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Codifica secondo le norme del progetto PRIN
PRIN 2012 – Accademia della crusca
Lire 12 in colore e Lire
6 in nero.
1. Attrezzi rurali; rappresenta 79 istrumenti e macchine
per la preparazione del terreno e per la lavorazione dei prodotti
agricoli.
2. Attrezzi di casa e di cucina; rappresenta il mobiliare
d'una casa colonica e i relativi accessorii, nonché tutto l'occorrente
della cucina, in 74 figure.
3. Attrezzi di cascina e di cantina; rappresenta tutti
gli apparecchi per la fabbricazione dei vino, de' latticinii, per la
coltivazione dei bachi, per il bucato, la conservazione dei
prodotti, ecc., ecc., in 90 attrezzi diversi.
4. Mammiferi; rappresenta 25 specie di animali a servizio
dell'agricoltura e della pastorizia: domestici e distruttori.
5. Uccelli; 29 specie d'uccelli domestici e di rapina.
6. Piante; 80 piante d'ortaggio, da foraggio, enologiche e da
panificazione.
7. Gallinacei e rettili; 25 delle più comuni specie.
8 e 9. Insetti; in questi due quadri si rappresentano tutte le
specie d'insetti utili o nocivi all'agricoltura.
10. Fiori e frutti; 56 specie fra fiori e frutti indigeni od
acclimatizzati.
11 e 12. Sistema metrico-deciniale; misure lineari, di
capacità, monetarie, di superficie e dell'areiforme.
E' incontestabile il bisogno che ogni scuola sia fornita di questi
quadri, affinchè i fanciulli possano avere un'idea esatta di quanto
passa loro costantemente sotto la vista, e perciò si raccomandano
caldamente a tutti i signori maestri, sopraintendenti scolastici e sindaci.
La coloritura dei suddetti quadri, e specialmente quelli che
riguardano la Flora e la Fauna agraria, fu eseguita sotto la direzione
di valenti professori di storia naturale, acciò le varie specie di esse
riescano identiche al vero.
La nomenclatura che sta appiè d'ogni tavola fu desunta dal vocabolario
d'arti e mestieri e domestico del distinto Prof. Giacinto Carena.
SI VENDONO ANCHE LE TAVOLE SEPARATAMENTE.
In nero L. 0,50; in colore L. 1
La campagna e la città.
L'aria e la luce sono i due primi fattori della vita. E dove
uno può meglio avvantaggiarsi di questi tesori, che
nella campagna, in mezzo alle valli, o sul dosso delle
colline e de' monti? Quivi l'uomo esposto ai quattro venti,
sotto i benefici raggi del sole dal primo suo nascere all'ultimo
tramonto; alla mite luce della luna e delle stelle, che
a miriadi trapuntano il bel zaffiro della purissima volta
del firmamento, passa da uno in altro incantesimo.
Oh le bellezze campestri! Piani di varia vegetazione, per
cui serpeggiano limpidi ruscelli, che si raccolgono in ampie
fiumane; colline colla festa de' vigneti, e coll'ombria
de' boschetti; montagne colla sublimità delle guglie acuminate,
e delle ghiacciaie scintillanti ai raggi del sole.
Quale vaghezza! Dal bianco ammanto di neve, che si
stende su quanto abbraccia l'occhio, ai tappeti di verzura,
smaltati di mille guise di fiori, al biondo consolante della
feconde messi. Che varietà! Non un'ora simile all'altra, il
rigoglio del mattino, la melanconia della sera, il romore
del giorno, e il silenzio della notte; a dì sereni e belli tengon
dietro giorni nebbiosi e scuri; pioggie continue e fine,
Almanacco Agrario, 1869.non è oro tutto ciò che luce;
e che ad ogni uscio v'è il suo ripicco; come dice il proverbio!
Venuto in città il campagnuolo, disadatto e ignaro
di tutto, sarà costretto ad esercitare i più umili mestieri,
e si bacierà la mano a trovarne; invece della casetta in mezzo
al verde della campagna, soleggiata da mane a sera, abiterà
uno stambugio, oscuro, umido, fumoso, dove non potrà
mai penetrare raggio di sole, oppure salirà per dodici o
quindici scale in una povera soffitta sotto i tetti, e i suoi
teneri bambinelli per trascinarsi ogni dì su e giù per meglio
di cento scalini si scavezzeranno le gambe e si storceranno
in mille guise la persona; chè in ciò sta la vera ragione
delle molte storpiature, che si vedono nelle grandi
città! Senza dire che lì si deve vivere tutto a punta di quattrini,
e il vitto è caro, e il guadagno è scarso, e le spese
infinite; onde i digiuni non comandati sono più di quel che
si pensi. E ciò, che aggiunge peso, è il trovarsi di continuo
alla presenza della ricchezza strabocchevole e del lusso insultante
dei doviziosi; il tapino cencioso colle scarpe rotte è
costretto a vedere il signore in superbo cocchio stemmato,
tratto a due pariglie! Nella campagna poco su poco giù si vive
tutti a un modo, il servitore, il bracciante mangia alla
tavola del padrone, e non si vede così allo scoperto questo
terribile contrasto della lautezza colla miseria; ma in città
Almanacco agrario.
Rozzezza.
Il dottor Enrico in quel tempo, che villeggiava nel suo
paesello, vago di fare alcun che in pro di que' terrazzani,
usava ne' dì di festa raccogliere nella scuola comunale i
contadini, e loro teneva alcuni ragionamenti per dissipare
Prenda questi frutti tanto noi non sappiamo che farne; o
che, per darli alle bestie! Se loro si fa un invito, una garbatezza,
o non ringraziano, o se ringraziano, lo fanno con
tanto mal garbo, che par loro sia fatto uno sfregio: e in
cuore sentiranno una viva riconoscenza. Essi non pensano
che un grazie, detto a tempo, un sorriso, un gesto, una
parola gentile, valgono quanto il benefizio. Il bel tratto
trova tutte le porte aperte; e si suol dire che le belle maniere
non costano niente ma comprano tutto. A questo proposito
commentò loro questo caratteristico profilo, che è in
un libro di Cesare Cantù;
«Rustico è un vero galantuomo, incapace di far male
anche all'erba che schiaccia, mantiene la parola; fa carità;
eppure la gente non gli vuol bene. Ma perchè?
«Badate, cari amici. Rustico veste a bioscio, sgualcito,
sciammanato, e bisunto, con una scarpa e un zoccolo, non
secondo la condizion sua, e colle usanze di un altro millesimo.
Non mentisce, è vero, ma canta la verità nuda e
cruda, e per esempio, è capace di spifferarvi;
.Che brutta
cera avete! oppure: Ho visto un nanerottolo, piccolo come
voi; oppure: Come ci vedrete poco voi che avete un occhio
manco! A giorni, allegro, chiassone; certi altri è nero,
scusate; se gli fate servizio, non
saprebbe dirvi, grazie; se vi incontra, non vi dà nè il buon
dì nè il buon anno, se gli annunziate: il tale vi saluta,
sarebbe il tomo di rispondervi: che n'ho a far io? Avviate
un ragionamento? Egli non vi piglia interesse, gli parlate?
È a cento miglia; sbadiglia continuo, o attacca un sonnerello,
poi vi domanda: Che? cos' avete detto? E vi risponde
dattero per fico: e sul più bello vi rompe la parola in
bocca. Se poi racconta lui, non sa mai venire all'ergo e
sgocciola le parole, e dice: Quel tale... Come si chiama?
Di quel paese... Aiutatemi a dirlo... Fa un traspeggio
per casa, e se alcuno gli suggerisce che disturba il vicinato,
esclama: Sono in casa mia. In cucina si rompe un
bicchiere? fa un diavolezzo. Entra nel pigio della folla?
forbotta le persone per cacciarsi innanzi a tutte. Ha promesso
di venire e dato un appuntamento, poi si fa aspettare
delle mezz'ore; gli prestate un libro; e' non ha nome
Torna; proponete d'andar a diritta? egli vuol girar a sinistra;
vede che chinate verso il fiume? No vuol che si poggi
al monte »
Pulitezza.
