOLO. Viziosamente ripetuto nei modi simili a questo: l' uomo il più illustre, pag. 226. ASPETTARE. Il farsi aspettare non è ufficio di buona creanza, pag. 70. ATTUALMENTE per Al presente; è modo falso, pagina 163. AVERSIONE e AVVERSIONE. Divario fra queste voci, pag. 18. AZZARDO, AZZARDARE. Voci errate, pag. 17. BARBO e MAMMA, Voci dolcissime, adulterate dagli Italiani snaturati, 86,224. BASTIMENTO per nave, legno, Voce barbara, pag. 89. BELLEZZA. Da pregiarsi meno che la virtù; è spesso dannosa, pag. 40. BENPORTANTE, per Robusto. Ripreso, pag. 226. BRILLANTE, per Splendido, Ricco. ecc., è errore, pagina 226. BUGIA. È vizio vergognoso, pag. 92. Grazioso scritto contro di essa, pag. 250. CACOFONIA o Mal suono: bisogna fuggirla, pag. 22. CANTANTI. Quando sono eccellenti son degni di ogni fama, pag. 277 e seg. CARICA per Ufficio, è brutta voce, pag. 46. CARITÀ. Qual è la vera carità verso i poveri p. 188, 189. Male spesa verso coloro che vanno accattando pag. 189. CERIMONIA. L'esser troppo cerimonioso è vizio p.100, 101. CESARE. Perchè gl' Imperatori si chiamano Cesari, pag. 176, 177. COMMEDIANTI O CANTANTI. Se si possono celebrare, e proporre ad esempio, pag. 116, 275, 276. COMMERCIO di lettere. Frase poco elegante, pag. 70. COMPLIMENTI. Vedi CERIMONIA. Complimento grazioso di Annibale a Scipione; e di un gabellotto a un guerriero, pag. 100, 101. CONGIUNZIONI. Il loro uso è di grande ajuto al buono stile, pag. 108. CONSACRARSI allo studio. Modo poco elegante, pag. 70. CONTROLLARE e CONTROLLO. Voci false, pag. 112, 113. CORNELIA, madre de'Gracchi come rintuzza l'alterigia di una donna vana, pag. 80. COSA per Che cosa. Ripresa, pag. 31, 32, 33. COSTRUTTO singolare spiegato, pag. 182, 183. CZAR. Che cosa vuoi dire, pag. 176. DANTE. L' Inferno tradotto in latino dal prof. Catelacci, pag. 170. Se lo studio della Divina Commedia sia facile alle fanciulle, pagine 171, 180. DARE e STARE. Natura di questi due verbi, e modo di conjugarli,pag. 161, 162. DASSI E STASSI per Dessi e Stessi, sono errori, e perchè pag. 161, 162. DECORO. Da osservarsi nello scrivere, pag. 49. Come vi si manca, pag. 225. DEDICA per Dedicatoria è inelegante, pag. 115. DIPLOMATICO. Pranzo diplomatico. Se, e quando sia da dirsi, 45. DISCORSO. Che cosa è veramente, pag. 45. DISTINTO per nobile, singolare. Ripreso, p. 108, 163, DITTONGO MOBILE. Regola per sapere dove o quando cade, pag. 230. DONNA. Suo mandato nell'umano consorzio, p. 9. Non le disconviene l' attendere ad opere virili e guerresche, pag. 21. Non istà bene però il mostrare di esser troppo spiritosa, pag. 22. Se le donne debbano emanciparsi; e quale è il loro ufficio nella civile conversazione, pagina 37. Se è lodevole a una donna pigliar parte a tumulti, pag. 58. Se dee seguitar la moda, e come, pag. 65, 66. Quali donne eran tenute in pregio dai Romani, pag. 80, 81, e da Dante. Donne letterate, e loro vanità, pag. 147. Sono lo scherno di tutti, pagina 147. Se lor convenga lo studiare anatomia, pagina 169. Perchè vi sono state molte donne pittrici? pag. 180,181. Quanti ostacoli ha la donna per divenire famosa al pari dei più sommi, pag. 205. Se è vero che generalmente le donne sieno astiose, pagina 214, 215. Perchè non ci sono donne che abbiano scritto!storie famose? pagina 220, 221. EDUCAZIONE femminile. Quale è ottima, pag. 8. De figliuoli in generale. Precetti nobilissimi di Bernardo Tasso, pag. 121, 122. ELLA E LEI perchè si dice anche parlando ad un uomo pag. 166. ENIMMI. Vedi INDOVINELLI. EPOCA per Tempo è falso, pag. 163. EZZELINO. Burla fatta da esso agli accattoni del suo Stato, pag. 190, 191. FAMA. Molti acquistano fama anche senza merito vero; e perchè, pag. 203, 201. Ma dura poco, ivi. FANATIZZARE, FARE FANATISMO. Modi ripresi, pag. 225 e 226. FATTI. Molti fatti gravissimi si giudicano male senza conoscerne le vere cagioni, pag. 103. FELCETTI. Villa presso Pistoja pag. 128 e 129. FLOTTA per Armata. Non bella voce, pag. 23. FONTAINE (La). Sua strana natura, pag. 150. Sua semplicità raccontata, 151. FRANCIA. È la regina della moda, e bisogna rassegnarsi a pigliar da essa anche lo voci di varie foggie variabilissime, pagina 266 e 267. FUSSE per FOSSE. Idiotismo, pag. 89. GERUNDJ sono efficace ajuto allo stile, saputi usare, pag. 108. GIUOCHI d' ingegno descritti Domanda e risposta. Uccellin volò volò, pag. 130 e 131. GLI per A lei, è solecismo, pag. 23, 108, 167. GLIELA, GLIELO, GLIELE si dicono tanto nel mascolino quanto nel femminino pagina 46. IMPROVVISATORI e IMPROVVISATRICI. Se meritano lode o biasimo pag. 238, 242. INDOVINELLI, ENIMMI ecc. Se sieno esercizio utile o no per i giovani? pag. 245 e seg. Esempj di Enimmi o di Indovinelli, pag. 246 e 249. INTRAPRESA. Voce falsa, pagina 94. KAISER. Che cosa vuol dire? pag. 176. LA DI LEI, IL DI LEI. Modi leziosi, pag. 85. LEGGEREZZA. pag. 50 LINGUA. Come dee chiamarsi, Italiana, Toscana o Fiorentina? pag. 85. Non si altera per l'uso di poche voci nuove; ma per altre cagioni, pag. 113. Mescolare, scrivendo, voci e modi antiquati con modi e voci nuove è difetto: ed esempj di ciò, pag. 163. Lo scrivere sconciamente dei più degli scienziati italiani, è gran vituperili della nazione, pag. 198, 199. LINGUAGGIO musicale. La Francia, la Germania e l'Inghilterra lo hanno preso da noi, pag. 113. LO. Lo si dice, lo si fa ecc. Modi strani, pag. 22. LO per Tale. Ripreso, pagina 31 e 45. LUI E LEI per Egli e Ella. Quando si pu� usare, pagina 31. LUISA O LUIGIA. Come è meglio detto? pag. 173 MAESTRO. Quale sia da pregiarsi, pag. 7. MARITO. Come dee condursi la buona moglie col cattivo marito, pag. 53, MEDICO. Arguta risposta di uno di essi, pag. 169. METTERE AD ESECUZIONE. Non troppo elegante, pagina 23. MODA. Con quali regole dee seguitarsi dalle donne, pagina 65 e seg. Considerata come industria è fonte di ricchezza ad una nazione, pag. 266. Il linguaggio della moda è così variabile, che non si può pretendere di ridurlo a pura italianit�, pag. 266. MODESTIA. Il suo eccesso non è