Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Fisiologia del piacere

170820
Mantegazza, Paolo 12 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
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L'egoista ha sempre davanti a sè il proprio individuo che accarezza con la sollecitudine d'una madre, che bacia col trasporto di un amante, che abbraccia coll'amore di un amico, che venera come un padre, che rispetta come un grande uomo, che adora come un Dio. La sua fisonomia ha quasi sempre l'espressione di una gioia calma, perchè il riso e i moti muscolari potrebbero turbare la sua tranquillità o sprecare un millesimo della forza vitale, di cui è economo fino alla spilorceria. Egli però, credetelo, non è felice, come non lo è l'avaro, al quale tanto assomiglia. La natura ha fatto l'uomo per il lavoro, e gli ha concessa tanta forza perchè ne usi nel turbine dell'azione e nelle lotte della vita sociale; essa gli ha dato generosamente un eccesso di combustibile perchè possa qualche volta accendere splendidi fuochi che spandano attorno la luce e il calore in largo spazio; essa gli ha concesso il diritto di qualche sublime scialacquo. L'egoista, invece, appena aperto il lume alla ragione, divora cogli occhi la propria catasta di legna, la misura e la pesa, suddividendola all'infinito. Poi accende un focherello umilissimo, che spande più fumo che luce, e intorno a quello si accovaccia, assorbendo avidamente il poco tepore che ne emana. Egli intirizzisce per tutta la vita per voler riscaldarsi a lungo, ed egli muore di freddo prima che la sua catasta sia esaurita, senza mai avere goduto in generosa fiamma di un alto rogo. Non si può impunemente deludere la natura, e chi vuol vivere più a lungo, vive meno degli altri. L'egoismo nasce con noi, ma non cresce rigoglioso, e non produce i suoi piaceri, che nell'età adulta. Nella fanciullezza comincia a germogliare, ma il suo stelo meschino e sottile rimane inavvertito nel campo del cuore. Nella giovinezza è ancor più difficile lo scorgerlo, perchè una vegetazione lussureggiante di alberi e di fiori lo nasconde. Appena la primavera della vita va declinando, l'umile pianticina, cresciuta all'ombra delle generose sorelle, s'innalza e cresce, vivendo alle spalle di quanto lascia cadere l'amore, tra le verdi foglie sfrondate dall'albero delle illusioni. A poco a poco cresce e s'innalza, si fa arbusto, poi albero, e, stendendo in ampio terreno le sue radici, assorbe i succhi che dapprima bastavano ad un'intera vegetazione, formando da solo prato, campo e foresta. Guai se il giovine, abusando di una precocità, diventa avaro della vita a vent'anni! S'egli è mediocre, si fa l'egoista più ributtante; mentre, se ha una scintilla d'intelligenza, sale ad una grandezza spaventosa. Il giovane egoista fa ribrezzo e paura, e il riso cinico che si spegne fra una lanuggine ancora molle, fa rabbrividire. Dall'età adulta fino alla morte i piaceri dell'egoismo vanno sempre crescendo, e nell'estrema vecchiaia sono quasi fisiologici. Allora il lume della vita e così tremulo e fioco, che si perdona all'uomo che con ambe le mani difende la preziosa fiamma, e col proprio fiato tenta di ravvivarla, allontanando con prepotenza chi volesse appressarsi e fruire di un solo raggio di luce. Allora l'egoismo prende il nome di amore della vita, e il vecchio con le mani scarne e tenaci contende a lungo colla morte, che scherza intorno al lumicino della sua esistenza, e, quando meno se l'aspetta, lo spegne. È inutile dire che questi piaceri morbosi sono meglio gustati dall'uomo che dalla donna. Sarebbe difficile il dire se l'egoismo sia stato maggiore nei tempi antichi che ai giorni nostri. Se si volesse credere volgare, si dovrebbe dire che noi siamo più egoisti dei nostri padri, e che questo affetto morboso vada sempre crescendo con la civiltà. Gli uomini di tutte le epoche però si scatenarono sempre contro i contemporanei, gridando che essi erano peggiori dei padri loro; per cui, se ciò fosse vero, dovremmo a quest'ora essere una turba di effeminati, di codardi, di bruti, ciò che fortunatamente non è.

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Egli possiede un apparato meraviglioso, che co' suoi moti multiformi abbraccia i corpi dai più minuti alle masse più grandi, servendo ad un tempo di energia motrice e sensoria, che trasmette al centro reggitore cognizioni infinite. La sue pelle, quasi sprovvista di peli, è sensibilissima; e la civiltà, insegnandogli a coprirsi il corpo, ne aumenta ancor più la delicatezza. Infine ne' suoi organi genitali si concentra tanta squisitezza di senso da concedergli le più intense voluttà. Oltre le solite condizioni necessarie alla produzione di qualunque piacere, conviene distinguere bene nei piaceri del tatto i tre elementi che li costituiscono: cioè l'impressione del corpo interno o esterno sulla parte sensibile, la struttura del nervo che trasmette l'impressione, e la natura del centro che la riceve e la modifica, trasformando il fatto meccanico del contatto di due corpi in un fatto dinamico, cioè in una sensazione. La minima modificazione di alcuno di questi tre elementi può alterare la sensazione tattile, rendendola più o meno piacevole, indifferente o dolorosa. L'apparato sensorio, formato dagli organi centrali e dai nervi periferici, ha determinate funzioni, e quindi ha i suoi speciali bisogni da soddisfare. L'esercizio regolare di una funzione è sempre accompagnato da piacere: quanto più forte è il bisogno di esercitare una funzione e quanto maggiore è la tensione della mente, altrettanto va crescendo il piacere. Questo si verifica perfettamente anche per il senso del tatto. Il bambino, ancora ignaro del mondo in cui dovrà vivere, ha bisogno urgente di conoscere i caratteri dei corpi che lo circondano; per ciò un prepotente istinto lo spinge ad afferrare tutti i corpi ai quali può arrivare nella ristrettissima cerchia delle piccole sue braccia. Egli applica la superficie delle sue manine sui corpi, li solleva, li agita, li getta a terra per riprenderli poco dopo, li fa passare da una mano all'altra; in una parola li studia facendo una serie di movimenti bizzarri, che il volgo chiama giuochi. In questi primi esercizii del tatto l'uomo-bambino prova un immenso piacere e spesso lo dimostra colla serena espressione della fisonomia e col riso. Egli difatti possiede tutti gli elementi del piacere: prepotente bisogno, novità di sensazione, grande attenzione; ed egli gode di una gioia tutta propria della sua età e che mal si può immaginare in età più avanzata. Man mano che il bambino conosce le proprietà fisiche dei soliti oggetti che gli stanno attorno, essi divengono incapaci di arrecargli nuovi piaceri, e ciò perchè egli non è più stimolato dal bisogno e non presta loro più attenzione. Allora egli trova una nuova risorsa nel tentar le prime prove della debole sua forza sugli stessi oggetti; e, rompendoli o stracciandoli, ne cambia i caratteri fisici, e per questo viene a provare nuovi piaceri. Ma quando anche i frammenti dei primi oggetti sono abbastanza studiati, egli, alzando le manine colle sue piccole dita distese, cerca nuova materia ai suoi bisogni. Se l'ottiene, essa gli darà tanto maggior piacere quanto più diversa sarà dalla già nota, e sopra di essa ritenterà le prime esperienze di analisi distruttiva. Così a poco a poco l'uomo-bambino, diventando fanciullo e adolescente, perde una sorgente di gioie, perchè gli oggetti che lo circondano sono da lui abbastanza conosciuti, e l'abitudine gli ha reso indifferenti le sensazioni che gli hanno dato tanti piaceri nei primi giorni della vita. Ma se un uomo adulto non può assolutamente, con tutti gli sforzi possibili dell'attenzione e della fantasia, trarre da un foglio di carta tutti i piaceri che un bambino gode nello stracciarlo, i piaceri del tatto specifico non gli sono negati. Vi sono alcuni corpi che, anche conosciuti, possono, per la loro particolare struttura, fornirci sensazioni piacevoli, qualora, non avendo la mente preoccupata da altra idea, si ponga su loro una sufficiente attenzione. Così nei momenti di ozio o di riposo si possono provare grandissime voluttà nel passare il palmo della mano sopra il velluto o sopra la seta, o nel fare scorrere le dita fra lunghe e fine chiome, o nel premere, passeggiando, uno strato sottile di neve appena caduta; mentre un uomo, preoccupato o disattento, potrebbe coi piedi nudi camminare sopra una pelliccia di martora senza provarne la minima sensazione di piacere. Anche ammettendo però che si presti un'attenzione speciale ad una sensazione tattile, non sempre essa riesce piacevole. Per godere di questi piaceri delicatissimi è necessaria una squisita sensibilità concessa a pochi individui. Si hanno piaceri particolari toccando o fregando corpi lisci, come sarebbero i marmi, i metalli, il talco, la pietra saponaria, ecc. In questi casi il piacere dura pochi istanti e non si diffonde quasi mai più in là della parte del corpo che viene toccata: esso è tanto maggiore quanto più nuovo è il contatto, e quanto meno la parte è esercitata alle impressioni tattili. Così il contatto con una vasca di marmo, per un individuo che non si sia mai bagnato così, è assai più voluttuoso del contatto della sola mano con la stessa materia. Si provano piaceri tattili mettendo la pelle in contatto di corpi che hanno una superficie molto suddivisa, come le pellicce, le matasse di seta, i capelli; nel premere col piede i cristallini della neve, ecc. Altri piaceri si hanno dal contatto di corpi alquanto scabri, sia scorrendone la superficie, sia strofinandone la polvere fra le mani. In questi casi pare che il piacere venga prodotto da una leggera irritazione che accumula sopra una serie di punti staccati della pelle sensazioni piuttosto forti. Si ha un'altra specie di piacere tattile nel maneggiare un corpo molle che, senza sporcare la pelle, si modelli sotto la pressione, cambiando ad ogni tratto di forma. Sensazioni simili si hanno premendo fra le dita la mollica del pane, la creta, o altre materie consimili; nel preparare il glutine, chiudendo la farina in un sacchetto di tela e pigiandola sotto un filo d'acqua; nel premere fra i denti il mastice, ecc. Altri piaceri si hanno facendo scorrere fra le mani vari corpi cilindrici di piccolo diametro, come sarebbero cannucce matite, cilindretti metallici, ecc. Il piacere è leggero e puramente locale. Si hanno piaceri tattili facendo girare sotto il palmo della mano un corpo perfettamente sferico. Il piacere è locale, ma può arrivare tuttavia ad un certo grado d'intensità. Un'altra fonte di piaceri tattili consiste nel maneggiare corpi elastici che, cedendo ad una leggera pressione, ritornano ad invitare la parte che preme a rinnovare il contatto. Si provano piaceri consimili maneggiando la gomma elastica, o materie affini, come le lamine d'acciaio, i giunchi, o premendo fra le mani un pallone di cuoio pieno d'aria, ecc. Altri piaceri tattili vengono prodotti dal gettare nell'aria un corpo di un certo peso e nel riceverlo nel palmo della mano per rimandarlo di nuovo in alto, oppure nel determinare il peso di un corpo che sotto piccolo volume sia molto pesante, piaceri dei quali si può formarsi un'idea facendo saltellare sulla mano una palla da fucile, oppure maneggiando una piccola sfera. Queste sensazioni, come quelle della categoria precedente, riescono piacevoli specialmente per l'alternarsi del riposo coll'esercizio del senso. Altre sensazioni piacevoli derivano dall'esercitare una azione qualunque con un corpo sopra un altro, che cede più o meno facilmente. Per questa via si hanno infiniti piaceri, ad esempio tagliando a fette il molle tessuto d'una zucca con un coltello molto tagliente, o conficcando un chiodo entro una lastra metallica. Fra queste sensazioni estreme, di una resistenza minima e di una resistenza massima, stanno le altre del cacciare un chiodo in una tavola di legno, del segare, del trapanare, del formare la capocchia a una verghetta di ferro conficcata fra due lastre metalliche forate, del piallare, e infinite altre che sarebbe inutile e improba fatica enumerare. Tutti questi piaceri, per lo più, sono resi molto complessi dal bisogno di esercitare i muscoli, dal piacere di riuscir nell'intento, e da altri elementi che possono anche provenire dalle facoltà superiori.

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Ad accennare l'immenso campo che abbraccia questa questione diremo soltanto che tra gli indigeni di Otahiti, che sacrificavano senza scrupoli al dio d'amore innanzi a tutti, e l'Inglese che ha vergogna di nominare il ventre e le mutande, stanno le donne di Musgo, nell'Africa centrale, le quali rifuggono con orrore dall'idea di abbandonare per un sol momento il frac, che copre la parte che sia fra il dorso e le cosce, e lasciano scoperto tutto il resto del corpo agli sguardi dei profani. Così rimangono abbozzati i confini indeterminati di uno dei sentimenti più misteriosi, ch'io definirei volentieri rispetto fisico di noi stessi.

