Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Almanacco igienico popolare del dott. Paolo Mantegazza

269807
Mantegazza, Paolo 6 occorrenze
  • 1882
  • Libreria Gaetano Brigola
  • Milano
  • cucina
  • UNIFI
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. — Uno dei più ghiotti bocconi che la Provvidenza abbia concesso al bipide implume. Deve esser cotto in carta burraia e sotto la cenere. Il canonico Charcot ci ha insegnato il metodo migliore per mangiar un beccafico:

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Chi abbia tendenza all'orticaria o ad affezioni erpetiche, farà bene nell'astenersene del tutto. Disteso col burro sul pane può essere un eccellente colazione pei fanciulli linfatici e deboli.

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Pare che la merenzana abbia proprietà leggermente narcotiche e che concilii il sonno, per cui, se ciò fosse ben dimostrato, si dovrebbe consigliare alle persone nervose e che soffrono di veglia. Merluzzo. — Gran pesce molto comune nei mari della Norvegia, della Scozia, dell'Irlanda, e dei Banchi di Terranova e che dà alimento e ricchezza a gran parte dell'Europa. Lo stoccafisso non è che merluzzo preparato in modo diverso dal baccalà, ma l'uno e l'altro non sono che merluzzo salato e seccato al sole. Questo pesce molto digeribile quando è fresco, diviene pesante al ventricolo, quando ci si presenta sotto la forma di baccalà e di stoccafisso e non conviene che alle persone di stomaco robusto. Il solo odore di questa vivanda basterebbe a renderla poco simpatica. Gli Scandinavi si lamentano che Spagna, Italia e Francia vanno ogni anno diminuendo il loro consumo di baccalà e sarebbe una vera sventura, se questa diminuzione segnasse un affievolirsi del sentimento religioso; ma l'igiene è costretta a rallegrarsene dicendo: Tanto meglio.

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È falso, che il brodo di rana abbia particolari virtù medicinali. Gli Inglesi hanno in orrore le rane e non le mangiano mai, mentre in Italia e in Germania formano un delizioso piatto di magro. In Francia sono abbastanze stimate, ma questo gusto deve essere tutto moderno, perchè Bernardo Palissy nel suo Traité des pierres, che è del 1580, scrive: «Et de mon temps j'ai veu qu'il se «fust trouvé bien peu d'hommes qui eussent voulu manger ni tortues, ni grenouilles.»

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Non si capisce come l'autore della Physiologie du goût abbia potuto ingannarsi sopra un simile argomento. Per parte di Brillat-Savarin è l'effetto d'una singolare leggerezza o d'una prodigiosa illusione. La stima che egli si era meritato per altri rapporti e il pregio delle sue opere ne hanno molto sofferto.»

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Chi ha la sventura di avere qualche caro malato, che abbia le membra inferiori deboli o rattrappite o per qualunque causa impotenti, gli faccia dono di questa preziosa poltrona, dove l'infermo seduto a tutto suo agio colla più leggiera pressione delle mani può muoversi per la camera o passeggiare in giardino e camminare all'indietro, e volgersi per ogni lato senza fatica e colla massima facilità.

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La regina delle cuoche

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Prof. Leyrer 33 occorrenze

Non le è permesso assolutamente il fiutar tabacco, la qual cosa la renderebbe intollerabile quando attendesse alla manipolazione delle vivande: bisogna anche ch'essa abbia un buon odorato e un buon palato, affinchè conosca la bontà degli alimenti: che tenga gli utensili di cucina con molta nettezza e disposti bene in ordine: bisogna insomma che essa sia fornita di tutte quelle buone qualità che la rendano una buona cuoca.

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Prendete due chilogrammi di spalla o di coscia di vitello disossato e digrassato e mettetelo in una casseruola spalmata di burro sul fondo, nella quale porrete una fetta di lardo: lasciatelo rosolare una mezz'ora, avendo cura di rivoltarlo fino a che abbia preso un bel colore da ogni parte. Poscia, quando l'acqua della pentola bolle, gettatevi entro il vitello rosolato, aggiungendovi cipolle, carote e un pezzo di circa cinque ettogrammi di coscia di manzo, tagliato a fette, per dare al brodo più consistenza e miglior gusto; fate bollire moderatamente. Questo brodo è eccellente tanto pei sani come pei malati; inoltre il sudare che fa il vitello nella casseruola, gli toglie quell'eccesso d'umidità che lo rende insipido ed indigesto.

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Il pane va tagliato in modo che abbia la forma delle costolette e lo si collocherà tra una costoletta e l'altra. — Il cervo, la capretta, il daino e il cerviatto, si possono ammanire nello stesso modo,

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Scegliete un bel cappone grasso e che abbia la pelle bianca anzichè gialla; vuotatelo delle interiora, lavatelo bene, e mettetelo a cuocere in una pentola con acqua sufficiente e sale, ovvero nel brodo in cui sia già a cuocere il manzo, aggiungendovelo in tal caso circa un'ora prima che questo sia completamente cotto, se volete servire insieme a manzo e cappone.

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Lasciate rosolare così la carne, rivoltandola man mano su tutti i lati, e quando abbia preso un bel colore, bagnatela con brodo e vino bianco, ed aggiungetevi un battuto di prezzemolo ed aglio, nonchè poco pepe e spezie. Finalmente un quarto d'ora prima di ritirare la casseruola dal fuoco, ed allorchè l'intinto sarà alquanto concentrato, unitevi alcuni tartufi sottilmente trinciati, lasciando sobbollire il tutto, e poi servite.

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Accosciatelo come d'uso, e riponetelo in un padelotto con sale, burro, rosmarino e fettoline di lardo; mettetelo sul fornello a fuoco moderato o meglio nel forno; tenetelo chiuso col suo coperchio e osservate che abbia a prendere un bel colore. Quando non sia molto vecchio, due ore basteranno a cuocerlo. Tagliatelo in bell'ordine, mettetelo sul piatto e servitelo con un po' del suo sugo.

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Preso che abbia un bel colore abbronzato, salatelo e dopo pochi minuti servitelo caldo.

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Untate di burro chiarificato degli stampini, oppure uno stampo col tubo nel mezzo; lasciate che il burro si congeli e versatevi entro il composto; fatelo cuocere al bagnomaria come di pratica, cioè senza che l'acqua abbia a bollire. Rovesciatelo sul piatto e servite con spagnuola e buon sugo. Volendolo gratinato, prenderete uno stampo senza tubo nel mezzo, unto di burro e spolverizzato di pane; riempitelo e fatelo cuocere col testo, oppure nel forno.

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Fate cuocere del riso nel burro, aggiungetevi del prezzemolo verde, trenta code di gamberi tagliate non tanto fine, e un po' di sale e di pepe; mescete ed unite il tutto con un tuorlo d'uovo e tre cucchiai di crema, riempitene i gamberi e riunite il guscio in modo che abbia l'apparenza di un gambero intiero. Prendete quindi un po' di burro, qualche poco di prezzemolo verde trito, sei cucchiai di crema, alcuni cucchiai di vino bianco e del comino aggiungetevi finalmente anche i gamberi, e fateli cuocere sotto e sopra a fuoco gagliardo.

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Quando avrà bollito per circa 6 ore a fuoco lento, colate il liquido a traverso un pannolino, mettetelo nuovamente al fuoco in una casseruola ed appena abbia ripreso il bollore gettatevi due albumi d'uovo che avrete prima sbattuti, e per alcuni minuti rimestate con prestezza: lasciate poscia restringere l'umido, mantenendo la casseruola sul fornello, e di quando in quando provate a versarne qualche goccia sur un piatto, per vedere se raffreddando prende consistenza: il che verificatosi, ritirate dal fuoco la casseruola, passate una seconda volta il liquido per pannolino, e lasciatelo raffreddare in una forma o sopra la pietanza fredda che volete guarnire.

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Queste forme rappresentano sovente un frutto od altro oggetto; ma possono ancora più semplicemente raffigurare un disco od una mattonella quadrata; nel primo caso si compie l'illusione riempiendo la forma con un gelato il cui colore abbia analogia coll'oggetto da essa rappresentato; nel secondo caso si può riempire ciascuna forma con più qualità di sorbetti disponendoveli a disegno ed anche frammisti con pezzetti di frutta candite o confettate; è sempre necessario però che le forme stesse, anche prima d'essere riempite col sorbetto, sieno state, alcun tempo nel ghiaccio, giacchè così s'impedisce al gelato di sgocciolare al contatto del metallo meno freddo.

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Appena la crema comincia a legarsi ritiratela dal fuoco, onde non abbia ad alzare il bollore; passatela indi allo staccio, e freddata che sia versatela nella sorbettiera e e fate gelare.

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Fate sciogliere in una tortiera un pezzo di burro e gettatevi entro il vitello tagliato a pezzi rivoltandolo continuamente e bagnando poi con poco brodo e vino bianco sicchè abbia a prendere una bella rosolatura; aggiungetevi altro brodo, e quando è quasi cotto esponetelo a fuoco ardente onde riesca ben glassato. Aggiungetevi delle patate a pezzi, cotte nel brodo o nel burro, od anche fagiuoli, funghi, spugnuole, il tutto cotto a parte. La salsa meglio indicata è quella dei pomidori, ma in mancanza di questa o di spagnuola vi supplirete coll'unire al vitello un po' di burro amalgamato con farina e brodo.

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Al momento di servire la dividerete per tutta la sua lunghezza, non però abbastanza che abbia a distaccarsi, disponetela sul piatto a forma di cuore, tagliandola in modo da conservarle bell'aspetto e guarnitela al centro ed all'ingiro di citriuoli tagliati e conditi con salsa piccante.

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Prima però di ritirarla, levate la carta affinchè abbia a prendere colore; tagliatela in bell'ordine e adagiatela su un piatto oblungo dandole la primitiva forma. Glassatela e servitela con salsa.

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Levatolo da questa; lo farete arrostire finchè abbia preso un bel colore, spargendovi sopra un po' di farina, e lo presenterete sulla mensa bagnato colla sua marinata bollita e condensata con un pugno di farina.

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Lavorate diligentemente il composto e mettetelo nella sciringa, il cui stampo abbia la dimensione d'un maccherone di media grossezza. Venti minuti prima di servire ritirerete la casseruola, contenente il consumato bollente, sull'angolo del fornello; spingendo la sciringa e tagliando la pasta col coltello otterrete dei maccheroni lunghi mezzo dito, che lascerete mano mano cadere nel consumato; fate sobbollire, indi servite anche con guarnitura di piselli e d'asparagi apparecchiati come si disse più volte.

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Pelati ed abbrustolati i pollastri, vuotateli delle interiora, lavateli, accomodateli ripiegando loro le ali sulla schiena e serrando in una di queste il collo, acciò la testa non abbia a ciondolare; infilzateli poscia allo spiedo, e fateli arrostire ad un fuoco vivace, ungendoli spesso con olio e cospargendoli di sale. Un'ora basta per cuocerli.

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Prendete dei pollastri che siano polposi, nettateli bene, ed immergeteli nell'acqua calda, onde ritirarneli belli e bianchi; assestateli in bella forma, ed apprestate quindi la seguente farcia: Prendete un pezzo di carne di vitello, da cui leverete la pelle e tutte le parti filamentose, e tritate questa carne con un poco di lardo; prendete poi del pane inzuppato nel latte, spremetelo, unitelo con due uova sbattute, agitando tutto ciò al fuoco finche abbia acquistata la consistenza necessaria, ottenuta la quale lo pesterete in un mortaio unitamente alla carne e condirete con macis e sale; con questa farcia empirete i pollastri bene asciugati, i quali ravvicinata loro la pelle, porrete in casseruola con fette sottili di lardo, radici di prezzemolo, carote ed una tazza di brodo. Continuata la cottura per una mezz'ora, vi unirete una salsa di funghi. All'atto di portare i pollastri sulla mensa, leverete il lardo e verserete soltanto su essi la salsa.

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Preso che abbia un bel color d'oro il burro, incorporatevi un buon cucchiaio di farina, e legato bene l'intinto, gettate via la cipolla e mettetevi a sfriggolare i pezzi dei piccioni, salandoli. Abbronzati che siano, bagnateli con brodo che arrivi loro a galla e lasciateli cuocere a piccol fuoco. Fate bollire intanto due chilogrammi di maccheroni nell'acqua e sale, metteteli a sgocciolare nel crivello, poi fateli asciugare a fuoco in una casseruola con poco più di una noce di burro ed un po' di formaggio trito. Versate questi maccheroni nel ragout, lasciateli prendere insieme la bontà e teneteli tutti al caldo. Ora converrà preparare la pasta di timballe con grammi 325 di farina bianca, grammi 150 di zucchero, e altrettanto di burro, 2 tuorli d'uova, buccia gialla di limone ben trita e, se volete, qualche goccia di acqua di fiori d'arancio. Fatene una pasta, e distesala della grossezza di un mezzo dito, coprite con essa il fondo e i lati di una casseruola o di uno stampo ben unto di burro, riempitene il vano coi pezzetti di piccione, uniti ai maccheroni, copriteli con un disco della stessa pasta, e tate cuocere il pasticcio così preparato al forno e con fuoco sotto e sopra.

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Fate asciugare con poco burro mezzo chilogrammo di funghi tagliuzzati; quando sono cotti aggiungetevi un litro e mezzo di salsa vellutata ed un mezzo litro di consumato di pollo; fate ridurre a due terzi; legatela con una soluzione di sei tuorli d'uova, fate che abbia a sobbollire per un momento e passatela alla stamigna, per poi porla in serbo onde usarne al bisogno.

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Esponete a fuoco moderato in modo che non prenda colore, e quando l'umidità sarà interamente assorbita, unitevi un ettogrammo di farina di semola, lavorate e bagnate con un'litro di panna e altrettanto brodo di pollo, tramenando fino all'ebollizione; allora ponete la casseruola in posto che abbia a sobbollire lentamente; di tanto in tanto tramenate la salsa, e se è troppo densa aggiungetevi altro brodo bianco o panna; dopo due ore passatela leggiermente allo staccio in modo che passi appena il liquido, e per averla più liscia, ripassatela una seconda volta.

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Si ottengono col seguente processo: 1° si mescoli per bene il sangue dopo averci versato dentro un poco di aceto; 2° si puliscano per bene le budella; 3° si taglino a pezzetti dodici cipolle, facendole cuocere nella sugna; 4° allorquando queste sono cotte per bene, aggiunger devonsi quattro litri di sangue, due chilogrammi di sugna tagliata a pezzi quadrangolari, prezzemolo, cipollette tritate, sale, pepe, spezie ed un litro di crema; 5° mescolar devesi il tutto per bene onde non abbia a raggomitolarsi. Dopo tutto ciò, insaccar devesi il miscuglio entro le budella, non troppo piene però affinchè non abbiano a scoppiare. Dopo averli legati con spago, si devono immergere nell'acqua quasi bollente, e tostochè principiano ad esser caldi si devono ritirare e lasciarli raffreddare. I sanguinacci si possono far cuocere tanto a lesso che arrosto.

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Riempita la casseruola in questo modo, manterrete un fuoco moderato, onde la verdura abbia a prendere sapore, ma nel tempo stesso non abbruci sul fondo. Nel caso che il condimento diminuisse, è necessario rimettervene dell'altro.

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Rosolate in casseruola con burro e sale un chilogrammo di magro di vitello, e quando abbia preso bel colore bagnate con qualche cucchiaiata di brodo bollente e sugo di pomidori. Fate così cuocere per un'altra mezz'ora; indi aggiungete 3 ettogr. di piselli freschi sgranati, e lasciate finir di cuocere.

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Se il vitello è molto giovine o di latte, basta un'ora e mezza, o poco più, perchè riesca perfettamente cotto: se invece si tratta di vitello grosso, richiedesi una cottura più prolungata, ed è in tal caso necessario bagnare la carne con qualche cucchiaiata di brodo dopo che abbia leggermente rosolato.

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Mettete il composto in uno stampo unto d'olio e comprimetelo contro le pareti mediante un limone badando che l'intonaco abbia a riescire molto sottile; oppure stendete il croccante su una lastra di rame e ricoprite con esso mano mano lo stampo, tenendo il tutto al caldo. Estraetelo dallo stampo e, quando è freddo decoratelo con zucchero filato, pistacchi e frutti confettati.

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Togliete i noccioli ed i gambi o picciuoli a tutte queste frutta, spremetene il succo in un recipiente di terraglia, passatelo allo staccio e lasciatelo in riposo per 3 o 4 giorni in luogo fresco, tenendo però il vaso ben turato onde non abbia a svanire la fragranza. Colate poscia il liquido attraverso un pannolino, aggiungete 160 grammi di zucchero per ogni 100 grammi di succo ottenuto, e ponete al fuoco a bagnomaria. Allorchè lo zucchero si sarà perfettamente disciolto lasciate spegnere il fuoco e raffreddare il liquido, ed avrete così fatto lo siroppo, che conserverete in bottiglie ermeticamente turate.

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Preparate intanto e chiarificate uno siroppo semplice di zucchero (due chilogrammi di questo per ogni litro d'acqua); aggiungete per ogni litro di siroppo ottenuto 3 ettogrammi del succo di agresto suddetto; fate bollire nuovamente sino a che il liquido abbia preso una certa densità, e finalmente lasciate raffreddare il vostro siroppo onde riporlo in bottiglie.

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Nella scelta della quale abbiasi cura di osservare che sia una donna sana di corpo e di mente; che non vi sia gran differenza fra l'epoca del parto e dell'età della creatura che le si vuol affidare; che le poppe si prestino all'allattamento e che abbia latte sano e in sufficiente quantità. _

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L'occhio, quest'organo così caro all'uomo e tanto delicato, risente assai facilmente di tutto ciò che altera le funzioni generali del corpo; è però necessario prevenirne le malattie con cure tanto più sollecite, quanto più è difficile risanarlo una volta che abbia cominciato a soffrire.

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Si mettono in una pentola, vi si versa sopra dell'acqua fredda tanto che basti a ricoprirli; si mette la pentola a fuoco con entro questi recipienti e la vi si lascia sino a che l'acqua abbia pigliato il bollore, allora la si leva dal fuoco e la si lascia raffreddare. In tal guisa non c'è più a temere che si rompano nè bicchieri nè qualunque altra tazza anche versandovi entro liquidi bollenti.

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Questo riepilogo, quantunque assai breve, delle funzioni digestive farà comprendere quanta influenza abbia lo stomaco sull'organismo umano e quanto sia importante per la salute di conservarlo sempre nello stato normale, evitando di prender cibi troppo abbondanti, o di natura poco digeribili.