lodevole, pag. 100. MODI troppo famigliari o plebei, disdicevoli in grave scrittura; e come si hanno a usare, pag. 48 e seg. MOGLIE. Come dee portarsi col marito cattivo, pag. 53. MUSICA. Nobiltà ed eccellenza di tale arte, pag. 276. NOBILI. I nobili ed i ricchi son tenuti più che gli altri a usare gli uffici di civiltà, pag. 70. NOBILTÀ. Se sia da menarne vanto; e quale sia nobiltà vera, pag. 79 NOME. La conformità di nome con persona famosa può invogliare a cercar fama, pag. 87. NOMI di ufficio si usano mascolini anche parlandosi di donne, pag. 46. NOMI proprj della donna, famigliarmente, si usano con l'articolo. Ma parlando di donne celebri, si può lasciare, pag. 70,71. NOVELLA del Damerino ghiotto, pag. 134, 135. NOVELLA dell'avaro Mignatta, pag. 156, 157. NUORA. Falsità del proverbio Suocera e nuova, ecc. e come la nuora dee portarsi con la suocera, pag. 75, 76. ONDE per Affine di. Ripreso, pag. 86. ONORE. Ho l' Onore di essere, ecc. Modo falso, pagina 86. PAPPÀ e MAMMÀ Vociaccie riprese, pag. 86. PAROLE. Debbono essere adattate ai tempi de' quali si parla, pag. 23. Parole e modi pedanteschi ripresi, pag. 21. Sono da adoperare quelle dell' uso, pag. 22. PEDANTERIA. Che cosa è pag. 19. Peccato più comportabile della licenza, e del neologismo, pag. 23. PERITANZA. Buona cosa, ma l' eccesso è vizioso, pag. 42. PIANO per Proposta, Disegno. Voce falsa, pag. 112. PLAGIO. È cosa, vile farsi bello delle opere altrui, pag. 92. POETA. I veri poeti sono rarissimi; e sono incomportabili i mediocri, pag. 203. Come alcuni di essi acquistano fama, pag. 210. POETA CESAREO. Che cosa vuol dire, e perchè detto così, pag. 175, 176. POETESSE. Se è vero che sieno insopportabili a trattarle; e che abbiano modi svenevoli, pag. 202, 203. Loro difesa, pag. 203. Quelle che sono veramente svenevoli sono derise da'savj, p. 205. POPOLARITÀ nello scrivere. Come si acquista, pag. 32. POPOLO. L'uso del popolo non fa autorità per i solecismi, pag. 233. PRADON, poeta francese; sua stana avventura, pag. 146 e 151. PROGETTO per Proposta, Disegno. Ripreso, pag.96, 112. PROVERBI, Origine del motto: Va come dicea la Cia, 163. QUI e QUIVI. Uso vero di tali particelle, pag. 71. RACINE, Sua pronta risposta a Luigi XIV, pag. 150. RAPPORTO. Avere rapporti con alcune. Modo falso, 45. RICCHI. Vedi Nobili. RIMARCABILE per Notevole, è brutta voce, pag. 226. ROMANZI. La lettura de romanzi è pericolosa alle fanciulle, e perchè, pag. 208. Ritratto di una lettrice di romanzi, pag. 209. Quali romanzi si possono leggere? pag. 210. ROSSI. Nobile famiglia pistojese, pag. 118. Sua villa di Felceti, pag. 128. Cavalier Girolamo de' Rossi, p. 129. SCRITTORE. Chi ama far bene, non è mai contento del proprio lavoro, pag. 19. SCRITTORI ANTICHI. Bisogna studiargli, ma non copiargli, pag. 27, 28. SECOLO. Modo di nominargli secondo il loro numero ordinativo, pag. 11. SGOBBARE. Che significa, ed a chi sta bene? pag. 225. SI FECE, SI DISSE, ecc., per Facemmo e Dicemmo. È ben usato? pag. 31, 33. SOLECISMI. Per essi il popolo non fa autorità pag. 33. SORPRENDENTE per Mirabile. Ripreso, pag. 226. SPOSA. Avvertimenti a una sposa novella, pag. 74,75. STILE. Difetti dello stile, pagine 88, 89. Lo stile è l'uomo; e poco può far di buono chi non è favorito dalla natura, pag. 89. Lo stile spezzato è difettoso; e accorgimenti da fuggirlo, pag. 108, 109. STORICO. Gli storici è difficile che sieno spassionati, pag. 102. STUDIO. Senza studio non si può far cosa buona, p.93. SUOCERA. Vedi NUORA. SVILUPPARSI per Fiorire, Pigliar vigore, ecc. Voce ripresa, pag. 108. TALENTO per Ingegno. Voce falsa, pag. 105. TASSO (Bernardo). Precetti di educazione, pag. 121, 136 TOELETTE, è barbarismo, pagina 23. Voce francese abusata in Italia; e quanto sia stolto l' uso che i Francesi stessi ne fanno in diversi significati: e se la lingua italiana abbia voci belle e buone in suo scambio, pag. 256 e seguenti. USO, Fa legge in opera di lingua; ma non si scambi con l' abuso, pag. 28, 49. VANITÀ femminile. Biasimata, pag. 41. Vanità di andar attorno per istampa, in cerca di lodi, pag. 147. VEDOVA, Lo stato delle vedove è pieno di pericoli e di difficoltà. Come debbono governarsi, pag. 138, 189. VERECONDIA. Buona cosa; ma l'eccesso è vizioso, pag. 41. VIRTÚ. Da valutarsi molto più che la bellezza, pag. 37. Qual è la più difficile virtù nella donna? pag. 133. VOCI e MODI ERRATI. Come governarsi per accettarli o fuggirli, pag. 96, 97. VOCI NUOVE. Non bisogna esser troppo scrupolosi ad accettarle quando significano cose nuove, pag. 112.
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Quel commercio di lettere della Vittoria col suo marito, non dico che sia errore; ma a me è parsa sempre frase sgarbata, e metafora mal acconcia, nè saprei partirmi dalla bella e schietta voce corrispondenza: e frase parimenti sgarbata e metafora anche peggio acconcia, mi pare il consacrarsi allo studio, ed abbracciare il partito d'uno per darsi tutto allo studio, attendervi assiduamente; e seguitare le sue parti o simile. I nomi proprj delle donne si sogliono usare sempre con l'articolo, la Giulia, la Caterina; e quel sentirle dire che Vittoria gliene scrisse, mi ha dato un po' nell'orecchio. Lei però la scuso, perchè questa leziosaggine è usata spesso da coloro che pretendono di parlare in punta di forchetta; e non sanno. Lo tenga a mente: benchè, parlandosi di donne celebri, pare che si possa comportare. Errore assoluto poi è l'usare qui per quivi, come ha fatto lei, dove scrive che la Vittoria and� a Roma e qui morì. Il qui rappresenta sempre il luogo dove è chi parla; e quando si vuole accennare luogo lontano da chi parla, si dice quivi. C' è chi porta esempi di buoni scrittori, che hanno usato l'una di queste due particelle per l'altra; ma, se gli esempj sono antichi, sono alterati da' copiatori o dagli editori; se sono moderni, non hanno autorità Finito che ebbe il maestro, si fecero altre discussioni in cose di lingua, finchè venne il tempo di andarsene.