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La prima comprende tutti gli abiti mostruosi e meschini del sentimento della propria dignità e dell'onore, spesso derivanti dall'impedito sviluppo dell'ambizione; la seconda forma costituisce tutte le ipocrisie della beneficenza e dei sentimenti generosi; mentre l'ultima abbraccia il sentimento in genere, e ci fa godere della compiacenza di essere creduti delicati e sentimentali. Quest'ultima vanità è più frequente nelle donne e in una classe ridicola di uomini, che si credono dotati di alto sentire; perchè non possono tollerare l'odore del tabacco e perchè sono pallidi e sparuti. Sotto qualunque forma, la vanità morale però è la più riprovevole e la più ridicola. Essa è sempre bassa e meschina; e non si può facilmente compatire, perchè prostituisce il sentimento, facendolo servire a bassissimo scopo. La vanità fisica ci fa ridere molte volte con le sue goffe ingenuità, o ci interessa con la perfezione de' suoi artifizi. In ogni modo è una passione piccina che non usurpa mai lo scettro o la corona da re, e che presenta sempre un'armonia fra la meschinità dello scopo e la povertà dei mezzi. La vanità morale invece non ci può far ridere quasi mai di un riso franco ed espansivo, perchè essa ha sempre una forma anormale, ed è una vera profanazione del cuore, che offende in noi il sentimento della umana dignità. Anche la mente ha la propria vanità, e qualunque lode sproporzionata ai nostri meriti intellettuali può destare in noi una gioia colpevole. Quando arriviamo con artificio a procurarci l'adulazione, noi siamo ipocriti per la mente, come primo lo eravamo pel cuore. Questi piaceri spregevoli sono molto analoghi a quelli della vanità morale; e sono più freddi, ma non meno meschini. Il senso comune giudica a prima vista la meschinità di queste compiacenze, chiamandole superbiuzze, ambizioncelle, velleità dell'amor proprio. L'uomo che sa scrivere una serie di righe accentuate e rimate, e che, credendosi per questo poeta, porta sempre in tasca i propri sfoghi intellettuali, pronto ad annoiare il primo paio di orecchie cortesi che si prestino alla sua sete di gloria, prova sicuramente piaceri morbosi. L'autore che lascia sul suo tavolo sepolto sotto una catasta di libri suo ultimo opuscolo, che, quasi a caso, non presenta che il nome dell'autore, prova pure un piacere colpevole quando alcuno riesce a scoprire il prezioso lavoro, che pareva nascondersi con tanta ingenua umiltà. Lo studioso che ingombra la propria camera di libri tedeschi, inglesi, greci o spagnuoli, vuol far sapere a tutti che egli li sa leggere. Altre volte egli dimentica ancora a mezzogiorno la lampadina sul proprio scrittoio per far supporre a chi viene a trovarlo che ha vegliato nella notte e ha sudato le lunghe ore sopra una catasta di libri, che stanno tutti aperti l'uno sull'altro, e che hanno intercalate nelle loro pagine infinite liste di carte d'ogni colore e d'ogni grandezza. Gli autori di tutte le gradazioni mi perdonino, se ho svelato alcuno dei misteri della loro politica vanitosa, perchè la natura del mio libro esigeva la citazione di qualche esempio; e se essi consultano la propria coscienza, troveranno che ho avuto il merito della moderazione e che non ho svelato le più ridicole e le più incredibili fra le loro vanità. Io intanto perdono ad essi di buon cuore tutti i loro piaceri patologici, purchè riscattino le loro colpe con un tantino di sale. Tutti i piaceri della vanità, che abbiamo divisi artificialmente in tre classi, non differiscono che nella loro origine, e provengono tutti dalla sodisfazione dell'approbatività degenerata, o portata ad un grado morboso. Per lo più si combinano fra loro in diversi modi in uno stesso individuo, il quale non si abbandona alla coltura di un ramo speciale, se non quando spera una raccolta maggiore di frutti. Allora egli arriva qualche volta a sagrificare germogli minori della stessa pianta, onde la gemma prediletta abbia a crescere più rigogliosa. La nostra coscienza e l'opinione pubblica ci fanno decidere nella difficile scelta. La pianta della vanità, essendo perenne e molto vivace, pullula sempre teneri rampolli anche nei tronchi recisi; per cui, quand'anche possa presentarsi un sol tronco ben alto e diritto, esso è circondato presso a terra da una famiglia di polloni che gli fanno corona. Così la donna che, dopo aver consultato se stessa, ha trovato che il suo cuore e la sue mente promettono assai poco, si dedica in modo speciale alla vanità fisica; tanto più che la bellezza è nel suo sesso più apprezzata, ed ella si è già persuasa che la turba che applaude o fischia sarà più pronta a ricompensarla di un voluttuoso piegar dei fianchi, o della studiata posa di una gamba accavallata sull'altra, che per i tesori più preziosi della mente o del cuore. La vanità in tutte le sue forme è sempre fatale alla vita del cuore, il quale intisichisce e muore. La donna che vuol piacere a tutti non può amare alcuno, e quando l'uomo le domanda il cuore, ella non sa trovarlo, perchè l'ha tagliuzzato, e ne ha dato un briciolo a tutti i suoi adoratori. Più di una volta essa si accorge del vuoto, e pone in luogo del prezioso viscere che ha sperperato, un cuore artificiale di cartapesta o di gomma elastica, che giunge talvolta ad ingannare gli uomini di corta vista. Questi cuori, se non altro, hanno il vantaggio di saper resistere alle intemperie e di non invecchiare mai. Che il cielo pietoso ce ne tenga lontani! Queste gioie sono di tutte le età, ma la vanità fisica naturalmente non può brillare che nella giovinezza, senza correre il rischio di farsi deridere anche dai fanciulli. La altre due varietà invece si sanno coltivare meglio nell'età adulta. La civiltà è molto favorevole a queste passioncelle, le quali, essendo bizzarre e capricciose, trovano nei magazzini della moda sempre nuovi abiti per mascherare un fantoccio che è continuamente lo stesso. Le gioie della vanità si nascondono con tale artificio, che la loro fisonomia è poco conosciuta. Qualche volta però brillano di tanta luce, che gli occhi si fanno scintillanti, e tutta la fisonomia ne è raggiante. Spesso l'espansione del piacere è irrefrenabile, e l'uomo vano, tornando nella propria camera, si soffrega le mani, ride col proprio specchio, e si abbandona alla più sfrenata allegria, sghignazzando, saltando, gesticolando, parlando o canticchiando.

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Quando due persone, per una ragione qualunque, si rimandano spesso scintille di gioia, queste vengono poi a formare una corrente continua, una vera atmosfera che abbraccia in sè due esistenze. Allora l'uomo che ama, vive, almeno in parte, di una vita doppia; e, conservando nel suo cuore l'immagine dell'amico, sente i palpiti di un altro cuore a cui rimanda i fremiti del suo. Chi vuole che per ciò sia necessaria un'identica natura morale a costituire due amici; chi pretende invece che il contrasto dei caratteri favorisca l'amicizia: mentre altri, forse più diligenti osservatori, ci insegnano che un amico è complemento dell'altro, e che le facoltà di entrambi sommate insieme formano un'unica natura complessa, un tutto più o meno armonico. Basta però la più superficiale osservazione della vita che ci circonda per dimostrarci che l'amicizia può scaturire da sorgenti molto diverse, e che, avida di spazio, essa vaga libera in larghissimo campo, diffondendo a piene mani le sue gioie fra gli uomini i più somiglianti e i più dissimili. Non tutti gli uomini sicuramente possono essere amici fra loro, quantunque possano essere tutti onesti e dotati di delicato sentire. Due persone per ispirarsi il sentimento dell'amicizia devono convenire, almeno fino a un certo punto, nell'età e nelle proporzioni del sentimento e della mente. Nelle diverse età della vita si parlano lingue diverse, si battono diversi sentieri, si vive sotto un diverso cielo. Fra gl'individui d'età troppo disparata l'amicizia è impossibile; e quando questo nome si adopera ad indicare l'affetto che lega il vecchio al giovane, il fanciullo all'adulto, si commette un errore di logica. Il sentimento più vivo può riunire questi esseri diversi, ma esso non è costituito che dalla venerazione, dal rispetto, dalla riconoscenza o dalla stima. II calore di due esistenze si confonde per non costituire che una sola temperatura, un solo clima, nel quale vivono due esseri. Anche quando uno di essi si allontana, la sua immagine morale rimane al posto abbandonato; e l'amico la contempla con lo spirito, l'accarezza come si accarezza una cosa viva, la bacia con trasporto e ne sente il tiepido calore che emana solo dalle cose vive e da quelle che sono amate. Questo è l'affetto che lega due persone nel santo nodo dell'amicizia. Come l'età, così la soverchia distanza morale o intellettuale può frapporre un ostacolo insormontabile a ravvicinare due in modo da farne due amici. Qui però la difficoltà è minore. Ora lo sguardo affascinante del genio può a poco a poco avvicinare a sè un uomo che si trovava lontano e perduto nella folla; mentre altre volte la tiepida e profumata emanazione, che spira da un cuore sublimemente delicato, ravvicina a sè il cinico che cammina per vie battute e solo. Questa è anzi una delle forme più perfette e ammirabili dell'amicizia.

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L'apoteosi dell'amicizia più completa è costituita dal genio della mente che abbraccia il genio del cuore. Perchè si verifichi questo sentimento si deve, però, trovare un uomo così grande nel sentimento che non invidi il genio e lo intenda, e un uomo così grande nella mente che possa rispettare il cuore senza sorridere. Altre volte invece l'amicizia nasce dall'accordo di due passioni vivissime indirizzate allo stesso scopo. Un uomo, dopo aver meditato a lungo sul problema della vita, sceglie il suo sentiero e suda sull'opera che si è proposta a scopo di tutta la vita. Nelle vicende del lavoro si urta con un fratello che s'indirizza alla medesima meta. Sono due uomini generosi, si dànno una stretta di mano e diventano amici. L'associazione del lavoro, la fratellanza di opinioni, il servizio comune sotto la stessa bandiera sono altrettante cause capaci di far nascere un'amicizia, e tutte si possono raggruppare in una sola classe. Altre volte ancora il contrasto di due caratteri diversi fa nascere l'amicizia. Un uomo violento, ma generoso, trova nell'amico pacifico e paziente un individuo sul quale sfogare in modo innocente le sue esuberanze. Un uomo cavilloso e appassionato, amatore delle discussioni e delle polemiche, ma avversario implacabile delle contraddizioni, trova in un amico compiacente una sorgente inesauribile di gioie. Un uomo generoso trova infine in un amico egoista un vuoto da riempire, un idolo da adorare, un altare su cui ardere i suoi incensi, rimasti da lungo tempo intatti nei tesori del suo cuore. Chi volesse indagare tutte le cause che possono ispirare in due uomini il sentimento dell'amicizia, dovrebbe studiare a lungo e profondamente il cuore umano; e quand'anche egli scrivesse la storia delle sue ricerche in un'opera di cento volumi, non potrebbe vantarsi di aver dato fondo alla materia. Tutti i libri che parlano del cuore umano, siano opuscoli o volumi in folio, siano elementi o trattati, schizzi o storie, sono sempre frammentari; sono sempre pietruzze irregolari e angolose tolte da un mosaico immenso, del quale nessun uomo finora ha dato il disegno completo. La prima condizione essenziale ad ispirare amicizia in due uomini è ch'essi si intendano. Non è necessario che la maniera di sentire e di pensare sia identica; ma è però indispensabile che sulla parte integrante che costituisce il telaio delle opinioni morali i due amici vadano d'accordo. Anche quando l'amicizia è nata dalle stesse cause, può essere di natura molto diversa secondo la condizione reciproca dei due uomini che la provano. L'elevatezza della mente influisce assai meno della generosità del cuore a far grande un'amicizia: e se non da ambo le parti, almeno da una di esse è sempre necessario che vi sia un cuore che palpiti generoso. Fra due uomini deficienti di cuore l'amicizia è impossibile; mentre fra due uomini generosi questo sentimento può arrivare al grado di fiamma che divampa luminosa e splendida. In ogni modo, in tutti i suoi gradi e in tutte le sue forme, l'amicizia è sempre un sentimento nobile ed elevato, e sebbene venga ad ogni momento prostituito da molti, non può a tutti impartire le sue gioie delicate. I vili e i cattivi non possono aver amici. Gli egoisti ne mancano quasi sempre, e non arrivano a trovarne che quando con la grandezza della mente si fanno perdonare la piccolezza del cuore. In questi casi le fantasmagorie dell'immaginazione e i giuochi di luce del genio possono tener luogo delle emanazioni del cuore, e l'amicizia è ancora possibile.