Ecco una parola, il cui significato è poco conosciuto,
giacchè la si vede tanto di rado praticata, nella campagna,
la pulitezza. Visitate le dimore de' contadini, e in
nove sopra dieci troverete il letamaio innanzi alla porta, o
sotto le finestre; la cucina serve a tutto, per desco, per
stalla, per dormire; sotto la tavola il monte delle spazzature,
sopra cui ruzzolano i bambini laceri, e sucidi; la madre,
con un canavaccio innanzi per grembiale, nero come
il fuori del paiuolo, e di cui si serve anche per pezzuola
da naso, impasta i tagliatelIi, o rimena la polenta.
Lì punto si sa che la pulizia è mezzo condimento; che gli
utensili, mantenuti lucenti, durano due volte tanto; che una
rappezzatura fatta a tempo scusa un vestito nuovo; che le
camicie si strusciano dieci volte più a non lavarle; che le
vivande allestite accuratamente non costano d'avvantaggio,
e dànno miglior nutrimento; e che la nettezza non costa
niente; perchè l'acqua, come Dio vuole, cade dal cielo per
tutti i mortali gratuitamente; e che il sucidume nelle vesti,
e la ruggine sul viso, sul collo, e sulle mani, generano di
quei mali, che fanno schifo a vedersi, come sono quelle
crosterelle, onde il capo e il volto de' ragazzi spesso è magagnato;
il che il Dottore attribuiva al non lavarsi, al non
pettinarsi, al non tenersi puliti. Onde que' bei ritratti di
salute, che dovrebbero essere i contadini, a volte per manco
di pulizia fanno ribrezzo.
Che la faccia sia incotta dal sole, che le mani siano callose.
che gli abiti tengano del grossolano e del rattoppato, non
fa punto disdoro, anzi ciò è l'onore e, direi, l'assisa gloriosa
colera, e le altre epidemie fan tanta strage
ne' paesi? Perchè non v'è pulizia, nè nelle case, nè
nelle persone, nè nelle vie; l'aria si infetta per le esalazioni
delle sudicerie che son dappertutto. Che vi costa una
spazzata alla casa ed anche alle vie? Anzi ne avrete un
guadagno per il concime che andate con esso facendo.
Giacchè quelle spazzature portate ne' campi vi fauno prosperare
in modo meraviglioso le biade; onde se così faceste,
otterreste due beni, provvedereste alla salubrità dell'aria
e all'abbondanza del ricolto.
Un'altra volta parlando degli alimenti, e raccomandando
anche lì la pulitezza, venne fuori con queste parole: dove
vorrei che anche qualche volta largheggiaste è nel vitto;
smettete il brutto vizio di andar dall'acquavitaio a succhiellare
il bicchierino, risparmiate la lira che buttate in quel
pozzo di S. Patrizio, che è il giuoco del lotto, e comperate
in quella vece un pezzo di manzo, che almeno la domenica
la vostra mensa si rallegri d'un buon lesso; questo migliorerà
la vostra complessione, correggerà certi difetti del
sangue, e diverrete pia robusti, pia atti a sostener le dure
fatiche, e sarete meno soggetti a malattie. In que' paesi,
dove si fa pia uso di carne, gli uomini sono più forti,
La famiglia.
La famiglia, l'asilo più sicuro sulla terra, la sede de' miti
affetti, delle gioie più pure, della pace, del riposo, dove
il cuore s'apre alle più intime confidenze, e s'informa a virtù,
si può dire che per nulla si conosce nella campagna. V'è
una società legale di padre, madre e figli che si dice famiglia;
ma un'unione morale fondata sulla concordia e sull'
amore, no. Vi è un capo autocrate, a cui tutti hanno a ubbidire,
a un suo cenno, tutte le volontà devono cedere, nessun
consiglio, nessuna osservazione permette che si rivolga
a lui, fa tutto di suo capriccio, confidenze colla moglie e
co' figli nessuna; consulti sul da farsi, nè anco per sogno,
la sua parola è legge. A. volte si vedono figli sui quaranta
e cinquant'anni che debbono ubbidire come semplici scolaretti
ai comandi di padri, talora dagli anni imbecilliti, non
padroni del becco d'un quattrino, esposti a bassezze e a
umiliazioni incomportevoli, e costretti a rigiri e a cattive
azioni per aver qualche soldo in tasca. Quindi ci possiam
figurare con che benevolenza si viva in quelle famiglie! Un
malumore che avvelena le vivande, un bisticciar continuo;
Vien qua
bestione, asinaccio, bastardo! che ti possa rompere il collo,
scampoforche! che ti venga il vermo cane! Va all'inferno,
can rinnegato!... e i più belli non si possono scrivere;
perchè lo vieta il pudore.
Quindi non fa meraviglia se i ragazzi, anche piccoletti
tant'alti, non possono aprir bocca senza uscir in qualche
brutta parolaccia, in bestemmie e peggio. Ho visto padri compiacersi
nell'udir il loro marmocchio, col latte ancora in bocca,
distaccar certi moccoli, che Dio li perdoni; come avessero
con ciò dato saggio di svegliatezza e di precocità d'ingegno.
E vedete contraddizione; fatti un po' più grandicelli sono
essi, i padri, che si lagnano delle brutte parolaccia de' loro
figliuoli. Gridano, che non sanno dove le abbiano imparate!
Ma sconsigliati, che siete, se li avete incoraggiati bambini,
voi; se gliene date l'esempio voi tutte le ore! Lo sapete
pure che nulla più presto apprendono i ragazzi, che il
male!
Non parliamo poi del turpiloquio; que' discorsacci maliziosi,
ambigui, e anche apertamente osceni, che non vi
fate riguardo di tener in presenza de' vostri ragazzetti,
credete voi che loro faccian pro? Voi vi scusate col dire:
Oh sì che a quell'età intendono le nostre parole; son tanto
piccini, che non san nè anco dove abbiano la testa! E io vi
rispondo, che vi intendono; e con quell'aria dello gnorri,
e del non dar ascolto; badano più che uno pensi, e in una
occasione vi snocciolano tutto per filo e per segno. I ragazzi
L' istruzione.
L'istruzione qual è ora impartita nelle campagne poco o
nessun frutto arreca; anzi oserei dire, che per non pochi
Comuni quel danaro, con che si stipendia il maestro e la
maestra, è pressochè sciupato. Molte sono le cause che di
ciò potrei addurre; ma mi atterrò ad alcune delle più importanti.
abbicì; e così di seguito d'anno in anno; finché
abbandona affatto lo studio; e se ha imparato a scrivere
correttamente il suo nome è somma grazia; ma che riceva
una conveniente istruzione, cioè che apprenda quelle cognizioni
utili alla pratica della vita, nessuno il potrà credere.
Dnnque che cosa imparano i vostri ragazzi in quel periodo
di tempo che vanno a scoola? domandava il Dottore...
Ve lo dirò io netto e tondo: a far i monelli. Nulla è più
spiacente, che il veder i giovinetti per le strade, quando
vanno o tornano dalla scuola! Sùdici nelle mani, nel viso,
negli abiti, gridano, urlano con vociaccie d'inferno, scorrazzano
qua e là, scavalcano siepi, saltano nel seminato, sferrano
sassi contro gli alberi, contro le bestie, contro i compagni,
s'accapigliano, si lacerano gli abiti, ingaggiano certe
battagliuole fra loro da far gelare il sangue addosso; spesso
si dan la parola tutti que' d'una vallata per aspettare
al varco quelli d'un'altra, si sfidano, si battono, si rompono
il capo; brutte discordie, esempi di odio, pur troppo nutriti
nelle famiglie e cresciuti ne' figli dagli imprudenti racconti
de' padri.
Pare che ne' ragazzi l'istinto dominante sia la ferocia;
già lì non s'ammira che la forza bruta; il più forte è il re, egli
è temuto, rispettato da tutti, se ne cerca l'amicizia e la
protezione. Guai a' deboli! La pietà, la commiserazione, i
perdono, le qualità gentili e generose dell'animo, sono sensi
ignoti al cuor del fanciullo. Si commettono in fanciullezza
crudeltà e barbarie indicibili; infelici quegli animali, che
cadon sotto le loro unghie! L'agnelletto, la pecora, il cane,
il gatto, bastonate, sassate alla cieca; e quel che fanno ai
semplici uccellini; ahi, li acciecano, li spennano vivi vivi!
piantano spilli negli insetti, e quelle son le grida di giubilo
che mandano nel sentir quelle povere bestiuole stridere
Il furto campestre.