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Terminata la guerra, che era durata tre anni, con lo sterminio del nemico, il Reuccio coperto di gloria se ne tornò alla Corte del Re suo padre, tutto bramoso di rivedere la sposa e di abbracciare il figlio che ancora non conosceva. Il popolo gli mosse incontro acclamandolo, la Regina e il Re gli andarono incontro fino alle porte della città. Appena li scorse, non vedendo nè Mariuccia nè il figlio accanto a loro, si turbò tutto e corse a chiedere dove fossero. Il Re e la Regina si guardarono maravigliati. - Ma non scrivesti tu che dovevano essere scacciati? - domandò il Re. - Io?! Ma io scrissi che li teneste di conto più che la pupilla degli occhi vostri. - Ma la lettera l'abbiamo serbata, - disse la Regina. Basta. Tutta la gioia del Reuccio svanì. Vide la lettera e sentenziò: - Questa non l'ho scritta io. Qui c'è inganno, ma chi è stato il traditore? Ah, se l'avessi qui! - Il povero Reuccio non faceva che disperarsi e far cercare la moglie e il figlio. Egli se ne stava sempre rinchiuso nella sua camera e non parlava se non coi messi che tornavano dall'aver cercato la Reginuzza e il bambino. Così passarono molti anni senza che il suo dolore si calmasse, e spesso la madre gli diceva: - Vedi, ormai non c'è più speranza di ritrovarli; dovresti pensare a prendere un'altra moglie per assicurare la successione al trono. - Ma egli rispondeva: - Non sposerò mai altra donna; se Mariuccia e il figlio mio sono morti, io vivrò di dolore, ma nessuna Principessa prenderà il posto della mia sposa. - Un giorno alcuni signori della Corte stabilirono d'andare a caccia in un bosco lontano lontano, e tanto dissero e tanto fecero che indussero il Reuccio ad unirsi a loro. Partono a cavallo, battono il cinghiale, ma sul più bello si scatena una tempesta. I fulmini abbattevano gli alberi, il vento schiantava i rami, la pioggia e la grandine venivano giù come Dio le mandava. I cacciatori spronarono i cavalli per uscire dal bosco e schivare il pericolo d'esser fulminati. Appena all'aperto scorsero un bellissimo palazzo, bussarono e furono accolti gentilmente da tante cameriere, che li fecero entrare in una gran sala, dove in un vasto camino ardeva il fuoco. Da quella sala passò Mariuccia col figlio per andare nelle sue stanze, e tutti i cacciatori s'alzarono, credendola la padrona del palazzo, e l'ossequiarono. Ella, non appena ebbe fissato il Reuccio, lo riconobbe e impallidì, ma non disse nulla sul momento e si ritirò insieme col figlio. Però di lì a poco disse al giovinetto: - Hai veduto quel cacciatore più alto di tutti e col portamento così nobile, benchè pallido e come affranto dal dolore? Ebbene, quel cacciatore è il Reuccio tuo padre. Va' da lui e baciagli la mano. - Il fanciullo tornò nella sala, s'accostò al cacciatore che la madre gli aveva indicato, mise un ginocchio in terra e baciandogli la mano, gli disse: - Padre mio, beneditemi! - Figuriamoci quel che provasse il Reuccio in quel momento! Rialzò il fanciullo, se lo strinse al petto e pianse di gioia su quel capo che aveva tanto bramato di baciare. Poi si fece condurre dalla madre, e qui nuovi abbracciamenti e nuove lacrime. Mariuccia gli raccontò tutto quello che aveva sofferto e quanto l'aveva aiutata il cavalluccio e la promessa che gli aveva fatta di dargli una mangiatoia d'oro. Naturalmente il Reuccio insieme con la moglie, il figlio e il seguito andarono subito alla Corte. Il cavallino fu montato dal fanciullo e in città si fecero grandi feste a tutti, e anche al cavallino, che ebbe la sua mangiatoia d'oro e una stalla tutta di marmo e visse tanti anni, grasso bracato, e vide il Reuccio divenir Re, la Reginuzza divenir Regina e poi regnare anche il figlio di Mariuccia. Finalmente un giorno anche il cavallino sauro morì, e il Re gli fece erigere una statua.
Rossella si lasciò abbracciare perché era troppo stanca per lottare; perché le parole di lode erano un balsamo per il suo cuore e perché, nella cucina piena di fumo, aveva provato un immenso rispetto per sua cognata, e uno stretto senso di cameratismo. «Bisogna ammettere» disse fra sé rimuginando «che è sempre presente quando c'è bisogno di lei.»
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In cammino per Mimosa, e ansiosi di giungere a casa, si fermarono un attimo per abbracciare le ragazze e diedero la notizia della resa. Tutto era finito; e sembrava che avessero poca voglia di parlarne. Volevano soltanto sapere se Mimosa era stata incendiata. Sospirarono con sollievo nell'udire che la loro casa era stata risparmiata e risero quando Rossella raccontò loro la selvaggia cavalcata di Sally e come aveva scavalcato la loro barriera. - È una ragazza in gamba - affermò Toni; - ed è proprio una disgrazia per lei che Joe sia stato ucciso. Avete un po' di tabacco da masticare, Rossella? - Ho solo un po' di tabacco da pipa: lo fuma il babbo... - Ah, non sono ancora arrivato cosí in basso! Ma probabilmente ci arriverò... - E Dimity Munroe come sta? - chiese Alex con avidità ma con un leggero imbarazzo; e Rossella ricordò vagamente che egli si era sempre mostrato premuroso verso la sorellina di Sally. - Sta bene. È dalla zia, a Fayetteville. La loro casa a Lovejoy è stata incendiata; e il resto della famiglia sta a Macon. - Ma non capite - fece Toni, divertendosi delle occhiate furibonde che gli lanciava suo fratello - che vuole soltanto sapere se Dimity ha sposato qualche bravo colonnello della Guardia Nazionale? - Ma no; non si è sposata affatto - rispose Rossella divertita. - Forse avrebbe fatto meglio - brontolò Alex. - Come diamine... Scusate, miss Rossella; ma come può un uomo chiedere a una ragazza di sposarlo quando non ha piú la croce di un quattrino, non ha uno schiavo, non ha nulla di nulla da offrirle? - Sapete benissimo che Dimity non ci farebbe caso - rispose Rossella. Non le costava nulla dir bene di Dimity, perché Alex Fontaine non era mai stato un suo spasimante. - Fa lo stesso. Se non ci fa caso lei, ci faccio caso io... Mentre Rossella discorreva coi giovinotti nel porticato anteriore, Melania, Súsele e Carolene erano scivolate silenziosamente in casa, appena udita la notizia della resa. Rientrando, dopo che i Fontaine si erano avviati attraverso i campi verso Mimosa, Rossella udí le ragazze singhiozzare; erano tutt'e tre sedute sul divano nello studio di Elena. Tutto era finito: crollato il bel sogno che avevano amato e per cui avevano sperato; perduta la Causa che aveva portato via amici, innamorati, mariti, e aveva ridotto in povertà le loro famiglie. Ma per Rossella, non vi erano lagrime. Il suo primo pensiero era stato: «Ringraziamo Dio! Ora nessuno potrà piú rubare la mucca. Il cavallo è salvo. Possiamo togliere l'argenteria dal pozzo e tutti possono avere un coltello e una forchetta». Che sollievo! Non avrebbe piú il batticuore sentendo uno scalpitar di zoccoli. Non si sveglierebbe piú la notte trattenendo il respiro e tendendo l'orecchio chiedendosi se era realtà o sogno il tintinnar di finimenti che sentiva nel cortile, il tramestio e gli aspri comandi degli yankees. E, soprattutto, Tara era salva! Il suo tremendo incubo non si avvererebbe mai piú. Sí; la Causa era perduta; ma la guerra le era sempre sembrata una follia e la pace era assai migliore. Ella non aveva mai contemplato con gli occhi sbarrati le Stelle e le Strisce che salivano su un'asta, e mai aveva provato un brivido sentendo suonare «Dixie». E nelle sue privazioni non era stata sostenuta dal pensiero della Causa per la quale si poteva sopportare qualsiasi sacrificio. Tutto era finito! Finita la guerra che sembrava interminabile, che aveva spezzato la sua vita con una frattura cosí netta da rendere difficile perfino il ricordare i giorni precedenti, liberi e sereni. Non le sembrava di esser lei, la graziosa Rossella con gli scarpini verdi, con cento schiavi, con la ricchezza di Tara accumulata dietro di sé, e coi genitori pronti a soddisfare ogni suo capriccio. La giovinetta di quattro anni prima era scomparsa e al suo posto era una donna con gli occhi verdi penetranti, che contava il denaro e costringeva le sue manine a molti lavori faticosi, una donna a cui dal naufragio non era rimasto nulla, se non la terra rossa su cui posava i piedi. Mentre ascoltava i singhiozzi delle ragazze, la sua mente lavorava attivamente. «Pianteremo molto piú cotone. Domani manderò Pork a Macon a prendere altra semente. Il cotone arriverà alle stelle, quest'anno!» Entrò nello studio e, senza guardare le ragazze piangenti, sedette alla scrivania e prese la penna per calcolare il prezzo della semente e quanto denaro contante rimaneva in cassa. «La guerra è finita!» pensò; e a un tratto lasciò cadere la penna, sentendo un'ondata di felicità correrle per le vene. Era finita; e Ashley... Se Ashley era vivo, ora tornerebbe a casa. Chi sa se Melania aveva pensato a questo, nel suo dolore per la Causa perduta! Ma i giorni e le settimane passarono senza notizie di Ashley. Il servizio postale era malsicuro; e nei distretti rurali non esisteva affatto. Un viaggiatore occasionale proveniente da Atlanta portò un biglietto piagnucoloso di zia Pitty che chiedeva alle ragazze di tornare. Ma nessuna notizia di Ashley.