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La gioia generale che, a guisa di atmosfera, abbraccia in sè tutti i piaceri minori, è il conforto di non sentirsi soli, su questa terra, di vivere doppiamente delle sensazioni di un altro uomo riflesso in noi, e dei nostri atti morali riflessi in lui. Dal momento in cui due uomini si son dati una stretta di mano, che non si dà che ad un amico, essi non possono compiere la più piccola azione senza ch'essa si rifletta nel cuore dell'altro, che ne partecipa come se fosse sua; e così vivendo di una vita comune, respirano, senza saperlo, le emanazioni di due coscienze. Questa comunanza di idee e di affetti sparge sulle azioni anche le più indifferenti un'attrattiva particolare, che rende cara ogni occupazione, quando viene partecipata dall'amico. Da questa fonte provengono tutte le gioie dell'amicizia. Questi piaceri calmi ma soavi, piccoli ma ripetuti, spandono una attrattiva particolare su noi, rendendoci tollerabili le continue piccole miserie della vita. Dal primo sbadiglio, col quale allo svegliarci si incomincia a presentire una triste giornata, fino all'ultimo stender lento delle braccia con cui si chiude un giorno noioso o nullo, l'amicizia è sempre pronta a consolarci e a distrarci. Ora rompe la nostra triste meditazione con un'insolente ma amabile sbrigliatina; or ci distrae con un lungo e vivo cicaleccio; or ci impone di ridere e di camminare, facendo da madre e da maestra. Le piccole gioie dell'amicizia non sono assolutamente riservate ai preziosi momenti della beata solitudine in due; ma spargono qualche fiore anche nelle circostanze in apparenza più sfavorevoli. Due amici si trovano disgiunti e allontanati nella folla: non possono forse indirizzarsi la parola, ma uno sguardo solo basta a provare una ineffabile compiacenza, quando i loro occhi s'incontrano senz'essersi invitati al saluto; quando uno stesso bisogno, sorto a un tempo in entrambi, li obbliga a cercarsi per scambiarsi un sorriso di critica o di lode, un fremito di piacere o un sospiro di noia. La comunicazione a distanza di due uomini che si intendono con uno sguardo in mezzo ad una folla di estranei, è sorgente di una gioia purissima e scintillante. Il pensare e il sentire la stessa cosa nello stesso tempo, e l'incontrarsi a vicenda con un sorriso di compiacenza e di sorpresa è una delle piccole delizie che rallegra spesso due uomini che si intendono a fondo e si amano. Le grandi gioie dell'amicizia costituiscono alcuni dei più preziosi gioielli dei tesori del cuore; e sono feconde di tale voluttà, che chi ebbe la fortuna di provarne una sola, si commuove al solo richiamarla alla mente. E chi non sente battere più forte il cuore alla sola idea di un amico che, dopo aver per lunghi anni aspettato il fratello d'elezione da lui disgiunto per immenso spazio di terreno, a un tratto lo vede apparire, sano, allegro, palpitante di affetto? In quel momento gli spasimi non mai dimenticati dell'ultimo saluto, e tutte le ineffabili reminiscenze del passato, si precipitano in folla verso il presente e si confondono col delirio della gioia tumultuosa inaspettata e veemente che inonda e soffoca il cuore. Gli occhi cercano di incontrarsi e di guardarsi, ma il velo delle lagrime ricopre l'orizzonte di una nebbia calda e vaporosa. Le labbra cercano di articolare una parola; ma non arrivano che allo sforzo di un bacio lungo, intenso, affettuosissimo. Le braccia si stringono e ravvicinano i due cuori che, palpitanti, concitati, battono l'uno contro l'altro. Chi è incapace di amare a questo modo e di delirare di queste gioie, non si rifiuti ad ammetterle, nè creda esagerato il mio quadro, che è anzi incompleto. Un'altra fra le gioie più grandi, delle quali è fecondo il santo affetto dell'amicizia, è il conforto che presta nella sventura. Noi ci troviamo in mezzo ad una fra le tante burrasche che agitano il mare della vita: sbattuta a lungo, e a lungo contrastando contro l'impeto de' flutti, finalmente la fragile navicella urta e si sfascia contro uno scoglio. Noi ne siamo i miseri naufraghi. Non importa d'onde venisse, nè quale fosse il vento che infranse i nostri alberi, che squarciò le nostre vele. Fu l'invidia degli uomini o la crudeltà del destino? Fu la mancanza di fede o l'abuso della vita? Non importa! Siamo sfiduciati di tutto; non possiamo sopportare lo spasimo del dolore che ci penetra fino nella midolla delle ossa, e ci fa rizzare i capelli sul capo. Straziati, torturati, vorremmo essere inghiottiti dal mare che, quasi a zimbello, ci ballonzola sulle sue onde, minacciando ad ogni momento di infrangerci contro lo scoglio della disperazione, e ad ogni istante con una crudele pietà ce ne allontana. E chi, allora, in mezzo alle nostre maledizioni e ai nostri tormenti, chi ci si avvicina pietoso, e soccorrendo le nostre deboli forze, che si ribellano contro la vita come contro la morte, ci depone nella navicella di salvataggio e ci porta al lido? Chi sostiene allora l'ingiusto furore che ingiuria il salvatore e la misericordia e la provvidenza? Chi ci riasciuga e ci riscalda? Chi riesce a calmarci ad un sonno, nel quale devono spegnersi le ultime onde delle nostre passioni? È il nostro amico, che, non avendo potuto scongiurare l'impeto della procella, nè tarpar le ali ai venti, ci ha seguiti con trepida angoscia sulla navicella di un affetto che mai non naufraga; è l'amico che sta ora intento o paziente col capo chino sopra di noi, spiando gli aneliti del nostro cuore e commentando coll'avida impazienza dell'affetto ogni nostro movimento, ogni nostro sospiro. E appena noi, confortati da un sonno benefico, riapriamo gli occhi alla luce, è l'amico nostro che ci sorride per primo, e ci accarezza, e ci richiama al sorriso e alla gioia. I piaceri dell'amicizia rendono insensibili a molte gioie grossolane, ed elevando il gusto morale a un sommo grado di squisitezza, educano le facoltà più nobili della mente e del cuore. Esse possono bastare a rendere gradita la vita, per cui più d'una volta guariscono dallo scoraggiamento ed eccitano al lavoro ed all'operosità. In questo modo sono stati salvati non pochi che altrimenti si sarebbero consumati nell'ozio con cinismo ed apatia. Finchè si ha un amico, non si deve disperare della vita, e soltanto quando tutti gli uomini ci saranno divenuti indifferenti, e noi ne misureremo il valore dal vantaggio che se ne potrà ricavare, allora soltanto potremo fare i funerali al nostro cuore, perchè esso sarà morto, inevitabilmente morto. Le piccole gioie dell'amicizia possono rallegrare anche la vita del fanciullo, ma i piaceri più elevati non sono concessi che al giovine; all'adulto e al vecchio. In generale l'amicizia più calda e più generosa si prova nella primavera della vita; ma come si può serbarci generosi fino alla estrema vecchiaia, così si può godere fino alla decrepitezza delle gioie più delicate e sublimi di questo sentimento. La donna gode dei tesori dell'amicizia assai meno dell'uomo, perchè la formidabile passione dell'amore, che in lei regna sovrana, le piccole invidiuzze, le rivalità latenti, mille frivolezze suscettibili di disappunti, le impediscono il più delle volte di amare un'amica con tutto l'ardore. L'amicizia è possibile in tutti i paesi e in tutti i tempi; la civiltà però può esercitare una minima influenza sulle sue gioie più grandi e più sublimi che si fondano sulla generosità del cuore, e non sulla cultura della mente.

Pagina 164

Nessun'altra abbraccia in questo modo il triplice regno della natura umana. Nè ciò basta: gli elementi più contrari, che sembrano dover cozzare eternamente fra loro, si riuniscono nell'amore a costituire un'unica armonia. Nel culto che la natura umana presta all'amore, si associano le voluttà più sensuali alle più delicate ispirazioni del sentimento; si affratellano le esigenze insopportabili del più brutale egoismo agli slanci più generosi del cuore, i caldi venti tropicali delle passioni alle gelate brezze dei ghiacci polari della mente. Domandate ad una donna che ama, se ella abbia trovato nei cento volumi di letteratura e nei romanzi che ha letto, una storia esauriente dell'amore. Ella vi risponderà sorridendo che i libri hanno spigolato qua e là qualche gemma del tesoro, hanno involato qualche scintilla del vulcano; ma che la storia dell'affetto che le rode il cuore e le divora la vita col piacere e col dolore, non è stata mai scritta e forse non lo sarà mai. Nè io tenterò di tracciarla, e le donne che mi leggeranno potranno accusarmi di ignoranza, ma non di superbia. Per quanto sia smisurato l'arsenale di forme alle quali può ricorrere l'amore, esso in generale è costituito dal bisogno del riavvicinarsi dei due sessi, che devono comunicare la vita alla materia e formare un nuovo individuo. La parte che prende il sentimento in questo fenomeno è costituita dal sentimento dell'amore, il quale può arrivare a tal grado di potenza da far dimenticare lo scopo ultimo. È in tal modo che moltissimi si rifiutano ad ammettere che il fine essenziale e necessario dell'amore sia il congiungimento dei sessi, e credono che la definizione di questo sentimento, com'io l'ho data, tenda ad avvilirlo. La verità non può mai abbassare ciò ch'essa impronta del suo suggello. L'unione dei sessi non è un'azione brutale, nè vile: è legge necessaria di natura, è fenomeno fra i più belli della vita, e che solo l'uomo può deformare e avvilire colla prostituzione della morale, come può fare delle cose più belle e più sante. Si può amare, e violentemente, di purissimo affetto platonico, senza neppure pensare all'amplesso; ma nell'ordine, naturale delle cose, questa passione è sempre fondata sull'idea fondamentale del sesso e della generazione. Non si può amare che una persona di diverso sesso e nell'età feconda; ciò che prova abbastanza la ragione necessaria dell'affetto. Dal ceppo di una stessa pianta l'industre giardiniere può ritrarre un rampollo da frutto, come può educare una gemma che esaurisca la sua vita nel fiore e nelle foglie. Ogni ramo però, sia che s'adorni soltanto di fronde e di fiori, o sia carico di semi, ha pur sempre la stessa origine, e spetta sempre alla stessa pianta. Lo stesso avviene dell'amore. Nell'ordine naturale questo sentimento ci dà le foglie nelle sue gioie più pure, ci dà i fiori nei piaceri misti che si possono indovinare, e ci rallegra coi frutti quando arriva al suo sviluppo completo. Come un albero può crescere alto e rigoglioso senza dar fiori nè frutti, così l'amore può illuminare di gioia la vita di due individui, senza che mai abbiano insieme spasimato nei piaceri del senso. Ma non per questo è men vero che la natura destina l'albero a tramandare la sua vita per mezzo dei semi, come accende il fuoco dell'amore perchè tramandi il calore della vita. Nello stesso modo con cui la vita d'una pianticella si prolunga, quando le si impedisce di portar fiori o frutti; così la vita dell'amore si protrae assai più a lungo, quando si accontenta di porgerci le foglie sempre verdi delle gioie platoniche. Quando la pianta ha dato i suoi frutti, il fine della natura è raggiunto, e se la vita, e conseguentemente l'amore, si prolunga ancora, ciò si deve alla generosità della provvidenza.

Pagina 167

Esso è nel senso più vasto l'applicazione della mente alla ricerca del vero, del bello e del buono; per cui abbraccia tre mondi che hanno il proprio cielo, i propri pianeti e satelliti. La smania di imparare è un'ottima cosa, ma può andar unita anche a facoltà intellettuali mediocri. In alcuni casi essa si riduce a un furore di divorare, a una vera fame morbosa che fa inghiottire ogni cosa a rischio di averne poi una indigestione. Alcune volte si accumula per poi classificare e distillare; e in questi casi, per quanto sia insaziabile la fame di cognizioni, non è mai ridicola. Per imparare bisogna sempre esser discepolo, bisogna riconoscere davanti ai libri o agli uomini la propria ignoranza. Alcuni, incapaci di questo sacrificio, non potranno mai arrivare ad una gioia purissima; altri non la raggiungono perchè la fatica dell'imparare, essendo troppo sproporzionata alla debolezza delle loro facoltà mentali, non viene ricompensata abbastanza dal piacer di sapere. Chi arriva sulla cima del monte stanco e sfibrato non può godere del sublime spettacolo che di là si contempla, perchè il piacere ch'egli prova viene soverchiato dalla sua sofferenza; così lo scolaro, che zoppica, e suda, e piange sul sentiero della scienza, non può amarla, e la maledice come una delle tristi necessità della vita. I piaceri dell'imparare variano in una scala infinita secondo la natura delle cognizioni. Chi presta un culto speciale alle matematiche può sbadigliare sur un libro di storia; un altro linguista, può rimanere indifferente alla lezione più interessante di chimica, e così via. Inoltre altre condizioni fuori e dentro di noi possono modificare i piaceri che si hanno dall'acquisto di cognizioni; ma l'elemento onnipossente che misura quasi sempre il piacere, è la fede nella scienza umana. Il bisogno di imparare può accompagnarci con tutta la sua passione fino all'estrema età, conservandosi sempre giovane; mentre lo spirito di osservazione è sempre adulto, spesso anche vecchio. Se il primo può andar compagno della mente meno evoluta, il secondo invece è sempre indizio sicuro di certa superiorità. Le gioie in quest'ultimo caso sono più calme, delicate, direi quasi sottili, e sembrano irradiarsi in tutto campo del pensiero. Nell'atto di osservare, tutta la mente pende intenta sopra un oggetto, aspettando di elaborare le scoperte che essa va facendo ad ogni istante. Il piacere di osservare, si può benissimo confrontare alla compiacenza che prova l'operaio nel disporre in bell'ordine i suoi strumenti e nel contemplare il lavoro che sta per cominciare. In generale si adopera la parola osservazione per indicare l'attenzione che la mente presta alle impressioni che arrivano ad essa per mezzo della vista; ma nel senso più vasto si può osservare anche un fenomeno interno. I piaceri che si provano nell'acquisto delle cognizioni o nell'osservare, esercitano quasi sempre un'azione benefica sulle facoltà intellettuali. L'amore del sapere da solo è una facoltà affatto neutra; ma siccome è sodisfatto dalla scienza, ne viene che chi prova le sue gioie diventa sempre più avido di gustarle, e trascurando i piaceri meno nobili o più pericolosi, acquista la vera passione dello studio. Studio e osservazione sperimentale sono i due mezzi per arricchire la mente: col primo si approfitta della esperienza e del sapere accumulato per secoli dalla umanità; con la seconda si acquistano direttamente le cognizioni con la esperienza propria e con l'applicazione personale delle nostre facoltà. Le gioie dell'osservazione sono più intense e rendono acuto lo sguardo della mente, avvezzato alla riflessione calma e riposata; e sebbene da sole non insegnino ancora a pensare, pure esercitano la mente ad uno dei più preziosi esercizi e preparano i buoni materiali d'opera per rendere più facile e fruttuoso il lavoro. Coltivando questi piaceri con affetto, si può accrescere la temperanza e la prudenza del pensare; o farle nascere quando mancano. L'osservazione è il miglior freno che possa contenere l'impetuoso destriero della fantasia; è il precettore più severo che educa e castiga i capricci puerili e le strane bizzarrie della mente; è il miglior compagno di viaggio che si possa dare alla poesia nel suo cammino verso la verità. Tutte queste gioie sono meglio coltivate dall'uomo che dalla donna. La civiltà le diffonde con l'educazione a un maggior numero di individui, ma ciò che le misura con diversa proporzione è il sistema cerebrale.

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In qualche raro caso l'orizzonte di un sol uomo o di una sola donna abbraccia i due emisferi di gioie. È allora che l'uomo, mentre in un sublime delirio strappa dall'albero della gloria le ultime foglie d'alloro che ne adornano la cima, non dimentica il proprio cuore e ama generosamente; è allora che la donna, rammentando di essere amante e madre, può cingersi la fronte di una corona immortale, guadagnata coi lavori della mente. Questi casi di grande potenza intellettuale e morale sono però rarissimi, e quasi sempre si osserva il predominio di una classe di gioie sull'altra.