Il professor Cantoni fra le piaghe, che affliggono l'agricoltura,
pone il furto campestre. «Pochi, egli dice, possono
farsi un'idea del dispiacere che prova un coltivatore a veder
una pianta diligentemente educata ed osservata quasi tutti
i giorni, mancare ad un tratto di tutti i frutti ancora immaturi,
e rotta e guasta nei rami. Io vi assicuro che non
è solo il furto ciò che lo accora; è il guasto, è la distruzione
di tante cure prodigate pazientemente a quella pianta per
molti e molti anni.» È cosa veramente che cava il cuore.
V'è un orto dove il contadino mette le cure più affettuose,
vi occupa tutti i ritagli di tempo, lieto di procacciare alla
sua mensa i cibi più necessari; ma ecco quando i pomi d'oro
cominciano a rosseggiare, i fagiuoli, i peperoni, i cetriuoli,
le zucche, i popponi, le lattughe, gli agli, i cavoli, i cardi,
i carciofi, sono a buona portata, una brutta notte una mano
scellerata ne porta via il meglio, e diserta malamente il
restante. Le mele, le pere, le ciliegie, le pesche vengono su
che è un conforto; il padrone le guarda con compiacenza;
nossignore, non potrà assaggiarne neppur una. E lo stesso
dicasi di ogni altra cosa. La messe sarà ammonticchiata in bei
«Sarebbe intanto a desiderarsi, osserva il prof. Cantoni,
che le provincie prendessero provvedimenti sopra l'accattonaggio,
o vagabondaggio nelle campagne, e sul domiciliarvisi
di persone, le quali non possono render conto del come
vivano. Ogni Comune sussidii i propri poveri, ma sol quelli,
che veramente meritano questa qualifica. Gli oziosi, respinti
dalle città e dalle campagne intendano una buona volta, che
bisogna lavorare.»
Oh se si dichiarasse una buona volta guerra agli scioperati,
e loro non si desse nè tregua, nè quartiere, e ciò si
facesse in tutti i paesi; dappertutto si gridasse: fuori gli
oziosi, in modo che essi non trovassero proprio più posto in
nessun luogo; oh sì che allora vi sarebbe più lavoro, e i
furti campestri sarebbero affatto scomparsi! tanto
va la gatta al lardo, che alfin vi lascia lo zampino; e voi
una volta o l'altra cadrete in trappola, e allora, o vi pigliate
tante legnate sulle costole, o tanto di piombo nella schiena,
da averne la salute rovinata per tutta la vita; oppure andrete
a popolare le prigioni, gettando il disonore sulla fronte de'
vostri figliuoli.
Ma fate pur di scampar dal carcere, sfuggirete la taccia
di ladro, che l'opinione pubblica vi dà? O che credete di
non essere conosciuto? Guardatevi d'attorno. Che credito
avete nel paese? Chi si fida di voi? Senza che, ditemi un
poco, questo vivere sempre col capestro alla gola, questo
impallidire ogni volta che vedete un cappello da carabiniere,
credete che sia una bella vita?
Laddove, chi cammina sul retto sentiero, non ha neppur
uno di questi travagli; e può assai bene provvedere a sè e
alla famiglia, anche senza beni di fortuna; chè il lavoro,
a chi vuol occuparsi, non manca; e non solo con quello può
procacciarsi giornalmente il viver suo, ma ancora far qualche
risparmio per ogni occorrenza, e guadagnato di santa
ragione, il che dà una dignitosa fierezza; perchè ciò che viene
dal sudor della fronte ci fa portar la testa alta; e la coscienza
netta è un buon origliere per riposare la notte.
Ma veniamo a dati men vaghi; che può guadagnare un
manovale alla giornata oltre il vitto? Posto la state col verno
la farina del diavolo
sen va in crusca; oppure; quel che vien di riffa in raffa,
se ne va di buffa in baffa; e andrete per giunta a marcire
in prigione, e sarete l'obbrobrio di voi, della vostra
famiglia, del vostro paese, di tutti.
Oh se l'amor del lavoro, se il rispetto della proprietà, se
la dignità personale, fosse giustamente sentita, i frutti della
campagna si moltiplicherebbero, l'agricoltura a più doppi
prospererebbe, la vita sarebbe più dolce, più tranquilla;
e le carceri sarebbero vuote; onde non sarebbe più una favola
l'età dell'oro, fantasticata dai poeti.
È cosa che stringe il cuore, quando si mette l'occhio sulle
statistiche criminali, lì si vede un numero sterminato di miserabili,
che poltriscono oziosi in un'aria mefitica di quattro
mura, i quali se fossero volti al lavoro potrebbero moltiplicare
la produzione nazionale a benefizio di tutto il paese,
e invece ora gli sono di dupplice aggravio e pel lavoro
cessante, e per la spesa del loro mantenimento; sono consumatori,
senza produrre altro che infamia.
Voglio recar in mezzo delle cifre. Nel regno italiano,
stando alla statistica del 1871, v'è un movimento di 180000,
dico centottantamila carcerati all'anno. Ciascuno costa centesimi
Gian Matteo.
Racconto.
— Ma noi, saltò su a dire una volta un contadino, dobbiamo
levarci la pelle dalle dita per lavorare, e siam sempre
al verde, e il sor Antonio non fa mai nulla e possiede
tante cascine, le par egli giusto?
— E sapete voi, rispose il Dottore, com'ha fatto il sor
Antonio a raccozzar tanti poderi?
— Oh bella, niente affatto, li ebbe dal padre, ecco tutto.
— E suo padre com'ha fatto?
— Che vuol che ne sappiamo di suo padre noi?
— Ebbene ve lo dirò io: con un mezzo semplicissimo,
che anche voi potete adoperare; col lavoro, cioè, e col risparmio,
come tutti quelli che hanno un po' di grazia di
Dio al sole. Non date retta a quelle strane teorie, messe
in campo da certi arruffa-popolo solo per mettervi il capo
in ebollizione e per pescare poi essi nel torbido. Costoro vi
andranno dicendo che per poter aver qualcosa bisogna
rubare, e che la proprietà non è altro che un furto; e io
vi dico che la proprietà è figlia del lavoro; e perchè possiate
convincervi di questo, voglio recarvi un esempio, che
abbiam qui nel paese vivo e parlante.
Straccia, il quale nel giuoco e ne' vizii diede fondo
ad un considerevole patrimonio.
Si levò dal servizio di Stefano, e con papà Bastiano, riparata
alla meglio la casuccia, che veramente minacciava
da tutte parti rovina, si pose in mezzo al suo podere, il
quale per essere stato trascurato, era tutto come una sodaglia,
le viti eran scomparse, e vi crescevano le erbacce, i
felci, le spine, come Dio voleva. Tutti gridavan che Gian
Matteo si era preso un osso duro a rosicchiare; ma non sapevano
con chi s'avea a fare. Era giovane, con due braccia
vigorose e con qualche cosa dentro l'animò, che non gli
lasciava scorgere difficoltà. Preso alle buone il piccone, la
marra e la zappa, in poco d'ora rivolse di sotto in su a
buone concimature,
buone arature e lavori fatti a tempo. Era poi
uomo a partiti; sapeva tirar vantaggio del tempo; e non mai
in ozio; egli soleva dire che l'agricoltore deve sapere cento
e un mestiere; e infatti egli faceva il falegname, il cestaio,
il funaio, il ciabattino, il sarto, e che so io? Quando gli
occorreva alcun che, non aspettava punto che altri venisse
in aiuto, ma senza tante parole, raccomandandosi a Sant'Ingegno,
che egli diceva la provvidenza de' contadini, si metteva
senz'altro alla bisogna. Ora si rompeva un fuso alla
ruota del carro? ed egli sotto la guida di Sant'Ingegno
pigliar l'accetta, la sega, lo scalpello, la pialla e rimettere
il fuso. Ora una fune incominciava a slacciarsi? e Sant'Ingegno
insegnargli a reintrecciarla. Le coreggie, le tirelle
si strappavano? ed egli collo spago e colla lesina a rattopparle:
le cortine de' buoi, i sacchi del grano, erano strappati?
ed egli a prendere l'ago e rappezzare. E tutti gli
strumenti rurali, il manico delle zappe, delle vanghe, i rastrelli,
e che so io, tutto faceva lui; però codesto era lavoro
de' giorni piovosi, che per lui, erano anche una provvidenza
per riparare gli attrezzi guasti. In tali giorni faceva una
ispezione a tutto, e come un oggetto faceva segno un po'
di logorarsi, lì subito al riparo. Uno strumento che
incomincia a guastarsi, preso subito, diceva, con un nonnulla
si rimette a nuovo; se si indugia si sciupa affatto e bisogna
comperarne un altro.
riquadrar la cascina; e
seppe così bene lavorare di quadratura, che ora tutta quella
valletta è di sua proprietà; e che fior di coltura v'introdusse;
par un giardino!