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Il dolore di non averla potuta abbracciare, neanche vedere un solo istante prima ch'ella si separasse da questo mondo, mi fece sentir viepiù il pentimento di un voto diametralmente opposto all'indole mia. È nondimeno ben vero che mutata coll'andar degli anni trovavasi la mia condizione. Avendo ormai raggiunta l'età maggiore, poteva già io reputarmi arbitra sicut in quantum di me stessa: oltre di che, possedendo più d'una pensioncella, avrei potuto cercarmi un altro ritiro, meno forzato del monastico e più conveniente alle mie inclinazioni, ove pure non avessi preferito ricorrere all'ospitalità del secondo marito di mia madre. Questa, vedendomi in preda alla disperazione, mostravasi dolentissima, nè di tratto in tratto dissimulava il rimorso di avermi la prima volta fatta entrare nel monastero; mi promise adunque la sua cooperazione in ogni tentativo che sollecitar potesse la mia più o meno larga liberazione, e mantenne fedelmente la promessa. Ma anche nell'interno del chiostro lo stato mio erasi modificato. Una malattia di pochi giorni mi aveva strappata la seconda zia, quella che funzionato avea per lungo tempo come badessa. Gaetanella non era più al mio servizio. Dopo il fatto d'Angiola Maria, fatto nel quale aveva ella dimostrato nutrire affetto scarsissimo per me, e niuna umanità per gli altri, io l'aveva ceduta a mia zia, ed in cambio m'era, provveduta d'una giovinetta, entrata poc'anzi nel convento, e nativa d'un piccolo paese nelle vicinanze di Napoli. Chiamavasi essa Maria Giuseppa: aveva diciassett'anni, ed era di fisonomia insinuante. Benchè la sua famiglia, avesse fatto molta spesa per chiuderla, e che essa non provasse ancora la nostalgia della personale libertà, pure aveva fin dal principio concepita siffatta devozione per me, che protestava tutto giorno d'esser pronta a seguirmi dovunque le combinazioni mi avessero potuto condurre. Ne' contorni della mia prigione trovavasi una casa alla cui finestra spesso vedeva io una giovine monaca in amichevole conversazione colle parenti. La mirai, la rimirai, ne interrogai l'abito: non v'era dubbio, apparteneva ad un qualche convento di clausura, la non pareva addetta a quella classe di bigotte che chiamansi monache di casa. Per quale mezzo aveva ancor essa ricuperato l'impareggiabile benefizio di ricalcare la soglia paterna? La brama di trapelare alcun che intorno a quel portento mi preoccupò vivamente. Seppi alfine, dopo lunghe indagini, ch'era essa di clausura d'un monastero di Nola, e stava da lungo tempo fuori del chiostro, avendo addotto de' motivi, e rinnovando il permesso d'assenza ogni sei mesi, per modo da ottenerne un prolungamento indefinito. Quale raggio consolante di luce nel buio del carcere! Perchè, profittando del messaggio, che forse la provvidenza mi mandava, perchè non avrei battuto anch'io la stessa via? Non era forse vero, non era evidente il pessimo state di mia salute? Non andava io soggetta ad accessi nervosi, ad emicranie, a spasimi, che logoravano sempre più l'ingracilita mia complessione? Pingui, fresche, rubiconde, piene di brio e di beatitudine erano la maggior parte delle altre mie compagne: la spensieratezza, l'ozio, l'apatia conferivano loro, come il pollaio conferisce alle galline. All'incontro io diveniva sempre più pallida e smilza: le gote mie si affossavano, gli occhi si spengevano, i capelli mi cadevano a ciocche. Uno dei medici della comunità mi fece il rispettivo certificato, che unito alla supplica spedii senza indugio a Roma. Era tanto sicura del buon esito, che dal giorno stesso della spedizione cominciai a contare le ore e i minuti del tempo che mi restava ancora da patire. Diceva fra me stessa: - Ora il corriere consegna la mia supplica: ora Pio IX la sta leggendo con animo disposto al favore: ora sarà già fatta la grazia, firmato l'atto, sigillato il foglio, passato alla rispettiva autorità perchè lo mandi a Napoli: fra due giorni sarà di ritorno il corriere: oggi è giovedi; sabato mattina per tempo, a rivederci! Ah! ma queste due giornate saranno per me più lunghe di due secoli!! Frattanto il canonico non sapeva darsi pace di questo mio passo, e cercava d'infiacchire la poesia delle mie speranze con tutti i colpi che in sua disposizione mettevano lo scetticismo della logica ed il cinismo della professione. Non mancò peraltro di lagnarsi coll'abbadessa delle sciocche persecuzioni a me fatte soffrire dalle monache, dicendole in conclusione: "La mia penitente è donna di fermo carattere, sebbene di poche parole. Siate certa che se si prefigge di uscire ne uscirà!" "San Benedetto non lo permetterà. Chiunque ha indossato una volta il suo abito, non uscirà più di qua dentro nè viva nè morta," rispondeva la povera donna. Ma se mi sapeva mill'anni di andarmene da quel luogo detestato, assai, ciò non ostante, dolevami di lasciarvi una ragazza in cui si erano concentrate le mie premure, ragazza ch'io amava come figlia od unica sorella. Discendeva essa da un'onesta ed agiata famiglia napoletana, ed erami stata distintamente raccomandata un anno prima de' sovraccennati avvenimenti. Chiarina (avea tal nome) era stata da principio affidata ad una zia, monaca da quarant'anni nello stesso monastero, ed in quel tempo rimbambita per eccessiva vecchiezza. Attristata dall'orrendo abuso che la conversa faceva della debolezza di lei, la povera vecchia mi aveva supplicata di prendere la nipote sopra di me, e farle da madre. Ogni educanda aveva per maestra una monaca; Chiarina fu dunque data in custodia a me, ed io l'accolsi caritatevolmente. Nata di sette mesi, quella giovinetta era viva per miracolo; aveva sedici anni, ma ne mostrava appena, dieci. Perduti entrambi i genitori in tenera età, era, rimasta con due soli fratelli; il minore studiava in altra città, ed il maggiore, per la natura delle pubbliche funzioni che esercitava, era costretto a trovarsi sempre in viaggio. Chiarina aveva il volto di un angioletto: sembianze regolari, guardatura attraente, profondamente patetica. Era impossibile, anche alle persone del suo sesso, averla veduta una volta alla sfuggita, e non sentirsi la voglia di pascer la vista nella contemplazione de' suoi sguardi incantevolmente