Pagina 257

Altri, trascinati da una ardente fantasia e vaghi per natura di ciò che si oppone alle credenze dei più, credono vivo tutto ciò che si muove, cresce e moltiplica, e, confondendosi con la natura che in sè li abbraccia e riunisce, pensano che non si possa rifiutare la vita a nessuna cosa creata, e che essa, variando solo nella forma e nella misura, imbeva l'universo dei suoi succhi fecondi. Nel buio che avvolge questa suprema metafisica del nostro cervello, si possono con sottigliezza di dialettica sostenere entrambe le credenze, dacchè e l'una e l'altra sono probabili, nè la ragione contrasta o fa divorzio con alcuna di esse. Forse la vita non è un fatto collettivo ridotto ad idea dal potere analitico dell'elaborazione intellettuale; ma è la riflessione del nostro io nel mondo che lo circonda, è il prolungamento indefinito nello spazio del fremito di cui oscilla la materia che ci plasma. Per ripetere lo stesso concetto con una forma che più si avvicini al mondo delle sensazioni, direi che l'uomo, senza volerlo, ha cercato gli esseri che si rassomigliano a lui negli atti più fondamentali dell'esistenza. Dai più somiglianti, scendendo giù giù fino agli ultimi anelli della grande catena degli esseri creati, è giunto ad un punto in cui non poteva più riconoscere per fratelli o per parenti lontani le creature che egli trovava troppo diverse da lui. Ad indicare con un segno tangibile questa operazione del suo intelletto, o questo trovato del suo cervello, egli avrebbe inventato il concetto di vita, che, adattandosi alla sua debolezza e facendolo contentissimo, gli impedisce poi di risalire ad un concetto più sintetico dei fenomeni naturali. In ogni modo, se la vita compenetra tutte le cose create, essa si concentra più spesso in un punto; e fecondando una piccola porzione di materia, ne fa un individuo che, isolato e moventesi in un'atmosfera autonoma, non si tiene riunito al mondo che a mezzo delle forze che, come parte del tutto, lo integrano. Quanto più si segrega questo microcosmo dal gran cosmo da cui ha avuto forma e vita, quanto più vasto è l'orizzonte individuale che lotta continuamente col circolo che lo abbraccia, e tanto più chiaro si formula il concetto della vita. Un gruppo di forze organizzate, svolte in un individuo che s'agita e si trasforma senza posa, è forse la formula più esatta della materia viva.

Pagina 279

Rispettiamo col silenzio il mistero di questo momento solenne, nel quale il senso del tatto pare si concentrj in un sol punto del corpo, e nel quale i piaceri minori non vengono più percepiti, perchè sopraffatti dalla nuova sensazione che in sè li abbraccia e comprende. Il mistero si consuma, e il piacere, irradiando a torrenti dai genitali per tutta la vasta rete dei nervi sensori, effonde tale e tanta voluttà, che infrangerebbe la debole creatura umana, se dovesse durare molto a lungo. In questo breve momento la mente non palesa che pochissime tracce di vita con parole interrotte, che per lo più consistono in esclamazioni inframmezzate da sospiri o da gridi: talvolta è talmente conturbata che si ha un incomposto delirio, e l'uomo sembra colpito da un vero accesso convulsivo. Il riso è rarissimo e piuttosto la faccia si atteggia ad un sorriso prolungato e tremante. La espirazione interrotta a piccolissimi intervalli, quasi rassomiglia a un fremito; più volte la glottide si stringe e l'inspirazione riesce quasi sibilante. La fonte di tanta voluttà non può provenire che dalla struttura particolare dei nervi sensori degli organi genitali e dei loro centri nervosi, ma al punto in cui sono le nostre conoscenze non possiamo nulla affermare di positivo. L'azione è per se stessa semplicissima, e non consiste che nel contatto e nello sfregamento reciproco di due parti sensibili. Il fenomeno essenziale della copula, che sta nella polluzione, è prodotto dalla contrazione spasmodica delle vescichette, la quale avviene nello stato del massimo estro venereo. L'uomo può, fino a un certo punto, prolungare l'azione e modificarne la forma, ma negli ultimi istanti la natura sola si incarica dell'atto fondamentale del fenomeno, e l'ejaculazione avviene senza l'influenza della volontà. Nella copula i due sessi si comportano in modo diverso, quanto all'attività colla quale vi partecipano. La donna è quasi del tutto passiva, e può compier l'atto senza coscienza, e quindi senza piacere, mentre l'uomo ha bisogno di tutta la sua energia. Più d'una volta avviene che un importuno pensiero, il timore, l'immagine di qualche oggetto disgustoso, od altre cause consimili, rendano ad un tratto impotente l'uomo il più valido. alle lotte d'amore, ed esso deve rinunciare ad una battaglia già iniziata. In questi casi vien sottratta ai genitali una parte dell'eretismo nervoso nel quale si trovano, e questi sono istantaneamente colpiti dalla più inesorabile impotenza.

Pagina 32

Come devo comportarmi?

172212
Anna Vertua Gentile 1 occorrenze
  • 1901
  • Ulrico Hoepli
  • Milano
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E arte abbraccia nella sua bella e generosa cerchia le musiciste, le pittrici e cantanti e drammatiche e danzatrici, e... autrici e scrittrici. Ma per amore delle illusioni, che sono fallaci ma pure aiutano a vivere, le giovinette serie non si lasciano offuscare il buon senso dell'idea, della smania, ormai invadente di scrivere per il pubblico. Non accarezzino la bugiarda speranza di ricavare l'esistenza dalla penna. Poche, anzi pochissime sono le donne in Italia, che traggono un frutto a pena discreto dal loro lavoro letterario. E piu si va avanti, più la cosa diventa difficile. O perchè ora che i pregiudizi diminuiscono di giorno in giorno, messi al bando dal progresso d'ogni cosa, una signorina sia pure nata in una culla d'oro e porti un titolo che la povertà non offusca nè cancella, ridotta alla condizione di lavorare per vivere e forse per soccorrere la famiglia, quando non mancasse di attitudine, non si darebbe al gentile mestiere della modista o a quello della sarta ?... Perchè possedendo un piccolo capitale, avanzo della ruina, non aprirebbe un modesto negozio di fiori artificiali, di mercerie, di qualunque cosa utile ?

Pagina 163

Il successo nella vita. Galateo moderno.

178463
Brelich dall'Asta, Mario 1 occorrenze
  • 1931
  • Palladis
  • Milano
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Chi troppo abbraccia nulla stringe Revéiller le chat, qui dort. Risvegliare il gatto che dorme. Sa femme porte culotte. Sua moglie porta i calzoni. Tel maître tel valet. Quale il padrone tale il servo. Tout homme peut faillir. Ognuno può errare. Une fois n'est pas coutume. Una volta non è ancora uso. Un malheur n'arrive jamais seul. Le disgrazie non arrivano mai sole. Un tiens vaut mieux que deux to l'auras. Un « tieni » vale più che due « avrai » Vouloir c'est pouvoir. Volere è potere.

Pagina 441

Enrichetto. Ossia il galateo del fanciullo

179113
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1871
  • G.B. PARAVIA E COMP.
  • Roma, Firenze, Torino, Milano
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Ma più geniale riesciva ancora la passeggiata sul nuovo giardino lungo il Po, uno de’ più belli che vanti l’Italia, perché, oltre la sua estesa, l’occhio, leggiadramente ingannato, abbraccia, a formare un solo e immenso giardino, e il vicino orto botanico,e il castello del Valentino dalle sue quattro punte acute e bizzarre, e il maestoso serpeggiamento del Po, dentro le cui acque liscie e chete, come d’ un lago, cento graziose barchette volteggiano, liete di care brigatelle, che su e giù vanno a godere quelle gentili e sottili brezze, che vengono dal Monviso, la cui vetta, quale piramide colossale, si vede giganteggiare lontana; e la interminata collina, delizia de’ Torinesi, disseminata di cento casette bianche e gialle, spiccanti fra il verde cupo degli alberi, come fiori tra le erbose rive de’ ruscelli; e sulla punta più eminente della medesima ritta la superbia basilica di Soperga, quasi sentinella avanzata a vegliare la bella città, o quasi mediatrice tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo. Enrichetto, quando era più ragazzino, insieme col fratello si metteva saltar la funicella o a ballare cogli altri fanciulletti della sua età sulla piazzuola, che si spiana presso la casina svizzera, che serve da caffè. Ma fatto più adulto, stava raccolto col babbo e colla mamma e con loro si sedeva: diceva che in quelle sere beate i più dolci sentimenti si raccoglievano nel suo cuore, e le più care fantasie rallegravano la sua anima! e ritornato a casa col cuore traboccante d’affetti, e colla mente piena di serene idee, non era raro che non si sedesse allo scrittoio a versare sulla carta la pienezza del suo animo! Ma se era rapito da così belle e graziose scene, avveniva anche spesso, che profondamente si addolorasse; come quando vedeva ragazzi così discoli e viziati, che distaccatisi dai parenti, saltavano nelle aiuole e calpestare le erbe, a desertare i nascenti germogli, a strapparne i fiori, e i padri e le madri comportare questo! oppure qualche stuolo di giovinastri, ottusi a ogni senso di bellezza, schivando a studio la vigilanza delle guardie, sferrar sassi contro gli alberi, o contro i pubblici monumenti per l’insensato e barbaro talento di recar qualche guasto; a tali atti si sentiva il sangue montare al viso, e chiudeva gli occhi per non vedere. Così pure gli sanguinava il cuore quando vedeva qualche gruppo di bravacci cacciarsi in mezzo a quelle semplici ragazzine, che danzavano sulla spianata del caffè e con mal garbo, facendo lo viste di ballare per essi, dare calci qua, gombitate là, spintoni in ogni senso; per ismania brutale di disturbare un innocente sollazzo.

Pagina 41

Per essere felici

179488
Maria Rina Pierazzi 1 occorrenze
  • 1922
  • Linicio Cappelli - Editore
  • Rocca San Casciano - Torino
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La vera distinzione abbraccia tutti i particolari dell'abbigliamento e del contegno e certe mode — checchè se ne dica — non devono essere adottate da chi e per nascita e per educazione è collocata al disopra della mediocrità. Il corredo sia dunque composto di tela fine, ben cucito e abbondante. Ai merletti, quasi sempre di poca durata, è bene preferire dei ricami a mano, eseguiti alla perfezione, i quali hanno senza dubbio un pregio maggiore. Ho detto "abbondante„ ma anche su questo non bisogna esagerare; vi sono talune spose che si fanno tanta biancheria da averne per venti anni e che finisce poi con l'ingiallire e passar di moda stando inadoperata e chiusa negli armadi. La biancheria, del corredo deve, innanzi tutto, essere adatta alla nuova posizione della sposa; se non potrà permettersi il lusso di una cameriera abile nello stirare e nella conservazione della roba, farà cosa giudiziosa prepararla nel modo più semplice possibile, senza complicazioni di merletti e di nastri, perchè una donna da tutto servizio gliela stirerebbe come Dio vuole, e darla settimana per settima alla stiratora, è una spesa oramai divenuta proibitiva per tante borse, senza contare che il consumo sarebbe eccessivo, a meno che la signora non si adattasse a stirarsela da sè. In ogni modo la biancheria più apprezzata è quella fatta con buona tela finissima e lavorata con ricchezza e semplicità. Tutte le altre cianciafruscole di seta, crespo, "linon„ hanno la vita di un'ora e sono, quasi sempre, il patrimonio dei cenciauoli. Il corredo deve essere, naturalmente, marcato con le cifre da sposa. Se questa, col matrimonio, assume un titolo nobiliare potrà farvi ricamare la corona — ma non potrà ricamarla nel caso che da nobile passi a nozze con un non titolato. Su questo punto si commettono, spesso e volentieri, parecchie infrazioni al buon senso e alla praticità. Nei luoghi ove la sposa — per tradizione familiare — reca nel corredo anche una parte di biancheria da tavola, questa dovrà essere segnata con le esclusive cifre del marito.

Pagina 141

Le belle maniere

180117
Francesca Fiorentina 1 occorrenze
  • 1918
  • Libreria editrice internazionale
  • Torino
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Pagina 187

Il tesoro

182002
Vanna Piccini 1 occorrenze
  • 1951
  • Cavallotti editori
  • Milano
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Esso abbraccia tutte le cure destinate a rinvigorire il loro fisico, a formare il loro carattere, a far di loro tanti individui forti, buoni, utili a sè e al Paese.

Pagina 639

Galateo ad uso dei giovietti

183900
Matteo Gatta 1 occorrenze
  • 1877
  • Paolo Carrara
  • Milano
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Dalla docilità di carattere, dalla buona educazione e dall'impero dell'uomo sopra sè stesso deriva la condiscendenza, la quale abbraccia un campo più esteso della docilità e fa ottima prova in tutti gli stadii della vita. Quest'amabile qualità potrebbe definirsi la felice disposizione dell'animo a compiacere agli altrui desiderii, postergando i proprii; e guadagna all'uomo stima, simpatia, amicizia. In cose di poca importanza non vi caglia di far prevalere la vostra volontà e la vostra opinione. Non imitate quegl' incivili che contradicono sempre per sistema e per gusto, e quindi feriscono facilmente l'amor proprio altrui e sono incresciosi anche alle persone meno educate. Nella scelta di un divertimento per esempio, accettate quello proposto da altri della brigata, quand'anche il suggerito da voi meritasse, per molti riguardi, la preferenza. Con questo non vi dico di dar sempre ragione in ogni cosa a tutti; chè ciò sarebbe uno spogliarvi delle più nobili facoltà dell'uomo, della sua dignità, per tramutarvi in tanti fantocci in mano del primo imbecille capitato. Anzi nel caso che alcuno si faccia a sostenere un assurdo e un falso principio, ripugnante alla logica ed al buon senso, avrete il diritto e qualche volta il dovere di combatterlo con sode ragioni, con calma, con maniere modeste, in guisa che il vostro avversario non abbia a restarne offeso. E così operando, vi riuscirà assai più facilmente di persuaderlo e d'indurlo a riconoscere il proprio errore. I modi villani, anche avendo un migliaio di ragioni, vogliono essere sbanditi, perchè non servono che ad irritare chi è di contraria opinione, e un vecchio proverbio dice: « Chi grida ha torto. »