Ma codesto oltre alla pratica, che s'acquistò da Stefano, lo
dovette per la maggior parte all'istruzione.
Oh che istruzione, mi direte, potè aver egli, che a sett'
anni si pose a servizio altrui? La ebbe, e come! Ed è
cosa che gli fa molto onore, e che dovrebbe far arrossire
molti altri, i quali, con tutte le agevolezze immaginabili
per istruirsi, vengono su ignorantacci da non saper distinguere
la destra dalla sinistra.
Gian Matteo, mangiando del pane altrui, come si dice,
non poteva andare alla scuola comunale; e come se ne doleva,
e con che occhio d'invidia guardava i ragazzetti, che
passavan sulla via colla taschetta de' libri a tracolla! Ma
a chi vuole veramente nulla è vietato. Gian Matteo volle
imparare a leggere e scrivere e imparò. Ed ecco come.
Un bravo maestro del Comune un anno pigliò nelle lunghe
sere d'inverno ad istruire quelli che non potevano frequentare
la scuola diurna; figuratevi se questo non fu cacio
Buon
Coltivatore di Felice Garelli, che diventò la sua passione;
ogni ritaglio di tempo lo impiegava sur una pagina di
quello; lo lesse, lo meditò, lo studiò a memoria, e così
quello, che prima non intendeva, a poco a poco gli divenne
facile e piano; e fu allora che incominciò a formarsi qualche
buon pensiero sull'agricoltura, e per così dire a ragionare
su quel che le braccia eseguivano ne' campi. Il Parroco,
che s'intendeva d'agronomia e teneva dietro ai portati
della scienza, gl'imprestava mano mano i libri che credeva
più popolari e più atti alla pratica, come I Segreti di D.
Rebo, del prof. G. A. Ottavi; il Coltivatore, giornale dello
stesso autore; L'Amico del contadino, manuale ad uso degli
agricoltori, del prof. Cantoni; e gli almanacchi agrari del
medesimo; Dei lavori di campagna nella stagione invernale,
di Vincenzo Garelli, ed altri su questo fare; ed egli ne rinsanguinava;
e ad ogni lettura si sentiva come crescere due
dita più alto, si sentiva come una forza nuova, che gli raddoppiava
la vita.
Il tempo non era quello che gli mancasse, i giorni di
professore, l'avvocato: ma egli non
ci abbadava, e faceva la sua strada; conoscendo che la
peggio delle infelicità è l'ignoranza.
Molte cose imparò dai libri, che poste in pratica nel suo
podere, ne triplicarono i prodotti; e qui giova accennare
alle principali, che sarebbe desiderabile, che fossero imitate
da tutti i coltivatori.
NORME DI GIAN MATTEO.
I.
Coltiva il poco.
Gian Matteo aveva spesso in bocca questo proverbio:
guarda il grande podere; ma coltiva il piccolo. È sciocca
vanità di alcuni proprietari quella di empiersi la bocca col
dire: possiedo tanti ettari di terreno. Quanto sarebbe più
fruttuoso il dire: i miei pochi ettari producono più d'ogni
altro del contorno!
I grandi tenimenti disperdono le forze e non sono mai
compiutamente lavorati; ve n'è sempre una parte improduttiva;
onde fruttano solo per l'agente delle tasse. Il
II.
Non prendi terre lontane dall'abitazione.
Quando a Gian Matteo qualcuno veniva ad offerire un campicello
o un vigneto discosto dalla sua casa: quand'anche me
lo regalaste, non lo prenderei, rispondeva. Perchè, soggiungeva,
per andarlo a coltivare, prima che io sia sul posto
colle bestie e cogli attrezzi, del tempo ce ne perdo del bello!
Un'oretta il mattino, un'oretta a mezzodì e un'altra la sera,
ce la sciupo; e chi me le compensa? Oltracciò arrivo sul
luogo che sono stanco; e il lavoro mi affatica assai più.
Senza che i beni che ho qui attorno alla casa li ho sempre
sotto gli occhi, li sorveglio a mia posta, in un momento ci
son dentro, nulla lascio d'incompleto; laddove se sono lontani
ci devo mettere uno apposta per farne la guardia, e le
piccole cose le trascuro; perche o non le vedo, o non val
la spesa l'andarvi apposta per poco. Onde stette sempre
fedele alla sua quadratura e non pensò più in là.
III.
Non compera a credito.
Chi compera a credito, diceva, lavora per gli altri; perchè
dovendo pagare un interesse del 5 o del 6 per cento
IV.
Capo e Coda.
Gian Matteo aveva letto un articolo così intitolato in un
almanacco agrario del prof. Cantoni; dove si metteva in
evidenza che a far fruttare i terreni ci vuol istruzione e
concime; cioè lavoro ben diretto e ingrasso; il che in generale
vedeva mancare nel suo paese.
In una statistica agraria aveva trovato che in Italia il
raccolto del frumento è in media di 12 ettolitri per ettara;
nel Belgio invece è di 25, in Inghilterra di 35 ettolitri per
ettara. Egli si dimandò: perchè producono di più que' terreni
là? Forse il grano è di qualità migliore? Forse il
suolo è più fecondo, il clima più confacente? Ma pure è
incontestato che l'Italia ha i migliori frumenti; il suolo e
il clima nostro superano quelli di molto. Dunque? Dunque
il maggior raccolto si deve attribuire ad un lavoro più
ben inteso, ad una concimazione meglio regolata.
V.
La teoria senza la pratica non fa pro.
Prendi uno, che conosca per filo e per segno tutte
le composizioni chimiche de' terreni, che possegga i migliori
precetti di agronomia, mettilo in un podere, e lo vedrai
errare di uno in altro tentativo, spendendo di molti
quattrini e ricavando poco o nulla. Perchè non v'è arte
che più varii che l'agricoltura; bisognerebbe dare precetti
per ogni lembo di terra, quasi direi, per ogni solco; ciò
VI.
Coltiva terreni buoni.
Sia buono o cattivo il terreno, la fatica e la spesa a
coltivarlo è la stessa; se non è maggiore nel cattivo; ma
quanto varia il raccolto! Martoriatevi pure da mane a sera
a lavorare la sabbia, la potete inaffiar tutta di sudore, ma
non ne avrete alcun frutto mai. Mettete il medesimo lavoro
in un terreno fecondo, e vedrete che grazia di raccolto
n'avrete! Un'ettara di terreno buono frutta più che tre,
quattro e anche dieci magre. La fatica è la stessa tanto
VII.
Il letamaio.
Gian Matteo diceva, che per render buone le terre ci vuole:
1°. un buon letamaio; 2° eccellenti strumenti; 3° un accurato
avvicendamento.
Chi ha concime paga i debiti e ottiene credito
, lesse nei
Segreti di D. Rebo, e se lo tenne per detto; e s'accorse
nella pratica che un campo ben concimato non teme nè
siccità, ne umidità soverchia; ma duplica, triplica e decupla
i benefizii. S'era altresì persuaso che il miglior concime
è quello della stalla; onde senza confondersi con guano
o altri ingrassi forestieri, si pose ad aver la massima
cura del letamaio e della stalla.
Il suo letamaio era là sempre ben raccolto in un mucchio
dietro la stalla verso mezzanotte, coperto da una tettoia;
tutto intorno v'era un solco, che metteva in una fossatella
scavata accanto, dove si raccoglievano tutti i colaticci, e
coi medesimi bagnava il letamaio quando era troppo asciutto.