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Il razionalismo

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Che v' abbia uno stato peccaminoso non possibile ad evitarsi dal libero arbitrio dell' uomo, è tanto di fede, quant' è di fede che sia uno stato peccaminoso quel dei bambini che non rinacquero nel battesimo, o quel de' dannati. Che poi vi possano essere degli atti peccaminosi di necessità, che sieno in sè colpevoli e demeritorii; questo da noi al tutto si nega. Quanto poi ad atti peccaminosi in sè (cioè involgenti un disordine nella volontà che li produce), e colpevoli e demeritorii in causa; questi s' ammetton da tutti i maestri in divinità. Di più, si distingua: o s' intende che tali atti sieno necessitati per modo che non abbiano mai avuto una causa libera almen fuori del soggetto che li pone, di maniera che non sia stato mai possibile alla natura umana l' evitarli; e tali atti non si danno certamente, poichè, come abbiamo detto le tante volte, anche il peccato originale fu evitabile un tempo dalla natura umana, cioè non dai bambini che lo ricevono, ma da Adamo che lo commise. Ovvero s' intende parlare di tali atti, che erano una volta evitabili nella loro causa rimota, ma accade che nol siano più all' istante in cui opera la causa prossima, cioè la volontà in certe circostanze e tentazioni così disposta a produrli; e questi da noi sono ammessi, sempre che se ne rifonda la colpabilità nella causa libera (1). E i nostri teologi fan le viste almeno di negare i peccati necessarii anche in questo senso. Ma quante ree conseguenze indeclinabilmente procedono da una tale loro dottrina? Per sostenerla essi debbono dire, che il libero arbitrio può sempre da sè solo, senza la grazia, evitare tutti i peccati; e questo sembra marcio pelagianismo. Poichè se accordassero che il libero arbitrio senza la grazia non può talora evitare il peccato, accorderebbero in pari tempo quel che voglion negare, darsi il caso di peccati necessarii. Vero è che ricorrono a dire, che quando sono necessarii, già non sono più peccati. Ma se non sono peccati, dunque l' uomo non è obbligato d' evitarli, dunque non ha bisogno della grazia, perchè senza la grazia è già interamente difeso dal peccato col solo libero arbitrio; giacchè tutto ciò che supera le forze del libero arbitrio non è peccato. Noi diciamo che tali azioni sono in sè stesse inordinazioni della volontà , e quindi peccati, benchè non sieno colpe se non nella loro rimota libera causa. Ma essi non riconoscono alcun male morale nella inordinazione di fatto della volontà , e riducono la nozion del peccato stesso a quella della colpa. E perciò non posson dirci, se voglion essere coerenti, che si diano peccati in causa; che sia un peccato in causa, a ragion d' esempio, quello di colui che pecca necessariamente perchè trascura per sua libera volontà l' orazione che gli darebbe forza ad evitare il peccato, perchè in tal caso riconoscerebbero che l' atto peccaminoso nella sua causa prossima è necessitato; e quindi che si danno de' peccati attuali in questo senso necessarii, il che essi mostran negarci. Oltredichè, se quando opero necessariamente non fo alcun male morale, perchè avrò il debito di pregare? perchè di cercare quelle forze che non ho, e senza le quali non pecco? Che si dia l' obbligazione di usare tutti i mezzi possibili per evitare ciò che è male, s' intende; ma per evitare ciò che non è male, non s' intende. Chi riconosce una inordinazione della volontà , un male morale in un' azione contraria alla legge, può ammettere l' obbligo di evitarla con tutti i mezzi, pena il rendersi COLPEVOLE se non gli adopera; ma chi non vede in tale azione alcun male, non può riconoscere nè pur COLPA in colui che li trascura. Laonde la loro dottrina rende gli uomini inerti e pigri a cercare coll' orazione e con altri mezzi gli aiuti divini, potendo essi sempre dire a propria scusa, che se fanno qualche azione opposta alla legge per impotenza dell' opposto, non è finalmente male alcuno, onde niun dee prendersene scupolo; che anzi, non essendo male alcuno ciò che non si può colle proprie forze evitare, nè pure dee dirsi dalla legge vietato. Il qual principio fu certamente, chi ben considera, una delle funeste cagioni da cui nacque il lassismo, fu cagione, segreta o palese non importa, di quella morale che tanto facilmente dispensa gli uomini dall' adoperare i mezzi necessarii a preservarsi da' peccati, massimamente se costano qualche grave o anche piccolo incomodo (1), o, com' aggiungono disonore, condannata più volte da' Pontefici, e raccolta tuttavia dal P. Giumenio (2) in quel libro, che fu pure condannato col breve d' Innocenzo XI del 16 settembre 16.0. Quando poi pretendono che l' uomo, qual nasce presentemente, non rechi seco corruzione alcuna nè nella volontà, nè in altra potenza, distruggono manifestamente il dogma del peccato originale, e, a mio parere, di nuovo convengono co' Pelagiani; onde, scavando il fondamento della fede, gettano quello del razionalismo. Nè giova loro cosa alcuna il tenere tenacemente le frasi cattoliche (benchè non sono sempre sì vigilanti che non si tradiscano in favellando), essendo la Chiesa nelle sue difinizioni assai più sollecita del senso che non delle parole; perchè, [...OMISSIS...] , come dice sant' Ilario, [...OMISSIS...] . Questa medesima dottrina poi che dichiara la natura umana sana in tutte le sue potenze, ottimamente armoneggia colla precedente nelle perniciose conseguenze morali ed infausti effetti. Perocchè anch' essa non distrugge solamente il dogma, ma anco la buona morale che col dogma è intimamente connessa, ed eccovi per qual via. Non riconoscendo cotesti teologi difetto alcuno nelle facoltà e tendenze dell' umana natura, essi giustificano e coonestano anche la concupiscenza tale quale ella si trova presentemente nell' uomo. Di che consegue, che tutti gli atti suoi sieno naturalmente buoni e per sè onesti. Quindi una seconda ed ampia cagione di quel lassismo, che pur troppo provocò la reazione del non meno pernicioso rigorismo. Da tal fonte in fatti provenne, che si giustificò il mangiare ed il bere pel solo fine del diletto, argomentandosi che essendo buono l' appetito naturale, si poteva ben godere de' suoi atti; onde il papa Innocenzo XI fu costretto di condannare la proposizione [...OMISSIS...] che è l' ottava di quelle dannate con suo decreto del 2 marzo 1679. Lo stesso si sostenne dell' uso del matrimonio, in cui non si volle riconoscere neppur venialità, se al fine del solo piacere rivolto; sentenza condannata nella proposizione 9 dallo stesso Pontefice, [...OMISSIS...] . Era conseguente ad una tale dottrina, che la fornicazione stessa, e fin anco la ributtante mollizie, fosse dichiarata per sè stessa onesta da cotali teologi patrocinatori della natura incorrotta, e proibita solo dalla legge positiva, senza la quale, essi giunsero a tale amenza, da dichiararla alcuna volta obbligatoria, sotto pena di peccato mortale, quasi che la legge positiva di Dio potesse vietare ciò che fosse, secondo la natural legge, così obbligatorio, come essi s' esprimono nelle due seguenti orrende proposizioni condannate collo stesso decreto: [...OMISSIS...] . Chi non sa che ad eguali cause rispondono eguali effetti, e che da uguali principii nascono uguali conseguenze? Chi non vede, che come dall' antico pelagianismo venìa la licenza de' costumi, così ella venne pure dal nuovo; muovendo tanto Pelagio, quanto i moderni teologi di cui parliamo, dallo stesso principio, che la concupiscenza con cui or nasce l' uomo non abbia in sè niente di reo, per esser ella un mero appetito naturale non punto disordinato, e che [...OMISSIS...] ? Chi non s' accorge che a tali teologi si possono giustamente rivolgere, senza far loro torto, le stesse parole che sant' Agostino rivolgea ai Pelagiani dei tempi suoi: [...OMISSIS...] Senonchè, hanno forse mai gli antichi Pelagiani cavate tante ree conseguenze sovversive de' costumi e di ogni umana società dal principio che la concupiscenza è un appetito naturale che non ha in sè alcun disordine, e dall' altro, che « licite potest appetitus naturalis suis actibus frui », quante ne cavarono i moderni teologi sotto coperta sempre di far guerra all' odiosissimo Giansenismo? L' amore delle ricchezze, delle comodità, dell' onore e d' ogni altro oggetto della concupiscenza, divenne cosa onesta anche eccedendo i confini della legge naturale e divina, perchè l' appetito naturale può di sua natura lecitamente soddisfarsi. Quindi tali teologi disobbligarono gli uomini dagli atti delle virtù teologali costando essi qualche cosa alla concupiscenza (2); li disobbligarono dall' amare il prossimo, purchè fingessero d' amarlo con atti esterni (3); che anzi, per cagione di qualche eredità o altro bene temporale, permisero loro di desiderar l' altrui morte, foss' anche de' proprii genitori, e fin di godere d' averli uccisi nell' ubbriachezza (essendo necessitati in tal caso e però ottenendosi l' intento senza peccato (4)) per raccoglierne le grandi ricchezze, giacchè l' appetir queste è naturalmente onesto (1); e per l' appetito di esse o de' beni che seco adducono, non dubitarono disobbligarli ancora dall' elemosina (2); permisero loro altresì, per soddisfare la naturale e innocente tendenza al ben temporale, di mentire, d' usare restrizioni mentali, di spergiurare, di simulare l' amministrazione de' sacramenti (3), di uccidere (4), di calunniare (5), di procurare l' aborto (6), di rubare (7), di commettere simonia (1), di tener mano all' altrui libidini (2), e di commettere in una parola ogni specie di furfanterie e di scelleraggini, con infinito scandalo degli eretici stessi, e degli empii. Non vi sono più oggimai, io voglio credere, teologi che osino apertamente sostenere queste turpissime conseguenze dai sommi Pontefici fulminate; ma perchè dunque non si abbandonano altresì i principii ond' esse derivano? perchè un Eusebio Cristiano e i suoi seguaci e difensori insegnandoli ne menan vanto e trionfo, ed osano applicare il titol d' eretici a quanti da loro discordano? Ella è cosa deplorabile a veder la maniera colla quale tali teologi sostengono le proprie dottrine e si fanno a refutare le altrui. Vi si ravvisano riprodotte pur troppo le maniere orgogliose de' loro predecessori, e l' imitazione dell' arti degli eretici. A questo segno si può ben conoscere qual sia lo spirito loro; e noi crediamo necessario di chiamare anche su di ciò l' attenzione del pubblico. Abbiamo accennato, che molte eresie nacquero dallo zelo indiscreto ed amaro, con cui alcuni uomini, per lo più di chiostro o almen di chiesa, tolsero a combattere altre eresie, cadendo nell' eccesso opposto. Così Ario pretese di far guerra a Sabellio, e rovesciò nell' error contrario; così Eutiche presalasi indiscretamente con Nestorio, si fece autore dell' opposta empietà; così Pelagio vantavasi di far fronte col suo perverso sistema al Manicheismo. Può essere, che a principio vi avesse in alcuni dello zelo, vi avesse della buona fede; ma non era in tali uomini carità; quindi caduti in errore, vi s' indurarono, e l' errore suggellato dalla caparbietà contro le decisioni della Chiesa, divenne nuova eresia, non men funesta al mondo di quelle che prendevano ad impugnare. Laonde qual maraviglia, se la fazione de' teologi di cui parliamo nata da buon zelo d' opporsi alle novità protestantiche, degenerato poscia il suo zelo in accanimento e superbia, e rimescolate tante passioni, si veda ora, dopo tre secoli, uscita alquanto dal giusto confine? Certo, che a quel modo che gli Ariani calunniavano i cattolici di Sabellianismo, ed Eutiche li dicea Nestoriani, e Pelagio gli accusava d' essere Manichei (1); così que' teologi moderni continuano a pigliare per loro caval di battaglia, come i loro predecessori, il Protestantismo, il Bajanismo e 'l Giansenismo, ed ella è dolorosa cosa a vedere, come, senza rispetto alla verità od alla carità, ne appongano altrui la colpa, o se non posson di più, ne faccian rumore, ne diffondan sospetti. Il che ben dimostra altresì quanto sieno alieni dalla vera ubbidienza alle leggi della Chiesa. Perocchè quante volte i sommi Pontefici non s' opposero alla temerità, colla quale i teologi inclinati al razionalismo accusavano di Bajanismo e di Giansenismo tutti quelli che non andavano loro al verso, non solo pigliando le difese de' calunniati, come vedemmo, e astringendo i calunniatori a ritrattarsi (2); ma ben anco divietando con solenni decreti di dare appellazioni così ingiuriose a chi non tiene le proposizioni da lor condannate! Così fece Innocenzo XI con Decreto de' 2 marzo 1679. Così fece Innocenzo XII col suo Breve de' 6 febbraio 1694 ai Vescovi del Belgio ordinando loro, [...OMISSIS...] . Ma, non essendo state sufficienti tali ordinazioni a contenere i falsi zelanti, Clemente XI dovette pubblicare la sua Bolla, che incomincia « Pastoralis », de' 2. agosto 171., nella qual dice, [...OMISSIS...] . Le quali parole gravissime che valsero? Hanno forse obbedito almeno a sì minaccevole Bolla i teologi inclinati al razionalismo? Hanno deposto quel loro « consuetum calumniandi modum », di cui parla il Pontefice? Non vel crediate. Onde Clemente XII si vide di nuovo costretto a pubblicare contro di essi un' altra costituzione, che incomincia « Apostolicae providentiae officio » del 2 ottobre 1773, nella quale deplorando le loro tenebre dice: [...OMISSIS...] , e passa a reprimere le calunnie, imponendo pene a' calunniatori. I quali non cessarono perciò di vessare colle nere tacce di Bajanismo e di Giansenismo le due preclarissime scuole Tomistica e Agostiniana; di che Benedetto XIII colle sue lettere in forma Brevis , che incominciano « Demissas preces » a tutti i Frati dell' ordine de' predicatori, scrivea confortandoli, [...OMISSIS...] . Ed ora, in questo nostro secolo, questi figliuoli di dissensione , secondo la frase di Clemente XII; questi diffonditori di tenebre, tenendo sè stessi nelle tenebre, mandano pure alla luce nuove calunnie, ripigliando il gioco de' loro antenati, e nella piena pace della Chiesa, seminano altre discordie; nel che sono tanto più riprensibili, quanto che non ne fu loro data nessuna, nè pure apparente, cagione. Conciossiachè quelle sentenze che essi dichiarano infette degli errori proscritti, non hanno nè pure qualche analogia coi sistemi di Bajo e di Giansenio. [...OMISSIS...] (1). Si osservi dopo di ciò che lo stesso riprovevole artifizio che movea gli eretici ad opporre a' cattolici la taccia d' eresia, li conducea pure a spacciare per soli cattolici sè medesimi. Ed anche di questo mal costume veggonsi deplorabili imitazioni nel recente attentato de' nostri teologi anonimi. E in vero asserendo il finto Eusebio Cristiano che tutti i cattolici sostengono la sua opinione (2), egli già dichiara con ciò accatolici quanti rifiutano d' opinare con lui. Collo stesso tuono insolente e temerario vanno scritti i libricciattoli che ogni dì si moltiplicano de' suoi seguaci. Specialmente pretendono di formar essi soli il corpo de' teologi italiani; e fra i colpi di mano che provano la loro miserabile destrezza, accennerò quello con cui, sorpresa la buona fede di un giornalista oltramontano, gli fecero inserire un articolo che incomincia con queste parole: [...OMISSIS...] (1). Più tardi questo giornale, l' « Union », avvertito della sorpresa che gli si fece corresse il suo articolo (2). Ma quell' articolo si rimarrà tuttavia un monumento di più dell' arti infami della fazione de' teologi nostri razionalistici. Questi dunque parlano in quell' articolo com' essi fossero tutta l' Italia, e come altri teologi non v' avessero fuori del loro numero. Ma qual è questo numero? Nessuno lo sa in Italia. Quali sono almeno i loro nomi? di grazia, si pronuncino; udiremo le cime della teologia italiana. Non è così; nessuno in Italia li può nominare, perchè han vergogna di manifestarsi, [...OMISSIS...] . Alcuni ANONIMI diffondono in secreto de' libercoli, de' quali gli spropositi furon messi supini alla luce del sole: eccovi tutti i teologi d' Italia di cui parlò l' « Union » senza conoscerli, o, per dir meglio, che parlarono nell' Unione! E qui, giacchè me ne si dà l' occasione, e men cade la necessità, farò quello che altramente parrebbe offendere la modestia: invierò cioè i miei pubblici ringraziamenti al chiarissimo sig. Federigo Del7Rosso, professore di pandette nella regia università di Pisa, e al signor dottore in teologia abate Gio. Fantozzi, i quali poco fa s' aggiunsero difensori alla santa causa del vero e della divina religion nostra (1). E che la causa presa a difendersi contro gli sconosciuti teologi, dopo che da tant' altri (2), da questi due valent' uomini, non sia la mia personale, ma quella della verità e della sana dottrina, provalo anche il non esser io a lor conosciuto di volto, nè di letteraria corrispondenza; e il non aver essi temuto d' affrontare quella sottilissima maldicenza (parlo di cosa pubblica), che non pur si pratica colle stampe, ma ancora, a guisa di lubrico serpe, s' insinua per le rime e per gli pertugi, nelle case de' grandi del secolo che più professan pietà, e in quelle dei religiosi e fin delle religiose, e le contamina di suo veleno. Imperocchè quegli uomini dotti, e di soda religione forniti, non occultarono già al pubblico vilmente i loro nomi; chè il difensore della verità non ha cagion di vergogna; e la verità stessa, massimamente poi la cattolica verità, conforta siffattamente il suo campione, che gli fa piacere l' obbrobrio che dovesse per lei sostenere. Gli stessi ringraziamenti poi e le stesse lodi da me si debbono al chiarissimo sig. canonico e teologo don Lorenzo Gastaldi (3), e all' ottimo mio confratello e missionario apostolico don Gio. Battista Pagani (4), i quali, animati dallo stesso zelo purissimo per la sana dottrina, negli opuscoli coi quali la difesero, impugnando l' error contrario, esposero pure lealmente i loro nomi, e quasi le loro fronti agli insulti di quelli occulti, che di soppiatto coi mezzi più illegittimi le fanno guerra. Se dunque si dovessero allegare i teologi italiani , questi per fermo potrebbero addursi in mezzo per italiani teologi, ed altri che scrissero nella stessa sentenza, di cui si conoscono i nomi onorati e la dottrina; nè parrà mai ragionevole che s' arroghino di essere soli rappresentanti de' teologi italiani alcuni pochi, di cui s' occulta il nome, si sentono i vanti, si ammira l' ignoranza, si abborriscon gli errori tali da far credere, che piuttosto che de' teologi, degli increduli beffardi sotto le loro maschere si nascondano (1). Conciossiachè cotestoro, benchè invitati replicatamente a manifestarsi, continuano a tenersi carissime le loro tenebre, e a mandar fuori i loro scritti senza data di luogo e di tempo (2), e senza nome, ovvero con nome finto e vanaglorioso, o con nome segnato a sole iniziali, le quali, giudicandosi dallo spirito d' errore da cui sono raggirati, si dovrebbe credere che mentiscano anch' esse. Nel qual loro procedere continuano a dimostrare la falsità dello zelo che ostentano per la religione, imitando nuovamente gli eretici nel disprezzo delle leggi della Chiesa e de' sommi Pontefici, giacchè Clemente VIII, e di nuovo ultimamente Leone XII, ebbero decretato che non si stampi alcun libro, il quale non porti in fronte il nome, il cognome e la patria dell' autore, o, se vi è giusta ragion di tacerlo, il nome almeno del censore ecclesiastico che abbia esaminato il libro ed approvatolo (1). Ed or, a malgrado che noi, rispondendo ad Eusebio, l' abbiamo di tale disubbidienza alla Chiesa ammonito (2), i suoi seguaci e discepoli non per tanto vanno innanzi dello stesso tenore, facendo così conoscere se sia la Chiesa che stia loro in sul cuore, le cui leggi conculcano ad occhi aperti; o più tosto quel reo partito in cui si sono ostinatamente collegati, da alcuni sostenuto, il confesso, sol per cieca consuetudine, e, per passion presa, a corpo morto difeso. Ma quello che è più singolare si è, che, quantunque incogniti, menan alti clamori, che io non tratti con esso lor dolcemente. Che significato ha mai questo lamento in bocca di persone occulte? Chè, appunto da ciò stesso che stanno celati, ogni discreto può ben convincersi, che a disvelare quel veleno di razionalismo pratico che fa lor dire tanti errori, non mi muove animosità personale; e che se talora adopero, traendolo in aperto, delle maniere forti di dire (entro i confini però del giusto e del vero), queste non feriscono persone determinate, ma sono v“lte ad eccitare gl' incogniti, qualunque sieno, ed a scuoterli, acciocchè veggano, se non traviarono ancora del tutto, quanto irreligioso, quanto deforme e pernicioso a sè stessi sia il loro procedere, quanto erronea la loro dottrina, e salutarmente se ne vergognino. Certo non potevo io credere al cominciamento di questa lizza, nè l' avrei creduto giammai quand' anco me l' avesser giurato egregie persone, che ci covasse sotto un impegno di molti congiurati alla diffusione d' un irreligioso sistema: alla possibilità di questo fatto non ci avevo pensato mai. Laonde, allorchè a' miei orecchi pervenne il rumore d' un opuscolo che censurava un' opera mia, non avendolo io ancor veduto, diffidai grandemente di me medesimo, conscio d' essere troppo fallibile, e mi consolai insieme colla mia fede; mi consolai pensando che il cuor mio e l' anima mia non avea professato, nè professava altra dottrina da quella in fuori della Sede apostolica, quand' anco mi potesse essere sfuggita dovecchessia qualche espressione od opinione inesatta per ignoranza od inavvertenza (1), ed ero troppo disposto a dir loro con sant' Agostino, [...OMISSIS...] (2). Ma veduto poscia il libello del finto Eusebio, insiem col pubblico che ne portava simil giudizio, nè pur io vi scorsi altro che un meschinello che s' era riscaldato non poco il capo. Nella Risposta adunque e gli additai gli errori contro la sana teologia ch' egli evidentemente prendeva, e gli mostrai che tutti i dottori ch' egli citava, probabilmente sull' altrui fede, dicevano espressamente il contrario di quello ch' egli loro metteva in bocca, e sopra tutto mi lamentai com' egli avesse addotti tanti brani delle mie opere tronchi, alterati, evidentemente male interpretati ed intesi, lasciandogli poscia aperto il campo ad una ritrattazione, qualora fosse di buona fede; la quale, se sempre è onorevole e doverosa a quelli che sbagliansi a pubblico danno, niente poi dovea costare ad uno incognito. E però io speravo ch' egli avrebbe dato al mondo questa prova, che ciò ch' egli avea scritto in un modo cotanto alieno dal vero e dal convenevole, non era stata l' opera dell' impostura, nè ci covava alcun reo disegno. Ma andò fallita la mia speranza. In quella vece ammutolì ben egli, ed una sola scusa non fece o alle dottrine falsamente attribuitemi, o agli altri suoi propri sbagli. Del che, pazienza; chè il suo silenzio potea valere in vece di parole di pentimento. Ma quale fu poi il mio stupore e il mio disinganno al vedere uscire ben presto in pubblico uno sciame di altri anonimi, i quali, dissimulando in tutto o nella maggior parte, e più sostanzial delle cose, le ragioni evidentissime colle quali io avea convinto Eusebio d' innumerevoli falsità di fatto e di dogma, si fecero a ricantare le stesse menzogne, e ad inserire gli stessi semi, alla cattolica fede sì funesti, di pelagianismo e di razionalismo? Questo avvenimento m' aperse gli occhi, e mi spiegò tanti altri fatti della teologica storia degli ultimi secoli, di cui io non avevo mai c“lto bene il segreto. Certo nè io conobbi allora, nè conosco adesso chi sia l' uomo che si ascose sotto il finto nome di Eusebio Cristiano, nè di conoscerlo nutro vaghezza. Quanto poi agli altri anonimi, che gli sottentrarono nel tristo arringo da lui aperto, e dov' egli cadde, niuno d' essi conosco, almeno con certezza, non prestando io intiera fede alle voci che pur ne corsero. Anzi, troppo persuaso a mie spese, che i calunniatori non mancano, quanta non ho io ragion di temere, che anche le persone additate siccome autrici di quegli indegni libercoli, sieno segno di scellerata calunnia? Comecchessia la cosa, che lascio al giudizio di Dio, e vorrei nasconderla, se per me si potesse, a quel degli uomini, egli è troppo chiaro che non trattasi più di un individuo accidentalmente ingannato; trattasi di molti associati nei medesimi sentimenti, collaboranti al medesimo fine; trattasi di una fazione non surta adesso, di un sistema di dottrine tradizionali, il cui effetto, se prevalesse, sarebbe quello (ne abbiano essi coscienza o no), di scavare, come accennammo, il fondamento alla religion rivelata, qual è il dogma del peccato d' origine, di render vana la morte di Cristo, vani i sacramenti da lui istituiti, il che è quanto dire di rovesciare il Cristianesimo, la cattolica Chiesa, e quella stessa pietra, su cui ella è fondata. Non dirò io esser questo lo scopo conosciuto e voluto dagli scrittori anonimi di cui parlo, ma dirò che questo è l' effetto inevitabile di loro dottrine; ed egli è oggimai necessario che sia pienamente conosciuto al pubblico: nell' avvenuto scorgo la Provvidenza che il vuole. Scrivo adunque, ubbidendole; scrivo, rispondendo a degli scrittori inetti che non meriterebbero ch' altri entrasse con essi a tenzone, mentre taccio con altri, benchè dotti, che mi onorano di loro osservazioni in altri argomenti scientifici, perchè coi primi pericola la causa della fede e non co' secondi; scrivo senza aspettazione di lode che in altre materie potrei forse raccogliere; scrivo, interrompendo il corso d' altre mie doverose occupazioni, e privando a tempo il pubblico di quello che da me aspetta e che gli promisi: scrivo, a malgrado dell' indifferenza di questo secolo in opera di religione, che, penetrata ne' buoni stessi alla loro insaputa, son presti a darvi biasimo dell' entrar che facciate in questioni teologiche, per quantunque importanti, importanza che essi non veggono; scrivo a malgrado di que' prudenti, che temon sempre, e consiglianvi o fuggir tali brighe, più solleciti d' una falsa pace, che della madre della pace vera, la verità; scrivo, non ignaro delle persecuzioni che tale scrivere seco adduce, rassegnato a patir quelle che mi s' aggiungeranno, come a Dio piacerà, alle patite sin qui; scrivo, conoscendo quanti sieno per farsi a me giudici colla leggerezza che è il carattere dei tempi, senza precedente dottrina, senza usare di bastevole studio, senza ponderare le mie parole, senza intenderle; scrivo in somma ripugnandomi l' inclinazione, il dover comandandomelo, non per odio d' altrui, non per amor di me stesso, se ben m' intendo; ma solo per la causa di Cristo, della sua croce, della sua Chiesa, de' suoi sacramenti, a cui l' uomo inimico sempre fe' guerra, ed ora la trama più sottil forse e più insidiosa che mai coll' insinuare il più cavilloso razionalismo nel seno stesso della Chiesa. Chi avrà letto la « Dottrina del peccato originale » contro il finto Eusebio, e le « Nozioni di peccato e di colpa », contro il primo articolo dell' « Esame critico7teologico », ed avrà meditato le osservazioni che que' due miei scritti contengono, già si sarà pienamente convinto che pur troppo oggidì si spacciano presso di noi delle dottrine razionalistiche, corrodenti i visceri del Cristianesimo. Laonde intenderà agevolmente la cagione, il bisogno di questo terzo opuscolo, che continuandosi a que' primi apertamente le sveli, e quasi le denunzi a' pastori della Chiesa. Ci danno poi occasione d' innalzare questo terzo grido ai custodi d' Israello, i nuovi articoli usciti, che senza saper replicar cos' alcuna a quello che noi abbiamo risposto, seminano gli stessi errori, tenendosene sempre occulti gli autori. Uno di essi, che si mantella sotto le lettere iniziali C. B. P., ne stampò due a Firenze (non avendoli potuti stampare in Roma) all' insegna di Clio (1.41) contro i teologi piemontesi compilatori del « Propagatore religioso », che avean reso al finto Eusebio quella giustizia che si meritava. Fu risposto al primo vittoriosamente dal signor teologo Gastaldi. Mi giunse or solo alle mani il secondo, benchè stampato da più d' un anno; chè l' autore, o quelli che il fecero per lui stampare, secondo la tattica loro propria di operar sempre per vie segrete, ne ritrassero tutti gli esemplari in Roma; ed ivi solo, per quanto io so, cautamente il diffusero, sperando che, non essendo ivi io presente potessero farvi qualche breccia, prima che ne pervenisse a me la notizia, quasichè nella capitale del mondo cattolico si potessero con tutta facilità vendere i pruni per melaranci. A' quali articoli di C. B. P. uscì compagno l' articolo secondo (1) dell' « Esame critico7teologico », non so se anteriore, posteriore o contemporaneo, perchè l' autor di questo, più pudico ancora del suo confratello, nascose col proprio nome anche il luogo e il tempo fin della stampa. Ed a questi pubblici attacchi non si cessa mai d' accompagnare i privati, secondo il costume anche qui delle sette ereticali: lettere artificiose, maldicenti parole, [...OMISSIS...] , per usare le parole che s. Girolamo rivolse ad Elvidio, [...OMISSIS...] ; non finendo poi di amplificare con aria di religiosa riverenza i grandi uomini, che sono quelli che, sotto coperta di straziar me, strazian la Chiesa; i quali per pura modestia si turano il viso; chè forse non li offenda del sol la luce. Ma deh che mai fanno con tali vanti di grandezza, se non invitare gli occhi del pubblico a misurarne la piccolezza? e in vece di crescer credito alle ree dottrine, discreditarle? Perocchè, di che statura sien quelli che le seminano, fingendosi miei oppositori, ognuno il può ben vedere, anche ignorandone i nomi, giacchè non occultan perciò nè l' intrinseca erroneità delle loro scritture, nè i difetti accessorii, la triviale erudizione, il tuon magistrale con cui pronunciano tante inezie, e quelle stiracchiate argomentazioni, su cui C. B. P. specialmente (che per brevità d' or innanzi citeremo colla sua prima lettera C) sospende quasi sull' eculeo il lettore; che da vero, volendo io celiare, se me ne restasse vaghezza in tanta gravità di cose, direi che quel mio gaio parente di Girolamo Tartarotti, aggiungerebbe, vivendo, qualche ottava per celebrarle, al suo famoso poemetto delle « Conclusioni ». Il signor C. poi va sì d' accordo coll' Anonimo autore dell' « Esame critico7teologico », che lo ricopia, se non è ricopiato, ne' sofismi, negli sbagli, nei bassi costumi, nelle frasi pedantesche del dire; sicchè rifiutato l' uno, è rifiutato anche l' altro; nè gli errori e i costumi d' entrambi differiscono poi da quelli del finto Eusebio, di cui prendono a sostenere la causa perduta, quantunque insieme l' onorino del titolo di linguacciuto (1), e con gravità l' esortino « « ad adoprare più blandamente »(2) ». Esaminando adunque tali opuscoli e le loro accuse, darò un nuovo saggio del rincrescevole fatto, che giova avverare, cioè che anco nelle scuole teologiche, anche in questa nostra Italia, le razionalistiche dottrine, se non s' accorre al riparo, vanno dannosamente introducendosi. Ma prima d' additare al pubblico questi nuovi documenti di fatto, prima di dimostrare come i recenti teologi accusino di bajana e di gianseniana la dottrina stessa cattolica, affine di far prevalere il razionalismo nelle scuole della sacra teologia; io debbo scaltrire il pubblico, di nuovo, contro la lor mala fede, che è il principale, anzi l' unico nostro avversario, alle seguenti cautele richiamando tutti quelli che bramano conoscere il vero. 1 Che ogni qual volta gli occulti teologi espongono le nostre opinioni, essi non sono degni di fede; ed io rigetto tutte in fascio quelle ch' essi ci appongono, perchè non ve n' ha forse una sola che non sia da essi inventata, o alterata, tale quale la producono: 2 Che io chiedo all' equità pubblica di essere giudicato sui miei proprii scritti e non sui laceri brani ch' essi n' adducono e commentano con suprema malizia: 3 Che venga osservata la dissimulazione che essi fanno degli argomenti irrepugnabili da me addotti contro di loro negli scritti precedenti, ai quali essi mai niente risposero. Dopo di ciò merita, che si osservi la cavillosità del loro argomentare, massime quando maneggiano quell' arma che dicevamo così favorita agli eretici, d' apporre altrui falsamente la taccia o il sospetto dell' eresia contraria a quella a cui essi pendono: un esempio schiarirà meglio quanto vo' dire. Alla faccia 361 dell' « Antropologia », io scrivea, che [...OMISSIS...] Nella « Risposta poi ad Eusebio », faccia 253 scrivea pure: [...OMISSIS...] Or il C. sente in questi due brani odore di Giansenismo! Perocchè nota, ecco il cavillo, che con inesattezza di parlare io adopero le parole contrario e contraria , in luogo di contraddittorio e contraddittoria , come appunto pure fecero i Giansenisti, di che conchiude altresì, che io confondo una cosa coll' altra: [...OMISSIS...] . Ma dove riesce questa sì frivola cavillazione? Ad accusare non più me, che i santi dottori della Chiesa, e i Concilii ecumenici, che han fatto sempre lo stesso uso della parola contrario . S. Tommaso in un luogo de' molti dice: [...OMISSIS...] ; e il sacro Concilio di Trento adopera il medesimo modo di favellare ogni qual volta scrive, [...OMISSIS...] . Onde applicando le parole con cui tosto appresso il C. riprende una maniera, a suo parere, sì impropria, dovrebbesi dire: [...OMISSIS...] Siamo adunque nuovamente ridotti a difendere s. Tommaso e il sacro Concilio di Trento contro il C., come li abbiamo dovuti difendere contro il finto Eusebio, e gli altri innominati, senza alcun pro finora per essi, ma con qualche pro, io voglio sperare, pe' fedeli, a cui vantaggio scriviamo. Quanto dunque al « « confondersi l' una cosa coll' altra, » » io dimando, se ne' luoghi citati del sacro Concilio, di s. Tommaso, e del minimo discepolo e figliuolo della Chiesa, il Rosmini, la parola contrario abbia dell' equivoco, ovvero esprima men chiaramente un sentimento cattolico? Non vi può essere nessuno che ne dubiti; giacchè la parola contrario negli addotti luoghi non ammette che un solo senso, e questo cattolicissimo. Dunque il finto Eusebio ed il C. non possono accusare di confondere una cosa coll' altra nè il Concilio di Trento, nè il Dottore angelico, nè quanti usano delle loro maniere di favellare. Ma se non v' ha confusione d' idee nell' uso che della parola contrario fanno il sacro Concilio ed i dottori della Chiesa, tuttavia, insiste il signor C., vi ha [...OMISSIS...] . Prima di rispondere, farò osservare che qualora ciò fosse (e non gliel accordiamo certamente), non tratterebbesi più d' inesattezza che abbia odore di giansenismo, ma di difetto grammaticale; poichè, riuscendo la proposizione chiara e vera, cessa ogni possibile censura sulle cose, e non restan inesatte che le parole. Così il C. confonderebbe la teologia colla grammatica. Ma non si può conoscere a pieno la frivolezza de' cavilli che usano i recenti nostri teologi, se non rivedendo tutto per disteso il processo che il C. fa addosso a quelli che ad imitazione dei Giansenisti, usano la parola contrario nel senso dell' Angelico e del sacrosanto Concilio; i quali tutti, nella povera persona mia, compariscono per rei convenuti. Egli comincia assai bene; perocchè stabilisce, che [...OMISSIS...] . - Che è questo che dite su? Potrebbe egli essere un artificio ereticale quello di seguire una regola sicurissima , ed un canone ricevuto da tutte le scuole? L' imputar questo agli eretici, è egli un confutarli, o non più tosto uno sgagliardire la causa cattolica esponendola alla derisione? Sarebb' egli forse questo il vero vostro scopo, mio signor teologo? Chi vuole abbattere efficacemente i gianseniani e gli altri eretici, non dee riprenderli di seguire una regola sicurissima e da tutte le scuole cattoliche ammessa, anzi dee mostrar loro che se n' allontanano, anche dove fanno le viste di seguitarla. Ma che ha poi da fare questo colle colpe che il C. trova nell' uso della parola contrario fatta da me, non sull' esempio de' Giansenisti, ma su quel della Chiesa? - Non manca la relazione. Acciocchè il peccato, di cui mi vuol reo, d' aver seguita la Chiesa nell' uso della parola contrario , appaia più smisurato, egli osserva, che quand' anco in vece di contrario , io avessi usato contraddittorio , non gli sarei sfuggito di mano. Perocchè avrei sempre usato d' un miserabile artificio de' Gianseniani che in perfidia e in mala fede non hanno pari; i quali, per eludere le bolle pontificie, prendono spesso a far uso di una regola sicurissima , e di un canone ricevuto da tutte le scuole! Per più sicurezza adunque, che non gli sguizziamo, ci fa sapere, che quand' anco noi avessimo parlato, com' egli stesso c' indetta, e la santa Chiesa avesse usato il suo barbaro contradictorium , in vece del latino contrarium che sempre usò; saremmo gianseniani egualmente. Ma veniamo più alle strette. - Che inesattezza di parlare è ella l' adoperare contrario in vece di contraddittorio , in que' luoghi ne' quali l' una e l' altra parola vale il medesimo? - Ve lo dirà il C.. Se è un primo artificio de' Gianseniani l' argomentare che una proposizione è vera, quand' è contraddittoria ad un' altra condannata, regola però sicurissima , e canone ricevuto da tutte le scuole; quegli eretici hanno poi un secondo artificio che il C. così sagacemente disvela: [...OMISSIS...] . - Gli resterebbe adesso a provare che noi abbiamo scambiata qualche proposizion contraria , con qualche proposizione contraddittoria alle condannate; ma questo è quello che egli si dimentica di fare. Se nelle proposizioni del sacro Concilio, di s. Tommaso, e nelle mie, alla parola contrario si sostituisca contraddittorio , diventan forse altre proposizioni di senso diverso? Mai no. Dunque non è il caso, in cui una proposizione venga all' altra sostituita. Egli non dissente dall' accordarcelo; anzi perciò appunto conchiude, dopo sì lunghe premesse, che la colpa nostra non è che una inesattezza di espressione sfuggitaci (2). - Ma se voleva dir questo solo, a che trar fuori i maligni artifizii degli eretici? Se la conclusione del suo discorso dovea essere, che noi abbiamo commessa un' inesattezza grammaticale, con che logica conseguenza deduce, che noi, cioè il sacro Concilio e gli altri miei socii, siamo sospetti d' eresia? - Doh? acutezza d' ingegno! Sillogizza egli così: Voi altri siete inesatti nell' uso delle parole, senza alterazione però della dottrina. Ma quella inesattezza di parole fu adoperata altre volte dagli eretici. Dunque sembra che voi altri vogliate stabilire quella inesattezza, acciocchè poi gli eretici se ne prevalgano contro le verità definite. - Possibile tanta stiracchiatura? - S' ascoltin di nuovo le proprie parole, colle quali conchiude: [...OMISSIS...] . Il sospetto è grave. Ma via, che poche linee appresso, ci fa grazia soggiungendo che è affatto improbabile che noi abbiamo voluto stabilire una regola sì rea (2). Ma non essendo però certo il contrario, rimaniamo tutti sospetti. Ma via, avvi almeno qualche inesattezza grammaticale nell' usare contrario per contraddittorio? - Nessunissima. A parte la giovanile pedanteria, che in qualche testo di scuola va rinvergando le arbitrarie distinzioni del senso delle parole. Ecco qual è la differenza vera e primaria tra la voce contrario e la voce contraddittorio . L' etimologia della voce contraddittorio dimostra che ella s' istituì a significare un detto contrario ad un altro detto . La voce poi contrario , non ha questa limitazione di significar solo la contrarietà dei detti o delle proposizioni; ma stendesi ad esprimere egualmente la contrarietà che hanno fra loro e i detti, o l' altre cose. Quindi dirassi acconciamente, che il caldo è contrario al freddo; ma non così, che il caldo è contraddittorio al freddo. All' incontro di due proposizioni contrarie si dice con egual proprietà che sono contrarie, ovvero contraddittorie, poichè contraddizione non significa altro che la contrarietà appunto di due proposizioni. E` questa la prima ed original differenza che corre tra le due voci contrario e contraddittorio; e da essa si posson dedurre tutte le altre, di cui qui noi non abbisogniamo. La conclusione adunque si è, che qualora si tratta di proposizioni contrario e contraddittorio valgono il medesimo; là dove quando si tratta di cose, impropriamente s' adopera la voce contraddittorio ma si dee adoperare la voce contrario . Ora noi parlavamo di proposizioni. Dunque l' osservazione del C. è vana. Conciossiachè non si possono dare proposizioni che veramente sieno contrarie fra loro (il che significa tutt' altro dall' esser diverse e dall' esser opposte ) (1), come sono quelle che io adducevo, le quali non sieno medesimamente contradditorie: poichè la loro contrarietà consiste appunto nell' avere contraddizione a differenza della contrarietà che aver posson le cose, la quale si chiama semplicemente contrarietà. Finiamola adunque con un verso del Petrarca, [...OMISSIS...] A tali cavilli sono astretti di ricorrere i teologi che hanno preso inclinazione al razionalismo: innumerevoli conferme se n' avranno in quanto diremo in appresso. Ma oltracciò hanno bisogno d' aggiungere a' cavilli un' altr' arma, nel maneggio della quale sperano assai, voglio dire, le falsità. Prendiamone intanto un esempio dal recente articolo del signor C.. Tratta innanzi la proposizione XLVI (2) di Bajo (giacchè a queste sempre ricorrono, siccome a quelle, di cui non essendo definito il senso preciso dalla bolla di condanna, possono facilmente abusare), così egli scrive: [...OMISSIS...] . Ma il vero si è, che nè il Propagatore nè il Rosmini ha mai insegnato nulla di simile. Dunque con questa falsità non fa il C. che accrescere il numero di quelle innumerevoli, che abbiamo notate ne' suoi predecessori e maestri co' due scritti a questo precedenti, invitandoli a giustificarsi, senza che abbiano più osato zittirne. Dando adunque il suo luogo alla verità, il « Propagatore » dimostrò, che tanto se la parola volontario nella citata proposizione di Bajo si prende in senso di volontario semplice , quanto se si prende in senso di volontario libero; quella proposizione non può mai applicarsi a condannare la dottrina della Chiesa da noi seguita. Questo non è certamente un insegnare, che quella parola si debba prendere in senso di volontario semplice, come asserisce il C.. Scoperta la bugia; egli è uopo che si vegga anche com' essa venga manipolata strada facendo moltiplicandosi, e da sè medesima fecondandosi. Da prima il teologo nostro, in vece di esporre la indicata alternativa, FINGE che i due membri di essa sieno due argomenti diversi adoperati successivamente dal Propagatore; e lo riconviene di contraddizione. E certo, che l' uno di quegli argomenti non può stare insieme coll' altro. Poichè se il voluntarium della proposizione di Bajo vuol dire volontario semplice , esso non può voler dire libero , e viceversa. Compiacendosi quindi di questa sua bell' INVENZIONE, scorrazza e trionfa a sua posta per molte faccie del suo articolo! (2) Dopo aver così finto, che il Propagatore rechi due argomenti successivi, nell' un de' quali supponga che il voluntarium significhi volontario semplice , e nell' altro che significhi volontario libero , sopprime quest' ultimo membro dell' alternativa, e dichiara avere il Propagatore INSEGNATO doversi prendere il voluntarium in senso di volontario semplice! (3) Per quello che riguarda a me, sono trattato colla stessa onestà. Dice che anch' io insegno , doversi prendere in senso di volontario semplice la parola voluntarium nella proposizione di Bajo (1). Se non che il suo mentire riesce più sguaiato; poichè 1 lungi dall' aver io insegnato, che il voluntarium di Bajo si debba prendere per volontario semplice , ho dichiarato espressamente il contrario. Mi si permetta di riprodurre le mie parole: [...OMISSIS...] . 2 Perchè il dire che io ho insegnato doversi prendere il voluntarium della proposizione per volontario semplice, cozza con quello ch' egli stesso poche faccie innanzi avea confessato, scrivendo, [...OMISSIS...] . Ecco adunque dimostrata in pratica quale sia la morale del razionalismo , quella morale che fu condannata in teoria da Innocenzo XI e da altri sommi Pontefici: si può mentire e calunniare ogni qual volta sembri necessario a sostenere il proprio partito. Ma ond' avviene poi, che i teologi nostri tanto si sdegnino al solo immaginare (ed è tutta loro immaginazione, come vedemmo), che a talun piaccia intendere la proposizione di Bajo, [...OMISSIS...] d' un volontario semplice? Sarebbe forse un assurdo, l' intenderla così? Sarebb' egli un cadere nel Bajanismo? Direbbe forse un errore colui che dicesse, che alla definizione del peccato appartiene il volontario in genere? quasichè coloro che esigono alla ragion del peccato il libero , possano poi negarle, senza contraddirsi, il volontario semplice già compreso nel libero? No, che il dir questo non è errore, se pur non si vuole tacciar d' errore sant' Agostino, che, prendendo così appunto la parola volontario , tolse nel libro I delle sue « Ritrattazioni », cioè nell' opera che sopra tutte l' altre del santo Dottore dee fare autorità, a dimostrare, che [...OMISSIS...] . Perocchè ivi egli dice, che tanto chi pecca con volontà libera, quanto chi pecca con volontà necessitata, sempre pecca con volontà , soggiacendo questi secondi alla necessità in pena d' altri peccati liberi che precedettero. Dimostra dunque prima, che peccano con volontà quelli che peccano liberamente dicendo: [...OMISSIS...] . Dimostra poscia, che peccano con volontà quelli che peccano necessitati così soggiungendo: [...OMISSIS...] . Di che si raccoglie contro l' assunto del nostro nuovo teologo 1 che la parola volontà , e di conseguente volontario , non ha il solo senso di libero, com' egli pretende; 2 che la proposizione di Bajo merita di essere condannata ugualmente anco se colla parola volontario in essa adoperata s' intenda esprimersi il volontario in genere; 3 che l' intenderla così, e l' averla per condannata anche in questo senso, può essere un errore d' interpretazione, non mai un errore contro la sana dottrina; se pure non si dimostra prima, che sant' Agostino erri in tali materie. E ciò posto, perchè dunque, noi torniamo a chiedere, i nuovi teologi tanto s' allarmano solo immaginando, che il volontario di quella proposizione si voglia intendere per volontario in genere? N' hanno la loro ragione; ed è perchè, così intesa, ella ferisce nel cuore il loro erroneo sistema, tendente ad esaltare indebitamente la natura umana, pretendendola immune da qualsiasi vizio originale (2); sicchè e la libertà non abbia un assoluto bisogno della grazia del Salvatore, almeno per osservare compiutamente la legge naturale, e la ragione non abbia un assoluto bisogno della rivelazione, acciocchè possa l' uomo ottenere il suo fine: alle quali dottrine conduce lo spirito razionalistico, che hanno preso a loro guida. E veramente se colla condanna di quella proposizione è stato solamente deciso, che a costituire un peccato è necessario il libero , essi si credono licenziati ad affermare, che l' atto di libera volontà che pose Adamo peccando è tutto quanto il volontario che entra a formare il peccato originale de' posteri, senza che rimanga un bisogno al mondo di riconoscere un vizio intrinseco nella volontà di questi, ne' quali non può essere certamente il libero. Ma se s' intende in quella vece essersi deciso, che a costituire un peccato è necessario il volontario (libero o no); in tal caso non possono più dire che quella proposizione non riguarda menomamente il vizio naturale inerente alla volontà de' bambini. Conciossiachè ella potrebbe benissimo riferirsi alla volontà viziosa di questi; e tanto più che rimarrebbe facile a chicchessia d' argomentare in questo modo. Egli è di fede, che il peccato originale in Adamo, e il peccato originale ne' suoi discendenti, sono peccati numericamente distinti (1). Se dunque sono distinti numericamente i peccati, devono esser distinti del pari gli elementi che li compongono e li costituiscono. Ma il volontario è un elemento costituente il peccato per la proposizione XLVI di Bajo condannata. Dunque dee esservi un volontario distinto che costituisce il peccato di Adamo, e un altro volontario numericamente distinto dal primo, che costituisce il peccato del bambino da lui discendente. La quale argomentazione irrepugnabile vale, si noti bene, pel solo peccato , non per la colpabilità del peccato , che tutta si dee desumere dalla libertà del primo padre che lo commise. Sebbene noi qui non abbiamo veramente bisogno d' insistere sul senso del voluntarium , che trovasi nella proposizione di Bajo; giacchè ad ogni modo sembra chiaro, che, come in ogni discendente di Adamo, ci ha un peccato proprio , così dee esserci un volontario proprio , cioè uno stato della volontà peccaminoso ed empio; non potendo la volontà di un uomo, per esempio di Adamo, essere nè l' elemento costitutivo, nè il soggetto del peccato originale, in quant' è proprio del suo discendente, e però distinto di numero da quel di esso Adamo. Come adunque Eusebio e i suoi compagni possono confessare sinceramente la fede cattolica che riconosce un proprio peccato ne' posteri, quand' essi escludono ogni infezione ed ogni vizio dalla volontà di questi, e però riducono il peccato (pel quale non intendono che un atto libero ) alla mera imputazione estrinseca dell' atto libero e colpevole di Adamo? A cansare ogni rimprovero, pongono essi mano a due spedienti. Col primo cercano di tranquillare i teologi, facendo lor credere essere intieramente alieno dalla loro dottrina il distruggere il dogma del peccato originale; e consiste in dichiarare, che ammettono per elemento volontario costitutivo del peccato proprio del bambino la stessa volontà libera di Adamo; e però che ben riconoscono essere il volontario un elemento necessario a costituire il peccato, e anzi si lagnano come il Rosmini creda ch' essi gliel voglian negare (1). Ma essendo tuttavia impossibile il non riconoscere un manifesto assurdo nell' ammettere che il peccato proprio d' un individuo, per esempio d' un bambino, abbia per suo elemento costitutivo il volontario proprio di un altro individuo, per esempio di Adamo: ed il Cristianesimo ammettendo sì de' misteri, non mai degli assurdi (2), essi ricorrono al secondo spediente, col quale credono di tranquillare i filosofi, confessando loro, che la voce peccato, quand' essi parlano dell' originale, la pigliano in tutt' altro significato, [...OMISSIS...] (3). Così realmente essi distruggono il peccato originale, confessandolo nelle scuole teologiche , ma rendendolo un assurdo; e poi correggonsi nelle scuole filosofiche , cioè dichiarando che la parola peccato applicata all' originale de' bambini non significa più peccato. Ma badisi bene, che quando un dogma è reso un assurdo, egli è bello ed annullato in tutte le intelligenze umane; e quand' esso è ridotto ad una parola, basta un frego sulla carta ed è cancellato. No; i dogmi della Chiesa non consistono in meri vocaboli; sono ciò che i vocaboli significano, e costituiscono l' oggetto della nostra credenza: la Chiesa colle sue parole non cerca di illudere gli uomini. Laonde, come S. Gregorio Nazianzeno diceva, che [...OMISSIS...] ; così noi possiam dire, che la verità cattolica al tutto manca ne' nostri teologi, perchè manca « in eorum sententiis », quantunque si studino ad ogni possa di far apparire che ella vi sia « in sono verborum ». E dee parere pure, a chi un poco riflette, la strana cosa, che si diano degli uomini i quali vogliano far credere, che un peccato proprio possa esistere senza una volontà propria peccaminosa . Certo, il profondo Estio non solo parlava cattolicamente, ma in modo conforme al senso comune, dicendo che a stabilire il dogma del peccato d' origine ne' bambini non basta nè il solo volontario in Adamo, nè il solo volontario ne' bambini; ma che entrambi questi volontarii s' esigono; quel d' Adamo che è libero esigendosi a spiegarne l' imputazione ossia la colpabilità , quel de' bambini a spiegare la sostanza del peccato che viene imputato (2). Quindi egli è più chiaro del sole, che « Ad rationem et definitionem peccati requiritur voluntarium », non solo inteso il voluntarium per libero , qual fu in Adamo, ma inteso anche per volontario semplice e non libero, qual ora è ne' bambini che nascono, checchè altri si cianci. E s' abbia qui il lettore, se ancor ne dubita, una sopraggiunta d' altri argomenti, acciocchè nessuno più s' ostini a negare una sì preziosa verità del cattolico insegnamento, o se la nega, sia inescusabile. Cominciamo dalla Scrittura. La Scrittura dice non solo che, [...OMISSIS...] ; ma ella usa altresì come formola solenne, quest' altra: [...OMISSIS...] , formola consacrata anche dal Concilio di Trento e da tutta l' ecclesiastica tradizione (3). Ora i teologi nostri, che non riconoscono altro costitutivo del peccato originale de' bambini se non il volontario libero di Adamo, debbono di conseguente negare all' Apostolo ed alla Chiesa che i bambini sieno [...OMISSIS...] , e in quella vece sostenere che sieno [...OMISSIS...] . Ma or che cosa dicevano altro gli antichi Pelagiani? Non era questa appunto nel fondo la loro dottrina? Uno de' loro primi padri, Teodoro vescovo di Mopsuesta, non ebbe scritto appositamente un' opera in cinque libri partita « contra asserentes peccare homines NATURA non VOLUNTATE? (4). » E chi mai erano questi « asserentes peccare homines natura »? Secondo Teodoro, erano certi eretici dell' Occidente, che andavano contaminando la Chiesa, uno de' quali, da lui chiamato Aram ( imprecatio, maledictio , se pure il nome non è storpiato dai copisti) si prende da lui direttamente a impugnare. Nè, a dir vero, la franchezza di Teodoro, d' onorare del titol d' eretici quelli occidentali ch' egli impugnava, andò senza effetto; perocchè ne fu gabbato lo stesso Fozio quattro secoli dopo, che veramente si persuase, scrivesse Teodoro « adversus Occidentales hac labe infectos », com' egli s' esprime dando conto di quell' opera (5). E che perciò? Non ha egli la calunnia, come si suol dire, sempre corte le gambe? E qual altro frutto raccolse Teodoro dalla sua, fuor di quel dell' infamia? qual altro frutto raccolse dall' aver egli, eretico, chiamati eretici i cattolici, e nominato imprecazione o maledizione ( «ara») il dottor massimo della Chiesa, s. Girolamo? Erano adunque i cattolici che sostenevano, come dice Teodoro, [...OMISSIS...] . Così Teodoro duramente alquanto esponeva il sentir de' cattolici, siccome eretici da lui tradotti al giudizio pubblico e combattuti. Nè egli fa maraviglia, se esponesse i loro sentimenti con espressioni un po' dure solendo così fare tutti quelli che tolgono ad impugnarli, sperando di riuscirvi più facilmente, più che infedelmente gli espongono. Per altro egli era vero, che la cattolica Chiesa insegnava [...OMISSIS...] (2). In questo trovava l' assurdità Teodoro, e in questo la trovano i nostri teologi; i quali, per evitarla, vengono a dire che gli uomini non sono improbi per natura (la quale anzi è sana, sanissima), ma solo per la volontà libera del primo padre ben inteso, così essi aggiungono poi, che non trattasi d' un peccato secondo tutto il valore della parola, ma secundum quid , e quadamtenus (1), il che, a parlar chiaro, significa un peccato per cotal maniera di dire usitata, non già un peccato reale ed effettivo; del che rimarrebbe più che contento Zuinglio, che insegnava del pari, il peccato originale ne' bambini dirsi solo peccato per metonimia (2). Per altro, l' obbiezione di Teodoro precursore de' Pelagiani, di cui questi poscia fecero si grand' uso, che il peccato si debba sempre porre in essere dalla VOLONTA`, e non possa dalla NATURA; nasceva, a mio parere, dalla poca meditazione sulla umana natura. Quell' obbiezione in fatti rimane confutata assai facilmente, benchè di tanta apparenza, rispondendo loro in questo modo: « Sì, egli è vero quello che voi altri dite, che il peccato dee sempre essere costituito dalla volontà di colui nel quale si trova, perocchè, essendo il peccato proprio, anche la volontà che lo costituisce dee esser propria. Ma voi errate nel tirare da questo principio la conseguenza, che dunque l' uomo non possa essere peccatore PER NATURA. Vi avviene di cadere in questo errore, perchè non avete osservato con estensione bastevole la condizione della umana volontà: voi vi persuadete, che tutta la volontà si riduca agli atti di essa, ma la cosa non è così. Innanzi agli atti suoi vi ha la potenza stessa della volontà, la quale forma parte della umana NATURA. Se dunque questa potenza riceve una QUALITA` E DISPOSIZIONE IMMORALE, l' uomo è improbo ad un tempo PER VOLONTA` e PER NATURA, poichè, come si diceva, quella è parte di questa. Che poi questa disposizione immorale possa dirsi peccato (abituale); egli è facile a provarsi quando si consideri, che il peccato è un' inordinazione della persona umana , e che la volontà immoralmente disposta è quella che costituisce propriamente la persona dell' uomo. »Tutto questo discorso è coerente; e con esso riman dileguato quell' apparente assurdo, che gli eretici rinfacciano all' insegnamento della Chiesa circa il peccato originale; e giustificato appieno questo insegnamento. All' incontro i moderni teologi razionalisti, per isfuggire da quell' assurdo, fanno una transazione cogli eretici, colla quale, abbandonando loro la sostanza del dogma, si contentano di salvare alcune frasi, come coloro che, dando i denari a' ladroni, salvan la borsa (1). Ora l' accennata risposta, che, ben intesa, chiude la bocca agli eretici, chi ne considera il fondo, non è mia; ma è de' Padri e de' Dottori ond' io la trassi. Per non essere infinito, mi limiterò a mostrare com' ella si trovi, argomentando da' principii di S. Tommaso. S. Tommaso rassomiglia il peccato originale de' posteri al peccato della mano dell' omicida. La mano è mossa al peccato dall' omicida stesso; e così i posteri, motione generationis , sono mossi al peccato dalla natura peccatrice di Adamo generante (2). Il movimento peccaminoso della mano è come una continuazione del movimento peccaminoso dell' anima dell' omicida; e lo stato peccaminoso de' posteri è come una continuazione, mediante l' abito rimasto nell' uomo che ebbe peccato, del movimento peccaminoso di Adamo prevaricatore. Ma qui nasce una grave difficoltà. La mano non è veramente peccatrice; ma si dice tale per sineddoche, o per metonimia come direbbe Zuinglio, o quadamtenus come dicono i nostri anonimi. Nè pure i posteri adunque, secondo tale esempio, saranno in senso proprio e vero peccatori. Tale difficoltà si vince benissimo argomentando dai principii di S. Tommaso. Il principio fondamentale, che egli pone è questo, [...OMISSIS...] Ritengasi bene questo principio, che è il fondo dell' argomentazione dell' Angelico, e non badisi materialmente alle parole. Argomentando da un sì chiaro e fecondo principio, che si deduce? Si deduce, che la similitudine della mano dell' omicida, benchè in sè stessa opportuna a illustrare il concetto, per accidente poi in qualche cosa non calza, come accade sempre colle similitudini. Ma il principio riman generale: « Il peccato è ricevuto secondo che quello a cui si comunica può essere o no soggetto di peccato. » Resta a dimandarsi: la mano può ella esser soggetto di peccato? Rispondesi: propriamente parlando no; ma per un cotal traslato può essere considerata come tale, a preferenza dell' asta e della spada (1). All' incontro poi, la volontà personale de' posteri è indubitatamente soggetto di peccato assai meglio della mano, perchè ella non è tale in linguaggio figurato, ma in senso proprio. L' infezione morale adunque, trovando nelle persone umane a cui si comunica, veri soggetti distinti di bene e di male morale, vi è ricevuta come tale e diviene in essi un vero peccato. Tutta questa dottrina dell' Angelico, intorno all' essenza ed alla comunicazione del peccato dimostra, 1 ch' egli considera i bambini come riceventi dalla mozione del generante l' atteggiamento peccaminoso; 2 che ricevono quell' atteggiamento come la mano riceve il movimento peccaminoso dall' omicida; ma che in essi è peccato più proprio che non possa essere nella mano; perchè essi sono veri soggetti idonei di peccato distinti dal generante; mentre la mano non è soggetto di peccato distinto dall' omicida, ma dicesi tale per un parlar figurato; 3 che i bambini sono soggetti di peccato, perchè hanno una volontà personale, onde a questa è comunicata l' inordinazione in cui il peccato consiste. Dalla qual maniera, che usa l' Angelico a spiegare, in che guisa i posteri sieno peccatori per natura , si può agevolmente dedurre, che se il loro peccato vien messo in essere dalla natura , è ad un tempo la loro natura morale quella che, essendo suscettibile di peccato, propriamente ne rimane affetta, la qual natura morale è la loro propria volontà personale: onde essi sono costituiti peccatori per volontà; e quindi cessa l' assurdo obbiettato dagli eretici. Nel che sta la sostanza della risposta nostra a Teodoro. Ma ora passiamo a vedere come i recenti teologi scavano sotto anche le fondamenta al dogma del peccato originale, e ad altri molti ad un tempo, distruggendo il concetto della volontà semplice , e altra volontà non riconoscendo nell' uomo che la volontà libera: quindi escludendo ogni altra specie di moralità, fuor di quella che dall' uso della libertà si produce. Il C. prende a far tutto ciò in un lunghissimo tratto del suo libro (1), nel quale, senza un bisogno al mondo, travaglia e suda a dimostrare, che nella citata proposizione di Bajo la parola volontario non significa altro che libero . Per riuscire a tale dimostrazione, bastava ch' egli avesse recate a confronto le tre proposizioni condannate 46, 47, 4.; nell' ultima delle quali si afferma, che [...OMISSIS...] ; dove dichiarasi volontario il peccato originale ne' bambini, perchè questi nol disdicono e non l' impugnano col loro libero arbitrio . Bajo ricorreva adunque al (preteso) arbitrio de' fanciulli per ispiegare come il peccato in essi fosse volontario; e però il volontario che Bajo esigeva nel peccato de' bambini era un libero7negativo , cioè era il non fare della loro libertà. All' incontro, egli non vedea necessario a costituire il peccato de' bambini il libero7positivo , che solo nella libertà di Adamo autore del peccato si rinviene, e quindi le proposizioni: [...OMISSIS...] . Così sarebbe rimasto dimostrato, che la parola volontarium ne' detti articoli intesa, ha il valore di libero; avvertendo però, che in generale quella parola, secondo la mente di Bajo, talora significa un libero7positivo , un atto, vera causa dell' azione peccaminosa [...OMISSIS...] ; e talora significa un libero7negativo , un non7atto della volontà, pel quale il peccato domina nell' uomo [...OMISSIS...] . Con tale confronto, egli avrebbe pur conosciuto in che stia precisamente l' errore bajano; cioè nel costituire l' essenza del peccato originale de' bambini nel non7atto del loro libero arbitrio, quasichè fossero obbligati di far quello che è loro impossibile; e perchè nol fanno, incolpar si dovessero; il che è ad un tempo un errore contro la fede, ed un assurdo contro la ragione. Ma il C., in vece di mettersi per la via piana e facile a dimostrare il suo intento, piglia un' ampia girata con iscialacquo di volgarissima erudizione, tutt' a risparmio di logica. S' impegna egli a provare, che il voluntarium negli articoli citati di Bajo significa libero; perchè la parola voluntarium correva nell' uso comune de' teologi in senso di libero . Acciocchè un tale argomento avesse forza da stringere, dovrebb' essere dimostrato pienamente, non già che la parola voluntarium si usasse molte volte per significare libero , ma che così si usasse sempre; di maniera che non vi fossero esempii di scrittori filosofici e teologici, ne' quali ella s' adoperasse in senso di volontario semplicemente o in genere, prescindendo dalla effettiva libertà. Certo non ci vuole una gran testa a capire, che se non si fa ciò, non si stringe che aria. Tuttavia egli s' appaga di trar fuori una cinquantina forse di testi, ne' quali, secondo il suo giudizio, la parola volontario vale altrettanto che libero; conchiudendo poi, che dunque anche negli articoli di Bajo ella dee aver avuto questa medesima significazione! Il fatto però si è, che la parola volontario non significa altro che volontario , cioè cosa voluta, cosa appartenente alla volontà. Tale è il suo primitivo significato, come l' origine e la formazione della parola dimostra. Ora ciò che è volontario , ciò che è voluto, può esser voluto in due modi, perchè la volontà opera in due modi, cioè necessariamente , e liberamente (1). La parola volontario esprime il genere , il necessariamente e il liberamente esprimono due differenze specifiche di questo genere; sicchè vi è un volontario necessario ed un volontario libero; e la parola volontario s' accomoda egualmente bene ad esprimere l' uno e l' altro; perchè il genere giustamente si predica di tutte le specie. In pari tempo si vuol notare, che gli atti che fa la volontà necessitata , sfuggono più facilmente alla osservazione ed alla riflession nostra; ed all' incontro si osservano in noi con assai più di facilità gli atti liberi, ne' quali sentiamo di collocare manifestamente la nostra propria energia personale (1). Di più, gli atti volontarii7liberi diventano la materia ordinaria de' nostri discorsi, perchè, essendo essi in nostra balía, possiamo e dobbiamo governarli secondo le leggi e i precetti morali, e mettiamo in essi somma importanza, dipendendo appunto da essi tutta quella prosperità e felicità che noi ci possiamo procacciar da noi stessi (aiutati da Dio) in questa e nell' altra vita. Dalle quali due cagioni procede, che quando noi parliamo di atti volontarii , intendiamo spessissimo favellare di atti volontarii7liberi; e non ci apponiamo questa parola liberi per brevità, contentandoci di dirli semplicemente volontarii . Conciossiachè il contesto del discorso fa già intendere da sè che noi intendiamo parlare di quelli. Questo che accade nel parlar comune quanto all' uso della parola volontario, accade simigliantemente quant' all' uso della parola peccato , che esprime il genere delle immoralità7personali, e però tanto la specie del peccato necessario7incolpevole , quanto la specie del peccato libero7colpevole; ma nel parlare ordinario tuttavia la si prende a significare il peccato7colpevole , per le stesse ragioni onde si usurpa la parola volontario significante il genere ad indicare la specie del volontario7libero, cioè perchè il peccato colpevole attrae di lunga mano più l' attenzione degli uomini, ed è l' oggetto de' comuni discorsi (1). Ma quando trattasi di scienza, e si vuol tornare alla rigorosa esattezza delle parole, affine di non confondere insieme perniciosamente i concetti affini; allora si dee restituire a quelle il proprio significato, usando le parole che segnano il genere come peccato e volontario , a significare il genere; e le parole che segnano le specie, come colpa e libero , a significare le specie e non altramente. Indi non è maraviglia, se, a malgrado delle citazioni del C., s' incontri bene spesso ne' filosofi e ne' teologi questa proprietà di parlare; e quanto alla parola volontario , che egli pretende usarsi per libero, è pure un fatto innegabile ch' ella si trova spesso adoperata per volontario semplice e generico. Mi si perdoni se discendo a cose assai comuni. Certo niuno che abbia a fior di labbra saggiata la teologica scienza può ignorare, che quando si tratta scientificamente del volontario , esso si suol prima definire in generale, senza farvi entrare esclusivamente la libertà; e poi lo si divide nelle sue due specie di necessario e di libero . Il qual metodo logico di procedere tiene al suo solito S. Tommaso (1); onde a principio definisce il volontario in modo, che si possa applicare tanto al necessario quanto al libero, dicendo così: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole è chiaro, che volontario si chiama tanto l' atto necessario, quanto l' atto libero della volontà, perchè l' uno e l' altro est a propria inclinatione , e tende in un fine conosciuto. Ma di poi passa il santo Dottore a distinguere il volontario necessario , come sarebbe l' atto con cui l' uomo tende al fine e al bene universale (6), dal volontario libero , a cui spettano gli altri atti posti in balia dell' uomo. Non si puó adunque dubitare, che il primo e proprio significato della parola volontario sia quella di volontario in genere, non essendo la necessità e la libertà che due suoi modi accidentali. Tale significato si fa manifesto dalla ragione stessa e dall' etimologia della parola, dalla definizione de' citati Padri della Chiesa, e dall' autorità del Dottore angelico, a cui consentono tutti i teologi. De' quali in cosa così nota recherò due soli, in aiuto degl' imperiti, il Busembaum e il Viva. Il primo scrive: [...OMISSIS...] . Domenico Viva egualmente, lungi dal confondere il volontario col libero , ne dà due definizioni distinte, e ne mostra a lungo la differenza, e la definizione che dà del volontario in opposizione del libero è appunto questa, [...OMISSIS...] , che è quella stessa di S. Tommaso, che il nostro C. pretende doversi applicare non alla semplice volontà, ma alla libertà (5). E tuttavia, digiuno come si mostra delle nozioni elementari della sacra teologia, egli non dubita d' impegnarsi a dimostrare, che voluntarium non significa altro che libero; e si persuade che la sua dimostrazione sia pienissima coll' arrecare qualche dozzina di testi, in cui egli dice senza provarlo, che vi sta dentro la parola volontario usata in senso di libero! Riesce tanto più inconcepibile quella sicurezza di affermare che volontario si usi sempre per libero , se si osserva che più volte gli viene in sulla penna la proposizione 39 di Bajo, [...OMISSIS...] ; nella quale si contiene l' errore, che il voluntarie significhi liberamente sempre, anche congiunto colla necessità: il qual solo esempio rende inutile affatto la sua fatica materiale di razzolare da' teologi e fin dagli eretici tanti passi, ne' quali si trova la parola volontario . Anzi egli avrebbe dovuto ben imparare da quella proposizione, che è insegnamento della Chiesa avervi due volontarii, l' uno necessario e l' altro libero; e che l' errore condannato in Bajo nasceva appunto dal confondere que' due volontarii in un solo, pretendendo egli che si potesse chiamar libero anche quello che era necessario . Laonde la sola differenza fra Bajo e il C. consiste in questo, che Bajo non riconosceva nella volontà dell' uomo caduto, se non il modo dell' operar necessario che falsamente chiamava libero col pretesto che non era violentato; laddove il C. non riconosce (se dee aver senso il suo discorso) che un operar solo volontario mai necessitato e sempre libero; sicchè la parola volontario non possa ammettere che quest' ultimo significato (1). Ma l' inettitudine del ragionare che fa il nostro C., vedesi ancor più se si esaminano i molti testi che egli reca a provare il suo falso assunto. Dal qual esame, che ognun può fare da sè, manifestamente risulta, 1 che a dimostrare che la parola voluntarium ebbe sempre il significato di libero, egli reca più testi, ne' quali si parla di azioni libere ed imputabili, quasi che alcuno avesse mai negato, che le azioni libere si possano chiamare volontarie , dicendosi anzi da noi, che la parola volontario conviene ugualmente ai due modi di operare della volontà, il libero ed il necessario; e per esempio, tanto all' amore che portano a Dio i celesti comprensori, quanto a quello che gli portano i terreni viatori; benchè quelli il facciano attratti necessariamente, e a un tempo spontaneamente, dalla vista del sommo Bene; e questi mossi dalla loro libera elezione: 2 Reca alcuni testi ne' quali, così precisi dal contesto, non si potrebbe definire se il voluntarium si prenda per libero, o solamente per volontario in genere abbracciante i due modi di operare della umana volontà (1): 3 Reca alcuni testi, ne' quali si suppone che i bambini non facciano atti di volontà, e ciò perchè si suppone che non facciano atti di ragione. E qui si noti, non doverci noi far maraviglia, che alcuni autori non sieno giunti ad osservare, che i bambini quasi appena ch' esistono comincino ad usare di loro ragione e di loro volontà, benchè non possano nè riflettere, nè liberamente operare. L' osservazione continuata a farsi sull' umana natura per tanti secoli, ha finalmente fatto conoscere ciò che non si conosceva in altri tempi. Egli è ora certo, secondo ch' io stimo, che il bambino fino da' primi tempi di sua esistenza conosce e vuole la madre, conosce e vuole il cibo; e però non manca in lui il volontario , sebbene non siavi ancora il libero . Se adunque alcuni autori argomentavano che i bambini non facessero nessuna maniera d' atti volontarii, dalla supposizione che non avessero alcun uso di ragione; egli è facile il rispondere, che, trovata falsa quella supposizione, rimane parimente falsa la conseguenza che essi ne deducevano. 4 Reca alcuni passi, ne' quali si dice, o sembra che si dica, che ogni atto umano è un atto libero . Ma se per atto umano s' intenda un atto proprio del solo uomo, e non comune alle bestie, egli è chiaro che atto umano si dee dire ogni atto della volontà (difinita questa per la facoltà che opera dietro la cognizione) (1), sia esso libero o necessario. Così l' atto, onde la volontà tende al bene in comune, necessario , a giudizio d' ogni dottore; l' atto col quale i beati amano Dio, ed i dannati lo odiano; gli atti della volontà che precedono la riflessione e seguono la cognizione diretta , sono certamente atti umani. Che anzi è umano anche ogni atto d' intelligenza, non solo ogni atto di volontà (2). Qualora dunque S. Tommaso restringe l' atto umano all' atto libero, si dee conciliarlo seco stesso, che pur ammette indubitatamente degli atti della volontà umana necessitati, ed egli è facile il farlo, osservando, ch' egli definisce que' soli atti umani, su' quali si fonda il merito ed il demerito, ad essi riferendosi tutta la legge morale obbligatoria, scopo della sua trattazione (3). 5 Reca alcuni passi di Luterani, Calvinisti ecc. senza accorgersi che cotesti eretici negavano l' operar libero dell' umana volontà, e che quindi tant' è lungi, che la parola voluntarium in loro bocca valesse il libero , che anzi la stessa parola libero da loro si abusa a significare il semplice volontario, o spontaneo! 6 Finalmente, se questo C. sa poco il latino e l' italiano, non vuol pretendersi che sappia di greco; nè dee far maraviglia che, sbagliando nell' assegnare alla parola voluntarium il suo vero valore, molto più la sbagli, quando presume di assegnarla alla parola greca «ekusion», sostenendo che altro non significhi che libero! (4) Non credo io dover essere inutile il metter qui sotto gli occhi del lettore un brano del Petavio, nel quale questo teologo, 1 dà il vero valore della parola «ekusion», 2 e espone la dottrina di S. Tommaso sui due valori della parola volontario, valendo ora un volontario libero detto anco volontario perfetto , ed a un volontario non7libero, detto volontario7imperfetto . Il brano di cui parliamo è questo: [...OMISSIS...] . Or vada il C., e veda se gli conviene attribuire il suo volontario libero alle bestie! La conclusione si è, essere un errore tanto il dire con Calvino, Giansenio e Bajo, che la volontà dell' uomo nel presente stato di natura scaduta non opera mai in altro modo che per necessità, quanto il dire, ciò che cercano insinuare i moderni teologi tendenti al razionalismo, che la volontà non opera mai in altro modo che per libertà. La Chiesa, con tutti i teologi suoi, tenendo la verità che sta nel mezzo, se da una parte insegna, che l' uomo al presente opera bene spesso con libertà, dall' altra riconosce altresì ed insegna, che talora egli soggiace alla necessità, dichiarando però che in quest' ultimo caso nè merita nè demerita. Al numero XLV del suo articolo (3) il C., desideroso di far credere che il Pelagianismo abbia il merito di distruggere l' orribile mostro del Bajanismo, ne parla come se quella dottrina fosse la contraddittoria appunto di quest' ultimo errore, quella nè più nè meno a cui Bajo fè guerra. Ma il vero si è, non essere già il Bajanismo quello che abbatte legittimamente il Pelagianismo, ma esser la dottrina cattolica che abbatte e sterpa l' uno e l' altro errore. [...OMISSIS...] . Sul qual passo chiamo il lettore ad osservare, 1 Che, acciocchè il santo Dottor della grazia mescolato a Calvino e a Giansenio vada più uniforme in tal compagnia; piace al C. di chiamarlo Agostino, in vece di seguir l' uso comune, che il chiama sant' Agostino; il che non meriterebbe di essere osservato, se il contesto e lo spirito dell' autore non dimostrasse un' affettata mancanza di rispetto al santo Dottore; 2 Che, opponendo egli i Pelagiani alla dottrina di Bajo, che tanto detesta, non aggiunge nè pure una mezza parola di disapprovazione della dottrina di quegli eretici; 3 Che, essendo verissimo che i Pelagiani non a Bajo, com' egli vuol supporre, ma alla dottrina cattolica, contrapponeano il principio, che « « ogni peccato dee esser libero » »; il nostro C. subdolosamente asserisce [...OMISSIS...] , volendo così far credere, che quella sia un' obbiezione che ponea loro in bocca Bajo, quasi che dei Pelagiani non fosse veramente; sperando così di cessare da sè l' odiosità dell' eresia pelagiana nell' uso continuo che egli fa di quella loro cara obbiezione, siccome fanno altresì i suoi compagni, affine di poter distrugger sotterra il dogma del peccato originale, come facevano quegli eretici; 4 Che, dicendo egli che Bajo [...OMISSIS...] , senz' aggiungere alcuna spiegazione, viene ad insinuare, che la dottrina di Agostino sia appunto quella di Bajo, con ingiuria gravissima a questo santo Dottore. La quale ingiuria viene da lui ripetuta più sotto, dove, volendo dimostrare come Bajo erroneamente risponda alla detta obbiezion pelagiana, egli non fa altro che riportare per risposta di Bajo le stesse precise parole di sant' Agostino, e queste, quasi fossero di Bajo, e contenessero la stessa dottrina di quel condannato dottore, interpolandole anche di sue chiose, e riprendendo il Rosmini perchè anch' egli consenta in quella medesima dottrina che è di sant' Agostino e di Bajo! Ecco questo brano singolare (avvertasi che le parole che cominciano, « Frustra putas, etc. » sono di sant' Agostino (1), e le parole italiane sono del nostro C.): [...OMISSIS...] . Questo brano comincia così: [...OMISSIS...] Ascrive adunque a Bajo quanto vi si contiene. Ma nel brano non si contiene altro che la soluzione che dà sant' Agostino ad una obbiezione di Giuliano pelagiano. Dunque il C. attribuisce a sant' Agostino, che scrive contro i Pelagiani la precisa dottrina di Bajo; dando torto a sant' Agostino e di conseguenza ragione ai Pelagiani! (2). Di poi nelle sue chiose, apposte alle parole di sant' Agostino, come se fosser parole di Bajo stesso, egli attribuisce a Rosmini il Bajanismo, perchè egli fa la stessa distinzione che fece e fa sant' Agostino colla Chiesa cattolica contro gli eretici pelagiani, la distinzione cioè contenuta, a sentenza del nostro C., nelle citate parole di sant' Agostino, fra i peccati liberi, unde liberum est abstinere , e i peccati non liberi, unde liberum non est abstinere; venendo così a dichiarare infetta di Bajanismo quella distinzione con cui il campione più grande della cattolica Chiesa, da tutta la Chiesa seguito in tale materia, combatte il pelagianismo; e con cui solamente quest' eresia può essere trionfalmente combattuta! Ora, che cosa è egli questo, se non un favorire sott' acqua, e difendere l' eresia più di tutte l' altre terribile a' tempi nostri, il pelagianismo cioè, e la sua necessaria prole, il razionalismo? Certo il pretendere o l' insinuare destramente che la dottrina di sant' Agostino sia quella di Bajo, è quanto un pretendere che la Chiesa romana, cioè la cattolica, abbia condannato sè stessa (1). Non poche volte i romani Pontefici dichiararono solennemente che la santa Sede non tiene altra dottrina circa il libero arbitrio e la grazia, che quella dell' aquila fra i dottori. Lo dichiarò il pontefice Ormisda, scrivendo al vescovo Possessore: [...OMISSIS...] ; lo dichiarò il pontefice Giovanni II, scrivendo: [...OMISSIS...] . Lo dichiarò Clemente VIII quando alle celebri Congregazioni de auxiliis non prescrisse altra norma, a cui dovessero riscontrare la sanità della dottrina moliniana, se non quella della dottrina di sant' Agostino, rendendone per ragioni che da tal DUCE capitanata ebbe già combattuto e vinto la Chiesa, e che alla dottrina di lui niente mancava di ciò in cui versavano le suscitate questioni e finalmente [...OMISSIS...] . Lo dichiarò infine più recentemente Innocenzo XII nel celebre suo breve del 6 febbraio 1694 ai dottori di Lovanio, simigliantemente dicendo di sant' Agostino, che [...OMISSIS...] . Lo stesso attesta il venerabile cardinal Baronio circa il professare che fa la Chiesa Romana la dottrina di sant' Agostino intorno la grazia e il libero arbitrio che lodando il decreto con cui Clemente VIII prescrive che non si debba partire dalla dottrina di sant' Agostino: [...OMISSIS...] . Lo stesso della santa Sede attesta il Petavio, [...OMISSIS...] . Lo Suarez finalmente non dubita di confessare: [...OMISSIS...] . Onde a ragione dice il Bossuet, che [...OMISSIS...] . Ora chi è dunque costui, che, rinnovando gli sfregi fatti in altri tempi dagli eretici al santo Dottore (3), osa dargli posto a lato di Calvino e di Giansenio, e affermare mendacemente parole di Bajo, e in Bajo dannate, quelle che sono d' un sì grande splendor della Chiesa? Chi è costui, che ingiuria sfacciato la Sede apostolica nel suo Dottore! Conciossiachè ella, maestra costante di verità, condannando Bajo, continuò sempre, giusta la tradizione antichissima in quella prima cattedra conservata, ad aver Agostino a maestro. Ella se ne dichiarò altamente, noi n' abbiamo portate altrove le ripetute dichiarazioni. Deh, che mai possono fare cotesti cozzi contro la pietra? Che posson fare questi attacchi contro la gloria di colui, che, vinto dalla grazia un dì, ne glorificò la possanza, e ne divenne l' umile banditore e a tutto il mondo il maestro? Del quale ora, dopo quattordici secoli, così Iddio compensando l' umil suo servo, rinverdiscono l' ossa, e dall' Africa ridimandate all' Italia vi approdano portate in solenne trionfo a ribenedire quella terra; e la pastorale sua verga inaridita, rigermogliando, di freschi fiori, con bel prodigio, si copre (4). Ma torniamo allo scopo a cui mirano i Teologi razionalisti in deprimere S. Agostino, e in escludere l' operare necessitato dell' umana volontà, lasciandole solo l' operar libero, che è sempre quello d' esaltare indebitamente l' umana natura; escludendo da lei ogni infezione o vizio originale, vediamo com' essi frammischiano alla dottrina cattolica diversi errori. Al C. dà grandissima noia che si chiami co' Padri e coi teologi della Chiesa, il vizio originale: « una colpa naturale, » un peccato che s' imputa alla natura umana (1). Le traduce egli per bajane, e decreta loro il bando come a quelle che troppo bene esprimono il dogma che si vuole distrutto. Or che a ciò tenda questo sbandeggiamento delle maniere più comuni ed efficaci della cattolica teologia, si fa più aperto da ciò che scrive il nostro C. dal numero XC sino alla fin del suo Articolo. Quivi si può ravvisare uno studio incessante d' intessere a sottil trama insieme cogli errori di Bajo le cattoliche verità intorno all' originale peccato, acciocchè queste sieno ravvolte, se esser potesse nella stessa condanna di quelli. Da prima reca in mezzo un brano di Bajo, che contiene veramente l' errore di riconoscere imputazion ne' bambini, non perchè il peccato originale era libero in causa, ma perchè da essi non è contrariato con un atto di loro propria volontà, [...OMISSIS...] . Ma incontanente soggiunge a questo un altro brano di Bajo; [...OMISSIS...] . Ora qui l' errore trovasi colla cattolica verità mescolato: questa si contiene nelle parole di S. Agostino quello nell' abuso, che Bajo ne fa. Separiamo dunque la cattolica verità annunziata dal S. Dottore, dall' errore di Bajo, provvedendoci così contro il malizioso artificio di chi vuol confondere insieme tali cose, per dannarle entrambi. La cattolica verità da S. Agostino annunziata si è, che il male della concupiscenza tiene il fanciullo non battezzato nella morte dell' anima; e ve lo terrebbe sempre s' egli non ricevesse il battesimo: [...OMISSIS...] . La qual dottrina è insegnata da S. Agostino e ripetuta le mille volte, [...OMISSIS...] . E la dottrina stessa si contiene nelle parole del sacrosanto concilio di Trento. [...OMISSIS...] . Ora se questa è la dottrina cattolica, qual' è poi l' errore di Bajo? quale l' abuso che Bajo fece delle parole del santo dottore? L' errore è indicato in quel QUAPROPTER, col quale comincia il brano arrecato. S. Agostino dice, il bambino dannato pel suo proprio peccato: questa è verità. Ma Bajo dice, il bambino dannato, perchè gli viene imputato a colpa il suo peccato e gli viene imputato a colpa, perchè quel peccato aderente a lui, domina in lui senza ch' egli s' opponga al medesimo con un atto di sua volontà: quest' è l' error condannato. E` sempre l' errore dell' imputazione , sempre il pretendere, che ogni peccato anche necessitato sia colpa, è un volere sostituire la colpa al peccato, un dire che alla COLPA non è necessario il LIBERO: [...OMISSIS...] . Ora teniamo conto di questa distinzione tra la dannazione ammessa da S. Agostino e dalla Chiesa, come aderente al peccato del bambino, e l' imputazione ammessa da Bajo come aderente allo stesso peccato e non proveniente dalla libertà d' Adamo che lo commise, e seguitiamo ad analizzare il ragionamento del nostro C. il quale aggiunge anche un terzo brano di Bajo, in cui è riprodotta la stessa confusione tra la verità cattolica della dannazione de' bambini, e l' errore bajano della imputazione a un principio non libero. Perduta dunque di vista la distinzione tra la parte vera e la parte falsa insieme tramischiata dice, che il Rosmini non sembra veramente appaciarsi con Bajo perchè [...OMISSIS...] . E certo, quando non si voglia dire altro che questo, il Rosmini non s' astiene dall' affermarlo; perchè quelle parole, che [...OMISSIS...] sono parole non di Bajo, ma del dottor della grazia; a cui il Signor C. si mostra tanto nemico da confonderlo sempre cogli eretici. Il dottor della grazia non altro esprime con quelle parole che un dogma infallibile della Chiesa. Sotto il nome di Bajanismo dunque i teologi razionalisti combattono anche il dogma dell' originale peccato, pel quale i cattolici credono, che il peccato d' origine detiene in istato di morte, come dicono le parole di S. Agostino, il fanciullo, e lo terrebbero nella morte eterna, se non venisse a salvarnelo il santo battesimo. E` dunque manifesto il reo effetto di stabilire il Pelagianismo col pretesto di confutare il Bajanismo. Adesso si vede perchè i teologi razionalisti si perdano in tanti andirivieni di parole, ed in tante contraddizioni: la coscienza gli inquieta. Sono arditi perchè non sono soli. Il signor C. è una cosa col finto Eusebio, di cui si fa patrocinatore, uomo tanto addentro ne' segreti dell' eterno, da potere scrivere: [...OMISSIS...] che è appunto l' argomento di Pelagio contro il peccato d' origine tante volte ribattuto da quell' Agostino, che con Bajo si vuol confuso (2). E` una cosa coll' altro anonimo stampato alla macchia di cui dice, che il libro meriterebbe per avventura di essere più divulgato e conosciuto (3), anonimo che osa mettere in bocca a S. Tommaso queste parole: [...OMISSIS...] colle quali parole viene negato anche espressamente il peccato originale. Tutti questi, ed altri ancora vi hanno preceduto, o signor C., a distruggere il peccato d' origine: e perchè la Chiesa non gli ha ancora repressi con ispeciale decreto, voi credete che l' abbiano fatto impunemente, e n' avete assunto, più audace e di lor più maligno, il patrocinio. Certamente che voi troverete delle simpatie nei biblici della Germania, e in tutti i razionalisti de' tempi nostri, di questi tempi orgogliosi che non fanno che esagerare le forze dell' uomo fino a disconoscere il bisogno ch' egli ha della redenzione, e del battesimo; troverete delle simpatie ne' deisti e in tutti gli empi che aspettano, che l' uman genere vada avanti per la via del progresso, senza Dio, senza battesimo, senza bisogno di grazia, ma con tutte queste simpatie, da qualsiasi parte ve le pensiate riscuotere, non giungerete però al fine di contraffare la parola immutabil di Dio, che affidata specialmente a Pietro dee conservarsi intatta sin alla fine dei secoli. Or questa parola è stata quella che ha detto, [...OMISSIS...] , e però il peccato d' origine [...OMISSIS...] , come dice non Bajo, ma la Chiesa. [...OMISSIS...] le parole son dette allo stesso proposito da S. Agostino, [...OMISSIS...] . Prosegue quindi collo stesso argomento ad investire non noi, ma la Chiesa, perchè ammetta, che sieno detenuti nella morte del peccato i bambini non battezzati, in questo modo: [...OMISSIS...] . Che accusa è questa? Il dire « a seguitare Bajo anche nel materiale delle parole »suppone già provato per innanzi, che Bajo sia stato seguito nel formale, cioè ne' suoi sentimenti. E in quella da voi fu provato, che il Rosmini ammette colla Chiesa, che [...OMISSIS...] , che gli attribuì la dannazione, anche eterna se non vengono redenti dal Salvator col battesimo. Dobbiamo dunque dirgli di nuovo, come S. Agostino a' Pelagiani. [...OMISSIS...] (2). Ma se il teologo che esaminiamo come un tipo dei teologi razionalisti, attaccò questo dogma, sotto specie, che contenga il formale della bajana eresia, ora quali argomenti adduce poi a provare, che il Rosmini abbracciandolo, seguita Bajo anche nel materiale delle parole? Primo argomento: che egli cita, è il testo « regnavit mors » di S. Paolo. Anche con S. Paolo se la prendono. Anche S. Paolo pute di bajanismo? Secondo argomento: che [...OMISSIS...] Il che suppone che sia un seguitar Bajo lo spiegare S. Paolo con S. Agostino dalla santa sede seguito. E quello che il Rosmini ha mostrato con S. Agostino, l' ha egli mostrato bene o male? Se male, perchè non lo dite accennando dove stia il difetto? Se bene, perchè togliete a riprenderlo? [...OMISSIS...] quasichè il dire coll' apostolo, che negli uomini tutti che nascono vi ha peccato abituale e originale, vi ha dannazione, se il Salvator non la toglie, sia un errore, a cui sia bisogno soggiungere un correttivo, quand' egli è pure il dogma fondamentale del cristianesimo, quello che voi in tutt' i modi vorreste distruggere. Colla stessa astuzia dice poco appresso, che [...OMISSIS...] . Nessuno, se è cristiano cattolico, dirà mai, come fingono costoro di temere, che le cose da voi riprese come infette di Bajanismo, sieno semplicemente innocue, quasichè indifferentemente si potessero o ammettere o rifiutare; e molto meno nessuno dirà, che sieno punto o poco malvagie; ma ogni cristiano cattolico dirà, che sono di fede; che il dichiararle malvage è un proscrivere ciò che crede la Chiesa; e il far loro grazia di chiamarle innocue, è una maniera degna di chi vuol seminare di coperto la rea dottrina. Pelagio appunto soleva usar questa tattica, di far credere che fossero mere opinioni quelle ch' erano punti di fede. Nel numero, che viene appresso (1), pigliando a ricapitolarsi, il C., riproduce la confusione tra la dannazione annessa al peccato originale ne' posteri, per sentenza della Chiesa, coll' imputazione , riferita al bambino in vece che al libero autor del peccato, nel che sta l' errore di Bajo. E dopo aver detto, come Bajo stabilì, che a costituire l' essenza del peccato non è necessaria la libertà, senza punto aggiungere, che la libertà è solo necessaria a costituire il peccato7colpevole, e che per aver questo negato, Bajo incorse nella condanna; dopo aver detto ancora, come Bajo considerò la macchia d' origine per vero peccato, non riferendolo alla volontà libera del primo padre, anche qui, senza aggiungere, che Bajo errò perchè parlava di colpa, la quale non può stare senza riferirsi alla sua causa, soggiunge: [...OMISSIS...] . Ecco attribuito di nuovo a Bajo, quel che è della Chiesa cattolica. Sono i soli pelagiani quelli, che il negano. [...OMISSIS...] , così scriveva appunto contro i Pelagiani S. Agostino, [...OMISSIS...] . Laonde la Chiesa riconosce la necessità del battesimo de' bambini, acciocchè evitino la condannazione del peccato e la morte eterna, e però nel corpo stesso del D. Canonico trovasi registrato questo luogo di S. Agostino, [...OMISSIS...] e quell' altro ancora: [...OMISSIS...] . Perchè dunque dichiarare bajana la dottrina, che fa i bambini soggetti all' eterna condannazione se non vengono rigenerati? perchè togliere così la necessità del battesimo? perchè adulare in tal modo l' umana natura? perchè ingiuriare alla redenzione, ed alla grazia di GESU` Cristo sotto coperta di difendere la cattolica fede? E veggasi inesausta astuzia! Dopo aver posta la questione [...OMISSIS...] quasichè questa fosse la dottrina di Bajo e non della Chiesa, soggiunge immediatamente: [...OMISSIS...] . Egli vuol dunque far credere, che l' Accademia della Sorbona, abbia involto nella riprovazione la dottrina della Chiesa intorno alla condanna annessa al peccato d' origine ne' bambini! Ma la frode riuscirà troppo palese a ciascuno, che ponga mente alla connessione delle sue parole e alla sconnessione dei sensi: quel perciò , col quale egli passa ad annunziare la censura della Sorbona, non attacca colle parole precedenti; e la conseguenza al tutto discorda dalle premesse. Nelle premesse c' è la dottrina della Chiesa intorno alla condanna, che trae dietro a sè necessariamente l' originale infezione, e quindi la necessità del Battesimo per la salute [...OMISSIS...] : nella conseguenza c' è la condanna della dottrina erronea intorno al poter demeritare nello stato di natura decaduta con atti necessari [...OMISSIS...] dottrina appartenente all' imputazione, e non alla semplice dannazione: e di più riguardante atti di peccato distinti dall' originale, nel quale il bambino non peccat , nè egli è peccante, come dicono i teologi, benchè sia peccatore. Costante è dunque la mira, a cui collimano tutti i sofismi di cotesto occulto scrittore; ed è perfettamente la stessa degli altri occulti dommatizzanti: fingono d' assalire una persona particolare, per assalire la fede di Cristo; la falsità, e le astutezze sono le medesime: si vuol distrutto il dogma che tanto oggidì pesa alla superbia degli uomini e che è la base della Cristiana umiltà, quello dell' originale peccato. Al qual tristo intendimento, affin di pescar sempre nel torbido, confonde di nuovo sformatamente le idee. Poichè egli espone l' errore di Bajo, dicendo che [...OMISSIS...] . A cui la Chiesa risponde: Siete voi stesso in errore, e in error gravissimo Signor C. così ragionando. Nella proposizione XLVI che voi citate [...OMISSIS...] , la chiesa decise che è necessaria la libera volontà a costituire una COLPA; nella proposizione XLVII, che [...OMISSIS...] , la Chiesa decise conseguentemente, che il peccato de' bambini, non può essere considerato come una COLPA, se non si riferisce alla libera volontà d' Adamo che lo commise. E perchè dunque confondete la colpa, il peccato, la pena del peccato? perchè attribuite quel che disse la Chiesa della colpa alla pena del peccato? Con questa vostra fallacia, venite a proscrivere la dottrina della Chiesa coll' autorità della Chiesa. Se dunque debbo ripetere quel che ho già detto, sappiate che nell' uom che nasce vi è la pena del peccato , ed il peccato (che è insieme una pena) distinto numericamente da quel d' Adamo. Il peccato poi essendo necessario e non libero nel bambino appunto come una lepra od altro mal fisico, non è colpa in se stesso, come voleva Bajo; ma la qualità di colpa gli s' applica, considerandolo siccome effetto della libera volontà d' Adamo « in quo omnes peccaverunt »: Questa è la riprovazione della dottrina bajana, la quale riguarda la colpabilità, e non il peccato ne' pargoli. Ma qual è poi la riprovazione della dottrina della Chiesa che fate voi, Signor C.? Si è il pretendere, che il peccato ricevuto da' bambini, benchè in essi necessario e non libero, non tiri dietro a sè la conseguenza penale della dannazione e della morte eterna. Vedete dunque, che tra la dottrina che condannate voi per bajana, e la dottrina che condanna la Chiesa, vi ha tanta distanza quanta ve n' ha appunto tra la dottrina infallibile della Chiesa, e la dottrina erronea di Bajo e di Pelagio. Il che si vedrà ancor più chiaramente distinguendo queste due questioni. 1 Prima questione riguardante la penalità (il male eudemonologico) annessa al peccato: Quale è la cagione prossima della dannazione de' bambini non rinati? - E la Chiesa risponde: « non il peccato d' Adamo, ma il peccato lor proprio ad essi inerente, il qual li perde « tantummodo quod inest », come l' esprime non Bajo, ma S. Agostino. 2 Seconda questione riguardante l' imputazione a colpa del peccato de' bambini: Come si può giustificare la divina giustizia pel peccato ereditario, e per la pena che trae seco ne' fanciulli non rinati? - E la Chiesa risponde: convien ricorrere alla colpa del primo padre, da cui fu liberamente il primo fallo commesso, cagione vera di tutto il resto. Illustriamo l' una e l' altra risposta con delle ecclesiastiche autorità. Dice la prima che la pena a cui i bambini non rinati soggiacciono è conseguenza del peccato loro inerente . Quest' è ammesso da tutti universalmente i teologi della cattolica Chiesa i quali per ispiegare la pena a cui soggiacciono quanti individui dell' umana specie son generati, (eccettuata sempre MARIA Santissima) non ricorre già di colpo al peccato d' Adamo, ma al loro proprio peccato per vizio di generazione da essi contratto (1): ed anzi dalle penalità, che essi soffrono, traggono argomento a conchiudere, che in essi stessi ci dee avere un peccato non certo commesso con libera volontà, ma per necessità di natura ricevuto. Il santo Dottore suscitato da Dio nella Chiesa ad umiliare la pelagiana superbia, così appunto argomentava contro questi eretici razionalisti: [...OMISSIS...] . Trovava dunque giusto il gran Padre che conseguitasse la penalità a quel peccato, che era ne' bambini, numericamente distinto dal peccato di Adamo, a quel peccato che essi non avevano commesso per proprio volere, ma nella propria volontà per natura aveano ricevuto, e ciò perchè mal morale e mal fisico, secondo l' ordine delle idee dell' eterna giustizia, debbono sempre trovarsi insieme. Altra volta diceva, che sono puniti i bambini pel peccato d' origine non in quanto è altrui (e intanto è colpa), ma in quanto è proprio (e intanto è morale infezione): [...OMISSIS...] (dove sta la necessità). E se non fosse così, dic' egli, le penalità a noi applicate non avrebbero la sua ragione, non bastando che Adamo abbia peccato, se non abbiamo peccato anche noi in lui, senza nostra volontà, cioè in quanto eravamo individui che dovevamo germinare da lui per naturale generazione. Onde prosegue: [...OMISSIS...] , ed altrove incalza i Pelagiani nuovamente dicendo, [...OMISSIS...] . La qual dottrina si ripete da S. Tommaso, il quale si fa l' obbiezione, che se i bambini sono puniti pel peccato di Adamo, il sarebbero pel peccato altrui, non per il proprio, e così vi avrebbe ingiustizia. A cui risponde quello stesso, che avea risposto prima il Dottor della grazia, esser essi puniti pel peccato proprio, per quel peccato che in loro trasfuso per generazione sta loro inerente (2). Onde gli autori dell' opera intitolata « « Concordantiae dictorum et conclusionum D. Thomae de Aquino » » vedendo che talora il santo dichiara il peccato d' origine volontario in Adamo, ed è in que' luoghi nei quali il considera come colpa , e talora il dichiara volontario anche ne' posteri, ed è in que' luoghi ne' quali il considera come semplice peccato, a togliere quest' apparente contraddizione, ed a conciliare il Santo dottore seco medesimo, rispondono: [...OMISSIS...] . Il che premesso, tolgono via l' obbiezione dall' ingiustizia della penalità soggiungendo: [...OMISSIS...] . E nel vero, sarebbe inesplicabile, come per la sola colpa d' Adamo potessero soggiacere i posteri al male fisico, qualora essi stessi non ricevessero in sè il mal morale, posto il quale, quello dee venir dietro come appendice. E non è egli un assurdo manifesto il supporre che i bambini che nascono non sieno corrotti, come vogliono gli scrittori, che rifiutiamo, ne' guasti nella volontà (4); e voler che debbano tuttavia scontar la pena, non già pel proprio peccato, ma solamente per la colpa del primo padre a loro resa comune? Che giustizia ci avrebbe qui? [...OMISSIS...] , dirò anch' io con S. Agostino, [...OMISSIS...] . Se dunque viene imputata la colpa prima a' posteri, ella non vien loro imputata, se non perchè in essi passa il peccato, il morale disordine: [...OMISSIS...] , mi continuerò col medesimo santo, [...OMISSIS...] . Non già che l' anime de' posteri fossero in Adamo peccante; ma vi erano i semi carnali, che doveano poi, per la generazione, infettare moralmente l' anime intellettive che avrebbero avvivati i corpi separati da quel d' Adamo. Quelli adunque i quali pretendono che le penalità a cui soggiacciono gli uomini non sien sequele del loro proprio peccato, ma sol della colpa Adamitica, e che, come fa il nostro C., condannano, per erronea quella dottrina; mirano direttamente a distruggere il peccato originale trasfuso nei posteri; perchè lo rendono inutile a spiegare i mali, a cui gli uomini vanno sommessi, riputandoli questi alla sola colpa di Adamo, senza bisogno d' altro intermezzo (3). Egli è dunque il Pelagianismo, che sordamente introducono cotestoro, quel Pelagianismo che tentò di continuo introdurre nella casa di Dio il serpentino suo capo, e che cercò d' entrar per ogni fessura del tempio strisciandosi e contorcendosi; ma tutto indarno fin qui. Ecco a ragion d' esempio siccome Ugone Vittorino descriveva a' suoi tempi la stessa rea opinione, che ora si riproduce nel cuor d' Italia, [...OMISSIS...] . - Anche il nostro C. confondeva poco fa la dannazione che è la pena dovuta, col peccato a cui è dovuta; e ciò che decise la Chiesa del peccato, l' applicava alla dannazione pena di lui. Andiamo avanti, e sentiamoli a parlare anche con un po' più di coerenza del nostro C. [...OMISSIS...] Non possono cioè, disconfessare, che questo è un distruggere il peccato originale. Ne ammettono però l' imputazione posticcia e senza base, come fanno i moderni razionalisti, e dicon con essi: [...OMISSIS...] , cioè distruggono del tutto il peccato colla solita ragion pelagiana. Nondimeno, non hanno essi coraggio d' escludere il nome del peccato simili anche in ciò a' nostri. [...OMISSIS...] Ma ne andrà ella soddisfatta la Cristiana teologia? Il grand' uomo, che noi citiamo, giudica risolutamente di no, e il giudica colla Chiesa: [...OMISSIS...] . Laonde anche S. Paolo dice, che la morte entrò nel mondo, perchè prima v' era entrato il peccato; sicchè quella in ciascun uomo è effetto immediato di questo, non del peccato originante, ma dell' originato; e il sacrosanto Concilio di Trento, dopo altri Concili definì; che ne' posteri d' Adamo non entrarono solo le penalità del peccato; ma il peccato stesso fondamento di quelle (1); perchè quantunque il peccato passato ne' bambini non sia libero; tuttavia è un morale disordine, che trae naturalmente seco anche il fisico. Aggiungerò una prova che ci somministra la ragione teologica. S. Tommaso, e dopo lui un gran numero di teologi, opinano, che i bambini che muoiono senza battesimo sieno privi della pena del senso, soggiacendo solo alla pena del danno. E, onde raccolgono questa lor conclusione? Se si pon mente al modo del lor ragionare, non da altro, che dalla condizione del bambino. Non gli attribuiscono cioè una pena adeguata al peccato colpevole di Adamo, che sarebbe pena di danno e di senso insieme, ma adeguata al peccato suo proprio. E` dunque chiaro, che considerano la pena non come un' immediata sequela della colpa del primo padre, ma del peccato messo in essere nel fanciullo coll' atto della generazione. Lo stesso si argomenta dal chiamarsi minima dai Dottori e non già nulla, la malizia del peccato originale del bambino (2); e dall' indurre che fa quindi S. Agostino, che dee esser minima altresì la sua pena (3). Se al bambino fosse applicata la colpa d' Adamo, nè minima la malizia sarebbe, nè minima pur la pena. Nè si può dire, che glien' è applicata una parte e non tutta; poichè o di tutta dovrebb' egli esser reo o di nulla. Che se non c' è ragione d' applicargliela tutta, dunque nè pure una parte. Il che conferma quanto sia falso il sistema de' nostri Anonimi, che senza riconoscere nel bambino alcuna inordinazione, pensano di ricorrere ad una semplice relazione con Adamo (cosa d' altra parte al tutto mentale), ad una estrinseca imputazione, la quale se valer potesse, o dovrebbe aggravarlo di tutta la colpa Adamitica, o pure di nulla. Ora veniamo all' altra questione - come si possa giustificare la divina giustizia; della condizione dei bambini. In quanto al mal penale, l' abbiamo veduto giustificato pel peccato passato in essi. Rimane dunque la dimanda: come i fanciulli senza atto di libera loro volontà debbano ricevere il peccato? Rispondesi, che questo peccato passa per generazione, e che [...OMISSIS...] , (così scrive Raimondo Sabunde), [...OMISSIS...] . E` dunque una cotal legge della natura, che il corpo del generante corrotto, generi un corpo corrotto, e che il corpo corrotto attragga a se l' inclinazione della volontà essenziale, onde l' uomo da quell' ora non è più atto a tener la bilancia della giustizia in molti de' suoi giudizii, ne' quali il ben sensibile viene a collisione col retto e col giusto; il che è mal morale, e peccato, se trovasi così piegata la stessa punta dell' anima sede dell' umana persona. Ma non poteva Iddio impedire questo effetto necessario e dalle leggi stesse della natura e della generazione, procedente? Potea, ma nol fece per giusto gastigo (oltre la gloria della sua misericordia, che ne volea trarre per la redenzione). Or qui ricorre l' imputazione, e la pena dovuta alla colpa. Era dovuto al colpevole Adamo ch' egli fosse lasciato col guasto di sua natura: questo guasto di sua natura, giustamente lasciatogli, si propagò ne' posteri, non già per miracolo, ma da se stesso, e così si propagò necessariamente, insieme la primitiva giustissima punizione: e i posteri si trovarono ravvolti nella pena del primo lor padre, la quale affettava giustamente quella natura che il primo padre, e poscia i figliuoli di lui di mano in mano per generazion propagavano. Onde si dicono colpevoli [...OMISSIS...] , dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Dove si osservi bene, che la colpa personale d' Adamo è già tolta interamente: non esiste più. Che cosa è dunque la causa efficiente, che mette in essere il peccato ne' posteri? Non la stessa colpa d' Adamo che operi immediatamente in essi, la quale non può operar, non essendoci; ma è la pena d' Adamo, effetto della sua colpa, che in lui generante rimase; cioè, è il guasto fisico di sua natura, che comunicò generando alla stirpe e con esso surse il guasto morale. Laonde non si trasfonde immediatamente la colpa d' Adamo di padre in figlio, quasi che sia la colpa come un liquore che travasar si possa di vaso in vaso; ma sì la pena per dirlo di nuovo, è la natura guasta che si travasa; ond' anco i giusti generano de' peccatori, perchè in sè portano ancor la pena: [...OMISSIS...] , come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] : il che viene a dire: « Perciò il giusto genera de' peccatori perchè la generazione non è già un atto della giustificata persona, ma è un atto della corrotta cioè giustiziata natura. »Ma ereditando la pena del peccato, cioè la natura guasta; questa mette in essere il peccato nel nuovo individuo, l' inordinazione del corpo traendo seco un' inordinazione nell' anima (3), nella stessa volontà personale, dove ogni guasto è morte, e giustamente s' appella dalla Chiesa peccato: colpa poi in quanto quella inordinazione si considera come una cotal continuazione ed estensione dell' atto libero, con cui Adamo prevaricò, del quale è veramente effetto. Ecco dunque come tutti i mali morali e fisici dei posteri hanno veramente la prima loro ragione e giustificazione nella libera colpa di Adamo, ma tenendo tuttavia tra loro quell' ordine, che l' Apostolo nella sua lettera a' Romani accuratamente descrive dicendo: [...OMISSIS...] , è il primo anello, la colpa di Adamo, che introduce nel mondo il peccato, il quale così passato ne' posteri forma il secondo anello: E viene a dire: Non è più la colpa d' Adamo, ma è il peccato già introdotto nel mondo per la colpa d' Adamo quello che introduce le penalità a sè dovute, tra le quali principale è la morte: [...OMISSIS...] , le quali ultime parole ci richiamano all' origine, cioè esprimono la congiunzione de' due estremi anelli la morte e la colpa del primo padre, mediante l' anello di mezzo, il peccato ne' posteri. L' attribuire dunque al peccato inerente ne' bambini la dannazione, non è mica un negare che il loro proprio peccato sia una pena della colpa Adamitica, la quale riman sempre come la suprema ragione di tutti i mali della misera umanità (2). E qui potrei cessarmi dal parlare di ciò che dicono i nuovi teologi contro l' antica e costante dottrina della Chiesa circa il peccato d' origine, se lo scopo di questo scritto, che è di metter riparo, quanto per me si possa, o più tosto d' eccitare altri maggiori di me per autorità e per dottrina a metterlo, al pericolo del razionalismo che assai tempo minaccia d' invadere le nostre scuole di teologia, non mi tirasse a fare un cenno della più vicina origine ch' ebbe in Italia quel sistema che agli occhi nostri distrugge l' originale peccato. L' articolo, intorno al peccato originale inserito da Alessandro Zorzi nel suo « Prodromo della nuova Enciclopedia Italiana », Siena 1779, quando uscì riscosse l' attenzione, e meritò la censura di gravi teologi. Ma sopravvenuta la morte dell' autore, e le guerre, rimase dimenticato ai più. Ora si può dire che i più moderni teologi razionalisti ritraggono da quell' articolo del Zorzi senza però mai citarne il fonte, benchè ne copiino le espressioni e le parole. Dicevo, che de' gravi teologi ripresero quell' articolo giudicandolo distruttivo del dogma, e n' accennerò in prova il Zovetti ed il Cesari (1), il quale nella vita di Clementino Vannetti amicissimo al Zorzi, di cui anche scrisse la vita, narra questo fattarello col Vannetti appunto avvenutogli: [...OMISSIS...] Abbiamo qui dunque il giudizio uniforme di tre dottissimi uomini del Cesari, del Zoretti, e del Vannetti: udiamone un quarto e sarà Alfonso Muzzarelli (2). Quest' uomo distinto scrisse un Opuscolo (3) a posta per confutare il sistema de' nostri teologi intorno al peccato d' origine, e vi s' introduce con queste parole: [...OMISSIS...] Passa poi a provare l' erroneità della sentenza dei nostri Anonimi, che il peccato originale non sia, se non « « una pura privazione dei doni indebiti alla natura umana » » ed ecco alcune delle sue ragioni: 1 Sparirebbe la difficoltà d' intenderne la natura, difficoltà riconosciuta da tutti i padri: [...OMISSIS...] . 2 In quella definizione non si riscontra la nozione di peccato e di colpa. Egli distingue queste due nozioni e prova che il peccato originale ne' bambini dev' esser vero PECCATO; poi passa a provare che dee esser vera COLPA; e che tal non sarebbe con quella definizione. [...OMISSIS...] 5 E` riprovata da' sommi teologi come eretica l' opinione del Cattarino e del Pighio. Dunque anche quella degli anonimi nostri [...OMISSIS...] Con queste ed altre ragioni il Muzzarelli rifiutava l' opinione del Zorzi e de' nostri più moderni, intorno al peccato d' origine. La quale fu immaginata per buon fine a principio, cioè per allontanarsi via più dal Giansenismo, da cui gli autori di essa non vedeano come meglio proteggere se stessi e gli altri, che inventando un nuovo sistema, e difendendol poi con tutta la sottigliezza e lo zelo che ispira l' odio dell' errore in chi crede. Ma a farli eccedere dall' opposto lato contribuì: 1 il non cogliere essi il vero senso, in cui furono proscritte alcune proposizioni di Bajo, e 2 il non saper trovare risposta nell' antico sistema contro a ciò, che era veramente in quelle proposizioni proscritto. Vediamo l' una cosa e l' altra ad un tempo. I Il Zorzi cita la proposizione LXXIX di Bajo, Falsa est doctorum sententia primum hominem potuisse a Deo creari et institui sine justitia naturali intendendola di una giustizia veramente naturale, senza riflettere, che Bajo chiamava naturale la giustizia soprannaturale e che per questo fu condannata (1). Il Zorzi del pari cita la proposizione LV di Bajo [...OMISSIS...] , intendendola materialmente, mentre egli è certo che la Chiesa non altro proscrisse in essa, se non l' errore, che Iddio non avesse potuto creare l' uomo nell' ordine meramente naturale, come ho altrove mostrato. [...OMISSIS...] II Il Zorzi teme, che ponendosi nel bambino, che nasce una positiva avversione da Dio, che noi dichiariamo per togliere ogni equivoco: « « un atteggiamento ritroso al bene ed a Dio e pendente al male ». ( Tratt. della Coscienza f. 37) » il che esprime meno di un' avversione positiva, frase usata da' teologi, ne avverrebbe che giunto all' uso della ragione dovrebbe odiare attualmente Iddio, che è la proposizione di Bajo: [...OMISSIS...] . Ma la conseguenza è falsa se « « l' avversion da Dio » » s' intenda, come la intendono i teologi cattolici. Un « « atteggiamento ritroso al bene » » è meno di un abito vizioso (1). E pure nè anche un abito vizioso toglie il libero arbitrio, come ottimamente prova S. Tommaso (1); quanto meno un semplice atteggiamento della volontà verso il ben sensibile disordinato. Nè ell' era già sfuggita all' angelico quell' obiezione (il che conferma, d' altra parte, che per l' avversione che ponea nel peccato originale egli intendea qualche cosa di positivo), ma se l' era sciolta dicendo, che l' avversione in cui quel peccato consiste non necessita di peccar sempre, ma sol qualche volta (2), se non soccorre la grazia. Il Rosmini poi aggiunge un' altra risposta, poichè, distinta prima la volontà dal libero arbitrio , dimostra che questo può dominare su di quella, anche se quella è naturalmente male atteggiata e disposta «( Antropol. L. III, c. ., e 10) ». Si teme ancora, che col porsi il peccato d' origine in una positiva avversione da Dio, sembri che esso si riponga nella concupiscenza, la quale è di fede non esser peccato dopo il battesimo. Ma perchè schifano tali teologi di definir chiaro ciò che si deva intendere per concupiscenza? Certo se con tal parola s' intende semplicemente « la facoltà d' appetire il bene sensibile »; come talun d' essi la definisce; anzichè peccato, ella è cosa buona e non solo potea essere nello stato di mera, ma sana natura, ma vi fu anche nello stato di grazia, in cui fu Adamo costituito. Se poi s' intende un vizio nella facoltà d' appetire il bene sensibile, non ancora può stare in essa propriamente il peccato, poichè la speciale facoltà d' appetire il bene sensibile, non è la volontà e quindi non è la sede del peccato. Se poi s' intende per concupiscenza un vizio inerente alla facoltà d' appetire il bene in generale, in tal caso si dee distinguere. O questa facoltà si considera nella suprema sua parte; (cui per distinguere da ogni altra attività, il Rosmini chiamò volontà personale ), o si considera nelle sue parti, inferiori alla suprema. In queste non può stare il peccato. Nella suprema poi è ancora a distinguersi. Il vizio che la inclinava ad appetire eccedentemente il bene sensibile, servendo così alle potenze inferiori è ciò che S. Tommaso considera come la parte materiale del peccato d' origine e tien luogo di conversione alla creatura; ma questo stesso vizio in quanto è avversione da Dio, cioè in quanto è alieno dall' ordine morale costituisce il formale del peccato originale; e qui è dove S. Agostino ripone il reato della concupiscenza, la quale avversione da Dio viene tolta e annullata interamente dalla grazia battesimale, che ricongiungendo l' uomo al Creatore, gli dà una nuova volontà o potenza suprema di volere il bene soprannaturale e di dominare sulle potenze inferiori. Ma su questo torneremo più avanti. Passiamo a vedere come il Zorzi si persuade di dimostrare il nuovo sistema, e ciò che dico del maestro si può applicare a' discepoli. Egli ci adopra autorità e ragioni. Quanto alle autorità, egli ne ha tante, che dopo aver detto che « « i buoni teologi dietro la scorta di S. Tommaso » » convengono nell' accordare ai bambini morti senza battesimo una natural beatitudine, e, dopo avere esposta questa natural beatitudine in tre proposizioni, soggiunge: [...OMISSIS...] . Queste sono le solite frasi de' teologi razionalisti, non certo scrupolosi in punto di veracità. Egli è vero, che giocano di sottigliezze affine di tirare i testi del Concilio di Trento, e di S. Agostino principalmente, ad un senso alienissimo dal vero, dall' ovvio, da quello che ad ogni uomo di buona fede corre tosto alla mente. Una di queste sottigliezze si è il pretendere, che quando il sacro Concilio con S. Agostino parla d' un decadimento, e d' un guasto dell' uomo che nasce, debbasi SEMPRE intendere d' un guasto relativo allo stato soprannaturale in cui fu Adamo costituito, non d' un vero guasto della natura umana in se stessa considerata. A dar valore a tal sistema, recano in mezzo qualche parola del Concilio, o qualche lineuzza di S. Agostino, che da sè sola sarebbe suscettibile dell' una e dell' altra interpretazione, usando poi la mala fede di dissimulare i passi più chiari, e di lasciar da parte il contesto di ciò che precede e che sussegue ne' passi dubbi, i quali, considerati nella serie de' concetti, cessan per lo più di esser dubbi. Essi vi arrecheranno quelle parole del Concilio in cui si definisce, che Adamo perdette per sè, e per noi, l' innocenza, la giustizia, la santità; e tosto conchiuderanno: [...OMISSIS...] . Ma in primo luogo, altro è l' innocenza e la giustizia e altro è la grazia santificante: altro è la colpa e l' ingiustizia , ed altro la perdita della grazia : questa è una conseguenza di quella, non più. In secondo luogo, perchè tacere, che il Concilio dopo aver detto d' Adamo [...OMISSIS...] . Si dirà dopo di ciò, che l' uomo col primo peccato sia decaduto solo rispetto all' ordine soprannaturale in cui fu costituito, ma rispetto all' ordine naturale? E` ella dunque cosa conforme alla natura dell' uomo, l' esser esso soggetto all' ira ed all' indegnazione di Dio? Si dovrà considerar l' uomo in stato d' intatta natura, benchè sia schiavo del demonio? O il demonio lascerà intatti quelli che gli sono dati in balía come schiavi? Apparterrà alla pura natura il servire al diavolo? O si potrà dire che sia peggiorato tutto l' uomo (TOTUMQUE ADAM), se la natura dell' uomo nulla ha sofferto, nulla perduto, non avendo perduto nulla del suo, ma solo toltole il vestimento de' doni a lei superiori? Appresso, il Concilio dice che Adamo dopo il peccato (ancorchè si sia convertito) l' uomo rimase macchiato, inquinatum illum; ora, la natura umana per essere nuda e sola, è ella per questo macchiata? Dichiara ancora, che Adamo trasmise a' posteri non solo la pena, ma anche il proprio peccato. E in Adamo, il peccato fu egli la sola perdita della grazia? Cessando l' atto peccaminoso d' Adamo, non restò alcun altro male in lui, se non tale privazione? Ma che è mai la privazione della grazia se non una pena e conseguenza del peccato, e non il peccato? Ora Adamo non trasfuse le pure pene; ma il peccato stesso. M' andrei troppo a lungo, se volessi tutto analizzare ciò che dice intorno a ciò il Concilio di Trento, che quasi ad ogni parola fa intendere, quanto l' uomo sia rimasto degradato sotto l' ordine naturale; non essendo cosa, che più intacchi e guasti LA STESSA NATURA del peccato. Quanto poi a S. Agostino, dice che NON SEMPRE parla del decadimento dell' uomo in rispetto al suo stato soprannaturale; spesso anzi parla di un decadimento e di un guasto assoluto, che intacca la natura, e questo è indubitato. Quando scriveva contro i Pelagiani, che ammettevano le divine scritture, a convincerli dell' esistenza del peccato originale, egli usava dell' uno e dell' altro argomento; cioè provava il peccato, in cui l' uom nasce 1 sì dal confronto tra lo stato presente dell' umanità, e quello in cui la divina scrittura ci dipinge costituito l' uomo da Dio a principio; e 2 sì dal confronto tra lo stato presente, e ciò che la natura stessa dell' uomo addimanda per non esser monca e deforme, qual non potrebbe mai uscire dalle mani di Dio. All' opposto qualora egli pugna co' Manichei, che non ammettevano le scritture, usa solo questa seconda maniera d' argomentare, come sola loro adattata. Quantunque poi già nella « Dottrina del peccato originale » abbiamo recati de' luoghi di S. Agostino attissimi a convincere chicchessia, che il Santo dottore riguarda il presente stato dell' uomo siccome guasto e corrotto anche rispetto all' ordine naturale, tuttavia non sarà inutile che aggiungiamo due altri argomenti, atti a finire ogni question sulla mente di S. Agostino intorno alla qualità del guasto, che di presente trae seco l' umana natura. Il primo si è che S. Agostino non crede che si possa rispondere a' Manichei, i quali dimandano perchè l' uomo nasca soggetto a tanti mali, cioè dimandano: [...OMISSIS...] , non crede, dico, potersi rispondere a queste domande de' Manichei, se non ricorrendo al peccato originale (1). Il che mostra chiaro, ch' egli giudicava che Iddio non avrebbe mai potuto creare con un tal guasto la natura umana, come gl' Anonimi nostri pur vogliono sostenere; e sfida i pelagiani di risponder validamente, senza ricorrere al peccato d' origine, all' istanza de' manichei, [...OMISSIS...] I razionalisti moderni più audaci degli antichi pelagiani, rispondono a questa sfida dicendo, che tali cose non sono propriamente mali, ma conseguenze necessarie della natura umana. Ma S. Agostino non credeva possibile, che gli eretici del suo tempo avesser fronte da rispondere così, esponendosi alle fischiate di tutto il mondo, onde gli invita a produrla se ne hanno l' animo, così loro dicendo: [...OMISSIS...] . Il dire adunque che il guasto con cui nasce al presente l' individuo umano potesse trovarsi in un uomo creato così da Dio, ell' è cosa, secondo S. Agostino, da ghignate di fanciulli e da sardelle; e tuttavia ell' è degna de' teologi nostri, tanto men verecondi di quegli antichi pelagiani. Il secondo argomento, io lo traggo da tutti que' luoghi, e sono moltissimi, di S. Agostino, ne' quali egli prova l' esistenza del peccato d' origine dal sentimento del pudore, costantemente affermando, che ciò di cui l' uom si vergogna, non potrebbe mai essere opera stessa di Dio (3); argomento che non avrebbe forza, qualora fosse vero, come vogliono i nostri moderni teologi, che Iddio avesse potuto creare l' uomo con tutto il guasto ch' egli porta di presente dal suo nascimento. Questi due tra gli altri argomenti moltissimi convincer possono della vera mente di S. Agostino, a cui s' attiene la sede Apostolica, tutti gli uomini di buona fede. Ciò nondimeno i teologi inclinati al Razionalismo giunsero a mettere il pudore fin nel Paradiso terrestre! Così fecero i P. P. Arduino, e Berruyer; e così fanno ora dopo di loro, i razionalisti biblici della Germania, e così fanno e devono fare tutti quelli che interpretano malamente la condanna della proposizione 55 di Bajo; [...OMISSIS...] . Le autorità di S. Tommaso (1), del Gaetano (2), del Soto e del Bellarmino, ch' essi vanno non citando, ma rosicchiando, furono esaminate nella « Dottrina del peccato originale », e trovate espressamente a loro contrarie (1). Fra gli scolastici, si potrebbe trovar taluno nel primo aspetto a lor favorevole, ma non così, se si considerano diligentemente. Mi servirò qui nuovamente delle riflessioni che fa intorno a ciò Alfonso Muzzarelli: [...OMISSIS...] (2). Il Zorzi ci rimanda ancora in fine del suo articolo all' opera di Bernardo Maria De Rubeis, quasi che questo dottissimo domenicano fosse tutto per lui, e n' adduce un breve testo, in cui il De Rubeis nega, che ciò che v' ha d' aderente all' anima del bambino nel peccato originale sia qualche pravo giudizio o qualche prava conversione « in bonum « commutabile » », il che sarebbe un atto, perchè il giudizio è un atto della mente e la conversione nel bene è un atto dell' affetto; nè niuno di noi certo dirà che ci fu ne' bambini un atto compiuto di tal sorte. E pure di quelle due linee tratte da un buon volume in quarto, egli n' ha abbastanza per farlo passare per suo! In queste simulazioni e dissimulazioni vedesi la passione di un partito, e colla scorta della passione non si trova la verità. Fatto sta, che il celebre De Rubeis è affatto alieno dal moderno sistema intorno al peccato d' origine, che ci vogliono vendere per antico, e a provarlo esporrò qui il suo vero sentimento. Prova il De Rubeis a principio, che ne' posteri vi ha un peccato abituale, simile a quello che rimase in Adamo dopo la sua prevaricazione. Affine dunque di conoscere qual sia il peccato de' posteri si fa a ricercare qual sia il peccato abituale d' Adamo, e prima lo riscontra col suo peccato attuale. All' uno e all' altro conviene la definizione general del peccato: « un pravo amore » [...OMISSIS...] . Ma questo genere si divide nelle due specie così: [...OMISSIS...] . Dove si noti, che nel peccato abituale qual è quello d' Adamo e del bambino, il celebre teologo scorge « un affetto permanente del peccato »; il quale, domanderò io a nostri teologi moderni, se possono crederlo un elemento della natura umana, da trovarsi altresì nello stato di quella pura natura, in cui Iddio può crear l' uomo. Andiamo avanti. Questo affetto pravo, che suscitò Adamo in se stesso e che rimase in lui fino alla sua conversione, spogliò l' uomo della santità e della rettitudine, e d' altri beni: [...OMISSIS...] . E seguitando a dichiarare l' effetto che rimane nell' anima dopo il peccato attuale, quell' effetto cioè che peccato abituale si dice poco appresso soggiunge: [...OMISSIS...] . Dopo di che viene a dire con espressive parole in che fa egli consistere il peccato abituale e di conseguente l' originale de' posteri, [...OMISSIS...] ; e ne fa tosto appresso l' applicazione a' bambini, come pure dimostra ampiamente esser questa la dottrina dell' Aquinate (2): all' incontro nè la sottrazione che fa Iddio della grazia santificante, nè la mera privazione di questa è peccato, come contendono i teologi razionalisti, negandolo apertamente quel teologo, che allegano essi medesimi come autorevole. La sentenza dunque d' Alessandro Zorzi seguito dai recenti è una novità nella Chiesa, e in vano si cercherebbero gravi autorità a mantenerla. Nè hanno più polso le ragioni, con cui si studiano sorreggerla: esaminiamole pigliandole dal P. Perrone. I ragione . Il Concilio di Trento definì il peccato originale « morte dell' anima ». Ma la morte è la privazione della vita, e la vita dell' anima è la grazia santificante. Dunque il peccato non è altro, che la privazione della grazia santificante; senza bisogno alcuno di supporre altro vizio nella natura. Risposta . La grazia è la vita soprannaturale dell' anima, allo stesso modo, dice S. Agostino, come l' anima è la vita del corpo. Ora quando si dice, che l' anima è la vita del corpo non si vuol dir altro, se non che l' anima è la cagione formale della vita del corpo. Per altro la vita del corpo non istà meramente nell' anima considerata da sè sola; ma essa vita è un effetto delle mutue azioni dell' anima da una parte sul corpo, e del corpo dall' altra in sull' anima. Di più, trattandosi qui di spiegare come il corpo sia vivo, e come sia morto, trattandosi di definire che cosa voglia dire la vita del corpo, e che cosa voglia dire la morte del corpo, è necessario riporre la vita in un atto dello stesso corpo, onde S. Tommaso sull' orme d' Aristotele definì propriamente la vita, dicendo, che l' anima est ACTUS CORPORIS organici ; (1) [...OMISSIS...] . Ciò posto, che cosa è la morte del corpo? E` la cessazione di quel suo atto, onde mettendosi in comunicazione coll' anima, vive. Ora la cessazione di quest' atto è ella cosa meramente negativa? Mai no; perchè il cessar da quell' atto che fa il corpo, è una intima disorganizzazione, è per lui un vero interior disordine. Applichiamo dunque la dottrina intorno alla morte del corpo a spiegare la morte dell' anima, che è il peccato. Come la morte del corpo è la cessazione dell' atto con cui il corpo vive in comunicazione coll' anima; così la morte dell' anima è la cessazione di quell' atto dell' anima, con cui questa vive in comunicazione con Dio. E come la cessazione di quell' atto del corpo è un disordine ed intima disorganizzazione del corpo stesso; così la morte dell' anima importa un disordine ed una intima disorganizzazione, per così dire, dell' anima, onde non è più atta all' atto della vita, [...OMISSIS...] cioè il peccato. Il peccato adunque, che secondo il Concilio di Trento è « la morte dell' anima »non si può far consistere nella semplice privazione della grazia santificante, qual ella sarebbe quella dell' uomo creato da Dio in istato di pura, ma sana ed intera natura; ma si dee far consistere in un disordine inerente all' anima, che la rende incapace ed indegna di comunicare con Dio e viver di lui. In secondo luogo, la morte importa un male dell' umano individuo, cessandogli quella cosa che più di tutti è necessaria alla sua costituzione. Ma non così può dirsi della mera privazione della grazia santificante; questa non è necessaria alla natura dell' anima; ma è una sopraggiunta, sicchè l' anima anche priva della grazia, può avere tutto ciò che esige la sua natura, ed altresì la vita sua propria e la perfezione naturale, come decise la Chiesa contro Bajo (2). Dunque la semplice privazione della grazia santificante non può ricevere il nome di MORTE dell' anima, se non si suppone nell' anima stessa un disordine che la renda incapace ed indegna di essa, come dice Francesco Suarez, il Bellarmino, e tanti altri. L' ordinazione ed il proposito fatto da Dio di elevare ad una sfera soprannaturale la natura umana, non può già fare, che l' ordine soprannaturale diventi perciò una parte della natura umana; sicchè la natura umana senza la grazia sia mancante di una cosa alla sua costituzione o natural vita e perfezione necessaria; perocchè quell' ordine e quel proposito divino non muta la natura delle cose, non cangia i costitutivi dell' anima e le sue naturali esigenze. Vero è che quando l' anima ha già la grazia, come l' aveva Adamo, l' atto con cui la grazia si perde non è altro che il peccato, e in questo senso il rimaner privo della grazia e l' essere in peccato cioè nella morte spirituale è il medesimo. Ma riman sempre vero, che il peccato consiste nell' atto dell' uomo con cui caccia da sè la grazia, atto che rimane poi come abito, e non nella semplice mancanza della grazia, che in tale condizione è solo l' effetto del peccato, non il peccato medesimo. In terzo luogo la grazia nel modo detto cagiona la vita soprannaturale dell' anima , ma l' anima innocente nell' ordine naturale, come sarebbe quella del bambino che nasce, se fosse vero il sistema de' nostri teologi, non sarebbe mica priva di ogni vita morale. Ell' avrebbe una vita morale nell' innocenza e nella rettitudine naturale. Onde non si avvererebbe, che ora l' anima del bambino avesse quel peccato che è mors animae secondo il Concilio di Trento in senso semplice e incondizionato. In quarto luogo, riponendosi la definizione del peccato che è morte dell' anima nella semplice privazione della grazia santificante ne verrebbe, che colui che ha già perduta la grazia santificante non potrebbe più peccare. E non varrebbe il dire, che costui, peccando, mette un ostacolo maggiore all' ottenimento della grazia; perchè in tal caso il peccato, ostacolo all' ottenimento della grazia, non sarebbe più la semplice privazione della grazia santificante, senza alcun difetto realmente inerente alla natura dell' anima che la renda peccatrice; verrebbero dunque con tale risposta a contraddirsi. 2 ragione . Col nuovo sistema si spiega con tutta facilità come si propaghi il peccato di padre in figlio: [...OMISSIS...] . Risposta , questa ragione non prova altro, se non che il sistema è nuovo nella Chiesa, e perciò al tutto falso ». Perocchè avendo sempre creduto tutti i Padri, i Dottori, i teologi, i sommi Pontefici, i Concili che [...OMISSIS...] ; avendo la stessa gran mente di S. Agostino confessato che, [...OMISSIS...] ; deve pur esser falso un sistema, da cui risulterebbe tutt' il contrario di ciò, che ha tenuto sempre la Chiesa (3). E onde nasce mai il Razionalismo, se non dalla voglia di spiegar tutto colla ragione? Che bisogno c' è che voi spiegate i dogmi della Chiesa, se le vostre forze intellettive non ci arrivano? Non è ella forse questa la ragione, per la quale i sociniani e razionalisti hanno distrutti tutti i misteri? 3 ragione . Rimovendosi col nuovo sistema dal dogma della propagazione del peccato tutto ciò che è opposto alla retta ragione, rimangono sciolte le difficoltà degl' increduli e de' filosofi. Risposta . Le difficoltà che gl' increduli ed i filosofi contrappongono ai dogmi della Chiesa si rendono certamente impossibili colla distruzione de' medesimi dogmi; ma non è questo uno sciogliere le loro difficoltà, ma un fare ch' esse trionfino della rivelazione. Certo, se voi siete da tanto da sciorre le difficoltà de' filosofi contr' a' dogmi della chiesa, senza distrugger questi, farete assai bene a darne la soluzione, facilitando loro il ritorno all' ovile di Cristo col rimovere dalle loro menti gli ostacoli. Ma se la vostra intelligenza non giunge fino a questo, altro non vi resta che di creder voi, e di esortar pur essi a CREDER CIECAMENTE alla parola di Dio che è per sè luce bastevole, senza più. [...OMISSIS...] , dice S. Agostino (1). In terzo luogo col sostituire ai dogmi da credersi dei sistemi razionalistici, che li distruggono; voi non conciliate i filosofi colla Chiesa, ma esponete la Chiesa a' loro dileggi. Poichè essi si persuaderanno, che la Chiesa si contenti di ciance, e che i suoi dogmi non sieno che baie di teologi accozzanti insieme parole, e parole senza significato. E veramente la voce peccato nel vostro sistema, non significa peccato. Vi sfideranno dunque i filosofi a dar loro una definizione del peccato, che sia universalmente ricevuta dagli uomini, e non foggiata da voi stessi al vostro bisogno presente, a cui si possa ridurre il preteso vostro peccato originale. E voi che farete? che risponderete? Non potete applicare a cotesto vostro peccato originale nè l' « actus humanus malus » di S. Tommaso, perchè questa definizione conviene al peccato attuale d' Adamo, non a quel del bambino; nè il « flagitiosus amor voluntatis » del Padre De Rubeis, perchè voi negate al bambino ogni affetto disordinato; nè il « mors animae » del Concilio di Trento, perchè la morte è il maggior difetto positivo che aver possa la natura umana, e voi negate a questa natura qualsiasi positivo difetto; nè altra definizione insomma ricevuta nell' uso; perchè nessuna conviene al vostro preteso peccato. I filosofi da voi istruiti dileggeranno dunque la Chiesa, come poco sincera, poco verace, anzi frivola e che cerca illudere il genere umano, quand' ella fa suonare quelle grandi parole circa il peccato originale chiamandolo [...OMISSIS...] , e quando vuole fino che un Dio sia morto per soddisfare alla divina giustizia, e sanarne gli uomini tutti, quasi che ella intenda d' atterrire gli uomini con istrepitose voci, ma senza concetto. Così diran certamente all' udire, che il peccato che infetta il mondo; pel quale morì l' uomo Dio, non è in fine, che la mera mancanza dell' ordine soprannaturale, essendo l' umana natura senza difetto alcuno, nè vizio di sorta. Que' filosofi mondani che crederanno al vostro detto assai facilmente, non si contenteranno essi della natura senza vizio che voi loro promettete, e della beatitudine, a cui la natura così sana come voi li assicurate ch' ella è, vien destinata? Che diligenza avranno di fare amministrare il santo battesimo a loro bambini? O come si persuaderanno, che vi sia qualche obbligazione di dover cercare di più del ben naturale, avendo già la natura umana tutto il suo, e di questo andando essi contenti? Oltre di che vi faranno essi ancora una piccola dimanda tra le innumerevoli che farsi potrebbero, la quale di nuovo v' impaccerà più che un poco, e sarà: « Il bambino che nasce come voi dite, senza vizio nella natura e sol privo di grazia, è egli si o no in possesso del Diavolo? »Che cosa risponderete loro? Se direte di sì, essi resteranno stupiti, sentendo che il demonio sia padrone di una natura che non ha vizio, e che il bambino in braccio del demonio possa godersi tuttavia, morendo, una sua natural beatitudine. Direte voi dunque di no: non vi resta altro. Ma certamente in tal caso prenderete il partito di dirlo loro in orecchi; acciocchè nessun vi senta, e la Chiesa non conosca le vostre faccie; e S. Agostino aggiungerebbe qui ancora, acciocchè la plebe cristiana non vi sputacchi, e le donnicciuole di piazza scalzate non vi diano per avventura delle loro pianelle in sulla bocca (1). Ed oltre al pericolo che vi minaccia il Santo, di dover fiutare le donnesche pianelle; i filosofi stessi all' ultimo vi daran dietro la baia scorgendovi in tant' impiccio, vi loderanno poscia per gratitudine, come Voltaire l' Abatino suo ammiratore di cui scrivea ad un suo collega che era un bon diable per raccomandarglielo (2). Sarei troppo lungo se io volessi aggiungere un saggio della maniera con cui poi si pensano di rispondere alle difficoltà innumerevoli che contrappongono loro senza numero i sacri teologi (1). Conchiuderò invece questo capitolo, notando in qual maniera essi spogliano la Chiesa d' un bellissimo e palmare argomento, che dimostra il peccato originale. Tutti i più grandi filosofi dell' antichità, hanno riconosciuto un guasto della natura l' hanno ben sovente appellata matrigna (2) ed hanno inventato de' sistemi per ispiegare un fenomeno così straniero a un ente ragionevole, così opposto ai voti dell' umanità. Rispondono i nostri, che tali testimonianze non provano il guasto originale, perchè gli antichi scrittori, se talor deprimono l' uomo, talor anco l' innalzano oltre il dovere (3). Quasichè non esistessero negli uomini veramente le traccie di due estremi, di una piccolezza cioè, e miseria infinita, e di una grandezza e ricchezza di doni maravigliosa. D' altra parte che esagerassero gli antichi filosofi la nobiltà ed eccellenza della natura umana, ella è cosa all' inclinazione umana conforme (1); e non distrugge punto l' altro fatto, che i mali a cui l' umanità soggiace secondo il giudizio naturale degli antichi sono sì gravi e sì strani da doversene almen sospettare un guasto primitivo. Si cita qualche elogio fatto all' umana natura da Platone e (lasciando anche stare che il passo diligentemente esaminato non prova ciò che si vuole) si dimentica, che Platone immaginava le anime preesistenti a' corpi, appunto per dar loro un luogo, dove avesser peccato prima di nascere, e così spiegare in qualche modo l' umana pravità e l' umana miseria che gli saltava vivamente negli occhi. Si cita Galeno che esalta la sapienza e la bontà divina in aver dato all' uom tanti doni, quasichè anche dopo il peccato non ci si trovino nella nostra natura le vestigia di un Creator ottimo e sapientissimo, e si dimentica che insieme colle lodi che dà Galeno al Creatore, sta benissimo senza contraddizione alcuna l' osservazione d' Ipocrate che [...OMISSIS...] . Non trattasi già di sapere se l' uomo abbia ancora de' pregi: trattasi di sapere se insieme co' pregi scorgasi mescolato un guasto così profondo da potersi indurre colla sola ragione, che la natura stessa è vulnerata per qualche antica caduta. E` questo il giudizio, che ha fatto il buon senso di tutta l' antichità; e che sta fermo, qual testimonio manifesto del vero, anche dopo l' osservazione de' nostri teologi. Non ha dunque creduto il buon senso naturale dei savii del paganesimo, che il guasto morale e fisico che ravvisasi nel genere umano si potesse spiegare ricorrendo alla natura dell' uomo, come potrebbe fare un ateo che non crede in Dio; ma prestando essi fede ad un ottima e sapientissima provvidenza, trovavano ripugnante, che Iddio avesse prodotto l' uomo senza sapere o volere mettere in armonia le forze della sua ragione con quelle del suo senso, da dover quelle comandare senza fatica e molestia a queste seconde, come esige il buon ordine dell' umana natura, e S. Tommaso, che ha una testa alquanto più grande di quella de' nostri Teologi dà loro piena ragione. Egli prova che ragionavano bene nell' opera contra i Gentili (1). Quivi dimostra, che dalla debolezza e dalla fallacità della ragione, dalle forze de' bestiali appetiti che l' uomo non vale talora a contenere, può benissimo indursi colla sola ragion naturale, l' esistenza d' un antico peccato, di cui tali mali sieno pene od effetti. Nè egli dimentica punto l' obbiezione de' nostri teologi da lui ben preveduta. [...OMISSIS...] e la va lungamente svolgendo; ma poi la dichiara inetta a provar cos' alcuna, [...OMISSIS...] . Onde conchiude, che colla sola ragion naturale giustamente si può rilevare, almen con probabile argomento, dalla lotta della ragione colla concupiscenza, che così non dovesse un Dio ottimo e sapientissimo averlo creato, [...OMISSIS...] . Bene dunque argomentarono i savii del Paganesimo, e male assai a detta dell' Aquinate, i nostri teologi che si sforzano incessantemente a sostituire un sistema nuovo intorno al peccato d' origine a quel della Chiesa. Ed è per questo che S. Agostino chiama i pelagiani al paragon de' pagani filosofi, che colla sola ragione avean pur veduto nell' umane miserie la prova dell' antico delitto. [...OMISSIS...] . E adduce quel bellissimo luogo di Cicerone, nel quale coll' autorità degli antichi dagli errori e dalle miserie dell' umanità argomenta che in qualche occulto reato sia involta l' umana natura. Nè tuttavia dissimulo, che B. De Rossi giudica questa prova de' filosofi non più che congetturale (2), ma giova fare su di tale sentenza le seguenti riflessioni. Le prove congetturali sono di due maniere, altre sono tali in se stesse, quando si fondano sulla probabilità degli eventi contingenti; altre sono congetturali solo inverso all' uomo che non sa dar loro la piena sua persuasione pel vacillare della riflessione e per debolezza della facoltà della persuasione benchè in se stessa la prova sia concludente, come dee esser se è prova, ed è fondata in un rapporto necessario delle idee. Ora se la prova di cui parliamo, che dal male eudemonologico, da cui è affetta l' umanità, induce un male morale ad essa aderente è congetturale , a quale delle due classi di prove congetturali crediamo noi che appartenga? Certamente alla seconda, essendo fondata a parte sui in un rapporto necessario d' idee; onde in se stessa considerata o non val punto, o conchiude a certezza. E in vero ella fondasi « sulla sconvenienza che l' umanità soffra tanto senza reato. »Ora questa sconvenienza o c' è, o non c' è: mezzo non ci ha. Se una tale sconvenienza c' è, la prova rigorosamente stringe; se non c' è, il suo valore, è nullo. S' ella dunque è congetturale, non è tale che relativamente a quell' uomo, che non ha forza o coraggio di aggiungere ad essa, come a ragione alta e spirituale, l' intera sua persuasione. Ora le prove di tal indole riescono congetturali o certe secondo la disposizione de' soggetti; il che spiega come, mentre S. Tommaso si limita a dire [...OMISSIS...] , S. Agostino assai più francamente dica [...OMISSIS...] . Ma io aggiungerò, che la detta prova in sè stessa considerata non dee dirsi congetturale , ma certa secondo la dottrina stessa di Francesco Bernardo de' Rossi. Eccone la dimostrazione. Essa prova è certa, se lo stato dell' umana natura presente si conceda sì tristo, che tale non potesse uscire dalle mani del Creatore; e perciò dimostri un decadimento morale da quello stato, qualunque esso sia, nel quale un Dio sapiente ed ottimo dee averla creata. Ora il De Rossi prova, che Iddio potea crear l' uomo nello stato di natura pura e di natura integra; ma trova in pari tempo un' immensa diversità tra lo stato di natura pura od integra dallo stato presente. Supposto l' uomo creato da Dio nello stato di natura pura o di natura integra, Iddio l' avrebbe fornito altresì degli aiuti necessarii co' quali potesse amar Iddio d' un amor naturale sopra ogni cosa ed anche questo, io aggiungerò, facilmente. All' incontro l' uomo nello stato presente dell' umanità non ha, senza la grazia, quest' amor naturale di Dio così facile e perfetto; perchè la sua volontà è moralmente piagata, [...OMISSIS...] . Quindi la differenza immensa fra l' uomo caduto e l' uomo che fosse creato da Dio in istato di pura od integra natura, [...OMISSIS...] . E quest' avversione da Dio non è già una relazione mentale o esterna, come pretendono i nostri teologi che mettono in campo l' arguzia dell' uomo vestito e dell' uomo nudo; ma importa una vera e grande differenza di forze morali nella volontà tra l' uomo caduto che ha quell' avversione, e l' uomo supposto creato [...OMISSIS...] . Onde prosegue il De Rossi: [...OMISSIS...] . Così scrive quel teologo, al quale appellano, come ad uno tutto lor favorevole, il Zorzi e il P. Perrone! Dal che intanto si può raccoglier così: L' umanità presente (non ristorata dalla grazia) si trova in uno stato di deficienza di forze morali, e n' è prova manifesta il mare delle iniquità che innonda e innondò sempre la terra. Così non può essere stata da Dio creata, nè pure nell' ipotesi, ch' egli l' avesse lasciata colla sola natura, egli l' avrebbe fornita di maggiori forze morali che non sono quelle ch' essa mostra aver di presente. Non è dunque il presente stato dell' umanità quello di prima istituzione, ma è uno stato di decadimento: giace sotto il fascio di colpe antiche; è disordinata e infelice, dunque è rea. Così i filosofi del Paganesimo (1); l' argomento è ridotto a dimostrazione. Avean dunque ragione, e con essi il senso comune. E con un testimonio del senso comune, a cui rinunziano i nostri teologi, conchiuderò questo capitolo. Poichè qual semplice testimonio del senso comune, chiedo io che mi valga l' autorità dell' illustre autore delle « veglie di Pietroburgo ». Il quale certo non era nè si inerudito da non conoscere, che alcuni filosofi dell' antichità esaltarono indebitamente l' uomo, nè sì piccol di testa da non saper conoscere, se tale esagerazione potesse distruggere l' induzione che altri filosofi, o anche gli stessi in altri luoghi delle loro opere facevano dallo stato in cui si trova l' umanità, ad una colpa originale di questo stato infelice cagione. A lui sembra evidente, che i tanti mali morali e fisici del genere umano non sieno punto limitazioni necessarie della umana natura, o difetti da queste limitazioni di necessità provenienti; ma uno stravolgimento di essa natura. Onde dando ragione a que' pagani filosofi, (ed egli sarebbe pure strano che con un raziocinio falso, come vogliono i nostri teologi, avesser colto sì giusto nel segno del vero) favella in questo modo: [...OMISSIS...] . Chi adunque sostiene, che la natura umana nello stato in che al presente si trova, non ha vizio in sè stessa nè morale nè fisico, ma solo è priva della grazia santificante; non pure s' oppone all' ecclesiastica tradizione, ma alla filosofia e al senso comune del genere umano. Altri argomenti dimostrano il disordine contro natura che è nella volontà dell' uomo che nasce, pertinacemente negato da' moderni razionalisti. Crediamo tanto più necessario comprimere coll' abbondanza degli argomenti la loro baldanza, ch' ella è tanta, che giungono ad attribuire il loro coperto Pelagianismo a tutti i cattolici (1), ad asserirlo ammesso universalmente (2) a dichiararlo dottrina di fede (3). E cominciamo dal paragonare insieme i tre errori de' giansenisti , de' razionalisti biblici della Germania, e dei teologi nostri razionalisti pratici . Benchè l' error de' primi sia opposto a quello degli altri due; tuttavia non sarà difficile scorgere, che tutti e tre, questi errori, hanno una base, un principio comune. Avviene quasi sempre, che si rinvenga un elemento comune ne' contrari errori, come già osservammo. Il principio, o la base comune consiste nel venire a riporre il peccato originale in una LIMITAZIONE della natura umana; anzichè in ciò che è guasto e disordine. Tutti e tre gli accennati erronei sistemi si fondano sopra questo primo sbaglio (1); ma spiegano poi diversamente il modo, onde attribuiscano l' appellazione di peccato alla mera limitazione della natura. Esponiamo la diversità di questa spiegazione. I giansenisti sulle tracce di Bajo dicono che la natura umana lasciata sola, senza la grazia soprannaturale, è imperfetta e monca, formando così della grazia un costitutivo all' interezza e sanità dell' umana natura (2). Questa natura così scema d' una sua parte, si dee chiamar viziata e peccatrice, perchè non si solleva colla volontà a Dio soprannaturalmente conosciuto (al che le mancano le forze), e in questa non elevazione ch' essi dichiarano volontaria, fanno consistere l' original peccato (3). I biblici razionalisti della Germania pure accordano a' giansenisti che il peccato originale consista nella limitazione della natura; ma spiegano la cosa più filosoficamente. Questa limitazione non è già peccato, come vogliono i giansenisti, perchè l' uomo in essa costituito non si leva a Dio colla sua volontà impotente; ma perchè è lontano dalla sua ultima possibile perfezione alla quale non si solleva che a gradi. Onde secondo il signor Baur il peccato è simultaneo colla natura dell' uomo, come è simultanea con quella natura la limitazione (1). Imperocchè l' uomo, in quanto è creato da Dio, [...OMISSIS...] . I nostri teologi moderni (stando alla sostanza delle loro dottrine, benchè colle parole si dichiaravano nemici di tutte l' eresie) sono obbligati a parlare in questo modo, quando vogliano esser sinceri: Avete ragione, o giansenisti e razionalisti biblici, nel cercare nella LIMITAZIONE dell' umana natura il peccato originale: anche noi facciamo lo stesso; ma spieghiamo la cosa in modo diverso dal vostro. Noi diciamo che la natura umana presentemente ha tutto il suo senza difetto alcuno; ed aggiungiamo, che ha il peccato, unicamente perchè le manca l' ordine soprannaturale, che ella dovrebbe avere; quindi definiamo il reato di cui è presentemente l' uomo aggravato [...OMISSIS...] . Anche noi dunque diciamo co' razionalisti biblici che l' uomo non ha alcun difetto, ma aggiungiamo che gli manca la grazia, e in questo sta il peccato. Diciamo anche co' giansenisti, che questa grazia è dovuta all' uomo perchè la natura umana non sarebbe intera senza di essa, ma unicamente perchè Iddio a principio ha fatto liberamente il decreto di concederla all' umanità, e in virtù di questo decreto le è dovuta. Or Adamo colla sua prevaricazione spogliò la natura umana di questa grazia per sè stessa non dovuta, e non fece alcun altro male all' umana natura. Noi dunque, suoi figliuoli, nascendo senza grazia, siamo peccatori, figliuoli dell' ira, inimici di Dio e almeno negativamente avversi a Dio, [...OMISSIS...] . Nell' uomo dunque che nasce non v' ha alcun difetto morale, v' ha sola la limitazione naturale , che importa il non aver la grazia soprannaturale; e questa è peccato formale, perchè non dovrebbe esservi « juxta ordinem a Deo constitutum ». La stessa limitazione, la stessa mancanza di ciò, senza cui la natura può esser perfetta, è peccato, o non è peccato, secondo il decreto di Dio. Se Iddio non avesse decretato di dar al figliuolo di Adamo la grazia, non sarebbe per lui peccato l' andarne privo; ma avendo decretato di dargliela, se il padre la conservava; è un peccato del figliuolo l' andarne privo a cagion del padre, che gliela perdette. Non dipende dunque dalla cosa in sè, ma dal positivo decreto di Dio l' esser peccato la nudità della grazia, che per se non è punto peccato; ma Iddio il rese peccato col suo decreto! Se non che ci sarebbe senso nel dire, che un decreto con cui Dio decretò di dare agli uomini un dono, sia obbligatorio anche per quegli uomini, a cui questo dono non è dato? quel decreto di Dio poteva essere obbligatorio pel bambino che nasce? ovvero, contribuì il bambino a invalidarlo? Nulla di ciò. Tutto si fece all' insaputa del povero bambino. Iddio fece il suo Decreto ab eterno senza consultarlo. Il padre peccò pure senza farglielo sapere, nè il figliuolo che ancora non esisteva acconsentì punto al peccato del padre. Nacque nella sua persona innocente, senza difetto alcuno nella sua natura; ma nacque privo di ciò che la sua natura non esigeva, e che non dipendeva da lui l' avere o il non avere. Non vale. Incontanente che viene al mondo gli si dice; « sappiate che voi siete formalmente peccatore, inimico di Dio, figliuolo d' ira, a Dio avverso! »Che stupore per una simile creatura a tale intimazione! A riceverla cioè da persone, che l' assicurano in pari tempo che la sua natura è in tutte le sue parti perfetta ed immacolata, non punto obliqua la sua volontà, che non ha altro in somma, che quella necessaria limitazione, che esclude l' ordine soprannaturale! Deh, come crederà sinceramente di portare in sè un vero peccato, unicamente perchè Iddio aveva intenzione di dargli de' doni maggiori di quelli che non esiga la sua natura, e non glieli diede a cagione che suo padre impedì un sì liberale divino consiglio? Ora che Iddio privi tutta l' umana stirpe de' suoi gratuiti favori, pel peccato del suo capo, a cui gli avea largheggiati acciocchè a tutta la stirpe si propagassero, niente v' ha, che pugni colla ragione. Ma che questa semplice privazione, acquisti in conseguenza del decreto divino, la ragione di vero peccato formale in chi nasce da Adamo senz' alcun difetto nella sua volontà naturale; questo non s' accorderà mai colla ragione umana; che l' esser una cosa peccato non dipende da un decreto positivo di Dio, come il fanno dipendere i nostri teologi (1); nè tampoco dipende meramente da un fallo altrui; dovendo essere ogni peccato vero e formale, un mal morale personale (2); onde convien ricorrere a mutare la significazione della parola peccato (1), o per dir meglio a distruggerne affatto la nozione. Veniamo ad esporre altre ragioni teologiche, che dimostrando inammissibile il sistema de' nostri moderni razionalisti, confermino la verità difesa, che il peccato originale cioè non pure priva l' uomo della grazia santificante, ma guasta di più la natura dell' uomo nella parte sua più eccellente, la parte morale. S. Tommaso dimanda, perchè passi di padre in figlio il peccato originale, e non gli altri peccati (2), e risponde: perchè il peccato originale offende la natura , non che la persona; quando gli altri peccati non offendono che la persona . Infatti trapassa per generazione solo quello che appartiene alla natura, non quello che è meramente e strettamente personale. [...OMISSIS...] Conviene dunque cercare, che cosa S. Tommaso intenda per giustizia originale . Sotto l' espressione di giustizia originale S. Tommaso comprende più cose: 1 l' elevazione della mente a Dio soprannaturalmente conosciuto: 2 la rettitudine naturale della volontà, o giustizia naturale: 3 l' ubbidienza delle parti inferiori e corporee alla volontà retta secondo la natura, e secondo la grazia. [...OMISSIS...] Di tutte queste cose si componeva ciò che S. Tommaso intende per originale giustizia: tutte erano annesse e legate per libero decreto di Dio, alla natura umana; ma la prima parte di esse perfezionava essenzialmente l' umana persona nella natura umana esistente. Che cosa è l' umana persona? E` il più elevato principio, che sia nell' uomo, la sua volontà suprema. Indi la prima parte della giustizia originale cioè la sommissione della mente a Dio, era per essenza sua personale. Egli è di qui che s' intende ragione, perchè, restituita all' uomo nel battesimo questa parte personale della giustizia; rimanga tuttavia l' uomo difettoso e privo dell' altre parti di essa giustizia originale , cioè della sommissione delle potenze inferiori alla ragione, e del corpo all' anima. Il qual difetto spiega, dice S. Tommaso, perchè anche l' uomo giustificato trasmetta generando il peccato d' origine. [...OMISSIS...] Ammessa questa dottrina, si dee pure ammettere, che la parte inferiore dell' uomo è guasta, ragione unica per la quale genera un individuo guasto. Se nella parte inferiore non vi avesse natural disordine, e il peccato consistesse, come vogliono gli Anonimi nella semplice privazione della grazia santificante che appartiene alla parte superiore dell' uomo; l' uomo giustificato, rimastosi già senza difetto, dovrebbe generare del pari individui immuni da ogni difetto, e da ogni peccato. Lo stesso si può argomentare dall' altra dottrina di S. Tommaso intorno ad un uomo formato altramente, che per generazione: questi non avrebbe il peccato, perchè il principio che lo formerebbe non essendo guasto, come è guasto il principio generativo, non potrebbe mettere in lui il guasto del peccato ancorchè avesse la sola natura perfetta priva di grazia (2). Nel che s' osservi attentamente, come S. Tommaso spieghi in modo diverso la trasfusione del guasto originale in quant' è COLPA, e in quant' è PECCATO. Quando egli toglie a spiegare come si propaghi la colpa sempre ricorre alla volontà peccatrice d' Adamo, perchè al guasto originale de' posteri non può applicarsi il nome di colpa, se non si considera nella causa libera che lo produsse. Laonde dice: [...OMISSIS...] . Da tutti i quali luoghi apparisce, 1 che il santo dottore distingue nell' originale infezione due cose, un difetto morale, che noi chiamiamo peccato, ed una colpa; 2 che a spiegare come trapassi la colpa sempre ricorre alla libera volontà d' Adamo, perchè niun difetto benchè morale riceve la nozion di colpa, se non è prodotto da una libera volontà. Resta a vedere come spieghi la trasfusion del peccato ossia il difetto morale della natura. Prima che ne esponiamo la maniera, vogliamo far notare, che il peccato e la colpa originale passano ad un tempo per generazione, perchè non si dà fra tali due cose DISGIUNZIONE REALE; ma tuttavia diversa è la maniera di spiegarne la trasfusione: cioè una diversa ragione è quella che fa passare il difetto morale della natura , da quella che fa passar la colpabilità di quel difetto. Quando si tratta di spiegare la trasfusione di quello, S. Tommaso non ricorre più alla volontà libera e prevaricatrice d' Adamo, ma alla generazione . La caduta d' Adamo il corruppe nella parte sua superiore che è la volontà, e nella parte sua inferiore che è principalmente la facoltà generativa. La corruzione della volontà libera d' Adamo è quella che spiega la trasfuzione della colpa ne' posteri; la corruzione della facoltà generativa è quella che spiega la trasfusione del peccato . Udiamo adunque il Santo Dottore: [...OMISSIS...] . Ora questa vis activa in generatione , che S. Tommaso nomina tante volte, come quella che trasmette il peccato, non è già la volontà prevaricatrice d' Adamo, ma una facoltà tutto diversa. E pure la COLPA non viene che dalla volontà prevaricatrice d' Adamo; ma il peccato viene da quella forza attiva; benchè essa non sia soggetto di colpa, nè di peccato; e l' uomo possa adoperarla senza peccare (2). Ma pel guasto, che ha la carne generante produce una carne che sconcerta l' ordine morale dell' anima del generato, e così mette in essere il suo proprio peccato, il quale però non riceve appellazione di colpa se non riferito all' atto libero della disubbidienza adamitica (3). E notisi che alla trasfusione del peccato non basta nè la volontà prevaricatrice d' Adamo, nè tampoco l' esser formato della sua carne: no, questo non basta; conviene che c' entri la forza generativa , perchè [...OMISSIS...] . Ora in costui formato dalla carne d' Adamo prevaricatore perchè mai non passerebbe il peccato? Forse perchè non ci sia in Adamo la volontà prevaricatrice? No. Forse che la carne d' Adamo non sarebbe priva de' doni gratuiti? Sarebbe priva certamente. Non basta dunque che la carne sia priva de' doni gratuiti, e che la carne che l' uom veste sia carne d' Adamo; ma si esige di più, acciocchè sia messo in atto il peccato, la forza generativa , che non è un atto di volontà peccatrice, essendovi anco ne' giusti. La ragione di ciò non si rinverrà mai nel sistema de' nostri Anonimi; ma nel nostro si troverà luminosissima. Così pure nel sistema de' nostri teologi moderni conviene rinunziare affatto a quella ragione, che spiega sì bene perchè il Signor GESU` Cristo, figliuolo di Adamo verissimo secondo la carne, non ebbe tuttavia l' OBBLIGAZIONE di contrarre il peccato originale. La tradizione tutta risponde con S. Agostino (1) e con S. Tommaso (2), che non l' ebbe, perchè non fu generato dal seme infetto, perchè ricevette bensì da Adamo la carne, ma non per via di generazione. E alla natura umana, che volle assumere il Verbo, non era dovuta la grazia; anzi fu predestinata all' unione personale col Verbo, e il Cristo fu unto per libero decreto del Padre. Se dunque non era dovuta alla carne che il Verbo poi assunse la grazia, perchè tuttavia l' umanità di Cristo non fu obnoxia al peccato? Se il peccato non è che la mera privazione della grazia in relazione alla volontà prevaricatrice del primo padre, la carne d' Adamo in qualunque modo da lui si tragga sarà obnoxia peccato . Niente di ciò: anzi benchè alla natura umana non sia dovuta la grazia; pure insegna la dottrina cattolica, che il Nato dalla Vergine non solo non contrasse, ma nè pure dovea contrarre il peccato. Dunque il peccato non è la mera privazione della grazia; ma esso è l' obice che impedisce la grazia, il quale obice è posto dalla seminale generazione, la quale non fu quella di Cristo operata per ispirito Santo. Essendo dunque l' originale vizio ne' posteri e peccato e colpa, due cose ci vogliono acciocchè trapassi coll' una e l' altra qualità: 1 la generazione seminale, 2 la relazione alla volontà di Adamo, che viziò la generazione, poichè [...OMISSIS...] . Ma se si trattasse di trasmettere una mera privazione de' doni soprannaturali, sarebbe vero quello che dicono i nostri teologi, [...OMISSIS...] . Ma questo appunto dimostra l' erroneità del loro sistema. S. Tommaso, e tutti i dottori, tutti i teologi, non hanno creduto inutile una tale questione, anzi difficile, difficilissima. S. Tommaso ha creduto di dover ricorrere ad una [...OMISSIS...] ed ha creduto che non ogni forza o virtù fosse atta a trasmettere il peccato, ma solo quella che opera [...OMISSIS...] . Certo che per trasfondere una privazione semplice non fa bisogno d' una forza, o vita attiva, d' una mozione, e d' una mozione determinata. E` dunque manifesto, che S. Tommaso (a cui non si può negare il buon senso, nè attribuire che siasi abbandonato alla fantasia , o che siasi lambiccato inutilmente il cervello (4); non sarebbe ricorso ad una forza, o virtù attiva di operare per ispiegare la produzione del peccato ne' posteri, se avesse stimato che in questo non ci avesse niente di positivo, ma fosse una mera privazione de' soprannaturali favori (1). Finalmente col sistema degli Anonimi pare almen che si cozzi in un altro errore, quel della proposizione LVI di Bajo, [...OMISSIS...] . Imperocchè nel peccato original de' bambini battezzati non v' ha più certamente l' atto del peccato, già trapassato in Adamo, nè pure v' ha il reato tolto coll' acque battesimali. Che cosa dunque resta, ci dicano, i nostri Anonimi? Nel loro sistema non resta più niente, come dice Bajo, niente più che spieghi veramente la trasfusione del peccato; mentre nel sistema della Chiesa in vece d' una carne naturalmente sana che produce una carne sana, rimane una carne inferma e guasta che produce una carne del pari inferma e guasta, la qual trae la volontà dell' anima dall' eguaglianza della giustizia (2). Ma qui gli avversarii ci fanno un mondo di obbiezioni, alle quali tutte noi vogliamo rispondere, registrandole per ordine, e soggiungendo a ciascuna la sua risposta. Obbiezione 1 E` vero che S. Tommaso dice che all' essere del peccato d' origine concorrono due cose, 1 un difetto naturale , e 2 che questo difetto sia stato in potere della natura mercè la libera volontà del suo corpo, nel che consiste la ragione della colpa (1). Ma S. Tommaso chiama quel difetto naturale , non lo chiama già peccato . Risposta . Quel difetto è chiamato da S. Tommaso ugualmente difetto naturale , o peccato naturale . Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] (ecco la colpa), [...OMISSIS...] (non si ferma alla colpa, c' è qualche altra cosa da aggiungere) [...OMISSIS...] (e non solo privata de' doni maggiori). [...OMISSIS...] ; perchè, come disse altrove ne' posteri, il peccato originale « deficit a ratione culpae ». Laonde S. Tommaso al peccato dei posteri, astraendo dall' attual peccato d' Adamo, attribuisce ugualmente le appellazioni or di « defectus naturalis », or di « peccatum naturale ». Obbiezione 2 S. Tommaso chiama l' accennato difetto naturale [...OMISSIS...] . E` dunque in se stesso una semplice limitazione della natura, non un peccato. Risposta . Ci sono de' difetti, cioè delle mancanze che conseguono necessariamente alla natura umana, e questi sono mere limitazioni della natura; ma vi sono de' difetti che conseguono accidentalmente alla natura; e questi non sono mere limitazioni. Che la natura umana sia fallibile , questo è un difetto necessario, e solo per accidente ella può essere difesa e premunita contro l' errore, e il peccato. Ma che la natura erri, o pecchi realmente, questo è un difetto che consegue a' suoi principii accidentalmente. Dato poi che sia venuto in essa questo accidentale difetto, qual fu il peccato, ch' ebbe luogo nel primo padre; esso difetto si rende necessario nella natura: tale è il disordine abituale della volontà ne' posteri, o il peccato originale. Onde il peccato originale originato è un difetto naturale [...OMISSIS...] ; perchè i principii della natura umana, che è quanto dire i suoi essenziali costitutivi non esigono di necessità che la natura umana sia senza peccato. Se dunque il peccato si considera in Adamo che lo commise, egli è un difetto [...OMISSIS...] ; se si considera trasmesso ne' posteri dopo commesso, egli è un difetto [...OMISSIS...] . Laonde S. Tommaso dichiara, che l' inordinazione della volontà che non può domare le potenze inferiori, [...OMISSIS...] per mezzo della colpa (1), non della natura umana semplicemente. Nel che egli è uopo considerare, che S. Tommaso, come abbiamo già notato, nella giustizia originale distingue una doppia rettitudine di volontà , cioè una rettitudine di volontà soprannaturale , che nasce essenzialmente dal dono della grazia santificante: e la mancanza di questa è un difetto che consegue i principii della natura umana necessariamente, è una limitazione; ed una rettitudine di volontà naturale , che potrebbe esser nell' uomo anco senza la grazia santificante, se Iddio l' avesse creato in istato di natura integra, senza la grazia: e la mancanza di questa rettitudine naturale è un difetto che consegue la natura umana per accidente. Onde un suo interprete preclarissimo, a cui appellano gli stessi nostri avversarii, dopo distinto l' amore di Dio soprannaturale, e l' amor di Dio naturale che si conteneva nell' originale giustizia, dice, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che nel peccato originale rimase perduto non che l' amor di Dio soprannaturale, ma anche il naturale: [...OMISSIS...] . Di entrambi questi amori rimasero dunque privi anche i posteri d' Adamo spogli della originale giustizia. Ora il difetto dell' amore naturale di Dio, l' impotenza di amarlo naturalmente , quanto si conviene; è un difetto che consegue i principii della natura umana corrotta; e non mai quelli della natura umana, nell' ipotesi che fosse creata da Dio senza grazia, ma in pari tempo senza vizio. Obbiezione 3. Benchè S. Tommaso dica, che i difetti naturali, che peccato originale si dicono, sieno [...OMISSIS...] ; tuttavia dice anco che questi difetti potrebbero trovarsi in una natura non iscaduta per cagion di peccato, ma formata da Dio medesimo, nel qual caso non avrebbero ragione di colpa . [...OMISSIS...] Risposta . La conclusione che voi tirate dal testo addotto di S. Tommaso non procede in modo alcuno, perchè in quel testo S. Tommaso non parla del formale del peccato originale, ma solo del materiale . A convincervene vi basti quest' altro luogo di S. Tommaso medesimo: [...OMISSIS...] . Ora rileggete il testo addotto, e vedrete se il S. Dottore ivi parli dell' insubordinazione della volontà a Dio, che è il formale del peccato; ovvero se parli solo dell' inordinazione delle forze dell' anima, che è il materiale . Dell' insubordinazione della volontà , voi scorgerete che non vi fa motto alcuno, non dice se non che Iddio potea creare [...OMISSIS...] (2). S. Tommaso dunque non insegna nel testo addotto che Iddio avesse potuto creare un uomo la cui volontà non fosse subordinata a Dio, il che è il formale, l' essenziale del peccato; ma solo che avrebbe potuto crearne uno passibile, mortale, concupiscibile; il che forma nel presente ordine di cose la pena, l' effetto, e il materiale del peccato; ma nell' ordine ipotetico in cui Iddio l' avesse creato tale, sarebbe un difetto, a cui non si potrebbero nè pure applicare tali appellazioni. Laonde si dee conchiudere che dove S. Tommaso parla del peccato intero, racchiudente tanto la parte formale, quanto la materiale, egli nol dice difetto naturale, o conseguente i principii della natura, se non intendendo della natura decaduta, come ho detto nella risposta all' obbezione precedente; dove poi parla della sola parte materiale del peccato, egli concede che possa dirsi un difetto della natura stessa, e che l' uomo potesse esser creato da Dio in tale stato, benchè anche ciò per via di mera congettura, o con qualche limitazione, come vedremo (1). E in fatti egli è troppo assurdo l' attribuire a S. Tommaso l' insegnamento, che Iddio avesse potuto creare un uomo avente un FORMALE PECCATO, quale egli dichiara essere LA MANCANZA DI SUBORDINAZIONE A DIO DELLA VOLONTA` (2). Obbiezione 4. Quel naturale difetto col quale Iddio avrebbe potuto crear l' uomo, S. Tommaso lo chiama peccato originale; onde per esso non intende, come voi dite, la sola parte materiale del peccato. Risposta . Può tirarne questa conclusione solo colui che non conosce la maniera di parlare del Dottore angelico. Esponiamola, e sarà tosto dissipata l' obbiezione. L' espressione giustizia naturale , come l' usa S. Tommaso, comprende 1 la subordinazione della volontà a Dio; 2 la subordinazione delle potenze inferiori alla volontà buona. Il peccato originale poi è la perdita dell' originale giustizia; e però sotto tale espressione egli intende pure 1 l' insubordinazione della volontà a Dio, che perdette per propria colpa la grazia santificante, e così rimase abitualmente insubordinata e spossata, e 2 l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione. [...OMISSIS...] , dice Francesco de Sylvestris, [...OMISSIS...] . Ora talvolta S. Tommaso dà il nome di peccato originale alla sola parte materiale del peccato, come dà il nome di giustizia originale alla sola seconda parte che si può dir materiale di questa giustizia. Tutto ciò c' insegna l' accennato interprete de Sylvestris, il quale, dopo esposta la dottrina di S. Tommaso che, [...OMISSIS...] ; si fa l' obbiezione: in qual modo S. Tommaso possa dire che resta il peccato originale dopo il battesimo, mentre la concupiscenza che rimane non è peccato, perchè non è [...OMISSIS...] ; e per rispondere a quest' obbiezione e spiegare in che senso S. Tommaso dica che rimanga il peccato dopo il battesimo, ricorre alla maniera di parlare da lui usata, mostrando che secondo questa, la giustizia originale , come pure il peccato originale ha due sensi: [...OMISSIS...] . Onde quando S. Tommaso dice, che il peccato originale è [...OMISSIS...] . Quando poi dice che resta il peccato originale dopo il battesimo perchè resta la concupiscenza, deesi intendere che manca solo la seconda parte dell' originale giustizia, [...OMISSIS...] . Ora si dee osservare, che la seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente cosa morale, ma è morale solo in quanto dipende dalla prima parte; e così del pari la privazione della seconda parte della giustizia originale non è essenzialmente peccato, ma è peccato in quanto dipende e sta unito colla privazione della prima parte della giustizia originale, ed anche allora è ciò che forma la parte material del peccato. Quando dunque nell' uomo non manca la prima parte, quando non manca la RETTITUDINE DELLA VOLONTA` SUPREMA, allora la mancanza della sola seconda parte di essa giustizia non è più veramente peccato, e nè pure materia di peccato (cessandole la qualità di materia col cessarle l' unione colla forma); e tuttavia si suol dire ancora peccato per denominazione continuata, cioè perchè fu prima tale, e così pure si dice materia di peccato: dicesi poi reliquia del peccato, perchè inclina al peccato; [...OMISSIS...] . Quando dunque S. Tommaso dice peccato a quel difetto col quale potrebbe Iddio creare l' uomo, lasciandolo alla sua condizione naturale; egli parla al modo stesso come parlò l' Apostolo, quando disse che [...OMISSIS...] . Ma il Concilio di Trento dichiarò che non è quel peccato [...OMISSIS...] . Onde noi dicemmo che tale specie di peccati [...OMISSIS...] . Così l' obbiezione che ci si faceva rimane annullata. A conferma poi della stessa verità si osservi, 1 Che non si troverà mai un passo in S. Tommaso, nel quale egli insegni che Iddio poteva crear l' uomo « con una volontà a lui insubordinata ed avversa »; nel che sta il formale del peccato originale; ma dove parla de' difetti naturali, co' quali Iddio potea crear l' uomo, mostra d' intendere costantemente dell' insubordinazione delle parti inferiori alla ragione, cioè della concupiscenza presa in questo senso, o della mortalità, della passibilità ecc.; 2 Che in quei luoghi, ne' quali si ferma il Santo a mostrare, che que' difetti naturali non sarebbero COLPA se l' uomo fosse stato creato con essi, parla di que' soli difetti che non sono ESSENZIALMENTE morali, com' è l' insubordinazione e l' avversione della volontà a Dio, ma di quelli soli che acquistano la qualità di morali e di colpevoli da questo che hanno proceduto in origine da un peccato colpevole, come nel passo seguente: [...OMISSIS...] . In questo brano si vedono distinti i DIFETTI di cui si parla, 1 dal peccato libero di Adamo, 2 dalla privazione della grazia, e si dicono effetti dell' uno e dell' altra. Non sono adunque per se stessi il peccato, nè la privazione della grazia, la privazione della grazia e il vero peccato prese insieme sono cose che appartengono alla parte superiore dell' anima, e mettono in essa un' inordinazione. Prova dunque S. Tommaso, che meritano il nome di COLPA anche quei naturali difetti, che non sarebbero da sè peccato, unicamente perchè vennero dal libero peccato, e non si trasmettono soli, ma si trasmette per generazione anche il peccato, e venendo essi comunicati in tale compagnia pigliano anch' essi la natura di peccato e di colpa in quanto sono effetti intimamente legati col peccato. Così si debbono intendere tutti que' luoghi, nei quali S. Tommaso si estende a provare che que' difetti non hanno la nozione di peccato in sè stessi, ma la mutuano dal peccato libero che fu loro causa; divenendo anco un male fisico morale, se è prodotto dalla malizia della volontà. Obbiezione 5. Conceduto anche, che i naturali difetti di cui parla S. Tommaso quando dice, che Iddio avrebbe potuto creare un uomo con essi, non sia ciò che v' ha di formale nel peccato originale; ma solo ciò che presentemente forma la parte materiale di esso peccato, cioè la pugna della carne collo spirito, egli è da concedersi che con questa pugna l' uomo privo di giustizia non può amare Iddio sopra tutte le cose, nè naturalmente, nè soprannaturalmente. Dunque l' uomo creato da Dio con questa pugna, benchè non potesse amare Iddio sopra tutte le cose; tuttavia non avrebbe in sè peccato; stantechè Iddio non può creare l' uomo in peccato. Dunque nè pure l' anteporre la creatura al Creatore sarebbe peccato, se non dipendesse dalla libera volontà. Quello dunque che non è colpa, nè pure è peccato. Risposta . I teologi inclinati al Razionalismo cercano di descrivere la concupiscenza inferiore quale presentemente esiste nell' uomo nel modo il più mite: e giungono a dire, ch' ella non impedisce assolutamente l' uomo dall' eseguire tutta la legge naturale, e quindi, dico io, nè pure il dee impedire secondo essi, dall' amare naturalmente Iddio sopra tutte le cose (che è certamente il primo precetto anche della legge naturale), e questa a malgrado di tutte le più forti tentazioni; benchè concedano, che ella renda all' uomo tale virtù ed innocenza naturale assai difficile. Ma questo è il primo errore dei teologi razionalisti apertamente confutato da S. Tommaso in più luoghi. Il S. Dottore dà alle forze della concupiscenza due gradi; l' uno e il maggiore nell' uomo non battezzato, il quale è tale, che l' uomo non può colle proprie forze resistere a tutti i suoi assalti, ma dee cadere dopo qualche tempo di resistenza, almeno nascendogli forti tentazioni, in peccato mortale; l' altro e il minore nell' uomo battezzato; il quale è sempre vincibile colle forze, che l' uomo ha acquistato dalla grazia battesimale, usando i mezzi, che questa grazia gli presta, ma non sì, che non gl' incontri di essere da quel grado di forza leggermente ferito, cadendo ne' peccati veniali; da' quali nessun giusto, senza special privilegio, interamente si libera «( Dottrina del pecc. orig. XCVIII 7 CI) ». Ora s' attribuirà forse a S. Tommaso l' opinione che Iddio potesse crear l' uomo con quel grado di concupiscenza, col quale ora nasce, di maniera che fosse necessitato a peccare contro la legge naturale, e contro il Creatore? Qual torto non si farebbe con ciò al santo Dottore? Si adduca un solo testo dal quale apparisca ch' egli così la pensi, se si può: questo testo non fu mai addotto, nè mai s' addurrà: se ne possono all' incontro addurre molti che spiegano quant' egli sia lontano da un tale assurdo. Se S. Tommaso concede, che l' uomo lasciato alla natural sua condizione sentirebbe la pugna della carne colla mente [...OMISSIS...] , questo non determina ancora il grado della pugna: non è un dire che l' uomo creato da Dio nell' ordine naturale potesse avere quella stessa terribil lotta che ha di presente, perocchè di presente, [...OMISSIS...] . Dove mai dice questo S. Tommaso dell' uomo creato da Dio senza peccato e lasciato da lui all' ordine della natura? Di presente l' uomo che non può resistere alla molteplicità degli assalti della concupiscenza, benchè resister potrebbe a ciascuno, quando cade stretto in tali angustie ACCONSENTE, che senza qualche consenso non si dà certamente peccato, all' incontro nell' uomo creato da Dio senz' ordine soprannaturale non pone mai il santo Dottore alcun NECESSARIO CONSENSO AL MALE, ma solo un SENSO; perocchè dice [...OMISSIS...] . Non intende adunque di dire che Iddio potesse creare un uomo colla stessa lotta, colla quale or nasce l' uomo caduto, l' uom peccatore; ma con un' altra specie di lotta, che nè sarebbe peccato, nè l' indurrebbe mai necessariamente a peccato alcuno. Dunque l' uomo presente, secondo S. Tommaso, è moralmente guasto nella natura, a differenza di quell' uomo, che Iddio potesse creare nell' ordine naturale; il quale sarebbe sì limitato , ma non guasto . E perchè splenda ancora più chiara la dottrina dell' Angelico, si consideri, che l' obbiezione, che ci fa, parla d' una concupiscenza, colla quale l' uomo non potrebbe sempre amare Iddio sopra tutte le cose, nè pure naturalmente. Tale è certamente la concupiscenza, che, secondo S. Tommaso, trae seco uscendo alla luce l' uomo di presente. Ma si osservi, che una tale concupiscenza non è meramente quella che abbiamo designato come la seconda parte del peccato d' origine, e che spesso concupiscenza si dice; ma ell' è una concupiscenza che abbraccia tanto la prima (l' insubordinazione della volontà a Dio) quanto la seconda parte di esso peccato (l' insubordinazione delle potenze inferiori alla ragione). Poichè anche in questo senso si usa spesso la parola concupiscenza da S. Agostino, da S. Tommaso, e da tutta l' ecclesiastica tradizione. Ora, quando sotto il nome di concupiscenza s' intende non solo la semplice parte materiale del peccato d' origine, ma anche la formale, allora si verifica, che la concupiscenza è il peccato stesso originale, allora è una concupiscenza « cum privatione originalis justitiae », presa l' originale giustizia per l' ordinazione e la dirittura della volontà che è uno de' due sensi assegnatile. E questa concupiscenza è quella che ha forze sì potenti da captivare l' uomo sotto il peccato, e da trarlo nel consenso del peccato, se lungamente senza grazia dimora. Che alla concupiscenza vengano sì sformatamente accresciute le forze dalla stortura della volontà superiore, dov' è il formale del peccato d' origine, l' insegna espressamente S. Tommaso, e lo spiega così: [...OMISSIS...] , parole che S. Tommaso dice per dimostrare che presentemente l' uomo privo della grazia santificante non può rimanere a lungo senza mortalmente peccare. La concupiscenza adunque che impedisce l' uomo dall' amare Iddio sopra tutte le cose è quella che è unita colla parte formale del peccato, consistente nell' insubordinazione della volontà a Dio. Ma abbiamo veduto rispondendo alla quarta obbiezione, esser mente di S. Tommaso, che coll' insubordinazione della volontà a Dio, Iddio non potrebbe costituire mai un uomo. Dunque cade l' obbiezione quinta (1): dunque è falso che Iddio potrebbe crear l' uomo con una tale concupiscenza; o che il preferire qualche creatura al Creatore, l' amar più quella che questo, potesse mai non esser peccato; o che la natura umana presentemente sia solo spogliata de' doni gratuiti e non anco ferita nelle parti sue naturali, non certo ne' principii essenziali, ma quanto alle perfezioni accidentali (2). Obbiezione 6. Almeno voi dovete accordare, che « il sentire una qualche lotta della carne collo spirito »consegue dai principii della natura umana, e quindi si troverebbe in un uomo creato da Dio senza la grazia santificante. Risposta . Questa obbiezione eccede i confini della questione. Noi avevamo tolto a provare che l' uomo presentemente non solo è spogliato della grazia, ma è ferito moralmente nella sua stessa natura; e questo è provato coll' autorità di S. Tommaso, disciolte tutte le obbiezioni che si potevano fare per eludere l' autorità sua di tanto peso nella cristiana teologia. Ma per soprappiù rispondo anche a questa sesta obbiezione, osservando, che si possono distinguere tre necessità venienti dalle potenze inferiori: 1 necessità, di meramente sentire, [...OMISSIS...] . 