Pagina 67

Il galateo del campagnuolo

187353
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 1873
  • Collegio degli artigianelli
  • Torino
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Dal bianco ammanto di neve, che si stende su quanto abbraccia l'occhio, ai tappeti di verzura, smaltati di mille guise di fiori, al biondo consolante della feconde messi. Che varietà! Non un'ora simile all'altra, il rigoglio del mattino, la melanconia della sera, il romore del giorno, e il silenzio della notte; a dì sereni e belli tengon dietro giorni nebbiosi e scuri; pioggie continue e fine, subiti e impetuosi temporali; e il campagnuolo che tacito e inconscio cresce lì in mezzo, ora si stringe in inconsolabili disperazioni, ora si apre alle più larghe speranze. Nessuno vive più alla mercè della fortuna, che l'abitatore dei campi, la creatura più indipendente, più libera, e più poetica che si possa immaginare; onde se anche più d'ogni altra si abbandona alle superstizioni, ai pregiudizi, alle ubbie, alle credulità, agli errori volgari, si deve anche più che ad ogni altro perdonare. E dire che questa vita indipendente, salubre e vigorosa mal si conosce, e peggio s'apprezza da' campagnuoli; perché la maggior parte di essi si studia di abbandonarla per correre ad abitare le città! .La città! — Ecco il sogno dorato del contadino. Nelle città le persone sono ben vestite, nella città v'è allegria, si gozzoviglia; dunque vi si deve star bene. Questo è il ragionamento che fa il contadino che abbia, come dicono la mente un poco svegliata. ............ E così, intanto che la città accoglie un consumatore di più, la campagna perde un produttore. Il disinganno arriva presto, ma il più delle volte al fatto non v'è più rimedio. CANTONI. Almanacco Agrario, 1869. Quest'emigrazione da'campi, quest'inurbarsi de' villici senza niun ricambio di cittadini che ritornino ai campi, segna pur troppo un principio di decadenza ne' costumi, e di regresso nella società. È vero che la società moderna ha di molti e gravi torti verso la classe de'contadini, la classe che alimenta tutte le altre, e da nessuno è tenuta in conto; nessuno pensa a lei, o se ci pensa, è per servirsi del nome di villano come una contumelia. Vi sono istituti di provvidenza, pie associazioni per favorire gli operai, gli impiegati, i militari, e via via; ma per i contadini niente di niente! Anzi quando si parla di agricoltori si fa con un non so qual senso di disgusto, e la signorina schifiltosa per poco non si tura il naso per sospetto di non sentirne il lezzo. Questo è ingiustizia. Ma non è ancora una sufficiente ragione di disertare i campi per andar a popolare le città, come se là si trovasse la manna, che gli Ebrei avevano senza fatica nel deserto. Poveretti! Essi stanno all'apparenza; vedono il cittadino meglio ripulito e rimpannucciato, il viso bianco, le mani meno rugose, e scambiano questo per agiatezza e abbondanza de' beni del mondo. Ma se vedessero più addentro le cose, sì che esclamerebbero, che non è oro tutto ciò che luce; e che ad ogni uscio v'è il suo ripicco; come dice il proverbio! Venuto in città il campagnuolo, disadatto e ignaro di tutto, sarà costretto ad esercitare i più umili mestieri, e si bacierà la mano a trovarne; invece della casetta in mezzo al verde della campagna, soleggiata da mane a sera, abiterà uno stambugio, oscuro, umido, fumoso, dove non potrà mai penetrare raggio di sole, oppure salirà per dodici o quindici scale in una povera soffitta sotto i tetti, e i suoi teneri bambinelli per trascinarsi ogni dì su e giù per meglio di cento scalini si scavezzeranno le gambe e si storceranno in mille guise la persona; chè in ciò sta la vera ragione delle molte storpiature, che si vedono nelle grandi città! Senza dire che lì si deve vivere tutto a punta di quattrini, e il vitto è caro, e il guadagno è scarso, e le spese infinite; onde i digiuni non comandati sono più di quel che si pensi. E ciò, che aggiunge peso, è il trovarsi di continuo alla presenza della ricchezza strabocchevole e del lusso insultante dei doviziosi; il tapino cencioso colle scarpe rotte è costretto a vedere il signore in superbo cocchio stemmato, tratto a due pariglie! Nella campagna poco su poco giù si vive tutti a un modo, il servitore, il bracciante mangia alla tavola del padrone, e non si vede così allo scoperto questo terribile contrasto della lautezza colla miseria; ma in città quante volte l'infelice operaio, in mezzo ai figli, che gli domandan pane, colle viscere dolenti pel digiuno, si coricherà nella fredda soffitta, e alle sue orecchie verrà la romba della festa e la eco dell'orgia, che lì sotto di sè nelle sale dorate del primo piano si prolungherà alle ore del mattino! Chi terrà il poveretto dal gittarsi alla disperazione? Pure questa miseria velata fa gola al campagnuolo! Il dottore Enrico, che usava tutti gli anni passar un po' d'autunno nel suo villaggio del Monferrato, non cessava di far aprir gli occhi a' suoi terrazzavi, svelando gli stenti infiniti, che si nascondono sotto abiti signorili. E se fan prova di poca avvedutezza quei che lascian la campagna per la vita cittadina, che s'ha a dire di coloro, che consumata ogni sostanza nel giuoco e negli stravizzi, vanno poi a cercar fortuna in lontani paesi; quasichè altrove i gnocchi e i capponi piovano giù dal cielo come la neve, e che i fiumi scorrano nebiolo e moscato! La vita è dura dappertutto, osservava il Dottore, e forse lontano più che dove s'è nati. Ma l'agognia de' subiti guadagni, l'avidità del milione, che sconvolge da capo a fondo tutta la società moderna, tormenta anche il pacifico abitator de' campi; e l'America, la California, l'Australia si atteggiano con seducenti colori alla fantasia di tutti. E qui prendendo alcuni di questi sognatori di tesori, il signor Enrico loro chiedeva: Orsù, ditemi un poco, di tanti che avete veduti voi andar di là dai monti e dai mari, quanti n'avete visti ritornare co' sacchi pieni d'oro? Il figlio di Gian Giacomo, tutti lo conoscono, si diceva che possedeva monti di lire sterline, l'abbiam visto ripatriare l'anno passato cogli abiti laceri e colle scarpe rotte; il ni-nipote di Carlambrogio, e quella buona lana del suo amico Stefanaccio morirono di febbre gialla, dopo due mesi che vi eran giunti, come accade ai due terzi che colà emigrano! E la litania è lunga; ma nessuno, che noi conosciamo, fece fortuna. Gli zii che ricchi tornan d'America, ora non si vedon più che sui teatri In America non è più il tempo che Berta filava. Dal 1830 in poi, le vicende politiche e lo spirito d'avventura, spinsero colà la parte più giovane, più energica, più attiva ed anche più intelligente della vecchia Europa. I facili guadagni d'una volta si fecero sempre più difficili; ed ormai si può dire che per fare fortuna in America bisogna già averla fatta altrove, oppure è necessario recarvisi con abilità non comune. Gli agricoltori, come disse il Ferrario, sono i meno cercati, ed io soggiungo che sono pur quelli che più difficilmente possono cambiare di abitudine. II contadino sfugge la miseria in casa propria, per morir di stenti oltre l'Oceano, non potendo più far ritorno per mancanza di mezzi. Al contadino, nell'America, oggidì sono riservati i mestieri più vili, le fatiche maggiori, ed i minori guadagni. CANTONI, Almanacco agrario. Fate come me, diceva, non credete alle ricchezze favolose di chi è lontano; voglio vederlo io l'oro che portano di là: a ciance il denaro si misura a palate; ma per conseguirne un bricciolo, fa doler le dita. Sapete come si ottiene un po' di ben di Dio? S'ottiene col sudor della fronte e col risparmio; e ciò si può far qui come in tutto il mondo. Chi vuol vivere in ozio, conchiudeva, e consumarsi nel giuoco e in bagordi, fa della fame in tutti i paesi della terra.

Nuovo galateo

190109
Melchiorre Gioja 3 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
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.° L'uomo colpito da inaspettato giubilo non sa contenere sé stesso, e sente un impulso ad estendere la propria sensazione piacevole; quindi abbraccia e bacia quasi egualmente l'amico, il conoscente e perfino le cose inanimate. Quindi le donne dotate di maggiore sensibilità che l'uomo, e talora più destre a fingerla, corrono ad abbracciarsi e baciarsi quando si visitano; alla quale ragione fa d'uopo aggiungere quella dell'uso. 6.° L'inaspettato e inteso giubilo fa nascere la riconoscenza a favore di chi lo produce; la riconoscenza consiglia le pronte esibizioni di riposo a chi è venuto da lontano per visitarci ; di cibi graditi secondo le ore del giorno, di vino e di liquori in tutte le ore nelle classi sociali meno elevate. - L'urbanità de'popoli del Brasile consiste nel far coricare il forestiere che giunge; quindi le donne e le figlie della casa, sparse i capegli e colle lagrime sugli occhi, compiangono le sue fatiche e i suoi perigli. Dopo questo piangisteo, rasserenano il volto, s'abbandonano all'allegrezza, e gli offrono da mangiare e da bere. Al Madagascar l'allegrezza unita alla riconoscenza, e non diretta dalla civilizzazione, ha creato un dovere d'urbanità che i popoli inciviliti non ammettono e che la morale condanna. Il padrone di casa esibisce al forestiero quella tra le sue donne che gli è più cara; e sarebbe impulitezza nel forestiero il non accettar l'uso dell'offerta. 7.° II piacere risultante da una visita impone l'obbligo di restituirla alle persone uguali, e lo impone molto più alle inferiori relativamente alle superiori, quando il motivo di chi ci visitò, non fu bisogno, ma stima od affezione. 8.° A Roma le visite alle persone cui erasi o volevasi mostrare affezionato, erano continue e numerose a segno, che spesso il padrone usciva di casa per una porta opposta al vestibolo ove lo aspettavano i clienti. A'nostri tempi, per liberarsi dalle visite importune il padrone fa dire che non è in casa: il che, oltre l'inconveniente della menzogna, dà luogo a replicati inutili ritorni. Invece di ciò che segue la 2.° e 3.° edizione hanno: » Sarebbe miglior consiglio negare francamente la » visita, giacché se coll'uno o coll'altro metodo si » salva la propria indipendenza, col secondo la si » salva senza altrui danno ». Altri, fingendo affari, occupazioni, indisposizione, tolgono più tinte alla menzogna. Vorrei pur farle sparire affatto; e mi sembra che, nel presente stato dei nostri costumi, una manifesta freddezza in chi riceve una visita importuna tolga la voglia di replicarla. ll nostro tempo non può restare nè interamente a disposizione altrui, né interamente a disposizione nostra: egli vuol dunque essere diviso in tre parti; la prima appartiene ai nostri doveri, la seconda ai bisogni altrui, la terza alle convenienze sociali,

Pagina 198

» L'uomo pur troppo non accorda che suo malgrado » la propria stima, e abbraccia sempre con » piacere un'occasione, un pretesto per toglierla o i diminuirla». Ceretti.

Pagina 205

Pagina 226

La giovinetta educata alla morale ed istruita nei lavori femminili, nella economia domestica e nelle cose più convenienti al suo stato

192768
Tonar, Gozzi, Taterna, Carrer, Lambruschini, ecc. ecc. 4 occorrenze
  • 1888
  • Libreria G. B. Petrini
  • Torino
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Pagina 213

Quello sterminato adunamento di acque che cinge di ogni intorno ed abbraccia tutta quant'è vasta la terra, come ti fu insegnato, o fanciulla, chiamasi mare. Nè per istringersi od allargare, rispianarsi placido e cheto o ribollire in ischiume e cavalloni, cessa dal serbarsi uno ed intero; e i nomi diversi onde si chiama non gli furono imposti che dalla diversità delle spiaggie a cui si frange. Tu ammirarne, o cara la vastità immensurata che, come canta un gentil poeta:

Pagina 336

L'uomo, e questo nome abbraccia indistintamente anche la donna, fu posto da Dio a signoreggiare i volanti dell'aria, i pesci del mare, quanti animanti ha la terra. Ed eletto da lui a re del creato, è l'opera più bella delle sue mani. Ti studia, o giovinetta, sin d'ora a conoscere meglio che puòi la nobiltà e l'eccellenza dell'umana natura, imparerai a rispettare te stessa. Vero é , che, disceso per propria colpa dall'altezza sublime in cui fu locato dapprima l'uomo, ahi quanto ora appare diverso? Angelo decaduto, s'eclissò l'aureola che sfavillavagli in fronte , però nell'anima sua, fatta a divina imagine e somiglianza, tuttavia vive e si mostra alcun raggio dell'antica luce. Ond'è che colla potenza dell'intelletto conosca, intenda, confronti fra loro le cose e ne giudichi. E, scorto e sorretto dallo studio, proceda innanzi : lungo e disagiato cammino, ma che poi riesce alle scoperte mirabili della scienza. E la memoria si fa conservatrice di quanto, o fanciulla, apprendesti ; giacché l'avere inteso a che gioverebbe, ove non ritenessi le cognizioni che ti procacciasti con tanta fatica ? Né basta ancora. Dotata di volontà, puoi con essa sollevarti alla contemplazione dell'Essere perfettissimo e primo, e per qualche modo accostarti a Lui nelle opere della virtù, a fornire la quale ti soccorrono cento mezzi ed aiuti. Se non che tu sei libera, e come tale puoi determinarti anche al male; ma te ne dilunga e sconsiglia, oltre il biasimo degli uomini, la segreta voce che internamente ti avverte e ti mette in guardia; e se non l'odi, ti punge e trafigge collo stimolo del rimorso. - Inesorabile tribunale quello della coscienza! Né solo di questi che sono singolarissimi privilegi arricchì il Signore l'anima tua, ma di altri ancora. La potenza degli affetti gentili Egli l'impartiva a voi, donne, segnatamente. Ma perché a questa potenza obbediscano pronti cuore e fantasia, avverti bene, o fanciulla, che dall'uso o dall'abuso di entrambi possono derivarti gioie e dolori, contentezza ed infelicità, vita e morte. Tempera i bollori dell'uno, reggi i voli dell'altra, ed oh, te beata! E i reconditi pensieri della mente, i sentimenti che chiudi in petto, di che guisa potresti manifestarli ? Come sopperire a tanti tuoi morali e materiali bisogni, se uno stromento arrendevole ad ogni tua voglia, vivo, efficace, non ti suffragasse? E questo stromento é la favella. Dono stupendo che partecipa, a qualche modo, della doppia sostanza onde consta l'umano composto. Tiene esso dell'anima in quanto rivela ciò che passa dentro di noi; e dal corpo riceve forma, mediante i suoni che escono dalle labbra articolati e distinti. Oh ! che sarebbe il mondo, che il civile consorzio, sprovveduti di questo validissimo mezzo che agevola il commercio delle idee, il ricambio dei sentimenti? Vi pensasti mai, o giovinetta? E di questo che, dopo la ragione, è il maggiore de' benefizi che ti concedesse Iddio, ti giovi a danno o a tuo bene? Nè meno proficuo è l'aiuto che ti deriva dai sensi, principalmente dalla vista, mercè cui gli oggetti esteriori, dipingendosi sulla retina dell'occhio, tramandano al cervello le forme, i colori, le proprietà dei corpi, onde si elaborano le idee, che sono, a così dire, la materia, o meglio, il pascolo dell'intelletto. E coll'orecchio percepisci la dolcezza dell' eloquio umano e soccorri le proprie od altrui necessità e delizi nelle armonie della musica; gusti col palato i sapori e le diverse qualità degli alimenti ; coll'olfato discerni gli odori, e col tatto, che si diffonde in tutta quanta la tua persona , e nelle mani ha principalissima sede , t'aiuti, ti difendi, ti procacci ogni guisa cli vantaggi e ricreamenti. Organi tutti nella meccanica loro struttura maravigliosi, nell'uso ed al fine a che servono di suprema importanza. E delle proporzioni, delle rispondenze, delle acconcezze onde vanno armonizzate le parti tanto esteriori quanto interne del corpo umano, non a torto chiamato piccolo mondo, non è qui luogo da ragionarvi, o giovinette, pensate ch'esso é il capolavoro della creazione. Ed a rammentarvi la naturale vostra destinazione, volle Iddio che non camminaste curve verso la terra, come i bruti, ma sì ritte e collo sguardo rivolto al cielo. Là v'invita e v'aspetta il più munifico fra tutti i re, il più tenero fra tutti i padri. E dl'un'altra cosa dovete essergli riconoscenti. La ragione, la scienza, la religione apertamente vi insegnano che quante furono e sono le generazioni sparse sulla superficie del globo uscirono tute da unico ceppo, ebbero, cioè, una comune origine e provenienza. Ma diversità notabili, sebbene nelle sole sembianze, sussistono fra gli abitanti di questa plaga e di quella: onde i naturalisti spartirono in tre schiatte o razze principali la grande umana famiglia. Tu appartieni, o fanciulla, a quella che si chiama bianca o caucasea, perchè non guari forse discosto dalle regioni del Caucaso formò Iddio la coppia dei nostri progenitori; ed essa, la schiatta caucasea, primeggia sulle altre per la regolarità e leggiadria dell'aspetto : faccia ovale, capelli morbidi e lunghi, candida pelle. Ma il trasferimento in istrani climi, l'azione della luce e dell'aria, i cibi, le abitudini, le malattie, la vita più o meno selvatica, ed altre cause ezianclio, resero dalla nostra difformi le altre due schiatte: l'una delle quali tinge in giallognolo il color delle membra, ha quadrangolare la testa, gli occhi obliqui, corta la chioma, larga la faccia : e s'appella gialla o mongolica. - Ma bruttezza maggiore ravvisi nell'altra , che dicesi nera ovvero etiopica , perchè nere ha ile carni, lanoso il crine, tumide le labbra, la fronte convessa. É barbaro in entrambe o incivile il costume, falsa la fede, men vivo il lume dell'intelletto. Hai tu, o figliuola, merito alcuno d'aver sortita la culla nel paese, cui l'invidia stessa saluta col nome di giardino della terra? D'esser nata in un secolo che più giustamente lodasi per tante belle e nobili cose? Oh! se ti batte in seno un cuore riconoscente, piega la fronte, medita, adora!