languidi. Quegli occhi mandavano fuori tale un influsso di carità, che avrebbero sull'istante placata la più gran collera. - Ma, se vago aveva il sembiante, era pero deforme di corpo e malaticcia. Affetta da un'aneurisma che le aveva dilatata la regione cardiaca, essa era tormentata da tosse ostinata e da palpitazioni di cuore frequentissime che le rendevano affannosa la respirazione e velata la voce. Nè meno bello del volto era l'animo suo, animo ingenuo, cortese, mansueto e dotato di mirabile pazienza. Possedeva quella ragazza la facoltà di ben giudicare quali cose fossero da fare, quali da evitare, facoltà ch'io, superiore a lei di molti anni, ammirava, ma non sapeva imitare. Lì nel chiostro però, oltre la mancanza della salute, aveva la poveretta due grandi malanni: l'essere allieva mia, e l'aver per cameriera una conversa che facevale non dirò da matrigna, ma da tiranna. Era ben naturale che l'odio, dalle giovani monache giurato alla maestra, si riflettesse altresì sulla discepola. In quanto alla conversa, era essa un mostro di brutalità, una belva feroce a faccia umana. Essendo la giovinetta piuttosto ricca per eredità, aveva preso a covare il reo progetto di non lasciarsi scappare di mano quella preda, ma di perpetuarne il possedimento, obbligandola con ogni sorta di coazione a pronunziare i voti, e volendola accostumare bel bello al suo despotico dominio. A questo scellerato disegno ostava però la malattia della padroncina; faceva dunque mestieri occultarla a tutti, per quanto era possibile, acciocchè le monache non avessero esclusa nel Capitolo la sofferente. Ma come potevansi nascondere la tosse e l'affanno? - A forza di villanie e di sgridate! Se essa la udiva tossire pel corridoio, la sgridava tosto colle maniere le più plebee, od anche, per reprimere il suono della tosse, le chiudeva colla sua mano la bocca. Se l'avesse veduta per le scale in colloquio con qualche monaca, subito le imponeva di risalire facendo cento scalini senza riposarsi. La poverina diveniva livida e ansava, in modo, che sembrava lì lì per dare l'ultimo fiato. Io non mancava talora di sgridare la conversa per siffatte brutaltà, ma Chiarina dicevami, che, dopo le mie sgridate, i maltrattamenti che da sola a sola facevale soffrire la conversa erano maggiori. Per tale riguardo mi convenne più volte ora raffrenare lo sdegno, ora di non dar corso a proteste, le quali non avrebbero fatto che viepiù inferocire l'animo naturalmente spietato della cameriera. Saltò alfine in testa a questa megera l'idea di raddrizzare il corpo alla mia discepola, per meglio nascenderne la deformità; ed a raggiungere tale scopo, le pose un busto colle stecche di ferro. La povera Chiarina, non sì tosto entrata la mattina nella mia camera, buttavasi mezza incadaverita sulla seggiola a bracciuoli, e con un fil di voce morente mi diceva: "Signora Enrichetta, per pietà, allargatemi il busto: io mi sento soffocare." La menava allora in luogo appartato, il più sovente nel noviziato, ove di soppiatto le allentava la stringa; la sera però io doveva tornare a strignerla per non farne accorto il cerbero. Io diceva sovente alla pupilla: "E fino a quando, cara mia, sarai tu la schiava d'una servaccia? Se vuoi vederla finita, io ne conosco il modo: lascia fare a me! "No, no, per carità, non lo fate," rispondeva quella, giungendo le mani supplichevolmente, e tremando alla sola idea della collera di quel mostro. Questa creatura interessante, tanto piena di candore, di religione, d'amorevolezza, quanto maltrattata dalla natura e tartassata dal destino, nutriva un affetto singolare per gli animali, e specialmente per le rondini. Seduta nel vano della finestra, col capo appoggiato alle braccia incrociate, passava parte della mattinata a seguitare le aeree scorrerie di quei volatili, ed a contemplate la gioia delle loro piccole famiglie annidate sotto il tetto, o ad ascoltare i loro garruli preludii nel punto di dare l'imbeccata ai neonati. I costumi e gl'istinti delle rondinelle la rapivano in estasi, nè mai si saziava di udirne il racconto. Ogni qualvolta io le narrava qualche novello aneddoto intorno alle loro maravigliose trasmigrazioni, essa, interrompendo il discorso, soleva dirmi con mestizia: "Esse almeno se ne vanno d'autunno per ritornare la primavera nello stesso nido..... E noi?" A dispetto però di tali requisiti, le giovani monache non la trattavano meno duramente della conversa. Allorquando l'udivano recitar l'ufficio nel coro (cosa ch'io le voleva sempre inibire, ma per la quale essa era appassionatissima), facevansi beffe del suo affannoso respiro, oppure, dileggiando il suo zelo, sclamavano ad alta voce: "Che seccatura!" Il chirurgo della comunità, signor Giampietro, aveva assistita la madre di Chiarina, quando si era sgravata di lei. Costui, che per tale ragione amava paternamente la ragazza, non cessava di raccomandarla alle mie cure, ripetendomi le mille volte di non imporle fatica, e di evitarle qualunque molestia. Ma, perchè tali raccomandazioni non gradivano troppo alla conversa, ebbe Chiarina l'avvertimento di schivare la presenza del chirurgo. Io era già da qualche tempo rientrata nelle funzioni d'infermiera. Un giorno, mentre Giampietro trattenevasi nella porteria, io e Chiarina vi giungemmo per caso. La prese egli per la mano e fattasela sedere sulle ginocchia, tese l'orecchio alla mia relazione sulla salute dell'educanda, i cui palpiti crescevano d'intermittenza, e più forte manifestavasi il battito violento del cuore. La fece alzare in piedi, e nel posarle una mano al dorso, l'altra al petto, per esaminare il ritmo de' battiti che questo dava, le sue dita toccarono le stecche di ferro. "Che cosa è questo che porti nel busto?" le domandò. E la ragazza, facendosi rossa, rispose: "Niente." Io feci segno con gli occhi al chirurgo di procedere all'indagine, perlochè, spezzando egli la stringa del corsaletto di lana nera, mise il busto alla luce. "Misericordia!" gridò con furia. "Chi è stata quell'infame che ha messo a questa disgraziata una corazza di ferro?" "È stata la mia conversa," rispose Chiarina. "Chiamatemi subito quella scellerata," riprese il chirurgo. La fanciulla, divenuta pallida e tremante, mi pregò di calmarlo; ed egli, vedutala così