2 necessità, di provare tentazione nella volontà di guisa che la volontà viene incitata ad amare qualche cosa contro l' ordine morale, [...OMISSIS...] . 3 necessità, di consentire alla tentazione o tentazioni moltiplicate, [...OMISSIS...] . Quest' ultima è la trista necessità dell' uomo caduto, che descrive S. Tommaso quando dice, che l' uomo, senza la grazia divina, non può a lungo astenersi dal peccato mortale. Questa necessità non indica solo la nudità della grazia santificante , indica una profonda mortal ferita nella stessa natura morale dell' uomo. Fu provato, che a questa Iddio non potrebbe abbandonare un uomo da lui creato, ciò sconvenendo alla sua infinita bontà e santità. La seconda necessità è quella che si trova nell' uomo caduto, ma rigenerato, è la madre feconda delle venialità. Anche questa è una trista necessità, un vero male morale. Nè pure a questa, diciam noi, potrebbe Iddio abbandonare l' uomo che uscisse senza grazia dalle sue mani (2). Quanto poi alla prima necessità, quella di sentire meramente ciò che è sensibile, senza che la volontà sia eccitata a preferire il bene sensibile al suo dovere, non volendolo il libero arbitrio (1): questo non è certamente un male morale, nè un morale difetto. Dove la volontà non entra affatto con atti disordinati, non ci può essere immoralità: ogni immoralità supponendo qualche attività volontaria. Ora, se questa necessità di sentire sia in qualche parte condizione della natura umana lasciata a sè stessa ed eccellentemente compaginata, questa non è questione teologica; ma meramente filosofica. Si può opinare l' una e l' altra cosa senza pregiudizio della fede. E però si può opinare che Iddio potesse crear l' uomo nell' ordine della natura con questa necessità di sentire, se si tiene ch' ella sia una necessaria limitazione della natura, e si può opinare il contrario, se si tiene che l' uomo anche naturalmente, supposta la natura sua perfetta nell' ordine naturale, dovesse avere un libero arbitrio così signore della volontà da impedire a questa, col suo imperio, anche i primi spontanei movimenti, le prime tendenze attive verso il bene sensibile, opposte all' ordine morale, o a prevenire l' atto stesso del senso. Aggiungerò due osservazioni: 1 Alcuni teologi avvisano, che l' uom primo costituito in grazia non soggiaceva nè pure alla necessità di sentire, [...OMISSIS...] dice il De Rubeis, [...OMISSIS...] . Quello che è certo si è, che la sensazione non avrebbe attratto e nè pur cominciato ad attrarre necessariamente la buona volontà: questa avrebbe potuto impedire ogni lusinga della sensazione sopra di sè con un amore assoluto e non comparativo al proprio dovere. Onde S. Agostino, [...OMISSIS...] . 2 Que' teologi i quali sostengono possibile lo stato di natura pura , intendendo per esso una condizione, nella quale l' uomo sentirebbe la pugna della concupiscenza colla volontà buona, a tale che questa non potrebbe sempre resistere, ed amare Iddio per lungo tempo sopra ogni cosa, questi teologi, dico, nello stesso tempo che dichiarano possibile questo stato dell' uomo, non intendono di lasciar veramente l' uomo ignudo di aiuti gratuiti; ma anzi dicono, che Iddio supplirebbe al bisogno con aiuti ordinarii e speciali, i quali però essendo transeunti e non abituali non impedirebbero che si potesse quello dire « stato di natura pura. »Così Tommaso di Lemos, [...OMISSIS...] . Aggiungiamo alle addotte, altre testimonianze ancora, le quali dimostrino che il parlare di tutta la tradizione ecclesiastica esprime continuamente non già solo uno spogliamento de' doni gratuiti, ma un guasto profondo nella stessa natura. 1 Un gran numero di scrittori ecclesiastici antichi e moderni dicono chiaramente, che la volontà dell' uomo che nasce è curva verso il male, di guisa che convien ritorcerla indietro affine d' addurla alla rettitudine della legge divina, come appunto si farebbe d' un pallone storto. S. Ilario di Poitier commentando quelle parole del salmo [...OMISSIS...] . Si parlerebbe egli d' un vizio opposto alla legge di Dio, da cui conviene togliere il cuore; per dire che il cuore è naturalmente retto? Tanto più che trattasi d' un cuore che già ha la grazia colla quale può staccarsi dal vizio della natura. Che cosa sarebbe questo vizio nel sistema de' nostri Anonimi? La natura spoglia della grazia? no. Che dunque? 2 Se la natura non fosse che spogliata della grazia, basterebbe vestirla di questa, e sarebbe tolto il suo difetto. Ma non così le scritture ed i padri descrivono la giustificazione dell' uomo. S. Paolo parla della deposizione dell' uomo vecchio, e della vestizione del nuovo. Che uomo vecchio ci sarebbe a deporre, se la natura non ha alcun male in se stessa? Dovrebbe bastare di rivestire l' uomo vecchio, senza deporlo, anzi conservandolo tutt' intero. Al tenor dell' Apostolo consuonano i padri. S. Ilario di Poitier così descrive la giustificazione: [...OMISSIS...] . Se la natura umana è di presente senza difetto, che cosa avrebbe ella da deporre? Nulla: avrebbe solo da vestir la grazia. Medesimamente le Scritture, i Concili e i Padri non dicono solo che diventa novo, ma prima dicono che viene seppellito nella morte di Cristo, [...OMISSIS...] , dice S. Leone, [...OMISSIS...] , che è il costante insegnamento di S. Paolo, [...OMISSIS...] (esprime la remozione di ciò che v' ha di male nell' uomo), [...OMISSIS...] (esprime il vestimento della grazia di cui l' uomo viene coperto, deposta la reità del peccato) (3). 3 I Padri non parlano solo de' doni che abbiamo perduto col peccato di Adamo, parlano d' un male positivo, che abbiamo ricevuto dentro di noi. Così S. Gregorio Nazianzeno: [...OMISSIS...] . Questa pravità, questa malvagità non può certo significare un semplice spogliamento della grazia: è qualche cosa che si riceve dentro di se, non qualche cosa che si lascia. Medesimamente il mal dell' uomo si chiama da' Padri un veleno comunicatogli dal serpente, e un veleno non indica una semplice perdita del bene, ma un vero acquisto del male. Così Origene nel commento sulla Cantica, esponendo le parole del Salmo XLII, v. 1, [...OMISSIS...] . La tradizione ebraica parla costantemente d' un veleno nascosto nel frutto vietato, che guastò la costituzione intera dell' uomo (2). 4 Quindi anche il peccato originale si chiama costantemente un morbo , un languore della natura, un contagio , una tabe: parole tutte non significanti un mero spogliamento del vestimento soprannaturale, ma un vero guasto nella naturale costituzione fisico7morale. Così S. Basilio: [...OMISSIS...] . E S. Ambrogio di Cristo, [...OMISSIS...] . S. Anselmo poi, [...OMISSIS...] . 5 I santi Padri di più distinguono espressamente fra lo spogliamento de' doni supremi, e le ferite della natura, e attribuiscono l' uno e l' altro effetto al peccato originale: applicandogli la parabola del Samaritano non solo spogliato dai ladri, ma ancor ferito. Così S. Ambrogio: [...OMISSIS...] ; dove anche chiaro apparisce che S. Ambrogio non mette la morte, l' uccisione dell' uomo nel semplice dispogliamento della grazia, ma nella disorganizzazione morale prodotta dalla ferita del peccato. 6 I padri e i dottori dicono oltracciò, che l' uomo nasce lordo, macchiato (4), immondo, infetto, espressioni tutte che lungi dall' esprimere una semplice privazione della grazia, indica una positiva deformità rimasta nella natura umana. Così il Venerabile Beda: [...OMISSIS...] . E prima di lui S. Ambrogio: [...OMISSIS...] . Da' quai luoghi si vede, come il gran vescovo milanese fissava l' occhio sulla corruzione annessa alla generazione per ispiegare il contagio del peccato astraendo dalla nozione di colpa. Prima però ancora di S. Ambrogio, lo stesso Origene, quando parlò guidato dalle parole della scrittura, descrisse il peccato originale come una verissima sordidezza della natura umana non pur nuda, ma sozza: [...OMISSIS...] . 7 Sono i santi Padri eloquentissimi a descrivere i mali profondi, che il peccato d' origine produsse nella natura. Ecco alcuni de' loro passi. S. Giovanni Grisostomo: [...OMISSIS...] ; passo recato anche da S. Agostino contro i Pelagiani (6). S. Atanasio: [...OMISSIS...] . Ci si dica, quando volessero dire solamente che nell' uomo ora è solo la privazione della grazia, colla qual privazione Iddio potrebbe crearlo, non avrebbe potuto dirlo schiettamente? E che di più facile? O avrebbe detto in quella vece che tutte le cose sono ora contaminate, tutte perturbate? Che il paradiso sia chiuso all' uomo senza grazia, s' intende; ma perchè aperto l' inferno? perchè nemico il cielo? Come si potrebbe significare più vivamente il guasto dell' umana natura, che dicendo l' uomo corrotto, e divenuto simile a' giumenti? potrebbe Iddio creare un uomo corrotto? e a vili giumenti somigliante? o l' uomo che fosse senza la grazia, ma colla natura del resto perfetta, potrebbe mai a' giumenti paragonarsi? E se la natura fosse rimasa senza difetto e sol priva dell' ordine soprannaturale, come potea dire S. Gregorio di Nazianzo: [...OMISSIS...] . Anzi dovea dire: « non son caduto che dall' ordine soprannaturale: del resto ho tutto il mio: sto ancor bene: sono ancor sano: non sono dannato ». E come Cristo avrebbe salvato tutto l' uomo, se tutto non fosse perito? se fosse perito solo quanto all' ordine soprannaturale, v' avea una parte nell' uomo, che non avea bisogno di Cristo, e quest' era tutta intera la natura umana, nella quale, secondo i nostri teologi, non v' ha difetto alcuno. Ma il parlar della Chiesa è ben altro: ella non si stanca di ripetere il concetto, che Tertulliano così espresse: [...OMISSIS...] . Del pari, potea esprimersi con più di chiarezza la corruzione della natura umana ed il bisogno della ristorazione operata da Cristo, di quel che facesse S. Cirillo di Gerusalemme in quelle parole, [...OMISSIS...] . . E non si contentano i Padri e i maestri in divinità di esprimere con parole traslate il guasto intimo, che nell' ordine naturale recò all' uomo il primo peccato: lo dichiarano anche in parole proprie. L' esser privo meramente di grazia non costituisce alcuna malizia; ma la tradizione tutta vede nell' anima dell' uomo espressamente LA MALIZIA, il disordine morale. S. Ilario di Poitier dice: [...OMISSIS...] . La qual malizia è così descritta da S. Bonaventura: [...OMISSIS...] , or non si ferma qui il santo, come gli Anonimi fanno, ma seguita: [...OMISSIS...] . Ora la natura umana senza alcun vizio contratto, ma sol privata dell' ordine soprannaturale, sarà ella d' indole così maligna, da dover esser priva dell' abito di tutte le virtù, prona ad ogni genere di colpa, soggetta alla concupiscenza, schiava e schiava del demonio? Il dirla tale per se stessa, non sarebb' egli un rovesciare, non che altro, nel Manicheismo? Questo appunto dicevano i manichei impugnati da S. Agostino. Ma udiamo anche Gersone, com' egli descriva la malizia, che col peccato d' origine l' uomo ha contratto: [...OMISSIS...] . Tale è la definizione di Gersone. Ora la natura pura avrà ella un' abituale avversione a Dio? quest' abito può egli esser creato da Dio stesso colla natura? o l' abito non è sempre cosa distinta dalla natura che lo riveste? La natura umana, secondo Gersone, non solo ha deposto l' abito della grazia, ma vestito altresì quello dell' avversione a Dio, il quale la rende inchinevole a negare la giustizia a chi è dovuta. Pur seguitiamo ad udire il Gersone. [...OMISSIS...] Di che poi conchiude così: [...OMISSIS...] . Ora avrebbe potuto Iddio creare un uomo nel qual fosse « carentia utriusque partis justitiae », secondo che s' esprime Gersone? quei teologi cattolici che sostengono la possibilità dello stato di pura natura, o come si potrebbe chiamare di natura non intera, aggiungono, come vedemmo, che Iddio supplirebbe al bisogno con degli aiuti speciali, ma in tal caso, cessa la questione (2): questi aiuti speciali sono appunto quelli che dimenticarono nella penna i nostri Anonimi; e così s' allontanarono dalla sana e comune dottrina. 9 S. Giovanni Crisostomo rassomiglia la corruzione dell' anima pel peccato alla corruzione e dissoluzione del corpo, e l' attribuisce al primo peccato [...OMISSIS...] . Questa somiglianza tra la corruzione dell' anima pel primo peccato e la corruzione del corpo torna frequente negli scrittori ecclesiastici; mi valga in esempio un brano di Raimondo Sabunde [...OMISSIS...] . Dalle quali maniere di parlare si scorge 1 che i dottori cattolici non ripongono la morte dell' anima nella mera privazione della grazia, ma in un guasto simile a quello della disorganizzazione del corpo; 2 che l' anima così corrotta e macchiata dal peccato, com' è di presente, non poteva uscire dalle mani del Creatore. 10 Sono del pari gli antichi maestri costantemente intesi ad assegnare la sede dell' original peccato nella volontà, descrivendo il disordine, e l' impotenza di questa al compiuto bene. Così S. Gregorio Nisseno: [...OMISSIS...] . S. Macario d' Egitto (an. 370) distingue espressamente tra la perdita della grazia che dà diritto alla visione beatifica, e il possesso della propria natura che s' ha per la volontà ben ordinata; e dice non solo quella perita pel peccato, ma ben anco questa: [...OMISSIS...] , che è la grazia santificante. Questa perdita della possessione della propria natura fu oggetto d' una definizione di Papa Celestino, il quale in uno de' celebri suoi capitoli dice: [...OMISSIS...] . Il che Teofilatto ascrive agli affetti pravi, che opprimono l' uomo. [...OMISSIS...] . Sarà ella questa la natura pura dell' uomo? Sarà dunque l' uomo, per condizione di sua natura, venduto al peccato, sotto il dominio del peccato oppresso dagli affetti pravi in guisa da non potere rilevare il capo? Se questo fosse natura, non sarebbe la natura per sè mala de' manichei? 11 Quindi è anco, che si rassomiglia il peccato originale ad un vincolo, che lega l' umana natura, il che è troppo più che lasciarla nuda, ma libera. Così S. Ireneo: [...OMISSIS...] . Così pure S. Gregorio Nazianzeno del Battesimo [...OMISSIS...] . E Clemente Alessandrino usava la stessa maniera di favellare: [...OMISSIS...] . Al che s' accorda il parlare di Teodoreto. [...OMISSIS...] L' esser legata è ella cosa propria della natura umana? il legame rappresenta qualche cosa di sopraggiunto alla natura, non certo una condizione della natura stessa. Essendo dunque di presente legata la natura dell' uomo, essa natura dovette esser liberata e disciolta da Cristo, frase comune presso i Padri, in esempio della quale bastino recare queste parole dello stesso Teodoreto, [...OMISSIS...] ; che ripetono quello che avea insegnato Cristo di propria bocca, allorché disse. [...OMISSIS...] . 12 Un altro argomento validissimo, per conoscere intorno a ciò la mente di S. Agostino, si è l' osservare com' egli rispose ad una obbiezione di Giuliano. Abusando questi d' un luogo di S. Basilio, argomentava così: [...OMISSIS...] . Ora se S. Agostino avesse tenuto il sistema de' nostri Anonimi, quanto gli era facile rispondere a Giuliano, che nè la natura, nè la volontá umana ritiene alcun male dalla prevaricazione d' Adamo, ma solo è priva de' gratuiti favori? Ma non venne e non potea venire nella mente d' Agostino una tale risposta, e in quella vece rispose accordando che [...OMISSIS...] . Ammetteva dunque tutta intera l' antichità, ammetteva con essa S. Agostino, un vero male annesso alla natura umana, che Iddio solo potea da essa separare. Se questo male fosse un constitutivo della stessa umana natura, di maniera che creata da Dio priva dell' ordine soprannaturale, ella dovesse seco portarlo; già s' ammetterebbe una natura subbietto essenzialmente del male: che è appunto l' errore de' manichei. 13 Ora non solo dicesi la natura legata, e serva del peccato, ma di conseguente anco schiava del demonio. S. Ottato Milevitano: [...OMISSIS...] . Nè dicano già i nostri Anonimi, che questa è una maniera traslata di favellare, perchè S. Agostino risponderebbe loro, ció che rispose a Giuliano, che tentava di evadere per simili scappatoi, [...OMISSIS...] . Che anzi tanta si riputò l' influenza del nemico sull' uomo peccatore, che allo stesso peccato che porta in se si diede nome di serpente (3). 14 Finalmente anche dalle pene che trae seco il peccato d' origine può inferirsi lo spogliamento della grazia e il guasto della natura. Perocchè alla grazia compete il diritto della visione divina, ed all' incontro, [...OMISSIS...] . Ma colui, che muore col peccato originale non solo perde la vision beatifica o il regno celeste; ma ancora la vita dell' anima, perchè resta in lui il peccato definito dal sacro Concilio di Trento mors animae . Onde il Papa Siricio: [...OMISSIS...] , scrisse ad Imerio, [...OMISSIS...] . Vero è che noi siamo altamente persuasi, che oltre la redenzione di quegli uomini, a cui s' applicano per mezzo del battesimo i meriti della passione di Cristo, anche gli altri uomini, che muoiono senza colpa mortale partecipano della liberalità del Salvatore, il che noi chiamamo donazione di Cristo. E di questa sentenza molte autorità si potrebbero addurre, non solo de' Padri, ma delle Scritture, tra gli altri il testo del salmo citato dall' apostolo, che dice, non solo aver Gesù Cristo condotta sua schiava la schiavitù, cioè gli schiavi del demonio da lui redenti, ma ancora aver ricevuto dei doni da distribuire agli uomini: [...OMISSIS...] . Il che era figurato in Abramo, che fece Isacco suo erede, e dimise con dei doni i figliuoli delle schiave. Ed è d' altra parte di fede, che il beneficio della risurrezione è un dono fatto da Cristo a tutti gli uomini, anche ai non redenti. Onde noi già mostrammo, in un opuscolo su questo argomento, che i bambini morti senza battesimo possono benissimo, dopo la risurrezione, godere d' una naturale felicità, ma non perchè questa si appartenga loro di diritto, ma perchè è conveniente alla somma generosità di Cristo, ed alla sua gloria. Questa felicità dunque gratuitamente loro largita non può addursi a provare che il peccato originale non importi alcun disordine nell' umana natura, come vogliono i nostri teologi razionalisti, ma vale solo a provare la ricchezza e la bontà e l' amore di Cristo verso gli uomini. Lasciato dunque da parte quel che viene da Cristo come gratuito suo dono, e considerata la natural pena del peccato originale ne' bambini, questa è la morte, non pur del corpo, ma dell' anima, che nell' altra vita consisterebbe in uno stato d' eterna inazione, conservata solo all' anima intellettiva l' immota intuizione dell' essere, per la quale esiste. Il peccato originale dunque, cui l' uomo riceve coll' esser generato, è un male morale , e questo necessario . Dunque si danno de' mali morali necessarii. Questo male morale necessario viene nella sua origine rimota da un atto di libera volontà commesso dal primo padre: dunque il male morale è necessario nella sua prossima cagione, ma ha in pari tempo per cagione rimota anch' esso, la libertà. Che anzi la libertà umana dee essere sempre la cagion rimota de' mali morali necessarii, perchè altrimenti si farebbe autore di essi Iddio, o la natura mala, cadendo nel Manicheismo. Tali sono le dottrine della Chiesa: i teologi razionalisti le accusano di Calvinismo e di Giansenismo: di cui sono un documento gli ultimi opuscoli anonimi. Noi ci faremo ad esaminare di nuovo la questione in tutta la sua generalità. Due sono i principali errori de' calvinisti e de' giansenisti intorno all' umana libertà: Essi sostengono 1 Che l' uomo nello stato di natura caduta abbia perduto interamente ogni libertà, di maniera che egli al presente operi sempre necessariamente; operando il bene quando prevale in lui il peso della grazia, e operando il male quando prevale in lui il peso della concupiscenza, senza poter fare altramente; 2 Che operando con una tale volontà necessitata, l' uomo nello stato presente meriti, o demeriti. Tutti gli errori essendo abbinati, come sono sempre abbinati gli estremi, quali saranno gli errori opposti ai due errori calviniani e gianseniani sopra enunciati? I seguenti: 1 Che ogni atto dell' umana volontà sia essenzialmente libero, e la parola volontario non abbia altro significato che quello di libero , e che non sia nè pure atto umano quello che non è libero; sicchè l' uomo operi sempre con una libertà d' indifferenza; 2 Che perciò nella sfera delle cose morali non v' abbia che il merito e il demerito; non potendosi dare moralità buona o cattiva, che sia necessaria. Questi dunque sono i due estremi. Che cosa sente la Chiesa cattolica? Ella cammina dirittamente nel mezzo, e decide contro i primi: 1 Che la libertà d' indifferenza non è perita nell' uomo; 2 Che non si dà merito o demerito nello stato di natura caduta se non allora che l' uomo opera colla detta libertà di indifferenza. Decide ancora contro i secondi: 1 Che l' uomo non opera sempre con libertà d' indifferenza, ma che talora egli opera con una volontà priva di coazione, ma non priva di necessità; senza però che allora meriti nè demeriti; 2 Che quando la volontà umana soggiace alla necessità, se tale necessità è moralmente buona, viene da Dio; se ella è moralmente cattiva, viene da un abuso precedente della libertà umana, fatto o dall' uomo stesso in cui quella trista necessità si ritrova, ovvero dal primo padre; di maniera che ogni qual volta vi è la necessità nella causa prossima (la volontà istante), vi è o vi fu la libertà nella causa rimota (la volontà che liberamente produsse quel malo stato della volontà). Ora chi imprende a difendere la dottrina della Chiesa cattolica, converrà, per ragion di chiarezza, che incominci a distinguere due questioni. Poichè 1 Altro è il dimandare, se, considerata la sola natura della volontà umana, questa abbia due maniere di esser disposta, e di operare, l' una necessaria, e l' altra libera; e posto che sì, se operando il male morale colla volontà libera in causa, ma all' istante necessitata, o avendo allo stesso una suprema propensione, ella contragga od abbia in sè qualche specie di deformità morale; e 2 Altro è il domandare, se, posto il presente ordine di cose e la caduta adamitica, Iddio permetta di fatto, che la volontà umana soggiaccia talora alla necessità del male. La prima è questione astratta e filosofica; la seconda è questione di fatto e teologica, questa è legata con quella, non è quella. Noi cominceremo dalla prima: considereremo la volontà umana in sè stessa, e cercheremo se per sua natura questa volontà abbia i detti due modi di operare e di esser disposta, il necessario ed il libero; e se aderendo al male morale necessariamente, ella contragga o no qualche deformità morale. La prima parte di questa questione si dee sciogliere affermativamente per consenso di tutti i teologi cattolici e de' filosofi. Che la volontà dunque di sua natura abbia i due detti modi di operare il volontario ed il libero, non è a spenderci altre parole. Resta solo che vediamo se, dato che la volontà aderisca necessariamente al male, ella contragga da questa adesione per ciò solo una deformità. S' avverta che qui si tratta di un male morale che sia tale per essenza, com' è l' odio di Dio o del prossimo, l' amore della menzogna, l' amore disordinato di se stesso, e simili, e non che sia male solamente perchè vietato dalla legge positiva; giacchè in quest' ultimo caso non può aver luogo la questione, cessando ogni legge positiva qualora la volontà non possa adempirla. Sosteniamo dunque, che posta l' adesione al male morale della volontà, questa, anche se come soggetto o causa prossima di quell' adesione (1) soggiace alla necessità, dalla stessa e sola adesione contrae una deformità morale. Ed eccone brevemente le prove. I E` di fede che l' anima volitiva contrae necessariamente il peccato originale, e ne riceve una macchia, una deformità (1). Dunque non si può negare, che il male morale che aderisce all' anima, anche con necessità, perciò solo che le aderisce, la deformi; II Non vi sarebbe possibilità di precetto vetante il male , se il male non fosse tal cosa che deforma la volontà che in qualunque modo le aderisce; poichè male , ossia « oggetto moralmente cattivo (2) »altro non vuol dire, se non ciò che, informando la volontà, la disordina; e senza un male, un oggetto da fuggirsi, non può esservi precetto che ne ordini la fuga. Distinguansi bene le varie maniere di concepire l' oggetto. C' è l' oggetto materiale , che è la cosa considerata in se, per esempio Dio e il prossimo in se stessi; non è questo, a cui si riferisce prossimamente la legge vetante. C' è l' oggetto intellettuale , per esempio Dio e il prossimo presenti meramente all' intelletto; nè pur a questo si riferisce prossimamente la detta legge. C' è finalmente l' oggetto morale , cioè l' oggetto in quanto è amato ovver odiato: questo è l' oggetto prossimo della legge vetante. La legge vieta l' odio di Dio e del prossimo . L' oggetto prossimo della legge vetante è dunque ciò che prossimamente produce la deformità della volontà: la legge vieta quella mala adesione . L' odio di Dio e del prossimo per sè ed assolutamente la deturpa. Il male morale dunque è una deordinazione della volontà, la quale è tale in sè stessa, senza bisogno di sapersi s' ella sia stata prodotta necessariamente o liberamente. Essendo mala in se stessa, la legge la proibisce: quella malvagità è anteriore alla legge o al precetto, è fondata nella natura delle cose. Ella è quella che rende possibile il precetto. Questo viene dopo, e non parla che alla libertà , non obbliga che la libertà; la quale se obbedisce al precetto merita, e se disubbidisce, demerita. Ma se la libertà non esiste; se altro non vi ha nell' uomo che la volontà necessitata; la deordinazione di fatto non può mancare, benchè senza demerito, e quella deordinazione è una immoralità; perchè risiede nella volontà; e se questa è suprema nell' uomo, come accade nel bambino non battezzato, dicesi ed è peccato. Egli è vero, che la volontà potrebbe disordinarsi anco in quella sola parte che è libera. Questo è il caso del precetto positivo che è dato alla sola libertà; ond' anco non ammette che una specie sola d' immoralità, il demerito. E tuttavia, come dicevamo, anch' egli si riferisce ad un male reale esistente nella natura delle cose; qual' è l' inobbedienza , che si può definire la deordinazione della libertà . III Se mancasse il fondamento nella natura della cosa, se mancasse il male oggettivo, la deordinazione della volontà , o necessitata, trattandosi di cose intrinsecamente cattive, o libera, trattandosi anche di precetti positivi; se mancasse in una parola l' oggetto prossimo del precetto, nè pure potrebbe esservi colpa; appunto perchè come abbiamo detto al numero precedente non si dà possibilità di precetto, senza un male morale , oggetto del precetto. E però S. Tommaso dopo aver parlato del peccato semplice e della sua deformità intrinseca dicendo, che ella consiste nel deviare della volontà dal fine ultimo dell' umana vita, [...OMISSIS...] passa alla colpa, aggiungendo, ET IDEO (cioè essendovi precedente il male morale da evitarsi dall' umana libertà, che se non ci fosse, la colpa non sarebbe possibile) [...OMISSIS...] ; mostrando così, che anteriormente alla colpa c' è il male morale; e che perciò s' incolpa l' uomo che opera liberamente [...OMISSIS...] , perchè opera il male, perchè commette il peccato, che è l' oggetto della colpa, e della stessa legge vetante. IV Altra prova validissima io deduco dalle perniciose conseguenze della dottrina opposta. Sia vero, come vogliono i teologi razionalisti, che in quel tempo, nel quale l' uomo è privo di libertà nel suo operare, non vi avesse male morale di sorte alcuna. In tal caso quest' uomo non sarà obbligato a cercare i mezzi di accrescere le sue forze morali, non sarà obbligato neppure a domandare da Dio aiuto coll' orazione. Poichè a qual fine lo dimanderebbe? per evitare un male morale, no; chè egli non fa alcun male morale fin che è necessitato; e quando non è necessitato, egli non ha bisogno d' aiuto; può evitare il peccato colle sue forze: [...OMISSIS...] dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Nè vale il dire che il peccato, che commetterebbe negligentando d' accrescere le sue forze, è libero nella causa rimota; perocchè questa risposta supporrebbe quello che si nega, cioè che ci fosse un male da evitare; mentre si sostiene, che l' uomo costituito in necessità non fa alcun male, non ha per questo peccato, checchè egli faccia. Nè pur questa necessità è cosa cattiva, ch' egli debba cercar di evitarla, nel sistema de' nostri teologi; perchè cattiva non può essere, se non ha un oggetto cattivo, ma il suo oggetto cessa d' esser cattivo in faccia ad essa: negandosi che una volontà necessitata abbia un oggetto veramente cattivo che la deturpi. V Ebbe torto dunque, secondo questi maestri, nostro Signor GESU` Cristo, quando mise in bocca de' suoi fedeli quelle parole, « Et ne nos inducas in tentationem », parole tutt' al più utili, secondo il loro sistema, a renderci la fuga del male più facile, ma non necessaria, perchè o possiamo evitarlo colle nostre forze, o, se non possiamo, non è male; nè male è la necessità di commetterlo; rimanendo anzi per essa distrutto il male. Che anzi questa necessità in un tale sistema meriterebbe di dirsi buona, e dovremmo procurarcela. Ebbe del pari torto S. Paolo, quando consigliò a maritarsi coloro che non si potessero contenere, dicendo che « melius est nubere quam uri », giacchè, secondo i nuovi maestri, o l' uomo si può sempre contenere, o almeno chi non si può contenere, non fa male, se non si contiene; e però è inutile cercare un mezzo d' evitare ciò che non è male. Anche il sacro Concilio di Trento dee aver dato una ragione mal fondata, per non isciogliere i cherici costituiti negli ordini sacri, e tentati contro la castità, dalla legge del celibato, dicendo, che colla preghiera essi poteano bene ottener da Dio la grazia della continenza (1). I nostri maestri avrebbero dato una risposta più facile: Chi non può contenersi, non fa male ponendo l' opere della carne. In somma la dottrina che non vuole riconoscere altro male morale deformante la volontà e l' anima umana che il libero , distrugge la pietà ed apre l' adito ad ogni scostumatezza ed empietà, e questa è appunto una gran causa del lassismo in morale. VI Qui ritorna ancora, chi ben considera la questione circa i peccati d' ignoranza, che hanno una causa prossima non libera. Pelagio e Celestio che negava furono condannati dalla Chiesa (2). E condannati perchè il peccato originale si contrae pure ignorantemente e necessariamente, e pur esso è peccato, sicchè chi non riconosce peccato dove non v' è cognizione attuale , viene a negare l' originale infezione quanto colui, che non riconosce peccato dove non v' è libertà . Furono dannati ancora perchè al peccato originale riduconsi certi atti peccaminosi, in cui l' uomo, se non ha la grazia di Cristo, necessariamente cade, notar dovendosi, che qui intendesi per ignoranza non una mera nescienza , ma un errore del giudizio affascinato nelle cose morali dalla passione. [...OMISSIS...] . I quali atti, qualora del solo peccato d' origine sono effetti, non hanno altra colpa diversa che quella dello stesso originale peccato. In terzo luogo ancora furon dannati perchè venivansi con ciò ad escludere i peccati commessi per ignoranza invincibile , di quelle cose, di cui ha l' uomo dover d' istruirsi: dovere che egli non punto avrebbe, se non si desse un peccato, che non cessi d' esser peccato anche in chi ignora che sia. Conciossiachè e come mai potre' io avere obbligazione di conoscere i miei doveri, se, non conoscendoli, già non pecco? Conciossiachè se non li conosco non posso eseguirli, se non posso eseguirli, non sono più obbligato. Laonde io farò anzi bene a conservare la mia ignoranza, che mi lascia libero di far ciò che voglio senza però peccare! Laonde nella Censura fatta da molti Vescovi dell' « Apologia pe' Casisti (1) », già condannata anche dall' Apostolica sede con suo decreto del 21 Agosto 1659, si proscrissero più proposizioni, perchè [...OMISSIS...] . S. Tommaso dunque ha ragione, e han torto i moderni teologi che negano il male morale in causa prossima necessario, quando dice, che l' ignoranza vincibile non iscusa dal peccato, dando di ciò la ragione seguente: [...OMISSIS...] . VII Queste ultime parole mi conducono a por qui una settima ragione che prova l' esistenza d' un male morale nella sua causa attuale ed instante necessario, benchè libero nella causa rimota. I teologi morali si propongono la questione: se chi si mette nell' impossibilità di adempire alle sue obbligazioni pecca poi col non eseguirle. Alcuni rispondono, che non pecca in actu , ma solo in causa . Il Bolgeni si oppone, sostenendo, che pecca in causa ed anche in actu . [...OMISSIS...] . Se fosse vera la sentenza di questo autore, avremmo qui de' peccati necessarii in causa prossima. Io non di meno non posso acconsentirgli (2), ma trovo di dover distinguere. O l' atto peccaminoso che quest' uomo fa per necessità è un attuale deordinazione della sua volontà; o no. Nel primo caso c' è un nuovo male morale in lui; nel secondo, tutto il male morale sta nell' ommissione o commissione libera, per la quale s' è messo nella necessità di peccare. Poniamo il caso dell' uomo, che vinto dal talento di bere s' ubbriaca a malgrado ch' egli prevegga che nell' ubbriachezza commetterà molti altri peccati. L' ubbriacarsi è un peccato che comprende tutti i peccati da lui preveduti, li faccia o no; e in questo senso (in causa) è reo di tutti. Ma sarà egli vero, che come vuole il Bolgeni, faccia altrettanti peccati attuali, quant' egli ne farà di fatto? Ne verrebbe l' assurdo, che se de' preveduti da lui ne facesse di più, sarebbe più reo, se ne facesse di meno, sarebbe meno reo: ora il farne di più o di meno, non dipende ormai più dal suo libero arbitrio. Dico dunque, che una sola è la colpa che comprende tutti i peccati preveduti, almeno in confuso, non tutti i peccati realmente commessi nello stato di ubbriachezza. Ma poi tra questi peccati che commette ubbriaco e di cui nella causa è colpevole, ve ne posson essere di quelli che sono anche peccati in atto, benchè non colpe; ed altri che in atto non sono nè colpe nè peccati. Perocchè è solo peccato nuovo ciò che pone una nuova inordinazione della volontà. Laonde se ubbriaco facesse degli atti d' odio di Dio, e del prossimo; atti che puó e conoscere e volere anche un ubbriaco; questi disordinerebbero la sua volontà, benchè fosse trascinata a ciò dalla passione, dall' abito, o dalla mala inclinazione. Così se s' immergesse in carnalitá a cui l' eccitamento del vino il trascina, conoscendo e volendo quello che fa, chè anche un ubbriaco può conoscere e volere: la sua volontà riceverebbe un nuovo male morale: e male morale sarebbe l' inclinazione contratta a tali peccati, che in lui si rimarrebbe anche risanato dall' ubbriachezza. Ma se i peccati che fa ubbriaco non sono atti nè affetti disordinanti la volontà; come se dormendo ommettesse d' udir la messa in giorno di festa, e mancasse ad altri precetti positivi, che hanno per oggetto cose per sè indifferenti: niuna nuova inordinazione o mal morale in lui avverrebbe; eccetto quello che gli avvenne dall' atto libero, col quale si pose in quella mala necessità. Ad ogni modo nell' una o nell' altra sentenza, s' accorda ugualmente avervi un male morale, nella sua causa prossima ed attuale necessario. VIII Si dimostra la stessa tesi argomentando da diverse decisioni della Chiesa. Io mi restringo ad accennare la condanna della 2 proposizione condannata in Bajo, dalla quale si puó chiaramente inferire, che vi ha un male morale disordinante per se stesso la volontà, quando vi aderisce necessariamente o no. Essa proposizione dice: [...OMISSIS...] . Chi non intende da questa proposizione, che, secondo la Chiesa cattolica v' ha dunque un opus malum , il quale benchè ex natura sua sia malvagio; tuttavia non è demeritorio, provenendo il demerito dalla libertà e non dalla sola natura dell' opera; e che v' ha medesimamente un opus bonum , il quale benchè ex natura sua sia buono, tuttavia non è meritorio, provenendo di nuovo il merito dalla libertà (supposta la grazia), e non dalla sola natura dell' opera? E tuttavia quest' opera mala , e quest' opera buona , che se non è libera non demerita, ell' è un' opera volontaria; perocchè trattasi qui d' opere umane, d' opere ex sua natura buone e cattive moralmente, non già fisicamente: chè per essere opere buone o cattive moralmente si suppongono volute; non essendo nè buone, nè cattive nella loro entità puramente materiale (1). Adunque per far sì che un' operazione sia moralmente malvagia, basta ch' ella sia tale di sua natura; e perciò volontaria; come a fare ch' ella sia moralmente buona, basta che sia ancora tale di sua natura, e perciò all' uomo volontaria. Ma non basta già questo solo perchè si possa attribuire all' una ed all' altra il suo merito; giacchè questo ha bisogno della condizione d' una libera volontà. La Chiesa dunque condannò Bajo perchè egli distruggeva col suo sistema la distinzione tra il semplice peccato , e la colpa; e si può dire, attenendosi allo spirito ed al fondo d' una tale condanna, che contro quella eresia, ella, al suo solito, rimettesse in vigore una sì importante distinzione. IX Se il male morale coll' esser necessario cessasse per questo solo d' esser male, non sarebbe morto Cristo per salvare il mondo dal peccato. Poichè l' uman genere avrebbe potuto da se stesso esser giusto sol che adoperasse quelle forze, che restavano al suo libero arbitrio, niente nuocendogli poi il non adempire ciò che fosse superiore alle sue forze, nè lo stesso peccato originale gli avrebbe nociuto, il quale già non sarebbe stato più peccato nè male alcuno, perchè inevitabile. Laonde come l' ammettere e il riconoscere un male morale deordinante la volontà e perdente l' uomo, per se stesso, vincendo altresì la volontà soggetto o causa prossima di esso, e tenendola schiava del demonio, esalta immensamente la redenzione di Cristo e la riformazione del mondo da esso operata, e la dimostra opera d' un Dio fatto uomo; così il sistema, che riduce ogni male morale alle libere azioni fa ingiuria gravissima a Cristo, rende superflua o almeno non necessaria la redenzione del mondo, e apre il cammino al socinianismo, e all' empietà che la nega. X Ma anche la ragione naturale basta a dimostrare, che l' inordinazione della volontà è un male morale per se stesso, indipendentemente dalla ricerca se la libertà l' abbia o no come cagion prossima prodotto. Poichè la volontà è una potenza come l' altre, è una natura anch' essa, che ha le sue proprie leggi e condizioni necessarie, non dipendenti da se, o dalla sua libertà. Onde S. Tommaso colla sua solita veduta filosofica, applica al disordine della volontà, la stessa definizione, e gli stessi principii, che valgono parlando del disordine dell' altre potenze. Appunto per questa universalità di vedute, egli attribuisce alla parola peccato un senso così generale, che abbraccia anche i disordini non morali, cioè quelli che accadono nella natura, o nell' esercizio dell' arte, dicendo, che, [...OMISSIS...] . Dalla qual definizione induce, esserci tre generi di peccati, cioè peccati della natura , peccati dell' arte , e peccati della volontà; in ciascuno de' quali si verifica la definizione, perocchè ci ha peccato di natura quando la natura devia dal suo fine, ci ha peccato di arte quando l' arte devia dal suo fine, ci ha peccato di volontà quando la volontà devia dal suo fine. Si può poi conoscere, se la natura, o l' arte, o la volontà devia dal suo fine, osservando se queste potenze procedono o no secondo quella regola , che al suo fine le scorge, [...OMISSIS...] . Ora quale, dimanda egli, è la regola della volontà? Risponde. [...OMISSIS...] . Di che raccoglie quale sia il peccato della volontà dicendo, [...OMISSIS...] . Il peccato adunque della volontà, secondo l' Angelico, c' è sempre, ogni qualvolta ella si torca dalla rettitudine della legge morale, onde in universale, senza che c' entri per nulla la libertà, [...OMISSIS...] . Tutta la malvagità dell' atto volontario è cavata unicamente dall' esser quell' atto conforme alla regola o difforme da essa, ordinato o disordinato; allo stesso modo come l' atto della natura e dell' arte, dove non ci può esser libertà, è malo o buono secondo che è diritto o torto in verso alla regola sua che lo dirige al fine. Non entra per nulla la libertà prossima nel costituire il peccato, ma solo c' entra la dirittura o stortura della volontà. Ma, stabilito così da S. Tommaso in un articolo della sua « Somma », che il peccato della volontà sta nella deordinazione della volontà in verso al suo fine (5), passa nell' articolo che segue a parlare dell' accidente, in cui questa deordinazione sia libera, mostrando con ciò la differenza che passa tra il peccato della volontà di cui parla in un articolo, e la colpa di cui parla in un altro, e di cui non avrebbe parlato a parte, se avesse creduto che l' esser peccato fosse un esatto sinonimo dell' esser colpa. Nell' articolo dunque, dove egli parla di questa (1), pone per principio, che l' uomo può esser signore de' suoi atti, cioè che tutti gli atti volontarii sono in balía dell' uomo stesso, per quella forza che si giace nella sua volontà come volontà, e la libertà; e non della volontà come natura. Chè così e non altramente debbono intendersi le parole dell' angelico, [...OMISSIS...] . L' Angelico parla in generale di quello che compete agli atti volontarii come volontarii, non degli atti volontarii come naturali, essendo certo che tali atti hanno, per essenza loro, questa ordinazione e relazione d' essere sommessi alla signoria dell' uomo: il che non toglie, che per accidente avvenga poi altrimenti, perdendo l' uomo la sua signoria e libertà, o mancandogli le condizioni richieste per esercitarla, o in somma operando la volontà come natura, non puramente come volontà. L' attribuire a S. Tommaso un senso diverso, l' intendere le sue parole così materialmente, da fargli dire, che ogni singolo atto volontario è di fatto libero, è un mettere in un' aperta e indissolvibile contraddizione S. Tommaso con se stesso, che apertamente riconosce il movimento necessario della volontà (1). Attenendoci dunque al genuino senso delle parole di S. Tommaso, egli pone il principio, che [...OMISSIS...] ossia soggetto alla sua libertà. Ciò posto, raccoglie in questo modo: 1 l' atto volontario è un disordine, un peccato, ogni qualvolta devia dal fine comune dell' umana vita: [...OMISSIS...] ; 2 ma l' atto volontario di sua natura è nato ad essere in potere dell' uomo, [...OMISSIS...] . Dunque (ecco la conclusione) col peccato libero ci sono due inordinazioni, l' una quella della volontà , che è disordine dell' uomo, in quanto è uomo, in quanto la sua volontà è una natura avente le sue proprie leggi; l' altro quello della libertà , che è disordine dell' uomo in quanto è morale , intesa questa parola per idonea a dare a se stesso de' buoni o mali costumi . [...OMISSIS...] (poichè all' atto malo libero è deformata la libertà, e s' imputa perchè la sua libertà n' è la causa) (2). Si riconosce adunque e si dimostra col naturale discorso: 1 Che la volontà umana se fa un atto obliquo dal fine suo, per esempio se odia Iddio, od ama la menzogna, contrae un disordine, sia che ella aderisca così al male necessariamente, come i reprobi nell' inferno, o che vi aderisca liberamente; il qual disordine deforma e guasta la volontà umana, allo stesso modo come qualsivoglia altra potenza fisica e non libera rimane disordinata e guasta ogni qual volta ella erra dal suo proprio fine, o come dice l' Angelico [...OMISSIS...] ; 2 Che questo disordine della volontà può dirsi morale ogni qualvolta esso riguarda il fine comune della vita umana, perchè [...OMISSIS...] dice lo stesso S. Dottore, [...OMISSIS...] ; 3 Che se la volontà guasta è la suprema potenza, il supremo principio attivo dell' uomo, come accade nel peccato originale; tutto l' uomo ne riman guasto; dipendendo tutte le altre potenze di lor natura dalla prima e suprema; la personalità stessa è infetta, trovasi in istato di peccato; 4 Che se l' uomo è disordinato e guasto nel suo principio supremo, qual è la sua volontà personale, benchè ciò non sia opera della sua stessa libertà, egli non può a meno di averne qualche pena che lo impedisca dal godere una piena felicità, se questa non gli è da Dio misericordiosamente levata; perchè la piena felicità non si può dare, se non in un uomo ordinato e in tutte le sue potenze perfetto; attesochè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] ; 5 Che sarebbe un manifesto assurdo l' immaginare, che una volontà disordinata, aderente per necessità al male morale fosse ricevuta in Cielo; dove tutto è ordine e bene; nulla vi può esser di disordine e di male. Onde basta che la volontà sia disordinata, eziandio che non sia libera, come accade nel peccato originale, acciocchè ella venga naturalmente esclusa dal Cielo. Di che S. Tommaso dice, che pel peccato originale [...OMISSIS...] , cioè l' anima è soggetta ad un male eudemonologico, che rispettivamente ad Adamo, causa rimota e libera di quella inordinazione necessaria della volontà, acquista il nome di poena , come il male morale, o macchia nella stessa relazione, acquista il nome di colpa. XI Di più. Egli è di fede, che [...OMISSIS...] , cioè che non può più risorgere da se stesso, ma è necessitato di starsi in istato di peccato, se Dio nol libera, quia sponte , dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Il qual dogma fu espresso dal Concilio di Trento: [...OMISSIS...] . Questo peccato, sotto cui è servo ogni peccatore, e di cui per natura è servo tutto il mondo, è egli necessario o libero? Fu libero prima di commettersi; ma commesso, è già divenuto necessario, chè niuno più colle sue forze [...OMISSIS...] . E bene; ne vien forse, che per esser soggetto l' uomo cosí necessariamente al peccato, il peccato non sia più peccato, o non faccia più male all' uomo, non gli deformi più l' anima? Il dirlo sarebbe manifesta eresia. Dunque si deve considerare come eresia anche il pretendere, come fanno i teologi razionalisti, che non ci sia un male morale necessario, e che ogni male morale sia libero. XII Gli abiti non meritano nè demeritano, per consenso comune de' Teologi (4). Ma perchè non meritano gli abiti cattivi , non saranno essi perciò un male morale? E non sono forse una morale inordinazione della volontà? Chi mai potrà disconfessarlo? Ci ha dunque un male morale diverso dal demerito; un male necessario, com' è l' abito; che colle sole forze nostre non si può levare, almeno all' istante. Quantunque però non possa io ammettere la dottrina dell' Estio sul demerito degli abiti; tuttavia ci gioverà riportarla. Conciossiacchè ella contiene una serie d' argomenti attissimi a provare queste due cose, 1 che l' abito malvagio è male morale , ed a Dio odioso, 2 che ha seco congiunto come naturale appendice il mal fisico , che dal morale mai si scompagna. Odasi adunque come l' Estio favella, tutto a confutazione della dottrina pelagiana, tendente sempre a ridurre ogni male morale al solo atto libero, affin di distruggere il peccato d' origine, e con esso tutta le fede di Cristo. [...OMISSIS...] Non che meritino lode o vitupero, ma che deformino la volontà umana si può mostrare con gli argomenti che seguono, i quali noi esamineremo ad uno ad uno: [...OMISSIS...] . Dall' abito non vengono di necessità le azioni delle virtù e de' vizi; che se qualche volta necessariamente venissero, non meriterebbero nè demeriterebbero pur queste. Ma come queste azioni adornano o deformano l' anima; così pure gli abiti; o sieno causa di tali azioni, o sieno solo disposizioni a porle più facilmente, con meno libertà, ma con più forza di volontà. [...OMISSIS...] La vita eterna va dietro alla giustizia infusa, e la dannazione al peccato ricevuto come una natural sequela, per l' unione intima fra il ben morale e il ben fisico, il mal morale e il mal fisico. Ma come la giustizia infusa è meritoria riferita a Cristo che per noi la meritò; così la dannazione dell' originale peccato è demeritoria riferita ad Adamo che per noi demeritò. [...OMISSIS...] Il biasimo che si dà a quell' uomo si riferisce alle azioni libere colle quali egli si pose in quello stato, ma niuno negherà perciò che quello stato sia moralmente cattivo, benchè nel dormiente almeno, necessario. [...OMISSIS...] Egli è vero che la dannazione consegue ad un' anima infetta da' vizii anche considerata questa infezione in se stessa, senza riferirla alla causa libera che la produsse; ma solo riferita a questa causa, quella dannazione dicesi meritata, e ne viene così giustificato Iddio, come ottimo autore di una natura che da se stessa liberamente decadde. Quanto poi alla giustizia ed alla santità, egli è certo che trae seco, per se stessa considerata, nell' ordine eterno delle cose, la beatitudine; e Iddio non ha bisogno di giustificazione se vuol donar questa e quella, informando la volontà della sua creatura pienamente di se, senza lasciargli nè pure la possibilità morale di contraddire a sì generosa comunicazione di bene, onde lo Suarez scrive: [...OMISSIS...] , e come fece con MARIA sua madre. Il che tutto dimostra darsi una moralità necessaria informante e attraente la volontà, e la volontà cooperante e consenziente, senza l' esercizio della libertà d' indifferenza. [...OMISSIS...] Sulle quali parole si debbono fare le stesse osservazioni che sulle precedenti; cioè che il PECCATO, ed il BENE MORALE si trova indubitatamente anche nell' abito , che è cosa di natura sua necessaria, e ha la sequela del male e del bene eudemonologico; ma che, in quanto alla COLPA ed alla LODE, quella si rifonde sempre in quegli atti liberi , che quegli abiti cagionarono. Ma gli abiti son difficili ad osservarsi e a perscrutarne la natura: onde sfuggono facilmente al pensiero degli uomini, benchè non a quello di Dio. Questo non dissi io solo (1); ma l' Estio ancora il vuol ben considerato, così concludendo il suo ragionare. [...OMISSIS...] Passiamo ora ad esaminare la seconda questione. Da tutte le cose fin qui ragionate evidentemente si dee conchiudere, che la risposta affermativa a questa questione, in generale, è DI FEDE. Solamente può aver luogo l' opinione teologica in determinare alcuni casi speciali, ne' quali s' avveri o no quella necessità. Che dunque sia di fede in generale, che v' abbia realmente un male morale, nella sua causa prossima e nel suo soggetto (la volontà), necessitato, si prova, 1 Dall' esser di fede, che i demoni ed i dannati sono in istato di peccato, del qual peccato in cui perdurano la causa prossima ed il soggetto è la loro perversa volontà; 2 Dall' esser di fede, che il bambino che nasce, prima di ricevere il battesimo, ha in sè il peccato originale, male morale, consistente in un' avversione a Dio della sua volontà, la qual volontà si mette colla stessa generazione in quell' atteggiamento per l' attraimento della carne; onde anche qui la causa prossima è necessitata; e il soggetto necessitato. Da questo poi avviene, che tutto il genere umano per se stesso considerato, quale è costituito dalla generazione, dicesi dall' Apostolo MASSA CORRUPTA, di corruzione non già fisica solamente, ma anche morale; come pure vien provando l' Apostolo, colle antiche Scritture che accennano gli effetti, che provano la natural corruzione, [...OMISSIS...] . Laonde S. Giovanni parlando della natura umana: [...OMISSIS...] . Tutto il genere umano dunque, di sua natura, e senza la grazia di Cristo, soggiace ad un MALE MORALE NECESSARIO, benchè libero nella causa remota (6); male che di sua natura lo perde eternamente, se Cristo non entra a salvarlo: indi la NECESSITA` ASSOLUTA DELLA REDENZIONE e della grazia per conseguir la salute, secondo la definizione della Chiesa: [...OMISSIS...] . Questo MALE MORALE NECESSARIO, a cui tutto l' uman genere soggiace dall' origine sua, trae seco, di sua natura, cioè prescindendo dalla virtù di Cristo che accorre a impedirlo, delle REE CONSEGUENZE MORALI NECESSARIE. Anche questo è di fede in generale parlando, e solamente entra l' opinione teologica, quando trattasi di determinare i confini di queste ree conseguenze necessarie . Alla fede appartiene. I Che l' uomo per se solo, senza l' aiuto della grazia di Cristo, non può, assalito da gravi tentazioni, star lungamente senza cadere in qualche peccato; ossia non può adempiere a pieno, di continuo, e in ogni possibil cimento, la legge naturale. [...OMISSIS...] Di che S. Paolo, non alludendo solo al peccato d' origine, ma anche a' peccati attuali, dice: [...OMISSIS...] . Poichè quantunque con tali peccati, se fossero necessarie conseguenze dell' originale, l' uomo, non demeritasse, come non demerita coll' originale; tuttavia ne contrarrebbe deformità morale; e questi peccati insieme coll' originale, di cui sarebbero un naturale sviluppo, lo terrebbero nello stato d' ingiustizia e di perdizione. II Che l' uomo colle forze sue naturali, nè colle opere può acquistarsi la giustificazione in cospetto a Dio, o la salute eterna (1), e nè pur muoversi colla sua sola libera volontà verso quella giustizia che è tale agli occhi di Dio (2); III Che l' uomo, anche così giustificato, non può perseverare nella giustizia senza uno speciale aiuto di Dio (3). Tanto impotente è l' uomo senza la grazia. Rimane a parlare della distribuzione, che fa Iddio di questa grazia del Salvatore sì necessaria agli uomini. Anche qui alcune cose sono di fede, altre appartengono alle opinioni delle scuole teologiche. Intanto egli è certo I Che Iddio non è obbligato per titolo di giustizia a dare la sua grazia a nessuno, sicchè qualor anco tutto il genere umano fosse lasciato alla sorte che gli toccherebbe in conseguenza del peccato del primo padre, e de' peccati che i singoli uomini commettessero a imitazione di lui, niuna ingiustizia vi sarebbe da parte di Dio; II Che quindi Iddio è libero padrone di scegliere quelli che vuole, a cui dare i suoi doni, e l' eterna gloria fra i perduti, il che divinamente dimostra l' apostolo colla figura de' due figliuoli d' Isacco dicendo, [...OMISSIS...] . E soggiunge, a mostrare quant' è libera e gratuita la divina chiamata; [...OMISSIS...] . Dice che la salute non viene dal volere e dal correre degli uomini: perchè non vi ha persona che senza l' aiuto di Dio, voglia e corra come bisogna. Laonde giustamente rivolto all' uomo peccatore e impotente l' Apostolo così favella: [...OMISSIS...] . E su questa gratuita elezione egli è uopo aver presente, come S. Agostino la discorre a confusione de' Pelagiani, discorso pe' nuovi teologi opportunissimo. Egli pone per primo fondamento, che qualunque essi sieno i giudizi di Dio, sono giusti, anche se l' altezza di sua giustizia fosse a noi del tutto inintelligibile, [...OMISSIS...] . Pone per secondo fondamento, che qualor anco Iddio non desse ad un uomo la sua grazia, e così costui perisse necessariamente, o pel solo peccato originale, o anche per altri peccati da questo fonte promananti, non avrebbe tuttavia ragione di lagnarsi, anche unicamente [...OMISSIS...] . E non deduce questo vero dai corti giudizii dell' umano ragionamento, ma dalle scritture, dalla fede della Chiesa cattolica, e dalla ragione teologica. Poichè osserva, che dicendo il contrario ne verrebbe l' assurdo, che la grazia fosse da Dio dovuta, e non fosse quindi più grazia. Pongasi dunque l' ipotesi, che Iddio, come potrebbe farlo, negasse ad un uomo discendente d' Adamo e quindi peccator per natura, il dono della sua grazia. Questi ed avrà l' originale infezione sopra di sè, e non potrà adempire perfettamente i divini precetti, onde dovrà necessariamente peccare (3). Ora potrà egli scusarsi al tribunale di Dio dicendo che è condannato per necessità? Non potrebbe scusarsene, per quantunque misterioso possa parer questo dogma all' umana miopia, e ripugnante all' umana superbia, [...OMISSIS...] , e soggiunge con quella immobile persuasione, che sola infonde la fede, e sol la parola dell' eterno crea nell' animo de' fedeli, [...OMISSIS...] (2). Egli è dunque di fede, che Iddio potrebbe con giustizia lasciare anche tutto il genere umano nella sua propria naturale e NECESSARIA perdizione (benchè l' umano ragionamento d' alcuni resti qui quale alocco esposto al raggio solare); ed è pur di fede, ch' ella è sua pura GRATUITA MISERICORDIA, se anco a un sol uomo accordi la grazia, colla quale egli viva bene e pervenga alla salute. E nulla di meno, dopo di ciò, III E` del pari di fede che tanta è la bontà di lui, ch' egli colla volontà sua antecedente e condizionata, ma verissima e sincerissima, [...OMISSIS...] . E l' efficacia di questa bontà s' intende chiaramente, qualora si considerino gl' innumerevoli mezzi ch' egli ha fornito di spontaneo moto al genere umano, pe' quali se l' umanità non n' avesse abusato colla più iniqua sconoscenza, potevano TUTTI I SINGOLI UOMINI pervenire all' eterna salute. E primieramente, avendo egli creati o costituiti i capi dell' umana stirpe in istato d' originale giustizia, questo stato fortunatissimo dovea trapassare in eredità a tutti i posteri, se non l' avessero que' primi, di propria loro libera volontà, perduto. Onde a tutti i singoli loro discendenti era destinato da Dio il mezzo sicuro e facile d' esser sempre santi e felici; e se ora più non sono tali, non a Dio, ma a' proprii padri, che hanno guasta l' umana natura, il debbono imputare; nè Iddio va loro debitore perciò di cos' alcuna, lasciandoli ad ogni modo con tutto il loro: IV E oltracciò egli è certo, in quarto luogo, che essendo Dio sommamente buono, nè pur avrebb' egli permesso il peccato de' primi padri, se non avesse scorto e provveduto, quanto indi dovea ricevere di splendore maggiore la sua misericordia, e quanto dovea crescere nel cuore de' suoi eletti la riconoscenza e la gratitudine di sua carità e la materia quindi alle lodi che gli avrebbero in eterno cantato. Onde S. Paolo, [...OMISSIS...] . V E` certo di più, che dopo il fatto adamitico, Iddio offeso, lungi d' abbandonare l' umana natura a se stessa, gratuitamente promise all' uomo disubbidiente un Riparatore, colla fede alla qual promessa era annessa la grazia di salvarsi: e questa fede nel Riparatore futuro doveva e poteva passare ai posteri, venendo così dato di nuovo a TUTTI I SINGOLI UOMINI un mezzo affatto gratuito di fuggire dal naufragio universale dell' eterna perdizione. Ma essi liberamente rigettarono anche questa seconda misericordia; e Iddio dovette con un castigo esemplare, cioè col diluvio, distruggere le generazioni corrotte, che avrebbero tramandato a' loro posteri non più ciò che avevano da Dio ricevuto di salutare, ma ciò che da sè avean contratto di vizioso e di pernizioso. Ora fino al diluvio non può essere perita quella rivelazione del futuro Messia consegnata a padri così longevi, che Noè era lungamente vissuto con chi avea per lunghi anni conosciuto Adamo. VI Iddio fece Noè, uomo giusto, nuovo capo della stirpe umana, e a lui consegnò il prezioso deposito di quella promessa, che conteneva la FEDE, mezzo di salute destinato di nuovo a TUTTI I SINGOLI DISCENDENTI del nuovo patriarca. Che però tutti i singoli uomini si sarebbero salvati, fino alla venuta del Messia, secondo il gran disegno della divina bontà e longanimità, se di quel dono s' avessero voluto prevalere. Ma molti rigettarono per la terza volta col libero arbitrio la profferta salvezza, facendo onta a quella infinita bontà che pur volea tutti salvi, e alla salvezza di tutti, anche prima della venuta del Messia, avea provveduto; onde, abbandonato Iddio, caddero nell' idolatria, smarrendo il limpido lume della rivelazione e della fede, e la grazia annessa. E come dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Ometto d' enumerare la vocazione d' Abramo, e i peculiari mezzi di salute dati al popolo ebreo, ed altri mezzi non mancati del tutto nè pure all' altre nazioni, benchè sien meno conosciuti; e dico in quella vece, esser certo che VII Iddio, considerata la sua potenza, poteva, senza trovar ostacolo da parte degli uomini, far tutti gli uomini salvi; nè tuttavia egli volle; ma preferì nella sua sapienza e bontà, di salvare alcuni fra rei per gratuita elezione, permettendo che altri perissero. [...OMISSIS...] . Nè agli orecchi di tutti pervenne dopo di ciò la parola di Dio; e nè pure dopo Cristo a tutti fu applicato col battesimo il merito della sua passione, come dichiarò il Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . VIII E` certo quindi ancora, che come non è contro la giustizia e bontà di Dio, che egli permetta la morte de' bambini, non battezzati, nulla togliendo con ciò ad essi, ma non dando loro del suo quanto ad altri; così non si può provare che sia contrario alla sua giustizia e alla sua bontà il lasciar morire altresì degli adulti, a cui non sia stato annunziato il vangelo, dato anche che non avessero aggiunti all' originale, peccati attuali mortali, i quali in tal caso non riceverebbero pena maggiore di quella de' bambini, [...OMISSIS...] . Che se anco degli uomini adulti, a cui non fu annunziato il Vangelo, non potendo colle proprie loro forze eseguire a pieno la legge naturale, cadessero ne' peccati, in quanto ciò avvenisse loro per necessità, non n' avrebbero colpa; ma que' peccati sarebber pena dell' antica colpa, tralci dell' originale infezione. Nè però sarebbe men vero, che le loro volontà fossero inordinate e malvagie, ed essi conseguentemente dannati della dannazione del peccato d' origine. Onde S. Agostino osserva, ch' essi non potrebbero recar per iscusa, [...OMISSIS...] ; perocchè ciò non distrugge il fatto, che vivon male, cioè, per propria volontà, [...OMISSIS...] . In somma coll' esser malvagia la volontà per natura, non per una sua propria elezion precedente, non è men vero ch' ella sia malvagia, e che vivendo male, «DE SUO MALE VIVAT »; ma è vero in pari tempo, che tal morale malvagità è pena, e sciagura, non colpa; e trae dietro a se un male fisico minore di quello che è dovuto alla colpa. Il che riesce difficile a intendere da certuni, i quali pongono il caso di cui si parla in modo alieno dal vero: immaginano cioè quell' impotenza di fare il bene in un uomo, che pur vorrebbe il bene, e che si sforza di farlo, e non può, e perciò cade. Non trattasi, si noti bene, di questo. Colui ha già una volontà incipiente buona: e però s' egli brama, se seco combatte, se prega, sarà aiutato certo da Dio. Chi ne può dubitare, essendo Iddio ottimo? Egli acquisterà certamente tutte le forze che gli bisognano; niuno Iddio abbandona di quelli che a lui ricorrono, e desiderano sinceramente di potere quel che non possono. Ora il caso di cui si parlava è tutt' altro. Trattavasi d' una volontà che non desidera punto il bene, ma al male aderisce; onde di colui che ha tal volontà si può dire col santo dottore: [...OMISSIS...] Ora, se questo è lo stato di un uomo, da qualunque cagione provenga, foss' anco dal solo vizio « quod originaliter traxit », gli è chiusa, fino che così rimane, la porta del cielo; e s' avvera sempre, che [...OMISSIS...] . Di che ognuno che ben intende conoscerà, che il mal morale e la dannazione non vien che dall' uomo, avverandosi il [...OMISSIS...] ; e la misericordia e la salvazione vien solo da Dio; avverandosi il [...OMISSIS...] . E quantunque GESU` Cristo sia morto per tutti affatto gli uomini, non solo per gli eletti, come dissero gli eretici, e dalla sua morte ricevano tutti qualche salutare influenza (3), e a tutti altresì egli profferisca il lume e la grazia, come il sole che a tutti universalmente risplende; tuttavia per proprio difetto, come dicevamo, si perdon non pochi; nè il cieco può lamentarsi del sole se nol rallegra, ma piangere piuttosto l' imperfezione e il vizio della propria natura; quantunque le viziose volontà, di cui favelliamo, nè pure compiangano se stesse per essere moralmente cieche; ma solo si lagnino della fisica pena, che al loro vizio morale s' aggiunge. E tuttavia non è da credere che questo stesso male permetta la divina bontà, se non per cavarne un ben maggiore. Poichè questa crediamo l' unica ragione per la quale Iddio, o ritenga le sue grazie, o ne dia di minori, così esigendo il bene maggiore e l' ordine della sua infinita sapienza (4). IX E` certo del pari, che a tutti quelli che hanno pur conseguita la giustificazione, non possono più mancare gli aiuti senza lor colpa, all' eterna salute, assicurata loro da' meriti e dall' orazione di Cristo (1), bastando la minima porzione di grazia, come dice S. Tommaso, a vincere tutte le tentazioni (2), e dicendo S. Giovanni, [...OMISSIS...] , il che si può spiegare: « non è mai necessitato a peccare. »Laonde non è giammai impossibile ai giustificati l' adempimento de' divini precetti, se pregano, secondo il canone del sacro Concilio, [...OMISSIS...] . X Dee ancora affermarsi, che tutti quelli che dopo giustificati pel battesimo, caddero in colpa mortale, possono di nuovo ricever la grazia, ricorrendo al sacramento della penitenza, fonte di nuova grazia aperto sempre per essi da Cristo. Oltre di che coll' orazione possono impetrare la grazia loro necessaria, quantunque non possano meritarla. La fazione però di Teologi, i cui errori in questo scritto vogliam mostrare, eccedettero anche in questo fino a sostenere cosa probabile, che la sola attrizion naturale basti a giustificar l' uomo, in manifesta opposizione al Concilio di Trento (6), onde anche tale dottrina razionalistica fu dannata dal Papa Innocenzo XI (7). XI Di più, è ancor certo non pugnare nè colla giustizia nè colla bontà divina, che il numero delle grazie, ch' egli conferisce a' peccatori ostinati, sia limitato, e determinato in modo, che scorso quel numero, egli permetta, o che sieno sorpresi dalla morte, o indurati, non [...OMISSIS...] . Dove si noti bene, che tutti quelli che vogliono o sperano, possono sempre salvarsi; non verificandosi l' induramento se non in quelli che più non vogliono e che disperano, sicchè nessuno può dire veramente: io voglio, e non posso. XII E del pari, è certo non opporsi nè alla giustizia nè alla bontà di Dio, che ad alcuni non sia annunziato sufficientemente il vangelo, avvenendo ciò di fatto; come poniamo rispetto agli abitanti d' America e d' altre isole, che vissero in esse prima che fossero scoperte, o in altre ancor da scuoprirsi; giacchè la provvidenza divina, nella sua infinita sapienza e bontà, predispose i tempi e i momenti, ne' quali a ciascuna nazione sia annunziato il vangelo; forse acciocchè abbian prima una cotal preparazione rimota, come pare dal detto di Cristo agli Apostoli: [...OMISSIS...] , prevedendo forse, che non sarebbe ben ricevuta da essi la parola di Dio, e che quindi non servirebbe che ad aggravare le colpe di quelli, a cui fosse annunziata, e da cui fosse ripulsa. XIII Indubitato è pure, che quelli, che non giungono alla giustificazione e alla fede, periscono, perciocchè, [...OMISSIS...] ; non quasichè l' infedeltà loro negativa sia colpa; ma pel peccato originale, e pe' loro peccati attuali. Laonde la fede soprannaturale è di necessità di mezzo, necessaria alla salvazione, [...OMISSIS...] . Ed anche qui la fazione de' nostri teologi detraendo alla grazia divina, soverchiamente attribuirono alla natura, ed alla libertà, volendo che basti a giustificar l' uomo questo solo, ch' egli creda di quella fede che aver si può dal testimonio delle creature, ed alla sola esistenza di Dio, senza la fede esplicita in Dio come rimuneratore del bene e del male (3); dottrina razionalistica, e giustamente anch' essa da Innocenzo XI proscritta. XIV Nè meno si può dubitare, che a tutti quelli, a' quali è proposto sufficientemente il Vangelo, sia data altresì la grazia con cui possano credervi; giacchè le parole di Cristo: [...OMISSIS...] , indicano sufficientemente quella giudiciale condanna, che suppone la colpa, la quale aver non potrebbero, se rimanesser privi della grazia sufficiente per credere. Di più, a tutti quegl' infedeli, a cui Iddio dà delle grazie attuali disponitive alla giustificazione, non può pensarsi che lasci poi mancare i mezzi necessarii di pervenire effettivamente fino alla giustificazione, foss' anco bisogno di mandar loro per miracolo un Apostolo, o un Angelo ad annunziare loro il vangelo, acciocchè [...OMISSIS...] , e così pervengano a ricevere, almeno in voto, quel battesimo che è [...OMISSIS...] . Oltre di che, anche l' orazione d' un infedele, benchè meritar non possa, può però impetrare; ed egli può altresì dimandare nella sua orazione la naturale giustizia, sentendosi rispetto a questa in quella condizione che descrive l' apostolo, dicendo, [...OMISSIS...] . Poichè non supera le forze della natura il volere la naturale giustizia, con una volontà universale, cioè ancor piccola, e priva di forza pratica a perfezionare tutto il bene che l' umana ragione dimostra. Ed una tale volontà, ossia volizione attuale, benchè inefficace ad operare pienamente il ben naturale, può però guidare l' orazione della creatura al suo Creatore naturalmente conosciuto; il quale in tal caso non mancherebbe d' aggiungere per sua pura misericordia i suoi aiuti, implicitamente in quell' orazione dimandati. Se dunque gli atti della volontà (3) d' un infedele fossero naturalmente sì buoni, da desiderare la naturale giustizia, da dimandarla, ed isforzarsi, quanto può, ad adempirla, sarebbe costui, non punto io ne dubito, da Dio soccorso. Perocchè, come dice S. Agostino, [...OMISSIS...] . Ma dubito però assai, che, senza la grazia, possa la mente d' un uomo sollevarsi a sì alto pensiero di domandare al Creatore il dono della giustizia, benchè naturale. Se questo è possibile, sarà possibile a ben pochi; poichè naturalmente l' uom si persuade, essere la virtù riposta nel proprio arbitrio: e pare che solo un raggio superno ci abbia insegnato a conoscere il segretissimo e copiosissimo fonte di ogni giustizia e di ogni santità. Che se via più addentro meditar volessimo nelle divine giustificazioni, dandoci Iddio lume a ciò sufficiente, ci convinceremmo di più, che Iddio sempre mosso dalla sua essenziale bontà, ottimo ugualmente si trova e nel dare che fa le sue grazie, e nel negarle altresì; non negandole egli mai, se non per trarne un bene maggiore alle sue stesse creature; il qual bene, per le limitazioni necessariamente inerenti a tutto ciò ch' ebbe principio nel tempo, non si può ottenere senza permettere il male (1), salva almeno la legge di parsimonia, parte essenziale della divina sapienza. Le quali cose tutte rendono in fin manifesto, come alla giustizia contempera Iddio un' ineffabile, pienissima misericordia. [...OMISSIS...] , per usare ancora le parole di S. Agostino, [...OMISSIS...] . Che si dia adunque un male morale nell' uomo, necessario nel suo soggetto (l' uomo), e nella sua causa prossima (la volontà istante), benchè in origine veniente da un pravo esercizio della libera volontà, egli è un vero innegabile, dalla rivelazione insegnato, dall' esperienza e dalla ragion confermato; il qual vero nè offende la divina giustizia, nè ne impedisce la misericordia, a cui apre un campo amplissimo e gloriosissimo. Ma noia tuttavia un vero così luminoso alle pupille di quelli, che più che d' esaltare la bontà divina, si curano di celebrare la umana; onde strillano al vocabolo necessità , come se il solo pronunciarlo, fosse un distruggere quel libero arbitrio, che se in nulla fosse necessitato, certo potrebbe ogni cosa, e non avrebbe più bisogno di Dio. Oltre questo assurdo teologico, in cui s' urterebbe escludendo ogni necessità dai movimenti della volontà, s' incorrerebbe anche nell' errore filosofico (prolifico di gravi ed erronee conseguenze anche in teologia), che la natura non operasse con leggi fisse sue proprie, o che la volontà non fosse anch' essa una natura, come insegna così apertamente S. Tommaso. Una di queste leggi della volontà e dell' intendimento, come natura, fu da me espressa in queste parole, che dispiacquero a' nostri teologi inclinati al Razionalismo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole ogni uomo, che un po' si conosca di filosofia, intende chiaramente, che si dichiara la legge della spontaneità della volontà, e che non vi si parla della libertà; ma della volontà , la quale viene ivi definita per la potenza di operare in conseguenza di ciò che s' intende. Le persone poi che non ignorano le dottrine da me premesse sulla semplice libertà, sanno ancora, che la libertà , è una forza dell' anima DOMINATRICE E DETERMINATRICE DELLA VOLONTA`, avendo io definita la libertà per [...OMISSIS...] . Coll' esporre dunque le leggi psicologiche, secondo le quali si move la volontà lasciata a se medesima, non si nega, nè si distrugge quella potenza superiore ad essa che LIBERTA` si chiama, e che è nata a dominare la volontà modificandone ed infrenandone gli spontanei movimenti. Quindi dopo aver noi parlato di questi spontanei movimenti della volontà semplice , passammo a parlare della libertà, definendo quando ella possa impedire que' moti spontanei, e quando non possa. Dicemmo poi, che essa può sempre farlo, qualora abbia tempo d' accorrere, e la rapidezza de' movimenti inferiori spontanei della volontà semplice eccitata non la prevengano, e così esprimendoci: [...OMISSIS...] . Il sig. C. all' intendere che la volontà si muova per una legge fisica dietro i bisogni pronuncia questa sentenza: [...OMISSIS...] . Ma, con sua pace, fa piuttosto meraviglia che egli non sappia, o non abbia imparato dalla lettura dello stesso libro che censura, che le leggi fisiche a cui obbedisce la volontà possono dalla libertà esser dominate, purchè non manchino le condizioni necessarie all' operazione di questa potenza, che tiene in sua balía gli atti stessi della volontà spontanea. E fa meraviglia ancor maggiore, che lo stesso nostro censore confessi poco appresso in altre parole, quel vero, che riprende in noi così acerbamente. Poichè alla facciata .4 del suo opuscolo, nota ( i ) dice così: [...OMISSIS...] . Dove in prima convien notare ch' egli traduce il praecipue di S. Tommaso per, al più . Siamo qui obbligati di mandare il teologo a consultare il Dizionario. S. Tommaso dicendo, che la consuetudine produce necessità PRINCIPALMENTE negli atti repentini, riconosce poter intervenire una necessità di operare anche in qualche altro caso non repentino , e così dice più di quello che diciamo noi, attribuendo noi sempre la necessità alla fretta con cui opera la spontaneità, quando tal fretta non lascia tempo alla ragione od alla libertà di accorrere e sovvenire all' uomo. In secondo luogo con ciò ritratta quello che avea detto prima, quando parlando del passo di S. Agostino che S. Tommaso interpreta della necessità in repentinis praecipue scrivea con una piena generalità di parole così: [...OMISSIS...] . Convien dire che S. Tommaso non sia un Dottore cattolico , secondo il nostro C., giacchè, per sua confessione interpreta quel passo diversamente da quel che fanno i dottori cattolici. Finalmente ognuno può vedere, se la dottrina di S. Tommaso d' accordo con quella di S. Agostino, che [...OMISSIS...] sia o non sia uguale a quella da noi esposta ne' passi surriferiti, ne' quali si riconosce necessità là dove [...OMISSIS...] . Se non che il C. con tuono quanto insultante, altrettanto menzognero continua così: [...OMISSIS...] . Io dimando compatimento al lettore cortese, se in questo e in altri scritti vo dicendo delle cose trite e soverchiamente comuni. Ma egli consideri (di nuovo il protesto) che la carità mi spinge a scrivere a mio mal cuore, ed a ripetermi e a diffondermi; ben sapendo che gli scrittori razionalisti non possono nuocere colle loro perniciose dottrine agli uomini pienamente istruiti; ma a quelli soli (e ne' nostri tempi sono troppi) pe' quali scrivono e di cui allettano, favellando religiosamente gli orecchi. A questi che nè sono teologi, nè sanno il loro giudizio sospendere, oppure lo sospendono a prò dell' errore e a danno del vero, vuole la carità di Cristo che si sovvenga quanto si può per me, e perciò adduco in questo e negli altri scritti copiose prove di quelle primarie verità che s' impugnano da' contrarii. L' una delle quali è questa appunto, che la passione giugne a legare in certi istanti l' umana libertà, e a trascinar seco la spontaneità del volere; benchè a nessuno di quelli che fedeli a Dio, vivono sotto la sua protezione avvenga giammai che sieno quinci condotti a peccati mortali tanto da essi odiati. A provar questo vero adunque, oltre l' autorità di S. Agostino, e di S. Tommaso, che il nostro C. questa volta volle accompagnar della sua, aggiungerò quella d' un solo Teologo pregiato da tutti senza eccezione, voglio dire di Domenico Viva della Compagnia di Gesù. Il quale scrive appunto nella nostra sentenza così: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque C. P., dopo molti andirivieni, è obbligato a concederci finalmente che esiste un modo necessario d' operare della volontà umana, e concede che questa sia dottrina de' dottori cattolici. Ma tempera poi questa concessione dicendo: [...OMISSIS...] . Le quali parole richiedono nel caso nostro diverse osservazioni. Primieramente è da ricordare, che già prima lo stesso nostro autore avea riconosciuto darsi un volontario necessario non solo nella perdita totale della ragione nell' ubbriachezza e nella mania; ma ancora ne' moti repentini. Avea confessato che S. Tommaso insegna, che [...OMISSIS...] . Di poi è da considerarsi, che le parole di S. Tommaso da lui addotte per provar le sua tesi, [...OMISSIS...] non riguardano lo stato di pazzia o di ubbriachezza, nel quale la ragione è perturbata per un eccitamento fisico, come falsamente pretende il nostro teologo. S. Tommaso parla di un eccesso momentaneo di passione veemente d' amore, o d' ira, o d' altra simile perturbazione, volendosi dire in fatto che l' uomo nel momento della passione venuta all' estremo, diviene siccome pazzo, secondo il detto che [...OMISSIS...] ; onde Cicerone del furore afferma, che [...OMISSIS...] , e in generale i latini scrittori usano la parola insanire per esprimere l' effetto d' ogni veemente passione (3). In terzo luogo qual è il valore e la forza di quell' espressione dell' angelico [...OMISSIS...] ; espressione ripetuta poi da' teologi? Nel brano stesso del « Trattato della Coscienza » citato dal Signor C. se ne dà la spiegazione e l' analisi; pure, dopo averlo riferito, egli si fa dimandare: [...OMISSIS...] . Rispondiamo che non vi si ravvisa certamente, nel senso, che pretende il Signor C., perchè non vi si dee ravvisare; ma vi si ravvisa nel senso di S. Tommaso, e della comune de' teologi. Poichè nè S. Tommaso, nè i teologi parlano, come egli suppone, di un uomo, che « sia interamente uscito di senno »qual è colui che si manda all' ospizio de' pazzarelli; ma parlano d' un uomo, che nell' istante che opera non può far uso di sua ragione all' intento di vincere l' impetuosa passione. E nè pure è da credere, ch' essi parlino d' un uomo « in cui cessi da ogni suo ufficio la ragione »; poichè anzi essi parlano solamente d' un uomo, in cui la ragione cessa dal suo ufficio di deliberare; parlano di un uomo a cui la passione ha tolto intieramente l' uso morale della ragione, o, in altre parole, in cui è sospeso quest' uso della ragione morale , com' io più spesso mi esprimo, chè così dee spiegarsi sanamente il [...OMISSIS...] di S. Tommaso. Poichè egli è certo che basta che la ragione non possa accorrere, e in tempo utile deliberare, acciocchè l' uso della ragione sia interamente tolto, quanto fa al caso, benchè la ragione non cessi da ogni altra sua funzione. Laonde [...OMISSIS...] , come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] , dal qual passo si vede chiaramente che S. Tommaso parla della ragione Deliberante , non della ragione presa in universale quando dice, [...OMISSIS...] , le quali perciò si debbon tradurre « che impedisce affatto all' uomo di deliberare a favore della giustizia. » E per vero niuno dica mai che pecchi colui (prescindendo dalla reità che può avere in causa) che non può coll' uso di sua ragione venire in soccorso alla volontà soprafatta dalla passione. Ora che quest' uso morale della ragione possa mancare, senza che perciò venga meno necessariamente ogni altro uso di essa, scorgesi osservando quant' accade negli stessi ubbriachi e negli stessi pazzarelli come pure ne' bambini. E` un pregiudizio volgare e crudele (e dovrebbe una volta cessare) il credere, che gli ubbriachi, i pazzi ed i bambini non facciano alcun uso affatto della loro ragione, e lo chiamo un pregiudizio non solo volgare ma anche crudele; perocchè ad esso si devono pur troppo imputare i barbari trattamenti che s' usavano una volta verso i miseri pazzarelli, de' quali non riguardati oggimai più come esseri ragionevoli, si faceva impunemente ogni strazio, ed ogni abuso: e lo stesso press' a poco è a dirsi degli ubbriachi. Non v' era nè pure chi pensasse seriamente all' educazione de' bambinelli, salve le sole madri che contraddicendo col provvido loro istinto alla comune ignoranza e barbarie; credevasi inutile studiarsi a dirigere e sviluppare le loro razionali facoltà che si negavano in essi o senza attività si credevano, e dovea solo forse allo scoccar de' sett' anni incominciare tutto improvviso l' uso della ragione . Il che era vero, presso a poco, se per uso della ragione si fosse inteso l' uso della discrezione del bene e del male , come pur dicevano i savi teologi, il che è quanto dire l' uso della riflessione e della libertà, l' epoca quinci del merito e del demerito. All' incontro l' uso della ragione in universale presa come potenza a cui appartengono le funzioni del percepire, dell' universalizzare, del giudicare, dell' analizzare, del sintesizzare ed altri tali, incomincia, vel crediate o no, nei bambini pure col primo riso, con cui salutan la madre. Negli ubbriachi parimente e ne' pazzarelli, sieno maniaci o monomaniaci, l' uso della ragione non è mai tolto del tutto, anzi v' è egli attivissimo; ma per isventura non regolato nelle cose necessarie al vivere e non preceduto da una sufficientemente ponderata deliberazione: percepiscono dunque, universalizzano, fanno de' giudizii e de' raziocinii e talora anco giusti; ma spesso anco sbagliati: e quando riescono troppo di frequente sbagliati in quelle cose ordinarie, nelle quali non falla il comune degli uomini, allora si hanno per pazzi. Che se si dimanda di più la causa onde avviene che l' uso della ragione proceda in essi così sregolato, l' osservazione di un tal fenomeno e la meditazion vi dirà che i loro giudizi sono traviati dalla loro propria volontà, la quale è la potenza che d' ordinario muove e conduce il ragionamento; vi dirà ancora che quella loro volontà poi che travia in essi il ragionamento è fieramente predominata e tiranneggiata dalla attuosità delle immagini, dalla potenza degl' istinti, dalla forza delle opinioni fisse, e dalle abitudini e dalla urgenza seduttrice delle passioni. Sotto alla qual crudele tirannide dell' animalità esaltata, irritata e prevalente la luce liberatrice della giustizia manda ancora i suoi raggi: e talora consiglia quegli infelici, talor li consola (1). La maniera poi onde la passione del sensitivo istinto domina cotanto e trascina la volontà ce l' insegna S. Tommaso, che insegna che non può la passione muovere la volontà direttamente, ma sì indirettamente (2), ed ella fa ciò sottraendo alla libertà le forze dell' anima; perchè dall' anima, come da loro radice, traggono la loro attività tutte le potenze; e l' anima ha una virtù unica e limitata; ond' avviene che se questa virtù sia distratta parte o tutta da una sola potenza, poniamo da quella del senso e dell' istinto animale, si rimane meno od anche nulla all' altre potenze, poniamo alla libertà, allora questa si dimostra indebolita, sfibrata, inerte, ed oppressa dalla veemenza dell' istinto sensitivo cresciuto a tal grado di vigorìa da rapire a se tutta l' anima. [...OMISSIS...] . Di più la passione sensitiva, dice S. Tommaso, trae la mente a fare de' torti giudizii sul valore delle cose, e quindi s' ha un altro modo, pel quale si sregola la volontà, [...OMISSIS...] . Ma qui si deve osservare, che se, dopo che l' uomo ha fatto un giudizio falso sul bene, dopo che, poniamo, ha giudicato che un oggetto sia più buono ch' egli non è, la volontà l' ama di più che non dovrebbe; la volontà stessa però aveva già prima fatto un altro atto col quale avea determinato quel falso giudizio, e quella falsa stima dell' oggetto. Perocchè sebbene la prima apprensione delle cose (percezione, sintesi primitiva) si faccia istintivamente, il giudizio però del loro valore morale ed eudemonologico, si fa sempre per un giudizio diretto dalla volontà, la quale perciò è la causa di tali giudizii (3); e sono sani e retti quando la volontà è sana e retta, e immune dalla violenza di quella passione che, come dice l' Angelico, talora trae a sè sola tutta la forza dell' anima. La mancanza adunque dell' uso della ragione, di cui parla S. Tommaso, che rende l' azione involontaria e, come noi diciamo, non libera, e quindi inetta a meritare, si è quella, per la quale la ragione legata dalla passione non può piú accorrere a deliberare in favore della legge, il qual fatto psicologico da noi viene descritto nelle parole non intese, ma censurate dal C., le quali furono queste: [...OMISSIS...] . La ragione del qual ultimo fatto è quella appunto data da S. Tommaso là dove con tanta sapienza scrive, [...OMISSIS...] . Nel brano arrecato io enumero i varii aiuti, che rendono l' uomo possente a vincere la seduzione di sue passioni ed istinti; e tra questi pongo la meditazione del proprio dovere, e l' animo ben disposto . Da questo il Sig. C. induce che io dunque insegno tutte le azioni essere necessarie, quando si fanno senza meditazione e senz' animo ben disposto! All' incontro le azioni necessarie sono da me descritte così: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole si pone a prima condizione dell' atto necessario , che [...OMISSIS...] come accade ne' primi moti. Ma posciachè, quando l' uomo già ottenne il dominio della propria volontà col grand' uso e coll' abito della virtù; l' uomo previene anche i primi moti e gl' insulti impetuosi delle passioni e degl' istinti tenendo questi abitualmente infrenati; perciò non mi sono contentato d' esigere universalmente a costituire un' azione necessaria, che la passione sia urgentissima e repentina, ma ho soggiunto di più ch' ella non sarebbe ancor necessaria, ch' ella potrebbe essere tuttavia libera, qualora si trattasse d' un uomo abituato al bene sì fattamente, da aver già conseguito una piena signoria di sè stesso. Coll' aggiunta di questa seconda condizione si rende ancora più difficile ad avverarsi il caso dell' azione necessaria; e mentre il comune de' teologi si limita a riconoscerla tale dove una passione si renda eccessiva, io feci di più osservare, che la violenza della passione inducente necessità non si dee misurare dal grado assoluto della sua forza, ma dal grado relativo alla virtù dell' uomo in cui ella opera; poichè un uom virtuosissimo dominatore di sè, giunge in tempo a domare eziandio la passione urgente ed al sommo pressante. Ora quelle condizioni, che io posi acciocchè una azione si possa credere necessaria , il sig. C. asserisce che furono apposte acciocchè l' azione si possa dir libera, capovolgendo tutto il mio sentimento. Sicchè mentre io dico, che l' azione non è mai necessaria, se la passione non sia urgentissima d' una parte e dall' altra se l' anima dell' uomo non sia sgagliardita (1); egli mi fa dire all' opposto che [...OMISSIS...] . Egli dunque non intese che l' abito buono non fu da me posto qual condizione dell' azione libera, ma quale aiuto, pel quale l' azione diviene libera anche quando ella tale non sarebbe per l' urgenza della passione: nè intese pure che l' avere uno spazio di tempo nel quale poter sospendere il giudizio pratico, in considerazione della legge che la proibisce, sono condizioni che indubitatamente avverare si debbono in tutte le azioni libere, essendo assurdo il dichiarar libera un' azione, se chi la fa non ha tempo da sospendere il subito giudizio pratico che la produce, nè da considerar la forza e l' autorità della legge che la divieta. Scorgesi in fine che il nostro teologo dimenticò nell' enumerare le condizioni da me richieste, acciocchè un' azione possa credersi necessaria, la principale di tutte, senza la quale sono nulle le altre, la condizione espressa in quelle parole: [...OMISSIS...] . Dopo aver dunque il nostro teologo fatto supporre, che le condizioni da me richieste, acciocchè un atto sia necessario, sieno in quella vece da me richieste, acciocchè un atto sia libero, e dopo aver taciuta la principale o la sostanziale di queste condizioni, che cosa fa egli? Come rivenisse allora dal mondo nuovo, continua così: [...OMISSIS...] . Ma non solo non è da omettersi; ma lo si doveva dire prima; perocchè se fosse stato detto era resa impossibile la censura. Ma il lasciar fuori da una sentenza la parte principale e così renderla erronea e inveire contro di essa come erronea; e finita l' invettiva uscir fuori colla parte taciuta fino allora, e trovarvi un nuovo errore cioè trovare che la parte taciuta contraddice al sentimento precedente falsamente supposto; ella non è questa l' opera d' un uomo amico del vero, ma d' un cavilloso sofista, che tende a stabilire una dottrina erronea sullo scredito della vera (2). I teologi razionalisti per far prevalere il loro sistema falsificano dunque continuamente l' altrui. Il sig. C. giunge a scrivere così: [...OMISSIS...] . In questo passo il nostro teologo nasconde nel silenzio il preciso caso di cui si tratta. Non si tratta già in universale dell' uomo che opera dietro la concupiscenza e l' altre passioni, com' egli fa credere; ma unicamente e precisamente dell' uomo stretto dalla necessità che gli toglie la facoltà di deliberare a favor della legge. Cangiando la questione fa comparir Bajo un lassista, mentre finqui fu tenuto per rigorista, e dichiara il Rosmini ancora più lassista di Bajo! Affine di restituire la verità, metterò sotto gli occhi de' lettori un solo degli innumerevoli passi dal nostro teologo taciuti, e sarà quel che trovasi alla faccia 169 del « Trattato della Coscienza », che così dice: [...OMISSIS...] . I teologi razionalisti impegnati a dimostrare, che la dottrina cattolica sia l' eretica di Giansenio, e che l' eretica de' Pelagiani sia la cattolica, usano anche un altro artifizio. Solleciti di occultare le vere differenze che distinguono la dottrina eretica dalla cattolica, qualora s' abbattono ad alcuna di quelle differenze per confondere la mente de' suoi lettori s' accendono di zelo e con una cotal piega di artificiose parole togliono a far credere, che quella differenza che caratterizza la sana dottrina, sia un errore così sformato, a cui nè pure giunsero gli eretici fin qui conosciuti. Diamone un chiaro esempio. Uno degli errori di Bajo si fu che i moti della concupiscenza, intesa come un mero istinto animale, meritino in senso proprio l' appellazion di peccato, e si riducano al peccato d' origine anche nascendo CONTRO IL CONSENSO DELLA VOLONTA`. [...OMISSIS...] . La dottrina all' incontro della Chiesa Cattolica non conosce peccato di nessuna guisa, fin che la volontà dell' uomo ripugna; perocchè il peccato è « una declinazione (attuale, ovvero abituale) della volontà personale dalla legge. »Onde, se la volontà dell' uomo ripugna positivamente, e ripelle i moti carnali, egli è chiaro, che non può averci peccato , nè dopo, nè tampoco avanti il battesimo; perchè la volontà potenza superiore al senso è qui personale; e però quella, onde si dee desumere la condizione morale dell' uomo. Ma il Bajo disconosciuta questa dottrina, cadde nell' errore, che, avanti il battesimo, sieno peccato anche i movimenti disvoluti e disdetti dalla volontà, anche [...OMISSIS...] , errore che si contiene, almeno esplicitamente, nella condanna fatta dalla Chiesa del Bajanismo. La Chiesa, in pari tempo, non disconosce o nega alcuno de' fatti antropologici; e però nè pur quello che la volontà talora, ridotta a certe angustie e non soccorsa dalla ragione deliberante, sia tratta a consentire spontaneamente a' movimenti istintivi del senso, senza che le sia possibile ripugnare. Ma questo fatto non può già accadere in quelli, che trovandosi in istato di grazia, sono da questa sempre ne' lor bisogni fedelmente soccorsi, com' io ho dimostrato (nel « Trattato della Coscienza » facc. 165 e segg.). Laonde nell' uomo giustificato non ha mai luogo un necessario acconsentimento della volontà a un male conosciuto, perchè trattasi d' una volontà, come dice S. Agostino, dalla grazia liberata. All' incontro in quelli, che o non sono ancora rinati nell' acque battesimali, o mediante le volontarie loro colpe contrassero un abito di peccare, rimangono in istato di peccato, può accadere quel caso funesto, pel quale l' impeto delle passioni e di più tentazioni quinci e quindi assalitrici, tolgano il tempo all' arbitrio di venire in soccorso, onde vinti rimangono. I quali atti non essendo liberi sono peccati in causa, o che questa causa sia il peccato d' origine in essi non ancora rimesso, come S. Agostino tante volte ripete, o che sieno altre colpe nelle quali essi liberamente s' immersero, indebolendo così la propria libertà; con questa differenza però, che se la necessità venne dalla originale infezione, questi atti disordinati, al peccato originale si riducono, e sono uno con questo, e quindi non si possono dir colpe se non riferendole alla libera prevaricazione di Adamo, là dove, se la necessità fu figliuola delle loro proprie libere colpe che ingenerarono la consuetudine; le conseguenti cadute partecipano dalle dette colpe precedenti la denominazione pure di colpe, e diconsi colpe in causa. Tale è la sana dottrina, ed ognuno intende quanto differisca da quella di Bajo, il quale attribuisce la nozione di peccato anche a ciò che nasce contro la stessa volontà; quando la sana dottrina non attribuisce tale denominazione, se non a ciò, a cui la volontà consente, quantunque necessariamente, se questa necessità fu libera in causa. Ma i nostri teologi introducendo la maggior confusione d' idee, fanno in quello scambio, credere che la dottrina cattolica da noi professata, sia peggiore della bajana. Dopo avere il C. recato quel passo, dove noi descrivevamo il fatto della volontà affascinata dalla passione, alla qual cede miseramente, dicendo: [...OMISSIS...] . Per restituire la verità così violata è necessario fare le seguenti osservazioni: 1 Bajo disse, che non s' imputavano i moti della concupiscenza a' battezzati che non consentono, ma aggiunse che s' imputano insieme col peccato di origine a' non battezzati benchè non consentano; e la Chiesa Cattolica dice, che quando la volontà è contraria non s' imputano que' moti mai nè a' battezzati, nè a' non battezzati; 2 Bajo trova un' imputazione a colpa anche negli atti necessarii, e noi all' opposto diciamo che non si dà imputazione a colpa, se non là dove si dà libertà, e però, se si avvera il caso, che la volontà sia tratta a consentire necessariamente non si dà colpa, se non nella causa libera di questo disordine. E` ella questa dottrina peggiore della bajana? Il nostro teologo alla facc. 136, dopo citato quel passo di Bajo [...OMISSIS...] , ripete la stessa accusa così: [...OMISSIS...] . Non è il Rosmini, ma è la Chiesa, che senza il consenso non riconosce peccato alcuno, e che quando la volontà è necessitata a consentire a' subitanei movimenti non riconosce tuttavia colpa, se non nella causa libera che l' ebbe addotta a sì trista necessità. Ma qui a proposito del consenso il nostro teologo crede di ravvisare una contraddizione tra ciò che si trova scritto intorno al consenso nella « Risposta ad Eusebio » e ciò che si dice di esso nel « Trattato della Coscienza ». Ma questa pretesa contraddizione non è altro che un suo novo abbaglio. Egli asserisce che nella « Risposta ad Eusebio » si dichiari, che il consenso sia sempre un atto personale, quando all' opposto nel « Trattato della Coscienza » si ammette una volontà, che stretta dagl' impulsi istintivi, consente necessariamente alla passione, onde dice: [...OMISSIS...] . Ma o non ha osservato, o dissimula che nella « Risposta ad Eusebio » non si parla d' ogni maniera di consenso, ma di un consenso libero , leggendovisi: [...OMISSIS...] nel « Trattato della Coscienza » all' incontro si parla di un consentire necessario della volontà, il che toglie ogni contraddizione (2). E per vero tra lo spontaneo consentire della non anco libera volontà, di cui si parla nel « Trattato della Coscienza » e il libero consenso, di cui si parla nella « Risposta ad Eusebio », vi ha un immenso divario. La LIBERTA` è una facoltà superiore alla VOLONTA`, poichè è « la potenza di eleggere fra le volizioni. »Qualora adunque la volontà da se sola opera senza la direzione superiore, che consiste nella libertà che elegge, ella si lascia andare spontaneamente dietro alle sensazioni, e si dice che a queste consente , secondo l' etimologia della parola, che viene a dire sente con esse, si adatta ad esse. Ma il consenso della libertà è tutt' altro; questa facoltà non consente immediatamente ALLE SENSAZIONI, ma consente ALL' UNA DELLE DUE VOLIZIONI buone e cattive, fra cui elegge, e questo è appunto il consenso sempre personale, di cui parla S. Tommaso, e di cui noi, attenendoci alla sua guida, parlammo nella « Risposta al finto Eusebio ». Ma nella stessa « Risposta » fu distinto un cotal consentire necessario della volontà, e non della libertà, mostrando ivi esser questa maniera di dire usata da' teologi colla testimonianza dell' Estio (3): il che tutto dissimula il nostro censore. I teologi razionalisti diminuiscono col loro sistema la virtù e l' efficacia della grazia del santo battesimo. Questo si vede anche nell' opuscolo che abbiamo preso ad esaminare, come un recente esempio della dottrina teologica razionalistica. In un luogo si attribuisce ai dottori cattolici (questo è il perpetuo loro stile d' attribuire ai dottori cattolici in corpo i propri sensi) la sentenza, che non pone alcuna distinzione tra ciò che può la concupiscenza originale nel non battezzato, e ciò che può nel battezzato. Questo è manifestamente un diminuire l' effetto salutare del battesimo, per voglia d' esaltare l' umana natura, incorrotta, com' ei la crede, che, secondo la sostanza del suo discorso, non ha di questa medicina del battesimale lavacro bisogno assoluto e solo gli bisogna il battesimo, come diceva Giuliano d' Eclana, per ricuperare i soprannaturali ornamenti (1). Ecco quali sono le sue parole: [...OMISSIS...] . Il nostro teologo dunque attribuisce ai dottori cattolici la sentenza, che non ci sia differenza alcuna tra gli uomini battezzati e non battezzati circa il potere che hanno gli uni e gli altri contro gli assalti della concupiscenza, di maniera che, rispetto a questi, l' effetto del santo battesimo sia del tutto nullo. Ma è ella veramente questa la dottrina cattolica? Non è anzi un calunniare i dottori cattolici l' affibbiarla loro? Vediamolo diligentemente. Se dunque fosse vero, che i Dottori cattolici, (il che è quanto dire la Chiesa, perchè si prendono tutti i dottori in corpo senza eccezione), non riconoscessero alcuna differenza tra i battezzati e i non battezzati, quanto alla vigoria dell' umana volontà e libertà in vincere le passioni della concupiscenza; a che si ridurrebbero gli effetti del santo battesimo? A che vogliono ridurli i teologi razionalisti? Alla remissione del peccato originale? Ma questo peccato che essi diconlo peccato secundum quid e quadamtenus non è nel loro sistema che un peccato di mero nome, ed erano più conseguenti i pelagiani che schiettamente negavano il nome di peccato alla semplice privazione della grazia. All' infusione della grazia soprannaturale? - Ma che cosa è questa grazia, in bocca de' teologi razionalistici, i quali negano ch' ella abbia virtù di attenuare le forze della concupiscenza, e d' accrescere quelle del libero arbitrio, non facendo riguardo essi a questo distinzione alcuna tra battezzati e non battezzati? Il sacrosanto Concilio di Trento decise quanto segue: [...OMISSIS...] . Ora i cuori di quelli, ne' quali è diffusa la carità dallo Spirito Santo e a' quali questa caritƒ diffusa in essi è aderente ( illis inhaeret ), questi cuori che sentono in se stessi la figliuolanza di Dio, e, come dice l' Apostolo, chiamano, animati dallo Spirito Santo: Abba Pater , saranno essi egualmente deboli e fiacchi contro l' ingenita concupiscenza, come quelli che non hanno punto ricevuto col santo battesimo il dono di Dio? Io me ne appello a tutti i fedeli di Cristo, alle anime che amano Iddio; e sono certo, che s' ottureranno gli orecchi come a bestemmie ingiuriose a Cristo ed al Santo Spirito, udendo tali parole del nostro teologo anonimo, e de' suoi confratelli «(V. la mia Risposta al finto Eusebio n. 106) ». Ne' celebri capitoli intitolati: [...OMISSIS...] leggesi tra le altre cose della grazia santificante così: [...OMISSIS...] . Ed ora da che può esser liberato il libero arbitrio, in virtù della grazia, se non da' suoi nemici, che si riducono in fine sotto il nome di concupiscenza? Con qual verità dunque i teologi razionalisti asseriscono che i dottori cattolici insegnino, che circa il potere di astenersi dalle azioni peccaminose non v' ha differenza tra battezzati e non battezzati? Non è questo un passare da un estremo all' altro, e per evitare l' errore di quelli che distruggono nell' uomo, o prima che sia rigenerato, o prima e dopo, il libero arbitrio, cadere nell' errore di quegli altri, che spogliano dalla sua virtù liberatrice e santificatrice la grazia di GESU` Cristo, la qual viene infusa nel santo battesimo? Facciamo un semplice e spassionato paragone tra la dottrina di tali teologi e quella già condannata dalla Chiesa ne' pelagiani, e apparirà manifesto il loro inganno ed il loro errore. I pelagiani dicevano, che la natura umana nasce presentemente senza vizio alcuno e colla sola privazione de' doni gratuiti (1): e il medesimo dicono i nostri teologi moderni. Ma come si salvano dunque, cioè credon salvarsi, dalla condanna di questi antichi eretici? Ritenendo la stessa loro sentenza, ma vestendola d' altre parole. Gli uni e gli altri convengono, che la natura umana nasce senza vizio, con tutti i suoi pregi naturali, e solo priva dei doni gratuiti. Questa è la sentenza comune, ora viene la differenza nelle parole. Quegli antichi confessavano ingenuamente, che nè la privazione de' doni gratuiti, nè le naturali limitazioni, nè i difetti naturali procedenti da quelle, erano peccato , e in questo dicevano bene. Furono adunque condannati, perchè negavano il peccato originale. Questi moderni, tementi la condanna stessa, dicono che quella privazione de' doni gratuiti è peccato, e in ciò dicono male. Ma col dire in tal modo un errore di più, saranno dunque assolti dalla condanna antica? Non credo io. Similmente s' osservi quanto agli effetti del battesimo. Sì gli antichi pelagiani che i moderni teologi dicono, che l' effetto del battesimo consiste solamente nel restituire alla natura buona l' ordine migliore della grazia [...OMISSIS...] questa è la sentenza comune. Ma gli antichi eretici confessano ingenuamente, che l' innalzare semplicemente la natura umana all' ordine soprannaturale, non è lo stesso che assolverla dal peccato; e dicevano bene. Furono adunque dannati perchè negavano che i bambini si battezzassero « in remissionem peccatorum ». I moderni teologi dicono all' opposto, che innalzare la natura all' ordine soprannaturale, è lo stesso che rimetterle il peccato originale; e dicono male. Ora di nuovo, eviteranno questi la condanna, solo col dire un errore di più di quelli? L' eresia consiste in semplici parole o nel senso e nella dottrina, qualunque sieno le parole che si adoperano per esprimerla, o per coprirla? Non verrebbe esposta la nostra santa fede al dileggio degli increduli qualora ella si facesse consistere in puri giochi di parole? Non sarebbe esposta al ridicolo la sacra teologia, qualora potessero dire con qualche verosimiglianza, che i teologi ritenendo le parole sanno di mano in mano modificare e cangiare con sottigliezze e vocaboli, le più essenziali e fondamentali dottrine del cristianesimo? Se si cerca, qual sia la dottrina sana della Chiesa intorno alla naturale possibilità dell' uomo, ed a quella possibilità di viver bene che egli acquista coll' infusione della grazia, conviene indubitatamente rispondere, che la Chiesa decise: [...OMISSIS...] , cioè aver tutti gli uomini perdute due cose, 1 l' innocenza e giustizia, e 2 la possibilità naturale di viver bene; onde S. Innocenzo papa rispetto a questa seconda perdita, così s' esprime: [...OMISSIS...] . Contro alla qual dottrina della cattolica Chiesa offendono apertamente coloro che al battesimo negano la virtù di ristorare le forze del libero arbitrio infiacchite contro la concupiscenza e dichiarano, esser queste uguali nel battezzato e nel non battezzato, come fanno i recenti teologi. Dopo di ciò la Chiesa ancora decise, che [...OMISSIS...] . Fin qui va la questione della dottrina generale. Dopo questa, viene poi la questione del fatto, la quale dimanda: « quando si verifichi, che l' uomo operi il male senza libertà e però senza demerito. » La possibilità intanto di questo fatto la Chiesa l' ammette e suppone pur colla condanna delle proposizioni di Bajo: [...OMISSIS...] , dalle quali e da altre somiglianti, scorgesi, come abbiam provato innanzi, che la Chiesa riconosce ed ammette un operare volontario, ma necessitato, di modochè la parola voluntarium , giusta tali decisioni della Chiesa, non sempre significa liberum , come contende il nuovo Teologo. Questo dunque appartiene ancor alla dottrina della Chiesa cattolica. Ma per venire alla questione di fatto: « quando si verifichi che l' uomo operi senza libertà e però senza merito nè demerito, » oltre il sapere in generale che qualche volta si verifica, il che, come dicevamo, è già parte del cattolico insegnamento; conviene di più determinarne per quanto si può i casi precisi. Al che ottenere vi hanno due lavori a farsi. Poichè altro è determinare i casi, ne' quali l' uomo opera necessariamente in generale, descrivendo le condizioni e le circostanze, sotto l' influenza delle quali egli procede colla necessità; ed altro è poi nel fatto reale accertarsi che tali condizioni e circostanze abbiano luogo in questa o quell' azione particolare. A ragion d' esempio alcuno dirà, che la passione può in alcun istante pigliar tant' impeto ed una così veemente uscita, ch' ella tolga all' uomo la libertà. Ma il dir questo non è mica un dire che in un dato fatto particolare di Tizio o di Cajo siasi avverata questa condizione, non è un dire, che la passione in Tizio od in Cajo sia stata realmente così urgente e così pressante in una data azione da trascinare la spontaneità ed impedire l' arbitrio della volontà. Anzi ella è cosa difficilissima o piuttosto impossibile il definirsi questo con piena certezza nel caso reale, e a Dio solo suol essere pienamente noto. Laonde l' uomo che opera con passione, grandemente s' illuderebbe s' egli leggermente credesse d' aver operato con necessità, anzi in luogo di scusarsi dee certamente condannare se stesso, non solo per le colpe attuali, che gli cagionarono quella torbida e violenta passione, non solo per le occasioni, a cui probabilmente s' espose, e per gli irritamenti a lei conceduti, non solo per non esser ricorso bastevolmente agli ajuti, co' quali avrebbe dovuto e potuto prevenire la sua caduta, ma ben anco per l' atto posto quando essa passione irruente in lui, videsi traboccata nel precipizio: e ciò perchè se da una parte questo gli mostra che tutto è disordinato in lui fin la stessa sua volontà, che è egli stesso; dall' altra perchè egli ha sempre troppa ragione di temere che la stessa sua libertà non fosse legata del tutto, essendo questo, come dicevamo, oltre modo difficile, se non impossibile a definirsi. Dal che apparisce, che lo stabilire semplicemente colla Chiesa cattolica che la passione aiutata dalla consuetudine delle colpe e lasciata andare innanzi ne' suoi riscaldi senza la debita vigilanza, possa talora addur l' uomo a sì stretto passo, al quale egli sdrucciola necessariamente; non è già un dare ansa e sicurtà agli uomini appassionati od abituati a peccare; ma è piuttosto un ammonirli di non confidare nelle forze proprie, ma di ricorrere a G. Cristo liberatore, di cui hanno un bisogno assoluto, per andar salvi dalla crudele tirannide del demonio e dalla loro propria concupiscenza. A torto dunque i teologi di cui parliamo sostengono, che le forze del battezzato, e del non battezzato sono ugualmente capaci di resistere al male; scagliando acri invettive contro quelli che dicono il contrario, asserendo che coll' ammettere una necessitá di cader ne' peccati, senza la grazia di Cristo, aprano la porta alla dissolutezza, con troppo basse parole dicendo, che questa è [...OMISSIS...] . L' estenuare gli effetti del sacramento del battesimo, col quale gli uomini s' incorporano a Cristo, e sono sollevati dalla condizione della natura guasta, all' ordine delle cose soprannaturali, e al regno di Dio favorisce oltremodo la tendenza di questo secolo d' incredulità e di diserzione dalla fede cattolica. La filosofia divisa dalla religione indefessamente lavora a introdurre nel mondo un sistema di Razionalismo che tenga luogo d' ogni religione positiva. Il protestantismo che non può resistere a' suoi assalti si associa ogni dì più con esso allo stesso intento, e rifondendosi in una pretesa religion naturale va cessando d' esistere come credente ad una positiva rivelazione. Predicatori inspirati dall' umana superbia scuotono la fede delle plebi stesse, e già, nelle nazioni protestanti, si trascura l' amministrazione del battesimo, se ne altera la materia e la forma, non considerandosi oggimai questo principal sacramento che come un semplice rito, onde si trovano già moltissimi adulti non battezzati, e degli altri si dee giustamente temere, non forse sieno stati battezzati invalidamente. I filosofi del protestantismo, ed i razionalisti biblici della Germania, con migliaia di libri e d' opuscoli diffondono per ogni canto d' Europa lo stesso spirito freddo, falso, per essenza miscredente, lusingatore dell' orgoglio umano e lo comunicano di nazione in nazione. Nella Francia cattolica entrò legalmente sotto il titolo di Scuola Normale di Filosofia. E sarà ora una dottrina indifferente, e degna di trascurarsi a' nostri giorni quella de' nostri teologi, che insinuano apertamente che il battesimo non accresce le forze dell' uomo ad evitare il peccato? Alla quale, nello spirito razionalistico, consuona pur quella filosofica, che da' sensi, a' quali s' attribuisce la conoscenza, o che dalla forza subbiettiva dell' anima fa venire all' uomo le idee, onde la verità, che nelle idee si contiene, è fatta con ciò figlia anch' essa dell' uomo, non più eterna, non più divina, quand' anco con una perpetua incoerenza si protesti il contrario. Così accade che il Razionalismo corrompa ogni dì più l' educazione della gioventù cristiana, rendendola vana e superba; insegnandole che dalla sua ragione viene la verità, dal suo libero arbitrio la virtù: la rivelazione non esserle necessaria assolutamente; anche senza il battesimo poter essa volere e vincere le proprie passioni. Questo tentativo benchè ne' nostri Anonimi s' appalesi più manifesto, non è per avventura nuovo ma antico, essendosi insinuato già, lentamente, come dicevamo, da più di due secoli; egli non è accidentale, non è momentaneo; ma è concertato in sistema, replicato, incessante. Si è taciuto finora, o almen parlato sommessamente per non rinfrescare la memoria di scandali quasi obliati. Ma io credo, che Iddio già più non voglia che si nasconda la radice del male che occultamente serpeggia: la provvidenza divina ha permesso che quello spirito infausto di Razionalismo e di Pelagianismo, che segretamente corrode i visceri del cristianesimo, toglie la virtù a' sacramenti, ed anco la passione e la morte di GESU` Cristo, scoppiasse più aperto negli opuscoli di alcuni teologi cattolici, fors' anco in buona fede da parte loro, ma con dottrina non sana. Abbandoniamo ogni causa o disputa personale, e siamo solo solleciti della purità della fede, della causa di G. C. e della sua Chiesa. Nessuno che consideri le cose spassionatamente potrà dubitare che i nostri Anonimi in sostanza rinnovano insieme uniti, e sotto color di pietà un assalto alla dottrina della Chiesa ed alla grazia del Redentore; de' quali negli scorsi secoli s' ebbero tanti esempi e basti accennare solo quello celeberrimo dei PP. Arduino e Berruyer. La « Storia del popolo di Dio » di quest' ultimo, di cui s' era promessa la correzione, uscì alle stampe ancor tale, che dovette condannarsi in Roma stessa nel 1734, e poi due volte di novo da Benedetto XIV (1) ed una terza da Clemente XIII (2) dandosi così una prova di più che lo spirito razionalista e pelagiano non teme i replicati fulmini della Chiesa. Ora si raffrontino i sentimenti de' nostri teologi con quelli del Commentario sopra S. Paolo dell' Arduino e della « Storia del popolo di Dio » del suo confratello, e si riscontrino agli originali proscritti dalla Chiesa, le copie. Lo stesso esaltamento della forza della natura, la stessa depressione della grazia di Cristo; un estenuare gli effetti del battesimo, un disconoscerne la virtù salutifera di mitigare i moti della concupiscenza, un diminuire la necessità della redenzione: niuna grazia veramente medicinale, giacchè non può esservi medicina dove non ci ha malattia; una sufficienza, una integrità, una beatitudine all' uomo dovuta senza il lavacro del Redentore. E sogliono costoro attribuire tutti gli errori che seminano, a' dottori della Chiesa, ed alla stessa Chiesa. Laonde ci dicono francamente, che, quando si tratta passar dai primi moti ad azioni peccaminose, dicono TUTTI (i Dottori cattolici) [...OMISSIS...] Ed IN TUTTO QUESTO NON RICONOSCONO DIFFERENZA TRA BATTEZZATI O NON BATTEZZATI. Tanta ingiuria che si fa al battesimo del Salvatore, mi sprona a insistere in questo argomento, che d' altra parte può esser utile a confortare la fede de' cristiani. Pur troppo questi sono bene spesso male istruiti circa gli effetti del santo battesimo, e, attesa la materialità e l' incredulità de' tempi, ripugnano sovente a credere fedelmente a quello, che v' ha di più prezioso e di più divino in tali effetti qual è la riformazione e il miglioramento dell' anima umana, di cui l' uomo non ha coscienza, benchè poscia ne sperimenti i vantaggi. Sia dunque messo in più chiara luce il medicinale effetto che viene impugnato del santo battesimo. Nella « Dottrina del peccato originale (n. XCIII 7 CI) » fu dimostrato come si conciliano le opinioni apparentemente diverse de' teologi cattolici che ripongono l' essenza del peccato originale nella privazione dell' originale giustizia , di quelli che la ripongono nella stortura della volontà, e di quelli che la fanno consistere nella concupiscenza de' non rinati: riprendiamo la descrizione e le prove dell' esistenza della malattia, a cui egli, il battesimo, è soprannaturale rimedio. Fu dimostrato, che ritorna in fondo sempre la stessa dottrina sotto diverse espressioni; e questa unica e consentanea a se stessa è la dottrina della Chiesa dichiarata così sapientemente dal Tridentino. L' identità sostanziale della dottrina insegnata da quei teologi, con varie maniere di parlare, risulta chiara tosto che si definiscano nel debito modo le tre espressioni usate di giustizia originale , di stortura della volontà , e di concupiscenza de' non rinati . Appigliamoci anche qui alla guida di S. Tommaso. Egli distingue la giustizia originale dalla grazia santificante , benchè quella in Adamo dipendesse da questa, stantechè la giustizia originale d' Adamo non era solamente naturale, ma anche soprannaturale, e perchè perdendo egli la giustizia rendevasi anche indegno della grazia, in cui era stato da Dio costituito. La giustizia originale in generale è riposta da S. Tommaso nell' ordine delle umane potenze, pel quale le inferiori ubbidiscono docili alla volontà e la volontà ubbidisce al lume della ragione ed a Dio (1). Egli è chiaro, che supponendo l' uomo creato senza la grazia santificante l' ordine delle sue potenze non sarebbe mancato in un essere opera di Dio, e la natura umana sarebbe stata intera , come acconciamente la chiamano i teologi. Ma in tal caso Iddio sarebbe stato conosciuto dall' uomo col solo lume naturale; e la sua volontà sarebbe stata sommessa a lui così conosciuto: le inferiori potenze poi avrebbero tuttavia ubbidito alla sua buona libera volontà. La giustizia originale dunque in una tale ipotesi, non potea esser più che una giustizia naturale quanto alla sostanza, risiedente necessariamente nella volontà; perchè la sola volontà è per se stessa la potenza morale, non appartenendo alla moralità le potenze inferiori, se non in quanto contribuiscono o sono da lei mosse (1) a disporre bene o male la volontà. Laonde la giustizia originale in qualsivoglia caso riducesi alla rettitudine della volontà , che non si lascia distorre dall' ordine di ragione, per niuna lusinga di bene sensibile o soggettivo. Conseguentemente S. Tommaso mette l' essenza del peccato originale ora nella privazione dell' originale giustizia, or nella stortura della volontà, rientrando queste due cose l' una nell' altra; poichè, definito in che cosa consiste il disordine della volontà [...OMISSIS...] , applica questa definizione al primo peccato così: [...OMISSIS...] . Il qual medesimo disordine nella volontà è pure ne' discendenti del primo padre, che il ricevono insieme colla natura: [...OMISSIS...] . E nondimeno non si dee già credere che quest' avversione della volontà personale sia un positivo odio di Dio, o un' inclinazione che rechi la volontà ad odiare direttamente il sommo bene come pazzamente vollero i bajani (1). Ella consiste bensì in un lasciarsi andare facilmente e in certe circostanze irresistibilmente al dolce del sentimento della natura, in vece di starsi eretta e fissa in quel lume di ragione, dal quale essa dee prendere l' ordine dell' operare e la misura del godere (2). Laonde la ragione prossima di questa deviazione abituale della volontà dall' ordine di ragione, è attribuita all' animalità che agisce con insolente violenza e trae a sè e quasi lega l' anima intellettiva; e questa efficacia dell' animalità assorbente per così dire la miglior attività dell' anima umana si origina, a quanto sembra, dall' attuosità del seme, chiamato per ciò appunto da Innocenzo III ed altri dottori infetto e corrotto. Laonde benchè solo l' anima intellettiva e volitiva sia il subietto del peccato originale, tuttavia, [...OMISSIS...] . E tuttavia è ancor da notarsi, che questo attraimento soverchio che fa la carne dell' anima intellettiva a sè non è ancor propriamente il peccato originale; ma il peccato originale è l' immediato effetto. Poichè a cagione di quell' attraimento, avviene, che l' anima intellettiva sia alquanto ottenebrata (e quest' appartiene alla piaga dell' ignoranza), e alquanto sgagliardita (e quest' appartiene alla piaga della difficoltà) e così sia st“lta dall' ordine di ragione e però da Dio, non rimanendole più forze sufficienti a mantenere costantemente in tutti gli atti suoi ad un tempo quell' ordine di ragione, come quella la cui attività è perduta in parte nell' animalità, il che GESU` Cristo espresse colle parole, [...OMISSIS...] . Ora la naturale applicazione di tanta attività dell' anima intellettiva al sentimento della vita animale, è ciò che i teologi chiamano, conversione alla creatura ; e il conseguente languore dell' anima rimasta debole all' ordine di ragione, e priva della cognizione soprannaturale di Dio, è ciò che chiamano avversione da Dio . Essi insegnano adunque che la piega o conversione alla creatura che l' uomo riceve nell' essere generato, è la causa prossima dell' avversione da Dio; nella quale sta propriamente la ragion formale del peccato, [...OMISSIS...] , dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] ; di che deduce, che il concetto del peccato attuale e dell' originale non è dissimile, contro i teologi razionalisti, che a quest' ultimo negano l' esser peccato semplicemente (2). [...OMISSIS...] ; la qual privazione della giustizia, come abbiamo veduto, consiste nel non esser più la volontà aderente all' ordine di ragione. Di che conclude l' Angelico: [...OMISSIS...] . Nella volontà de' bambini adunque (ancora immersa nell' essenza dell' anima) ha sua propria sede il peccato originale, perchè [...OMISSIS...] . E noi pure dimostrammo, che il peccato suppone sempre qualche attualità e solo un principio attivo può avere per suo subbietto. Dalle quali cose s' intende, come anche si dica, che il peccato originale consista nella concupiscenza de' non rinati , e in che senso il dir questo ritorni in fine allo stesso, che a riporre il peccato d' origine nella privazione della giustizia, ovvero nella stortura della volontà. La concupiscenza propriamente definita in un modo generale può dirsi l' inclinazione dell' anima intellettiva verso l' animalità e il bene subbiettivo. A torto i nostri Anonimi la restringono alle sole parti inferiori dell' uomo, nelle quali è l' appetito animale, che non ha per sè solo come è nelle bestie alcuna ragione di difetto morale (1). All' incontro S. Paolo attribuisce alla concupiscenza «phronema» e «nun» (2), e il catechismo del sacro Concilio chiama la concupiscenza ANIMI APPETITIO, e non appetitio carnis; acconciamente così definendola, [...OMISSIS...] . L' Angelico poi dice, [...OMISSIS...] . Si prende dunque acconciamente la parola concupiscenza anche a significare tutta la facoltà di appetire dell' animo umano la volontà stessa spontanea inclinata a fermarsi nel sentimento animale e nel bene subbiettivo; ed è in questo senso, che nella concupiscenza de' non rinati si può collocare il peccato di origine. All' incontro se per concupiscenza s' intendesse quell' attuosità della vita e del sentimento animale che tira a sè l' anima intellettiva, ella è più tosto la causa prossima del peccato originale, cioè della mala inclinazione della volontà anzi che peccato ella stessa (1). L' anima razionale dunque ed appetitiva dell' uomo, quando l' uomo è generato « si precipita, quasi direi nella carne; e il dolce della vita animale la diletta, senza il riguardo debito a quell' ordine di ragione, che a lei essenzialmente intelligente sta pur davanti almeno implicito nel lume della ragione. » Ma si devono distinguere tre cose in questa condizione dell' anima: 1 La potenza razionale di appetire ancor immersa nell' essenza dell' anima, non pur distinguibile colla mente nostra dall' altre potenze; 2 La stessa potenza che già esce e realmente si separa colla sua azione quando emette le sue appetizioni, o volizioni; 3 E questi stessi atti speciali, che si dicono volizioni. Queste tre attività vengono l' una dall' altra, come dalla radice d' un albero vien fuori il tronco; e da' tronchi escono i rami. Gli atti particolari, le volizioni dunque sono produzioni della potenza di volere; la potenza di volere è quasi direbbesi produzione dell' essenza dell' anima, si che consegue, che, se si tratta di atti spontanei della volontà, questi sogliono trarre la qualità loro dalla potenza, ed esser buoni se la potenza è ben disposta, non buoni se la potenza è male disposta. Medesimamente la volontà come facoltà spontanea di operare, tiene la sua disposizione buona o cattiva, cioè ben ordinata o no, che prima aveva quando si giaceva quiescente nell' essenza dell' anima. di che si deduce, che l' essenza del peccato originale quant' alla macchia non si può riporre negli atti particolari della volontà; e nè pure nella volontà come potenza; ma nell' essenza dell' anima volitiva e appetitiva; onde incomincia quel male che si propaga poscia alla potenza ed agli spontanei suoi atti e però il male di quella e di questi si riduce in fine alla mala disposizione dell' anima che è lo stesso peccato originale. Ma che l' anima stessa, l' essenza dell' anima abbia questa mala disposizione in sè riesce difficile a intendersi per cagione, che quella disposizione immorale sfugge alla coscienza. Ma la fede, rivelandoci il peccato originale che tutti i cristiani credono sulla parola di Dio rivelante proposta loro dalla santa Chiesa, c' insegna indirettamente una verità così profonda; e prevenendo la scienza umana, presta un argomento della sua divinità. La scienza dell' uomo fatta per pochi, viene in appresso e discopre, dopo ricerche di molti secoli, quei veri che erano già supposti dalla fede con divoto stupore degli stessi scienziati (1). Ell' era un' arma de' Pelagiani, negare il peccato d' origine, perchè l' uomo non ne ha immediata coscienza. E S. Agostino accordava loro che il reato della concupiscenza si toglie alla consapevolezza dell' uomo; anzi volea che si distinguesse diligentissimamente tra il sentimento della carne, di cui si ha coscienza, e quella mala qualità e disposizione dell' anima di cui la coscienza ci manca e in cui il peccato originale risiede; stringendo quegli eretici a credere a quanto dice la fede, eziandio che nol dica la coscienza diretta ed immediata. In fatti delle cose che giaciono in fondo all' anima, dove sta quel peccato, o è soprammodo difficilissimo, o al tutto impossibile, l' essere consapevole. [...OMISSIS...] . Il perchè accorda a Giuliano, che l' argomento di cui egli si serviva a negare il peccato d' origine (il non averne cioè noi coscienza) era tale da illudere gli uomini grossi e carnali, ma tanto più in ciò stesso offensivo della cattolica fede; [...OMISSIS...] . Ed avverte, che il male originale non istà nella volontà del fanciullo, presa questa volontà come potenza della quale, operando noi, siam consapevoli; ma è consopito nel fondo dell' anima, dove la coscienza non giunge, e tuttavia viene il tempo che quel peccato occulto si appalesi anche di fuori, colle sue male tendenze, e colle male sue operazioni; [...OMISSIS...] . Dove si scorge, secondo il parlare di S. Agostino, che il peccato originale prima è nascosto in fondo dell' anima ed ivi quiescente, poi operante al di fuori ed in battaglia colla libera volontà, che o il vince corroborata dalla grazia di GESU` Cristo e allora l' uomo è salvo; o si lascia vincere e allora l' uomo è perduto. Ma non si creda perciò soggiunge il Santo, che quel peccato non nuoccia, anche prima di mandar fuori i suoi tralci delle male operazioni, nuoce sempre, se non è sciolto dal Redentore. [...OMISSIS...] Invano adunque Pelagio sosteneva, come fanno i moderni teologi razionalisti, che la concupiscenza non fosse altro che il sentimento carnale (2). S. Agostino rispondeva, che il sentimento è quello che ci rende consapevoli della concupiscenza; ma non è la concupiscenza di cui si parla, occulta madre di quel sentimento. La concupiscenza, quella concupiscenza cioè in cui l' essenza del peccato originale consiste, è una mala disposizione dell' anima occulta in essa, una mala qualità (3). [...OMISSIS...] Ed illustra questo concetto con un esempio che mostra lo spirito veramente filosofico del grand' uomo, [...OMISSIS...] . Riassumendo dunque in poco ciò che abbiamo detto finqui intorno alla concupiscenza ed a' suoi vari significati, 1 Se la concupiscenza si prende per quell' impeto, per così dire, onde l' anima del bambino che si concepisce s' immerge nella viva carne, che l' attira all' atto della concezione, una tale concupiscenza è la causa prossima del peccato d' origine [...OMISSIS...] e non lo stesso peccato d' origine (3); 2 L' animalità così prevalendo trae seco la parte razionale dell' anima, la volontà, che tende da quell' ora spontanea a secondare i movimenti piacevoli della carne; e soddisfarsi nel bene della natura umana come se altro non ci fosse al di là, e a questa tendenza originaria, a questa volontà, o attività razionale dell' anima prona a riporre il suo finale compiacimento nella natura, si dà pure il nome di concupiscenza; ed è in questa, che ha sede quella mala qualità , quella macola , quel reato , in che consiste il peccato d' origine: mala qualità che cessa in virtù del battesimo, benchè rimanga la tendenza alle passioni del senso, ma minuita e che non s' acquieta in questa, perchè la parte suprema dell' anima è sostenuta dall' infusion della grazia. Quella tendenza dunque che rimane specificamente diversa dalla precedente allora dicesi fomite della concupiscenza (1); 3 Dalla detta concupiscenza, o che abbia congiunta la macchia , come ne' non rinati; o che non l' abbia come nei rinati, vengono i movimenti disordinati della volontà prona al senso, che si riducono al peccato originale, se questo vige, o si riducono al fomite, se il peccato originale è pel battesimo estinto. Acciocchè dunque chiaramente s' intenda questa espressione consacrata dalla tradizione, che il peccato originale è il reato della concupiscenza; non dee prendersi la parola concupiscenza per l' atto dell' animalità che attira a sè l' anima razionale nel primo momento dell' esistenza dell' uomo, atto che poi permane; non per gli atti spontanei della volontà, che alle speciali sensazioni abbandonasi; ma per la mera disposizione viziosa a questi atti, posta in essere nella congiunzione dell' anima col corpo; che in noi è quiescente e a noi stessi ignota fin a tanto che non erompe a' suoi atti. E quella disposizione in cui consiste il peccato non è già la semplice tendenza al bene sensibile (la mera concupiscenza senza determinazione di grado) ma ella è la mala qualità , come dicemmo con S. Agostino, che trovasi in quella concupiscenza, quale è a noi innata e dura avanti il battesimo, e che col battesimo cessa. Che cosa è dunque la mala qualità della concupiscenza innata che forma il peccato? Consiste in questo, per dirlo di nuovo, che quella tendenza al diletto animale e al bene subbiettivo della natura rapendo a sè tutta quasi l' attività dell' uomo, rapisce a sè e lega anche la parte suprema dell' uomo la cima dell' anima, nella quale sta la base dell' umana persona, che pure di natura sua dee conformarsi all' ordine di ragione, e sta pure il subbietto di ogni vero peccato. Il lume adunque della ragione, benchè non cessi di risplendere nell' uomo, non è più la costante guida dell' uomo in tale stato; esso lume ha troppo poca influenza sopra un essere così propenso in verso l' animalesca e subbiettiva dilettazione. Poichè quel lume è fatto di natura sua per dirigere a Dio, e già l' uomo non si lascia più da lui liberamente dirigere; quindi dicesi che v' ha in lui mancanza di giustizia consistente nell' inordinazione della volontà, o sia nell' avversione a Dio. Quindi la definizione che dà S. Tommaso dell' originale peccato. [...OMISSIS...] (e non in Adamo, giacchè altro è il peccato considerato in Adamo, altro è il peccato considerato ne' posteri, checchè ne dicano i nostri Anonimi, che menano piedi e mani per confonderli insieme) [...OMISSIS...] ; non la concupiscenza sola, in astratto presa, ma colla mala qualità della privazione della giustizia originale, la qual mala qualità non è meramente l' assenza della grazia, come vogliono i nostri Anonimi (2) (nè l' assenza della grazia è una qualità ); ma è l' indebolimento morale della volontà dell' uomo, pel quale ella non ha più virtù di viver bene, come dice S. Agostino (1), non ha più virtù di muoversi liberamente verso il bene oggettivo (2), il che pur è un disordine morale; e questa virtù non l' ha più, perchè le è sottratta l' attività dell' anima già soverchiamente attratta e legata nell' animalità. L' attività radicale dell' anima è dunque unica, perchè unica è l' anima, ed ella si comparte a diverse potenze (3). Laonde se qualche potenza attrae a sè un soverchio di quell' attività, l' altre ne provan difetto rimanendosi indebolite e torpide a muoversi. Indi accade che la facoltà di seguire il bene oggettivo, che costituisce la volontà buona , sia fiacca nell' uomo, perchè l' animalità oggimai tira a sè troppo dell' attività dell' anima. Rimane potente all' incontro la volontà della carne , cioè quella che segue il bene soggettivo e sensibile, volontà che ha la qualità cattiva in quanto non dà l' attenzione e l' importanza debita al bene oggettivo. Di che riceve gran luce la definizione che dà del peccato d' origine Ugone di S. Vittore, che il dice [...OMISSIS...] . La mala qualità che costituisce il peccato è quella « mortalis infirmitas » della facoltà di volere il bene oggettivo. Questa facoltà di volere il bene è debole perchè l' animalità trae soverchiamente a sè l' attività dell' anima, la quale attività diviene così potente solo a volere il bene soggettivo e sensibile, onde ne consegue quella che Ugone dice « concupiscendi necessitas ». Questa è la dottrina stessa di S. Agostino: [...OMISSIS...] . - Quest' è la dottrina stessa di S. Bonaventura: [...OMISSIS...] : questa in somma è la dottrina tramandataci da tutta l' ecclesiastica tradizione. Forte è dunque la volontà dell' uomo che nasce per volere il bene subbiettivo e sensibile; debole è la volontà di lui per volere il bene oggettivo e morale. Questa debolezza della volontà pel bene è quel languor naturae (3), in cui S. Agostino cogli altri Padri ripongono l' originale peccato; perchè in conseguenza di essa nasce una infelice concupiscendi necessitas contro l' ordine di ragione (4). Poste le quali dottrine innegabili della costante tradizione della Chiesa si può ben far giustizia delle parole, colle quali il moderno Teologo, detraendo alla virtù del battesimo, mette alla medesima condizione i non battezzati, ed i battezzati, dando a quelli una libera volontà capace di viver bene coll' evitare le azioni peccaminose, quant' a quest' ultimi; benchè S. Agostino con tutta la Chiesa chiami il peccato originale, [...OMISSIS...] . Poichè tutto ciò asserisce il nostro C. e parla, in nome di tutti i dottori cattolici: [...OMISSIS...] . Si pesino bene queste ultime parole principalmente. Se, anche l' uomo non battezzato può sempre come il battezzato SENZA DIFFERENZA ALCUNA astenersi dalle azioni peccaminose, non ha dunque necessità per viver bene del santo battesimo; anzi, secondo il nostro autore, nè pure della grazia di Cristo, perchè egli sostiene che la ragione dell' uomo (non la grazia) può sempre accorrere e vincere la passione abusando delle parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] . Non è ella questa la genuina sostanza dell' eresia pelagiana, coperta ora più, ora meno, di artificiose parole, ma costituente il fondo di tutti gli scritti de' nostri teologi razionalisti? Non ho io ragione di rispondere a quelli, che non fanno differenza fra battezzati e non battezzati quanto alla forza del libero arbitrio per bene operare, e che attribuiscono all' uno e all' altro un egual potere di reprimere le passioni, ed evitare le azioni peccaminose, quello stesso che S. Agostino rispondeva a quegli eretici che del pari estollevano il libero arbitrio de' non battezzati (e in ciò Agostino era bocca della cattolica Chiesa) [...OMISSIS...] . Laonde se la cattolica Chiesa condannò quelli che dicono impossibili i divini precetti a' giustificati, i quali hanno l' aiuto della grazia, facendo così differenza fra le forze del giustificato, e quelle del non giustificato. [...OMISSIS...] ; d' altra parte condannò altresì quelli che li dissero possibili a' non giustificati operanti colle naturali loro forze. Onde ne' capitoli di S. Celestino Papa si legge (4), [...OMISSIS...] . Che anzi la Chiesa, lungi d' ammettere che il non battezzato che non opera colla grazia possa egualmente che il battezzato astenersi dalle azioni peccaminose, come insegnano i moderni nostri teologi; Ella dichiara incapace di ciò il battezzato stesso, se non riceve ognora nuovo aiuto di Cristo, il quale lo dà a chi lo domanda. [...OMISSIS...] è il terzo capitolo di Celestino, [...OMISSIS...] . Laonde i nostri recenti teologi razionalisti danno più forze al non battezzato, che non dia la Chiesa cattolica allo stesso battezzato. Certo, se io scrivessi pe' soli teologi tali cose, mi darei una cura superflua, essendo loro troppo noto, appartenere alla fede, che le forze del libero arbitrio in un uomo giustificato e incorporato a Cristo pel battesimo, sono di gran lunga maggiori pel bene, di quelle che dalla mera natura abbia un altro non battezzato; e d' altra parte ho già dimostrato ampiamente nella « Risposta ad Eusebio », che passano tre ragguardevolissime differenze fra il potere d' operare il bene che ha l' uomo battezzato e quello che ha il non battezzato e privo di grazia, nel quale scorgesi 1 incapacità di eseguire a pieno i divini comandamenti; 2 cedevolezza al peccato; 3 incapacità di meritare la vita eterna (1), e le contrarie doti sono nel battezzato; tutte le quali dottrine vengono affatto dissimulate dal C., come se da me non fossero state nè manco accennate, non che provate con irrefragabili autorità, scrivendo io dunque piuttosto pe' fedeli non teologi, che si cerca ingannare sotto specie di zelo per la pura dottrina, seguiterò a dir quello, che il loro vantaggio mi sembra richiedere. E questo sarà dimostrare, deducendolo dall' intima natura del peccato originale e della liberazione da esso che si fa pel battesimo, che un effetto di questo sacramento è altresì la mitigazione delle forze della mala concupiscenza e che perciò erra dannosamente colui che non vuol riconoscere differenza alcuna fra battezzati e non battezzati quanto alle forze della libertà umana in evitare le azioni peccaminose, alle quali incita la mala concupiscenza. Egli è di fede, 1 che nel battesimo si ottiene la giustificazione de' peccati; 2 che questa giustificazione non consiste nella sola remissione de' peccati; 3 che ella consegue ad un' operazione della grazia divina, che si diffonde nei cuori per lo Spirito Santo, [...OMISSIS...] . Del sentimento diffuso in noi di questa grazia così parla S. Paolo, [...OMISSIS...] . Dal qual sentimento interiore nasce l' istinto dello Spirito Santo, e la facoltà di operare il bene soprannaturale meritorio di vita eterna. L' uomo battezzato è dunque congiunto con Dio, che a sè solleva l' attività dell' anima, come il senso animale dall' altra parte a sè la deprime. L' attività dunque suprema dell' anima, mediante la grazia, viene innalzata dalle cose terrene, ella è ingrandita, rinnovata, una nuova potenza comparisce nell' uomo superiore per dignità e per potere a tutte l' altre, essa diventa la cima dell' uomo, la base della sua personalità. Per questo le divine Scritture esprimono l' operazione che fa il battesimo dicendo che, l' uomo viene rigenerato; [...OMISSIS...] ; e la distruzione del peccato che ne consegue l' esprimono dicendo, che l' uomo nel battesimo muore al peccato (4), [...OMISSIS...] dove risiede la nova personalità dell' uomo; rimanendo l' attività prima, la precedente volontà, ma scaduta di posto (1), a cui perciò compete più l' appellazione di persona, onde la precedente persona infetta dal peccato è morta, cessando così dall' essere persona subbietto capace di peccato. In questa maniera la facoltà di volere e di fare il bene oggettivo è divenuta quella che S. Agostino colla tradizione chiama il libero arbitrio liberato (2). Messa adunque nell' uomo una volontà suprema retta, anche la giustizia è in lui restituita, che nella rettitudine della personale volontà si ripone; quindi è tolta la macchia del peccato, che sta nell' inordinazione, e nel languore della volontà suprema, e che è la deformità propria della volontà; quindi rimesso il reato, perchè il reato o sia il debito della pena segue la macchia del peccato, e questa tolta, è tolto quello altresì (3). Vero è che continua l' animalità ad operare sull' anima e a tirarne a sè quanto può l' attività; ma essa non la trova più così mobile e fiacca come prima; poichè, se essa la tira al basso; dall' altra banda havvi già Iddio nell' uomo che colla sua grazia la tira all' alto, e di tutto peso, per così dire, la sostiene. Quindi l' attività dell' anima è divisa, non più al solo senso lasciata andar col suo peso; anzi la miglior parte di lei, quella in cui l' uomo personalmente esiste è nella mano di Dio che se l' ha presa; e la guarda; se pure il libero arbitrio dell' uomo, che sempre ad peccandum valet , non gliela sottrae nuovamente. Di che si fa manifesto, che quella, che Ugone di S. Vittore e S. Bonaventura e dopo lui tant' altri, chiamano concupiscendi necessitas , dee nel battezzato di gran lunga mano diminuirsi di grado, e cangiar anco di specie; in una parola dee mitigarsi lo stesso fomite della concupiscenza; benchè la coscienza nol dica all' uomo immediatamente; bastando che gliel dica la fede, e l' esperienza. E in quanto al grado non può negarsi, che la tendenza dell' anima al bene soggettivo e sensibile deva riuscir minore dopo il battesimo, se una parte dell' attività dell' anima e la migliore è attratta dalla grazia che avvalora il libero arbitrio, e lo spirito vi diffonde l' affetto della carità, e dalla soavità di questo, tutta opposta alla carnale dilettazione, si trova occupata. Quanto poi alla specie; la concupiscenza dopo il battesimo varia certo specificamente dalla concupiscenza anteriore al battesimo in questo; che dopo il battesimo, non occupa più la parte superiore dell' uomo; e però non è più concupiscenza personale , ma è solo concupiscenza naturale; non è più concupiscenza con macchia e reato; ma toltole via l' una e l' altro; non è più peccato, ma solo fomite; non perde più l' uomo, ma gli dà occasion di combattere col suo libero arbitrio liberato, di vincere e di meritare. Le quali cose tutte mi si permetta di suggellare colle autorità del Maestro delle sentenze, e dell' Aquinate suo commentatore. Pietro Lombardo così scrive al nostro proposito, [...OMISSIS...] . E tosto passa a provare, che gli effetti del battesimo sono due principali, cioè 1 la soluzione del reato della concupiscenza, e 2 la diminuzione del fomite, e che nell' uno e nell' altro modo si suol dire, che il peccato originale nel battesimo si rimette. [...OMISSIS...] . E prova che la remissione del peccato originale nel battesimo suol dirsi, che si fa anche per la diminuzione della concupiscenza colla testimonianza di S. Agostino, di cui adduce questo testimonio: [...OMISSIS...] . Sulle quali parole aggiunge il Maestro delle Sentenze, [...OMISSIS...] . L' Angelico commentatore di Pietro Lombardo ammette pienamente i due effetti del battesimo, la soluzione del reato della concupiscenza e la diminuzione del fomite della stessa, e dopo aver insegnato, che ogni peccato reca due mali effetti nell' anima, l' avversione a Dio (macchia e reato), e l' inclinazione ad un simile atto (1); mostra come la giustificazione toglie l' uno e l' altro effetto (2). La qual dottrina egli applica in questo modo alla grazia del battesimo, [...OMISSIS...] . Questo è il primo effetto della grazia battesimale; il secondo poi è la diminuzione del fomite, e così viene descritto dal Santo Dottore, [...OMISSIS...] . E` dunque ingiurioso alla grazia di Cristo, è ingiurioso ai dottori cattolici, è ingiurioso alla cattolica religione il dire, che [...OMISSIS...] , di maniera che la ragione de' primi e quella de' secondi sia egualmente forte contro le lusinghe de' sensi, e possa sempre ugualmente [...OMISSIS...] : in tal caso la sola naturale ragione e libertà basterebbe da se stessa, senza la grazia, ad evitare tutti i peccati, e però a vivere giustamente, il che la Chiesa riprova (2). Convien dunque riconoscere da chi vuol tenersi nella dottrina della Chiesa cattolica; che la liberazione che Cristo fece della schiavitù del peccato, secondo la sua promessa (3) non ha un effetto solo, come voleva Giuliano d' Eclana; ma sì, ne ha due, come colla Chiesa cattolica volle Agostino d' Ippona: il quale dopo aver recate le parole del figliuol di Dio, [...OMISSIS...] . Dalle quali dottrine si può conoscere differenza immensa, che i dottori cattolici fanno tra i battezzati e i non battezzati relativamente al potere di operare il bene e di vincere il male. Perocchè nell' uomo non rinato 1 vi è una concupiscenza che è peccato (reatus concupiscentiae), perchè tiene captivata la umana persona, quando una concupiscenza con sì mala qualità , che è il peccato, non esiste più nel battezzato; 2 vi è una concupiscenza che è più intensa nel tirare l' uomo al male (fomes concupiscentiae), perchè ella sola tira quasi tutto l' uomo, anche la persona senza che abbia in opposizione a lei sufficientemente altra forza efficace, che attiri l' uomo, eccetto il troppo debole lume della ragione naturale; quando nel battezzato se da una parte vi è l' animalità che continua ad attrarre a' suoi istinti l' anima; dall' altra vi è la grazia, che possiede la parte suprema dell' uomo e avvalora il suo libero arbitrio, e però nol lascia più abbandonato alle forze della concupiscenza. Concludasi adunque, la concupiscenza dell' uomo rinato differisce di specie e di grado dalla concupiscenza dell' uomo non rinato; e quindi in quello è doppiamente accresciuta la potenza di resistere al male e di operare il bene. Consideriamo ancora la doppia serie di effetti, che ne scaturiscono. In quanto all' operare il bene, il battezzato ha ricevuto una potenza affatto nuova, cioè la potenza che riguarda il bene soprannaturale, colla quale fa le azioni de' figliuoli di Dio, che meritano la vita eterna. Questa potenza soprannaturale è ciò che rende la sua concupiscenza di specie diversa da quella dell' uomo non battezzato, e che gli dà forza di resistere al male. In fatti il non battezzato, come insegna l' Angelico (1), non può colle sue sole forze naturali astenersi per lungo tempo dal peccato mortale ove gravi tentazioni gli si presentino (2). E qui sono da distinguersi più questioni. Primieramente dico, che nel caso in cui il fomite della concupiscenza tragga l' uomo a seguire spontaneamente colla volontà sua il bene sensibile e subiettivo, dimenticato l' oggettivo e morale; senza che la libertà possa intervenire a dominare la volontà obbediente alle leggi piscologiche della spontaneità, il che indubitatamente accade ne' bambini, ne' pazzi, negli ubbriachi, e in tutti quelli in cui la forza dell' imaginativa esaltata e della passione antecede la libertà, togliendole il tempo di considerare colla ragione e di provvedersi di forza pratica; in questo caso dico, ne' non battezzati quella volontà che riman così vinta, suol essere quella stessa volontà, che è rea e macchiata; cioè che ha in sè l' originale peccato, e però gli atti d' una tale volontà cedevoli agl' istinti, riduconsi al peccato d' origine tuttora esistente e regnante, come a sua causa immediata e radice. Queste scorse della volontà quasi trascinata dagl' istinti appartengono in tal caso non già alla forma, ma alla materia dell' originale peccato, la qual materia, come egregiamente dice S. Tommaso, tien luogo della conversione al bene sensibile e soggettivo; senza che il formale del peccato d' origine, nè la colpa perciò si accresca. Laonde nè pure la colpa o il reato, riceve aumento ma s' accresce bensì nell' uomo per sì fatte passioni la disposizione al male, la quale nè anche colla morte si distrugge, ma solo colla liberazione e salvazione di Cristo. Ma ne' battezzati non accade così fino che colla loro libera volontà non hanno di novo perduta la grazia di Dio, essi non possono mai esser necessitati ad alcun atto di peccato, per quantunque forti sieno le naturali inclinazioni. Que' movimenti poi che si suscitano verso i beni sensibili nell' uomo, che è in possesso della grazia santificante, nell' età infantile, e in istato d' alienazione mentale non procedono mai da una concupiscenza macchiata e rea e personale; ma possono procedere dal mero fomite che rimane privo della macchia e del peccato personale o sia che non tocca la persona. Laonde questi sono allora figli di un' altra madre, e non si può più dire che in essi operi il peccato in senso vero e proprio, ma solamente che sieno effetti mediati e lontani di quel peccato, che non è più, ma che partendosi lasciò in essi il tristo legato del fomite che tenta, ma non distacca l' uomo da Dio. Onde nel « Trattato della Coscienza » noi spiegavamo il parlare dell' Apostolo seguendo i Padri e gl' Interpreti, dicendo che quelli, che l' Apostolo chiama peccati, sono peccati senza dannazione e senza imputazione (mentre ne' non battezzati hanno la stessa condizione del peccato d' origine), e il dire peccato senza dannazione e senza imputazione, è manifestamente un dire non peccato nel senso proprio del Tridentino, che il definisce acconcissimamente: « morte dell' anima. »Di che consegue che se ne' non battezzati sono propagini immediate di quel peccato che vige e regna e però possono insieme con lui ricevere la denominazion di peccato, ne' battezzati all' incontro sono meri effetti del fomite, che non è peccato; e al fomite si riducono, e però dal padre loro non possono ricevere la denominazione di vero peccato; nè lasciano dopo morte alcuna mala disposizione od altro malo effetto nell' uomo; perchè distrutto colla morte il fomite con tutte le sue conseguenze, l' anima del giusto rimane del tutto pura e viva in Cristo, che è « la risurrezione e la vita », eccettuate sempre le colpe veniali, a cui anche i battezzati soggiaciono. Oltre di ciò se ne' battezzati tali movimenti cangiano di natura, perchè nascono da una concupiscenza, che è diversa di specie da quella de' non battezzati; essi sono poi anche minori di numero, e meno impetuosi, come quelli che procedono da una concupiscenza diminuita ancora di grado . Ma un' altra differenza ancora, a mio parere, s' incontra fra il battezzato e il non battezzato. Talora il mero istinto animale opera da se solo, come suole avvenir nel sonno, o quando l' uomo si trova in uno stato convulsivo, a ragion d' esempio, perchè colto da idrofobia. A queste operazioni della mera animalità possono essere soggetti anche i giusti, non appartenendo esse all' ordine morale. Ma lasciando da parte questi mali della natura e venendo all' ordine morale la volontà allettata dal bene sensibile e soggettivo può lasciarsi muovere spontaneamente e necessariamente, trovandosi l' uomo in due condizioni diverse. E parlo ora dell' uomo in generale, astrazion fatta dal battezzato e dal non battezzato. Ella può esser rapita e mossa semplicemente e istantaneamente da bene sensibile, senza che l' uomo abbia tempo a considerar la legge e a confrontare l' azione oggettivamente malvagia con essa, e questo accade ne' primi moti, nel qual caso, la volontà umana opera disordinatamente, perchè in modo contrario alla sua natura che è di essere un ragionevole e morale appetito; ma questo disordine più tosto negativo che positivo non è che venial peccato. Può l' uomo in secondo luogo (sempre in generale prescindendo ora dalla grazia) vedere il bene oggettivo e morale, ma poi, attesa la forza della tentazione, essere addotto al bene subbiettivo7immorale, sottratta la forza pratica alla sua volontà, dalla seducentissima dilettazione giunta all' estremo suo termine; di che cade non perchè sia rimasta prevenuta la sua ragione e resa inetta a mostrargli il dovere; ma perchè è rimasta prevenuta e legata la sua libertà, la quale non potè aiutarlo contro lo spontaneo volere, ed a ciò che la ragione gli mostrava, attenersi. Nell' uno e nell' altro di questi casi vi può esser colpa in causa, se questa fu libera; ma in tali atti in sè considerati e prescindendo dalla causa libera, non vi è colpa; poichè si suppone in entrambi, operar l' uomo attualmente privo di libertà, benchè siavi peccato, che in relazione alla causa libera dicesi colpa. Ora sì nell' uomo battezzato che nel non battezzato, il primo caso può aver luogo indubitatamente, non però egualmente; ma più in questo e meno in quello. Quanto poi al secondo, reputo, che possa aver luogo solo nel non battezzato; e reputo che di questo caso intenda dir S. Tommaso, quando parla de' peccati mortali, a cui il non battezzato necessariamente soggiace (1). Egli dice, che quantunque l' uomo non giustificato possa evitare i singoli peccati, tuttavia, « quod diu maneat absque peccato mortali esse non potest », e il prova coll' autorità di S. Gregorio Magno (2), dandone questa ragione, [...OMISSIS...] . Dopo di che si fa l' obbiezione, che l' uomo può anche operare contro il fine preconcepito e contro l' abito, purchè ricorra alla meditazione; ma risponde, che [...OMISSIS...] . Di che conchiude che l' uomo non giustificato non può a lungo astenersi da ogni peccato mortale, perchè [...OMISSIS...] . La cosa però non procede egualmente nel battezzato; e se ne può dare questa ragione filosofica. Fino a tanto che la ragione non può accorrere, confrontando il bene soggettivo e istintivo col bene oggettivo e morale; la volontà va dietro al bene sensibile naturalmente; non gli è proposto veramente ancora un oggetto morale; né l' uomo conosce, nè sente l' obbligazione; e perciò l' operazione non viene dalla volontà personale e morale; o quel barlume che n' ha non basta a costituire una grave inordinazione, un peccato mortale. Ma qualora la ragione gli mostri attualmente e chiaramente ciò che dee fare, egli sente l' obbligazione di operare secondo il bene oggettivo e morale, che scorge. Laonde in questo caso se l' uomo non potesse resistere, sarebbe segno manifesto che v' avrebbe un languore nella stessa persona dell' uomo, non solo nella natura . Ma la persona non ha più languore dopo il battesimo, ma solo la natura. Dunque, come dissi nel « Trattato della Coscienza », non possono mai mancare all' uomo battezzato le forze, colle quali adempire alle obbligazioni da lui conosciute, purchè si giovi degli aiuti che sono in sua mano, fra i quali quello dell' orazione, dicendo il Concilio di Trento, colle parole di S. Agostino, de' giustificati, [...OMISSIS...] , alle quali consuona il Canone XXII. [...OMISSIS...] . Che se pur si avverasse che l' uomo giustificato e faciente quel ch' egli può cedesse necessariamente a qualche lusinga, ciò non potrebbe essere, che ne' primi moti, o in uno stato di ragione turbata, e ciò non farà mai con tutta l' attività voluta dal peccato mortale, a costituire il quale non basta che intervenga l' azione personale o la libera, ma si esige che l' oggetto stesso dell' azione sia personale , e però che abbia ragione di fine ultimo. Di che il cedere non sarà mai che parziale nel detto caso, da parte dell' attivitá umana, non totale: e dato che intervenga qualche disordine nell' azione personale non sarà tale da staccar la persona dall' oggetto buono e morale a cui aderisce. Onde non vi sarà che colpa veniale di cui rimane la miniera anche ne' battezzati, per usare una frase del Cardinal Pallavicino che è il fomite della concupiscenza (1). Possono adunque i giustificati, colla divina grazia, adempire tutte le obbligazioni da essi conosciute, se fanno quello che sta in loro, nè mai sono addotti dalla tentazione senza il consenso della loro libera volontà in tale strettezza e deficienza di forze da dovere arrendersi ad essa in modo da peccare gravemente; là dove a' non giustificati non è assicurata un' egual forza; quantunque sia vero, come dicevamo, che quando essi cadano sotto il fardello delle proprie obbligazioni per assoluta impotenza, non demeritano con ciò se manchi in essi al tutto la forza di evitare il peccato (1). Ma nella loro volontà, se questa è soccombuta rimane una maggior piega ed adesione al male commesso. Nè con questo è mio pensiero di negar loro la possibilità di pregare, eccitati dalla grazia. Reputo ancora, che una orazion naturale, che niente certamente può meritare, possa non di meno essere ordinata a domandare nell' ordine della giustizia naturale aiuti morali da Dio naturalmente conosciuto, ed impetrarli ancorchè non dovuti. S' aggiungono le grazie attuali, che dispongono l' uomo non giustificato, alla giustificazione; le quali Iddio certamente dona a chi vuole, secondo l' altissimo suo beneplacito, secondo quello che insegna il sacrosanto Concilio di Trento. E qui sembrami poter giovare a chiarire le idee (giacchè per questo appunto mi allungo in tali ragionamenti), l' esporre l' origine logica del Giansenismo; cioè il dimostrare, per quali passi sbagliati, l' intendimento degli autori di questa eresia traboccasse in essa miseramente. Lo sbaglio primo si fu l' aver confuso la volontà colla libertà; e il non avere avvertito che queste due facoltà operano con leggi diverse; e formano due sfere di operare; delle quali quella della libertà è superiore a quella della semplice volontà. Il moderno teologo precipita nello stesso sbaglio, quando vuol confuso il mero volontario col libero; e quando incontrandosi in alcuni luoghi in cui noi parliamo della volontà e delle leggi che ad essa presiedono; egli ci accusa (1) di negare la libertà , che pure in tanti luoghi dichiariamo essere una forza superiore alla volontà che perturba e modifica le leggi a cui la volontà da sè sola ubbidirebbe. Ora quali sono le leggi della volontà , quando quella facoltà (diversa dalla libertà) che dicesi, un appetito razionale , rimane abbandonata a se stessa? La legge si è che ella inclina a tutti quanti i beni dall' uom conosciuti, e si lascia muovere dalla loro azione; e acconsente di preferenza al maggiore, se non può aderire a tutti. E questo è infatti lo stato dell' uomo, prima ch' egli possa esercitare la sua libertà, lo stato del bambino, non pervenuto ancora all' esercizio della sua libertà bilaterale. In un tale stato la volontà è dolcemente attratta da ogni bene, perchè è la potenza del bene, ella è mossa da ogni stimolo per piccolo che si voglia perchè è mobilissima e soprammodo delicata; e per quella legge che dicesi anche spontaneità , se due agenti allettevoli contemporanei l' attirano, tende verso ad entrambi, ma a quello, che esercita su di lei una maggior forza, si volge più ardente, o con preferenza. Ora se il bambino non è battezzato, egli è attratto debolmente dal lume di sua ragione, che per se solo non esercita un' azione su di lui realmente sensibile (cioè al modo che è sensibile l' azione delle cose reali di cui ha percezione); ed è attratto fortemente dalla dilettazione del senso animale. Laonde quantunque l' intelletto umano aderisca per sua natura all' essere ideale , e quindi la volontà sia volta naturalmente anche al bene oggettivo universale, onde s' origina nell' uomo la facoltà di operare il bene morale, la quale non può in lui cessare giammai, e con essa si origina pure il libero arbitrio; tuttavia l' animalità e il bene soggettivo predomina nell' uomo in tale stato, essendo questo bene il solo agente reale che sull' anima influisca e che può a sè prevalentemente attirarla. Se dunque avvenga in progresso, che fra il bene morale e il bene subbiettivo nasca forte collisione, e la libertà non trovi in quello forze bastevoli contro questo, l' uomo seguita a veder quel primo, e ad approvarlo; ma s' appiglia coll' opera a questo secondo, [...OMISSIS...] . Nell' uomo battezzato incorporato realmente a Cristo la condizione delle cose è ben altra. Se da una parte v' ha l' azione reale del bene animale, che a sè l' attira, dall' altra v' ha un altro bene reale assai maggiore che pur l' attira o per meglio dire lo tiene; e questo è Dio, che si comunica all' anima, comunicandole la grazia e diffondendovi la dilettazione della carità e così avvalorando poi il libero arbitrio che può sempre vincere. Laonde nell' uomo in tale stato costituito accade che quantunque l' animalità da parte sua seguiti ad allettare a sè l' anima volitiva ed attiva dell' uomo anche dopo il Battesimo siccome prima, onde il fomite; tuttavia quest' anima stessa nella sua parte più eccellente è contemporaneamente tenuta e posseduta da Dio; e così il bene infinito risiede nell' anima non solo idealmente ma anche realmente. L' azione del qual bene, che è Dio, di sua natura (se il libero arbitrio non si oppone) prevale a quella della carne: prevale dico per due guise, l' una perchè Iddio occupando la parte superiore dell' uomo, la punta dell' anima, che è nata a comandare all' altre potenze, sana e santifica il principio personale dell' uomo che in quella punta risiede; ed altresì perchè l' operazione divina è più forte di sua natura di quella della carne, ed ella è sì forte che niente può separare Iddio dall' anima volitiva se non sopravviene la libertà dell' uomo stesso, la quale peccando, per sè medesima si stolga e separi da lui, che per usare le parole di S. Agostino consacrate dal sacrosanto Concilio, [...OMISSIS...] . Egli è dunque chiaro, che qualora si parli della sola volontà dell' uomo, considerandola in separato dalla sua libertà , che è la potenza nata a dirigerla, ma che sempre non si trova in esercizio, come accade ne' bambini, od è legata, o prevenuta dagl' impeti focosi dell' immaginazione e dagl' istinti de' nervi eccitati, come ne' pazzi, o in quelli che sono da veemente accesso di passioni sorpresi; in tal caso la volontà dell' uomo ubbidisce spontaneamente alle dilettazioni che la dileticano, e più a quella che la diletica maggiormente; e se un bene l' occupa nella più alta sua parte, le operazioni che da questa parte incominciano sono personali, e buone o cattive, secondo che quel bene che informa la persona dell' uomo è onesto o disonesto, e la dilettazione che da esso viene onde procedono le azioni, secondo la legge della spontaneità, è buona o cattiva ella stessa. Quindi l' aiuto che riceve il bambino col sacramento del salutare lavacro appartiene a quel genere, che S. Agostino chiama « adjutorium quo »; il qual aiuto è da S. Agostino negato ad Adamo, accordatogli il solo « adjutorium sine quo ». E così dovea essere. Poichè la volontà del bambino essendo rea e non avendo in sè il potere di giustificarsi da se stessa e di rettificarsi; nè potendo come rea che era usar bene nè del proprio arbitrio, come dicono i Capitoli di S. Celestino, nè degli aiuti superni, se non fossero tali che prima la giustificassero o alla giustificazione la disponessero; perciò conveniva, che Dio stesso operasse quasi una creazione novella e colla sua onnipotente grazia sanando e avvalorando l' anima, cangiandola cioè di mala in buona, onde di questa grazia acconciamente dice S. Agostino [...OMISSIS...] . All' incontro la volontà d' Adamo era già naturalmente retta, e però non facea mestieri di essere liberata dal male, bastando che fosse aiutata a fare il bene con quella grazia, «SINE QUA », non si può operare il bene perfetto, appartenente all' ordine soprannaturale (2). E quantunque all' « auxilium quo » di S. Agostino si riferiscano anche le grazie attuali, e sono tali per la loro interna efficacia, e per la certezza con cui realizzano l' eterna predestinazione (1): tuttavia egli prima di tutto lo fa consistere nella grazia [...OMISSIS...] ; al che è consentanea la definizione del sacro Concilio di Trento, il quale insegna che della giustificazione dell' uomo [...OMISSIS...] . Ora egli è certo, che con questa potentissima grazia del Salvatore, l' uomo non può da niuna cosa esser vinto, se liberamente non consente al male; e perciò il bambino battezzato o altri santificati nelle acque del battesimo, in cui il libero arbitrio sia impedito o legato, è in istato di certa salute; perchè prevale in lui la grazia e la carità di Cristo alla tentazione della carne e del demonio, in tanto che questa non può più distaccar l' uomo da Dio. Nè si dee credere, che non operando nel bambino la libertà , sia perciò straniera la volontà all' opera della salvazione; perocchè anzi la volontà è quella che viene santificata e informata dalla carità di Cristo, e quella che poi opera coll' aiuto di questa grazia e dell' attuale (2). Restringendoci adunque entro all' ordine della volontà, e prescindendo dall' ordine della libertà per un' astrazione, ovvero perchè si suppone la libertà inattiva come nel bambino, ha luogo il sistema delle due dilettazioni relativamente prevalenti. Nell' uomo non giustificato prevale la dilettazione della carne e lo perde; nell' uomo giustificato prevale di dilettazione della grazia di Cristo e lo salva. La volontà è tirata ed aderisce a chi l' attrae maggiormente e più altamente: tale è la legge della volontà; non quella della libertà che domina sopra la volontà. E alla volontà sgraziatamente si fermarono i giansenisti. Essi racchiusero tutti i loro pensieri entro la sfera della volontà che si definisce: « un appetito razionale; »entro la quale sfera, prescindendo da quella forza superiore che si definisce coll' Apostolo « « potere sulla volontà »(1) » e dicesi libertà; trova luogo il sistema delle due dilettazioni contrarie, che, secondo il grado di forza prevalente, esercitano successivamente, o alternativamente il dominio sull' umano appetito. Ma ella era una veduta ristretta ed esclusiva la loro. Essi errarono dunque per non avere osservato che al di sopra della sfera della volontà sta nell' uomo un' altra sfera, quella della libertà , nata ad essere signora della volontà, che è una facoltà inferiore relativamente a quella; e questo errore nacque nelle menti perchè non erano in allora ben distinte queste due attività dell' anima razionale, cioè quella di volere , e quella di eleggere fra le volizioni , la volontà e la libertà. Per la quale confusione medesima i pelagiani dall' altra parte coi nostri teologi disconoscendo le leggi della volontà , e attribuendo ogni potere alla libertà , fecero onta alla grazia ed alla salvazione di Cristo, insegnando, che anche ne' non giustificati [...OMISSIS...] . Il che è un manifesto abuso di alcune parole di S. Tommaso, le quali si riferiscono alla potenza rimota , e non alla potenza prossima , secondo la distinzione giustissima del Gaetano (2), nessuno negando che di natura sua la libertà possa accorrere, per se sola considerata; ma negandosi che possa sempre accorrere nelle circostanze dell' uomo caduto e non giustificato, [...OMISSIS...] come dichiara S. Tommaso medesimo, qual si richiede ad evitare il peccato (3). Onde vi ha la potenza, ma non la potenza propria e in assetto a produr fuori l' atto: vi ha la potenza , ma non la possibilità di operare . Di che i Padri del Concilio Diospolitano obbligarono i pelagiani a confessare, fra gli altri capi questo: [...OMISSIS...] . Là dove il nostro teologo viene a sostenere in quella vece che la vittoria contro alle illecite concupiscenze può sempre venire ex propria voluntate , che di conseguente alle forze naturali dell' uomo (battezzato o no è il medesimo) se ne deve dare la gloria! Iddio ci preservi da dottrine che cotanto alimentano l' umana superbia, e così rendono irrimediabile l' umana impotenza. Il vangelo in fatti è tutto nell' umiltà: dove non si semina questa, non si sparge il seme di Cristo. Il vangelo è nella virtù di Dio: ma la virtù di Dio non soccorre all' infermità dell' uomo, se l' uomo ricusa di sentire la sua infermità, non vuol riconoscerla nè confessarla. Il dire, che l' uomo può esser giusto da sè secondo la natura senza bisogno della grazia di Dio (1) non è un confessare la propria infermità; ma stabilire una giustizia dell' uomo contro la giustizia di Dio. [...OMISSIS...] Il Razionalismo introdotto nella Teologia trae seco l' umanismo nell' ecclesiastico ministero . Intendo per Umanismo quello spirito, che, senza dimettere le apparenze della pietà, propende sempre a giudicare in favore dell' esaltamento dell' uomo: sempre intende ad attenuarne la malizia e coprirne le piaghe, a dissimularne o negarne l' impotenza, a secondarne le naturali inclinazioni, ad adularne e giustificarne sottilissimamente le passioni ne' trovati dell' umano ingegno, e ne' mezzi dell' umana potenza, anche trattandosi d' imprese spirituali, a perdere di veduta la povertà e la virtù della croce, a dispregiare la semplicità evangelica, a modificare in mille guise le parole di GESU` Cristo, a interpretarle a voler della carne, quasi per giuoco d' ingegno, ad obliare le promesse del Principe dei Pastori, a non vivere oggimai più di fede ma d' artifizi e di maneggi, non più traendo seco forza dalla sola speranza riposta negli aiuti superni, fuori della quale speranza il più industrioso e costante ecclesiastico in vece della pace di Cristo reca da per tutto dove va la discordia, e in vece di stabilire tra popoli il regno di Dio, vi pone senza saper come impedimento; o fors' anco dopo un frutto momentaneo lascia il campo del Signore ingombro di triboli e di spine da lui stesso seminate. Coloro i quali conoscono la storia delle missioni straniere e n' hanno meditato le vicende potranno dire, quale altro spirito, se non uno spirito tutto particolare ed umano, sia stato quello che fece una sì sottile e sì costante opposizione allo stabilimento dell' Episcopato e della gerarchia in molte missioni straniere, onde avvenne, che appena nate perirono tante cristianità nell' Oriente, e specialmente nel Ton7King, nella Cocincina e nel Giappone? GESU` Cristo mandò degli Apostoli Vescovi ad annunziare il Vangelo. Così fece sempre la Chiesa. A' Vescovi prestarono aiuto grandissimo de' sacerdoti e de' laici. Ma successe un tempo, in cui alcuni religiosi, credendosi aver trovato de' mezzi migliori di propagare e di fondare il regno di Dio, esclusero l' episcopato quant' era da loro e la gerarchia, o le fecero quella guerra lunga or diretta ora indiretta che poteron maggiore (1). Qui basti di rammentare i viaggi, gli stenti, le afflizioni, gli anni ch' ebbe a patire e a spendere il P. Rhodes della Compagnia di Gesù per riuscire, avendo pure i Pontefici alla sua impresa favorevoli, ad ottenere, quanto l' esperienza gli aveva dimostrato sì necessario alla stabilità del Cristianesimo, che de' Vescovadi ed un clero indigeno fossero in quelle infelici e pereunti missioni stabiliti. Lo spirito di Razionalismo nella mente, d' Umanismo nel cuore e nella condotta, è quel sottil veleno, pura essenza, etere invisibile dell' amor proprio, che penetra ben anco in uomini molto innanzi nella virtù; i quali da esso insensibilmente condotti s' allontanano dalla verità e s' affezionano e parteggiano e quasi a sè ed altrui mentiscono lusingati di poter così far del bene e giovare alla pietà. E che altro mai se non questo umano e fallibile ragionare fu quello che in occasione de' riti Cinesi gettò fra i missionari quella sempre mai lacrimevol discordia, che tanto danno recò alle missioni della China, e cagionò la perdita di tante anime, impedì l' acquisto alla Chiesa di tante popolazioni? Che altro se non la propensione a giudicare con troppo favore della naturale sapienza ed a scusare poscia, se non anco lodare quelle debolezze che ad essa natural sapienza conseguitano fu la cagion vera di quegli errori che difesi ostinatamente (1) dovettero pur condannarsi con tante bolle de' Sommi Pontefici, e ultimamente con quella del dottissimo Benedetto XIV degli 11 Luglio 1742? Lasciamo parlare un recente scrittore lodevolissimo per lo spirito d' imparzialità, colla quale narra i principii di sì famosa questione. [...OMISSIS...] Quali funeste conseguenze traessero i nemici della religione cristiana contr' essa dalle accennate esagerazioni a favore della sapienza naturale de' Cinesi, e della giustificazione de' superstiziosi loro riti, con somma equità e moderazione si narra nelle belle lettere del Sig. Luquet che abbiamo citato. A noi rincresce troppo di trattenerci più a lungo in un argomento sì tristo, come quel de' riti cinesi; e ci basta avere solo accennato di nuovo quale sia la prole amara e funesta di quello spirito umano e razionalistico, che par talora servire alla pietà, ma in ver la distrugge. E qui egli è già tempo di chiudere il nostro ragionamento. Prima però debbo dichiarare, che tutto ció ch' io dissi in quest' opera, nol dissi coll' animo di definire, che a me non s' aspetta, ma sol per teologico raziocinio, che a ognuno è permesso. Del resto alla Chiesa, di cui mi glorio essere figliuolo e discepolo ogni mio sentimento sommetto. La Chiesa giudichi se i miei timori sono fondati: ella giudichi il mio giudizio. A me parve, e pare, per ritornare a ciò che dissi al principio, che il maggior pericolo, che or le sovrasti, sia in quel pratico Razionalismo che s' insinua per tutto, sotto apparenze di pietà, e che insensibilmente, come ruggine, la stessa sana dottrina rode e consuma. E questo pericolo è grave principalmente per due ragioni; la prima, che i ragionamenti de' razionalisti sono intesi e favoriti facilmente dal comune degli uomini, quando le verità della fede che quelli corrodono sono all' opposto profonde, arcane, talora all' umane menti ripugnanti: l' altra, che il Razionalismo teologico è sempre in sul far credere, che niun' altra via di mezzo si trovi, ma convenga seguitar lui, o cadere nell' odiosissima e rigidissima eresia del Giansenismo. E queste due cagioni, la somma difficoltà d' intendere in modo non ripugnante alla ragione il dogma profondissimo della grazia conciliandolo col libero arbitrio e colla bontà di Dio che vuol tutti salvi; e il gran timore di cadere nell' eresia de' predestinaziani (1) e de' gianseniani, eresia desolante e inducente a disperazione; ebbero tanta possa di spingere talor anche uomini santissimi sulla via apparentemente piana e fiorita che loro addittava il pratico Razionalismo (2). Indi è che vinto appena il Pelagianismo antico, surse nella Chiesa il Semi7Pelagianismo (3) a cui diedero il loro nome anche uomini, che onoriam sugli altari, o quando la chiesa non avea ancor dannata quell' eresia sottilissima o dopo dannatala, ma ritrattandosi essi innanzi morire. E tanti ebbe seguaci quell' errore seducentissimo, che S. Prospero lamentavasi [...OMISSIS...] . Benchè poi i sommi Pontefici con la Chiesa tutta decapitassero appena risorta in nuove fogge l' antica empietà, con tutto ciò qual idra andò rimettendo di tempo in tempo novelle teste. E allo stesso errore vestito di forme novelle, che non pareva il precedente già escluso, e di nuovi lenocinii provveduto, s' accostavano alcuni e dotti e pii, che altra via non vedevano di salvare a tutti gli uomini que' due beni oltremodo preziosissimi e necessarii la libertà e la speranza della salute. Laonde non è a stupirsi, se dopo le ultime eresie del secol XVI, avutane da esse occasione, lo spirito razionalistico e pelagiano ricominciasse l' antico lavoro più industrioso e più costante di quello che avea fatto o tentato ne' secoli precedenti, scaltrito dalle sconfitte avute, di migliori armi fornito d' erudizione, di dottrina, di astuzia, e di potenza ed influenza sociale, le quali a lui fabbricava la condizione de' tempi, il risorgimento delle lettere, l' incivilimento, la filosofia, la politica. Benchè queste due ultime, chi sottilmente e spassionatamente pensi la storia d' Europa de' tre ultimi secoli, s' accorgerà, che sono più tosto che sue madri, o nutrici, sue legittime figliuole, ed allieve. Poichè in questi ultimi secoli, il Razionalismo pratico introdotto prima nella teologia fu applicato all' educazione della gioventù, e recò pur troppo i suoi frutti amari alla civil società, in cui i fanciulli educati rifondonsi. Invano sperossi di neutralizzarne per così dire, il potente veleno coll' associarlo negli animi giovanili alla divozione. Fino che l' uomo è fanciullo stanno ben uniti in lui Razionalismo e divozione; perocchè ne' fanciulli anche il Razionalismo è fanciullo. Ma questo diviene adulto insieme coll' uomo, e con esso crescono la dottrina, sua prole immanchevole, l' orgoglio e l' immoralità; le quali spegnono la divozione; e spenta questa introducono l' incredulità, che perturba poi, a suo tempo, l' ordine pubblico massime fra genti cristiane. Vero è ch' ella non chiamasi da prima incredulità ma filosofia. Ma che è questo? Il falso nome sol giova ad illudere: e le masse ancora credenti onorano ingannate i filosofi, che loro promettono mari e monti di felicità, e si nutrono in seno gli increduli. Conviene persuadersi: l' educazione fu per lungo tempo in Europa e in Francia massimamente un misto di Razionalismo teologico e di devozione. Ma i principii della mente prevalgono alle abitudini della vita; e cresciuti quelli alla lunga ne cacciano queste, se sono loro contrarie, e se ne formano di omogenee. Così avvenne. I devoti giovani si cangiarono ben presto in filosofi; i filosofi in increduli; gl' increduli in rivoluzionari; i rivoluzionari in sanculotti, terroristi, cannibali: non si puó rompere la serie delle cause, perchè è in natura. Dai collegi adunque uscì la rivoluzione. Chi ben ha penetrazione, m' intenderà. Dove fu mai educata quella gioventù francese, che diede al mondo il più sanguinoso spettacolo che fosse mai? Dove i padri di essa? e dove gli avi? Ne' collegi a maximo usque ad minimum . Ma non instillavasi ne' collegi d' allora la pietà, la divozione? Qual dubbio? E nella divozione non si può certo trovar la causa del male atroce. Altrove dunque si vuol cercare il vizio d' un' educazione che si fece tanto conoscere da' suoi effetti. - Si mediti e si scoprirà il vizioso elemento, il seme funesto depositato negli animi de' giovani essere stato lo spirito razionalistico . Con tal compagno violento la divozione di collegio non potè a lungo reggere; egli spense crudelmente la sua compagna d' educazione: ed ingrato spense altresì in odio di lei i collegi stessi di cui molti buoni piansero la rovina; veggendo perire così i focolari della giovanil divozione. Ma veggendo la divozione uscire da' collegi, perchè le pratiche divote si veggon cogli occhi, non vedevano poi essi chi usciva con lei, perchè quel suo compagno feroce del Razionalismo non vedesi che colla mente, essendo un principio, un pensiero che nella mente risiede. Le quali riflessioni potrebbero per avventura riuscire salutari oltremodo ai nostri moderni teologi, se da esse apprendessero, che carezzando il Razionalismo teologico, com' essi fanno, s' accarezzano il più fiero nemico che aver possano essi stessi, non che la Chiesa, sì la fazione de' teologi razionalisti scava la fossa a se medesima, scavandola alla cattolica teologia. Perocchè, questa non può cadere, e però tutto il danno è suo proprio. Dunque parlo io così a suo favore; quanto ho scritto in quest' opuscolo a suo vero vantaggio ridonda. La fazione de' nostri teologi non pecca solo contro la sana dottrina col deplorabile impegno in cui ella è entrata, pecca ancora contro la savia politica. Deh non ne attenda gli effetti! Quanti mali avrebbe evitati, quanti guai risparmiati alla Chiesa, se avesse uditi docilmente i consigli de' due venerabili Cardinali Baronio e Bona, che scorgeano pure colle loro menti, da lontano i danni del Pelagianismo irruente! Non mancavano certo i veggenti in Israello, e se si vuole alle previsioni di que' due santissimi porporati aggiungere la previsione di un terzo splendore del sacro Collegio, nominerò il Contarini. Non avea questi ammonito certi teologi del suo tempo che indiscretamente pugnavano contro le nuove eresie, di procedere cautamente per non isdrucciolar forse nell' errore contrario? Non avea egli anche scritto: [...OMISSIS...] . Non era loro stato dato in tempo un avviso sì autorevole e savio, cioè prima ancora della metà del secolo XVI? Perchè dunque non approfittarsene? Quanto poi agli uomini di buona fede che non penetrano il fondo di questa lotta; io loro dirò così: Abborrite il Giansenismo, ma guardatevi altresì dal Pelagianismo, non credete mai questo necessario a fuggir quello. Abborrite pure da tutte quelle opinioni teologiche, che scoraggiano gli uomini a fare il bene, e ingiuriano la divina bontà; ma non appigliatevi perciò a quelle che fanno presumere gli uomini delle forze della loro natura, e li rendono negligenti a procacciarsi quelle della grazia, che attenuano la causa e il frutto della Redenzione di Cristo e scemano la virtù a' sacramenti, ed il bisogno che n' ha l' uomo figlio del peccatore. Sia pur questo il criterio che guidi la vostra scelta delle opinioni, quelle sien preferite che servon meglio a condurre le anime alla salute. La carità vi conduce pure alla verità. La morale che ne uscirà da tale scelta sarà dolce, come è dolce il giogo del Signore, ma non lassa. Chè una lassa morale non salva; sì, perde le anime. E che mai giovano alla salute dell' anima certi nuovi dogmi, non della divina Rivelazione, ma dell' umana corruzione? Che giova insegnare che l' uomo reca al mondo la natura incorrotta, e senza bisogno alcun di Battesimo, morendo bambino, l' attende al di là una beatitudine naturale, abitatore di un terzo luogo fra il cielo e l' inferno, come dicevano i pelagiani, se non a render gli uomini ingrati verso di Cristo e negligenti in procurarsi i sacramenti della Chiesa? Che giova insegnare che può l' uomo senza la grazia reprimere le sue passioni, resistere a tutte le tentazioni benchè con difficoltà, sicchè la grazia sia solo utile a ciò ma non necessaria, che giova dico se non a render la grazia meno preziosa e gli uomini men curanti di procacciarsela? Che falsa benignità non è ella questa, o piuttosto benignità crudelissima verso l' umana natura? Che giova il dire, che l' uomo, benchè senza la grazia, non è mai necessitato a peccare, e che peccando in tal caso con necessità niun mal gliene viene, niun peccato commette, se non ad aprire un fonte ampissimo d' immorali azioni, soffocata la voce della coscienza, e l' uomo reso piuttosto amante di rimanere nell' ignoranza e nella schiavitù degli abiti peccaminosi, che non di liberarsene? Che giova dichiarare la concupiscenza effetto naturale e non punto vizioso se non a levare dall' anima l' errore de' suoi disordini? « e ad exscusandas exscusationes in peccatis »? Esaltate adunque la bontà di Dio che vuol tutti salvi, e ne dà i mezzi a tutti quelli che li desiderano, e anche a molti di quelli che non li desiderano, facendo che li desiderino; ma nello stesso tempo non dimenticate, che quella bontà è santità essenziale: e che Dio è buono perchè vuol santi gli uomini, prima ancor che felici, e a ciò li aiuta, non perchè loro permetta di andare per una via larga e lubrica in Paradiso. Deh piaccia a Dio, che anche i nostri avversarii vogliano finalmente intendere con noi uniti queste santissime verità, e cessino dall' imbizzarrire sì sconciamente « sufflantes in pulverem », per usare delle parole di S. Agostino, « et excitantes terram in oculos suos! (1) ».