Pagina 353

V'accarezza ed abbraccia, le divenite amiche in un attimo. Non vi curate di contentarla ? Ed ella prenderà il vostro silenzio in mala parte, vi guarderà con occhio bieco. Per istrada, alle visite, sino in chiesa, allunga il collo, sbarra gli occhi, si divincola della persona, volgendosi come banderuola v'ha chi regga a dialogare con lei? Impossibile! interroga, risponde, racconta tutto in un fiato. In iscuola non la si conosce oggi con altro nome che di ciarliera. Muterà vezzo? sarà chaimata diversamente in famiglia ? Ne temo.

Pagina 80

Marina ovvero il galateo della fanciulla

193607
Costantino Rodella 1 occorrenze
  • 2012
  • G. B. Paravia e Comp.
  • Firenze-Milano
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. — E lo abbraccia e lo bacia; e il padre si sente tutto racconciare l'animo; onde spianata la fronte: — Sei sempre la gran matterella tu; — dice, e si rallegra e sente che la casa è un porto sicuro alle tempeste del mondo, un balsamo salutare alle piaghe della vita. Se poi la vedessi allo scrittoio, quando fa i suoi cómpiti di scuola, non la raffigureresti più certo, pare un'altra. Grave e seria, gli occhi intenti e come rivolti in dentro, quasi per leggere nell'anima; la fronte ora tesa, ora corrugata; si direbbe di vedervi i pensieri tra pelle e pelle; la mano piccola, asciuttella, candida come neve, corre sul quaderno che le è spiegato sotto, bello, pulito, uguale come una litografia; scrive e poi legge lo scritto; riscrive e rilegge, ora con un visibile scontento cancella, ora con una dolce compiacenza sorride. Infine venuta a capo del lavoro, balza dalla seggiola, rimette in bell'assetto i libri e quaderni e canterellando l'arietta del Donizzetti: Me felice e fortunata! corre alla mamma, contenta come una pasqua. E un sì bel carattere poco mancò che non si voltasse e desse nel bisbetico! È a sapersi che Marina è figliuola unica d'una famiglia piuttosto agiata; d'una bellezza da segnarsi a dito. Non è certo facile trovar un corpo così ben fatto, così svelto, così elegante, così proporzionato; una tinta bianca bianca, tratti puri e corretti nel viso, occhi neri e lucenti, orlati di una frangia di lunghe ciglia, come a velarne la vivacità; guance d'una bianchezza singolare, come il fior della magnolia, su cui sia caduto qualche spolvero di carminio; capelli di ebano leggermente crespati, avvolti in ricchissime treccie; movenze dolci e disinvolte; un suono di voce argentino, limpido, soave, insinuante. Vederla in un crocchio di amiche e tosto non distinguerla tutta dalle altre; udirla e non sentirsi nell'anima un'onda di belle ispirazioni; è non avere il cuore fatto alle cose belle; è una di quelle gentili figure che non parlano ai sensi, ma all'anima, e a lei convengono in tutto que' versi dell'Alighieri sopra Beatrice:

Pagina 4

Galateo morale

196341
Giacinto Gallenga 3 occorrenze
  • 1871
  • Unione Tipografico-Editrice
  • Torino-Napoli
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Ricordatevi, maestri, che l'insegnamento abbraccia insieme l'istruzione e l'educazione, e che quando si parla della docilità di un ragazzo, voi l'applicate, dice il Tommaseo, piuttosto alla sua volontà che alla sua intelligenza. Voi avete il dovere, maestri, d'insegnar loro colle parole, ma più ancora che colle parole, coll'esempio la civiltà, la gentilezza, la moralità; laonde ogni sconcia parola, ogni atto meno che riservato andrebbero a detrimento del vostro prestigio, dell'autorità vostra; la colpa di simili mancanze non troverebbe nemmeno scusa nel vostro grande ingegno. «Devesi ai giovani grandissima reverenza». Il rispetto in cui furono mai sempre tenuti nell'antichità i maestri dipendeva in gran parte dalla riputazione della loro probità e costumatezza. Nella scelta di coloro che dovevano ammaestrare la gioventù non badavasi al sapere soltanto, ma anche alla loro condotta in famiglia, ed in società. Cattivo padre, cattivo marito, cattivo figlio e cattivo cittadino non possono fare un buon maestro. Euclide, il sommo filosofo, cercava ne' maestri suoi non la sapienza unicamente, di cui era amatissimo, ma che fossero esempi essi stessi delle virtù che eran chiamati ad insegnare; diventato poi a sua volta maestro, Euclide pregiava assai la dolcezza e della sua mite natura diè nobile prova un giorno in cui eccitato da un tristo fratello, per un lieve contrasto secolui avuto, avevalo minacciato di vendicarsi, lo abbracciò dicendogli «E io farò di tutto per farmi amare da te». Il fine ultimo di ogni insegnamento è quello di renderci virtuosi: «ogni studio che non tenda a ciò, diceva Bolingbroke, non è altro che un passatempo dilettevole ed ingegnoso, e le cognizioni che con questo mezzo veniamo ad acquistare, non possono dirsi che un'ignoranza meno disonorevole dell'ignoranza assoluta».

Pagina 236

Da questo piccolo centro tutte le umane simpatie ponno estendersi in un circolo che grado grado si allarga, inché abbraccia il mondo. BURKE - Del sublime e del bello. L'intimità con cui viviamo colle persone di casa nostra ci avvezza a trattarle con soverchia veruna per essere con loro amabili, per abbellire la loro esistenza. PELLICO - Doveri degli uomini. Alla famiglia noi diam nome di Santuario. Essa racchiude infatti ciò che vi ha di pù prezioso, di più venerando dopo Iddio fra gli uomini, le domestiche affezioni. Allorché dici famiglia, il tuo labbro pronunzia un non so che di soavemente grato che ti va dentro nell'anima; sembra che questo nome debba escludere ogni idea che non sia di rispetto, di tenerezza, e non possa andar accoppiato che alle più sublimi e più amabili qualità del cuore in colui che ne risente la benefica influenza. «Più la società è perfetta, e più si fa simile a buona famiglia. Chi cerca le origini della società civile in uno Stato selvaggio, ove i vincoli della società domestica, sognansi o ignoti o rotti, crea penosamente un tristo e brutto romanzo smentito dalle tradizioni dei popoli, dal buon senso e dalla coscienza umana, dal cuore de'figliuoli e da quel delle madri». (Tommaseo). Lo studiarsi di render prospera con leggi ed ardinamenti una nazione in cui le famiglie fossero tra loro in guerra, in cui i santi e soavi affetti dei padri e dei figliuoli fossero tenuti in dispregio, sarebbe lo stesso come un voler innalzare un edifizio senza solido fondamento, sopra un mobile ed infido terreno.

Pagina 36

Da questo piccolo centro tutte le umane simpatie ponno estendersi in un circolo che grado grado si allarga, finché abbraccia il mondo». Brutta cosa ella è da noi, funesta mostra di raffreddamento in quei soavi affetti che pur dovrebbero legare la figliuolanza ai genitori, quella impazienza che mostrano i giovani di scuotere il freno della paterna soggezione, di mettere precocemente le ali per disertare il quieto nido: quell'uggia male dissimulata del doversene rimanere accanto al domestico focolare, in mezzo agli angeli della famiglia: mentre il desiderio li spinge brutalmente verso il club, il caffè, il teatro. Ciò non sarebbe se la famiglia fosse davvero una lieta e serena riunione, una scuola pratica di gentili costumanze, il tempio per così dire delle mutue confidenze: se i padri si studiassero anche a costo del sacrificio di qualche abitudine, di qualche comodo, di rendere amabile ed istruttiva colla loro presenza, coi loro discorsi, con qualche onesto trattenimento la dimora in famiglia ai figliuoli, procurando a seconda dei loro mezzi quelle diversioni alla monotonia del viver domestico che sollevano l'animo, fecondano l'intelligenza e non lasciano traccia di stanchezza nei corpi, di rimorsi nel cuore. A questa vita di famiglia i giovani imparerebbero ad essere gentili ed affettuosi: poiché le ingiurie, gli alti sconci, i turpi conversari non sono possibili nel tempio della pace, della decenza della civiltà e dell'affetto: non sono possibili dove i sacerdoti di questo tempio sono esempi essi stessi al loro piccolo popolo, di cortesia, di garbatezza, di amore.

Pagina 75

Eva Regina

204063
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 1 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
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La nostra vista può considerarsi come una più delicata e diffusa specie di tatto che si estende sopra un' infinita moltitudine di corpi, abbraccia le più grandi figure e mette alla nostra portata alcune delle più remote parti dell'universo. Le persone obbligate ad una vita sedentaria e di applicazione, logorano presto la vista. Fra le occupazioni femminili, quella del ricamo in bianco, del cucito su tessuti fini, il disegno d' ornato, la miniatura, il leggere libri stampati a minuti caratteri, l' infilar perle, ogni genere di lavoro, insomma che richiede la concentrazione della vista per un tempo prolungato, stanca i nervi ottici e li indebolisce. Quando davanti agli occhi cala una specie di nebbia attraverso a cui lo scritto o il lavoro appare confuso, o quando si avvertono dolori nevralgici leggeri sopra l'orbita, bisogna cessare dall' applicazione immediatamente, magari interromperla per un poco. Conviene inoltre fare in modo che la luce cada sempre sull' oggetto intorno al quale si è occupati, mai sugli occhi. Il leggere e lo scrivere alla luce scarsa del crepuscolo o al lume oscillante di una candela, è dannosissimo. Si tenga a mente anche, che tutto ciò che ha un effetto debilitante sull' organismo, indebolisce la vista. Sono nocivi agli occhi i riflessi d'una luce troppo viva, il bianco delle vie, la polvere, il freddo intenso, l'umidità della nebbia. Giova agli occhi stanchi da un lavoro prolungato qualche bagno d'acqua caldissima. È invece da evitare sempre per gli occhi l'acqua fredda che dispone alla congiuntivite. Ci si deve lavare il viso con acqua tepida evitando che l'acqua penetri negli occhi. La miopia è un difetto assai comune che si corregge con le lenti, al cui uso, però, molte signore sono avverse perchè immaginano che gli occhiali le invecchiano. Per questo stesso motivo sopportano anche l'indebolimento della vista, sforzando gli occhi, con grande danno di essi. Ed hanno torto. Quando l' uso delle lenti si rende indispensabile, una signora disinvolta le adotta senz' altro. Vi sono anche dei bimbi ai quali sono necessari gli occhiali mentre molti vecchi possono farne a meno. Il loro uso non può essere, quindi, indizio infallibile d' età matura. Del resto le smorfie a cui la miopia condanna il viso, sono assai più antiestetiche degli occhiali. Certi volti, anzi, dal naso un po' grande, se ne avvantaggiano ; e il lorgnon adoperato da una signora elegante, con disinvoltura, conferisce una certa grazia civettuola. Nel settecento, uomini e donne l'usavano per vezzo, ma la montatura dell' occhialetto era diversa, come possiamo vedere da qualche interessante esemplare che si trovi presso gli antiquari o nei musei. L' occhialetto moderno, elegante, ha il manico lungo di tartaruga bionda o bruna od anche d'argento lavorato. Sul manico, una signora può fare applicare in oro o in argento il proprio monogramma o una coroncina nobiliare. Si portano al collo appesi a una fine catenella d'oro o a un cordoncino di seta. Il lorgnon non serve però che per leggere o per guardare. Per cucire, per scrivere, per suonare occorrono le lenti fisse a molla o a stanghette. Quelle a molla sarebbero più simpatiche, ma hanno il terribile inconveniente di lasciare un solco rosso sul naso. Meglio rassegnarsi agli occhiali a stanghetta da appoggiare sugli orecchi. Si possono far montare in oro con un filo leggerissimo, quasi invisibile.