costernata, si fermò un poco, poi, voltosi alla portinaia, e alle altre monache presenti, "Gli omicidi," disse, "non si commettono soltanto col pugnale o col veleno. Mettere un tal busto a questa malata, è lo stesso che volerla uccidere: comprimendo il suo cuore, voi la mandate alla tomba." Parole gettate al vento. Chiarina continuò a portare le stecche di ferro; non valsero nè le ammonizioni del chirurgo nè le mie preghiere. Suo fratello trovavasi negli Abruzzi. Gli scrissi una lettera in cui a chiare note gli dissi come il ritenere più lungamente la sorella nel monastero equivaleva a volerla abbandonare a morte sicura. Venne egli subito in Napoli, e disse a Chiarina che si apparecchiasse a seguirlo. Essa mostrossi dolente di lasciarmivi, sebbene convinta d'altronde ch'io stessa non vi sarei rimasta più a lungo, perchè la mia domanda non poteva incontrare in Roma alcun ostacolo. Uscì adunque del chiostro, condotta dal fratello, e le giovani monache in segno di ringraziamento, accesero delle candele alla Vergine. Senonchè, il rio destino non avea cessato di perseguitare quella miserella. Era d'inverno. Il freddo degli Abruzzi, dove il fratello dovette ritornarsene, recò grave pregiudizio alla salute di Chiarina, e come d'altra parte il tempo fa dimenticare le passate sofferenze, credette questa di trovarsi più riparata nel chiostro, che non viaggiando col fratello. Di lì a qualche tempo facea ritorno in Napoli, e domandava di essere ripristinata nel suo pesto di educanda. Quale idea! Le feci osservare l'incauto proponimento, non degno della sua provata prudenza: le rammentai i passati patimenti, le diedi il consiglio di scegliersi piuttosto un ritiro, prendersi una cameriera: e viver tranquilla e indipendente. Mi rispose: "Voglio starmene, amica diletta, appresso di voi: non voglio rientrare che per voi sola." "Ma io sono in procinto di lasciare San Gregorio." "Son già passati dei mesi dacchè siete pronta a partire, ma chi sa se ve lo permetteranno?" Il giorno che per farla rientrare fu convocato il Capitolo, volli mettere in salvo la mia coscienza. Nell'atto di dare il mio voto, alzai la mano, e feci vedere a tutte quante che nell'urna bianca io gettava la pallina nera. L'ammissione riuscì coi soli voti delle monache vecchie: le giovani lo diedero contrario. Entrò adunque, ma poco dopo si pentì di non avere seguíto il mio consiglio. La sua tosse, esacerbata durante la notte, disturbava i sonni della conversa. Per evitar le rampogne e le imprecazioni che per tale motivo ne riscuoteva, la povera malata cacciava il capo sotto le coltri, e vi rimeneva immota e quasi sepolta. Una mattina la conversa andò a svegliarla: pareva immersa nel sonno. La chiamò a nome, la tornò a chiamare: non diè risposta. La scosse: non si muoveva Rimosse allora la coperta che le nascondeva il volto..... Era morta! Sedici volte sono ritornate da quel tempo le rondinelle, ma lo spirito angelico di Chiarina non farà più ritorno in questa valle di lagrime!
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Alfine mia madre spirò col dolore di non aver potuto abbracciare negli ultimi momenti la più sventurata delle sue figlie. Su questo fatto io scrissi a mia zia una lettera pregna di lagrime, ch'essa, destra e solerte, fece leggere a parecchi cardinali. Lo stile patetico del foglio scosse la sensibilità di quei dignitari, i quali vicendevolmente si dissero che le durezze di Riario non erano che l'effetto d’una persecuzione personale. Poco appresso veniva rimessa da Roma all'arcivescovo la fede surriferita dei medici colla solita domanda del suo parere. La risposta fu al solito negativa; ma come la vela della mia barchetta cominciava a pigliar vento, da persona di quella corte a me propizie gli venne ingiunto, che scegliesse egli medesimo un medico di sua fiducia per fare un'altra fede. - Il suo rapporto veniva per tal modo notabilmente scompaginato. Eppure questo prelato stava allora acquistando una singolare popolarità. In tempo del cholera, da cui fu nuovamente flagellata allora la capitale, egli seppe affettare siffatta tenerezza pei malati, che la nostra plebe, più d'ogni altra gente della penisola propensa al maraviglioso, spinse l'ammirazione fino ad attribuirgli il dono dei miracoli. Quell'anima caritatevole, quel vaso di elezione bastava che imponesse la destra sul capo del coleroso, per discacciar tosto il morbo dal corpo infetto, e ancora da quella casa. Il Riario allora s'avvide che per aver io trovato alfine qualche buon appoggio in Roma, la mia fortuna cominciava a sorgere; e non sembrandogli omai prudente di opporre altri serii inciampi, tergiversò traccheggiò; ma finalmente messo alle strette, decise che il certificato dovesse essere steso o dal professore Ramalglia o dal Giardini. Il primo se ne scusò, venne il secondo. "Non una sola, ma cento fedi farei, simili a quelle del vostro curante," disse costui dopo avermi minutamente e a lungo esaminata. "L'inumanità, di cui siete vittima, desterebbe orrore anche ad un barbaro. Se la mia fede potesse procacciare un sollievo alle vostre pene, siate certa di conseguirlo in breve. L'aria libera è necessaria a voi quanto il pane. Dove vorreste andare?" E stava sospeso colla penna in mano nell'atto di scrivere. Per sottrarmi dalla diocesi di Riario, proposi i bagni di Castellamare, e il medico approvò la scelta. Lo stesso giorno mandai la fede all'arcivescovo, il quale non sapendo più che fare, dovette forzatamente inviarla a Roma; non sì però che non l'accompagnasse con una sua lettera, piena di velenosi dubbi ed insinuazioni. La persona, che in Roma aveva preso l'incarico di salvarmi, stava in cerca d'un qualche appiglio per condurre la pratica a buon fine. Ora nel rileggere quest'ultima lettera dell'arcivescovo vi notò una frase, che per la sua ambiguità mirabilmente prestavasi a mio favore. Dicendo di temere per la mia salute, Riario intendeva la salute dell'anima; il rescritto prese motivo dall'interpretazione opposta, ossia dalla supposizione che il cardinale avesse inteso la salute del corpo. Iddio dunque decretava che avessero fine una volta le mie tribolazioni, e incominciasse il periodo del respiro nell'espettazione di quello del trionfo. Tre giorni dopo ch'io