Introduzione al Vangelo secondo Giovanni

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Giovanni « non si trova niente di barbaro e d' improprio, e nemmeno di basso e di volgare, di guisa che egli pare che Iddio gli abbia dato non solo il dono della luce e del conoscimento, ma anche quello d' esprimere bene le sue concezioni ». Tuttavia la tradizione attesta che S. Giovanni non aveva studiate le lettere umane «(Theophyl., Pro‰m. in Jo. ) », e questo vien confermato dal giudizio di Grozio «( Prolog. in Jo. ) » e di altri grecisti moderni, i quali trovano nel greco di questo Evangelista delle maniere ebraiche o siriache, e, com' essi dicono, altre alquanto basse. Convien però riflettere che questi grammatici classicisti niente veggono di bello e di necessario nella lingua e nello stile, se nol trovano nei classici pagani. Non sanno elevarsi al pensiero, che S. Giovanni aveva ed esprimere nuovi dogmi, e nuovi sentimenti morali, per esprimere i quali non serviva l' angustia della lingua greca classica, ma doveva questa lingua stessa ricevere nuove forme, nuovi vocaboli, nuova sintassi e perfino nuovo accento. Così quell' elemento, che pare barbaro in S. Giovanni agli orecchi de' minuti filologi, è quel non so che di sublime e di divino, che trapassa ogni venustà delle lingue e degli stili usati dagli uomini. Sotto questo aspetto giudicava dunque con verità elegantissime le scritture del nostro evangelista Dionisio d' Alessandria. - Paulus, uno dei razionalisti germanici, non sapendo comprendere come S. Giovanni abbia potuto ritenere nella memoria i lunghi discorsi che riferisce del Salvatore, pensò che fra gli ufficiali del tempio e delle sinagoghe vi avesse una specie di stenografi che gli raccogliessero, e che da questi atti ne traessero poi copia i cristiani dopo la morte di Cristo «( Comment. IV, (275 f.) ». Bertholdt, altro eretico moderno, conghietturò che Giovanni avesse scritto in lingua aramea quei discorsi che riferisce, tosto dopo averli uditi da Gesù, e che le note, fatte da lui allora, gli giovarono poscia a compilare il suo Vangelo «( Verosimilia de origine Evangelii Joannis, opusc. p. 1 e seg., ed Einleit. in das N. T. (1302 ff.) ». - Wegscheider assente a questa conghiettura, « Einl. in Evang. Joann., S. 270 ». - Tholuck non crede dover escludere l' ammissione di materiali anteriori, « Comm. S. 3. »; - così pure Hugo, «II, 263 f. »: e ciò pare aver l' appoggio nelle abitudini dei discepoli de' rabbini. Ma, senza dichiarar false queste conghietture, si deve osservare due cose: 1 che il metter limite alla memoria di Giovanni è del tutto cosa gratuita, dopo tanti esempi di memorie tenacissime nell' antichità fino a credersi che i poemi d' Omero siano stati tramandati di generazione in generazione a memoria «(Joseph. contr. Ap. ) ». Chi poi non sa come rimangano scolpite quasi in marmo le parole di un gran senso nella mente d' un uomo di profondo sentire? E chi può conoscere quanto alta sia stata l' impressione delle parole di G. C. nel cuore dell' amato discepolo, cuore formato da Dio stesso acciocchè fosse idoneo e congruo alla scuola del Maestro per eccellenza? 2 Per tutti quelli poi che credono nelle parole di Cristo, il fatto dell' aver potuto il santo evangelista ritenere fedelmente i lunghi sermoni del suo divino Maestro è stato spiegato prima da Cristo stesso. Previde Cristo nella sua sapienza che la carnalità degli uomini avrebbe, molto tempo dopo di lui, dubitato della fedeltà di quanto avrebber loro narrato gli Apostoli di sue parole; e però, non meno a consolazione de' suoi Apostoli stessi, che a confermazione della fede di quelli che dovevano credere a loro, preannunziò e disse: « « E il Consolatore, Spirito Santo, che manderà il Padre in mio nome, egli stesso v' insegnerà tutte le cose, e vi suggerirà alla mente tutte quelle, qualunque sieno, che io avrò dette a voi »(Jo. XIV, 26) ». - Ma, ci obbietteranno, le cose sono diverse dalle parole; e Cristo qui promette che lo Spirito suggerirà loro le cose che loro avrà detto, non dice le parole . - Questo non negasi, rispondiamo, e però non dirà niente alieno dal vero chi affermerà che i sacri scrittori usino delle parole, e una lingua, e uno stile loro proprio. Ma ciò deve intendersi così strettamente, che non contraddica alle parole di Cristo, il quale attesta che tutte le cose sono loro suggerite dallo Spirito Santo, dopo che erano state dette loro da lui medesimo. Ora, quanto non è intima la connessione delle parole con le cose? nè solo delle parole, ma della loro giacitura, della sintassi, delle sillabe, delle lettere? Onde Cristo medesimo ebbe a dire che neppure un solo apice , un solo jota , che è la minima fra le lettere dell' alfabeto ebraico, passerà della legge, senza che sia adempiuta «(Matth. c. V, 1.) ». Vi sono adunque anco degli apici e delle jota che significano delle cose; e queste pure, se nell' antica legge vengono da Dio, maggiormente nel Vangelo. Che se pure vuol supporsi che qualche parola, o maniera, o frase, o periodo non sia uscito materialmente, preso identico come sta, dalla bocca di Cristo; deve però essere uscito dalla sua bocca tutto il succo di esso, senza che le nuove fogge ond' esso è vestito pregiudichino nè punto nè poco alla verità: giacchè non può dirsi un concetto assurdo questo, che una cosa stessa divina possa venire significata in parole per due modi diversi l' uno e l' altro divino. Che se l' uno dei due modi non esprimesse tutto ciò che esprime l' altro, basta però che tutto ciò che esso esprime sia nell' altro contenuto, e ciò che non esprime non muti nè alteri ciò che esprime, nè vi aggiunga nulla d' umano. E veramente non può dirsi che gli Evangelisti abbiano espresso tutto ciò che disse Cristo; ma può dirsi che tutto ciò che espressero gli Evangelisti fu detto da Cristo fino al valore d' un apice e d' un jota. - Il che vale anco per le varianti lezioni che nei varii Codici si possono notare: quelle di esse che dalla Chiesa non vennero rigettate o non si possono convincere d' errore non si rifiutino: esse sono permesse da Dio, il quale vi ha posto un limite colla sua provvidenza: e quando di due lezioni non si può discernere la vera, deve dirsi che e l' una e l' altra contenga del vero, sebbene forse l' una ne contenga di più dell' altra. Giovanni nel suo Vangelo mise principalmente in veduta ciò che riguarda la divinità di Gesù, la quale è simboleggiata dall' aquila nella visione di Ezechiello «(Paulin., Ep. XXIV; Aug., t. XXXVI, in Joann.; Orig. in Joann.) »: onde si dà allo stesso Evangelista l' aquila per simbolo. Questo fine del suo Vangelo lo espresse egli stesso in quelle parole: « « E queste cose sono state scritte, acciocchè crediate che Gesù è Cristo figliuolo di Dio; ed acciocchè, credendo, abbiate la vita nel nome di lui » (XX, 31) ». [...OMISSIS...] In queste parole: « « Nel principio era il Verbo » », la parola principio si potrebbe intendere del Padre che è principio del Verbo, come la intesero alcuni Padri (1), se a ciò non ostasse il verbo era che esprime il presente del passato «(en)». Il verbo era indica una cotal relazione di tempo, che non avrebbesi espressa se colla parola principio si avesse voluto indicare il Padre. Perocchè avrebbesi detto « il Verbo è nel Padre », ma non avrebbesi detto « il Verbo era nel Padre », quasi che avesse cessato di essere nel Padre (1). Queste parole adunque, « « in principio era il Verbo » », vogliono significare che il Verbo era avanti che fosse il mondo (2); maniera pure adoperata dalle Sacre Scritture, come là dove Cristo stesso disse: « « Acciocchè (gli uomini) veggano la chiarezza mia la qual tu mi hai data avanti la costituzione del mondo »(Joann. XVII, 24); » e del pari nel libro de' Proverbii così parla la Sapienza: « « Il Signore mi possedeva nel cominciamento delle sue vie » » (ecco anco qui il tempo presente del passato: mi possedeva ); e quasi spiegando questo cominciamento delle sue vie soggiunge: « « avanti che facesse cosa alcuna » ( Prov. , VIII, 22, 23) ». Ora che cosa è egli adunque questo principio? Egli è quel primo momento, nel quale furono le creature e con esse cominciò il tempo. Il Genesi dice: « « Nel principio Iddio creò il cielo e la terra »(Gen. I, 1) ». Se Iddio creò il cielo e la terra nel principio, vuol dire che non li creò successivamente, ma li creò in un solo istante, giacchè altrimenti non avrebbe creato tutto nel principio. Il principio adunque, di cui si parla, è il cominciamento delle cose create; e poichè il tempo non è che una relazione che queste hanno fra di loro, perciò il cominciamento di esse è il cominciamento del tempo. Il Verbo dunque era già nel principio del tempo, e perciò era avanti il tempo, il che viene a significare: era nell' eternità (3). Questo è spiegato dalle stesse Sacre Scritture, le quali prendono queste tre maniere: « « nel principio era »; - avanti la formazione del mondo era - «ab eterno era » », per maniere sinonime, o tali l' una delle quali spiega l' altra. Perciò si veggono adoperate tutte e tre promiscuamente nel luogo citato dei Proverbii. « « Il Signore mi possedette nel principio delle sue vie » », ecco la prima maniera; « « avanti ch' egli facesse cosa alcuna » », ecco la seconda; « « ab eterno sono stata ordinata » » ecco la terza maniera, che spiega ottimamente le precedenti. Quest' ultima è anco la più esatta: giacchè nelle due prime si esprime l' idea stessa, ma in modo adattato alla comune capacità degli uomini, i quali non si possono elevare fino ad un concetto dell' eternità così puro che sia scevro interamente da ogni relazione col tempo. Infatti, quando si dice che il Verbo « era avanti il tempo », o che « era già quando il tempo incominciò », sembra che si venga a mettere un tempo avanti il tempo, ciò che non sarebbe esatto; chè anzi sarebbe assurdo. E nel vero l' eternità non è avanti il tempo ma è senza il tempo , e non cessa di essere perchè sia il tempo; giacchè essa è cosa che ha da far nulla col tempo, non ha con lui nessuna relazione di tempo. E tuttavia quelle espressioni vengono adoperate dalla Scrittura, che vuol comunicare le sue verità a tutti gli uomini: nè si può già dire che quelle non infondano nelle menti l' idea dell' eternità; anzi la infondono per una via più facile alla moltitudine, ed ecco in che modo. L' espressione, « « avanti che le cose fossero » », da principio non offende, e vien ricevuta nelle menti senza sospetto o timore ch' ella richiegga un' intensa meditazione ad esser compresa. Ma ricevuta nelle menti, vi ha già portato il germe della verità. Perocchè elleno si persuadono, che quella espressione vuol certo significare un' idea vera, venendo ella usata da un' infallibile autorità. Ora qui appunto incomincia l' interno ed utilissimo lavoro delle stesse menti, le quali si industriano di separare fra le idee comprese in quell' espressione tutte quelle che sono accessorie e che non reggono ad un esame rigoroso, e ritengono la principale e sola vera, depurata da ciò che non è altro che il difetto della locuzione (giacchè la Scrittura stessa usa delle locuzioni che sono in corso fra gli uomini), trovano l' idea netta, l' infusione della quale è lo scopo del sacro scrittore o piuttosto dello Spirito che lo dirige. Così appunto accade quanto all' espressione « « avanti che le cose fossero » », che è quanto dire « avanti che fosse il tempo ». Quell' avanti nel linguaggio comune esprime una relazione di tempo, cioè un punto nel tempo a cui ne risponde un altro che si esprime coll' avverbio dopo . E questo valore ha veramente la parola avanti quando il suo relativo dopo significhi un punto, una parte del tempo. Ma nel caso nostro dicendosi « avanti il tempo », ovvero « avanti il principio del tempo », la parola avanti non ha per relativo una parte o momento preso nella serie del tempo, ma ha per suo relativo tutto intero il tempo; sicchè ella non può significare un punto di tempo, giacchè ogni punto di tempo è nel tempo; ma significa « fuori al tutto del tempo »; significa uno stato nel quale non entra niente del tempo, nè pure un punto; e questo stato è l' eternità. Così le menti umane sono costrette d' interpretare la parola avanti nella citata frase in virtù della stessa coerenza delle idee, cioè perchè sarebbe assurdo il darle qualsiasi altro significato. Si osservi che le Scritture antiche cominciano colle parole: « « Nel principio Iddio creò il cielo e la terra » », e il Vangelo di S. Giovanni che, risguardando l' ordine intrinseco delle idee, si deve collocare in testa delle nuove Scritture, comincia: « « Nel principio era il Verbo » ». Iddio creatore (la sua conoscenza, il suo culto) è il principio della Legge antica; il Verbo incarnato (la sua cognizione, imitazione e culto) è il principio della Legge nuova. Col confronto di questi due luoghi si può maggiormente penetrare nel senso di quelle parole « « nel principio » »; conciossiachè così si possono parafrasare le prime parole di Giovanni: « Nel principio, in cui Dio creò il cielo e la terra, era già il Verbo ». Ma in qual principio creò Iddio il cielo e la terra? Certamente nel principio delle cose, nel principio del tempo. Ma qui nasce una difficoltà, e sono appunto le difficoltà che, dandoci il Signore il dono di snodarle, portano nelle menti la luce della verità. La difficoltà è questa: - Iddio opera nella eternità e non nel tempo; la creazione adunque, quest' atto di Dio, non poteva essere fatto in nessuno istante del tempo, neppure nel primo; che anzi il primo stesso degl' istanti, con tutti quelli che venivano appresso, dovevano esser prodotti o, per dir meglio, comprodotti dall' atto di Dio creante, e non essere una cotal forma di questo atto. - Convien dunque riflettere che l' eternità è cosa affatto immune dal tempo, il quale non è che l' oggetto dell' eterno operare di Dio. Quindi non deve punto credersi che l' atto eterno, col quale Iddio creò tutte le cose, sia cominciato in un certo tempo infinitamente remoto dal punto, in cui le cose, effetto di quell' atto, cominciarono ad esistere; perocchè in tal modo si ricadrebbe nell' assurdo, che avanti il tempo vi fosse un' altra serie o tempo infinitamente lungo. Se l' atto di Dio avesse dovuto aspettare un tempo infinito prima che il suo oggetto, il mondo, venisse realmente posto in essere, egli non avrebbe mai avuto il suo effetto, perchè un tempo infinito non finisce mai. E` dunque da dirsi, che l' atto della creazione e il suo effetto sono inseparabili e non divisi da alcun tempo: colla sola differenza che quell' atto è eterno, cioè di una natura scevra al tutto dalla legge del tempo; là dove il suo effetto, almeno il mondo sensibile, è tale che una delle sue forme e leggi è il tempo, creato perciò col mondo a quella guisa che le limitazioni sono fatte insieme con le cose, alle quali esse vanno inerenti. Questo è ciò che volle esprimere il sacro testo dicendo, che « Iddio creò il mondo nel principio »: escluse ogni pensiero di distanza fra il mondo e l' atto di Dio creante. - Ma se l' atto di Dio creante è congiunto senza alcuna distanza di tempo col mondo che egli crea, e col tempo che è una forma di questo mondo creato, perchè quell' atto si dice che fu fatto nel principio del tempo, piuttosto che in qualsiasi altro istante? giacchè quell' atto aveva con tutti gli istanti ugualmente la stessa relazione di unione intima, senza distanza alcuna di tempo, unione, dico, fisica di causa e di effetto? - Rispondo esser verissimo che quell' unico e semplicissimo atto col quale il mondo fu creato risponde e, per così dire, si combacia non solo col primo istante delle cose create, ma con qualsivoglia altro; ma solo in quanto quell' atto si riferisce e riporta al primo istante dicesi creante , in quanto poi si riferisce agli altri dicesi conservante . L' atto che crea è quello identico che conserva, ma gli effetti sono due, che si distinguono appunto nelle creature mediante la successione del tempo, perocchè l' effetto è vestito, come dicevamo, dal tempo. Se dunque l' effetto, il mondo, si considera nel primo istante della sua esistenza, dicesi creato; se poi si considera negli altri istanti successivi, dicesi conservato . E però l' unico atto del Creatore, che crea e conserva, riceve due relazioni significate con due nomi: se si considera in relazione col mondo nel primo istante della sua sussistenza, dicesi creante; se si considera in relazione col mondo negli istanti successivi, dicesi conservante . Volendo dunque Mosè esprimere l' effetto della creazione e non quello della conservazione, egli dovette di necessità scrivere che Iddio « « creò il cielo e la terra nel primo istante » ». - Ma se l' atto creante è eterno, e non di meno le cose create nel primo loro istante sono congiunte con quell' atto senza alcuna distanza o separazione di tempo, come poi accade che Giovanni dica, che il Verbo era già prima che le cose incominciassero: « « Nel principio era il Verbo » »? - Rispondo che in questo ci sarebbe difficoltà, se dalle parole di Giovanni si dovesse inferire, che il Verbo era anteriore all' atto della creazione: ma quelle parole non dicono altro se non che il Verbo era anteriormente al principio del mondo: « Nel principio delle cose era già il Verbo », il che significa, come vedemmo, che il Verbo è fuori del tempo, nell' eternità. E, per intendere ciò che noi diciamo più chiaramente, si consideri, che non si paragona già l' atto producente il Verbo coll' atto producente il mondo; ma si paragona il Verbo prodotto col mondo prodotto, e si dice che quello è avanti questo, il che viene a dire che quello è totalmente fuori di quel tempo che è una condizione e specificazione del mondo. Nel che si badi, che a quella guisa che l' identico atto divino, che fa esser le cose, è intimamente congiunto alle cose in tutti egualmente i loro istanti; così l' atto divino, che fa essere il Verbo, è intimamente congiunto al Verbo nell' eternità. Che se l' atto che fa essere il Verbo è eterno, e il Verbo pure non esce dall' eternità; dunque egli (il Verbo) rimane in quell' atto, sicchè fra l' atto che il produce (la generazione) e lui prodotto non può esservi differenza alcuna reale; ma convien dire che il Verbo sia quell' istesso atto, sia un atto del Padre, da noi poscia considerato in due rispetti, l' uno come producente, chiamandolo sotto tale rispetto generazione , e l' altro come prodotto, chiamandolo sotto quest' altro rispetto generato o Verbo: e ciò per l' imperfezione della nostra maniera di concepire. Per altro egli pare non difficile neppure il sollevarsi ad intendere che un atto fatto nell' eternità non abbia alcun termine distinto da sè, ma sia egli stesso il proprio termine. Per la stessa ragione poi, per la quale il Verbo non uscendo dall' atto che lo produce s' immedesima con quest' atto; per la stessa ragione, dico, anche l' atto creante si dice immedesimarsi coll' atto generante, non uscendo nè l' uno nè l' altro dall' eterno semplicissimo loro principio. Onde S. Paolo dice che il Verbo « « porta tutte le cose colla parola della sua virtù »(Hebr. I, 3) », cioè con se stesso, e quindi pure il celebre detto di S. Anselmo che Dio « uno eodemque (Verbo) dicit se ipsum et quaecumque fecit (Monol. XXXII) ». Un' altra riflessione ancora. Se Iddio generò il Verbo e creò il mondo con un identico atto eterno, e se tuttavia il Verbo ed il mondo si distinguono, perchè il Verbo è l' atto stesso divino ultimato che non esce dall' essenza divina, là dove il mondo è un termine di quell' atto, che si distingue dalla divina essenza; tuttavia il mondo conserva col Verbo una relazione di analogia, trovando nel Verbo il suo Esemplare. Egli è vero che il Verbo non è solamente esemplare del mondo, ma è la figura della sostanza di Dio (1); è questa stessa sostanza in quanto è luce o sia verità, e in esso trova il mondo il suo Esemplare, come il valore del fango trova il suo concetto nel valore del diamante. Intanto però il Verbo divino può esser considerato dalla nostra mente, che concepisce le cose divine come atte ad essere divise dall' astrazione, in due rispetti: o in se stesso in quanto è l' Essere manifesto a se stesso , il Verbo; o in quanto è l' Esemplare del Mondo, benchè sia tale eminentemente. Se dunque il Verbo, come tale, cioè il Verbo concepito da noi nel primo rispetto, si paragona col mondo, si dice che quello era prima di questo, per esprimersi con ciò che quello è nell' eternità e questo nel tempo. Ma se si paragona col mondo il Verbo considerato nel secondo rispetto, cioè come Esemplare del mondo, allora quando si dice che quello era prima del mondo si esprime solamente quella relazione che ha l' Esemplare con la copia. Ora nelle opere degli uomini questa relazione consiste in una priorità e posteriorità di tempo; perocchè lo statuario prima concepisce l' idea della statua che n' è l' esemplare, e dopo forma la statua che n' è la copia. All' incontro nelle semplici idee di esemplare e di copia non si racchiude questa relazione di tempo, non essendo assurdo l' immaginare che coesistano due cose, l' una copia, l' altra esemplare, contemporaneamente. Tuttavia la copia dipende sempre dall' esemplare, di guisa che l' esemplare ha un' anteriorità logica rispetto alla copia, come la causa ha un' anteriorità logica rispetto all' effetto, e il padre rispetto al figlio, benchè siano termini relativi di maniera che non vi possa essere nè la causa nè il padre se non v' è di contro l' effetto e il figliuolo, l' esistenza dei quali è intimamente legata colla causalità e la generazione, e queste col causato e col generato. Qualora dunque le parole di Giovanni « « Nel principio era il Verbo » » si vogliono spiegare anco da quella parte, in cui nel Verbo si considera l' Esemplare del mondo, convien dire che esse, coll' indicare il Verbo preesistente al mondo, intendono esprimere il rapporto di anteriorità logica che passa fra l' esemplare e l' esemplato. Sotto questo rapporto col mondo parlano del Verbo specialmente quelle parole dei « Proverbii » di Salomone «(VIII, 23 7 31) »: « « Fui ordinata ab eterno » » (quando fu generato il Verbo, fu ordinato il mondo; l' ordine al Verbo è essenziale, al mondo no), « « e dalle cose antiche prima che fosse la terra. Gli abissi ancora non erano, ed io già era concepita » » (ecco l' esemplare, il concetto degli abissi anteriore logicamente agli abissi); « « non ancora erano sgorgati i fonti delle acque, non ancora consolidati i monti colla grave lor mole; prima dei colli io veniva partorita: non aveva fatto ancora la terra, e i fiumi, e i cardini del globo della terra » » (ecco l' Esemplare, l' idea dei fonti, dei monti, dei colli, della terra, dei fiumi, dei cardini del globo, anteriore logicamente a tutte queste cose; questo Esemplare è partorito dal seno di Dio, ciò che mostra che non è realmente diverso dal divino Figliuolo). « « Quando egli preparava i cieli io era presente » » (qui l' Esemplare si mostra contemporaneo, coesistente all' atto di Dio creante); « « quando con certa legge e con certo giro vallava gli abissi; quando di su fermava l' aria ed equilibrava i fonti delle acque; quando tirava intorno al mare il suo termine e poneva la legge alle acque acciocchè non trapassassero i loro confini; quando pesava i fondamenti della terra, io era con esso lui, componendo tutte le cose, sollazzandomi alla sua presenza in ogni tempo; sollazzandomi nel globo della terra; e mie delizie erano lo stare coi figliuoli degli uomini » ». Il che esprime che, nell' atto col quale Iddio faceva le cose e governava ab eterno gli avvenimenti di tutti i tempi, l' idea delle cose e degli avvenimenti era con lui; egli vedeva le cose nel suo Verbo e pel suo Verbo, e veggendole le creava; ed essendo le cose distribuite pei tempi, dice che quella divina Sapienza si sollazzava al cospetto di Dio in ogni tempo, perchè l' atto suo eterno riferivasi ad ogni tempo, e del proprio atto Iddio si beatifica. Questa Sapienza che si riferisce al mondo e che Iddio possiede nel suo Verbo, al quale l' atto creante si riferisce come l' artefice riferisce al proprio concetto l' opera sua, è poi quella di cui fa parte anche agli uomini, onde dice che « « sue delizie sono lo stare coi figliuoli degli uomini » ». E perchè questa sapienza comunicabile è nel Verbo eminentemente, perciò anche Giovanni dice del Verbo che « « illumina ogni uomo veniente in questo mondo » ». Ma merita che s' investighi perchè l' Evangelista dica: « « Nel principio era il Verbo » », e non dica: « Nel principio era il Verbo di Dio »(1). Dire « il Verbo »senza più, è un parlare assoluto; viene a significare « quello che è Verbo assolutamente, Verbo per sè, che ha condizione di Verbo e nient' altro, che è Verbo per sua essenza, ossia la cui essenza è di esser Verbo ». Una parola sonora non è solamente verbo, ma è anche suono; un pensiero, un' affermazione umana non è solamente un pronunciato, ma è un pronunciato determinato e limitato a ciò che con esso lui si pronuncia. Dicendosi che il Verbo era, si viene a significare che il Verbo, come tale, era ente completo; perocchè una cosa è in quanto è ente. Se il Verbo non fosse stato a principio compiuto ente, non si sarebbe potuto dire assolutamente e semplicemente ch' egli era a principio. Questo parlare dimostra che l' essere gli conviene in proprio, ossia che la sua essenza è l' atto dell' essere; quindi che egli è Dio, perchè Iddio è quegli la cui essenza è l' essere. Per tal modo quell' espressione assoluta « il Verbo »distingue il Verbo divino da ogni altro verbo che ha bisogno per essere significato di qualche aggiunta, di qualche epiteto, perchè questo non è verbo per sè, ma per analogia col Verbo, e non è puramente verbo ma qualche cos' altro; e non è tal Verbo che sia un ente completo, di maniera che gli competa in modo assoluto l' esistenza; e non è Verbo senza limiti che gli tolgano qualche cosa dall' esser Verbo, perchè in quanto un dato verbo omette dal pronunciare qualche cosa, non è verbo; onde, acciocchè egli sia puramente e pienamente Verbo, egli è uopo che pronunci tutto, niuna cosa esclusa: e molto meno ogni altro verbo era al principio. Che se quel Verbo che era al principio è il Verbo per sè, quindi ogni altro verbo è tale per partecipazione di lui: il che si deve vedere come sia. Acciocchè il Verbo sia puramente e compiutamente Verbo, deve pronunciare tutto, perchè, se non pronunciasse tutto, risulterebbe di due elementi, cioè di verbo e di confini, e così non sarebbe puramente Verbo; nè sarebbe Verbo compiutamente, perchè, in quanto non pronuncierebbe, in tanto non sarebbe Verbo. Dunque ogni altro verbo non può essere che una ripetizione di ciò che è già pronunciato. Tutto è pronunciato: questo tutto viene poi pronunciato a parte a parte con altri verbi che così non fanno che ripetere imperfettamente il primo, e perciò non sono verbi in senso assoluto, ma per partecipazione. E veramente un essere intelligente non può pronunciare se non ciò che è pronunciabile . Ma che cosa fa che una cosa sia pronunciabile? Ogni cosa in potenza si deve ridurre ad una cosa in atto; niente adunque sarebbe pronunciabile, se non fosse già attualmente pronunciato da un primitivo Verbo. Il Verbo primitivo è dunque quello che rende pronunciabili le cose, è quello in cui si radica la possibilità di tutti i pronunciati parziali, accidentali, posteriori, che ripetendo il primo ne partecipano. Le intelligenze finite dunque hanno la loro possibilità ontologica nell' eterno Verbo. S. Tommaso d' Aquino viene a dare la stessa ragione del perchè il nostro Evangelista in questo luogo dica « Verbo »assolutamente e non « Verbo di Dio ». « « Quantunque », dice, «molte sieno le verità partecipate, tuttavia la Verità assoluta è una, la quale è Verità per sua essenza, cioè è lo stesso Essere divino; per la quale Verità tutti i verbi sono verbi. Alla stessa guisa v' ha una Sapienza assoluta elevata sopra tutte le cose, per la partecipazione della quale tutti i sapienti sono sapienti; e v' ha pure un solo Verbo assoluto, per la partecipazione del quale tutti quelli che hanno un verbo sono detti parlanti. Ora è il Verbo divino quello che è Verbo per sè elevato sopra tutte le cose. L' Evangelista adunque, per significare questa sopraeminenza del Verbo divino, ci propose lo stesso Verbo senza quell' aggiunta »(1) ». Di che vedesi anche la ragione onde l' Evangelista non si contenta di dire «logon», ma dice «ton logon»; « il Verbo »distinguendolo così da ogni altro discorso, come hanno osservato S. Giovanni Grisostomo (2) e Teofilatto (3). Verbo, parola, verbum, «logos». - Pare che primieramente gli uomini abbiano nominata la parola esterna e sonante come quella che cade sotto i sensi. Più tardi si sono fermati a considerare che la parola esterna non era che un segno che esprimeva una cosa interna, un oggetto pronunciato dalla mente. Volendo dunque nominare questa cosa interna significata, invece d' imporle un nome proprio, vi adattarono lo stesso vocabolo che significava la parola esterna, lasciando che il contesto del discorso chiarisse quando a quel vocabolo convenisse dare il significato antico di parola, suono proferito con gli organi della voce a significare; e quando gli si convenisse dare il significato nuovo della cosa interna nello spirito colla parola significata. Questa maniera di estendere alle parole vecchie il significato di mano in mano che gli uomini estendono le loro cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perchè esige uno sforzo di mente minore e adattato a tutta la comunità degli uomini, oltredichè le idee o cognizioni nuove ritengono in tal modo la relazione colle idee o cognizioni precedenti onde furono derivate, e così meglio si conoscono, e più agevolmente si prestano al ragionamento; giacchè i nessi fra esse e le notizie più antiche e più familiari sono pronti. Solamente più tardi, quando la mente è già sviluppata, e non ha più bisogno di tali dandine, ella inventa parole nuove e proprie per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero le parole vecchie da comuni diventano proprie, perdendo il primitivo significato e ritenendo solo il nuovo. Sant' Agostino, per fare in qualche modo intendere al suo popolo il significato di questo vocabolo « parola di Dio », comincia a distinguere nell' uomo la sua parola esteriore dalla sua parola interiore significata da quella prima. Poi mostra che questa parola interiore precede nell' uomo le opere dell' uomo. [...OMISSIS...] , dice egli, [...OMISSIS...] Dopo aver dunque Sant' Agostino stabilito in questa maniera, che la parola interiore, il consiglio si conosce dagli uomini mediante l' effettuazione esterna di quella parola, di quel consiglio; chiama i suoi uditori a conoscere in qualche modo la parola di Dio, il consiglio di Dio dalle opere esterne della creazione, dicendo: [...OMISSIS...] . In questo luogo di Agostino scorgesi manifestamente una leggiera tinta di platonismo, da lui stesso purificata in altri luoghi, e specialmente nella grand' opera che scrisse sulla Trinità. E veramente per i platonici il Verbo di Dio era l' idea del mondo ossia il mondo intelligibile, come talor lo chiamavano. Questo concetto del Verbo, che si erano formato i platonici, non è quello di S. Giovanni, il quale anzi scrive il suo Vangelo a confutazione di quegli errori che avevano dedotto in buona parte dal platonismo Cerinto «(Hier., De Script. Eccles. - Id., Prooem. in Matth. - Iren., III, XI - Id., I, XXV - Tertull., De Praescript. ) », Ebione «(Epiph., Haeres. XXX - Iren., III, XI) », e poco appresso i gnostici; i quali, benchè sembrino esser comparsi con questo nome sotto l' impero d' Adriano, già morto Giovanni, tuttavia prima esistevano coi loro errori, come si rileva da S. Ireneo «(L. III, c. XI - Epiph., Haeres. XXVI, XXVII) ». Tuttavia v' ebbero dei platonici, i quali, non ben intendendo quanto la dottrina di Giovanni si sollevasse sopra la loro, sentendovi ragionato altamente del Verbo di Dio, espressione di cui anch' essi facevano uso, commendarono altamente il principio del Vangelo di S. Giovanni. Alcuno di essi diceva che quel principio meritava d' essere scritto a lettere d' oro sul fastigio di tutte le chiese «(Aug., De C. D. , X, XXIX, ex Simplic. Mediolan. Ep.) ». Così del pari molti altri platonici, fra i quali Aurelio, che viveva nel III secolo, non finivano d' ammirare e lodare il principio del Vangelo di Giovanni «(Euseb., Praepar. E., XI, XXIX - Cyrill. Alex. in Jul., VIII) ». Non può negarsi che Platone attribuisca in alcuni luoghi la creazione al verbo di Dio, «logos» (In Timaeo, e in Epinomide - vedi le notizie di Le Clerc sui primi versicoli di S. Giovanni). Gli stoici del pari usavano del «logos» di Dio per ispiegare la creazione contro gli epicurei che attribuivano ogni cosa al cieco azzardo «(La‰rt., VII - Tertull., Apolog., XXI) ». Filone parla anche egli d' un mondo intelligibile anteriore al presente, esemplare nella mente di Dio, da cui Dio ritrasse tutte le cose create, e che egli chiama pure il «logos» «(Phil., De Opif. Mundi - Id., De Allegor., 1 II - Id., 1 Quis rerum divinarum haeres. - Id. De somn., et alibi) ». Non sarà neppure del tutto difficile trovare qualche brano ne' platonici, fioriti dopo la venuta di Gesù Cristo, nel quale si dica che il logos di Dio è Dio; ma questi non sono che luoghi piuttosto sfuggiti ai loro autori per entusiasmo e senza coerenza co' loro principii, che luoghi esprimenti un loro sistema. « « Nel principio era il Verbo » ». - Egli è uopo che noi ci fermiamo ancora meditando e ricercando, per quanto ci è dato di potere, che cosa sia il Verbo, il divino Verbo, l' essenziale ed assoluto Verbo; nè possiamo in altro modo, se non salendo dalla considerazione del verbo umano. Conviene dunque riflettere che nell' umana mente altro suol essere l' idea , altro è il verbo . L' uomo con l' idea conosce l' essenza della cosa, ma non la sussistenza; per esempio, noi quando abbiamo l' idea dell' animale sappiamo che cosa è animale, ma non sappiamo ancora con questo solo, se un animale sussista. Noi non sappiamo che un animale sussista se non abbiamo dentro di noi affermato che sussiste; l' atto dell' affermazione è un pronunciato, un giudizio, un verbo della mente. Se noi paragoniamo l' idea al verbo della mente umana, noi troviamo che l' idea non è già un prodotto dell' umana mente, ma vien data all' umana mente; la mente la riceve, non la crea. L' idea è lo stesso essere contemplato nella sua essenza, la quale è eterna e quindi sovrumana. Il verbo all' incontro, cioè l' affermazione è un atto della mente stessa, e la sussistenza, in quanto è affermata o pronunciata , è un prodotto di essa mente; onde S. Tommaso dice che « de ratione intelligendi est quod intellectus intelligendo aliquid formet, hujus autem formatio dicitur verbum (1) ». In secondo luogo è evidente, che la mente umana non potrebbe pronunciare il verbo, l' affermazione della sussistenza, se non avesse l' idea della cosa, se non ne conoscesse in qualche modo l' essenza; cioè se non ne conoscesse una qualche definizione più o meno perfetta, perocchè l' essenza è ciò che può essere espresso in una definizione; perocchè in qual modo si può affermare una cosa che non si conosce menomamente? Questo ha fatto dire a S. Tommaso che « verbum semper est ratio et similitudo rei intellectae (2) ». Ma più esattamente è da dire, che l' idea è la ragione della cosa che si afferma, e in qualche modo anche la similitudine; e che il verbo suppone innanzi a sè questa ragione e similitudine nella mente, acciocchè possa esser pronunciato. Ora è qui da cercare la ragione per la quale nella mente umana l' idea ed il verbo sieno così divisi, per modo che con un atto di intuizione si contempla l' idea, e con un altro atto d' affermazione si produca il verbo. Questo avviene, perchè i naturali oggetti reali dell' umana intelligenza sono finiti, cioè sono gli enti creati contingenti. Ora gli enti creati, appunto perchè sono contingenti, non hanno necessariamente la sussistenza , ma questa può essere e non essere; laddove hanno necessariamente l' essenza, la quale non può non essere, e però ella è eterna. Quindi rispetto a questi enti l' essenza è cosa diversa al tutto dalla sussistenza; non sussistono per propria essenza, ma perchè un atto libero di Dio gli ha fatti sussistere. Essendo dunque due cose affatto distinte e separate l' essenza e la sussistenza delle cose contingenti, consegue che sieno due atti distinti quelli con cui la mente umana le apprende: l' uno dei quali, l' intuizione, ha per suo termine l' essenza; l' altro, cioè l' affermazione (preceduta dal sentimento), ha per suo termine la sussistenza dei contingenti. E consegue parimente, che questo secondo atto supponga il primo: perocchè non si conosce la sussistenza d' una cosa, se non si conosca innanzi (di priorità logica) che cosa sia questa cosa, il che è un averne idea, un conoscerne l' essenza compresa nell' idea. Consegue ancora che il formale della cognizione, ciò che illumina la mente, sia l' essenza, giacchè conoscere la sussistenza non è altro che conoscere quale sia l' essenza della cosa che si sente e che si afferma. La sussistenza adunque dei contingenti non è cognita per sè, ma per l' essenza che la illumina nella mente nostra e così la rende conoscibile. Ma se si avesse una sussistenza che fosse per sè cognita, cioè che fosse ad un tempo sussistenza ed essenza, ella sarebbe in tal caso un oggetto unico, il quale si potrebbe ed anzi si dovrebbe apprendere con un atto solo dello spirito. Ora tale oggetto non potrebbe essere un contingente per la ragione detta, ma converrebbe che fosse necessario: perocchè, se l' essenza è sempre necessaria, necessaria convien che sia anche quella sussistenza che ha in sè la propria essenza, e forma con questa un solo essere. Ma l' essere necessario tanto rispetto all' essenza quanto alla sussistenza dicesi Dio. Iddio è dunque quel solo essere la cui sussistenza è l' essenza. Se dunque Iddio sussiste per propria essenza, consegue che Iddio sia l' essere assoluto , l' essere assolutamente considerato, non l' essere comunissimo, il quale non è che un' essenza senza sussistenza come tale; ma sia l' essere essenziale, realissimo. Iddio dunque è l' essere per essenza. Ciò che è per sua propria essenza, non può non essere intelligibile, perchè l' essenza è la parte intelligibile delle cose. Ora, se quell' essere è per sè intelligibile nella sua propria sussistenza, se quell' essere deve apprendersi dallo spirito con un atto solo, perchè in lui la sussistenza è ad un tempo l' essenza; quale sarà quest' atto dello spirito col quale si dovrà apprendere? Quest' atto non può essere una semplice intuizione, perchè l' intuizione non ha per termine che l' essenza, e quell' essere è anche sussistenza. Si apprenderà dunque coll' affermazione ? L' affermazione suppone la distinzione fra l' essenza e la sussistenza, perchè ella è un giudizio, è l' unione che fa la mente d' un predicato e di un subbietto, d' un subbietto però che non è tale prima dell' affermazione, ma che tale diviene coll' affermazione stessa. L' essere adunque sussistente per sua essenza, cioè Iddio, non si apprende neppure per un' affermazione simile a quella che l' uomo fa nella percezione dei contingenti. L' atto dunque, con cui la mente apprende l' essere assoluto a cui è essenza la propria sussistenza, deve essere un terzo atto che, quantunque unico, tuttavia unisca in sè tutto ciò che ci dà l' intuizione e tutto ciò che ci dà l' affermazione, senz' essere precisamente ne l' una nè l' altra; quest' atto si può chiamare sentimento intellettuale, appellazione che consuona in qualche modo a quella che usano i teologi quando chiamano la percezione di Dio visione, parola traslata dal senso del vedere. Se non che la parola visione , acconcissima ad esprimere il modo con cui i Santi in cielo apprendono Dio, suppone una distinzione e una cotal distanza fra il soggetto veggente e l' oggetto veduto, e però non sembra potersi applicare al modo con cui Iddio apprende ed intende se stesso; laddove l' espressione di sentimento intellettuale, più generale, sembra potersi acconciare tanto alla visione beatifica, quanto all' atto con cui Iddio comprende se medesimo. Ma sotto un altro aspetto anche l' espressione sentimento intellettuale trovasi inadeguata a significare il modo onde Iddio intende se stesso. E di vero, se la sussistenza divina è per sè essenza, dunque è intelligibile per se stessa. Ma se è per se stessa intelligibile, dunque è anche per se stessa, a se stessa intesa . Perocchè ciò che è intelligibile è anche inteso tosto che risieda in un essere sussistente. Ora l' essenza divina risiede talmente in un essere sussistente, che la sussistenza di quell' essere è l' essenza di quell' essere. Dunque questa sussistenza per la propria essenza è intesa e nota a se stessa. Non vi ha dunque nulla di potenziale in questa cognizione, non vi ha una facoltà di conoscere che esca dall' atto o che si distingua dall' atto: ma vi ha puramente l' atto necessario altrettanto quanto è necessaria la sussistenza dell' essere di cui parliamo, nè v' ha pure distinzione tra questo atto e la sussistenza medesima: non v' ha che questa sussistenza per sè intesa, per sè lume, per sè notizia, per sè oggetto intellettivo, di modo che l' atto conoscitivo di cui si tratta è la medesima sussistenza. La sussistenza divina adunque, per sè intesa, ha una doppia relazione, quella di soggetto intelligente, e quella di oggetto inteso; ma la sussistenza è identica ed una perfettamente. Ma ella è per sè intesa in virtù dell' atto intellettivo che la rende intesa, atto necessario, perchè è necessariamente ed essenzialmente intesa a se stessa. In quanto poi la sussistenza divina è per sè intesa da se stessa, soggetto ossia persona, in tanto è il Verbo (1). Dal che si rileva primieramente quanto sia giusta l' osservazione di S. Agostino e di S. Tommaso, il quale scrive: « Verbum Dei semper est in actu, et ideo nomen cogitationis Verbo Dei proprie non convenit. Dicit enim Augustinus (1): « Ita dicitur Verbum Dei, ut cogitatio non dicatur ne quid quasi volubile credatur in Deo »(2) »; perocchè la parola cogitazione significa discursus inquisitionis e non un pronunciato compiuto ed ultimato nella mente (3). Si rileva ancora che il Verbo divino non è l' atto intellettivo di Dio, ma il termine di quell' atto intellettivo, cioè la stessa sussistenza divina intesa; e quindi che la sapienza che risulta dall' atto intellettivo divino è comune a tutta la Trinità. Tuttavia, poichè l' intelligente e l' inteso sono correlativi, dalla sostanzialità o piuttosto dalla sussistenza del primo si può argomentare alla sostanzialità o sussistenza del secondo, e sotto questo aspetto ha efficacia l' argomento di S. Tommaso che scrive: « In Deo autem idem est intelligere et esse; et ideo Verbum intellectus, non est aliquid accidens sed pertinens ad naturam ejus. Unde oportet quod sit subsistens, quia quidquid est in natura Dei, est Deus (4) ». E veramente noi abbiamo veduto che il Verbo divino è la stessa sussistenza divina in quanto è intesa, quella stessa sussistenza che è ad un tempo intelligente per sè, ed essere per sè. Noi abbiamo riconosciuto che Iddio è l' essere assolutamente preso, e perciò l' essere compiuto: che egli è sussistente, giacchè altramente non sarebbe l' essere compiuto ed assoluto: che questa sussistenza divina è per sè intesa, e che in quanto ha condizione di essere intesa per se stessa, in tanto è il Verbo divino. Dunque tutta la sussistenza divina, tutto l' essere assoluto è per sè inteso; la sussistenza divina comprende totalmente se stessa, è di continuo e per sua essenza compresa da se stessa. Questa comprensione dell' essere non ha limitazione di sorta, e quindi è Verbo semplicemente per sua essenza, e questo Verbo non può essere che uno (1). Or l' essere non potrebbe essere totalmente inteso e compreso per propria essenza da se stesso, se in questa comprensione non abbracciasse anche tutti i modi in cui l' essere reale e sussistente può venire limitato. Ma poichè nell' essere assoluto non cadono limitazioni, perocchè ogni limitazione il fa cessare dall' essere quello che è, cioè assoluto per essenza; quindi i modi, con cui l' essere può ricevere limitazioni, sono i modi onde l' essere può creare qualche cosa di diverso da sè, fuori di sè, i modi onde può esistere un essere limitato, non più l' assoluto. La cognizione di questi modi è la cognizione delle cose creabili, le essenze delle cose contingenti, le idee pure, a cui non è necessariamente unita alcuna sussistenza, ma che viene unita pel libero atto della creazione. Quindi la sussistenza dell' essere da se stessa e per propria essenza compresa, cioè il Verbo divino, racchiude necessariamente anche le idee, ossia le essenze delle cose creabili e contingenti; perocchè altramente non comprenderebbe perfettamente se stessa, se non comprendesse quelle limitazioni possibili, non sue, che lo farebbero cessare d' essere assoluto, dall' essere Dio, ma che costituiscono l' essere limitato e relativo, la creatura. Ora il Verbo, in quanto è la sussistenza divina che comprende i modi in cui può essere limitata, con che non è più sussistenza divina a cui è essenziale essere illimitata, è l' esemplare de' mondi possibili, l' idea de' contingenti. Le idee dunque dei contingenti appartengono al Verbo, ma non le cose contingenti, le quali non sono se non per un' operazione divina e libera che le fa sussistere e che si dice creazione. Ma qui s' intenda bene. Quando si parla de' modi in cui può essere limitata la sussistenza divina, non è che la sostanza divina riceva limitazioni, la quale non può riceverne. Ma, essendo essa l' essere, e l' essere potendo essere, il che si racchiude nel suo concetto, in due modi, illimitato e limitato; l' essere illimitato e immutabile è la sostanza divina, l' essere poi limitato è la creatura. Nella sussistenza divina vi ha dunque la possibilità delle creature, perchè vi ha l' essere che può essere limitato; ma non vi ha la creatura: vi ha la ragione per la quale la creatura può esistere, perchè vi ha l' essere il quale ha nel suo concetto di poter essere limitato. La possibilità poi della creatura è duplice, cioè logica e fisica . La possibilità logica è l' idea, ossia la ragione della creatura; la possibilità fisica è la potenza, ossia la causa efficiente della creatura, che è la virtù creatrice. L' essere assoluto adunque contenendo nel suo concetto l' idea dell' essere limitato, ossia della creatura, ed anche la virtù di porre, ossia rendere reale e sussistente quell' essere limitato manifesto nell' idea, egli ha tuttociò che bisogna per rendersi creatore, creatore dell' essere limitato, cioè della creatura, rendendola reale, sussistente. Il Verbo divino adunque, in quanto è sussistenza per sè intesa, ha l' idea delle cose contingenti; in quanto poi è sussistenza ha la virtù di crearle: onde la creazione è propria della sussistenza divina che crea secondo le idee che ha in se stessa in quanto ella è intesa per sè, ossia in quanto ella è Verbo: e però la creazione è una operazione che appartiene a tutta la Trinità che ha l' identica sussistenza. Conviene ancora che noi vediamo in che modo l' esemplare delle cose contingenti risieda nel Verbo. Questo esemplare è la conoscenza intima della virtù che ha essenzialmente la sussistenza divina di fare esistere l' essere in un modo limitato; è adunque ancora la sussistenza divina che conosce intimamente e per propria essenza se stessa e quindi la propria virtù. Di che procede primieramente che il Verbo e l' esemplare del mondo non sono due Verbi, ma è un solo, perchè è sempre la sussistenza divina conoscente e comprendente totalmente se stessa; ma in quanto si comprende come l' essere limitabile, cioè avente in sè la possibilità di ente limitato, in tanto fa ufficio di esemplare della realità o sussistenza limitata. Non è dunque una distinzione reale quella che si pone nel Verbo, considerandolo ora come immagine della sussistenza assoluta, cioè come sussistenza assoluta a sè cognita, ora come principio della cognizione del mondo, ossia come esemplare di questo; ma è un' astrazione nostra imperfetta, una considerazione dello stesso Verbo sotto due rispetti: vale a dire, con un rispetto alla sussistenza assoluta, e con un altro rispetto all' ente limitato, ossia alla possibilità di sussistere come ente limitato; la qual possibilità però è contenuta nella sussistenza assoluta costituendone la potenza e la sapienza. Nel concetto adunque dell' essere si contiene una sussistenza assoluta e la possibilità di sussistenze limitate. La possibilità di queste sussistenze limitate è logica in quanto è mera possibilità, cioè contenuta senza ripugnanza nel concetto dell' essere (idea del mondo); ed è fisica in quanto è potenza creatrice della sussistenza divina, cioè potenza che può fare che sieno le sussistenze limitate, non che sieno meramente possibili. La relazione di queste due possibilità è questa, che la possibilità fisica, ossia la potenza creatrice, preceda la possibilità logica ossia ideale, o conoscitiva. Perocchè la potenza creatrice è una forza reale, la quale si contiene nella profondità della sussistenza creatrice. Ma la sussistenza divina è per sè intesa totalmente; dunque anche la sua potenza creatrice è per sè intesa. Ma convien formarsi un giusto concetto di questa potenza divina, e non confondere la sua indole coll' indole della potenza umana che si trasmuta passando all' atto, perocchè in Dio non vi ha trasmutazione nè passaggio di potenza in atto essendo egli atto puro. Convien dunque riflettere che, sebbene in se stessa preceda la possibilità fisica degli enti finiti alla possibilità logica, e questa proceda da quella; tuttavia queste due possibilità non tengono lo stesso ordine nella mente umana, ma vi ha prima la conoscenza della loro possibilità logica, e dappoi la conoscenza della possibilità fisica. La ragione di ciò si è che l' uomo, secondo natura, non è e non ha la sussistenza cognita per se stessa, giacchè l' esser cognita per se stessa non appartiene se non alla sussistenza di Dio. Quindi l' uomo ha bisogno della possibilità logica, cioè delle idee per conoscere gli enti finiti sussistenti, che non sono cogniti per se stessi; laddove la possibilità logica, l' essenza ideale, è data all' uomo ed è cognita per se stessa. Qualora dunque l' uomo voglia conoscere a che s' estenda la possibilità fisica dell' essere, egli dee ricorrere alla possibilità logica, cioè vedere che cosa si contenga nell' idea o concetto dell' essere, e tutto ciò che vi si contiene segnerà la sfera della possibilità fisica, ossia della potenza creatrice di Dio. Ora nel concetto dell' essere si contiene tutto ciò che non repugna, tutto ciò che non involge contraddizione, perocchè l' essere nel suo concetto abbraccia tutto, meno la contraddizione. Nel concetto dunque dell' essere si contiene una sussistenza infinita e necessaria, e delle sussistenze finite possibili a realizzarsi, perchè non ripugna il concetto di enti finiti. Ma, se tutto ciò si trova nel concetto dell' essere, dunque tutto ciò è nell' essere stesso, altramente non sarebbe nel suo concetto, giacchè il concetto dell' essere suppone l' essere. Infatti il concetto dell' essere altro non è che il pensiero o la conoscenza di ciò che si contiene nell' essere. Dunque nell' essere si contiene la sussistenza infinita e necessaria, e la possibilità fisica delle sussistenze finite, cioè la potenza di realizzarle, la potenza che ha l' essere di sussistere in un modo finito. Dunque nel concetto dell' essere noi troviamo la dimostrazione dell' esistenza di Dio (già indicata da S. Agostino, da S. Anselmo e da altri), come quella che è condizione indispensabile dello stesso concetto dell' essere. E per seconda conseguenza troviamo la dimostrazione della potenza che dee avere l' Essere divino di realizzare degli enti finiti contenuti nel concetto appunto dell' essere. Finalmente per terza conseguenza deduciamo che, quantunque l' umana mente debba muovere il suo ragionamento, anzi ogni ragionamento dal concetto dell' essere; tuttavia rileviamo colla riflessione che il concetto stesso dell' essere suppone dinanzi a sè l' essere da cui proceda, cioè la sussistenza dell' essere. Altra è dunque la relazione che il concetto dell' essere e l' essere ha nella mente umana, dove quello precede e fa lume a questo; altra è la relazione che que' due termini hanno in se stessi, per la quale il concetto dell' essere procede dall' essere stesso sussistente per sè noto. Nel concetto dell' essere, diciamolo ancora, si contengono tre cose: 1 La sussistenza illimitata dell' essere; 2 la possibilità dell' ente limitato; 3 la potenza propria della sussistenza illimitata di fare che l' ente limitato sussista. Ma i limiti, che può ricevere l' ente limitato, sono tracciati nella sussistenza assoluta in modo da costituire altrettante idee specifiche realmente distinte? No, perchè la sussistenza assoluta non ammette limiti di sorte, e non ammette in se stessa alcuna moltiplicità o distinzione reale, perchè semplicissima, sebbene ad un tempo compiutissima. Laonde la sussistenza infinita tutto l' essere comprende, anche la possibilità dell' ente finito, e la potenza di farlo sussistere. La possibilità dell' ente finito s' estende a tutto il finito possibile, e la potenza s' estende a potere realizzare tutto il finito possibile; nè l' una nè l' altra ha confini. Onde vengono adunque i confini determinati e speciali dell' ente finito? Dalla potenza creatrice appartenente alla sussistenza divina: questa li determina e prescrive coll' atto con cui vuol crearlo. Di che procede che nel Verbo divino come tale non si contengono propriamente le idee specifiche e realmente distinte de' varii enti finiti, ma si contiene unicamente la possibilità dell' ente finito, il che è quanto dire l' idea dell' essere in universale; la quale, rispetto alla sussistenza divina come essere assoluto e illimitato, è la sussistenza per sè manifesta; rispetto poi all' ente finito non ancora sussistente è puramente idea . Ora, all' uomo secondo natura è comunicata l' idea dell' essere in universale, ma non la sussistenza divina per sè manifesta; e quindi non gli è comunicato il Verbo, ma una luce veniente dal Verbo. In tal modo, relativamente all' uomo, viene limitato l' essere per sè manifesto, per guisa che all' uomo rimane solo l' idea o il concetto dell' essere semplicemente, senza la sussistenza: onde riman perduta la nozione di Verbo e la nozione di Dio, perocchè il Verbo e Iddio non è ciò che è in qualsivoglia modo limitato. Qui si presentano facilmente al pensiero due questioni. La prima: « La divina potenza propria della divina sussistenza, e però dell' intera Trinità, fu quella che determinò quali speciali limitazioni dovesse avere l' ente finito ch' ella voleva creare; questa determinazione fu ella fatta a pieno arbitrio senza alcuna ragione? ». La seconda: « La divina potenza si determinò a creare il mondo senza ragione con cieco arbitrio? ». Alla prima questione rispondiamo, che la sussistenza divina, appunto perchè essenzialmente manifesta, è sapientissima; e però non poteva concepire a cui dar l' esistenza, se non un ente finito in cui risplendesse il carattere della sapienza che lo ideava e creava. Ma qual è il carattere della sapienza? E` l' ordine, cioè la disposizione della pluralità ordinata ad una perfetta ed ottima unità, e l' unità è ottima quando è riposta in un fine ottimo, il quale non può esser che Dio. L' universo adunque non poteva avere per fine dell' ultimazione sua altro che Dio, cioè la manifestazione della gloria di Dio, la qual gloria è la sua santità e la sua beatitudine, in una parola il suo perfetto ed assoluto Essere uno e trino. Questa manifestazione era una comunicazione di questa divina perfezione alla creatura. Tutto dunque doveva cospirare a ciò; perchè Iddio non poteva amare che se stesso, e l' ente finito non per lui, ma per se stesso. Ma, oltre la sapienza di questo ottimo fine che consumava tutta l' opera della creazione nell' unità del primo essere, doveva ancora risplendere la stessa sapienza nel modo con cui la pluralità degli enti tendesse in tale unità; e questo modo consisteva nell' ordine col quale dovevano essere incatenati e connessi fra sè gli enti finiti, con subordinazione delle serie delle cause seconde, e con leggi stabili, in modo da formare anche per questo di tutti gli enti un solo ordine, un solo universo. Ora qui nasce questa difficoltà. Non essendovi nella sussistenza divina altro ordine che quello delle persone, nè altra moltiplicità, nè altra distinzione reale, onde poteva Iddio trovare il canone della sapienza che prescrivesse quella concatenazione delle creature e delle cause seconde, e quella stabilità delle leggi? Si risponde, che questo canone si trova nella sussistenza divina, in quanto che la sussistenza divina, amando l' essere, cioè se stessa, infinitamente, doveva necessariamente voler produrre il maggior essere finito possibile colla menoma sua azione; di che procede che quest' essere dovesse essere ordinato, perchè dove vi ha ordine vi ha più essere che dove non vi ha (1). Quindi la connessione degli enti, la subordinazione delle cause, la stabilità delle leggi, ecc.. Medesimamente la divina sussistenza, amando se stessa, doveva volere che l' ente finito da lei prodotto ottenesse il massimo frutto, cioè partecipasse nella maggior copia possibile della natura divina: quindi di nuovo la necessità dell' ordine. L' ordine dunque, tanto nell' ambito della natura, quanto in quello soprannaturale della grazia, doveva essere il carattere di sapienza impresso all' opera di Dio. A questo si può aggiungere un terzo argomento, una terza via per la quale Iddio doveva volere ordinata l' opera sua; e questa via si è che non avendo nè potendo Iddio aver altro esemplare che se stesso, nè potendo l' ente finito esser altro che limitato e quindi soggetto alla moltiplicità, conveniva però che in questo risplendesse l' unità dell' ordine quanto più fosse possibile, acciocchè egli imitasse il più possibile l' Ente infinito. Dalla qual dottrina deriva che il creato non può esser che uno, benchè risultante da molte parti, da molti enti; uno l' universo, e quindi uno il concetto dell' universo nella divina mente: il qual concetto è la sapienza creata ab eterno coll' atto della creazione del mondo. Le cose tutte contingenti non sono adunque da Dio conosciute per molte idee staccate, ma per un' idea sola emergente dall' atto della creazione, che s' immedesima con quell' atto stesso, come diremo in appresso. Veniamo alla seconda questione: Iddio si determinò ciecamente piuttosto a creare il mondo che a non crearlo, o v' ebbe una ragione? Noi rispondiamo che l' essere è amabile a Dio: amando Iddio se stesso per essenza, egli ama l' essere in tutti i modi; quindi non solo ama l' Essere infinito, ma ama che sussista anche l' essere finito che imita per quanto può il primo. Se dunque ama che sussista, egli ha una ragione in se stesso di farlo sussistere ossia di crearlo: il che gli antichi espressero dicendo che « « il bene è di natura sua diffusivo »(1) ». Essendo dunque Iddio mosso a creare dall' amor di se stesso, col quale ama l' essere assoluto e tutti i modi ne' quali benchè limitati può sussistere l' essere imitando in quella guisa che può l' assoluto, faceva anche sussistere l' essere finito. Si opporrà che, se questa ragione avesse valore, non si vedrebbe più il perchè Iddio si sia limitato a creare quest' universo, e non abbia creato ancor più. Ma l' obbiezione si scioglie ove si consideri che Iddio era limitato nella quantità della creazione dai canoni della sapienza, la quale imponeva, come abbiamo veduto, 1 che l' universo avesse unità nel suo fine; 2 che avesse ordine ed unità nella sua costituzione e congiunzione fra sè; 3 che vi avesse subordinazione di cause e di effetti, stabilità di leggi, ecc.. Le quali condizioni è a credersi che non si potessero verificare in un modo più grandioso che con quella mole di creato, che Iddio ha condotto alla sussistenza, e che qualunque altra combinazione degli enti finiti possibili non si sarebbe prestata ad avverare quelle leggi sapientissime, secondo le quali opera per sua natura l' infinito Creatore. Ora si può dire che egli abbia fatto sussistere con la creazione tutto ciò che era possibile, salve le leggi della sua sapienza e santità. Ancora si obietterà che in tal caso Iddio non era libero al creare e non creare. Rispondesi che la libertà di Dio è perfettissima, perchè la sua essenziale santità e sapienza non limitano la sua potenza, ma la dirigono, e questa è la perfezione essenziale della libertà divina; onde avviene che Iddio non possa fare che il perfetto, e abbia una felice necessità di farlo, nel che consiste appunto la perfezione della divina libertà. E quindi ogni difficoltà sarà tolta quando si ponga ben mente che è cosa molto diversa il dire necessaria la creazione quanto è necessario l' amore che Iddio porta a se stesso, dal dire, come noi facciamo, che dall' amore necessario ed essenziale di Dio per se stesso rampolla l' atto libero della creazione, perchè è pur dottrina comune dei teologi che ogni atto d' amore di Dio benchè libero verso la creatura proviene dall' amore che ha Dio essenzialmente per se stesso, di guisa che suole attribuirsi ogni atto anche libero dell' amore divino allo Spirito Santo (1). Dalle quali considerazioni procede: 1 Che, quantunque l' ente finito creato potesse esser maggiore, più numeroso, se si riguarda la sola onnipotenza del Creatore; tuttavia non potea, se si riguardano gli altri attributi della sapienza e della santità, e quindi che l' ente finito che sussiste per creazione è tutto ciò che di finito poteva sussistere, salvi quegli attributi; 2 Che Iddio fu mosso a creare dall' amore che essenzialmente porta a se stesso, e quindi che la creazione fu fisicamente libera, benchè moralmente necessaria (2); 3 Che il tipo divino dell' universo è uno, e comprende tutto ciò che Iddio fece; 4 Che questo tipo non è diverso in Dio dall' atto della creazione col quale fu distinto e specificato, rimanendo indistinti nella sussistenza divina tutti que' modi co' quali l' ente finito potrebbe, se fosse creato più imperfettamente, imitare l' infinito; 5 Finalmente che questo tipo istesso non fu trovato da Dio per via d' alcun discorso, ma gli fu sempre presente ed appartiene al Verbo divino. Queste due ultime proposizioni esigono qualche dichiarazione. Come il tipo divino dell' universo non sia diverso dall' atto della creazione ma in questo compreso, s' intenderà considerando che la sussistenza divina non è screziata, non ha traccie in se stessa di limiti, ed ella stessa è la potenza di far sussistere l' ente finito. Onde i limiti di quest' ente, non essendo realmente tracciati nella sussistenza divina, convien dedurli dalla divina sapienza che liberamente li pone. Ora la sapienza divina non ha alcun discorso, ma è sempre consumata ed ultimata, onde sta presente a quell' atto libero di sapienza ed intelligenza il suo oggetto. Ma non trovandosi quest' oggetto finito determinato nella divina sussistenza, convien che sia determinato dalla sussistenza sua propria; la quale sussistenza ha luogo unicamente coll' atto di creazione. Convien dunque dire che l' atto eterno della creazione del mondo sia l' atto stesso della Sapienza che vede il mondo sussistente; onde è un atto efficace che vedendolo lo fa ad una sussistere, sicchè la sussistenza del mondo è l' oggetto posto liberamente dalla stessa Sapienza creatrice. Quest' atto unico adunque fa ad una due cose: vede il mondo, e vedendolo lo crea, trova quell' ente finito che nel miglior modo possibile imita l' ente infinito, ed il trovarlo ed il crearlo è il medesimo; il trova senza cercarlo, o piuttosto gli è continuamente trovato, perchè ab eterno lo ha trovato, essendo essenziale a Dio questa stessa attuale sapienza. Di che si vede ancora in che modo l' atto della creazione s' immedesimi coll' atto generativo del Verbo. Quest' atto è la sussistenza divina, in quanto, intendendo se stessa, rende se stessa manifesta; che è il Verbo. Ma rendendo se stessa manifesta, rende manifesto ad un tempo l' ente finito, che imita, come può, la sussistenza divina. Ora il rendere a se stessa manifesto l' ente finito determinato è un crearlo, come dicevamo. Vi ha però questa grande differenza fra l' atto generativo, come tale, e l' atto creativo: che quello è necessario, perchè la sussistenza divina è necessariamente per sè manifesta; questo è volontario, producendolo Iddio liberamente per l' amore che Iddio porta a se stesso, e perciò a tutto quello che lo imita. Dichiarato quanto potemmo, qual sia la natura del Verbo divino, che in greco dicesi «logos» da S. Giovanni, conviene che noi vediamo come i diversi significati di questo greco vocabolo convengano al Verbo. S. Girolamo a Paolino scrive di questa voce «logos»: « « Graece multa significat. Nam et verbum est, et ratio, et supputatio, et causa uniuscujusque rei, per quam sunt singula quae subsistunt. Quae universa recte intelligimus in Christo »(1) ». Ora egli è certo che, quantunque nessun vocabolo umano, cioè trasferito dalle cose umane a significare le divine, possa pienamente convenire a significarle; tuttavia con somma sapienza la Chiesa latina usò più spesso e consacrò la parola Verbum a significar quello che l' aquila degli evangelisti espresse con la parola «logos». E di vero la parola Verbum esprime più da vicino d' ogni altra la seconda persona della Triade augustissima, tanto se lo si consideri rispetto al Padre, quanto se lo si consideri rispetto alle creature. Consideriamolo sotto entrambi questi aspetti. Rispetto al Padre . - Primieramente la parola Verbo si applica a significare, come vedemmo, un atto conoscitivo dello spirito, il quale non è una semplice concezione o intuizione, ma è un pronunciato, un giudizio, un' affermazione; non è una mera notizia ideale, ma è insieme un' adesione persuasiva dello spirito all' oggetto reale. Quindi il termine di quest' atto affermativo non è una mera idea , ma una sussistenza . E però esso conviene mirabilmente alla seconda persona divina, che è l' Essere assoluto e sussistente manifesto per se medesimo in virtù d' un atto suo proprio sempre conosciuto e coeterno che lo rende manifesto, e così lo genera (2). La parola ragione all' incontro indica ben sovente un' idea in quanto serve a ragionare, cioè ad additare il perchè d' un fenomeno. Vero è che talora si trova questo perchè nella sua causa sussistente, onde S. Girolamo dice che «logos» indica ancora « causa uniuscujusque rei (loc. cit.) »; e in questo senso potrebbe convenire alla seconda persona della divina Trinità. Ma ciò che prima di tutto si dee osservare nel Figlio, non è di essere la ragione delle cose, ma di essere generato dal Padre. Oltracciò la parola ragione si adopera a significare la facoltà soggettiva di ragionare, nel qual senso non conviene al Verbo, se non in quanto il Verbo origina in noi questa facoltà, come diremo in appresso, o come dice S. Girolamo: « Quae universa recte intelligimus in Christo (loc. cit.) ». Osservano alcuni Padri che la parola «logos» conviene al Figliuolo, perchè questo procede dal Padre «apathos», cioè senza alcuna passione o corruzione del generatore, appunto come la notizia procede dall' animo (1). Ma non ogni notizia procede dall' animo. Chè le notizie ideali procedono dall' idea, la quale le dà all' animo che le riceve. All' incontro la parola interiore, cioè l' affermazione delle cose sussistenti, procede dall' animo, e però meglio conviene al Figliuolo la denominazione di Verbo. Tuttavia non è al tutto vero che il verbo dello spirito umano procede senza recare alcuna immutazione nello spirito stesso, perchè da lui procede come un accidente; laddove il Verbo di Dio non reca immutazione di sorta al Padre a cui è essenziale. S. Gregorio Nazianzeno e S. Basilio osservarono altresi un' altra analogia fra il significato del «logos» in sè considerato ed applicato al Verbo: cioè che, come il «logos» è intimo all' uomo, così il Figliuolo è intimo al Padre. La quale analogia ha maggior forza, se per «logos» s' intende la facoltà della ragione in quant' è fondata nell' intuizione dell' essere. Ma tuttavia siamo lontani ancora dal trovare in ciò una piena somiglianza, perchè l' essere ideale, intuito dallo spirito umano, nè è la sussistenza di questo spirito, nè con lui s' immedesima, altro essendo l' essere che informa lo spirito nostro, ed altro questo spirito nostro stesso; laddove il Figliuolo ed il Padre hanno la medesima sussistenza. Ma prima di proceder oltre raccogliamo tutte le principali differenze che si possono notare fra il verbo umano e il Verbo divino, acciocchè ci formiamo di questo, quanto ci sia possibile, un esatto concetto, e non mescogliamo con esso lui niente della nostra imperfezione. Queste differenze si possono ridurre a nove, le quali sono: 1 Il verbo umano si produce con un passaggio della potenza all' atto. Il Verbo divino non passa dalla potenza all' atto, ma è sempre in atto, sempre generato ab eterno. 2 Il verbo umano è un accidente dell' anima, di maniera che l' anima umana potrebbe esistere senza di lui, ed essa infatti esiste prima d' avere emesso alcun verbo, come sta nel primo istante della sua esistenza. Il Verbo divino è essenziale alla natura divina di maniera che questa natura non esisterebbe senza il Verbo, giacchè l' essere assoluto, cioè Dio, ha per sua propria essenza di dover esistere in tre forme che si dicono persone. Quindi non si può pensare in Dio una potenza anteriore alla generazione del Verbo, non solo anteriore cronologicamente, ma neppure logicamente; perocchè, se si pensasse questa potenza, ella sarebbe qualche cosa di anteriore a Dio, e nulla si può pensare che sia anteriore a Dio, perocchè Iddio è l' essere, e nulla si può pensare di anteriore all' essere. Qualora dunque a noi sembra di potere pensare una tale potenza, noi c' inganniamo; è un pensare limitato ed imperfetto che non raggiunge la verità. Nè pure si può pensare l' atto della generazione del Verbo in quell' istante (da noi erroneamente supposto) nel quale sia in fieri e non ancor fatto ed ultimato; perocchè quell' istante non esiste, essendo sempre fatto ed ultimato continuamente l' atto della generazione senza passaggio alcuno; atto immanente e semplice; atto primo, cioè l' atto stesso con cui è Dio; atto per conseguente che è Dio stesso. Avanti quest' atto compiuto non vi è nulla, nulla affatto da potersi concepire o pensare; la stessa parola compiuto è inutile ed inesatta, perchè viene a supporre la possibilità di pensarlo incompiuto , quando l' atto di cui si parla è per propria essenza compiuto, senza possibilità alcuna di uno stato incompiuto. 3 Il verbo umano è semplicemente un' interna affermazione che lascia nell' animo la persuasione e la notizia della cosa affermata, di maniera che si distingue il verbo che è transeunte dai suoi effetti immanenti che restano nell' anima per un certo tempo e anche per sempre. Il Verbo divino non è una mera affermazione, perchè nel tempo stesso ha anche ciò che v' ha di positivo nella nostra intuizione e nel nostro sentimento; nè egli è un atto transeunte, nè si distingue dai suoi effetti, perocchè egli è ad un tempo persuasione e notizia immanente, ma è ancora più di tutto ciò, e forse l' espressione che meno gli disconviene è quella che abbiamo detto di sentimento intellettuale . Oltre di ciò, pronunciando lo spirito umano molti verbi, l' analogia che passa fra il Verbo divino e l' umano, come ha osservato S. Agostino (1), si riscontra maggiormente rispetto a quel verbo umano, col quale l' uomo afferma e pronuncia se stesso, non rispetto agli altri verbi coi quali l' uomo pronuncia ed afferma le altre cose diverse da sè; perocchè il Verbo divino è la similitudine o immagine del Padre che lo pronunzia e lo genera, e così il verbo con cui l' uomo pronuncia se stesso è quello che rende l' uomo conoscibile a se stesso. 4 Il verbo umano si fa coll' unire la sussistenza delle cose contingenti colla loro essenza, le quali sono di lor natura distinte e separate, perocchè non è essenziale alle cose contingenti il sussistere; onde per conoscere la sussistenza conviene affermarla nell' essenza: il che si verifica anche quando pronunciamo ed affermiamo noi stessi, ossia il sentimento sostanziale come appartenente all' essere affermante, giacchè neppur noi siamo noti a noi stessi, ma è l' idea ossia l' essenza dell' essere che ci rende noti. All' incontro la sussistenza divina è anche essenza nota per se stessa, senza bisogno che alcun' altra cosa la renda nota; ed appunto l' essere ella per sè nota e per sè affermata, è ciò che la costituisce Verbo dell' atto essenziale intellettivo pel quale ella è tale. Non v' ha dunque a farsi una sintesi per costituire Iddio come oggetto, dico, fra la sua essenza e la sua sussistenza, perocchè questa è già per sè oggetto. Onde per ciò appunto questa è Verbo senza bisogno d' altro, senza bisogno di alcuna sintesi necessaria per oggettivare le realtà contingenti. 5 Oltrediciò, quando l' uomo pronuncia il suo verbo, l' essenza che egli unisce alla sussistenza sta bensì davanti alla sua mente, ma non è la sua mente che ha bisogno ella stessa di venire illuminata; quest' essenza è straniera al soggetto uomo che pronuncia il verbo, anche quando l' uomo pronuncia ed afferma se stesso. All' incontro Iddio Padre che pronuncia il Verbo non toglie altronde l' essenza, la quale è identica alla sua propria sussistenza, onde egli pronuncia se stesso con se stesso, si pronuncia continuamente, o piuttosto la sussistenza divina è continuamente pronunciata, resa continuamente manifesta a se stessa, perocchè è per essenza luce a se stessa. 6 Il verbo umano è molteplice, cioè l' uomo pronuncia molti verbi, perchè egli è un essere limitato escludente dalla sua sussistenza tutti gli altri esseri limitati, i quali sono molti ed esclusivi, ond' egli ha bisogno di pronunciare altrettanti verbi esclusivi, con ciascun dei quali afferma un ente limitato ed esclusivo. All' incontro il Verbo divino è uno solo che pronuncia l' Essere illimitato ed assoluto, cioè la sussistenza divina, e in questa pronuncia la possibilità fisica dell' essere finito, e l' atto della sua volontà che lo fa sussistere, e quindi la possibilità logica, ossia l' essenza, e ad un tempo la sussistenza dell' essere finito nella sua unità, nel suo ordine che lo renda un tutto solo ordinatissimo, qual è l' universo creato con tutti i suoi atti. Quindi egli è semplicemente Verbo, non mescolato di limitazioni, e compiuto Verbo. 7 Il verbo umano col quale l' uomo afferma le sussistenze finite, le quali cadono nel suo sentimento, altro non produce all' uomo se non la persuasione ossia la notizia della loro sussistenza, non produce le cose stesse. All' incontro il Verbo divino è costituente e produttivo. E` costituente della divina sussistenza, perchè a questa è essenziale l' esser Verbo, cioè l' esser per sè oggetto, per sè luce, per sè a se manifesta. E` produttivo delle creature perchè l' atto stesso, col quale le pronuncia, le vede amabili in se stesso, è un atto volitivo col quale le fa sussistere: onde S. Paolo dice di Dio: « portans omnia Verbo virtutis suae (1) ». E l' amabilità dell' ente finito ordinatissimo e completissimo è l' amabilità stessa della sussistenza divina, amabilità che viene partecipata dall' ente finito in quanto questo imita quella, sebbene limitatamente. . Il verbo umano, che è soltanto persuasivo, non è pratico, cioè operativo. Acciocchè l' uomo possa operare razionalmente deve fare un altro verbo o giudizio pratico, col quale dica internamente che l' azione che farà è a lui buona. Questo secondo verbo volontario è il principio nell' uomo delle sue azioni razionali. Se questo verbo non riguarda che l' amore razionale con cui può l' uomo aderire ad una cosa, si può dire che quell' amore si immedesimi in qualche modo a quel verbo pratico, o ne sia un' estensione, una continuazione, o, se si vuole, un compimento. Ma se la cosa giudicata soggettivamente buona con questo verbo pratico dell' uomo è un' azione spettante a qualche altra potenza inferiore, in tal caso l' azione, che si muove in conseguenza del verbo, è affatto distinta dal verbo stesso. Tutte queste distinzioni non cadono nel Verbo divino, col quale Iddio opera. Imperocchè, quantunque la creazione del mondo sia un atto volontario e libero di Dio, tuttavia quest' atto è determinato moralmente dall' amabilità del mondo in quanto imita, nel miglior modo che può l' essere finito, la sussistenza divina, amata per natura, nella quale è amato il mondo. Conciossiachè appartiene alla perfezione dell' Essere divino che sia per essenza morale, e che perciò abbia per essenza amore al mondo. Onde l' atto stesso essenziale alla divina sussistenza (a cui è pure essenziale la libertà) è quello con cui è creato il mondo, e però con quell' unico atto, chè altri non ne sono in Dio, ella opera tutto ciò che opera ad extra; e quest' atto è quell' unico Verbo, col quale vede e pone ad un tempo le finite sussistenze. 9 Finalmente il verbo umano riceve dal Verbo divino tutti gli elementi di cui egli si compone. Perocchè 1 riceve le essenze delle cose, ossia la possibilità dell' ente finito che diviene il lume di sua ragione; 2 riceve le sussistenze finite ch' egli afferma col suo verbo persuasivo, e le azioni ch' egli afferma buone a sè soggetto col suo verbo pratico, perché tutto ciò riceve il sussistere dell' atto del Verbo divino; 3 finalmente l' atto stesso soggettivo dell' affermazione e del giudizio è posto in essere dal Verbo, nel quale e pel quale sono fatte tutte le cose. Il Verbo divino all' incontro nulla riceve da un maggiore di sè, ma solo dal Padre, a cui è uguale, perchè è la sussistenza divina per sè intesa, cioè intesa per un atto suo proprio d' intelligenza che la rende intesa, la rende oggetto reale a sè, soggetto del pari reale. Sotto questo aspetto non di meno il verbo pratico umano ha un' analogia maggiore del verbo persuasivo col Verbo divino, in quanto che quello produce un affetto, e anche, conseguentemente all' affetto, un' altra azione; e però è in qualche modo produttivo come causa seconda, com' è produttivo il Verbo divino non solo di azioni ma ancora di sostanze. I verbi umani poi deontologici, cioè quei giudizi che pronuncia l' uomo sulla convenienza delle cose, hanno una speciale analogia col Verbo divino, di cui sono privi gli altri verbi umani; perocchè la convenienza delle cose non potrebbe essere pronunciata dall' uomo se non fosse prima pronunciata da Dio, nella cui natura Iddio vede qual sia l' essere finito complesso di più enti convenientissimi, e col vederli li rende tali. Onde i verbi o giudizi deontologici dell' uomo si possono dire ripetizioni di ciò che ha pronunciato ab eterno Iddio quando ha generato il suo Verbo. [...OMISSIS...] . - Dobbiamo ora considerare il Verbo rispetto alle creature, e vedere come anche in relazione a queste la parola Verbo si applica convenientemente alla seconda persona dell' augustissima Triade. Abbiamo già detto che verbum, ossia parola, significa tanto un pronunciato interno dello spirito umano, quanto un pronunciato esterno espressione dell' interno. Il primo fa conoscere il pronunciato (la cosa pronunciata) allo spirito pronunciante, il secondo è ordinato a compire, rinforzare, mantenere più fermo dinnanzi alla mente dell' uomo il suo pronunciato, e principalmente a farlo conoscere ad altre intelligenze. Qui si rileva un' altra analogia fra il verbo umano e il Verbo divino: perchè anche il Verbo divino, in quanto è la sussistenza divina pronunciata, ha una relazione col Padre; in quanto è il mondo pronunciato da Dio, è un cotal compimento del primo, in quanto è ancora la sussistenza divina imitabile e imitata dall' ente finito, e in pari tempo ha relazione colle creature che per quel Verbo sussistono, ed imitando, come possono, l' essere infinito, lo esprimono e manifestano a se medesime, cioè all' intelligenza finita. In vero la sussistenza divina non sarebbe compiutamente pronunciata, se in questo pronunciato, ch' ella stessa fa, non si contenesse anche la possibilità fisica dell' ente finito che in essa risiede. La stessa sussistenza senza il pronunciato di sè, cioè senza il Verbo, non sarebbe completa. Per la stessa ragione non sarebbe completa ed ultimata se ella non fosse amabile ed amata da se stessa, e quindi se non amasse l' ente finito che la imita, essendo sua proprietà quella d' essere imitabile; onde segue che pronuncia liberamente, in conseguenza di tale amore, l' ente finito ordinatissimo da lei amato, e pronunziandolo pone ad un tempo la sua essenza determinata e la sua sussistenza. L' essere intelligente finito è la più nobil parte del creato, e l' altre cose sono fatte per lui; possono essere da lui conosciute ed usate: egli poi è fatto per Iddio, cioè per conoscerlo ed amarlo. Il mondo dunque fu fatto perchè Iddio si rendesse manifesto alle intelligenze finite, e queste ne celebrassero la grandezza, ed esultando in questa cognizione di Dio grande e glorioso, ne godessero, e partecipassero della sua perfezione e felicità. Ma la manifestazione delle cose divine alle finite intelligenze comincia pure coll' atto del crearle, perocchè le intelligenze sono tostochè è loro dato l' essere essenziale ideale, per sè manifesto. Il qual essere, essendo per natura sua manifesto, non si dà in altro modo che col manifestarsi. Ora l' essere ideale risplendente nel soggetto creato è un' appartenenza del Verbo divino, perchè è la possibilità logica dell' essere finito che nella divina sussistenza pronunciata da se stessa risiede. Mediante l' essere essenziale per sè manifesto a noi comunicato, noi pronunciamo il nostro proprio sentimento e tutto ciò che cade in esso: cioè gli agenti che in esso operano e lo modificano, e queste stesse modificazioni come determinazioni nostre e come determinazioni degli stessi agenti; in una parola pronunciamo tutte le sussistenze finite in quanto al nostro sentimento appartengono. Il pronunciarle è il conoscerle, e il pronunciare è un dire « che cosa sono », e il dire che cosa sono è un conoscerne l' essenza; onde la cognizione nostra de' reali sta nel riferire il sentimento contingente, e ciò che cade in questo sentimento, all' essenza; ossia nel congiungere il contingente col necessario, il temporaneo coll' eterno, il creato coll' increato e divino, così completandolo. Il che fu preso da Niccolò Malebranche come un vedere le cose in Dio, ma la frase non è accurata, perocchè non si dice vedere una cosa in un' altra se non si vede anche l' altra. Onde si potrebbe correggerla così: apprendere le cose sussistenti nelle loro essenze, le quali sono in Dio, benchè da noi non si veggano in Dio. Ora questa maniera, onde noi conosciamo le sussistenze finite per un' affermazione o verbo, ha un' analogia speciale col Verbo divino. Perocchè, come Iddio è manifesto a se stesso e in se stesso conosce tutte le cose; così noi conosciamo tutte le sussistenze contingenti in noi stessi, cioè nel nostro sentimento nel quale elleno sono ed agiscono: ma colla differenza che il nostro sentimento è oscuro, perchè non è essenza, e quindi dobbiamo vederlo nell' essenza per conoscerlo; laddove il sentimento divino è l' essenza stessa, e perciò è noto per se stesso. Onde la conoscenza nostra del mondo (gli oggetti sussistenti da noi affermati) è una manifestazione analogica del Verbo divino. Ma l' essenza da noi intuita dell' essere, benchè sia un' appartenenza dell' essere, tuttavia non è il Verbo, perchè non è l' essere attuato, ma l' essere in potenza; non è la sussistenza, ma la pura essenza. Il mondo conosciuto nè pur esso è il Verbo, ma ha solo un' analogia col Verbo divino. L' uomo dunque non conosce per natura il Verbo, non lo percepisce per sua natura; e quindi le speculazioni della ragion naturale non giungono se non ad averne un cotal concetto negativo ed analogico. Di qui la deficienza del platonismo circa la dottrina del Verbo, che venne da quella scuola assai sovente confuso colle idee. Il Verbo non si percepisce e conosce positivamente se non per una comunicazione che fa di sè all' uomo il Verbo stesso, la quale perciò si dice soprannaturale, perchè non viene dalla natura finita, ma immediatamente dall' Essere infinito sussistente superiore alla natura. La comunicazione adunque del Verbo all' uomo è un fatto, non è un ragionamento dell' uomo; è un' immediata appercezione la quale umilia l' uomo, perchè gli fa sentire e conoscere la deficienza della sua natura incapace per sè sola di elevarsi all' unione con Dio, e la impotenza della sua ragion naturale di raggiungere positivamente l' essere assoluto. Ora da questa umiliazione ripugna la superbia de' filosofi, i quali credono di possedere la scienza perchè possedono l' errore; l' errore dico di prendere l' idea pel Verbo; nè vogliono conoscere e confessare la propria ignoranza, onde chiudono la porta in faccia al Verbo che loro si manifesterebbe se lo volessero ricevere. Di qui si può tracciare la linea di confine fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale, fra la dottrina de' filosofi e la comunicazione reale che il Verbo divino fa di se stesso agli uomini: e la fece compiuta nell' incarnazione; a misura per la grazia che ai suoi fratelli comunica il Verbo incarnato. S. Agostino la osservò e la descrisse accuratamente in queste ammirabili parole che a Dio sono indirizzate: [...OMISSIS...] . Dal qual bellissimo luogo del gran Dottore d' Ippona si raccoglie che l' intendimento umano potè speculare sul Verbo interno di Dio, cioè almeno potè ricevere, senza ripugnanza, la divina rivelazione intorno ad esso appropriandosela, perchè infatti tutta conforme e armonica coll' intelligenza; ma che all' opposto tutta quella parte che riguardava il Verbo esterno di Dio, cioè le operazioni e le manifestazioni del Verbo agli uomini, le quali non sono in egual modo razionali, ma positive e di conseguente si debbono ammettere coll' ossequio della fede a Dio rivelante, non furono ricevute dalla superbia dei filosofi, che tutto volevano trarre dal proprio raziocinio, tutto attribuire all' opera del proprio ingegno, magnificando di tali invenzioni se medesimi. E questa ripugnanza di ammettere le manifestazioni volontarie e positive del Verbo è il fenomeno che deve manifestarsi all' uomo naturale privo della grazia. Perocchè l' uomo naturale non sente Iddio, e però della manifestazione esterna di Dio non percepisce che la parte materiale, e non la parte divina in quella investita. Non crede adunque a questa perchè non la sente. Conviene osservarsi che la manifestazione esterna o comunicazione del Verbo alle create intelligenze si fa per opera dello Spirito Santo. Per opera di questo divino Spirito si fece l' incarnazione che è la comunicazione massima del Verbo all' umanità: « Spiritus Sanctus superveniet in te et virtus Altissimi obumbrabit tibi (1) ». Per opera di questo stesso Spirito si fece l' antica rivelazione per man de' Profeti, di cui dice S. Pietro: « Spiritu Sancto inspirati locuti sunt sancti Dei homines (2) ». E siccome i profeti inspirati dallo Spirito Santo pronunciarono e scrissero intorno al Verbo di Dio, così le loro parole non potevano essere intese, nè le loro scritture interpretate senza che lo Spirito Santo ne dèsse alle menti l' intelligenza, significando internamente ciò che esternamente suonavano le parole, onde lo stesso S. Pietro insegna: « omnis prophetia propria interpretatione non fit (3) ». Ma ciò che i profeti annunziarono del Verbo di Dio e della salute che questo avrebbe data agli uomini venendo al mondo, benchè fosse cosa inspirata dallo Spirito Santo e si riferisse al Verbo divino, contenendo un lume interno celeste, tuttavia non conteneva propriamente lo stesso Verbo divino, che doveva esser dato personalmente agli uomini coll' incarnazione, ma soltanto conteneva l' annunzio di esso Verbo, il quale annunzio perchè sia inteso suppone una qualche cognizione generale o anche una certa percezione del Verbo stesso, ma non la percezione compiuta o personale dello stesso Verbo. Onde S. Pietro distingue questi due gradi, o piuttosto queste due specie di luce spirituale, l' una propria dei santi dell' Antico Testamento e specialmente dei profeti, l' altra propria dei santi del Nuovo e specialmente degl' immediati discepoli del Verbo incarnato. Dei primi dice che andavano scrutando in che tempo e quale lo spirito di Cristo significasse in essi dover avverarsi e le passioni e le posteriori glorie di Cristo, ma in pari tempo dice che non ministravano a se stessi, ma a' futuri cristiani quelle cose che annunziavano: « Quibus revelatum est quia non sibimetipsis, vobis autem ministrabant ea quae nunc nuntiata sunt vobis per eos qui evangelizaverunt vobis, Spiritu Sancto misso de coelo, in quem desiderant angeli prospicere (4) ». Ed altrove paragona il lume antico ad una lucerna che luce in luogo caliginoso, e il lume nuovo portato da Cristo all' astro della luce: « Et habemus firmiorem propheticum sermonem, cui benefacitis attendentes quasi lucernae lucenti in caliginoso loco, donec dies elucescat et lucifer oriatur in cordibus vestris (5) ». Il Verbo dunque è comunicato agli uomini per mezzo della operazione interiore dello Spirito Santo, il quale produce anche l' annunzio e la significazione esteriore e sensibile del Verbo; ma questa non può essere intesa senza una nuova operazione interiore del medesimo Spirito che la faccia intendere. Onde la distinzione che fa S. Paolo, parlando dell' intelligenza delle Scritture, fra la lettera e lo spirito delle medesime, dicendo che « littera occidit » (perchè non facendole intendere neppure dà la forza di osservarle), « Spiritus autem vivificat (1) ». Il che medesimamente si avverò nel Verbo incarnato, l' umanità del quale era sensibile a tutti gli uomini, la quale è come la lettera: onde a quelli, che per propria colpa non vedendo che l' umanità non giungono alla fede della divinità, ritorna la loro cognizione a morte, secondo la profezia: « Ecce positus est hic in ruinam »; laddove a quelli, che credono nella divinità, ritorna la loro cognizione a vita « et in resurrectionem multorum (2) ». Onde Cristo è continuamente nella Scrittura paragonato ad una pietra che serve di fondamento a quelli che si edificano sopra di lui come pietre vive formanti il tempio di Dio, e nello stesso tempo è inciampo e morte a coloro che danno in esso di cozzo: similitudine che Cristo stesso dichiarò a sè appartenere: « Nunquam legistis in Scripturis: Lapidem quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est in caput anguli? A Domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris. Ideo dico vobis quia auferetur a vobis regnum Dei, et dabitur genti facienti fructus ejus. Et qui ceciderit super lapidem istum, confringetur; super quem vero ceciderit, conteret eum (3) ». Ed il doppio essere di Cristo, cioè l' umano visibile agli occhi carnali, e il divino che si rivela solo alle anime per opera dello Spirito Santo, è significato altresì dal chiamarsi egli e figliuolo dell' uomo e figliuolo di Dio . Onde l' interrogazione di Cristo a Pietro: « Quem dicunt homines esse filium hominis », la quale viene commentata così da S. Ilario: « Dominus enim dixerat: Quem me homines esse dicunt filium hominis? Et certe filium hominis contemplatio corporis praeferebat. Sed addendo: Quem me esse dicunt, significavit, praeter id quod in se videbatur, esse aliud sentiendum: erat enim hominis filius. Quod igitur de se opinandi judicium desiderabat? Non illud arbitramur quod de se ipse confessus est, sed occultum erat de quo quaerebatur in quod se credentium fides debebat extendere (4) ». Or questa cosa occulta ed invisibile agli occhi carnali non poteva essere rivelata che dall' operazione interna da Dio; onde, quando S. Pietro rispose anche a nome degli altri Apostoli: « « Tu sei il Cristo figliuolo di Dio vivo » », allora ebbe da Gesù quel magnifico elogio: « Beatus es Simon Bar7Jona: quia caro et sanguis non revelavit tibi, sed Pater meus qui in coelis est (1) », con quel che segue. Dalle quali parole si raccoglie primieramente che la carne ed il sangue, cioè il sentimento animale, non può dare la percezione del Verbo, nè di cosa che al Verbo assomigli; e che questa perciò deve venire da una fonte soprannaturale, giacchè le percezioni tutte naturali dell' uomo appartengono ai sentimenti animali, ai quali applicando l' essere ideale egli forma per via di diverse operazioni la naturale sua scienza. Di poi, che il Padre rivelò a S. Pietro la divinità del Verbo incarnato, attribuendosi al Padre l' operazione dello Spirito, perchè questo dal Padre procede come da fontale origine dell' augustissima Triade. E nulla di meno S. Pietro non avrebbe avuto la mozione e l' occasione di emettere quell' atto di fede, se non avesse avuto sotto i sensi l' umanità di Cristo, la quale era così come l' espressione esterna del Verbo dal quale era assunta e dal quale riceveva una divina virtù. Alla stessa maniera S. Tommaso non avrebbe confessata la divinità di Cristo se non avesse vedute e toccate forse le cicatrici gloriose della sua passione. Dalle quali cose tutte vogliamo concludere: 1 Che altra è la scienza negativa ed analogica del Verbo che può aversi anche colla ragione naturale e colla lettera della rivelazione; altra è la cognizione positiva e percettiva che non s' ha se non per una operazione occulta del Santo Spirito nell' anima umana; 2 Che questa operazione del Santo Spirito è preceduta ed accompagnata da una esterna e sensibile cosa, qual è la lettera nella rivelazione e la stessa umanità di Cristo nell' incarnazione; e che questo segno ed espressione sensibile viene avvivato ed interpretato dallo Spirito che opera interiormente per modo che l' anima insieme con essa percepisca almeno in un modo incoato il Verbo, e quindi ne intenda la positiva significazione. Il qual segno sensibile così interpretato ed inteso viene detto acconciamente la parola esterna di Dio, verbum oris, a differenza del verbum cordis; 3 Finalmente, e questo è quello a cui mirava principalmente tutto il nostro discorso, che imprimendosi in noi il Verbo divino per una operazione dello Spirito Santo, che è quasi il dito che in noi l' imprime; e lo Spirito Santo, che è lo stesso spirito di Cristo, essendo l' essere nella sua forma morale; importa, quand' è da noi consentito o quando non è da noi posto ostacolo, un effetto morale in noi, pel quale ci santifica. E perocchè il morale abbraccia l' umiliazione, la mortificazione, il sacrificio; perciò la percezione soprannaturale e viva del Verbo conduce l' anima a compiacersi nella santità del Verbo, e quindi a riconoscere, amare ed imitare la sua esinanizione, la sua passione, e la gloria veniente da questa ultima perfezione di virtù che nella pazienza e nel sacrificio dei beni naturali è consumata. Ora a questo ripugna la natura e la superbia de' filosofi, e però rimane loro nascosto tutto ciò che appartiene alla comunicazione positiva, vivace e santa del Verbo, le dottrine mistiche, e i santi affetti e i sublimi effetti che indi derivano. Onde maggiormente si scorge qual sia la linea di separazione fra la scienza naturale e la cristiana sapienza. Onde S. Agostino, nuovamente osservando quante cose manchino alla sapienza de' filosofi più celebrati come sono stati i Platonici, sapientemente le annovera in queste dolcissime parole: « « Non habent illae paginae vultum pietatis hujus, lacrimas confessionis, sacrificium tuum, spiritum contribulatum, cor contritum et humiliatum, populi salutem, sponsam civitatem, arrham Spiritus Sancti, poculum pretii nostri ( Ps. 2, 11). Nemo ibi cantat: Nonne Deo subjecta erit anima mea? ab ipso enim salutare meum. Etenim ipse est Deus meus et salutaris meus, susceptor meus, non movebor amplius . Nemo ibi audit vocantem: Venite ad me qui laboratis, etc.. Dedignatur ab eo discere quoniam mitis est et humilis corde; abscondisti enim haec a sapientibus et prudentibus et revelasti ea parvulis (Matth. I, 25). Et aliud est de sylvestri cacumine videre patriam pacis, et iter ad eam non invenire, et frustra conari per invia, circumsidentibus et insidiantibus fugitivis desertoribus cum principe suo leone et dracone: et aliud tenere viam illuc ducentem cura coelestis imperatoris munitam, ubi non latrocinantur qui coelestem militiam deseruerunt. Vitant enim eam sicut supplicium »(1) ». Laonde apparisce oggimai in che e quanto differisca la filosofia naturale dalla scienza de' santi che san Bernardo espresse compendiosamente scrivendo: « Haec mea sublimior interim philosophia scire Jesum, et hunc crucifixum (2) ». Vi ha dunque una scienza naturale, e una scienza o piuttosto sapienza soprannaturale. Quale è il principio dell' una, quale dell' altra? Cioè quale è quel primo lume onde deriva all' uomo la prima? e quale è quel primo lume onde deriva all' uomo la seconda? Il principio della scienza naturale è l' idea, ossia l' essere ideale; il principio della scienza soprannaturale è il Verbo, cioè l' essere reale per sè manifesto. Le divine scritture, che contengono la scienza soprannaturale nella sua esterna espressione, c' insegnano appunto qual sia il principio di essa, giacchè dicono: « Fons sapientiae Verbum Dei in excelsis (1) ». Nel qual luogo le parole in excelsis, che si tradurrebbero « nei luoghi eccelsi », indicano appunto l' ordine soprannaturale del sapere, giacchè ottimamente ciò che è al dissopra della natura si colloca metaforicamente nei luoghi eccelsi, come ciò che spetta alla natura si colloca sulla terra . E di qui si vede, quanto era conveniente che l' evangelista incominciasse ad annunziare il Verbo salendo al principio di tutta quella sapienza che fu data agli uomini da Gesù Cristo, e così ponesse la prima pietra dell' edifizio teologico, il Primo teologico. Il che serve bensì a rispondere alla domanda che si fa il Crisostomo perchè l' Evangelista cominciasse piuttosto dal Verbo che dal Padre, quantunque il Padre sia il principio del Verbo. Perocchè si risponde che altro è l' ordine della processione delle persone fra loro, altro è l' ordine con cui si manifestano nella mente umana. In questo il primo che si rende manifesto è il Verbo, il quale è l' Essere per sè manifesto, ed è pel Verbo che si conosce il Padre. Onde Cristo disse: « « Padre, io ho manifestato il nome tuo agli uomini che tu mi hai dati »(2) ». E quantunque il Padre tragga gli uomini al Figlio (3), tuttavia questo traimento è nell' ordine dell' azione e non in quello della cognizione, e però resta nascosto agli uomini fino a che non hanno conosciuto il Figlio che lo manifesta. Così parimenti, quantunque sia lo Spirito Santo quello che mandato dal Padre mostra all' anime e quasi forma in esse il Verbo, tuttavia anche quest' operazione dello Spirito Santo rimane occulta, nell' ordine delle azioni e non delle cognizioni, fino a che gli uomini, avendo conosciuto il Verbo, non vengono per questo a conoscerla. Laonde degli stessi Ebrei prima di Cristo dice S. Tommaso d' Aquino che non conoscevano il Padre « in ratione Patris, sed ut Deus (1) », appunto perchè « Filius ignorabatur (2) ». E questa ignoranza, che avevano gli Ebrei del Verbo, della quale parla S. Tommaso, non conviene già intendersi d' una ignoranza totale, ma del mancar loro la cognizione positiva e personale del Verbo, la quale non s' ha se non per quella percezione che fu data agli uomini quando il Verbo personalmente prese carne umana. Perocchè egli è indubitato che gli Ebrei avevano: 1 la cognizione razionale del Verbo divino, che, come dicevamo, è negativa ed ideale; e a noi sembra assai probabile che la scuola Italica e Platonica avessero dallo stesso fonte tratte le loro dottrine filosofiche intorno al Verbo, e che i nuovi Platonici le avessero prese massimamente dalle scuole ebree esistenti in Alessandria prima di Cristo, dove fra gli altri filosofi ebrei fioriva Aristobolo. 2 Che la cognizione che ebbero gli Ebrei del Verbo, era anche più che filosofica, benchè non giugnesse alla percezione del Verbo; e ciò perchè non mancava presso l' Ebraica Chiesa la grazia Deiforme, che dava una cotal percezione della Divina sussistenza; il che si può argomentare da questo principio che la grazia è sempre corrispondente alle parole rivelate che la esprimono sensibilmente; onde, essendo rivelata la unità di Dio ed i suoi attributi, conveniva che quest' oggetto di quella antica rivelazione fosse avvivato dalla percezione spirituale, acciocchè dèsse un effetto soprannaturale all' anime e interpretasse la lettera collo spirito. Ora da questa percezione incoata di Dio doveva venirne un riflesso spirituale e divino anche alla cognizione razionale e naturale del Verbo di Dio. A questo si aggiunge che l' antica Chiesa ebbe rivelazione di molte verità dogmatiche e morali, e ciò col ministero degli Angeli (3), che le somministravano ai santi uomini e a' più eminenti eletti da Dio acciocchè le comunicassero agli altri. Onde « « Abramo desiderò di vedere il giorno di Cristo, lo vide e n' esultò »(4) », e così è da dirsi degli altri a cui altre cose furon mostrate. Le quali non si riducevano certamente a cognizioni meramente naturali di ragione, o storico7naturali, ma dovevano essere accompagnate dalla grazia e dal lume interiore che convien sempre ridursi a una percezione intellettiva di quelle verità stesse che sensibilmente eran segnate. Ma il Verbo a cui ministravano gli Angeli, non era tuttavia quello che parlava agli uomini, nè loro si mostrava personalmente parlante; e però non avean gli uomini la percezione personale del Verbo rivelante, ma solo alcuni doni e lumi di lui come Verbo rivelato. Il che insegna chiaramente S. Paolo agli Ebrei nelle prime parole della sua meravigliosa lettera a loro diretta, che ancor si conserva: « Multifariam multisque modis olim Deus loquens Patribus in Prophetis, novissime diebus istis locutus est nobis in Filio (1) ». Tuttavia era anche allora Iddio che parlava , sebbene per mezzo degli Angeli che rivelavano ai Profeti le verità che questi comunicavano agli altri uomini. Per ciò le verità rivelate si chiamano anch' esse parola di Dio . E sebbene quelle verità sieno molte, tuttavia non si dicono parole di Dio , ma sì bene in singolare parola di Dio . E ciò assai acconciamente, perocchè la parola di Dio è una, è uno il suo Verbo, nè propriamente Iddio dice altra parola che il suo Verbo. Conviene adunque dichiarare come le molte verità, rivelate nell' antica e nella nuova legge, si riducano tutte al Verbo divino, sieno appartenenze di Lui, e quindi contengano qualche rivelazione soprannaturale del Verbo medesimo; sebbene con esse il Verbo divino non siasi ancora manifestato agli uomini personalmente. E` dunque a considerare che la grazia , la quale consiste in un' azione deiforme che Iddio immediatamente esercita nelle anime umane, è divisibile. S. Paolo parla spesso della divisione delle grazie, e in un luogo dice: « Divisiones gratiarum sunt, idem autem Spiritus (2) ». In un altro poi: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi (3) ». Tutte le speciali verità rivelate sono adunque doni di Cristo, ma non sono ancora Cristo manifestato espressamente agli uomini, non sono il Verbo comunicante loro personalmente se stesso. Il che è da vedere diligentemente come sia. La differenza, fra le speciali verità rivelate co' morali effetti che ne conseguono e il Verbo sta in due cose: 1 Che in quelle verità non giace la comunicazione della persona stessa del Verbo, ma solo de' suoi doni. 2 Che appunto per ciò quelle verità sono molte, laddove il Verbo, al quale però si riducono, è uno. Noi dobbiamo svolgere l' una e l' altra di queste differenze, e, svolgendo la seconda, vedere come la moltiplicità delle verità e delle grazie si riducano nulladimeno all' unità del Verbo. Le speciali verità rivelate si presentano all' uomo unicamente nella forma oggettiva. Ora, quantunque il Verbo sia l' essere per sè manifesto, e quindi medesimo per sè oggetto, tuttavia, essendo egli in pari modo la sussistenza divina, non può non essere soggetto e persona, di maniera che egli è un soggetto per sè oggetto. Ma nelle speciali verità rivelate, appunto perchè esse non si rappresentano che come oggetto, rimane nascosta la soggettività, e quindi la personalità del Verbo. Laonde nell' antica rivelazione il Verbo non si comunicò personalmente agli uomini. Ma, quando egli prese carne umana ed ammaestrò gli uomini, ed alle sue parole esteriori rispose la grazia interiore che diede agli uomini la percezione del Verbo parlante e operante, la quale perciò si può chiamare Verbiforme; allora gli uomini appresero la stessa persona del Verbo vestita dell' umanità che ne comunicava gli influssi. Che cosa sono adunque le verità speciali dell' antica e nuova rivelazione, e le grazie speciali che le accompagnano? - Certo sono doni del Verbo, non ancora il Verbo stesso. Ma di più sono appartenenze del Verbo, le quali in lui non sono nè divise fra loro, nè divise dalla personalità, ma sono divise nell' uomo a cui vengono comunicate, e in questo stato di divisione non mantengono più l' identità col Verbo, di maniera che si possano dire la Parola sussistente di Dio, ma però dalla loro origine tengono de' caratteri divini, come sarebbero l' immutabilità, l' eternità, una certa virtuale totalità, ecc., i quali bastano perchè si riconoscano quali appartenenze del Verbo divino, e in lui si rifondano, e quindi si chiamino altresì parola di Dio . Nel che però è da osservarsi che v' hanno delle appartenenze del Verbo naturali , e delle appartenenze del Verbo soprannaturali , onde convien vederne la differenza. La differenza fra il lume naturale e il lume soprannaturale fu da noi collocata in questo che il lume naturale è semplicemente ideale , laddove il lume soprannaturale è anche reale , perocchè in questo vi ha un' azione della sussistenza divina nell' anima umana: di maniera che l' atto che fa l' anima nel ricevere il lume naturale dicesi intuizione, laddove l' atto che fa l' anima nel ricevere il lume soprannaturale merita il nome di percezione . Il lume naturale è l' essere ideale per sè oggetto, e quindi questa si può chiamare un' appartenenza ideale del Verbo divino; laddove il lume soprannaturale, che accompagna le verità rivelate a cui prestiam fede, è l' essere reale, ossia la divina sussistenza, e quindi questa si dee chiamare un' appartenenza reale dello stesso Verbo . Rimane a spiegare come le speciali verità rivelate sieno molte, laddove la parola di Dio, il Verbo è uno. A tale intento egli è uopo osservare come tutte le verità naturali, tutte le idee si riducono ad una, cioè all' idea dell' essere ; così somigliantemente tutte le verità soprannaturali si riducono ad una, cioè alla Verità sussistente, all' Essere reale soggetto per sè oggetto, che è il Verbo. Ora come, essendo una l' idea , questa poi si trasmuta in molte che chiamiamo più propriamente concetti? Questo accade per tre cagioni: 1 per la moltiplicità delle sostanze create, ognuna delle quali, attesa la loro limitazione, è esclusivamente in se stessa fuori di tutte le altre. Onde avviene che, quando applichiamo l' essere ideale a conoscere l' una di esse, con questo non conosciamo punto l' altra, ma abbiamo una notizia esclusiva affatto separata dalla notizia di tutte l' altre cose. 2 Da questa moltiplicità di sostanze finite nasce una moltiplicità di rapporti pure esclusivi, e limitato ciascuno a se stesso: onde di nuovo procede una moltiplicità di notizie mediante altrettante applicazioni dell' essere a più sostanze che si raffrontano per rilevarne le varie relazioni. 3 La terza ragione deriva dalla moltiplicità che si trova in ciascuna sostanza creata, niuna delle quali è perfettamente semplice, notandovisi accidenti, passioni, ed azioni, cangiamento di modi, divisioni di spazio, successioni di tempo, ecc.. A ciascuna delle quali cose, che ha natura esclusiva e sua propria, applicandosi tuttavia l' essere ideale, se n' hanno altrettante notizie e concetti. Fra le limitazioni delle sostanze create la più notabile è quella per la quale la loro sussistenza non è contenuta nella loro essenza; onde è uopo che la sussistenza, che esiste esclusivamente, sia conosciuta dallo spirito umano con un atto diverso da quello con cui egli conosce la loro essenza. Ed è oltracciò da osservare, che lo stesso spirito intelligente dell' uomo è anch' egli una sostanza limitata, in modo che ha bisogno di varii istrumenti ed atti successivi a trovare la materia delle sue cognizioni, non essendogli dato per natura che la realtà dell' animalità propria. Ora ogni singolare notizia è fondamento ad un diverso affetto dello spirito conforme o difforme dalla legge della moralità: quindi la pluralità delle virtù e de' vizii e i molteplici accidenti dello stato morale dell' uomo, benchè ogni pregio morale riducasi finalmente ad una sola essenza morale, che è l' amore dato all' essere. Ora, se noi passiamo a considerare la moltiplicità nell' ordine soprannaturale, si riconoscerà agevolmente ch' ella dipende appunto dalla moltiplicità dichiarata fin qui dell' ordine naturale dell' intelligenza e della moralità: perocchè la grazia non muta la natura, ma non fa che perfezionarla e sublimarla. L' uomo, le cognizioni dell' uomo, le virtù ed i vizii di cui è suscettibile, essendo così molteplici come gli abbiamo veduti; ne doveva provenire, che egualmente molteplici fossero i rapporti di Dio con lui, molteplici i mezzi che adoperasse Iddio per condurlo a sè, dove giace la sua perfezione e la sua beatitudine; che la rivelazione di Dio si frangesse, per così dire, in molte verità speciali, e che vi avessero divisioni di grazie e di doni, e tuttavia era uno il Cristo che compartiva i suoi doni, uno lo Spirito che compartiva le sue grazie. [...OMISSIS...] . Ma noi dobbiamo vedere come tutte le verità speciali si riducano ad unità, cioè ad un solo oggetto, come questo sia un' appartenenza del Verbo, e come, ove ei si riveli, quest' oggetto, in quanto è soggetto ossia persona, allora sia egli il Verbo a noi comunicato. Dobbiamo vedere il medesimo delle grazie a noi comunicate, come si rifondano e riducano in una grazia sola, appartenenza del Santo Spirito, che è incontanente lo stesso Santo Spirito quando in quella grazia egli ci si rivela come persona. Tutte le verità speciali che abbiamo dalla divina rivelazione si riducono a verità che dichiarano la natura divina, che cosa abbia fatto Iddio e conseguentemente quali doveri noi abbiamo verso Dio, in una parola riguardano il credere e l' operare. Ora le verità che regolano le operazioni, si riducono alle verità imposte a credere, perchè l' operazione morale non è altro che una ricognizione della verità appresa dall' intelletto, ricognizione che produce gli affetti e le azioni ben ordinate che ammigliorano e perfezionano moralmente l' uomo. Le verità teoretiche poi, che riguardano la natura e le azioni esterne di Dio, si riducono alla natura divina, perocchè Iddio non agisce se non con quell' atto stesso con cui esiste, e propriamente si riducono alla cognizione del Verbo divino, perchè, come abbiamo veduto innanzi, la creazione e l' altre operazioni esterne sono fatte pel Verbo, e in Dio non sono distinte da quell' atto che costituisce il Verbo divino. E a questa unità ridusse lo stesso Gesù tutto il suo Vangelo quando disse: « Haec est autem vita aeterna, ut cognoscant te solum Deum verum et quem misisti Jesum Christum (1) ». Il Padre poi non si conosce che pel Figlio e nel Figlio, e però tutta la cognizione e la verità soprannaturale si trova racchiusa e contenuta nella cognizione del Verbo, il quale è chiamato Verità e il fonte della sapienza nel cui spirito « desiderant Angeli prospicere ». Tutte le verità rivelate adunque si riducono al Verbo come in loro principio nel quale sono eminentemente contenute, e propriamente altro non sono che tante parziali applicazioni alle cose create della prima cognizione soprannaturale che è questa del Verbo. Ma il conoscere che tali verità speciali sono contenute nella sola cognizione del Verbo divino, questo ha due gradi. Perocchè: 1 O si conosce ciò unicamente perchè di fatto tali verità ci servono a conoscere qualche cosa della natura divina e delle sue azioni nel mondo, senza però che percepiamo il Verbo personalmente manifestante tali verità; il che dà luogo ad una cognizione diretta comune dei fedeli della Chiesa di Dio, e ad una cognizione riflessa e scientifica propria dei maestri che alle rivelate verità applicano il ragionamento: tutto questo l' ebbero anche gli Ebrei. 2 Ovvero si conosce che tutte le speciali verità di cui parliamo sono contenute nel Verbo, e nello stesso tempo si percepisce il Verbo personalmente nell' atto di manifestarcele, non già solo ai nostri orecchi carnali che non basterebbe, ma agli orecchi del nostro cuore; e questo è proprio solo de' cristiani, e dicesi acconciamente vedere le verità soprannaturali nel Verbo . Il qual grado di cognizione dà tuttavia luogo ai due modi sopraindicati: il diretto, che si fonda nella percezione del Verbo che ai cristiani tutti è data nel battesimo; e il riflesso e teologico, che è proprio di quelli che sopra tal cognizione diretta riflettono e ne traggono la scienza formulata: la quale, o si occupa soltanto del Verbo come oggetto, e dicesi semplicemente Teologia; o anche del Verbo che agisce nell' anime come soggetto e persona per sè oggetto, e suol dirsi Teologia mistica . Ma è mestieri chiarir meglio la cognizione soprannaturale data agli uomini prima della venuta in terra del Signor nostro Gesù Cristo. Ella si riduceva ai seguenti capi: 1 Le verità speciali rivelate; 2 Quel tanto che ciascuna verità fa conoscere della natura divina, nel che ricevevano unità, riducendosi tutte a gradi ed aspetti diversi della cognizione della stessa cosa; 3 Atteso la grazia divisa secondo le verità speciali, questa natura divina, che davasi a percepire come per sè manifesta, oggetto reale per sè manifesto, era il Verbo, ma soltanto oggettivamente appreso, non il Verbo come soggetto e persona; e quindi, propriamente parlando, era la divina sussistenza per sè manifesta, ma non operante, e dicente « « Io e il Padre siamo una cosa » », in quanto si distingue la manifestazione dall' operazione . 4 Vi aveva altresì la promessa della venuta al mondo del Verbo qual soggetto e persona, il che non importa una comunicazione interna di questa personalità, bastando la fede in quella misteriosa promessa. Onde la persona del Verbo promesso era indicata coi nomi di Dio, Dio con noi, Padre del secolo futuro, Principe della pace, ecc.; e come tale Abramo (1) ne può aver veduto la gloria ( diem ), e Davide può aver conosciuto che sarebbe suo Signore (2), benchè suo discendente, senza che perciò ne avesse la percezione stessa personale . Di maniera che la cognizione del Verbo come persona data agli antichi non era positiva e percettiva; ma negativa, razionale, simbolica, misteriosa, oggetto di fede assai più che non sia presentemente ai cristiani, i quali ne hanno una iniziale percezione; e la lor fede si riferisce soltanto alla percezione completa e svelata che costituisce la celeste beatitudine. 5 Finalmente vi era la riflessione e meditazione filosofica, che, ritornando sopra questi dati rivelati esteriormente ed internamente, riducevano in teoria scientifica le credenze; onde nacque quella Teologia Ebraica, ond' io credo non poco deducesse il Platonismo, e specialmente la Scuola Alessandrina. Le quali cognizioni dell' antica Chiesa intorno al Verbo divino rendono plausibile ragione come la denominazione di Verbo applicata a Dio fosse già in uso prima di Cristo. La perifrasi caldaica di Onkelos (targum Onkelos), che probabilmente è anteriore a Cristo, dove nel testo ebraico si legge [...OMISSIS...] Jeova, vi aggiunge frequentemente [...OMISSIS...] « mimra, cioè Verbo (3) ». Si spiega ancora perchè S. Paolo, commentando quelle parole « Juxta te est sermo valde in ore tuo et in corde tuo (2) » e le precedenti, le interpreti di Cristo. Ecco il luogo di Mosè: « « Questo comandamento, che io oggi t' impongo, non è sopra di te, nè posto in lontananza, nè situato in cielo, sicchè tu possa dire: Chi di noi può salire al cielo e indi tradurlo a noi perchè l' udiamo e l' adempiamo? Nè sta via oltre il mare, sicchè tu possa coglier cagione di dire: Chi di noi potrà passare il mare e fin di là portarcelo perchè possiamo udire e fare quello che ci è prescritto? Ma egli è un sermone molto vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore perchè tu il possa compire » ». Ora S. Paolo, illuminato dallo spirito di Gesù Cristo già venuto, ci fa sapere che pei cristiani quel luogo di Mosè acquistò nuova luce appunto dalla venuta di Cristo, dovendosi con questo nuovo lume interpretare. Onde insegna che in quel luogo mosaico si parla della giustizia che nasce a noi redenti dalla fede nella misericordia e redenzione di Cristo: giustizia che invano spereremmo dalle nostre opere non avvalorate dai meriti di Gesù Cristo. Laonde così lo dichiara l' Apostolo: « « Or poi della giustizia che vien dalla fede dice così: « Non vorrai dire in cuor tuo: Chi ascenderà in cielo? » » cioè per trarne Cristo (che ti possa salvare dai tuoi peccati e così darti la giustizia che è dalla fede in lui). « « O chi discenderà nell' abisso? cioè per risuscitarne Cristo » » (da cui è la salute). « « Ma che cosa dice la Scrittura?: Vicina è la parola nella tua bocca; quest' è la parola della fede che noi predichiamo »(1) ». Con che l' Apostolo viene a dire che quel Cristo Salvatore degli uomini per la fede, ne' meriti del quale vengono rimessi i peccati di cui sono macchiate le loro opere, non è lontano, anzi egli viene comunicato mediante la predicazione apostolica e la fede che a questa si presta (per la qual fede alla predicazione, e pel battesimo che in conseguenza di tal fede si riceve dalla Chiesa, viene data all' uomo la percezione del Verbo umanato che forma la salute delle anime); viene dato all' anima pel carattere indelebile e per la grazia, in virtù di cui sta eziandio sulla bocca dei Cristiani che pronunciano al di fuori ciò che sentono al di dentro. Di che si vede che quello, che era sermo, praeceptum, mandatum, ecc. per gli Ebrei, pei Cristiani è il Verbo, o Cristo; perocchè, se per quelli tali voci significavano una dottrina rivelata da Dio oggettivamente considerata, per questi, cioè per noi, significa lo stesso Cristo rivelante soggetto e persona, nella cognizione del quale tutta quella dottrina abbondantemente si comprende; onde quella dottrina stessa oggettiva diventa ai Cristiani un soggetto ossia una persona divina per sè oggetto, per sè manifesto come tale, manifestantesi come persona. Laonde quando il salmo dice: « Constitue, Domine, legislatorem super eos (2) », dove la voce ebraica [...OMISSIS...] moreh significa doctorem, prega che venga quel dottore appunto, la cognizione e percezione del quale contiene tutta la dottrina stessa, poichè egli, in quanto è per sè noto, è per sè dottrina. Laonde que' Padri della Chiesa che in luogo di Verbum tradussero ed usarono la parola sermo (1) non furono universalmente seguiti. Poichè, quantunque la parola sermo non fosse disacconcia ad esprimere il Verbo interno del Padre (salvo che il sermone suppone pluralità di voci o di concetti, onde anche per questa ragione la parola Verbum, come toccammo, meglio indica l' unità del Verbo di Dio), tuttavia ella non era acconcia ad esprimere la personale manifestazione del Verbo agli uomini, nella quale il Verbo non è solamente la dottrina, ossia il sermone parlato, ma è di più e nello stesso tempo il dottore parlante. E come tale ci venne dato in Cristo, come tale ci è annunziato in questi luoghi dell' Evangelio: « Unigenitus qui est in sinu Patris, ipse enarravit (2) », e: « Tres sunt qui testimonium dant in Coelo » (cioè nell' interiore dell' anime) « Pater et Verbum et Spiritus Sanctus (3) ». E dove G. C. vien chiamato « testis fidelis (4) », o anche assolutamente « Fidelis et Verax », a cui si soggiunge: « et vocatur nomen ejus Verbum Dei (5) ». Le quali maniere non esprimono solamente la dottrina rivelata oggetto della mente, ma il Verbo di Dio che è ad un tempo dottrina per sè manifesta e persona. Laonde si vede quanto differiva la dottrina dell' antica Chiesa da quella della nuova, la quale è acconciamente ricapitolata da S. Paolo in quelle parole: « Non enim judicavi me scire aliquid inter vos nisi Jesum Christum et hunc crucifixum (6) ». Quello che era nell' antica Chiesa mera dottrina, divenne nella nuova anche persona per sè nota, e da questa nuova luce ricevono le antiche carte nuova interpretazione, l' interpretazione accennata da Cristo stesso quando disse ai peregrini di Emmaus: « O stulti et tardi corde ad credendum in omnibus quae locuti sunt prophetae!... Et incipiens a Moyse et omnibus Prophetis interpretabatur illis in omnibus scripturis quae de ipso erant (7) ». E ancora: « Scrutamini scripturas, quia vos putatis in ipsis vitam aeternam habere, et illae sunt quae testimonium perhibent de me (1) ». E fu soltanto dopo la gloriosa sua risurrezione che a' suoi discepoli diede il conoscimento delle antiche scritture: « Tunc aperuit illis sensum ut intelligerent scripturas (2) »; perocchè solo allora ebbero creduto a pieno in Cristo glorificato, compiendosi colla sua risurrezione le profezie. Passando ora dall' ordine intellettuale all' ordine morale, si vedrà agevolmente che vi si possono applicare le stesse dottrine. L' ordine morale ha da una parte la legge, dall' altra l' adesione che dà l' uomo alla legge. Noi abbiamo già indicate le cagioni perchè vi abbia moltiplicità di leggi, e tuttavia tutte le leggi morali non sono prive di unità, perocchè le leggi speciali si riducono ad una legge prima semplice ed una, la quale dice: Riconosci l' essere. Come uno è l' essere, una è l' idea dell' essere, così una è l' esigenza che manifesta l' essere di venire amato come quello che è per sè amabile all' essere intelligente. E se uno è l' oggetto amabile, l' essere; una la necessità morale di amarlo: unico è quindi il dovere morale, unico il pregio morale dell' ente intellettivo, il quale consiste nel suo amore illimitato all' essere. Qui finisce ogni virtù; tale è la parte formale di ogni atto virtuoso. Ma l' amore all' essere, rimanendo sempre ordinato, cioè compartito in ragione della quantità di essere, può riuscire d' una fisonomia e d' un atteggiamento diverso, secondo le potenze che concorrono nell' uomo a ridurlo in atto, secondo la perfezione e la varia indole ed efficacia di queste potenze, secondo le occasioni d' esercitare quell' atto di amore verso l' essere molteplice e limitato, e verso l' Essere infinito, secondo la cognizione diversa dell' essere; e quindi anco secondo che un tale amore viene attuato in un modo o in un altro, e una parte venendo attuato, l' altre parti rimangono tuttavia in un atto primo virtuale: quindi le diverse virtù, gli speciali atti virtuosi, i diversi stati morali dell' uomo. Supponendo che l' uomo conosca l' Essere supremo, Iddio, l' unità morale spicca maggiormente, perocchè le azioni umane acquistano un fine solo, e tutto l' amore all' essere finito dee rifondersi almeno virtualmente nell' amore dell' essere assoluto, fonte e causa di ogni essere. Allora quando quest' ordine dell' amore si attua in modo che l' uomo riferisca esplicitamente a Dio tutte le sue azioni, allora tutta la virtù sua diviene amore di Dio: questo è il formale della virtù; la virtù è divenuta religione, santità; è una, perchè è uno ne' diversi atti umani l' amore, è uno l' oggetto dell' amore. Ma se Iddio non si conosce che naturalmente, e però negativamente, oltrecchè questa santità naturale riesce difficilissima, ella rimane virtù ancor nei limiti della natura. Quando si aggiunge la cognizione soprannaturale di Dio, cioè l' infusione della grazia, che è una cotale percezione della divina realità, allora tutto l' ordine morale si sublima, e diviene soprannaturale, perchè l' amore morale acquista per oggetto l' Essere assoluto positivamente conosciuto, sentito, percepito. La qual comunicazione immediata di Dio all' anima suol avvenire con qualche manifestazione esterna di Dio, con qualche rivelazione, segno, ossia sacramento. Allorchè poi il Verbo prese carne, allora si manifestò esternamente colla natura umana da lui vestita, e a questa comunicazione esterna corrispose la percezione interna e graziosa della persona divina del Verbo, la quale è il principio ed il fondamento della virtù cristiana, la perfezione cristiana della virtù soprannaturale. Ogni grazia viene infusa per operazione del Santo Spirito, ma, come dicevamo, questo non manifesta se stesso quando infonde i doni (1), e nè pure quando imprime il Verbo come persona nell' anime. Ma di poi il Verbo, che già insiede nell' anime, comunica a queste palesemente il suo Spirito, prima in forma di doni sensibili ed apparenti, e poscia anche quale persona (2), siccome avvenne il di della Pentecoste, e tuttodì avviene per mezzo del sacramento della Confermazione. Il sentimento personale dello Spirito Santo è tale che per esso si sente, non solo l' ispirazione al bene, ma lo stesso ispirante; sicchè non si dubita che l' ispirazione venga dall' infinito essere, che si riconosce appunto come persona divina, perchè si sente per sè agente, per sè amabile, per sè amore, per sè virtù. Ma la riflessione dell' intelletto difficilmente arriva a cogliere tale distinzione e formularla, e pochi conseguentemente si formano di ciò qualche distinta coscienza atta ad essere espressa in parole. Questi pertanto sono i gradi specifici della virtù soprannaturale e naturale, la quale però riducesi sempre ad una medesima essenza compresa in una sola e semplice idea. Noi abbiamo detto che l' Evangelista Giovanni, incominciando dal Verbo divino il suo Vangelo, mosse dallo stabilire così il principio ed il fonte della sapienza soprannaturale che nel suo libro prendeva ad esporre. Fra i quattro stemmi di Cristo (1), l' aquila è simbolo della sua divinità, e però s' applica all' Evangelista che lo illustrò più degli altri. Perocchè nessun altro evangelista nominò Cristo colla denominazione di Verbo, nessun altro entrò sì addentro nel mistero dell' incarnazione. Conveniva che prima fosse annunziata l' umanità di Cristo, il che fece principalmente S. Matteo; poi, che fosse annunziato il regno da lui fondato, a che mira S. Marco; quindi l' eterno e regale suo sacerdozio, a che intende S. Luca; acciocchè finalmente quasi per questi gradi ascendesse l' umana mente a contemplare in Cristo lo stesso Verbo del Padre, il quale annunzio fu riserbato specialmente all' ultimo degli Evangelisti, al diletto discepolo. Si deve aggiungere che dal Verbo viene anche la formazione della ragione umana, benchè con questo solo a lei non si manifesti, comunicando ad essa soltanto l' idea dell' essere, principio e mezzo universale del sapere. Onde esso Verbo è il principio remoto anche della scienza naturale. Ma, oltrecchè il Verbo di Dio forma remotamente le intelligenze, quand' egli poi si manifesta o come oggetto divino rivelato, od anche come persona, muove colla sua efficacia noi stessi, se non gli contrariamo, ad arrenderci ai dettami della ragione, ed allontana da noi, come ebbe osservato Origene, tutto ciò che è alla ragione contrario (2). Perocchè nè egli è freddo ed inefficace a muoverci come la nuda idea, nè egli ci muove parzialmente verso qualche essere finito a pregiudizio di qualche altro; ma ci muove ad aderire all' Essere assoluto, e di conseguente a tutto l' essere, secondo la debita proporzione: perocchè il Verbo è appunto l' essere assoluto, la pienezza dell' essere oggetto per sè noto e persona: onde il nostro spirito affissantesi e aderente a tutto l' essere, a ciò che è solo essere, diventa imparziale verso tutte le partecipazioni dell' essere, quali sono gli esseri finiti. Ma la comunicazione del Verbo che si dà a noi a percepire si fa col mezzo di qualche segno sensibile, come i segni che si dicono sacramenti; e prima di questi coll' umanità sensibile di Gesù Cristo, che può dirsi il primo, il massimo sacramento, il fonte di tutti gli altri sacramenti da lui instituiti; ed altresì coi segni delle parole di cui si tesse l' evangelica predicazione. Onde, quando S. Paolo chiama la parola di Dio « gladium spiritus (1) », intendeva la predicazione animata dall' interna comunicazione del Verbo potente a operare sull' anime nel tempo stesso che la parola esterna de' suoi predicatori ferisce i sensi. Un' altra ragione più prossima, per la quale S. Giovanni cominciò il suo Vangelo dall' annunziare il Verbo di Dio, si è perchè egli toglieva a scrivere la vita di Cristo, di cui conveniva innanzi tutto esprimere l' eterna generazione volendo dimostrare l' origine della persona di cui parlava. Cominciando dall' annunziare il divin Verbo, egli veniva a indicare l' unità dell' opera del mondo, perocchè dimostrava colui che è autore ad un tempo della creazione e della redenzione, venendo questa seconda ad essere la continuazione e il perfezionamento d' un solo primitivo disegno. La qual ragione acconciamente è toccata da S. Ireneo che dice: [...OMISSIS...] . Tolta dunque l' occasione dagli eretici Cerinto ed Ebione, che negavano Cristo essere esistito prima di Maria, e munendo in pari tempo la Chiesa contro le eresie successive (3), supplendo in pari tempo alle lacune lasciate dagli evangelisti precedenti, egli tolse a scrivere il suo meraviglioso Evangelio inaugurandolo con un principio così sublime col quale « erexit se non solum super terram et super omnem ambitum a‰ris et coeli, sed super omnem etiam exercitum Angelorum, omnemque constitutionem invisibilium potestatum, et pervenit ad eum per quem facta sunt omnia (4) ». Dopo aver detto che avanti a tutte le creature, ab eterno era un assoluto Verbo, un Verbo necessario che non poteva non essere, perocchè egli era l' Essere per sè noto; passa ad insegnare dove era, e risponde: appo Dio. Questa progressione di concetti è perfettamente logica, dovendosi partire da ciò che è per sè manifesto, e venir poscia al manifestato; partire dal lume e venire all' illuminato. E` per il Verbo che si rivela il Padre agli uomini, come abbiamo veduto: il Verbo è per sè luce che illumina ogni uomo. Quest' è dunque l' ordine nel quale procedono le intelligenze, e nel quale dee procedere chi le ammaestra. Non vale il dire che nell' ordine della generazione il Padre precede il Verbo, perocchè qui non siamo nell' ordine della generazione, ma in quello dell' intelligenza e dell' ammaestramento: i due ordini procedono in senso contrario. Vero è ancora, che, tostochè si conosce il Verbo, si conosce il Padre di maniera che la cognizione del secondo non precede di tempo la cognizione del primo, secondo quelle parole di Cristo: « « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio »(1) ». Ma ciò non toglie la precedenza logica, secondo la quale antecede la cognizione personale del Verbo alla cognizione personale del Padre. La filosofia naturale è obbligata a seguire lo stesso metodo. Ella muove dall' idea dell' essere, come dalla prima cosa che conosce: l' essere ideale è per sè noto, è pura luce, non può essere negato da alcuno, siccome quello che è necessario. Convien dunque ammettersi questo, e quindi passare alla relazione ch' egli dimostra coll' ente realissimo ed assoluto. Quantunque l' essere ideale proceda dall' assoluto, e non possa essere senza di lui; tuttavia l' esistenza dell' assoluto si conosce per mezzo di lui, giacchè prima si trova la necessità d' ammettere assolutamente l' essere ideale, poi si vede che questo non potrebbe essere senza l' assoluto, quindi la mente si sente obbligata ad ammettere l' assoluto. Annunziare adunque il Verbo prima di tutto, e poi discorrere da questo al Padre, è l' ordine logico, pel quale deve procedere la scienza cristiana. E S. Giovanni ci conduce tosto al Padre dicendo: « « e il Verbo era appo Dio » ». Iddio qui significa il Padre (1), e con queste parole dimostra la distinzione della persona del Verbo dalla persona del Padre. Si domanderà perchè qui Iddio significhi la persona del Padre. - Rispondiamo osservando primieramente con S. Tommaso d' Aquino (2) la differenza fra il significato della parola Dio , e della parola Deità . Questa seconda indica la divinità in astratto, e però vale a significare solamente la natura divina; laddove la parola Dio significa la divinità nel supposito, concretamente, e però ella vale a significare anche la persona: come, a ragion d' esempio, la parola uomo significa una persona umana, quando la parola umanità significa soltanto l' umana natura. Quindi i teologi ammisero per buona questa frase Deus generat Deum, perchè viene a significare che una persona divina genera un' altra persona divina, ma non ammettono quest' altra « la deità genera la deità », perocchè così dicendo si verrebbe a significare che la natura divina genera un' altra natura divina, e così si moltiplicherebbero le nature. Ma dopo ciò, sebbene la parola Dio s' adoperi convenientemente a significare il supposito, ossia la persona divina; tuttavia con essa non si determina piuttosto una persona che un' altra, e perciò rimane a cercare come nel luogo di S. Giovanni, « « E il Verbo era appo Dio » », la parola Dio indichi il Padre. Or questo si rileva dal contesto, giacchè non può significare il Figliuolo che è lo stesso Verbo, nè tampoco lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figliuolo; onde si direbbe piuttosto che egli fosse appresso il Padre e il Figliuolo che viceversa, come meglio dichiareremo parlando della forza significativa della particella appresso . Finalmente è da osservarsi che la parola Dio si suol applicare in primo luogo al Padre come quello che è il principio fontale dell' altre due persone, a cui comunica la stessa sua propria natura divina numericamente identica. Perocchè il Padre è la sussistenza divina, l' Essere sussistente, che con un atto suo proprio si rende per sè manifesto ed amato, il che è la processione delle due altre persone; e la parola Dio indica appunto la sussistenza dell' essere assoluto senza determinare in esso di più. Onde conviene a quella persona che è prima di tutto la sussistenza e non l' ha ricevuta, perocchè questo averla ricevuta non è espresso nella parola Dio . Onde, quando la parola Dio si vuole assumere ad indicare il Figliuolo o il Santo Spirito, è necessario che il contesto lo dichiari, aggiungendovi la relazione che costituisce le persone procedute; non così quando si vuole indicare il Padre. E S. Giovanni, dicendo che « « il Verbo era appo Dio » », parlava più in conformità delle antiche scritture, le quali nominano spesso il « Verbo di Dio »; laddove non nominano « il Verbo del Padre ». Oltredichè, dicendo che « « il Verbo era appo Dio » », si veniva a rendere la ragione del perchè Iddio generante si chiamasse Padre, chiamandosi Padre appunto per questo che egli ha appo sè il Verbo generandolo; laddove se avesse detto che il Verbo era appo il Padre, avrebbe supposto che i lettori avessero già conosciuto chi era il Padre, il quale volevasi anzi dall' Evangelista far conoscere per mezzo del Verbo, e della relazione che il Verbo aveva colla divina sussistenza che lo generava. La parola era indica l' eternità del Verbo appo il Padre; perocchè come, dicendo che « « in principio era il Verbo » », aveva significato che il Verbo era eterno; così egualmente dicendo che era appo il Padre significa che dall' eternità risiedeva appresso Dio suo Padre (1). Onde viene a dire del Verbo quello che le antiche carte dissero della sapienza che al Verbo si riduce: « omnis sapientia a Domino Deo est, et cum illo fuit semper et est ante aevum (2) »: dove, non contento il sacro scrittore d' aver detto « fuit semper », quasi si potesse intendere durante la durazione del mondo, il corso del tempo , aggiunge per dimostrarne l' eternità « est ante aevum », è avanti il tempo, usando il verbo E` in presente, per escludere ogni successione e modificazione, e significare senza alcun equivoco l' eternità. E siccome il Verbo era assoluto Verbo ed avente una esistenza necessaria, così doveva essere colla stessa necessità appresso il Padre pure necessario, di maniera che la necessità del Verbo dimostra, secondo il processo della nostra intelligenza, la necessità di Dio Padre presso cui fosse. Volendo ora noi venir dichiarando il valore del vocabolo appo , usato dall' Evangelista, conviene che osserviamo prima di tutto come le cose divine, che hanno natura diversa dalle create, non si possono insegnare agli uomini che usando vocaboli istituiti a significare cose create, e però inadeguate a rendere i divini concetti; il perchè, applicati a questi, vengono a prendere nuova significazione, e a formare tali proposizioni, che, applicate alle umane cose, riuscirebbero assurde. Qui dice S. Giovanni che il Verbo era appo Dio. Ora nessuna delle cose create, propriamente parlando, può essere per se stessa appo Dio, come quelle che hanno un' infinita distanza dall' eccellenza e dalla natura del Creatore. Dunque ciò che di natura sua è appo Dio deve avere la natura divina, dee esser Dio; giacchè fra l' infinito e il finito non v' ha mezzo alcuno, e il finito è distante infinitamente dall' infinito: l' infinito poi è Dio stesso. Avendo dunque detto che il Verbo era appo Dio, ci ebbe posto in mano il principio da cui cavare la conseguenza che dunque il Verbo era Dio, conseguenza che cava l' Evangelista incontanente appresso. La qual conseguenza, che distrugge le sottigliezze degli Ariani, fluisce tanto più spontanea che l' Evangelista dice che il Verbo era appo Dio in principio, il che, come vedemmo, viene a dire da tutta l' eternità, nella quale non potevano essere le creature; e cioè necessariamente, perchè trattasi di un Verbo assoluto, e perciò necessario, perciò eterno, il quale non può star solo, ma richiede per una relazione necessaria Colui che lo pronuncia. Oltracciò la parola appresso nella sua prima istituzione significa vicinanza di luogo, dalla quale fu poscia trasportata a indicare vicinanza o relazione intima di natura. A quelli dunque che non sapendo concepire le cose senza collocarle in qualche luogo (1) domandassero: se il Verbo era già prima che fosse creato il mondo, dove stava egli? L' Evangelista risponde che era appo Dio, e con ciò insegna ch' egli era semplice, e che non aveva bisogno di essere in un luogo, essendo appo Dio. Una simile difficoltà si fanno gli uomini quando cominciano ad applicarsi alla filosofia, e vien loro detto che antecedentemente a tutte le cognizioni vi ha l' essere ideale, lume della mente. Perocchè tosto domandano: dove è dunque quest' essere ideale? e conviene rispondere che è in se stesso, il che non è agevole il far loro ammettere per l' imaginazione che giuoca in essi, e che dimanda che venga collocato in qualche luogo, sembrando loro che non si possa senza questo concepire. Or quattro maniere si adoperano nelle divine scritture per esprimere la connessione di Cristo col Padre. Si dice che « « il Verbo è appo Dio » »; che è « « nel Padre »(2) »; che è « « nel seno del Padre »(3) »; che « « siede alla destra del Padre »(4) ». Perocchè, non potendo il linguaggio umano esprimere con una sola espressione questa connessione, egli è uopo adoperarne molte, acciocchè una supplisca in qualche modo al difetto