Pagina 518

Otto giorni in una soffitta

204643
Giraud, H. 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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- Nicoletta abbraccia la giovane signora, e tutta la riconoscenza del suo cuoricino è nei suoi baci. - Ebbene, - dice la sua nuova mamma - scendiamo a far merenda con Matù. - E la bambola? - chiede Nicoletta. La signora d'Aufran si mette a ridere. - Vedo che i miei ragazzi hanno pensato a tutto, - dice essa. - Ho anche i calzerotti di Maurizio, - dice Nicoletta, mostrando, i piedi - e una camicia di lui. - I miei figli sono dei babbi molto buoni, davvero! E dire che detestavano tanto le bambine! - Perchè? - domanda Nicoletta. - Non lo so.... Forse per apprezzar meglio te. - Teneramente abbracciate, la giovane donna e la bambina scendono con Matù e con la bambola. - Chissà Leonia come sarà sorpresa quando ci porterà la merenda! - E Maria, quando ritornerà! - Leonia entra nella camera della signora d'Aufran col vassoio, che posa subito, prudentemente, prima di stupirsi della presenza della piccola sconosciuta. - Io credo - le spiega la giovane donna - che potremo ora rassicurare Maria sulle sue visioni. I miei bambini hanno adottato questa bambina, Leonia. - Ma questa - dice Leonia - è la figlia della povera signora che stava dalla vecchia Duflet. - Sì, Leonia. - Ma com' è andata? - La signora d'Aufran racconta in poche parole a Leonia quello che è accaduto. La cuoca non è sorpresa, perchè conosce la reputazione poco buona della mamma Duflet, che è cattiva e interessata. - La povera signora è stata molto disgraziata a cascare da lei. Essa se la ricordava come una vecchia domestica devota, e fu per questo che ci venne; ma l' altra non pensava che a ciò che le avrebbe fruttato la presenza in casa sua della giovane signora. Perciò era diventata furibonda di aver a carico anche la, fanciulla e di non aver ereditato nulla o quasi nulla, mentre aveva sperato molto. - Via, dimentichiamo quella donna cattiva, - dice la signora

Pagina 121

Il libro della terza classe elementare

210293
Deledda, Grazia 1 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
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Bonuccello lo abbraccia, con quelle sue braccia sporche di scimmione: - Papà - dice Vasco ricambiando con visibile piacere il bacio - non ti dovrai lamentare se domani mi debbo cambiare il vestito. Con queste tue mani piene di pece... Tutti risero. E rise con maggiore affetto Bonuccello. Sì, il buon vecchio, che aveva con tanti sacrifici fatto germogliare quella sua gemma, sentiva che l'educazione che gli mancava, in quel piccolo essere era qualche cosa di superiore a lui. I ragazzi, dopo essersi guardati negli occhietti vispi, fecero subito amicizia. - Tu che cosa intendi di fare? - chiese il piccolo Vasco a Sergio con serietà. Con altrettanta serietà Sergio rispose: - Il professore. - E tu? - chiese sempre Vasco ad Anselmuccio. - Se mi va bene, il commerciante. - Sei caduto da qualche albero di trinchetto di una nave, che hai la gamba zoppa? - Magari.... Sono nato così. - Poverino. E tu? - domandò rivolgendosi a Cherubino. - Io... io - rispose il nostro buffo eroe un po' impacciato - voglio fare il professore, il commerciante, il contadino, il marinaio, tutto in una volta... - Il che significa - intervenne il signor Goffredo - che non farai mai nulla di buono, di positivo e di utile... - E tu? - ribattè a sua volta Sergio al piccolo Vasco - che cosa farai da grande? - Il marinaio, soltanto il marinaio, con tutte le forze il marinaio! A quella energica affermazione tutti l'ammirarono perchè capivano, chi con chiarezza, chi confusamente, che nella vita bisogna seguire una sola carriera e a quella dare tutto il proprio entusiasmo e la propria forza per la propria dignità e per il benessere del genere umano. Calò la sera. Dopo qualche gioco e varie chiacchiere, i nuovi amici si lasciarono con la promessa di rivedersi presto, tanto era stata sincera e subitanea la loro affettuosa corrispondenza. Forse, più avanti li incontreremo di nuovo su qualche lido marino: e ho il sospetto che il piccolo Vasco insegnerà ai tre cittadini il nuoto, la pesca, e il modo di manovrare una bella barca a vela.

Pagina 117

L'uccellino azzurro

213520
Maeterlink, Maurice 1 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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(Abbraccia con violenza i bambini). Addio, Tyltyl, addio, Mytyl!... Addio, cari bambini.... Ricordatevi di me se per caso avete bisogno di qualcuno per appiccare il fuoco in qualche luogo.... MYTYL Ahi! Ahi!....Mi brucia!... TYLTYL Ahi! Ahi!... Mi brucia il naso!... LA LUCE Via, Fuoco, modera un po' la tua foga.... Non hai mica che fare col tuo focolare.... L' ACQUA Che sciocco!... IL PANE Si può essere più maleducato di così?... L'ACQUA (avvicinandosi ai bambini) Io vi abbraccerò teneramente, bambini miei, senza farvi male.... IL Fuoco Attenti, vi bagna!.. L'ACQUA Sono tenera e dolce: sono buona con gli Uomini.... IL FUOCO Anche con gli annegati?... L' ACQUA Vogliate bene alle Fontane, bambini; ascoltate i Ruscelli.... perchè io abito là.... IL Fuoco Ha inondato ogni cosa!... L'ACQUA Quando vi riposerete, la sera, vicino alle sorgenti, - ce ne sono tante, qui, nella foresta - sforzatevi di comprendere quello ch'esse cercheranno di dire.... Io non posso più.... le lacrime mi soffocano.... m'impediscono di parlare.... IL Fuoco Non si direbbe!... L'ACQUA Quando vedrete la boccia dell'acqua ricordatevi di me.... Mi troverete anche nella brocca, nell'annaffiatoio, nella cisterna e nella fontanella.... Lo ZUCCHERO (ipocrita e dolciastro) Se c'è ancora un posticino vuoto nella vostra memoria, ricordate qualche volta che la mia presenza fu Alce un giorno per voi.... Non posso aggiungere altro.... Le lacrime non si confanno al mio carattere, e quando mi cadono sui piedi mi fanno un gran male.... IL PANE Gesuita!... IL Fuoco (mugolando) Zucchero d'orzo!... Caramella!... TYLTYL Ma dove sone andati Tylette e Tylô?... Che cosa fanno?... (Si odono intanto le grida acute della Gatta). MYTYL (allarmata) È Tylette che piange!... Qualcuno certo le ha fatto male!... (La Gatta entra correndo con i peli irti, spettinata, con la veste strappata, premendosi il fazzoletto sulla guancia, come se avesse mal di denti, e gemendo rabbiosamente; mentre il Cane la rincorre dandole pugni, calci e testate). IL CANE (picchiando forte la Gatta) Tieni!... Ne hai abbastanza?... Ne vuoi ancora?... To', to'!... LA LUCE, TYLTYL e MYTYL (precipitandosi per separarli) Tylô!... Sei impazzito?... Che diavolo fai?... Giù, a cuccia!... Finiscila!... S'è mai vista una cosa simile?... Aspetta!... Aspetta!... (Separano con energia i due contendenti). LA LUCE Che c'è? Che succede?... LA GATTA (piagnucolando e asciugandosi gli occhi) La colpa è del Cane, signora Luce.... Mi ha ingiuriata, mi ha messo dei chiodi nella minestra, m'ha tirato la coda, m'ha picchiata, mentre io non avevo fatto nulla, proprio nulla, ecco!... IL CANE (rifacendole il verso) Proprio nulla, proprio nulla? (A bassa voce, facendole una sberleffa). Non importa; ne hai toccate, ne hai toccate, e di quelle buone e ne avrai dell'altre!... MYTYL (stringendo la Gatta fra le braccia) Dove ti ha fatto male, mia povera Tylette? Ora mi metto a piangere anch'io.... LA LUCE (al Cane, con accento severo) La tua condotta è tanto più riprovevole in quanto che hai scelto, per darci questo triste spettacolo, il momento, già, tanto penoso per se stesso, in cui stiamo per separarci da questi poveri bimbi.... IL CANE (la cui ira svanisce a un tratto) Stiamo per separarci da, questi poveri bimbi?... LA LUCE Sì, sta, per scoccare quella tale ora che già, sapete.... Fra poco rientreremo nel regno del Silenzio.... Non potremo più rivolgere loro la parola.... IL CANE (urlando a un tratto disperatamente e gettandosi sui Bambini, che copre di carezze violente e tumultuose) No, no!... Non voglio!... Non voglio!... Io parlerò sempre!... D'ora innanzi mi comprenderai, non è vero mio piccolo dio?... Sì, sì, sì!... E ci diremo sempre tutto, tutto, tutto!... Sarò buono, vedrai.... Imparerò a leggere, a scrivere e a giocare a domino!... E mi terrò sempre pulito.... E non andrò più a rubare in cucina.... Vuoi che faccia qualche cosa di eccezionale?... Vuoi che abbracci la Gatta?... MYTYL (alla Gatta) E tu, Tylette?... Non ci dici nulla?... LA GATTA (fredda, enigmatica) Io vi voglio bene a tutti e due, secondo i vostri meriti.... LA LUCE E ora, bambini miei, tocca a ma di darvi l'ultimo bacio.... TYLTYL e MYTYL (aggrappandosi alle vesti della Luce) No, no, no, non andartene, cara Luce!... Rimani qui con noi!... Il babbo non dirà nulla, vedrai.... Diremo alla mamma che sei stata tanto buona con noi.... LA LUCE Non è possibile, purtroppo.... A noi non è concesso di oltrepassare quella porta, e debbo TYLTYL E dove andrai, così sola sola?... LA LUCE Non andrò molto lontano, cari bambini: vado laggiù, nel paese del Silenzio delle cose. TYLTYL No, no, non voglio!.... Veniamo con te.... Dirò alla mamma.... LA LUCE Non piangete, cari piccini.... Io non ho la voce, come l'Acqua; ho soltanto il mio splendore, che l'Uomo non sa vedere.... Ma veglierò lo stesso su di lui fino alla fine del mondo.... E a voi parlerò da ogni raggio di luna che si diffonde all'intorno; sarò in ogni stella che vi sorriderà, in ogni aurora che si alzerà nel cielo, in ogni lampada che si accenderà, in ogni pensiero buono e luminoso che sboccerà nella vostra anima.... (Suonano le otto, dietro il muro). Sentite!.. Scocca l'ora.... Addio! La porta si apre!... Entrate, entrate, entrate!... (Spinge i bambini nel vano della porticina che si è aperta, e che ora si richiude dietro di loro. Il Pane si asciuga una lacrima furtiva: lo Zucchero, l'Acqua, tutta in lacrime, e gli altri fuggono a precipizio e spariscono a destra e a sinistra, fra le quinte. Urla del Cane, da un angolo. La scena rimane per un istante vuota; poi il fondo, che rappresenta il muro entro il quale si trova la porticina, si apre nel mezzi. e scopre l'ultimo quadro).

Quartiere Corridoni

216693
Ballario Pina 1 occorrenze
  • 1941
  • La libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Anna si rasserena, abbraccia Ninetta e le dice con slancio - Ma come? non hai la tua bella divisa di Piccola Italiana? A casa mia ci andremo subito dopo l'adunata. Non sarà necessario cambiare il vestito. E saremo tutte uguali.

Pagina 104

Al tempo dei tempi

219317
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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. - Il mercante abbraccia le figlie e s'imbarca per Palermo, Appena giunto sbriga le sue faccende, poi compra il vestito di broccato rosa per la figlia primogenita, quello di broccato verde mare per la seconda, ma prima d'andare dal Re ci pensa un pezzo, perchè non sapeva come il Re avrebbe presa l'ambasciata della figlia. Basta: la nave stava per far vela, e un giorno quel padre si fece coraggio e andò al Palazzo Reale dove fece passare l'ambasciata. - Dite a Sua Maestà che c'è un mercante messinese che brama parlargli. - Il Re, che era molto superbo, credendo che volesse proporgli l'acquisto di merci preziose, lo fa passare e gli domanda con alterigia: - Avete qualche cosa di bello da mostrarmi? - No, Maestà, non ho nulla; ma in patria ho lasciato una figlia tanto buona e tanto bella che sempre piange per Vostra Maestà. - Nel sentire queste parole, il Re dette una guardataccia tale al mercante, che il poveretto si mise a tremare a vetta a vetta. Poi batte su un timbro d'argento, e al cameriere che compare, gli ordina di portargli il fazzoletto più grande che ci sia nella sua guardaroba. Il cameriere gli porta un fazzolettone che pareva un lenzuolo e si ritira. Il Re lo spiega, lo agita e dice: - Buon uomo, a vostra figlia che piange per me, datele questo fazzoletto. Potrà asciugarsi le lacrime per un anno! - Figuriamoci il padre con che cuore s'imbarcasse e tornasse in patria! Appena la nave fu in vista, tutte e tre le figlie furono prese da una grande smania per sapere se il padre aveva portato loro quello che gli avevan chiesto; ma la più smaniosa era la minore. La nave gettò l'àncora nel porto, il mercante sbarcò, andò a casa, e la maggiore delle figlie gli corse incontro e gli domandò: - Signor padre, me l'avete portato il vestito di broccato color di rosa? - Eccotelo! - rispose il padre, e glielo dette. - Com'è bello I Proprio come lo volevo! Grazie, signor padre, grazie! - Allora la mezzana domandò al mercante: - E a me, signor padre, l'avete portato il vestito di broccato color verde mare? - Eccotelo! - rispose il padre, e glielo dette. - Com' è bello ! Proprio come lo volevo Grazie, signor padre, grazie! - E la mia ambasciata l'avete fatta al Re, signor padre? E che cosa v'ha risposto? - domandò la minore. - Mi ha dato questo fazzoletto e mi ha detto che avrai da asciugarti le lacrime per un anno! - La ragazza si mise a piangere e da quel giorno pianse tanto, che ogni giorno bagnava il fazzoletto grande come un lenzuolo per asciugarsi le lacrime e tante volte il vento della notte non bastava a rasciugarlo. Di lì a qualche tempo il padre dovette partire di nuovo alla volta di Palermo per i suoi negozi, e anche quella volta domandò alle figlie quel che volevano per regalo. La maggiore gli chiese una collana di smeraldi, la mezzana un fermaglio di rubini; la minore gli disse: - Signor padre, dovete farmi il favore di andare dal Re e dirgli che io mi strozzo per lui. - Figlia mia, ti pare che io possa andare una seconda volta dal Re dopo l'affronto che mi fece? - Signor padre, non dovete negarmi quel che vi chiedo, abbastanza sono infelice; mi promettete che anderete dal Re e gli riferirete le mie parole? - Il mercante voleva molto bene a tutte le figlie, ma quella minore era la sua prediletta. Nel sentirsi pregare a quel modo da lei, non seppe dirle di no. Basta, partì, andò a Palermo e dopo che ebbe sbrigato i suoi affari, s'incamminò verso il Palazzo Reale,

I mariti

223549
Torelli, Achille 4 occorrenze
  • 1926
  • Francesco Giannini e Figli
  • Napoli
  • teatro - commedia
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(La abbraccia e la bacia)

Pagina 23

Pagina 36

- (lo abbraccia piangendo anche lei).