ebbi mandato il Breve al cardinale, mentre lavorava tutta sola nel mio umile abituro, fu bussato con forza alla porta. Mi disse una conversa: "È venuto il cardinale, e domanda di voi: spicciatevi!" Mi ritornarono in mente le vessazioni, le promesse mancate, i tradimenti, la lunga oppressione, la trista scena dell'arresto. Avrei voluto licenziarlo, scaricargli addosso col congedo la pienezza del mio risentimento: ma dissi fra me: "È presto ancora: cogl'ipocriti ci vuol politica." Lo trovai nel salotto. Non l'aveva veduto da quattr'anni: mi parve invecchiato di dieci. Le gagliarde convulsioni che in Italia agitarono e la Chiesa e lo Stato avevano solcato la sua fronte di geroglifici, indizio di prematura vecchiezza. Riario, non era più quello di prima: mi parve non lui, ma l'ombra sua. M'avanzai senza inginocchiarmi, sedetti senza chiederne il permesso. "Voi ricordate il passato e non potete lasciare il broncio," mi disse con sorriso sforzato. "Confesso d'essermi male regolato talvolta; sono uomo anch'io -homo sum- e ogni uomo può sbagliare. Dopo tanti disinganni, lasciarsi riprendere all'esca sarebbe stata una pazzia. "Solamente" risposi dopo lungo silenzio, "solamente per un rispetto al vostro sacro carattere, e perchè credo al vostro ravvedimento, condiscendo a gettare un velo sul passato. "Siete dunque irremovibilmente risoluta di uscire del chiostro, ove vi richiamano voti solenni?" "Ubbidisco alla voce di Dio, che mi richiama alla vita." "E vi proponete inoltre uscirmi di mano, trasferendovi in altra diocesi: lo so. Deh non lo fate, per l'amor del cielo! Non vogliate ripudiare la casa che vi ha visto nascere, il padre che vi allevò, e tuttavia vi sostiene! Sì: voi siete figlia mia; è vero che foste un pochino maltrattata, ma siate sicura che da oggi in poi userò con voi tutta l'amorevolezza e la carità d'un padre amoroso." Queste parole mi svelarono lo scopo della sua visita; gli doleva di sopportare agli occhi del mondo l'affronto di vedermi strappata alla sua giurisdizione. L'avversario, se umiliato e ravveduto, desta pietà: ma larvato d'ipocrita svisceratezza, rinfoca l'ira smorzata. "Fidatevi," sclamai vivamente "fidatevi alle promesse, credete alla mallevadoria di persone, che sanno mantener la parola come voi la manteneste al padre Spaccapietra, relativamente all'arresto mio!" "Quand'io prometteva di non farvi arrestare dai birri, e ricondurre in clausura, voi, cara mia, non avevate fatto quello che faceste poi. Chi mai si sarebbe immaginato che avreste aspirato alla secolarizzazione, che vi sareste portata al pubblico passeggio, appoggiata al braccio di liberali, inscritti nel libro nero? "Scommetto che domani, se m'incontraste per la via Toledo fareste altrettanto!" "Ora le cose hanno preso un aspetto differente: anche volendolo fare, non potrei." "Dite piuttosto, come disse all'agnello il lupo, che ho turbato l'acqua dove i vostri maggiori solevano abbeverarsi!.... Eh, cardinale, quando col segno della redenzione in mano calpestavate un'orfana ed inerme donzella, pensaste mai all'ora supreme, della morte, al giorno del giudizio?" "Non parliamo del passato; posso aver peccato per cattivi consigli, o per debolezza, ma in fede mia, neppur voi siete immune da torti: voi, che sotto il velo di monaca, voleste nascondere infami trame di demagoghi e repubblicani.... Ma, ripeto, deponiamo i vicendevoli rancori; vi userò da ora in poi la più inalterabile carità." "Eminenza, vi ho conosciuto per lunga esperienza e durissima.... In avvenire vi bacierò anch'io la mano, se vorrete, ma non permetterò che in ricompensa mi regaliate un morso!" Quell'archetipo di simulazione sarebbe, credo, rimasto impassibile al più grave oltraggio, purchè avesse potuto accalappiarmi di nuovo. - Propose di scegliermi un altro chiostro, incompatabilmente più comodo che non era il presente: di accordarmi il permesso d'uscire ogni giorno: di procacciarmi un nuovo e più largo assegnamento. Gli troncai le parole in bocca dicendo: "No, no, buon padre; voi qua, io là.... Ognuno al suo posto. Determiniamo chiaramente fin da questa conferenza, che sarà l’ultima, il posto che a ciascheduno di noi conviene.... Patti chiari, amicizia lunga." "Verrò di tanto in tanto a visitarvi..... lo permetterete?" "Non lo sperate!" dissi in tuono fermo; ed alzatami per uscire, con un'aria di sovrana, che avrebbe ricordato Elisabetta nell'atto di congedare sdegnosa l'arcivescovo di Cantorbery: "Troppo lunga durò, troppo oppressiva mi tornò la vostra tutela. Vorrebbero ch'io vi chiedessi conto del passato: non lo farò. Ma è tempo ormai che, ritornato in pace alla vostra sede, vi prendiate cura della propria salute ben altrimenti che non avete fatto per la salute della vostra pupilla! Se non volete esser incolpato di snaturatezza, se all'onore che vi è dovuto credete necessari il rispetto mio e il rispetto del pubblico; tornate, monsignore, tornate tosto alla vostra sede, e in avvenire liberatevi da quella smania d'intrigo e di prepotenza che, mettendo a repentaglio la vostra riputazione, distrugge di giorno in giorno la vostra autorità!" Il cardinale, accortosi oramai che, per accalappiarmi e tenermi, troppo vecchie e sdruscite erano le sue reti, mi prese pel lembo dello scapolare, dicendo: "Un'ultima parola! Spero che a Castellamare abiterete in un ritiro." "Farò come al mio nuovo vescovo piacerà." "Spero che terrete il volto coperto con un velo nero....." "Il bruno non è ancora finito: lo porterò." Si alzò allora anch'egli, e al suo passare le monache tutte si gettarono a terra genuflesse; questa, per devozione, palpava la falda della sua porpora, quella coll'estremità delle dita gli toccava la mano, indi si baciava la propria: non una che non gareggiasse per ricevere prima dell'altra la sua benedizione. Disceso all'ultimo scalino, si volse addiettro per dare alle monache l'ultima benedizione. Ravvisatami nella prima fila di esse
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(Va ad abbracciare Sofia che si ritira indietro)
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Di lassù, la vista dev'esser più grandiosa, l'occhio deve abbracciare un orizzonte immenso, il respiro deve trarsi più profondo, l'anima deve spaziare liberamente....