dell' altra. Conviene adunque vedere il valore di ciascuna di queste espressioni, e come l' una emendi e completi l' altra. Ora, quanto a quest' ultima espressione, ella appartiene all' umanità di Cristo innalzata sopra tutte le creature per l' unione ipostatica col Verbo, e collocata vicino al trono di Dio. Ciò si scorge nel Salmo CIX, che comincia: « « Il Signore disse al mio Signore: siedi alla mia destra » »: dove il Signore, cioè Dio, parla al figliuolo di Davidde, come sappiamo dal Vangelo (1), cioè a Cristo, come uomo, a cui pure disse: « « Tu sei sacerdote in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco » », e l' essere Sacerdote appartiene a Cristo come uomo, come pure l' essere Re, benchè la grandezza di questo sacerdozio e di questo reame nasca da quella dignità infinita che acquistò la sacratissima umanità dalla sua congiunzione personale collo stesso Verbo. Rimane dunque a cercare il valore delle altre tre espressioni, che al Verbo divino appartengono. Ora nessuna di esse, presa in separato, sarebbe stata per sè idonea ad esprimere convenientemente la congiunzione del Verbo con Dio che lo pronuncia. Perocchè la parola appo , applicata alle cose umane, suol significare la vicinanza di due cose o persone distinte sostanzialmente fra loro, non avendovi nelle cose create alcun esempio in cui cada l' identità di sostanza con diversità di persona. D' altra parte nelle cose divine non può darsi moltiplicità di sostanze e di sussistenze, perchè Iddio non può essere che uno. La particella in nelle cose create suol significare la congiunzione di un accidente colla sua sostanza, onde si dice che « il colore è nel corpo », e non presso, appo il corpo; laddove si dice che « un uomo è appo un altro uomo », e non in un altro uomo. Nelle cose create la parola in non trova come possa essere adoperata altrimenti, perocchè non si verifica mai il caso in tutta la natura che una persona sia in un' altra persona senza confondersi con essa, e pur avendo identità di sostanza. Questa specie d' inesistenza non si avvera nel creato, e però la parola in applicata a Dio non può esprimere una congiunzione accidentale, come accade quando si applica ai corpi. L' espressione che « « l' Unigenito è nel seno del Padre » » non si può intendere in senso proprio, perocchè il Padre non ha seno; ma nello stesso tempo rappresenta più acconciamente delle due prime l' inesistenza di due persone, colla similitudine della madre che ha nel proprio seno il figliuolo da lei concepito, e col concetto di generazione che racchiude. Conviene dunque che queste tre espressioni, applicate all' unione del Verbo con Dio che lo pronuncia, si correggano e si completino l' una coll' altra, in modo che si escluda da ciascuna di esse quello che non può convenire alla divinità, e così si venga per esse ad intendere quanto di questa si debba pensare. Ora le due prime che usano le particelle appo ed in si correggono e perfezionano prese insieme; perocchè l' appo dimostra che tra il Verbo e Dio che lo pronuncia non si dee mettere una unione simile a quella dell' accidente colla sostanza quale viene espressa dalla particella in applicata alle cose corporee; e l' in dimostra che nè pur si dee ammettere una vicinanza di due sostanze o nature separate come suole esprimere la particella appo applicata alle finite sostanze. Ritenendosi adunque l' unità di sostanza, che viene significata in quella congiunzione che si esprime colla particella in , e ritenendosi la moltiplicità delle persone che viene espressa in quella congiunzione che si addita colla particella appo , noi, mediante l' uso di tali particelle, intendiamo che in Dio aver vi dee unità di sussistenza, e ad un tempo pluralità di persone, e che tale è l' unione del Verbo con Dio che lo pronuncia a sè consustanziale e ad un tempo personalmente distinto. Ma se la particella in indica meglio l' inesistenza d' una persona nell' altra che non sia la particella appo, tuttavia quella prima non fa conoscere la qualità di congiunzione che hanno le due persone fra loro, potendosi dire ugualmente che « il Padre è nel Figliuolo »e che « il Figliuolo è nel Padre ». Al che soccorre la parola appo . Perocchè questa parola, come hanno osservato gli antichi Padri (1), e come osservò in appresso S. Tommaso, « significat auctoritatem in obliquo »; perocchè non si direbbe propriamente che il re sta presso il soldato, ma che il soldato sta presso il re, e così non si direbbe che il Padre abita presso il Figliuolo, ma il Figliuolo abita presso il Padre, di maniera che la persona presso cui un' altra abita si suppone la principale e autoritativa in qualche modo rispetto alla seconda. Ora, quantunque fra le divine persone vi abbia una perfetta uguaglianza di dignità, tuttavia vi ha una relazione d' origine per la quale il Padre genera il Figliuolo, onde acconciamente si dice che il Figliuolo è appresso il Padre che lo genera, laddove non vi avrebbe ugual proprietà dicendo che il Padre è appo il Figliuolo, la quale espressione non si trova nelle divine Scritture. Ma se la particella apud applicata alle cose create viene a significare una maggioranza, una principalità, un' autorità o priorità della persona, appo cui si dice stare un' altra; conviene vedere quale tra questi significati si debba attribuirle applicata alle persone divine. Ora noi sappiamo da altri luoghi delle scritture, che queste sono eguali in tutto, eccetto nella causalità. « Ego et Pater unum sumus (1) » disse Cristo: quindi la particella apud nelle cose divine non può significare altro che quella relazione, per la quale il Padre genera il Figlio, ossia la proprietà di generante nel Padre, e di generato nel Figlio. A determinare questo significato della parola apud giova appunto l' altro luogo parallelo che dice: « Unigenitus, qui est in sinu Patris, ipse enarravit (2) », dove è significata la relazione tra il Padre e il Figlio, cioè la generazione. Sono significate altresì alcune differenze fra la generazione, qual è nelle cose finite, e la generazione del Verbo. Primieramente, dicendosi che l' Unigenito è nel seno del Padre, scorgesi che egli non si distacca dal Padre, ma che rimane continuamente in esso. In secondo luogo scorgesi nella parola est l' eternità della generazione, non potendo nella Divinità avvenire nulla di nuovo, e però non potendosi dire quello che avviene in essa, perchè nulla avviene, ma solamente quello che è. In terzo luogo si rileva da una tal espressione che la generazione del Verbo non è un' operazione che incomincia e che ha mezzo e fine come l' umana, ma è sempre in atto compiuto immanente, onde si dice ad un tempo che il Verbo sempre si concepisce e che sempre è concepito. Mediante questo luogo adunque s' intende che l' espressione, « et Verbum erat apud Deum », non indica altra autorità nel Padre se non la proprietà che egli ha di essere il principio generante, onde qualche Padre della Chiesa lo chiamò autore del Verbo. Ma all' Evangelista era opportuna questa espressione eziandio per significare con essa altre verità. Perocchè, volendo passare a dire dell' opere del Verbo, e come egli fosse l' autore del mondo e si fosse poi personalmente manifestato nella redenzione da lui operata del mondo medesimo, era conveniente che prima dicesse ove e come era il Verbo prima che operasse e che si manifestasse agli uomini. Onde, salendo l' Evangelista colla sua mente al di là di tutte le opere esteriori del Verbo, prima di dire che cosa abbia fatto e come si sia manifestato agli uomini, dichiara che cosa era da tutta l' eternità: era appresso Iddio che lo pronunciava eternamente, era Verbo di Dio indiviso da Dio. Quivi stava nell' eternità nascosto alle creature che ancora non esistevano. Il qual senso è dichiarato da S. Giovanni medesimo, dicendo egli in altro luogo: « Annuntiamus vobis vitam aeternam, quae erat apud patrem, et apparuit nobis (1) »: dove contrappone alla manifestazione del Verbo il suo stato nascosto nel seno del Padre suo (2). S. Gregorio Magno, che riconosce questa significazione delle parole dell' Evangelista, non dubita di intendere nello stesso modo quelle parole di Elifaz nel libro di Giobbe: « Ad me dictum est verbum absconditum (3) », e sarebbe veramente rimasta nascosta a quell' amico di Giobbe la parola, in quanto che non ebbe conosciuto il personaggio che gli parlava in quella notturna visione: « Stetit quidam cujus non agnoscebam vultum (4) »; onde la persona parlante gli rimase sconosciuta, e la parola dettagli non era appieno conosciuta, rimanendo occulta la parola parlante; col veder la quale avrebbe subitamente conosciuto che l' uomo non si poteva giustificare in comparazione di Dio (5), perchè avrebbe veduto la purezza, la santità, la perfezione di Dio stesso. In queste parole il Verbo è il soggetto, e Dio è il predicato, come si scorge dal testo (1), in modo che la costruzione naturale è questa: « « E il Verbo era Dio »(2) ». Il Verbo dunque, che era ab eterno, ed era appresso Dio, non poteva essere che Dio egli stesso. Non trattasi adunque d' un verbo transeunte, ma d' un Verbo permanente, necessario, che non può cessare d' esser Verbo; non trattasi d' un verbo accidentale, ma sussistente per sè, il quale, essendo appo Dio, doveva conseguentemente essere una persona divina. Abbiamo già osservato che la parola Dio esprime un supposito, una persona, non l' idea astratta o essenza divina, come la parola Deità . Quindi dicendosi « E il Verbo era Dio », si viene a dire « E il Verbo era persona divina ». Ma era stato detto altresì che « il Verbo era appo Dio », dunque una persona divina era appo una persona divina: forza è dunque il dire che queste persone divine, l' una delle quali sta appo l' altra, sieno due, perocchè non si direbbe mai che la medesima stèsse appo se medesima, nè ci sarebbe bisogno alcuno di dirlo. Che se entrambi sono Dio, dunque hanno la stessa natura divina, perocchè la natura divina non può essere che una, non può essere che un solo Dio. Perocchè la Parola divina, quantunque indichi la deità nel supposito, tuttavia indica la deità, la natura divina; dunque, benchè il pronunciante il Verbo sia Dio, e il Verbo pronunciato sia Dio, tuttavia non ne viene che sieno due Dii, ma un solo Dio essente in due persone. Ora, posciachè nelle cose create non v' ha alcun esempio di più persone nell' identica natura, egli è uopo dimostrare che ciò non involge contraddizione. A tal fine convien ricorrere alla definizione della persona, la quale è questa: « Un essere intelligente in quanto ha un principio supremo ed incomunicabile si dice persona ». Posta questa definizione, chiaramente si deduce che l' ente può essere il medesimo, e tuttavia avere più principii supremi ed incomunicabili, cioè inconfusibili, nel qual caso l' identico ente sussisterebbe in più persone. Ora Iddio pronunciante il Verbo ed il Verbo pronunciato sono principii supremi ed incomunicabili, cioè inconfusibili fra loro: quindi sono due persone essenti nello stesso ente, nella stessa natura. Ma il Verbo è appresso a chi lo pronuncia: Iddio dunque che pronuncia il Verbo è una persona che ha una priorità causale ossia d' origine, in quanto è quella che pronuncia il Verbo eternamente eguale a se stesso. Nelle parole « E il Verbo era Dio » [...OMISSIS...] S. Giovanni non pone l' articolo alla voce Dio perchè è costruito come predicato, e quanto si costruisce come predicato non si usa di anteporre l' articolo. Usata la parola Dio come predicato, ella dà alla clausola questa sentenza: « E il Verbo aveva la natura divina », cioè la persona del Verbo aveva la stessa natura divina che aveva quella che lo pronunciava. Questo basta a rifiutare le sottigliezze vane degli Ariani, che dall' omissione dell' articolo alla voce «Theos» volevano inferire che il Verbo non era detto Dio nello stesso senso di Dio Padre (1). Si potrebbe forse aggiungere che l' omissione dell' articolo nel luogo di S. Giovanni è anche opportuna perchè non si confondesse la persona del Verbo colla persona del Padre. Perocchè avendo detto che « il Verbo era appresso Dio », [...OMISSIS...] con che voleva dire che era presso la persona del Padre, se avesse poi detto che il Verbo era Dio coll' articolo «o Theos»; sarebbe sembrato ch' egli fosse la stessa persona del Padre, cui nominò prima appunto Dio coll' articolo «ton Theon». In queste tre clausole adunque S. Giovanni disse che il Verbo era ed era ab eterno; dopo disse dove era, cioè appresso il Padre; finalmente disse più esplicitamente che cosa era, cioè Dio. Qui Origene domanda perchè dicesse che cosa era il Verbo, dopo aver detto quando era e dove era: e risponde che, essendo il Verbo per origine presso Dio, conveniva prima dimostrare che egli era nel Padre o presso il Padre, anzichè dire che il Verbo era Dio. A cui noi soggiungeremo cosa, che o sarà uno svolgimento della ragione arrecata da questo Padre della Chiesa, o sarà una ragione novella: il che lasciamo definire ai lettori. E` dunque da considerare che la parola Dio non basta a definire il Verbo: perocchè quella parola, eziandio che esprima la natura divina sussistente, epperò qual supposito o persona; tuttavia non determina più una persona che l' altra, epperò conviene a tutte tre le persone ugualmente. La terza clausola adunque di S. Giovanni non dichiara pienamente che cosa sia la persona del Verbo, ma dichiara solamente che cosa sia la sua natura. Ora che cosa sia la persona del Verbo è dichiarato già fino dal cominciamento colla sola parola Verbo, dicendo: « « In principio era il Verbo » », dimostrando che il Verbo come persona è l' Iddio per sè noto, il principio della dottrina teologale cristiana, la Verità sussistente; che perciò non ammette definizione, non potendosi intendere nè spiegare con parole esteriori, ma solamente coll' interiore lume della fede, col quale egli si manifesta immediatamente, che poi esprimono con parole esteriori; e con queste venendo annunziato agli uomini, questi assentendo per la grazia che gli illumina ad intenderle, sono trasportati in una condizione soprannaturale in virtù della stessa fede. L' Evangelista adunque annunziò prima di tutto la persona del Verbo, come il primo noto nella dottrina cristiana; e poi più esplicitamente ne espresse la natura dicendo che egli era Dio. Le tre clausole fin qui riferite dell' Evangelista, secondo l' osservazione dell' Aquinate, ribattono tre specie d' errori (1). La prima clausola: « « Nel principio era il Verbo » », mostrandone l' eternità, ribatte l' errore di Ebione e di Cerinto, i quali volevano che Gesù Cristo non fosse preesistente alla Vergine, dalla quale avesse preso l' essere e il cominciamento della durata, considerandolo essi come un puro uomo che avesse poi meritata colle sue sante azioni la divinità. A' quali eretici si fecero seguaci Fotino e Paolo di Samosata. La seconda clausola: « « E il Verbo era appo Dio » », stabilendo la distinzione delle persone del Verbo e di Dio che lo pronunzia, ribatte l' errore di Sabellio, il quale ammetteva che Iddio, che aveva preso carne dalla Vergine, non avesse avuto da questa principio e fosse eterno, ma diceva che fosse lo stesso il Padre ed il Figliuolo, e che non era altra la persona del Padre, che ab eterno era, dalla persona del Figliuolo che s' era incarnato. La terza clausola: « « E il Verbo era Dio » », ribatte l' errore di Eunomio, il quale insegnava che il Figliuolo fosse al tutto dissimile dal Padre, quando invece, secondo l' Evangelista, egli era Dio come il Padre. Queste tre clausole onde incomincia S. Giovanni dimostrano l' altezza di questo Evangelista sopra gli altri che lo hanno preceduto. Perocchè, come S. Matteo «(cap. I) » narra l' umana generazione di Cristo, così S. Giovanni narra come il Verbo fosse già nel principio, cioè da tutta l' eternità; come S. Luca narra subito la manifestazione di Cristo ai Pastori ed ai Magi (cap. II), così S. Giovanni narra com' egli stèsse ab eterno appo Dio nascosto alle creature; come S. Marco lo descrive annunziante agli uomini l' Evangelio del Regno di Cristo, così S. Giovanni nella terza clausola annunzia che Cristo era Dio egli stesso. Colle tre comme precedenti S. Giovanni ebbe data la dottrina del Verbo eterno: qui comincia quella delle opere sue. Ma prima riepiloga la dottrina data del Verbo essente nel seno di Dio che lo pronuncia, per continuarsi a ragionare come esce alle opere sue ed alla sua manifestazione. Questo epilogo è da lui fatto dicendo: « « Questo (cioè il Verbo) era nel principio appo Dio » ». Così dichiara Origene questo versetto con l' approvazione dell' Angelico, di cui riferiremo qui le parole: « « Origene poi, molto bellamente esponendo questa medesima clausola, dice: non esser ella qualche cosa di nuovo diversa dalle tre prime, ma essere un cotale epilogo delle premesse. Poichè, dopo avere l' Evangelista insinuata la verità dell' esser del Figliuolo, dovendo passare ad insinuare la sua virtù, raccoglie sommariamente epilogando nella quarta clausola ciò che aveva già detto nelle tre prime. E innanzi tratto, dicendo questo, intende la terza clausola; dicendo era nel principio, raccoglie la prima; soggiungendo poi era appo Dio, raccoglie la seconda: onde così tu non intenda un altro Verbo esser quello che era nel principio, ed un altro quello che era Dio; ma questo stesso Verbo che era Dio, era nel principio appo Dio »(2) ». Laonde, oltre che questa clausola riepiloga le tre prime e rannoda il discorso con quello che deve venire appresso delle opere esteriori del Verbo, giova altresì a indicare l' identità del Verbo che era in principio, e che era appo Dio, e che era Dio. Il perchè S. Cirillo (3) trova appunto opportuno questo riepilogo che fa l' Evangelista delle cose dette intorno al Verbo a tagliare le vane sottigliezze degli Eunomiani, e di alcuni Ariani, i quali dicevano altro essere il Verbo che era in principio appresso Dio, ed altro quello pel quale furono create le cose. Perocchè, lasciate le sole prime tre clausole, si poteva fisicare mettendo in dubbio se si parlasse d' un Verbo solo o di più, e a quale di questi spettasse la creazione del mondo. S. Giovanni Crisostomo trova utile il riepilogo che fa l' Evangelista delle tre prime clausole nella quarta, perocchè con questa è tolto ogni dubbio che il Verbo, che era appo il Padre, fosse appo il Padre in principio, cioè ab eterno (1). Teofilatto osserva oltracciò che, dicendo che « « il Verbo era in principio appo Dio » », viene l' Evangelista a dimostrare la perpetua concordia e consenso di volontà fra il Verbo e Dio che lo pronuncia, dal quale non è mai diviso (2). Qui contrappone adunque l' Evangelista il Verbo, che era presso Dio fin dal principio, alle creature che furono fatte per esso, e quindi insegna, come osservò Leonzio, che il Verbo non è creatura, non è una delle cose che furono fatte, ma quello pel quale furono fatte tutte quelle che furono fatte (1). Queste ultime parole del versetto di S. Giovanni, « « e senz' esso nè pur una fu fatta di quelle che furono fatte » », tagliano affatto una delle solite vane sottilità degli Ariani, i quali dicevano che tutte le cose furono fatte pel Verbo, eccetto il Verbo stesso che fu fatto dal Padre. Poichè, se si ripone il Verbo fra le cose fatte, non sarebbe più vero quello che dice l' Evangelista che nè pur una delle cose fatte fu fatta senza il Verbo (1). Oltrediciò, se il Verbo era già in principio appresso il Padre, dunque non fu fatto, perocchè quello che è non ha bisogno di esser fatto. Queste medesime parole abbattono altresì l' errore di Origine che disse lo Spirito Santo essere stato fatto dal Verbo, pel quale furon fatte tutte le cose; errore che fu in appresso de' Macedoniani che professavano lo Spirito Santo essere una creatura, e che S. Giovanni Crisostomo e Teofilatto riconoscono posare sulla mala intelligenza di quelle parole: « omnia per ipsum facta sunt », separandole da quelle altre che le limitano, « et sine ipso factum est nihil quod factum est ». Onde S. Gregorio Nazianzeno dice che questi eretici dovevano prima provare che lo Spirito Santo fosse tra le cose fatte, il che non provano, e solo di poi avrebbero potuto inferirne che egli dovesse esser fatto nel Verbo. L' Evangelista, prima di passare alla creazione del mondo, dicendo che tutte le cose che furon fatte, furon fatte pel Verbo, volle ripetere che il Verbo era in principio appo Dio, quasi esordio alla dottrina della creazione, acciocchè dicendo poi: « « Tutte le cose furon fatte per esso » » non s' intendesse che furon fatte per esso quasi per un istrumento distaccato da Dio Padre creatore. L' essere il Verbo nel principio appo Dio Padre mostra la consustanzialità col Padre quindi mostra che egli doveva avere un' operazione creativa identica a quella del Padre. Con che son rase le cavillazioni degli Ariani e di altri eretici (1). Si dimanderà: Perchè adunque l' Evangelista preferì dire, che « tutte le cose furon fatte per esso », al dire esso fece tutte le cose? Quale è qui il proprio significato della parola per? In prima è da considerare che, se l' Evangelista avesse detto egli fece tutte le cose , avrebbe certamente parlato con proprietà, come parlò con tutta verità e proprietà il salmista dicendo: « Initio tu, Domine, terram fundasti et opera manuum tuarum sunt coeli (2) », che S. Paolo interpreta di Cristo (3); ma sarebbe parso che il solo Verbo avesse creato il mondo senza la compagnia del Padre: onde anche soggiunse « et sine ipso factum est nihil quod factum est », dove la parola sine , o extra com' altri interpretano, dimostra che non fu solo a creare, ma col Padre, « apud Deum », come hanno osservato i Padri (4). Vero è che la particella per, «dia», non sempre s' adopera a significare compagnia di cause, ma semplicemente causa, come in questo luogo dell' Apostolo dove parla del Padre: « Fidelis Deus per quem vocati estis in societatem filii ejus (1) ». E per ciò appunto, giusta l' esposizione di Sant' Ilario, l' Evangelista aggiunse, « et sine ipso factum est nihil quod factum est », a dichiarar meglio che il Verbo operava in compagnia del Padre, o, come anco aveva detto, « « appo il Padre » ». E tanto più riesce opportuna questa spiegazione che aggiunse l' Evangelista, inquantochè il « factum est », essendo in forma intransitiva, non indicava altra causa; laddove, qualora il per viene soggiunto ad un verbo costrutto attivamente, non lascia dubbio sull' indicare compagnia di causa, come in quel luogo dell' Apostolo « per quem fecit et saecula (2) ». Dove apparisce che Dio Padre fece i secoli pel Figliuolo. E quantunque tutto ciò dimostri l' opportunità di quell' aggiunta: « et sine ipso factum est nihil quod factum est »; contuttociò non è men vero quello che fu osservato da altri, essere consuetudine degli Ebrei, si può dire degli Orientali, quello che dicono in modo affermativo, dirlo di nuovo in modo negativo, come fa Isaia dove dice: « Omnia quae in domo mea sunt viderunt: non fuit res quam non ostenderim eis (3) »; e come fa pure Geremia dicendo: « Omne verbum, quodcumque responderit mihi, indicabo vobis, nec celabo vos quidquam (4) »; ma ciò non toglie che l' aggiunta in forma negativa, oltre il dare una maggior forza di asseveranza al discorso e recidere ogni cavillo sul significato di ciò che viene detto, non possa contenere qualche nuovo sentimento, non possa aggiungere di quei concetti accessorii ed obliqui che sempre si accompagnano al principale in ogni discorso e in ogni proposizione, spesso anche nelle singole parole. Onde l' osservazione di S. Ilario su questo luogo dell' Evangelista rimane egualmente solida. Dicevamo dunque che la parola per nel luogo di S. Giovanni: « omnia per ipsum facta sunt », ha valore di significare compagnia di causa, quasi venga a dire: « Tutte le cose sono state fatte dal Padre pel Verbo », ma questa compagnia di causa, indicata anche da Cristo in quelle parole: « « Pater usque modo operatur et ego operor »(5) », dee intendersi non già come nelle cose umane dove le cause diverse, i diversi operanti hanno diverse operazioni; ma dee intendersi in un modo tutto divino, per modo che una ed identica sia l' operazione del Padre e del Verbo, come una ed identica ne è la natura. Anche qui, rispetto alla particella per, è da richiamarsi l' imperfezione che ha il linguaggio umano, istituito a significare le cose create, insufficiente ad esprimere adeguatamente le increate e divine che non hanno esempio in quelle, onde conviene dare ai vocaboli, con cui si esprimono le divine, un valore novello. La particella per adunque fu istituita a significare o piuttosto indicare il mezzo ad un fine. Ora, posciachè il mezzo alla esecuzione d' un fine può variare di natura e di modo, quindi quella particella riceve più significati. Il primo mezzo, affinchè una cosa sia, è la causa efficiente della medesima, e questa talora si esprime con quella particella. Ma in tal caso, la causa efficiente essendo quella che opera, quella particella non si costruisce con un verbo attivo, perchè in un verbo così costruito l' operante è già espresso nel nominativo, e non c' è più bisogno di esprimersi colla particella per; ma il verbo si costruisce in un modo intransitivo nel quale non essendo espresso l' operante si soggiunge poi mediante la particella per, o da, o alcun' altra. In questo senso si può dire egualmente: « Iddio fece il mondo », ovvero « il mondo fu fatto da Dio o per Dio », cioè per mezzo di Dio causa efficiente del medesimo. In questo senso la particella per conviene egualmente a tutte tre le persone, potendosi dire: « il mondo fu fatto pel Verbo », egualmente che pel Padre, o per lo Spirito Santo. Nella maniera del pensare umano si distingue anche nelle cose create sovente la forma dalla materia di cui sono composte, e della forma si fa un elemento a parte astraendolo da' suppositi in cui si trova e considerandoli come causa immediata del medesimo supposito. Quindi il concetto tanto usato dagli antichi di causa formale . Acciocchè sia naturale un dato supposito nelle cose corporee è necessario che abbia la sua forma, quindi si considera questo come un mezzo alla sussistenza di lui, e anche questa maniera di causa astratta si esprime usando la particella per co' verbi intransitivi. Lo stesso convien dirsi della causa materiale che si divide colla mente dai suppositi che risultano da materia e da forma: e, quantunque la materia sia un loro elemento e non una loro causa, tuttavia si riguarda come un mezzo o condizione necessaria alla loro sussistenza. Si esprime quindi anche questa causa materiale mediante la parola per co' verbi intransitivi o passivi. Quindi si dice egualmente questa statua sussiste per la sua forma, ovvero sussiste per la sua materia. Ora in questi due ultimi significati la parola per non si può applicare ad esprimere la creazione fatta da Dio, perchè Iddio non è nè la forma, nè la materia dell' universo. Nelle cose create oltracciò vi ha una subordinazione di cause. Ora le cause seconde, fra le quali si annoverano le istrumentali, sono pure mezzi all' ottenimento dell' effetto o del fine. Ma, perciocchè queste suppongono la causa prima che è il principale agente, perciò non solo queste possono significarsi colla particella per col verbo intransitivo o passivo, ma ben anco col verbo attivo; nel qual caso il nominativo che regge la costruzione esprime la causa principale, e la parola per esprime la causa subordinata ed istrumentale . Così si dice che « il falegname opera per l' ascia o per la pialla, lo scultore per lo scalpello, ecc. ». E se si vuol costruire passivamente, in tal caso l' agente principale si mette nel genitivo che esprime la causa della causa, come a ragion d' esempio: « Questo scanno fu fatto per l' ascia e la sega del falegname; questa statua fu scolpita per lo scalpello del tale autore », di maniera che le due cause subordinate nell' uno e nell' altro modo vengono egualmente espresse. Non si può dare in alcun modo questo valore alla particella per nel luogo di S. Giovanni ove dice del Verbo « « tutte le cose furon fatte per esso » », perchè il Verbo non è una causa subordinata al Padre, ma ad esso uguale; e perchè le cause subordinate hanno diversa natura e diversa operazione, laddove il Verbo ha con Dio che lo pronuncia una sola natura ed una sola operazione, benchè sieno due persone, dicendo S. Giovanni che il Verbo, pel quale sono state fatte tutte le cose, è « « appo Dio » », cioè consustanziale al Padre, come vedemmo. Nelle cose create ancora si distingue il subbietto sostanziale dalle sue potenze e virtù, e queste si considerano come mezzi alle sue operazioni e agli effetti ch' egli produce: onde si dice, a ragion d' es., che « per la mente l' uomo pensa », ovvero che « per la mente o per la scienza sua l' uomo compone un libro ». Ma in Dio non v' ha distinzione alcuna reale fra le potenze e virtù e l' essenza, non essendovi che la semplicissima essenza che è Dio, e che opera tuttociò che fa Iddio. Onde non può dirsi in questo senso « che Iddio fa tutto pel suo Verbo », intendendo che il Verbo sia una parte, o una potenza, o una virtù speciale di Dio; quand' anzi egli è Dio stesso, tutto quant' è nella divina essenza, la quale opera. Il dire poi che Iddio opera per la sua propria essenza non è un parlare molto proprio, sembrando dal costrutto che Iddio operante sia qualche cosa di diverso dalla sua essenza, ma non contiene errore quando si intenda dire con quella maniera che Iddio « opera per se stesso ». E quando si dice che Dio opera per la sua sapienza o per la sua virtù, devesi intendere egualmente che Dio opera per la sua essenza, ossia per se stesso, perchè la sapienza e la virtù di Dio è la stessa sua essenza, senza alcuna reale distinzione. Tuttavia se si considerano i vestigi della sapienza e della virtù di Dio nelle sue opere esteriori, cioè nelle cose finite da lui create, vedesi che, appunto perchè queste sono finite, non possono aver esaurita la sua sapienza e la sua virtù. Quindi l' uomo argomenta col suo pensare imperfetto e al tutto inadeguato, che Iddio nel produrre dal nulla il mondo abbia adoperato una parte della sua sapienza e della sua virtù, e distingue questa parte della sapienza e della virtù creatrice dalla totale sapienza e virtù di Dio; mediante la qual distinzione crede di parlare esattamente dicendo che Iddio creò il mondo per la sua sapienza e per la sua virtù, distinguendo questa sapienza e virtù parziale e quantitativa dalla totale ed infinita sapienza e virtù di Dio che è la sua essenza. Ma questo è un pensare imperfetto, come dicevo, è un parlare inesatto; è un pensare che dimostra la limitazione della mente umana. Perocchè la distinzione che questa mente pone fra quella parte di sapienza e di virtù divina che il Creatore adoperò nella fabbrica mondiale dalla sua essenziale sapienza e virtù, non ha luogo se non relativamente al pensare dell' uomo, nè è una parte di questa che è indivisibile, ma è tutta questa. Onde più esattamente si deve dire che Iddio creando il mondo adoperò tutta la sua sapienza e virtù, ma non totalmente, appunto perchè le creature essendo finite non ammettevano in sè la comunicazione totale di essa. Altro è dunque la sapienza e virtù adoperata nell' azione di Dio creante, e questa è l' essenza di Dio semplice ed indivisibile, altra è la sapienza comunicata alle creature, e questa è una sapienza sotto diversi aspetti, limitata, distinta dall' essenza divina soltanto relativamente alle creature che la concepiscono e la considerano astrattamente, ma tale però che in Dio si rifonde nella stessa sapienza divina; nella quale, quello che è per noi raggio, trovasi esser sole infinito senza potersi in questo sole distinguere realmente il raggio da esso medesimo sole o luce illimitata. Ma la sapienza essenziale di Dio non è il Verbo divino; ella è un attributo che conviene egualmente a tutte e tre le divine persone, le quali hanno una stessa ed identica natura ed essenza. Laonde quando, dicendosi « che Iddio creò il mondo pel suo Verbo », s' intende dire che creò il mondo per la sua sapienza essenziale, allora non si parla in senso proprio, ma in senso, come dicono i teologi, appropriato, in quanto che la sapienza si suole attribuire al Verbo, perchè il Verbo procede per via d' intelletto e quindi vi ha una cotale affinità tra la sapienza ed il Verbo. Onde S. Tommaso così s' esprime: « « Dicimus Christum Dei virtutem et Dei sapientiam: ideo appropriate dicimus quod Pater omnia operatur per Filium, id est per sapientiam suam. Et ideo dicit Augustinus quod hoc quod dicitur: « Ex quo omnia »appropriatur Patri, « per quem omnia »Filio, « in quo omnia »Spiritui Sancto (1) ». Ma vi ha un significato di queste parole: « « Tutte le cose sono fatte per esso » » che non è appropriato, ma proprio: e questo dobbiamo ora noi cercare. Noi abbiamo detto che il Verbo divino è la sussistenza dell' essere nota per se stesso: esso è oggetto, ma non oggetto ideale come sono le essenze delle cose finite, ma oggetto sussistente, e quindi ancora oggetto che è ad un tempo soggetto ossia persona nella sua stessa oggettività in quanto si sente e vive come oggetto e oggetto vivente. Quindi sotto due aspetti noi possiamo considerarlo: 1 come oggetto per essenza, che è quanto dire come luce; 2 e come sussistenza personale. Questi due aspetti non si debbono prendere così, quasi che vogliamo porre una distinzione reale nel Verbo, la quale non vi è, ma unicamente come due riguardi della mente nostra, fondati in una doppia relazione che hanno le creature con esso lui. Perocchè nelle creature si distingue l' oggetto, che è l' essenza, dalla sussistenza che è la realità delle medesime. In quanto dunque viene dal Verbo l' essenza delle cose, in tanto si considera il Verbo come oggetto o luce primitiva; in quanto poi viene dal Verbo come da causa la sussistenza delle cose, in tanto lo si considera come sussistenza operativa e producente. Se dunque si considera il Verbo come sussistenza e quindi anco come virtù creatrice, egli ha la stessa sussistenza di numero e quindi l' identica virtù creatrice del Padre che gliela comunica. Avendo dunque l' essere dal Padre, e di conseguenza avendo dal Padre l' esser causa delle cose, si può dire ch' egli è costituito causa delle cose pel Padre, cioè per cagione del Padre che gli dà tutto l' essere medesimo di esso Padre. Ma se il Verbo si considera come oggetto, cioè come l' essere luce, l' essere per sè noto, in tale aspetto dicesi con tutta proprietà che il Padre fa tutte le cose pel suo Verbo, come insegnano i dottori Agostino e Tommaso, il quale ultimo dice: « « Ora se si considerano rettamente le predette parole, Omnia per ipsum facta sunt, appare ad evidenza che l' Evangelista ha parlato in un modo al sommo proprio ( propriissime fuisse locutum ). Poichè chi fa qualche cosa, egli è uopo che prima la concepisca nella sua sapienza, che è la forma e la ragione della cosa da farsi, come la forma preconcepita nella mente dell' artefice è la ragione dell' arca che sta per fare. Così adunque Iddio non fa nulla se non pel concetto del suo intelletto, che è il Verbo di Dio e il Figlio di Dio; e perciò egli è impossibile che faccia qualche cosa eccetto che pel Figlio. Onde S. Agostino (1) dice che il Verbo è l' arte piena di tutte le ragioni viventi, e così apparisce che tutte le cose che il Padre fa le fa per esso »(2) ». Sotto questo particolare aspetto di essere il Verbo l' oggetto per sè, lo considerarono quelli autori i quali trassero la ragione del perchè egli si chiami «logos», dall' essere egli la notizia del Padre, o dal contenere la definizione, la ragione, il concetto, l' essenza ideale di tutte le cose, «to eautu logo», cioè, definitione sua omnia complecti, come fra gli altri si esprime Vittorino ne' libri contro Ario. E questo è il solo aspetto sotto cui seppero considerarlo in qualche modo i Platonici, fra' quali Filone, che di conseguente lo fa minore del Padre e lo chiama sempre «logos», non mai «uios». Perocchè questi filosofi ignorarono sempre la personalità del Verbo. I due aspetti, sotto cui noi diciamo doversi il Verbo considerare, rendono appunto ragione della doppia appellazione che gli viene applicata nelle Scritture, cioè di «logos» ragione, e «uios» figliuolo: giacchè quella esprime l' oggettività, questa la personalità del Verbo, e questa doppia appellazione è di conseguente una prova della verità di ciò che diciamo. Così si conciliano le diverse opinioni dei Padri, alcuni de' quali, come S. Cirillo (3) ed Eusebio (4), dicono il Verbo essere stato conosciuto da' Platonici, laddove altri lo negano, come S. Girolamo che scrive del Verbo appunto: « Hoc doctus Plato nescivit, hoc Demosthenes eloquens ignoravit (5) ». I platonici l' hanno in qualche modo conosciuto come oggetto , l' hanno ignorato come persona; hanno conosciuto che non si poteva spiegare la cognizione senza supporre che vi avesse un primo oggetto, un noto per se stesso, una luce in cui tutte le cose si vedessero; ma hanno ignorato che questo primo oggetto, termine d' ogni conoscimento, avesse un' esistenza personale, e perciò fosse Dio. Il che non si può dire un conoscere il Verbo, semplicemente parlando, e però la sentenza di S. Girolamo: « Hoc doctus Plato nescivit, hoc Demosthenes eloquens ignoravit », è assolutamente vera. Tanto più che il Verbo platonico, l' oggetto essenziale da loro ammesso, era un esemplare del mondo, ma non giunsero neppure a conoscerlo come Iddio per sè cognito: dalla qual parte altresì difetta la dottrina platonica. All' incontro S. Paolo espresse magnificamente i due aspetti in cui conviene riguardarsi il Verbo in quelle parole: « cum sit splendor gloriae et figura substantiae ejus (1) », nelle quali il splendor gloriae si riferisce alla proprietà di oggetto, e il figura substantiae alla sussistenza personale. E dice splendor gloriae , perchè Iddio è tutto glorioso e magnifico a se stesso ed a quelli che lo conoscono, onde basta che sia conosciuto per esser glorificato (quando la libera volontà non si opponga negandogli questa gloria che nel suo concetto risplende), e quindi Gesù Cristo disse: « Haec est vita aeterna ut cognoscant te solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (2) », nè altro volle Gesù Cristo se non far conoscere il Padre, perchè conoscerlo veramente è un glorificarlo. Dice poi « figura substantiae ejus », invece di dire semplicemente substantia ejus, perchè la sostanza, o come dice il greco «ypostasis» sussistenza, è comune a tutte e tre le persone, ma nel Verbo è la sostanza nella figura, la sussistenza personale nell' oggetto, il che è proprio del Verbo, perocchè la parola figura, in greco carattere, [...OMISSIS...] , esprime la conoscibilità della cosa, ciò che fa conoscere la cosa. Laonde, quantunque lo splendore della gloria si riferisca più alla proprietà di essere oggetto , e il carattere della sussistenza divina si riferisca più alla proprietà di essere una sussistente persona; tuttavia l' espressione dell' Apostolo mantiene queste due cose indivise, indivise essendo nel Verbo, e solo così indivise danno la vera notizia del Verbo stesso. Nè manca alcunchè all' espressione dell' Apostolo, quantunque non vi si esprima che il Verbo è anche l' esemplare del mondo, perchè questo è già contenuto nella sua proprietà primordiale di essere la sussistenza divina in forma di oggetto. Nè l' espressione « figura substantiae ejus » è da credersi che escluda la sostanza, quasichè altro sia la figura ed altra la sostanza. Perocchè è da riflettersi: 1 Che della sostanza divina non v' ha rappresentazione adeguata fuori di lei; 2 Che, anche in generale parlando, le sostanze non hanno figura o tipo diverso da se stesse, qualora per sostanza s' intenda la sussistenza che è ciò che v' ha di proprio nelle cose reali, onde conviene che se la prima sostanza ha figura, cioè espressione, conoscibilità, questa sia ella medesima, non entrando la sussistenza in alcuna idea che sia pura idea; 3 Che finalmente l' espressione greca che dice il « carattere della sussistenza » toglie ogni equivoco, perocchè il carattere di una cosa è nella cosa stessa, ed alla cosa appartiene, onde il carattere pure della sussistenza divina è nella sussistenza divina, e a questa appartiene. E poichè la sussistenza divina è semplicissima ed è tutto Dio, perciò il suo carattere non può esser altro che lei stessa, in quanto essa è per sè intelligibile, per sè intesa. Non basta adunque a dichiarare come il Padre operi la creazione del mondo pel Verbo il considerar questo come oggetto ed esemplare. Perocchè, quantunque sia vero che l' artefice, per esempio lo scultore, faccia la statua pel concetto che ne ha nella mente, tuttavia non si può già dire che il concetto stesso sia artefice e facitore della statua; conciossiachè il concetto è una semplice regola secondo la quale opera lo scultore, è puramente un' idea, è oggetto, ma non soggetto o persona sussistente ed operante egli stesso. All' incontro il Verbo, oltre essere per sè oggetto, e quindi contenere anche l' idea del mondo, oltre essere idea dell' essere assoluto, è anche sussistenza, soggetto persona operante, perchè ha la stessa natura del Padre. Se dunque si considera che il Verbo è la sussistenza divina per sè conosciuta, e conosciuta pienamente, perciò conosciuta in sè e in tutti i modi nei quali può essere imitata dall' essere finito, perchè l' essere racchiude questo nel suo concetto di poter sussistere in un modo assoluto ed infinito e in un modo relativo e finito, allora s' intende che il Padre opera tutto quello che opera al di fuori pel Verbo, non solo perchè in questo vede le essenze delle cose finite, ma ben anco perchè queste essenze hanno virtù di essere realizzate come quelle che esistono nella sussistenza divina, senza distinzione da questa, purchè solo si aggiunga la volontà della stessa sussistenza comune alle tre persone augustissime. Ed essendo l' essere per sè amabile, anche in quanto sussiste limitatamente, per l' analogia che ha coll' essere sussistente illimitatamente, perciò questa volontà non può mancare per tutto l' essere limitato possibile, possibile dico non fisicamente, ma logicamente e moralmente. E dicevamo che l' essere conosciuto in modo limitato ha bisogno della volontà divina per essere realizzato a cagione che egli non è necessario ma contingente, cioè egli non ha la ragione della sua realizzazione nel proprio concetto, ossia nella propria essenza. Di che la ragione del suo realizzamento non può trovarsi che nella libera volontà del Creatore. Il Padre dunque crea l' essere finito, cioè il fa sussistere amandolo, che è quanto dire volendolo (1), e non lo ama se non dove lo conosce, e lo conosce dove è conoscibile cioè nel Verbo, e perciò lo crea pel Verbo. Ma perocchè il Verbo è la stessa sussistenza divina per sè nota e che ha in sè le cose finite per sè note, perciò questa sussistenza del pari ama in sè, e vuole le cose collo stesso amore e volontà del Padre. E poichè lo Spirito Santo ha del pari la stessa identica sussistenza, in quanto è per sè amata (ed è per sè amata in quanto è per sè nota), quindi anche lo Spirito Santo crea colla stessa volontà creante delle due prime persone. Ma perchè si dice piuttosto, che il Padre crea pel suo Verbo, anzichè crea per lo Spirito Santo? Per una ragione analoga a quella per la quale si dice che lo statuario fa la statua pel suo concetto e non pel suo amore. In fatti l' amore muove lo statuario a fare la statua, ma il mezzo col quale la fa è il concetto della sua mente, che dirige le sue mani nel martellare il sasso e trarne l' opera da lui concepita. In un modo analogo, come dicevo, il Padre, mosso certamente dall' amore essenziale, vede nel suo concetto, cioè nel suo Verbo, l' essere finito e vedendolo lo crea. Ma questo concetto del Padre non è, come quello dello statuario, una pura idea, senza realità corrispondente, ma è un concetto sussistente della sussistenza divina identica a quella del Padre; onde la sussistenza divina creante crea le cose guardandole nell' oggetto, ossia nel Verbo, che è la stessa sussistenza nella forma oggettiva. Onde si può dire che la stessa sussistenza divina comune a tutte e tre le divine persone sia quella che crea pel Verbo, che è ella stessa per sè nota. Una qualche analogia di questo fatto della creazione, l' uomo lo ha nella sua immaginazione intellettiva. Quando immagina un oggetto corporeo, questo oggetto esiste solo relativamente all' uomo che lo immagina. Supponiamo ora che quest' oggetto sussistesse anche relativamente a se stesso: in tal caso quest' oggetto sarebbe creato. Ora tale è la potenza della volontà divina, che, quand' ella vuole che sussista un ente finito e relativo, lo immagina, dirò così, sussistente, e questa divina immaginazione fa sì che l' oggetto esista non solo relativamente a Dio che lo immagina, ma ben anco relativamente a se stesso e ad altri esseri, e così sia creato. In fatto, se l' immaginazione, per usare questo termine analogo, non può rappresentare un oggetto che a se stessa, ella è imperfetta; non fa pienamente ciò che vorrebbe fare, perchè l' oggetto reale, acciocchè sia veramente tale, dee sussistere a se stesso e agli altri enti a cui ha per sua natura rapporto. Ma in Dio non può esservi imperfezione, e ciò che vuole immaginare dee per conseguente essere pienamente vero, dee essere l' oggetto che vuole immaginare. Ma non sarebbe la verità, l' oggetto non sarebbe vero oggetto reale e sussistente, se non sussistesse a se stesso e agli altri enti a' quali per sua essenza è legato. Dunque Iddio conviene che abbia questa potenza d' immaginazione, che quando si rappresenta un oggetto, questo veramente sussista a se stesso e agli altri; e questo è creare. Creare dunque è far sì che un oggetto veduto nella sua essenza ed immaginato (l' immaginazione intellettiva è quella potenza che si sforza di vedere un' essenza nella sua realizzazione) esista come soggetto (o come esistente nei soggetti che lo possono percepire), esista relativamente a sè (o a quei soggetti personali che lo possono percepire), perocchè senza di questo l' oggetto non sarebbe realizzato, e quindi l' immaginazione errerebbe, difetterebbe nel rappresentarselo tale; nè in Dio può esistere errore, essendo essenzialmente verità e realità, nè può cadere difetto di potenza e di operazione. Dunque, volendo egli rappresentarsi un oggetto come realizzato, quest' oggetto dee esistere come soggetto e persona, o se non è intellettivo dee esistere relativamente alle persone che, secondo la propria natura, hanno virtù di percepirlo, ovvero sia di sentirne l' efficacia sostanziale, il che è appunto creare. Supponendo adunque che in Dio vi abbia una perfetta facoltà di immaginare le cose, ossia di rappresentarsele realizzate, egli è giuoco forza ammettere in lui la facoltà o potenza di creare. Ma la realità d' un ente non si vede che nell' essenza, che è l' oggettività della cosa, e l' essenza è contenuta nel Verbo che è l' essere come oggetto: dunque la creazione si doveva fare pel Verbo e nel Verbo (1). E quindi S. Paolo chiama Cristo « Dei virtutem et Dei sapientiam (2) ». Nelle quali due parole sono indicate le due proprietà da noi distinte nel Verbo divino. Poichè in quanto egli è sussistenza, lo chiama Dei virtutem, in quanto egli è oggetto, lo chiama Dei sapientiam . Dove è da notarsi che la parola sapienza riceve due significati, come pure la parola scienza . Perocchè que' vocaboli si prendono talora in un senso soggettivo, indicandosi l' abito della scienza e della sapienza, il possesso soggettivo della notizia; e talora si prendono in un senso oggettivo per l' oggetto stesso della scienza, per la notizia posseduta. Ora se si prende la sapienza in un senso soggettivo, ella è comune a tutte e tre le persone e s' attribuisce al Verbo soltanto in un senso appropriato . Ma se ella si prende in un senso oggettivo, ella è propria del Verbo, o piuttosto è il Verbo stesso, e in questo proprio significato il Verbo è chiamato nelle divine scritture la Sapienza. Simigliantemente la virtù o potenza divina presa in senso soggettivo è comune a tutte e tre le divine persone. Ma, se si considera che la potenza divina, colla quale Iddio crea, è la facoltà divina di rappresentarsi l' essenza delle cose finite realizzata, la quale essenza è nel Verbo; anche essa facoltà, come soggettiva che è, è ancora comune alle tre persone divine, ma poichè l' essenza, e in questa la sua realizzazione, giace nel Verbo, si dice che il Verbo è la virtù di Dio, perchè in esso e per esso Iddio crea, ossia vede le cose sussistere. Convien rammentarsi, ciò che abbiamo osservato, la parola ebraica verbo, parola , [...OMISSIS...] usarsi dagli Ebrei a significare la realità, che anche chiamano la verità delle cose. Quindi ogni parola di Dio, ogni suo verbo dee essere pienamente vero, e però la cosa da Dio pronunciata dee essere reale, quando la pronuncia come reale, altramente non sarebbe vera. Indi è che quando Iddio pronuncia la propria sussistenza, pronuncia un oggetto reale; per questo pronunciamento la sussistenza divina è divenuta oggetto, e quest' oggetto non sarebbe appieno vero se non fosse soggetto reale anzi persona. Egli dunque pronuncia il suo Verbo, il quale è la stessa sussistenza divina divenuta oggetto (se così lice esprimersi) pel pronunciamento di Dio che in quanto pronuncia si chiama Padre. Non è dunque questo un pronunciamento sterile come quello dell' uomo, il quale afferma le cose che sono quando le percepisce; ma non può farne di nuove, e, se pronuncia come sussistente cosa che non è, pronuncia il falso, perchè pronunciandola, la cosa non si fa sussistere. Il che insegna S. Agostino con quelle parole: « Proinde, tanquam se ipsum dicens, Pater genuit Verbum sibi aequale per omnia » (anche nell' essere una persona). « Non enim se ipsum integre, perfecteque dixisset, si aliquid minus, aut amplius esset in ejus Verbo quam in se ipso (1) ». Ed indi il S. Dottore passa ad esporre la differenza fra il verbo umano e deficiente, e il divino perfetto e compiuto. La ragione di questa differenza fra il pronunciare dell' uomo e il pronunciare di Dio, fra il verbo dell' uomo e il Verbo di Dio, consiste in questo, che l' uomo è una partecipazione limitata di essere relativo, che colla sua azione non può uscire dai limiti e dalla relatività dell' essere; all' incontro Iddio è l' essere per se stesso, assoluto, infinito, onde l' azione sua termina sempre all' essere, non è limitato all' essere relativo o ad una porzione di essere, perchè ha tutto l' essere in se stesso; e però qualunque essere pronunci, qualunque porzione di essere, la trova in se stesso, senza uscire da sè, la rende sussistente, perchè non può mancargli l' essere che pronuncia avendo tutto l' essere in tutti i suoi possibili modi, alcuni de' quali possono mancare solamente se egli non gli pronuncia; come accade degli esseri relativi non pronunciati, non creati da Dio, i quali però tutti giacciono indistinti e senza l' individualità che gli fa essere a se stessi (il che è un essere fuori di Dio) nell' abisso dell' essere stesso. Se noi consideriamo che l' essere divino è vivente e d' ogni parte infinito, noi agevolmente intenderemo che se gli potesse mancare una cosa sola di quelle che ama, egli cesserebbe d' esser tale, avrebbe una limitazione. Or l' essere ama l' essere, e però l' essere amato non può mancare. L' Essere ama se stesso, e però vuole se stesso: ma non potrebbe amarsi se non fosse a sè cognito, ama dunque se stesso cognito. Se stesso cognito ha un' anteriorità logica a se stesso amato: quindi il Verbo ha un' anteriorità di origine (non già di tempo o di natura) allo Spirito Santo. L' essere divino è per sè cognito perchè è per sè pronunciato ossia generato come oggetto per sè cognito, e come tale soggetto, persona. Ma nell' essere divino per sè cognito, cioè nel Verbo, sono cogniti anche tutte le limitazioni possibili dell' essere, tutti i modi limitati di essere, compresi nel concetto di essere. Ora, posciachè l' essere cognito è per sè amato, quindi sono per sè amati anche tutti i possibili enti finiti. Ma poichè la loro sussistenza, come limitata che è, si esclude reciprocamente; quindi, sebbene ciascuno si possa realizzare, tuttavia non tutti insieme. L' ordine dell' essere è anch' esso essere, perocchè quest' ordine appartiene all' essenza dell' essere nella sua forma ideale (1); il bene morale dell' essere è anch' esso essere appartenente alla sua essenza nella forma morale. Dato dunque che Iddio ami e voglia l' essere finito, consegue che egli lo voglia nella sua maggior quantità. Ma questa esige che si calcoli anche l' ordine, cioè la connessione dell' essere finito, e il bene suo morale ed eudemonologico, che è la forma perfettiva dell' essere, alla quale è ordinato l' essere fisico, e l' ordine o la connessione di lui. Dato dunque che Iddio amando tutto l' essere, ami l' essere finito, egli non poteva moralmente parlando volere se non la maggior somma di bene eudemonologico7morale nella minima quantità di essere finito fisico, connesso fra sè nel miglior modo per l' ottenimento di tale scopo, e questo è il mondo creato. Amando dunque Iddio l' essere finito così concepito ed ordinato, che nell' essere per sè noto è per sè noto anch' egli; non poteva essere che per ciò stesso non avesse il suo realizzamento. Così la facoltà di creare l' essere finito si prova necessaria alla perfezione dell' essere infinito, perchè senz' esso non sarebbe d' ogni parte infinito, perchè amerebbe una cosa che gli mancherebbe. Quest' atto di volontà creatrice corrisponde agli atti della ragione pratica, i quali consistono nell' adesione della propria energia all' ente conosciuto. E` un atto dunque di ragione, ma non di una ragione semplicemente speculativa, ma di una ragione piena alla quale il soggetto unisce e quasi porta se stesso nell' oggetto conosciuto per realizzarlo. E` un atto completo d' intendimento dove la volontà è identificata coll' intelletto, mentre l' atto della ragione speculativa è un atto iniziale, ricevente anzichè dante, che termina nell' ideale anzichè nel reale. Iddio adunque crea con un atto d' intendimento perfetto e pratico, ossia operativo, che ha in sè quello che corrisponde nell' uomo alla volontà. Crea insomma colla sua parola, col suo Verbo. Ma una delle differenze massime fra la generazione del Verbo e la creazione si è questa, che genera il Verbo e poi lo ama, non già che vi sia un prima e un poi di tempo nella divinità, ma solo un ordine logico di relazioni. Poichè essendo il Verbo l' essere per sè noto, quindi posto dal Padre per sè oggetto, l' essere non può essere amato prima d' essere oggetto conosciuto. E però quantunque sia vero quello che dicono alcuni teologi che il Padre genera il Verbo liberamente, cioè senza essere a ciò mosso o costretto da cosa alcuna straniera, tuttavia non lo genera volontariamente, ma necessariamente, perchè tale è la natura divina, senza aver precedentemente un fine che il muova all' atto della generazione. All' incontro nel Verbo generato, e quindi sussistente come persona, Iddio vede l' essenza dell' essere finito, ed amandola e volendola lo pronunzia sussistente, e così lo crea guardando nel Verbo. Onde le creature si producono da Dio con un atto posteriore d' origine alla generazione ed alla spirazione per cui è lo Spirito Santo, e posteriore all' amor divino, quindi per un atto di libera volontà . Iddio dunque crea le cose pronunciandole nel suo Verbo dove le conosce, e quest' atto onde pronuncia le cose non è di tempo posteriore al Verbo, perchè in Dio non vi è tempo, ma tutto si fa ivi nell' eternità dell' essere divino, e tutto è fatto. Laonde è vero ciò che dice S. Anselmo, che con uno stesso pronunciamento Iddio dice se stesso e le cose esteriori. Ma conviene però intendersi, che rispetto all' origine il pronunciamento delle cose esteriori è posteriore logicamente alla costituzione, se così lice esprimersi, delle tre persone, e che questo pronunciamento è fatto dalla natura divina comune a tutte e tre le persone, non dal solo Padre, benchè l' oggetto di questo pronunciamento sia nel Verbo, in cui le cose sono per sè note, e quindi nel Verbo e pel Verbo sono fatte. Il Verbo dunque crea perchè ha la natura divina, è Dio; la natura divina sussistente in tre persone crea pel Verbo, perocchè crea per l' essere conosciuto, giacchè non potrebbe creare se non avesse presente l' oggetto, l' essenza che dee creare; crea nel Verbo giacchè pronunciando ciò che è per essenza in quest' oggetto, che è il Verbo, le cose acquistano realità, sussistenza relativa a se stesse. Quindi nelle divine scritture è frequente il dirsi che le cose sono state fatte non solo pel Verbo ma ben anco nel Verbo. San Paolo lo chiama primogenito di ogni creatura, « quoniam in ipso condita sunt universa in coelis et in terra, visibilia et invisibilia (1) ». E lo chiama primogenito, non perchè le creature sieno anch' esse generate in senso proprio della parola, ma per la povertà della lingua greca che dice egualmente generato e fatto, onde anche il primo libro del Pentateuco, in cui si narra la creazione del mondo, si intitola in greco: « Della generazione », [...OMISSIS...] . Un' altra ragione può addursi della denominazione di primogenito data a Gesù Cristo da S. Paolo, ed è che la generazione, o si considera nel suo principio, o nel suo termine. La generazione divina nel suo principio, cioè nell' operazione stessa, è, come abbiamo veduto, un pronunciamento; ora, rispetto al principio, con un pronunciamento di Dio come intelligenza, fu egualmente generato il Verbo, e furono creati gli enti finiti. Onde la generazione e la creazione sono simili nel loro principio, cioè nel modo onde avvennero. Rispetto poi al termine, la generazione importa che il generato riceva la stessa natura del generante, onde si chiama Figliuolo, ed è in questo che si distingue il generare, che è un comunicare la propria natura, dal creare che è produrre dal nulla cosa d' altra natura. Una terza ragione ancora si può aggiungere se le parole di S. Paolo s' intendono di Cristo, cioè non del solo Verbo ma del Verbo incarnato, dell' umanità assunta dal Verbo. In questo senso Cristo è il primogenito nell' ordine non delle cose naturali, ma delle soprannaturali, perchè è il fine dell' universo, e il fine è il primo nella mente dell' operante, perchè è il primo dei predestinati, e il principio della predestinazione, e perchè anche gli altri uomini sono generati soprannaturalmente da Dio, venendo adottati in figliuoli, perchè loro si comunica Cristo e vive in essi Cristo e il suo spirito. Nel Verbo divino adunque sono radicate e fondate universa in coelis et in terra, perchè nel Verbo come in oggetto sussistente termina l' atto interno della creazione, pel qual atto le cose esistono anche come soggetto e persona relativa a se stessa, o come ciò che cade in tale persona relativa la quale costituisce l' esistenza esterna e loro propria delle creature. E così anche S. Paolo disse che « omnia per ipsum et in ipso creata sunt, et ipse est ante omnes, et omnia in ipso constant (1) ». E anche dice di Cristo medesimo: « portansque omnia verbo virtutis suae (2) », appunto perchè, essendo in lui create e radicate le cose, conseguentemente le porta, cioè le conserva nell' essere loro; ed aggiunge che le porta colla parola della sua virtù, per indicare che anch' egli il Verbo è creatore, e non è solamente quello nel quale le cose sono fatte, ma quello altresì che le fa unitamente al Padre ed allo Spirito Santo. Laonde, essendo le cose create nel Verbo, si avvera appieno quello che in altra circostanza dice S. Paolo di Dio, che « in ipso vivimus, et movemur et sumus (3) », nel qual luogo si dice che noi stessi viviamo, noi stessi ci moviamo, noi stessi siamo, con che viene indicata l' esistenza a noi relativa e dirò così esterna, ma nello stesso tempo dice che viviamo, ci moviamo e siamo in Dio, perchè nel Verbo siamo creati, benchè di questa connessione nostra col Verbo noi non siamo consapevoli e però non formi parte dell' esistenza nostra propria finita. Noi siamo dunque relativamente a noi stessi ed alla nostra consapevolezza fuori del Verbo, relativamente poi a Dio ed alla sua azione creante nel Verbo. E poichè noi esprime una relazione soggettiva a noi stessi, assolutamente parlando è vero che noi siamo fuori del Verbo; ma se il noi esprimente il soggetto nostro si prende oggettivamente, in tal caso è vero che noi soggetto, come oggetto reale, siamo nel Verbo. Noi dunque in senso composto siamo fuori del Verbo, in senso diviso siamo nel Verbo. E quindi in questo senso il Verbo è quella materia invisa da cui dice il libro della Sapienza che furono create le cose tutte dell' universo: [...OMISSIS...] ; in questo senso il Verbo è quello in cui sono contenute quelle cose invisibili, da cui, secondo S. Paolo gran dottore anche nell' Ebraismo, furono cavate le visibili: [...OMISSIS...] . Nel Verbo adunque, che è l' oggetto sussistente, furono fatte le cose come oggetti sussistenti, non solo ideali. Ma perciocchè queste cose relativamente a sè hanno una soggettività, perciò nella loro esistenza propria, che è quella di esistere come soggetti, o nei soggetti, esse stanno fuori del Verbo, e non sono il Verbo, e non si mescolano punto col Verbo, il quale è assolutamente. Onde S. Giovanni nell' Apocalisse, per indicare questa doppia esistenza delle cose contingenti, adopera due parole: una erant, la quale si riferisce alla loro sussistenza nel Verbo, dove Dio vedendole e volendole le fece essere; l' altra creata sunt, la quale si riferisce alla sussisistenza loro propria e soggettiva fuori al tutto del Verbo (3). Che la creazione dell' Universo sia stata fatta nel Verbo è una verità che fu annunziata in un modo iniziale e negativo fino al cominciamento della rivelazione. Il Verbo, secondo l' interpretazione di molti Padri, fu annunciato come principio delle cose già nelle prime parole del Genesi: « « Nel principio creò Iddio il cielo e la terra » ». E veramente Gesù Cristo disse espressamente d' esser egli il principio, giacchè domandandogli gli Ebrei: « « Tu chi sei? » », egli rispose: « « Il principio che anco parlo a voi »(1) ». Il che è ripetuto da S. Giovanni nell' Apocalisse dove chiama Gesù Cristo: « testis fidelis et verus qui est principium creaturae Dei (2) » nel qual luogo il testis fidelis et verus si riferisce più al Verbo come oggetto, cioè come quello che fa conoscere, e il principium creaturae Dei, più al Verbo come sussistente ed efficace operatore. Se non che le due proprietà non sono divise ma unite, giacchè dicendosi testis fidelis et verus non si rappresenta il Verbo solamente come oggetto per sè noto, e lume in astratto, ma come oggetto personale ed illuminatore, con che viene indicato l' esser egli oggetto persona, e dicendosi principium creaturae Dei non si esprime solo un' attività operante, perciocchè il Verbo è principio delle creature tanto come oggetto, quanto come sussistenza, onde quell' appellazione esprime una sussistenza7oggetto. La sentenza del Genesi consuona con quella del Salmo: « Tu in principio Domine, terram fundasti (3) », e da Origene è commentata in questo modo: « Quod est omnium principium, nisi Dominus noster et Salvator omnium Christus Jesus primogenitus omnis creaturae? In hoc ergo principio suo, hoc est in Verbo suo, Deus coelum et terram fecit (4) ». S. Basilio pure interpreta allo stesso modo la parola del Genesi, e chiama il Verbo « artifex (5) ». Medesimamente S. Ambrogio: « In hoc ergo principio, id est in Christo, fecit Deus coelum et terram (6) ». A cui consente S. Agostino: « In hoc principio, Deus, fecisti coelum et terram, in Verbo tuo, in Filio tuo, in virtute tua, in sapientia tua, in veritate tua (7) ». E lo stesso S. Girolamo, nel libro delle tradizioni ebraiche sul Genesi, scrive: « In capite libri scriptum est de me, id est in principio Geneseos (.) ». S. Tommaso d' Aquino ragiona sottilmente di tutti i significati che può ricevere la parola principio . Perocchè questa parola, di natura sua, ha una significazione indeterminata e generica, la quale dal contesto si determina variamente. « « Poichè, importando la parola principio un cert' ordine ad altre cose, egli è uopo che si rinvenga un principio in tutte quelle cose, nelle quali vi è un ordine »(4) ». Quindi vi è un principio della quantità, come il principio de' numeri, il principio dell' estensione, il principio del tempo, ecc.: vi è un principio nella scienza e nelle discipline, vi ha un principio nella produzione e durazione delle cose contingenti. Conviene adunque vedere come al Verbo convenga l' appellazione di principio . A lui conviene quest' appellazione nel modo più assoluto, tanto nell' ordine ideale quanto nell' ordine reale, tanto nell' ordine della scienza quanto in quello della produzione e della durazione delle cose create. Nell' ordine della scienza gli conviene nel modo più assoluto, perchè egli è l' essere per sè noto e conseguentemente l' intelligibilità stessa. Quindi egli è principio oggettivo del sapere a tutte le intelligenze. E relativamente all' uomo ed alla scienza umana egli è principio oggettivo della scienza umana sia naturale, sia soprannaturale. Della scienza umana naturale egli è il principio remoto ed occulto, perocchè il principio oggettivo della scienza naturale è l' idea dell' essere, la quale, come pura idea che ella è, non è il Verbo, come dichiareremo meglio più sotto, e però viene dal Verbo mostrata alle menti, senza però ch' egli ancora mostri loro se stesso. Nell' ordine poi della scienza soprannaturale, questa ha due quasi parti o modi: poichè ella, o è interna, infusa per grazia mediante una comunicazione immediata del Verbo o de' suoi doni; o è esterna, rivelata, insegnata colle parole e segni esteriori, e questa propriamente è l' espressione e l' analisi della prima. Rispetto adunque alla scienza soprannaturale interna il Verbo è il principio prossimo, come nel tempo di grazia, nel quale si comunica personalmente, o nel tempo antico della legge naturale e scritta, nel quale si comunicava co' suoi doni, non ancora personalmente. Rispetto poi alla scienza rivelata ed analizzata più o meno, secondo che vi s' aggiunge o no il lavoro degli scienziati, anche qui si dee distinguere la scienza dell' antico testamento da quella del nuovo: ed è da dire che rispetto alla scienza dell' antico testamento il Verbo è principio, ma remoto, onde l' imperfezione di quella; rispetto poi alla scienza perfetta del nuovo testamento il Verbo è principio immediato. E parlando di questa S. Tommaso distingue due maniere di principii: il principio della scienza cristiana considerata in se stessa, e il principio relativamente al modo nel quale l' apprendono gli uomini. E tanto l' uno che l' altro principio è Cristo, ma in modo diverso: « secundum naturam quidem », dice il Santo Dottore, « in disciplina Christiana, initium et principium sapientiae nostrae est Christus, in quantum est sapientia et Verbum Dei, id est secundum divinitatem. Quoad nos vero, principium est ipse Christus, in quantum Verbum caro factum est, id est secundum ejus incarnationem (1) ». Venendo ora all' ordine della realità, cioè della produzione e della durata delle cose create, S. Tommaso insegna che il Verbo è principio delle cose in due modi, cioè perchè ne contiene la ragione, ossia l' essenza ideale, e perchè effettivamente egli le fa essere sussistenti, « principium est creaturarum (persona Filii) secundum rationem virtutis activae, et per modum sapientiae quae est ratio eorum quae fiunt (2) ». E questi sono appunto i due aspetti, sotto cui noi abbiamo detto doversi considerare il Verbo, come oggetto , e come sussistente persona . I quali due aspetti sono anche indicati in quelle parole che Cristo disse definendo se stesso: « Principium, qui et loquor vobis (3) ». Quasi dicesse io, persona, sono il principio pel quale e nel quale furono fatte tutte le cose, e sono anche il principio della scienza, la quale ora io parlando comunico a voi. Ma io dicevo che l' aver Mosè annunziato il Verbo semplicemente come principio non è ancora un annunziarlo espressamente come persona, appunto perchè la parola principio ha un significato generico e indeterminato, e non tutti i principii sono persone. Il concetto di principio è uno degli elementi che si contengono nell' idea dell' essere, i quali noi anco chiamiamo idee elementari, e l' idea non è ancora il Verbo, benchè possa essere la base di una scienza negativa ed iniziale del Verbo stesso. Medesimamente nelle antiche scritture si legge che Iddio fece ogni cosa « « nella sapienza »(4) », e che « in sermone ejus composita sunt omnia (5) », il che significa certamente che tutte le cose furono fatte nel Verbo. Ma v' è indicato il Verbo con vocaboli generali ed astratti come sono quelli di sapienza e di sermone, i quali non esprimono ancora la personalità del Verbo, perchè si possa indurnela per illazione, quando pur la mente umana abbia tanta saldezza di logico ragionare. Nelle antiche carte non è solo accennato che ogni cosa fu fatta nel Verbo, ma altresì pel Verbo. Già Mosè, lo storico della Creazione, fa che Iddio ordini il cielo e la terra colla sua parola: « « Disse Iddio: sia fatta la luce, e la luce fu fatta »(1) », e così parimenti in tutte l' opere delle sei giornate. Al che alludendo il salmista dice: « Verbo Domini coeli firmati sunt et spiritu oris ejus omnis virtus eorum. Quoniam ipse dixit et facta sunt, ipse mandavit et creata sunt (2) ». Il Crisostomo osserva che S. Giovanni disse più con una sola parola, « omnia per ipsum facta sunt », che non dicesse Mosè con molte (3); perchè Mosè non fece menzione che delle cose sensibili, laddove S. Giovanni abbracciò tutte non meno le sensibili che le insensibili. Il che è vero pigliandosi il racconto di Mosè secondo quello che suonano a noi le sue parole materialmente prese. Ma egli sembra indubitato che presso gli Ebrei la parola cieli significasse anche le cose spirituali di cui i cieli materiali erano l' emblema, il simbolo. Onde le Scritture attribuiscono i cieli a Dio, la terra agli uomini (4), distinguendo gli Ebrei tre cieli: l' uno quel degli uccelli, l' altro quel delle nubi, il terzo quel degli spiriti, e di questo erano come simbolo i precedenti cieli visibili. Onde S. Paolo disse che fu rapito al terzo cielo, che è l' ordine delle cose spirituali ed insensibili (5), dove udì parole arcane che non può l' uomo esprimere, mancando il linguaggio; e S. Pietro, parlando dell' eredità di Cristo, dopo aver detto che è « « conservata ne' cieli » », spiega tosto il suo detto, interpretando la parola cieli coll' altra che soggiunge « in vobis », cioè nelle anime nostre (6); ed innumerabili luoghi della Scrittura provano il medesimo. Laonde, quando Mosè disse: « « Nel principio Iddio creò i cieli [...OMISSIS...] e la terra » », venne a dire universalmente: Iddio creò le cose spirituali e le corporee, ovvero: Iddio creò le cose che appartengono al cielo, l' universo angelico, e quelle che appartengono alla terra, l' universo umano, tutte così abbracciandole; e indi lasciando i cieli angelici, s' estende a narrare come fu ordinata la terra, cioè l' universo dell' uomo, dove compariscono di nuovo i cieli visibili come parte dell' universo della terra, cioè dell' uomo. Mosè dunque prima narrò la creazione in generale in quelle parole: « « Nel principio Iddio creò il cielo e la terra » », dove non si fa altra distinzione che quella delle sostanze puramente spirituali, e delle sostanze materiali o materiate; poichè in vero queste non potevano esistere confuse nè pure nella prima creazione informe, come quelle che sono separate d' essenza; di poi narra la seconda creazione, cioè l' ordinamento dell' universo sensibile ed umano. - Ma qui si presenta alla mente una questione. Alla prima creazione delle sostanze non assegna tempo: cominciarono tutte ad essere in un istante, a cui si riferisce il detto della Scrittura: « Qui vivit in aeternum creavit omnia simul (1) »; alla seconda assegna sei distinte epoche. Della prima dice che le sostanze spirituali, e materiali furono create nel principio, cioè nel Verbo ; la seconda espone come fatta mediante la parola, pel Verbo di Dio. La questione dunque che si offerisce al pensiero si è: « perchè la produzione delle sostanze si dica fatta nel Verbo, il loro ordinamento pel Verbo ». Tutto nelle carte ispirate è degno di essere perscrutato, perchè niente è senza cagione. Onde dunque una tale proprietà e distinzione di parlare? Il Verbo, abbiamo detto, ha due proprietà indivisibili: d' essere oggetto7persona, e d' essere persona7oggetto. Come persona, è operante, in quanto è soggetto sussistente, colla stessa sussistenza divina comune alle tre persone; come oggetto, è per sè intelligibile, e l' intelligibilità contiene la ragione e la forma ideale delle cose. Ora nelle cose contingenti la sussistenza è fuori dell' idea, ossia fuori della loro essenza ideale: perciò l' essenza delle cose nell' idea non contiene la sussistenza. La sussistenza dunque delle cose contingenti non può passare dal non essere all' essere se non per un' azione creante, per la volontà creante, senza che l' idea ancora le prescriva la forma, o l' ordine che dee avere. All' incontro, quando si tratta di determinare la forma e l' ordine della sussistenza, allora conviene ricorrere all' idea che la contiene come la parte oggettivamente conoscibile della cosa, noi diremo brevemente come intuibile. Egli è vero che non può stare la sussistenza limitata senza una determinazione, una forma, un ordine; ma ciò non toglie che le due cose non si possano distinguere col pensiero astraente, come due aspetti della stessa cosa. E le distinse Cirillo Alessandrino, che rispondendo agli Ariani, i quali dicevano che il Verbo avesse imparato l' arte di creare dal Padre, fra le altre cose disse che il creare non è proprio dell' arte, ma della potenza. Perocchè l' arte s' adopera nell' ordinare e conformare la materia preesistente, ma il creare propriamente è un fare che la stessa materia esista (1). Ora l' arte appartiene all' intelletto in quanto ne contiene le regole, i tipi; laddove la potenza appartiene alla sussistenza. Nondimeno altro è il mutare la forma e l' ordine che già deve avere una materia preesistente, e questo non appartiene al creare; altro è il dare quelle prime forme e quel qualunque ordine alla sostanza, senza il quale nessuna materia, nessuna sostanza potrebbe esistere, e questo appartiene alla creazione, perchè si tratta di quelle forme che vengono concreate colla materia o colla sostanza delle cose; e di queste parla Mosè. Se dunque la mera sussistenza non ha idea, non è determinata da alcuna essenza ideale, da alcun oggetto intuibile, ma dal solo sentimento, procede di conseguente ch' ella non viene prodotta sul tipo di alcuna idea, non ha tipo; non è dunque per l' idea che esiste, ma è prodotta immediatamente dall' agente. All' incontro ogni altra qualità, eccetto la sussistenza, ogni ordine, determinazione od ordine della sussistenza, ha un modo ideale di essere, è nell' idea compresa; quindi l' artefice ricorre all' idea per formarla, e così si dice che la forma per «l' idea (2) ». La sussistenza adunque, ogni sussistenza si riduce al Verbo come a principio, in quanto il Verbo è sussistente, persona sussistente ed operante; all' incontro ogni forma delle cose risplendente nell' idea si riduce al Verbo come a principio in quanto il Verbo è oggetto, cioè per sè noto, per sè intuibile. Iddio dunque creò la sussistenza delle cose contingenti nel Verbo immediatamente, come sussistente; creò poi la forma e l' ordine della sussistenza pel Verbo, come oggetto, che racchiude ogni regola, ogni tipo, ogni forma, ogni ordine, sul quale come sopra esemplare le sussistenze possano venire ordinate. Onde apparisce che quando si tratta d' esprimere la creazione formata è maggior proprietà di parlare il dire che fu fatta pel Verbo, come lo scultore fa la statua pel suo concetto. Onde sembra potersi concludere che dicendosi le cose tutte fatte pel Verbo, si viene a dire di più che dicendosi fatte nel Verbo, perocchè quest' ultima maniera potrebbe restringersi a significare la creazione informe e sostanziale, laddove la prima dice la creazione formata e compiuta, come quando si legge: « qui fecisti omnia verbo tuo, et sapientia tua constituisti hominem (3) », ovvero quando il Salmista dice: « Verbo Domini coeli firmati sunt et spiritu oris ejus omnis virtus eorum. Ipse dixit et facta sunt; ipse mandavit et creata sunt (4) », dove si parla di tutta la creazione, tanto della parte materiale e sostanziale, quanto della parte formale e accidentale, perocchè questa non sta senza quella, di cui è il compimento. E però quantunque S. Giovanni, dicendo: « « Omnia per ipsum facta sunt » », venga ad abbracciare ogni cosa creata ed ogni modo e forma della medesima, tuttavia Origene, o un altro autore, osserva che non istette a ciò contento, ma che nelle parole che soggiunse: « « e senza di lui non fu fatta nè pure una cosa » », secondo la forza della parola greca «choris autu», ci venne a dire altresì che tutte le cose sono fatte nel Verbo. La quale interpretazione essendo lodata da S. Tommaso, qui la recherò colle stesse parole dell' Angelico: [...OMISSIS...] . Laonde S. Giovanni colle parole che dichiariamo espone ad un tempo che tutte le cose sono fatte e conservate pel Verbo e nel Verbo. Il Verbo adunque concorre alla creazione in due modi: concorre a produrre la materia e in generale la sussistenza delle cose, come potenza ossia come sussistenza divina; e concorre a produrre la forma, e in generale l' ordinamento delle cose come arte, cioè come oggetto che fa conoscere l' ordine dell' essere, ossia l' essere nel suo intrinseco ordine. In quanto vi concorre come sussistenza divina, egli non è un agente minore del Padre, come deliravano gli Ariani (1), ma uguale al Padre, come quello che ha l' identica sussistenza, e però l' identica virtù del Padre. Perocchè, dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Nè può addursi in contrario la decisione del Concilio di Sirmio, il quale, interpretando quelle parole: « Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram (3) », le intende come dette dal Padre al Figliuolo, e que' Padri dissero di conseguente che nella creazione delle cose « « Filium obsecutum fuisse Patri »(4) », e colpiscono d' anatema chi dicesse altramente. Perocchè era lontanissimo dalla mente di quel Concilio il sottoporre al Padre il Figlio o farlo di lui inferiore: chè anzi la decisione era pronunciata contro gli Ariani. E nel vero quel luogo del Genesi è atto a confutare gli Ariani, al quale intento l' adoperò Cirillo d' Alessandria, osservando che le parole: « « Facciamo l' uomo » » non sono d' un superiore che comanda, ma d' un uguale che parla ad un uguale. Perocchè, se avesse parlato comandando, avrebbe detto « Fate », e non « « Facciamo »(5) ». Oltredichè quelle parole si possono altresì interpretare di tutte e tre le divine persone, che a una sola voce, prendendo il consiglio di far l' uomo, dicono: « « Facciamo l' uomo » », dove non v' ha distinzione dall' una all' altra nell' opera che stanno per intraprendere, giacchè tutte e tre si eccitano a far l' uomo: nol fa una sola, il fanno tutte e tre; non vi coopera più l' una che l' altra, tutte egualmente: « « facciamo l' uomo » »; il fanno ad una sola immagine e similitudine, « ad similitudinem nostram », indicando così che una è la natura di tutte e tre, se tutt' e tre danno una sola immagine e similitudine. In qual senso adunque si debbano intendere le parole del citato Concilio, che dicono il Figliuolo nella creazione avere assecondato il Padre? Non altro se non avere avuto dal Padre colla natura la virtù creatrice, e però creare colla natura e colla virtù ricevuta dal Padre, e identica a quella del Padre. Onde, secondo alcuni scrittori (1), si può concepire una cotale officiosità fra le divine persone, che non le rende punto l' una all' altra inferiore, e che si riducono alle stesse relazioni per le quali sono persone distinte. Così il Figliuolo conosce d' aver ricevuto dal Padre ogni cosa, e lo Spirito Santo dal Padre e dal Figliuolo. Il Padre conosce d' aver dato ogni cosa al Figliuolo ed allo Spirito Santo pel Figliuolo, ed ama se stesso nelle altre persone. Ora il riconoscere d' avere ogni cosa dal Padre è nel Figliuolo un cotal atto di giustizia e di gratitudine (se così si può dire); e il riconoscere d' avere ogni cosa dal Padre e dal Figliuolo è un cotal atto di gratitudine nello Spirito Santo. Ma più veramente e più propriamente si dee dire, che tali offici scambievoli fra le divine persone si contengono nello stesso Spirito Santo, che è la sussistenza divina per sè amata; e quindi altro non vi è nella Triade eccetto le persone; benchè niente vieti che come nel Verbo, secondo la limitata nostra intelligenza, distinguiamo più proprietà, che però altro in sè non sono che la stessa semplicissima persona del Figliuolo; così nello Spirito Santo distinguiamo più uffici morali, non distinti realmente fra loro, anzi costituenti la sola semplicissima persona dello Spirito Santo in un modo superiore alla nostra intelligenza. Ma dobbiamo altresì considerare il secondo modo nel quale il Verbo concorre alla creazione, cioè dobbiamo considerare il Verbo, secondo l' espressione di S. Agostino, come Arte, e noi diremo come oggetto assoluto ed infinito. A questo modo si riferiscono le parole di S. Tommaso di sopra da noi riferite, e che qui porremo di nuovo sotto gli occhi del lettore. « « Ora se si considerano rettamente » », dice l' Angelico nel suo commentario, « « le parole predette: Tutte le cose sono fatte per esso , apparisce con evidenza che l' Evangelista favellò propriissimamente. Perocchè chi fa qualche cosa, conviene che prima la concepisca nella sua sapienza che è la forma e la ragione della cosa che si fa, siccome la forma nella mente dell' artefice è la ragione dell' arca che sta per fare. Così adunque Iddio non fa nulla se non pel concetto del suo intelletto, il qual concetto è la sapienza concepita ab eterno, cioè il Verbo di Dio, e il Figliuolo di Dio; e però è impossibile che egli faccia qualche cosa se non pel Figlio. Il perchè S. Agostino (1) dice che il Verbo è l' Arte piena di tutte le ragioni viventi, e così apparisce che tutte le cose che fa il Padre, le fa per esso » ». Ora, le ragioni, le forme, i concetti delle cose non racchiudono, come tali, la sussistenza delle cose contingenti, e però essi non somministrano la sussistenza delle cose da crearsi, ma ne determinano le forme, i limiti, l' ordine, e tutto ciò che cade nelle cose, eccetto la materia e sussistenza. Quindi questo modo di creare riguarda la creazione formale ed ordinativa, alla quale il Verbo presta l' esemplare al Padre. Conviene ben ritenere che queste due maniere di creazione, che troviamo distinte nella narrazione mosaica, non sono separate nel fatto, perocchè, come abbiamo detto, la sussistenza delle cose contingenti non può attuarsi senza qualche forma, senza limite ed ordine: onde l' atto della creazione è un solo. Ma ciò non toglie che la mente nostra distingua con verità in essa due effetti contemporanei e legati indivisibilmente insieme: quello della sussistenza, e materia; e quello della sua forma. Ora rispetto alla forma il Padre ed il suo Verbo con egual virtù creano, ma non in egual modo (e lo stesso diremo in appresso del Santo Spirito): perocchè essendo detto con proprietà, secondo l' Angelico, che il Verbo è il concetto e l' arte, il Verbo somministra l' esemplare, e il Padre crea, guardando in questo esemplare. Nello stesso tempo è da dire, che inabitando e circuminsedendo il Verbo nel Padre, il Padre ha in sè il Verbo, cioè la sussistenza per sè nota, e però il Padre niente mutua dal Verbo in modo che non l' abbia in se medesimo; e però ha in se medesimo anche l' esemplare delle cose medesime, perchè ha in sè il Verbo, giacchè le persone sono indivisibili, benchè, come persone, realmente distinte; di maniera che è un solo Dio sussistente in tre persone, e se non sussistesse in tre persone non sarebbe Dio. Onde, se il Padre, il Verbo, e lo Spirito Santo si separassero al tutto fra loro, cesserebbero d' essere Dio, non essendovi un Dio Padre separato da un Dio Verbo, nè un Dio Verbo separato da un Dio Spirito Santo, nel qual caso sarebbero tre Iddii, il che è assurdo. Nella creazione adunque della materia o della sussistenza tutte e tre le persone concorrono con una identica virtù e nello stesso modo: perchè questa creazione è dovuta alla sussistenza o natura divina comune a tutte e tre le persone, e perciò si attribuisce al Padre come quello che è sussistenza divina in quanto la comunica al Figliuolo, unitamente col quale la comunica allo Spirito Santo. Nella creazione poi della forma, tutte e tre concorrono con una uguale virtù a realizzarla, ma non nello stesso modo a determinarla, perchè è il Verbo quello che ne contiene il concetto, l' esemplare. Finalmente nel fine, nella perfezione soprannaturale dell' universo, che è la santità, tutte e tre le persone concorrono con una eguale virtù, ma non nello stesso modo, perocchè lo Spirito Santo, che è l' essere per sè amato, comunica l' amore soprannaturale agli uomini. Quindi si manifesta la ragione perchè nell' Universo creato e nelle sue vicissitudini si scorga non solo la onnipotenza di un Dio uno, ma ben anco i vestigi di un Dio uno e trino, un ectipon dell' augustissima Trinità. Ma giova che noi torniamo su quello che abbiamo detto della doppia esistenza delle cose: nel Verbo divino, in cui esistono oggettivamente; e in se stesse, a cui esistono soggettivamente. Questa doppia esistenza spiega come l' atto creativo sia eterno e ab eterno fecondo, e come nello stesso tempo le cose esistano nel tempo. Le cose create esistono nel Verbo fino dall' eternità, nella quale è emesso l' atto creativo; ma esistono nel tempo in se stesse fuori del Verbo. Perocchè il tempo è una relazione subbiettiva delle cose fra loro, e però egli è concreato alle cose, e nel Verbo non cade che come oggetto, non come al tempo soggiacesse lo stesso soggetto Verbo. Dell' eternità dell' atto creativo S. Agostino scrive [...OMISSIS...] . E il venerabile Beda, il quale legge, Quod factum est in ipso vita erat, intendendo quell' in ipso per in ipso Verbo, reca la stessa dottrina in queste parole: [...OMISSIS...] . E qui si vede altresì come a Dio sono presenti tutti i tempi e tutte le cose, « et vocat ea quae non sunt tanquam ea quae sunt (3) »: poichè nel Verbo divino sono ab eterno tutte le cose che egli crea, eziandio che non sieno ancora a se stesse; sono nel loro fondamento che è il Verbo, secondo l' espressione di S. Agostino: qui s' intende come abbia luogo senza alcuna ripugnanza la previsione e la predestinazione divina. Dopo avere parlato della creazione in generale e aver detto che tutte le cose furono fatte pel Verbo e niente fuori del Verbo, l' Evangelista discende a parlare in ispecie degli uomini, per salute dei quali egli scrive l' Evangelio, e a dimostrare che cosa il Verbo ebbe fatto per essi, o piuttosto che cosa è il Verbo per essi. Dichiara adunque colle indicate parole qual sia l' intima costituzione della creatura intelligente umana fatta pel Verbo. E comincia a farci considerare che « « nel Verbo vi è vita » », che non si tratta d' un verbo morto, ma di un Dio vivo, anzi di un Dio7vita, e che egli è « « luce » », non trattandosi d' una vita puramente sensibile, ma d' una vita intellettiva: e finalmente dice, che la vita che è nel Verbo è luce agli uomini, dimostrando così come gli uomini sono costituiti esseri intelligenti pel Verbo. Le due parole vita e luce si riferiscono appunto a que' due aspetti sotto i quali noi abbiamo detto doversi considerare il Verbo divino. Perocchè la vita si riferisce al Verbo in quanto è sussistenza, e la luce si riferisce al Verbo in quanto è oggetto, termine dell' intelletto vivente. Ma, nello stesso tempo che S. Giovanni accenna questi due aspetti del Verbo divino, mostra altresì la loro indivisibilità, perocchè dice che la stessa vita del Verbo è la luce degli uomini, nè potrebbe esser luce agli uomini se non fosse per sè luce; solo essendo luce per sè ed a sè, egli poteva esser luce agli altri, e non solo agli uomini, ma ben anco a tutte le intelligenze create; benchè l' Evangelista non faccia menzione che degli uomini, come di quelli a cui il suo Vangelo era ordinato. E qui deve osservarsi che nella generazione del Verbo la vita e la luce tengono un altro ordine da quello che hanno nella creazione e formazione dell' uomo. Perocchè la generazione si fa per un pronunciamento intellettivo del Padre, col quale il Padre pronuncia la propria sussistenza, e così questa diviene oggetto ossia luce. Ma questo pronunciamento essendo pienissimo e completissimo, ha virtù di fare che l' oggetto pronunciato sussista come soggetto ossia persona, e l' oggetto vivente e sussistente è appunto il Verbo: di che il detto pronunciamento si chiama generazione, perchè fa sussistere una persona che ha la stessa sussistenza della pronunciante e generante. Laonde nell' eterna generazione vi ha quest' ordine logico, secondo il nostro modo di vedere, che prima e immediatamente sia l' oggetto ossia la luce, poi quell' oggetto ossia luce sussista come vita, cioè come persona per sè vivente. All' incontro nella creazione e formazione dell' uomo, questo riceve prima (sempre parlandosi d' ordine logico e non cronologico) la vita, e poi l' oggetto ossia la luce che lo renda intelligente, « quia lux non nisi viventi attribui potest », come dice l' Angelico (1). L' oggetto adunque vivente è la persona del Verbo. Dove è da considerare che la parola vita esprime quell' atto in un modo oggettivo, laddove se l' Evangelista avesse detto semplicemente il Verbo vivente, avrebbe espresso il vivere in un modo solamente soggettivo. Il Verbo dunque ha vita, prendendo questa parola come oggetto, come essenza, come essenza vivente; di maniera che il soggetto vivente è l' oggetto vita, o l' essenza vita in lui dimorante; o anche, viceversa, la vita come essenza, come oggetto, è soggetto vivente. Se l' oggetto fosse rimasto solo oggetto, egli non sarebbe stato più che un' idea; ma ricevendo la vita, la stessa vita essenziale a Dio, divenne persona, la persona del Verbo. Quindi egli stesso dichiarò il modo della propria generazione eterna quando disse: « « Siccome il Padre ha vita in se stesso, così diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso »(1) ». E dice « in se stesso »pronome personale, quasi venga a dire nella propria persona, indicando così che la persona non è divisa dalla vita, ma questa vita è nella persona stessa. Ma perchè l' Evangelista dice, che « « nel Verbo era vita » », e non dice piuttosto, che il Verbo stesso era vita? Conviene ben considerare, che la parola vita esprime un modo di essere astrattamente, secondo il nostro parlare umano, da cui viene il significato di quella parola, di maniera che la parola vita non indica per sè alcun soggetto, alcuna persona. Ritenendo adunque la proprietà del parlare, non si poteva dire che la vita fosse la persona, ma si doveva dire che la persona avesse la vita in se stessa, o che la vita fosse nella persona. In fatti la vita esprime una proprietà comune di tutti i soggetti, i quali tutti appunto perchè soggetti hanno vita; ma per sè la parola vita non esprime più un soggetto che l' altro, anzi nessun soggetto, come dicevamo, ma una proprietà o condizione del soggetto. Non già che nel Verbo vi abbia distinzione reale fra la sua vita e la sua persona, ma noi siamo obbligati a porre una distinzione di concetto fra queste due cose, atteso l' imperfezione del nostro parlare astratto, nel quale la mente divide delle cose che sono in natura unite. Nè vale il dire che Cristo disse anco: « « io sono la via, la verità e la vita »(2) »; perocchè in questo luogo non dice di essere la vita in se stesso, ma relativamente agli uomini, pei quali è anche la via di pervenire al loro beato fine, contenendo in sè tutta la legge morale, che è appunto la via che conduce alla beatitudine. Il che si vede dal contesto, perocchè risponde a Tommaso, che gli avea dimandato: « « Signore, non sappiamo dove tu vai; e come possiamo sapere la via? » », e dopo aver detto: « « Io sono la via, e la verità e la vita » », soggiunge: « « Niuno viene al Padre se non per me »(3) ». E nel testo greco in queste parole vi ha l' articolo premesso alla parola vita «e zoe», laddove nelle parole di S. Giovanni: « « in esso era vita » » manca l' articolo «en auto zoe»; il che indica che nel primo luogo si parla d' una vita determinata, cioè di quella degli uomini, laddove in questo si dice semplicemente che il Verbo non è per avventura cosa morta, ma avente la vita. E non dicendosi che « nel Verbo era la vita »ma che « « nel Verbo era vita » », non v' ha pericolo che s' intenda forse ch' egli solo il Verbo possieda la vita, e non il Padre o lo Spirito Santo. Perocchè, dicendosi che nel Verbo era vita, niente impedisce che sia vita anche nell' altre due persone, onde l' omissione dell' articolo sembra meglio indicare la comunione della vita, che hanno le tre persone augustissime. E così ogni qual volta le Scritture parlano della vita che il Verbo ha in se stesso, e non rispetto a noi, omettono l' articolo, come nel testo citato di sopra [...OMISSIS...] ; e quando parlano della vita rispetto a noi, lo pongono, come: « « Io sono la risurrezione e la vita »(2) ». Dicendo dunque l' Evangelista che nel Verbo era vita, viene a dire che il Verbo di Dio non è, come il verbo dell' uomo, sterile e non sussistente in se stesso, un atto, un accidente dell' uomo stesso; ma che il Verbo stesso aveva in sè vita, ossia viva sussistenza. Di che poi avveniva ch' egli, avendo in sè vita, potesse comunicare della sua vita anche a noi. Ma prima di passare a vedere come il Verbo sia vita a noi, conviene che meditiamo più addentro, come in lui sia vita. Che cosa è la vita? - La vita è il sentimento: dove non vi ha sentimento di sorte alcuna non vi ha vita. Pure, quando il sentimento è prodotto, anche l' incessante produzione del sentimento si chiama vita, e allora si distingue la vita dal sentimento; ma anco presa la vita in questa significazione, il significato d' una tale parola ha una relazione essenziale col sentimento, sicchè può dirsi che il sentimento sia la vita in atto, e la sua produzione la vita in potenza. Laonde abusivamente si dice che le piante vivono, qualora non si voglia attribuir loro qualche sentimento. Ma gli uomini, non solendo attribuire alle piante sentimento, attribuiscono loro nondimeno la vita per un' analogia con ciò che osservano avvenire negli animali, ne' quali la vegetazione è riproduttiva del sentimento, e però dicesi vita. Ora nelle piante vi ha pure vegetazione, e per questo si suol dire che vivano, benchè quella vegetazione, nella opinione comune, non produca nelle piante alcun sentimento. Ma fra ciò che sente e ciò che non sente vi ha differenza specifica, e però la parola vita applicata alle piante ha un significato specificamente diverso dalla parola vita applicata agli animali; quella della pura vegetazione, che non va a finire in alcun sentimento; è vita in senso analogico e traslato, non è vita in senso proprio, non è vera vita. La vita dunque in senso proprio e completo è il sentimento. Ora è da osservare che la vita, cioè il sentimento, viene all' uomo dal di fuori, e non la ha in se stesso. E di vero la vita animale è suscitata dal termine corporeo: l' anima non è che il principio senziente; se non avesse il termine sentito, ella nè sentirebbe, nè sarebbe principio d' alcun sentimento, nè per conseguente sarebbe. Dunque l' uomo non ha la vita in se stesso. Anche nell' ordine intellettuale vi ha un sentimento, e però una vita. Ma se si considera l' uomo come essere intellettivo, e come egli è costruito tale, primieramente si scuopre ch' egli non potrebbe ricevere l' intelligenza se non avesse prima la vita animale, quia lux nonnisi viventi attribui potest; in secondo luogo anche l' intelligenza egli la riceve dal di fuori, cioè dall' essere ideale, che gli sta presente come oggetto che lo informa, e così lo rende intelligente. Onde l' uomo, la persona umana, non ha neppur la vita intellettiva in se stessa, ma le viene comunicata da qualche cosa che non è lei, e che a lei manifestandosi si costituisce sua forma. Non è così del Verbo divino, dice S. Giovanni, perocchè « « in esso medesimo è vita » ». Poichè « « siccome il Padre ha in se stesso vita, così egli diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso » ». Nella persona del Verbo dunque è vita, è sentimento: non si può distinguere in tal persona il principio dal termine della vita: questo termine non vien dato al principio vivente dal di fuori, non è cosa di natura diversa e straniera al principio vivente; ma la vita, il sentimento è nello stesso principio vivente. Consegue da questo che alla persona del Verbo la vita è essenziale, come a quella del Padre e dello Spirito Santo. Di che si scorge che una tal persona è immortale ed eterna, perchè niente può sottrarle la vita e così distruggerla. All' uomo può esser sottratto il termine del sentimento animale, e così può perdere la vita; all' anima separata può esser sottratto l' essere ideale, suo oggetto informante, da quella stessa potenza che glielo dà, e così verrebbe annichilata, perchè non esisterebbe più un principio intelligente. Ma se l' anima non avesse bisogno della materia e dell' idea dell' essere per vivere della sua doppia vita sensibile e intelligibile, essa non potrebbe nè morire, nè essere annichilata, perchè sarebbe assoluta signora della sua propria vita. Ora S. Giovanni ci dice, che questo appunto accade del Verbo, dicendoci che in esso stesso è vita, e che perciò non ha una vita mutuale, o dipendente da qualche cosa di straniero a se stesso. La vita dunque è nella stessa persona del Verbo, non le viene data da un termine d' altra natura di essa, e però ad essa straniera come nell' uomo, in cui per conseguente la persona è distinta realmente dalla natura. Da ciò consegue che la vita del Verbo dee essere una vita illimitata altresì, infinita, pienissima. Perocchè in tutti quei soggetti ai quali viene costituita da termini di natura distinta da essi, e sono tutti affatto i soggetti creati, onde accade che la vita sia limitata? La limitazione della loro vita viene dalla limitazione del loro termine vitale, il quale non dipende da essi, ma essi lo ricevono quale loro vien dato. Ma nella persona divina questo termine non è fuori di lei, non è d' una natura da lei distinta o separata, non vi ha una potenza straniera che glielo dia, e in dandoglielo possa limitarlo: non vi ha dunque alcuna cagione di limitazione, come nelle persone, o più generalmente ne' soggetti creati. Nel Verbo dunque vi ha vita senza possibilità di limitazione, vita pura, quindi vita infinita senza gradazione, tutto ciò che può esprimere la parola vita, l' essenza della vita realizzata ed ultimata. Lo stesso si raccoglie quando si considera quello che di sopra ha detto l' Evangelista che « « il Verbo era Dio » »: se dunque egli è Dio, deve avere una vita infinita: se è Dio, e la vita è nel Verbo, conviene che la vita del Verbo sia in Dio, e perocchè in Dio non v' ha nulla di finito, conviene che la vita non sia finita; perciocchè in Dio non v' ha nulla che non sia Dio, conviene che la vita stessa del Verbo sia Dio, sia la divina natura e sussistenza. Questa natura dunque, questa sussistenza divina è vita, è sentimento: infinito sentimento, che accoglie tuttociò a cui può estendersi il significato di questa parola. E che la vita, che è nel Verbo, sia la stessa sussistenza divina che il Padre comunica al Figliuolo in generandolo, scorgesi in quelle parole: « « Siccome il Padre ha vita in se stesso, così diede anche al Figliuolo avere vita in se stesso » ». Parlasi dunque d' una vita comune al Padre ed al Figliuolo, o piuttosto parlasi di vita puramente. Ora vita esprime un' unica essenza: l' essenza è unica e non più, benchè molti possano essere i soggetti che variamente partecipano della realizzazione d' un' essenza. Se dunque la vita, come essenza (qual viene espressa nell' idea della vita), è semplice ed una, e se in Dio l' essenza stessa è realizzata: dunque convien dire che la vita che è nel Figliuolo non possa essere altra se non quella stessa numericamente che è nel Padre, la quale è la stessa sussistenza o natura divina. Ma, come dicevamo innanzi, le specie della vita che si ravvisano nelle creature sono diverse, e ciascuna ha i suoi gradi. Se dunque consideriamo la vita nell' uomo, preso semplicemente nell' ordine naturale, noi troviamo in lui tre specie di vita. Perocchè troviamo primieramente la vita animale, che consiste nel sentimento animale, che dà vita al principio senziente. Questa vita è unicamente soggettiva, perocchè non ha alcun oggetto nel quale si compiaccia, giacchè l' oggetto è il termine del solo intendimento. In secondo luogo vi ha la vita intellettiva o razionale, che consiste nel sentimento intellettivo che nasce al contemplare la verità e la bellezza, o si rinviene nella ricerca e nel possesso della scienza. Questa è vita oggettiva, perchè si compiace dell' oggetto conosciuto; e questa vita nella presente condizione s' innesta sulla prima, giacchè nell' uomo logicamente precede l' animalità, che lo costituisce soggetto, all' intellettualità che lo costituisce persona. Finalmente vi ha la vita morale, la quale consiste nel sentimento morale, cioè nella copia di que' diletti che produce all' uomo la virtù da lui praticata. Ora non potendo noi ragionare di Dio se non secondo l' analogia di ciò che osserviamo in noi, opere sue, dove ha certamente impressi i vestigi di se stesso, dobbiamo anche in Dio riconoscere qualche cosa di analogo alla triplice vita che noi sperimentiamo nella nostra natura. E però anche in Dio dobbiamo riconoscere qualche cosa d' analogo al puro sentimento soggettivo, anteriore logicamente all' oggetto, benchè senz' alcun termine materiale; questo lo chiameremo sentimento semplice perchè non ha oggetto nè termine: qualche cosa d' analogo al sentimento oggettivo che nasce alla contemplazione o veduta dell' oggetto: qualche cosa di analogo al sentimento morale che sorge dalla perfetta consensione del soggetto, come volontà, all' oggetto totale, cioè all' essere completo conosciuto. Ora è da vedersi ciò che in questa triplice vita divina è proprio della divina natura, e però identico a ciascuna delle tre divine persone; come tuttavia per appropriazione si attribuisca piuttosto una che l' altra di queste vite a ciascuna delle divine persone; e finalmente se v' ha qualche cosa di proprio alle singole persone. Il principio senziente ed il sentimento esprimono concetti diversi. Ora egli è fuori di dubbio che appartiene all' essenza divina il triplice sentimento e la triplice vita, di cui abbiam favellato. Per appropriazione poi il sentimento semplice, ossia la vita reale, si può attribuire al Padre; il sentimento intellettivo, ossia la vita intellettiva, al Figliuolo; e il sentimento morale, ossia la vita morale, allo Spirito Santo: e ciò perchè ciascuna persona concorre in una sua propria maniera a porre in atto tali maniere di vita e di sentimento. Perocchè conviene ben considerare che l' essenza divina non è realmente distinta da ciascuna persona, di maniera che ella non sarebbe se non fossero le persone; e non è che nelle persone, e in tutte tre simultaneamente e identica, di guisa che sarebbe assurdo il concepirla in uno o in due, e non nell' altra o nell' altre. Onde, quantunque si dica che le persone concorrono a costituire sotto un qualche rispetto l' essenza vivente, non si vuol con ciò dire che l' essenza dipenda dalle persone, nè le persone dall' essenza, non potendo cadere in Dio dipendenza alcuna; ma solo una priorità e una posteriorità logica, secondo il nostro modo limitato di pensare. Dobbiamo dunque vedere come ciascuna persona divina concorra per sua parte a costituire una delle tre vite da noi distinte nell' Essere divino, e questo concorso è appunto ciò che è proprio e non appropriato alle singole persone. Il sentimento semplice primieramente, ossia la vita reale, si concepisce da noi anteriormente ad ogni oggetto e ad ogni atto intellettivo, e perciò si concepisce anteriormente in ordine logico alla generazione del Verbo, si concepisce come proprio dell' essenza, astrazione fatta dalle persone. Ma questa essenza reale e vivente di semplice sentimento è comunicata ad un' altra persona, cioè al Verbo: e quindi le due persone del Padre e del Figliuolo. Il Padre è l' essenza vivente, in quanto pronunciando se stessa rendesi oggetto, ed oggetto sussistente e personale; e il Figliuolo è l' oggetto stesso, la stessa sussistenza, divenuta oggetto e persona ad un tratto. Supponendo ora quest' oggetto7persona, forz' è che nella stessa essenza divina, e quindi tanto nel Padre quanto nel Figliuolo, esista il sentimento intellettuale cioè un' infinita compiacenza della verità essenziale, e della bellezza essenziale, e della sapienza: perocchè l' oggetto7essere è verità essenziale, e l' ordine intrinseco di questo oggetto7essere è la bellezza essenziale, e la notizia di quest' oggetto è la sapienza essenziale. Dunque, dato quest' oggetto, cioè generato qual persona dal Padre, conviene che tutte e due le persone godano di quest' oggetto e si compiacciano in Lui, il che costituisce l' infinito sentimento intellettuale; e che questo sentimento identico, in quanto appartiene al Padre abbia il suo oggetto nel Figliuolo, e in quanto appartiene alla persona del Figliuolo abbia il suo oggetto in se stesso; di maniera che questo sentimento è appropriato al Figliuolo, perchè è proprio del Figliuolo il somministrarne l' oggetto od il termine il quale è egli medesimo. Il sentimento intellettivo è una contemplazione gaudiosa della verità, della bellezza, della sapienza, e suppone un oggetto; onde si dice sentimento oggettivo. Nell' uomo vi ha una contemplazione puramente teorica, perchè la verità, la bellezza, la sapienza si manifestano a lui come oggetti puri, cioè idealmente. Ma l' oggetto del sentimento intellettuale divino non è puro oggetto, è nello stesso tempo personal sussistenza. Quindi in Dio non si può dare un sentimento puramente teoretico, ma dee essere anche pratico, cioè di volontaria adesione, e compiacente affetto nella persona che è in pari tempo essenzialmente oggetto. Questa sussistenza, come è per sè intelligibile ond' è anco oggetto inteso e persona, così è per sè amabile nella sua intelligibilità, onde è anco per sè amata. Il Padre che pronuncia il Verbo, cioè la sussistenza, e così la genera oggetto7persona, la ama altresì come essenzialmente amabile e così è essenzialmente amata; e questa sussistenza, in quanto è essenzialmente amata, è spirata persona, la qual si dice lo Spirito Santo. Onde l' oggetto7persona, in quant' è amata, colla spirazione del Padre è un' altra persona che sente se stessa nella forma di amata. Così il Padre spira lo Spirito Santo pel Verbo, perocchè nel Verbo ama la sussistenza, dove termina l' atto conoscitivo e generativo; perocchè la sussistenza divina non potrebbe essere amata se il Padre non l' amasse, nè il Padre potrebbe amarla se non la conoscesse e pronunciasse come oggetto7persona Verbo. Ma lo Spirito Santo procede non solo dal Padre pel Verbo, ma anco dal Padre e dal Verbo con una sola spirazione; perocchè è la sussistenza divina comune al Padre ed al Verbo, ed essente nell' uno e nell' altro, che amando se stessa, si rende amata persona. L' amare dunque la sussistenza divina è comune a tutte e tre le divine persone che identica la posseggono, e questa è la santità propria dell' essenza divina e il sentimento morale comune a ciascuna persona. Ma alla persona dello Spirito Santo logicamente precede quell' amare del Padre e del Verbo la sussistenza divina conosciuta; pel quale amore, la sussistenza amata è costituita persona che come tale ama dello stesso amore, perchè gli è comunicata la sussistenza divina intelligente ed amante. E quest' amore efficace pienamente è la spirazione unica comune al Padre ed al Figliuolo, il cui termine è la sussistenza amata come tale, sussistente qual persona. Onde l' amore si appropria allo Spirito Santo, perchè è il termine sussistente soggettivamente di un tale amore, cioè la sussistenza divina per sè nota e per sè amata in conseguenza dell' amore della sussistenza stessa essente identica nel Padre e nel Figliuolo e costituente queste due persone: l' essere dunque sussistenza divina amata è proprio della terza persona, cioè dello Spirito Santo, il quale perciò è anche il termine del sentimento ossia della vita morale di Dio, benchè questo sentimento e questa vita appartenga all' essenza divina, e perciò sia identicamente comune a tutte e tre le divine persone. Dopo aver noi veduto, per quanto ci è dato, quale sia la vita che è nel Verbo, domandiamoci perchè S. Giovanni sia passato a dire che nel Verbo era vita: come ciò si rannodi alla serie della sua narrazione. Questa sentenza si rannoda colle precedenti e colle susseguenti. Colle precedenti, perocchè avendo in esse annunziato il Verbo, cioè la parola di Dio, volle far conoscere l' Evangelista che questa parola non è, come le parole dell' uomo, senza vita propria, ma che è una parola vivente e sussistente, come abbiamo già notato. Si rannoda colle susseguenti, colle quali espone la creazione, l' istituzione e la salute eterna dell' uomo operate dal Verbo: onde stabilisce il fondamento che « « nel Verbo era vita » », perocchè dalla vita essente nel Verbo quelle tre opere si derivano e si compiscono. Nella causa doveva esser prima quello di cui poi partecipa l' effetto, e questo rimane spiegato quando è posta una causa ad esso corrispondente, avente in sè quanto si richiede a produrlo. L' effetto, cioè l' uomo, come essere vivente, razionale, abbellito di grazia, e in fine beatificato, ha la sua spiegazione compiuta nella vita che è nel Verbo, dalla partecipazione della quale, secondo diversi gradi, procedono all' uomo tutte quelle prerogative e tutti que' beni. Ma convien distinguere accuratamente questi gradi di partecipazione della vita del Verbo. Il Crisostomo, Cirillo Alessandrino, Teofilatto ed Eutimio (1) stimano che S. Giovanni dica nel Verbo è vita, per dimostrare che il Verbo conserva e governa le cose, non pure le crea, intendendo per vita quel vigore che il Verbo imprime in tutte le cose, e col quale le conserva e governa. Il dire che nel Verbo era vita esprime, secondo il Crisostomo, che il Verbo non solo potè creare, ma ben anco in lui rimane sempre una vita, quindi una causalità indeficiente, un flusso perpetuo delle cose senza alcun dispendio o diminuzione in lui stesso, nel quale la vita non cessa mai. E poichè la vita che è nel Verbo è pienissima, non solo reale, ma intellettuale e morale altresì; perciò l' Evangelista, secondo il Crisostomo, dicendo che nel Verbo è vita, viene a dire che egli non fa e produce le cose per una cieca necessità di natura, ma per volontà ed intelletto, onde anche sapientemente e santamente le governa. E` però da osservare che quanto a quel vigore onde si conserva in essere la materia non si può chiamar vita, o partecipazione di vita, perocchè la materia, come tale, è priva di vita, perchè è priva d' ogni sentimento. L' esistenza della materia, come suggerisce la filosofia, non è soggettiva, perocchè ella non è principio nè senziente nè intelligente: non è oggettiva, perocchè essa non è oggetto per sè sola e s' intende soltanto nell' oggetto o idea che vi aggiunge la mente. E` puramente un' esistenza terminativa , cioè la sua essenza è di essere termine d' un soggetto sensitivo. Nella materia non si scorge che la mera sussistenza senza relazione a se stessa, ma ad altro, cioè al soggetto sensitivo di cui ella è termine. Laonde S. Tommaso dice: « « Si conserva nelle parole premesse un ordine conveniente. Perocchè nell' ordine naturale delle cose, prima si trova l' essere (la mera sussistenza), e questo da prima insinuò l' Evangelista dicendo: « Nel principio era il Verbo », poi si trova il vivere, e questo è cio che segue: « In esso era vita », in terzo luogo si trova l' intendere, e di conseguente aggiunse questo: « E la vita era la luce degli uomini »(1) ». Così l' Evangelista addita che nel Verbo, fonte delle creature, si trovano causalmente ed eminentemente tutti i gradi di essere che si ravvisano nelle creature effetto di quella causa. I Manichei leggendo questo luogo con un' altra interpunzione da noi rifiutata, cioè: quod factum est in ipso (Verbo), vita erat, ne abusarono per sostenere i loro errori. Questi sono due: Il primo teologico, quello de' due principii, perchè dicevano che non tutte le cose erano fatte pel Verbo, ma quelle che erano fatte pel Verbo (riputando essi un sinonimo perfetto il dire fatte pel Verbo o nel Verbo) erano viventi, spiegando il soprallegato testo così: « era vita, cioè era vivente ciò che era stato fatto nel Verbo », dicendo poi che il niente era l' altra cosa, l' altro principio fatto, ma non dal Verbo, dicendo S. Giovanni che « « il niente era stato fatto senza il Verbo » et sine ipso factum est nihil (2) ». Il secondo filosofico, perocchè questi eretici dicevano che anche le pietre e i minerali tutti erano vita e però vivevano. A' quali due errori se n' aggiunge un terzo, che i Manichei, confondendo la vita sensibile colla vita intellettiva, attribuivano quest' ultima a tutti i viventi. Ora, che il luogo di S. Giovanni, nè pure letto come facevano tali eretici, suffragasse punto nè poco alla loro empia dottrina, apparisce da questo che, giusta il testo interpuntato a lor modo, le cose fatte nel Verbo non sarebbero solamente viventi, ma sarebbero vita, cioè assai più di quel che essi pretendono. Le cose partecipi della vita hanno una vita limitata, secondochè più o meno ne partecipano; ma la vita in se stessa non esprime alcun limite, di che consegue che l' esser vita a Dio solo appartiene, il quale non ha alcun limite nel suo vivere, e non partecipa già della vita, ma è vita egli stesso essenzialmente senza specie, gradi e confini: è la vita sussistente. Se dunque ciò che è creato fosse vita, sarebbe Dio; nè si scorgerebbero i diversi gradi della vita, come si scorgono ne' vari esseri di cui il mondo si compone. Ciò che è creato oltracciò non potrebbe soggiacere alla morte, perchè, essendo la vita, questa non può mai cessare di esser vita e passare ad uno stato di morte, perchè morte e vita si escludono a vicenda. Solamente quello che vien fatto partecipe della vita, ma che non è vita egli stesso, può venirne anco spogliato e morire. E` dunque impossibile che l' Evangelista abbia detto che ciò che è fatto pel Verbo fosse vita, e però niun vantaggio possono cavare i Manichei a favore de' loro errori da questo luogo di S. Giovanni, alla lor foggia interpuntato. Rifacendoci or noi a considerare il vigore che S. Giovanni Crisostomo attribuisce a tutte le cose, pel quale egli in certa maniera le considera come viventi, non però al modo de' Manichei, dobbiamo osservare che la materia, avendo natura e condizione di termine, e come tale essendo cosa inerte, conviene spiegare quell' attività che nondimeno in essa si manifesta. Primieramente ciò che esiste come termine suppone un principio, al quale sia termine e nel quale esista. Il qual principio non può esser altro che sensitivo, perocchè ciò che non sente, non può aver natura di principio, ma sol di termine. Non par dunque alieno dalla dottrina filosofica e teologica il supporre che Iddio ad ogni atomo di materia abbia congiunto un principio sensitivo, di diversa e contraria natura dalla stessa materia, pe' quali principii la materia sussista come termine, e dai quali riceva l' azione ed il movimento che in essa si scorge. Il che è mirabilmente accomodato a spiegare i fatti della natura. Non proverrebbe da questo che gli atomi nella materia fossero animali, giacchè l' animale suppone composizione ed organismo; ma solo che fossero animati. Nè sarebbero perciò intelligenti, perocchè i principii loro non più potrebbero essere che principii sensitivi, il cui sentire limitatissimo non avrebbe altro termine che quello dell' atomo stesso, non quale apparisce al di fuori a' nostri organi sensorii, ma qual sarebbe rispetto ai suoi principii medesimi. Nella qual sentenza, a cui suffragano i progressi delle scienze naturali e delle filosofiche, e che ottimamente si accomoda alla spiegazione dei fenomeni, la sentenza del Crisostomo, che vede nella vita che è nel Verbo quel vigore onde si conservan le cose, verrebbe nobilitata e resa più grave. Perocchè quel Verbo creatore, che in se stesso ha vita, creando le cose avrebbe come ritratto da sè il vigor vitale, e l' effetto meglio risponderebbe alla natura della sua cagione. La vita sensitiva è il sentimento semplice e cieco, perchè non illuminato dalla vista di alcun oggetto. Quindi, ove noi dall' effetto saliamo ad una causa corrispondente, non è necessario che nella causa creatrice di lei ravvisiamo la forma oggettiva. Considerando noi dunque, secondo il nostro modo d' intendere, l' essenza divina con un concetto anteriore logicamente a quello delle persone, la vita sensitiva si attribuisce da noi, come a causa, alla divina essenza, senza considerazione delle persone, e per approssimazione al Padre, nel quale l' essenza divina sussiste come nel principio fontale della Triade Augustissima. Ma se noi veniamo alla vita umana, cioè alla vita razionale, questa suppone una causa che sia oggetto, e però non si può concepire se non aggiungendovi la considerazione del Verbo che è per sè oggetto. E questo viene a dire l' Evangelista colle parole che seguono alle dichiarate sin qui: « « E la vita era la luce degli uomini » », cioè l' oggetto che informa ed illumina il loro spirito e così li rende intelligenti. Se il Sacro Scrittore non avesse avuto per iscopo d' insegnare la creazione ed istituzione degli uomini, egli non avrebbe detto che « « nel Verbo era vita » », poichè avrebbe in tal caso potuto dire egualmente che « era vita nel Padre e nello Spirito Santo », nei quali sussiste l' identica vita che nel Verbo. Ma perchè dunque preferì di dire che « nel Verbo era vita »? Perchè il suo intendimento era di favellare della vita in significato oggettivo, la quale, essendo per sè oggetto, fosse luce alle umane intelligenze, e così dichiarare come vengono costituite le menti umane. Ora la forma oggettiva della vita è propria del Verbo, perchè il Verbo è appunto l' essere come oggetto; benchè la sapienza e l' intelligenza soggettiva, che risulta dall' atto intellettivo che ha nell' oggetto il suo termine, sia comune ed identica in tutte egualmente le tre divine persone, come propria dell' essenza, considerata questa posteriormente alla processione delle persone. Laonde, se si considera lo spirito intelligente come effetto, e da questo si vuol salire a formarsi il concetto della causa, conviene pervenire non più alla semplice essenza di un Dio creatore, ma all' essenza considerata posteriormente (in ordine logico) al Verbo generato; che, essendo per sè oggetto, può solo divenir luce degli spiriti creati, e questi pure possono partecipare dell' essere in forma oggettiva, divenendo così intelligenti. Laonde il termine dell' umana intelligenza, che è l' essere ideale per sè oggetto, è un' appartenenza del Verbo divino, benchè non si possa dire lo stesso Verbo a cagione che l' essere a noi si manifesta come puro oggetto, e non come oggetto persona, quindi come oggetto ideale non sussistente e reale. A questa dottrina, che, relativamente all' uomo e non in sè, distingue le appartenenze del Verbo dal Verbo stesso, fu fatta quest' obbiezione: L' oggetto informante lo spirito umano, che dicesi appartenenza del Verbo, o è creato o increato: se increato, dunque è il Verbo stesso; se creato, egli non può essere un' appartenenza del Verbo, perchè tutto ciò che appartiene al Verbo è increato, non è fatto ma è eterno. Alla quale obbiezione risponde S. Tommaso d' Aquino colla seguente dottrina: « Conviene avvertire che qualche cosa si dice del Figliuolo di Dio secondo sè, come quando lo si dice Dio onnipotente e simiglianti cose. Qualche cosa poi si dice di lui rispettivamente a noi, come quando lo si dice Salvatore e Redentore. Qualche cosa ancora si dice di lui nell' uno e nell' altro modo, come quando lo si dice sapienza e giustificazione. Ora in tutte quelle cose che si dicono del Figliuolo assolutamente e secondo sè, non si dice che egli sia fatto: così non dicesi che il Figliuolo sia fatto Dio o sia fatto onnipotente. Ma in quelle che si dicono di lui per comparazione a noi, ovvero nell' uno e nell' altro modo, si può aggiungervi l' esser fatto, come secondo quel luogo a' Corinti (1): [...OMISSIS...] . Onde, sebbene sia stata sempre in esso la sapienza e la giustizia, tuttavia si può dire, ch' egli di nuovo è stato fatto a noi giustizia e sapienza. Secondo questo adunque Origene esponendo dice, che, quantunque in se stesso sia vita, tuttavia è stato fatto a noi vita, perchè egli ci vivificò giusta quello ai Romani: « Siccome tutti muojono in Adamo, così parimente in Cristo tutti saranno vivificati »(2). E però dice, che il Verbo che è fatto a noi vita, in se stesso era vita, acciocchè un tempo divenisse a noi vita, il perchè tosto soggiunge: « « E la vita era la luce degli uomini »(3) ». Ora posciachè le appartenenze del Verbo, siccome sarebbe la verità che naturalmente a noi risplende, l' essere ideale, sono rispetto a noi tali, quindi si può dire che sieno fatte, o create, o forse meglio concreate con noi, sebbene nel Verbo considerate e quindi rifuse nel Verbo stesso senza distinzione, non sieno fatte, nè create, nè concreate; ma eternamente sussistenti, perchè sono il Verbo stesso, ed hanno perduta la loro condizione di appartenenze del Verbo, dal Verbo distinte; non essendo tali che rispetto a noi. Ma noi dobbiamo vedere come la vita che era nel Verbo sia la luce degli uomini. Primieramente si consideri come la vita nel Verbo abbia forma di oggetto, giacchè il Verbo stesso è l' essere assoluto nella forma di oggetto7persona. Dalla forma di oggetto che prende la vita (e l' essenza di Dio tutta è vita non essendovi nulla in esso di morte, nulla che abbia il concetto di nuda sussistenza, o di puro termine, qual noi concepiamo essere la materia) comunicata dal Padre al Verbo, risulta la vita intellettiva comune e identica in tutt' e tre le divine persone. Di più l' essenza vitale di Dio, oggetto per sè noto, per sè inteso, è anche per sè amata, e quindi la vita per sè intesa, per sè amata, è sollevata dalla spirazione unica del Padre e del Figliuolo ad una esistenza personale, cioè è in pari tempo la persona del Santo Spirito, onde è la vita, il sentimento, il gaudio morale puro identico in tutte e tre le persone augustissime. Quindi la vita, che è nel Verbo una e semplicissima, tuttavia secondo il nostro modo di concepire è triplice: di semplice sentimento, che s' appropria al Padre che la comunica, con tutto il resto; la vita intellettiva, che s' appropria al Figliuolo non perchè ella non sia dell' essenza divina, ma perchè ha per condizione l' oggetto e la forma oggettiva dell' essere che è propria del Figliuolo o Verbo; la vita morale che è pure dell' essenza divina, ma per appropriazione attribuita allo Spirito Santo, perchè ella ha per condizione l' oggetto per sè amato, e la forma dell' amabilità dell' essere è propria dello Spirito Santo. Ora, ciò presupposto, come avviene che la vita che è nel Verbo sia la luce degli uomini? Ella non potrebbe esser luce se non fosse oggetto dello spirito umano, che informandolo lo rende intelligente. Ma quest' oggetto non è mero oggetto perocchè è vita7oggetto, e di più è oggetto vitale e sussistente per sè amabile e per sè amato. Da questo procede: 1 Che nelle parole di S. Giovanni « « e la vita era la luce degli uomini » » non trattasi più di narrare la creazione d' un mero essere sensitivo, come poteva essere la statua che il Genesi racconta fatta da Dio di terra; la statua, dico primachè Iddio v' ispirasse in faccia lo spiracolo della vita (giacchè, se si suppongono gli atomi materiali animati, come abbiam detto, quella statua poteva essere un essere sensibile, e, dividendosi l' uomo nelle Scritture sempre in due parti, e non in tre, chiamata l' una carne vivente perchè concupisce contro lo spirito, l' altra spirito; ella quella statua poteva essere la carne vivente); ma trattasi di spiegare come l' uomo venne costituito nell' ordine degli enti intellettuali e morali. 2 Che la creazione dell' essere meramente sensitivo non esige che la vita del Verbo si comunichi come luce, ma basta che venga comunicata una vita semplice dall' essenza di Dio creatrice, senza che la mente nostra in tal causa vegga la special forma dell' essere oggettivo, ossia dell' essere come Verbo. Onde S. Giovanni dice che « « la vita era luce degli uomini » », e non degli animali, delle piante o de' minerali [...OMISSIS...] 3 Ma la luce che viene dal Verbo non è mero oggetto perchè è vita7luce, e la vita è sentimento e quindi realità, non è dunque una mera idea. Non è dunque la nuda idea dell' essere quella vita, di cui parla S. Giovanni, che è la luce degli uomini. Che anzi quella vita, che è luce nel Verbo, non è solamente vita, sentimento, non è solamente luce7oggetto, onde la vita intellettuale, ma di più è vita7luce per sè amata nello Spirito Santo, onde viene la vita morale. Dunque S. Giovanni parla in questo luogo d' una luce compiuta, che santifica l' uomo e gli dà la sua ultima soprannatural perfezione. Quindi Gesù Cristo disse: « « Io sono la luce del mondo: colui che mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà il lume della vita »(2) ». E, dicendo: « « il lume della vita » », non solo unisce alla vita il lume, ma ben anco fa derivar questo dalla vita, giacchè la vita posta in genitivo, secondo il favellare orientale, indica « causato dalla vita », e propriamente « figliuolo della vita », ovvero avente la natura di vita: onde tali parole di Cristo rispondono a capello a quelle di S. Giovanni, che « « la vita era la luce degli uomini » ». Si chiama ancora da S. Giovanni Gesù Cristo « « il Verbo della vita » » in queste parole: « « Quello che fu dal cominciamento, quello che noi udimmo, che noi vedemmo cogli occhi nostri, che percepimmo e le nostre mani hanno contrettato del Verbo della vita »; (e la vita si è manifestata, e la vedemmo, e l' attestiamo ed annunciamo a voi questa vita eterna che era appresso il Padre e apparì a noi), «quello che vedemmo ed udimmo, l' annunciamo a voi »(1) ». Dove è da notare che l' espressione, « « Verbo della vita » » [...OMISSIS...] viene ad unire il lume alla vita, perocchè la parola verbo indica oggetto pronunciato, e l' oggetto, se è per sè oggetto, è luce della mente, onde significa un verbo che ha in sè vita, che ha natura di vita. E` anche da osservarsi in queste parole colle quali S. Giovanni commenta ciò che si legge nel suo Evangelio che abbiamo alle mani, che vi si dice che la vita era appresso il Padre, il che risponde alle parole: « Et Verbum erat apud Deum »; e dimostra la serie che tiene la narrazione dell' Evangelista a principio del suo Vangelo, cioè volendo egli annunziare che il Verbo della vita si è manifestato agli uomini, incomincia dal dire che era ab eterno appresso il Padre occulto agli uomini e che a questi si è manifestato nel tempo, quello stesso che stava prima del tempo appresso Dio; ed anche allora era essenzialmente vita ed eterna vita, ma non ancora vita a noi. Ma rimane fermo quello che dicevamo, che, rispettivamente alla nostra maniera d' intendere e di favellare, noi concepiamo che Iddio dev' essere in se stesso essenzialmente vita, anche prescindendo dalla considerazione e dalla cognizione del Verbo, onde si chiama continuamente nelle Scritture « « Iddio vivo »(2) », in contrapposizione degli Iddii morti e materiali degli idolatri; e S. Pietro usa la frase: « per Verbum Dei vivi (3) », attribuendo la vita a Dio, cioè al Padre onde il Verbo procede e onde riceve la divina natura; e il Salmista dice: « « Deus vitae meae »(4) »; e nel Deuteronomio dice Mosè al popolo che « Iddio è la sua vita (5) ». Ma quando si tratta della vita7luce degli uomini, allora non si può più intendere senza considerare Iddio come oggetto sussistente e vitale, e quindi è già un' iniziata cognizione del Verbo. E quantunque nella comunicazione a noi di questa vita7luce concorrano tutte e tre le persone divine, onde S. Paolo dice: « « colui che fu fatto da Dio a noi sapienza »(6) », attribuendo al Padre la missione del Figliuolo, perchè dal Padre viene generato e quindi anco mandato; tuttavia il termine di questa illuminazione vitale degli uomini è il Verbo, il quale è pure il termine dell' Incarnazione, benchè il principio di questa appartenga a tutta la Triade augustissima, ma del Padre sia propria in quanto è generatore. Il Verbo poi, a noi comunicatosi, emette e diffonde in noi, purchè non trovi in noi stessi ostacolo di peccato che lo impedisca, i doni dello Spirito Santo e lo stesso Spirito Santo che dal Padre e dal Figliuolo procede: con che si compie la nostra vita soprannaturale. Le quali cose premesse, sembra apparir più chiaro come queste parole di S. Giovanni, generali come sono, e tali in cui si parla degli uomini senza distinzioni, siano vòlte a dichiarare in che consiste qualsivoglia luce intellettiva dell' umana creatura. Qualunque raggio d' una tal luce, l' Evangelista c' insegna venire dal Verbo, perocchè questo è assolutamente detto esser la luce degli uomini. Non è egualmente detto in modo assoluto ed universale che il Verbo sia la vita degli uomini; perocchè non ogni vita è intellettiva, ma v' ha una vita animale, nella cui causa non è a noi necessario vedere l' oggetto7luce che si comunica, bastando che concepiamo una causa vivente qual' è l' essenza divina comune a tutte e tre le persone. Nulladimeno la vita animale non è la vita propria della creatura umana, essendo essa comune alle bestie; ma la vita propria dell' uomo è la vita intellettuale, la quale non si può spiegare senza supporre che innanzi allo spirito umano stia l' essere nella forma di oggetto, e però senza ricorrere ad una causa che sia ella stessa oggetto, e che all' uomo, come tale, si manifesti. Quindi dice S. Giovanni che la vita era la luce degli uomini. Or se si trattasse dell' essere meramente ideale, questo sarebbe luce, ma non sarebbe vita; perchè la semplice idea dell' essere non dà un sentimento reale, ma una pura intuizione. Qui non vi ha dunque quella « vita che è luce degli uomini ». Di che si deduce che, essendo « la vita che è nel Verbo la luce degli uomini », conveniva che questa fosse data nella prima istituzione del genere umano. Laonde, quando il Genesi narra: « « Il Signore Iddio formò adunque l' uomo del limo della terra, ed inspirò nella faccia di lui lo spiracolo della vita, e l' uomo fu fatto in anima vivente (1) » », conviene intendere per questo spiracolo della vita quella vita che è la luce e che è nel Verbo. E però è da dire, che il primo uomo fu costituito non già nel solo ordine naturale, al quale nulla più si esige che l' essere come oggetto ideale dato da intuire allo spirito; ma ben anco che fu costituito nell' ordine soprannaturale, al che si esige che l' essere come oggetto, dato ad intuire all' uomo come oggetto, sia reale, e quindi abbia in sè vita: onde al primo uomo fu fatta una cotale comunicazione dello stesso Verbo di Dio. E questo dichiara meglio in che modo l' uomo fu creato a imagine e similitudine di Dio secondo quelle parole: « « Facciamo l' uomo ad imagine e similitudine nostra, e presieda ai pesci del mare, e ai volatili del cielo, e alle bestie, e a tutta la terra, e ad ogni rettile che si muove sulla terra (2) » ». La quale imagine e similitudine di Dio, a cui fu fatto l' uomo, si vede primieramente in questo, che anche nell' uomo si riscontrano le tre forme dell' essere analoghe a quelle che in Dio costituiscono le tre divine persone: cioè la forma soggettiva, la forma oggettiva nell' essere che gli è dato ad intuire, e la forma morale nell' inclinazione e armonia di sè soggetto all' essere oggetto manifestato; e quindi anco le tre vite, reale, intellettuale, e morale che le due prime congiunge e nel cui abbracciamento affettuoso consiste. Ma la forma oggettiva dell' essere non è data all' uomo in modo da costituire una parte dell' uomo stesso, perchè l' uomo è puramente soggetto, e non può diventar oggetto, che sarebbe un diventare Iddio. E poichè l' oggetto essere è l' immagine dell' essere secondo il parlare delle Scritture, quindi i Padri osservano che l' uomo non si dice già l' uomo fatto imagine di Dio, ma fatto ad imagine, il che avviene perchè l' imagine di Dio è l' oggetto che egli intuisce secondo la sua primitiva istituzione (3). Quello che è propriamente chiamato imagine di Dio nelle scritture sante è il Verbo. Di Cristo dice S. Paolo: « qui est imago Dei (4) »; e altrove: « qui est imago Dei invisibilis (5) », dove quell' attributo d' invisibile, dato a Dio, indica chiaramente che Iddio si conosce pel Verbo, nel quale egli ha la forma di oggetto e però di lume, e appo Iddio invisibile stava il Verbo prima che si rivelasse. Perocchè, come dice S. Paolo stesso, « omne quod manifestatur lumen est (1) »; non potendovi essere altro che si manifesti se non il lume, il quale è visibile per se stesso, e l' altre cose per lui che le illumina. E posciachè quello che si conosce delle cose è la forma (2), chiamata anche figura [...OMISSIS...] che risponde all' idea, e non la materia o la mera sussistenza; perciò S. Paolo chiama Cristo figura, ossia, in greco, carattere : « qui cum sit splendor gloriae et figura substantiae ejus (3) ». Al che si riferisce altresì quello che già nelle antiche carte fu scritto della Sapienza, che « « ella è un vapore della virtù di Dio e una cotale emanazione sincera della chiarezza di Dio onnipotente; onde niente di macchiato incorre in essa, poichè è candore della luce eterna e specchio senza macchia della maestà di Dio e imagine della bontà di Lui (4) » ». Nel qual luogo sembra favellarsi della sapienza di Dio in quanto viene comunicata agli uomini: onde la sapienza oggettiva di Dio, che riducesi al Verbo, chiamasi « virtù di Dio », e la comunicazione di essa agli uomini « un vapore di tale virtù », la sapienza chiamasi « chiarezza di Dio onnipotente », e la comunicazione di essa « una cotal emanazione sincera »; la sapienza chiamasi « luce eterna », e la comunicazione « candore di quella »; la sapienza « maestà di Dio », la stessa maestà in quanto è comunicata « specchio senza macchia »; e finalmente la sapienza, in quanto ha in se stessa l' amabilità, che si riduce allo Spirito Santo, chiamasi « bontà di Lui », e la stessa bontà comunicata dal Verbo « imagine di essa bontà ». Ed ogni qual volta nelle divine scritture si nomina il volto o la faccia di Dio, queste metafore esprimono la conoscibilità di Dio; perocchè dal volto, o faccia, si conoscono gli uomini; e quindi tali espressioni nominano il Dio oggetto, il Dio conoscibile, il quale noi sappiamo essere il Verbo: onde molti Padri ottimamente interpretano quelle maniere di dire del divin Verbo, il quale è luce, o vita lucente per se stessa. L' uomo adunque fu istituito ad imagine di Dio, cioè colla percezione del divin Verbo, in quella maniera che spiegheremo in appresso, e quindi fu collocato in uno stato soprannaturale, dotato della divina grazia. E quantunque dalla parte dell' uomo non vi avesse alcun diritto a questo stato soprannaturale, nè la grazia costituisca un elemento di sua natura, nè tampoco un elemento di sua natura intelligente fosse una tale congiunzione di lui col Verbo, non appartenendo alla costituzione della natura umana se non la intuizione dell' essere ideale, senza la quale non potea essere intelligente, e però nè tampoco uomo; tuttavia dalla parte di Dio era convenientissimo, e di una necessità morale, che l' uomo uscente dalle divine mani fosse sublimato a tanta altezza, perocchè il Verbo era la luce degli uomini; e dando loro questa luce, si dava loro la vita altresì, perchè « nel Verbo era vita, e la vita era la luce degli uomini »: l' effetto così corrispondeva pienamente alla condizione della causa. L' Ecclesiastico così narra la istituzione de' primi uomini: « « Iddio creò l' uomo di terra e lo fece secondo la sua imagine. E ancora fece che si convertisse a quella, e secondo questa lo vestì di virtù. Gli diede copia di giorni e tempo, e gli diede il dominio di quelle cose che sono sopra la terra. Pose sopra ogni carne il timore di lui, e quasi signoreggiò le bestie ed i volatili. Creò da esso un ajuto simile a lui: diede loro consiglio e lingua, e occhi, ed orecchi, e cuore da pensare: e gli empì della disciplina dell' intendimento (1) » ». Le quali parole ben dimostrano che Adamo ed Eva furono dotati di doni soprannaturali, e di quello che è per natura sua soprannaturale, cioè della grazia, di modo che non l' idea mera dell' essere fu loro comunicata, ma altresì una incipiente visione del Verbo, nel quale è quella vita che è luce degli uomini. Ma qui si offerisce alla mente la questione: Se i primi uomini usciti recentemente dalla mano del loro fattore avessero impresso nelle loro anime il carattere, onde, non trovando ostacolo, provenisse la grazia e la loro santificazione. La qual questione si dee distinguere dall' altra: Se, avendo essi il carattere nell' animo loro, questo fosse uguale a quello che si riceve ora dagli uomini nel lavacro battesimale istituito da Gesù Cristo, o in che differisse. Lasciando per intanto questa seconda questione, parmi poter sciogliere la prima affermativamente: e ciò perchè il carattere, preso generalmente, essendo la manifestazione abituale del Verbo allo spirito umano, non poteva mancare a quelli che erano creature intelligenti di quel Verbo nel quale era la vita luce degli uomini. Ma, come vedremo poi in appresso quando tratteremo la seconda delle due questioni proposteci, questo carattere in Adamo ed Eva era potenziale, e però non indelebile; quando nel Cristiano è del tutto attuale ed indelebile; e forse per questo non si dice espressamente nelle Scritture che i primi Padri del genere umano avessero il carattere, riserbandosi questa parola a significare propriamente il carattere del Cristiano. E tuttavia questo luogo di S. Giovanni sembra acconcio a provare che si può in qualche modo attribuire un carattere divino ai primi uomini. I primi uomini avevano abitualmente la luce soprannaturale, e questa luce non è una mera idea, ma è vita, vita che sta nel Verbo. Dunque era loro data una cotal percezione del Verbo, nel che sta il carattere di cui parliamo. La stessa parola di carattere è propria del Verbo, che S. Paolo chiama «karakter tes ypostaseos autu» (1), da cui crediamo esser provenuta la denominazione di carattere, a quel primo effetto del battesimo che consiste in una cotal impressione del Verbo nelle umane menti. Il che riceve conferma dall' addotto passo dell' Ecclesiastico, dove sembra distinguersi con precisione ed esattezza il carattere impresso nell' intelligenza del primo uomo, dalla grazia santificatrice della sua volontà. Perocchè il primo è significato in quelle parole: « « che fece l' uomo secondo la sua imagine » », la quale imagine di Dio, come vedemmo, non è altro che il Verbo: [...OMISSIS...] la seconda, cioè la grazia abituale e santificante, è significata in quel che soggiunge, che, dopo averlo fatto secondo l' imagine sua, fece che a questa egli si rivolgesse e convertisse: « et iterum convertit illum in ipsam »; la qual conversione di Adamo all' imagine non pare potersi intendere altramente che della soave inclinazione della sua volontà ad amare e ad aderire all' imagine di Dio, secondo la quale era fatto, cioè al Verbo divino lucente nella sua intelligenza, al che fare non trovava ancora alcun ostacolo di peccato. Nè egli sembra che il « convertit illum in ipsam » si possa intendere della conversione a Dio di Adamo peccatore, perchè il sacro scrittore aggiunge in appresso la formazione di Eva: onde nel luogo da noi citato parla di Adamo, se non andiamo ingannati, in quel tempo in cui non aveva ancora peccato nè ricevuto da Dio l' ajuto che poi gli fece della sua compagna. Il che è confermato dalle parole, che seguono a quelle: « et iterum convertit illum in ipsam », le quali sono: « et secundum se vestivit illum virtute », accomodatissime a significare la grazia abituale. Nè l' essere stato vestito di virtù appartiene ad Adamo dopo il peccato, ma alla prima sua istituzione. Egli sembra che per questo appunto l' Apostolo chiami rinnovazione dell' uomo quella fatta da Cristo, il quale venne a togliere il peccato introdotto da Adamo nel mondo, e a restituire alla sua prima origine l' opera di Dio, benchè, in ciò facendo, l' abbia elevato ad una dignità e santità vie maggiore: « « Ora rinnovatevi nello spirito della mente vostra, dice S. Paolo a que' di Efeso, e vestite l' uomo nuovo che fu creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità »(1) ». E a' Cristiani di Colossi dice: « « Spogliandovi l' uomo vecchio cogli atti suoi, e vestendovi il nuovo, quello che si rinnova nel conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò »(2) ». Vero è che questi luoghi si potrebbero intendere unicamente dell' uomo nuovo formato da Cristo, che fu una cotal creazione, senza ricorrere all' esempio di Adamo; ma tuttavia la parola « qui creatus est » sembra fare allusione alla creazione di Adamo stesso. Oltre di ciò, dicendosi « « l' uomo nuovo rinnovato nel conoscimento » [...OMISSIS...] «secondo l' imagine di lui che lo creò » », viene ad alludere manifestamente alla prima creazione dell' uomo, che dal Genesi è detto « « fatto ad imagine di Dio » ». Di più in questo luogo dell' Apostolo non si dice solamente « « l' uomo nuovo » », ma, secondo il testo originale, si aggiunge « « rinnovato nel conoscimento » », onde non si parla unicamente di una cosa nuova, ma di una vecchia ripristinata nella sua condizione primitiva di conoscimento. Il quale conoscimento secondo l' imagine di lui che lo creò, viene a significare « il conoscimento secondo il Verbo », giacchè l' imagine di Dio è il Verbo, e quindi viene a significare il carattere impresso nell' anima, che è pure il Verbo chiamato da S. Paolo « « carattere della sussistenza di Dio » ». Alla predetta sentenza potrebbe fare qualche difficoltà il luogo dove l' Apostolo scrive: « « Si semina un corpo animale, sorgerà un corpo spirituale. Se vi ha un corpo animale, vi ha del pari un corpo spirituale, siccome è scritto: Il primo uomo Adamo fu fatto in anima vivente (1), il novissimo Adamo in ispirito vivificante. Ma non è prima quello che è spirituale, sì quello che è animale; di poi quello che è spirituale. Il primo uomo dalla terra, terreno; il secondo uomo dal cielo, celeste. Quale il terreno, tali anche i terreni; e quale il celeste, tali anche i celesti. Laonde, siccome abbiamo portato l' imagine del terreno, portiamo anche l' imagine del celeste. E questo dico, o fratelli, perchè la carne e il sangue non possono possedere il regno di Dio, nè la corruzione possederà l' incorruzione (2) » ». Se questo luogo si potesse intendere di Adamo peccatore, la difficoltà sarebbe superata. Ma fanno ostacolo a ciò le citate parole del Genesi: « Et factus est homo in animam viventem », le quali dal sacro storico sono dette di Adamo quando fu creato innocente, di conseguente prima d' aver peccato. Convien dunque dire che l' intendimento dell' Apostolo qui sia quello di magnificare i doni e le grazie conferite all' umanità da Cristo sopra quelli che ebbe ricevuto Adamo quando fu creato. E questa sopraeccellenza dell' uomo in Cristo rinnovato sopra l' uomo da Dio creato, risulta dal contesto di tutto il luogo dell' Apostolo, e particolarmente da quelle parole: « Primus homo de terra terrenus, secundus homo de coelo coelestis ». Questo secondo uomo venuto dal cielo, e non cavato dalla terra, è il nostro Signor Gesù Cristo, come risulta chiaramente dal testo greco, che, invece di dire: « dal cielo celeste », dice: « « Signore dal cielo », [...OMISSIS...] . Onde viene a dire che il primo Adamo fu semplice uomo, ma il secondo Adamo fu Dio, fu il Verbo divino, proveniente non dalla terra, ma dal cielo sede di Dio; fu il Signore, [...OMISSIS...] , di tutte le cose ed anco dell' antico Adamo. Laonde il primo uomo trasse l' origine dalla terra corruttibile, benchè poi Iddio lo vivificasse col suo spiro e così lo rendesse anima vivente, partecipe della vita, non solo animale e intellettiva, ma di quella vera vita che era nel Verbo. Ma se quel primo uomo era anima vivente, non era però spirito vivificante, siccome è il Verbo divino; il quale non solo ha la vita, ma è vita egli stesso (1), e quindi la può dare, ed è quello che la dà agli altri, onde da S. Pietro è chiamato « « autore della vita »(2) », che equivale allo « « spirito vivificante » » di S. Paolo. Qa quello che è la vita non può mai mancare la vita; ma quello, che è solamente vivente, può morire, può perderla, com' è avvenuto ad Adamo: e perciò non era per se stesso incorruttibile ed immortale, come non era impeccabile. Era di natura sua corruttibile perchè formato di terra, la quale poteva sciogliersi in polvere, come la polvere che era stata raccolta a forma di uomo. Era peccabile perchè non era la stessa vita morale, ma questa vita l' aveva ricevuta da quello che era la vita; ed era stato collocato nel suo libero arbitrio di conservarla, o di fare miseramente getto di essa. [...OMISSIS...] . Così l' Ecclesiastico. Il nuovo uomo all' incontro è impeccabile perchè è Dio, è comprensore ad un tempo e viatore, è confermato in grazia come quello che è l' autore della grazia (4) e fu unto dal Padre (come uomo) e mandato nel mondo (come Dio) (5). Adamo non poteva dar la grazia a' suoi discendenti, ma il nuovo Adamo dà loro la grazia. Adamo non poteva dar loro l' immortalità, ma Cristo la dà loro: nell' uno e nell' altro senso egli è spirito vivificatore. Quindi anche la differenza fra la grazia data da Dio ad Adamo, e la grazia che è in Cristo e che Cristo comunica a' suoi seguaci. S. Agostino dice che la grazia data ad Adamo era un ajuto senza il quale l' uomo non poteva operare il bene soprannaturale, ma la grazia di Cristo, e comunicata al Cristiano da Cristo per mezzo del suo spirito, è un ajuto, col quale si opera il bene soprannaturale (6). Era l' uomo che operava in Adamo, non però senza la grazia: e la grazia di Cristo è Cristo stesso (7) che opera nel cristiano tutto il bene soprannaturale che fa il cristiano, non però senza il cristiano. [...OMISSIS...] , dice S. Paolo, [...OMISSIS...] . Non già che l' uomo non possa resistere alla grazia; l' uomo può volere il male. Ma quando il cristiano opera il bene, allora è Cristo, allora è la grazia di Cristo che opera in lui e con esso lui. Laonde quando S. Paolo esorta que' d' Efeso e que' di Colossi a vestire l' uomo nuovo, e spogliare il vecchio, allora per quest' uomo nuovo s' intende Cristo, e quelle parole equivalgono a quest' altre: « Induimini Dominum Jesum Christum (2) ». Il che viene ad indicare una cotale congiunzione fisica del Cristiano non solo col Verbo, ma col Verbo incarnato, il N. S. Gesù Cristo; connessione insegnata da Cristo stesso quando disse che egli era la vite e i suoi discepoli erano i tralci che dalla vite suggevano l' umore vitale di cui si nutrivano e vivevano (3). E` la vite il principale agente di tutte le operazioni del tralcio, benchè queste sieno operazioni del tralcio, senza il quale esse non sarebbero: onde chi opera nel cristiano le operazioni della vita soprannaturale è Cristo col cristiano, la vite col tralcio, non ego sed gratia Dei mecum . In Adamo innocente era l' uomo che operava colla grazia di Dio; nel cristiano è la grazia di Dio coll' uomo: in Adamo era l' uomo, ma senza la grazia non poteva nulla, auxilium sine quo; nel cristiano è la grazia di Dio, ma questa senza l' uomo nulla farebbe, auxilium quo . Lo stesso insegna l' Apostolo quando paragona la Chiesa di Gesù Cristo al corpo umano (4). Di questo mistico corpo Cristo è il capo, i fedeli sono le membra. La vita e le operazioni vengono dal capo unito alle membra, e quantunque le membra ricevano tutto dal capo, tuttavia anch' esse operano unite con lui. Ma rimane sempre che Cristo sia il capo onde ogni bene e ogni vita deriva. Con un' altra similitudine ancora si chiarisce quell' intimo nesso che ha Cristo con quelli che in lui sono incorporati. Tutti insieme formano un solo edifizio, una sola casa, ma Cristo è il fondamento che la sostiene (5). Questi diversi paragoni spiegano quella intima segreta unione che congiunge Cristo qual nuovo Adamo con quelli ch' egli genera spiritualmente alla vita eterna che è in lui. Ma prima di perscrutare più addentro cotesta unione, noi dobbiamo dimostrare alcune altre differenze che conseguono al principio da noi posto della differenza prima fra lo stato soprannaturale di Adamo e quello dell' uomo rigenerato in Cristo e da Cristo. Primieramente l' uomo incorporato a Cristo sente che non è egli che opera il bene, ma Cristo con lui, « non ego sed gratia Dei mecum, » e ciò pel merito della passione sofferta da questa grazia di Dio, « ut gratia Dei pro omnibus gustaret mortem (1) ». Essendo dunque Cristo che opera tutto il bene soprannaturale nel corpo de' fedeli di cui è capo, il fedele sente profondamente la verità che Cristo stesso gl' insegnò dicendo: « Sine me nihil potestis facere (2) », e sente nello stesso tempo che tenendosi in Cristo egli può tutto: « omnia possum in eo qui me confortat (3) ». « « Io sono la vite, voi i tralci: quello che si tiene in me, ed io in lui, questi porta molto frutto. Poichè senza di me non potete far nulla. Se alcuno non rimane in me, sarà gettato fuori siccome un tralcio, e si seccherà, e lo metteranno nel fuoco ed arderà. Se vi rimarrete in me, e le mie parole rimarranno in voi, qualunque cosa vorrete la dimanderete e vi avverrà. In questo è chiarificato il Padre, che voi apportiate il massimo frutto, e diveniate miei discepoli »(4) ». Dalle quali parole si ricava: 1 Che senza Cristo l' uomo non può far nulla. 