Pagina 67

Pagina 79

Parassiti. Commedia in tre atti

228579
Antona-Traversi, Camillo 3 occorrenze
  • 1900
  • Remo Sandron editore
  • Milano, Napoli, Palermo
  • teatro - commedia
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Pagina 221

(tutti ridono: - Rina abbraccia Amalia e si congratula con Oswaigiaski, che è lieto e superbo della sua trovata).

Pagina 266

Pagina 91

Casa di bambola

235664
Ibsen, Eric 1 occorrenze
  • 1894
  • Maz Kantorowicz
  • Milano
  • teatro - commedia
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(Si china e li abbraccia)

Pagina 37

Un letto di rose

238135
Adami, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1924
  • Arnoldo Mondadori editore
  • Milano
  • teatro - commedia
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Pagina 106

Passa l'amore. Novelle

241525
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
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Egli li lasciava dire, e zitto zitto allargava la cerchia delle sue speculazioni, incettando anticipatamente la raccolta delle mandorle del territorio; e lassù, su la terrazza, una dozzina di donne rompevano i gusci, mettevano da parte i nocciuoli che sùbito partivano, a sacchi, a carrettate, per Catania, per Messina, e tornavano da lui trasmutati in bei gruzzoletti di monete d'oro o in carte da cento, da cinquecento e anche da mille lire, a dispetto di coloro che avevano prognosticato: - Chi troppo abbraccia nulla stringe! Appunto, a proposito di una piccola partita di mandorle, egli aveva riveduto, dopo tanti anni, un contadino vecchio amico di suo padre, e andato a domiciliarsi in un paesetto vicino. Si era fermato davanti a la bottega, compitando la scritta della tabella GIOVANNI LIARDO MERCI ED ALTRO ed era entrato, contento di conoscere il figlio della buon'anima dell'amico, e di vederlo in auge. Il negozio delle mandorle era stato concluso in un momento. E prima di andarsene, il vecchio gli aveva domandato: - Hai preso moglie? - Ho ben altro per la testa! - aveva risposto Giovanni. - Per chi lavori dunque? - soggiunse il vecchio. - Per chi ti affanni? Dovresti avere in casa e qui una persona interessata al pari di te, invece di una serva o di una giovane di bottega che.... che.... Non intendo dir male di nessuno; ma tu non puoi avere cent'occhi, e.... l'occasione fa l'uomo ladro. Quasi gli avesse messo una pulce in un orecchio! - Per chi lavori? Per chi ti affanni?... Tu non puoi avere cent'occhi? E pensava anche all'altra persona interessata, ma con istintiva diffidenza. La sua fanciullezza era stata tristissima; triste, fino a pochi anni addietro, la sua giovinezza. Egli si sentiva pesar addosso tuttavia quella tristezza e non come ricordo ormai lontano, ma come qualcosa che gli si era compenetrato col sangue, con la carne, con le ossa, e che non solamente gli impediva di gustare il godimento delle mutate condizioni, ma lo rendeva timido, imbarazzato, umile troppo davanti a certe persone. Così, non ostante il solito cartellone - Oggi non si fa credito, domani sì - egli non era mai stato capace di dir di no al cavalier Mazza che, rovinatosi col gioco della zecchinetta, voleva intanto continuare a sfoggiare, quasi i creditori non gli avessero già portato via i fondi e non stessero per portargli via anche la casa, il palazzo com'egli la chiamava. Stecchito, coi baffi e i pochi capelli dietro il cranio malamente ritinti, vestito di stoffa chiara pure d'inverno, per ringiovanirsi anche così, il cavalier Mazza entrava nel negozio con aria di protettore: - Vediamo!... vediamo!... Dovresti avervi.... ecco, là, sì.... quel.... no, quell'altro!... Bravo! Qui, si sa, prezzo fisso, pri fi, come dicono a Parigi.... Dunque, vediamo che cosa spendo.... Bravo!... Manderai tutto, bene involtato, a palazzo.... Ci rivedremo. Ma sai che un negozio come questo potrebbe figurare anche in una grande città? Bravo! Coraggio! Avanti! Egli non aveva mai osato di rispondergli: - Pel pagamento, vediamoci, ora. Sarebbe meglio. Gli sembrava che, con quell'aria da protettore, il cavalier Mazza intendesse di rammentargli: - Bada: ti conosco da bambino. Tua madre ha impagliato le mie seggiole, ha messo i punti alle mie pentole fesse, alle mie catinelle rotte. Se oggi hai qualche soldo, non significa niente. Vent'anni fa, andando a scuola, tremavi di freddo con quegli stracci che portavi in dosso, e non avevi sempre un po' di companatico per la fetta di pane della colazione.... Dunque.... dunque un onore per te, se vengo da te anche a credito. Forse il cavalier Mazza non pensava niente di tutto ciò; lo pensava però lui, ed era precisamente come se quegli gliel'avesse spifferato sul viso. E quantunque il consiglio del vecchio contadino suonasse continuamente dentro l'orecchio, e quantunque la sera, prima di addormentarsi, passasse in rassegna tutte le ragazze da marito che conosceva di vista e anche quelle che non conosceva, non sapeva decidersi a fare un passo, per quel sentimento di timidezza, d'imbarazzo, di eccessiva umiltà che era l'impronta, forse indelebile, lasciatagli nel carattere dal passato. Un altro, al suo posto, avrebbe messo superbia. Invece di mastro Giovanni Liardo, si sarebbe fatto chiamare don Giovanni Liardo anche per far dispetto a quei cavalieri morti di farne, che parlando di lui dicevano sempre: Il figlio dell'Acconciapèntole, quasi non avesse nome e cognome. Egli, all'opposto, si reputava onorato di quel che a coloro sembrava titolo dispregiativo. Se sua madre fosse stata ancora viva, in casa e nel negozio, non si sarebbe affatto vergognata di aver acconciato pentole e impagliato seggiole. Ed ora ch'egli era arrivato a quel punto, soltanto per opera di lei, per virtù, n'era profondamente convinto, di quel fazzoletto di cotone a fiorami rossi su fondo giallo che stava in cima allo scaffale, chiuso nella casetta col vetro sotto l'immagine della Madonna delle Grazie, ora gli sarebbe parso di disprezzarla, di rinnegarla aggiungendo quel don al nome che gli era stato dato al fonte battesimale, come di tanto in tanto gli consigliava qualcuno; ma.... consiglio non chiesto, inganno manifesto!

Pagina 139

Malia. Commedia in tre atti in prosa

242145
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1891
  • Stabilimento tipografico di E. Sinimberghi
  • Roma
  • verismo
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(abbraccia Nedda)

Pagina 15

Nel sogno

248208
Matilde Serao 1 occorrenze

La malìa di Oberon agisce e la creatura che danza la notte sui prati, fra il coro delle sue ninfe, la creatura che beve la rugiada nel calice di un fiore, abbraccia il grosso bestione, rivolgendogli le più appassionate parole e gli carezza le orecchie asinine amorosamente. Bottom è stato trasformato dal filtro miracoloso: tutto quello che gli manca, il filtro glielo dà: la sua goffaggine, il suo cretinismo, la sua bruttezza, colorite dagli occhi di Titania in cui il filtro agisce, prendono la parvenza della grazia, della bellezza, della seduzione; e tutta la foresta con i suoi fiori, i suoi profumi, le sue musiche arcane, s' inchina a colui che divenne il signore della sua regina: e le ninfe e i folletti e Titania istessa, trasvolante nel bosco come un'ombra leggiera, s'inchinano a colui che l' incanto fece bello come un dio! Volle il divino Guglielmo Shakespeare, nel suo Sogno d'una notte d'estate, in questo magico succo che riveste dei colori più maliosi una persona plebea e deforme, adombrare un simbolo amoroso ed umano? Chi sa! Egli volle tutto, io credo: e tutto espresse, tutto raffigurò, tutto personificò e, ancora per centinaia di anni, migliaia di lettori e migliaia di spettatori troveranno in lui cose nuove, cose grandi, cose profonde, cose impensate e meravigliose. Abbia o non abbia simboleggiato il sublime accecamento della donna innanzi all'oggetto amato, noi coi nostri occhi mortali vediamo in Titania il cuore umano, in Bottom la vita e nel magico filtro che tutto trasforma, il potere sconfinato dell' immaginazione. La vita è grossolana, è mediocre, è laida; ma basta che gli occhi di chi la guarda, sieno stati bagnati da quel misterioso elisire che è la fantasia, perchè la vita muti tutto il suo aspetto, perché essa possa parer diversa da quello che è, un'altra cosa, un'altra figura, un'altra immagine, qualche cosa che attrae, che conquide, che avvince. La vita è rude, è gretta, è crudele; ma se colui che la subisce, ha in sè il segreto filtro che Oberon distillò a Titania dormiente, tutto sarà singolarmente mutato in bene e Bottom, ancora una volta, farà delirare la creatura gentile. Questa possente forza di trasformazione agisce in noi così mirabilmente che, si può dire, la vita intorno sia quella che noi facciamo con la nostra fantasia e non già quella che è nella sua essenza così grama, così bassa. La fantasia, in noi, diventa un artista creatore, dotato d'un tal sublime potere di creare, che da un vile fango trae la statua, la persona, il monumento, la città, il mondo. Plasmatrice inarrivabile, la fantasia, in noi e fuor di noi, non muta solo il volto delle persone che amiamo, non cambia per noi solo l'aspetto esteriore degli uomini e delle cose, ma ne trasforma lo spirito e l'anima, ma trasforma il corso degli avvenimenti e vince il Destino! Quale uomo potrebbe continuare a vivere, se la sua immaginazione non rifacesse intorno a sè la vita? Quale donna consentirebbe a vivere, se la sua immaginazione non le nascondesse le laidezze ond'è cosparsa la esistenza e non le infondesse il coraggio di esistere? Sublime potere della fantasia! Per essa, il povero lavoratore che passerà i suoi anni fra la fatica e gli stenti, lasciando di travagliare solo per morire, si creerà del suo lavoro e delle sue privazioni un dovere colorito di tutte le lusinghe di un nobile sacrificio: per essa, il povero impiegato che trascina la sua vita fra aride e mal compensate umili funzioni, vedrà il suo lungo cammino trasformato dal sogno in pace famigliare, coi figli benedicenti alla bontà segreta e costante del padre: per essa, la povera donna malmaritata, sofferente sotto un giogo che la ragione le mostrerebbe assurdo, ma che la fantasia le trasforma in un poetico dovere di onestà e di fedeltà, potrà compiere il suo triste viaggio senza errare, col cuore solitario, ma racconsolato: per essa l'uomo che sentì mancare in sè e attorno a sè le forze e le occasioni che lo dovevano condurre a una meta agognata, sentirà meno velenose, meno pesanti le delusioni di chi sbagliò la sua strada: per essa la fanciulla che amò invano, che non fu mai amata, che vede tolta a sè la miglior parte della vita muliebre, cioè l'amore, cerca altri moti più altruistici e più caritatevoli, di espandere l'ardore non corrisposto del suo cuore: per essa, pel prodigioso potere della fantasia, tutte le esistenze misere, senza conforti materiali, senza conforti morali, - e sono innumerevoli, ahimè, queste esistenze, - sopportano quietamente la loro desolazione e quasi ne traggono origine di serenità e di felicita. Sui nostri chiusi occhi, nel sonno, Oberon gitta la sua arcana malia; e l'anima nostra, trasportata dall'azione bizzarra del filtro, non si cura della congerie di tristezze disseminate lungo il corso degli anni, e trova in sè la energia della lotta e della vittoria. Senza fantasia, chi potrebbe amare la vita dove è l' immondo contatto degli sciocchi e dei perversi, dove s'agitano le passioni più odiose e più nauseanti, dove la mancanza di fede, il tradimento, l'abbandono colpiscono le anime più degne, dove sono tutte le caducità e tutti gli errori? Chi, senza fantasia, potrebbe subire l'insulto dei potenti, l'indifferenza della folla, la ingratitudine degli amici? Chi, senza fantasia, potrebbe veder morire in sè ogni speranza e fuori di sè ogni desiderio? Chi, senza fantasia, potrebbe patire, sacrificarsi, vivere di abnegazione e di abnegazione morire?

Pagina 21

Dramm intimi

249966
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1884
  • Casa Editrice A. Sommaruga e C.
  • Roma
  • Verismo
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. — Ascoltate, Roberto, ora è vostra madre che vi abbraccia! Anna é morta. Pensate a mia figlia! Amatela per me o per lei. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità, la farà rifiorire. Voi l'amerete come non avete mai amato... Dimenticherete ogni cosa... siate tranquillo!... Roberto era pallido.*

Pagina 21