Le acque de'tetti le dirigeva altrove; perchè raccolte
sul concime lo dilavano, e disperdono la maggior
parte delle sue qualità fertilizzanti. Per concentrar meglio
i gaz volatili nel letame, ad ogni strato del medesimo vi
spargeva su un po' di terra.
gli atomi formano le
montagne.
Un gran vantaggio lo traeva pure dalle urine; che sono
una ricchezza ignota ai più de' contadini.
Egli aveva la sua stalla ben esposta, aerata, ampia e
alta; la mangiatoia sempre pulita; perchè sapeva che i rimasugli,
lasciati là da una volta all'altra, inacidiscono; e
le bestie non son contente. La lettiera era sempre abbondante,
costruita in modo che presentava una pendenza all'
infuori, onde le urine colassero del continuo in un canaletto
coperto, che era al margine, e di qui scorrevano in
una vaschetta fuori della stalla, di costa al letamaio; dove
andavano tutti gli scoli della stalla, con un po' dell'acqua
piovana; qui le lasciava fermentare due o tre mesi, e poi
con tinozzi le andava a spandere sui trifogli, sulle mediche;
che vi dico io come ne godessero e venissero su rigogliose!
Qualche volta a queste urine mescolava un po' di gesso,
il che serviva a fissar meglio l'ammoniaca, che è un gaz
utilissimo alla vegetazione.
VIII.
Strumenti a punta d'oro, d'argento e di ferro.
Il terreno possiede nel suo seno di molti elementi di fertilezza;
è un pozzo d'inesauribile fecondità. Sotto quella
parte di terra, che comunemente si ara, e detta perciò
suolo arabile, v'è uno strato vergine, che si lascia inerte;
ebbene Iì dentro giacciono molti sali provenienti dallo strato
a punta d'oro, quelli che vanno più profondo, come
la vanga o marra; a punta d'argento, come la zappa; a
punta di ferro, come l'aratro. Quando voleva sollevare una
parte di quel suolo vergine passsava due volte coll'aratro
nel medesimo solco; oppure dopo il primo solco vi faceva
passar manovali colla marra. Si accorse però che quando
si fanno di tali arature profonde, allora bisogna lasciar maturar
il terreno sei od anche otto mesi.
IX.
Avvicendamento o rotazione.
La terra, come l'uomo, ha mestieri di riposo dopo la fatica,
e come l'uomo, che si ricrea cambiando lavoro, così
la terra riposa nel variar di seme e di coltura; il che si fa coll'
avvicendamento. Gian Matteo diceva che un buon avvicendamento
è il vero granaio dell'abbondanza. Egli aveva introdotto
una rotazione di cinque anni, seguendo il consiglio del
prof. Ottavi e se ne trovò bene. Perciò aveva diviso il suo
podere in cinque parti o lotti, come diceva lui.
Ogni lotto prima di cominciar la ruota, veniva arato alla
profondità di 30 centimetri, in modo che buon tratto di
terreno vergine veniva sollevato sullo strato arabile, e così
si lasciava al contatto dell'aria e della luce tutto l'autunno
e l'inverno.
colla terra non bisogna essere avari, diceva,
più se ne dà, più se ne riceve; indi veniva l'avvicendamento
in quest'ordine.
1° Anno. Piante sarchiate, come meliga e fave.
2° Anno. Grano senza concime, in cui seminava trifoglio
in fin di febbraio o in principio di marzo; nel qual tempo
aveva per uso di erpicar il grano; la qual erpicatura del
grano a tal epoca gli tirò addosso sul principio le grasse
rissa de' terrazzani, ma poco dopo fu messa in uso da tutti.
3° Anno. Trifoglio senza concime e vi faceva tre tagli,
tanto veniva bene.
4° Anno. Grano di nuovo, e senza concime.
5° Anno. Foraggi annui d'autunno, come veccia, cicerchia,
e di primavera, miglio o meliga.
Nel sesto anno da capo all'aratura profonda, alla concimazione
abbondante.
Con quest'avvicendamento rimaneva meglio diviso il lavoro,
perchè di 5 lotti ne aveva soltanto uno da concimare,
e poteva fare una letaminatura copiosa; come anche uno
solo ne aveva a scavare a profondità.
X.
La seminagione.
Aveva cura di scegliere sempre buoni semi; e cercava
polputi, provenienti da spighe fitte e lunghe; il grano prima
di spargerlo nella terra lo faceva passare nella calce. Nè lo
spargeva fitto nel campo; ne' terreni grassi e buoni i semi rari
dànno sempre assai più abbondanti prodotti degli spessi.
Di grano, mentre gli altri ne seminavano 80 litri per moggia,
cioè 33 are, egli non ne spargeva più di 50 litri. Usava
dire: che il più gran nemico del grano è il grano stesso.
Aveva riguardo di non seminar tardi, nè per tempo umido;
anzi nessuna aratura voleva che si facesse quando il suolo
era molle; perchè diceva che s'appesta il terreno, invece
di fecondarlo.
XI.
Il vivaio.
Gian Matteo diceva che la sua speculazione più fruttuosa
fu il vivaio. Nel suo orto separò trentasei are di terreno;
quivi a 60 centimetri di distanza vi piantò 10,000 gelsetti
di due anni; che tanti ve ne capivano; appunto come lesse
ne' Segreti di Don Rebo.
Ecco uno specchietto estratto dal suo libro de'conti, che
porrà in chiaro le spese e il profitto.
Acquisto di 10,000 piantine di due anni a lire 15 per
1000. L. 150
Dissodamento del suolo a 45 centimetri
di profondità.....» 100
Piantamento .....» 10
Concime .....» 70
Spese impreviste....» 20
L. 350 350
SPESE ANNUE
E ora se si pensa che il fitto del suolo non lo pagava;
perchè era sul suo, e che gli altri lavori li faceva egli, e
perciò non ci costavan nulla e li faceva in momenti che aveva
poco da fare ne' campi; si viene a riconoscere quanto
guadagno gli portasse il vivaio!
Quello che fece dei gelsi, lo fece pure dei vitigni, o
magliuoli, o 1° Anno.
Interesse della somma suddetta. L.17
Sei sarchiature....» 36
Fitto del suolo ....» 60
Spese imprevedute...» 20
L. 133 483
2° Anno.
483
Interesse delle somme precedenti. L.25
Cinque sarchiature...» 30
Taglio al piede de' gelsi..» 3
Taglio de' germogli inutili e innesti» 100
Rimettere le piante morte..» 20
Fitto del suolo ....» 60
Spese impreviste ....» 20
L. 258 741
3° Anno
Interesse delle spese' dei due anni. L.36
Cinque sarchiature...» 30
Taglio de' germogli lungo il tronco d'ogni
pianta.....» 60
Fitto del suolo....» 60
Spese impreviste....» 20
L. 206 947
4° Anno.
Interesse delle spese antecedenti. L.47
Cinque sarchiature...» 30
Taglio de' germogli...» 20
Fitto del suolo....» 60
Spese impreviste....» 20
177 1124
5° Anno.
1124
Interesse delle spese dei 4 anni. L. 55
Cinque sarchiature...» 30
Taglio degli alberi a 2 metri d'altezza» 6
Taglio de' rampolli inutili..» 20
Spesa di svellimento alla fine.» 60
Fitto del suolo....» 60
Spese di vendita....» 100
Spese impreviste....» 45
L. 376 376
Totale della spesa di costo al quinto anno L. 1,500
che, divise per 10,000 piante, danno per costo di caduna
di esse 15 centesimi; mentre le vendeva al prezzo medio
di 40 centesimi l'una, il che portava il prodotto brutto a lire
4000 da cui deducendo le spese in lire 1500 restava il beneficio
di lire 2500 ossia lire 500 per anno V. Segreti di D. Rebo.barbatelle di viti, che prendeva sempre di
buona qualità. Lì presso seminò pure ghiande per fare il
bosco ceduo, e varie semenze d'alberi da frutta, e parecchie
talee di pioppi e di salici.
XII.
Alberi.
Le piante sono un reddito certo senza costo di spesa.