2 Che tenendosi in Cristo l' uomo può portare molto frutto, anzi il massimo frutto e divenire discepolo di Cristo, parola altissima che dice tutto: può portare tutto il frutto che vuole, perocchè qualunque cosa voglia, egli anche la domandi, essendo l' orazione il segno della vera volontà cristiana, e domandata gli avviene. Ma non tutti quelli che si tengono in Cristo vogliono le stesse cose, e quindi non tutti acquistano lo stesso grado di santità, perocchè non a tutti è dato di ugualmente volerle e di dimandarle. Ma tutt' insieme il Corpo mistico di Gesù Cristo porta tuttavia il massimo frutto, secondo il calcolo infallibile del celeste agricoltore, e ciascuno porta il massimo frutto comparativamente al grado di volontà che gli è data, perchè tutta quella volontà che egli ha soprannaturalmente viene a pieno trasfusa nell' orazione ed adempita da Cristo, il quale è « « verità »(5) », cioè reale compimento dell' idea. E tuttavia niuno è forzato a tenersi in Cristo, e nè pure necessitato, qualora non sia confermato in grazia; onde Cristo dice a' suoi discepoli: « « Tenetevi in me, ed io in voi »(1) », a ciò esortandoli, perocchè la libertà di fare il male non è tolta agli uomini. Onde gli uomini possono col loro libero arbitrio staccarsi da Cristo, e non riceverne più la benefica e vitale influenza; e possono non distaccarsi da lui, e allora, rimanendo in lui, possono fare tutto il bene che vogliono e che domandano, perchè Gesù Cristo è quegli che lo vuole e lo domanda in essi e con essi. Onde da S. Giovanni questa unione si chiama anche società: [...OMISSIS...] . Da' quali due principii, che l' uomo non fa nulla di bene soprannaturale per sè, ma che tutto il bene lo fa Cristo in lui e con lui, e che Cristo con esso lui può fare tutto ed egli in Cristo apportare il più abbondevole frutto, procedono due sentimenti nel Cristiano: quello del proprio nulla e quello della propria grandezza dignità e potenza. Il sentimento del proprio nulla è luce a lui, perchè gli dà la consapevolezza della propria impotenza e nullità ad ogni bene, e della potenza di Cristo che in lui fa tutto e può tutto. Questo sentimento e questa luce di Cristo che ne rifulge, è l' origine, la prima la sommaria causa dell' umiltà cristiana, fondamento e condizione della virtù de' seguaci e discepoli del Salvatore. Come alla presenza d' un leone, un cagnolino chiuso con esso lui trema sentendo la nullità delle sue forze verso a quelle del generoso re della foresta; così ed assai più, ma in senso tutto diverso, il vero discepolo si sta annullato in se stesso e quasi tremante pel sentimento di Cristo, di quel Leone di Giuda che è in lui, con cui abita in un modo più vicino e più stretto che non il cagnuolo nella gabbia del leone, di quel possente che è in lui e con lui fa tutto il bene, quand' egli nulla può senza di lui, ed anzi non ha che la potenza del male: onde santamente e giustissimamente non pur non si pregia, ma odia e dispregia se stesso. E come il Leone potentissimo di Giuda divora, per così dire, nel cuore dell' uomo l' uomo stesso, facendo che s' annichili nell' umiltà: così in pari tempo usa di tutta la sua potenza, non al male, ma al bene, non alla morte, ma alla vita di quello entro cui vive ed opera; ma dandogli la propria vita immortale invece della sua mortale. Onde l' umiltà dell' uomo incorporato all' Uomo7Dio non è unita col timore riverenziale del suo redentore e vivificatore che in lui abita e con quel sentimento di timore che nasce sempre in presenza d' una immensa potenza anche benefica; ma bensì è unita con gran timor di se stesso di non istaccarsi forse dalla sua vita, cioè dallo stesso Signor nostro Gesù Cristo coll' arbitrio che gli rimane di operare il male. Quindi è che negli uomini santi, durante specialmente la visitazione superna e la comunicazione di lumi e di grazie gratofacienti, ne' quali momenti il sentimento della presenza di Cristo è più vivace, non si manifesta la tentazione di vanagloria e di superbia, quando anzi sono occupati e compresi da un sentimento indicibile di umiltà e si senton sospinti incredibilmente a glorificare Iddio: il che attestano essi medesimi, come si può vedere, fra gli altri scritti dei santi, nelle opere di S. Teresa di Gesù. Ora questo sentimento immenso d' umiltà, che è uno de' caratteri più meravigliosi della virtù cristiana, non era come in noi nel primo uomo Adamo, benchè fornito del carattere e della grazia; perocchè il carattere e la grazia in lui era d' altra natura lungamente diversa da quella che ha il carattere e la grazia di Cristo. Era l' uomo che operava in Adamo, benchè non senza la grazia. Adamo viveva d' una vita sua propria, naturale, benchè sublimata da doni soprannaturali. La sua natura era piena e perfetta, e n' aveva tutto il sentimento, n' aveva la gioia e la forza. Il cristiano non ha altra vita con cui opera e di cui fa stima che la vita di Cristo. La sua vita naturale nulla la stima, e non aspetta da lei quelle operazioni vitali colle quali ottenere il compiuto suo bene. Adamo era creato per godere della felicità naturale, entro i limiti della giustizia, e per passare poi gradatamente ad una felicità soprannaturale, che sarebbe stato un compimento di quella prima, e ciò di mano in mano ch' egli si fosse avanzato nella virtù e nel conoscimento ed amore di Dio, alla cui contemplazione poteva attendere se avesse voluto, e più o meno com' egli avesse voluto. La scelta lasciata al suo libero arbitrio era nell' occuparsi più o meno al godimento onesto de' doni naturali, ovvero più o meno alla contemplazione ed all' affetto delle cose celesti. La grazia gli era pronta se avesse voluto servirsene, la grazia accompagnava le sue azioni anche naturali mantenendone specialmente la rettitudine ne' rapporti con Dio: ma in quanto all' oggetto stesso diretto de' suoi affetti, rimaneva in suo arbitrio lo scegliere Iddio, o la natura retta ed onesta. Onde il carattere era in lui piuttosto potenziale, che attuale: il Verbo gli stava presente e Adamo potea rivolgersi al Verbo, piuttostochè fosse impresso nell' anima sua e la dominasse come principio operativo. Con che si incomincia a dare qualche soluzione alla questione propostaci innanzi (Lez. LIV, p. 139): qual differenza vi avesse fra il carattere indelebile de' primi uomini, e il carattere indelebile del Cristiano. E veramente leggiamo nel Genesi, dove descrive l' istituzione del primo uomo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole da una parte è detto che l' uomo fu fatto ad imagine di Dio, dall' altra non gli è assegnato altro che il dominio sulla natura, il nutrimento della natura, l' occupazione intorno la natura, e un limite posto con un precetto divino alle cose di cui doveva l' uomo cibarsi. Convien dunque riflettere che le operazioni dell' uomo possono essere ornate di due specie di moralità, sia naturale, sia soprannaturale: la moralità di forma, e la moralità d' oggetto. La moralità di forma è quella che rende l' azione buona ed ordinata, quantunque l' azione abbia per oggetto cosa materiale e non morale, come il mangiare e il moltiplicarsi (coll' accennarsi nel Genesi di queste due cose solamente, si volle dimostrare il modo come Iddio istituendo l' uomo provvide alla conservazione dell' individuo, e anche della stirpe sopra la terra): la moralità d' oggetto, all' incontro, è quando l' uomo si occupa direttamente d' un oggetto per sè morale, come di Dio, e della virtù prendendola per fine. Ora questa seconda specie di moralità era quella a cui Adamo doveva innalzarsi in appresso col suo libero arbitrio, ma non era quella in cui venne da Dio costituito. Perocchè Iddio nell' istituire l' uomo nulla fece di ciò che l' uomo potesse fare da se stesso: volle, secondo l' economia della divina sapienza, che l' uomo stesso divenisse l' autore della sua perfezione morale, e quindi lo costituì nell' infimo grado della moralità soprannaturale, quasi seme onde poi dovesse svolgersi la gran pianta. Tuttavia gli accennò il fine delle sue operazioni nella narrazione della creazione, che è da credersi comunicata ad Adamo in quelle parole « et requievit die septimo ab universo opere quod patrarat. Et benedixit diei septimo, et sanctificavit illum, quia in ipso cessaverat ab omni opere suo, quod creavit Deus ut faceret (1) ». La quale benedizione data al giorno settimo, chiamato la requie del Signore, e la santificazione del detto giorno, era o un precetto, o certo un invito a' primi padri di consacrare questo tempo al riposo dalle occupazioni terrene e alla contemplazione delle celesti e divine, ed accennava la requie perpetua e beata a cui eran chiamati dopo compito lo stadio delle occupazioni terrene. Una adunque delle principali differenze fra la condizione in cui da Dio fu posto Adamo, e la condizione del Cristiano, si è che in quello dominava ed operava la natura umana perfetta e felice in tutto il suo vigore, accompagnata però da quella grazia, colla quale, se avesse l' uomo voluto, poteva e non abusare de' doni naturali ubbidendo Dio, ed altresì sollevarsi a contemplare ed amare direttamente Iddio come supremo ed infinito oggetto di beatitudine; nel Cristiano all' incontro la natura umana sua propria non ha alcun valore, alcuna virtù, in ordine alla vita eterna: ei non è chiamato a nulla se non alla distruzione ed alla morte; ma in quella vece chi opera in lui è la natura umana di Cristo, natura perfetta, trionfatrice della morte. Perocchè, in un modo ineffabile e misterioso di cui ci verrà forse altrove occasion di parlare, l' umanità gloriosa di Cristo è in una comunicazione reale ed unione permanente con tutti quelli che hanno ricevuto il battesimo e gli altri sacramenti, onde vivono della vita di Cristo; e da questa vita procedono i loro atti e tutto il bene soprannaturale che fanno, sia di forma, sia d' oggetto, nè altro prezzano che questo bene. L' uomo cristiano adunque che si tiene in Cristo, sentendo che un altro e potentissimo opera in lui e con lui, ha una certa consapevolezza d' essere escluso ed annullato nelle operazioni della vita eterna: annullato cioè in questo senso ch' egli non è più il principio supremo onde partano le dette operazioni, ma partono da un altro principio verso al quale egli tiene ragione quasi di attivo istrumento. Quindi il fondamento profondo della cristiana umiltà. Ma a questo si aggiunge, quasi a rinforzo dell' umiltà stessa, che la vita naturale del figliuolo di Adamo peccatore è inferma, mortale, precaria, e di più ha qualche cosa di ripugnante a dilatarsi nell' infinito, e ad abdicare se stessa per lasciare il governo dell' uomo e il principio dell' attività alla vita di Cristo. Quindi la lotta fra la carne e lo spirito, e le grida del principio soprannaturale del Cristiano contro la propria animalità: « « Me uomo infelice! Chi mi libererà dal corpo di questa morte » », e soggiunge: « « La grazia di Gesù Cristo Signor nostro (1) » ». Perocchè la grazia è appunto quel principio supremo che s' aggiunge all' uomo, e questo principio è Cristo stesso che diviene così primo operatore delle azioni dell' uomo che non gli si oppone: onde l' uomo dominato da questo principio è divenuto uomo nuovo . Questo è il mistero della vita cristiana dichiarato ai Romani specialmente dall' apostolo Paolo, la qual vita non apparteneva nè punto nè poco ad Adamo ed Eva. Questi erano creati innocenti: peccarono essi stessi e la loro discendenza divenne serva del peccato. Ecco la base della grandezza cristiana: l' annullamento dell' uomo morale avvenuto pel peccato, l' essersi reso l' uomo inetto al fine per cui fu creato. Da questo principio muove S. Paolo nella sua meravigliosa lettera ai Romani: [...OMISSIS...] . Dice gli uomini in quello nel quale peccarono volendo dire gli uomini in quanto erano in Adamo, perocchè in Adamo era la natura umana che dovea poscia rifondersi in altri individui. Onde quella che peccò fu la natura umana in Adamo; per la qual cosa il peccato originale ne' posteri dicesi « peccato della natura », e gl' individui o suppositi diconsi aver peccato in quanto ricever dovettero la natura peccatrice. La natura poi si fa peccatrice perchè la natura umana non è solamente fisica, nè solamente intellettuale, ma ella è altresì essenzialmente morale, come quella che è fornita di volontà; e la volontà come natura morale può rendersi difettosa per un agente disordinato che la disordina, quale nel caso nostro è il corpo, la cui concupiscenza non è più in balìa totalmente della ragione libera, ma opera senza di questa in parte, e a dispetto di questa, in quanto che la volontà rimane a lei aderente e con esso lei legata in modo da esser sottratta alla dominazione dell' uomo, o per dir meglio alla libertà determinantesi pel bene; la qual forza della libertà, o è così fiacca che non sorge a combattere la volontà lusingata dalla concupiscenza, o, se sorge scossa dalla bellezza della virtù che gli dimostra innanzi l' intelletto, non ha polso da eseguire. Il che è quello che dice S. Paolo in persona propria parlando dell' uomo peccatore: [...OMISSIS...] . Di che induce l' esistenza in tutti gli uomini del peccato originale, come principio d' operare il male che prevale [...OMISSIS...] . La legge del peccato risiede dunque, secondo l' Apostolo, nelle membra del figliuolo di Adamo, e questa legge è la concupiscenza che, non vinta dalla grazia di Cristo, cattiva l' uomo, lo spoglia della sua libertà al bene perfetto: e questo debilitamento o spogliamento della libertà del bene, onde la volontà aderisce alla concupiscenza, è quello che chiamasi peccato originale nei posteri; peccato abituale, principio operativo del disordine, il quale però non ha la nozione di colpa, come insegna l' Angelico, perchè è nell' uomo che viene ingenerato alla vita, senza che sia in potestà dell' uomo stesso l' evitarlo. Non è già che l' Apostolo non conceda al libero arbitrio del figliuolo di Adamo il fare anche qualche bene naturale. Il concede [...OMISSIS...] . Ma primieramente l' Apostolo accusa i gentili di non aver fatto nè pur quel poco di ben naturale che avrebbero potuto fare con quelle forze morali che lor rimanevano, e perciò gli chiama inescusabili. E rispetto a questo gli accusa per due capi. Dice in primo luogo che col lume della ragione conoscevano Iddio, e colla loro volontà non lo riconobbero, anzi si sforzarono d' imbrattare e sfigurare il concetto di Dio che era in essi: [...OMISSIS...] . Egli è certo che se i gentili avessero conservato netto quel concetto della divinità che dava loro la ragione contemplatrice dell' universo, e ad essa fossero ricorsi per ajuto, ella avrebbe loro sovvenuto nella sua essenziale misericordia. Ma non avendo voluto far questo, s' aggravò d' assai la loro condizione morale. E prima di tutto s' oscurò il loro cuore insipiente, perchè datosi liberamente ad un male che potevano evitare: il quale così oscurato li precipitò nell' idolatria: [...OMISSIS...] . Così non ebbero il soccorso da Dio, onde solo potevano averlo, e Iddio li abbandonò al loro reprobo senso, il quale, già originalmente viziato, divenne per la volontaria corruzione viziato ancor di più e privo dell' unico faro che potevano avere, se avessero voluto, nel loro naturale intendimento, un concetto puro e sincero di Dio. Quindi le passioni ignominiose che descrive l' Apostolo (3). Dice in secondo luogo San Paolo che sono inescusabili perchè essendo tanto deboli e miseri, in vece d' umiliarsi riconoscendo il proprio stato, anzi s' insuperbivano, e i superbi si chiudono ogni adito alla divina misericordia. Già la superbia stessa delle loro immaginazioni era stata la causa dell' idolatria. Perocchè: « dicentes se esse sapientes, stulti facti sunt (4) ». Or questa stessa superbia soprastante, anzi crescente al colmo nel fondo della corruzione, faceva sì che, nel mentre essi erano tanto rei, pigliassero tuttavia l' aria di dottori e di giudici co' loro simili, co' quali giudizi condannavano se stessi: [...OMISSIS...] . Nel qual errore di condannare superbamente i proprii simili erano incorsi principalmente gli Ebrei, i quali condannavano fieramente i Gentili e vantavan se stessi d' avere la legge di Mosè che non osservavano. Di che raccoglie S. Paolo che tutti e Gentili e Giudei erano colpevoli, cioè non solamente erano macchiati originalmente del peccato ereditato dal primo padre, ma ben anco da' peccati loro proprii, e da quello principalmente, che più impediva che Iddio li soccorresse, della superbia, disconoscendo essi l' impotenza in cui erano di operare il bene, o gloriandosi e giudicando gli altri, invece di umiliare e giudicare secondo la verità se stessi: [...OMISSIS...] . Ma lasciando da parte i peccati attuali e liberi, osserva S. Paolo che quantunque colle forze morali, che rimanevano all' uomo, questi avrebbe potuto fare qualche bene secondo natural legge, tuttavia ciò non bastava a salvarlo perchè « bonum ex integra causa, malum ex quolibet defectu . » Tale è l' ordine morale, che egli è uno, semplice, tutto intero, e mancandone solo una parte viene distrutto. [...OMISSIS...] . Ora a questo è impotente per sè l' uomo concepito in peccato, e perciò l' uomo non può operare la propria salute che è il bene morale completo: non la potè il gentile perchè non seppe osservare compiutamente la legge naturale, non la potè l' ebreo perchè non seppe osservare compiutamente la legge mosaica: [...OMISSIS...] . Il figliuolo adunque di Adamo è nullo nell' ordine morale, perchè non può colle sue sole forze ottenere il verace bene morale nè nell' ordine naturale, e molto meno nel soprannaturale. Il sentimento, la ricognizione pienissima di questa verità è la seconda ragione che noi vogliamo esporre dell' umiltà cristiana. Questo sentimento non poteva essere in Adamo, appunto perchè, come dicevamo, aveva la natura intellettiva perfetta coll' integrità del suo libero arbitrio, vestito altresì della grazia che lo trasportava nell' ordine soprannaturale: onde in lui era il sentimento vivissimo delle proprie forze colle quali operava il bene. Certamente Adamo ancora aveva cagione di professare l' umiltà, come l' ha ogni creatura, anche il più sublime degli angeli: ma quella era un' umiltà lungamente diversa dalla cristiana, consistendo unicamente nel riconoscere i limiti della propria natura, e la intera dipendenza di questa natura sua dall' Essere Supremo, onde aveva tutto ricevuto, onde tutto riceveva di continuo colla conservazione, e d' onde doveva aspettare il rallargamento dei proprii limiti, a cui l' idea illimitata dell' Essere che gli splendeva innanzi lo chiamava, e Iddio gliene aveva dato l' arra ed il mezzo nella grazia conferitagli. Adamo riconobbe bensì i proprii limiti, ma non la compiuta sua dipendenza da Dio, e cercò altrove di completarsi ed estendere se medesimo, dando orecchio alla seduzione diabolica, che gli persuase poter diventare un Dio mangiando del frutto vietato. Invece adunque di ricorrere a Dio pel proprio ingrandimento e completamento, cercò questo nella creatura alla quale diede pazzamente una virtù misteriosa e divina di trasformare gli uomini in altrettante divinità. Fu probabilmente ingannato dalla grandezza della natura angelica che gli si diede a conoscere; della qual grandezza angelica non abbracciando colla limitazione umana i determinati confini, la credè onnipotente ed infinita: e a questa natura angelica egli credette probabilmente d' incorporarsi mangiando quel frutto dal demonio posseduto ed investito. Così, nel congiungersi al demonio per mezzo del cibo, aspirò alla somma grandezza fisica ed intellettuale, e dimenticò la grandezza morale a cui non si volse come ad oggetto; la qual grandezza morale e completa, che trae seco le due prime, gli era offerta nel congiungimento di lui con Dio, che avrebbe dovuto perfezionare coll' ubbidienza alla sua volontà e quindi coll' umiliarsi. Credette di arrivare alla dilatazione dei proprii confini senza por mente all' elemento morale, dove la vera grandezza consiste; e quindi senza bisogno d' umiliarsi e di dipendere dal suo creatore: il che secondava il sentimento delle proprie forze, quale la natura piena e perfetta a lui infondeva. Fin qui noi abbiam favellato del primo dei due sentimenti che abbiamo detto esser proprii del Cristiano, cioè dell' uomo incorporato in Cristo: abbiamo favellato del sentimento del proprio nulla onde s' origina l' umiltà cristiana; ed abbiamo veduto come un tale sentimento non poteva essere in Adamo innocente. Dobbiamo ora considerare il secondo sentimento, prodotto nel Cristiano dalla presenza in lui di Cristo, ed è quello della magnanimità . Come l' uomo cristiano sente di non poter nulla da sè solo, di avere una natura guasta che ricalcitra al bene morale perfetto, e che concupisce contro lo spirito; così sente ancora di possedere un nuovo principio di vita spirituale, il quale è lo stesso Signor nostro Gesù Cristo con esso lui meravigliosamente congiunto. L' uomo primitivo, Adamo, dotato di una natura umana perfetta, doveva ascendere dalla perfezione fisica alla intellettuale, e dalla perfezione intellettuale alla morale. La natura fisica come pure l' intellettuale era retta in lui, e la sua volontà era fornita di un dono di grazia col quale poteva innalzarsi alla percezione sempre maggiore di Dio per mezzo della fedele ubbidienza che avesse prestato alla sua volontà manifestatagli in un precetto positivo. Egli indugiò sulla via prescrittagli, e invece di percorrere indivisamente i tre gradi dell' azione animale, intellettuale e morale, si arrestò a' due primi, non fece il terzo dell' ubbidienza al creatore, si fermò a voler solo la propria grandezza fisica ed intellettuale, e per ottenerla, senza la suggezione alla legge morale, tentò di unirsi cogli angeli prevaricatori mangiando il frutto vietato di cui essi erano probabilmente in possesso. Tutt' altra è la via del Cristiano. Questa non incomincia dalla perfezione fisica o intellettuale, ma dalla morale. Quelle due prime non contano più nulla perchè guaste irreparabilmente. Ma ricuperata soprannaturalmente una nuova vita morale, questa è quella che risuscita, riconquista e restituisce all' uomo le due prime. Questa vita morale viene ricuperata dall' uomo colla sua congiunzione a Gesù Cristo, che è il pane disceso dal Cielo: e in questa vita morale e soprannaturale di Gesù Cristo, partecipata dall' uomo, consiste la nuova dignità dell' uomo, la sua grandezza, la sua potenza, e il sentimento che noi dicevamo della magnanimità cristiana. Il primo effetto di questa nuova vita che riceve l' uomo venendo incorporato a Cristo, si è il sentimento della potenza morale, col quale egli disprezza la vita precedente, fisica e intellettuale, e così si sente superiore alla morte. Questa superiorità alla morte veniva espressa da S. Paolo [...OMISSIS...] . Il disprezzo della vita fisica e di tutte le cose umane veniva espresso dall' Apostolo medesimo in quest' altre parole a que' di Filippi: [...OMISSIS...] . Il disprezzo della vita intellettuale nuda separata dalla morale, fu pure espresso da S. Paolo così a que' di Corinto: [...OMISSIS...] . Il secondo sentimento che si racchiude nella magnanimità del Cristiano è quello della ricchezza e della padronanza che il Cristiano sente d' aver ricevuto su tutte le cose della natura, perchè possiede Cristo che è il Signore della natura. A questo sentimento si riferisce primieramente il poter de' miracoli promesso alla fede di cui Cristo disse: [...OMISSIS...] . Ed ancora: [...OMISSIS...] . E di nuovo: [...OMISSIS...] . Ed anche: [...OMISSIS...] . Alla preghiera fedele è promesso tutto, senza ostacolo che possano fare le leggi della natura. Avviene però che il fedele rare volte cerca miracoli per sè, e quasi sempre li desidera perchè i popoli conoscano per essi la verità evangelica: egli che già crede non ne ha bisogno, e pel rimanente si contenta dell' ordinaria provvidenza di Dio, nelle cui mani sta; il suo unico desiderio è di possedere la santità, alla quale ottenere non fanno mestieri miracoli esterni. Onde, non desiderandoli, nè volendoli, nè pure può aver quella fede di ottenerli che li produce. Quindi i miracoli succedevano più frequenti al principio quando si dovea propagare il Vangelo, ed ancora accadono quando sembrano necessarii agli uomini apostolici per diffondere alle nazioni infedeli l' evangelica verità. Del rimanente può anche accadere che si desiderino i miracoli per aumento della pietà o per la glorificazione dei santi; e se sorge nel cristiano questo desiderio, e la fede con esso, e quindi dimanda il miracolo, questo avviene indubitamente, siccome avviene ancora ove il santo desiderio insorga nell' animo per qualsiasi altro onesto motivo, e quel desiderio sia semplice e produca una volontà assoluta d' ottenere il miracolo, una volontà santa che si trasfonda in orazione senza esitazione di sorta. Questa volontà santa, semplice ed assoluta di volere quella cosa miracolosa e di dimandarla conseguentemente senza esitazione, se non nasce per una speciale ispirazione di Dio o non vi abbiano i motivi addotti della propagazione del Vangelo o della glorificazione dei santi, suol trovarsi più facilmente nei santi uomini idioti che non sia ne' gran letterati, benchè santi anche questi, a cagione che questi ultimi, avendo più lumi intorno l' ordinaria Provvidenza, più in questa si confidano, e tanto di questa si assicurano e ne aspettano con pazienza lo svolgimento, che non vedono alcun assoluto bisogno di volere e di dimandare il miracolo, onde non ne hanno una volontà assoluta e non lo dimandano semplicemente e senza condizione a Dio. Nè perciò questi si tengono meno ricchi e padroni degli avvenimenti de' primi. Tutti gli uomini santi sentono di possedere in Cristo il tutto, e con esso tutte le cose di cui egli è Signore, onde S. Paolo: « Si Deus pro nobis, quis contra nos? » [...OMISSIS...] . Di che di nuovo l' Apostolo: « Habeo autem omnia et abundo (2)... » Laonde tutte le cose dell' universo avvengono dirette dalla Provvidenza al bene e al perfezionamento dei Santi: [...OMISSIS...] , dei quali ha detto Cristo non perirà un capello (4). Ma nel medesimo tempo l' uomo santo intende che il possesso ch' egli ha di tutte le cose, lo ha in Cristo e per Cristo che è in lui, onde si considera come un figlio di famiglia che è bensì padrone, ma subordinatamente al Padre che è il vero padrone, sentimento espresso dall' Apostolo in quelle parole ai Corintii: [...OMISSIS...] . E ancora i santi incorporati a Cristo si chiamano suoi coeredi , perchè, essendo Cristo l' erede, come quello che morì in forma dell' uomo vecchio e risorse uomo nuovo, ereditando tutto ciò che all' uomo vecchio apparteneva ed anzi tutte le cose, egli, formante un corpo solo coi fedeli sue membra, chiamò queste stesse a parte della regale e magnifica sua eredità. Il terzo sentimento della magnanimità cristiana si è il disprezzo delle ricchezze e di tutte le cose del mondo; perocchè l' uomo incorporato a Cristo e santo, non cura di possedere a titolo umano e con brighe e sollecitudini temporali poche cose ed incerte, quando sa di possederle tutte in Cristo, e d' averle pronte, senza darsene briga o fastidio, ogni qual volta gli bisognano al proprio fine soprannaturale che solo apprezza come vero bene. Di che egli sente la beatitudine della povertà proclamata da Cristo, alla quale fu promesso il regno de' Cieli (1); sente ancora quell' altra voce di Cristo: « Nolite ergo solliciti esse dicentes: quid manducabimus, aut quid bibemus, aut quo operiemur? haec enim omnia gentes inquirunt. Scit enim Pater vester, quia his omnibus indigetis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justitiam ejus et haec omnia adjicentur vobis (2) ». Per le quali cose l' Apostolo descrive il ministro di Cristo con queste parole: « Sicut egentes, multos autem locupletantes: tanquam nihil habentes, omnia autem possidentes (3) ». A cui s' aggiungono le ricchezze non corrotte e non corruttibili promesse al Cristiano dalla voce di Cristo in un altro tempo, di cui potrà goderne senza timore e senza diminuzione di santità: [...OMISSIS...] Il quarto sentimento della magnanimità cristiana è la quiete nella condizione e nell' esercizio de' doveri del proprio stato, quando Iddio non muova e chiami all' opere straordinarie; e per l' opposto è l' intraprendenza e il coraggio perseverante nell' affrontare e condurre a termine le opere straordinarie a cui Iddio dà la mossa, e che mostra di volere. La quiete nasce nell' uomo incorporato a Cristo, rispetto ai beni umani ed al miglioramento di sua condizione, perchè sentendo di posseder Cristo è soddisfatto come del possesso del tutto. [...OMISSIS...] . Onde quelli che hanno in sè il sentimento di Cristo, non possono essere inquieti e solleciti per ottenere umani avanzamenti e ricchezze, ma vivono nel loro stato tranquilli. Ma nè pure il cristiano esce dalla sua quiete per intraprendere di proprio moto e senza conoscer prima la volontà di Dio opere straordinarie, benchè in se stesse sante e rivolte a glorificare Iddio. E ciò pel sentimento di umiltà, pel quale sa di essere un nulla e di nulla per se stesso capace. Di poi perchè non ignora che Gesù Cristo, che è in lui e il qual solo può fare in lui e con lui le cose grandi per la divina gloria, se le volesse, gliene darebbe l' impulso e gli manifesterebbe, cogli avvenimenti diretti dalla sua Provvidenza e in altri modi altresì, il suo volere. In terzo luogo perchè l' uomo non può sapere se un' opera anche buona in se stessa entri nel gran piano di Dio, e quindi sia un vero bene nel tutto, e quindi ancora Iddio la voglia far riuscire. [...OMISSIS...] . In quarto luogo perchè sa che tutte le cose, in qualunque modo egli operi, sono dirette dal Padre alla massima glorificazione del Figlio, ed anzi sono tutte date in mano del Figlio: onde questo effetto ch' egli tanto desiderava già viene ottenuto, o con lui se vuole Iddio, o senza di lui se non vuole. Ma quando lo spirito di Cristo, che è in lui, lo muove, quando la volontà di Dio si manifesta, quando si presenta quella necessità morale, di cui diceva S. Paolo: [...OMISSIS...] (4), allora l' intraprendenza, il coraggio, la perseveranza del Cristiano per la salvezza delle anime e per l' opera più stupenda di carità non ha limiti. Già egli mandato da Dio sente la sua immensa potenza in quel Cristo nel quale opera: egli superiore alla morte e a tutti i beni del mondo che disprezza, sapendo d' aver tutto ciò in sue mani, dice coll' Apostolo: « Omnia possum in eo qui me confortat (1) »: le difficoltà, le angustie, le infermità lo avvigoriscono: [...OMISSIS...] . Nè lo arretra o sgomenta il sentimento della propria debolezza, perchè confida in Cristo e non in se stesso, perchè sa e sente quello che dice l' Apostolo: « quae stulta sunt mundi elegit Deus, ut confundat sapientes: et infirma mundi elegit Deus ut confundat fortia: et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus et ea quae non sunt, ut ea quae sunt destrueret: ut non glorietur omnis caro in conspectu ejus (3) ». E l' uomo incorporato a Cristo ripone veramente se stesso fra le cose che non sono, [...OMISSIS...] perchè egli non vive più della vita propria, cioè non conta più questa vita e non vuole operare secondo essa, ma vive in lui l' uomo nuovo Gesù Cristo, pel quale solo e col quale, siccome sua nuova vita, vuole operare e sa di potere. Laonde in questo sentimento del proprio nulla, viene esclusa la falsa umiltà, ed ha luogo la ricognizione de' doni di Cristo, e quella cotal maniera di gloria di cui l' Apostolo dice: « Qui autem gloriatur in Domino glorietur (4) ». Il che ha più significati: perocchè vuol dire di gloriarsi in quel Signore che fa tutto il bene in noi, attribuendone a lui solo la gloria di cui egli ci fa partecipi (5); vuol dire di gloriarsi non della nostra nullità o nelle cose vane e riprovevoli, ma di riporre la nostra gloria nell' essere uniti a Dio (6); vuol dire ancora di aspettare che quel Signore Gesù Cristo che è in noi già glorificato dal suo Padre celeste comunichi a noi egli stesso della sua gloria, senza che ce la prendiamo noi stessi, che non siamo conoscitori nè giudici del merito, nè nostro, nè altrui (7). Ora nè pure la magnanimità cristiana, sentimento nobilissimo da più sentimenti risultante, poteva essere nel primo uomo, perchè egli non era annientato per lasciare in sè luogo a Cristo; ma Adamo viveva della vita sua propria, benchè la sua mente avesse la percezione del Verbo, e secondo quella vita umana e limitata operava, e poteva, se avesse voluto, e onestamente operare, e sempre più spingersi a partecipare della vita intellettiva e della grazia del Verbo. Dalla congiunzione fisica7intellettuale7morale dell' uomo con Cristo, per la quale Cristo diviene il capo, i fedeli le membra che dal capo ricevon la vita e l' operazione, di maniera che Cristo è il principale operante nel Cristiano che non pone ostacolo cooperando alla mozione del capo, si viene ad intendere il valore di alcune formole solenni usate nelle divine Scritture e risonanti di continuo in bocca de' primitivi cristiani. Una di queste formole è quella « in Cristo »: [...OMISSIS...] Essere in Cristo Gesù è quanto dire essere inseriti in lui come il tralcio nella vite, e dice: ex ipso cioè ex Deo, perchè questa incorporazione è opera della santissima Trinità e s' attribuisce al Padre, dal quale procede il Verbo e con esso Verbo tutto ciò che al Verbo s' unisce e forma un corpo con lui, quasichè i fedeli stessi, divenuti una cosa col Figliuolo, e così divenuti Figliuoli anch' essi, procedessero essi pure dal Padre. « In Christo Jesu per Evangelium ego vos genui (2) ». Generare in Cristo è lo stesso che incorporare, inserire in Cristo. E si dice generare, perchè Cristo divenendo il principio supremo dell' operare, ossia suscitando per la sua congiunzione coll' uomo una nuova attività nell' uomo, superiore a tutte le altre ed atta a dominarle, l' uomo diviene con ciò una nuova persona, giacchè la base della personalità consiste nel principio intelligente supremo dell' operare. Onde S. Paolo considera l' uomo in Cristo come creato di nuovo, un uomo nuovo (3), una nuova creatura, che sola ha prezzo, nulla valendo tutto il resto [...OMISSIS...] . E poichè, rinnovata la personalità, creato un principio supremo e dominatore nell' uomo santo, ed incorruttibile, egli è come seme da cui dee rinnovarsi l' intera natura umana e tutto ciò che è fatto per essa, giacchè, ottenuto il fine, non possono, secondo la divina sapienza, mancare i mezzi, e il principale dee tirare a sè l' accessorio; quindi nel rinnovamento della parte superiore dell' uomo vede l' Apostolo giustamente la rinnovazione di tutto il mondo umano e la restaurazione di tutte le cose: [...OMISSIS...] , ed è quello che avevano già predetto gli antichi profeti (2). Il che fu l' eterno gran disegno di Dio, pel quale anche permise la caduta del primo uomo: « ut notum faceret nobis sacramentum voluntatis suae, secundum beneplacitum ejus quod proposuit in eo, in dispensatione plenitudinis temporum instaurare omnia in Christo, quae in coelis et quae in terra sunt, in ipso (3) ». Dove per quelle cose che sono ne' cieli s' intendono le spirituali, l' intelligenza e tutto ciò che è e si fa in essa, ossia la volontà intelligente, la quale va di cielo in cielo, di virtù in virtù, di perfezione in perfezione fino che, toltale intorno la benda corporea e tutte le macchie, perviene al cospetto di Dio nel Cielo de' Cieli. Per le cose poi che sono in terra deve intendersi il corpo umano, l' animalità e tutte le cose esterne che alla vita animale si riferiscono, le quali pure a suo tempo saranno restaurate, e già incominciano ad essere per la Provvidenza che le guida e rivolge a favore di quelli che amano Dio. E dice in ipso , perchè in Cristo sono tutte incorporate e formanti con esso lui un solo corpo, di cui egli è il capo e lo spirito vivificante; perocchè con Cristo non è solo incorporata l' anima, ma essendo Cristo non solo Dio, ma ancora uomo, e l' umanità di Cristo essendo composta necessariamente d' anima e di corpo, egli è di conseguente rettore, capo e vita non meno delle anime che de' corpi degli uomini, in un modo nel presente, in un altro più perfetto nel futuro, quando anco i corpi saranno intieramente rinnovati e perfezionati. Laonde S. Paolo anche nel tempo presente chiama i corpi de' Cristiani membra di Cristo [...OMISSIS...] . E non già che il corpo nella presente condizione sia pienamente riformato e fatto anch' egli degno della vita di Cristo; ma per la sua congiunzione collo spirito incorporato in Cristo, e per l' influenza dell' umanità di Cristo, come vedremo in appresso, acquista una cotale santificazione, e partecipa in qualche modo della stessa vita spirituale. Il che è quello che vuol dire S. Paolo conchiudendo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est », non apprezzandosi il corpo come corpo, ma come partecipe d' una cotale spiritualizzazione, onde impedisce meno allo spirito di santificarsi, e alla santificazione di lui coopera. Rimanendo però nel corpo, fino che sta nella vita presente, qualche cosa di restìo e di materiale, onde anche soffre quanto più lo spirito a Dio si congiunga; conviene che a suo tempo venga distrutto e rinnovato colla risurrezione, al che si riferisce S. Paolo [...OMISSIS...] . Innumerabili sono le maniere di dire nelle quali ricorre nel favellare degli apostoli e de' loro discepoli l' espressione in Cristo, perocchè tutto ciò che è o che fa l' uomo cristiano, è in Cristo, lo fa in Cristo. [...OMISSIS...] ; e così di ogni altra cosa che avviene all' uomo soprannaturale, o che egli patisce, o che egli fa. Basta aprire le scritture degli Apostoli per abbattersi in questa fecondissima espressione in Christo, che egualmente ricorre ne' primi scrittori della Chiesa, nelle lapidi mortuarie cristiane, negli altari e nelle Chiese, in tutti i monumenti della cristiana tradizione. In questa solenne parola in Christo si contiene compendiato tutto il Cristianesimo, perchè esprime la reale mistica unione dell' uomo con Cristo, nella quale unione e incorporazione consiste il Cristianesimo in atto. Questa unione e incorporazione è il principio della pietà e scienza cristiana, perocchè il Cristianesimo, prima è pietà appartenente all' ordine attivo morale, e poscia è scienza appartenente all' ordine astratto intellettuale. Dal sentimento di questa incorporazione procede tutta la dottrina morale ed ascetica dell' uomo cristiano: questo sentimento è luce che lo illumina, perocchè è il sentimento di Cristo. L' unione e l' incorporazione reale dell' uomo con Cristo ha due parti. L' una e la prima e fondamentale è l' opera di Dio solo, è il fondamento della seconda; quella che si chiama anche la generazione spirituale, la nascita dell' uomo nuovo: è il congiungimento stabile che Cristo fa dell' uomo a sè; onde la nuova creatura. La seconda parte, propagazione ed effetto della prima, non è fatta dal solo Cristo, ma da Cristo coll' uomo, a cui s' è congiunto. L' uomo, acciocchè abbia luogo questa seconda parte della sua incorporazione a Cristo, acciocchè questa incorporazione abbracci totalmente l' uomo, dee non porre ostacolo all' operazione di Cristo e lasciarsi muovere spontaneamente secondandone gli istinti. La prima di queste due parti è l' impressione del carattere, di quel carattere che, secondo l' Apostolo, è il carattere della sussistenza di Dio; cioè del Verbo incarnato. La seconda è la diffusione nell' uomo della grazia abituale e santificante che viene dal carattere, cioè dal Verbo di Dio incarnato che emette il suo spirito nell' uomo che non resiste e lascia muovere la propria spontaneità da esso spirito. Dicevamo che l' impressione del carattere è fatta dal solo Cristo: questo si verifica a pieno nel bambino che non può opporre alcun ostacolo. Nell' adulto però, che è in condizione di operare colla sua volontà, quando viene battezzato (giacchè col battesimo, come noi diremo in appresso, s' imprime primieramente il detto carattere), si esige che almeno abbia l' intenzione di ricevere il battesimo di Cristo, o il battesimo datogli dalla Chiesa di Cristo: perocchè se egli o avesse intenzione semplicemente di subire quella funzione materialmente o la subisse con animo del tutto avverso a ricevere esso battesimo, non volendo anzi al tutto riceverlo, l' effetto dell' impressione del carattere non seguirebbe. Conviene adunque pel primo effetto, che nell' uomo non vi abbia la volontà avversa a riceverlo: e pel secondo, che vi abbia la volontà credente e docile al sentimento di Cristo, qualora questa vi possa essere; e se non vi può essere alcun atto di volontà, come nel bambino, conviene che vi abbia la volontà in potenza che riceve l' abito della fede e l' inclinazione ad essa senza ostacolo. Perocchè Cristo, che incorpora a sè il bambino, piega a sè abitualmente la volontà del medesimo, la quale si lascia piegare a quello che la tira, senza possibile resistenza. Laonde il carattere s' imprime nell' essenza dell' anima in quanto è intelligente, affettando la natura umana; la grazia poi informa la volontà dell' uomo, cioè l' essenza dell' anima in quanto è volitiva: e così tutto l' uomo rimane a Cristo congiunto, il che San Paolo chiama: « « vestire Cristo (1) » ». Ora da questa meravigliosa congiunzione dell' uomo con Cristo gli Apostoli e i loro successori derivarono, come dicevamo, tutti i precetti della morale e della perfezione cristiana quasi da un principio che nel loro seno tutti li racchiude, ed indi trassero argomento a tutte le loro esortazioni colle quali stimolavano i fedeli alla virtù cooperando a quel fondamento che già era in loro collocato della spirituale loro salvazione. E da prima da questa dottrina procedeva che la vita puramente naturale dell' uomo, cioè l' uomo vecchio, corrotto dal peccato naturale, non aveva più alcun valore, e però era condannato alla morte, e doveasi considerare come morto; laddove la vita novella, la vita di Cristo comunicata all' uomo era quella in cui doveva porsi ogni speranza, contenendo il seme dell' immortalità ed essendo veramente per sè immortale ed eterna. Onde S. Paolo diceva ai Romani [...OMISSIS...] . Sotto la parola carne e la parola corpo s' intende la vita naturale, adamitica, guasta dal peccato, onde nulla si può sperare perchè dannata alla morte, quando il bene e la salute dell' uomo sta nell' immortalità. Onde anche Cristo aveva detto: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam (3) ». E l' Apostolo: « Ergo, fratres, debitores sumus non carni, ut secundum carnem vivamus. Si enim secundum carnem vixeritis, moriemini: si autem spiritu facta carnis mortificaveritis, vivetis. Quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (4) ». Laonde queste due maniere esse in carne (1) ed esse in spiritu significano e contrappongono l' una all' altra le due vite: la vita naturale, mortale, corruttibile e corrotta ricevuta da Adamo per via di naturale generazione; e la vita di Cristo a noi comunicata per la generazione soprannaturale. Alle quali due maniere rispondono quest' altre: ambulare secundum carnem, cioè vivere secondo i desiderii della vita naturale e infetta dal peccato; e ambulare spiritu, cioè vivere secondo gli istinti della vita nuova di Cristo incorruttibile a noi comunicata. « Nihil ergo nunc damnationis est iis qui sunt in Christo Jesu, qui non secundum carnem ambulant (2) »: dove il qui sunt in Christo Jesu indica la prima fondamentale incorporazione con Cristo, e il qui non secundum carnem ambulant indica la cooperazione di colui che opera secondo gli istinti della nuova vita ricevuta dalla congiunzione con Cristo. Nulladimeno, quantunque chi vive della vita di Cristo non si considera più come fosse in carne, perchè rinunziò a questa vita carnale; tuttavia, fino che l' uomo vive, cammina in qualche modo nella carne, perchè questa non è tolta effettivamente del tutto, e combatte contro lo spirito. Onde S. Paolo dice di sè: « In carne enim ambulantes, non secundum carnem militamus », e ne rende la ragione dicendo: « Nam arma militiae nostrae non carnalia sunt, sed potentia Deo ad destructionem munitionum, consilia destruentes (3) »: nel qual luogo « il camminare nella carne »significa la condizione dell' uomo cristiano in questo mondo ancora impacciato colla vita animale corrotta, la quale sta sempre sull' assalire lo spirito, ma questo la combatte, non già contrapponendo alla carne armi carnali, ma spirituali, cioè tolte dalla vita di Cristo di cui egli partecipa, e di cui solo tien conto, come sua propria vita. La frase poi esse in spiritu, per opposto di esse in carne, significa appunto la perfetta incorporazione con Cristo, che si compie, come abbiamo detto, colla volontà consenziente e cooperante alla operazione di Cristo, nel che sta l' effetto della grazia. Perocchè lo spirito di cui si parla è lo spirito di Cristo, onde soggiunge: « Si quis autem spiritum Christi non habet, hic non est ejus (4) », e si chiama anche « « lo spirito della vita di Cristo ». Lex enim spiritus vitae in Christo Jesu liberavit me a lege peccati et mortis (5) », perocchè questo « spirito della vita », onde l' uomo viene avvivato quando è incorporato a Cristo anche colla sua volontà, è santo ed immortale. Ma conviene, perchè vi abbia questa vita nell' uomo, che Cristo stesso sia in noi spiritualmente, cioè che egli diffonda lo Spirito Santo che da lui e dal Padre procede nell' anima nostra: altrimenti non percipiamo Cristo secondo lo Spirito, ma solo secondo la carne. Il che dice S. Paolo così [...OMISSIS...] : il che è quanto dire, che solo col ricevimento della grazia di Cristo, e non per la sola impressione del carattere, e molto meno per una cognizione esterna priva della fede o della carità, si conosce Cristo spiritualmente, cioè partecipando del suo « spirito di vita », ma solo si conosce secondo la carne, la quale è morta e non dà la vita. E S. Paolo ripone appunto in questo la figliuolanza di Dio, non nella sola impressione del carattere battesimale, ma nella grazia che a lui consegue, se non trova ostacolo, in modo che l' uomo si lasci muovere dalla grazia, che è quanto dire dallo spirito di Cristo, e secondo questo operi: « quicumque enim spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (2) ». Ora da questa doppia vita che è nell' uomo viatore, cioè la vita adamitica, e la vita di Cristo in cui siamo incorporati, vengono primieramente due parti della Cristiana sapienza: l' una speculativa ed è la dottrina intorno la lotta mortale fra quelle due vite, fra que' due uomini, il vecchio ripudiato, ed il nuovo, e intorno la storia di questa lotta è gran parte della teologia: l' altra morale ed ascetica e contiene i precetti del combattimento spirituale. La lotta fra la vita adamitica chiamata carne e la vita di Cristo in noi chiamata spirito è descritta di frequente nelle divine scritture. Dice S. Paolo: « Caro enim concupiscit adversus spiritum: spiritus autem adversus carnem: haec enim sibi invicem adversantur: ut non quaecumque vultis illa faciatis (3) ». Le quali ultime parole indicano la libertà di fare senza ostacolo il bene limitato dagli istinti della vita adamitica guasta in noi dal peccato. Questi istinti sono così enumerati dall' Apostolo: « Manifesta sunt autem opera carnis: quae sunt fornicatio, immunditia, impudicitia, luxuria, idolorum servitus, veneficia, inimicitiae, contentiones, aemulationes, irae, rixae, dissensiones, sectae, invidiae, homicidia, ebrietates, commessationes, et his similia: quae praedico vobis, sicut praedixi, quoniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequentur ». All' incontro lo stesso Apostolo enumera i frutti dello spirito di Cristo in questo modo: « Fructus autem spiritus est: caritas, gaudium, pax, patientia, benignitas, bonitas, longanimitas, mansuetudo, fides, modestia, continentia, castitas (1). » Ma l' Apostolo c' insegna altresì che la vita naturale ed adamitica dell' uomo non sarebbe così corrotta e non lotterebbe di tanta forza contro lo spirito di Cristo, qualora non intervenissero le potenze malefiche degli Angeli delle tenebre, le quali sono entrate nella natura umana e nel mondo materiale quando i primi parenti mangiarono il frutto vietato, dove, come crediamo, il demonio si accoglieva: « Induite vos armaturam Dei », dice a que' di Efeso, « adversus insidias Diaboli. Quoniam non est vobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates, adversus mundi rectores tenebrarum harum, contra spiritualia nequitiae in coelestibus (2) ». E dice in coelestibus per significare la parte superiore dell' uomo, cioè la volontà, col solo consentimento della quale si compie il peccato formale, cui tende produrre in noi il demonio. E chiama i demoni principi e podestà, e rettori del mondo di queste tenebre, perocchè il demonio divenne principe di questo secolo da lui conquistato colla seduzione de' primi parenti: onde la vita adamitica, appunto perchè infestata dal demonio, è abbandonata a lui, che era omicida fino dal cominciamento (3), essendo il suo costante intendimento quello di estinguere l' uomo. Ma l' uomo nuovo Cristo, immune al tutto dal peccato, non potè venire menomamente in balìa del demonio, e quindi ottenne una vita immortale, colla comunicazione della quale agli altri uomini crea in essi un' umanità nuova, una vita nuova non soggetta alla morte, e però eterna: « Renati », dice S. Pietro, « non ex semine corruptibili sed incorruptibili per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum; quia omnis caro ut foenum, et omnis gloria ejus tamquam flos foeni: exaruit foenum et flos ejus decidit. Verbum autem Domini manet in aeternum (4) ». Lo stesso S. Pietro poi raccomanda a' primi cristiani di osservare la sobrietà e la vigilanza, colle quali virtù si tiene in suggezione la carne, e ne dà per ragione: « quia adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens circuit, quaerens quem devoret (5) », dimostrando così essere gli angeli ribelli quelli che rendono insolente la carne, e tentano di dare all' uomo il tracollo acciocchè consenta ai desiderii ed istinti della carne. E Cristo stesso insegna che il diavolo porta via il buon grano seminato dal celeste agricoltore e caduto in sulla via: la qual via rappresenta il cuore di colui che ascolta predicare la parola del regno e non la intende (1), e che lo stesso inimico dell' uman genere soprasemina le zizzanie nello stesso campo dove il padrone aveva seminato il buon grano (2). E lo stesso Cristo disse agli Ebrei: « Vos ex parte diabolo estis (3) » per indicare la loro consumata malizia comunicata loro dal diavolo, il quale, come voleva estinguer l' uomo, così voleva uccider Cristo; nel qual pensiero erano pur venuti gli Ebrei; e per indicare l' ultimo grado di malizia del discepolo traditore, gli dà il titolo stesso di diavolo: « ex vobis unus diabolus est (4) », quasi indicando l' individua unione che il diavolo aveva stretto coll' Iscariotta, nel quale e col quale operava, quasi direi a quel modo stesso come Cristo fa nell' uomo santo già in lui innestato. Perocchè il demonio possiede più o meno dell' uomo adamitico, e solo Gesù Cristo per se stesso è inaccessibile al demonio, onde potè dire: « Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam (5) ». Maria SS fu certamente immune da ogni invasione del diavolo per grazia singolare ricevuta dal Figliuolo di cui ella era Madre. Ma, universalmente parlando, ne' Santi stessi, ne' quali non vi ha nulla di dannazione, vi ha qualche porzione della loro parte inferiore molestata e in qualche modo posseduta dal demonio: onde la lotta che accresce il loro merito, le venialità, e il bisogno della purificazione col fuoco e colla morte. Fin a tanto però che il demonio non possiede la parte superiore dell' uomo, la volontà suprema, l' uomo è imperfetto, ma salvo tuttavia per Cristo, e non sarà in lui distrutto dal fuoco se non quello che avrà edificato di combustibile sopra il fondamento di Cristo che è in lui: [...OMISSIS...] . Posta questa lotta accanita fra l' uomo adamitico e l' uomo nuovo, cioè Cristo, nel cristiano, deriva la dottrina, come dicevamo, del combattimento spirituale. Questo combattimento ha due parti: l' una tende a rinforzare l' uomo nuovo, farlo crescere sempre più robusto e sicuro; l' altra tende a debilitare il nemico, cioè l' uomo adamitico, togliendogli la baldanza di nuocere. Ora S. Paolo enumera specialmente le armi che valgono per ottenere il primo effetto in queste parole: [...OMISSIS...] . Sono dunque queste armi, enumerate da san Paolo, e da lui chiamate anche « armi della luce »(2). 1 La castità espressa coll' espressione de' lombi succinti, che S. Pietro unisce alla sobrietà dicendo « Propter quod succincti lumbos mentis vestrae, sobrii perfecte sperate in eam quae offertur vobis gratiam, in revelationem Jesu Christi (3) »: e dice i lombi della mente, perchè la castità risiede principalmente in una mente pura, serena, ed aliena da ogni cosa carnale, il quale stato della mente, a cui ottenere assai conferisce la sobrietà, facilita oltremodo all' uomo l' innalzarsi alle speranze di quella grazia gloriosa che è offerta all' uomo, quando Gesù Cristo si manifesterà a lui nel punto della sua morte e nella fine dei secoli. E l' Apostolo aggiunge « succincti lumbos vestros in veritate », volendo significare come non basti una castità apparente, un esterno decoro, ma una vera castità che rifugge da ogni immondezza, non solo negli occhi degli uomini, ma in quelli di Dio e della propria coscienza. 2 La giustizia che quasi lorica cuopra tutto il corpo dell' uomo, quella rettitudine d' animo che è sempre disposto a dare a tutti il suo, nè fa mai a nessuno alcun torto. 3 L' affetto e la buona disposizione all' evangelio della pace, al che richiede l' Apostolo che l' uomo abbia i piedi calzati, come colui che dee viaggiare, cioè sia pronto a far viaggio per cagione dell' Evangelio o debba egli esulare per la persecuzione, o sia chiamato ad annunziare il Vangelo ad altre genti, ovvero venga da Dio chiamato all' altra vita, dove l' Evangelio della pace si compie nella magione del Dio della pace. E dicendo l' Evangelio della pace, dopo avere raccomandato la giustizia, viene ad inculcare la mansuetudine e la pace con tutti. 4 La fede, colla quale siccome con un saldo scudo si può spuntare tutte le saette delle fallacie e false argomentazioni de' falsi sapienti del mondo, e degli eretici, suscitate nelle loro menti e suggerite dall' iniquo, cioè dal demonio. E chiama queste saette di fuoco, per la loro sottigliezza e nequitosità, e per rammentare la perdizione a cui sono destinate nel fuoco eterno della malizia onde provengono. 5 La speranza che chiama galea di salute, ossia del salutare [...OMISSIS...] che è Gesù Cristo, perocchè la speranza è appoggiata alle promesse di Cristo. E che la galea, ossia l' elmo del salutare, sia la speranza, rilevasi da un altro luogo dell' Apostolo ove dice: [...OMISSIS...] . Ora l' elmo è un' arma difensiva che protegge la testa, perchè la speranza procede dalla mente, dove sta la fede in Cristo, ne' suoi meriti, e nelle sue promesse. 6 La cognizione e lo studio della parola di Dio, giacchè l' uomo cristiano nella virtù di questa parola fondata nell' infallibile e fedele autorità di Dio stesso trova tali ammaestramenti e tali sentenze con cui repellere tutti i sofismi e le tentazioni dell' inimico; di che abbiamo l' esempio di Cristo che alla trina tentazione diabolica oppose altrettanti detti delle divine scritture. 7 L' orazione e l' ossecrazione continua [...OMISSIS...] fatta collo spirito e non colle sole labbra [...OMISSIS...] e con ogni istanza [...OMISSIS...] . Questa assidua orazione dee farsi per sè e per tutti i santi, cioè per tutti i fedeli che costituiscono insieme un solo corpo di cui è capo Gesù Cristo, e particolarmente per i ministri evangelici, acciocchè Iddio conceda loro il dono della parola, e la fiducia di predicare liberamente l' evangelica verità e di aprirne agli uomini il mistero. . A cui s' aggiunge, qual conseguenza necessaria, la vigilanza cristiana nello spirito d' orazione, per la quale l' uomo sta continuamente svegliato a ricevere le divine comunicazioni ed attento sopra se stesso e su tutte le sue operazioni per evitare ogni offesa di Dio, ed ogni mal passo. « Igitur non dormiamus », dice in altro luogo l' Apostolo, « sicut et caeteri, sed vigilemus, et sobrii simus (1) », giacchè la mancanza di sobrietà impedisce non meno la vigilanza che l' orazione. L' orazione e la vigilanza furono congiunte insieme anche da Cristo quando disse: « Vigilate et orate ut non intretis in tentationem (2) ». L' uomo è composto d' una parte intellettiva e d' una parte animale che presta all' intendimento i segni delle cose reali col mezzo de' quali egli le pensa. L' unione individua di queste due parti costituisce la razionalità in cui risiede la natura umana. Ma nella parte intellettiva e dotata di attività, onde prende il nome di volontà, risiede la persona umana in quanto la volontà è un principio attivo supremo. Salvata la persona, è salvato l' uomo; perita la persona, è perito l' uomo. Laonde il demonio tende a pervertire la persona, e Cristo all' opposto a salvarla. Cristo la salva congiungendo alla persona, cioè alla parte suprema dell' umana natura, se stesso, dandole della propria vita. Il demonio cerca per opposto sedurla operando nell' animalità, e col gioco de' fantasmi traendola a pensare al male e allettandola a volerlo. Quindi due nemici dell' uomo: 1 il demonio co' sofismi che induce nel pensiero umano, togliendo i fantasmi che potrebbero indurre a pensare rettamente, e quindi a pensare la verità, il bene, e sommovendo de' fantasmi che, pel loro disordine, stravolgono e ottenebrano la mente umana e la fanno pensare malamente e conchiudere alla falsità ed al male; 2 l' animalità che incita l' uomo, non senza opera del demonio, ai diletti sensibili, distogliendolo dai diletti spirituali. Il primo di questi due nemici si combatte principalmente col rinforzare l' uomo nuovo mediante gli otto mezzi suggeriti dall' Apostolo e di sopra enumerati. Laonde S. Paolo li propone come armi acconcie a combattere le potestà malefiche, dopo aver detto che la nostra lotta, anzichè contro la carne e il sangue, è « contra spiritualia nequitiae in coelestibus (1) ». Il secondo nemico, cioè la carne, si combatte coll' estenuare di forze l' uomo vecchio. Perocchè, quantunque il demonio cerchi di stimolarlo e dargli una forza prevalente, tuttavia egli non può tutto in quest' opera, e l' uomo può mortificando la carne rendere inutili gli sforzi dell' inimico per rinforzarla, il qual nemico d' altra parte viene ad essere diminuito di potestà e di forze mediante gli otto mezzi enumerati. La seconda parte adunque del combattimento spirituale consiste nel scemare forze all' uomo vecchio in quanto contraddice e molesta l' uomo nuovo; e l' uomo vecchio chiamasi carne, non perchè la sola carne formi l' uomo, o perchè si debba intender per esso la sola vita animale, ma perchè nell' ordine naturale tutto l' uomo vive della vita animale, giacchè la sola animalità gli somministra il sentimento soggettivo, nel quale sta la vita, il quale sentimento soggettivo, radicalmente animale, si fa razionale per l' intuizione dell' essere, col quale ragiona sulle cose sensibili od astratte e quelle razionalmente appetisce. L' uomo nuovo all' incontro ha un nuovo sentimento soggettivo, come diremo in appresso, nel quale sta la sua vita, e quel sentimento è una partecipazione della vita di Cristo. Quindi adunque procede tutta la dottrina della mortificazione della carne, e della penitenza cristiana, la quale conviene ora che noi dichiariamo. Conviene dunque considerare che l' uomo col peccato si era reso inutile al gran fine pel quale Iddio l' aveva creato, che era quello d' unirsi a lui e così partecipare della sua santità e della sua beatitudine; e, reso inutile, l' uomo doveva morire, perocchè non è secondo la divina sapienza e perfezione che sussista una cosa senza fine. Per questo già all' intimazione del precetto dato ad Adamo vi era annessa la comminazione della morte [...OMISSIS...] . Della morte poi dell' uomo fu occasione il diavolo, il quale aveva tolto a correre una sfida con Dio. Perocchè Iddio, per mettere alla prova la soggezione e fede degli Angeli, aveva creato l' uomo così mortale e fragile, com' egli è di sua natura, e aveva promesso di renderlo immortale santificandolo e fin anco divinizzandolo (coll' unirlo ipostaticamente al suo Verbo), e così renderlo oggetto d' adorazione agli angeli stessi, che per natura sono tanto più eccellenti dell' uomo. Alla qual parola di Dio credettero gli angeli buoni, e furono confermati in grazia. Ma i prevaricatori, superbi della loro eccellenza di natura, non credettero al misterio della divina parola, e parve loro un intollerabile abbassamento il pensiero di dover adorare una creatura tanto ad essi inferiore. Che anzi si lusingarono di poter distruggere un essere così fragile, come vedevano esser l' uomo. Quindi impossessatisi d' un frutto pensarono che entrerebbero nell' uomo, quand' egli, spiccatolo dall' albero, ne mangiasse; giacchè il cibo convertendosi nel corpo animato dell' uomo, essi potevano entrare a man salva nell' animalità, ossia nella vita soggettiva di questo essere, e farne quel governo che si proponevano. Il che diede occasione a Dio di avvertir l' uomo del pericolo, dandogli il precetto di non mangiare di quel frutto, coll' avviso che se ne avessero mangiato, sarebbero morti: il quale precetto amorevole dalla parte di Dio era d' altra parte opportuno per dar all' uomo occasione di sollevarsi al Creatore prestandogli fede ed obbedienza: il che era un vantaggio che Iddio traeva dalla malizia degli angeli ribelli. Questi dunque, posti all' impresa d' indur l' uomo a mangiare di quel frutto, trovarono dapprima l' opposizione del divino comando, ma ingannarono ben presto la donna promettendole, se n' avesse mangiato, di divinizzare lei e suo marito; il che era una pungentissima tentazione all' uomo, che sentiva tutta la potenza della vita e il voto della natura intelligente d' innalzarsi fino ad una infinita e divina eccellenza. La donna, compresa da una parte della grandezza della natura angelica che le parlava, la quale è da credere ch' ella abbia conosciuta smisuratamente maggiore della propria, cioè dell' umana, e tale da non potersi dall' uomo misurare, quindi indefinitamente grande (1); dall' altra, sollucherata dalla grandezza della promessa e dalla pienezza di cui godeva della vita umana, tenendosi sicura soverchiamente del futuro, riuscendole anche molesta la mortificazione e l' umiliazione dell' ubbidienza, e allettata dal senso che le mostrava il frutto oltremodo bello ed appetibile, e dalla curiosità di farne la prova, falsamente conchiuse esser cosa migliore il divenire pari a Dio per grandezza naturale, cioè fisica, e intellettuale, come le prometteva di presente l' angelo, secondando alla propria inclinazione naturale, che non sia, opponendosi a questa, acquistare la perfezione morale coll' ubbidienza al divino comandamento intimatole in passato, la quale la obbligava ad una costante sudditanza a Dio medesimo. Vinta da questo falso consiglio, credette al seduttore, e negò fede all' eterna verità, e così cadde ella prima e poscia il marito nella colpa, e col frutto mangiato si unì colla grandezza diabolica da cui s' era data a sperare sì gran fortuna. Così da una parte l' uomo naturale si rese inutile al fine della creazione, onde Iddio non aveva più cagione di difenderlo dalla morte; e dall' altra era entrato il demonio a guastare e disordinare l' umana natura, che rimase in tal guisa, e per giustizia divina, e per fragilità umana, e per istrazio diabolico, soggetta alla morte. L' uomo naturale adunque fu reso inutile: condannato alla morte, posseduto dal diavolo, che altro non fa che vie più disordinarlo e guastarlo, e condurlo più prontamente alla morte e al peccato che è lo stimolo (1). Se così fossero restate le cose l' umanità sarebbe rimasta distrutta, e il demonio avrebbe vinta la sfida col Creatore. Ma il Creatore non poteva perdere, e questa momentanea vittoria del demonio era l' occazione, la via, il mezzo col quale il Creatore medesimo voleva dar compimento al suo misericordioso disegno. Egli spiegò dunque il mistero della sua eterna volontà cogli avvenimenti. Preservò dal peccato originale una donzella eletta da tutta la stirpe d' Adamo, nella quale nulla potesse il demonio: alla quale preservazione dall' infezione originale bastava che rimanesse incorrotto un menomo seme nell' uomo, trascurato forse dal demonio stesso, dal quale seme incorrotto passato di generazione in generazione uscisse a suo tempo la Vergine che doveva schiacciare il capo al serpente (2). In questa Vergine s' incarnò per opera di Spirito Santo il Verbo, e così l' uomo che ne nacque fu non solo uomo ma Dio ad un tempo. Quest' uomo aveva la natura umana perfetta, incontaminata, del tutto innocente: a lui non era dovuta la morte. Gli altri uomini morendo pagavano la pena del peccato; per essa erano disfatti da uomini perdendo la vita soggettiva; nè dalla morte v' aveva possibile ritorno. L' Uomo7Dio nacque passibile e mortale, come gli altri figliuoli di Adamo, quantunque, essendo Dio, se avesse voluto avrebbesi potuto rendere immortale e impassibile, e sottrarsi in qualsivoglia guisa alla morte ed alle sofferenze. Ora il far questo era un atto di gran virtù, perchè era un rinunziare generosamente al proprio; era un atto di virtù, perchè in tale stato d' Uomo7Dio aveva occasione di esercitare con maggior ampiezza tutte le virtù verso Dio e verso gli uomini; era un atto di umiltà e di soggezione a Dio, onde solo egli aspettava ogni esaltamento ed ogni gloria; ed era un atto d' amore verso gli uomini, di cui voleva partecipare la somiglianza e tutti i mali, eccetto il peccato, e così poter con esso loro più comodamente trattare, e istruirli sull' abisso in cui erano caduti e sulla necessità di convertirsi a Dio colla parola e coll' esempio. Ora, se questo era moralmente eccellente, era mestieri che l' Uomo7Dio, che doveva in sè accogliere tutta la grandezza morale che è la vera e compiuta grandezza, ciò che non aveva inteso l' uomo primitivo, pigliasse questa via sublime: e così fece. Ma il Padre, oltracciò, abbandonò quest' agnello innocente alla rabbia de' lupi. Gli uomini rei e schiavi del demonio non poterono sostenere la vista del giusto nel mezzo di essi. Essi dunque dissero e fecero quello che si trovava già scritto molti secoli prima nelle Scritture, le quali dovevano compirsi (1), e Iddio ve l' aveva fatto scrivere acciocchè apparisse che era il suo eterno decreto. Dissero: [...OMISSIS...] . Tutto ciò alla lettera gli uomini compirono col solo Giusto, il S. N. Gesù Cristo: « fecerunt quae manus tua et consilium tuum decreverunt fieri (3) ». Gesù Cristo espresse alla stessa guisa del libro della Sapienza il fatto dell' odio gratuito, con cui il perseguitarono gli uomini: odio tutto proprio di Cristo solo, perchè solo aveva la pienezza della giustizia, della santità e della divinità. Ai suoi parenti, che lo esortavano a recarsi nella Giudea per farsi conoscere, rispose: « Non potest mundus odisse vos: me autem odit: quia ego testimonium perhibeo de illo, quod opera ejus mala sunt (4) ». E altrove [...OMISSIS...] . Conviene anche osservarsi, che mentre Cristo diceva a' suoi parenti, quando ancora non credevano in lui: [...OMISSIS...] dice all' incontro ai suoi discepoli che già credevano e quindi erano incorporati con lui: [...OMISSIS...] . E più altre volte predice ai suoi seguaci che saranno trattati come lui, perchè « non est discipulus supra magistrum (6) », che anzi l' Apostolo pronuncia in generale che «omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur (7) ». Questa è la lotta fra l' uomo vecchio e il nuovo: quella lotta medesima che si manifesta nell' uomo rigenerato fra lui e quel rimasuglio d' uomo vecchio che ci rimane, fra lo spirito e la carne. Solamente che l' uomo nuovo, che vive della vita di Cristo ed opera secondo gli istinti di questa vita, non ha più in se stesso per avversario un altro uomo, ma solamente delle forze nemiche quali sono la concupiscenza e il demonio che più o meno vi si può maneggiare. All' incontro nella lotta fra Cristo e il mondo, cioè gli uomini malvagi, e lo stesso si dica della lotta fra i cristiani che sono in Cristo e i malvagi che li perseguitano, il combattimento non è della persona umana e delle forze nemiche, che appartengono alla natura dell' uomo ma non sono costituite in persona, ma bensì fra persone e persone, fra uomo ed uomo. La causa nulladimeno e la natura del combattimento è la medesima: salvo che nel primo caso tale combattimento è un fenomeno che si manifesta entro un individuo; nel secondo è un fenomeno che si manifesta in più individui, gli uni persecutori o insidiatori, gli altri perseguitati o insidiati. Esigendo dunque la perfezione della virtù, nel che consiste la grandezza morale, che l' uomo sia inteso unicamente a fare la volontà di Dio, e che dimentichi se stesso, cioè gli interessi proprii soggettivi, per non vivere che a seconda dell' oggetto; e quindi esigendo di aspettare ogni protezione, difesa, laude e gloria da Dio medesimo, che provvede magnificamente a' suoi servitori; esigendo finalmente che tutto ciò che appartiene al bene eudemonologico si brami e si aspetti come un effetto che fiorisce dal bene morale, di cui, secondo l' ordine ontologico, deve essere una cotale appendice e finimento, e non da se stesso senza la sua connessione naturale del bene morale: era mestieri che Cristo, destinato ad essere tipo e il realizzamento d' ogni perfezione, non provvedesse al proprio esaltamento, non usasse della divinità che possedeva a rendersi impassibile e glorioso, o a sottrarsi in altro modo dalle condizioni penali degli altri uomini, e quindi nè pure a togliersi dalla persecuzione che gli sarebbe fatta a cagione della sua giustizia odiata dal mondo maligno, che non riconosceva altra grandezza umana se non la fisica e l' intellettuale, ma che anzi sopportasse per la giustizia l' estremo dei patimenti e la morte. Il Padre celeste, per la ragione appunto che amava il Verbo incarnato d' un amore eterno ed infinito, doveva volere questa grandezza e perfezione morale di Cristo, in cui l' umanità doveva essere recata all' estrema altezza della eccellenza, la quale nel bene morale primieramente consiste. Questa dunque fu l' opera commessa dal Padre al Figliuolo mandato da lui nel mondo; questa volontà del Padre fu l' unica e costante regola della condotta di Cristo: [...OMISSIS...] . L' opera del Padre era l' uomo: quest' opera doveva essere condotta alla perfezione dal Figliuolo vestito dell' umana natura. « Non quaero voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (1) »: cioè, io non cerco la mia volontà umana, soggettiva, non vo dietro all' istinto limitato dell' umanità; ma cerco la volontà perfettissima ed infinita di Dio Padre da cui procedo, e da cui sono mandato al mondo. Or questa volontà del Padre era ella una volontà positiva ed arbitraria? Voleva così il Padre perchè così era bene, ovvero era bene perchè così voleva il Padre? E se il Padre voleva così perchè era bene, qual è la ragione onde Cristo disse sempre esser venuto a far la volontà del Padre, in luogo di dire esser venuto a fare ciò che in se stesso era il bene perfetto, giacchè in tal caso l' esser bene ciò che faceva sarebbe stato una ragione del suo operare anteriore a quella della volontà del Padre, giacchè l' esser bene sarebbe stato la ragione dello stesso volere del Padre? Se poi la volontà del Padre era unicamente positiva ed arbitraria, non sarebbe ella stata una volontà senza ragione? e una volontà crudele, come quella che sommetteva il Figliuolo a tanto patimento senza una necessità? Per rispondere a questa difficoltà conviene prima di tutto riflettere, che non vi ha nulla di anteriore alla divinissima Trinità: non vi ha Dio, perchè Iddio è la Trinità; non vi ha l' essere, perchè l' essere è Dio; non vi ha l' ordine dell' essere, perchè appunto non vi ha l' essere, e l' ordine intrinseco e fondamentale dell' essere consiste nelle relazioni personali che costituiscono l' augustissima Triade; non vi ha dunque nè pure la forma morale dell' essere, perchè non vi ha l' ordine dell' essere di cui la forma morale è parte completiva. Ora questa forma morale è prima di tutto, nella sua assoluta ed originale perfezione, come persona, la persona dello Spirito Santo. Ora la persona dello Spirito Santo, che è l' essere oggettivo amato per se stesso, procede dal Padre per mezzo del Figliuolo per modum voluntatis, come dicono i Teologi, giacchè amare e volere suonano lo stesso, onde l' essere oggetto persona, amato ossia voluto per se stesso dalla sussistenza, cioè dal Padre, è lo Spirito Santo dove risiede l' assoluto bene morale, l' assoluta e personale santità. Vi ha dunque una volontà personale del Padre che è la spirazione che mette in atto lo Spirito Santo, nel quale la moralità essenziale come in proprio fonte si raccoglie. Non è anteriore adunque a questa volontà alcun bene morale, ma il bene morale originariamente da essa procede e si costituisce, ed è ad essa contemporaneo, ma secondo l' ordine logico posteriore. Convien dunque dire che la volontà del Padre, di cui parliamo, sia la ragione prima anteriore ad ogni moralità; ma, lungi da essere irragionevole ed arbitraria, è anzi quella che costituisce ogni ragione morale, ed è necessaria, come è necessaria nell' essere divino la spirazione del Santo Spirito che compisce e perfeziona la divinità sussistente in tre forme persone. A questa volontà per tanto si riferiva Gesù Cristo quando diceva di cercare non la volontà propria, ma la volontà di colui che lo ha mandato, di colui da cui egli stesso generato ab eterno aveva ricevuto di spirare, con una sola spirazione, lo Spirito Santo; di volere l' essere per sè voluto, per sè amato. Quest' essere adunque, in quanto è infinitamente amato, è l' oggetto della volontà del Padre e del Figliuolo, e la norma dell' operare di Cristo, il quale perciò doveva dare le massime ed esterne prove dell' amore verso l' essere stesso, sia in Dio dov' è assolutamente e per essenza, sia negli uomini dov' è contingente, relativo e partecipato. E quindi tale volontà del Padre, avendo una necessità morale, è chiamata da Cristo anche precetto, o mandato, e s' estende a tutte le azioni e passioni di quello che doveva esser tipo agli uomini di ogni perfezione: [...OMISSIS...] . E dice che questo mandato del Padre è la vita eterna, a cui riscontro sta la vita temporale; perocchè quel mandato essendo essenzialmente morale, contenente cioè la spirazione dello Spirito Santo che è il bene morale sussistente personalmente, esso dee contenere necessariamente la vita morale, la quale di natura sua è eterna. Con che in pari tempo dimostra, quanto il mandato del Padre valga più della vita temporale, la quale è passeggiera e momentanea, per modo che nulla si debba riputare il getto di questa pel guadagno di quella. Per adempire dunque questo mandato, e mostrare il suo amore al Padre (e nell' amore, come dicevamo, sta la forma morale dell' essere), Cristo non prezzò punto la temporale sua vita, e si soppose a quella passione che doveva essere l' estremo della morale eccellenza: [...OMISSIS...] . Il che è quanto dire che non moriva per necessità di giustizia, giacchè il demonio, che in lui non possedeva cosa alcuna, non aveva alcun diritto di conquista sopra di lui, e però non poteva dargli morte come agli altri uomini. Ma che egli nulladimeno moriva non costretto, ma per ispontaneo amore al Padre: il quale amore tuttavia era una necessità morale, e però un mandato del Padre, che, volendo in lui l' eccellenza morale, voleva l' amore e la prova suprema dell' amore, lo spontaneo sacrificio della vita. Onde la morte di Cristo fu al tutto spontanea ed effetto d' amore: ma, perchè questa spontaneità d' amore era la suprema eccellenza della virtù del Padre voluta nel suo Figliuolo umanato, perciò era ad un tempo stesso un mandato o precetto del Padre suo. Le quali due qualità, in apparenza opposte ma veramente armoniche, della morte di Cristo, cioè l' essere essa effetto di spontaneo amore e nello stesso tempo mandato del Padre che voleva questo amore nel Figliuolo, sono congiunte da Cristo anche in queste altre sue parole: « Propterea me diligit Pater, quia ego pono animam meam ut iterum sumam eam. Nemo tollit eam a me: sed ego pono eam a meipso; et potestatem habeo ponendi eam, et potestatem habeo iterum sumendi eam. Hoc mandatum accepi a Patre meo (1) ». E che il sacrificio dipendesse dalla sua libera volontà era stato già predetto anche da Isaia che aveva scritto di lui: [...OMISSIS...] . Ora, nelle citate parole di Cristo trovasi la conferma di quanto abbiamo detto: « Per questo, dice, mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia per riprenderla ». Ora l' amore, che il Padre ha al suo Verbo come essenzialmente amabile ed amato, è la spirazione dello Spirito Santo; il Verbo, in quanto è oggetto amato, e non in quanto è Verbo cioè oggetto sussistente per sè cognito, è la persona dello Spirito Santo, la quale amabilità amata è l' essenza morale. Convien adunque che anche il Verbo incarnato, l' Uomo7Dio, fosse amato dal Padre, in quanto attuava la massima virtù morale, il massimo amore, di cui il sacrificio della vita temporale è il massimo atto, la massima prova: di maniera che il mandato dato a Cristo dal Padre è un atto di massimo amore del Padre verso il Figlio, è l' amore stesso del Padre e del Figliuolo formante la norma che doveva seguire l' umanità assunta dal Figliuolo. Ed ancora è da osservarsi, che non è solo volontà e mandato del Padre che il Figliuolo deponga spontaneamente la sua vita temporale acciocchè così eserciti la perfezione della virtù morale, ma è volontà del Padre altresì che poi la riprenda, e non più temporale, ma impassibile, gloriosa, resa vita eterna; e quindi il Figliuolo, a capello in accordo col Padre, non la dimette per dimetterla, ma per riassumerla dimessa; e in questo ancora è amato dal Padre, e in questo ancora ama il Padre: « Per questo mi ama il Padre, perchè io depongo l' anima mia per assumerla di nuovo. Nessuno me la toglie; ma io la pongo da me stesso, ed ho la potestà di riassumerla. Questo comandamento ho io ricevuto dal Padre ». Onde il comandamento del Padre si estende, non meno che alla morte, altresì alla risurrezione del Figliuolo: il male ed il bene per amore egualmente; e l' amore del Padre che vuole, è l' amore del Figliuolo che eseguisce; tutto il comandamento non è che amore: il bene eudemonologico qui tiene la naturale sua relazione col bene morale; non precede quello, è una sequela, un' appendice, un compimento di questo. Fra le ragioni, per le quali il Padre permise che il suo Figliuolo incarnato incontrasse la morte, si può annoverare anche quella, acciocchè apparisse manifesto dove tendesse l' uomo guasto dal peccato adamitico e in possesso del Demonio; a che conduceva lo sviluppo di un tal germe funesto; qual frutto era proprio di un tal albero. La profonda nequizia di un tal germe, la malizia diabolica che in esso operava, non sarebbe apparita intieramente agli occhi degli uomini; sarebbe stata nascosta, e quindi giudicata troppo più benignamente del merito, se non fosse pervenuta a commettere, in cospetto di tutte le nazioni, il deicidio. Laonde Simeone aveva predetto a Maria: « Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionem multorum in Isra‰l, et in signum cui contradicetur, et tuam ipsius animam pertransibit gladius, ut revelentur ex multis cordibus cogitationes (1) ». E forse, quando la turba rispondeva a Gesù Cristo che aveva detto perchè mi volete uccidere?, che nessuno lo voleva uccidere, ella non sapeva ancora il reo disegno de' principali della Sinagoga, e tuttavia Gesù Cristo rimprovera alla turba stessa che volesse ammazzarlo (2), per indicare che, quantunque la turba a cui favellava non avesse forse attuata una tale intenzione, tuttavia la portava virtualmente in se stessa nel peccato di cui era infetta. Non avendo adunque Cristo difeso se stesso, e il Padre suo avendolo abbandonato nelle mani degli uomini peccatori (3), egli fu crocifisso in odio della verità e della giustizia che predicava e che mostrava luminosissima e perfetta in se medesimo: il che rese Cristo il primo dei martiri e de' penitenti. Or, prima di avanzarci nel nostro ragionamento, consideriamo chi era Gesù Cristo. Egli era prima di tutto Dio, era il Verbo che costituiva la sua personalità; ma era ad un tempo uomo. E qual uomo era? In quanto era uomo senza peccato, egli era l' uomo innocente, il nuovo Adamo. Ma in quanto egli aveva voluto ricever la carne proveniente da Adamo, la carne passibile e mortale soggetta a tutte le infermità e dolori provenienti dal peccato, di cui egli non partecipava, egli era il Figliuolo dell' uomo . Con questa umile denominazione amò Gesù Cristo di chiamarsi (1); Figliuolo dell' uomo significava qualche cosa di più basso ed umile di uomo . Perocchè la denominazione uomo non involgeva il concetto di uomo decaduto dal primitivo suo stato, di uomo destinato alla morte; ma l' altra di Figliuolo dell' uomo indicava lo stato di decadimento, indicava il figliuolo del peccatore, indicava colui che soggiaceva alla pena del peccato. In questa condizione di uomo passibile e mortale, onde alcuni Padri si esprimono dicendo che aveva assunta la carne del peccato, egli poteva esercitare la massima virtù, rendersi l' esempio perfettissimo degli uomini, e morire calunniato e perseguitato per la giustizia, il che è appunto il maggiore esercizio e segno della morale perfezione. E tuttociò egli, ed il Padre suo, permise appunto che avvenisse. Ora, qual fu l' eterno disegno, l' ineffabile mistero che si racchiudeva in questa permissione? Ecco quanto conseguì dal fatto della morte di Cristo. La morte di tutti gli altri uomini era pura giustizia: pagato questo debito non avanzava loro nulla che potesse restituirli in vita, erano morti per sempre. Ma la morte di Cristo non era atto di giustizia, perchè non era giusto che l' innocente, il Santo, l' Uomo Dio patisse e morisse. Quest' uomo, e ad un tempo Dio, s' era abbandonato sino alla fine nelle mani del Padre suo; e per quella illimitata confidenza non aveva sottratto se stesso, come poteva, dai dolori; non aveva voluto dar nulla a se stesso, avea voluto tutto aspettare, tutto ricever dal Padre, perocchè questo era conforme alla norma della virtù, secondo la quale « « è migliore il dare che il ricevere »(2) ». Cristo non aveva mai pensato che a dare a Dio e agli uomini, in che consiste la generosità, una generosità illimitata ed eroica. Ma il Padre per un istante lo abbandonò, non lo protesse contro i suoi persecutori, lo lasciò spirare in sulla croce. E se mandò l' angelo a refocillarlo nell' orto, fu unicamente acciocchè non morisse nella tristezza e nell' agonia in cui era caduto, dando un ristoro fisico alla sua umanità languente acciocchè fosse riserbata al sacrificio della croce. Onde Cristo morì da parte sua due volte: sofferendo prima il supplizio del senso interno, cioè dell' imaginazione nel Getsemani; e poscia soffrendo il supplizio del senso esterno sul Calvario. Sicchè l' umanità in Cristo sofferì tutto ciò che poteva sofferire sino alla morte dell' una e dell' altra parte di cui risulta la facoltà sensitiva dell' uomo, cioè da parte della fantasia e da quella dell' esterno sensorio. Tutto questo senza che lo meritasse, perchè del tutto innocente, meritando anzi il contrario perchè pieno d' ogni santità. Ma il Padre è l' essenziale giustizia, e come giusto l' aveva invocato il Figliuolo quando aveva detto: « « Padre giusto, il mondo non ti conobbe, ma io ti ho conosciuto: e questi conobbero che tu mi hai mandato. E feci lor noto il tuo nome, e noto lo farò, acciocchè la dilezione colla quale tu hai amato me sia in essi, ed io sia in essi »(1). » Era dunque necessario che il Padre, come giusto, compensasse il Figliuolo di quanto aveva così ingiustamente tollerato e patito quasi fosse stato il massimo peccatore. I meriti del Figliuolo avevano d' altra parte un valore infinito, perchè unito ipostaticamente colla divinità in modo che si poteva dir veramente, per la comunicazione degli idiomi, che Dio stesso aveva patito ed era morto. Conveniva dunque, ad aggiustare queste partite della divina giustizia sbilanciate, 1 che l' umanità di Cristo, restituita alla vita non più mortale, fosse assunta agli onori divini, collocata nel più alto seggio alla destra del Padre; 2 che tutti i desiderii dell' umanità fossero appieno appagati, e posciachè fra questi ci aveva quella di dominare i suoi nemici, di esser fatta signora del mondo, anche questo doveva essere appagato. Queste due cose erano state predette e promesse al Figliuolo nelle antiche Scritture, e particolarmente nel Salmo che narra queste promesse così: « « Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra fino a tanto che io ponga i tuoi nemici sgabello a' tuoi piedi. Il Signore emetterà da Sionne la verga della tua virtù: signoreggia nel mezzo de' tuoi nemici. Teco è il principio nel dì della tua virtù fra gli splendori della santità: ho generato te dall' utero prima del lucifero. Giurò il Signore e non si pentirà: Tu sei Sacerdote in eterno secondo l' ordine di Melchisedecco. Il Signore è alla tua destra: Egli stritolerà i regi nel giorno dell' ira sua: farà giudizio tra le nazioni: empierà di rovine ogni cosa: farà battere in sul terreno il capo di molti. Egli s' abbevererà al torrente della strada: perciò alzerà il capo »(2). » In questo magnifico e sublimissimo Salmo il Padre dice al Figliuolo che ha consumato il suo sacrificio, e che s' è abbeverato al torrente della tribolazione e della povertà: « Sorgi e siedi alla mia destra ». Ecco la prima parte della mercede dovuta al Figliuolo: l' assunzione all' immortalità ed alla gloria divina della sua divina umanità. E di questa parte Cristo aveva detto: « Ego te clarificavi super terram: opus consummavi quod dedisti mihi ut faciam: et nunc clarifica me tu Pater apud temetipsum claritate quam habui priusquam mundus esset apud te (1). » Le quali parole rammentano quelle di S. Giovanni: « In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum; » e vengono a dire: Io prima d' esser manifestato agli uomini, anzi prima che fossero gli uomini e il mondo, cioè ab eterno, ero Dio: io fui generato prima dell' astro della luce fra gli splendori della santità, come dice il citato Salmo, della tua stessa sostanza, ex utero . Ora tu dunque decora anche la mia umanità di questa stessa gloria divina ed infinita, che come Dio non ho mai perduta, siccome tu già prima della costituzione del mondo hai predestinato nel tuo altissimo e sapientissimo consiglio facendomi sedere glorioso appresso di te, cioè alla tua destra. Dove scorgesi che l' espressione adoperata da S. Giovanni al cominciamento del suo Vangelo, apud Deum, conviene, benchè in diverso significato, non meno alla divinità che all' umanità di Gesù Cristo, in quanto questa è indivisa dalla divina persona. Questa comincia nel tempo a fruire di tal gloria per una cotale partecipazione, quando il Verbo la fruì ab eterno ed essenzialmente. L' altra parte del compenso e della mercede dovuta a Cristo si è l' accontentamento di ogni naturale desiderio della sua umanità rispetto agli uomini co' quali ha comune la natura umana. Il desiderio naturale dell' uomo è quello di essere il signore e dominatore del mondo, e di aver tanta potenza da poter sottomettere pienamente a sè i suoi nemici. Il qual desiderio è malvagio qualora non sia sottomesso alla giustizia e si voglia soddisfare indebitamente e senza un legittimo titolo, come avviene; ma in se stesso è fondato nella natura, e però non punto nè poco riprovevole: quand' anzi è tale che innalza e nobilita l' umana natura. Quindi nel citato Salmo Iddio dà a Cristo in piena balìa il mondo: gli promette di porre i suoi nemici a sgabello de' suoi piedi, lo esorta a signoreggiare nel mezzo di essi: la verga, cioè la potenza di Dio, uscirà da Sionne che rappresenta la giustizia, il bene morale, facendo che dalla virtù morale proceda la forza; e dice che nel giorno del suo trionfo sarà seco il principio, cioè Dio Padre, che è essenzialmente il principato, non solo il principe. Ma in qual maniera l' Uomo7Dio si prevale di tanta potenza accordatagli, di quella potestà di cui Cristo stesso aveva detto « dedisti ei potestatem omnis carnis (1), » e ancora dopo la resurrezione: « data est mihi omnis potestas in coelo et in terra (2)? » Amando Cristo come uomo la natura umana che egli possedeva, doveva amarla anche in tutti i suoi simili. Quindi, secondando il suo naturale affetto, doveva, colla risurrezione di tutti gli uomini, restituire tutta la natura umana distrutta colla morte. In tal modo egli vinceva il demonio, disciogliendo il maligno disegno di perdere questa fragile e mortale natura, che pure Iddio come opera sua voleva conservata. Aboliva anche il peccato originale, in quanto esso consiste e procede dalla corruzione della carne, dando ai risorti, quanto a sè, qualora non abbiano peccati attuali, un corpo perfetto. Onde l' Apostolo: « Nunc autem Christus resurrexit a mortuis primitiae dormientium: quoniam quidem per hominem mors et per hominem resurrectio mortuorum. Et sicut in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur (3). » E altrove dice che « purgationem peccatorum faciens, sedet ad dexteram majestatis in excelsis (4), » attribuendo alla gloria di Cristo che siede in cielo, e di là può render partecipi gli uomini della sua gloria, la purgazione dei peccati. Ma non bastava a Cristo il restituire al genere umano, già divenuto preda della morte, la vita sua propria: l' affetto, di cui ardeva verso Dio e verso i suoi simili, troppo più richiedeva. E` proprio della natura umana l' amicizia; niuna cosa più desidera l' uomo non corrotto quanto l' unione col suo simile: ciascun uomo sente di non essere tutta la natura umana, e che una parte di questa è in altri individui: a lui sembra dunque di completare in se medesimo la umana natura, qualora può congiungersi il più strettamente che egli possa con altri individui della natura stessa, e divenir quasi una sola cosa con essi. Ma i vincoli, coi quali gl' individui umani possono stringersi ed adunarsi insieme, sono limitati dalle condizioni della stessa natura. Uno, e forse il più intimo di questi vincoli, è il coniugale che dell' uomo e della donna fa una sola carne, in cui vivono due anime concordi. Questa imagine viene adoperata nelle Scritture per indicare la stabile, perpetua e reale unione di Cristo co' suoi santi in Cielo. Cristo, quale Sposo, celebra colà eterne nozze colla Sposa sua la Chiesa in istato di termine, che è la società dei predestinati già comprensori. Giovanni nell' Apocalisse descrive la visione avuta di questa Sposa dell' Agnello nell' atto ch' ella scendeva da Dio di Cielo in terra: [...OMISSIS...] Nel Cantico de' Cantici si cantano i casti amori, divini preludii in terra dello stabile indissolubile matrimonio la cui consumazione è la stessa beata eternità: quivi non cade infedeltà di sorta o raffreddamento d' affetto. Or, come il coniugio è tolto a simbolo delle nozze di Cristo e della Chiesa, così viceversa quest' unione mistica, essendo perfettissima e santissima, diviene l' esemplare del coniugio dell' uomo e della donna cristiana, partecipando Cristo ai suoi seguaci che si uniscono in matrimonio di quella grazia e santità spirituale che annoda lui ineffabilmente colla Chiesa beata. Laonde S. Paolo dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo in compenso, e mercè de' suoi meriti e ineffabili patimenti senza alcuna sua colpa sostenuti, potè dal genere umano cavarsi la Chiesa, cioè unire e incorporare a sè quel numero di uomini che a lui piace, e fra questi eleggere quelli che partecipino della sua gloria. « Ascendisti in altum, » avea detto il Salmista, « cepisti captivitatem; accepisti dona in hominibus (2). » Il qual luogo, commentato da S. Paolo, dice: « Unicuique autem nostrum data est gratia secundum mensuram donationis Christi. Propter quod dicit: Ascendens in altum captivam duxit captivitatem: dedit dona hominibus. Quod autem ascendit, quid est nisi quia et descendit primum in inferiores partes terrae? Qui descendit, ipse est et qui ascendit super omnes coelos ut impleret omnia (4). » Così Cristo in conseguenza della gloria ottenuta co' suoi patimenti e della signoria del genere umano, atteso l' amor suo verso di Dio suo Padre e verso gli uomini consorti della natura da lui assunta, divenne loro redentore dalla morte e dal peccato originale, loro maestro e salvatore da tutte le colpe attuali, e loro glorificatore. Quindi ebbe la dignità di mediatore e di sacerdote, non solo quella di Re, come soggiunge il Salmo sopra citato: « Juravit Dominus et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (1). » La dottrina del sacerdozio di Cristo è profondamente esposta nella lettera di S. Paolo agli Ebrei. In essa dimostra l' Apostolo come questa dignità di Pontefice se l' acquistò Cristo e meritò col suo essere passibile e mortale, e la esercitò co' suoi patimenti coi quali fece il sacrificio di se stesso. [...OMISSIS...] Il che viene a dire che avendo Cristo patito ed essendo stato tentato, quando la giustizia divina non avea cosa da punire in esso, conveniva che la giustizia stessa, che non concede che l' innocente soffra alcuna pena, dèsse a Cristo un ristoro e compenso del patimento sofferto e non meritato; e questo fu il lasciargli podestà non solo di risorgere egli stesso impassibile ed immortale, ma di poter anco venire in ajuto de' suoi fratelli nei loro patimenti e nelle loro tentazioni. Dice ancora « Non enim habemus pontificem, qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato (3). » Dove è da considerare, esser così fatta l' umana natura, che dall' esperienza del patimento ella ritenga una positiva cognizione di esso, la quale, per la legge della simpatia che è fra individui aventi una stessa natura, rende lei compassionevole e pietosa: e la natura umana in Cristo volle subire le leggi, fra le quali anche questa, alle quali essa natura soggiace. E quantunque ogni cosa meritassero i suoi patimenti, a compensazione de' quali ogni suo desiderio doveva venire soddisfatto dal Padre; tuttavia, perchè doveva esercitare in ogni cosa la massima generosità ed essere a noi compiuto modello, volle avere la gloria e la vita dovutagli piuttosto come impetrata con umili preghiere, che per giustizia meritata: o certo nell' uno e nell' altro modo. Di che di nuovo S. Paolo: « Et quidem cum esset Filius Dei didicit ex iis quae passus est obedientiam: et consummatus factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae, appellatus a Deo pontifex juxta ordinem Melchisedech (4). » Il sacrificio adunque di Cristo ebbe virtù di rimettere i peccati degli uomini, perocchè, come dice S. Paolo: « Eum, qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit » (soffrì d' esser trattato come un peccatore), « ut nos efficeremur justitia Dei in ipso (1); » ed essendo egli risorto dopo aver patito, ed entrato in cielo, ivi egli esercita un perpetuo sacerdozio, e può riconciliare e far partecipi della stessa gloria quanti uomini a lui piace. Perocchè, come dice di nuovo S. Paolo, egli è fatto sacerdote « « non secundum legem mandati carnalis, sed secundum virtutem vitae insolubilis »(2), » e soggiunge: « « Et alii quidem plures facti sunt sacerdotes, idcirco quod morte prohiberentur permanere: hic autem, eo quod maneat in aeternum, sempiternum habet sacerdotium. Unde et salvare in perpetuum potest accedentes per semetipsum ad Deum, semper vivens ad interpellandum pro nobis »(3) » Laonde il solo sacrificio della morte di Cristo, dalla quale risorse glorioso, fu accettevole ed efficace per sempre a rimettere i peccati e salvare gli uomini. [...OMISSIS...] Imperocchè è da considerarsi che i sacerdoti della nuova legge, sebbene molti, tutti partecipano dell' unico sacerdozio di Cristo, e non offrono se non la medesima oblazione, cioè il corpo ed il sangue di Cristo. Nel che ancora apparisce l' unità che tutti formano con Cristo, perocchè è sempre Cristo quello che in essi opera quando sacrificano, per modo che un solo Cristo in tutti essi è il vero sacrificatore e la vera vittima sacrificata. Il perchè niuno può essere sacerdote della nuova legge se non è battezzato, attesochè solo pel battesimo s' incorpora l' uomo con Cristo, e Cristo è nell' uomo. La morte dunque di tutto il genere umano satisfaceva alla divina giustizia, ma non salvava l' uomo, anzi lo distruggeva; e l' anima separata dal corpo rimaneva sempre sotto la medesima giusta dannazione. Ma la morte di Cristo, sostenuta da lui senza averla meritata, non era una soddisfazione che dovesse dar Cristo per i proprii peccati; ma era un credito ch' egli acquistava verso la divina giustizia, un credito infinito, col quale, dopo pagato il debito dell' uman genere, rimaneva ancora tanto avere, da poter regalarne gli uomini d' ineffabili doni e di prezzo infinito. La morte di Cristo adunque salvò il mondo perchè meritò la risurrezione di Cristo, glorioso Signore onnipotente, Re ad un tempo e Pontefice, secondo il giuramento interposto dall' eterno suo Padre. Quindi è che le sacre carte attribuiscono sempre la salvezza del mondo alla risurrezione di nostro Signor Gesù Cristo, che, come aveva detto il Salmo, ascendendo nell' alto menò captiva la captività, cioè tolse al demonio il dominio sopra gli uomini e li fece captivi a se stesso, ed ottenne copia di doni da distribuire agli uomini stessi da lui liberati per giusta conquista. Laonde Cristo stesso avea detto agli Apostoli che tornava loro conto ch' egli se ne andasse di questo mondo al Padre « Quia vado parare vobis locum. Et si abiero et praeparavero vobis locum, iterum venio et accipiam vos ad me ipsum, ut ubi sum ego et vos sitis (1). » Conveniva che Cristo fosse glorificato, acciocchè egli potesse far partecipi della sua gloria i suoi discepoli. Il ritorno di cui parla Cristo, nel quale viene a prendergli, a riceverli a sè, a collocarli là appunto dov' egli è (non dice dove sarà, perchè Cristo fu sempre appresso Dio, non solo come Verbo, ma ben anco, in un altro senso, come uomo godendo della visione beatifica, benchè questa non espandesse i suoi effetti gloriosi fuori della mente del Salvatore), questo ritorno è appunto la comunicazione della gloria da lui ottenuta, e si riferisce principalmente alla seconda venuta del Salvatore, quand' egli risusciterà i giusti, che in lui credono, e li ammanterà della sua propria gloria. Perocchè, dicendo iterum venio et accipiam vos, parla all' uomo intero e non alla sola anima. Tuttavia un altro ritorno di Cristo è anche quello che avviene alla morte del giusto che in lui crede, quando accoglie a sè l' anima sua, e le dà della sua vita ammettendola alla visione di Dio. Un terzo ritorno di Cristo è l' effusione dello Spirito Santo, il quale segna Cristo nelle anime in cui viene, e dà loro la caparra dell' immortalità e della risurrezione; e di questo ritorno parla Cristo poco appresso dicendo [...OMISSIS...] Dice che pregherà il Padre, mostrando che come uomo egli impetra per gli altri uomini il dono dello Spirito Santo, di cui siamo per conseguente obbligati all' umanità di Gesù Cristo, che dopo aver meritato di essere esaudito in ogni suo desiderio, pregò mosso dalla sua carità per noi, e il priego che manifestava il suo desiderio non poteva andare inesaudito. Dice che non li lascierà orfani, cioè senza Padre, perchè egli, che è il Figliuolo entrato già in essi e ad essi congiunto come il capo alle membra, sarà illustrato dalla luce del suo Spirito, e avranno coscienza di possederlo, e così di essere veramente figliuoli di Dio partecipando della Figliuolanza del Verbo incarnato a cui sono indivisamente uniti. Di che S. Paolo attribuisce al Santo Spirito la consapevolezza che noi abbiamo d' esser divenuti figliuoli di Dio: [...OMISSIS...] dice, [...OMISSIS...] Dice finalmente che i suoi discepoli al lume dello Spirito Santo lo vedranno anche quand' egli sarà partito dal mondo, quia ego vivo et vos vivetis, cioè perchè essi partecipano della stessa vita di Cristo; e il veder Cristo è un atto di questa vita. Dice del pari che conosceranno il Santo Spirito, perchè apud vos manebit et in vobis erit: giacchè lo Spirito Santo non si può conoscere se non per lo Spirito Santo, onde il mondo non lo vede e non lo conosce, perchè nol può ricevere, atteso l' ostacolo del peccato. Ripete ancora che torna conto a' suoi discepoli che egli se ne vada, perchè, venendo egli glorificato, manderà lo Spirito Santo caparra della loro gloria futura: [...OMISSIS...] Per le quali cose S. Paolo attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra giustificazione; giacchè, se questa fu meritata dalla Passione di Cristo, fu però attuata e compiuta mediante la risurrezione; per la quale Cristo acquistò la signoria sopra di noi, e potè fare di noi secondo l' amoroso suo cuore: « qui traditus est » (così l' Apostolo) « propter delicta nostra, et resurrexit propter justificationem nostram (4); » giacchè, se non fosse risorto Cristo, egli non poteva comunicarci di quella sua vita gloriosa, e quindi noi non saremmo risorti, ma rimasti sotto la condannazione del peccato. Medesimamente S. Pietro attribuisce alla risurrezione di Cristo la nostra rigenerazione: [...OMISSIS...] E deduce dalla risurrezione medesima di Gesù Cristo, la virtù che ha il battesimo di porre in noi il germe della vita che aspettiamo gloriosa: [...OMISSIS...] La qual dottrina consuona mirabilmente con quella di S. Paolo, che a' Colossesi scriveva: [...OMISSIS...] Imperocchè non bastava che si distruggesse il vecchio uomo adamitico, se non si faceva vivere l' uomo nuovo: il che Cristo fece comunicando all' uomo della sua vita nuova ricevuta nella risurrezione. Perocchè l' uomo incorporato a Cristo, e divenuto un membro di quello stesso corpo di cui Cristo è il capo, dovea partecipare di tutte le vicende del capo, e con lui morire, e con lui risorgere. Laonde L' Apostolo non dubitava dire: « « Si autem Christus non resurrexit, inanis est ergo praedicatio nostra, inanis est et fides vestra: invenimur autem et falsi testes Dei, quoniam testimonium diximus adversus Deum quod suscitaverit Christum, quem non suscitavit si mortui non resurgunt. Nam si mortui non resurgunt, neque Christus resurrexit. Quod si Christus non resurrexit, vana est fides vestra, adhuc enim estis in peccatis vestris. Ergo et qui dormierunt in Christo perierunt. Si in hac vita tantum in Christo sperantes sumus, miserabiliores sumus omnibus hominibus »(1). » Nel quale luogo S. Paolo argomenta la risurrezione dei morti dalla risurrezione di Cristo; perocchè gli uomini non avrebbero potuto risuscitare, se Cristo risorto non avesse acquistato la potestà di fare altresì risorgere quelli che partecipavano con esso lui della stessa natura umana. Ma particolarmente dalla resurrezione gloriosa di Cristo argomenta la risurrezione gloriosa di quelli che morirono in Cristo, cioè incorporati a Cristo, e che perciò con Cristo formano una sola cosa, un solo corpo, che dee esser tutto avvivato della stessa vita, o tutto giacere nello stesso stato di morte: onde, posta la risurrezione del capo, è giocoforza porre altresì la risurrezione delle membra. Di più dice senza questa risurrezione rimane lo stato di peccato, adhuc enim estis in peccatis vestris, e perciò è vana la predicazione dell' Evangelio, cioè della buona novella, e vana è pure la fede che ad esso si presta; perocchè, giacendo gli uomini prostrati dalla morte, non può dirsi rimesso il peccato a quelli, in cui ne dura la pena. Finalmente fa intendere che senza la risurrezione non v' ha più speranza nella vita futura, e quindi i Cristiani sarebbero i più miseri fra gli uomini, posciachè dovrebbero sperare unicamente nella presente, a' cui diletti hanno rinunziato, ed è da loro considerata piuttosto come morte che come vita. La qual dottrina consuona a capello con quella che è costante in tutti i libri dell' Antico Testamento, dove la speranza della vita futura trovasi sempre fondata nella fede della risurrezione, e non in altro. Laonde il libro della Sapienza, parlando de' giusti defunti, non commenda il loro stato pel presente godimento a cui fossero ammessi, ma per la speranza, perchè « spes illorum immortalitate plena est (2), » e perchè a suo tempo Iddio perdona ad essi, « et in tempore erit respectus illorum (3), » e l' incontaminato « habebit fructum in respectione animarum sanctarum (4), » cioè nella risurrezione. E il fanciullo maccabeo, che veniva tormentato, nella risurrezione pone ogni sua speranza, dicendo che: « Rex mundi defunctos nos pro suis legibus in aeternae vitae resurrectione suscitabit (5). » E ancor più efficace è quel luogo ove parlandosi della colletta di dodicimila dramme d' argento fatta da Giuda Maccabeo ed offerta in Gerusalemme, acciocchè vi si offerisse un sacrificio pe' morti in battaglia, a cui erano stati trovati sotto le tuniche doni degl' Idoli, il sacro storico dice in modo assoluto, che se non vi avesse la risurrezione sembrerebbe inutile il pregare pei morti per la remissione de' loro peccati. E le parole son queste: [...OMISSIS...] La qual dottrina offerisce a noi cristiani una difficoltà che dobbiamo sciogliere accuratamente. Tutta la nostra felicità, la nostra speranza di felicità, si fa per essa dipendere dalla risurrezione: la remissione stessa dei peccati, o la giustificazione si afferma dipendere dalla risurrezione medesima. Ora noi sappiamo per fede che l' anima separata dal corpo, se non ha macchia di peccato, viene ammessa alla visione di Dio, e che se essa porta seco delle macchie leggere viene addetta al fuoco che la purga e rimonda, e, tosto che è resa netta e pura del tutto, la visione beatifica le è conceduta prima della risurrezione dei corpi. Come dunque può dirsi col citato libro de' Maccabei, che sembrerebbe superfluo e vano pregare pei morti ut a peccatis solvantur, quando non dovessero risorgere, mentre pure giova intercedere per le anime purganti acciocchè cessi presto il tormento, e passino presto a godere Iddio? E come, ancor più, può egli sembrare al vero conforme quello che dice l' Apostolo, che, se non vi avesse la resurrezione de' nostri corpi, noi cristiani saremmo i più miserabili degli uomini, quando pure le nostre anime, anche prima della risurrezione, possono fruire del beato consorzio di Dio? Affine di risolvere queste apparenti difficoltà conviene por mente a due cose: 1 Quale sarebbe lo stato dell' anima separata dal corpo ed abbandonata intieramente a se stessa; a ciò che ella ha per natura sua, senz' altra aggiunta o azione esteriore: 2 Che cosa s' intende per la risurrezione, opera del nostro Gesù Cristo, che cosa s' intenda particolarmente pei giusti che risorgono. Quanto alla prima questione è da rispondere che l' anima umana, privata che sia del corpo, ove non le venga alcuna giunta dal di fuori, non venga fatta in lei alcuna azione da qualche agente a lei straniero, l' anima umana separata, da sè sola, primieramente non ha più alcuna sensazione, nè fantasma, nè può fare alcun atto sensitivo, al che si richiede l' organo corporeo; e di conseguente non può più raziocinare nè pensare a cose reali, nè ad astratti che hanno sempre bisogno di qualche segno sensibile per esser pensati. Ella dunque non ritiene se non l' intuizione immota dell' essere indeterminato, e gli abiti contratti nella vita precedente che la individuano, i quali abiti non passano giammai all' atto, perchè nulla vi ha che li tragga a questo. Laonde l' anima, senza alcun termine reale, non avrebbe alcun sentimento, in quanto questo si definisce per la forma reale dell' essere; e però sarebbe senza alcuna vita, eccetto il semplice atto intellettivo dell' intuizione che non si direbbe propriamente vita: l' anima così esisterebbe, ma non vivrebbe. Nel quale stato non essendo a lei possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno: onde i negri tartari (1) ed i luoghi bui (2) de' poeti, e il loro ferreo ed eterno sonno. Questa fu una delle cause per le quali alcuni filosofi, che non ricevettero il lume della rivelazione, e forse fra questi Aristotele, almeno secondo l' interpretazione di Pomponaccio e d' altri negarono l' immortalità dell' anima: e il loro errore fu di crederla annullata o disciolta, non distinguendo fra vita ed esistenza, e non conoscendo quell' atto intuitivo dell' essere, e quel deposito di abiti rimanenti nell' anima dalla precedente sua unione col corpo, che dà a lei un' esistenza intellettiva ed una individualità, sebbene non una vera vita nel senso che noi crediamo proprio di questa parola. Nello stesso errore era caduta, presso gli Ebrei, la setta dei Sadducei. Questi credevano che l' anima non soprastesse alla sua separazione dal corpo, o piuttosto la negavano (3); e ciò qual conseguenza dell' altro loro errore pel quale negavano la risurrezione. Ora Gesù Cristo, togliendo a confutare il loro errore, non toglie a stabilire la tesi generale che l' anima separata dal corpo viva; ma si limita a parlare degli uomini santi, e dice di questi che nella risurrezione vivranno per non più morire. Perocchè, avendo i Sadducei proposta la difficoltà di chi sarebbe nella resurrezione la donna che avesse avuto per mariti successivamente sette fratelli, Cristo risponde loro: « Filii hujus saeculi nubunt et traduntur ad nuptias: illi vero qui digni habebuntur saeculo illo, et resurrectione ex mortuis, neque nubent neque ducent uxores: neque enim ultra mori poterunt: aequales enim angelis sunt, et filii sunt Dei, cum sint filii resurrectionis (4): » e nulla disse dell' anima per sè sola considerata, nè tampoco de' reprobi che pure risorgeranno, ma « non in resurrectione vitae, sì in resurrectione judicii (5). » Ora dalle citate parole di Cristo si può raccogliere due cose: la prima, che la resurrezione è quella che dà ai giusti l' immortalità; la seconda è, che per la risurrezione i giusti sono figliuoli di Dio, tolti per conseguente da ogni pena o sequela del peccato, fatti simili agli angeli santi, spiritualizzati senza il legame o l' impaccio di un corpo materiale. Ma dopo di ciò Cristo continua provando a' Sadducei la verità della risurrezione de' giusti in questo modo: « Quia vero resurgant mortui, et Moyses ostendit secus rubum (1), sicut dicit Dominum Deum Abraham, et Deum Isaac, et Deum Jacob: Deus autem non est mortuorum sed vivorum: omnes enim vivunt ei (2). » Le quali parole confermano mirabilmente quello che dicevamo. Perocchè Cristo argomenta così: « Mosè disse che il Signore è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Ora, se questi Patriarchi fossero morti, non si direbbe che il Signore fosse il loro Dio, perocchè il Signore è Dio de' vivi e non dei morti. Dunque questi Patriarchi sono viventi. Ma non potrebbero dirsi viventi, se un giorno non dovessero risorgere. Dunque convien dirsi che i morti risorgono ». Questo ragionamento fa dipendere la vita di que' Patriarchi dalla loro futura resurrezione. Perchè sono vivi? perchè risorgeranno. Dunque non sarebbero vivi se non dovessero risorgere. Dunque l' anima separata se non fosse destinata a risorgere, se non avesse in sè una ragione o un germe della sua futura palingenesi, troverebbesi in una condizione e stato di morte. Soggiunge però che a Dio tutti vivono, omnes enim vivunt ei, per indicare che Iddio ha virtù di far tornare a vita tutti quelli che egli vuole. Il che sembra accennare alla risurrezione universale sì dei buoni che de' cattivi; ma, dicendo che « tutti vivono a Dio »; parla d' una vita relativa a Dio, non d' una vita relativa a se stessi, non d' una vita soggettiva; e con ciò dimostra, che tutte le anime continuano ad esistere anche separate dal corpo, e però tutte possono essere ravvivate da Dio, in relazione al quale perciò vivono (3). Veniamo alla seconda questione: che cosa s' intenda per la resurrezione che opera nostro Signor Gesù cristo ne' giusti. Secondo la maniera di favellare delle divine scritture, sotto la parola risurrezione non s' intende solamente l' ultima palingenesi, quando gli uomini ricupereranno un corpo proprio, e i giusti un corpo proprio e glorioso che non più deporranno: si intende il nuovo uomo, s' intende Cristo che è nell' uomo e la cui vita è eterna. Coll' incorporazione dell' uomo in Cristo comincia nell' uomo la vita eterna: la vita adamitica e corruttibile perisce, ma sotto di questa ve ne sta un' altra nascosta come sotto la morta spoglia del serpente sta una pelle nuova e viva che si discuopre colla deposizione di quella. Laonde Cristo disse: « « Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, benchè egli sia morto, vivrà; e ognuno che vive e crede in me, non morrà in eterno »(1). » Ora Cristo in altro luogo dice de' suoi discepoli parlando al Padre: « Ego in eis et tu in me (2). » Se dunque Cristo è la vita, e se egli è nei suoi discepoli, egli è conseguente che a questi non può mai venir meno la vita se non si tolgono dall' unione con Cristo: deve rimanere in essi una vita eterna, una vita che di sua natura non può perire. Onde Cristo assolutamente dice che « ogni vivente e credente in lui, non morirà in eterno ». Ma Cristo non è solo la vita, ma anche la resurrezione. Qui evidentemente il discorso si riferisce a due forme o maniere di vita; altramente chi ha la vita non avrebbe bisogno di risorgere. Altra è dunque la vita propria degli umani individui, la qual consiste nell' unione vitale dei proprii loro corpi colle loro anime; ed altra la vita che comunica loro Cristo, quando ad esso incorporati ne partecipano la grazia. Rispetto a questa maniera di vita, Cristo dice se stesso di esser la vita; rispetto alla prima, dice di esser la risurrezione . Quegli stesso che è la vita permanente negli uomini santi della nuova legge, è anche la loro risurrezione. Quella vita non può venir meno giammai, perchè « Christus resurgens ex mortuis jam non moritur, mors illi ultra non dominabitur (3). » Ma pure Cristo una volta morì; ed allora sono forse morti gli Apostoli e discepoli suoi ne' quali egli era? Sì, quel Cristo che era in essi morì: nel triduo della morte di Cristo, Cristo morì ne' suoi discepoli: i discepoli di Gesù Cristo in quel tempo ebbero in se stessi Gesù Cristo morto: nella stessa eucaristia che avevano ricevuto la vigilia della morte di Cristo, se si conservò in essi, vi aveva Cristo morto, il corpo separato dall' anima. Ma primieramente si consideri che la divinità non abbandonò giammai nè il corpo nè l' anima di Cristo, e che perciò la persona di Cristo non fu soggetta alla morte, perchè quella persona era il Verbo. Cristo dunque, sebben morto come uomo, era vivo come Dio ed aveva la podestà di riassumere la sua vita umana come aveva avuto la podestà di deporla. Cristo come Dio conservava il suo corpo immune dalla corruzione, lo conservava in suo potere, nè perciò permetteva che di lui si vestissero altri animali, come accade de' cadaveri degli altri uomini, ne' quali si generano i vermi ed altri minimi esseri viventi, quand' anzi può credersi che il divin corpo non avesse ricevuto nella Passione alcuna di quelle disorganizzazioni che impediscono assolutamente di vivere, eccetto l' emissione del preziosissimo Sangue. Di poi non sarebbe alieno dal credersi, che, quantunque Gesù Cristo avesse cessato di vivere della vita naturale dell' uomo, tuttavia vivesse l' anima sua della vita eucaristica, della qual misteriosa vita forse altrove ci accadrà di parlare più estesamente. Ma lasciando per un momento da parte questa misteriosa vita, conviene tuttavia distinguersi anche in Cristo primieramente due vite: la vita divina che aveva come Dio, la quale non gli potè giammai venir meno, perchè Iddio non muore; e la vita umana che consisteva nella unione dell' anima sua sacratissima col suo divinissimo corpo. Ora, quantunque Cristo nel triduo della sua morte si trovasse ne' discepoli suoi morto della vita umana, tuttavia viveva in essi colla divina, la quale è la prima causa della risurrezione che Cristo stesso attribuiva alla virtù di Dio, quando a' Sadducei diceva « Erratis nescientes scripturas, neque virtutem Dei (1), » e quando chiamava « figliuoli di Dio »i « figliuoli della resurrezione »(2). Ora la virtù, cioè l' onnipotenza di Dio, poteva certamente dare un termine reale alle anime separate, in qualunque maniera egli si compiacesse di farlo, il quale tenesse luogo del corpo, e così poteva farle vivere di vita soggettiva, benchè non della naturale. Imperocchè la vita dell' anima, generalmente considerata, altro non richiede se non un termine reale così ad essa congiunto, che con esso lei formi un unico soggetto, il quale possa, aggiungendosi le condizioni opportune, fare le operazioni vitali del sentire e del pensare su cosa reale. Ma questo termine reale può esser vario: onde le varie maniere di vita, e l' onnipotenza di Dio, come dicevamo, anche ad un' anima separata dal proprio corpo naturale può aggiungere un' altra realità, che tenga per essa luogo del proprio corpo. Il qual termine noi stimiamo sia, come toccammo, l' essere sacramentale di Cristo, giusta quelle parole: « « il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo »(3), » cioè la mia carne, sotto forma di pane, di alimento, terrà luogo, farà le veci della vita del mondo. Si distinguano adunque oggimai quattro maniere di vita in Cristo e nei discepoli di Cristo: 1 La vita naturale, cioè l' unione del corpo umano naturale in un individuo soggetto; 2 La vita divina, misteriosa, eucaristica, che rimase nel triduo della morte di Cristo; 3 La vita spirituale di Cristo ancor viatore, qual ebbe prima della sua morte, la qual consisteva in una santificazione e divinizzazione di Cristo come uomo naturalmente vivente, cioè in una santificazione e divinizzazione della sua anima e del suo corpo uniti insieme individuamente, dal che proveniva la potenza che aveva di trasfigurarsi, come fece sul Tabor, e di glorificarsi quando avesse voluto, benchè volle piuttosto contenere questi effetti della sua divinità lasciando che il suo corpo e l' anima sua potessero patire, come abbiamo detto, e dividersi per morte; il che non toglieva che la vita immortale e gloriosa di Cristo non fosse in lui viatore, ma nascosta, quasi in germe, che a suo tempo sarebbesi sviluppata e manifestata, il che fu nella resurrezione; e 4 Finalmente la vita gloriosa dopo la resurrezione, e dopo l' ascensione al Cielo (due gradi della stessa vita), la quale è la stessa vita precedente attuata nella pienezza del suo vigore e dei suoi meravigliosi effetti. La prima di queste quattro maniere di vita era destinata alla morte in Cristo e ne' suoi discepoli: ne' suoi discepoli come conseguenza penale del peccato adamitico, pel quale la vita naturale degli uomini era divenuta corruttibile, ricalcitrante allo Spirito Santo, e preda del demonio: in Cristo, perchè Cristo per la sua magnanimità, come abbiamo detto, volle prendere su di sè la pena del peccato senz' alcun peccato, e così riuscire quel tipo perfettissimo di virtù morale, che il suo eterno Padre voleva che fosse ed apparisse in questo mondo. La seconda vita non venne mai meno in Cristo, nè pure nel tempo della sua morte e durante la dimora del suo corpo sacratissimo nel sepolcro. Che durante questo tempo Cristo e i suoi discepoli in lui incorporati vivessero della vita eucaristica sembra indicarsi da queste parole di Gesù Cristo «: Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (1). » Il cibo adunque che Gesù Cristo non avea dato fino allora, ma che prometteva di dare, dice esser tale che non muore, non vien meno perchè permane nella vita eterna, e questo è il cibo eucaristico. E soggiunge questa ragione: « Hunc enim Pater signavit Deus (2) »: quasi voglia far intendere che quel Figliuolo dell' uomo, che Iddio segnò come sua proprietà anche morto quant' è alla vita naturale, non può non avere qualche altra maniera di vita, in modo che la vita soggettiva in lui duri eterna, e la possa comunicare a' suoi, dandosi loro sotto forma di cibo. Poco appresso soggiunge: « Non Moyses dedit vobis panem de coelo, sed Pater meus dat vobis panem de coelo verum. Panis enim Dei est, qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1). » Questo pane del Cielo è Gesù Cristo stesso, ma non nella sua vita naturale, ma nella sua vita eucaristica. I SS. PP., che interpretarono questo capo VI dell' Evangelista Giovanni, hanno inteso costantemente dell' essere eucaristico o sacramentale di Cristo, ciò che ivi si legge del pane celeste. Questo pane si dice dato dal Cielo, perchè Cristo, nella forma di cibo o di pane, non è più nel suo essere naturale umano, non è nella vita adamitica, ma in un modo miracoloso, soprannaturale; ha un altro essere, un' altra vita nascosta e al tutto misteriosa: e questa vita è per comunicarsi al mondo, dat vitam mundo: dà al mondo, che ha perduto la vita in Adamo, una vita di forma del tutto nuova; la quale rimane anche quando il mondo è morto della sua vita naturale, di quella vita che gli venia dalla terra e non dal cielo, che gli veniva dalla carne e dal sangue e non da Dio: « qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (2). » Questa vita poi, che viene comunicata meravigliosamente agli uomini, ha condizione di cibo, perchè sia così ristorato l' antico modo col quale gli uomini si dovevano rendere immortali, cioè col mangiare del frutto dell' albero della vita: modo stabilito da Dio a principio e reso inutile dall' insidia del demonio. Ora, dovendo il demonio esser vinto e confuso in tutti i suoi tranelli, dispose l' Eterno di dare al mondo riconquistato un altro albero della vita, assai migliore del primo, e questo fu Gesù Cristo; e il cibo eucaristico, la vita di Cristo nascosta in esso, è il frutto di quest' albero. Il qual cibo noi possiamo acconciamente chiamarlo frutto, perchè fu impetrato da Cristo appresso il Padre e meritato colla sua passione e morte, di cui per questo pure è la vivente memoria, perchè egli dura e vive anche quando Cristo è morto nella sua umana natura. Alla qual vita nascosta ed eucaristica, che non vien meno, consuonano quelle parole dell' Apostolo « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia (3). » Ora dalla morte naturale Cristo non fu immune, non fu esaudito; e, quantunque ne sia poscia stato campato colla resurrezione, tuttavia questo non toglie che l' abbia sostenuta. Ma, se poniamo che Cristo, anche morto, vivesse d' un' altra vita occulta, e fuori dell' ordine naturale, qual è l' eucaristica; in tal caso egli fu esaudito, perchè non fu mai senza qualche maniera di vita. E` anche da osservarsi che questa maniera occulta di vita comunicandosi agli altri per modo di cibo, suppone che essi già vivano: ed è per ciò che l' eucaristia non si può ricevere se non da quelli che sono nati nelle acque battesimali. Dice Gesù Cristo di nuovo agli Ebrei « Ego sum panis vitae: qui venit ad me non esuriet: et qui credit in me non sitiet unquam (1) » Ed alla Samaritana avea detto il somigliante dell' acqua che ha pur forma di cibo: « « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: Da mihi bibere; tu forsitan petisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam »(2). » E ancora: « « Omnis qui bibit ex aqua hac, sitiet iterum; qui autem biberit ex aqua, quam ego dabo ei, non sitiet in aeternum: sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam »(3). » Quest' acqua è il premio della fede, onde dice: « qui credit in me non sitiet unquam; » e mescolata nel calice col vino si transustanzia anch' essa nel sangue di Cristo. L' acqua mescolata col vino non diviene una sola sostanza con lui, non si combina con esso lui chimicamente; e pure secondo i teologi nel calice insieme col vino diviene sangue di Cristo. Ed anche il pane eucaristico è farina impastata coll' acqua, come osserva S. Cipriano, di cui Innocenzo III cita questo testo: [...OMISSIS...] La fede è il principio della salute: essa dà il diritto al battesimo e agli altri sacramenti. Se questi non si possono ricevere, la fede, che ne produce il desiderio, salva l' uomo, dandogli il diritto di ricevere dopo morte quella vita da Cristo, che in terra non ha potuto ricevere da' sacramenti desiderati. Il sangue di Cristo si dee dunque ricevere misto coll' acqua viva della fede, come la farina pure divenuta pane per l' acqua. Per questo si suol dire giustamente che l' acqua nel calice rappresenta il popolo che si unisce strettamente e s' incorpora a Cristo, il che avviene per la fede viva di esso popolo: l' acqua rappresenta dunque il popolo credente, rappresenta l' atto o l' abito della fede, col quale il popolo aderisce a Gesù Cristo e si fa uno in se stesso. Ma della fede e delle altre virtù teologali, che uniscono a Cristo dando il diritto all' unione corporale con lui, parleremo in appresso. Cristo disse alla Samaritana: « Si scires donum Dei, » il che sembra alludere al mistero eucaristico, giacchè la stessa parola eucarestia, secondo l' interpretazione di valenti grecisti, significa buon dono, eccellente, ottimo dono, da «eu», bene, e da «charizomai», largior, dono (1); onde «charisterion», donum, e dono è chiamata l' Eucaristia dai più antichi Padri (2). Vero è che dono è anche la parola significativa dello Spirito Santo, ma questo suppone prima Cristo dal quale procede; e nell' Eucaristia, che è Cristo coll' essere e colla vita di cibo, si diffonde lo Spirito Santo, essendo quello il mistero dell' amore di Gesù Cristo. Il che è confermato dal contesto. Perocchè dicendo: « Si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: da mihi bibere; tu forsitan petiisses ab eo, et dedisset tibi aquam vivam, » quasi voglia dire: « tu stessa domanderesti il dono dell' acqua viva, se conoscessi qual dono sia questo, e chi sia colui che a te domanda dell' acqua materiale: il quale è tale che potrebbe ben darti dell' acqua molto migliore a te ». Laonde il dono si riferisce all' acqua, e l' acqua, simbolo della fede, si riferisce all' eucaristico soprasostanziale alimento. Tornando dunque alle citate parole di Cristo [...OMISSIS...] esse si possono parafrasare in questo modo: « Chi verrà a me con disposizione di credere alle mie parole, non avrà più fame, perchè io lo accoglierò e gli darò finalmente me stesso a suo nutrimento, per guisa che egli vivrà della mia vita, di quella vita che io ho sotto forma di pane; e chi già crede in me, non avrà più sete, perchè io gli darò me stesso a sua bevanda per guisa ch' egli pure vivrà di quella vita che io ho sotto la forma di vino e di acqua col vino mista ». Accenna due semi della salute dell' uomo: le disposizioni alla fede, e la fede già ottenuta. Promette che l' uno e l' altro seme frutterà e recherà l' uomo alla vita eterna, perchè Cristo gli si darà in alimento, e sotto questa forma gliela comunicherà. Dice, che colui che mangierà o berrà questo nutrimento divino, non avrà più fame d' alcun altro cibo, nè sete d' alcun' altra bevanda; ma non avrà tuttavia sazietà dello stesso cibo, come si rileva dalle parole della stessa Sapienza che sembrano contrarie alle riferite di Cristo, e non sono: « qui edunt me adhuc esurient, et qui bibunt me adhuc sitient (1), » perocchè queste parlano della fame e sete della sapienza che non s' estingue, e quelle della fame e sete che s' estingue in quelli che sono satollati della sapienza e della vita di Cristo. E Cristo stesso dichiarò la cosa: quando, dopo aver detto alla Samaritana che chi berrà dell' acqua ch' egli darà non avrà più sete in eterno, soggiunge di ciò questa ragione: « sed aqua, quam ego dabo ei, fiet in eo fons aquae salientis in vitam aeternam . » Non è dunque a intendersi che non avrà più sete, quasi non voglia più bere di quest' acqua; ma non avrà più sete per penuria di essa acqua; non vi avrà più pericolo che quest' acqua gli possa mancare, onde debba sofferire una sete molesta perchè non soddisfatta del bramato umore: chè l' acqua, cioè la fede, che io gli darò, diverrà in lui stesso una fonte copiosa e perenne di acqua viva, a cui continuamente si abbevererà, e quest' acqua salirà fino alla vita eterna, giacchè dalla fede germinano le altre grazie, e la vita che comunicano e conservano i sacramenti, fra i quali in modo più che mai pieno l' eucaristico. Continuandoci ora a considerare il discorso di Gesù Cristo, che avevamo allegato, dopo aver detto: « Ego sum panis vitae, » poco appresso