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Maria si fermò un momento per abbracciare collo sguardo la bella solitudine. Lasciò che gli altri passassero avanti e sparissero dietro una svolta del sentiero, volendo sentirsi libera nella sua ammirazione, nello slancio che la spingeva verso la purezza della campagna. I suoi polmoni saturi d'aria cittadina si dilatavano, intanto che la sua mente uscendo dalle impressioni sensuali della vita, si ergeva leggera ai pensieri ideali. Per quanto l'occhio potesse vedere, non un richiamo alla materialità umana; nessun stimolo per la carne; solo e dappertutto una freschezza giovanile, una serenità innocente, come di mondo appena nato, svelantesi inconscio a quel mattino d'aprile. Sofia la chiamò per mostrarle il santuario che appariva intero sullo sfondo di un boschetto di abeti, e presala attraverso le spalle con uno dei suoi movimenti graziosi: - Quanto ti voglio bene! Maria sorrise, col cuore tranquillo, pieno di calma dolce e triste. Tutto era stato disposto per un asciolvere sull'erba, che non si volle differire neppure di un minuto. Il dottore dirigeva ogni cosa con una garbatezza, un buon gusto ammirabili. Emanuele non si era mai potuto trovare accanto a Maria, ma non ne aveva peranco cercata l'occasione, chiuso in un abbattimento che gli si rifletteva sul volto e gli allontanava la compagnia, tanto come egli cercava di sfuggirla. La Guidobelli disse piano alla Bonamore (alla quale, da che le aveva portato via l'amante, si mostrava molto affezionata): - Campo non è punto allegro. Avrà forse dei meriti, ma gli manca indubbiamente quello di essere simpatico. - Deve stare poco bene; Sofia mi ha detto che questa notte non si è coricato. - Amabile anche come marito. - Non occupiamoci di lui; è il meglio che possiamo fare. Sofia ce ne dà l'esempio. E sedettero allegramente sull'erba, gettando via il cappello. La Bonamore aveva in tasca uno specchietto, che fece il giro delle signore, intanto che gli uomini stappavano le bottiglie. L'aria frizzante e il vino buono accesero presto i cervelli: la conversazione, tumultuosa dapprima, si suddivise e si fece più intima. Gli uomini, quasi tutti, provarono il bisogno di confidare qualche cosa nell'orecchio della loro vicina. Maria si trovava un po' a disagio. Approfittando della confusione sorta da un brindisi si allontanò chetamente ed entrò in chiesa; una chiesuola rustica, primitiva, scrupolosamente pulita, con quell'odore indefinibile delle chiese abbandonate e quei lumicini spaventati tra l'economia e la divozione. Visitò i tre altari, esaminando i voti appesi e leggendo qualcuna delle ingenue dedicatorie; molte fra esse erano vecchie di due secoli, scritte con vernice bianca su rozze tavole di legno. Guardò le palme di fiori di carta piantate nei loro vasettini di vetro celeste, le tovaglie delle mense, gialline, ornate di pizzi all'uncinetto; la Via Crucis, con un Cristo gigantesca vestito di rosso, replicato quattordici volte; e poi si raccolse in un banco, senza pregare, assorbendo con tutta l'anima la calma mistica del tempio, meravigliata di trovarsi sempre nel cuore, accanto alla pace riconquistata, tin fondo di malinconia. Fuori, sul prato, trillava la vocetta acuta di Sofia in mezzo al cozzare dei bicchieri. Maria si mosse e senza sapere il perchè, guidata dal desiderio crescente della solitudine, passò davanti all'altare maggiore e uscì dalla porticina della sacristia. Là il silenzio era perfetto; sembrava di essere ai confini della terra. Un sentiero strettissimo girava dalla parte opposta della montagna, scoprendo i fianchi di un burrone irto di massi granitici, in fondo al quale, alla profondità di un duecento metri, scorreva mugghiando il torrente. Maria prese quel sentiero, a passi lesti come se qualcuno, la chiamasse. Una brezza freschissima, un po' umida, le scioglieva i capelli sulla fronte, le spianava i ringonfi dell'abito; un ramo spinoso le strappò il pettine, che cadde sui sassi e si ruppe. Ella sembrava non se ne accorgesse. Camminava, camminava, fuggendo il mondo, beata dell'aria pura e della libertà, compiacendosi di immaginarsi sola in quella natura incontaminata. A un tratto le apparve un uomo, ritto sul tronco di un albero rovesciato. Per un senso istintivo di pudore portò le mani nei capelli e alle vesti scomposte. L'uomo voltò la testa dalla sua parte; lo riconobbe, era lui. Egli la vide avvicinarsi senza pronunciare una parola, senza fare un gesto. Quando Maria gli fu accanto si accorse con terrore che il tronco dell'albero sporgeva dritto sull'abisso, ad una altezza vertiginosa. - Che fate? - gli domandò, sorpresa e spaventata. Non rispose subito; ma stette a mirarla con una disperazione negli occhi, con uno smarrimento di tutto il volto, fino a quando accostandosi ella vieppià, le disse a bassa voce: - Datemi la vostra mano. Maria credette che non potesse da solo rimettersi sul sentiero e fu pronta a tendergli la destra. Egli la baciò con affetto riverente e poi la sciolse. Il tronco scricchiolò, torcendosi sotto il peso del corpo che vacillava. Ella comprese tutto. Non ebbe che un grido: Emanuele! e slanciandosi forsennata lo prese nelle braccia, trascinandoselo sul petto, retrocedendo con quel corpo sempre stretto contro il suo, finchè caddero entrambi sulla roccia, quasi esanimi.
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Allora il signor Cesare andò in camera, si mise in testa il berretto da viaggio, si buttò sul braccio un plaid, prese in mano la valigetta sempre pronta pei suoi frequenti viaggi di affari, e finse d' abbracciare la moglie e le figliuole, dicendo loro: — Addio! addio ! Non tornerò più. Lulù, a tutto quell' apparato, aveva alzato la testa, fra incredulo e ansioso, cessando di piangere e di pestare i piedi. Il babbo indugiava troppo negli addii, e Lulù non voleva lasciarsi vincere da una finta partenza. Ma appena egli lo vide avviarsi per uscire e gli vide aprire l'uscio, mentre le figliuole e la moglie recitavano la commedia di pregarlo, di tentare di trattenerlo, togliendogli più volte di mano ora la valigia, ora il plaid, ora l'ombrello che quegli tornava riprendere mostrandosi inesorabile, fermissimo nella sua risoluzione, Lulù non stette più alle mosse. Si precipitò, spaventato, dietro il babbo, lo raggiunse sul pianerottolo, gridando : — No, babbo, non andar via! Non lo farò più ! Aggrappato alla valigia, con gli occhi inondati di lagrime e spalancati dal terrore di quella partenza di cui ora non poteva più dubitare, egli pestava i piedi e strillava per un altro verso ; sdegnato che la mamma e le sorelle non lo aiutassero a trattenere il babbo, come avevano cercato di fare poco prima. — No, babbo, non andar via! Non lo farò più ! Il signor Cesare non si lasciò commuovere , si svincolò e scese la prima rampa della scala, dove lo raggiunsero due delle figliuole fingendo di scongiurarlo, mentre le altre due sorelle e la mamma trattenevano Lulù che si rotolava per terra sul pianerottolo, continuando a gridare : — Non lo farò più ! Finalmente il babbo si era arrestato, era tornato indietro, quasi trascinato per forza, e Lulù gli s' era aggrappato alle gambe, singhiozzando da non poter dire una parola; tanto che il signor Cesare, per impedire che avesse una convulsione, aveva dovuto prenderlo in braccio, pur seguitando a rimproverarlo tra una carezza e l'altra, pur seguitando a minacciar di partire alla prima cattiveria, rassicurandolo intanto che quella volta sarebbe rimasto. E il ricordo di questa scena era diventato un vero spauracchio per Lulù. ***
Oh, tu sei morto, Antonio Cecchi, dilettissimo amico, sulla terra di Africa dove vedesti cadere tanti altri, sognanti come te una gloria di civiltà e di redenzione: noi ti abbiamo perduto e non ci resta che abbracciare le tue ceneri fredde, quando arriveranno alla nostra marina, d'onde, anima tenera e gagliarda, tante volte ti salutammo partente. Tu sei morto, amico impareggiabile, impareggiabile cittadino, come Giuseppe Chiarini, come il nostro Licata, come Gustavo Bianchi, come Eugenio Ruspoli, come Vittorio Bòttego, morti, morti tutti, sognatori tutti, ma sognatori grandi, ma sognatori ammirabili, ma sognatori sublimi, morti sulla terra che vi ha sedotti, morti sul campo delle vostre visioni, morti in pieno sogno di eroismo. E voi siete perite, o dame del Bazar di Carità! Belle, ricche, nobili signore: gentili, leggiadre, briose signorine: monache delle case ospitaliere, il fuoco ha distrutto le vostre vite care alla fortuna, care alle vostre famiglie, care alla religione; siete morte mentre compivate un sogno di carità largo, vastissimo, tale da diffondere il bene nel cerchio più ampio e più oscuro delle tristezze umane. Più di cento donne sono morte a Parigi, facendo il bene, morte alcune senza voler fuggire, eroiche sino all'ultimo minuto della loro vita, trascinate dall'eroismo più sublime, dalla sognante passione della carità. Una di esse, mentre già le fiamme la investivano, ha abbracciato una monaca e le ha detto: Sorella mia, ora andiamo insieme in Paradiso. È vero. Deve esser vero. Dio ha fatto il Paradiso per chi muore, sognando così.
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