Gian Matteo dappertutto dove poteva stare un albero, che
non danneggiasse la coltivazione sottostante, ve lo piantava,
e a sua imitazione gli altri facevano altrettanto; onde
in poca ora iì suo villaggio si vide arboreggiar di piante,
che oltre al beneficio, facevano anche un bel vedere, e si
distingueva dagli altri paesi dell'alto Monferrato, che, a
dir vero, sono un po' nudi, per il che le colline all'estate
danno una certa apparenza di caìdo e di secco, e forse
proviene anche da ciò la troppa siccità del continuo lamentata
dai contadini.
Gian Matteo diceva che mille talee di pioppo potranno
costare di quattro in cinquecento franchi; ebbene a vent'anni
potranno valere non meno di dieci mila lire, un ontano
o un salice a capitozzo ogni tre o quattro anni dà un
bel prodotto di pali e di fascine; e che ne costa la coltivazione?
Un bel zero. E gli alberi fruttiferi? In un praticello,
che aveva di costa alla casa, vi aveva da trenta a
quaranta alberi di frutti i quali per nulla impedivano il
fieno di sotto, del quale faceva tre tagli, anzi che no
copiosi, ogni anno, e volete sapere che cosa gli rendevano
in frutti? L'uno sulll'altro gli davano dieci lire; cioè lire
400 all'anno!
XIII.
Contabilità agraria.
Una delle cose più importanti in agricoltura è la tenuta
de' conti. E come si può sapere se convenga più una, che
L'agricoltura è l'arte di ottenere il massimo
beneficio colla minor spesa; e come si potrà ciò riconoscere
senza tener un registro di entrata e di uscita? E
pure parlar di contabilità a' contadini è come chieder le pistole
a' frati. È vero che la tenuta de' conti agricoli non
è la cosa più facile; perchè vi son delle spese, come il concime,
il piantamento degli alberi, e via, che non fruttano
che alla lontana e non tutto in un anno.
Gian Matteo teneva questo metodo, che sembra assai
semplice. Aveva uno Sfogliaccio, su cui tutte le sere notava
i lavori fatti in questo o in quello de' lotti, le giornate
di manovale, di buoi, il seme, il concime e via via.
La moglie poi portava ciò a libro, il quale era diviso
pure secondo la divisione del podere, come lotto A, lotto
B, lotto C, ecc., e più una parte coll'indicazione di Spese
generali. Entravano in queste spese generali le imposte,
le assicurazioni, i buoi, il deperimento degli strumenti,
gli interessi del capitale fondiario, l'onorario del
coltivatore, ecc.; le quali spese venivano poi ripartite per
ciascun lotto. Tutto ciò veniva messo nella parte dell'uscita
o del dare. Nella parte dell'entrata o dell'avere metteva
tutto quello che raccoglieva; come tanti ettolitri di grano,
di meliga, di civaie, e tocca via, il prodotto della vendita
delle bestie. In fin d'anno tirava su i conti e sapeva qual
era il suo benefizio, quale la spesa. Come si può vedere
in questo specchietto, che ad esempio riportiamo.
LOTTO A.
Uscita. Entrata.
Aratura....L. 100 Frumento prodotto:
Concime..... » 50 Ettol. 33 a L. 20 L. 660
Mano d'opera... » 50 Scorte in terra .» 70
Semente.... » 90 L. 730
Quota spese generali » 400
L. 695
XIV.
Pregiudizii.
Dio mio, quanti pregiudizii nelle campagne! Questo legume
non si deve seminar a luna nuova; quell'altro a Iuna
piena; il concime non s'ha a trasportare ne' campi il mercoledì;
un lavoro non si deve incominciare al sabbato, nè
compir in lunedì; Dio ne guardi dal mettersi in viaggio
in venerdì; e il suono delle campane,e mille ubbie; che
ritardano non pochi lavori, e fanno perdere i momenti più
preziosi. Nè raro avviene che si tralascia la seminagione
di una pianta: che uno si lascia cogliere dal cattivo tempo;
e più spesso si lasciano accumulare i lavori, e quindi o
non si eseguiscono più o si fanno male; e ciò perchè? Per
un pregiudizio da femminetta.
Gian Matteo si era spogliato di tutte queste gofferie, e
si ridea degli altri, che lo sconsigliavano da questa o da
quella operazione, perchè a mala luna, o in giorno segnato
a nero; e per ricattarsi di quelli, che talora si facevan
beffe dell'opera sua, loro mostrava poi gli stupendi frutti
che ne ricavava, ad onta del giorno nefasto.
XV.
Perche Gian Matteo non coltivava i bachi da seta e non
faceva vini da vendere.
Gian Matteo non volle mai confondersi nella bachicoltura,
e nella vinificazione; ma vendeva la foglia de' gelsi e le
uve, a chi v'attendeva di proposito.
vini a tipo costante, che abbiano tutti, secondo la
qualità delle uve, il medesimo gusto e i medesimi elementi di
bontà. Egli desiderava che ad esempio i vini di dolcetto si
assomigliassero tutti; così quelli di barbera, di nebiolo, e
via via; in modo che uno, che comperi ne' diversi paesi,
e ne' diversi anni un vino di dolcetto o di nebiolo, esempi
grazia, sappia di che gusto e di che bontà sia. Invece ne'
nostri paesi non succede così, non solo il gusto varia da
un anno all'altro, da un paese all'altro; ma da un proprietario
Bordò, di Bojolè,
hanno fama per tutto? Perchè hanno sempre il medesimo
gusto. E credete voi che le uve siano tutte di un solo
vigneto? Mai no. Ma sono tutti fabbricati col medesimo
sistema. E finchè non si venga a ciò i nostri vini non
avranno mai credito nel mondo.
Gli è vero, che anche gli agricoltori devono badare a
scegliere vitigni delle stesse qualità, e non confondersi in
quella mania di avere più sorta di uve; si scelgano quelli
che meglio convengono alla qualità del terreno, e che più
sono ricercati, e si tiri innanzi con essi.
Queste cose pensava Gian Matteo, e queste cose praticava,
con molto suo vantaggio, e con vantaggio di quelli che
lo seguivano.
Codeste ed altre innovazioni attrassero gli occhi de' vicini,
i quali sul principio ne ridevano; ma quando videro le sue
terre produr quattro volte tanto, e che le sembravano un
giardino; incominciarono a guardarsi attorno, e ora in una
cosa, ora in un'altra a seguirlo in quel che egli faceva;
tanto che ora il prodotto del paese è sensibilmente moltiplicato.
Onde per lui si vede quanto valga un buon esempio.
Gli è vero, che contribuì molto a ridurlo all'agiatezza,
in cui si trova ora, quella perla di donna, che è la Caterina.
Lì sì che si vede la giustezza del proverbio, che
l'uomo fa la roba e la donna la conserva! Per tener di
conto vi lascio girar mezzo mondo, e v'assicuro io che ne
potrete trovar una uguale; ma che la superi, nessuna certo.
Caterina.
Racconto.
Caterina, la moglie di Gian Matteo, non aveva un centesimo
di dote; ma aveva due braccia, che erano tant'oro,
e qualche cosa poi qui in mezzo al petto, che tutte le ricchezze
del mondo non bastano a pagare. I danari vanno
e vengono; ma quello che resta lì per tutta la vita, e che
tutto l'oro della terra non può dare, è la vera bontà dell'
anima. Per lo più le ragazze che hanno maggior dote,
fluiscono per fare una cattiva madre di famiglia, se non
hanno buon cuore; quello che si portan con sè, se lo spendono
tutto attorno alla persona. Una giovane, che non abbia la
testa a' grilli, la dote se la fa da sè.
La Caterina, poveretta, era stata lasciata indietro dai
genitori, che non aveva dodici anni, senz'altro al mondo
che la zia Margherita, povera anch'essa come Giobbe; ma
col lavoro tiravano innanzi. Un anno, nel giorno della festa
qui del paese, e me lo contò da tre volte in su Gian
Matteo, Caterina faceva capannello con parecchie sue coetanee,
guardando, un po' appartate però, quel bolli bolli
del ballo publico; aveva forse quindici anni. Una mano di
giovinastri facevan la ruota Iì attorno con parole e con
iscede, non delle più belle; onde essa arrossendo voleva
ritirarsi. Poco lontano stava solo Gian Matteo, guardando
tutto quel brulichio, ma come colui, che rimanda ad altro
tempo il divertirsi, quasi non sia ancora venuto il suo torno.