soggiunge: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die. Haec est autem voluntas Patris mei, qui misit me, ut omnis qui videt Filium et credit in eum, habeat vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (2). » Questi due periodi cominciano egualmente: « Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato », ma non è da credersi che ripetano la stessa cosa. Anzi essi manifestano le due maniere onde Cristo dà la vita agli uomini, delle quali abbiamo sopra toccato. Perocchè: A tutti gli uomini Cristo nell' ultimo giorno restituirà la vita naturale che aveano perduta per insidia del demonio col peccato del primo uomo; A quelli che sono predestinati alla eterna salute darà la vita eterna, e li risusciterà nell' ultimo giorno. Di vero egli dice, che tale è la volontà del Padre che lo ha mandato, che egli non perda nulla di ciò che gli ha dato. Ora, che cosa il Padre diede al Figliuolo? Lo dice altrove in quelle parole: « dedisti ei potestatem omnis carnis (3). » Ogni carne dunque è in potere del Figlio, il quale però integra ogni carne nell' ultimo giorno colla resurrezione. Egli non dice che ogni cosa che gli diede il Padre sarà da lui resuscitata nel giorno estremo. Parlando di ciò ch' egli resuscita nel giorno estremo, usa il genere neutro omne quod dedit mihi; ma parlando di quelli che hanno la vita eterna , usa del genere maschile omnis qui videt Filium et credit in eum . Il genere neutro si conviene alla natura, il genere maschile alla persona: il primo conviene alla carne, il secondo allo spirito. Cristo colla resurrezione ultima de' buoni e de' tristi reintegra tutta la natura umana, restituisce la vita a tutta la carne: « Haec est autem voluntas ejus, qui misit me, Patris, ut omne quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Cristo, colla comunicazione della vita misteriosa che sta nella percezione e incorporazione di lui, salva le persone che gli sono state date dal Padre, e a queste, oltre l' aspettazione della resurrezione futura colla quale ricuperano quella vita che consiste nell' unione delle loro anime col loro corpo naturale, hanno oltracciò un' altra vita misteriosa, che noi crediamo consistere nella percezione di Cristo vivente sotto forma di cibo o di pane: [...OMISSIS...] Vedere il Figlio è percepirlo, averne la percezione, il che si consegue quando viene impresso nell' anima il carattere indelebile; credere nel Figlio è dare l' assenso volontario; e, se la fede è viva, è altresì un dare la ricognizione pratica e l' adesione al Figlio percepito. Questi, dice Cristo, ha la vita eterna . Ma se ha la vita eterna, qual bisogno avrà egli di essere resuscitato nell' ultimo giorno? Acciocchè alcuno possa esser resuscitato, conviene che sia morto: ma chi ha la vita eterna non è morto. Conviene dunque dire che l' uomo possa esser morto secondo una vita, cioè secondo la vita naturale, e possa tuttavia vivere d' un' altra vita migliore ed eterna, la quale egli ha qualora veda il Figliuolo di Dio e creda in Lui. Attesa questa vita eterna di cui l' anima è dotata per la grazia di Cristo, nel quale ella è incorporata, non s' avvera giammai dell' anime cristiane l' ipotesi, che noi facevamo più sopra, di un' anima cioè separata dal corpo, che non ritiene altro se non la sua propria natura, la quale, abbiam detto, esisterebbe sì ed avrebbe l' intuizione dell' essere e certi abiti conservati dalla sua precedente unione col corpo; ma non però avrebbe vita, in quanto la vita esprime « il sentimento d' una realità »; e però sarebbe del tutto priva d' ogni altra attività, di ogni altro atto, e molto più d' ogni consapevolezza. L' anima cristiana all' incontro, anche separata dal corpo, non riman sola, perchè è unita con Cristo; non riman senza vita, perchè ha la vita eterna: il cui termine reale era probabilmente nel triduo della morte di Cristo il suo corpo e il suo sangue sotto la forma di cibo e di bevanda; e, dopo risorto, è non solo il corpo di Cristo secondo l' essere sacramentale, ma ben anco secondo l' essere suo naturale glorioso. Ma nella vita presente l' uomo è incorporato a Cristo secondo la vita misteriosa e sacramentale solamente, perchè l' essere naturale e glorioso di Cristo gli rimane al tutto nascosto, acciocchè sia oggetto della fede, e s' avveri il detto del Signor nostro «: Beati qui non viderunt et crediderunt (1), » e l' uomo s' abbia quella beatitudine che altramente non avrebbe. Tutto in beneficio dell' uomo, anche la limitazione de' doni. Perocchè il non vedere Iddio e tuttavia credere alle sue parole con efficacia di opere, dà maggiore onore a Dio che credendo dopo aver veduto. Quell' atto contiene una intiera fiducia in Dio rivelante, un intero abbandono a lui come verità, ed è un atto di mente più ferma e libera e dominatrice dei sensi e delle loro apparenze che sogliono attirare e legare l' assenso dell' uomo. Onde nella fede v' ha un prezzo e una dignità morale maggiore che non sia nella semplice visione, e tutto l' intento divino è di condurre l' uomo alla maggiore perfezione dell' essere. Questa è la fede di quelli che sono già incorporati in Cristo: la fede dopo la percezione occulta di Cristo, colla quale si percepisce Cristo, nel suo essere sacramentale di cibo; la fede di cui disse Cristo «: Ut omnis qui videt Filium et credit in eum habeat vitam aeternam (2). » Prima dice videt filium, e poscia dice et credit in eum, perocchè a quella visione del Figlio soprastà la fede . Non è una visione che tolga la fede, quand' anzi le dà il fondamento, giacchè la fede è « « la sussistenza delle cose da sperarsi, l' argomento delle non vedute »(3); » definizione che conviene sommamente alla fede dell' uomo già incorporato con Cristo, nel quale Cristo percepito occultamente, e non nel suo corpo naturale nè glorioso, è la sussistenza delle cose da sperarsi, cioè della manifestazione di Cristo nel suo esser glorioso, ed è l' argomento inconcusso di questo esser glorioso di Cristo che nella vita presente non apparisce. Cristo disse ancora nella stessa conferenza cogli Ebrei: « « Nemo potest venire ad me, nisi Pater, qui misit me, traxerit eum: et ego resuscitabo eum in novissimo die. Est scriptum in Prophetis et erunt omnes docibiles Dei (1). Omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me. Non quia Patrem vidit quisquam, nisi is, qui est a Deo, hic vidit Patrem. Amen, amen dico vobis: qui credit in me habet vitam aeternam »(2). » Nelle quali parole Cristo descrive tutto il progresso pel quale l' uomo perviene a quella fede in lui, onde ha la vita eterna. Prima l' accenna in generale dicendo, che « niuno può venire a lui se il Padre che ha mandato Cristo non tragga l' uomo a Cristo »; e promette « che se il Padre lo trae, in qualunque modo lo tragga, Egli lo risusciterà nell' ultimo giorno ». Questo trarre a Cristo può anche in qualche modo intendersi di tutte le cose, come Cristo altrove disse «: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad me ipsum (3); » e in questo senso si possono interpretare le parole che seguono [...OMISSIS...] della universale resurrezione, allo stesso modo come abbiamo spiegato l' altre parole precedenti « ut omne quod dedit mihi non perdam ex eo, sed resuscitem illud in novissimo die . » Ma l' espressione del « trarre del Padre »abbraccia di più; come generalissima abbraccia ogni maniera di traimento, e specialmente di quelli che sono tratti a Cristo, acciocchè non siano solamente in potestà di Cristo, ma sieno salvati da Cristo, rispetto a' quali la promessa di Cristo « ed io lo risusciterò nell' ultimo giorno »dee intendersi della resurrezione beatifica e gloriosa. Se il Padre trae in questo significato a Cristo, la persona che è tratta non è ancora venuta a Cristo, non ancora incorporata con esso lui: ma è nondimeno in sulla via a questo felice termine. Il traimento adunque del Padre a Cristo comprende quelle grazie e quei doni che costituiscono la disposizione dell' uomo a credere in Cristo, e che perciò precedono la fede compiuta attuale ed abituale. Queste disposizioni non sono propriamente la rettitudine naturale del pensare e dell' operare, la naturale scienza, la naturale onestà. Questa non può essere che una cotale disposizione iniziale e remota, che sarà nondimeno anche questa valutata « in die cum judicabit Deus occulta hominum, secundum Evangelium meum per Jesum Christum (4). » E tuttavia anche questa si attribuisce convenientemente al Padre, a cui s' attribuisce la creazione; e conviene poi al Padre in proprio, in quanto il Padre genera il Figliuolo, e di conseguente tutte le appartenenze del Verbo, fra le quali è il lume della ragione umana, cioè l' essere ideale: si attribuisce al Padre altresì la conservazione e la provvidenza delle cose, onde viene a tutte le cose e nominatamente all' uomo il vigore pel quale durano in essere ed operano, ed ancora la ragione per la quale certi uomini sembrano incontrare nella vita minori tentazioni al mal fare. Ma le immediate ed efficaci disposizioni al ricevimento di Cristo e del suo Vangelo, pei Gentili erano le antichissime tradizioni orali, provenienti dalle primitive rivelazioni fatte da Dio ad Adamo, ed ai successivi Patriarchi prima che l' uman genere si separasse in nazioni, e per gli Ebrei erano le rivelazioni speciali e tradizioni orali e scritte consegnate alla famiglia d' Israele. Mediante queste rivelazioni e tradizioni divine, tanto i Gentili quanto gli Ebrei potevano avere qualche notizia del futuro Redentore del mondo, su cui si fondasse la fede in esso. E al Padre s' attribuiscono queste verità rivelate, perchè, essendo esse, come abbiamo detto (Lezione L, facc. 130), appartenenze soprannaturali del Verbo, benchè non ancora il Verbo stesso, a questo si riducevano, e il Padre che genera il Verbo e lo manda al mondo produceva con ciò stesso tuttociò che al Verbo appartenesse: onde Cristo non si contentò di dire: « Nemo potest venire ad me nisi Pater traxerit eum; » ma disse: « Pater qui misit me » quasi dica: Colui che a me è Padre ab eterno, e che agli uomini mi manda e mi comunica nel tempo. Dice nelle parole appresso che nessuno degli uomini vide il Padre, « nisi is qui est a Deo » perchè il Padre non è conoscibile e percettibile se non pel Figlio e nel Figlio, il quale n' è il Verbo che tutto lo comprende, e quindi n' è l' intelligibilità. Ma tuttavia dice che, se il Padre non si può vedere dagli uomini, tuttavia da essi si può udire, onde il profeta Isaia dice che « saranno tutti docibili », ossia atti ad essere ammaestrati da esso Dio Padre. Ora questi ammaestramenti dal Padre dati agli uomini che ancora non conoscono Cristo, dati specialmente avanti la venuta di Cristo, sono appunto quelle rivelazioni e istruzioni soprannaturali di cui abbiamo parlato, e che abbiam detto non essere ancora il Verbo, ma essere tuttavia appartenenze del Verbo. Ora queste, ricevute docilmente, umilmente, fedelmente dagli uomini, sono le disposizioni prossime ed efficaci che poscia li fa ricevere Cristo e credere in lui. Onde Cristo promette, con infinita bontà, che: « omnis qui audivit a Patre, et didicit, venit ad me . » Non basta che gli uomini odano dal Padre quello che loro insegna, quello che loro insegnò colle primitive rivelazioni, quello che insegnò agli Ebrei colle rivelazioni speciali fatte alla casa di Giacobbe; conviene ancora che imparino quanto il Padre insegna, acciocchè vengano a Cristo: cioè conviene che aggiungano la loro cooperazione, l' adesione della loro libera volontà, [...OMISSIS...] In tal caso vengano a Cristo. Il venire a Cristo sembra che sia una disposizione ancora precedente alla fede, precedente al credere in Cristo. Quando l' uomo udì dal Padre, quando l' uomo imparò ciò che il Padre gli favellò, allora egli va a Cristo, cioè nasce in lui il desiderio che sia completata quella scienza che gli ha insegnato il Padre, ed opera in conformità di quel desiderio, cercando quel completamento che ancora non ha, ancora non conosce, il quale completamento è Cristo. Postochè Cristo gli si annunzia; allora egli crede in Cristo, ed opera in conformità di quella fede. Giunto a questo punto la sua salute eterna è assicurata, promettendolo Cristo: « Amen, amen dico vobis, qui credit in me habet vitam aeternam . » Ma chi ha la vita eterna crede in Cristo, cioè continua a credere, e crede con maggior luce, cioè colla luce della vita eterna che oggimai egli possiede. Ora Cristo passa ad insegnare come questa vita eterna si formi nell' uomo, dicendo: [...OMISSIS...] Aveva detto che chi crede in lui ha la vita eterna, e poi dice di essere egli stesso pane di vita, di cui quegli che avrà mangiato, vivrà in eterno. Se la Fede basta per avere la vita eterna, come poi mette per condizione all' uomo per vivere eternamente, ch' egli mangi del pane della vita? E se questo pane della vita è il pane eucaristico, se è la carne di Cristo, come espressamente spiega lo stesso Cristo, « et panis quem ego dabo caro mea est; » sarà egli vero che colui che ha la fede e non ha ricevuto l' eucaristico pane non abbia la vita eterna? Questo sarebbe opposto a quanto aveva detto, perocchè Cristo aveva detto assolutamente e senza altre condizioni: « qui credit in me habet vitam aeternam . » E` dunque da dirsi che questa fede in Cristo trae seco per natural conseguenza il desiderio del battesimo e degli altri sacramenti, il qual desiderio, quando non può essere soddisfatto, basta all' uomo per l' eterna salute. Ma in tal caso, in qual modo Cristo dice assolutamente poco appresso: Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi: [...OMISSIS...] Queste parole sono assolute ed universali. Qui sembra occultarsi un grande mistero. E quantunque questo mistero rimarrà sempre in parte occulto, tuttavia sembra che Gesù Cristo medesimo ce l' abbia in parte svelato. Gesù Cristo ci dice che egli si comunica agli uomini in forma di cibo: che questo cibo è la sua carne: che questa carne sotto forma di pane e di bevanda dà la vita: che se non si ciba questo pane e questa bevanda non si può avere la vita in se stessi: e che il pane che egli darà è la sua carne per la vita del mondo, [...OMISSIS...] ovvero, come dice il testo greco « « è la mia carne che io darò per la vita del mondo » », [...OMISSIS...] quasi dicendo: quella stessa carne, che io darò a morte acciocchè il mondo viva, è il pane della vita; cioè quel pane che darà al mondo una nuova vita immortale ed eterna. Vi ha dunque una carne che Cristo abbandona alla morte; ma questa carne stessa, destinata alla morte, sarà il pane della vita eterna, cioè avrà una maniera di vita che non può venir meno; e questa darà la vita agli uomini, anche quando questi avranno perduta la loro vita naturale, la vita del mondo. Io darò dunque a morte la mia carne, ma nello stesso tempo darò un' altra vita, perocchè questa mia carne rimarrà sempre un pane vivo, un pane che dà la vita. Questo pane adunque dee dare la vita anche a quegli uomini che sono morti secondo la vita naturale ed adamitica. Il che importa che ci abbia un' azione, un effetto dell' eucaristia al di là di questa nostra vita naturale, sicchè le anime nostre anche separate vivano di quella vita che dà la carne di Cristo sotto forma di pane della vita, in un modo del tutto occulto e misterioso. E veramente Gesù Cristo disse agli apostoli, dopo istituito il sacramento eucaristico, ch' egli avrebbe bevuto un vino nuovo insieme con essi, quando fosse entrato nel suo regno: [...OMISSIS...] Il vino eucaristico che Cristo dichiara che avrebbe bevuto nel regno del Padre suo, lo dice « vino nuovo »perchè il suo corpo sarebbe stato glorioso: dice che lo avrebbe bevuto « con esso loro », per indicare la partecipazione ad essi della sua vita eucaristica: il vino eucaristico suppone anche il pane, come il sangue suppone il corpo; ma Cristo si limita ad accennare quell' umore che dà la vita al corpo naturale, giacchè era scritto: [...OMISSIS...] E poco prima aveva detto: [...OMISSIS...] Questo sangue, che è destinato da Dio pro piaculo animae, non è il sangue d' alcun animale, il quale non poteva che raffigurarlo; nè è il sangue dell' uomo corrotto: ma il sangue del Figliuolo dell' uomo che è insieme Figliuolo di Dio, Gesù Cristo Signor Nostro. Non si potea cibare qualunque altro sangue, perchè era sangue morto, e traendolo dal vivente, gli dava morte; ma Gesù Cristo irritò anche questa prescrizione legale compiendola, dando all' uomo il suo preziosissimo sangue in forma di vino, sangue vivo e vivificante, vero piaculum delle anime, sangue del nuovo ed eterno testamento. Oltre di ciò, parlando Cristo a' suoi discepoli, preferisce di parlar loro del sangue suo, che avrebbe bevuto nuovo nel suo regno sotto forma di vino, perchè l' assunzione del sangue era riserbata specialmente ai perfetti, ed ai sacerdoti, a' quali poi riserbolla la Chiesa diminuito il primo fervore dei fedeli, come quello che contiene in modo speciale le grazie più perfette, qual è l' allegrezza nel fare il bene significata dalla specie del vino che « laetificat cor hominis (3), » e la grazia della fortezza e del martirio significata nel sangue che Cristo il primo dovea spargere. Onde quelle parole erano conforto ad un tempo e robustezza aggiunta a' dolenti discepoli che doveano quanto prima vedere il loro Signore e Maestro barbaramente crocefisso. L' essere adunque eucaristico di Cristo, che vive in forma di pane e di vino, opera al di là di questa vita, e dà all' anima separata, come all' anima unita al corpo, una vita misteriosa in Cristo che non può venir meno giammai, perchè di sua natura è eterna. [...OMISSIS...] Questo pane è sempre vivo: « Ego sum panis vivus; » questo pane è vivo in modo che dà altrui la vita: « Ego sum panis vitae . » Cristo può esser dunque morto della sua vita naturale, ma non della sua vita eucaristica. Questo pane vivo è disceso dal cielo: « Ego sum panis vivus qui de coelo descendi » e perciò appunto non muore, perchè non è nato della terra: il cielo è il luogo della vita e non della morte: ciò che è dal cielo non soggiace alle leggi della terra, e perciò non muore, perocchè nè la terra nè le forze della terra, nè quelle dell' inferno non hanno potestà sulle cose del cielo: il corpo naturale di Cristo era venuto dalla terra perchè composto del sangue della Vergine, e però fu potuto abbandonare alla morte: ma il corpo eucaristico ha un essere soprannaturale, che viene unicamente dal Cielo, e però è vivente e vivificante: niuno lo può distruggere. Una dottrina così recondita e meravigliosa faceva stupire gli Ebrei che non la intendevano, e ne mormoravano dicendo: « Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? (1). » E tuttavia Cristo non ritratta o spiega in senso traslato quanto aveva detto, ma lo conferma e rinforza dicendo e ripetendo: [...OMISSIS...] Nelle quali parole Cristo mette per condizione ad avere in se stessi la vita il mangiare la carne sua e bere il suo sangue: « Nisi manducaveritis carnem Filii hominis et biberitis ejus sanguinem non habebitis vitam in vobis . » Le parole sono chiare ed assolute, a tal che, prima che fosse deciso dalla Chiesa l' assunzione dell' Eucaristia non essere di necessità di mezzo alla salute (3), v' ebbero alcuni, come S. Agostino (4) e Innocenzo I (5), che ritennero non bastare all' eterna salute de' bambini ricevere il battesimo, se ancora non fosse data loro l' eucaristia. Ma ora è definito il contrario dall' infallibile autorità della Chiesa; e pure quelle parole di Cristo son così assolute ed universali, come quelle che inculcano la necessità del battesimo: [...OMISSIS...] Se dunque chi non mangia la carne del Figliuolo dell' uomo e bee il suo sangue non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo d' acqua, o di sangue, o di desiderio è certo che acquista la vita eterna, convien dire che quella comestione della carne e del sangue di Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella futura al punto della sua morte, e così avrà la vita in se stesso: giacchè, come abbiamo veduto, l' eucaristia ha degli effetti anche al di là di questa vita, e Cristo stesso disse che entrato nel suo regno glorioso egli l' avrebbe presa insieme co' suoi discepoli. In questo modo anche a' santi dell' antico testamento, quando Cristo discese al limbo, potè Cristo comunicare se stesso sotto la forma di pane e di vino, e così ravvivarli da quello stato di tenebre e di sonno in cui si trovavano; e, mettendoli a parte della propria vita eucaristica, renderli atti alla visione di Dio; la fede loro era per essi il titolo, con cui sono morti, di un diritto ad rem, che fu poscia effettuato da Cristo, quando diede loro il possesso delle cose in cui speravano, onde il loro divenne un diritto in re . Il medesimo dicasi di tutti que' Gentili che ebbero la fede nel futuro Salvatore del mondo, e che vissero senza peccato mortale, o pentiti n' ottennero il perdono. Lo stesso di que' Cristiani che muojono, benchè battezzati e mondi dal peccato attuale, senza aver ricevuto nella vita presente l' eucaristia, come accade a molti bambini, e come accadde a colui, a cui disse Cristo in Croce: « Hodie mecum eris in Paradiso (1). » La qual dottrina viene confermata dal sacrificio della messa. Perocchè in questo, dopo avvenuta la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue del Redentore, si prega che questo venga portato dall' angelo « in sublime altare tuum, in conspectu divinae majestatis tuae, » e che quanti partecipiamo di questo altare, « omni dono coelesti et gratia repleamur : » il che è la società e comunicazione nostra co' santi che sono in Cielo. Laonde Innocenzo III nella sua opera sulla liturgia, venuto a questo passo che incomincia: « Jube haec perferri, » appone al capitolo questo titolo «: De profunda quorumdam intelligentia verborum; » ed appresso scrive così «: Tantae sunt profunditatis haec verba ut intellectus humanus vix ea sufficiat pertractare . » Vede in quelle parole il mistero, e non osa quasi per riverenza svelarlo; non osa per la profondità sua investigarlo: perocchè veramente ella è questa una delle più arcane dottrine della cattolica Chiesa. Che se noi osiamo favellarne, è solo per la persuasione in cui siamo che così voglia Iddio in questo tempo. Quel sommo Pontefice nondimeno lo accenna colle parole di C. Gregorio Magno, di cui allega due testi, continuandosi in questo modo: [...OMISSIS...] (1). Dopo recati tali testimonii, Innocenzo III passa a spiegare quelle parole in un senso meno profondo, attestando però di nuovo l' alto mistero che esse nascondono con dire: [...OMISSIS...] Ma poscia, venendo a parlare di quell' altare sublime in cui il sacerdote prega che sia portata dall' Angelo l' eucaristia, dice: « Multiplex autem altare legitur in scripturis superius et inferius, interius et exterius » e si fa ad enumerare questi diversi altari superiori e celesti, ed inferiori e terreni, e fra questi dice che altare superiore è anche la Chiesa trionfante, altare poi inferiore la Chiesa militante [...OMISSIS...] Ed acconciamente pel sublime altare, di cui è fatta menzione nelle citate parole che pronuncia il sacerdote nella messa poco dopo la consacrazione, si può intendere la Chiesa trionfante, la quale è fatta partecipe degli stessi divini misteri, di cui si rende partecipe il credente viatore su questa terra, vivendo e l' una e l' altra dello stesso cibo, fruendo della medesima vita di Gesù Cristo. Qual ineffabile consorzio! Qual intima unione del Cielo colla terra! qual divino legame fra le cose visibili ed invisibili! Qual ammirando commercio fra la vita presente e la futura! Quale unità di tutto il Corpo di Cristo, la quale discende da questo corpo glorioso e si comunica non meno alle membra già partecipi della sua gloria che alle membra che ancor vivono di fede sperando! Ora nella Santa Messa, dopo che il sacerdote pregò Iddio perchè comandi che l' Angelo porti il pane e il vino della vita, che sta in sull' altare terreno, anche sull' altare celeste, cioè che la porti a' celesti comprensori, egli prega per le anime dei defunti non ancora pervenute allo stato di termine e che debbono purificarsi dalle leggiere macchie che da questa recaron seco nell' altra vita. Perocchè, se questo cibo vitale venga dato a quelle anime fedeli, esse saranno tantosto liberate dalla loro oscura prigione, ottenendo quella vita di Cristo colla quale nell' altra vita si è atti a vedere la faccia di Dio: giacchè questo cibo rimette i peccati leggieri, e monda le anime intieramente, « tamquam antidotum quo liberemur a culpis quotidianis, » come disse il Sacrosanto Concilio di Trento (1). Alla commemorazione poi delle anime purganti, segue l' orazione che incomincia: Nobis quoque peccatoribus, colla quale il sacerdote prega per sè, per gli assistenti, e per tutti i fedeli che costituiscono la Chiesa militante su questa terra, e dimanda che mediante il cibo eucaristico possiamo tutti aver qualche parte coi santi martiri ed altri comprensori celesti, in modo che, dopo esser vissuti quaggiù della vita nascosta di Cristo, possiamo in cielo godere della vita palese e a pieno manifesta. Così le tre parti in cui la Chiesa è divisa, cioè la trionfante, la purgante e la militante, conviene che vivano della stessa vita di Cristo, benchè in gradi e modi diversi, e che abbiano uno stesso mezzo con cui partecipare di questa vita. Conviene riflettere che il concetto del sacrificio fu sempre eguale dal principio del mondo, nè fu solo conservato presso gli Ebrei, ma presso tutte le genti. Questo concetto non involgeva solo l' immolazione della vittima alla divinità, ma ben anco acchiudeva la persuasione che della vittima immolata si cibassero, parte la divinità stessa, parte gli uomini che facevano il sacrificio. Si concepiva così che un solo cibo diventasse comune a Dio, od agli Dei, ed agli uomini, e per tal modo gli uomini partecipassero della stessa vita di Dio o degli Iddii. E Iddio presso il suo popolo mandava sovente il fuoco dal cielo ad assumere la vittima quasi egli stesso se ne nutrisse. [...OMISSIS...] si legge ne' libri de' Maccabei, [...OMISSIS...] Questo concetto costantissimo presso tutte le nazioni, non fu effettuato in antico se non simbolicamente; ma Cristo compiè il simbolo, e adempì la verità di quel concetto profetico. Se dunque era nell' antica tradizione, e nell' istinto della natura umana, che una vittima dovesse esser cibo comune a Dio ed agli uomini, era convenevole che Iddio divenuto uomo e glorificato partecipasse d' un alimento sacro di cui potessero altresì partecipare gli uomini, e questo alimento fu il pane ed il vino divenuti sua carne e suo sangue. E se Cristo glorioso ne partecipa, conveniva che tutta l' umanità gloriosa, che forma un solo corpo con esso lui, pure ne partecipasse: questo dunque è il cibo soprasostanziale di tutti i santi che ammantano Cristo, e compiscono il suo corpo santissimo. Quando parla Gesù Cristo del cibo eucaristico chiama se stesso « Figliuolo dell' uomo »: [...OMISSIS...] Abbiamo detto che questa era la denominazione più umile che poteva dare a se stesso. Ma egli era venuto a prendere la difesa dei figliuoli dell' uomo contro il demonio, a prendere la forma così bassa ed umile di figliuolo dell' uomo (espressione che allude alla generazione, nella quale il demonio aveva posto il guasto della natura umana e per la quale il peccato si propagava di padre in figlio, benchè Gesù Cristo, non concepito per umana generazione ma per opera dello Spirito Santo, ne andasse del tutto immune, come ne andava pure immune per essere in pari tempo Dio) per rinnovare e rialzare dal suo avvilimento lo stesso figliuolo dell' uomo, il quale in lui sussisteva perfetto e sublimato: perfezione e sublimità che voleva pure comunicare agli altri figliuoli degli uomini a cui s' era fatto fratello secondo la carne, a cui voleva pure esser fratello secondo la divinità. Quindi, in onta al demonio, egli esalta e magnifica quel figliuolo dell' uomo, che l' inimico aveva tanto umiliato e distrutto, e però egli dice: « Ut autem sciatis quia Filius hominis habet potestatem in terra dimittendi peccata (1); » dice ancora: « Dominus est Filius hominis etiam sabbati (2); » dice: « Mittet Filius hominis angelos suos et colligent de regno ejus omnia scandala (3); » dice: « Filius enim hominis venturus est in gloria Patris cum angelis suis, et tunc reddet unicuique secundum opera ejus (4): » e tante altre cose dice in onore della umana natura che il Demonio aveva tanto abbassata, ed egli era venuto ad innalzare. Ed è da considerarsi che egli non esaltava solo questa natura in un solo individuo di lei, cioè in se stesso, ma la voleva esaltata in molti individui che rappresentassero tutte le forme o specie di onore e di gloria di cui ella fosse suscettibile (1), giacchè invitava tutti gli uomini a partecipare di que' pregi, ed onori, e glorie che in lui primo dovevano essere, fino a dire: « Amen dico vobis, quod vos, qui secuti estis me, in regeneratione, cum sederit Filius hominis in sede majestatis suae, sedebitis et vos super sedes duodecim judicantes duodecim tribus Israel (2). » Ora, nello stesso modo parlando del cibo eucaristico, invece di dire: « Se non mangerete la mia carne, »ovvero: « se non mangerete la carne del Figliuol di Dio », dice: « Se non mangerete la carne del Figliuolo dell' Uomo », quasi volendo dire: Il figliuol dell' uomo fu corrotto dal peccato per insidia del diavolo: ora, a scorno del medesimo corruttore ed insidiatore, il figliuolo dell' uomo troverà il rimedio da riparare a' suoi danni in se stesso, non avrà bisogno d' uscire da sè per rinvenirlo. Il che tutto dimostra un ineffabile amore per l' umana natura, di cui Iddio si rende il campione prendendone la difesa: dimostra una delicatezza che provvede all' onore di questa natura tanto vessata dal suo perpetuo inimico, e quella cotal riverenza verso essa, di cui favella il Libro della Sapienza, ove dice: « Tu autem, dominator virtutis, cum tranquillitate judicas, et cum magna reverentia disponis nos (3). » E tuttavia la vita eucaristica è soprannaturale e divina. Il che Gesù Cristo fa intendere con quelle parole: « Sicut misit me vivens Pater et ego vivo propter Patrem, et qui manducat me et ipse vivet propter me . » Il Padre dà la missione al Verbo d' incarnarsi, in generandolo, ed il Verbo incarnato vive, tutto Dio e uomo, della vita del Padre: perocchè, come Verbo ha comune col Padre la vita, e come uomo partecipa, per l' unione ipostatica, di quella vita. Questa non è la vita naturale, ma la vita divina partecipata, la vita essenziale di cui dice S. Giovanni: « « In ipso vita erat ». » Questa vita è la sussistenza vivente nel Padre, conosciuta per essenza nel Figliuolo, amata per essenza nello Spirito Santo. Questa vita della persona divina di Cristo reggeva come principio supremo la sua natura umana, e nascondeva questa natura umana vivente della vita divina e da questa governata sotto la forma di cibo per potersi così comunicare agli altri uomini. Perocchè l' uomo non acquista il termine reale del suo sentimento, per il quale egli vive, se non per generazione e per nutrizione: in questi due modi il suo spirito si unisce alla corporea sostanza come a termine del suo sentire. Ora, essendosi guastato il primo modo, con cui si doveva propagare la vita naturale, per opera del demonio; restava intatto il secondo, giacchè l' albero della vita non fu potuto profanare nè dal demonio nè dall' uomo. Al frutto dunque dell' albero della vita, che nella prima istituzione doveva aggiungere all' uomo colla nutrizione un termine corporeo che lo avrebbe reso immortale, Iddio sostituì un altro cibo tolto dall' uomo stesso, cioè la carne ed il sangue di Gesù Cristo. E questa vita, misteriosa ed occulta, è quella vita colla quale il Padre provvide al Verbo incarnato, quando si consigliò di abbandonarlo rispetto alla vita naturale, nelle mani de' suoi crocifissori; quella colla quale il Padre esaudì il Figlio secondo le parole dell' Apostolo: « « Qui in diebus carnis suae, preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte, cum clamore valido et lacrymis offerens, exauditus est pro sua reverentia »(1); » il qual clamore, le quali lagrime non potevano non essere pienamente esaudite; quella vita di cui rese grazie Cristo quando istituì il Santissimo Sacramento: « Dominus Jesus, in qua nocte tradebatur, accepit panem, et gratias agens fregit (2). » Essendo dunque questa vita divina, e per sè indipendente dalla carne e dal sangue ma per divino consiglio all' umanità di Cristo comunicata, Cristo dice, quasi a conclusione del suo insegnamento sull' eucaristico cibo: « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam; verba, quae ego locutus sum vobis, spiritus et vita sunt (3), » volendo dimostrare due cose: che la vita, che sta nella sua carne e nel suo sangue, è vita divina; e che questa non si può ricevere se non per opera dello Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo: onde quelli che ricevono l' Eucaristia col peccato nell' anima, non ricevono, non possono ricevere quella vita. Laonde S. Agostino, spiegando le parole di Cristo, dice che non muore colui che riceve nell' eucaristico cibo [...OMISSIS...] E ancora dice: [...OMISSIS...] Laonde Cristo, che promette che non morranno quelli che mangeranno la sua carne e il suo sangue ma avranno in sè l' eterna vita, fa intendere chiaramente che egli parla di una manducazione colla quale l' uomo riceva rem sacramenti, e non solamente il sacramentum . Questo non è quel mangiare di cui parla Cristo; perchè « « Spiritus est qui vivificat, caro non prodest quidquam ». » Onde di nuovo S. Agostino, parlando di questo Sacramento [...OMISSIS...] Per mangiare adunque veramente il corpo e il sangue di Cristo, nel senso che intende Cristo colla voce mangiare, conviene esser membro del corpo di Cristo, e membro vivente. Non basta aver ricevuto il carattere indelebile nel sacramento del battesimo, o anche negli altri sacramenti che lo conferiscono, cioè nella Confermazione e nell' Ordine sacro; conviene ancora aver la grazia che ci rende membro vivo di quel corpo. Perocchè Cristo disse: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem, in me manet et ego in illo . » Ora, se ivi è l' obice del peccato, questo, che di natura sua avverrebbe per la forza del Sacramento, non può avvenire, perchè « quae conventio Christi ad Belial? (4). » Onde Cristo in quelle parole esprime l' effetto della Santissima Eucaristia, quale essa per sua virtù arreca, prescindendo dall' accidentale impedimento che pone l' uomo. Il perchè S. Agostino dice che nelle citate parole di Cristo il Signore espone « quid sit manducare corpus ejus, et sanguinem ejus bibere . » E soggiunge: [...OMISSIS...] (5). Le quali parole del Santo Dottore vanno intese con buon senno. Perocchè anche chi ha ricevuto il battesimo colla grazia che di natura sua conferisce, questi è già membro vivente del corpo di Cristo, e però egli è in Cristo e Cristo in lui. Ma la Santissima Eucaristia conserva questa unione e mutua inabitazione come fa il cibo che conserva la vita in chi già l' ha: il che viene espresso da quella parola di Cristo manet ( in me manet et ego in illo ), che significa permanenza e continuazione. Di più, il cibo ristora ciò che il corpo vivente va perdendo ogni giorno; e questo fa pure l' Eucaristia togliendo i peccati veniali, in cui quotidianamente l' uomo incappa, rimettendo in lui e rifondendo nuova vita. In terzo luogo il cibo rende l' uomo adulto, e così fa l' Eucaristia dell' uomo nuovo e spirituale, facendo in lui crescere Cristo. In quarto luogo il pane rinforza, e il vino eccita e rallegra; e questi pure sono effetti dell' Eucaristia; la quale dà all' uomo la pienezza della vita, del sentimento, e dell' attività della vita, perchè pone nell' uomo Cristo corporalmente, lo pone tutto, il corpo, il sangue, l' anima e la divinità; laddove il battesimo congiunge l' uomo al corpo vivente di Cristo, ma non pone nell' uomo tutto lo stesso Cristo. In secondo luogo non è da credere che senza la reale manducazione del pane e del vino consacrato l' uomo possa per altra via venire in possesso di tutte queste grazie, e possa aver Cristo corporalmente in se stesso: ma egli può nondimeno salvarsi, perocchè il desiderio di pascersi del corpo e del sangue sacratissimo, e l' essere in istato di grazia, quantunque non glie ne dieno il possesso, e, per così dire, il diritto in re , tuttavia glie ne danno il diritto ad rem , il quale dopo la sua morte lo mette alla partecipazione reale del pane e del vino celeste. Ed ora noi possiamo più precisamente rispondere alla questione: « Che cosa s' intenda nelle divine scritture per risurrezione ». La qual parola riceve più significati dalle diverse maniere di vita a cui si riferisce. Perocchè noi abbiamo distinte in Cristo quattro maniere di vita di cui partecipa il Cristiano, a ciascuna delle quali si riferisce una maniera di risurrezione. E le vite da noi distinte furono: 1 la vita naturale che consiste nell' unione dell' anima col corpo; 2 la vita eucaristica; 3 la vita spirituale di Cristo viatore, che consiste per Cristo nell' unione teandrica dell' uomo con Dio, e pel Cristiano nella partecipazione della grazia di Cristo, per la quale l' uomo non solo percepisce il Verbo ma vi acconsente e vi aderisce colla sua volontà, ancora vivente della vita naturale; 4 la vita gloriosa cominciata per Cristo dopo la sua risurrezione e completata dopo la sua ascensione al Cielo, e che comincierà pel cristiano dopo la resurrezione del suo corpo. La terza e la quarta di queste vite, sono una sublimazione soprannaturale della prima, o, per dir meglio, hanno la prima per loro base e quasi subietto: la seconda, cioè l' eucaristica, è una vita miracolosa e misteriosa. Ciò premesso, per risurrezione nelle divine scritture s' intende: Talora quello che accade per la fede e pel battesimo che restituisce all' uomo la terza delle vite enumerate, cioè la vita della grazia. L' uomo, che nasce dal mal seme di Adamo, nasce corrotto, peccatore; e però si dice morto, cioè privo della vita spirituale. Egli ha bensì la vita naturale, ma soggetta irreparabilmente alla morte, di cui porta i germi in se stesso, e quindi egli non ha che una vita inutile al conseguimento del suo fine che è l' immortalità. Perduta la vita naturale, egli si rimarrebbe morto per sempre: l' anima sua cadrebbe in quello stato di tenebre e d' inazione che abbiamo descritto. L' uomo, che si fa Cristiano ricevendo il Vangelo, depone ogni sua confidenza nella sua vita naturale e corrotta, e si tiene rispetto a questa per morto, ponendo tutto il suo bene e il suo affetto nella nuova vita che egli acquista incorporandosi a Cristo, e vivendo della vita di Cristo. Questo è quello che insegna S. Paolo in quelle parole: [...OMISSIS...] L' immersione nelle acque battesimali rappresenta, secondo l' Apostolo, la morte dell' uomo naturale7corrotto, la morte del peccato. Perocchè Gesù Cristo colla morte del suo corpo naturale7innocente acquistò, come abbiamo veduto, il diritto di giustificare gli altri uomini, pei peccati dei quali la divina giustizia rimaneva soprabbondantemente soddisfatta; acquista il diritto di unirli a sè, com' egli tanto bramava a cagione della generosa sua carità, e quindi di fare che l' uomo morto alla vita soprannaturale risorgesse a questa vita formando un solo corpo con esso lui: e questo risorgimento è simboleggiato dall' uscita dell' acqua, in cui l' uomo era stato immerso quasi in sepolcro. Di che l' Apostolo deduce che l' uomo dee fare gli atti propri della vita nuova, non più dell' antica già deposta, [...OMISSIS...] E fa intendere che in questa vita spirituale noi abbiamo la caparra della futura resurrezione de' nostri corpi: perocchè Cristo, che è in noi, è risorto; onde anche noi risorgeremo alla vita naturale sublimata alla gloria quando deporremo la presente nostra vita naturale7corrotta, che noi dobbiamo già riguardare come morta e vivere come già fossimo risorti anche corporalmente: [...OMISSIS...] E come Cristo morì una volta della morte naturale, e oggimai più non muore; così noi morti al peccato viviamo di vita perenne: [...OMISSIS...] Anche l' Apostolo S. Pietro attribuisce il morir nostro al peccato alla morte di Cristo, e il nostro risorgimento alla vita della grazia ce lo rappresenta come un effetto della risurrezione del Signor nostro, colla quale gli fu dato il diritto di distribuire agli uomini la vita spirituale, germe della futura risurrezione de' loro corpo. E paragona il battesimo alle acque del diluvio, quando nell' arca « « pauci, idest octo animae, salvae factae sunt per aquam » ». E soggiunge: « « Quod et vos nunc similis formae salvos facit baptisma: non carnis depositio sordium, sed conscientiae bonae interrogatio in Deum per resurrectionem Jesu Christi, qui est in dextera Dei, deglutiens mortem ut vitae aeternae haeredes efficeremur, profectus in coelum, subjectis sibi angelis, et potestatibus, et virtutibus »(1). » La differenza fra la vita spirituale e la vita che il cristiano viatore riceve dalla percezione della santissima Eucaristia sta primieramente in questo, che nel battesimo egli acquista la percezione iniziale del Verbo, che lo segna col carattere indelebile, onde fluisce la grazia dello Spirito Santo se non trova ostacoli; e questa maniera di vita gli è comunicata dall' umanità di Cristo per un segreto contatto del suo corpo vivente e glorioso colle acque nell' atto che il battezzatore proferisce le parole, forma del Sacramento. Perocchè, come diremo in appresso, il corpo di Gesù Cristo emana una virtù vitale col solo suo contatto, e questo basta per legare a sè ed incorporare con una comunicazione di vita gli uomini. Laddove nell' Eucaristia l' uomo, incorporato già e vivente di Cristo, non gode del solo contatto invisibile e misterioso del corpo di Cristo, che comunica all' acqua quella virtù vivificatrice onde l' uomo vive di Cristo; ma l' uomo riceve in se stesso tutto l' Autor della grazia, il suo corpo e il suo sangue, e con essi insieme la sua anima e la sua divinità, in forma di alimento. E come l' alimento diviene nostro sangue e nostra carne, così avviene del corpo e del sangue di Cristo sotto gli accidenti del pane e del vino, sicchè un medesimo termine di sentimento e di vita corporea abbiamo noi ed ha Cristo; onde, come da fonte di ogni vita e di ogni grazia, ogni vita ed ogni grazia possiamo derivare. La seconda differenza si è che quell' uomo, che si nutre di questo cibo divino e lo fa suo alimento, non è l' uomo vecchio, ma l' uomo nuovo: è quest' uomo nuovo che, contenendo la virtù della vita di Cristo a sè comunicata colla fede e col battesimo, può mediante questa virtù alimentarsi di Cristo, cioè rendere termine del proprio principio vitale la carne ed il sangue di Cristo. Perocchè, come nella nutrizione comune se non vi avesse nell' anima, cioè nel principio senziente, nel principio soggettivo, la virtù nutritiva, non potrebbe rendere il cibo, preso per bocca, sua propria carne viva, e suo proprio vivo sangue, e non si direbbe che fosse un vero mangiare, un vero alimentarsi, come non è mangiare, non è alimentarsi quello d' una macchina inanimata (per esempio delle macine del mulino) che prende e stritola e fa passare da sè delle sostanze che rispetto agli animali si dicono alimentari; così del pari nella nutrizione eucaristica, se chi la prende non ha già la vita di Cristo, o per non essere battezzato o per essere attualmente morto alla grazia a cagione di peccati attuali, egli può premer bensì col dente le specie eucaristiche, secondo la frase di S. Agostino; riceve bensì il corpo e il sangue reale di Cristo dentro se stesso sotto il velame delle specie; il pane ed il vino consecrato passa per il suo corpo come per una macchina; riceve gli effetti fisici delle specie, ma non si nutre di quello che sta sotto le specie, non si nutre, non si alimenta, non s' impingua dello stesso corpo e dello stesso sangue di Cristo, e però propriamente il suo non è un mangiare la carne e bere il sangue del Salvatore. E però Gesù Cristo adopera queste parole di mangiare e di bere solo per indicare la manducazione e la bibita che fanno del Sacramento augustissimo le anime giuste, che se ne rincarnano e rinsanguinano veramente. Onde dice « Panis enim Dei est qui de coelo descendit, et dat vitam mundo (1), » e ancora: « Si quis manducaverit ex hoc pane vivet in aeternum (1). » Onde colui che non vive della vita eterna, egli è segno che non ha mangiato questo pane, benchè l' abbia materialmente ricevuto nella sua bocca, e fatto passare pe' suoi visceri. Dice ancora, per dimostrare la cooperazione dell' uomo alla nutrizione eucaristica, « Operamini non cibum qui perit, sed qui permanet in vitam aeternam, quem Filius hominis dabit vobis (2). » All' incontro il battesimo non suppone la vita, ma dà la vita a chi non l' ha ancora: perocchè il ricevere la vita non è un' opera del principio vitale, com' è la nutrizione, ma quella viene all' animale e all' uomo dal di fuori per una operazione anteriore al nuovo vivente ch' ella produce. Quindi se del battesimo è proprio ufficio il dare la vita di Cristo all' uomo che non l' ha ancora, onde si chiama generazione o nascita spirituale; egli è proprio effetto dell' eucaristia il conservarla, come faceva il frutto dell' albero della vita, e l' accrescerla, rendendo l' uomo bambino adulto e gagliardo, onde si paragona alla nutrizione o alimentazione. Quindi, il ricevimento dell' eucaristia non si dice un risorgere. Ma nondimeno la vita eucaristica ha il suo proprio risorgimento, e questo avviene quando l' uomo muore. Perocchè l' anima separata dall' uomo che muore riceve dalla vita eucaristica quella unione perenne con Cristo glorioso di cui disse Cristo: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem in me manet et ego in illo (3); » e la quale, alla morte, presta « quel lume di gloria », di cui parlano i teologi, che rende l' anima atta a vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo e quindi a fruire della eterna beatitudine. Questo è quello che promette Cristo in quelle parole: « Qui manducat meam carnem et bibit meum sanguinem habet vitam aeternam, et ego resuscitabo eum in novissimo die (4). » Egli ha la vita eterna, e tuttavia si promette che sarà resuscitato. Che bisogno di essere resuscitato ha colui che già vive, ed eternamente vive, perchè ha mangiato la carne e bevuto il sangue di Cristo? Egli vive, ma in questo secolo vive d' una vita nascosta, la quale si manifesta luminosissima solo alla morte, quando è tolto dagli occhi dell' anima il velame della carne corrotta, velame significato nel velo dell' antico tempio che impediva ai fedeli la vista e l' ingresso del Sancta Sanctorum . Onde, quando morì Gesù Cristo, questo velo fu scisso, perchè, entrato una volta in esso Sancta Sanctorum il nuovo ed eterno Pontefice secondo l' ordine di Melchisedecco, potevano e dovevano necessariamente entrarvi tutti coloro che con esso formavano una cosa, secondo il suo benigno decreto: [...OMISSIS...] Ora quell' anime, benchè separate dal corpo, le quali sono una cosa nel Figliuolo e nel Padre [...OMISSIS...] ; quelle in cui è il Figliuolo [...OMISSIS...] ; quelle che Gesù Cristo vuole che sieno là appunto dov' egli si trova al cospetto della nuda e svelata faccia di Dio [...OMISSIS...] , quelle che debbono vedere la gloria di Cristo [...OMISSIS...] , certo debbono altresì vedere Iddio faccia a faccia insieme con Cristo, partecipando della vita gloriosa di Cristo. Il passaggio da questa vita alla futura è dunque per costoro una vera risurrezione, e però s' adempie nel Nuovo Testamento, colla morte di Cristo, quanto egli aveva detto a Marta: « Ego sum resurrectio et vita; qui credit in me etiam si mortuus fuerit vivet (2). » Cristo disse di chi mangierà il suo corpo e berrà il suo sangue ch' egli lo risusciterà nell' ultimo giorno [...OMISSIS...] Ora vi hanno due giorni ultimi: l' ultimo giorno dell' uomo, e l' ultimo giorno del mondo. Cristo gli abbraccia entrambi col suo detto, e quindi egli accenna a due resurrezioni come effetto del cibo eucaristico: a quella che avverrà all' uomo fedele, tosto che sarà spirato e avrà deposto il peso della sua carne mortale; e a quella che avverrà nella fine dei secoli quando gli sarà restituita una carne gloriosa. Gesù Cristo ne' passi più sopra allegati tutto attribuisce alla fede. Egli prega per quelli che credituri sunt, vuole che questi sieno là dove è egli medesimo. Egli dice [...OMISSIS...] Attribuisce dunque alla fede, di cui egli è autore e consumatore (4), non a qualunque fede, quello stesso che attribuisce altrove alla manducazione ed alla bibita della sua carne e del suo sangue; e tuttavia dice che senza di questa non si può aver la vita in se stessi: [...OMISSIS...] Conviene dunque dire che chi ha la fede in Gesù Cristo mangi la sua carne e beva il suo sangue: perocchè senza di questo non possono aver la vita in se stessi; quando pure è certo, per testimonianza di Cristo, che « omnis qui videt Filium et credit in eum habet vitam aeternam . » Ma non tutti quelli che ebbero la fede in Cristo mangiarono, durante la lor vita mortale, del Figliuolo dell' uomo, nè bevvero il suo sangue: non la mangiarono tutti que' credenti che morirono prima dell' istituzione del Santissimo Sacramento dell' altare; molti, anche dopo questa istituzione, morirono nella fede di Cristo senza poterla ricevere. Convien dunque dire, che essi mangino la carne del Figliuolo di Dio e bevano il suo sangue dopo morti, e per esso risuscitino alla vita eterna. Gesù Cristo adunque parla prima della Fede, e poi del cibo eucaristico, per comprendere nel suo discorso anche tutti i santi dell' antico testamento, e tutti i credenti sparsi per le nazioni in tutti i tempi. Perocchè tutti questi si salvarono per la fede in Cristo venturo, o in Cristo già venuto. Onde l' Apostolo: « Fide intelligimus aptata esse saecula Verbo Dei, ut ex invisibilibus visibilia fierent (6): » cioè, acciocchè le cose invisibili, che sono l' oggetto della fede, la mercede promessa e la gloria futura, si avverassero, si adempissero e divenissero visibili, non più oggetto di fede, ma di visione e di esperienza. Di che soggiunge: [...OMISSIS...] Laonde troppa ragione aveano gli antichi santi di riporre la loro fiducia e speranza, non nella immortalità naturale dell' anima separata che non avrebbe potuto dare a se stessa nè luce nè azione, ma bensì nella risurrezione che avrebbe loro dato Iddio per Gesù Cristo, cioè nella restituzione di una vita ed attività soggettiva, in un termine nuovo del loro principio sensitivo e soggettivo, giacchè senza un termine reale non si dà, propriamente parlando, una vita attuale. In questa risurrezione delle loro anime li fa sperare S. Paolo, e non in altro. [...OMISSIS...] E pur que' santi dell' antico testamento dovevano rimanere colle loro anime separate lungamente nello stato di tenebre e d' inazione, cioè fino al tempo in cui Gesù Cristo avesse istituito il mistero della risurrezione, cioè il sacramento del suo corpo e del suo sangue, ed egli fosse entrato nel suo regno, perocchè dovevano essere perfezionati alla vita insieme con noi, dice l' Apostolo. [...OMISSIS...] « Deo pro nobis melius aliquid providente , » dice l' Apostolo; perocchè noi, che Iddio predestinò a vivere nel tempo della grazia del Salvatore, quando usciamo dalla vita presente senza macchia di peccato, siamo tantosto resuscitati alla vita eucaristica e gloriosa, e per questa vita vediamo Iddio; nè l' anime nostre separate hanno ad aspettare, come quelle degli antichi giusti, ad essere ammesse alla gloria. Oltre di ciò noi, oltre altri vantaggi sopra gli antichi, ancora in questa vita mangiamo il corpo e beviamo il sangue del Signore, e così abbiamo in noi quell' eterna vita, che alla morte nostra si rivela con luce fulgidissima, e che veniva simboleggiata da quelle faci che Gedeone aveva fatte nascondere ai trecento dentro a vasi di creta, rotti i quali esse apparirono (5). Quindi la Chiesa cattolica dà il nome di Viatico alla santissima Eucaristia che ricevono i moribondi, ed essi, quando il possano, ne tiene obbligati, acciocchè morendo abbiano quella vita eterna in se stessi, che è il germe della subitanea resurrezione delle loro anime, tostochè sono divise da' corpi. Il che dimostra che non convien troppo scrupoleggiare nel concedere la ripetizione del Viatico all' infermo che sopravvive qualche tempo, dopo averlo ricevuto la prima volta. E questa è altresì, oltre l' altre, una ragione che persuade a' Cristiani la frequente comunione che li tiene di continuo preparati alla venuta dello sposo, come le vergini prudenti (1), facendogli avere continuamente in sè quella vita che si manifesta nell' ora della loro morte. Il sacrosanto Concilio di Trento parla espressamente del convito celeste dell' anime separate, il quale viene pure espresso negli antichi monumenti cristiani, per indicare la beatitudine che gode l' anima in cielo; e sembra che il citato Concilio si giovi di questa ragione appunto per raccomandare a' fedeli la venerazione e l' uso della santissima eucaristia, o almeno che vi faccia allusione. Perocchè egli s' esprime così: [...OMISSIS...] Sulle quali notabilissime parole del sacrosanto Concilio egli è uopo che noi facciamo alcune riflessioni. Egli adopera la parola mangiare, tanto riferendola all' assunzione del corpo di Cristo in questo mondo, quanto riferendola a ciò che si farà in cielo dall' anime separate da' corpi: egli ammette adunque una manducazione del corpo di Cristo nell' altra vita che darà la beatitudine. Egli dice che le anime nostre, passate da questa vita senza macchia o purificate nel fuoco, saranno ammesse a cibare lo stesso pane degli angeli, che relativamente mangiano i viatori in terra . Cristo adunque nella vita futura si unirà alle anime in modo simile a quello col quale il cibo si assimila ed unisce di presente all' anime nostre divenendo nostra carne e nostro sangue. Non dice il Concilio semplicemente che nel celeste regno saremo uniti a Cristo, goderemo di Cristo, ma dice che lo mangeremo, e lo mangeremo siccome pane, cioè al modo del cibo, e che sarà lo stesso pane eucaristico che ora mangiamo in terra, [...OMISSIS...] Che anzi l' essere questo pane chiamato celeste nelle Scritture, del quale io intendo quel luogo di S. Paolo « Gustaverunt etiam donum coeleste (1) » e in figura, della manna è detto « Januas coeli aperuit, et pluit illis manna ad manducandum, et panem coeli dedit eis: panem angelorum manducavit homo (2) » nel libro poi della Sapienza, tutto applicabile più veramente all' Eucaristia che alla manna, si legge: [...OMISSIS...] e ne' tanti altri luoghi delle divine Scritture l' Eucaristia figurata nella manna è chiamata pane del cielo (4). Convien dunque dire che nel cielo si mangi questo cibo divino. E Cristo lo dice ancora più chiaramente parlando di que' servi fedeli che saranno trovati vigilanti alla venuta del loro Signore, per la quale s' intende da' Padri la morte: « Beati servi illi, quos cum venerit Dominus invenerit vigilantes. Amen dico vobis quod praecinget se, et faciet illos discumbere, et transiens ministrabit illis (5). » Questo è il convito che si fa ai Cristiani, che muojono giustificati, in cielo subito dopo la loro morte, e all' anime che escono pure d' ogni macchia dal fuoco del purgatorio. Cristo è quello che ministra alla mensa, come fece in terra co' suoi discepoli, ed è il cibo stesso ch' egli amministra. Ma perchè dice ministrerà il Signore a que' servi fedeli in passando? Questa misteriosa parola indica la risurrezione di cui parliamo, che avviene all' anima mondata subito dopo aver deposta la soma terrena, perchè Cristo nell' Eucaristia dall' essere suo nascosto, sub sacris velaminibus, come dice il Concilio di Trento, si apre e manifesta ed è mangiato absque ullo velamine . Al qual passaggio di Cristo, qual cibo, da uno stato nascosto ad uno stato palese risponde quella risurrezione dell' anima di cui dice Cristo che passa dalla morte alla vita [...OMISSIS...] E le due risurrezioni, cioè questa e la finale, sono distintamente annunziate da Cristo in questo luogo; perocchè, dopo aver detto che chi crede al Padre che lo ha mandato ha l' eterna vita e passa dalla morte alla vita, tosto aggiunge dell' altra resurrezione finale: « Amen, amen dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mortui audient vocem Filii Dei: et qui audierint vivent (2). » E dice che già allora i morti udivano la voce del Figliuolo di Dio, et nunc est, benchè non dica che già allora risorgessero, ma che viveranno, et qui audierint vivent; perocchè a' santi defunti venne comunicata gradatamente la salute e la grazia di Cristo per que' gradi stessi pe' quali venivano comunicate agli uomini viventi in terra ne' giorni della vita terrena del Salvatore: onde alla predicazione di Cristo la luce uscente dalla sua parola dee essere splenduta altresì a quelli che erano al limbo. La parola transiens s' avvera ancora in un altro modo. Cristo nell' eucaristia passa pe' nostri corpi, come passa il cibo; e un simigliante passaggio, benchè continuo, è credibile che avvenga rispetto all' anime separate venendo in tal modo esse continuamente refocillate da nuovo cibo divino. Onde la parola pasqua, che viene a dire passaggio per indicare il passaggio dell' Angelo, che non sommise alla morte, ma lasciò in vita tutti quelli che avevano tinti gli stipiti delle loro abitazioni col sangue dell' agnello. Allo stesso modo, essendo tutti gli uomini condannati alla morte, l' Angelo della morte non può nulla su quelli che sono vitalmente incorporati a Cristo, perchè ognuno che crede, benchè muoja della morte naturale, pure non muore assolutamente parlando, ma transit a morte in vitam . Così la pasqua degli Ebrei è un segno parlante dell' Eucaristia. Ma qui si presenta una difficoltà sulla denominazione di pane degli Angeli data al cibo eucaristico. Gli Angeli non mangiano, non si nutrono di cibo come gli uomini. Come dunque si può dire che Cristo, la carne ed il sangue di Cristo, si renda cibo de' puri spiriti? E` vero che gli Angeli sono spiriti puri, ma essi hanno nulladimeno una relazione e un' azione sui corpi. Come i corpi sono il termine attivo della vita animale, di maniera che il principio sensitivo riceve da essi un' azione, per la quale egli ha il suo atto di sentire e di essere; così i medesimi corpi sono un termine passivo degli Angeli, di maniera che dagli Angeli essi corpi ricevono quell' attività per la quale possono agire nel principio della vita sensitiva corporea. Quindi gli Angeli possono benissimo esser congiunti al loro modo al corpo eucaristico di Cristo, ad un modo che non è certamente il mangiare dell' uomo, ma che, corrispondendo esattamente ed analogicamente al mangiare e all' alimentarsi dell' uomo, può colla stessa parola denominarsi, non avendo l' uomo altre parole, per significare quanto appartiene alle sostanze pure che non cadono sotto la sua esperienza, se non le analogiche che la propria esperienza gli somministra. Perocchè questa espressione cibo degli Angeli dee avere una verità, e non essere una pura imaginazione degli Ebrei, che, vedendo cadere la manna dal cielo, la dissero cibo degli Angeli che stanno in cielo, e un' imaginazione sarebbe per la manna, ma non pel vero pane celeste che da un altro cielo spirituale discese, e per ragione del quale Iddio permise che così gli Ebrei concepisser la manna, e questo si conservasse scritto ne' libri divini. Può ancora considerarsi che la parola Angelo, che significa mandato, non accenna alla natura ma all' ufficio, onde Angelo è detto nella divina scrittura S. Giovanni Battista, Angeli i Vescovi delle Chiese (1), Angelo del testamento Gesù Cristo medesimo in questo luogo di Malachia: « Ecce ego mitto angelum meum, et praeparabit viam ante faciem meam. Et statim veniet ad templum suum Dominator, quem vos quaeritis, et Angelus Testamenti, quem vos vultis (2). » Il qual Profeta dice pure del Sacerdote: « Labia enim Sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore ejus, quia Angelus Domini exercituum est (3). » Ora il pane ed il vino eucaristico è soprattutto il cibo del Sacerdote, a cui dalla Chiesa venne riserbato in proprio il calice, specialmente essendo profetato dell' eucaristico cibo in questo modo: « Quid enim bonum ejus est, et quid pulchrum ejus, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines? (4). » Qui si farà da alcuno questa difficoltà. Ond' è che la Chiesa cattolica raccomanda sì caldamente di ricevere nell' ore estreme il Corpo di Cristo? Questo vien dato dopo la morte a tutti i giusti, in quella maniera misteriosa ed ineffabile che l' umana lingua non può a pieno spiegare, eziandio che non lo ricevessero prima di morire. La risposta si contiene nella stessa denominazione di Viatico che la Chiesa dà all' eucaristico nutrimento preso dagli infermi vicini a morte. E il Tridentino sopracitato lo dichiara assai nettamente con quelle parole: « et is vere eis sit animae vita ed perpetua sanitas mentis, cujus vigore confortati ex hujus miserae peregrinationis itinere ad coelestem patriam pervenire valeant . » Il passo di questa all' altra vita, che l' uomo fa colla morte, quant' è pericoloso, altrettanto è rilevantissimo, perchè da quello dipende l' eterna condizione dell' anima, onde niun mezzo si dee dell' uomo trascurare per averne ajuto e conforto. E di tutti validissimo è l' ajuto e il conforto del cibo eucaristico, del quale fu simbolo il pane e l' acqua recato dall' angelo al profeta Elia fuggente da Acabbo, di cui è scritto [...OMISSIS...] E veramente l' uomo non ha altra fortezza nè altra vera vita che quella che gli viene da Cristo, dall' essere incorporato a Cristo, dal vivere della vita di Cristo, dall' aver Cristo in se stesso. E la vita di Cristo, di cui l' uomo partecipa cibandone il corpo sacratissimo, è tanto potente che rimonda l' uomo da' peccati veniali e dagli stessi mortali, quando egli ne sia pentito, e non avendone coscienza, o non potendoli sottomettere al potere delle Chiavi, ne vada ancor debitore; perchè quella vita repelle e caccia da sè ogni impedimento, a meno che non osti la mala disposizione della volontà dell' uomo, per la quale disposizione malvagia l' uomo riceve il cibo divino senza riceverne tuttavia la vita. Si ponga oltracciò l' attenzione del pensiero in quelle parole del Tridentino « ut is vere eis sit animae vita . » E` chiamato vita non del corpo, ma dell' anima; avendo anche l' anima quella specie di morte naturale di cui abbiamo parlato, oltre la morte del peccato. Sicchè gli antichi giusti che non ebbero il vantaggio della Eucaristia, sostennero quello stato simigliante ad una morte dell' anima, nel quale, come abbiamo detto, si trovavano nel limbo in aspettazione di Cristo che li facesse risorgere. Ma anco fra i Cristiani, che muojono giustificati, si può credere che v' abbia una differenza secondo che muojono con aver ricevuto il Viatico o senza averlo ricevuto, non solo pel grado maggiore di santità e di unione col fonte della santità di cui quelli si vantaggiano, ma altresì rispetto alla condizione della loro morte. E per dare maggior luce a questo concetto, distinguiamo tre casi: 1 quelli che muojono col solo desiderio del battesimo senza averlo ricevuto realmente; 2 quelli che muojono giustificati dopo ricevuto il battesimo senza aver tuttavia ricevuto il Viatico; 3 quelli che muojono giustificati dopo aver ricevuto il Viatico. Egli è certo e ben definito che tutti e tre si salvano. Tuttavia i primi, che hanno un diritto alla vita, hanno la vita di diritto ma non ancora di fatto, e però passano in certo modo per quello stato di morte naturale dell' anima, dal quale incontamente vengono resuscitati da Colui che disse: « Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me eziandio che sia morto vivrà », e questi sono simili agli antichi giusti, colla sola differenza che gli antichi giusti rimasero lungamente in quello stato, laddove essi non fan che passarci istantaneamente. I secondi, che muojono rinati dall' acqua e dallo Spirito Santo, hanno di diritto e di fatto la vita dell' anima, ma non partecipano che inizialmente alla vita di Cristo, benchè rechino seco il diritto di entrare in possesso pienissimo di quella vita. Laonde, deposto che abbiano il corpo, essi non passano neppure per un istante per quello stato di morte naturale dell' anima, ma passano per quello stato di vita iniziale qual è quella che hanno ricevuto nel battesimo e che portano seco, dal quale Cristo immantinente sollevandoli dà loro la vita piena. I terzi, finalmente, avendo ricevuto Cristo effettivamente prima di morire, non soffrono che la morte del corpo, e nell' altra vita si trovano già con quella pienezza di vita che altro non esige se non d' illuminarsi e di manifestarsi, senza che l' anima loro passi per alcun grado inferiore. Rimane ora a dichiarare come, laddove gli uomini viatori cibano il corpo ed il sangue di Cristo che rimane loro occulto e velato, i comprensori celesti si nutrano dello stesso divino alimento senza che alcun velo ne contenda loro la vista [...OMISSIS...] Gesù Cristo, deposta la vita mortale e seppellito il divino suo corpo, poscia risorto, coll' ascensione al cielo si tolse agli occhi degli uomini. L' uomo, incorporato in Cristo, partecipa di tutte le vicissitudini di Cristo, e quindi è morto e seppellito e risorto e salito al cielo in ispirito con Cristo, come membro di Cristo. Il che egli fa colla vita interiore e novella da lui acquistata, venendogli impedito dal farlo compiutamente e corporalmente dall' ostacolo dell' uomo vecchio fino a tanto ch' egli vive ancora della vita adamitica e non ha deposto il corpo mortale; non ha ricuperato il nuovo e glorioso coll' ultima risurrezione: onde al presente dee fare tutte queste cose mediante la fede di cui vive (1), per la quale egli le fa senza averne la piena consapevolezza, e la chiara visione. Quindi la vita dei Cristiani che è in Cristo viene chiamata da S. Paolo vita nascosta . La qual vita si manifesterà, s' animerà di un vivissimo sentimento, brillerà d' una luce ineffabile, primieramente alla morte del corpo, quando avviene la prima resurrezione, che è quella dell' anima; poscia alla ricuperazione del corpo nostro proprio glorioso nella fine dei secoli, che sarà la seconda resurrezione. « Igitur, » così il Vaso d' elezione, « si consurrexistis cum Christo, quae sursum sunt quaerite, ubi Christus est in dextera Dei sedens: quae sursum sunt sapite, non quae super terram. Mortui enim estis, et vita vestra est abscondita cum Christo in Deo. Cum Christus apparuerit, vita vestra; tunc et vos apparebitis cum ipso in gloria (2). » Il che viene a dir così: Cristo il quale si tiene in voi è la vostra vita. Ma Cristo è nascosto presentemente all' esperienza de' vostri sensi, perchè questi sensi guasti e materiali non sono degni nè atti di vederlo o percepirlo, perchè non sono degni nè atti di vedere Iddio in cui è Cristo, nè è degna o atta di vederlo quella vita, quell' anima che dee presiedere a tali sensi: quindi Cristo, nostra vera vita, è nascosto al presente in Dio, alla cui destra egli siede. Tuttavia voi vivete, benchè non abbiate la consapevolezza di tutti i tesori che in quella vita, quasi involuti a forma di germe, sono nascosti e che debbono poi apparire in voi d' improvviso, quando vi apparirà in tutto il suo splendore. Dunque avete bisogno di credere tutto ciò, di credere alla vostra vita, di aspettarne la sfolgorante manifestazione: dovete altresì condurvi consentaneamente alla vostra vita immortale ed eterna: dovete rinunziare coll' affetto della volontà e colla stima alla vostra vita naturale e corrotta destinata alla morte, quasi morti con Cristo ed in Cristo, e non cercare, non assaporare se non le cose celesti, cioè a dire Cristo che siede alla destra del Padre in cielo e le cose tutte di Cristo, aspettando la meravigliosa manifestazione di Cristo in voi che vi è promessa. Onde in altro luogo dice [...OMISSIS...] E altrove l' Apostolo vuole che abbiamo fiducia nell' ingresso al Sancta Sanctorum, che è la parte più santa del tempio antico simboleggiante il cielo, dove Iddio e Cristo a noi si svela e la nostra vita occulta si manifesta: ingresso che ci fu aperto col sangue di Cristo, e del quale la carne mortale di Cristo era come il velo pendente che ne toglieva la vista; deposta la qual carne, quel velo è tolto, e noi possiamo entrare, purchè deponiamo anche noi la nostra carne, come ha fatto Cristo, la cui carne era innocente e solo per sua volontà ebbe condizione mortale e passibile, per aver voluto assomigliarsi a noi, la cui carne materiale, non solo mortale ma corrotta, è veramente un velo che impedisce l' ingresso e la vista del luogo santissimo: [...OMISSIS...] Cristo adunque incominciò egli a battere questa via nuova e vivente (perchè anche mentre siamo in sulla via viviamo ), che conduce nel più segreto ed augusto luogo del Santuario, per la quale c' invita ed esorta l' Apostolo di metterci. Di questa « vita nascosta con Cristo in Dio », di cui in questa terrena peregrinazione vive il cristiano, accenna ancora S. Pietro quando favella di quell' eredità preziosissima che si conserva nei cieli pe' fedeli, e che sta pronta per rivelarsi e manifestarsi luminosamente quando finirà la vita di ciascuno, e più pienamente ancora quando finirà il mondo: [...OMISSIS...] pel quale ultimo tempo s' intende non meno quello che è ultimo a ciascun uomo, che è il giorno della morte, quanto quello che è ultimo al mondo, che è quello della finale risurrezione. Vi ha dunque l' eredità immarcescibile conservata in cielo per noi [...OMISSIS...] , colassù palese, a noi ora nascosta: la quale eredità è Cristo, rispetto ai viatori invisibile, rispetto ai comprensori visibile e fulgente; sicchè, quando a noi pure apparirà tale, saremo manifestamente in Cielo. Ora, prima che noi entriamo ad investigare in che consistano i veli che di presente ci avvolgono il cibo eucaristico, e qual cangiamento nasce in noi alla remozione di tali veli; prima che ci facciamo a cercare quanto di questo sublime argomento sia dato a noi di conoscere, è prezzo dell' opera che noi tocchiamo quello che ci insegnano le divine lettere sul progressivo incremento della vita divina ed eterna degli uomini. Perocchè noi abbiamo veduto che anche quelli, che precedettero Cristo, vissero « sub testamento aeternae vitae (1), » anche dopo deposta la soma mortale; onde l' Iddio dei Patriarchi è Iddio de' viventi e non de' morti. Giova dunque dichiarare, quanto a noi è dato, la gradazione di queste vite. S. Paolo insegna che tutti i viatori vivono di fede, e la fede non è delle cose apparenti, ma di quelle che non cadono sotto il nostro sentimento. Ma la fede non è già pura tenebra, ma ella ha ancora della luce, la quale si fa piena allorchè nell' altra vita, cessando interamente la fede, sottentra la piena e lucidissima visione. Fino che questo non avvenga, gli uomini sulla terra possono avere ed ebbero una fede mescolata di maggiore o minor lume di sentimento divino, vi ha fede e cognizione insieme; cose che assai spesso S. Paolo congiunge; per esempio scrivendo a Tito si dice nel saluto apostolico di Cristo, « secundum fidem electorum Dei, et agnitionem veritatis, quae secundum pietatem est (2). » Per il che lo stesso S. Paolo distingue quasi più maniere di fede là dove dice: « ex fide in fidem (3). » « La giustizia di Dio, dice, si rivela nell' Evangelio di Cristo di fede in fede », quasi l' uomo passi per esso da una fede all' altra, da una fede di minor luce ad una fede di luce maggiore. Così il giusto gentile e il giusto giudeo, aderendo alla predicazione del cristianesimo, passarono d' una fede più oscura ad un' altra fede più lucente, perocchè nè anche il gentile poteva esser giusto senza credere. Laonde, non solo rispetto a' gentili, ma ben anco rispetto agli ebrei, la nostra fede è chiamata luce, chiarezza, gloria da S. Paolo, il quale anzi non dubita di scrivere così: « Nos vero omnes, revelata facie gloriam Domini speculantes, in eandem imaginem transformamur a claritate in claritatem tamquam a Domini spiritu (1) » nel qual luogo Giovanni Diodati traduce il vocabolo speculantes [...OMISSIS...] « contemplando come in uno specchio », che risponde ottimamente a quello: « videmus nunc per speculum (2). » E questa eccellenza, questa maggior luce della fede cristiana, sopra quella di coloro che erano avanti Cristo, consiste principalmente in questo: che nell' antico tempo, Cristo non essendo ancor venuto al mondo, non poteva operare colla sua umanità divina sulla nostra umanità e comunicarci, coll' unione fisica, benchè invisibile ed ineffabile, di lui a noi, parte di quella vita di cui gode egli stesso, e così ravvivare la nostra vita soggettiva. La qual comunicazione della vita umana divinizzata in Cristo mancava pure ad Adamo nello stato dell' innocenza; quindi un' altra differenza del carattere di Adamo, se così vogliamo chiamarlo, dal carattere dei Cristiani; perocchè quello non era che oggettivo, cioè la percezione iniziale del Verbo divino, ma questo, oltr' essere oggettivo, è anche soggettivo, perché è la percezione di Cristo oggetto come Verbo, soggetto come uomo . Vero è che il Verbo è l' oggetto ad un tempo persona, e anco la persona del Verbo può esser data all' uomo da percepire, ma soltanto alla mente, e però solo in modo oggettivo. Può bensì il Verbo assumere a sè la natura umana in un individuo, ma questa è l' incarnazione, nella quale la persona stessa del composto è la persona divina; com' è avvenuto in Cristo, nel quale il soggetto umano non è persona, giacchè la persona è il supremo principio operativo d' un individuo, e il supremo principio operativo in Cristo fu il Verbo. La persona divina adunque del Verbo, come a me pare, non può comunicarsi in modo soggettivo ad un individuo dell' umana natura se non incarnandosi in esso. All' incontro l' umanità di Cristo, per la virtù divina di cui è informata, poteva operare fisicamente e in modo soggettivo sull' umanità nostra, come un amico agisce sull' amico, e uno sposo sulla sposa; e la vita di Cristo come uomo assunto dalla divinità poteva operare sulla vita nostra soggettiva, e aggiungerle del suo vigore e della sua propria vitalità; perchè la vita si comunica, come si vede nella generazione, nella nutrizione, e meno palesemente in altri fenomeni ancora, specialmente in quelli dell' amore. Ora dal Verbo oggettivamente percepito può promanare in qualche modo lo Spirito: ma l' effetto di questo spirito sembra dover essere limitato a rendere il bene amabile all' intelletto; non a rinforzare e muovere immediatamente le facoltà inferiori operative soggettive. Laddove, per la congiunzione di Cristo a noi, per l' unione a noi del Verbo incarnato, cioè non meno del Verbo che dell' umana natura assunta dal Verbo, tutte le nostre potenze sono ad un tempo sollevate, corroborate, divinizzate, non solo le oggettive, ma le soggettive ancora. Il che è una notabilissima differenza fra la grazia di Adamo innocente e quella del Cristiano, cioè dell' uomo rinato in Cristo. E di questa vita soggettiva, a noi comunicata dalla vita umana7divina di Cristo, sono quelle parole di S. Paolo « in eamdem imaginem transformamur: » perocchè, come altrove dice: « Vivo autem, jam non ego, vivit vero in me Christus (1). » Altrove: « Mihi vivere Christus est (2). » Ed agli Ebrei: « Participes enim Christi effecti sumus: si tamen initium substantiae ejus usque ad finem firmum retineamus (3): » dove, quantunque il greco non dica substantiae ejus, ma solamente substantiae [...OMISSIS...] , tuttavia ottimamente la Volgata traduce substantiae ejus, apparendo, che si parla dall' Apostolo della sussistenza o sostanza di Cristo in noi, dalle prime parole del versetto: « participes enim Christi effecti sumus . » Per la partecipazione adunque della vita umana7divina di Cristo noi ci trasformiamo nella stessa imagine di Cristo, ci trasformiamo in qualche modo in Cristo, diveniamo in un certo senso altrettanti Cristi viventi in lui, tale essendo la forza di quella parola imagine , come abbiamo notato più sopra, ponendosi l' imagine per la stessa cosa incipiente, siccome in quel luogo: « Umbram enim habens lex futurorum bonorum, non ipsam imaginem rerum (4), » cioè non ipsa bona quasi in embrione, sentendo noi quello che sente Cristo, piacendoci quello che piace a Cristo, dispiacendoci quello che a Cristo dispiace, volendo quello che vuole Cristo diventiamo amabili al Padre che ama in noi le stesse cose che sono in Cristo e sono in noi, ama Cristo in noi. Onde il Salvatore disse de' suoi discepoli, promettendo loro la venuta personale del suo Spirito: « Venit hora, cum jam non in proverbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiabo vobis. In illo die in nomine meo petetis. Et non dico vobis quia ego rogabo Patrem de vobis. Ipse enim Pater amat vos, quia vos me amastis, et credidistis quia ego a Deo exivi (5). » Queste dolcissime e benignissime parole disse Cristo a' suoi discepoli. Nelle quali è da osservare: 1 Che quel dire, ch' egli parlerà apertamente e palesemente del Padre, dimostra quanto sia illuminata la fede de' Cristiani per la partecipazione della vita soggettiva di Cristo sopra la fede degli antichi, e risponde a quella di S. Paolo: « in eamdem imaginem transformamur a claritate in claritatem, » o, come dice il testo greco: «apo doxes eis doxan». Questa chiarezza non è propria della fede degli Ebrei, ma solo de' Cristiani; perchè gli Ebrei avevano la notizia di Cristo che doveva venire al mondo, ma non potevano avere il sentimento di Cristo, perchè, non essendo ancora venuta al mondo la sua reale umanità, non poteva questa agire sull' umanità loro, come agisce realmente benchè misteriosamente sull' umanità nostra. Onde S. Paolo altrove dice, che Cristo venendo al mondo « illuminò la vita »: [...OMISSIS...] Quasi voglia dire: Vi era una vita anche avanti Cristo (sebbene anch' essa per Cristo), ma questa vita era oscura e non illuminata perchè non era soggettiva, ma soltanto oggettiva, per modo che il soggetto debole ed esile non poteva fare gli atti vitali di sentimento, cavandoli dall' oggetto, che non gli poteva dare l' immortalità soggettiva. Ma Cristo, per mezzo dell' Evangelio, cioè della fede e de' sacramenti, diede all' anima, cioè al soggetto, di quel sentimento immortale ch' egli aveva nella sua umanità congiunta ipostaticamente al Verbo, e così distrusse la morte, cioè quello stato dell' anima separata che rimane senza sentimento operativo perchè priva di un termine reale che formando con essa un solo soggetto la renda atta all' azione, benchè non si rimanga priva d' intellezione anche con un oggetto reale (il Verbo), e però di vita oggettiva; quindi distrusse la morte anche rispetto alla vita naturale, facendo che all' anima sia un tempo restituito un corpo glorioso colla risurrezione della carne. Vero è che agli Ebrei furono preannunziate molte cose di Cristo, e la fede che davano ad esse era soprannaturale. Era soprannaturale perchè queste cose stesse le percepivano oggettivamente in quell' esistenza oggettiva che hanno le cose nel Verbo per una interiore comunicazione del Verbo più o meno chiara, ma sempre mista di molta oscurità. Onde, quando venne Cristo al mondo si adempì la profezia: « Eructabo abscondita a constitutione mundi (1), » e Cristo potè dire: « Mandatum novum do vobis, ut diligatis invicem sicut dilexi vos, ut et vos diligatis invicem (2), » e potè rassomigliarsi al Padre di famiglia che « profert de thesauro suo nova et vetera (3). » Se le verità fossero state annunziate agli Ebrei solamente in parole esterne senza che queste fossero accompagnate da alcun lume interiore di fede, la loro condizione non si sarebbe potuta dire soprannaturale, benchè quella rivelazione fosse scaturita da una fonte soprannaturale; ma il lume interiore, donato in varii gradi a que' fedeli, faceva sì, come dicevamo, che percepissero nel Verbo quelle verità che venivano loro annunziate di fuori colle parole. 2 Ma, quantunque gli Ebrei vivessero per questa loro fede, tuttavia quella fede non dava loro la vita soggettiva, non li trasformava, come dice S. Paolo, nella stessa imagine di Cristo, non li toglieva dalla morte e dalla corruzione di sè come umani soggetti; onde coll' aver illuminata la vita, secondo San Paolo, Cristo distrusse la morte e la corruzione, [...OMISSIS...] E come potrebbe venir meno la vita soggettiva a quelli che sono amati dal Padre dello stesso amore del quale ama il suo Figliuolo diletto in cui si compiace, [...OMISSIS...] e le preghiere de' quali, fatte in nome di Cristo, sono accette ed esaudite: [...OMISSIS...] Le preghiere e i sacrificii degli antichi santi, ancor che fatte in nome di Cristo, non potevano salvarli dalla morte soggettiva, e dalla condanna al limbo: conveniva prima, che risorgessero e fossero edotti da quella cotal prigione, e perciò, che venisse Cristo e pregasse per essi, e fosse esaudito secondo il mandato che aveva ricevuto: [...OMISSIS...] Il perchè S. Paolo chiama la stessa legge antica, quantunque santa in se stessa: « ministratio mortis, ministratio damnationis (5), » perchè l' uomo non era avvalorato soggettivamente ad adempirla, e non adempita comminava la morte, nè l' uomo di conseguente si poteva salvare per l' adempimento perfetto di quella legge, ma per la fede in Colui che toglieva e cancellava i loro peccati, i cui meriti per la fede si sarebbero loro applicati. Quindi gli antichi fedeli vivevano di una vita oggettiva, ed avevano una certa speranza della vita soggettiva; ma non ancora la stessa vita soggettiva di Cristo. La qual vita de' santi Cristiani, chiamata bene spesso l' uomo nuovo, l' uomo interiore, viene altresì rassomigliata da S. Paolo ad un vestimento, e la mancanza di questa vita alla nudità della persona: similitudine acconcissima rispetto all' anima separata dal corpo, la quale priva di questo suo termine naturale rimane nuda, se non gli è dato da Dio soprannaturalmente qualch' altro termine reale (il quale secondo noi è l' essere eucaristico di Gesù Cristo), ed è trovata vestita se seco adduce questo termine ineffabile e misterioso, pel quale le è comunicata della vita di Cristo. Medesimamente questo termine reale della nostra vita interiore e spirituale è rassomigliato ad una casa, la quale rimane anche quando la casa temporanea del nostro corpo si discioglie: [...OMISSIS...] 3 Conviene in terzo luogo notare che le recate parole di Cristo si riferiscono allo Spirito Santo, il quale è quello che rende propriamente gli uomini, che colle loro volontà non si oppongono e potendo cooperano, figliuoli di Dio, onde passano, come dice S. Paolo, « a claritate in claritatem tamquam a Domini Spiritu: » il che si può intendere, tanto dell' ascendere di virtù in virtù, di perfezione in perfezione, di eccellenza ad eccellenza durante la presente vita, quanto del passaggio dalla chiarezza o gloria interna, che ha il giusto cristiano in questa vita, a quella chiarezza e gloria sfolgorante e completa che avrà nell' altra. 4 E poichè lo Spirito Santo è l' amore divino essenziale, e quindi diffonde in noi la carità, che riforma e santifica la nostra volontà, secondo quello: « Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (2), » e ancora: « Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro, quod sumus filii Dei (3); » perciò Gesù Cristo dice che il Padre ama noi, perchè noi amiamo lui, [...OMISSIS...] giacchè non vi ha la vita soggettiva di cui parliamo dove non vi ha carità, almeno abituale, non avendovi ivi lo Spirito Santo che è quello che congiunge Cristo alle anime nostre nel modo della vita soggettiva. La carità poi (che è assai più d' un semplice affetto naturale ed accidentale, come lo Spirito Santo è assai più che semplicemente l' amore accidentale, essendo sussistente persona divina) ha per oggetto Cristo umanato, quale ci è proposto dalla fede; onde il Signore soggiunge al « quia me amastis, » quest' altra parola: « et credidistis quia ego a Deo exivi . » Nel qual vocabolo, exivi, non è solamente indicata la processione del Verbo dal Padre, ma ben anco la sua missione visibile nel mondo e la sua incarnazione, come dichiarano le parole che vengono appresso: « exivi a Patre et veni in mundum (1), » che rispondono a quelle di Giovanni: « Et Verbum erat apud Deum . » L' Evangelio adunque, cioè non la lettera ma lo spirito, aggiunse una gran luce alla fede antica, ed illuminò la vita spirituale e la scienza: « Quoniam Deus, qui dixit de tenebris lucem splendescere, ipse illuxit in cordibus nostris, ad illuminationem scientiae claritatis Dei in facie Christi Jesu (2). » E dice in facie Christi Jesu, perchè lo Spirito Santo che illumina l' anima, ha quest' effetto suo proprio di fare intendere, e sentire, e quindi amare Gesù Cristo, come abbiam detto, Dio e uomo, uscito dal Padre, mandato nel mondo dal Padre. Ora tutta questa chiarezza e luce ineffabile della vita cristiana è nondimeno velata in paragone di quella che rifulgerà alle anime nostre, quando sarà squarciato il velo de' nostri corpi: [...OMISSIS...] dice S. Paolo, [...OMISSIS...] Laonde nell' antico testamento vi era la fede, ma vi era un' altra fede da rivelarsi, la quale, appunto perchè doveva rivelarsi, aveva più di chiarezza; al presente poi la nuova fede è rivelata, e non rimane a rivelarsi altra fede, ma solo la gloria. Della fede, che era da rivelarsi e che si rivelò col Vangelo, dice S. Paolo: « Prius autem quam veniret fides, sub lege custodiebamur conclusi in eam fidem quae revelanda erat (4). » E nello stesso senso lo stesso Apostolo dice, che si rivelò in lui Cristo: [...OMISSIS...] Della gloria poi, e non più della fede che al presente resta a rivelarsi, dice S. Pietro: « qui et ejus, quae in futuro revelanda est, gloriae communicator (1). » E l' Apostolo de' Gentili afferma che la sua predicazione ha per oggetto « il mistero di Cristo », perocchè nella dottrina di Cristo rimane sempre una parte misteriosa a noi che siamo nella presente vita: [...OMISSIS...] dice a que' di Colosse, [...OMISSIS...] e tuttavia soggiunge « ut manifestem illud ita ut oportet me loqui (2) » perocchè questo mistero si può annunciare, credere e in parte anche manifestare, secondo quel modo di conoscimento che a noi è dato finchè siamo circondati dal corpo corruttibile; onde anche prima l' avea chiamato « mysterium quod absconditum fuit a saeculis et generationibus, nunc autem manifestatum est sanctis ejus, quibus voluit Deus notas facere divitias gloriae sacramenti hujus in gentibus, quod est Christus, in vobis spes gloriae, quem nos annuntiamus (3). » Nel qual luogo dicendosi che il mistero di Cristo fu manifestato ai Santi, e non dicendosi a tutti quelli cui fu predicato, ben s' intende che l' Apostolo parla d' una cognizione e manifestazione soprannaturale, per la quale i Santi dentro illustrati dal lume della fede intendono e penetrano nel recondito di tale mistero, quando quelli che non credono, nulla più ne capiscono che la lettera, la quale non è cognizione vera del mistero stesso, nè soprannaturale. Il che spiega l' Apostolo più ampiamente nella sua prima ai Corinti, dove, dopo aver detto che la sapienza di Dio nel misterio è nascosta e nessuno de' principali uomini del mondo la conobbe, soggiunge: « « Nobis autem revelavit Deus per Spiritum suum. Spiritus enim omnia scrutatur, etiam profunda Dei. Quis enim hominum scit quae sunt hominis, nisi spiritus hominis qui in ipso est? ita et quae Dei sunt, nemo cognovit nisi Spiritus Dei. Nos autem non spiritum hujus mundi accepimus, sed Spiritum qui ex Deo est, ut sciamus quae a Deo donata sunt nobis. - Animalis autem homo non percipit ea quae sunt Spiritus Dei: stultitia enim est illi, et non potest intelligere: quia spiritualiter examinatur. Spiritualis autem judicat omnia: et ipse a nemine judicatur »(4). » Dalle quali parole raccogliamo che la cognizione che ha il cristiano in questo mondo comprende il tutto; comprende tutto ciò che conoscerà con maggior luce all' altro mondo, perchè ha lo Spirito di Dio, che omnia scrutatur, etiam profunda Dei, di maniera che il cangiamento che succederà sarà una vera rivelazione, secondo l' etimologia della parola, un vedere le cose stesse che conosce, adesso sotto un velo, allora senza velo, giusta le parole citate dal Concilio, « eumdem panem Angelorum, quem modo sub sacris velaminibus edunt, absque ullo velamine manducaturi . » Quindi, per indicare quel passaggio dalla condizione presente del Cristiano alla futura, talora si nomina una rivelazione di Gesù Cristo. Parlando della seconda venuta di Cristo, dice il Vangelo: « qua die Filius hominis revelabitur (1). » E prima aveva detto dello stato presente del fedele, che ha in sè Cristo in un modo velato: « Non venit regnum Dei cum observatione, neque dicent: Ecce hic, aut ecce illic. Ecce enim regnum Dei intra vos est (2), » e quindi trapassa a favellare come questo regno di Dio, che viene senza attrarre l' osservazione degli uomini, si manifesti rifulgente alla gran venuta del Figliuolo dell' uomo. Medesimamente l' Apostolo promette requie a que' di Tessalonica, che avevano patito pel regno di Dio, « in revelatione Domini Jesu de coelo cum angelis virtutis ejus (3). » La ragione poi, perchè nelle divine scritture si parla più frequentemente e si promette la rivelazione di Cristo alla fine dei secoli, anzichè quella che avviene alla morte di ciascun fedele, mi sembra poter essere che quella è più solenne e compiuta per la risurrezione dei corpi, e doveva forse essere più inculcata come più maravigliosa: oltre di che, se quella gloria privata, dirò così, che ciascuno de' giusti Cristiani riceverà dopo morte, interessa il particolare; quell' ultima è cosa appartenente a tutta la Congregazione de' fedeli, a tutto il corpo della Chiesa. Talora poi il passaggio dalla condizione nostra presente alla gloria futura si appella « rivelazione nostra propria, rivelazione dei figliuoli di Dio, rivelazione della gloria in noi », come in questo luogo [...OMISSIS...] Le quali ultime parole, adoptionem filiorum Dei expectantes, redemptionem corporis nostri , ci avvisano che anche in questo luogo S. Paolo parla dell' ultimo compimento della gloria nostra, che sarà quando risorgeremo gloriosi, e non di quella gloria, quasi direi provvisoria, sebbene beatificante, che avranno le anime nostre separate dal corpo. Ed è da osservarsi che si chiama libertà, tanto quella che ora godiamo in Cristo: [...OMISSIS...] quanto quella che acquisteremo colla gloria finale: [...OMISSIS...] perchè ora la nostra libertà, perfetta quanto allo spirito, è nulladimeno unita ad una certa servitù quanto al corpo corruttibile. Similmente noi siamo già stati adottati figliuoli di Dio quanto allo spirito; [...OMISSIS...] ma, quanto al corpo aspettiamo tuttavia adoptionem filiorum Dei . Secondo la stessa maniera di parlare, nel giorno del Signore si riveleranno le opere nostre quali sieno alla prova del fuoco: [...OMISSIS...] Tutto è adunque nel Cristiano: tutto nella fede e nella cognizione spirituale di colui che è in Cristo secondo lo spirito della santità; ma tutto vi è velato, e in un modo sentimentale a cui non giunge o debolmente giunge la riflessione generatrice della coscienza. Quando poi deporremo il corpo, e più compiutamente quando riavremo un corpo glorioso, tutto sarà a noi svelato, manifesto, fulgente di gloria. Venendo ora alla vita eucaristica, quaggiù velata, colassù in Cielo palese, dico primieramente che i veli che ci nascondono al presente il corpo e il sangue glorioso di Cristo sono gli accidenti del pane e del vino, che soli cadono sotto i nostri sensi esteriori. Ora è da considerarsi che il pane e il vino consecrato (che non è più nè pane nè vino) fa cogli accidenti che conserva, ne' nostri organi sensorii e nell' interno del nostro corpo, gli stessi effetti fisici come non fosse consecrato, cioè come fosse ancora vero pane e vero vino. Ora, questi effetti fisici non sono gli effetti eucaristici. Il corpo adunque ed il sangue di Cristo si sta cotalmente nascosto sotto gli accidenti del pane e del vino, che naturalmente e per la fisica legge de' corpi non produce nessun effetto sul corpo nostro. Quando viveva Gesù Cristo in terra, il suo corpo passibile e mortale era sensibile ed operante ne' corpi degli altri uomini secondo le ordinarie leggi fisiche che presiedono alla mutua azione dei corpi fra loro: ma non così il corpo eucaristico di Gesù Cristo, nel quale tali leggi sono tutte sospese dall' onnipotenza divina, e però non è visibile, nè tangibile, nè odorabile, ecc.. Quindi procede che gli effetti eucaristici dipendono unicamente dalla volontà e podestà dello stesso nostro Signor Gesù Cristo, secondo quelle leggi che governano l' ordine morale. Di che avviene che quelli che non sono battezzati, e quindi incorporati a Cristo, non ne ricevono alcun effetto (se non gli effetti fisici degli accidenti); e lo stesso si dica di quelli che assumono il Santissimo Sacramento colla coscienza o colla volontà di peccato mortale (oltre il sacrilegio che commettono), perocchè « quicumque manducaverit panem hunc vel biberit calicem Domini indigne, reus erit corporis et sanguinis Domini ) (1). » Consegue ancora che gli effetti eucaristici vengano da Cristo prodotti ne' fedeli, che ricevono il suo corpo santissimo, secondo il tenore della loro disposizione; e però quelli che sono meglio disposti, e più e meglio cooperano cogli atti della loro volontà, ne ricevano in maggior copia, e in minore gli altri. I quali effetti sono primieramente operazione dello Spirito di Cristo che diffonde la carità nelle anime: ed è per ciò che Cristo disse, parlando dell' Eucaristia: « Spiritus est qui vivificat: caro non prodest quidquam: verba quae ego locutus sum vobis spiritus et vita sunt (2). » Ma egli conviene che noi esponiamo, per quanto ci è dato, in che modo Cristo col suo Spirito produca in colui che riceve il suo corpo ed il suo sangue cotesti maravigliosi effetti. E` dunque da considerare primieramente, che il supremo principio operatore in Cristo è il Verbo, il quale perciò non è soltanto persona divina, ma persona di Cristo, cioè persona divina incarnata; giacchè la persona d' un individuo intelligente è quel supremo principio operativo che è in esso. Ora, come la persona divina del Verbo unì a sè la natura umana? Certa cosa è che il Verbo per questa unione non sofferì passione, nè cangiamento alcuno, non essendone suscettibile, come quello che è immutabile, ed in cui non cadono accidenti di sorta. Ma è da riflettere, qual preliminare della dottrina che dobbiamo esporre, che le cose tutte esistono nel Verbo non solo idealmente, ma anche realmente, come abbiamo detto, in un modo oggettivo; e in questo modo oggettivo, come tutte l' altre cose, così esisteva nel Verbo anche l' umanità di Cristo. Ma qui non ci ha ancora l' incarnazione, non ci ha l' unione ipostatica: altramente il Verbo sarebbe stato congiunto con tutte le creature ipostaticamente, il che è assurdo. L' esistenza oggettiva è sempre divina; le cose create non hanno che un' esistenza soggettiva, o un' esistenza che alla soggettiva si riferisce (esistenza extrasoggettiva). Quindi le cose nella loro esistenza oggettiva, appartenenze del Verbo, non sono le cose quali esistono puramente a se stesse, dal che viene che sieno creature reali. L' esistenza oggettiva delle creature è reale pel Verbo (assolutamente reale), ma non è nelle creature stesse, la cui esistenza propria è soltanto soggettiva, di maniera che quella potrebbe essere nel Verbo (ed è il Verbo stesso) senza che queste ancor fossero. Laonde le creature per la sola esistenza oggettiva non sono a se stesse; e, quando esse sono (soggettivamente), allora esse non apprendono necessariamente il Verbo, sebbene il Verbo le abbia in sè oggettivamente, e l' esistenza oggettiva e soggettiva sieno due modi dello stesso ente. Acciocchè dunque il Verbo assuma a sè e si congiunga una creatura intellettiva in quanto questa è a se stessa, non basta ch' egli l' abbia oggettivamente, sebbene realmente, in sè; ma è necessario ch' egli si congiunga soggettivamente a quella creatura, o per dir meglio congiunga quella creatura soggettivamente a sè. Così fece incarnandosi, cioè congiungendo a sè la natura umana in individuo ipostaticamente. La mutazione, come dicevamo, non avvenne in lui, ma nella natura umana assunta, la quale trovò d' esser mossa e governata, come da suo proprio principio supremo, dalla persona del Verbo. La comunicazione di Dio soggettiva all' umanità è operazione dello Spirito Santo: quindi il Verbo s' incarnò per opera di esso Spirito: [...OMISSIS...] E Cristo chiama se stesso: « quem Pater sanctificavit et misit in mundum (2), » facendo precedere, non quanto al tempo ma quanto al concetto, la santificazione alla missione nel mondo, quasi venendo a dire santificò l' umanità di Cristo in modo che nello stesso tempo mandò in essa il Verbo, il quale a sè ipostaticamente unita l' assunse. Onde l' Apostolo chiama Cristo, « qui praedestinatus est Filius Dei in virtute secundum spiritum sanctificationis (1). » E la stessa parola Cristo significa l' unto del Signore, così venendo chiamato Colui che era stato mandato coll' unzione dello Spirito Santo, come avevano già preannunziato i Profeti: [...OMISSIS...] dice il Redentore in Isaia: [...OMISSIS...] E il Salmo: [...OMISSIS...] E all' udire il racconto che Pietro e Giovanni fecero del processo loro intentato dalla Sinagoga dopo la guarigione dello storpio alla porta del tempio di Gerusalemme, i primi discepoli dissero: « Convenerunt enim vere in civitate ista, adversus sanctum puerum tuum Jesum quem unxisti, Herodes et Pontius Pilatus cum gentibus et populis Isra‰l (4). » E S. Pietro alla famiglia del Centurione dice di Gesù: « Vos scitis - quomodo unxit eum Deus Spiritu Sancto et virtute (5). » Ora è da considerarsi che è proprio dello Spirito Santo l' agire in modo soggettivo, perocchè egli s' unisce come principio attivo alla volontà umana, e questa con esso lui unita s' innalza a riconoscere praticamente l' essere, e massimamente l' Essere assoluto, nel che sta la santificazione dell' uomo. Ora parmi che sia da credere che nell' umanità di Cristo la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all' Essere oggettivo, cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo dell' uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime così incarnandosi, rimanendo la volontà umana e l' altre potenze subordinate alla volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest' essere Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo consenso. Onde la volontà umana cessò di essere personale nell' uomo, e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura. Dove è da osservarsi che tutte queste operazioni dello Spirito Santo quasi preambole all' incarnazione, e della stessa incarnazione o unione ipostatica, non furono già successive, ma contemporanee, compiute in un istante, nell' istante dell' incarnazione medesima. Il Verbo poi, incarnato così per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa, onde potè dire S. Giovanni che « « il Verbo si fece carne » »; come pure mandò lo Spirito Santo in esse e negli altri uomini, prima i doni e poscia la medesima persona che loro suggerisse praticamente quant' egli loro diceva quasi teoricamente. E la missione dello Spirito Santo santificatrice dell' umanità di Cristo è sempre procedente dal Verbo, sia quella che si concepisce logicamente preambola all' incarnazione medesima, sia quella che si concepisce logicamente posteriore a questa, venendo la prima dal Verbo separato, la seconda (identica alla prima) dal Verbo medesimo unito. E in un modo somigliante avviene la rigenerazione spirituale dell' uomo, salvo che l' operazione preambola dello Spirito Santo può precedere anche di tempo alla stessa rigenerazione, come accade negli adulti. Questi sono quei doni e quelle grazie, di cui parla il sacrosanto Concilio di Trento come dispositive alla giustificazione, nelle quali in prima la vocazione divina si contiene. [...OMISSIS...] Di poi viene la fede, di cui così lo stesso ecumenico e sacrosanto Concilio: [...OMISSIS...] Queste operazioni che lo Spirito Santo fa nell' adulto per disporlo alla giustificazione battesimale, le fa pure nel bambino, quanto alla sostanza, ma in altro modo occulto, per mozioni abituali della sua volontà e contemporaneamente alla giustificazione; di maniera che nello stesso istante che riceve questa pel battesimo riceve quelle grazie altresì. Nel battesimo poi, nel quale si compie la giustificazione, il Verbo si unisce come oggetto reale alla mente del battezzato, e, dove la volontà di questo non pone ostacolo ma è disposta a riconoscerlo, continua e compie la missione in essa dello Spirito Santo, colla quale egli viene santificato, adottato figliuolo di Dio, e coerede di Cristo. Onde il più volte citato Concilio dichiara che la giustificazione, che pel battesimo si conseguisce, « non est sola peccatorum remissio, sed et sanctificatio et renovatio interioris hominis per voluntariam susceptionem gratiae et donorum (2), » e l' unica causa formale della giustificazione [...OMISSIS...] Ma in quest' opera dello Spirito Santo il Verbo divino viene impresso nelle menti, come dicevamo, qual oggetto, non già qual soggetto; e però non è un' incarnazione, ma soltanto una congiunzione reale delle persone umane col Verbo incarnato, le quali persone sono come membra di quel corpo mistico di cui il Verbo è capo. Nulladimeno, atteso che questo capo, cioè il Verbo incarnato, influisce nelle membra la virtù dello Spirito Santo, prima di tutto la volontà di esse membra, dove risiede la loro personalità, è santificata, cioè tratta a riconoscere praticamente quel Verbo che percepisce; e perciocchè così acquista una nuova attività soprannaturale che non aveva prima, perciò la persona dicesi rinnovata, formatosi un uomo nuovo, nel che consiste la spirituale rigenerazione: « Voluntarie enim genuit nos, » dice S. Giacomo, « verbo veritatis ut simus initium aliquod creaturae ejus (1): renati, » continua S. Pietro, « non ex semine corruptibili, sed incorruptibili, per Verbum Dei vivi et permanentis in aeternum (2). » Or, come abbiamo detto già innanzi, crediamo assai probabile che la virtù vitale di Cristo si comunichi all' acqua battesimale per un segreto contatto del suo corpo glorioso, in virtù e nel momento nel quale sono pronunciate le parole, forma del Sacramento; e che l' acqua, toccando il corpo di lui che si battezza pella fede sua propria o in quella della Chiesa, comunichi la predetta virtù di Cristo, la quale passando dal corpo all' anima ed allo spirito, rinnova finalmente la superiore parte dell' uomo, imprimendo nella sua mente il Verbo. Ma nell' eucaristico Sacramento il pane ed il vino non è solamente toccato dal corpo di Cristo, ma assunto e transustanziato nella sua carne e nel suo sangue glorioso. Onde ricevendo questo Sacramento l' uomo non riceve soltanto l' influenza della virtù di Cristo, come nel battesimo, dove l' acqua rimane acqua, benchè diventi il veicolo della virtù di Cristo, e tocca il corpo momentaneamente e spontaneamente; ma si ricevono le stesse carni viventi e gloriose, e il sangue di Cristo dentro di noi (e per concomitanza altresì l' anima e la divinità), le quali restano dentro di noi qualche tempo, benchè non tocchino il corpo nostro, il quale è toccato solo dagli accidenti del pane e del vino. I quali accidenti operano tuttociò che operano il pane ed il vino non consacrati, venendo digeriti ed assimilati, e così passando in nostra nutrizione. Ma imperocchè sotto questi accidenti vi è il vero corpo e il vero sangue di Cristo, questo produce i suoi effetti spirituali nell' anima e nello spirito dell' uomo battezzato e ben disposto. Perocchè, se gli accidenti del pane e del vino sono a un contatto reale colle nostre carni, il corpo ed il sangue di Cristo, nascosto sotto quegli accidenti, trovasi a un contatto spirituale e corporeamente insensibile; e come la carne nostra è viva, e viva è pure la carne gloriosa di Cristo, per questo contatto spirituale si comunica della vita di Cristo alla nostra vita, in quella misura ch' egli vuole e secondo le disposizioni che in noi trova. Il battesimo fa due cose nell' uomo: 1 imprime il carattere indelebile; 2 conferisce la grazia santificante. Pel carattere indelebile l' uomo è posto in comunicazione col Verbo per mezzo della sua intelligenza essenziale; per la grazia l' uomo è posto in comunicazione collo Spirito Santo per mezzo della sua volontà essenziale. Essendo aperta, mediante il battesimo, questa comunicazione dell' uomo col Verbo e collo Spirito Santo, ricevendo gli altri Sacramenti, e soprattutto quello della SS. Eucaristia, egli riceve dal corpo e dal sangue del Signore gl' influssi dello Spirito Santo che è carità, « Deus Charitas est (1), » e indi anche se li deriva. In qual maniera questi effetti avvengano egli è cosa segreta: tuttavia non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che sola è verità, la seguente conghiettura. La carne ed il sangue di Cristo, in cui si è convertita la sostanza del pane e del vino, è termine del principio senziente di Cristo. Ora, questa carne e questo sangue, nel modo che è nell' Eucaristia, può divenir termine altresì del principio senziente dell' uomo che lo riceve. La sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d' essere sostanza del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo, quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così la avvivò della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il pane che si mangia e il vino che si beve, quand' è, nella sua parte nutritiva, assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente transustanziato, e non è più, come prima, pane o vino, ma è veramente nostra carne e nostro sangue, perchè è divenuto termine del nostro principio sensitivo. Concependo in questa maniera la transustanziazione, noi possiamo più facilmente ravvisare e determinare qual sia il Corpo di Cristo eucaristico. Perocchè, quantunque Cristo abbia un solo Corpo, al presente glorioso, tuttavia, avvenuta la transustanziazione, si può intendere che al Corpo glorioso si sia aggiunto qualche parte in esso incorporata, ed indivisa e del pari gloriosa. E questa parte aggiunta, cioè la sostanza del pane e del vino transustanziata, che forma una cosa sola col Corpo di Cristo glorioso, come una porzione della nostra carne e del nostro sangue forma una cosa sola col nostro proprio corpo, si può intendere che sia quella che diventa termine comune al principio senziente di quell' uomo che in grazia di Dio riceve il cibo eucaristico. Ma qui prima di proceder oltre dobbiamo sciogliere alcune obbiezioni. La prima, che secondo una tale dichiarazione non ci avrebbe nell' Eucaristia tutto il Corpo di Cristo. A cui si risponde che appunto perchè il Corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario dove si trova una parte si trovi tutto; ma che la distinzione della parte dal tutto non si fa che rispetto alla operazione spirituale ed interna nell' uomo che riceve bensì tutto quel Corpo, ma non tutto quel Corpo diviene termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte che risponde a quel tanto che v' aveva di sostanza di pane e di sostanza di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in carne e sangue del Salvatore; ma il rimanente del corpo e del sangue vi rimanesse unito per concomitanza, il che non par contrario alla dottrina cattolica, secondo la quale è bensì di fede che tutta la sostanza del pane e del vino si transustanzia, ma non che si transustanzia in tutto il Corpo e in tutto il Sangue glorioso di Cristo, secondo le parole del sacrosanto Concilio che definì: [...OMISSIS...] dove dicesi: [...OMISSIS...] ma non dicesi: « In totam substantiam corporis et sanguinis Christi ». Un' altra obbiezione si cava dalla Psicologia. In questa fu da noi detto che se due principii senzienti avessero lo stesso termine, essi s' immedesimerebbero e ne diverrebbe un solo. Ora, sarebbe un assurdo, contrario alla fede ortodossa, il dire che il principio senziente di Cristo e quello del fedele che si comunica in grazia diventi un solo principio. A cui si risponde, che l' immedesimazione de' principii non ha luogo se non quando il termine corporeo sia totalmente identico. Ma nel caso nostro la cosa non va così; perocchè il principio sensitivo del fedele che si comunica in grazia non ha di comune col principio sensitivo animatore di Cristo tutto il corpo di Cristo, ma solo quella parte che risponde alla sostanza del pane e del vino transustanziata; e neppur tutta questa, ma una parte di questa, corrispondente a quegli accidenti del pane e del vino che passano nella nutrizione del fedele, e non a quella parte di essi che corrompendosi, senza passare in nutrizione, cessano dall' essere velo al corpo e sangue di Cristo, e tornata la sostanza materiale passa questa dal corpo del fedele per altra via. Quella parte di carne e di sangue di Cristo, che rispondeva prima della transustanziazione alla sostanza del pane e del vino, contiene propriamente, se vere sono le conghietture sopra esposte, quella vita eucaristica, che non cessò mai in Cristo neppure nel tempo della sua morte avvenuta nel suo corpo naturale, come abbiamo di sopra accennato, e per cui fu esaudito, come dice S. Paolo, quando pregò d' essere campato dalla morte: onde l' Eucaristia si chiama pane vivo, e non fu giammai pane morto come fu morto il suo corpo naturale. E il pane ed il sangue eucaristico, che è detto « novi et aeterni testamenti (1), » è l' oggetto di un sacerdozio, che da S. Paolo si asserisce fatto « secondo la virtù di una vita insolubile »: [...OMISSIS...] Ora, se la vita eucaristica di Cristo, oggetto del sacerdozio, si fosse sciolta anche per poco tempo, non sembra che si potesse chiamar più vita insolubile . Sebbene adunque questa denominazione d' insolubile convenga ottimamente alla vita gloriosa acquistata da Cristo dopo la risurrezione, tuttavia più pienamente luce la verità di quella parola, interpretandola dell' insolubilità della vita eucaristica, perocchè Cristo esercitò il suo sacerdozio prima della sua morte nell' ultima cena, ed era costituito sacerdote secondo l' ordine di Melchisedecco, che offerì pane e vino già prima della sua risurrezione gloriosa, e però fin d' allora era costituito tale « secondo la virtù della vita insolubile ». Onde a tutta ragione S. Ignazio martire, discepolo degli apostoli, chiama l' Eucaristia « pharmacum immortalitatis (3), » e il Santo Concilio di Trento lo dice « « un ineffabile e al tutto divino beneficio quo mortis ejus victoria et triumphus repraesentatur »(4). » Continuandoci dunque al discorso precedente, se egli è vero che il principio senziente di quelli che ricevono tutto Cristo nella Santissima Eucaristia riceva per termine quella porzione del corpo e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione, s' intende come questo Sacramento sia dai Padri e dai Concilii chiamato « Signum unitatis (5), » e certo non un segno inefficace ma un segno efficace, cioè operatore dell' unità ch' egli segna, come sono segni efficaci tutti i Sacramenti di Cristo; cioè operatori nell' uomo di quel che segnano. La quale unità è doppia, cioè de' fedeli con Cristo e de' fedeli fra loro. L' unità di chi riceve il corpo di Cristo con Cristo diviene somma ed al tutto ineffabile. Perocchè, quantunque non s' identifichi Cristo con lui, come abbiamo detto, tuttavia una porzione della vita sensitiva di Cristo s' identifica in certo modo con una porzione della vita del fedele che riceve Cristo, perocchè queste due vite hanno una porzione del loro termine corporale identica: Cristo ed il fedele sentono come porzione del proprio corpo lo stesso corpo eucaristico. Questo sentimento non accade in quelli che non hanno ricevuto il battesimo, i quali non sentono che gli accidenti del pane e del vino, rimanendo in essi il corpo e il sangue di Cristo inefficaci, cioè non comunicando Cristo loro quel termine corporeo, in quanto è termine della vita di esso Cristo, e perciò non avvenendo la comunicazione delle due vite, la parziale identificazione dei due sentimenti. E ciò perchè lo spirito di questi non ha ricevuto la virtù che li rende atti a comunicare collo Spirito di Cristo, perchè non sono congiunti a quel Verbo che produce nei battezzati tale virtù soprannaturale, che giunge a percepire quell' umanità di Cristo che sta sotto gli accidenti. Perocchè l' uomo da sè solo non potrebbe mai comunicare colla carne e col sangue vivente di Cristo, che sta nascosta sotto il velo degli accidenti del pane e del vino, soli accessibili naturalmente al senso dell' uomo; ma l' uomo battezzato è già congiunto con Cristo, e Cristo in lui e con lui comunica necessariamente colla propria carne e col proprio sangue, e così l' uomo insieme con Cristo. Ora, la vita sensitiva di Cristo è intimamente e individualmente congiunta colla sua vita intellettiva, e la persona del Verbo è congiunta con entrambi in modo, che l' umanità intera di Cristo appartiene in proprio alla persona del Verbo, e non ha altra persona se non questa che tutta la regga e governi, qual principio supremo dell' unico Cristo. Quindi l' uomo che partecipa nel modo detto della vita sensitiva di Cristo, partecipa nello stesso tempo della virtù e della divinità di tutto Cristo, il quale nei giusti emette il suo Spirito di Carità, onde tal Sacramento è chiamato giustamente il Sacramento dell' amore, « vinculum charitatis (1). » E come l' amore ha più gradi, ma il massimo è quello per il quale gli amanti s' uniscono sostanzialmente in quella più stretta guisa che la natura loro concede, e godono l' un dell' altro in questa unione, quasi con un indiviso sentimento; così egli è manifesto, che essendo sostanziale e reale l' unione del fedele con Cristo mediante l' Eucaristia, fino ad avere in parte uno stesso termine della vita, che è la massima unione che si possa concepire secondo la natura umana e la condizione della vita presente; quindi questo Sacramento, com' è il massimo pegno dell' amore di Cristo verso gli uomini, così contiene il più intimo atto d' amore fra l' uomo giusto e Cristo. E quell' amore non è puramente ideale e spirituale, ma reale, sostanziale, soprannaturale e vitalmente corporeo. Dove cade in acconcio di commemorare il canone del Sacro Concilio di Trento, che dice: « Si quis dixerit Christum, in Eucharistia exhibitum, spiritualiter tantum manducari, et non etiam sacramentaliter ac realiter, anathema sit (1). » E` dunque da distinguere fra non battezzati, i quali non ricevono, assumendo l' Eucaristia, nè il Sacramento, nè la cosa del Sacramento, dai battezzati, i quali ricevono il Sacramento, e, se sono in grazia di Dio, anche la cosa del Sacramento . I primi non comunicano che cogli accidenti secondo le leggi fisiche e naturali, ma i secondi comunicano con Cristo: ma in diverso modo quelli che sono in grazia, e quelli che sono in disgrazia di Dio. I battezzati, che non sono in grazia, hanno il Verbo nella loro mente, la quale appartiene alla loro persona umana, ma non la costituisce; e però dall' avere l' impressione del Verbo non sono santificati, perchè il Verbo che è in essi non manda lo Spirito Santo, ossia la grazia di questo, nella lor volontà, che costituisce la loro persona. Laonde il Verbo impresso nella loro mente si completa, quasi direi, colla carne e col sangue che essi ricevono quasi in essi incarnandosi; ma tutto ciò nell' ordine della mente e del sentimento in cui non giace la santificazione. Perocchè è da osservare che quantunque l' acqua battesimale operi gli effetti soprannaturali per virtù del contatto segreto dell' umanità di Cristo, tuttavia nel battesimo non viene comunicata all' uomo la stessa umanità di Cristo, la stessa carne, o lo stesso sangue vivente, ma solo la virtù che esce dal corpo del Salvatore, la qual virtù è atta a comunicare la percezione del Verbo, onde Cristo ebbe a dire a S. Filippo: « Philippe, qui videt me » (cioè la mia umanità in modo soprannaturale) « videt et Patrem (2), » cioè « vede me come Verbo, e in me conosce il Padre mio di cui sono l' imagine ». Laonde colla Eucaristia si completa nell' uomo la comunicazione di Cristo incominciata nel battesimo, aggiungendosi la carne ed il sangue, cioè l' umanità di Cristo al Verbo che risplendeva nella mente, e tutto ciò, se l' uomo ha una volontà peccatrice, non a sua salute, ma a sua condanna. Questo è il primo effetto della SS. Eucaristia. Ma se l' uomo battezzato è in grazia, il Verbo emette in lui lo Spirito Santo, col quale santifica la sua volontà, dove giace la personalità dell' uomo, e quindi rimane santificata la persona dell' uomo. Allora poi che quest' uomo, ricevendo l' Eucaristia, riceve l' umanità vivente di Cristo, e si completa in lui il Verbo incarnato, questo Verbo incarnato emette lo Spirito Santo nell' uomo, non solo come luce, immediata operazione del Verbo, ma ben anco, per mezzo del suo corpo santissimo, come luce e sentimento e gaudio corporale. Quindi lo Spirito Santo emana alla santificazione dell' uomo da tutto Cristo, sempre venendo mandato dal Verbo. Ma se il Verbo prima non illustrava col divino Spirito se non la suprema parte della volontà dell' uomo, cioè la facoltà del riconoscimento pratico e l' intelligenza ad esso ubbidiente; di poi la volontà umana ed inferiore di Cristo comunica lo Spirito Santo anche alla volontà inferiore dell' uomo e la corrobora a sottomettersi alla volontà superiore, e il sentimento ed istinto sensitivo di Cristo comunica dello Spirito Santo al sentimento ed istinto animale dell' uomo e lo tempera dal male e lo governa al bene, e le carni e il sangue di Cristo comunicano pure del Santo Spirito alle stesse carni ed allo stesso sangue dell' uomo, e rendono l' uomo casto, sicchè tutte le parti di Cristo operano in tutte le parti dell' uomo, e s' avvera da parte di Cristo quant' egli disse nella orazione al Padre che pronunciò prima di patire: « Pater, venit hora, clarifica Filium tuum, ut Filius tuus clarificet te, sicut dedisti ei potestatem omnis carnis, ut omne quod dedisti ei det eis vitam aeternam (1). » E da parte del fedele allora si possono dire appieno verificarsi le parole dell' Apostolo ai Filippesi: « Et pax Dei quae exsuperat omnem sensum custodiat corda vestra et intelligentias vestras in Christo Jesu (2), » e quelle: « Hoc enim sentite in vobis, quod et in Christo Jesu (3); » onde dal sentimento di Cristo a noi comunicato s' apprende la sua umiltà, che non possono insegnare le parole degli uomini, seguitando a dire S. Paolo: « qui, cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo; sed semetipsum exinanivit formam servi accipiens in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (4), » perocchè veramente effetti speciali dell' Eucaristia, in chi degnamente la riceve, sono la castità e l' umiltà. E perciocchè lo Spirito Santo si comunica alla volontà dell' uomo, e sono a questa soggiogate l' altre potenze inferiori; perciò fra la volontà, costituita in istato soprannaturale di grazia, e lo Spirito Santo è aperta una comunicazione, per la quale l' uomo, cogli atti della sua volontà stessa, può derivare maggiore o minor copia del Santo Spirito, di che la quantità di grazia, che i giusti ricevono, come dagli altri sacramenti, così ancora da questo della SS. Eucaristia, è varia secondo la loro disposizione e cooperazione. Onde della stessa giustificazione che si riceve nel battesimo, « quod est sacramentum fidei sine qua nulli unquam contigit justificatio, » il Tridentino dice che l' unica causa formale è la giustizia di Dio, « qua nos justos facit - justitiam in nobis recipientes, unusquisque suam secundum mensuram, quam Spiritus Sanctus partitur singulis, prout vult, et secundum propriam cujusque dispositionem et cooperationem (1). » E posciachè, consacrato il pane ed il vino, anche prima dell' uso, dimora sempre sotto quegli accidenti tutto intero Cristo; quindi da lui possono derivare i fedeli, anche senza riceverlo realmente, delle grazie spirituali (emettendo egli in essi i doni del Santo Spirito) col solo adorarlo di presenza, e col desiderio e col voto di riceverlo sacramentalmente: il qual modo di partecipare si chiama comunione spirituale. Laonde il Tridentino dice dell' uso che fanno i fedeli dell' Eucaristia: [...OMISSIS...] Rimane perciò fermo che nella comunione spirituale non si riceve il corpo di Cristo nè realmente, nè sacramentalmente; ma che se ne derivano le grazie dello spirito, se ne raccoglie frutto, se ne esperimenta l' utilità. Ancora un' altra differenza fra la comunione sacramentale e la spirituale è questa: che nella prima Cristo stesso opera ne' giusti che l' hanno ricevuto l' emissione dei doni del suo Spirito ex opere operato, e così il primo va incontro all' anima colla divina sua operazione, la quale ne sentirebbe l' effetto quand' anche l' uomo non fosse in grado, per malattia o per sopore, di fare alcun atto d' affetto volontario, dopo aver ricevuto il corpo di Cristo; laddove nella comunione spirituale è l' anima che cogli atti della sua volontà deriva a sè le grazie del sacramentato Signore. E qui si osservi che, quantunque il corpo che noi abbiamo ricevuto da Adamo sia guasto e destinato alla morte, e buono solo a farne un sacrifizio al Signore, secondo l' Apostolo: [...OMISSIS...] tuttavia quell' ostia stessa, cioè il corpo dei cristiani, si dice « ostia vivente, e santa, e a Dio piacente », perchè dai sacramenti di Cristo anche il corpo riceve un' influenza santificatrice, ma specialmente dal sacramento eucaristico nel quale lo stesso corpo glorioso del Signore s' inserisce in parte nel corpo nostro e vi mette un elemento d' immortalità. Il perchè l' Apostolo chiama non solo i nostri spiriti, ma ben anco i nostri corpi membra di Cristo e templi dello Spirito Santo: onde deduce qual insulto si faccia a Cristo colla fornicazione violando le sue membra e il suo tempio: [...OMISSIS...] Di che conchiude: « Glorificate et portate Deum in corpore vestro (5). » Laonde S. Pietro chiama il suo proprio corpo « « un tabernacolo » (6), » dimostrando così, ch' esso era una custodia del Verbo e dello Spirito. E S. Paolo dalla stessa dottrina trae più altri precetti morali (giacchè, come abbiam detto, il principio di tutta la morale cristiana è l' inabitazione di noi in Cristo e di Cristo in noi). E primieramente insegna ai cristiani di non contrarre matrimonio cogli infedeli pel rispetto che debbono avere a' proprii corpi santificati dalla dimora in essi di Cristo: [...OMISSIS...] Dallo stesso principio deduce l' amore e il rispetto che i mariti debbono avere alle loro mogli: [...OMISSIS...] Deduce ancora l' obligazione che i Cristiani si astengano dal partecipare alle vittime immolate agli idoli. Perocchè dice: [...OMISSIS...] Ma, quantunque il corpo de' Cristiani guasto dalle conseguenze del peccato d' origine riceva qualche influenza dalla grazia di Cristo, e coll' eucaristia riceva altresì qualche parte che in lui s' inserisce del corpo di Cristo; tuttavia il corpo animale è destinato a perire, perchè non può essere senza di ciò intieramente rigenerato: e però quell' elemento occulto di vita che quaggiù riceve da' Sacramenti, ma soprattutto dal Sacramento Eucaristico, è oggetto di fede, anzichè di piena e manifesta esperienza, e un saggio e un pegno della futura risurrezione; onde dice S. Paolo: « Quod autem nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei, qui dilexit me et tradidit semetipsum pro me (3). » Ora il pane eucaristico non è solamente un vincolo d' unione del fedele con Cristo, ma ben anco de' fedeli fra loro. E come l' unione del fedele comunicante con Cristo ha due modi, l' uno de' quali si fa immediatamente per Cristo, l' altro per lo Spirito Santo che diffonde nell' anime la carità che da Cristo procede; così parimenti una duplice unione de' fedeli fra loro trovano i fedeli che ricevono degnamente Gesù Cristo nella SS. Eucaristia. L' unione del fedele comunicante con Cristo che si fa immediatamente per Cristo è fondata in due ragioni. La prima, che tutti ricevono lo stesso Cristo tutto intero. La seconda, che ciascheduno converte in termine della propria vita quella quantità della carne e del sangue di Cristo che risponde alla quantità della sostanza del pane e del vino che era prima della transustanziazione. L' unione del fedele comunicante con Cristo, che si fa per mezzo dello Spirito Santo, nasce dall' emissione dello Spirito e de' suoi doni che fa Cristo al fedele in quella misura che Cristo vuole e in proporzione della disposizione e della cooperazione dello stesso fedele. Queste due maniere d' unione che si formano o si perfezionano col ricevimento del Sacramento eucaristico sono indicate da S. Paolo in quelle parole: « Unum corpus et unus spiritus, sicut vocati estis in una spe vocationis vestrae (1). » Col sacramento della fede, cioè col battesimo, gli uomini incominciano ad essere membra del corpo mistico di Cristo; ma coll' eucaristia si connettono vieppiù col corpo di Cristo perchè una porzione di questo corpo, indivisa dal tutto, s' inserisce in essi quasi porzione di loro proprio corpo, e così vi ha una continuazione più piena di essi con Cristo. Ma l' essere essi divenuti corpo di Cristo non giova alla loro salute, anzi grandemente loro pregiudica, se, trovandosi essi in istato di peccatori con volontà avversa a Cristo, non ricevono l' unione dello spirito. Che se la volontà non pone ostacolo, in tal caso lo Spirito di Cristo in essi si diffonde, ed allora giova loro senza fine l' essere un corpo con Cristo, col quale diventano in pari tempo, per così dire, uno spirito. Per ciò adunque che riguarda l' Eucaristia, l' unione che forma di essi un corpo solo con Cristo (il qual corpo, sebbene reale, si dice mistico, che vuol dire occulto, perchè in questa vita non si vede ed è oggetto di fede) nasce dal divenire propria carne e proprio sangue del fedele quella porzione della carne e del sangue di Cristo che risponde alla sostanza del pane e del vino che era prima della consacrazione. E questo si fa in modo occulto, perchè il fedele non s' accorge che in lui rimanga una parte della carne e del sangue di Cristo, rimanendo questo velato sotto gli altrui accidenti, come rimane velato tutto il corpo reale di Cristo indiviso da quella piccola parte. Sicchè il corpo di Cristo rispetto al fedele non opera che spiritualmente, perocchè Cristo tutto intero nel suo corpo o condanna il fedele se in consapevole peccato, ovvero lo santifica comunicandogli lo spirito di santità. Ma ciò non toglie che rispetto a Cristo, questi non sia inserito nel fedele in parte col suo proprio corpo reale nel modo di essere eucaristico: e che un giorno, cioè dopo la vita presente, non si manifesti. Cristo adunque da parte sua tiene tutti i fedeli che si comunicano uniti al proprio corpo reale, quasi con altrettante funicelle, colle diverse porzioni del pane eucaristico che loro divide. Onde questa parola di dividere o frangere il pane sì di spesso ripetuta nelle scritture parlanti di questo sublime mistero. [...OMISSIS...] E nella moltiplicazione dei pani, in figura del sacramento eucaristico: [...OMISSIS...] E del pari nella seconda moltiplicazione dei pani: [...OMISSIS...] E la medesima espressione scrupolosamente inseriscono nella loro narrazione S. Marco (6) e S. Luca (7). Anche negli Atti Apostolici, facendosi uso della stessa parola solenne, vi si dice: « fragentes circa domos panem (.), » luogo che i sacri interpreti intesero dell' Eucaristia. Nella Liturgia Ambrosiana in quell' atto che il sacerdote spezza l' ostia dice: frangitur corpus Christi: la quale espressione, acciocchè non contenga errore, deve intendersi come la dichiarò il Sassi nella sua Dissertazione. Il corpo di Cristo adunque non può dividersi, ma niente vieta che una parte del corpo di Cristo nel suo essere eucaristico sia legata più strettamente delle altre col corpo del fedele che si comunica; e questa parte, che più strettamente si lega col corpo di un fedele, sia diversa da quella parte con cui più strettamente si lega il corpo di un altro fedele; e queste diverse parti, ciascuna delle quali è destinata alla nutrizione spirituale di un fedele rimanendo indivisa dall' intero corpo di Cristo, sieno corrispondenti a quella quantità della sostanza del pane che vi avea in ciascuna ostia prima della consacrazione: le quali parti si raffigurano in que' grani di frumento sparsi dal seminatore e cadenti altri sulla pubblica via, altri sulla pietra, altri fra le spine, ed altri finalmente sul buon terreno (1), giacchè Cristo altrove si chiama appunto grano di frumento (2). Tutti adunque i fedeli mediante l' Eucaristia s' attengono al corpo di Cristo e formano un sol corpo mistico e tuttavia reale con esso lui. Quindi sono altresì uniti strettamente fra sè, come le membra d' un solo corpo, che quantunque distinte non sono divise: [...OMISSIS...] Laonde, giusta l' esposta sentenza, la diversità delle membra del corpo mistico di Cristo troverebbe altresì un fondamento nella diversità di quella porzione eucaristica che ricevono, e che in ciascuno frutta diversamente secondo il terreno o secondo la qualità della pianta in cui viene innestata. L' unione poi dei fedeli fra loro, l' unione, dirò così, misticamente corporea, risulta dal partecipare tutti come cibo e nutrizione di una parte appartenente allo stesso corpo, e dal ricevere colla detta parte l' intero e identico corpo di Cristo in se medesimi, il quale non può separarsi da quella parte che ciascuno in modo più speciale si appropria. Ma soltanto l' unione che nasce dallo Spirito Santo è quella che unisce non la sola natura dell' uomo con Cristo, la quale s' unisce per la sopradescritta unione corporale, ma lo stesso uomo, la stessa persona dell' uomo: e che unisce in un solo spirito tutte le persone dei fedeli fra loro, perocchè dice San Paolo: « qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (4). » Questa unione spirituale che procede dalla corporale, come lo Spirito di Cristo procede da Cristo, fu quella che Gesù Cristo domandò al Padre nella sublime orazione che fece nel cenacolo: [...OMISSIS...] Cristo dunque, l' identico Cristo è ugualmente tutto in tutti, e tutte le parti di Cristo comunicano della loro virtù a tutte le parti dell' uomo, di che fu figura la maniera usata da Eliseo a risuscitare il figlio della Sunamitide. Perocchè narra la Scrittura: [...OMISSIS...] Essendo dunque il medesimo Cristo in tutti, tutti hanno, per lo Spirito Santo che in essi si diffonde, e sanno d' avere un solo ed identico bene infinito, tutti una sola vita immortale, quella che partecipano da questo bene che possedono cioè da Cristo, tutti un solo amore, una sola volontà. Onde de' primi fedeli si legge: « Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una (3). » Di che proveniva che, come avevano in comune Cristo che era l' unico loro bene, così volessero avere in comune anche l' altre cose che non reputavano beni se non in ordine a Cristo: [...OMISSIS...] E descrivendo questa unanimità e comunità di beni si fa dagli Atti Apostolici speciale menzione dell' Eucaristia, che n' era il fonte e la più efficace cagione, perchè si dice [...OMISSIS...] L' esemplare di questa unione che Cristo desiderava nei suoi fedeli era l' unione ch' egli aveva col Padre suo: ut sint unum sicut et nos . Il Verbo divino col suo Padre è unito colla natura che è identica nell' uno e nell' altro, ma è distinto quanto alla personalità. Così ne' fedeli deve restar distinta la personalità di ciascuno, ma debbono comunicare fra loro nella natura. Gli uomini, prescindendo dalla grazia, convengono nella medesima specifica natura, quindi la loro medesimezza appartiene al solo ordine ideale ed oggettivo, ond' essi, avendo il modo di essere soggettivo, non conseguono da questo di essere veramente unificati nè quanto alla persona, nè quanto alla natura. Ma il Verbo divino è oggetto non solo ideale, ma reale; onde il suo operare (in quanto trapassa l' ordine della natura e tende a perfezionarla compiendo le sue lacune e limitazioni senza distruggerla), è sempre perfetto e compiuto, e però vòlto a realizzare l' oggetto anche rispetto alle nature soggettive. E perocchè in tutti gli enti il principio ritrae la determinazione e l' attività sua dal termine immanente con cui è legato per sintesi ontologica, e il termine del principio intellettivo è l' oggetto; perciò il Verbo manifestandosi alle intelligenze le unifica anche realmente: perocchè, in quanto hanno per termine lo stesso Verbo, il principio intelligente che le costituisce soggettivamente viene determinato ed attuato nello stesso modo, e s' identifica non totalmente, ma in quanto ha quell' oggetto reale comune. In quanto poi il Verbo si manifesta diversamente e con diversi gradi di luce alle intelligenze finite, in tanto esse si distinguono fra loro. E nel battesimo già si dà questa segreta comunicazione del Verbo, e questa parziale identificazione, della quale S. Paolo scrive: « Unus Dominus, una fides, unum baptisma (1). » Ma Cristo non era solo Dio, ma anche uomo, in modo però che la personalità di quest' uomo risiedeva nel Verbo di Dio, onde il Verbo di Dio come persona reggeva l' umanità quasi potenza inferiore. Quindi anche l' umanità riceveva dal Verbo il divino istinto di unificare realmente gli uomini, ne' quali amava la similitudine della natura; e questo l' ottenne coll' istituzione del Sacramento eucaristico, nel quale tutti gli uomini acquistano per termine della loro vita sensitiva una porzione del corpo di Cristo indivisa dall' intero corpo, e quindi anche il principio sensitivo, base della natura umana, ha una identificazione parziale di natura, rimanendo distinte le persone. Onde aveva ben ragione Isaia di cantare predicendo le opere del Salvatore: « « Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris, et dicetis in die illa: Confitemini Domino et invocate nomen ejus: notas facite in populis adinventiones ejus. - Exulta et lauda habitatio Sion: quia magnus in medio tui Sanctus Isra‰l »(2). » Dall' essere Cristo connesso coll' uomo, e l' uomo inserito in Cristo come tralcio nella vite ne' modi sopraddetti, ne viene che l' uomo sia connesso altresì coll' eterno Padre, nel seno del quale è il Figliuolo, e che è pure nel Figliuolo. [...OMISSIS...] Quindi la società dell' uomo con Cristo ordinata dal Padre, di cui dice l' Apostolo: « Fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem Filii ejus Jesu Christi Domini nostri (3), » è società ad un tempo col Padre stesso, come insegna S. Giovanni: [...OMISSIS...] E si osservi quanto qui è proprio il vocabolo di società, la quale esige che più persone abbiano un bene posto in comune. Ora i fedeli con Dio e fra sè hanno in comune, e in comune godono il loro bene che è appunto Cristo, e il suo Corpo santissimo, ed il suo Spirito. E venendo a parlare dello Spirito che emette Cristo in quelli ne' quali egli dimora, primieramente diremo che questo è Spirito di vita soggettiva . Perocchè nell' essere senziente ed intelligente, considerando com' egli è ontologicamente costruito, si distinguono due estremi, il principio ed il termine . E benchè il principio (che è propriamente il soggetto) non sia senza il termine, tuttavia, posto ch' egli esista, ha un' attività sua propria colla quale può più o meno aderire al termine. Il che si scorge massimamente nelle creature intelligenti e libere, di cui l' atto soggettivo, che può essere di maggiore o minore intensità, è l' adesione dell' amore. Laonde, quantunque non si può dare l' atto soggettivo dell' amore se manchi l' oggetto cui amare, secondo l' adagio voluntas non fertur in ignotum; tuttavia, quando vi ha l' oggetto, questo può essere più o meno amato dal soggetto. Nell' ordine della vita soprannaturale, di cui parliamo, l' oggetto immediato è sempre Cristo. Ora l' atto soggettivo, col quale si ama Cristo conosciuto, è mosso dallo Spirito Santo. Questo Spirito è mandato dall' oggetto stesso, cioè da Cristo. Cristo adunque è l' autore immediato della vita oggettiva, fonte della soggettiva. Della vita oggettiva disse Cristo: « Haec est autem vita aeterna: ut cognoscant te, solum Deum verum, et quem misisti Jesum Christum (1), » e questa vita si dice oggettiva, non perchè non sia anch' essa un atto del soggetto (nel qual senso ogni vita è soggettiva), ma perchè è determinata necessariamente dalla sola percezione immanente e primitiva dell' oggetto, ove non vi ponga ostacolo la volontà che può rifiutarla, il quale oggetto Cristo ha lo Spirito Santo in se medesimo. Della vita soggettiva, opera speciale dello Spirito Santo, Cristo disse: « Et notum feci eis nomen tuum, et notum faciam » (mandando il Santo Spirito personalmente); « ut dilectio, qua dilexisti me, in ipsis sit, et ego in ipsis (2). » Nell' una e nell' altra vita opera lo Spirito Santo, che perciò si chiama « Spiritus vitae (3), » in quanto entrambe sono soggettive, atto del soggetto; ma nella prima lo Spirito opera inizialmente e quasi potenzialmente (con che vogliam dire che al sentimento dell' uomo lo Spirito non si manifesta come persona, ma in forma di doni semplicemente, e non distinto da Cristo). L' effetto dello Spirito Santo è di aggiungere forza all' attività soggettiva soprannaturale in modo che conosca più vivamente e perfettamente Cristo e le sue parole, e più grandemente ed efficacemente lo ami. Il Verbo si rimane distinto dal soggetto uomo in cui dimora per quella differenza che v' ha fra l' oggetto e il soggetto, la quale è categorica; lo Spirito Santo si rimane distinto solo come il creante e il creato, il movente e il mosso. Il soggetto mosso, nel nostro caso, sente la mozione, sente che vi ha in sè quello che non era prima, sente la carità, possiede le azioni sante; ma non iscorge per questo alcun oggetto nuovo, perchè lo Spirito non ha la forma oggettiva propria del Verbo. Onde Cristo disse: « Spiritus ubi vult spirat, et vocem ejus audis, sed nescis unde veniat aut quo vadat: sic est omnis qui natus est ex spiritu (4). » E S. Paolo distingue la mente dell' uomo, la quale ha l' oggetto per forma, dallo spirito che è a foggia d' istinto senza oggetto nuovo e suo proprio, onde dice: [...OMISSIS...] Ed altrove dice che lo Spirito prega nell' uomo, e dimanda quel che deve dimandare, quando l' uomo stesso non sa che cosa debba dimandare siccome si conviene (1). Lo Spirito si unisce dunque, e in certa maniera si mescola col soggetto che egli santifica, operando in lui in modo che il soggetto è insieme quello che opera. Onde Cristo attribuisce allo Spirito l' uomo nuovo, l' uomo nato alla santità; il qual uomo perciò si dice divenuto uno spirito con Dio: [...OMISSIS...] E S. Paolo: « Qui autem adhaeret Domino, unus spiritus est (3). » Onde lo stesso Apostolo dice, che lo Spirito in noi prega quando noi preghiamo: [...OMISSIS...] Ma, oltrechè lo Spirito viene dato « secundum mensuram donationis Christi (5), » come s' esprimono le Scritture, rimane sempre distinta la consapevolezza divina dello Spirito, dalla consapevolezza umana dell' uomo, nel quale lo Spirito si manifesta. E così pure si distingue la giustizia di Dio, « qua ipse justus est », dalla giustizia di Dio « qua nos justos facit (6); » perocchè, benchè sia una la giustizia e la santità ed identica, tuttavia sono diversi i soggetti che la partecipano o la possiedono, e n' hanno il sentimento o la consapevolezza. Come adunque Cristo unifica la natura umana, così il suo Santo Spirito unifica le persone umane nella più intima società ..........

LE ULTIME FIABE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

(credendo che abbia parlato il Ministro): Eh! Volete anche un po' di questo?

IL TRAMONTO D'UN IDEALE

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Marchesa Colombi 1 occorrenze

"Finché abbia spogliati gli abiti e la selvatichezza degli Oblati, con me non ci verrà più" diceva a Rachele quando gli domandava di lui. Così finirono le vacanze, e Giovanni andò a Torino per gli studi universitari, senza aver più riveduta la sua compagna d'infanzia. Ma appena ebbe un amico gli parlò di lei, dei loro giochi infantili. E poi narrò come s'era fatta alta negli anni del collegio; descrisse la sua bellezza, l'aria da gran dama, il contegno maestoso... Però tutta tutta la verità del loro unico incontro non ebbe il coraggio di confessarla: e neppure il suo disgraziato abito da oblato. Preferì confidare all'amicizia i suoi disegni e le sue speranze. Intanto gli abiti da prete erano rimasti indietro colle memorie del seminario e colle timidezze da adolescente. La vita dello studente a Torino, il vedersi vestito come gli altri giovinotti, la simpatia dei compagni, e la considerazione che gli acquistava il suo ingegno, gli ridavano la sua audacia naturale. Malgrado l'ammirazione vivissima che risentiva per Rachele, non mancava di prendere parte a tutti gli spassi de' suoi compagni; e, nella misura della sua piccola borsa, non trascurava nessun mezzo per acquistare l'esperienza della vita. Gli premeva di spogliarsi della rustichezza, dell'ingenuità, della selvatichezza da chierico di cui arrossiva. Doveva essere bello, elegante per presentarsi a lei: doveva saper discorrere con garbo, con spirito; ed aver fatti degli esami che fossero una splendida promessa pel suo avvenire. Diceva al suo amico: "Il Tale, che ora è deputato d'un collegio di M., ed ha scritto questo e quest'altro, era figlio d'una lattivendola. Il Talaltro che è stato ministro, nella sua gioventù faceva il sarto". Citava Rossini, Beethoven, Haydin, e sopra tutti Shakespeare; egli pure si sentiva di poter salire. "Sarò un avvocato celebre, come Brofferio. (Allora Brofferio era al colmo della sua gloria). Guadagnerò cinquantamila lire all'anno. Verranno da lontano per sentire le mie difese. Tutta Fontanetto vorrà esserci...". Fin allora non parlava di matrimonio. Era tutta una poesia d'amore; Rachele doveva risentire pel suo ingegno, pei suoi trionfi oratorii, per la sua fama, altrettanta ammirazione quanta egli ne provava per lei. Diceva ingenuamente: "È così bianca e bionda, e profumata, i suoi abiti sono così belli ed i suoi atti così composti, che dà soggezione; non si osa parlarle, parrebbe un'audacia; è qualche cosa di superiore a noi. Io arrossivo della mia voce grossa, dopo aver udita la sua, e mi vergognavo di camminare dopo averla veduta lei muoversi con tanta grazia. Mi pareva che, se le avessi stretta la mano, avrei lasciata un'impronta sulla sua; e del resto non avrei mai avuto il pensiero di farlo, come non avrei mai sognato di stringere la mano alla regina". Accennava le dame che andavano in carrozza in Piazza d'Armi e diceva: "È come questa, ma più bianca; è come quest'altra, ma più bionda; è come quella terza..." ma anche la terza e tutte avevano qualche perfezione di meno. Tra lui e quelle dame cittadine non gli pareva che ci fosse l'enorme distanza che aveva sentita tra lui e Rachele. E non pensava che con queste si misurava in circostanze meno sfavorevoli. Venne l'autunno, e con esso le vacanze, e Giovanni tornò a Fontanetto. Quando il signor Pedrotti annunciò a sua figlia che lo studente era in paese, e che lo aveva invitato a pranzo pel giorno seguente, la Rachele gli disse con accento impietosito: "Oh Dio, babbo! non potevi fare a meno d'invitarlo? È tanto timido che soffre a trovarsi qui fra tanta gente". "È timido e fa bene ad esserlo" rispose il signor Pedrotti. "Io non posso soffrire i ragazzi spavaldi. Egli sa qual è la sua condizione, e sta al suo posto. Questo prova che ha ingegno, e se saprà condursi sempre così, farà strada: vedrai. Intanto, per non dargli soggezione lo metteremo alla tavola dei bambini; ho invitato appunto tutti i bambini dei commensali, come l'anno scorso..." Rachele non se lo fece dire due volte; e quando fu sicura d'aver posto il suo compagno di infanzia al riparo dalle umiliazioni, mise un gran respiro e disse: "Tutto per il meglio". Poi pensò ai suoi obblighi di padrona di casa; si vestì colla sua semplicità da giovinetta; un abito chiaro senza fronzoli, senza gale, affatto indipendente dalla moda, una bella collaretta bianca increspata come l'aveva sempre portata in collegio, un grembiule bianco col petto e l'orlo ricamati, ed un fiore ne' capelli. E discese sorridente, ed accolse i primi commensali arrossendo molto, con molto riserbo, ma senza goffaggine, col garbo e la disinvoltura che le erano naturali. Tratto tratto guardava verso il cortile, un po' impensierita dall'ingresso di Giovanni... Doveva ripetersi la scena dell'anno innanzi? Avrebbe voluto evitarla, ma non sapeva come fare. Il Dottorino tardava. Il signor Pedrotti cominciava a guardare l'orologio sul camino, ed a contare, di cinque in cinque minuti, il tempo che passava. I convitati avevano già tirato in campo il discorso di circostanza del quarto legale dopo il quale non c'è più obbligo d'aspettare, e ciondolavano per la sala guardando la mensa, leggicchiando i nomi sui tovaglioli, dando una occhiata ad un quadro, una capatina alla finestra, parlando a frasi tronche, dimenandosi come anime in pena. Era una tempesta che s'ingrossava per scoppiare poi sul capo del povero capro emissario. Rachele, che la prevedeva, staccò alcuni fiori da un gran mazzo che ornava la mensa, ed andò a metterli in una coppa che pose sulla tavola dei bambini. Nella gentilezza del suo animo, pensava di preparare un compenso ai rabbuffi che toccherebbero al piccolo selvaggio. Mentre era voltata e curva verso la tavola, udì una voce chiara un po' tremante, con un timbro metallico come le note alte di tenore, che diceva: "Siamo in ritardo, nevvero? Ho veduto che il babbo non giungeva, e sono venuto io a fare le nostre scuse...". Rachele si voltò meravigliata, e riconobbe appena il chierichetto dell'anno prima nel bel giovinetto che le si fece incontro. Ma Giovanni aveva presunto troppo dalle proprie forze, e quando si trovò dinanzi a lei si fece rosso come una fiamma, non osò porgerle la mano, e stette troppo a lungo inchinato pensando una parola da dire, un saluto che non fosse dei soliti, e non trovò che questo: "Buon giorno signorina: come sta?". Era cresciuto molto, ed omai aveva una bella statura; era svelto e ben fatto. Aveva il collo un po' lungo, la testa piccola, dei bei capelli neri ondulati e rigonfi, gli occhi neri infossati, le guancie leggermente salienti sotto gli occhi, ed un po' colorite in alto, come le dipingono gli artisti da teatro per dare più calore allo sguardo. Infatti il suo sguardo aveva un ardore, che correggeva la timidezza de' suoi modi, o la faceva dimenticare. Aveva le labbra di un rosso vivo liscie e grosse, i denti lunghi e bianchissimi, il sorriso fine. Una bocca incantevole che faceva pensare con rincrescimento ai baffi futuri che l'avrebbero coperta. Era un bellissimo giovine; ma la bellezza, che è sempre tanto difficile a portare per un uomo!, egli la portava con semplicità perché la ignorava, o almeno non ne traeva argomento di vanità. Si considerava sempre molto al disotto della Rachele, e si proponeva d'innalzarsi fino a lei col suo ingegno, collo studio, col lavoro, con mezzi più serii e più difficili che non la bellezza. "Grazie, signor Giovanni; e lei come sta?" rispose Rachele un po' confusa, facendosi rossa anche lei. E quelle parole tanto semplici fecero un gran piacere a Giovanni, perché erano dette in modo da lasciargli indovinare che anche la sua compagna d'infanzia cominciava ad essere imbarazzata dinanzi a lui; che si metteva in soggezione, ed arrossiva per lui come per un altro. Mentre si scambiavano quel saluto giunse il Dottorino, e tutti si accostarono alla tavola cercando i loro posti. Questa volta Rachele non sapeva come fare a dire a quel giovinotto elegante, che doveva sedere alla tavola dei bambini; e rimaneva in piedi tra le due mense con un piglio impacciato. Ma Giovanni, che non aveva spogliata del tutto la sua selvatichezza, e sfuggiva sempre volentieri alla protezione impertinente de' suoi mecenati, fece uno sforzo e vinse la propria timidezza per rassicurare Rachele e sé stesso. "Spero" disse colla voce un po' tremante, "che non mi vorranno separare da' miei piccoli amici. Abbiamo fatto conoscenza l'anno scorso..." I bambini lo guardarono sgranando gli occhi ed aprendo la bocca per lo stupore. Non lo riconoscevano affatto, quel bel signorino. Giovanni sedette in mezzo a loro, e là ogni soggezione scomparve. Serví i piccoli commensali, tagliò la carne nei piatti, spezzò il pane, poi cercò di farsi riconoscere: "Una volta c'erano sei bambini..." e li descrisse coi loro difettucci, che li fecero ridere ed arrossire ciascuno alla sua volta. "E c'era un ragazzaccio più grande di loro, vestito da prete, con una zimarra così e così, con un cappello a questo modo..." e tirò via a fare la propria caricatura. I bambini finirono per ricordarsi e raffigurarlo; e fu un ridere, una chiassata, un'allegria tale, che alla mensa vicina non s'udivano più l'un coll'altro, e le burle del Dottorino, che pure da trent'anni parevano sempre divertevoli, non riuscivano a suscitare la solita ilarità. A poco a poco i discorsi gravi di politica e di interessi municipali furono abbandonati, e tutti quei personaggi seri, consiglieri del Comune e della Provincia, amministratori di Opere Pie, si trovarono col capo inclinato e l'orecchio teso verso la tavola dei bambini, dando retta se potevano afferrare qualche parola, che li facesse partecipare a quell'allegria. Il signor Pedrotti, però, non la prendeva in buona parte, come gli altri, la metamorfosi del suo beneficato. La sua idea era sempre stata di atteggiarsi a protettore, di incoraggiare con una parola buona fatta cadere dall'alto quel giovinetto inconscio del proprio valore, e d'aver lui il vanto d'avere scoperto un genio ignorato. E voleva che Giovanni, standogli dinanzi, fosse compreso di tanta riverenza, da non osar di parlare senza essere interrogato. Quella libertà di spirito, tutta nuova nel ragazzo, gli parve una mancanza di rispetto. Volle riaverlo sott'occhio per tenerlo a segno e gli disse con una certa ironia: "Poiché sei tanto allegro, vieni qui. Facci un po' ridere anche noi". Giovanni, che nella rigidezza inesorabile de' suoi principii, aveva tutta l'inesperienza de' suoi diciott'anni, si sentì offeso come se gli avessero detto: "Vieni a fare il buffone" e poi avessero anche soggiunto: "come fa tuo padre". Fare la figura del parassita che faceva il Dottorino, era il suo grande spavento; stava sempre in guardia per non caderci, ed era scontroso per paura di esser servile. Si alzò per obbedire; ma nel suo cuore si propose severamente di non prestarsi "a quella parte ignobile da giullare". Il posto che gli venne offerto si trovò, per combinazione, accanto a Rachele; forse perché, nella sua cortesia da padrona di casa, era stata la prima a tirarsi da parte. Ma la presenza di Giovanni non portò nessuna allegria alla tavola signorile. Egli stava sulle difese, ed assumeva modi riservati, serii, da gentiluomo. Avviò colla sua vicina un discorso sulla letteratura; ed essendo romantico e puritano, sparlò dei novatori, e fece un lungo elogio dei Promessi Sposi insistendo sui miglioramenti della seconda edizione. La Rachele aveva letti i Promessi Sposi in collegio, ma non aveva badato all'edizione e non sapeva che differenza ci fosse fra la prima e la seconda. Immaginandosi di far cosa grata al suo ospite, disse che aveva letta la prima edizione, e che si struggeva di conoscere la seconda. Si mostrò anzi desolata di esser giunta alla sua età senza aver letti i Promessi Sposi corretti. Giovanni le offrì premurosamente di portarglieli, ed ella diede segni di grande gioia. Ma il signor Pedrotti li interruppe: "Che bisogno c'era di farne una seconda edizione?". Quel discorso letterario era contrario alle abitudini di Fontanetto, e dava sui nervi al castellano. Egli considerava i letterati come gente sfaccendata ed inutile; non capiva che si spendessero quattrini pei libri, i quali "se anche si leggono dopo letti non servono più a nulla". Ed esclamava con sussiego: "Mio Dio! Da dove cavano da vivere costoro?" poi soggiungeva severamente: "Farebbero meglio a lavorare". Quando tornava, dopo aver visitati i suoi campi e le sue piantagioni, pigliava il giornale di Torino, a cui era abbonato, e diceva ridendo: "Ed ora vediamo come si piantano le carote". Era una facezia del Dottorino che il Pedrotti aveva fatta sua da dieci anni, e che il Dottorino applaudiva sempre come un tratto di spirito del castellano. Quand'ebbe giudicati i Promessi Sposi il signor Pedrotti si volse alla sua vicina, e le disse con aria furba: "Ho fatto allungare la tavola un metro di più quest'anno, ma un'altra volta che avrò il piacere di ricevere delle signore, dovrò anche far allargare gli usci". Alludeva alla crinolina, e tutti si misero a ridere, ed il Dottorino canticchiò il ritornello d'una canzone che era di moda fra il popolino di Novara: "La stella cometa la vegn ai vot or. E i donn in giornada gh'an sott el vapor" E si rise daccapo, poi si parlò della cometa, che era il grande avvenimento dell'annata; si ripeterono in proposito i pregiudizi dei contadini: "Segno d'epidemia?", "Una gran guerra o una gran carestia" ecc. ecc. Ci furono delle risate, ma su certe fronti appare poi un'ombra d'inquietudine, se avessero ragione i contadini? "La Castalda" narrò il Pedrotti "mi disse che l'altra sera la cometa scopava il cortile colla sua gran coda; e poi esclamò: "Poveri noi! Poveri noi!" Domandai perché; e mi rispose: "Non capisce? Scopava via il raccolto". È un avviso. Ah! Ah! Ah!". Aspettava una risposta del Dottorino; e, vedendolo intento a discorrere colla sua vicina, gli gridò ammiccando: "Eh! Dottorino! Scopava via il raccolto la cometa!". "Sie! Vorrei averlo io tutto quello che rimane dopo la scopatura" s'affrettò a rispondere il Dottorino, che l'aveva già detto la sera prima in farmacia. Era la risposta che voleva il Pedrotti, sempre lusingato di sentire che altri desiderava quanto egli possedeva. Diede l'intonazione dell'ilarità, e risero ancora, e su quel tono avrebbero tirato via a ridere fino a sera. Ma neppure gli spiriti più eletti si trovano sempre in perfetto accordo. Dirimpetto a Giovanni c'era la moglie del segretario comunale che non prendeva parte all'allegria generale. Era una donna sulla quarantina, lunga, magra, bionda, col viso arrossato dal sole, il che, da lontano, le dava una falsa apparenza di freschezza, e fomentava le sue pretese alla gioventù. Era sempre accigliata; parlava sempre colla bocca stretta, e con un piglio così aspro, che aveva l'aria d'ingiuriare la gente. Invece diceva sempre delle gentilezze, ed anche delle cose dolci: "Rachele, questa sera sei bella come un fiore" ed era come se avesse detto: "Come t'è venuto in mente di vestirti a quel modo?". Aveva la mania di cantare le romanze più languide del repertorio invecchiato in città: "Non mi chiamate più biondina bella, (qui il Dottorino susurrava invariabilmente che nessuno ci pensava più da un pezzo) Chiamatemi biondina sventurata". Intavolò con Giovanni un discorso sentimentale sulla musica: "Io la sento la musica. La sento tanto che ne patisco. Mi fa sempre piangere. Sul lago d'Orta l'anno scorso abbiamo sonato e cantato in barca, di notte, al chiaro di luna. C'era un flauto. Ah, quelle note del flauto! Io t'amerò finché le rondinelle... Giovanni, che per la prima volta si vedeva trattato da uomo e preso a confidente da una signora di tanta autorità, credé bene di risponderle approvando interamente i suoi gusti musicali. Recitò con calore mezza appendice che aveva letta in un giornale di Milano, e fece una tirata contro Wagner, tirata che la signora udì con profonda stupefazione. Egli parlava forte per farsi coraggio colla propria voce, e per apparire disinvolto, mostrando apertamente di sdegnare gli argomenti triviali di conversazione che piacevano ai suoi commensali, ed ostinandosi a mantenere il discorso sui temi alti della letteratura e dell'arte, come se dicesse: "Qui sono nel mio elemento; alle vostre meschinità non voglio discendere". Il signor Pedrotti perdé affatto la pazienza. "Mi pare" gli disse, "che ti occupi un po' troppo di politica, e di musica, e di cose che non ti riguardano. Faresti meglio a lasciare le arti ai signori, ed a badare a' tuoi studi, altrimenti i sacrifici che si son fatti per te andranno perduti". Giovanni, da rosso che era, si fece pallido di rabbia. Stava per rispondere qualche cosa di risentito, ma, appunto in quel momento, Rachele gli porgeva un piatto di dolci e gli sorrideva per invitarlo a prenderne uno. "Grazie" disse Giovanni sbadatamente. E stese la mano un po' tremante per pigliare il piatto da passare alla sua vicina, e tornare alla risposta acerba che aveva in gola. Ma Rachele insistette. "Non vorrà rifiutare la mia offerta..." No; non rifiutava; prese un confetto a caso, e di nuovo stese la mano. Ma lei lo consiglió ad una scelta migliore; un dolce di cioccolatte. Dovette gradire, ringraziarla. Intanto il signor Pedrotti s'era impegnato in un altro discorso, parlava della ricchezza mobile, a cui il Dottorino contrapponeva con l'usato spirito la povertà stabile facezia che allora era ancora fresca, e produceva un grande effetto. Giovanni finí per capire che tutte quelle manovre di Rachele tendevano appunto ad impedire che avvenisse un diverbio fra il signor Pedrotti e lui; e gli parvero un prodigio di tatto, di disinvoltura. "È una vera signora" pensava. E si sentiva più che mai umiliato delle sue timidezze segrete e delle sue spavalderie artificiose. E desiderava ardentemente di diventare un vero gentiluomo; ma capiva di non esserlo, e non osava più studiarsi di parerlo. Dinanzi a Rachele si sentiva piccino, e si vergognava. Avrebbe volentieri fatto qualche cosa di eroico per nobilitarsi agli occhi della giovinetta; ma in realtà osò appena rivolgerle qualche parola, e non ebbe ancora il coraggio di porgerle la mano nel congedarsi, sebbene, dacché era entrato, e prima d'entrare, si struggesse di quel desiderio. Rachele s'ingegnò di essere gentilissima in quel congedo; poi, rimasta sola, al momento d'andare a dormire, sedé sulla sponda del letto, e stette un pezzo pensosa. Si ricordò che il giorno prima aveva scambiate alcune parole scherzose col pretore, un giovine di trent'anni che le aveva fatto un po' la corte, provò un dispetto, una rabbia indicibile contro quel magistrato: se l'avesse avuto sotto mano, lo avrebbe battuto. Ne' giorni successivi Rachele non poté staccare il suo pensiero da Giovanni; la parola ardente del giovine le aveva fatto grande impressione. "Certo, egli doveva conoscere a fondo le lettere e le arti per parlare a quel modo. Il signor Pedrotti era vecchio, e viveva in un villaggio; non era capace di comprenderlo; ma realmente quel giovine aveva un ingegno straordinario...". Pensando alle umiliazioni che gli infliggevano i suoi protettori si sentiva struggere. Le pareva che lo trattassero con enorme ingiustizia e crudeltà. La menoma allusione alla pensione pagata per lui le pareva un'offesa; e Giovanni le appariva come una vittima della società, una nobile vittima che sopportava con dignità sublime quella tortura, frenando il suo bollente sdegno giovanile, dissimulando il suo giusto orgoglio, per rispetto all'età di quei signori. Ne faceva un martire ed un eroe. Aveva indovinato ch'egli l'amava e n'era superba. Ogni volta che sapeva di doversi incontrare con lui, s'aspettava che le facesse una dichiarazione. Si proponeva di compensare in quel momento il suo giovine innamorato di tutte le umiliazioni patite. Era un disegno audace, di cui non c'era esempio nei pochi libri d'amore che aveva letti, e neppure nelle confidenze delle sue amiche, dove la giovinetta respingeva sempre con indignazione le prime parole d'amore, salvo ad accettare le seconde. Lei aveva risoluto di rispondere alla prima. "Sì, ti amo, perché sei infelice e povero, e voglio essere infelice e povera con te". Aspettando la dichiarazione, studiava ogni mezzo per atteggiarsi da fanciulla innamorata. Diceva spesso: "Non posso soffrire i ricchi ignoranti. Non isposerò mai altri che un uomo d'ingegno. La povertà degli uomini d'ingegno è una nobile povertà. Tutti gli uomini grandi sono stati poveri". Parlava di Giovanni ad ogni proposito; soltanto, non osava dire il suo nome, e lo chiamava il figlio del Dottorino. Le sue compagne le dicevano: "Già, tu sei innamorata del figlio del Dottorino". L'ardire cavalleresco di Rachele non arrivava fino a confessare apertamente il suo amore. Ma nel suo donchisciottismo giovanile, era contenta che lo indovinassero. Suo padre disprezzava quel giovine, e lei lo amava. Era una riabilitazione. Metteva quel sentimento in ogni cosa. Aveva adottato un motto, che scriveva in testa alle sue lettere, sui fascicoli di musica, sui libri, dappertutto: "Povera e ignuda vai, filosofia" Possedeva quello sciocco libretto del linguaggio dei fiori che piace tanto alle collegiali, e portava sempre in petto dei fiori simbolici; molte volte erano tanto strani che attiravano l'attenzione. Portò per un pezzo un tulipano, la dichiarazione d'amore era quella che aspettava da Giovanni. Un giorno fu veduta con un garofano puntato colla testa in giù. "Perché ti metti quel garofano al contrario?". "Vuol dire amore incompreso. In un giorno di scoraggiamento si mise alla cintura un cardo selvatico, che punse le amiche quando vollero abbracciarla. Era il simbolo dell'infelicità. Si ricamava dei goletti stravaganti, dove, invece dei soliti disegni d'ornato dei ricami in bianco, c'erano delle viole del pensiero con una leggenda sentimentale, delle colombe con una cartolina in bocca su cui c'era un motto poco leggibile. Tutte fatiche perdute, perché nella minutezza quei particolari passavano inosservati; e Giovanni era troppo orso perché le chiacchierine delle ragazze, che ci vedevano chiaro, giungessero fino a lui. Egli intanto s'isolava nel suo amore, e soffriva della sua condizione umile. In quei mesi di vacanza passava gran parte della giornata solo, errando per la campagna, e meditava molto, e faceva interminabili castelli in aria. Si figurava d'aver compiuti gli studi, e d'essere riuscito a fare qualche cosa di bello; non sapeva definire precisamente che cosa; variava a seconda delle impressioni del giorno, delle letture che aveva fatte. Una volta sognava un trionfo ottenuto con un grande lavoro drammatico; un'altra volta una causa importantissima vinta in tribunale; o aveva stampato un libro a cui tutta la critica applaudiva; o veniva eletto deputato per acclamazione, portato in Parlamento dalla stima e dall'amore di tutto un paese; o otteneva la votazione d'una legge, giusta ma insperata, grazie ad un prodigio d'eloquenza parlamentare... Qualche volta immaginava guerre, atti d'eroismo; si vedeva ferito, decorato sul campo, insignito di alti gradi militari; l'uomo più illustre d'Italia. E quando era giunto al punto più alto del suo sogno, si metteva ai piedi di Rachele, e le diceva: "Tutto questo l'ho fatto per rendermi degno di te". Ed allora gli pareva che la Rachele delle sue visioni lo accettasse con tenerezza, quasi con riconoscenza. Erano soli e, vinta dalla passione, si abbandonava nelle sue braccia, e gli confessava che lei pure lo aveva amato sempre, che lo aveva aspettato perché aveva fede in lui. Finì per sommergersi talmente di quelle sue fantasie, che sfuggiva la gente per non distrarsene. Era un mondo illusorio che s'era creato, e nel quale gustava dolcezze ineffabili. Là, la sua timidezza, la sua sguajattaggine, non gli creavano imbarazzo o vergogna. Là era come avrebbe voluto essere, e si sentiva pienamente felice. A poco a poco riuscì a persuadersi che quei sogni dello spirito fossero fondati su qualche cosa di reale; che Rachele ne fosse a parte veramente, come lui ne la metteva a parte nella sua fantasia; non le considerava più come un suo sogno, ma come un suo segreto, ed un segreto comune con lei. Una sera, salendo la collina, incontrò Rachele, con una brigata di signori che scendevano dal vigneto. Ella si sentì arrossire, perdette il filo del discorso che stava facendo, e fu presa da tanta commozione al vederlo, che non osò alzar gli occhi su di lui, e lo salutò appena con un lievissimo cenno del capo. In realtà, tolto di mezzo l'amore il quale non era stato confessato, non c'era nessuna ragione perché il saluto di quella signorina, unica erede del primo possidente del paese, dovesse essere più espansivo verso quello studente povero. Ma Giovanni aveva tanto riunite le loro esistenze ne' suoi sogni d'amore, s'era tanto dato a lei, l'aveva tanto fatta sua coll'immaginazione, che aveva finito col persuadersi che vi fosse un vincolo reale fra loro, e quel saluto freddo gli fece l'effetto d'un secchio d'acqua tra capo e collo, lo meravigliò come un fatto strano, gli parve un'infedeltà, un abbandono. Si sentì offeso, infelice; ripensò i grandi argomenti che aveva per credere all'amore di Rachele: i fiori che lei stessa aveva posti accanto a lui sulla tavola dei bambini; il dolce che gli aveva offerto per impedirgli di bisticciarsi col signor Pedrotti... Non c'era altro; ma su quella magra tela, e su quel saluto freddo, egli ricamò tutta una storia d'amore e d'abbandono, nella quale si assegnava la parte interessante della vittima... E la mattina seguente, che era appunto domenica, andò in chiesa, si mise in capo al banco dei signori Pedrotti, nell'atteggiamento che pigliano nei romanzi gli amanti infelici, e per tutta la durata delle funzioni perseguitò Rachele con uno sguardo pieno di dolore e di rimprovero. Rachele ne fu profondamente turbata. Quando Giovanni fu per partire, il signor Pedrotti lo invitò ancora una volta a pranzo. Il Dottorino portò quella notizia al figlio, ed era giubilante. Un pranzo signorile era sempre un avvenimento felice per lui. Giovanni ne fu invece agitatissimo, e fantasticò i più strani disegni, che gli tolsero il sonno. Il giorno dopo, al momento di presentarsi in casa Pedrotti, era estenuato d'aver vegliato tutta la notte su quel pensiero, in un'alternativa febbrile di fantasticherie amorose, di sdegni, di rimproveri, di scene di riconciliazione, sulle quali aveva pianto lacrime bollenti nel segreto del suo guanciale. Per questa volta era ben sicuro che lo butterebbe fuori quel segreto che lo torturava. Gli pareva che, dopo quanto aveva sofferto, gli riuscirebbe più facile parlare che tacere. "Perché mi ha salutato con quella freddezza? Che cosa le ho fatto? Non si ricorda i fiori che ha messi per me sulla tavola dei bambini? Crede che io non abbia capito cosa volevano dire quei fiori? Erano una dichiarazione, erano una promessa...". Tutto questo gli pareva di doverlo dire spontaneamente, a bassa voce, e che Rachele non potesse meravigliarsene, dopo quanto c'era stato fra loro. Come accade sempre ai sognatori, la realtà dissipò tutti i fantasmi della sua immaginazione. Gli bastò di vedere la tavola apparecchiata, e i soliti invitati, i soliti bambini, ed il volto di Rachele che gli sorrideva cortesemente, per capire che aveva sognato, e che tra lui e quella giovinetta non c'era nulla di comune. Questa delusione lo mortificò; si sentì scoraggiato, triste, e non badò più a mostrarsi disinvolto come l'altra volta. Vedendolo cogli occhi bassi, muto, e che non mangiava, il signor Pedrotti si sentì riconciliato col suo protetto, e non gli parve vero di riprendere la parte di protettore, d'incoraggiarlo, di predirgli una carriera splendida. "Devi diventare un grand'uomo per giustificare la fede che ho avuta in te; ed io avrò la mia parte di gloria per avere scoperta una gemma nascosta..." Quando il Pedrotti parlava così, Giovanni si sentiva incoraggiato davvero, non solo per la sua carriera, ma per le sue speranze d'amore. "Se ha fede in me..." pensava. E le asprezze, le alterigie, le umiliazioni che gli aveva fatto patire, gli si toglievano dalla mente. Il Dottorino, sempre pronto a divertire il suo ospite, riprese la sua parte di bello spirito; ed alla fine del pranzo i commensali erano in tale ilarità, che la presenza d'una giovinetta diveniva importuna; ed anche quel ragazzo, che non si sapeva ancora quanta esperienza avesse della vita, paralizzava l'allegria dei vecchi amici. Uscirono tutti a prendere il caffè sotto la veranda fuori della stanza da pranzo ed il signor Pedrotti disse a Rachele ed a Giovanni: "Badate un po' ai bambini, che non s'arrampichino al terrazzo laggiù". Gl'innamorati s'avviarono in silenzio senza guardarsi. Dalla veranda al terrazzo c'era un pergolato dritto: si sentivano sotto gli occhi dei vecchi; ma sopratutto erano in soggezione di loro stessi. Il pranzo s'era prolungato, ed in autunno le giornate sono brevi. Era sull'imbrunire. Il terrazzo in fondo al giardino dominava la pianura del basso Novarese e, dietro il castello, le colline addossate ai monti nascondevano il sole che in quei giorni d'autunno tramontava presto. I bambini, disturbati nei loro giochi, risalirono il viale, e si rimisero a giocare ad una certa distanza. I due giovani si appoggiarono al parapetto del terrazzo. La campagna era deserta; si udiva appena qualche grillo, una cicala che prolungava sola il canto, dopo che le sue compagne avevano finito il loro romoroso concerto, nella vasca del giardino il tonfo d'una rana di tratto in tratto, e giù nel viale il cicalìo dei bimbi. Da lontano le acque del Sissone facevano il rumore d'una sega. Il terrazzo era coperto da una vite vergine, le cui foglie s'erano fatte rosse, ma erano ancora foltissime. Giovanni si ricordò che appunto là aveva sognato di fare la sua confessione, e di stringersi al cuore Rachele in un'estasi d'amore. La guardò così estranea a lui, così contegnosa e bella, e quel pensiero gli parve addirittura mostruoso. Ne ebbe vergogna, e volle dire qualche cosa d'indifferente, per paura che Rachele indovinasse la sua stravaganza. Ma non sapeva cosa dire. Laggiù sotto la veranda si vedevano balenare un momento le vampe dei fiammiferi, poi si spegnevano, e le punte luccicanti de' sigari rimanevano come occhi di fuoco a guardarlo fisso. Echeggiò una risata sonora dei vecchi, e Giovanni disse colla voce commossa: "Come ridono!". Rachele non trovò nulla da rispondere. Disse: "Già!" e, come per temperare il laconismo di quella parola, sorrise al suo compagno. Nell'incontrarsi dei loro sguardi, Giovanni si ricordò come l'aveva guardata in chiesa, gli parve d'essere ancora in quella situazione, ma senza l'impossibilità di parlarle che allora lo aveva incoraggiato. Anche Rachele aveva il volto infiammato, e s'inchinò a guardare la pianura per non farsi scorgere. Giovanni capì ch'ella risentiva un'impressione nuova dalla loro vicinanza e dal loro isolamento. La contemplava tutto tremante. Quel rossore, quel turbamento di Rachele, erano suscitati da lui, gli appartenevano, e non voleva che gli sfuggissero come i suoi sogni. Ma non trovava nulla da dire, e non era neppur sicuro di poter parlare. Quegli occhi di fuoco sulla punta dei sigari gli davano soggezione; e tratto tratto un bambino lo pigliava per le gambe e gli si rimpiattava dietro, mentre l'altro gli saltellava dinanzi strillando e ridendo. Tutto questo lo confondeva, gli faceva perdere l'equilibrio. Ed intanto gli batteva il cuore, gli battevano i polsi in modo assordante, si sentiva venir meno le forze come se svenisse. Fece un passo verso Rachele come per dirle: "Ti amo!", ma un impeto di pianto gli gonfiò il cuore; non disse nulla, e si abbandonò sul parapetto di marmo singhiozzando disperatamente. Rachele alzò il capo e domandò: "Giovanni, che cos'hai?". Ma la sua voce era mutata. Anche lei piangeva. Un momento tutte le esitazioni cessarono. Giovanni si rizzò col volto infiammato e cominciò con un impeto di passione: "Ho che sono pazzo, ho...". Due bambini si gettarono fra loro a capo fitto strillando di gioia, e li respinsero contro il parapetto, e tutti i sigari dei vecchi luccicarono infocati. "Ho che..." ripigliò Giovanni a bassa voce ed esitando; e non trovò più altro. Rimasero muti tutti e due, a capo chino, poi egli stese per la prima volta la mano in atto di congedarsi, e Rachele vi pose la sua. Entrambe erano diacce e tremavano forte. Giovanni strinse quella mano disperatamente, poi colla voce oscillante come un ubbriaco, susurrò: "Non glielo posso dire che cos'ho". E se ne andò quasi correndo, finché fu vicino a quelle punte di sigari che parevano avanzarsi per divorarlo. Quando fu lontano dalla fanciulla, tornando a casa pei violotti bui, accanto al padre che traballava camminando, Giovanni fu preso da un impeto di sdegno contro se stesso, si die' con persistenza dello sciocco ad alta voce, e pianse rabbiosamente. Aver lasciata fuggire un'occasione tanto favorevole senza approfittarne, senza dire tutto ciò che aveva nel cuore! E doveva passare un anno intero prima di rivedere Rachele! E Rachele, contemporaneamente, chiusa a chiave nella sua camera, si scioglieva in lacrime, e chiedeva mentalmente perdono al giovine di non aver saputo dirgli nessuna parola gentile per consolarlo, d'essere rimasta là come una sciocca, come una donna senza cuore e senza giudizio. S'amavano tutti e due, e sapevano d'essere amati; che altro ci vuole a questo mondo per essere felici? Ed erano come disperati. Molte volte, da Torino, Giovanni ebbe un desiderio ardentissimo di scrivere a Rachele. Ma sapeva che non avrebbe potuto ricevere una lettera dalla posta senza correre il rischio, anzi, senza la certezza d'essere scoperta. L'impiegato postale era il fornaio, che vendeva anche droghe ed oggetti di chincaglieria; sua moglie e sua figlia si davano una cura grandissima delle lettere in arrivo ed in partenza, conoscevano dalle soprascritte i corrispondenti dei signori del paese, e non era sperabile che una lettera da Torino diretta alla signorina Pedrotti potesse passare senza suscitare un pettegolezzo, prima ancora di giungere al castello. Tuttavia non poté resistere alla smania di sfogare sulla carta la passione febbrile che gli bruciava il cuore. "Ti amo, Rachele, con tutto l'ardore della mia giovine anima, ti amo e disperato è l'amor mio... dimmi che m'ami dimmi che m'ami...". Provava un conforto a farsi risuonare all'orecchio, rileggendole, quelle frasi appassionate. Sovente invece di scriverle, leggeva le proprie lettere nella Nouvelle Heloïse nelle Confessions d'un enfant du siècle nel Jacopo Ortis e gli pareva d'averle scritte lui, e di trovarsi appunto in quelle situazioni lagrimevoli, tanto lo struggimento della sua passione rinchiusa gli empiva l'anima di malinconia. Poi leggeva le risposte di quelle donne adorate ed infelici, e compiangeva dolorosamente Rachele, come se quella corrispondenza fosse sua, ed ostacoli insuperabili la togliessero per sempre al suo amore. L'autunno ricondusse il giovine innamorato ad idee meno romanzesche. Quella fu un'annata eccezionale per Fontanetto. Ci fu il trasporto del Corpo di sant'Alessandro. Una festa straordinaria. I proprietari fecero degli inviti estesissimi. Ai pranzi i coperti si contavano a dozzine, e se ne tenevano apparecchiati diversi in più, per gli ospiti imprevidibili. Accorsero forastieri da tutti i paesi vicini; persino da Novara. Al castello c'erano due signore di Milano, madre e figlia, ed una Svizzera. La Svizzera era la governante; ma il signor Pedrotti non amava farlo sapere, e la presentava con aria d'importanza, come se fosse stata un gran personaggio, e fosse partita per l'appunto da Zurigo, per correre a Fontanetto, dietro la fama delle ossa di sant'Alessandro, e delle carni cucinate dal cuoco del castello. Le feste durarono tre giorni, ma tennero in orgasmo tutto il paese per l'intero mese di agosto, ed anche più. Ad un pranzo di cinquanta persone si ha più libertà, senza dubbio, che ad uno di dieci. Giovanni e Rachele si trovarono spesso come isolati e soli in mezzo a quella folla rumorosa. Soltanto, l'ambiente non era abbastanza poetico per certe frasi che il giovane innamorato aveva pensate la notte, e doveva dirne delle altre assai meno liriche: "Volevo scriverle, sa, da Torino. Anzi, le ho scritto più volte". "Oh, mio Dio! Io non ho ricevuto nulla!" esclamava Rachele, spaurita all'idea di quelle lettere nelle mani di chissà chi. "Non si spaventi" s'affrettava a dire Giovanni. "Ho scritto, ma non le ho mandate le mie lettere". "Allora, perché le ha scritte?". "Perché sentivo il bisogno di dirle qualche cosa". E dopo una pausa soggiungeva abbassando ancora la voce, e guardandola con passione: "E lei, non lo hai mai sentito quel bisogno?". "È troppo curioso" rispondeva Rachele arrossendo. E quel rossore voleva dire di sì, che aveva scritto, che se ne vergognava un pochino, ma che ardeva dal desiderio di comunicargli quegli sfoghi epistolari, e di leggere quelli di lui. Giovanni aveva già molto domata la sua timidezza da scolaretto. Osava fissare lungamente la bella fanciulla negli occhi, e non arrossiva più. Essa pure lo guardava tratto tratto, tanto più se erano un po' lontani, ed allora si dicevano cose appassionate con quei lunghi sguardi mesti. Le parole non avrebbero potuto dirne di più. Omai s'intendevano, e con quel muto linguaggio si comunicavano questo desiderio comune: "Se fossimo soli!". La sera Rachele stava spesso sul terrazzo in fondo al giardino, e Giovanni passeggiava sulla strada di là dal fossato cogli occhi sempre rivolti a lei. E lei lo seguiva collo sguardo tenace. E quando s'allontanava, egli si voltava indietro ad ogni passo, si fermava, tornava a guardare, tornava a fermarsi, e soltanto allo svoltare della contrada, quando aveva passeggiato tanto che s'era fatto buio e si vedevano appena, si toglieva il cappello lentamente per prolungare quel saluto, che lei rendeva con un lieve chinare del capo. Quell'ora dell'imbrunire era il loro pensiero di tutto il giorno. Dopo la prima volta, senza dirselo, erano tornati tutti e due ogni sera, lei sul terrazzo e lui sulla strada. Era sempre la stessa cosa, lo stesso passeggiare, lo stesso guardarsi, lo stesso saluto. Ma era un godimento infinito e provavano un vero dolore quando, per una causa qualunque, dovevano mancare al muto convegno. Ed il giorno dopo chi aveva mancato assumeva l'aria compunta d'un colpevole, e chi era stato deluso all'appuntamento si mostrava sdegnato. Poi, a forza d'occhiate, che, a quella distanza del resto, non avevano altra espressione che la fissità, riescivano a turbarsi a vicenda, a commoversi, a suscitarsi nell'animo quella tempesta di affetti, che fa battere il cuore fuor di misura, e rende incapaci di tutt'altro sentimento che contemplare, amare, desiderare. La festa di sant'Alessandro era passata; si cominciava già a parlarne un po' meno; e chiunque possedeva un tralcio di vite al sole, pensava alla vendemmia. Il Dottorino non aveva il menomo stelo di sua proprietà in tutto il regno vegetale; il garofano che fioriva sulla sua finestra, in una vecchia zuppiera senza manico, era della Matta, e persino la zuppiera era stata sua soltanto abusivamente perché non l'aveva pagata mai. Ma il Dottorino era l'anima delle vendemmie come dei pranzi. "Potete fidarvi, che dell'uva non ve ne mangio" diceva. "La volpe, che trovava acerba soltanto quella a cui non poteva arrivare, non era furba quanto me. Non sapeva che è sempre acerba anche quella che si ha nel paniere, perché l'uva, per maturare, ha bisogno dell'aria del tino". Figurarsi se quei signori vignaiuoli non pensavano a portargli una buona bottiglia d'uva matura ed a gustarla con lui! Ne conoscevano troppo gli effetti sullo spirito giocondo del Dottorino, per non provocarli. Un giorno Giovanni si scontrò con suo padre sulla strada di Ghemme, ed il Dottorino lo invitò a seguirlo nel vigneto dei signor Pedrotti, dove raccoglievano l'uva bianca, e rimanevano tutto il giorno. Per quella sera Rachele non andrebbe sul terrazzo. Giovanni provò una deferenza per l'autore de' suoi giorni!... Non fece che voltar strada e camminargli a fianco, finché, giunti al vigneto, si dispersero in due filari diversi, perché il vecchio prendeva la più breve per arrivare al villino. C'era tutta la società elegante di Fontanetto a quella vendemmia. Giovanni udiva le chiacchierine delle signore traverso il filare di viti. "È dolce come il miele" diceva la moglie del segretario col viso arcigno come se dicesse: "È veleno". "Io ho sempre desiderio dei grappoli a cui non arrivo colla mano" rispondeva la voce acerba d'una giovinetta. "Allora eccone uno che ti farebbe voglia" osservò Rachele; e si accoccolò protendendo un braccio traverso il fogliame fitto che radeva il suolo, ed appoggiandosi coll'altra al terreno arso e cretoso. Ma il grappolo era indietro indietro, dall'altro lato del filare, e non le riesciva di coglierlo. Invece sentì qualche cosa di caldo solleticarle il palmo, e, quando ritirò la mano che qualcuno aveva trattenuta, s'avvide che stringeva un garofano. "Cos'è? Perché hai gridato?" domandò la segretaria. "Perché mi sono graffiata tra i rami" rispose la Rachele che aveva riconosciuto le labbra amorose, ed il garofano della finestra di Giovanni. Poi, come se cercasse altri grappoli attraenti, si fece innanzi affrettando gradatamente il passo finché si curvò, scomparve sotto i tralci di vite, e si perdette nel vigneto. Nessuno le tenne dietro. Ciascuno era libero d'andare dove amava meglio. S'era fatta innanzi senza una risoluzione precisa. Sapeva che Giovanni era là, ed il cuore la spingeva ad isolarsi. Dopo un tratto, aveva veduto la bella testa bruna traverso la vite, incorniciata di pampini come la testa di Bacco. Egli la guardava fissamente cogli occhi ardenti e mesti. E quegli occhi la attiravano irresistibilmente. A capo chino, rossa in volto, camminando a rilento, si fece innanzi fino a lui, come una magnetizzata. Allora egli si chinò, sollevò i rami facendole un piccolo arco verdeggiante, ed ella passò in silenzio. I rami ricaddero, ed i due giovani si trovarono l'uno in faccia all'altro, pallidi, commossi, palpitanti, in un filare vendemmiato. Giovanni le prese le mani e le disse: "Parto doman l'altro. Per un anno non ci vedremo più". Rachele chinò il capo e non rispose. La persona alta di Giovanni si stringeva a quella di lei, ed il suo viso, curvo sulla testa bionda della giovinetta, s'infiammava tutto del desiderio di stringerla fra le sue braccia. Il suo alito caldo le faceva tremolare i riccioli sulle tempia, le solleticava la nuca e l'orecchio. Rachele mise un sospirone come se avesse un gran peso sul cuore. Egli pure sospirò; poi, come per consolarsi di quell'affanno che li opprimeva tutti e due in mezzo a tanta ebbrezza d'amore, si pose il braccio della Rachele sotto il suo, e la tirò innanzi appoggiata così come una sposa, senza cessare di stringerle la mano. Egli susurrò: "Sarai sempre mia?" "Sì" disse Rachele sospirando ancora. Poi soggiunse: "Saremo uniti come fratello e sorella". Era una fisima che aveva letta in un romanzo. A Giovanni parve l'ultima espressione dell'ingenuità verginale; un sogno di poesia celeste. Sentì di doverla adorare in ginocchio per quella parola, e le promise di sì, che l'amerebbe a quel modo. In quel momento aveva la convinzione di potersi innalzare a quella idealità. E, dopo questo, non trovarono più nulla da dire. Continuarono a camminare in silenzio, con una grande mestizia sul volto ed un gran peso sul cuore, stringendosi le mani per confortarsi a vicenda, muti e gravi, come chi ha compiuto un atto solenne. In capo al filare si separarono. S'erano tenuti stretti fin allora; ma, al momento di darle un bacio, Giovanni ebbe soggezione dell'aria aperta, dell'orizzonte vasto, e la attirò sotto un ciliegio, da cui pendevano abbandonati i rami foltissimi di una vite vendemmiata. Sotto quell'arco verde, nascondendosi dall'aria, dal cielo, stese le braccia con uno sguardo supplichevole. Voleva che Rachele vi si abbandonasse da sé. E vi si abbandonò; e si strinsero un momento con una passione, che smentiva l'idealità dei loro propositi. Ma, per quel momento, non c'era a temere. Tutti i Cherubini e Serafini, i Troni e le Dominazioni, e perfino le undicimila vergini che fanno corona al Padre Eterno, avrebbero potuto contemplare quell'abbraccio amoroso e desolato senza aver bisogno di velarsi la faccia. Quando il Dottorino e suo figlio scesero dal vigneto, la Matta stava alla finestra, mondando amorosamente la pianta del garofano. Ne aveva contati i fiori più volte; era sicura che ne mancava uno. La mattina Giovanni era uscito con un garofano all'occhiello. La Matta rideva e cantava forte, e tornava a mondare, ad inaffiare, a contare i fiori della sua pianta. Quando Giovanni rientrò, la serva gli si fece incontro ridendo e guardandogli l'occhiello dell'abito. Ma ad un tratto cessò di ridere e se ne andò in cucina. Il garofano non c'era più. Più tardi il Dottorino era fermo sulla porta di strada. Tutta la brigata, che aveva pranzato al vigneto dei Pedrotti, scendeva la contrada, e, giunta alla porta del Dottorino, si fermò a salutarlo. La Matta s'affacciò alla finestra, ma non rideva più come il mattino. Guardava la signorina Pedrotti. La vedeva grande e bella, e ben vestita, e pensava con soddisfazione: "Ora non giocherà più con Giovanni". In quella Giovanni uscì sul balcone della sua camera, e gridò: "Buona sera!" "Buona sera! Buona sera!" risposero tutti. Poi la voce limpida ed un po' tremante di Rachele disse ancora: "Buona sera!". Ed intanto guardava Giovanni, ed odorava il garofano. Il mattino seguente, quando Giovanni aperse la finestra per cogliere un altro di quei fiori, non trovò più neppure la zuppiera rotta. La Matta non riescì mai a capire le sue domande, né a rispondergli cosa fosse avvenuto della pianta di garofano. Si stringeva nelle spalle, e diceva come al solito: "Io non so" Del resto Giovanni non osava neppure insistere colle interrogazioni, perché la Matta era tanto crucciata quei giorni; non mangiava ed aveva sempre gli occhi rossi e gonfi di nuove lacrime. Forse c'era qualcuno malato in casa della sua balia. Gli anni si succedevano. Giovanni aveva davvero un ingegno eccezionale, studiava con ardore, parlava bene, scriveva con arte, ed era anche poeta. Colla sua istruzione e coll'età, cresceva anche il suo amore e si faceva serio. A misura che il giovinetto diventava uomo ed imparava a conoscere il mondo, rettificava i giudizi erronei dell'inesperienza, e la sua passione diveniva meno romanzesca e più vera. L'unione fraterna, che aveva accettata un momento colla fantasia, lo faceva sorridere. Era tornato sempre nell'autunno a Fontanetto, ma, appunto perché s'era fatto uomo, non aveva più ottenuto d'esser solo con Rachele. Ma ormai si sentivano uniti come se si fossero fidanzati. I loro occhi, che si attiravano come se li unisse una corrente elettrica, le loro mani che si stringevano febbrilmente l'una all'altra, e si staccavano lente ed a stento, li legavano come una promessa. Avevano una lunga storia d'amore calda, viva, interessantissima da rammentare, e tutta così, senza parole. Anche il signor Pedrotti era espansivo con Giovanni, mostrava di volergli bene. L'ultimo anno poi, quando il giovine tornò colla laurea, gli fece tali dimostrazioni d'affetto da rassicurarlo completamente. Era evidente che nulla avrebbe amato meglio che di chiamarlo suo figlio. Intanto però era venuta l'antivigilia della partenza di Giovanni per Milano, dove andava a cominciare la sua carriera legale; era finito l'ultimo pranzo in casa Pedrotti; e le cose stavano sempre allo stesso punto. Quel giorno però il signor Pedrotti era stato affettuosissimo per Giovanni. Lo aveva abbracciato chiamandolo ripetutamente: "Il nostro avvocato". "Eccoti avviato ad una bella carriera" gli aveva detto. "Non mancarmi, sai. Bada che ho promesso di fare di te un grand'uomo. Ho avuto fede in te; ed ora che hai la laurea, tocca a te darmi ragione". Poi l'aveva abbracciato ancora ed aveva detto: "Chissà che non ti vediamo deputato e non dobbiamo ricorrere a te per il bene del nostro paese. Chissà! Se lo vuoi... Volere è potere. Tutto questo era detto bonariamente, ma in realtà, più per ricordare la parte ch'egli aveva avuto al conseguimento di quella laurea, e per atteggiarsi a protettore, che per ammirazione di Giovanni. Ma Giovanni raccoglieva quelle parole religiosamente. "Ho avuto fede in te". "Volere è potere". Egli voleva ottenere Rachele; e poiché il padre di lei aveva fede nel suo ingegno, perché non potrebbe? Anche Rachele pensava forse così, perché osservava con occhio di compiacenza quelle amorevolezze del babbo verso il suo innamorato. Più tardi, quando Rachele gli porse la chicchera del caffè, Giovanni le susurrò: "Bisogna ch'io le parli prima di partire". "Parli" disse lei, fermandosi come per porgergli la zuccheriera. Egli afferrò colla molletta un pezzo di zucchero, e riprese: "No, dobbiamo esser soli". Ella non fece nessun atto di sdegno, e lo guardò soltanto esitante, come per dire che non era possibile: "Il giardino è buio, non si può uscire". "Ora no; ma domani, se verrà sul terrazzo, io traverserò il Sissone al ponte dove l'acqua è bassa, e verrò sotto..." Egli non vedeva altro mezzo per innalzarsi fino all'unica erede del signor Pedrotti, che allontanarsi dal suo paese e da lei e lavorare lungamente e con coraggio in una grande città. Ma temeva che, mentre egli preparava laggiù il suo avvenire, un altro, un ricco possidente, venisse a domandare Rachele a suo padre, e se la portasse via. Questo pensiero lo tribolava, e diminuiva il suo coraggio. Aveva bisogno di levarselo dal cuore come una spina. Per questo aveva risoluto di domandare prima a Rachele, poi al signor Pedrotti una promessa solenne, da portarsi con sé come un talismano. Il giorno dopo Rachele ebbe l'emicrania, e preferì prendere l'aria tranquillamente sul terrazzo, mentre il signor Pedrotti saliva co' suoi amici al vigneto, dove le viti erano sfrondate, e non offrivano più riparo agli amanti, i vini avevano finito di bollire nei tini, ed i possidenti sedevano a giocare una partita di bazzica nel salotto del villino, colle vetrate chiuse. Giovanni giunse sotto il terrazzo per la via del fossato, e si fermò col capo in su, mezzo nascosto dai rovi che crescevano sulla ripa. Rachele era appoggiata al parapetto del terrazzo, tutta convulsa e pallida, come se avesse l'emicrania davvero. Era la stessa ora silenziosa, la stessa aria umida e fredda d'autunno, la stessa penombra, lo stesso isolamento di tre anni prima. Ma in quei tre anni le loro anime erano maturate alla vita; erano scese dalle nuvole. Giovanni era avvocato ed aveva ventidue anni. Non ebbe esitazioni; non rigirò le frasi. Era l'ambiente dell'amore, l'ambiente della confidenza, l'ambiente del tu. Non poteva arrivare neppure a prenderle le mani, ma alzò verso di lei il volto innamorato, e colla sua bella voce le disse: "Senti, Rachele; ho bisogno che tu rinunci ad amarmi come un fratello. Non siamo più due giovinetti ingenui: lo sai, lo comprendi che quell'amore ideale non mi basta". "Sì, lo so" sospirò la Rachele, tutta rossa e vergognosa, ma sincera. Egli la guardò lungamente in silenzio, mettendo in quello sguardo tutto l'ardore delle carezze che avrebbe voluto farle se avesse potuto giungere fino a lei; poi tornò a dire: "Mi permetti di domandarti a tuo padre prima di partire?". "Oh sì, sì!" susurrò la Rachele amorosamente. Egli continuò come se parlasse fra sé, rapito in estasi da quel consenso, che era la più grande delle espressioni d'amore. "Spero che non avrai a pentirti di questa parola, cara. Vedrai; non sono delle illusioni giovanili che mi creo. Ho la certezza di farmi un bel nome, di acquistarmi una situazione degna di te. Tu non sai, nessuno sa, la forza e le inspirazioni buone che mi dà il tuo amore. Se diverrò qualche cosa, lo dovrò a te, perché sei tu che mi sproni alle ambizioni nobili, al lavoro, al bene. È per ottener te, che desidero prendere un posto nel mondo, e guadagnare del denaro". Queste parole le diceva sommessamente, con tale accento di passione, che Rachele si sentiva stemprare il cuore nell'udirle. Non rispondeva che collo sguardo fisso ed appassionato. Egli riprese: "Credi che avrei studiato, che avrei un grado accademico a quest'ora, se non fosse per te? Io ho nel cuore tutti i germi delle passioni, e le tentazioni laggiù a Torino li riscaldavano potentemente per svilupparli. Se non avessi avuto quel gran desiderio di te che mi riempie l'anima, avrei presa la vita allegramente, avrei perduti i miei anni di studio, avrei disgustato tuo padre e gli altri, e sarei tornato qui a custodire le pecore, come diceva il mio babbo, o sarei rimasto uno degli spostati che vivono di ripieghi in città fra la miseria ed il vizio. Sei tu che m'hai salvato e m'hai spinto al bene. Ed ora devi sostenermi ancora, mettendoti là, al termine delle mie fatiche, come il mio premio, la mia meta, la gioia ed il riposo della mia vita". Alzò tutte e due le mani, come per implorare di stringere le sue malgrado la distanza. Ella si sporse, si curvò sul parapetto; ma non si raggiunsero. Allora Giovanni si sentì preso da scoraggiamento al vedersi così diviso da lei, e le disse: "Oh Dio! E se il tuo babbo mi dicesse di no?". "Per carità; non pensarlo" rispose Rachele. "Sarebbe terribile". "Ma se mai, di', cosa faresti?". "Morirei" susurrò la giovinetta. "No, no. Questi sono romanzi" disse Giovanni con impazienza. "E poi, io non voglio che tu muoia. Voglio che tu viva e che tu sia mia ad ogni costo. Di', lo sarai?" "Sì". "Anche se tuo padre non vuole?" "Questo è impossibile". "Perché?". "Perché... non so; non potrei resistere a mio padre: l'ho sempre obbedito, e lui m'ha sempre voluto bene...". Poi, come scacciando un'immagine triste, soggiunse: "Ma via non pensiamo al male. Ti dimostra tanta affezione: ha detto oggi che ha fede in te. Perché vuoi che ti rifiuti?". "È vero" ripetè Giovanni, "non pensiamo al male". Poi, cercando di aggrapparsi alla riva, domandò: "Mi vuoi bene?". Ella portò alle labbra la punta delle dita, e gli mandò un bacio senza sorridergli, seria e commossa come chi assume un impegno grave. Giovanni s'aggrappò con una mano sola alla ripa, per sollevarsi fino ad un piedino di lei che sporgeva tra le colonnette del terrazzo, lo strinse amorosamente coll'altra mano e lo baciò. La vasta pianura era coperta di nebbia e pareva il mare. Si distingueva appena, al di là del fossato nero, la linea cretosa della strada comunale. Sull'orlo della strada passava e ripassava un'ombra nella nebbia, e tratto tratto si fermava a guardar Rachele, ed a guardare giù nel fossato. "Addio" susurrò la Rachele. "Bisogna andar via, ci guardano". Ma Giovanni la rassicurò mentre s'allontanava: "Non badarci; è la Matta". Giovanni passò la notte a disporre ogni cosa per la sua partenza. Non andava più all'Università; non riceveva più la pensione dei suoi mecenati. Andava a Milano nello studio d'un avvocato famoso, dove doveva fare il suo tirocinio, per poi esordire nel foro. Egli non dubitava di nulla. I suoi anni di studio erano stati una serie di trionfi. La stima dell'avvocato Berti, che lo prendeva con sé, gli appianava la via. E l'amore gli giubilava nel cuore. Il Dottorino quella notte rientrò in casa assai tardi. Aveva bevuto qua e là ed era allegro. Nel passare dinanzi all'uscio aperto della cucina, gli parve di vedere, sullo scalino del focolare spento, un corpo raggomitolato che si dondolava gemendo. "È il gatto" pensò il Dottorino a cui il vino aveva tolto il senso esatto delle proporzioni; e tirò via. Ma non era il gatto; e fino al mattino quel corpo raggomitolato continuò a dondolarsi ed a gemere nell'oscurità. Giovanni si vestì cantando un'aria d'amore. Le sue note di tenore non erano mai risonate così alte e belle. Scese le scale cantando, e, giù nella via, nel silenzio del mattino, s'udì perdersi in lontananza quella voce solitaria. Errò per le straduzze dei colli cantando ancora, declamando versi, cominciando dei castelli in aria, interrompendoli, riprendendoli daccapo, agitato, impaziente. Finalmente alle dieci entrò al castello, e domandò di parlare al signor Pedrotti. Ma la sola vista del servitore che l'introdusse, diminuì d'un grado la sua sicurezza. Traversò la stanza da pranzo deserta: e le grandi credenze spolverate, le piramidi di piatti di porcellana, le buste d'argenteria chiuse, colla cifra sulla placca, lo rattristarono. Che distanza, mio Dio, dalla sua nudità a quella ricchezza! Poi passò pel salone buio, colle cortine abbassate, le imposte chiuse; e gli enormi seggioloni coperti dalle fodere grigie, coi sedili sovrabbondanti e protesi, gli parvero un'adunanza di proprietari panciuti, che stessero ad aspettare con sussiego la sua domanda per discuterne fra loro. Finalmente entrò nello studio, freddo, rigido nella sua nudità. C'erano poche sedie ed una scrivania; ma ai due lati della scrivania si rizzavano due alti casellari con una infinità di cassette, e sopra ogni cassetta era scritto, in grossi caratteri di stampa, il nome di una possessione. Il signor Pedrotti stava scrivendo in un libro mastro; alzò un momento il capo e disse: "Ah! Dunque te ne vai? Aspetta un momento che finisca questa nota". Tutto il coraggio di Giovanni era svanito. Si sentiva tremare il cuore al momento d'affrontare la grande questione. Leggeva macchinalmente i nomi delle terre: Il Gentilino, La Peveraccia, Sant'Antonio al Fosso... Erano piccole proprietà, ma erano proprietà; egli le conosceva tutte, e ne ignorava il valore. Le contò; erano quattordici. E gli parvero quattordici nemici chiamati là per attestare della sua miseria. Il signor Pedrotti chiuse il libro, e si alzò tornando a dire: "Dunque te ne vai, figliolo?". "Sì. Vado a cominciare la mia carriera..." rispose Giovanni. "E fai le tue visite di congedo?" domandò il proprietario, tanto per parlare. "Sì..." "Sei stato dal conte Valli, e dal parroco?..." "No, sono venuto prima da lei..." "Bravo, ti ringrazio. Vuoi restare a colazione qui? Saluterai anche Rachele". Giovanni si sentiva venir freddo, aveva le mani diacce e bagnate di sudore, ed il cuore gli balzava così forte che ne aveva il respiro corto e la voce tremante. Ma tuttavia quell'accoglienza buona lo incoraggiava, e, fermo nel suo proposito, disse: "No, grazie. Sono venuto per parlare a lei... d'una cosa importante... pel mio avvenire...". "Di' pure; in quel che posso" rispose il signor Pedrotti con aria di protezione. Poi soggiunge, vedendolo intimorito: "Ma non aver paura, il tuo avvenire è sicuro; hai ingegno, sei appoggiato ad un avvocato valente... Lavora, abbi coraggio, e vedrai; sai che ho sempre avuto fede in te. Il mondo è dei giovani, mio caro". "Sì; ma bisogna che i vecchi, cioè, quelli che non sono più giovani, ci aiutino un poco". "E ti hanno aiutato mi pare" disse il Pedrotti un poco adombrato dalla parola vecchi, e dalla paura che Giovanni non apprezzasse abbastanza le sue larghezze passate e ne domandasse di nuove. "Sì: e se sono qualche cosa, lo devo a loro" assentì Giovanni sempre più tremante. "Ma sa, tutti abbiamo delle aspirazioni; io vorrei diventare qualche cosa di più". "È giusto. L'ambizione fa i grandi uomini e le grandi cose" sentenziò il Pedrotti, usando una frase che aveva letta nel suo giornale. "Ebbene, mi fa piacere che dica così, perché ho una grande, grande ambizione" balbettò Giovanni, che ormai non poteva più frenare gli sbalzi della sua voce soffocata e commossa. "Bravo! E, si può conoscerla quest'ambizione?" domandò bonariamente il proprietario. "Vuoi diventare deputato?". "No. Voglio... voglio... sposare sua figlia" susurrò Giovanni con un mormorio appena percettibile. Il signor Pedrotti si rizzò sulla poltrona; lo guardò fisso cogli occhi sgranati, e stette un tratto senza trovare una parola da rispondere. Poi ripeté, come se non fosse certo d'aver capito: "Sposare mia figlia!". Giovanni chinò il capo come un colpevole, e lanciò il suo miglior argomento cavato dal fondo del cuore: "Le voglio tanto bene!". "Ti ringrazio dell'onore" disse con ironia il signor Pedrotti. "E lei pure vuol bene a me" soggiunse Giovanni, in cui l'indignazione era pronta, e ravvivava il coraggio. "Me ne congratulo tanto, ma sai cos'ha di dote mia figlia?" "Io non gliel'ho domandato, e la sposerei soltanto quando avessi altrettanto anch'io". "Ah bene: allora ne riparleremo". Ed il proprietario si rizzò indispettito come per chiudere la seduta. Ma Giovanni aveva ripreso ardire a quel rifiuto scortese, ed insistette: "Mi basta che lei prometta di non darla ad altri, e di concederla a me quando mi sarò fatto un nome ed una rendita". "Oh! io non firmo cambiali a così lunga scadenza" disse il signor Pedrotti facendo una spallucciata ed avviandosi all'uscio. "Non m'ha detto che ha fede in me?" domandò Giovanni con accento di rimprovero. "Oh, mi pare che basti!" gridò il possidente con un impeto di rabbia e picchiando un piede in terra. "T'ho dato retta anche troppo. Cosa ti credi d'esser diventato, per quello straccio di laurea che abbiamo pagato noi? Mia figlia non è per te, né ora, né mai. Mettitelo bene in testa. Voglio che faccia un matrimonio degno di lei e di me". "Ma posso diventarlo anch'io degno di lei" ribattè Giovanni fremente di sdegno. "Nossignore!" proruppe l'altro gettandogli quella parola in faccia come una ceffata. "Nossignore! Il figlio del Dottorino non sarà mai degno di mia figlia. Vattene, e che io non ti veda mai più vicino alla mia casa. Per Dio!" E sbatacchiò l'uscio dietro il povero innamorato, con un rumore più eloquente delle sue stesse parole. Giovanni traversò il paese quasi di corsa, col viso infiammato, e tutti i nervi vibranti di sdegno. Salì nella sua stanza; vi si rinchiuse con impeto, come se, alla sua volta, sbatacchiasse l'uscio in faccia a quel ricco che lo aveva disprezzato. Poi si mise a scrivere a Rachele: "Tuo padre è un villano, tuo padre non ha cuore" e tirò via a narrare febbrilmente tutto il dialogo avuto col castellano, intercalato da continui io dissi, egli rispose Ma dopo i primi periodi, fermandosi per riordinare il discorso nella sua memoria, si trovò nel falso in quella parte di denigrare il padre presso la figlia. Gli parve di rimetterci della sua dignità, e preferì scrivere quanto gli stava più a cuore. Ieri fummo troppo ottimisti. Non abbiamo voluto prevedere il male, ed il male è venuto, e ci trova impreparati. Tuo padre mi ha negata la promessa che imploravo, e mi ha chiusa la porta della tua casa. Sono profondamente offeso: ma se tuttavia potessi sperare in te, non sarei scoraggiato. Mi sentirei capace di provargli che l'ingegno è assai più della ricchezza. Ieri m'hai detto una parola terribile. M'hai detto che non potresti resistere a tuo padre. Dunque gli obbedirai? Mi respingerai da te, per sposare qualche ricco, proprietario di fondi più o meno irrigatorii? Non ho il coraggio di pensarlo. Desidero, spero e domando che tu mi serbi la promessa d'esser mia, d'aspettarmi. È una domanda ardita, e sarebbe da parte tua una grave promessa. Pensaci. Amante e disperato come sono, non voglio tuttavia strappartela con un'illusione. Non verrà presto il giorno della felicità. Saranno degli anni che dovrai aspettarmi; io mi sento l'energia e la capacità di fare una bella carriera. Ma per presentarmi a tuo padre, dopo quanto m'ha detto, non basta che io abbia una bella rinomanza, e buoni guadagni. Debbo avere un capitale da mettere sull'altro piatto della bilancia, per far riscontro a quell'odiosa dote che ti darà; ed un capitale non si accumula facilmente. Forse passerà lungo tempo, prima ch'io possa reclamare l'adempimento della tua dolce promessa. Ed intanto saremo divisi, nessuno ti parlerà di me. Tuo padre ti presenterà altri pretendenti cari al suo cuore, e tu dovrai respingerli, lottare; e s'egli indovinerà la causa de' tuoi rifiuti, saranno scene di discordia che ti avveleneranno la vita. È molto, è troppo domandare tanto ad un povero cuore di donna; ed io stesso, che ti rivolgo quest'ultima preghiera in nome del mio amore, del nostro amore, non oso sperare che tu l'esaudisca. Ma se mai, se nel tuo cuore c'è forza bastante per questo sacrificio, metti una parola, un sì, nel volume dei Promessi Sposi che ti prestai e che la Matta ridomanderà per avere un pretesto di presentarsi in casa tua, dove io sarei discacciato. O Rachele! Se troverò quella parola scritta da te, ti benedirò dal fondo dell'anima; e mi darà tanta forza, tanto ardore, che mi sentirò padrone del mondo. Consacrerò tutte le ore, tutti i minuti della mia vita a lavorare per compensarti del tuo nobile sacrifizio, e quando sarò spossato, consacrerò ancora i miei riposi ad adorarti. Ma è troppo sperare. Non voglio illudermi. Tu sei donna e sei giovine. Tuo padre ti ama, e ti sei avvezza ad obbedirlo in tutto. È il tuo dovere, povera cara. Il libro verrà senza la gioia che aspetto. Ed io penserò che mi ami, che soffri, che piangi, ma che ti rassegni, e mi abbandoni al mio destino. Mi farai un gran male, cara; un gran male. Ma ti amo tanto, che ti perdonerò. Quand'ebbe scritto, chiuse la lettera, e scese a cercare la Matta. La trovò in cucina accoccolata sullo scalino del focolare che si dondolava gemendo. La chiamò, e le disse, spiccando le parole perché potesse capirle: "Vai al castello. Di' che ti mando io a riprendere quel libro che ho prestato alla signorina". La Matta stava tutta imbronciata ed a capo chino, come se non volesse obbedire. "Hai capito?" domandò Giovanni. Ella si contorse tutta e borbottò: "Io non so". Ma Giovanni s'impazientì, ed insistette colla voce alterata: "Ho assolutamente bisogno che tu faccia quest'imbasciata. Ripeti come dico io". E tornò a dire: "Mi manda il signor Giovanni...". La Matta lo guardava fisso; lo vide pallido, agitato, tremante; allora, con tutta l'attenzione di cui era capace, imparò la lezione. Quand'ebbe detto, Giovanni riprese dandole una lettera: "Quando sarai entrata dalla signorina, e nessuno ti potrà vedere, le darai questa lettera; ma bada, che non veda nessuno". La Matta prese la lettera esitando, ed uscì lentamente e di mala voglia. "Sbrigati!" le gridò dietro Giovanni. "Per amor del cielo, sbrigati!". Ella accelerò un momento il passo; ma, appena ebbe svoltato la cantonata, si fermò, cavò di tasca la lettera, la osservò da tutte le parti, guardò la soprascritta; ma non seppe leggere che gli o. La ripose sospirando, e tirò via lentamente verso il castello. Giovanni intanto fremeva; contava i minuti. Finalmente, non reggendo più alla sua impazienza, uscì incontro alla serva. La vide che tornava rasentando il fossato del castello, a passo lento, a capo chino. Appena s'accorse di lui, voltò indietro come se volesse sfuggirlo. Ma egli la raggiunse, e le tolse di mano il libro. "No, lo porto io" disse la Matta. Giovanni non diede retta. Ella stese la mano per pigliare il volume. Tremava, era turbata e diceva: "Vuol portarlo lei? Tocca a me di portarlo". Ma Giovanni la respinse e corse a casa, tenendo stretto il libro fra le mani. Appena fu in camera aperse la copertina tremando, e non ci trovò nulla; scosse nervosamente il volume, e non ne uscì nulla. Allora, pallido, ansimante, colle mani convulse, passò tutti i fogli ad uno ad uno. Ma non trovò nulla. "Ah, lo prevedevo!" sospirò. "L'ha detto che non avrebbe mai potuto resistere a suo padre". Poi soggiunse: "Anche lei! Ebbene vedrà...". Uscì, camminò frettoloso pel paese, entrò a congedarsi dai suoi protettori, coll'aria spavalda, parlando con agitazione febbrile del suo avvenire, della sua prossima fortuna. Aveva un'aria di sfida che quei signori trovavano strana. Gli rispondevano meravigliati: "Ma bene, bene, ragazzo. Se farai fortuna, meglio per te. Io te l'auguro". E poi quand'era uscito pensavano crollando il capo: "Con chi l'ha? Sembra che abbia bevuto". Giovanni tornò a casa col carrozzino che doveva condurlo a Borgomanero alla stazione della strada ferrata. Entrando nella sua camera per pigliare la valigia, sorprese la Matta che guardava ancora curiosamente il volume riportato dal castello. "Lascia stare!" le disse con dispetto. E strappandoglielo dalle mani, gettò la preziosa seconda edizione dei Promessi Sposi sull'ultimo palchetto in alto della libreria. Poi salutò in fretta suo padre, salì nel biroccino e partì. "Anche lei! Ebbene, vedrà!" aveva borbottato ancora Giovanni ripassando, nel calessino sgangherato, accanto al fossato del castello. O la Rachele s'era lasciata convincere dalle ragioni grossolane di suo padre, o aveva ceduto, anche non convinta, alla sua autorità. Ad ogni modo non aveva saputo amarlo coll'energia ch'egli sperava; aveva diffidato di lui. Questo gli metteva una grande amarezza nell'anima; ma non lo scoraggiava; lo spronava più che mai a lavorare, a conquistare un posto in società per poterle dire: "Vedi che hai avuto torto a dubitare di me!". Aveva creduto un momento d'aver bisogno d'una promessa di lei per sostenere il suo coraggio; ed ora invece la mancanza di quella promessa rinfocava il suo ardore, perché gli dava la paura di non giungere in tempo. Bisognava che s'affrettasse, che diventasse rinomato e ricco presto, subito, finché la Rachele era fanciulla, prima che un altro la sposasse. Quest'idea gli accendeva la febbre nel sangue. Egli confondeva il lungo avvenire col fuggevole presente, gli pareva di dover correre sempre, affrettarsi sempre, non perdere un minuto, come se incominciasse una gara alla corsa con un competitore immaginario. Il passo del ronzino malandato che lo trascinava trotterellando verso la stazione di Borgomanero lo faceva fremere d'impazienza. Quando fu nella carrozza di ferrovia trovò lenta la locomotiva come il ronzino, si dimenò sul sedile, alzò ed abbassò i vetri, cavò fuori l'orologio, poi l'orario, contò le stazioni, fece il controllo dei minuti, ed a Novara si lagnò con un impiegato, perché c'erano stati novantacinque secondi di ritardo. Quasi due minuti perduti pel suo avvenire. I primi tempi del suo soggiorno a Milano furono come un secchio d'acqua su quell'ardore. Il signor Pedrotti, nel raccomandare quel povero figliolo all'avvocato Berti un mese prima, gli aveva scritto: "Badi che non ha altro, fuorché quello che potrà guadagnare nel suo studio; cerchi di procurargli un alloggio economico, e se è possibile, anche una pensione adatta a' suoi mezzi, da povero figliolo com'è". L'avvocato Berti gli aveva assegnate cinquanta lire al mese, e gli aveva trovata una camera presso un fabbricante di zoccoli e forme da scarpe, a due passi dal suo studio. Non era veramente una camera; anzi, due anni prima, faceva parte dei metri cubi di spazio che costituivano la bottega. Poi il fornaio aveva preso moglie, ed allora aveva fatto dividere per metà la bottega tagliandola orizzontalmente, e nel mezzanino superiore aveva posto il letto coniugale. Più tardi la moglie, che era sparagnina, aveva immaginato di rizzare un tramezzo nel mezzanino, e farne due. Così, da una sola bottega, avevano finito per cavar fuori una bottega e due stanze. La prima stanza, però, era una specie di atrio aperto, perché vi metteva capo, mediante un largo buco praticato nell'assito, la scala a chiocciola che poneva in comunicazione la bottega coi mezzanini. Ma questo non aveva impedito di collocarvi un letto contro la parete, una tavola greggia dall'altra parte, due seggiole, e di affittare quella stanza mobiliata per dodici lire al mese. La scarsità dei mobili però non lasciava il vuoto nella stanza. Le pareti ed il soffitto erano riccamente ornati da mazzi enormi di zoccoli e forme, che, riuniti pei talloni, si allargavano come i raggi d'una ruota, come le punte d'una bomba. Intorno all'arco della bottega, che serviva di finestra al mezzanino, lungo la scala, e tutt'intorno all'apertura che sbucava nella stanza, pendevano disuguali ed appuntati quegli innumerevoli piedi. Bisognava salire guardinghi, badar bene dove si arrivava col capo, e non portar mai il lume acceso. Era l'alloggio toccato a Giovanni; egli non era schifiltoso. "Poiché costa poco" aveva detto, "e per questo prezzo non si può aver di meglio...". E la moglie del fornaio, incoraggiata da quella facilità di contentatura, s'era arrischiata a dirgli: "Se poi volesse adattarsi anche a mangiare la minestra con noi...". "Ma ti pare!" l'aveva interrotta il marito. "Eh! Lascia, lo dico nel suo interesse, perché gli costerebbe poco; del resto se non gli conviene..." Ed a Giovanni era convenuto, a trenta centesimi al giorno, compreso un sorso di vino. Ma alla bella prima aveva dovuto convincersi, che, pel suo stomaco di vent'anni, quella non poteva essere che la colazione; ed ancora, lasciandogli un florido appetito pel pasto seguente. Pel desinare aveva quindi dovuto pensare a trovarsi una pensione, dove pagava trenta lire al mese. Così furono collocate le cinquanta lire del suo stipendio, più una. Quell'una e le spese di lume, lavatura, stiratura, vestiti, scarpe e tutto il resto, bisognò che il giovine avvocato s'industriasse a guadagnarsele. Dallo stesso avvocato Berti poté avere l'incarico di copiare atti legali, di riordinare e di mettere in netto dei vecchi minutari, e tratto tratto di tradurre qualche brano d'un trattato inglese o tedesco. A questo modo Giovanni riuscì a sbarcare alla peggio il suo magro lunario. Ma il Berti lo occupava nello studio tutte le ore del giorno, e non gli rimanevano, per quei lavori e guadagni supplementari, che le prime ore del mattino, e la sera. Per poco che dormisse, nelle ventiquattro ore della giornata non ce n'era una di troppo per lui. Quel mezzanino non aveva camino né stufa. L'assito mal connesso lasciava entrare l'aria fredda della bottega, dov'era un continuo aprire l'uscio, e dove le mura stillavano umidità. Il fornaio diceva che era meglio così, perché non c'era pericolo che la sua mercanzia di legno secco prendesse fuoco. Ma questa considerazione non impediva a Giovanni di sentirsi le membra irrigidite e le mani paralizzate dal gelo nelle lunghe sere d'inverno, che passava solitario a scrivere al lume d'una lucernetta a petrolio. Ed anche questa era causa di continui rabbuffi da parte del fornaio. Appena la sua grossa testa, ricciuta in giro e calva nel mezzo come quella d'un san Giuseppe, spuntava dal suolo, alzandosi a misura che saliva la scala, si cominciavano a sentire delle ispirazioni rumorose, come di chi cerca di riconoscere un odore; poi una serie di "Uhm! Uhm!" gli contraeva le grosse labbra, e finalmente, mentre il passo pesante dell'omaccione faceva tremare la stanza, lo s'udiva borbottare: "Questo maledetto petrolio! Con tanto legno intorno! Ma! Ma!". Giovanni tirava via a scrivere. Ma le recriminazioni proseguivano dall'altra parte del tavolato fra i due coniugi, che in causa di quel tenue tramezzo, non aveva segreti pel loro inquilino. Del resto non erano cattiva gente; ed il giovine avvocato, che badava alla sua meta, li lasciava dire. Sovente nel dicembre, quando il freddo era più intenso, l'udire quei due, che si voltolavano tepidamente nel loro letto di foglie di grano turco, evocando quelle immagini ardenti di fuoco e d'incendio, gli dava una tale smania, che avrebbe voluto erigere una pira di forme, di zoccoli e di trucioli, e sgranchirsi deliziosamente alla vampa. Ma poi pensava a Rachele, e diceva: "Un giorno saprà quanto ho sofferto per lei". E ci metteva dell'orgoglio a sfidare quei patimenti, ed a sentirsi eroico. Nel segreto della sua stanza trovava modo di gloriarsi così della sua povertà. Ma fuori ne era sovente umiliato. Fin dai primi tempi della sua entrata nello studio, gli altri praticanti gli avevano detto ch'era l'uso fra loro di festeggiare con un pranzo la venuta di un nuovo compagno, il quale poi, dal canto suo, ricambiava con un pranzo la cortesia ricevuta. Giovanni aveva lasciato cadere il discorso. Ma l'anziano dello studio, che conosceva le circostanze d'un esordiente povero, aveva soggiunto per incoraggiarlo: "Non sono banchetti da Lucullo, sa? Si desina a cinque lire a testa". Ma erano quattro; e venti lire erano ancora una somma esorbitante per Giovanni. Per qualche tempo non se n'era riparlato, ed egli pensava, tra contento e mortificato: "L'avranno capita". L'avevano capita infatti, e dopo tre settimane l'anziano disse a Giovanni a nome di tutti, e presenti tutti: "Sa? Abbiamo combinato di pregarla di venire a desinare con noi alla Magnetta, per festeggiare il suo ingresso nello studio. È il solito pranzo... se vuol favorirci...". Giovanni rimase male, e si fece tutto rosso. Sentiva che avrebbe dovuto rispondere che ringraziava, e sperava che il tal giorno, prossimo, avrebbero favorito tutti loro a pranzo con lui... Ma pensava a' suoi pochi quattrini, al nessun credito, e l'impossibilità gli strozzava le parole in gola. Allora l'anziano, che era uomo di buon cuore, soggiunse: "Non importa che lei ce lo renda, sa! Senza complimenti...". Era una ceffata, e Giovanni se ne sentì tutto indolorito. Quella sera la sua povertà gli fu grave di molto; avrebbe dato dei pugni contro il cielo. Entrando nella bottega i trucioli che scricchiolavano sotto i suoi passi lo impazientirono; li cacciò di qua e di là coi piedi, borbottando, e s'avviò su per la scala, senza badare ai pendagli di zoccoli e forme che sporgevano da tutte le parti. Al primo mazzo di forme che gli urtò un fianco, lo respinse con mal garbo. "Badi!" gridò il fornaio dalla bottega. Ma Giovanni aveva esaurita la sua misura di pazienza; crollò dispettosamente le spalle e riprese a salire in furia, spingendo gli ingombri a destra ed a manca. Nell'arrivare in cima, urtò col capo in un mazzo enorme di zoccoli, che uscì dall'uncino, e cadde rotolando, percotendo, rimbalzando con un fracasso di cocci e di ghiaia. Il fornaio e la moglie balzarono in piedi urlando tutti e due, e per tutta la sera, dalla bottega, coi rumori della pialla e della sega, salirono al mezzanino le recriminazioni dei due coniugi scandolezzati. Più tardi Giovanni, che, incapace di lavorare, s'era cacciato in letto a ruminare la sua vergogna, li vide traversare la sua stanza portando con aria funebre il mazzo di zoccoli caduto, come un ferito che la loro pietà fosse costretta a ricoverare altrove, per metterlo al sicuro contro gli attentati di quel nemico violento, a cui lanciavano occhiate sdegnose. Dopo d'allora la vita del giovine avvocato si fece anche più penosa. In casa nessuno gli rivolgeva più la parola. Mangiava la colazione in silenzio, mentre la zoccolaia si agitava per la bottega sfaccendando e scopando, ed il marito le diceva tratto tratto con ironia: "Bada a non spingere i trucioli fra i piedi al signore. Aspetta a scopare che non lo impolveri". E la sera, quando Giovanni saliva in camera, il grosso operaio lo precedeva lungo la scala colle braccia stese per allontanare gli zoccoli e le forme, facendogli come un derisorio arco di trionfo. Allo studio poi, era sempre imbarazzato per quel pranzo che non aveva ricambiato. Era un'ombra che si frapponeva tra lui e gli altri praticanti, ed impediva la confidenza. C'era una serie di discorsi che evitava per non richiamare quell'idea che lo faceva arrossire. Non parlava di locande, né di pranzi, né d'inviti, e, se un altro domandava ad un compagno: "Vuoi che oggi pranziamo insieme?", gli pareva un'allusione ironica e si sentiva rodere. Un giorno s'accorse che i praticanti avevano un pranzo in comune pel natalizio d'uno di loro, e ne parlavano piano per non essere uditi da lui. Questa delicatezza lo ferì come un insulto. Si propose di ricambiare ad ogni costo il banchetto ricevuto. Soppresse il vino nel suo pranzo d'ogni giorno, vegliò più tardi al lavoro, e, dopo due mesi, si trovò in caso di fare il grande invito, con venticinque lire raggranellate e lesinate a soldo a soldo. Aveva calcolato che non ci voleva di meno per la mancia al cameriere, il caffè, i sigari, e le spese imprevedute. Erano venticinque goccie del suo sangue. Ma quando uscì dalla locanda seguito dai tre praticanti, colla testa un po' grave per un bicchiere di cattivo vino di più, e la borsa leggera per quelle venticinque lire di meno, gli parve d'avere ottenuta una riabilitazione, e pensò rivolgendo la mente a Rachele: "Voglio poterle dire che, anche nei giorni più difficili, non mi sono lasciato avvilire". E l'approvazione di lei, che sentiva d'aver meritata, lo compensò delle privazioni sofferte, assai più che la vanità d'aver ricambiato l'invito. C'erano delle epoche in cui la sua povertà gli riesciva penosa di molto. Una era il carnevale, e specialmente la fine, l'ultima settimana. Tutto il giorno, fra i suoi compagni di studio, era un continuo ciarlare di serate godute e da godere; un discorrere sconclusionato, a sbalzi, con delle allusioni che Giovanni capiva alla sua maniera e che lo eccitavano: "Quale preferivi ieri sera? La bionda? Non sei di cattivo gusto. Che carnagione! E che abbigliatura! Quella ne spende de' quattrini! Brrr!". Giovanni si metteva a scrivere in fretta, faceva scricchiolare la penna per assordarsi; ma quelle parole s'insinuavano tra le frasi legali che andava stendendo sulla carta, gli empivano la fantasia di visioni, di desideri, di curiosità acute. Era impaziente d'uscire di là per distrarsi da quelle idee; ma quando ne usciva era peggio: le strade erano affollate di gente rumorosa, allegra, ben pasciuta; pareva che la città fosse piena di denaro; i più umili operai ne spendevano e si davano bel tempo. C'era un formicolio di piccoli industriali e commercianti vagabondi, che andavano vendendo stampe, caricature, bosinate, fiori di carta, coccarde, medaglie, e decorazioni burlesche del Carnevalone; a Giovanni però non offrivano la loro mercanzia; lo guardavano con un ghigno ironico, come se dicessero: "Costui è a secco". I negozi di comestibili avevano delle mostre tentatrici; le oche grasse, i polli grossi e bianchi protendevano i loro ventri enormi accanto alle aragoste melanconiche, che movevano tratto tratto una zampa colla languidezza della loro vita agonizzante. I salami prendevano in quei giorni delle proporzioni esagerate, ed i formaggi preziosi, i tartufi, i pesci rari, i vini squisiti ingombravano le vetrine, attestando il grande assegnamento che i negozianti potevano fare sulla ghiottoneria e sulla prodigalità della gente. Presso ogni osteria, presso ogni caffè in certe ore si udiva un formidabile acciottolare di piatti, un acuto tintinnìo di bicchieri, di posate, e dalle cucine sotterranee salivano delle vampate d'aria calda ed odorosa, che evocava subitaneamente nella fantasia di Giovanni l'immagine d'una bella stanza da pranzo riscaldata, d'una tavola ben imbandita ed inondata di luce con tutte le imposte chiuse, dove si potesse isolarsi dal resto del mondo, nella beatitudine d'un buon pranzo e d'una compagnia allegra e spensierata. Quei giorni il suo desinare gli sembrava stomachevole; lo mangiava dispettosamente, tribolato dai pensieri ghiotti, e la sera non poteva lavorare; aveva l'animo amareggiato; non c'era più proporzione fra quanto guadagnava col suo lavoro, e quanto avrebbe dovuto spendere per appagare i suoi desideri; ed il lavoro gli pareva inutile. Usciva, si confondeva colla folla, si fermava alla porta dei teatri, dove la gente faceva coda per entrare. Tutte quelle persone, centinaia, migliaia di persone, avevano oltre al denaro necessario per vivere, anche quello superfluo per divertirsi. Lui solo non ne aveva; e s'aggirava, vestito leggermente, colle membra assiderate, al freddo, nella nebbia, pensando con avidità l'atmosfera ardente e soffocata dei teatri. Vedeva le maschere che correvano trepidanti dalle carrozze da nolo all'ingresso della Scala, e sparivano. Erano corpi di donne ravvolti in bianchi mantelli imbottiti, che li facevano apparire enormi; e gambe rosee, cilestrine, scarlatte, terminate da stivaletti di seta, portavano quella massa sproporzionata con certi passi precipitati, impazienti quando la folla ritardava d'un minuto il loro ingresso al veglione, frementi di precipitarsi in quel vortice di danze, di salti, di follie. Vedeva le signore scendere dalle carrozze padronali in gran toletta, coi lunghi strascichi di raso e di velluto per andar a vedere decorosamente il veglione dal loro palchetto; passavano altere lasciandosi dietro un profumo acuto. Gli uomini che le accompagnavano avevano il soprabito chiuso fino al mento, e lungo che copriva tutta la persona. Ma i guanti grigioperla che sporgevano dalle maniche ed il cappello a molla, facevano indovinare l'abito nero, la cravatta bianca, il largo sparato, il costume da serata. Giovanni se li figurava come se li vedesse in teatro già usciti dalla loro crisalide, quei grandi farfalloni neri; se li figurava belli e gaudenti, ed una malinconia profonda gl'inondava il cuore. Si stringeva intorno il suo soprabito insufficiente contro il gelo, e tremando, battendo i denti, s'affrettava verso un piccolo caffè, dove beveva un ponce per riscaldarsi, si sgranchiva un momento in quell'atmosfera calda ma impregnata d'odori d'alcool e di dolciumi, densa di fumo, opprimente, poi andava a letto per non vedere i godimenti che gli erano negati. Ma nella bassa soffitta gli giungevano ancora le grida stonate delle maschere, il rotare lento delle carrozze, assordato dalla neve come da un tappeto, o stridente sul lastrico diacciato. Il carnovale lo perseguitava anche nel letto; tutto raggricchiato per riscaldarsi sotto le scarse coperte, col capo di sotto per fuggire i fili d'aria pungenti che filtravano dai serramenti, pensava i piaceri della vita, facendoli coll'ardore dell'immaginazione più belli del vero. Si figurava i palazzi delle Mille ed una notte splendori di luce non mai visti, bellezze di donne ideali, nudità improbabili, sfarzo regale di stoffe e di gemme, ed ebbrezze d'amore. Poi, quand'era prostrato dalle lotte interne, dalle lunghe brame insoddisfatte, venivano i giorni pazzi, in cui, fin dal mattino, i carri delle maschere percorrevano le contrade a suon di banda, e le botteghe erano chiuse, e le insegne coperte da una tela bianca per proteggerle dai coriandoli. Nessuno lavorava più. Nelle strade, sui balconi, tutti gridavano. Si spandevano coriandoli da ogni parte, se ne vuotavano dei sacchi, se ne sprecavano centinaia di quintali, allegramente, ridendo, come se non costassero nulla; si gettavano fiori, arance, confetti, con una smania di buttarli via, col gusto, la rabbia dello sperpero. Pareva che tutta la popolazione, soprafatta da una ricchezza improvvisa ed esuberante, s'affrettasse a cacciar fuori dalle case quella sovrabbondanza d'averi che le ingombrava, e gioisse, tripudiasse nel levarsi d'attorno il peso di quelle superiorità eccessive. Le bande suonavano inni di gioia, tutte le voci s'alzavano in un immenso grido assordante; signori e facchini, uomini e donne, tutti giubilavano, danzavano sulle piazze, ardevano roghi, si mascheravano, gestivano pazzamente; tutti invasi da una follia gioconda. E Giovanni si sentiva solo a non aver la sua parte in quella festa dell'abbondanza e dell'allegria, solo ad aver freddo e fame; e ne provava una rabbia, un rammarico così intenso, che in mezzo a quella grande pazzia di giubilo gli pareva d'impazzir di dolore. Un'altra epoca di tortura per lui era l'estate, l'opprimente estate di Milano. Nato e cresciuto in campagna, avvezzo all'aria pura, alle colline verdi, alle gite solitarie sotto l'ombra dei grandi alberi, appena veniva la primavera sentiva la nostalgia della campagna; ed a misura che l'estate progrediva, quel desiderio d'aria pura si faceva acuto come uno spasimo. Tutti se ne andavano ai bagni, alle acque, in montagna, in Brianza, sui laghi; nelle contrade di Milano Giovanni non incontrava che gente laboriosa e stanca come lui; uomini d'affari, commercianti che avevano la famiglia in villa e la raggiungevano la domenica, impiegati che aspettavano il loro mese di congedo per fare una breve villeggiatura. Lui solo non aveva nessuno da raggiungere nei giorni festivi, non aspettava nessun congedo, doveva lavorar sempre, lavorare ogni giorno per vivere ogni giorno. La sua soffitta diveniva inabitabile; c'erano dei giorni in cui il caldo saliva a trentotto fin a quaranta gradi; allora c'era un'afa pesante che toglieva il respiro: mentre scriveva, il sudore dalla fronte, dalle tempia, gli sgocciolava sulla carta; le carni gli bruciavano; aveva sempre sete, ed ingollava con disgusto bicchieri e bicchieri d'acqua tepida, indigesta, che lo metteva tutto in sudore, e lo prostrava. La sera faceva delle lunghe passeggiate in cerca d'aria; ma sulle strade maestre, arse tutto il giorno dal sole, i piedi gli affondavano fino alla caviglia nella polvere, e ne sollevavano un tal nuvolo intorno, che gli andava in gola, lo soffocava, e lo imbiancava tutto. Lungo la strada di circonvallazione ed i bastioni, non faceva che percorrere tutta la scala degli odori puzzolenti. Al puzzo stomachevole d'una conceria, succedeva l'odore agrodolce, nauseabondo d'una tintoria che faceva il solletico in gola; più innanzi una filanda appestava l'aria col fetore dei bozzoli macerati, e gli orti spandevano intorno le esalazioni malsane del guano e dei letami. Tutto quanto era suscettibile di guastarsi sotto quei calori tropicali mandava un odore di putrefazione. Le botteghe dei salumai, i macelli, le latterie, i depositi di formaggi, le latrine, gli orinatoi, i rigagnoli, il naviglio, le spazzature delle case, tutto puzzava, tutto contribuiva a corrompere l'aria con un lezzo di fracidume, di sucideria, che sollevava lo stomaco. I pochi signori che si trovavano in città andavano in giro colla cravatta sciolta, col cappello in mano, servendosene come di un ventaglio; alcuni smettevano persino il solino. Gli operai erano scamiciati, colle maniche rimboccate e lo sparato aperto sul petto peloso; i portinai uscivano la sera sulle porte in mutande, coi piedi nudi nelle ciabatte. La domenica poi tutti uscivano dai dazi, andavano ad ammucchiarsi nelle osterie suburbane sotto i piccoli pergolati piantati in un cortile arido, che danno una languida illusione di campagna; mangiavano male, bevevano peggio, mal serviti, accaldati, impolverati; poi s'affollavano, s'ammonticchiavano negli omnibus per tornare in città, sbuffando, sudando l'uno sull'altro, asfissiandosi a vicenda colle esalazioni acri delle traspirazioni, delle digestioni difficili, delle ubbriachezze. Giovanni aveva provato una volta sola quella scampagnata degli Ambrosiani, e ne aveva avuto la febbre. Stanco, snervato, si trovava più infelice che mai in quell'ambiente al quale i suoi polmoni da campagnuolo non potevano avvezzarsi. Aveva delle visioni tormentose di grandi estensioni verdi, di acqua limpida, di alberi, di ombre, di meriggi ardenti nell'alto silenzio e nell'aria pura dei monti. Sognava una casetta bianca, colle gelosie verdi, in una vasta campagna solitaria; ci pensava con un ardore da innamorato. E quando incontrava una carrozza con un baule legato a cassetta che s'avviava verso la stazione, verso i campi, verso le frescure verdi, verso l'aria fine, provava una smania ardente d'attaccarsi dietro come un monello, poi rimaneva più triste, più scoraggiato, e malediva il destino che lo inchiodava inerte e miserabile, in una città dove aveva creduto di trovare la fortuna, la gloria e tutte le dolcezze della vita. La prima volta che il Berti gli affidò una causa, Giovanni si credé giunto alla meta desiderata. Era una causa civile fra due piccoli proprietari per un muro limitrofo. Una lite di puntigliuzzi puerili che non presentava nessun interesse. Ma egli ci si pose dentro con tutta l'anima; studiò le origini dei due possidenti e delle rispettive possessioni, risalendo alle memorie più remote. Fece uno spreco enorme di zelo, scrisse dei fascicoli di appunti, studiò la questione con un'acutezza di vedute, che sarebbe proprio il caso di chiamare degna di miglior causa. La sera, invece di sgobbare sui soliti lavori di traduzione o di copiatura, riandava tutto quello studio fatto e rifatto. Si preparava in mente il discorso che voleva pronunciare all'udienza, lo allargava, lo particolareggiava. Poi voleva udirne il suono, voleva provare i gesti. E si rizzava in piedi, serio senza troppa solennità, salutava in giro l'assito del mezzanino, e cominciava ad arringare semplicemente e con calma gli zoccoli e le forme che gli pendevano intorno. A grado a grado si animava, gli pareva di vedere, tramezzo a quei piedi grotteschi di legno, comparire la faccia bianca di Rachele che gli sorrideva per incoraggiarlo, e la parola gli veniva spontanea ed elegante coll'illusione d'essere ascoltato da lei, e si riscaldava, ed alzava la voce, finché lo zoccolaio spaurito sporgeva il capo ornato del beretto da notte per vedere se prendeva fuoco la casa. Quando si metteva a letto, stanco ed esaltato, sentiva in sé l'anima d'un legale illustre e s'inebbriava colla visione d'una vittoria che doveva stabilire la sua riputazione; pensava all'impressione che quella splendida riescita doveva produrre a Fontanetto. Gli pareva di vedere i mecenati inchinarsi a lui, il Pedrotti stendergli le braccia in atto di scusa, e tutte le comari e comarette del paese uscire sulle botteghe e sugli usci, e gridarsi l'una all'altra: "Eh! Il figlio del Dottorino? L'avvocato Mazza? Che gloria! ed ora sposa la figlia del signor Pedrotti del Castello!". Allora il suo spirito si smarriva nei sogni d'amore; saliva in un vagone solo con Rachele pel viaggio di nozze e chiudeva la sportello. Infatti, quando la causa fu discussa, Giovanni parlò come avrebbe potuto fare un avvocato provetto. Un collega, che per caso si trovava presente, andò a stringergli la mano, ed il suo cliente lo pagò generosamente. Ma fuori dall'aula del tribunale, nessuno s'interessò alle vicende di quel muro limitrofo, i giornali, naturalmente, non ne fecero parola, e, tre giorni dopo, quel grande avvenimento della vita di Giovanni era completamente passato, senza lasciare nessuna traccia, senza produrre altri cambiamenti nell'esistenza del giovine praticante, fuorché un po' più di quattrini nella borsa. Alla prima egli non poteva persuadersene. Quando rientrava nella bottega del fornaio, e dava la buona sera a quell'uomo scamiciato, sentiva di fare una degnazione, e pensava: "Se sapesse chi sono!". Il mattino, quando mangiava la minestra in un angolo della bottega presso il camino, si ricordava un vecchio piatto di terraglia che una contadina della Bicocca mostrava a tutti dicendo: "Vede? Qui dentro ha mangiato due ova Carlo Alberto. Mangiava come noi, tal quale. E dopo ho saputo che era il Re. Madonna santa!". Ma i giorni ed i mesi si succedevano; passò più d'un anno; ed i formai non erano ancora nel caso di meravigliarsi che Giovanni mangiasse come loro. Anzi la donna gli faceva sentire, senza punta riverenza, che mangiava un po' più di loro. Intanto, a misura che andava innanzi estendeva il circolo delle sue relazioni; gli erano toccate altre cause di poca importanza, ed era entrato in rapporti cordiali con due o tre clienti. I suoi compagni di studio avevano assistito alle sue arringhe, si erano mostrati entusiasti del suo ingegno e s'erano offerti di presentarlo al signor Tale, al cavalier Talaltro, persone influenti... Giovanni aveva accettate con premura le loro offerte. Ma quante noie, quanti sopracapi gli costavano quelle visite! Doveva provvedersi di guanti, di cravatte; doveva avere un cappello lucido, ed una camicia fine e ben insaldata; più volte dovette rinnovare le scarpe, che, senza quel caso, avrebbero potuto durare un altro mese. Per una visita ad un Commendatore fu ridotto a farsi prestare una pezzuola dalla zoccolaia, perché le sue erano tutte rammendate. Ma era nuova, un po' grossa; gli faceva una sporgenza nell'abito come se avesse avuto un panino in tasca; e quando ebbe bisogno di servirsene, si distese in pieghe ed angoli rigidi come di carta, e scricchiolò tal quale. E, dopo tante seccature, i risultati di quelle presentazioni ufficiose si riducevano quasi sempre a nulla. Il personaggio a cui un amico zelante lo presentava enumerando le sue qualità, il grado accademico, l'ingegno, la facondia, la sventura immeritata, ecc., ecc., rispondeva: "Ma bravo, bravo! Mi fa tanto piacere...". "Se mai potesse giovargli colla sua influenza..." suggeriva l'amico. A questo appello diretto, la potenza più o meno autentica lasciava cadere dall'alto una promessa più o meno vaga: "Ma senza dubbio! Ci conti. La terrò presente...". E Giovanni non ne sentiva più parlare, se non dall'amico che lo aveva presentato, per ricordargli che era in dovere di fare una visita in quella casa dove lo avevano accolto tanto bene. Nei casi eccezionalmente fortunati lo consultavano circa una vecchia lite, gli affidavano una causa di poco momento o un incarico ingrato. Egli ci si adoprava con zelo. Lo pagavano un po' meno di quanto avrebbero dovuto, in causa dell'amico, della presentazione, ecc., ecc., e tutto finiva lì. Allora si sentiva oppresso dallo scoraggiamento. Al poco che aveva occasione di poter fare metteva tanto studio, tanto impegno, che non poteva a meno di tenerne gran conto. Sapeva d'aver fatto tutto quello di cui era capace, e diceva: "Se con tanto lavoro non m'è riescito di farmi una rinomanza, è finita: vuol dire che non ci riescirò mai". Ed allora percorreva col pensiero una lunga esistenza di sacrifici e di fatiche ignorate per mantenersi in una mediocrità punto dorata; pensava a Rachele, che, non udendo più parlare di lui, avrebbe finito per sposare un altro; e se la vedeva passare dinanzi in tutto lo splendore d'una sposa ricca, mentre egli continuava a logorarsi la vita, unicamente per mangiar pane. In un giorno di sgomento pensò: "Le donne sono onnipotenti. Se mi facessi aiutare da qualcuna?". E si fece presentare alla signora di un grande imprenditore di strade ferrate. Era una donna di spirito indipendente, che aveva fatto a meno delle cerimonie ecclesiastiche e legali nella sua unione col ricco banchiere, e nelle precedenti. Giovanni era giovine e bello, e trovò grazia agli occhi della signora. Essa gli promise la clientela del banchiere, uomo prodigiosamente litigioso, che non badava a spendere, pur d'avere un buon avvocato, ed avrebbe certo data la preferenza ad uno raccomandato da lei. Ma era necessario che Giovanni frequentasse la casa, che l'imprenditore s'avvezzasse a lui, imparasse a conoscerlo, e poi... e poi... Mille promesse, di cui la bella donna mantenne soltanto quelle che avevano fatto i suoi occhi neri, e che dipendevano esclusivamente da lei. Ma in capo ad otto giorni Giovanni ne fu tanto disgustato che pensò di non rimettere più i piedi nella sua casa. Quella breve relazione non portò la menoma alterazione nei sentimenti del giovine avvocato per Rachele. Anzi, alla prima se la figurò piangente, desolata, e nella compunzione dell'anima pentita, sentì di amarla anche più, per tutto quel dolore che le aveva dato. Quand'era solo si metteva realmente in ginocchio dinanzi all'immagine che evocava della giovinetta, e le domandava perdono, e si sfogava in proteste, in giuramenti, in lacrime amare. Dopo quel disinganno ebbe un lungo periodo di abbattimento. Non si commoveva più quando gli affidavano una causa. Le sue illusioni erano sfrondate, e sapeva che, con quelle piccole liti, non c'era per lui da cavare un ragno dal buco. Tuttavia glie ne capitavano abbastanza di frequente, ed a poco a poco perdette l'abitudine delle scarpe logore, degli abiti spelati, e lasciò il mezzanino del fornaio. Ma, insieme alla miseria, era passata anche l'illusione della futura grandezza, ed era venuta la prosaica e triste mediocrità. Ho sbagliato carriera, pensava. Coll'avvocatura non si arricchisce. E si sentiva avvilito, al pensiero che dopo tre anni non era ancora in grado di presentarsi al castellano di Fontanetto, senza farlo sorridere di compassione a' suoi famosi guadagni di trecento lire al mese o giù di lì. Gli venne la curiosa idea di tornare alle grandi economie che aveva abbandonate, per metter da parte una somma ed arrischiare poi delle operazioni alla Borsa. Sapeva di patrimoni colossali che erano stati iniziati a quel modo, e diceva: "Chissà?". S'era fatto ingegnoso, durante i suoi anni difficili, nell'arte di vivere con meno denaro possibile. Ed infervorato nel pensiero di fare quell'ultimo sforzo per arrivare a Rachele prima che gli fosse tolta, non gli riescì grave d'abbandonare la sua nuova vita relativamente agiata; lo fece con entusiasmo, godendo in sé delle privazioni che s'imponeva, e per ogni scudo che aggiungeva a' suoi risparmi, giubilava come un avaro. Dopo un anno stava per avere mille e cinquecento lire, quando ricevette una lettera da suo padre che gli scriveva: "Sono pieno di debiti e di malanni; e, dacché non sono più in grado di dire le barzellette per tenerli allegri, i signori non mi danno più da pranzo. Non ho gran fede nella generosità umana e tanto meno nella voce del sangue. Ma spero che, per non tollerare che tuo padre vada mendicando, il che ti farebbe torto, penserai a provvedermi il necessario per questi ultimi anni. Non sono mai stato un padre tenero, ma è certo che fino a dodici anni, o bene o male, t'ho dato da vivere. Ed è ben difficile ch'io ti resti altrettanto tempo sulle spalle...". Giovanni tremava tutto nel leggere quella lettera. Gli pareva di sentirsi trascinare in un abisso. S'era creato un lieve sostegno, ed ora gli mancava sotto i piedi, ed acquistava la certezza che gli mancherebbe sempre. Omai quanto guadagnava era appena sufficente per lui e pel padre. Privandosi della somma raccolta, non poteva sperare di raggranellarla di nuovo. Tuttavia non gli venne neppure un momento l'idea di sottrarsi a quel dovere. Era un pezzo che non piangeva; e pianse disperatamente su quella lettera. Suo padre aveva mangiato e bevuto e s'era divertito, mentre lui si struggeva in quel lavoro da formica, per arrivare alla fanciulla che amava. Ed ora quel padre aveva il diritto di prendere il frutto de' suoi sudori e dei suoi sacrifici, e di dirgli: "Rinuncia alle tue speranze spontaneamente, o ti ci faccio rinunciare svergognandoti collo spettacolo della mia indigenza". Il suo cuore si ribellava a quell'ingiustizia, fremeva sotto la pressione di quel dovere gravoso, e, quando chiuse il denaro in una lettera raccomandata, non provò la soddisfazione di chi sente di far del bene, non si commosse della sorte miseranda del Dottorino, ma sentì un gran vuoto nel cuore, un grande sgomento dell'avvenire, un rammarico inenarrabile per la speranza che perdeva; e calcando con ira il quinto soggello sulla cera disciolta, mormorò: "Maledizione!". Era infatti una maledizione, una iettatura, una fatalità che perseguitava lui come perseguita tanti altri e lo condannava a vivere ignorato col suo ingegno, la sua scienza e tutte le sue superiorità. Omai, stanco d'aver lottato quattro anni inutilmente, scoraggiato da quell'ultimo colpo, s'abbandonava alla sua sorte, non isperava più. Pensava a' suoi sogni di fortuna ed a Rachele come ad una gloriosa visione svanita. Scacciava con vero spavento il pensiero che avrebbe potuto incontrarla al braccio d'un altro, e desiderava non rivederla mai più. Sentiva che si sarebbe vergognato dinanzi a lei. Aveva mancato alle sue promesse audaci, era stato presuntuoso, e la cattiva riescita lo accusava d'essere stato un presuntuoso ignorante. In fondo aveva più che mai la convinzione del contrario. Ma non è dato a nessuno di salire sui tetti e gridare alle turbe: "Badate ch'io sono un grand'uomo. Lasciatemi fare questo e quest'altro, e ve lo proverò". Bisogna che le circostanze ci aiutino; noi non possiamo che profittarne. Ma le circostanze non erano state favorevoli al povero Giovanni. Un giorno l'avvocato Berti lo chiamò nel suo studio, e gli comunicò un processo pendente per omicidio. Un acquavitaio aveva ucciso in rissa un servitore. Era un assassinio volgare, non c'era da fare una brillante difesa, e l'avvocato illustre la affidava al giovine sostituto. Giovanni prese a studiare la causa con quell'interessamento da artista che metteva sempre nei suoi lavori. Ma non era possibile negare la responsabilità dell'accusato. Oltrecché risultava chiara dalle prime inchieste e deposizioni, l'accusato stesso la confessava. Egli era inoltre un uomo intrattabile. Quando Giovanni lo vide, ne fu impressionato penosamente. Stava seduto nell'angolo più buio del carcere, coi gomiti sulle ginocchia e le guancie duramente appoggiate sui pugni chiusi, che gli raggrinzavano gli zigomi, e li rialzavano a nascondere gli occhi. Aveva sessant'anni, ma pareva un vecchione; aveva la testa calva e la barba bianca. Il suo sguardo era duro; il viso imbronciato come d'un uomo collerico. La presenza del giovine avvocato parve seccarlo più che altro. Non si mosse affatto al vederlo, e quando Giovanni gli si presentò come suo difensore, si strinse nelle spalle, e rispose: "Ho ucciso quell'uomo, non nego nulla. Non c'è bisogno del difensore". Per quanto Giovanni lo interrogasse, non volle dir altro. Quel cinismo cupo parve anormale al giovine avvocato. Egli si rivolse al carceriere: "Cosa dice l'imputato del suo processo?" "Non dice nulla perché non parla mai". "Come impiega la giornata?" "Sta quasi sempre seduto a quel modo. Qualche volta legge, o scrive colla matita sul muro". Giovanni volle vedere il libro in cui leggeva. Era una bibbia sporca e sdrucita, che si apriva da sé alla pagina dove parla d'un ricco, il quale avendo cento pecore aveva rubata la pecora unica d'un povero. Sul muro trovò pure delle sentenze contro i ricchi, alcune prese da libri devoti o da canzoni popolari; altre, meno felici, di sua invenzione. Sopra un'imposta c'era scritto: "Nel cuore dei ricchi c'è un serpente". Alla testa del pagliericcio si leggeva: "Il diavolo mette i suoi demoni nella pelle bianca dei ricchi per tentare i poveri". "Se ti chiami nobile ed hai del denaro, godi a questo mondo la tua vita da ladro, perché in quell'altro sarai carbone da riscaldare i poveri". Poi c'erano i nomi famosi che la rivoluzione francese ha resi popolari anche fra noi: Marat, Robespierre, Danton e sopra c'era scritto a grandi caratteri: "Evviva!". E sotto: "Gloria eterna!" Giovanni dopo quelle strane letture domandò all'imputato: "Siete socialista?". Egli non capì e non rispose. "Non vi piace come va il mondo" tornò a dire l'avvocato, "e vorreste cambiarlo?" Il vecchio prese con violenza la brocca dell'acqua che aveva accanto, e la capovolse furiosamente, senza curarsi dell'acqua che allagò il pavimento. "Vorreste capovolgerlo?" insistè Giovanni. "Eh!" sospirò il vecchio. Poi si strinse alto nelle spalle, e sospirò più forte: "Omai, a cosa servirebbe?". "Ma c'è un ricco che v'ha fatto qualche torto?" interrogò l'avvocato. L'imputato si rizzò sdegnato, quasi minaccioso, e gridò: "A me nessuno ha fatto torto, capisce? Sono povero, ma onorato. Ho ammazzato. Ebbene? Ma sul mio nome non c'è nulla da dire". Giovanni non ci raccapezzava nulla, perché l'uomo ucciso dall'acquavitaio era un povero servitore. Questi era entrato per bere nella bottega, ed il vecchio, al vederlo, senza precedenti di parole, gli si era avventato contro, urlando: "Ah, ladro, svergognato, servo dei ricchi, te la do io, ora, te la do!" E, con un coltellaccio che aveva afferrato sul banco, gli aveva squarciata la gola. C'erano cinque testimoni che s'erano trovati nella bottega, e narravano il fatto, che l'imputato non pensava affatto a smentire. Giovanni, preso alle strette, non poté scoprire nulla a favore dell'assassino. Ma domandò una perizia medica. L'idea fissa di quell'uomo era l'odio dei signori; poteva essere una mania, o un vecchio rancore. Nel primo caso, i medici gli avrebbero fatto giustizia; nel secondo l'avvocato avrebbe potuto arrivare ad indovinare il suo segreto, e forse a salvarlo. Intanto la perizia, che il tribunale accordò, dava tempo ad altre ricerche. Giovanni non tardò a mettersi in campagna. Quell'uccisione, improvvisa e violenta, doveva essere premeditata; e, per essere premeditata, doveva avere una causa. La sola causa che confessava l'imputato era l'odio pei ricchi; aveva ucciso quell'uomo perché era il servitore d'un ricco. Ma bastarono poche informazioni presso i frequentatori del negozio, per provare che di servitori di ricchi ce ne bazzicavano parecchi, e che l'acquavitaio li trattava bruscamente, ma non ne aveva mai offeso né provocato nessuno. Era dunque quel dato servitore che odiava, e nella causa di quest'odio poteva stare la scusa, o, almeno, una forte attenuante pel colpevole. Questi però diceva che non conosceva affatto la sua vittima. Che non l'aveva mai veduta prima di quel giorno. Bisognava indagare il suo passato per risalire alla causa vera che l'aveva spinto al delitto. Ma quell'acquavitaio Galbusera aveva sloggiato tante volte in quegli ultimi anni che i casigliani dell'ultimo casamento che aveva abitato lo conoscevano da poco, e non sapevano dirne nulla. Giovanni risalì la catena di quegli sloggi, da Porta Romana andò a S. Celso. Là il suo cliente era stato sei mesi, ma la bottega l'aveva in fondo alla via Gozzadini, fin dal semestre prima, quando stava a Porta Romana. Finalmente, a forza di correre e bussare a tante porte, in una catapecchia a Porta Ticinese, dove l'acquavitaio aveva abitato molti anni prima, Giovanni seppe che in quel tempo il vecchio aveva una figlia. Avevano sloggiato improvvisamente senza aspettare la scadenza del San Michele; però non avevano lasciato debiti, e la pigione era stata pagata. Che cosa era avvenuto di quella figlia del vedovo? Giovanni andò al carcere e ne domandò a lui. "Mia figlia è morta" rispose l'imputato. "E lei, la prego di non immischiarsi altro ne' fatti miei". Il vecchio s'era fatto tutto rosso, ed aveva parlato con tanta eccitazione che Giovanni si convinse d'aver posto il dito sopra una piaga. L'uomo ucciso dal padre doveva essere il seduttore della figlia. Dalla perizia medica era risultato che l'acquavitaio possedeva le piene facoltà intellettuali. In capo a pochi giorni si dovevano riprendere i dibattimenti. Intanto i giornali, nell'annunciare che quel processo per assassinio era stato rimandato, perché il difensore dell'Ambrogio Galbusera aveva domandata la perizia medica, avevano riferite le ragioni addotte in appoggio a quella domanda, che erano le invettive furiose del Galbusera contro i signori e le sue frasi stravaganti scritte sul muro della prigione. E questo era bastato perché quel processo, che al principio non aveva inspirato nessun interesse, suscitasse alquanta curiosità. Questa curiosità crebbe enormemente, quando ad un tratto si seppe che nel seguito del processo si troverebbe implicato il principale rappresentante d'una grande famiglia milanese, notissimo, oltre che pel nome storico che portava, pel suo sfarzo, per le sue avventure galanti, pe' suoi scialosi capricci, che assai spesso fornivano materia alla cronaca cittadina. Come accade, nacque gara tra cronisti a dare le informazioni più particolareggiate sul clamoroso scandalo che si preparava; ed il nome del giovine avvocato Giovanni Mazza fu su tutte le bocche, insieme a quello del signore citato fra i testimoni a difesa. Si seppe che la scoperta delle cause segrete del misfatto era dovuta allo zelo ed all'acume finissimo dell'avvocato Mazza; e la fantasia popolare eccitata creò una leggenda su questo giovine che aveva rifatta e compiuta da solo l'istruttoria del processo, ed aveva vinta, a forza di coraggio e d'energia, l'influenza che potenti personaggi avevano tentato di esercitare, per impedire che la verità fosse chiarita. Ecco, in sunto, la storia che i giornali narrarono e che i dibattimenti confermarono. Dodici anni prima del delitto, il Galbusera aveva bottega a Porta Ticinese, era vedovo con una figlia di quindici anni, che andava da una cucitrice ad imparare il mestiere. Il cocchiere Teodoro Donadio aveva cominciato a frequentare con assiduità la bottega dell'acquavitaio nelle ore della sera. Ben presto tutti s'erano accorti che faceva la corte alla giovinetta. Allora il Galbusera lo aveva preso a parte, e gli aveva detto che le donne della sua famiglia erano sempre state oneste, e che questa era la sua gloria. Se aveva intenzione di sposare sua figlia lo invitava a dichiararlo, ed a farsi conoscere; altrimenti egli non gli avrebbe permesso di comprometterla colle sue galanterie. Il Donadio aveva domandato tempo qualche giorno a rispondere, e poco dopo era tornato, accompagnato da un sigaraio della contrada, il quale era incaricato di domandare in nome suo la mano della Maddalena Galbusera. Il Donadio aveva soggiunto che egli serviva in una buona casa, che guadagnava a sufficenza per mantenere una famiglia e che certo il suo padrone non avrebbe avuto difficoltà a permettergli di prender moglie. Il Galbusera aveva incaricato il sigaraio, nel quale aveva fiducia, di presentarsi al marchese Trestelle, che era il padrone di Donadio, a prendere informazioni del cocchiere, ed a sentire se realmente non c'era pericolo che il matrimonio avesse a fargli perdere il posto. Il sigaraio non era stato ricevuto dal marchese Trestelle, ma dal suo segretario, il quale aveva preso nota dell'imbasciata, ed il giorno dopo aveva portato egli stesso la risposta del padrone: questi diceva ogni bene del Donadio, ed approvava il matrimonio. Le nozze erano state fissate pel San Michele, perché allora il Marchese sperava di poter dare due stanze agli sposi nelle soffitte d'una sua casa. Mancavano cinque mesi, ma non erano di troppo per cucire il modesto corredo. Del resto Maddalena era tanto giovine, che il padre aveva piacere di aspettare che avesse almeno compiti i sedici anni. Quando tutto era stato combinato, Donadio aveva cominciato ad andare ogni sera a prendere la sua sposa dalla cucitrice. Sovente la incontrava anche il mattino, e la accompagnava. Al negozio del futuro suocero si fermava più poco, ed aveva finito per non fermarvisi affatto, perché tanto vedeva Maddalena fuori, e preferiva di non far scene dinanzi agli avventori. Tornando dal magazzino la ragazza diceva: "Mi è venuto a prendere. M'ha accompagnata fin qui...". Una volta però, quando la relazione durava da circa quattro mesi, Donadio era stato quindici giorni senza farsi vedere; Maddalena era malinconica, ed il padre s'accorgeva che piangeva molto. Ci doveva essere qualche guaio fra gli sposi. Egli aveva interrogata la ragazza, che per un poco aveva negato la sua afflizione, ma presa alle strette, aveva finito per confessar tutto. Ed ecco la confessione di Maddalena. Fin dai primi giorni, Donadio, nell'accompagnarla a casa, aveva incontrato il suo padrone. Erano in via Arena. Non c'era nessuno, ed il Marchese s'era degnato di domandare al cocchiere se quella era la sua sposa, e di farle dei complimenti. Poi s'erano incontrati altre volte, ed in quelle circostanze il servitore si tirava da parte, e lasciava che il signore s'intrattenesse con lei. Il Marchese era più bello, più gentile, più raffinato del cocchiere. E la giovine cucitrice si era lasciata dire delle belle parole. Se n'erano veduti degli altri marchesi e conti sposare delle ragazzette; a quindici anni si crede tutto possibile. Dacché quel signore lo prometteva... Soltanto, in causa della sua alta condizione, egli non poteva farlo sapere fino all'ultimo momento; bisognava lasciar credere che lo sposo fosse il cocchiere... Intanto ogni mattina il padrone si trovava fuori di porta colla carrozza. Donadio conduceva Maddalena fin là, ella saliva accanto al Marchese e passava la giornata con lui. Un mese circa prima del San Michele, servo e padrone avevano cessato di farsi vedere. La ragazza era andata al magazzino dove la maestra la trattava con diffidenza in causa della sua poca assiduità, e le ragazze parlavano della sua relazione signorile, che avevano scoperta. Vedendo passare i giorni e le settimane senza che il Marchese si facesse più vivo, l'afflizione aveva sopraffatta la giovinetta, che s'era confidata alla maestra cucitrice, e questa le aveva detto che da quindici giorni il Marchese Trestelle aveva sposata la figlia di un ricco banchiere di Genova, e che, dopo il viaggio di nozze, sarebbe andato a stabilirsi a Genova presso la famiglia della sposa. Quanto al cocchiere Donadio, fosse o no col padrone, era scomparso da Milano. E Maddalena era incinta. Dopo questa confessione della figlia, il Galbusera aveva lasciata improvvisamente la casa di Porta Ticinese senza aspettare la scadenza, per nascondere la sua vergogna. La maestra cucitrice, alla quale Maddalena s'era confidata, l'aveva raccomandata ad una levatrice di Monza, dove la fanciulla avrebbe potuto rimanere sconosciuta. Due mesi dopo la giovinetta era morta di un parto immaturo. Galbusera aveva passati dieci anni a ruminare la sua collera, il suo dolore e la sua vergogna, schivando i vecchi conoscenti, mutando quartiere ogni volta che sospettava d'essere riconosciuto, tremando al pensiero d'incontrare Donadio o il suo padrone. Un giorno il Donadio era entrato nella sua bottega; ed egli lo aveva ucciso. È impossibile descrivere la commozione prodotta in Milano dai dibattimenti di questo processo. E non solo in Milano, ma in tutta Italia se ne parlò. Era capitato in un momento in cui le cose politiche offrivano poco interesse, ed i giornali si gettarono affamati su quel dramma criminale. La passione di partito, come al solito, concorse ad infiammare gli spiriti. I fogli repubblicani e socialisti descrissero l'assassino come un eroe, e portarono a cielo persino le sentenze tracciate sul muro, ed i bigliettini sgrammaticati che scriveva Galbusera nel carcere. Mentre qualche giornale conservatore insinuò a mezza bocca che l'ingerenza attribuita al marchese Trestelle era una macchina montata per spillargli del denaro, e per diffamare la classe sociale a cui apparteneva. Il sapersi fatto segno all'attenzione generale, fu un colpo di sprone potentissimo per l'ingegno di Giovanni. Fino dalle prime udienze, nella discussione di alcuni incidenti, fu meravigliato egli stesso del calore della sua parola e del vigore dei suoi ragionamenti. L'udienza in cui comparve il marchese Trestelle - udienza i cui particolari furono la sera stessa telegrafati distesamente a tutti i giornali d'Italia - fu un trionfo per l'avvocato Mazza, tanta fu l'arte con cui riescì ad ottenere dal teste la confessione completa della verità, e tanto felici furono le apostrofi, ora sarcastiche, ora sdegnose, con cui umiliò l'albagia di quell'individuo, e gl'inflisse la condanna morale che la sua condotta si era meritata. La sua arringa, che coronò i dibattimenti, superò l'aspettativa dell'uditorio, ed è tuttora ricordata nel foro milanese come un modello d'eloquenza. Non fu una difesa legale; fu uno studio psicologico e sociale, nel quale le figure dell'imputato, della vittima, del seduttore e della giovinetta, furono ritratti come tipi impersonali, per modo che la discussione prese un carattere elevatissimo. Quella causa, la quale, alla prima, era sembrata nulla più che uno scandalo volgare, si trasformò grazie all'arringa del Mazza, e prese aspetti affatto nuovi. Si mutò in una grande tragedia, piena di profondi insegnamenti. Quando Giovanni si pose a sedere, affranto dalla fatica durata, il presidente non ebbe forza di frenare il clamore degli applausi e delle acclamazioni. Quanti erano nella sala, avvocati, letterati, magistrati, giornalisti, tutti unanimi pensarono: "Un grande ingegno s'è rivelato". Nessuna fortuna mancò in quell'occasione a Giovanni; il verdetto de' giurati non fu completamente negativo, ma, escludendo la premeditazione e ammettendo la "forza semi-irresistibile", ridusse leggera la pena. I giornalisti offersero un banchetto al nuovo criminalista illustre. I giovani legali ne organizzarono un secondo. Ed egli, in mezzo a quelle feste, ripensò sorridendo il lontano banchetto di cinque lire dei praticanti dello studio, che gli era costato tante umiliazioni e tanti sacrifici. E ripensò con un tripudio di gioia alle speranze che aveva credute morte. Le vide risorgere più belle, perché d'un tratto, da un giorno all'altro, aveva raggiunta quella rinomanza, che sembrava essergli sfuggita per sempre. Ormai la sua situazione era assicurata; l'avvenire gli si presentava glorioso, ed i denari non potevano mancar di venire. Ad ogni articolo di giornale che gli giungeva pieno d'encomi, pensava: "Lo leggerà Rachele; suo padre pure lo leggerà". E tornava colla fantasia a quel triste giorno d'autunno, in cui passando, sconsolato e respinto, lungo il fossato del castello, aveva esclamato: "Anche lei! Ebbene, vedrà!". Ecco; ora lo vedeva di che cosa era stato capace. "Ah! M'è costato caro, ma sono riescito!" diceva. Ed era glorioso della sua costanza, degli stenti sofferti. Era felice di sentirsi giovine e d'avere tanto avvenire dinanzi a sé. Dopo quel processo cominciò per Giovanni una vita nuova, tutta movimento, tutta azione, in cui le ventiquattro ore del giorno non bastavano ai suoi affari. I clienti si facevano sempre più numerosi. Un circolo politico lo nominò relatore per le elezioni. Fu invitato a collaborare in vari periodici legali, e scrisse articoli sopra un progetto di legge pendente, che furono commentati dai più accreditati giornali. Il suo ingegno, la sua dottrina, rimasti ignorati fin allora, si rivelarono potentemente, ed in breve tempo il suo nome acquistò grande notorietà e divenne popolare. In cinque anni che aveva passati coll'avvocato Berti, non era mai stato presentato alla moglie del principale. L'aveva veduta parecchie volte entrare con un grande fruscio di seta nello studio del marito, lasciandosi dietro un'ondata di profumo alla violetta, che gli aveva data una grande idea della sua eleganza. Qualche volta lei lo aveva guardato traverso il velo di trina, ma non gli aveva mai rivolta la parola. Il giorno dopo il famoso processo dell'acquavitaio Galbusera, l'avvocato disse a Giovanni: "Mia moglie desidera conoscerti. Vieni domani a sera a prendere il tè da noi. Ti presenterò". Non c'era mai stata intimità fra loro. Il principale gli dava del tu come ad un subalterno, ad un giovinetto, non come ad un amico. Tuttavia Giovanni aveva acquistata bastante esperienza, per comprendere quel cambiamento improvviso; e sorrise di quell'uomo d'ingegno che, conoscendolo da cinque anni, aveva aspettato, ad apprezzarlo, che lo avessero apprezzato prima il pubblico ed i giornali. L'entrare in casa di quel superiore diretto, il presentarsi a quella matrona, alla quale egli attribuiva quasi il doppio della sua età, lo metteva in soggezione. Infatti la signora Berti aveva varcata di qualche anno la quarantina. Ma non aveva figli, era bella, prendeva una cura grandissima della sua persona, vestiva con eleganza, frequentava i teatri e le feste da ballo, scollata, colle braccia nude, coi fiori in capo: danzava, faceva le chiacchierine galanti coi giovinotti, amava che le facessero la corte, e lo lasciava comprendere. Giovanni aveva capito facilmente da' suoi modi leziosi, e dalle occhiate, e dal vestire, che quella signora aveva delle pretese giovanili; ed era impensierito del modo di mettere d'accordo quelle aspirazioni coll'età di lei, e colla qualità di moglie del suo principale; due cose che lo intimidivano. Quando entrò in casa Berti, l'avvocato lo accolse come un camerata; appena lo vide, gli andò incontro colle mani stese; poi gli prese il braccio confidenzialmente e, nel fargli traversare due sale per condurlo da sua moglie, gli disse: "Trattiamoci da amici, dammi del tu. Qui non c'è più principale né sostituto. In casa mia ricevo i miei amici...". E fermandosi per ripetere una stretta di mano soggiunse: "ed i miei colleghi". Poi gli affermò che ormai, dopo il processo Galbusera, egli aveva preso posto fra gli avvocati più valenti di Milano, e tirò via a discorrere del suo genere di eloquenza forense, confrontandolo col proprio, discutendo le sue argomentazioni, ammirando le sue trovate. Giovanni fu commosso, e strinse egli pure cordialmente la mano di quell'uomo, che aveva giudicato artifizioso e rettorico, e che ora cominciava a conoscere sotto un altro aspetto. Il Berti non ci metteva studio nelle tirate sentimentali che da tanti anni formavano la sua gloria; era realmente un uomo sentimentale malgrado i suoi cinquant'anni. Aveva la fantasia poetica, il cuore appassionato; era una natura romantica. Durava fatica a tenersi un po' in sussiego coi giovani di studio, perché amava la gioventù, si univa volontieri ai suoi spassi, ne aveva l'ingenuità, la spensieratezza, lo spirito avventuroso. Dapprincipio le difese di Giovanni, serrate, positive, senza quelle tirate declamatorie colle quali egli faceva piangere le signore ed abbarbagliava i giurati, gli erano sembrate fredde: "Non ha sangue nelle vene, costui" diceva. "Non sa commovere; non fa nulla pei suoi clienti". Ma quando aveva udita nel processo Galbusera la parola del giovine avvocato attingere tanta efficacia dalla semplice esposizione dei fatti, ne era stato vivamente impressionato, ed aveva risentito un sincero piacere del trionfo del suo sostituto. Rimanendo rettorico, perché era nato ed invecchiato così, capiva il merito d'un sistema differente e più verista. La cordialità della signora fu meno candida. Lei pure era contenta realmente d'avere nel suo salotto il giovine avvocato che faceva parlare di sé tutta Milano; ma era contenta per vanità, non per sentita ammirazione di lui. Tanto lei che il marito avevano delle aspirazioni giovanili. Ma nel Berti erano effetto d'una natura entusiastica e sentimentale, che l'età non era riescita a disilludere. Nella signora erano vanità e civetteria. Tutta la sera ella prestò un'attenzione quasi esclusiva a quel nuovo venuto illustre; lo presentò alle signore, che fecero a gara nell'invitarlo alle loro serate, e ad ogni invito rispose per lui: "Sì; te lo condurrò martedì, te lo condurrò domenica. Sono io che lo patrocino, come allievo di mio marito...". Poi soggiungeva, ridendo come chi dice una cosa stravagante: "Gli faccio da mamma". E Giovanni era obbligato a protestare che era troppo giovine, e bella, e che una mammina così inspirava tutt'altro che riverenza, tutt'altro... Un po' colla sua protettrice, un po' da solo, Giovanni fece il giro delle conversazioni di Milano. La sua bella figura, i suoi modi d'una semplicità elegante, il contegno dignitoso, l'umore giocondo, e soprattutto il suo spirito brillante, lo rendevano simpatico a tutti. Gli uomini lo consultavano sulle questioni politiche e sociali, e facevano gran caso del suo parere. Le signore si dolevano perché non ballava, dicevano che alla sua età era una pedanteria, e lo invitavano loro stesse per una polka, per una quadriglia, col pretesto d'insegnargli a danzare, ma, in realtà, perché amavano di passeggiare al suo braccio per le sale, di conversare con lui, di sentirlo dire dei complimenti, un po' diversi da quelli convenzionali che udivano sempre. Infatti Giovanni cominciò a ballare, e nel carnovale seguente prese parte alle danze, sebbene molto moderatamente, e divenne uno dei giovani più ricercati ed alla moda. Ma l'impianto di uno studio e d'un piccolo quartiere, il vestire elegante, il vivere in una locanda buona e ben frequentata, come conveniva alla sua nuova situazione, erano cose dispendiose assai. C'era sempre nel suo cuore lo sgomento di avvezzarsi a farla da parassita come suo padre, e che un giorno s'avesse a dire di lui: "Vive alla mensa dei signori come il Dottorino". Misericordia! Per evitar questo, prodigava mazzi di fiori, gingilli artistici, palchi in teatro alle famiglie che lo invitavano a serate ed a pranzi. Tutto questo gli costava caro. I suoi guadagni bastavano appena per le sue spese e pel sussidio che mandava a suo padre; ed in mezzo a' suoi trionfi, era sempre lontano, lontano assai, dall'ideale del signor Pedrotti: "Un marito ricco per sua figlia". Ma questo pensiero non lo perseguitava più tanto. La memoria di Rachele, sempre soavissima quando gli tornava alla mente, vi tornava con minore insistenza. L'idea di sposarla era sempre fissa in lui, come un patto contratto con sé medesimo, come un destino. Ma le impazienze ardenti di raggiungere quella meta non le provava più, ed altri ardori, altre impazienze ne avevano preso il posto nel suo cuore. Dacché era liberato dalle cure affannose della vita materiale d'ogni giorno, dacché s'era adagiato in un'esistenza comoda e si vedeva circondato dal lusso e dalla bellezza, la sua potente vitalità giovanile gli aveva ridestata nell'anima la sete dei piaceri, tanto più viva, quanto più lunga ne era stata la privazione. Si sentiva affascinato dalla bellezza provocante delle dame, che gli sorridevano e gli stendevano la mano. Contemplava avidamente le loro spalle e le braccia nude, e quando non eran vestite da serata, le ripensava, le rivedeva coll'immaginazione, traverso i velluti e le sete. I fuggevoli amoretti delle sartorine e delle crestaie, che avevano interrotta di tratto in tratto l'uggia della sua vita da giovinotto povero senza occupargli né la fantasia né il cuore, ormai non lo allettavano più. Nella sua natura da poeta era istintivo l'amore dell'eleganza. Amava le donne belle, ben vestite, che parlano bene. Amava di entrare nella loro atmosfera signorile, di mettersi ai loro piedi sopra un ricco tappeto, di sedere con esse sui divani di raso, di sentire il profumo dei loro capelli e dei loro guanti. Anelava alla sua parte di felicità, al romanzo tempestoso della gioventù, si trovava nell'ambiente che poteva crearlo, e si compiaceva, coll'immaginazione appassionata, a figurarselo pieno di emozioni e di gioie. Una sera, che in una festa da ballo s'era nascosto fra due vasi di camelie, per abbandonarsi all'estasi snervante di quei sogni, si vide dinanzi un braccio meravigliosamente bello, ed una voce soave ed affannosa gli disse: "Per carità, venga a ballare questa quadriglia. Ho dovuto ritirarmi per ravviarmi i capelli, e sono rimasta senza ballerino". Egli si rizzò sbalordito, cogli occhi fissi su quelle braccia, su quelle spalle, su quel seno, su tutta quella pelle bianco-rosata da bionda, che gli pareva la realtà della sua visione d'amore. Seguì la bella donna trasognato e muto, sbagliò tutte le figure della quadriglia a cui non badava punto; non cessò mai di fissare la sua ballerina con uno sguardo avido. Si sentiva oppresso. Aveva incontrata parecchie volte quella signora, era stato in casa sua, la conosceva, sapeva che era bella, ma non aveva mai provata nessuna commozione accanto a lei. Si erano trattati con quella certa confidenza compagnevole e gioviale che le donne avvezze alla società accordano spesso ai gentiluomini, e spesso Giovanni parlando di lei aveva detto: "Mi piace, perché non ha la pretesa che le si faccia la corte. Si può parlare con lei come con un amico". Invece, in quel momento d'eccitazione gli parve che quella bellezza fosse fatta per lui, che la rivelazione di quelle forme, provocantemente nude, fosse una conseguenza delle sue fantasticherie amorose; che le avesse evocate, e gli fossero apparse. Non parlava affatto, ed aveva l'aria turbata ed infelice. "Che cos'ha, avvocato?" gli domandò la contessa. "Siete troppo bella!" rispose Giovanni colla voce sommessa ed affannosa d'un uomo appassionato. La contessa rimase sbalordita. Ebbe un sussulto come se avesse ricevuto un colpo nel petto. Comprese che avrebbe dovuto risentirsi, rimproverare il suo cavaliere troppo audace, oppure voltargli le sue belle spalle e piantarlo solo. Ma in realtà non provò nessun risentimento. Aveva infatti ricevuto qualche cosa come un colpo nel petto, come l'urto d'una pila elettrica. Lo stesso turbamento che opprimeva Giovanni oppresse anche lei. Finirono la quadriglia muti, agitati, in uno di quegli affannosi silenzi d'amore, più eloquenti ed espansivi di qualunque parola. Le loro mani s'incontravano tremando, si stringevano a lungo, si separavano lentamente e con rammarico; i loro sguardi s'incrociavano e rimanevano avvinti come due lame calamitate; i loro petti erano oppressi da una grande malinconia, da uno sgomento ignoto, e lei aveva voglia di piangere. La contessa Gemma Castellani di Monte era una donna ambiziosa e scettica. Fin dall'adolescenza aveva amato il lusso sfrenatamente, e quella passione, crescendo cogli anni, aveva invaso tutto il suo cuore. Da bimba in collegio aveva sempre ricercate le compagne ricche e nobili, disprezzando quelle che non avevano una mamma elegante, delle carrozze e dei servitori in livrea. Fatta più grande, poi, desiderava un ricco matrimonio ed un titolo di nobiltà con tale ardore che non le rimaneva cuore per altri sentimenti. L'amore la faceva sorridere. Se udiva di due sposi innamorati che si isolavano per vivere l'uno all'altra, crollava le spalle con disdegno e diceva: "Che gusti!". In fatto di matrimonio s'interessava soltanto di conoscere la rendita, il corredo e le toelette della sposa; se questa andrebbe in società, se riceverebbe molto, se avrebbe molti cavalli e belle carrozze. Per conto suo, in fondo in fondo all'anima, aveva anche una speranza vaga di cavalcate eleganti e di lunghi abiti all'amazzone. Ma era figlia d'un banchiere che aveva una numerosa famiglia e che, per non dissestare i suoi affari, non poteva darle più di centomila lire di dote. Sua madre le aveva fatto capire che con una dote così modesta non bisognava manifestare molte esigenze per non impaurire i pretendenti. E la bella Gemma, che per nulla al mondo non avrebbe voluto diventare una zitellona, s'era tenuto in cuore il suo cavallo da sella, salvo a tirarlo fuori e ad imporlo al marito quando fosse ben sicura che questi non potesse sfuggirle. Ma faceva grande assegnamento sulla sua bellezza, e non volle sacrificare i suoi sogni d'ambizione ai giovani agenti di cambio, avvocati, piccoli possidenti, che le offersero il loro cuore ed una situazione modesta. Un giorno le fu presentato, in una casa aristocratica, un generale in ritiro, che aveva il titolo di conte, trenta capelli bianchi per tutta capigliatura, e sessant'anni sonati. Qualcuno bene informato disse che era milionario, e la bella Gemma confidò alla padrona di casa che nessun giovinotto le aveva mai fatta un'impressione tanto buona come quell'uomo "dall'aspetto nobile e dalla fronte intelligente". Del resto non era vecchio; lei non credeva che avesse più di cinquant'anni; certo non li dimostrava; ed a cinquant'anni un uomo è sul fiore dell'età. Lei aveva diciannove anni appena; ma era sicura che, se l'avesse domandata in moglie, non avrebbe avuto difficoltà a sposarlo; un marito deve avere acquistata una lunga esperienza della vita, per essere guida sicura ad una giovine sposa. Lei non capiva come si potesse affidare il proprio avvenire, la propria felicità ad un giovinotto spensierato... Sapeva con chi parlava, la bella Gemma. La sua confidente riferì i discorsi della giovinetta al generale milionario; riferì di nuovo a lei l'espressione della gratitudine del conte, e quanto avrebbe desiderato di possedere una giovine sposa così bella e ragionevole; ma, alla sua età, non osava domandarla; temeva di rendersi ridicolo... "So bene che lui non ci pensa" disse Gemma. "Neppur io ci penso; non ho mai sognato che mi toccasse una simile fortuna. So che il babbo ha in vista un banchiere ricchissimo, un giovinetto... Lo sposerò; ma se m'avesse domandato quest'uomo serio, l'avrei accettato con maggior fiducia..." Daccapo la signora confidente riferì quegli incoraggiamenti impliciti della sua giovine amica, e, dopo due mesi, la figlia del banchiere diveniva contessa e milionaria, ed aveva fra i suoi doni di nozze un bel cavallo da sella. Erano passati i primi sette anni di matrimonio con una rapidità vertiginosa. La contessa Gemma correva con una smania febbrile di festa in festa; lusso, divertimenti d'ogni sorta, ricevimenti sfarzosi che assorbivano in una serata la rendita di un anno, villeggiature splendide, l'avevano inebbriata. S'era abituata subito al suo titolo, ma si compiaceva sempre di sentirselo dire; e gli elogi alla sua eleganza, le ammirazioni, per quanto iperboliche, non la saziavano mai. Nei primi tempi il marito, prendendo sul serio la sua missione di guida presso la giovine sposa, aveva cercato di frenare quella foga esagerata, e ne erano nati dei dissensi, che avevano rese anche più vive per la contessa quelle soddisfazioni che doveva ottenere al prezzo di lotte acerbe. Era ancora un trionfo della sua vanità l'aver vinta l'opposizione del marito. Alla fine il generale s'era rassegnato ad essere semplicemente una guida materiale, per accompagnare sua moglie dovunque ella sapeva di trovare una soddisfazione d'amore proprio o un diletto. Alle bagnature di Baden e di Vichy, alle invernate di Nizza, alle mostre mondiali di Parigi e di Londra, ai ricevimenti di corte il vecchio soldato compariva immancabilmente presentando la sua bella dama. Con un simile treno di vita cinquantamila lire di rendita sono ben poco; si fecero dei debiti, si tirò innanzi finché si poté, ma all'ultimo s'era dovuto darsi vinti ai creditori, e ridurre le spese alla modesta rendita che era rimasta per non finir male. Allora la superba signora aveva abbandonate le società aristocratiche dove, per nulla al mondo, avrebbe voluto comparire meno splendidamente di prima, e s'era messa nei circoli della borghesia, nei quali si poteva far buona figura anche con una carrozza ad un solo cavallo, e senza nessun cavallo da sella. Ed ecco in che modo Giovanni l'aveva incontrata in casa della signora Berti, e delle sue conoscenti. La galanteria aveva sempre lusingata la vanità della contessa, ma la passione non aveva mai parlato al suo cuore. Il suo stesso lusso, il suo orgoglio, avevano intimidito gli amori nascenti. Quanto a lei, amava troppo se stessa, troppo le premeva di far parlare di sé come della dama più elegante di Milano, per aver mente e cuore ad innamorarsi. Forte della sua bellezza e della sua gioventù non aveva bisogno di civetterie per farsi ammirare: e quella mancanza di civetteria, e l'altezza che le veniva dalla grande opinione che aveva di sé, le avevano fatta una riputazione d'onestà ed era stata la sua salvaguardia. Era considerata una fortezza inespugnabile. C'era voluta tutta l'eccitazione, il rapimento, la follia a cui era giunto Giovanni quella sera, nella lotta tra la sua imperiosa vitalità giovanile ed i suoi desiderii d'amore insoddisfatti, per gettare così in faccia ad una signora, che tutti giudicavano onesta, quelle tre parole ardenti come un bacio: "Siete troppo bella!". La contessa aveva ventotto anni, e di tutte le ebbrezze dell'amore non aveva conosciute che le carezze del suo vecchio marito. La passione, latente nel suo cuore, si accese come una fiamma all'urto di quello sguardo, al suono di quella voce. Ella non pensò di resistere a quel fascino come non aveva pensato mai di resistere a nessuno de' suoi desiderii. Il suo egoismo era grande come una passione; non sapeva negar nulla a se stessa. Quella notte, rientrando dal ballo, sola nella sua stanza, pianse di gioia e d'impazienza, ripensando le strette di mano e gli occhi neri e profondi di Giovanni. Dove l'avrebbe riveduto? Quando? Era tutto un orizzonte inesplorato di delizie che le si apriva dinanzi: una vita nuova. Dopo l'orgoglio di sapersi ammirata e bella, l'orgoglio più intenso di sapersi amata e la gioia d'amare. Giovanni si sentiva attirato da quella donna. La ricercava, la seguiva, la avvolgeva in una rete di passione. E quando la lontana immagine di Rachele gli si presentava alla mente, non più come una visione di cielo, ma come una meta da cui si allontanava, egli diceva come per tranquillarsi: "Questo amore passeggero per una donna maritata è un fiore che si coglie per via. Non impegna a nulla". Ma per nessuna cosa al mondo avrebbe rinunciato a cogliere quel fiore. Andava dappertutto dove sapeva di trovare la contessa; le stava sempre accanto coll'occhio avidamente fisso sulla sua persona bella. Coglieva l'occasione, nelle figure delle quadriglie, per stringerle la mano, e pareva che tra quelle mani ci fosse un filo conduttore d'elettricità che le facesse tremare all'unisono, e le congiungesse così fortemente, che il distaccarle era una pena e, separate, si ricercavano. Giovanni ballava poco. Ma una sera, trovandosi accanto alla contessa mentre intonavano una polka, le porse la mano in silenzio, ed ella accettò. Allora se la strinse al cuore come se volesse rapirla, la riscaldò, la arse in quell'abbraccio, le sfiorò i capelli, la accarezzò tutta quanta nella stretta delle due persone congiunte, poi, nel ricondurla a sedere, le serrò le mani con una forza che compendiava tutte le strette amorose, supplichevoli, ardenti, intime con cui aveva parlato a quella mano cara durante il ballo. Ma non le disse nulla. Era felice di quella passione calda che lo invadeva tutto. Si sentiva amato, s'inebriava, s'inteneriva in quelle mute dolcezze; amava di assaporarle; non sentiva il bisogno di precipitare il romanzo colle spiegazioni che lo avrebbero abbreviato. Sapeva che una spiegazione verrebbe. Vedeva la gioia suprema che lo aspettava, e lasciava che venisse da sé, di tenerezza in tenerezza, temendo quasi che, affrettando il momento supremo, avesse a perdere una di quelle sfumature del sentimento, uno di quegli episodi puerili e muti, che lo deliziavano. Pensava le spalle bianche, la vita flessibile, i capelli biondi della contessa Gemma, ricordava fremendo le sue strette di mano febbrili, i suoi lunghi sguardi innamorati; ed ardeva tutto all'idea che quella donna sarebbe sua. Dove? Come? Quando? Non ne sapeva nulla, ma era certo di possederla; e quella certezza lo inebbriava. Un giorno la signora Berti gli aveva dato appuntamento in casa sua, perché doveva presentarlo a qualcheduno misteriosamente. Infatti Giovanni trovò nel salotto della sua amica la signora del banchiere Ipsilonne, il quale era seriamente compromesso in un processo che si stava iniziando per una grossa falsificazione a danno dello stato. Una somiglianza fatale della sua scrittura con una delle firme falsificate lo accusava, e, dei due periti calligrafici chiamati dal tribunale, uno dichiarava di conoscere la mano di scritto del banchiere, e l'altro esitava, senza osare di negare la sua colpabilità. Ma in realtà egli era innocente. La moglie desolata giurava per lui, e si raccomandava a Giovanni perché ne assumesse la difesa, coll'impegno, coll'amore che aveva posto nella difesa del povero acquavitaio omicida. Era un processo interessantissimo, che prometteva all'avvocato un nuovo trionfo, e la causa di quell'uomo integro, fatalmente implicato in una truffa vergognosa, lo appassionò. Mise il suo tempo, la sua mente, il suo cuore al servizio del nuovo cliente. Impose silenzio alla sua passione, e, senza accordarsi il tempo per rivedere e salutare la contessa, si recò a Napoli, a Roma ed a Torino, per assumere documenti, prove e testimoni in favore del banchiere. Poi tornò a precipizio, perché la mattina seguente dovevano cominciare i dibattimenti. Giunse a Milano coll'ultimo treno della sera, dopo essere stato assente più di una settimana. Rientrando in casa trovò un telegramma del parroco di Fontanetto che lo aspettava da sei giorni. Partecipo con dolore morte dottor Mazza, tuo padre. Trovato esanime in letto stamane; spirato, pare, iersera. Regolamenti sanitari vietano differire sepoltura oltre ventiquatt'ore. Telegrafa ordini funerali. Dopo sei giorni i funerali dovevano essere fatti e dimenticati. Non era molto che Giovanni aveva spedita al padre una piccola somma; poi c'erano i mobili di casa. Egli pensò che ormai non c'era più bisogno de' suoi ordini, e tanto meno della sua presenza a Fontanetto, che del resto il processo del domani rendeva assolutamente impossibile. Egli aveva fatto il suo dovere, anche a costo di grandi sacrifici, sovvenendo il padre nella sua miseria; ma non era un figlio devoto. La vita da parassita, le ubbriacchezze del Dottorino, la sua servilità verso i signori, le sue violenze in casa, e l'ultimo degradamento del delirium tremens a cui lo sapeva ridotto, non lo invogliavano a correre al suo paese, per raccogliere l'eredità di sprezzo, che doveva essere l'unica successione del povero morto. Sapeva che in quel momento non avrebbe inspirata nessuna simpatia, perché era troppo viva la memoria di quell'ignobile vita e di quell'ignobile morte. E d'altra parte non gli premeva più tanto di produrre un'impressione favorevole a Fontanetto. Non s'era bastantemente arricchito per domandare Rachele, pensava. Ma in realtà, mentre cinque anni prima quel momento gli era sembrato tanto lontano, ora trovava che era troppo presto per ammogliarsi. Rispose con un telegramma, che la notizia gli era pervenuta troppo tardi e per conseguenza non aveva potuto assistere ai funerali; che confidava nel parroco, il quale certo aveva fatte le cose ammodo. Giovanni pensò con profonda tristezza la vita miserabilmente trascinata per trent'anni da suo padre, la sua morte vergognosa, tutta quell'esistenza oscura, senza elevatezza e senza affetti, e ne sentì un infinito rimpianto Il Dottorino aveva forza ed ingegno. Senza dubbio avrebbe potuto far qualche cosa; ed era passato così. Ed egli era suo figlio; forse aveva ereditato il germe del carattere paterno; forse le passioni abbiette che avevano rovinato il padre gli stavano latenti nel cuore aspettando un momento di snervatezza, d'inerzia, per svilupparsi e per vincerlo. Questo pensiero lo impaurì, gli riaccese più viva nel sangue la smania del lavoro, l'ambizione della gloria che incalza, il desiderio della ricchezza per assicurarsi l'indipendenza. E passò tutta la notte allo studio del suo grande processo per prepararsi alla difesa. I dibattimenti durarono una settimana, e furono una serie di trionfi pel giovine avvocato. Ormai era noto e famoso; ogni sua parola era aspettata, ripetuta in giro, riferita dai giornali. Il fatto solo ch'egli doveva parlare, faceva accorrere una folla di gente, stenografi, giornalisti; le sue frasi erano ridette, commentate nelle conversazioni, i suoi criterii facevano legge per molti, ed erano discussi e presi in considerazione anche dalle persone più serie. Ogni sera egli trovava alla sua porta un fascio di biglietti da visita, riceveva lettere di congratulazione, parole d'ammirazione e d'amicizia. Egli però era ancora sotto l'impressione triste della morte del Dottorino. Rientrando in casa, gli pareva sempre di doverci trovare il cadavere di suo padre, decrepito anzi tempo, morto nell'ubbriacchezza. Avrebbe voluto non pensarci, e non poteva. Ogni giorno vedeva nella tribuna la contessa che stava ad ascoltarlo. Era splendida di bellezza e d'eleganza, ed attirava tutti gli sguardi. Ma lei non guardava che il giovine difensore. Giungeva presto; quand'egli entrava era già là ad aspettarlo. Gli fissava in volto i suoi occhi d'un turchino metallico, e rimaneva immobile, cogliendo al volo lo sguardo di lui quando alzava il capo, lanciandogli un'occhiata tagliente, acuta, penetrante, che gli andava all'anima traverso le pupille. Durante la sua difesa, più volte egli la guardò; era appassionato e commosso, e sentiva il desiderio d'un volto amico. Lei era sempre nella stessa posizione, coll'occhio intento su lui, come per forza magnetica. La pupilla azzurrina era velata da uno strato vitreo: piangeva; non colla pezzuola, né con una mano sugli occhi; piangeva lasciandosi cadere lungo le guancie le lacrime lente, che pendevano tremolanti ai lati del mento, e si staccavano come perle per caderle sul seno, dove segnavano dei larghi dischi plumbei sulla seta cenerina del vestito. Giovanni era turbato da quegli sguardi, da quelle lacrime, da quella bellezza affascinante, da quell'amore prepotente che sfidava le convenienze per rivelarsi a lui. In quei giorni di tristezza sentiva d'amare la contessa con una tenerezza dolce da sposo. Non provava gl'impeti di passione sfrenata di un mese prima, non aveva il desiderio febbrile di stringerla, di stritolarla sul suo cuore, di mordere le sue carni rosee da bionda. Avrebbe voluto sederle accanto in un misterioso silenzio, e piangere sul suo seno. Ogni giorno si proponeva di andar da lei; ma differiva sempre. Si deliziava di quell'aspettativa, della stessa intensità del suo desiderio. E non cessava di pensare a lei. Il Dottorino era caduto in un tale stato d'ebetismo, che era passato dall'ubbriachezza alla morte senza forse avvedersene, certo senza poter chiamare aiuto, né aiutarsi. La Matta l'aveva trovato freddo, stecchito nel suo letto, ed era corsa ad avvertire il parroco, e questi l'aveva mandata a chiamare il procaccio per spedirlo subito a fare il telegramma a Borgomanero. "È pel signor Giovanni" diceva la Matta al procaccio. Ed era in tale orgasmo all'idea di rivedere Giovanni che non pensava più alla tragedia che era avvenuta in casa. Si fermava all'ingresso delle botteghe, e susurrava come chi teme di destare qualcuno che dorme: "È morto il padrone! È morto briaco!". E faceva atti di meraviglia; pareva che ricevesse lei quella notizia invece di darla. E quando lo stupore dei bottegai era passato un pochino, ripigliava, raggiante di gioia, come se fossero trascorsi degli anni, e non ci fosse nessun rapporto tra la nuova luttuosa della morte, e l'avvenimento felice che annunciava: "Ora il padrone è il signor Giovanni; servirò lui". La sera il parroco, vedendo che il figlio non veniva né rispondeva, disse che bisognava seppellire il cadavere. La Matta rimase atterrita. Guardò il morto, che aveva la bocca contorta come se la schernisse dalla sua cassa, e pensò che stava per andarsene. Poi pensò alla lontananza ignota del padrone giovine, e si mise a piangere ed a gemere: "Oh Dio! Come farò a trovarlo? Come farò?" Era sempre stato il suo ideale, povera donna, di servire un giorno Giovanni, di vivere con lui. Nella devozione del suo amore da schiava, non aveva mai desiderato altro che di servirlo; ma lo aveva desiderato con un'intensità passionale, ne aveva fatta la méta della sua vita in questo mondo; e quando in chiesa pensava vagamente al paradiso si figurava ancora Giovanni in alto, e lei a' suoi piedi; un atteggiamento cui non avrebbe osato aspirare nel suo stato presente, ma che le pareva d'una dolcezza paradisiaca. Intanto pregustava piaceri più terreni. Passava delle ore incantevoli ad immaginarsi di preparare un pranzo per Giovanni. Sapeva che amava il risotto, pensava tutta la cucinatura d'un risotto squisito; vi aggiungeva idealmente dei funghi, e fin dei tartufi; e rideva di gioia all'illusione di vederglielo mangiare e di sentirsi dire: "Com'è buono!". Si faceva insegnare dalle cuoche del farmacista e del parroco una quantità d'intingoli complicati, per nutrire i suoi sogni d'amore. Ed ora dov'era mai quel padrone che voleva servire con tanto cuore? Dove trovarlo? E se si fosse smarrita per via? Ed anche il morto se ne andava. Lei non lo aveva amato; ma ne aveva presa cura perché era il padre di Giovanni, e perché sentiva vagamente che quel vecchio inebetito era un legame tra la casa ed il giovine assente. Il morto fu messo sotterra; e quando la Matta tornò dal cimitero, sfigurata dal piangere lungo e disperato, trovò il parroco, che era tornato prima di lei, e faceva esaminare a parecchi creditori i mobili del defunto. I denari che riceveva dal figlio il Dottorino li spendeva all'osteria, dall'acquavitaio, dal tabaccaio; ed aveva lasciati dei debiti presso tutti i bottegai e presso il padrone di casa. "È un debito di quattrocento lire in tutto" diceva il parroco. "Poi ci sarebbe quel poco funerale, e la messa... Sul figlio non c'è da contare, perché non ha nemmanco risposto e non è venuto; ma, vendendo i mobili, se ne caverà una piccola somma che forse basterà a pagar tutti". La Matta, che era stata ad ascoltare a bocca aperta, si fece pallida e tremò. Vendere i mobili! I mobili, fra i quali aveva sognato di vivere il resto de' suoi giorni con Giovanni! Il suo letto; la tavola dove pensava sempre d'apparecchiargli da pranzo. E quei libri che gli piacevano tanto! Rimase un poco assorbita in riflessioni difficili, senza più badare ai discorsi degli altri che parlavano di vendita amichevole di asta giudiziaria di altre cose che lei non capiva. Poi se ne andò, corse ad aprire la sua cassa, e ne tolse il libretto della cassa di risparmio, che portò al parroco, ridendo di gioia cogli occhi ancora gonfi di pianto. "Cosa vuoi farne?" domandò il parroco. "Comperare i mobili..." implorò la povera donna. "Sarebbe un prestito che faresti al figlio del tuo padrone?" "Sono suoi" disse la Matta con generosa convinzione. "E il padrone è lui". "Ma dei mobili cosa vuoi farne?" "Portarli al padrone. Ma bisogna insegnarmi la strada". Il parroco rimase perplesso. Non voleva abusare della generosità stupida della povera serva. D'altra parte sapeva che i mobili del Dottorino non potevano fruttare in tutto che un centinaio di lire. Invece, le cinquecento lire all'incirca che offriva la Matta erano bastanti per pagare i creditori ed anche la parrocchia. Ci pensò a lungo, perché non aveva la mente molto svegliata; ma finì per trovare una soluzione: "Tu comperi i mobili per conto dell'avvocato" disse alla Matta. "Più, gli presti il rimanente della somma per pagare i debiti di suo padre. Io farò in modo che ti rimanga da pagare il viaggio ed il trasporto dei mobili. E tu, andando a Milano colla roba, gli dirai la cosa com'è, e ti farai restituire il fatto tuo. Gli dirai che, se non ha fede nella tua parola, scriva pure a me, ch'io attesterò del prestito che gli hai fatto di cinquecento lire...". Di tutto questo la Matta non capì nulla, assorta com'era nell'idea d'andare a Milano da Giovanni e di portargli i suoi mobili, che dovevano fargli tanto piacere. Dove fosse Milano, come potrebbe arrivarvi, non ci pensava più. Il parroco le avrebbe insegnata la strada. Andava a servire Giovanni, a fargli da pranzo, a spazzolargli i vestiti, a rifargli il letto. Come si proponeva di rivoltare le foglie del pagliericcio! di farle stare sollevate perché il letto fosse morbido! Lei non conosceva ancora i pagliericci elastici. Diceva alle vicine: "Ora non gli mancherà più nulla, poveretto. Ora sono io che lo servo!". E lo diceva con un intenerimento, con un senso d'abnegazione, come se, dacché era lontano da lei, nessuno gli avesse più resi quei servigi, e stesse squallidamente abbandonato, aspettando lei. Era trasfigurata dalla gioia. Salutava tutti dicendo: "Non mi vedrete più". Ma quella parola tristissima delle separazioni eterne, la ripeteva giubilando: non poteva cessare di ridere; quel riso era diventato una contrazione involontaria del volto; una convulsione di gioia. Passò parecchi giorni e spesso vegliò anche la notte per pulire, involgere, imballare, sempre col pensiero smarrito nelle visioni, lungamente vagheggiate, di piatti in cucinatura, destinati a Giovanni, delle scarpe di lui infilzate nel suo braccio, e lustrate, lustrate, fino alla lucentezza d'uno specchio, fino ad indolorirle la spalla pel resto della giornata. La partenza da Fontanetto sul carro, la strada ferrata, che vide per la prima volta a Novara, non la distrassero dalle sue fantasie. Osservò con ispavento i facchini che portavano i mobili verso i carri delle merci, lontani dalla carrozza di terza classe, dove il carrettiere, dandole il biglietto, aveva indicato a lei di salire; poi si avviò verso le merci per viaggiare accanto al suo deposito. Ci vollero spiegazioni infinite per farla tornare al suo posto. Guardava con diffidenza quel pezzo di carta che doveva farle restituire i mobili a Milano e lo teneva preziosamente stretto in mano, sebbene dubitasse del suo valore. Il carrettiere le disse: "Vedrete come si va presto là dentro. Altro che sul carro!" Ma lei non gli diede retta rispose soltanto: "Siete sicuro che me li restituiranno quando sarò a Milano?" Si avvide appena della rapidità della corsa; non poteva essere bastantemente rapida pel suo desiderio. Scendendo a Milano si gettò sul primo impiegato delle ferrovie che vide, col suo biglietto in mano, e non badò a nulla, fuorché alla ricerca dei mobili. Il facchino che li caricava, vedendo quella specie di selvaggia, le disse: "È la prima volta che venite a Milano?" La Matta stese ansiosamente le mani verso uno stipo sgangherato che egli stava sollevando e non rispose. "Vedrete com'è grande e bella Milano!" tornò a dire il facchino. "Più del vostro paese. Di dove siete?" "Badate che non si rompa; posatelo pianino" gridò la Matta tutta assorta nella responsabilità di quello stipo. Percorse le contrade, a piedi, dietro i due carri tirati dai facchini, cogli occhi fissi sui mobili, senza badare ad altro. In piazza del Duomo il facchino ciarliero si voltò per godere della sua meraviglia. Ma la Matta non guardava il Duomo. Pensava che stava per veder Giovanni, per comparirgli dinanzi improvvisamente, le batteva il cuore, ed aveva una inesplicabile paura. Poi pensava alla gioia che proverebbe ricevendo i suoi mobili. "Tanta bella grazia di Dio che volevano vendere!" Il facchino le gridò: "Ohe! Guardate un po' in su. È più bello del San Gaudenzio di Novara". La Matta alzò gli occhi; vide una massa bianca e smisurata colla Madonna in cima, si fece il segno della croce, poi riprese a camminare a capo chino. "Stupidi villani!" mormorò il facchino ambrosiano; e diede un urtone al carro dei mobili, per vendicarsi. La Matta aveva un bigliettino che le aveva dato il parroco coll'indirizzo di Giovanni, Via del Capuccio N... Non aveva voluto darlo al facchino, l'aveva presentato tutto spiegazzato a due o tre persone domandando ansiosamente: "Dov'è? Da che parte si va?" Ed aveva preteso di dirigere i facchini dietro quelle indicazioni. Furono essi invece che la guidarono, e si fermarono al portone che a lei, incapace di leggere i numeri, sarebbe sfuggito. Giovanni non era in casa. Lo scrivano dello studio aperse l'uscio, e rimase sbalordito al vedere quella contadina seguita da due uomini carichi di vecchi mobili. Il giovine avvocato non aveva che lo studio, con un salottino annesso, e la camera da letto. Lo scrivano esitava a lasciar ingombrare le stanze con quelle anticaglie. Ma la Matta lo guardò ben bene in aria di sfida, e gli disse: "Sono i suoi mobili, ed io sono la sua serva". D'altra parte i facchini grugnivano "che non potevano rimaner sull'uscio eternamente con quei pesi sul capo". Bisognò lasciarli deporre il carico, una volta, due, tre, finché ebbero vuotati i carri. C'era una stia sulla scrivania dell'avvocato, e la vecchia libreria vuota, posata contro l'armadio della camera da letto, ne nascondeva lo specchio. Nel vano del balcone entrò come una nicchia il cassone dei libri, e dappertutto seggiole zoppicanti, materassi rotolati, fodere da pagliaricci, credenze. La Matta contemplò avidamente il mobiglio del piccolo quartiere che le parve splendido. "Questa però non è roba sua", pensava. Aveva una vaga rimembranza di discorsi uditi quando Giovanni era all'università, che non aveva bisogno di portarsi un letto né altro perché gli dava tutti i mobili la padrona di casa. "Sono più belli dei suoi" diceva fra sé guardando il letto di ferro vuoto, e le modeste poltroncine di damasco di lana, "ma sono troppo belli, danno soggezione. Non si potrebbe prendere la rincorsa e saltare su quel tavolino, lucido a quel modo; ci resterebbe l'impronta dei piedi..." E, tutta rasserenata a quell'idea gioconda dei salti che Giovanni faceva da fanciullo, riprese a sorridere alle vecchie tavole che ingombravano il passaggio. "Come si troverà più libero fra questi mobili suoi che conosce..." E si figurò di vederlo rallegrarsi di quegli oggetti come di vecchi amici; le pareva che dovesse guardarli ad uno ad uno, e ridere delle memorie che gli richiamavano, e quasi accarezzarli, e poi dire a lei che era contento di riavere la sua roba, e che aveva fatto tanto bene a portargliela, guai se l'avessero venduta! E fregarsi le mani, e saltare, e dire: "Ora sì che mi sentirò in casa mia, e staremo bene!" Era tutta animata evocando col pensiero l'immagine del bel giovinetto che era partito dal paese cinque anni prima, ma se lo figurava più gaio, più felice pel dono che lei gli portava. Guardò i suoi abiti appesi ad un attaccapanni, li rivoltò da ogni lato, introdusse timidamente una mano nella fodera d'una manica, poi sorrise e disse forte: "È seta!" Vicina al letto c'era una poltroncina, e sul tappeto una pianella capovolta. La raccolse, cercò sotto il letto la compagna, e le dispose una accanto all'altra. Accarezzò lo schienale imbottito della poltrona, passò leggermente una mano sul sedile; le batteva forte il cuore; si sentiva opprimere; cedendo ad un'attrazione irresistibile, si guardò intorno come se temesse di venir sorpresa, poi si mise a sedere sull'orlo di quella poltroncina dove sedeva lui. Una specie di ebbrezza la invadeva; tremava tutta; era commossa e finì per abbandonarsi ad un pianto silenzioso e dolce. Finalmente s'udì il campanello. La Matta balzò in piedi e corse all'uscio dello studio. Era lui che tornava di certo; e lei era là in casa sua a riceverlo, a servirlo. Come doveva essere contento di vederla là! Le si struggeva il cuore dalla tenerezza. Diede un'occhiata rapida al letto laggiù in fondo alla camera, ed all'uscio, e le splendevano gli occhi come due fiamme. Forse pensava se traverso la toppa si potesse vederlo dormire, come laggiù nella stanza di Fontanetto. S'udì lo scrivano aprire l'uscio del salotto, poi una bella voce, sonora come una musica di chiesa, disse in tuono di grande meraviglia: "Che cosa c'è?" "È giunta una contadina... La sua serva..." rispose lo scrivano. La Matta che s'era sentita commossa fin nelle viscere da quella voce, ringoiò un singhiozzo che la strozzava, e s'affacciò all'ingresso del salotto gridando: "Son io, signor Giovanni, son io!". Poi si mise le mani giunte fra le ginocchia, e stette a guardarlo dondolandosi e ridendo, ridendo finché gliene rimasero gli occhi pieni di lacrime. "Oh! sei tu, poveretta! Come va? Come va?" disse Giovanni cordialmente. La Matta non poté che rimettersi a ridere, perché quel gruppo in gola non la lasciava parlare. "Mi fa piacere di vederti" soggiunse l'avvocato, battendole una mano sulla spalla. "Brava! mi fa piacere". Questa volta il gruppo uscì dalla gola in un singhiozzo, e la povera donna si nascose il volto nelle cocche della pezzuola del capo che le pendevano sotto il mento. "Via via" tornò a dirle Giovanni affettuosamente, "non agitarti. Siedi. Riposati. Parleremo più tardi". Ed entrò nella sua camera. Ma ne uscì presto, stette un momento sull'uscio per assicurarsi che il primo impeto di commozione era passato poi disse: "E così? Com'è che hai portati questi mobili?" "Sono suoi" rispose la Matta, ed il suo volto s'irradiò di gioia nel dargli quella nuova consolante. "E tu hai fatto il viaggio apposta per accompagnarli?" domandò Giovanni, senza esternare il piacere che la Matta s'aspettava. "Sei stata ben buona, e te ne ringrazio". La Matta ripeté ancora: "Era giusto; sono suoi". "E non ci sono debiti da pagare laggiù?" "No, no. È pagato tutto". Giovanni aveva mandato sufficiente denaro a suo padre per poter credere facilmente che fosse morto senza lasciar debiti, ed avanzando da pagare i funerali. Fece un giro nello studio, guardando la stia sulla scrivania, due panche da letto ritte contro un casellario, pigliando in mano una vecchia cassetta pel sale, che era sulla tavola dello scrivano; poi tornò dalla Matta e ripeté i ringraziamenti. "Sei stata troppo buona davvero. Non metteva conto di venire fin qui per questi cenci. Si sarebbe potuto venderli là; oppure avresti potuto tenerli". "Oh, sono suoi" disse per la terza volta la povera donna col cuore serrato. "Non importa" riprese Giovanni, "te li regalerei volentieri in compenso delle cure che hai avute pel povero babbo". La Matta si sentiva gelare il sangue di dentro. Non era l'accoglienza che s'era aspettata; le pareva che la mettesse fuori dell'uscio, e tremava tutta di vedersi sola nel mondo. Giovanni, vedendo che rimaneva a capo chino senza rispondere, credette di comprendere, e ripigliò: "Ma forse non sapresti dove metterla questa roba; non puoi portartela in casa dei padroni. Dove andrai ora?" le domandò con affettuosa premura. "Hai trovato da collocarti?" Fu un colpo di pistola in mezzo al cuore per quella serva devota. Non la voleva! Non ci pensava nemmeno di tenerla con sé! Quella delusione la colpì così dolorosamente che si lasciò ricadere sulla sedia e si mise a piangere ed a sospirare: "Oh povera me! O povera donna me!" Giovanni le sedette accanto, cercò di consolarla. "Non affliggerti così. Se non hai padrone, lo troverai; intanto puoi rimanere qualche giorno qui, e poi ti darò del denaro perché tu possa aspettare in casa della tua balia finché non ti capiti da collocarti bene. Sai che non sei una donna abbandonata. Ho de' doveri verso di te, e li riconosco volentieri..." Passeggiò su e giù per la stanza, come impacciato dalla presenza di quella donna, poi guardò l'orologio e vide che erano le sei: "Ma tu avrai fame" disse con premura. "Io pranzo alla locanda e qui non ho nulla da darti. Ti farò accompagnare ad un albergo qui accanto, dove ti daranno da mangiare, ed anche da dormire. Potrai fermarti due, tre giorni, fin che vorrai. Sono buona gente. Le ragazze ti condurranno fuori a vedere Milano". La Matta non si moveva. S'era tirata giù la pezzuola fin sulla fronte, e rimaneva muta colla testa bassa. "Non vuoi venire? Che cosa vuoi fare?" domandò Giovanni con un lieve tono d'impazienza. Lei sentì che doveva rispondere, e facendo uno sforzo sovrumano balbettò: "Io non so". Egli era avvezzo a quella parola inconsapevole della povera scema, ma in quel momento, vedendo che rifiutava di andare a mangiare e dormire, mentre doveva averne tanto bisogno, pensò che forse le mancava il denaro, ed aprendo il cassetto della scrivania, ne trasse un biglietto da cento lire, e glielo mise in mano dicendole: "Prendi. Questo è per te. Ti pagherai le spese all'albergo, ed il viaggio quando vorrai tornare al paese. Ed in ogni occorrenza che tu abbia bisogno, fammi scrivere, perché sei sempre stata buona e non ti abbandonerò". Era una sentenza definitiva. Non voleva tenerla con sé. Era finita, non c'era più speranza. Il lungo sogno della sua povera vita svaniva, il suo grande amore da schiava era respinto dal padrone. In quella immensa rovina parve alla Matta che il mondo crollasse intorno a lei, che la spingessero sola in un immenso deserto. Le venne in mente l'asino del mugnaio che girava sempre sempre intorno ad un palo per far girare la macina, e, quand'era vecchio e non girava più, lo conducevano a Borgomanero e lo vendevano per poche lire. E pensò che lei era come quell'asino. Si rizzò convulsa, scese le scale barcollando, Giovanni la seguì. Provava una grande pietà per quella povera creatura. La condusse egli stesso in un piccolo albergo modesto, dove altre volte aveva mangiati i suoi modesti pranzi da una lira, e la raccomandò all'albergatrice. Poi le disse prendendole una mano come avrebbe fatto con una signora: "Sei stanca, poveretta. Ora mangerai bene, berrai un buon bicchiere di vino, e ti metterai a letto. Addio; stai di buon animo. Vieni a trovarmi prima di partire. E se hai bisogno di me, ricordati". Se ne andò commosso e pensoso. Quella comparsa gli faceva tornare alla mente vaghe e lontane le immagini del passato: il suo poetico amore, mezzo morto, soffocato dalla passione che lo divorava. Ma quello era l'amore dell'avvenire, l'amore dell'età tranquilla, il riposo, la pace. Ora aveva nell'anima la tempesta. Quell'ultimo giorno la contessa lo aveva magnetizzato, bruciato coi suoi lunghi sguardi. In certi momenti era penetrata nel suo cuore fino a fargli tremare la voce, a mettergli un singhiozzo in gola. Colla fissità innamorata di quegli occhi larghi e chiari gli aveva detto ancora ed ancora che lo amava, che era sua. Ed egli sentiva che era vinto, che non potrebbero più vivere separati, che avevano assaporate tutte le note dell'incantevole preludio dell'amore, che erano giunti a quello stato d'esaltamento che rende felici od uccide. E per essi non c'erano ostacoli, non dovevano morire. Quella notte vegliò febbrilmente sognando l'ultimo rapimento dell'amore confessato, la gioia ineffabile e crudele di possedere quella donna, d'abbandonarsi a lei, di confondere le loro vite in una passione colpevole. Il mattino fece sgombrare lo studio dei vecchi mobili di suo padre. Incaricò lo scrivano di farli mettere sul solaio, e di riporre i libri nella libreria. Aspettava qualche cosa; era agitato; avrebbe voluto che la sua casa fosse bella. Non osava pensare che la contessa poteva venire; ma aspettava qualche cosa da lei; era certo di vederla; quel giorno sarebbe andato e le avrebbe detto che la amava. Ma sperava che lo scrivesse prima lei. Andò a sedere alla scrivania; ma era impaziente. Ad ogni scampanellata guardava l'uscio ansiosamente; se tardavano ad entrare, gridava allo scrivano che era andato ad aprire: "Chi è?" Una volta lo scrivano gli rispose: "È il cameriere della locanda. Viene per quella donna di ieri..." "Ah! Va bene, pagalo" rispose Giovanni distratto. Ma poco dopo lo scrivano rientrò: "Dice che vuol parlare con lei". Giovanni accennò col capo di sì, e guardò il cameriere per invitarlo a parlare. Questi crollò il capo, poi disse: "Era disperata, povera donna!" "Disperata! Perché?" "Non so. Non ha voluto parlare. Andò a rannicchiarsi in un angolo della bottega e rimase tutta la sera cogli occhi da spiritata. Urlava come un cane rabbioso, e si cacciava le unghie nella fronte". "Ma cosa aveva?" domandò Giovanni. "Sie... Aveva un bell'interrogarla in tutti modi, anche la padrona. Non rispondeva nulla, la respingeva ed urlava più forte. C'è voluto tutto a farla andare in camera quando si dovette chiudere l'albergo. E tutta notte l'abbiamo udita gemere. Poi questa mattina la padrona la trovò ancora rannicchiata in terra; non s'era messa a letto. Disse che voleva tornare al suo paese, e non ci fu verso. Bisognò metterla nell'omnibus e condurla alla stazione pel primo treno di Novara. Non sapeva neppure prendere il biglietto; l'ho preso io..." Giovanni rimase impensierito. Aveva ascoltato un po' distrattamente, ma pure s'interessava della povera serva; disse a mezza voce: "Cosa potrà avere? Ma!". Poi pensò che i campagnoli non sanno stare lontano dai loro paesi. Quella poi non se ne era scostata mai, ed era un po' scema; s'era spaurita... Prima che il cameriere uscisse, s'udì un tocco del campanello; e portarono una lettera a Giovanni. Era la lettera della contessa. Egli si alzò, e corse a leggerla solo nella sua stanza. Alla Matta non pensò più. La bella contessa Gemma, avvezza ad appagare tutte le sue brame ad ogni costo, appena s'era sentita nascere nel cuore un amore, vi si era abbandonata senza la minima resistenza; l'aveva anzi fomentato coll'immaginazione, aveva pregustate con delizia le sorprese di quella nuova gioia che si prometteva. S'era figurata l'ora inebbriante e soave della confessione; le parole ardenti, gli sguardi innamorati e profondi, le carezze febbrili; ed aveva vissuto quell'ora col pensiero, coll'ansia del desiderio; ne aveva provate le emozioni, intense fino allo spasimo, fino al delirio; e di giorno in giorno aveva detto: "Sarà domani". Poi i domani s'erano succeduti monotoni e lenti senza portare nessun avvenimento nel suo romanzo d'amore; ed allora la contessa s'era sentito stringere il cuore da apprensioni paurose: "Se non lo vedessi più? Se non mi amasse? Se quella sera avesse ceduto ad un'eccitazione momentanea e poi l'avesse scordata come si scorda un'ora d'ubbriachezza?". Ed allora le era parso che le mancasse qualche cosa di profondamente caro, di necessario alla sua esistenza; aveva provato un bisogno potente che, comunque fosse, ubbriachezza, eccitazione, delirio, quella sensazione durasse nell'animo di Giovanni; oppure si rinnovasse, se quel breve tempo l'aveva dissipata. E s'era data a cercarlo affannosamente nelle case ch'egli frequentava, ai teatri, alle feste, studiando le abbigliature e le scollature più provocanti, facendosi bella e seducente per riconquistare quella dolcezza, che l'aveva inebbriata un momento ed era svanita. E da ogni ricerca tornava prostrata, irritata, nervosa; s'abbandonava a pianti convulsi, ed accessi di furia; spezzava quanto le cadeva sotto mano, maltrattava la cameriera, lacerava abiti e trine, scriveva lettere disperate, poi le lacerava anch'esse. Finalmente aveva saputo che egli era assorto in un processo di grande importanza; e lei era corsa a cercarlo alle udienze, aveva preso il posto più in evidenza nella tribuna, aveva fatto pompa delle commozioni che provava nell'ascoltarlo, s'era gloriata superbamente di quel sentimento tutto nuovo pel suo cuore frivolo, e che metteva una nota romantica nella sua vita. Per tutta la durata dei dibattimenti, aveva scandagliato il giovine avvocato colla fissità delle sue pupille metalliche; gli aveva trasfusa nell'anima traverso gli occhi un'onda d'amore, l'aveva attirato a sé colla potenza d'una passione imperiosa, d'una volontà irresistibile. E lo aveva veduto arrossire, impallidire, tremare, commoversi sotto suoi sguardi, ed aveva riprovata la gioia suprema di sapersi amata. Ma ancora i giorni s'erano succeduti, e Giovanni non era andato da lei. Tornando dalla grande seduta quell'ultimo giorno, ardente d'entusiasmo, ardente d'amore per quel giovine dalla voce armoniosa e profonda che strappava lacrime ed applausi a tutti, la contessa aveva rotto ogni freno di riserbo femminile, e, nella sua impazienza, aveva scritto: "Perché non venite? Non sapete che vi amo?" Quella lettera mise la febbre nel sangue a Giovanni. Dopo il lungo studio e la lunga fatica di quel processo che lo aveva occupato esclusivamente, si gettò con un ardore da assetato in quella festa d'amore che la fortuna gli offriva. Corse come un pazzo dalla contessa, dimentico dell'ora, delle convenienze, di tutto. Erano appena le undici del mattino. Fu introdotto in sala da pranzo, dove il generale e sua moglie stavano a colazione. Giovanni rimase istupidito come uno che si svegli improvvisamente da un bel sogno. Non gli pareva possibile che quella signora, seduta compostamente a tavola, che mangiava una bistecca discorrendo del più e del meno con quel marito vecchio, fosse la stessa eroina da romanzo che gli aveva scritto: "Non sapete che vi amo?" In un momento tutta la sua illusione inebbriante si dissipò, gli parve di aver delirato, e che non fosse vero nulla, e che dovesse trattare sempre quella bella donna come la trattava in quel momento davanti al conte. Quell'ambiente tutto impregnato d'odori di vivande, colla mensa coniugale, coi cerchietti dei tovaglioli marcati coi nomi dei due sposi, colle biancherie colle loro cifre, con una quantità di cosette di uso comune che li vincolavano, non era fatto per udire proteste d'amore, e le soffocava in gola. Un momento Giovanni pensò che quella lettera era stata un artificio per ottenere una visita che egli tardava troppo, e forse anche per ischernirlo di quel momento d'aberrazione, in cui egli s'era lasciato sfuggire quell'esclamazione stravagante: "Siete troppo bella!" Stette ad assistere alla colazione, comprendendo appena le domande che gli facevano sui particolari del processo, rispondendo lungamente come se, per giustificare in qualche modo la sua presenza a quell'ora, volesse persuadere il generale che era andato appunto per portare quelle nuove. Era imbarazzato di trovarsi là, e non sapeva come andarsene. Guardava la contessa e la vedeva così tranquilla, sorridente, felice, che non poteva più figurarsela tribolata da una grande passione. Senza dubbio il solo pazzo era lui. Finalmente il conte si alzò da tavola, porse la mano al visitatore, e, coll'aria rassegnata d'un uomo avvezzo a piegarsi alla volontà della moglie, domandò di uscire per fumare un sigaro: "Gemma non può tollerare l'odor di tabacco in casa". E se ne andò. Appena egli fu scomparso parve che l'ambiente della stanza si mutasse; la prosa era uscita con lui. La contessa, ritta accanto all'uscio che aveva chiuso dietro il generale, sembrava trasfigurata. Le sue pupille turchine mandavano lampi acuti come punte d'acciaio; tremava tutta. Giovanni le si fece incontro, e sentì che le parole d'uso, i saluti convenzionali non erano più possibili. S'erano compresi e spiegati troppo; erano due innamorati, soli per la prima volta, l'uno in faccia all'altra. Stese le mani in silenzio; Gemma gli porse le sue, e stettero così un momento colle mani strettamente congiunte, cogli occhi fissi, muti, palpitanti, inteneriti. Poi Giovanni se l'attirò accanto, la serrò in un abbraccio ardentissimo, silenzioso, mentre lei, sopraffatta dalla violenza dei suoi sentimenti, si abbandonava ad un pianto convulso. Da quel giorno Giovanni e la contessa Gemma divennero inseparabili. Dovunque essa andava, si era certi di vederla accompagnata da lui. Alle sue serate, ai suoi pranzi d'invito il giovine avvocato era immancabile come uno della famiglia. Era difficile giungere prima di lui e partire dopo. Dal canto suo la contessa era assidua in tribunale quando Giovanni perorava qualche causa; si teneva al corrente di tutti i processi che gli erano affidati, e si gloriava dei trionfi di lui come d'una cosa che la riguardasse. Quel primo amore a trent'anni, nella pienezza del suo sviluppo fisico, della sua esperienza di donna, s'era rivelato alla prima imperioso, violento, intollerante d'ogni freno. Pareva che ella si compiacesse a far pubblica la sua relazione con Giovanni come per dire alla gente: "Badate, questo uomo è mio". Vivevano quanto più potevano insieme; in mezzo ad un circolo di conoscenti sapevano cogliere il momento per rivolgersi qualche parola sommessa, per isfiorarsi la mano nel porgersi una tazza di tè, nel leggere insieme un giornale. Davano appena, lui al lavoro, lei alle esigenze della vita elegante, il tempo e l'attenzione che erano strettamente necessari. Poi si cercavano, si rinvenivano, dimenticavano ogni cosa per assorbirsi l'uno nell'altra. Sovente, a tarda sera, uscendo dal teatro, si facevano condurre fino ai bastioni lontani di Porta Nuova, poi mandavano la carrozza ad aspettarli a Porta San Celso e facevano a piedi sulla neve quel lungo tratto di strada, rabbrividendo di freddo, stringendosi l'uno all'altra per riscaldarsi, correndo, parlando poco, beati di sentirsi uniti e soli e liberi nella misteriosa oscurità. Se per necessità di professione Giovanni doveva allontanarsi da Milano, la contessa scompariva al tempo stesso, e ricompariva soltanto quand'era tornato lui. Si dava appena la briga di immaginare una parente lontana che era stata a visitare in campagna, ma senza curarsi di farlo credere. Inventarono alcune di quelle follie temerarie che i giornali pettegoli amano di narrare, nascondendo male i nomi dei protagonisti sotto il trasparente velo dell'anonimo Fecero l'ascensione del Monte Rosa vestiti tutti e due della medesima stoffa grigia, colla stessa cravatta, gli stessi stivaletti, lo stesso cappello di feltro ornato d'un pennacchietto e di una sciarpa bianca, gli stessi guanti. Sull'alpenstok, sotto il nome del picco e la data dell'ascensione, fecero incidere le loro iniziali riunite, e, lungo il viaggio, sugli album degli alberghi, s'inscrissero sempre come sposi in viaggio di nozze, mettendo accanto ai loro nomi delle frasi sentimentali. Un'altra volta andarono a Monte Carlo, giocarono fin all'ultimo soldo, e dovettero rimanere in pegno all'albergo finché Giovanni ebbe telegrafato a Milano, e gli fu spedito il denaro del ritorno. Il generale ignorava forse quelle spedizioni di sua moglie; oppure le conosceva, e si era rassegnato. Comunque fosse, la relazione della contessa col giovine avvocato non era un mistero per nessuno. Era una di quelle situazioni che la gente tollerante accetta malgrado la loro illegalità, che le persone ammodo tengono a distanza, ma a cui tutti finiscono per avvezzarsi. Anche i due amanti ci si avvezzarono, e dopo qualche tempo, esaurito il repertorio delle follie amorose, tirarono via ad amarsi tranquillamente come due sposi. Era un amore troppo sicuro e palese per creare situazioni da romanzo. Non c'era il mistero né la paura affannosa d'essere scoperti. Tutto procedeva liscio in quella passione spensierata e gioconda che si alimentava più di monellate che di sentimentalità languenti; era un amoretto più che un amore, e per questo durava. Tuttavia Gemma, sotto quell'apparenza giuliva d'amoretto galante, nutriva una forte passione nella quale aveva concentrata tutta la poesia d'un primo amore, tutto l'ardore dell'età matura. Mentre invece Giovanni, sedate le prime tempeste, s'era fatto de' suoi rapporti con la contessa una dolce abitudine, che lo riposava da' suoi lavori senza distrarnelo troppo, che non lo turbava con impazienze ardenti né con gelosie, che gli lasciava tutta la sua serenità di spirito. E gliene era grato, e le era affezionatissimo. Tratto tratto ripensava le sue lontane ambizioni di farsi ricco per strappare al signor Pedrotti il consenso di sposare Rachele. Ora era ricco, guadagnava cinquantamila lire all'anno. Ma quanto tempo c'era voluto! Fortuna che quella giovinetta non s'era impegnata ad aspettarlo. Ormai doveva essere maritata, e madre di famiglia. In certi giorni noiosi, monotoni, sospirava che anche lui avrebbe voluto esser padre di famiglia, e che invecchiava solo, e più tardi non avrebbe nessuno intorno per amarlo... Ma poi rivedeva la contessa, passava delle buone ore con lei, e non ci pensava più. Così passarono degli anni, durante i quali la fama, la fortuna, la situazione sociale di Giovanni si consolidarono. Non era più un giovinotto; aveva trentacinque anni: era un uomo serio; si trovava alla testa di uno dei principali studi legali di Milano; possedeva un appartamento signorile; era decorato della croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, ed era certo d'essere portato candidato alle prime elezioni. La contessa era sempre bella, e, con quella tenacità che è particolare alle donne, sempre innamorata. Finché Giovanni fu assiduo presso di lei, e devoto ai suoi desideri, fu felice anche lei di quell'amore sereno in cui tutto era piacere e diletto. Ma venne il tempo in cui anche le formalità della galanteria furono messe da parte, e, gradatamente, senza quasi avvedersene, Giovanni trascurò di mostrarsi innamorato, e lasciò troppo comprendere che considerava l'amore coll'occhio d'un uomo serio. "Questa" diceva, "è la parte privata della mia vita: non deve invadere il terreno della parte pubblica. Ho altri doveri: lo studio, il tribunale, gli affari, la politica. Debbo leggere i giornali, frequentare i circoli. Quando sono libero non domando di meglio che stare con te. Ma non posso passare le giornate a farti la corte. Sai che ti voglio bene..." La bella Gemma invece s'era fatta delle idee da romanzo; sognava la passione esclusiva ed eterna, non poteva rassegnarsi a quel cambiamento di Giovanni, ne cercava le cause, scriveva lunghe lamentazioni, e quando rivedeva l'amante, occupava le poche ore ch'egli poteva dedicarle a fare scene di risentimento e di gelosia. Giovanni, in realtà non aveva fatto nessun cambiamento. Egli, che l'aveva sempre amata ad un modo, e soltanto aveva smessa un po' la galanteria e le dimostrazioni a misura che era cresciuta l'intimità, non capiva di che cosa ella si lagnasse, la trovava esigente ed ingiusta. "Alla nostra età" le diceva, "non possiamo più abbandonarci alle follie amorose come due giovinetti". Quelle parole sembravano crudeli alla contessa. Si disperava ch'egli la trovasse vecchia. "Ecco" diceva, "è per questo che non mi ama più". E si torturava di gelosia se egli avvicinava una donna più giovine di lei. Giovanni ci metteva della buona volontà per renderla contenta; tornava studiatamente alle frasi amorose, si metteva in ginocchio, le baciava le mani. Ma era troppo uomo per non avere un certo sussiego in società: ed in presenza della gente ripigliava il suo contegno serio che affliggeva tanto Gemma. "Debbo farlo per rispetto alle convenienze" diceva, "per rispetto a te stessa". Ma lei, che ripensava sempre con rimpianto il tempo in cui egli pure non si curava di quel rispetto, non rinunciava alla speranza di vederlo rinascere, ed insisteva a cercare la causa che rendeva freddo il suo amante. Più d'una volta lo mise nell'imbarazzo frapponendosi tra lui ed una supposta rivale. Una sera, mentre egli si disponeva ad accompagnare al pianoforte la giovine sposa d'un suo amico che doveva cantare una romanza, la contessa dichiarò che stava male, che aveva bisogno di ritirarsi immediatamente perché si sentiva svenire, e obbligò Giovanni ad uscire per ricondurla a casa, prima che la signora avesse potuto cantare. Giovanni uscì irritatissimo, ed appena fu solo in carrozza con lei si lagnò che lo rendesse ridicolo con quelle scene. Ne seguì una lite aspra, che durò per tutta la strada, poi un lungo malumore, uno scambio di lettere desolate, supplichevoli, umili da parte della contessa, fredde da parte di lui, e finalmente una riconciliazione stentata. Così tirarono avanti del tempo ancora, un po' in pace, un po' in guerra, ritrovando tratto tratto qualche raggio della passata felicità, illudendosi d'averla ricuperata, poi ricadendo nelle liti, nei malumori per una puerilità, per un saluto che Giovanni rivolgeva ad un'altra, per un atto di poco riguardo verso Gemma. Nell'inverno una signora, artista di canto, che aveva una lite con un impresario teatrale, andò a consultare l'avvocato Mazza e gli affidò la sua causa. Giovanni dovette recarsi più volte da lei per avere informazioni ed istruzioni. Era una bella donna e la gente pettegola non perdette l'occasione di ciarlare a proposito di quella nuova relazione dell'avvocato. La contessa divenne inquieta, sospettosa, pazza di gelosia. Pretendeva che Giovanni rinunziasse a quella causa. Implorava questo come una prova d'amore, e non poté ottenerla. Giovanni era infastidito di quelle esigenze strane, e diventava meno condiscendente ogni giorno. Fu un tristo carnovale per la contessa, che si sentiva trascurata, e vedeva con dolore il suo amante sfuggirle a misura ch'ella metteva più passione e studio per trattenerlo; sfogava il suo malcontento in dispettucci meschini che inasprivano tutti e due. Una sera in teatro uscì improvvisamente dal palco a metà dello spettacolo perché Giovanni aveva salutata la sua cliente, che era nel palco di contro. Poi venne la quaresima; non c'erano più spettacoli teatrali, e poteva meno sorvegliare Giovanni. Se non andava da lei, se non lo incontrava in qualche casa di comuni amici, si figurava che fosse dalla cantante; nessuna ragione valeva a persuaderla del contrario. Giovanni finì per impazientarsi e non iscusarsi più. Allora ella s'abbandonò ad una vera persecuzione contro l'artista. Fece inserire degli articoli malevoli sul suo conto in un giornale teatrale, e giunse persino a scriverle delle lettere anonime, accusandola di fingere una lite per sedurre un avvocato illustre e ricco. Giovanni, a cui la cantante comunicò quelle lettere, rimase male; s'irritò della situazione ridicola in cui lo metteva la contessa, e nel suo giusto sdegno le rimproverò acerbamente la sua ignobile azione. Fu la crisi decisiva che doveva rompere quella relazione già troppo prolungata e violenta. La contessa, quando si vide abbandonata, nella sua gelosia insensata, non pensò che a ravvivare l'amore di Giovanni rendendo lui pure geloso. E si fece vedere in pubblico accompagnata da un giovinotto che la corteggiava da qualche tempo, ed ostentò di trattarlo con confidenza, di accordargli delle libertà che lasciavano supporre relazioni molto intime fra loro. Giovanni lo vide, e ne provò un profondo disgusto; ma non fu geloso, non andò a rimproverare alla bella infedele la fede tradita, non scrisse lettere disperate. Il suo cuore s'era fatto freddo per lei e rimase freddo. Allora, nella sua nervosità febbrile, la contessa si abbandonò davvero ad un amore che non sentiva, per vendetta, o per dispetto, o per amor proprio, o per tutte e tre le ragioni unite; ed, eccessiva in tutto, prese una risoluzione pazza, che annunciò lei stessa a Giovanni, in un'epistola insensata e crudele. Forse prese quella risoluzione unicamente per scrivere quella lettera. Vi avevo giudicato troppo bene - diceva per concludere una serie di periodi amari e pungenti -. E voi non meritate il mio amore. Finché aveste bisogno d'una relazione nella società alta per farvi strada, fingeste d'amarmi. Ora che avete una situazione, mi abbandonate come un ingrato. Ma non vi state a figurare d'avermi avvilita col vostro disprezzo, e ch'io debba passare il resto de' miei giorni a rimpiangervi; non siete degno di tanto. Se voi non mi trovate più troppo bella, e neppure bella a sufficienza per riscaldare il vostro cuore d'uomo positivo, c'è chi mi trova ancora bastantemente bella per consacrarmi tutta la sua vita, per sacrificarmi la sua posizione come voi non avete saputo sacrificarla mai, per sfidare l'opinione del mondo, il vostro idolo. Siate felice colla vostra conquista da palcoscenico; io cercherò di dimenticare, nell'amore d'un uomo generoso, un altro che non lo fu mai... Prima che Giovanni ricevesse quella lettera violenta e verbosa da amante offesa, tutta Milano parlava della fuga della contessa Gemma col suo nuovo amante. Quella vendetta mostruosa di passare freddamente, e per pura pazzia gelosa, da un uomo che amava ad un indifferente, finì di disgustare Giovanni; si sentì deluso, oltraggiato, diffidò della dignità umana. Certo, nel suo amore per la contessa, non aveva mai posta molta idealità. Aveva subito il fascino della bellezza, dell'eleganza. L'aveva conosciuta quando egli era nel completo sviluppo della sua gioventù, dopo una vita di privazioni, e col cuore e la fantasia eccitati da un lungo amore contrariato. Aveva ceduto alle tendenze della sua età, ed era stato felice ed infelice con quella donna, senza averne un alto concetto morale, curandosi appena del suo animo, del suo carattere. Era certo di non trovarsi mai nel caso di darle il suo nome, e s'appagava di trovarla bella, spiritosa, ammirata. Era un'amante che lusingava il suo amor proprio, che lo rendeva felice e lo manteneva di buon umore, senza che egli la mettesse nel suo pensiero al disopra di tutte le donne. E tuttavia, la sua parte di vanità umana non gli avrebbe mai permesso di credere che la donna amata da lui potesse scendere tanto in basso. E quando dovette riconoscerlo, dubitò di tutte le donne, pur di non credere che gli era toccata appunto la peggio. E, mentre, non amando più la contessa, non provava alcun dolore nel perderla, si sentiva desolato, infelice, solo. Era la sua ultima illusione che la bella fuggitiva s'era portata con sé; ed era quella che egli rimpiangeva. Ebbe un momento di aberrazione, in cui si buttò a corteggiare disperatamente la sua cliente artista di canto, come per ravvivare con un'altra passione, o apparenza di passione, i sentimenti che si sentiva morire nell'anima. Ma quella giovine era talmente avvezza ad essere corteggiata, che trovò naturale di esserlo da lui, e non ne fece caso. Soltanto quand'egli volle spingere le cose più innanzi, gli disse netto netto che, in quel momento, aveva una relazione di cuore. Era facile capire che, senza quella circostanza, avrebbe accolte ad ogni modo le sue profferte, quand'anche la sua relazione con lui non avesse potuto essere di cuore. Fu una nuova amarezza per Giovanni. Egli si trovava appunto in quell'età in cui l'esperienza della vita è completa. Aveva provate tutte le illusioni poetiche della gioventù. Poi ne aveva compresi gli errori, aveva imparato a considerare il mondo dal suo lato più positivo, a riguardare come sogni giovanili i sentimenti puri, le passioni disinteressate, a prendere il mondo dal suo lato piacevole e gaio. Ed ora, anche di questo secondo apprezzamento comprendeva gli errori, e, fatto il confronto, si persuadeva che gli errori di prima erano preferibili. E ricordava con rimpianto il nobile ardore che lo infiammava altre volte per le prime cause sostenute, il lavoro fervente ed amoroso del giorno, le veglie, impazienti d'altro lavoro e d'altre scoperte. Ora le cause affluivano al suo studio senza procurargli nessuna gioia. Le esaminava coll'occhio freddo e sicuro dell'esperienza, le sosteneva senza eccitazioni, senza lacrime, qualche volta senza metterci neppure interessamento. Ricordava il suo punto di partenza. Un'estrema povertà, ed un grande amore. E ricordava la meta che s'era prefissa. La gloria e la ricchezza, sempre per quell'amore. Ora aveva ottenute la ricchezza e la gloria; ma l'amore lo aveva perduto per via. Forse, se, appena conseguita una situazione onorevole ed agiata, si fosse affrettato a domandare Rachele, sarebbe giunto in tempo prima che altri l'avesse ottenuta. Ma allora le mille curiosità della vita cittadina lo spronavano per un'altra via; la poesia serena di quell'amore verginale, la pace del matrimonio non l'avrebbero reso felice; avrebbe portate nella calma della vita coniugale le febbri ardenti del suo cuore giovine, le aspirazioni illusorie della sua inesperienza. C'eran voluti la vita burrascosa del mondo galante, gli amori adulteri ed avventurosi, per appagarlo, e restituirgli la pace; e lo avevano, più che appagato, saziato, deluso. E lo lasciavano malcontento di sé, sfiduciato degli altri, solo, senza speranze, col cuore assiderato. Furono i giorni più tristi della sua vita. Nel suo quartierino elegante, o nei salotti aristocratici dov'era accolto, ripensava con invidia il mezzanino del fornaio, l'assito mal connesso. Nell'aula affollata del tribunale, fra ammiratori, giornalisti, stenografi, che pendevano dalle sue labbra, fra gli applausi e le lodi, ripensava la sua prima arringa fatta agli zoccoli appesi nella sua stanza; ed avrebbe voluto tornare a quei tempi, povero ed ignorato, pur di avere ancora la speranza e la fede d'allora in quel trionfo che, conseguito, lo lasciava freddo. Non aveva fatto nulla di tanto anormale che dovesse rimproverarsi. Giovine e libero, aveva seguite le inclinazioni naturali della sua età. Ognuno al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Ma gli doleva che le inclinazioni naturali fossero così; s'accorgeva troppo tardi che la prima strada era la buona; ed avrebbe voluto riprenderla; ma ormai non era più in tempo. La seconda festa di Pasqua ricevette un invito per una festa da ballo; e per abitudine vi andò. Si era fatto talmente alla vita elegante, era egli stesso così raffinato, così gentiluomo, e così uomo di mondo, che si trovava nel suo centro nelle sale sfarzose e nelle società delle belle dame, degli uomini illustri, dei diplomatici, degli artisti celebri, della nobiltà eletta. Da qualche tempo non danzava più, non giocava, non si divertiva; ma era nel suo ambiente. Quella sera era più triste del solito, e s'era messo a discorrere di politica con un vecchio senatore. Nel più bello d'una discussione seria sul macinato, che era allora la questione più interessante, il senatore sorrise da lontano a qualcuno, che poi s'avvicinò a salutarlo. "Il conte Tale; uno dei nostri futuri diplomatici..." disse il vecchio presentando a Giovanni il nuovo venuto, un giovinotto sui venticinque anni. Giovanni balbettò una delle solite frasi: "che era fortunato di fare quella conoscenza". "Ma la nostra conoscenza non comincia ora" rispose il giovinotto; "e se non mi sbaglio data per lo meno da sedici anni". Giovanni lo guardò attentamente, ma non lo riconobbe. "Non avevo che otto anni allora" riprese il giovine sorridendo. "E quand'ero invitato a pranzo mi mettevano alla tavola dei bambini..." Allora Giovanni si risovvenne del nome di quella famiglia, e riconobbe uno de' suoi piccoli commensali di casa Pedrotti. Tutta quella scena fresca, quell'ombra estiva, quelle mense signorili, quei vecchi barbassori, quella giovinetta bionda, gli si ravvivarono al pensiero come in quel giorno lontano; e stringendo le mani con effusione al suo nuovo conoscente esclamò: "Come mi fa piacere! Come mi fa piacere!" Era vero; gli faceva un grande piacere quel ritorno sul passato. L'imbarazzo che aveva provato allora, i suoi risentimenti feroci contro gli orgogliosi mecenati, la paura d'avvilirsi che lo rendeva scontroso, si erano dissipati per sempre colle circostanze che li avevano suscitati, colla gioventù che non torna. Quel quadro remoto di agiatezza e di pace gli appariva nella luce simpatica che gli dava l'esperienza de' suoi trent'anni, raggiunti traverso un lungo periodo d'avventure e di disinganni. Non si figurava d'esser laggiù ragazzo, seminarista, selvatico e disprezzato come era allora; ma nelle sue circostanze attuali, col suo bel nome, la sua sicurezza, e l'anima stanca anelante alla quiete. Gli rinacque in cuore tutt'ad un tratto una grande tenerezza pel suo paese patriarcale, per le sue colline verdi, pel vasto giardino del castello, e pei muraglioni neri che lo ombreggiavano. Tutto codesto gli parve bello e grandioso e pittoresco; e pensava che sarebbe stata una delizia di ritirarsi là, e di vivere in pace... S'impadronì del giovine diplomatico, e pel rimanente della serata se lo tenne al braccio, interrogandolo su Fontanetto e sulla gente ch'egli vi aveva lasciata. Quel giovinotto aveva dei ricchi possedimenti in paese, e vi faceva una corsa ogni anno, per cui era bene informato. Il signor Pedrotti era morto di gotta da parecchi anni e Rachele aveva continuato a vivere solitaria nel suo vasto castello. Né prima della morte del padre né poi, non aveva voluto saperne di prendere marito. L'aveva domandata l'ingegnere X di Maggiora, che era divenuto famoso fra gli architetti di Roma. Poi le avevano proposto il figlio d'Ipsilonne, quel possidente proprietario di quasi tutto il territorio di Fontanetto e Cavaglio e Ghemme, tanto ricco che lo chiamavano il Rotschild d'Italia. Poi era tornato a stabilirsi in paese quel fabbricante di violini, figlio della Tognina la mugnaia, il quale s'era fatto un patrimonio colossale ed un'educazione in America, e anche lui aveva offerto la sua mano ed il suo cuore ed i suoi milioni ed i suoi violini alla signorina Pedrotti; ma lei aveva rifiutati tutti. Alcuni dicevano che avesse un amore segreto, altri la credevano bigotta. Giovanni, nella disposizione di spirito in cui si trovava da qualche tempo, preferì la prima supposizione: che Rachele coltivasse un amore segreto nel cuore. Infatti perché non ammettere che avesse aspettato lui? Quando era partito da Fontanetto era certo che lo amava. Alla prima s'era lasciata intimidire dall'autorità del padre, e non aveva osato scrivergli né fargli una promessa contro la volontà espressa di lui. Ma col tempo aveva trovata la forza di resistere; dopo aver rifiutata una prima proposta di matrimonio, aveva capito che le era possibile, persistendo in quella via, restar fedele al suo primo amore senza mettersi in aperta ribellione con suo padre. Si sapeva amata, aveva fede nel suo innamorato, e rimaneva fanciulla per aspettarlo. Quella sera Giovanni, rientrando presto dalla festa, portò nel suo quartierino da uomo ricco, tutta la poesia de' suoi vent'anni. Salì le scale canticchiando la vecchia romanza della segretaria di Fontanetto, dimenticata da tanti anni, e che gli era tornata in mente coi ricordi del suo paese: "Non mi chiamate più biondina bella, Chiamatemi biondina sventurata..." Entrò nelle sue stanze col passo forte e la fronte alta, sorridendo come un giovinetto che torni dal primo convegno d'amore. Non aveva fin allora nessuna idea precisa, ma si deliziava nella dolcezza delle memorie; aveva la visione d'un paesaggio verde, d'un grande isolamento, d'una pace soave nella quale egli s'abbandonava all'ebbrezza d'un lungo idillio. E sorrideva al vuoto dinanzi a sé, come se dicesse: "Ora ho trovato il mio pezzettino di paradiso; il mondo non mi gabba più". Si buttò a sedere nella poltroncina accanto al letto, e cominciò a svestirsi lentamente, distratto da quei nuovi pensieri sereni, cercando collo sguardo i pochi mobili dell'eredità paterna che non aveva relegati cogli altri sul solaio, contemplandoli con amore, evocando da ciascuno una memoria, una persona, una scena d'altri tempi. E tutte queste cose, nel riapparire alla sua mente dopo tanti anni, si erano spogliate delle amarezze che le avevano accompagnate altre volte. Rivivevano soltanto nella loro parte bella, come le farfalle, che nel risorgere abbandonano la forma ingrata e lo strisciamento del bruco. Giovanni vi fissava sopra il pensiero intenerito. Quando fu coricato, prese il libro che era avviato a leggere; una relazione dei processi famosi di Londra. Ma quella sera le birbonate della grande capitale dell'Inghilterra non lo interessavano punto. Balzò dal letto, andò ad aprire la libreria, ed in punta di piedi, col lume alzato quant'era lungo il suo braccio, si mise a cercare nel piano più alto, dove teneva le opere letterarie, che non erano la sua lettura abituale. Ad un tratto fissò gli occhi sopra un volume ricoperto di marocchino rosso, lo prese vivamente come se avesse trovata una cosa smarrita e cara, e tornò a coricarsi lasciando la libreria spalancata. Era la seconda edizione dei Promessi Sposi che, tanti anni prima, aveva prestata a Rachele. Era il libro che aveva ridomandato al momento di abbandonare definitivamente il suo paese, nella speranza di trovare fra quelle pagine una promessa implorata, e che gli era tornato senza una parola, portandogli invece una delusione. Se allora vi avesse trovata quella promessa, sarebbe venuto a Milano vincolato da una parola d'onore; e non avrebbe badato ad altro che a mantenerla ad ogni costo. Appena fosse stato nella condizione di farlo senza paura di nuove umiliazioni, sarebbe corso a ridomandare la sua fidanzata; e la sua vita avrebbe preso tutt'altro indirizzo. Ora si troverebbe da parecchi anni ammogliato, alla testa d'una famiglia, e quel triviale disinganno della contessa non l'avrebbe avuto. Egli pensava queste cose colla rapidità vertiginosa con cui si pensa, mentre andava sfogliando quel volume, nel quale aveva fatte delle note in margine, degli appunti, dei segni che gli richiamavano tante memorie giovanili. Ad un tratto, nel voltare un foglio trovò una lettera. Una lettera un po' sucida, un po' gualcita ma ancora suggellata nella sua busta. Si sentì tutto rabbrividire, e gli prese un tremito, un batticuore, come se avesse veduto ricomparire un morto. Era la scrittura di Rachele. Era la lettera implorata tanti anni prima; era la promessa che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla sua vita. E non l'aveva trovata allora! La aperse agitatissimo, colle mani tremanti, colla mente ottusa. Gli pareva di essere appunto ancora a quell'epoca remota, e di stare aspettando, coll'angosciosa ansietà d'allora, quella sentenza che doveva decidere del suo avvenire. Erano poche parole: "Non mi metterò in ostilità con mio padre per esser tua (perdona questa debolezza al mio cuore di figlia). Ma non isposerò mai altri che te. Lo giuro". Giovanni rimase sbalordito, convulso. Era certissimo che quella lettera non era nel libro quando la Matta glielo aveva riportato. "Quella stupida donna!" pensò. "L'avrà tolta fuori per la curiosità di cercare gli o sulla soprascritta. Poi l'avrà rimessa a posto troppo tardi". E si ricordò con una lucidezza fenomenale tante circostanze che gli erano sfuggite allora. L'improvviso voltarsi della Matta per evitarlo quand'egli era andato, nella sua impazienza amorosa, ad incontrarla per via; il suo imbarazzo, la resistenza a dargli il libro, l'insistenza con cui reclamava ancora di portarlo lei quand'egli lo avea già ripreso; e finalmente l'averla trovata nella sua camera col libro in mano quand'era salito l'ultima volta per pigliare il baule. Coll'abitudine delle induzioni e delle ricerche acquistata nella sua lunga carriera legale, tutto questo gli risultò chiaro, e disse: "Allora aveva riposta la lettera nel volume". E si perdé a fantasticare da che piccole cause dipendono i nostri destini; e che cosa sarebbe stato di lui, se da bambino non gli fosse venuta l'idea di insegnare ad una serva scema le lettere dell'alfabeto... E tutto quel romanzo alla Dickens d'amor puro, di gioie intime, di vita casalinga che sarebbe stato la sua vita senza quella circostanza affatto casuale, gli si presentò alla mente, e gli parve un sorriso di cielo. Si fermava con compiacenza su certi particolari d'una dolcezza calma e serena, su certe scene tenerissime d'un amore senza lotte, senza vergogne, senza paure. E tutto codesto gli appariva tanto più bello, quanto più era differente dall'esistenza avventurosa e dagli amori burrascosi che lo avevano disgustato. A forza di fissarsi su quel pensiero, il rimpianto del tempo passato si dissipò. La gioia, la fede, l'amore gli rinacquero nell'anima. Infatti non gli avevano detto quella sera stessa che Rachele aveva rifiutate tutte le offerte di matrimonio? Ecco. Era appunto, com'egli pensava poc'anzi, per amor di lui. Aveva mantenuto il suo giuramento; l'aveva aspettato. Ed egli era libero, e l'amava più che non l'avesse amata mai. Cosa importava che quella lettera non gli fosse pervenuta? Che egli avesse ignorata la fedeltà generosa di lei? La situazione era la stessa; ritardata di parecchi anni, ma non alterata. Rachele era buona ed intelligente; era onesta, incapace di menzogne. Da lei non avrebbe mai a temere una bassezza né un atto sleale. Vegliò, vegliò a lungo, pensando a lei. Non poteva più essere una giovinetta. Doveva avere, poco più, poco meno, l'età della contessa: ma la contessa era piacevolissima, giovine ancora, e per lungo tempo. Rachele era bella e bionda come lei, ma i suoi lineamenti erano più regolari. Era certo di trovarla ancora più bella nel suo pieno sviluppo di donna. Se la figurava più alta, un po' più tondeggiante che a diciotto anni, e più disinvolta, più spiritosa, colle maniere cordiali ed espansive che si acquistano cogli anni e coll'abitudine del mondo. Aveva fin da giovinetta molta grazia naturale, un gusto fine, un'eleganza di modi, ed un'intelligenza... Doveva essere ormai una donna affascinante. Ed era orfana; l'avrebbe accolto sola, coll'ospitalità d'una castellana. Dopo tanto tempo forse non lo sperava più. Che commozione doveva provare al rivederlo! Doveva essere una scena da medio evo, rappresentata da una bella donnina moderna e da un lion. Si figurava di giungere a cavallo, sollevando un nembo di polvere, e di vedere la sua dama salita sull'alto della torre come la moglie desolata di Malbourough, pour voir s'il reviendra. S'addormentò in mezzo a quelle fantasie rosee, e sognò sogni di poesia e d'amore. La mattina si alzò presto, impaziente di correre a Fontanetto, di rientrare in quel romanzo d'amore giovanile e puro, di portare quella sorpresa di piacere alla donna onesta e fedele che lo aveva aspettato. Ma dovette occupare molte ore a riordinare le cose sue, a dare le disposizioni necessarie perché i suoi sostituti potessero supplirlo nello studio durante la sua assenza. Soltanto nel pomeriggio poté partire. Quanto poteva stare assente? Non lo sapeva, non volle dirne nulla. Andava incontro a tali gioie, che voleva esser libero d'abbandonarvisi senza misura di tempo, senza sopraccapi d'affari. Alla stazione di Novara dovette aspettare circa un'ora il treno per Borgomanero. Si ricordò come gli era sembrato bello altre volte il caffè della stazione. Appunto nella primavera era il ritrovo del mondo elegante di Novara. A Fontanetto se ne parlava come d'un luogo di delizie. Chi ne tornava, raccontava per un pezzo il lusso della sala, le cornici dorate ed i grandi specchi, i mobili di velluto, il marmo candidissimo delle tavole ed il sontuoso buffet apparecchiato con ogni ben di Dio. E poi si facevano descrizioni enfatiche dell'eleganza sfrenata delle signore, che nel pomeriggio di estate stavano ad udire la banda dai tavolini esterni nel giardino del caffè, mentre prendevano un gelato. Questa volta invece Giovanni si sentì soffocare entrando in quella piccola sala, che era rimasta fin allora senza riforme dopo la sua inaugurazione. I mobili di velluto di lana erano scoloriti, ed andavano perdendo il pelo come teste di vecchi. Le cornici dorate erano annerite e scrostate malgrado la mussola rosa ingiallita che le ricopriva. Sugli specchi migliaia di generazioni di mosche avevano depositate tante traccie che il viso vi si rifletteva cosparso di puntolini neri come dopo una malattia di vaiuolo. Il marmo delle tavole era deturpato da scritte e figure stupide. Era una rovina, tanta rovina, che poco dopo venne rimesso a nuovo ed ampliato, per farne una sala confortable. Al banco stava una giovine, a cui due giovinotti maturi, tra il cittadino ed il campagnuolo, facevano dei madrigali che ella accettava come roba che le fosse legalmente dovuta. Se ne stava impettita nel busto con una vitina sottile sottile da perderne il fiato: ed il capo, ornato da una pettinatura piramidale, liscia e simmetrica da parrucchiere, troneggiava dietro due piramidi di scatole da biscottini che ingombravano i due lati del banco. Di fuori un organetto suonò una polka, e la giovine caffettiera, con quella mania sfrenata pel ballo che distingue le provinciali, corse a pigliare un'altra ragazza in cucina, ed uscì a danzare con lei sotto il porticato della stazione, sbirciando i suoi due galanti, e ridendo colla compagna in modo provocante ad ogni osservazione un po' temeraria che essi facevano sulla sua persona. Poi cominciarono a giungere alcune famiglie borghesi; le signorine camminando innanzi coi vestiti chiari, ed i cappellini più stravaganti dei figurini di moda, il babbo e la mamma pochi passi indietro. Alcune giovani spose, in gran lusso, con molti gioielli, sfoggiando le ultime mode con più esagerazione che le signorine. Finalmente dei giovani eleganti che salutarono con un cenno la bella caffettierina, senza togliersi il cappello per non farsi scorgere dalle signore. Quella non era la società scelta di Novara; era la piccola borghesia; ma era quella appunto di cui si parlava molto a Fontanetto, dove si diceva una Novarese come in un villaggio del Poitou si direbbe una Parigina. Giovanni guardava quelle scene di provincia, e sorrideva tra sé dell'impressione che gli avevano fatta nella sua prima gioventù, e si abbandonava alle riflessioni di circostanza. "A misura che ci veniamo raffinando, avvezzandoci al benessere, al lusso, a tutte le delicatezze della vita signorile, ci rendiamo più difficile l'esistenza, perché soffriamo se ci troviamo in una cerchia meno eletta di quella in cui viviamo; troviamo tutto meschino, tutto brutto, tutto ridicolo, a torto ed a ragione, e non siamo mai contenti... Cos'aveva guadagnato lui diventando un personaggio ricco ed illustre? Di stare a disagio in quello ed in altri luoghi che altre volte l'avevano abbagliato addirittura..." Per fortuna il treno stava per partire, ed il sermone fu interrotto. Giovanni prese un coupé per esser solo e comodo, si sdraiò sul sedile, e, coll'occhio fisso sul vasto piano verde che gli si stendeva dinanzi traverso la vetrata, pensava Rachele, la sua visita, il loro incontro. Si ricordava benissimo il disegno grandioso del castello, le sale vaste dalle volte immense, dai cornicioni a bassorilievo; i mobili di lusso. Rachele, che aveva ricevuta un'educazione fine, aveva certo saputo mantenergli il suo carattere antico. Ma lei era moderna, e doveva essersi fatto un nido più simpatico. Si figurava un salottino un po' piccolo, con dei mobili piccoli, delle poltroncine basse e morbide, delle sedie a dondolo, dei piccoli divani turchi, dei tavolini di lacca, un pianoforte, una tavola da lavoro ingombra di ricami e di fiori; dei begli arazzi antichi drappeggiati artisticamente da un lato della parete, delle statuine di terra cotta, delle mensole di ceramica, una pelle di tigre, un tappeto turco, una scrivania aperta con tanti oggetti di bronzo artistico, calamaio, tagliacarte, premicarte, portapenne, tutte le inezie costose e belle che sa trovare il buon gusto delle signore. E dei libri, i libri moderni, che una donnina intelligente si fa mandare dal suo libraio man mano che escono. E dei fiori sulle tavole, sulle mensole, nelle giardiniere di ferro a rabeschi addossate alle finestre, dei fiori da per tutto. Ed in mezzo a quell'eleganza semplice e di buona lega, Rachele, vestita con uno di quegli abiti neri o scuri, tagliati col garbo inimitabile delle sarte più rinomate, che disegnano le forme senza stringerle, che adornano senza sfarzo, e senza impacciare i movimenti della persona. Colla sua ricchezza le era stato facile di procurarsi tutti i raffinamenti delle dame cittadine; vivendo in quel castello isolato aveva potuto mantenersi esente dal pettegolismo, dalle grettezze, dalle ridicolaggini delle donne di provincia. Egli conosceva una signora che viveva da parecchi anni in una sua villa della Brianza, ed era una delle donne più attraenti che frequentasse. La trovava sempre in una serra di cui aveva fatto il suo salotto da lavoro. Una grande vetrata che occupava il posto di tutta una parete apriva sulla campagna, chiusa in lontananza dalle montagne rocciose ed irte del lago di Lecco. Le altre pareti ineguali, formate di tufi su cui crescevano delle felci, dei licopodii, delle edere, ogni sorta di sempre verdi, davano l'illusione d'una grotta naturale, alla quale si fosse applicata semplicemente quella vetrata per abitarla anche l'inverno. Accanto alla serra c'era il salottino; e là quella dama giovine, bella ed elegante, viveva solitaria tra i fiori, la musica, i libri, vedendo appena qualche amico ogni tanto, scrivendo delle lunghe lettere piene di spirito, passando la sera con pochi conoscenti, spesso uno solo, che venivano da Milano per vederla; senza teatri, senza feste. I suoi discorsi avevano sempre un'elevatezza speciale, perché erano scevri da qualsiasi personalità. Il tempo che non perdeva nelle visite e nelle corse come si fa a Milano, le rimaneva tutto libero di dedicarlo alle letture, alla musica, al disegno; e dal suo stesso isolamento traeva una certa indipendenza dai pregiudizi e dalle convenzioni sociali, che le dava una superiorità sulle donne comuni. Giovanni si figurava Rachele così, e pensava che conducendola a Milano, dove egli doveva continuare a stare in causa della sua professione, non le lascerebbe frequentare che le signore più ammodo, d'un'educazione squisita, d'una riputazione immacolata. Ed invocava le immagini di quelle sposine del gran mondo che lo accoglievano amichevolmente nei loro salotti; e si compiaceva di immaginarsi la sua sposa a far parte di quel gruppo eletto, ed a figurarvi al pari e meglio delle altre. Alla stazione di Borgomanero prese un carrozzino per Fontanetto. Era domenica, e quando vi giunse era l'ora della benedizione. Le strade erano deserte. Il castello nereggiava in lontananza co' suoi muraglioni vecchi ed il largo fossato. Era la sola cosa che avesse conservato l'aspetto solenne d'altre volte; era la dimora signorile che conveniva alla sua bella castellana. Tutte le finestre erano aperte per lasciar entrare l'aria profumata della primavera, ma non ci si vedeva nessuno affacciato, non c'era movimento, pareva un maniero disabitato. Infatti, quando Giovanni scese dal carrozzino, tutto freddo e pallido per la commozione, e bussò al portone, il giardiniere che venne ad aprirgli disse che la signora era alla benedizione. Giovanni lasciò andare la carrozza, e s'avviò a piedi verso la chiesa. Il sole era tramontato, ma c'era sempre quella bella luce chiara ed uguale dei lunghi giorni di primavera, che non hanno serata. Tutta la campagna era verde, del bel verde lucido e fresco dell'aprile, e l'aria era leggiera e profumata. Tuttavia Giovanni si trovava un po' perduto in quel paese silenzioso, con tutti i portoni chiusi, che pareva un paese di morti. Si ripeteva ancora ed ancora che era l'ora dei vespri, che tutti erano in chiesa; ma che dopo le funzioni e prima, le case erano abitate, e nelle contrade circolava la gente. Avvicinandosi alla chiesa, udì il canto alto e stonato del Tantum ergo. Dovevano star poco ad uscire. Si mise a passeggiare di fuori aspettando. Era veramente strano di vedere quella bella figura da gentiluomo su quel rustico sagrato di villaggio. Da tutta la sua persona traspariva la lunga abitudine del lusso e della ricchezza. Nella furia di partire non aveva pensato a provvedersi una toletta da viaggio, e la sua vestitura da città, lucida, scura, attillata, le scarpine scollate, le calze di seta a colori, i guanti di pelle del Tirolo, stonavano in quella scena campestre. La chiesa era affollata e la porta era aperta. Molti devoti, che non erano giunti in tempo per prender posto di dentro, erano inginocchiati fuori sul sagrato. Appena alcune donne s'avvidero di quel bel signore, urtarono col gomito le vicine, si misero a ridere, poi tornarono a sbirciarlo ripetutamente, e tornarono a ridere fra loro, guardandosi e dimenticando di cantare. Gli uomini intanto, avvisati da quella mimica, si voltavano colla bocca spalancata nello sforzo del canto, e fissavano lungamente quel nuovo venuto, mandandogli contro le note rauche, come se fosse lui il Padre Eterno dal quale imploravano il raccolto, nel suo stravagante linguaggio latino che non capivano. Finalmente tacquero. S'intese la voce del prete dire l'oremus, poi tutti chinarono il capo, si sparse intorno un buon odore ed un fumo denso d'incenso, vi fu un momento di silenzio profondo, poi, senza organo, senza canto, sorse la voce baritonale del parroco a dire: "Dio sia benedetto!" E tutti risposero: "Dio sia benedetto!" E per una decina di minuti s'udì il cinguettio alto ed ingrato dell'orazione di Pio Nono, come il gracchiare d'un volo di cornacchie. Poi i contadini cominciarono ad uscire pigiati e lenti, parlucchiando tutti del bel signore di Novara, che era arrivato durante le funzioni e non s'era inginocchiato, e non aveva fatto il segno della croce: "Quella Novara era una Gomorra, un centro di corruzione, uno scandalo. Non era per nulla che ogni anno c'erano tempeste, o siccità, ed i raccolti andavano male, ed i bachi pure. I proprietari non avevano più religione, e il Signore li castigava, ed intanto i poveri contadini non avevano da mangiare; pativa il giusto pel peccatore..." Le donne non la pensavano tanto lunga, e s'accontentavano di dire: "Hai visto gli scarpini lustri? Oh! Ha le calzette di seta. Ha la pezzuola col ricamo come una signora" e nel passargli vicino si accorsero che aveva buon odore; e risero nascondendosi l'una dietro l'altra. Soltanto i bambini, che non si pigliano tante soggezioni, gli facevano cerchio intorno, e, col capo rovesciato indietro fin sulla nuca, e le mani dietro il dorso, stavano a guardarlo fisso, come se fosse uno spettacolo messo là per divertirli. E, man mano che ne sopraggiungevano di nuovi, davano spinte di qua e di là per entrare nel cerchio che i primi avevano fatto intorno al signore, e, se questi tenevano sodo, dicevano rinnovando le gomitate: "Fammi un po' di posto. Vuoi veder tu solo?" Le ultime ad uscire furono le signore. La moglie del farmacista, una donnina bruna, piccina, la quale era sempre stata tanto scarsa di capelli e di denti, e tanto incartapecorita, che il tempo le era passato sopra senza poterle fare gran danno; la segretaria che non si sarebbe potuta più chiamare né biondina bella né biondina sventurata, perché era tutta incanutita, ma che camminava sempre solennemente, diritta, colla testa alta ed il viso arcigno, mentre discorreva con due giovinette di cose affettuose; quelle due giovinette cresciute troppo di recente perché Giovanni potesse conoscerle, e finalmente Rachele. Era vestita di seta nera, con un velo nero. Il suo bel colorito roseo da bionda aveva presa una tinta un po' troppo viva; la persona alta e ben fatta, ingrassando aveva perduta la sua sveltezza. I capelli, sempre d'un biondo cinereo, erano ravviati e lisci, tirati sulle tempia, e raccolti stretti stretti sulla nuca; una pettinatura che scopriva la fronte, ed incorniciava l'ovale del volto alla maniera di certe Madonne di Raffaello; ma, come quelle, apparteneva all'arte antica. Ella non portava, come le eleganti di provincia, le mode dell'anno precedente, e neppure l'ultima moda, copiata troppo fedelmente dal figurino con tutte le sue esagerazioni di cattivo gusto e gli ardimenti di colori. Il suo vestito si componeva semplicemente d'una vita e d'una gonna, senza guarnizioni né gale: ed il bel velo di trina di Chantilly era messo semplicemente sul capo e sulle spalle, e raccolto dinanzi come il pezzoto delle donne genovesi. Quella vestitura che non ostentava nessuna pretesa d'eleganza, e realmente non ne aveva, non era neppure ridicola perché nella sua estrema semplicità non attirava l'attenzione, ed in quel paese rusticano era più adatta che i fronzoli cittadini. Ma le dava un'aria vecchia. Giovanni ebbe una rapida visione della figura che avrebbe fatta quella giovine matronale vestita come una massaia ricca, in mezzo alle donnine nervose, brillanti, graziose della società ch'egli frequentava; e gli parve che dovesse riescire ridicola; e stette ad esaminarla con espressione di malcontento. In quella Rachele rivolse verso di lui i suoi grandi occhi limpidi ed il suo volto calmo, e quell'espressione quasi sprezzante non le sfuggì. L'aveva subito riconosciuto; ma a lei pure avevano fatta un'impressione dolorosa la figura giovanile, l'apparenza di lusso e d'eleganza di Giovanni, ed aveva sentita la distanza enorme che li separava. Si fece rossa fino sulla fronte, rivolse altrove la faccia e continuò la sua strada senza più guardarlo, come se non l'avesse riconosciuto. Nell'isolamento in cui viveva, non aveva potuto avvezzarsi a nascondere i suoi sentimenti sotto l'apparenza d'una cordialità gioviale, a salutare sorridendo un uomo che, al solo apparire, mette il cuore in sussulto, a porgergli la mano con apparente serenità, ed a parlargli delle cose più estranee ai loro rapporti. Il suo primo impulso al vedere Giovanni era stato di corrergli incontro colle braccia stese, e di sfogare nel suo seno l'impeto di pianto che quella sorpresa di gioia le faceva salire alla gola. Ma la timidezza naturale, che cogli anni e colla solitudine era aumentata, la paralizzò. Tutto questo non aveva occupato che il primo istante, l'attimo del vederlo e del conoscerlo; nel secondo istante aveva indovinato il sentimento di spiacevole sorpresa che aveva prodotto in lui, s'era sentita ricadere dal sommo della gioia ad uno sconforto infinito. Giovanni le tenne dietro coll'occhio lungamente. Camminava lenta, a passi lunghi e misurati. Era alta e forte, ed il suo incedere riesciva un po' pesante e matronale come la sua persona. In quella vasta cornice di campagna e di monti, quella figura semplice, quell'abbigliatura semplice, quei modi d'una timidezza selvaggia, stavano bene e piacevano. Un pittore avrebbe copiata Rachele per farne appunto una Rachele figlia di Labano. Uno scultore avrebbe ammirate quelle belle forme da Giunone. E Giovanni pure l'ammirava, ma come si ammira la bellezza d'una contadina un po' matura. L'idea ch'egli si era fatta della sua sposa era tutt'altra. Come per istinto, provò il desiderio di correre daccapo a Borgomanero, e di riprendere il treno per Milano senza neppur presentarsi a Rachele; di fuggire. Pure, un pensiero lo intenerì. Gli tornava in mente la bella fanciulla che aveva lasciata dodici anni prima, con tanto avvenire dinanzi a sé, e tanta gioventù, e tanta grazia naturale ed intelligenza da poter diventare una delle più attraenti fra le signore della sua età. Era ricca; avrebbe potuto maritarsi in una grande città, fare una vita brillante. Ed invece s'era rinchiusa nel suo vecchio castello, aveva trascorsi solitari gli anni più belli della vita, lasciando spegnersi la vivacità giovanile del suo carattere, trascurando le grazie della persona, secondando le tendenze di calma, di gravità, che il tempo veniva sviluppando nella sua anima, rinunciando onestamente ad ogni ambizione, ad ogni arte per rendersi piacevole, dacché aveva rinunciato a piacere a quelli che l'avvicinavano, ed il solo a cui avrebbe voluto piacere era lontano. E tutto questo per lui. Poi si ricordava la sera del fossato quando le aveva detto con tutto l'ardore della sua giovine anima: "Vuoi esser mia?" E la giovinetta arrossendo aveva risposto una parola d'amore. Ed egli, graffiandosi le mani, lacerandosi gli abiti, era riuscito ad arrampicarsi sulla sponda del fossato fin alla base del terrazzo, ed aveva afferrato un piede della fanciulla, e l'aveva baciato. Da quel giorno egli aveva patito ogni sorta di privazioni, di dolori, aveva lavorato degli anni, ed avevano sofferto in due, per giungere al momento in cui si trovavano. Ed ora, che quel momento era giunto, egli avrebbe data volentieri tutta la sua gloria e la ricchezza faticosamente acquistata, per risentire la gioia ineffabile che aveva provata allora, nello stringere e nel baciare quel piede. Invece quella gioia era morta e morta per sempre. Il tempo l'aveva uccisa. Bastava di vedere Rachele, per esser convinti che una lunga abitudine l'aveva trasformata così in una campagnola. Era ancora Rachele, ma non era più il suo ideale; ed il cuore di Giovanni rimaneva freddo e calmo nel ritrovarla. Fece un giro intorno al sagrato per lasciare che si disperdesse la folla; ma i bambini lo seguivano sempre, facendo un gran rumore di zoccoletti. Egli allora costeggiò un tratto il Sissone, da un lato dove la sponda addossata ad un muraglione è tanto stretta che ci può passare una sola persona alla volta; ed i piccoli selvaggi, meno insistenti di quelli dei dintorni delle città, vedendo che il signore li sfuggiva, rimasero un tratto aggruppati sulla strada a guardarlo, poi si dispersero. Giovanni percorse un lungo tratto di quella sponda dove aveva passeggiato tante volte solitario per non essere distratto ne' suoi sogni d'amore. Poi tornò in su lentamente, e si diresse verso il castello. Non gli riusciva più di figurarsi la serra pittoresca, le poltroncine a dondolo, i mobilucci artistici, e tutto il nido elegante e profumato nel quale aveva collocato la bella solitaria nella sua immaginazione. Era triste e scoraggiato. L'aria cominciava a farsi meno chiara. Tutt'intorno i colli e la pianura prendevano una tinta grigia, e dai prati sorgeva una nebbiolina bianca che dava l'illusione d'un lago. I contadini s'erano ritirati nelle case per la cena. Le cicale tacevano, ed appena qualche grillo interrompeva tratto tratto l'alto e mesto silenzio della campagna. Giovanni guardò il castello, e vide Rachele che era rimasta sul portone, curva sul ponte come se guardasse nel fossato. "Mi aspetta" pensò. Ma Rachele era così assorta ne' suoi pensieri che non l'aveva veduto. Soltanto quando fu a poca distanza lo sentì venire; si rizzò sgomentata, ed invece di movergli incontro, rientrò precipitosamente in casa come se fuggisse. Quell'eccesso di selvatichezza sconcertò più che mai il gentiluomo cittadino. Il rossore che l'aveva infiammata tutta al riconoscerlo laggiù sul sagrato, e quel fermarsi sola e pensosa sul ponte, erano prove che la presenza di lui l'aveva commossa. E tuttavia scappava dinanzi a lui come una selvaggia. Egli crollò il capo in atto di sconforto, e passò sotto il portone sospirando. Nel cortile trovò una serva che lo introdusse nella grande sala del castello. Quella sala, che gli aveva imposta tanta soggezione il giorno della sua ultima visita al signor Pedrotti, ora gli parve grottesca. I grandi seggioloni panciuti erano vecchi senza essere antichi, e la loro forma moderna, e le imbottiture stonavano coi cornicioni e le portiere medioevali della sala. Sul camino troneggiava un grande orologio di bronzo dorato, fiancheggiato da due candelabri monumentali, tutti e tre religiosamente protetti da campane di vetro. Accanto al vecchio pianoforte a coda, erano disposti in ordine sulla scansia dei fascicoli di musica fuor di moda. Non c'erano gingilli artistici, né libri, né fiori, né piante, né giornali, né fotografie, né incisioni, né nessuna delle cose interessanti e belle di cui amano circondarsi le donne di buon gusto. Invece del profumo acre dei coni fumanti, o di quello soave della violetta, si sentiva quell'odore di ammuffito delle stanze lungamente rinchiuse. Era la sala inutile e disabitata delle case dove non si riceve punto. La solitudine di Rachele non era quella della elegante amica di Giovanni, interrotta dalla visita di pochi eletti, da un tè con alcuni privilegiati, che mantengono viva l'abitudine della conversazione, tengono lo spirito in esercizio, e non lasciano morire quell'ombra di vanità femminile che serve a conservare ed a mettere in risalto le attrattive naturali. Era solitudine vera, era obblio, era distacco del mondo nel quale egli viveva, e del quale s'era fatto una necessità come dell'aria che respirava. Rachele entrò rossa in volto e con fare impacciato. S'inchinò dicendo: "O signor Giovanni, come sta?" Poi si pose a sedere sul divano. Anche Giovanni provò un minuto di soggezione dinanzi a quella matrona timida e muta. Ma, senza spiegarlo ben chiaro a se stesso, si sentiva più rinfrancato da quell'accoglienza contegnosa, che non sarebbe stato da dimostrazioni d'affetto più vive. Prese dunque coraggio, e porgendo la mano, nella quale Rachele pose la sua lentamente, per ritrarla subito, le disse: "Ho tardato molto a venire, Rachele?" Ella arrossì più vivamente. Dunque era venuto per lei? Si ricordava la promessa? Non era tutto finito? Non poteva quasi crederlo. Dopo tanto tempo, s'era avvezza a considerarsi dimenticata, a pensare che non si mariterebbe mai più... Quella grande sorpresa di piacere le diede un tal sussulto al cuore che quasi le mancava il respiro, e non le fu possibile di rispondere. Giovanni, imbarazzato da quel silenzio tornò a dire: "Non mi rimprovera questo lungo ritardo?" "Meglio tardi che mai" rispose Rachele tanto per parlare. Ma il senso preciso di quelle parole applicato al caso suo le sfuggiva. Troppi pensieri le turbinavano nel cervello, nuovi, vitali, e che la coglievano di sorpresa. Quel sogno della sua gioventù non era morto; s'era creduta vecchia per l'amore, ed invece poteva ancora essere amata; ed il suo cuore si risvegliava! Ma era possibile che quel bel signore dal volto altero e freddo fosse lo stesso Giovanni di tanti anni prima? E sentisse allo stesso modo? O no; tanti anni prima si sarebbe commosso al vederla, i suoi occhi fissandosi su di lei si sarebbero empiti di lacrime, o avrebbero mandato lampi di passione. Quelli che aveva dinanzi non erano occhi da innamorato; quei modi sicuri, disinvolti, quella voce tranquilla, quello sguardo acuto, indagatore, che la esaminava come per contarle i capelli sul capo e per cercarle una ruga sul viso, non avevano nulla di comune coll'amore. Quel bel cittadino non l'amava. Ed allora perché era venuto? Perché? Ecco; era lui che rispondeva a quella domanda che lei non aveva espressa. "Ah! sicuro; meglio tardi che mai" aveva ripetuto dietro lei. E dopo una pausa, una breve pausa durante la quale Rachele aveva fatte tutte quelle riflessioni rapidissime, riprese: "Dunque crede che non sia troppo tardi?" Troppo tardi! Eccola la spiegazione di quella freddezza. Credeva suo dovere di tornare a lei, ma dopo esser tornato, dopo averla veduta, s'era accorto che, sulla giovinetta che amava altre volte, erano passati dodici anni; dodici anni di vita solitaria, fra gente zotica, fra occupazioni triviali; e quei dodici anni l'avevano invecchiata, inselvatichita; avevano distrutto l'ideale ch'egli aveva vagheggiato giovine, elegante, gentile, per farne una buona donna campagnola. O di certo era troppo tardi. La bella fanciulla aveva perdute le sue grazie, ma aveva serbato il suo buon senso per comprenderlo. "È vero" pensò. "Sono troppo vecchia per l'amore, sono troppo provinciale per lui; è disposto a sposarmi per sentimento d'onestà, soltanto per questo". Ed un gran dolore, un immenso sconforto le strinse il cuore. Il dubbio che l'aveva colta per via d'avergli fatta un'impressione sfavorevole, si confermò, divenne certezza. Si sentì morire di dentro, mentre stava là ritta, immobile sul divano, colle mani incrociate in grembo e gli occhi sulle mani. Giovanni dovette ricominciare a parlar lui; ma andava cauto; era andato là col proposito di sposare Rachele; ed ora aveva paura di compromettersi. Ma tuttavia era impossibile evitarlo. La loro situazione reciproca, tutto il passato li comprometteva. Bisognava parlare di quello ad ogni costo, abbandonarsi al destino. "Sicuro; meglio tardi che mai" disse. "Siamo ancora in tempo a mantenere le nostre promesse..." "O Dio! No" esclamò Rachele col pianto alla gola dinanzi a quella calma fredda che la umiliava. "Non parliamo del passato". "Perché?" domandò Giovanni col tono di voce indulgente che si usa per confortare una persona a cui si vuol molto perdonare. "Perché non è più tempo per me di pensare a... certe cose...". Egli l'ascoltò con aria afflitta, e disse per cortesia: "Ma che, le pare? È ancora molto giovine..." Ma i suoi occhi la fissavano con aria di pietà come se dicessero: "Pur troppo è vero, che peccato!" "No no" riprese lei. "Ci siamo avviati per due vie differenti..." Aveva cominciato a dire con fermezza; ma intanto che parlava, le si erano empiti gli occhi di lacrime e la voce s'era alterata; se avesse aggiunta una parola di più, se avesse detto come aveva in mente di dire: "Le nostre promesse erano ragazzate" sarebbe scoppiata in pianto; perché, soltanto il pensiero di dire quella cosa crudele, le aveva gonfiato il petto d'un singhiozzo, e l'aveva obbligata a star zitta per frenarlo. Giovanni, vedendola turbata a quel modo volle lasciarla sola, e se ne andò dicendo: "Ci ripenserà, Rachele. Ora l'ho presa all'improvviso; ci ripenserà; tornerò quando sarà più calma..." Sicuro; Giovanni pensava di tornare. Non poteva decorosamente troncar tutto così. A Fontanetto non c'erano alberghi dove una persona a modo potesse alloggiare. Dovette riprendere solo ed a piedi la strada di Borgomanero. "Mi fermerò alcuni giorni" diceva, "intanto lei rifletterà meglio". La strada era lunga, e tutta dritta e bianca alla luce fredda della luna. Durante quella camminata solitaria di più d'un'ora, egli ripensava tutto quello che s'erano detto laggiù al castello. Pur troppo era vero; quei dodici anni contavano per venti su Rachele. Non aveva più nulla della giovinetta svelta, rosea, elegante d'altre volte. Non era lusinghiero pel suo amor proprio presentare nelle società di Milano quella sposa matura. Si sarebbe riso; si sarebbe detto che la sposava pel denaro; perché Rachele era anche ricca. Finché aveva vagheggiata una bella fanciulla, non s'era mai dato pensiero di questi commenti della gente sulla sua ricchezza; ma ora aveva bisogno di pretesti per giustificare le sue esitazioni. Un momento rifletteva che quei dodici anni erano passati anche per lui; ma tutti pretendono che gli uomini non invecchiano. Infatti egli ne conosceva molti che a trentasei, trentotto anni avevano sposate delle giovinette di diciotto o venti; e non erano ridicoli, per questo. Ma del resto non era all'età per se stessa ch'egli badava; che! era superiore a codeste leggerezze. Considerava la necessità in cui era di vivere nel mondo; era un avvocato famoso, doveva essere deputato alle nuove elezioni; aveva bisogno una moglie avvezza alla vita cittadina, ai ricevimenti, che sapesse presentarsi in società e fare gli onori della sua casa... Rachele tal quale l'aveva trovata, impacciata, selvatica, antiquata in tutto, non poteva convenirgli. Lei stessa l'aveva riconosciuto; aveva dato prova di buon senso, e sarebbe stato indelicato da parte di lui ritornare su quell'argomento, rinnovarle una scena che evidentemente le era riescita dolorosa. Il suo amor proprio di donna ne avrebbe sofferto, perché non è mai senza pena che una donna si rassegna a riconoscere la sua età ed i guasti che il tempo ha fatti sulla sua persona. Era una triste, triste cosa, che il suo ideale fosse svanito così. Ci pensò lungo la notte, e ci pensò il mattino in ferrovia, mentre, tutto considerato, tornava a Milano senza aver cercato di rivedere Rachele. Poi ci pensò a Milano, lungamente, sempre. Ma sempre all'ideale, come l'aveva adorato tanti anni prima, giovine, bello, gentile... Forse lo trovò ancora più tardi sul suo sentiero, perché la donna matura di Fontanetto non era più quella, non era il suo ideale. E Rachele, appena rimasta sola, s'era lasciata cadere sul vecchio divano scolorito, e s'era abbandonata ad un pianto convulso, lungo, disperato. Lei lo sapeva che Giovanni non sarebbe tornato.

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