Alcune delle compagne di Caterina si posero a parlar di
lui, facendosene le biffe, come di chi non sa stare cogli
bastardo! Caterina si sentì dar il sangue negli
occhi, e ne pigliò vivamente le difese; e che ne può egli,
se non ha parenti? Non è egli già abbastanza infelice, per non
aver una madre, a cui rivolgersi negli sconforti della vita,
senza che ogni voce lo venga del continuo a richiamare alla
sua sventura? Egli intanto è assai più educato, e si diporta
ora con molto più rispetto che non codesti bravazzoni, che abbiam
intorno, cui non manca nè padre, nè madre... Gian
Matteo, che potè intendere di che si trattava, e le parole
di lei, fu tocco dentro, gli si riempirono in un subito gli
occhi di lagrime, e fuggì frettoloso a casa. Alle ingiurie
c'era avvezzo, e non ci badava manco più; ma ad una sì
calda difesa, no; onde quelle parole, quella voce soave e
accalorata, non furono dimenticate più; nelle ore di sconforto,
quando s'è sforzati al pianto, si trovava quelle parole
nel fondo dell'animo che gli sonavano come incoraggiamento,
gli pareva di non essere più solo sulla terra. Egli non
ci aveva mai parlato alla Caterina; come neppure lungo
tempo appresso; più di buon dì, buona sera, come s'usa
tra contadini nel passarsi vicino, altro non s' eran mai
detto.
Altra volta cadde malato papà Bastiano; Gian Matteo
non poteva assisterlo; ma solo faceva qualche scappata in
fretta a portargli qualche cosa; e chi trovava quasi sempre
Iì a rendergli servizio? Caterina; essa stava di casa lì presso,
e sapendo come nessuno potesse prendersi cura del malato,
la bontà del cuore la spingeva di tempo in tempo a venir
lì, ad accendergli un po' di fuoco, ad allestirgli un po' di minestra;
ed era carità fiorita quella, solo conosciuta da chi
cresce alla scuola de' patimenti! Gian Matteo non sapeva
manco ringraziarla; gli pareva un'azione tanto di cielo,
che non si teneva degno di volgerle una parola; e innalzava
gli occhi a Dio, come a dire: a voi, che vedete tutto,
bastardo? Chi soccorse papà Bastiano? Chi pregò perchè
fosse salvo dalla leva questo derelitto sulla terra? O voi,
o nessun'altra sarà mia moglie. Pianse di consolazione
Caterina a queste parole, e Dio benedì quelle nozze.
Essa è la felicità di quella casa; accudisce a tutto, nulla
le passa inosservato. E con che garbo! Chiunque capiti
lì, anche all'improvviso, essa non si confonde per nulla;
ma trattiene, complimenta, e non lascia partir nessuno
senza avergli fatto accettare qualche cosa, con tanta bella
grazia, che molte signorine, con tutta la loro educazione
di collegio, non saprebbero fare altrettanto.
Gian Matteo appena sposatala, le disse: a te la casa, a
me la campagna. E non volle mai, che si mettesse ai duri
e faticosi lavori de' campi. E che può far una donna, diceva,
NORME DI MASSERIZIA DI CATERINA.
I.
Cura della casa.
La casa è il regno della donna; e la virtù di lei si riconosce
dall'assetto e dalla pulizia, che si scorge entro le pareti
domestiche; e qui veramente spiccava l'abilità di Caterina,
che non solo si teneva provveduta di quanto è necessario
ad una famiglia, ma ne aveva una cura singolare,
anche degli oggetti minimi. Ogni anno faceva il suo bravo
inventario di ogni cosa; e così riconosceva se tutto era in
ordine, se vi era mancanza, deperimento o altro.
Gian Matteo le avea mostrato a leggere e a scrivere, ed
ella se ne giovava per tener i conti. Già abbiam detto, che
era dessa che portava a libro la contabilità della campagna;
ma aveva ancora un registro speciale tutto suo per
la contabilità domestica.
libro per le scuole femminili,
un buon libricciuolo, che conteneva molte provvide
massime e ottimi consigli di masserizia, da cui imparò non
poco, e da cui trasse le principali sue norme.
II.
Biancheria.
La biancheria, madre della pulitezza e della sanità, fa
l'elogio della donna massaia. Caterina ogni anno ne comperava
qualche po' per mettere al posto di quella che si
consumava. In ciò si teneva lontana da due estremi; non
imitava quelle, che non ne comperano mai, sicchè arrivano
in fine a tale, che non han più un lenzuolo in buono stato,
e allora si trovano costrette a farne una considerevole provvista
tutt'assieme. Nè lodava qoelle che ne procurano una
quantità enorme a pezza al di là del bisogno; sicchè sta
là ad ingiallire e ad ingombrare inutilmente gli armadii,
le guardarobe, i cassoni; onde s'ha lì un capitale morto,
che non frutta, e richiede tempo e mobili per conservarlo.
III.
Bucato.
Vi sono nella campagna di tali, che, non so perchè,
fanno una sol volta all'anno il bucato. È un'economia mal
intesa. E primieramente la biancheria lasciata lì lungo tempo
nel sucidume si guasta, le chiazze e il sudore vi s'intridono
per guisa dentro, che difficilmente s' imbiancano;
in secondo luogo il bucato riesce tanto grosso, che torna
un vero traspeggio per la casa quando si fa. Caterina ogni
mese lo faceva e così riusciva di poco o di nessun disturbo.
VIII.
Conserve.
Caterina aveva cura nel buon tempo di far le sue provviste
pel verno, che tanto giovano all'economia domestica.
I pomi di terra o patate li riponeva in un tino, dopo
d'averli ben rasciutti, in luogo riparato dal freddo.
Le carote, le rape, i navoni, dopo nettati e asciugati, li
nascondeva in un mucchio di sabbia asciutta in un angolo
della cantina.
I pomidori li riponeva a pezzetti in fiaschi o in bottiglie
turate il meglio possibile.
De' funghi, altri li faceva ben seccare al sole e li riponeva
poi in taschetti; altri li conservava nell'aceto, altri
in salamoia. Prima di metterli nell'aceto e nella salamoia
li faceva bollire nell'acqua semplice, non troppo però. Per
far la salamoia prendeva due dosi d'acqua, una d'aceto, e
mezza di sale. Le sostanze prima di cucinarle bisogna lavarle
bene nell'acqua calda e poi nella. fredda.
Nella salamoia conservava pure i fagiolini, gli sparagi,
e i carciofi mettendoli prima nell'acqua bollente per cinque
o sei minuti.
Tutti codesti lavori e cure sembrano un nulla, e quasi
passano inosservati; ma quanti bei quattrini non risparmiano
lungo l'anno? Ecco perchè le donne, che san quel
IX.
Altri lavori.
Ma Caterina, che era donna attiva, e non poteva stare
colle mani in mano, aveva sempre del tempo a sua disposizione,
onde faceva una speculazione del pollame, teneva
d'occhio le bestie nella stalla, aveva cura del latte, del
burro, del cacio; badava all'orto, e faceva essa eseguire
questi e quelli piantamenti, e si divertiva anche con fiori,
senza dire poi del frutteto, di cui aveva acquistata una
pratica singolare. Non parlo della educazione de' suoi figliuoli;
venivan su come amorini.
Badava alla cucina, alla pulizia della casa, cuciva le camicie,
le sotto calze e avanzava ancora tempo per far qualche
cosa pei poveri, una vestina a questa, un par di calze
a quell'altra, e via; nessuno, che venisse a implorar la
sua protezione, se ne ritornava a mani vuote. Oh che, diceva
essa, se Dio largheggia un po' con certe persone, gli è a
questo patto, che si ricordino degli infelici!
E come è amata da tutti; è la provvidenza de'poveri del
paese!
Un po' di morale.
Ecco come Gian Matteo raggruzzolò un patrimonio di
cento mila franchi; oh sì che varrà 100,000 lire il fatto
Diffidenza e credulità.
È degno di studio ne' campagnuoli lo spirito di diffidenza
congiunto colla credulità più sconfinata. E quel che
è più strano di tutto si è che diffidano piuttosto delle persone
di studio; mentre si abbandonano ciecamente alle
persone ignoranti. Il maestro, il medico, il segretario spiegheranno
coi dati della scienza un fenomeno naturale, il
fulmine, l'aurora boreale, e il contadino ascolterà con quell'
aria che dice: a me non la si fa bere; oppure: chissà se
sarà così! Un paltoniere qualunque dirà d'aver visto la
Madonna sopra un albero, oppure l'ombra di un morto sulla
porta del cimitero, e ci si crede come al Vangelo! Se qualche
male vien addosso a loro, o al bestiame, i prescritti
del medico o del veterinario o non li eseguiscono, o lo
fanno con infiniti ma e se; vi passa una cialtrona di donnicciuola,
le braghe di tela
con quel che segue; danaro e amicizia rompono il collo
alla giustizia; ed altri su questo andare; e se v'è qualche
tristo fatto lo tirano sempre in campo; ma non citano mai
quegli esempi di onestà a tutta prova, di rettitudine d'animo
fino all'abnegazione, che pur tanti ve ne sono, d'uomini
che consumarono il loro avere per beneficare altrui,
di gente che sacrificò il meglio della vita a pubblico vantaggio.
« non avendo più lo stipendio di ministro,
se spendessi in cavalli spenderei quel che non ho. »
E nel
1849 si diceva che aveva ricevuto milioni dall'Austria!
Nel 1859, dopo esser stato Commissario nelle Romagne, ove per
aver carattere militare, da colonnello, era stato promosso generale
di brigata, così scriveva al ministro della guerra. «Ora la conclusione
della pace avendo determinato S. M. a richiamarmi dalle Romagne,
sopprimendo la carica, colla quale m'aveva voluto onorare,
prego l'E. V. a voler presentare al Re la dimanda delle mie dimissioni.
La carriera militare, breve ed interrotta, che ho corsa, non
mi dà nessun diritto al grado che occupo, al quale non è conveniente
si giunga se non dopo lunghi e segnalati servizi.»
Nel 1861 così si rivolse al ministro dell'Interno: «Quand'io
lasciai il posto di governatore di Milano, fui messo in disponibilità
con metà dello stipendio. Trovo di poter far a meno della somma,
che importa. Mi par dovere nelle attuali condizioni delle finanze di
rinunziare al soldo di disponibilità!»
E giova rammentare che d'Azeglio non era ricco; viveva del lavoro
del suo ingegno.
Camillo Cavour, accusato di infiniti monopolii; alla sua morte, lasciò
il patrimonio avito tutt'altro che moltiplicato.
Vincenzo Miglietti, fu due voìte ministro; quando venne a morire,
non lasciò che un nome onorato; o come avvocato guadagnava le
suo trenta mila lire all'anno! Ed è lunga la schiera d'intemerati cittadini,
che ben lungi dal lucrare sulle pubbliche cariche a danno
dello Stato, scapitarono anzi ne' ìoro privati interessi.
Mercati, fiere, teste, gare medioevali.
I contadini, che sembrano i più gravati dalla fatica, sono
in effetto gli operai che godano maggior riposo. Nelle officine,
ne' laboratorii, negl'impieghi, negli uffici pubblici
e privati, operai, impiegati, avvocati, medici, tutti insomma
non hanno mai tregua, lavorano anche la notte, i giorni
di festa talora; e lì sia inverno, sia estate, piovosi o sereni
volgano i giorni, sempre il lavoro continua, e in un'atmosfera
poco aerata, e non sempre vitale; e quando i dì
son corti vi s'aggiunge una parte della notte; son fisse le
ore d'opra per giornata, e, si faccia alla luce del sole, o
al lume della lucerna, tanto fa; ma non si transige mai
sul lavoro.
Il lavoro del contadino invece è regolato dalla luce naturale
del giorno; e il riposo è sempre compagno del silenzio
della notte; oltre di cib vengono le domeniche e le
I fannulloni.
I villaggi per piccoli che siano, hanno anch'essi, come
le città i loro scioperati, i disutilacci, i parassiti. Erano i
beniamini della famiglia, i cui padri spesero il meglio delle
loro sostanze per farne un avvocato, un ingegnere, un medico,
credendosi di avere ne' loro figli tanti Salomoni, ma
essi invaniti, dopo essere statl parecchi anni in collegi, se
ne ritornarono a casa dichiarati incapaci, viziosi, ripieni
solo di fumo, ed ora stanno lì mangiando il pane a marcio
tradimento, consumando quel po' di ben di Dio, che ai
genitori costò tanta pena e tanto sudore; sono Iì nè carne
nè pesce, inetti ad ogni mestiere, beffeggiatori, superbi, arroganti,
millantatori, genii incompresi, vittime d'una società
ignorante; ai quali s'accodano le male schiene, i poltroni,
gente nata sol per far letame, come
li chiama Alfieri, traducendo da par suo un proverbio
latino.
Li vedete tutte le ore del giorno sdraiati sulle panche
fuori della bettoluccia o del caffè, oppure alla cantonata
della via, a veder chi va e chi viene. Occupatissimi in
mormorare del prossimo, in tagliar i panni addosso a chi
lavora, destrissimi nel turpiloquio; essi sono al fatto di
tutti i pettegolezzi delle famiglie, di tutti gli intrighi, di
tutte le picche e garicciuole delle piccole società. Essi raccontano
quel che si fece, e quel che non si fece, essi sanno sempre
tutto, e quel che non sanno inventano con tanta
sicumera da tenersi per articolo di fede, scrivono lettere
anonime, fabbricano articoli infamatorii, da mandarsi alle
gazzette, sentenziano su tutto, dànno patenti di asinità al
maestro, al medico, al parroco, al sindaco; i generali, i
deputati e i ministri, bah! gente senza studi, senza onestà,
da mettersi sotto processo! Levano l'onore alle donne, e
l'innocenza ai ragazzi; corrotti, cercano di corrompere;
millantatori spudorati traggono nel fango le virtù più illibate;
a sentirli, non v'è onestà che resista alle loro seduzioni,
essi sono i felici trionfatori de' cuori di tutte le
donne. Non credeteli, sono bugiardi, date loro francamente
del vile mentitore sulla faccia; che altro non sono; calunniatori
codardi si vogliono coll'arma del vlgliacco ricattare
delle ripulse e degli schiaffi ricevuti, genia sfrontata che
semina la discordia nelle famiglia, fa perdere i partiti alle
ragazze, e toglie la pace alla società. Due per paese di
questi sciagurati bastano per corromperlo e buttarlo tutto nel
braso. Se v'è una legge che punisce i malfattori, una ben
più severa v'avrebbe a essere per questi miserabili fannulloni,
che menano alla corruzione un paese intero; vermi
schifosi che vivono di scoli, sciagurati che non sono mai
tanto bassa Che invidiosi son d'ogni altra sorte. Fama di loro il mondo esser non lassa; Misericordia e giustizia li sdegna, Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
E lasciamoli anche noi nel disprezzo e nel vilipendio di tutta la società.
INDICE
Avviso dell' Editore Pag........3
CAPO I. La campagna e la città ...» 5
« II. Rozzezza ......» 9
« III. Pulitezza ......» 12
« IV. La famiglia ......» 15
« V. L'istruzione ......» 18
« VI. Il furlo campestre ....» 25
« VII. Gian Matteo — Racconto...» 31
NORME DI GIAN MATTEO
I. Coltiva il poco.....» 37
II. Non prendi terre lontane dall'abitazione » 38
III. Non compera a credito ....» ivi
IV. Capo e coda ......» 39
V. La teoria senza la pratica non fa pro.» ivi
VI. Coltiva terreni buoni.....» 40
VII. Il letamaio.......»41
VIII. Strumenti a punta d'oro, d'argento e di ferro» 42
IX. Avvicendamento o rotazione....» 43
X. La seminagione.....» 44
XI. II vivaio......» 45
XII. Alberi .......» 48
X111. Contabilità agraria ..... ivi
XIV. Pregiudizii......» 50
XV. Perchè Gian Matteo non coltivava i bachi da
seta e non faceva vini da vendere » ivi